Dogmatica cattolica. I novissimi [Vol. 4.2]

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MICHELE SCHMAUS PROFESSORE ALL'UNIVERSITÀ DI MONACO

DOGMATICA CATTOLI CA

l.

INTRODUZIONE� DIO�CREAZIONE

II.

DIO REDENTORE�LA MADRE DEL REDENTORE

III/1. LA CHIESA III/2. LA GRAZIA IV/1. I SACRAMENTI IV/2. I NOVISSIMI

Titolo originale dell'opera KATHOLISCHE DOGMATIK Verlag Max Huber - Miinchen

Edizione italiana a cura di Natale Bussi

Nulla asta: Casale, Imprimatur: Casale,

24-V-1964. 30-V-1964.

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Can. Teol.

L. Baiano, Rev. Ecci.

Mons. M. Debernardis, Vie. Gen.

Proprietà letteraria

(15-VI-1964).

§ 293. La posizione della escatologia nella teologia.

Per l'uomo riveste importanza decisiva il fatto di ricercare la sicurezza

della sua esistenza e la sua p ienezza di vita in ultima analisi in Dio e non nella natura. Chi cerca di inserirsi nel ritmo della natura, come le piante o gli animali> e se ne accontenta, fa violenza a se stesso, cioè alla parte spirituale del suo io ed alla immagine di Dio che vi si fonda. L'uomo è qualcosa di diverso dalla materia, dalla pianta e dall'animale, perché è un essere personale. In Dio, e soltanto in lui, egli in definitiva può trovare quella patria, che è conforme alla sua natura e rappresenta la meta della sua aspirazione. Dio è divenuto accessibile in Gesti Cristo. Dopo il peccato originale, cioè dall'inizio della storia umana, all'uomo è necessaria la liberazione dal peccato per vedere dove si può trovare la sua vera salvezza e per poterla cosi effettivamente raggiungere. Cristo, il salvatore dal peccato, è la via a Dio Padre (Gv. r4,

1 ). Lo sguardo e la speranza in Dio si

realizzano quindi guardando e sperando nel Cristo storico. Lo sguardo speranzoso verso il cielo può realizzarsi soltanto guardando nella storia, cioè guardando alla vita, alla morte cd alla risurrezione di Cristo. L'uomo che si rivolge

al Signore guarda indietro al passato, al tempo

« compiuto », il cui compimento è stato O!Jerato dal Figlio di Dio incar­ nato, che in esso è vissuto. Questo sguardo retrospettivo non è un vuoto ricordo, perché il passato non è completamente trascorso; non soltanto perché

il tempo « compiuto » , come ogni passato storico, influisce sull a

formazione e sullo sviluppo del presente, ma perché è, in certo modo, presente ad ogni tempo che segue ; Cristo infatti adempie attraverso ai secoli la sua promessa :

« Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla

fine dei tempi » (Mt. 28, 20). L'occhio che si volge indietro al Signore che è passato per il mondo, è morto e risorto, si rivolge quindi al Signore vivente nella gloria del Padre e presente tra i suoi, al Cristo, che, se-

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§ 293. LA POSIZIONE DELLA ESCATOLOGIA NELLA TEOLOGIA

condo S. Paolo,

è

diventato uno spirito che esiste nella corporeità glori­

���������������� anzi per il mondo (2 Cor. 3, 17; cfr. la tesi ancora inedita, presso l'Uni­ versità di Monaco, di Ingo Hermann,

Christus ist Pneuma geworden).

Il Cristo glorificato, contrassegnato per sempre dalla croce e dalla risurrezione, compie la sua azione salvifica nella parola e nei sacramenti della Chiesa (vol. III/I § 176 b). Nell'una e negli altri egli è presente come agente. Annunzio della parola ed amministrazione dei sacramenti rendono in ceno modo presenti ossia attualizzano in maniera diversa, ma in modo efficace, gli atti salvifici di Cristo passati. In questa attualizza­ zione si ha la presenza attiva salvifica di Cristo stesso. La presenza attiva del Signore entro la storia è nascosta. Si può dire che dopo l'ascensione egli è presente e nello stesso tempo assente, perché velato dalle forme transitorie e caduche del nostro mondo attuale. Tuttavia noi abbiamo la promessa che il Signore uscirà dal suo nascondimento

e

si mostrerà nella

sua forma svelata. Questa sua seconda venuta apporterà il compìmento o la consumazione della storia e del cosmo; avrà quindi una funzione uni­ versale storica e insieme cosnùca. La prima venuta ha posto

il

fonda­

mento della seconda: ne è condizione ed inizio. Soltanto nella seconda venuta si realizza appieno il suo significato. Il Signore passato, che è nello stesso tempo

il

Signore presente, è quindi anche il Signore venturo.

Chi guarda con fede al Signore passato e con amore fedele si rivolge al Signore presente, attende nello stesso tempo con speranza

il

Signore

che si rivelerà in un momento del futuro noto a lui solo. Lo sguardo al Signore abbraccia cosi tre tempi: passato, presente e futuro, e precisa­ mente non come tre stadi della storia che si susseguono e si sostituiscono meccanicamente in modo che il presente sia soltanto di volta in volta il punto di contatto tra presente e futuro, ma come tre avvenimenti che reciprocamente si intrecciano e si reggono, si formano e compenetrano, ma che però nello stesso tempo sì muovono

� una

�ea retta continua,

non invertibile. A questo triplice ritmo salvifico del tempo

il cnstJano partecipa real­

mente. Nella partecipazione alla morte ed alla risurrezione del Signore, e soltanto in essa, egli acquista la salvezza. Tale partecipazione si compie nella storia in modo nascosto, in corrispondenza della occultezza della presenza attiva di Cristo stesso. L'una occultezza condiziona l'altra, ed entrambe cesseranno assieme. Quando il Signore comparirà, anche la partecipazione alla sua vita entrerà nello stadio della chiarezza. Allora l'unione con il Cristo risorto si manifesterà come esistenza corporale tra-

§ 293 · LA POSIZIONE DELLA ESCATOLOGIA NELLA TEOLOGIA

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sfigurata di tutta l'umanità perfetta, anzi della creazione. Tuttavia al singolo, già nello stato intermedio tra la sua morte ed il ritorno di Cristo, viene partecipato un anticipo della glorificazione. La speranza ultima e vera è però rivolta alla risurrezione dai morti. Ma poiché la sopravvivenza individuale nella comunione con Cristo e con Dio è presupposto e condi­ zione per l'appartenenza al mondo trasfigurato, anche ad essa compete una grandissima portata. In questo volume si esporrà il futuro, verso cui si protende il cristiano, sulla base di ciò che ce n'è attestato nella Sacra Scrittura e nella Tradi­ zione della Chiesa secondo la garanzia del magistero ecclesiastico. Poiché il futuro non sarà che il passato ed il presente compiuti e sviluppati, dive· nuti manifesti, non se ne può parlare, senza parlare anche del passato e del presente. Presupposto dell'attesa del futuro da parte dell'uomo è la sua capacità di protendersi verso il futuro. L'animale non ha, e non può avere, una attesa del futuro. L'uomo invece è capace di speranza. Ciò è cosi conforme alla sua natura, come è conforme alla natura dell'animale il non essere capace di un simile movimento. L'uomo può camminare verso il futuro e porre in esso le sue speranze non solo a motivo della sua struttura spiri­ male-storica, ma anche in base alla struttura temporale-storica della auto­ manifestazione divina. Cosi l'esposizione delle « ultime cose » implica la descrizione della fondamentale struttura temporale-storica sia dell'uomo che della rivelazione divina. Da queste considerazioni appare chiaro che prima deve essere esposta la dottrina delle ultime cose di tutta l'umanità e del cosmo, e soltanto dopo, la dottrina delle ultime cose dell'individuo. A questo ordine non si oppone il fatto che per la maggior parte degli uomini la esca­ tologia individuale incomincia prima della generale. Nella nostra espo­ sizione si tratta di mettere nella sua vera luce il valore delle due parti della escatologia.

PARTE PRIMA

ESCATOLOGIA GENERALE

§ 293a, Carattere temporale e storico dell'uomo e della rivelazione sal· vifica di Dio.

SEZIONE I.

LA FONDAMENTALE COSTITUZIONE TEMPORALE-STORICA DELL'UOMO COME PRESUPPOSTO DI UN FUTURO ULTIMO

CAPITOLO I. CONSIDERAZIONE PRELIMINARE: FATTO E CONCETTO DELLA FONDAMENTALE COSTITUZIONE TEMPORALE-STORICA DELL'UOMO

l.

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AUTOREALIZZAZIONE DELL' UOMO NELLA AUTOTRASCENDENZA.

I numerosi saggi antropologici del presente tradiscono l'incertezza in cui è caduta la conoscenza che l'uomo ha di se stesso. L'uomo d'oggi non sa piu la cosa maggiormente ovvia, non sa piu ciò che egli è. La domanda : « Che cos'è l'uomo? » viene posta con tanto maggior forza e riceve risposte tanto piu varie, quanto meno l'uomo sa che cosa deve pensare di se stesso. Non è qui il caso di esaminare le molteplici risposte, che si completano e so­ vente anche si combattono a vicenda, date nel corso dei secoli dalle conce­ zioni dei filosofi e poeti greci fino alle scoperte ed ai postulati del presente. (Molte di esse si possono trovare nella raccolta che ne ha fatto Werner Sombart nella sua opera della vecchiaia, « Vom Menschen ». Versuch einer geisteswissenschaftlichen Anthropologie, 1938). La maggior parte delle spiegazioni considerano l'uomo come una es­ senza a sé stante, realizzata in ciascun individuo ; affrontano cioè la que­ stione dell'uomo prescindendo dalle sue molteplici realizzazioni storiche. Con questo procedimento si cerca di determinare quegli elementi essen­ ziali, senza i quali l'uomo non è uomo, ma si trascura la variopinta pie­ nezza dell'umano. Pertanto non appare immediatamente visibile ciò di

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ESCATOLOGIA GENERALE

cui l'uomo è capace in base ai suoi atti, ciò che ci si deve aspettare da lui, ciò che da lui si può sperare

e

si deve temere. Ad una visione integrale

giunge soltanto chi non pone semplicemente la questione dell'essenza astraendo dalla realizzazione storica, ma considera pure la variazione del­ l'umano in questo ed in quel tempo, in questo ed in quel luogo. Per questa via, dalla pura staticità dell'wnano si giunge al suo dinamismo, da ciò che egli è, a ciò che egli fa od almeno può fare. La questione di ciò che egli fa o può fare non è una questione che si possa a piacere omet­ tere o porre, se si vuole venire a sapere che cosa è l'uomo. Infatti l'azione appartiene essenzialmente all'uomo. Ciò che noi intendiamo nella defi­ nizione che delinea la sua essenza non è una natura morta, ma una realtà ordinata all'azione e che effettivamente agisce. Cosi infatti nella defini­ zione che dà Aristotele, secondo cui L'uomo è un essere vivente razionale,

è accennato ed incluso il lato dinamico; poiché la razionalità indica la attività spirituale, il fatto cioè che l'uomo si apre alla realtà. Se non si vuole dare soltanto una definizione astratta, ma una descrizione che sfiori l'essenza ed indichi nello stesso tempo la pienezza dell'umano, si deve parlare esplicitamente del dinamismo dell'umano. Sotto questo punto di vista si può dire: l'uomo, diversamente da tutte le altre creature che si presentano alla nostra esperienza,

è quell'essere che può e deve andare

oltre a se stesso verso un orizzonte infinito. Questo trascendere la propria natura appartiene all'essenza dell'uomo. L'uomo ha un orizzonte verso cui la sua vita si protende. Egli è ordinato, e lo sa e lo avverte, ad una realtà che è diversa da lui, di cui tuttavia egli ha bisogno, per giungere alla pienezza del suo essere. L'autosuperamento dell'uomo si compie in tutti gli strati del suo essere, in quello corporale, in quello psichico ed in quello spirituale: in quello corporale ad es. mediante il respiro e la assunzione di nutrimento, in quello psichico mediante l'amore, in quello spirituale mediante la conoscenza. Il fatto dell'autosuperamento dell'uomo non

è messo in dubbio da nes­

suno; ma gli spiriti si separano nel determinare con piu precisione l'oriz­ zonte verso cui la vita umana è protesa. Sorgono allora risposte contra­ stanti e ne citiamo alcune delle piu significative. Gli uni dichiarano che l'uomo trascende se stesso in ordine al mondo, sia che il mondo venga inteso come fenomeno terrestre-visibile (Kant), oppure come civiltà nelle sue diverse creazioni (ottimisti della cultura del sec. XIX, ad es. Hegel), oppure come

il nulla (Heidegger). Altri hanno creduto che l'orizzonte per

il quale l'uomo vive sia una nuova manifestazione dell'umano sia inteso individualmente nella forma di nobile umanità (Umanesi.mo), di vita in

§ 293A. TEMPORALIT À-STORICITA DELL 'UOMO E DELLA RIVELAZ. SALYrFICA

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pienezza (filosofia della vita, quale sostenne ad es. Dilthey) o del super­ uomo (Nietzsche); sia inteso collettivamente o come nazione o come uma­ nità intera (bolscevismo, marxismo). Un terzo gruppo vede l'orizzonte, in ordine al quale l'uomo vive e soltanto può vivere, in una realtà personale diversa dal mondo, in Dio. In questa convinzione una corrente tradizio­ nale congiunge gli spiriti da Agostino a Pascal, a Mohler, Newman e .Kierkegaard. Quando Agostino dice che l'uomo possiede una capacità per Dio ed

il suo cuore è sospinto dalla inquietudine finché giunga a

riposo in Dio; quando Pasca! dichiara che l'uomo sorpassa infinitamente l'uomo; quando la scuola di Tubinga ed i teologi moderni da essa influen­ zati insegnano che soltanto in Dio l'uomo giunge al suo vero io; quando Kierkegaard proclama che soltanto l'uomo che sta saldo dinanzi a Dio trova se stesso, mentre l'uomo che fugge dinanzi

a

Dio perde anche se

stesso, è sempre il medesimo pensiero fondamentale: senza Dio l'uomo rimane incompleto; soltanto in lui egli acquista la sua vita vera, completa e la sua autentica figura spirituale. Ciò che distingue l'uomo da tutti gli altri esseri è il poter ascoltare la voce di Dio e rispondere alla parola di Dio. Quale

homo orans

l'uomo è nel mondo visibile una creatura di

tipo del tutto particolare. In quanto tale egli esplica la sua natura nel piu alto senso. Una concezione dell'uomo puramente terrena urta contro

il fatto che la morte, il dolore e l'insoddisfazione del cuore non permet­ tono all'uomo di giungere al suo compimento entro i limiti del mondo. Quanto c'è di vero anche nelle prime due determinazioni dell'orizzonte umano viene accolto ed inserito nella terza. Infatti l'autosuperamento del­ l'uomo verso Dio avviene attraverso al mondo ed in

un

lungo processo

evolutivo, poiché nessuno può afferrare Dio con uno slancio immediato. Ma l'autosuperamento non si ferma tempo

homo orans

al mondo. L'homo faber è nello stesso

e viceversa.

II. - LEGAME AL TEMPO E TEMPORALITÀ DELL'UOMO. Per spiegare meglio il modo con cui l'uomo realizza il superamento di se stesso verso Dio e perviene al suo vero io, riveste la massima impor­ tanza

il fatto seguente: l'uomo non si possiede con una forza che ab­

braccia tutta la pienezza che gli è propria, in modo che possa esprimersi esaurientemente in un unico atto con cui si rivolge a Dio. La ragione piu profonda di tale fatto sta in questo che egli non è, come l'angelo, un

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ESCATOLOGIA GENERA· L E

puro spirito, ma è spirituale-corporale. Egli quindi si possiede soltanto nella dispersione in una molteplicità di possibilità, che non possono essere realizzate nello stesso tempo. Cosi ad es. la vita umana è ripartita in gio­ vinezza e vecchiaia, nell' esistenza di uomo e di donna. È impossibile realizzare simultaneamente queste forme di vita. Se l'uomo vuole sfruttare appieno le sue possibilità, se vuole sviluppare interamente il suo essere, è necessaria una molteplicità di passi verso Dio. Ogni superamento di se stesso verso Dio lo porta un po' piu vicino alla pienezza della sua vita. Ma ogni singolo atto apre una nuova possibilità di dedizione, finché con la morte tutte le possibilità si estinguono e viene raggiunta quella forma di essere, che corrisponde agli sforzi compiuti durante la vita. La dedizione del­ l'uomo a Dio e la pienezza dell'esistenza che consegue alla morte si rea­ lizza quindi in una serie di decisioni successive e connesse del cuore umano. Anche la morte non accorda ancora la forma perfetta. Al di là della morte, continua, a determinate condizioni, il processo umano di ma­ turazione (purificazione, aumento dell'amore, risurrezione dai morti). La circostanza che l'uomo non possa realizzare le possibilità, insire in lui, tutte in una volta, ma soltanto in una successione continua, la chia­ miamo vincolo al tempo. Per vincolo al tempo si deve qui intendere la disposizione e capacità di agire in modo successivo. La successione effet­ tiva degli atti la indichiamo con temporalità. In ogni atto presente di dedi­ zione a Dio l'uomo si protende già verso il seguente, per il quale porta in sé la possibilità. Ogni momento presente dell'uomo è aperto ad un momento futuro e lo desidera. Viceversa ogni autosuperamento presente reca in sé l'impronta di quello passato che continua ad agire in esso. Quindi l'uomo, poiché dinanzi a lui si aprono sempre nuove possibilità, può aspettarsi la pienezza della sua natura non dal momento presente, ma soltanto dal futuro. Egli è un essere che vive per il futuro. Il futuro è già preformato dal passato che impronta il presente. L'uomo è quindi un essere che vive proteso dal passato verso il futuro attraverso al presente. Egli non ha un essere compiuto, ma soltanto un essere in divenire. Nella coscienza la tensione verso il passato ed il futuro si manifesta come ricordo e speranza, cosi che si può anche dire : l'uomo, in distinzione da Dio ed ancora in modo totalmente diverso dall'animale, vive per necessità naturale, di ricordo e di speranza. Cfr. vol. I, § § 70 e 71. Queste nozioni hanno ancora bisogno di essere approfondite. La fonda­ mentale costituzione temporale dell'uomo non vuole significare che egli vive nel tempo come in uno spazio vuoto e vi svolge il suo compito. Il tempo non è come una forma vuota che egli riempie. Non è neppure

' § 293 A. TEMPORALITÀ-STORICITÀ DELL UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

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come un palcoscenico, su cui egli recita la parte che la vita gli assegna. La temporalità vuole piuttosto significare che l'uomo, per la sua natura piu intima, vive egli stesso legato al tempo e quindi non può esistere diversamente se non nel modo del tempo, e che qualunque cosa egli faccia porta il carattere della temporalità. L'uomo, in conseguenza del suo legame al tempo, con tutto ciò che fa produce tempo, in quanto produce mutazioni continue nel mondo in cui vive ed in se stesso. Legato al tempo, diviene cosi egli stesso temporale. Ma in ogni momento è se stesso. In ogni momento egli si integra nella totalità della sua vita e nello stesso tempo diviene nuovo in ogni momento. Rimane e diventa diverso. Tuttavia il tempo non è soltanto creazione dell' uomo; che anzi, egli si trova a sua volta nel ftusso dei tempi, in quanto vive nel mondo sog­ getto alla mutazione, che dal passato si protende nel futuro attraverso al presente, e partecipa al suo mutare. Cosi l'uomo, non appena inco­ mincia ad essere nel mondo, viene afferrato e sospinto dalla corrente del tempo, e nello stesso tempo, poiché non scivola galleggiando sulla cor­ rente dei tempi come un pezzo di essere immutabile, dà anch'egli un contributo al suo ftuire. Il ftuire del tempo è a senso unico, e può paragonarsi ad una retta, poiché si muove in una direzione che non è invertibile. Diciamo giusta­ mente che il tempo scompare, e con ciò vogliamo dire che ogni momento passa e non ritorna, che il futuro sorge per scomparire anch'esso a sua volta e fare posto ad uno nuovo. Il passato non è ripetibile.

III. - STORICITÀ DELL'UOMO. Legame al tempo e temporalità non sono sinonimi di legame alla storia e storicità, ma ne sono il presupposto. Storicità aggiunge alla tem­ poralità alcuni elementi nuovi, le caratteristiche della importanza, della libertà, della pubblicità, della comunità, della finalità. Quando ciò che si compie liberamente nel tempo possiede il carattere della pubblicità ed è importante per la comunità, quando mette in movimento il mondo nel suo complesso od almeno in un punto importante, per modo che da esso partono stimoli e sviluppi per il conseguimento di una meta comune nel futuro, parliamo di un evento storico. Ogni avvenimento avente simili dimensioni si fonda su una decisione, sulla decisione dell'individuo, il quale a sua volta è portato dal com-

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ESCATOLOGIA GENERALE

plesso di cw e membro, e che reagendo mediante il suo atto dà forma al complesso. La decisione presuppone la libertà. All'essenza dei fatti storici appartiene quindi la libertà realizzata nel tempo. L'uomo perciò

è legato alla storia, in quanto esiste nel tempo come membro di una comunità nel modo della libertà. Nella filosofia odierna Jaspers ha nuo­ vamente affermato, sia pure con esagerata asprezza, la libertà che appar­ tiene alle convinzioni fondamentali della fede cristiana. La libertà del­ l'uomo non

è arbitraria ed assoluta; anzi, l'uomo è inserito in un ordine

di realtà che non è in suo potere predisporre, in una determinata situa­ zione storica, in un determinato popolo, in una determinata famiglia,

è

fornito di determinate forze del corpo e dell'anima e nello stesso tempo

è commisurato ad esse. Holderlin cosi descrive questa condizione: « Quale il bisogno l e la disciplina; il piii. infatti l lo fa la nascita, l ed il raggio di luce, l che cade sul neonato » (Inno del Reno). nascesti, rimani l per quanto agisca

Per conservare un senso, la libertà è nello stesso tempo legata alle norme etiche conformi alla natura dell'uomo, specialmente al vero amore, in definitiva a Dio. Libertà di creatura è libertà vincolata (M. Schmaus,

Kirche und Freiheit,

in

Miinch. Theol. Zeitschr., 8, 195 7, 20-40).

L'uomo non può fare tutto ciò che vuole, non deve fare tutto ciò che può e quello che per sé gli è possibile, non lo può fare in ogni tempo, per lo meno non in ogni tempo con senso ed efficacia. Per una decisione sensata e feconda

di ulteriori sviluppi è norma scegliere il momento

giusto : se la decisione viene troppo presto esplode nello spazio vuoto; se viene troppo tardi non può piu riguadagnaie ciò che è stato perso. L'atto dell'uomo, portando il carattere della temporalità e della deci­ sione, presenta la caratteristica della unicità e della irripetibilità. Ciò che è stato fatto una volta non può piu essere cancellato con nessuno sforzo dalla storia. L'azione dell'uomo è diretta ad un fine. Nella filosofia della storia si fanno molte e faticose considerazioni su quale sia il fine della storia umana. Finora una unità di vedute non

è stata neppure lontanamente

raggiunta; vedt-emo anzi che dal punto di vista della filosofia tale que­ stione non può essere risolta con sicurezza. Per chi crede nella rivelazione lo scopo ultimo della storia umana è la manifestazione senza veli della gloria di Dio in una creazione trasformata, e la beatitudine delle creature ad essa condizionata. In definitiva lo scopo finale della creazione è la manifestazione aperta di Dio in quanto amore e la risposta d'amore dell'uomo. Ma ciò costituisce il regno perfetto di Dio

(basiléia tu theu).

§ 293 '· TEMPOR ALITÀ-STORICIT À DELL'UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

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Verso questo evento muovono tutti i fatti della storia. La storia quindi corre verso un termine, non è un circolo eterno, non incomincia conti­ nuamente da principio, ma si muove verso un punto, oltre il quale non va piu. La fine non è uno strappo meccanico del filo della storia, ma una forza che dal futuro preagisce, o meglio, reagisce sul presente storico. Tutto ciò che accade nella storia sta sotto il giudizio e la benedizione del

Das christliche Men­ schenbild im Ringen der Zeit, Heidelberg 1 947; Idem, Geschichtlichkeit und Ewigkeit, in Scholastik, 29, 1 954, 48 1 -504; Idem, Zur Geschicht­ lichkeit des Menschen, in Scholastik, 26, 1 951, 3 2 1-34 1 . fine ultimo verso cui muove. Cfr. Joh. Lotz, S. I.,

CAPITOLO Il. LA TEMPORALITA' E LA STORICITA' DELL'UOMO NELLA TFSTIMONIANZA DELLA RIVELAZIONE

I. - CONSIDERAZIONE PRELIMINARE. Chi considera la storia dello spirito è colpito dal fatto che l'uomo non giunge ad una vera conoscenza di se stesso, alla cosa piu ovvia e piu mlturale che sembri esservi, finché si guarda soltanto alla sua propria luce. Egli si vede bene soltanto alla luce della rivelazione, che Dio stesso accende. Essa, è vero, non ba come il suo primo scopo quello di portare l'uomo alla giusta conoscenza di se stesso (§§ 1 08 e 109); tuttavia svolge anche questa funzione. Ciò appare chiarissimamente nella questione che stiamo trattando. Per quanto la temporalità e la storicità siano essenziali all'uomo, tut­ tavia fuori del campo della rivelazione questo stato di cose, con le conse­ guenze che ne derivano, non è mai stato riconosciuto con chiarezza e con certezza. Ciò è tanto piu sorprendente in quanto l'uomo si sente spinto inevitabilmente a domandarsi quale sia il senso della storia; ma per mancanza della necessaria esperienza egli non è in grado di risolvere questa questione; si vede costretto a ricercare il senso della storia, cioè il futuro, perché è spinto a conoscere il suo proprio destino ed il destino delle comunità che lo abbracciano. Egli non può quindi sfuggire alla questione del senso della storia. Quando egli cerca di chiarirlo, non può accontentarsi di conoscere soltanto un senso immediato. Ciò che egli desidera è piuttosto la cono­ scenza del senso ultimo. Egli non potrebbe quindi essere soddisfatto se dovesse vedere soltanto lo sviluppo, il crollo e la successiva rinascita di stati e di civiltà o di elementi culturali, ad es. dell'arte e della scienza. Ma quando egli cerca di afferrare il fine ultimo della storia si trova in una situazione senza via di uscita. Per poter determinare tale fine do-

§ 293 A. TEMPORALITÀ-STORICITÀ DELL' UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

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vrebbe infatti possedere una visione di tutta la storia. Dovrebbe in certo modo trovare un punto fuori della storia, dal quale possa vederne tutto il corso. Poiché ciò non gli è possibile, gli manca il materiale senza il quale non può intraprendere una spiegazione ultima. Perciò tutti gli sforzi della filosofia della storia a questo riguardo sono condannati in definitiva a

fallire. Ciò è tanto piu amaro per l'uomo, in quanto in essi si tratta

della spiegazione della sua propria esistenza. All'uomo quindi è negata una vera ed ultima interpretazione di se stesso, finché si muove soltanto sul piano filosofico. Egli può bensi porre la questione quale sia il senso ultimo della storia, ma nel settore che la filosofia è in grado di spiegare non trova risposta a questa vera e decisiva questione. Deve quindi }asciarla aperta. A questa questione aperta Dio dà all'uomo la risposta in Cristo. Essa a.iferma, come abbiamo visto, che lo scopo ulti.rno della storia è la vita perfetta nella partecipazione all'esistenza e pienezza di vita assoluta di Dio, cioè all'amore ed alla verità personali, quindi la forma perfetta del regno di Dio. Quando l'uomo non viene raggiunto dall'interpretazione divina di se stesso, o quando non è disposto a lasciare aperta la questione che non sa risolvere e ad accettare la risposta di Dio, ma pretende di dare egli stesso una risposta precipitata e forzata, risultano di regola molteplici false interpretazioni.

Il. - LE CONCEZIONI INDIANA E GRECA. Lo dimostreremo brevemente anzitutto nei due principali paesi del pensiero filosofico e religioso nell'antichità:

l'India e la Grecia. Per

quanto le loro strutture spirituali siano diverse, tuttavia nella questione che ci interessa si manifesta un elemento comune. a) Al di sopra di tutti i contrasti filosofici e religiosi è patrimonio comune dei pensatori indiani che il mondo non ba né principio né fine. Esso non è sorto dal nulla e neppure vi ritorna; si è sviluppato da uno stato involuto nella varietà dei fenomeni e con un rivolgimento periodico si ritira nuovamente in sé. I periodi, le ère, coprono immenso spazio di tempo. Lo spirito dell'Indiano nuota in numeri vertiginosi, mediante i quali egli precisa fino all'anno la durata dell'èra. Illustreremo con alcuni esempi queste stravaganti speculazioni. Lo sviluppo del mondo si compie in quattro ère, i cui nomi sono Krtayuga, Tretayuga, Dvaparayuga e Kaliyuga. Lo sviluppo si compie in linea sempre discendente, di modo

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ESCATOLOGIA GENERALE

che l'ultima èra è la peggiore; il che si esprime già nella durata che va sempre decrescendo. La prima èra dura complessivamente 4.8oo anni sacri ( 1 . 728.ooo anni solari), la seconda 3.6oo anni sacri (1 .296.ooo anni solari), la terza 2-400 anni sacri (864.000 anni solari), la quarta 1. 200 anni sacri (432.000 anni solari). A ciascuna di queste ère corrisponde un colore conveniente alla sua qualità : il bianco alla prima, il rosso alla seconda, il giallo alla terza, il nero alla quarta. Trascorse le quattro ère, segue una lunga pausa di riposo, poi ricomincia l'evoluzione da prin­ cipio, e cosi via in un circolo infinito. Piu cicli delle quattro ère vengono raccolti a loro volta in unità maggiori. Allorché le ère si sono succedute mille volte, cioè dopo un giorno di Brahma, l'universo si dissolve. Ha inizio una notte di Brahma, che dura quanto un giorno di Brahma. 360 giorni di Brahm.a e 360 notti di Brahma costituiscono un anno di Brahma, il quale abbraccia 3.II0.400.ooo.ooo anni solari. Cento anni di Brahma costituiscono una vira di Brahma. Finora sarà trascorsa all'incirca la metà di una vita di Brahma. Al termine della vita di Brahma avviene un gene­ rale sfacelo del mondo, in forma di un generale incendio cosmico. Rimane tuttavia la materia primitiva fine, non sviluppata. Lo sviluppo può cosi nuovamente incominciare. Secondo un'altra concezione che si trova in scritti indiani una vita di Brahma costituirebbe un giorno del dio Visnu. Il numero dei giorni di Visnu e delle notti di Visnu finora trascorsi non lo si può contare, e neppure il numero di quelli che ancora verranno. I granelli di sabbia del Gange e le gocce di pioggia si possono contare, ma non il numero delle vite di Brabma che sono trascorse. Queste speculazioni, per quanto strane ci possano apparire, dimostrano che al pensiero indiano manca il senso storico. Gli avvenimenti del mondo si ripetono incessantemente in grandiosi periodi senza principio e senza fine : è un circolo eterno. In esso è inserita l'anima dell'uomo. Rivestita di un sottile corpo ma­ teriale, essa emigra dopo la morte in un altro essere vivente, in un dio, in un uomo di casta superiore od inferiore, in un animale, in una pianta. Ciò è determinato dal karma, la somma degli atti cattivi e buoni al ter­ mine della vita trascorsa, che si è impressa nel sottile corpo materiale e lo costringe ad una corrispondente nuova esistenza. Soltanto quando non rimane piu karma, il che negli uomini ordinari avverrà soltanto in un lontanissimo futuro o non avverrà mai, il circolo della vita raggiunge il suo termine nel nirvana. La dottrina della migrazione delle anime e della continua rinascita dopo la morte spinge in una disperata lontananza il raggiungimento di una meta definitiva. Ciò è espresso in un paragone

§ 293 '·

TEMPORALITÀ-STOIUCITÀ DELL'UOMO E DELLA

che non è raro incontrare. L'uomo

RIVELAZ.

SALVIFICA

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è simile ad un naufrago, che in una

piccola barca che fa acqua, viene sballottato dalle onde di un mare scon­ volto e cerca con desiderio un porto di salvezza. Egli sa che esso esiste da qualche parte, ma non sa dov'è e come giungervi e neppure se la direzione che egli segue non lo allontani maggiormente dal porto. Il rag­ giungimento della meta, del nirvana, è cosi incerto come è incerto che

si colpisca un pesce ben determinato quando in un qualche luogo si getta una pietra nell'acqua. Il circolo che domina gli avvenimenti del mondo porta per l'uomo ad una migrazione senza fine delle anime. Cfr. H. W. Schomerus,

lndische und christliche Enderwartung und ErlosungshofJ­

nung, 194 1 . La religione dell'Iran sembra costituire una eccezione. Essa sostiene un tempo storico che tende al fine e perciò si può ben considerare come preparazione evangelica. Cfr. F. Notscher,

Altorientalischer und alttesta­ mentlicher Auferstehungsglaube, Wiirzburg 1926. b) Anche nei filosofi e poeti greci manca l'idea della storicità del­ l'uomo, benché in essi questa mancanza non appaia nella forma crassa

degli Indiani. La ragione piu profonda sta nel fatto di non aver rag­ giunto una chiara idea della persona. Venne cosi a mancare il presup­ posto piu importante di una vera conoscenza del carattere storico del­ l'uomo; infatti con la personalità scompare la superiorità dell'uomo sulla natura, la unicità, la irripetibilità ed il carattere decisivo dell'atto umano. Il primato non appartiene al personale, anzi neppure al singolo ed all'in­ dividuale, ma al generale ed al tipico. Il vero essere compete all'idea, o come realizzata nelle cose (Aristotele), o come esistente fuori delle cose, quale loro archetipo (Platone). Bultmann cosi caratterizza il pensiero greco:

«

L'universale senza tempo, ciò che esiste sempre identico, è

qui considerato come il vero ente in distinzione dalla sfera del divenire e del passare, cui appartiene il singolo, l'individuale. In questo orizzonte della concezione dell'essere si muovono i sistemi sia idealistici che mate­ rialistici della filosofia

greca.

In corrispondenza a questa

concezione

dell'essere, la concezione greca del mondo è diretta dalla visione del mondo come natura. Infatti nella natura si possono osservare regola ed ordine, e soprattutto un vero essere immutabile appare evidente nel corso continuo degli astri. Al contrario l'avvenimento storico concreto appare come appartenente alla sfera del divenire e del passare. Per i Greci la vita umana diventa vera vita quando con pensiero filosofico s'innalza al regno dell'ente senza tempo e ne diviene partecipe in quanto lo spirito individuale si conforma allo spirito universale. L'uomo singolo trova

22

P. I.

- ESCATOLOGIA GENERALE

quindi il senso della sua esistenza non nella sua storia individuale, ma nella cultura dell'universale, che costituisce la sua essenza di uomo, e » (Adam, wo bist du? in Die Wandlung, I, I 946, 26). Cfr. anche l' arr. lego, nel Theol. Worterb. z. N. T. di K.ittel, 69-140 d i Debrunner, Kleinknecht, Procksch, Kittel, Quell, Schrenk. Thorleif Boman, Das hebraische Denken in Vergleich mit dem griechischen, Gottingen I954· Cfr. vol. III/I § 1 76b, Il, C).

precisamente della ragione, dello spirito

Non manca nel pensiero greco l'idea del tempo, ma questo viene sva­ lutato. Eraclito ad es. proclama con forte accento lo scorrere del tempo e nella filosofia aristotelica

il movimento occupa un grande posto; ma

il tempo è una corrente in cui nessun momento ha una connotazione qualitativa ed emerge sugli altri. Il fluire del tempo non si muove verso un fine in senso proprio. Un incendio cosmico porrà fine un giorno alla forma attuale del cosmo,

ma

poi ricomincerà lo stesso corso da principio.

Il futuro non apporta una nuova creazione, ma fa ritornare l'antica. Anche del pensiero greco il simbolo non

è la retta che muove verso un fine quale

sua meta, ma il circolo. Il pensiero del ritorno periodico, del circolo delle cose ha ben presto ammaliato gli spiriti piu influenti del mondo greco, ed attraverso alle scuole filosofiche da essi dipendenti, anche vaste cerchie della società greca. Aristotele ad es. dice:

«

Le entelechie, le forze pla­

smative delle forme, sopravvivono allo sfacelo del mondo e lo riplasmanL da capo col suo seguito

Aristoteles, I92 3, 4 I 5

di vicende, in letterale ripetizione» (W. Jaeger,

s.).

Ciò appare chiarissimo nella dottrina della migrazione delle anime pe­ netrata dall'Oriente, molto diffusa, inserita da Platone nella sua teoria della immortalità delle anime. La mancanza

di una chiara nozione del carattere storico dell'uomo va

di pari passo con l'inserimento della vita umana nel corso della natura. La vita umana è

un

elemento della vicenda cosmica.

«

Per la cultura

è soltanto un fenomeno enrro il cosmo » (Stauffer). L'uomo greco sente se stesso ed il mondo primariamente come natura, non come storia. È sintomatico il fatto che Holderlin, il quale spera nel ritorno della greca la storia

Grecia m.itica e da esso attende tutta la salvezza, veda nella natura l'essere supremo.

R. Guardini, Holderlin. Weltbild und Frommigkeit, I 949·

Dietro l'immagine dell'uomo e del mondo priva di storia sta una im­ magine di Dio priva di storia. Dio è forma in riposo, idea fluttuante, conoscenza immersa in se stessa, non volontà agente, né forza creatrice della storia. Il simbolo di questa concezione dell'uomo e del mondo è, come abbiamo

' § 293 A. TEMPORALITÀ-STORICITÀ DELL UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

23

detto, il circolo chiuso. La linea del circolo ritorna continuamente in se stessa. Il suo movimento non ha né principio né fine, e perciò non porta mai ad una meta definitiva; non porta a nulla, se non continuamente a se stesso. Un movimento umano rappresentabile mediante questo sim­ bolo è quindi sotto la minaccia del nihilismo. Il circolo però (come quasi ogni simbolo) ha pure un altro valore simbolico positivo. C'è, in certo modo, un circolo buono. Ciò vale per quel circolo che non esiste da prin­ cipio e non è chiuso in sé, ma viene prodotto dall'azione creatrice e sal­ vifica di Dio. È quel movimento che nasce

in base alla volontà divina,

si estende entro la storia e torna nuovamente a Dio. In questo movimento circolare la creatura che esce da Dio si completa in Dio. Alla

Dei

corrisponde la

ascensio hominis.

descensio

Questo circolo raggiungerà la sua

piena forma soltanto quando tutte le creature, in quanto non si distaccano definitivamente da Dio, avranno compiuto il loro ritorno a Dio. Fino a quel momento è in certo modo aperto. Bonaventura e Dante vedono nel circolo cosi inteso un simbolo della vita.

III. - LA DOTTRINA DELLA RIVELAZIONE.

a)

Messa a confronto con simili interpretazioni della vita umana, la

rivelazione attestata nell'Antico e nel Nuovo Testamento, in cui l'uma­ nità viene a conoscere l'interpretazione di se stessa data da Dio e quindi autentica ed obbligatoria, costituisce addirittura qualcosa di sconvolgente. Dio stesso crea e garantisce il carattere storico dell'uomo. Dio è di natura tale da poter produrre la natura storica dell'uomo; infatti è azione potente, volontà ardente, anzi appassionata. Egli è nello stesso tempo spirito e forza; è personale nel modo piu intenso. Dio ha creato il mondo e l'uomo nel modo del tempo e della storia (Gen. I, r; 2, 4; Ebr. I,

2; I I, 3). Egli ha dato un inizio al mondo ed agli uomini; apporterà anche

la fine che già ha stabilita (Mc. 13, 39 s.). Qui non si parla di circoli senza fine e di migrazioni incalcolabili. Massimo Confessore chiama addi­ rittura la rinascita eterna « la immortalità della morte

»,

l'eternare la

morte (Ep. 7; PG. 91, 437). Agostino dichiara: «Io non so che cosa si » (Ep. 1 66, 9; cfr. De 20). Con queste parole due

possa escogitare di piu orribile di questa opinione

haeresibus,

c. 43;

De civ. Dei, 1 2,

Io, 1 1 . 19.

teologi cristiani hanno espresso quasi un millennio e mezzo prima di Nietzsche ciò che il profeta dell'eterno ritorno scopri nelle ore migliori, ma a cui però non seppe stare saldo. Egli inorridisce al pensiero che il

24

P. I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

piccolo ed il misero debbano essere eternati. « Oh, l'uomo ritorna eter­ namente! L'uomo piu piccolo ritorna eternamente! Io li ho visti un giorno nudi entrambi, l'uomo piu grande ed il piu piccolo: troppo simili tra di loro - troppo umano anche il piu grande! troppo piccolo il piu grande! - Di qui la mia nausea dell'uomo! Il ritorno eterno anche del piu piccolo! - Di qui la mia nausea di ogni esistenza! Oh schifo! schifo! schifo! » . E tuttavia Nietzsche fece della dottrina del ritorno di tutte le cose un dogma fondamentale della sua filosofia. Cfr. R. Schneider, Der Mensch vor dem Gericht der Geschichte, I946. b) Dio, che è distinto dal mondo ed in tutto diverso da esso, che con potenza e sapienza stabilisce ciò che gli piace, che vive prima di tutta la storia umana (Ef. I, 4i Giuda 25; Gv. 8, 5 8; IJ, 5· 24i I Piet. I, 20) e sopravvive a tutti gli avvenimenti terreni (Sal. 90 [89], 2; 102 [I oi], 26 ; Prov. 8, 22 ss.; Gv. 17, 5· 24), il primo (ls. 4I, 4 i 44, 6; 4 8, 2) e l'ultimo (ls. 41, 4; 44, 6; Apoc. r, 8; 2 1 , 6; 22, 13), mediante la sua parola onnipotente ha fatto sorgere il mondo (Gv. I, 3) ed ha stabilito la durata del suo essere. Egli lo chiama dalla sua forma attuale ad una nuova, ignota, secondo la sua decisione. Entro l'inizio posto da Dio e la fine da lui disposta, il mondo si muove con uno sviluppo temporale. « Finché la terra durerà, semente e raccolta, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno mai» (Geo. 8, 22). « Ogni cosa ha il suo momento e ogni faccenda ha il suo tempo sotto il cielo : tempo di nascere e tempo di morire, tempo di piantare e tempo di sradicare ciò che si è piantato; tempo di uccidere e tempo di guarire, tempo di demolire e tempo di edificare ; tempo di piangere e tempo di ridere, tempo di lamen­ tarsi e tempo di danzare ; tempo di lanciare pietre e tempo di racco­ glierle, tempo di abbracciarsi e tempo di astenersi dall'abbraccio; tempo di ricercare e tempo di smarrire, tempo di custodire e tempo di buttare ; tempo di stracciare e tempo di cucire, tempo di tacere e tempo di parlare; tempo di amare e tempo di odiare, tempo di guerra e tempo di pace. Che guadagno ha l'uomo che lavora, in ciò che fa? Ho meditato sulla occupazione che Dio ha dato ai figli dell'uomo perché vi si impegnino. Egli ha fatto ogni cosa proporzionata al suo tempo, ha messo inoltre nel loro cuore il complesso di tali tempi ; tuttavia l'uomo non può capire l'opera che Dio ha fatto, dall'inizio sino alla fine » (Eccli. 3, I-I I). c) Il tempo è costituito dall'azione reciproca delle cose e dal loro mutamento che ne dipende. Rappresenta il corso, il ritmo del divenire dall'inizio alla fine. Dio quindi ha creato il tempo ordinando tra loro le cose e le forze del mondo in modo che siano in una azione reciproca e

' § 293 A. TEMPORALITÀ -STORICITÀ DELL UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

25

subiscano e producano cosi un continuo mutamento finché sia raggiunto quello stato che deve essere raggiunto secondo la volontà di Dio supe­ riore al mondo. Nel momento da lui stabilito Dio ha chiamato nel mondo l'uomo affin­ ché liberamente lo formi e lo governi (Gen. I, 15). Egli ha affidato al­ l'uomo la continuazione storica della sua opera creativa. Governando la terra l'uomo deve con azione storica sviluppare e completare la sua pro­ pria natura. Nel momento stabilito da Dio viene anch'egli richiamato; ed allora deve rendergli conto del valore e disvalore del proprio ope­ rato (Atti 17, 31). La legge in base alla quale il mondo ha iniziato il suo corso, domina tutta la sua durata. Ha Dio per padrone (Sal. 33 [32],9; 119 [118],91; Eccli. 43,26; Sap. 16, 24 ss.). Dio abbraccia con la sua volontà onnipo­ tente tutti i suoi tempi (Apoc. 6, 10). La compagine del mondo tanto nel suo insieme quanto nei particolari anche minimi è al sicuro nella sua custodia. Dal suo potere dipende il tempo in cui, entro il corso del mondo, ciascuna cosa esiste, viene e passa. Egli dà pioggia, frutto e cibo al tempo giusto (Ger. 5, 24; Deut. n, 14 s.; Sal. 145 [144],15). Le ore del giorno e le stagioni dell'anno, estate ed inverno, giorno

e

notte, il sole come

sovrano del giorno e la luna e le stelle come sovrani della notte sono dati da lui e gli obbediscono (Sal. 74 [73], 16 s.; 136 [135], 8 s.). Null a potrebbe esistere se egli non volesse; nulla si conserverebbe se il suo spirito indefettibile non fosse in rutto (Sap. r 1, 25 s.). La sua attività va oltre ancora. Non soltanto egli crea e conserva il mondo nel modo del tempo, ma produce anche ogni avvenimento tempo­ rale ed ordina tutti gli eventi ad un fine. Egli ha un disegno eterno che viene eseguito in ogni caso, nonostante gli impedimenti e le opposizioni (I Cor. 2,7; Ef. 1,II; 2,7; 3,21; Atti 2,23; Eccli. 23,20; Mt. 13,35; 25,34; Rom. 9-II; 2 Piet. 3,4-10). Nulla può avvenire senza che Dio l'abbia permesso, senza che l'abbia voluto e l'abbia voluto a quel modo che avviene. Qualunque cosa avviene nel mondo, qualunque cosa capita all'uomo, qualunque cosa l'uomo compie con libera decisione, è sempre Dio che opera (Is. 24, I I ; 26,12; 45,11; Es. 24, IO; Deut. 3,24; 2,3· 7; Gios. 24,3Ii Sal. 66 [65],3· 5; Ger. 50, 25; 51,10). Anche quando tace, egli rimane il reggitore padrone della storia. Egli opera anche nel silenzio. Il silenzio di Dio è efficace attraverso a tutto lo strepitare dei pagani ed il comportamento rivoluzionario dei re della terra. se ne ride, il Signore si fa beffe di loro

»

«

Chi siede nei cieli

(Sal. 2,4). Nel guidare la storia

Dio si serve delle potenze naturali e dei popoli come di strumenti. Inse-

26

P.

I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

risce poteri ostili nel suo disegno storico per modo che essi, proprio con la loro ostinazione antidivina, diventano gli esecutori dei suoi decreti. Rapacità insaziabile ed aspirazione titanica al potere sono in mano a Dio un mezzo per l'attuazione del suo piano (ls.

IO, 5-34; 44, 24 - 45, 13;

Ger. 17, 5-22; 25, 8-14; Ez. 21, 23-32). L'Assiro non è che l'ascia con la quale egli digrossa, la sega che egli manovra. Nebukadnezar, il pa­ drone del mondo, è suo servo. Ciro, il conquistatore del mondo, è da lui chiamato. La vittoria del Persiano è in realtà vittoria di Dio. Non l'uomo spezza i catenacci delle città nemiche, ma Dio, che avanza di­ nanzi a lui, li infrange. Tutti i v incitori della storia sono strumenti di Dio senza che lo sappiano. Essi inseguono i loro disegni ambiziosi e rea­ lizzano cosi i suoi piani. Quando gli esecutori del suo disegno storico hanno svolto il loro compito, vengono sottoposti anch'essi al giudizio; non possono quindi crogiolarsi nel vano splendore del loro successo, né innal­ zarsi al di sopra dei vinti come i favoriti della sua provvidenza. Perciò la storia è anche la sua parola. Mediante le sue opere Dio parla con gli uomini. Nessuna disgrazia può rovesciarsi su gli uomini, salvo che egli lo permetta (Apoc. 6, 2). Soltanto quando l'agnello apre i sigilli del libro del destino, le prove possono irrompere sugli uomini. Ciascuna di esse porta piu vicino il mondo alla sua meta fissata. Come con voce di tuono Dio fa chiamare dai suoi inviati gli apportatori di disgrazia con un quadru­ plice « vieni» (Apoc.

6, 3 ss.; E. Stauffer).

Con ciò l'azione della creatura non viene ridotta ad una semplice appa­ renza. Quantunque Dio sia l'operatore di rutti gli avvenimenti, il corso della storia dipende non di meno dall'uomo. Tutti gli atti della creatura sono atti di Dio, e tuttavia la creatura rimane responsabile della propria azione, la quale, appunto perché è un'azione di creatura, cioè totalmente dipendente, è sostenuta dall'atto di Dio, del creatore. Con un inconcepibile intreccio di azione divina ed umana la libera decisione umana è assunta nella decisione di Dio (Apoc. 2, 26). Dio chiama la volontà dell'uomo. Le singole decisioni umane hanno per

il destino di tutta l'umanità, per il corso della storia mondiale ed inoltre per lo stato del cosmo un'importanza determinante. Il peccato del primo uomo costituisce, entro l'inizio e la fine posti da Dio, un inizio di disgrazia posto dall'uomo. Con la decisione del primo uomo venne deciso l'intero futuro dell'umanità. In un punto viene determinata la sorte della storia. L'atto di superba ribellione, con cui l'uomo ha cercato di formare egli stesso la sua vita con una autorità libera da Dio, anzi senza Dio, e con un desiderio di autonomia, che disconosceva il suo vero stato, di farsi padrone

' § 293 A_ TEMPORALITÀ-STORICITÀ DELL UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

della sua esistenza e di sottrarsi al dominio di Dio, non

27

è un fatto senza

conseguenze, avvenuto in un momento indifferente, del quale in tempi suc­ cessivi si racconta soltanto come di un misfatto da lungo tempo passato. Esso determina piuttosto tutto il futuro; ha una forza che continua ad agire e

a generare attraverso a tutti i millenni della storia umana, fino alla sua

ultima ora (ls.

5 1 , 1 ; Ez. 33, 34; Mal. 2, 1 5 ). Diviene una forza sempre

presente, funesta, che rovescia tutti gli ordinamenti ed umilia e rende schiavo l'uomo stesso. Ha gettato l'umanità in una triplice miseria : del peccato, della sofferenza e della morte (da E. Stauffer,

Theologie des NT,

1 948).

4 ed.

Anzi, esso penetra nell'intera vita della creazione. Per volontà di Dio l' uomo su

è il rappresentante di tutta la creazione. Ciò appare nel suo dominio

di essa, ma in modo particolarmente infausto nel fatto che la creazione

e stata inserita nella maledizione. Infatti essa, dal momento che l'uomo,

·mo signore, si ribellò contro Dio, venne sottoposta al servaggio della caducità. Dovunque si rivolga la sguardo nella creazione, questa offre la

è la prima grande forza del cosmo. Il cosmo è capace di produrre vira indefettibile ; sta inevitabilmente sotto la legge della morte. Mentre per i Greci la storia umana era un fenomeno immagine della caducità, che

non

entro la vita cosmica, per la rivelazione cristiana gli avvenimenti cosmici

è il destino del mondo 8, 1 9-23 ; Gen. 3, 14- 1 9). Cfr. vol. II, § 1 34· Dio lasciò che gli uomini, i quali banno iniziato la loro storia con il pec­ cato, continuassero secondo la legge dell'inizio (Rom. 2, 1 8-32 ; 3, 9-20 ; 2, 32; Atti 1 7, 1 6-3 1 ). Permise che il peccato si sfogasse, abbandonandolo sono un fenomeno entro la storia umana. L'uomo

(Rom.

alla sua forza di gravità. Cosi gli uomini caddero di peccato in peccato,

dì abisso in abisso, di autodistruzione in autodistruzione. La storia umana cadde completamente sotto il segno del suo primo momento (Rom. Gal.

7, 24 ; 3, 22). Col crescente peso dei peccati crebbero il dolore ed il tor­

menro. La fatica della vita divenne sempre piu opprimente, perché la colpa dell'umanità divenne sempre maggiore. Il rifiuto opposto a Dio dall'uomo autocrate e superbo continua nel rifiuto al fratello. La volontà peccaminosa rivela nel modo piu terribile la sua inclinazione distruggitrice nella uccisione. A partire dall'assassinio di Abele un largo fiume di sangue scorre attraverso la storia. Eserciti e po­ poli si distruggono con reciproci massacri. Un rintronare incessante di guerra e di grida di guerra, un gemere di oppressi e di violentati risuona lungo la storia. Se risaliamo le tracce di tutte le colpe, giungiamo all'inizio della storia umana.

28

P. I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

Tuttavia secondo il disegno di Dio la disgrazia non doveva avere durata eterna. Nel corso dei tempi Dio ha dato alla storia la direzione verso una futura epoca di salvezza. Coloro che hanno accolto il raggio di speranza offerto nelle promesse divine, hanno teso le loro aspettative verso un evento futuro. In vario modo Dio ha tenuto deste queste attese. Tutti i suoi interventi nella storia intendevano impedire che l'umanità si abituasse allo stato di perdizione e seppellisse le sue speranze nel tempo futuro. Profeti e legge servirono a questo scopo. Con la legge il cuore umano sog­ getto al peccato doveva essere tenuto nella inquietudine, in modo che potesse rimanergli la sensazione della sua miseria e l'aspirazione alla liberazione. d) Quando fu giunta la pienezza dei tempi (Ebr. I, 2; Gal. 4, 4 ; Mt. I , 1 5 ; Le. 4, 2 1 ), Dio stesso, con l'incarnazione del suo Figlio uni­ genito, pose nella storia wnana un nuovo inizio storico di tale potenza che tutti i tempi futuri stanno sotto il suo segno. Tutto quanto aveva preceduto era orientato verso il momento di questo nuovo inizio. Tutto quanto seguirà è da esso determinato. Tuttavia anche l'epoca cosi iniziata è a sua volta tesa verso un futuro, verso il compimento definitivo. Infatti l'epoca salvifica, iniziata con l'ingresso di Dio nella storia umana, è di tale natura che anche in essa continua ancora ad agire la legge del peccato ori­ ginale, per modo che in essa la salvezza è nascosta. Non è ancora il tempo della salvezza definitiva, in cui il male sarà pienamente superato. Esso sta per venire, ma non è ancora giunto nella sua forma finale. Cosi anche il tempo compiuto, iniziato in Cristo, è un tempo di promessa, un tempo di attesa. È ignoto quando scoccherà l'ora del compimento perfetto; ma nulla è piu certo del fatto che essa verrà. Verso questa venuta è rivolto lo sguardo di tutti i cristiani. In tutte le decisioni e glì avvenimenti terreni si rea­ lizza il movimento verso questo fine. Cfr. O. Cullmann, Christ et le temps, Neuchatel 1 947. Nel movimento verso la fine è coinvolto il cosmo intero, che, come do­ vette partecipare all'inizio della storia umana, cosi deve pure partecipare alla sua fine. Anch'esso sta sotto la legge del futuro. Caducità e morte, disordine, caos e potenza diabolica non saranno gli eterni dominatori. Il cosmo muove verso l'ora della liberazione e della trasformazione. Perdu­ rano ancora tormento e dolore ; ma il loro assillo non è senza fine. Tutti i tormenti e le miserie di morte non sono che le doglie, in cui si annunzia la nuova creazione. Cosi tutta la creazione, e con essa il cosmo, ha un corso che è caratterizzato dalle stazioni principali : creazione, peccato, Cristo, fine del mondo, ritorno di Cristo (Rom. 8, 1 9-23).

§ 293 •. TEMPORALITÀ-STORICITÀ DELL'UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

29

Entro questa storia generale si realizza la storia del singolo, indissolu­ bilmente intrecciata alla storia generale, la causa e ne è causata. Secondo la rivelazione il singolo non è semplicemente una rotella in una grande macchina, un'onda nel mare, ma ha un'importanza insopprimibile : è un essere che esiste in sé e per sé. Dio rivolge la sua attenzione non soltanto al corso del tutto, ma anche al destino del singolo, anzi proprio a questo, ma nella cornice del tutto. Dal senso del racconto del libro di Giobbe ap­ pare chiaro che Dio dedica il suo tempo ed il suo interesse alla vita del­ l'uomo singolo. Anche questi non vive, come nei miti e nelle dottrine indiane, in una migrazione senza fine, che non giunge mai alla meta ; ma è in via verso una meta. Teso tra nascita e morte egli è unico ed irripetibile; sta sotto il peso di una decisione irrevocabile, da cui dipende se la meta proposta viene raggiunta o no. Al raggiungimento od al falli­ mento della meta è legata la sua salvezza o la sua rovina. L'uomo, una volta entrato nel corso della storia, non se ne può piu ricrarre ; prende parte al destino comune e con la sua propria decisione dà un contributo alla storia del mondo e realizza cosi nello stesso tempo la sua propria salvezza o la sua infelicità. La partecipazione al destino del mondo avviene sia in quanto l'uomo nasce in una determinata situazione storica, in una determinata famiglia, in un determinato popolo, sia in quanto viene inserito nel peccato che sta all'inizio della storia, ma anche nel nuovo inizio che è stato posto da Cristo. Cosi l'uomo viene toccato dal peso e dal beneficio del passato onnipresente. Egli partecipa al nuovo !nizio in Cristo, in quanto la morte e la risurrezione di Cristo si impadro­ niscono di lui. Questi fatti unici, non ripetibili, avvenuti in una determinata ora storica ed in un determinato luogo, diventano in certo modo presenti al cristiano per mezzo dei sacramenti, di modo che egli entra nella loro sfera di azione. Non intendiamo qui ricercare come divengano presenti. All'uomo, cosi improntato dal passato, è imposto di muovere verso il futuro che si leva dinanzi a lui. Il singolo determina il modo del suo tuturo col modo della sua vita ed azione terrene. Cosi le decisioni del­ l' uomo singolo hanno una immensa portata finale. Mentre conia il suo proprio destino entro il tutto, egli dà un contributo alla forma finale del tutto. La vita umana riveste questo carattere decisivo in ogni momento ; ma ci sono in essa giorni ed ore particolarmente onuste della gravità della decisione. Un'ora simile non deve essere trascurata, se non si vuole che tutta la vita cada sotto la maledizione del « troppo tardi » (Gal. 6, 9 s . ; Le. 1 9, 9· 42; Gv. 2, 2 1 ). Il tempo, in cui s i plasmano i destini nella loro

30

P.

I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

forma irrevocabile, trascorre silenzioso, inosservato. Il suo rapido corso può quindi non essere visto ed il suo passo veloce non essere sentito. Bisogna quindi incettare il tempo. Ogni momento ha un valore insosti­

4, 5 ; Ef. 5 , 1 6 ; Gal. 1 6, 9 s. ; 4, 26 ss. ; 2 1 , 4 1 ; Gv. 4, 36 s.). Poiché nessuno sa quando finisce il tempo postogli a disposizione, bisogna essere sempre pronti (Le. 19, 42 ss. ; Mt. 25, I I ). Come quindi tutta la storia umana sta sotto la legge del tuibile, perciò deve essere sfruttato (Col.

Mt.

futuro, cosi anche la vita individuale sta sotto la medesima legge (Rom. 3,

I 2 s. ; Atti 1 7, 31 ; 1 Piet. 1, 5 ) Come il passato, cosi anche il futuro .

è onnipresente al tutto ed al singolo. (La precedente esposizione si fonda in gran parte su

E. Stauffer, Theologie des NT,

4 ed.

1948).

CAPITOLO III. LA STORICITA' DELL'UOMO NEL PENSIERO MODERNO

La concezione storica dell'uomo rimase determinante per il pemiero cristiano. È s in tom atico il fatto che� con il distacco dal cristianesimo� si perdette anche la conoscenza del carattere storico dell'uomo. Ciò costi­ tuisce una nuova conferma del fatto che esiste una vera conoscenza del­ l'uomo soltanto quando l'uomo non cerca di capirsi semplicemente da sé, ma si lascia dire da Dio che cosa e chi è. In questo breve prospetto si può richiamare l'attenzione soltanto su alcune manifestazioni della storia dello spirito, piu per illustrare con alcuni esempi la tesi enunciata, che per dare una visione storica esauriente.

I.

-

L'ILLUMINISMO.

Il razionalismo, quel sistema giunto a piena maturità nel sec. xvm, che credette di poter penetrare tutta la realtà con la ragione e riconobbe valore soltanto a ciò che si poteva comprendere razionalmente, si inte­ ressò poco del carattere storico dell'uomo, anzi cercò di liberarlo dal peso della storia. Di fatto ciò che è avvenuto nel corso della storia non rappre­ senta per l'uomo soltanto arricchimento ed illuminazione, ma anche peso. Non solo le colpe degli antenati, ma anche l'eredità di cultura e di nozioni da essi ricevuta gravano sulle generazioni seguenti, per cui può avvenire che una nuova generazione vada soggetta alla tentazione di scuotere l'eredità opprimente per ritornare al « puro » umano, non an­ cora sovraccarico della cultura sorta nei secoli e nei millenni; e che intenda ricominciare da principio. Un simile evento si compi nel periodo dell'illuminismo. Gli uni credettero di poter raggiungere il puro umano non ancora onerato dalla storia mediante la ragione, gli altri mediante il sentimento.

P. I .

32

-

ESCATOLOGIA GENERALE

L'illuminismo razionalistico, per parlare soltanto di questo, riconobbe realtà e validità soltanto a ciò che può reggere dinanzi alla cosi detta sana ragione umana. Il rigetto del peso della storia fu intrapreso in questo periodo a cuore tanto piu leggero, in quanto proprio allora risultò quanto inattendibili siano sovente le affermazioni della storiografia. La ra­ gione ne scrutò le deficienze. Si poté dire : la ragione ha vinto, ciò che

è vecchio ha ceduto. Tuttavia della lunga tradizione cristiana non ci si sbarazzò in modo cosi completo da rinnegare totalmente il legame del­ l'uomo alla storia. Quantunque non si sia piu conservato molto del pas­ sato, in compenso tanto piu si sperò dalla seconda direzione del corso storico, dal futuro. La chiarificazione dell'esistenza, che passato e pre­ sente rifiutavano, l'avrebbe portata, cosi si disse, tl futuro. Con

un

vero

sentimento di trionfo si proclamò il progresso eterno che, con una ascesa senza fine, avrebbe portato passo passo l'umanità sempre piu in alto. Uno dei corifei dell'epoca, guardando con fierezza al futuro e con di­ sprezzo al passato superato, proclamò :

«

Viviamo in un secolo che di

giorno in giorno diviene sempre piu illuminato, per modo che, al con­ fronto, tutti

i

secoli trascorsi appaiono come pure tenebre

»

(Pierre Bayle).

Simili voci, che nell'illuminismo si unirono a formare un coro gran­ dioso, tradiscono una escatologia secolarizzata, che non conosce fine e meta determinate dello sviluppo umano, ma è sostenuta dalla fede incrol­ labile che l'umanità sia continuamente in cammino verso condizioni piu alte e piu pure di esistenza, i cui contorni svaniscono e nebulosa lontananza. Cfr. G. Hazard,

in una indeterminata La crisi della coscienza europea,

trad. di P. Sereni, Torino 1946. La forza propulsiva di queste speranze era, fin dal tempo del Rina­ scimento, l'idea sempre piu diffusa, che la storia umana si muovesse con un continuo processo progressivo verso una meta definitiva intramondana. Secondo la convinzione della fede nel progresso lo stato finale che si spera rappresenta un ordinamento in cui domina la ragione e tutti i bisogni sotto l'aspetto politico, economico, sociale, artistico e scientifico, vengono soddisfatti. Come esempio classico possiamo qui riassumere le vedute di Emanuele Kant, il quale esprime la speranza che

il genere

umano sia in continuo progresso verso il meglio. Se anche lo sviluppo tecnico esterno precorre talora quello morale, tuttavia la moralità del­ l'uomo si svilupperà irresistibilmente ed alla fine prevarrà. Questo stato ideale significherà la sostituzione della fede ecclesiastica con la pura fede religiosa, la quale non sarà altro se non una fede generale nella ragione. Il dominio della ragione si manifesterà nella costituzione di uno stato

� 293

•.

TEMPORAL ITÀ-STORICITÀ DELL'UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

33

perfetto, che non potrà essere se non repubblicana. La via che vi porta

è caratterizzata dal fatto che la violenza da parte dei potenti diminuirà a

poco a poco, mentre aumenterà a poco a poco la docilità verso le leggi.

A poco a poco gli uomini faranno sparire totalmente l'ostacolo maggiore

della moralità, cioè la guerra. La via al dominio universale della ragione verrà abbreviata dalle rivoluzioni. Quando gli uomini parteciperanno uni­ versalmente all'imposizione

rivoluzionaria

della

ragione

si potrà

dire

che il regno di Dio si avvicina. Ciò che Kant esprime in questi ragionamenti pervade molti spiriti nel sec. XVIII e XIX. Herder ad es. ritiene che l'umanità che si deve rea­ lizzare in un processo progressivo intrastorico sia indicata dall'immagine biblica della città di Dio. Lo stesso pensarono Lessing e Goethe. Cfr. J. Pieper,

Sulla fine del tempo, trad. di M. Perotti Caracciolo, Brescia 1 9 5 4 .

I I . - LA FILOSOFIA ROMANTICA.

I pochi residui della concezione storica dell'uomo, che ancora esiste­

vano nell'illuminismo, vengono ripresi in una vasta corrente, quantunque 11on in forma pura, dalla filosofia e teologia romantiche. È soprattutto Hegel che presenta una interpretazione storica del mondo e dell'uomo.

La ragione o l'idea nella tesi, antitesi e sintesi si sviluppa in formazioni sempre piu alte, finché raggiunge la sua forma suprema nello stato.

Il singolo è di volta in volta stadio di passaggio in questo grandioso pro­ cesso del divenire. Hegel riconosce valore storico non ad ogni fenomeno, ma

soltanto a quello che si inserisce logicamente nel tutto. Non senza

[orzature egli determina ciò che si adatta e ciò che non si adatta al tutto. Anche Cristo, la cui storicità fu da lui affermata con molta forza, è uno s tadio di passaggio sulla via della incarnazione di Dio e della divinizza­ zione dell'uomo. La storia del mondo è la via dell'autosviluppo dello spirito. La ragione non può mai riposare : passa da una posizione all'altra e nel farlo acquista una pienezza sempre piu ricca ed

una coscienza

sempre piu viva di se stessa.

In forme numerose e varie, nelle personalità individuali, negli spiriti nazionali, nelle formazioni oggettive della cultura, nella scienza e nella economia, nella religione e nell'arte, nello stato e nel diritto, lo spirito rr:uove verso la sua meta. In questo progredire ogni singolo fenomeno ha

il suo compito e quando questo è eseguito l'esistenza dell'esecutore ha

P.

34

L

-

ESCATOLOGIA GENERALE

perso il suo significato ; esce quindi dalla scena della storia per sempre. Non esiste una ricomparsa di ciò che è scomparso. Lo sviluppo procede in una linea continua : la sua immagine è la retta, non il circolo che ritorna in se stesso. Proprio quando lo spirito in una personalità od in un popolo si è manifestato esaurientemente in una perfezione corrispon­ dente allo stadio raggiunto, la figura che lo rappresenta è matura per la scomparsa. Lo sviluppo la supera, muovendo verso una nuova epoca della storia del mondo. Tuttavia non continua in una corsa eterna. Per quanto la fede nel progresso e l'idea del divenire fossero patrimonio comune dell'epoca e ricevessero dalla filosofia hegeliana una nuova giustificazione, Hegel stesso vide lo sviluppo concludersi nello stato prussiano, nel quale la storia ha raggiunto la sua meta. Entro lo stato la filosofia hegeliana è a sua volta la forma in cui lo spirito è giunto alla completa coscienza di sé. Tale l'opinione del filosofo. Vediamo : la filosofia di Hegel è piu chiaramente ancora che non l'illuminismo escatologia secolarizzata. È la dottrina di uno stato finale da raggiungersi, anzi già raggiunto, esatta­ mente indicabile, verso cui tende tutta l'evoluzione. Questa escatologia porta un carattere secolarizzato in quanto circonda il mondo con l'aureola del divino e gli attribuisce quel valore supremo che in realtà possiede soltanto il Dio personale. Nella escatologia di Hegel soltanto il tutto, ma non il singolo per­ viene alla sua realizzazione. Al contrario il singolo nel monismo pantei­ stico di Hegel non può giungere al suo pieno valore. Il singolo non ha essere e diritto propri ed in definitiva si dissolve e scompare completa­ mente nello stato. Lo stato è tutto; il singolo è nulla. L'escatologia di Hegel è collettivistica. Cfr. Fr. Schnabel, Deutsche Geschichte im neun­ zehnten 1ahrhundert, III, 3 ed. 1954, 1-30.

III.

-

NIETZSCHE E KIERKEGAARD.

Contro la svalutazione hegeliana del singolo a favore del tutto fecero fronte nel sec. XIX soprattutto Nietzsche e Kierkegaard. L'uno cercò di dare al singolo la sua dignità aprendogli la via al superuomo, ma nello stesso tempo lo pose pure dinanzi al nulla ; l'altro portandolo al cospetto di Dio. L' accentuazione del singolo a prima vista sembra essere favo­ revole al riconoscimento del carattere storico dell'uomo, ma non garan­ tisce una piena conoscenza della storicità umana, la quale manca del tutto a Nietzsche e non è vista chiaramente da Kierkegaard.

§ 293 '· TEMPORALITÀ-STORICITÀ DELL ' UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

35

Ciò non impedisce di ritenere che Nietzsche, come la maggior parte dei filosofi di valore del sec. XIX, sia stato un escatologo camuffato. La meta della sua escatologia secolarizzata non si chiama Dio, né stato, né cultura, ma superuomo. Allo sviluppo del superuomo serve tutta la storia umana. Superuomo è colui che ha il coraggio e la forza di spez­ zare tutte le tavole precedenti su cui si orientava l'umanità e di stabilirne delle nuove in tutti i campi. Esse hanno valore perché lui, il superuomo,

le stabilisce. C'è una nuova verità. È vero ciò che egli dichiara come vero, e precisamente perché egli stabilisce che sia vero. È bene ciò che egli dichiara come bene, e precisamente perché egli stabilisce che sia bene. Anche nel campo della storia ha valore ciò che egli stabilisce come sto­ rico. Per sfuggire all'obiezione che la realtà storica è sottratta all'arbitrio dell'uomo, il quale guarda ad essa come ad un dato immutabile, ma non

lo può produrre, Nietzsche ricorre alla dottrina del ritorno eterno delle cose. « Tutto passa, tutto ritorna ; eterna gira la ruota dell'essere. Tutto muore, tutto torna a rifiorire ; eterno corre l'anno dell'essere. Tutto si rompe, tutto si ricompone ; eternamente si edifica la stessa casa dell'essere. Tmto se ne va, tutto si ritrova ; eternamente rimane fedele a sé l'anello dell'essere » . « Tu insegni, dicono gli animali a Zarathustra, che esiste un

grande anno del divenire, un anno di mostruosa grandezza : simile

c1d una clessidra, esso deve continuamente rivoltarsi per nuovamente scor­

rere...

E se tu ora volessi morire, sappiamo pure che tu ti diresti : ora

muoio e sparisco ed in un attimo sono un null a. Le anime sono mortali ·.: ome i corpi. Ma il nodo delle cause, in cui io sono scomparso, ritorna e

mi creerà nuovamente » . Il passato quindi ritorna e, benché sia tra­

scorso, a un certo punto ricapita negli artigli del su peruomo, di modo che egli lo può sottomettere al suo comando. Il pensiero di Nietzsche è L!Uindi escatologico. Ma la sua escatologia ha raggiunto un grado tale

di secolarizzazione che difficilmente può essere superaro. Infatti la meta i: l'uomo singolo, che viene descritto in modo che in esso si ritrovano

molti tratti del vero Dio. È una usurpazione di Dio. Questa escatologia giunta al vertice della secolarizzazione ba come fondamento la dottrina del ritorno eterno delle cose. Al superuomo viene attribuito valore asso­ luto; tutto il resto subisce una svalutazione tanto piu radicale. Nel cir­ colo eterno, nell'eterna ripetizione monotona, tutte le cose e gli uomini si muovono verso il superuomo od attorno al superuomo, senza avere valore in sé o per sé. Questa escatologia è quindi nello stesso tempo indi­ vidualistica e collettivistica; ma è soprattutto ateistica. In Nietzsche ap­ pare evidente che l'uomo, che si rende libero da Dio, può sfuggire alla

P.

l.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

assurdità della vita che ne deriva, soltanto divinizzando un pari suo e rendendosi schiavo del dio da lui creato. Troviamo l'idea del circolo eterno anche nel monismo filosofico del sec. XIX, che nella sua tendenza meccanicistica ammette un circolo eterno della materia, nella biologica quello della vita cellulare (ad es . L. A. Feuerbach, Darwin, Haeckel). In definitiva la dottrina del circolo eterno significa la rinunzia ad un senso definitivo della storia. Anche il teologo protestante Kierkegaard ha annunziato il messaggio del valore del singolo e non soltanto, come Nietzsche, di un singolo, ma di ogni singolo. La salvezza del singolo è il postulato fondamentale di Kierkegaard. Essa viene conquistata nella decisione incondizionata per Dio. Soltanto in Dio l'uomo acquista il suo io. Chi perde Dio, perde anche il proprio io. La secolarizzazione, la divinizzazione dell'universale è una delle molte forme di disperazione descritte da Kierkegaard. Nono­ stante la forte accentuazione del singolo e del carattere decisivo del suo atto, Kierkegaard non ha preso in chiara considerazione la storicità del­ l'uomo. Da un lato egli dichiara : « Questa è infatti la dignità eterna dell'uomo, di poter avere una storia ; questo c'è di divino in lui, che egli stesso se vuole, può dare continuità a questa smria ». Dall'altro lato egli sembra limitare questa storia alla esperienza interiore. Nell'interno del­ l'uomo viene presa la decisione pro o contro Dio, pro o contro il proprio io. La decisione contro Dio, il peccato, Kierkegaard non vuole collegarla con il peccato di Adamo. Il peccato del singolo non incomincia all'inizio della storia umana, ma nello stesso singolo. Il primo peccato non ha quindi un'importanza fondamentale per l'uomo singolo. Si può però dire che la colpevolezza del genere umano ha una storia, in quanto il genere umano non ricomincia da principio con ogni singolo, ma continua da Adamo attraverso a tutte le generazioni. Tuttavia i peccati ed i pecca­ tori non sono uniti da una continuità che li abbraccia. Ogni uomo nella sua decisione pro o contro Dio rappresenta un nuovo inizio. Ogni singolo decide il suo destino in quanto singolo, non in quanto membro di una serie. Anzi, piu ancora : il destino del singolo è posto di volta in volta nella puntualità dell'attimo in cui si prende la decisione. Questa, nella situazione imposta all'uomo, deve essere continuamente rinnovata di momento in momento. Rigettando la continuità storica, Kierkegaard non giunge neppure ad una piena comprensione del carattere storico del cri­ stianesimo. Contro la sottovalutazione hegeliana del singolo egli afferma, è vero, con estrema decisione che Dio si è rivelato in Cristo in un punto

§ 29 3 A. TEMPORALITÀ-STORICITÀ DELL'UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

37

della storia, e che la salvezza si fonda sul rapporto con il Cristo storico ; ma la sua concezione è statico-puntualistica. Egli non può spiegare come il singolo possa entrare in unione con il Cristo storico, poiché nessun ponte porta dal presente al passato. Nella lotta contro Hegel egli ha affermato in modo unilaterale il permanente carattere di decisione della storia ed ha trascurato la

continuità

tra il

passato

ed il

presente.

Cfr. T. Bohlin,

Kierkegaards dogmatische Anschauung in ihrem geschicht­ lichen Zusammenhange, trad. di J. Meyer-Li.ine, Giitersloh 1 927 ; R. Jo­ livet, Kierkegaard, Roma 1960; C. Fabro, Kierkegaard, in Enc. Filos., II, 1 699- 1 7 1 3 ; J. Wahl, Etudes Kierkegaardiennes, Paris 1938/5 1 ; r. Hohlenberg, Soren Kierkegaard, London 1954; H. de Lubac, Il dram­ ma dell'umanesimo ateo, Brescia 1 949·

IV. - HEIDEGGER E JASPERS. Molte idee di Kierkegaard sono state portate logicamente a termine da Heidegger, per quanto questi nel resto sia ben lontano dal grande teologo protestante ed abbia stretti contatti con Nietzsche. li suo pen­ siero, in quanto si può cogliere nelle opere finora esistenti, è una risoluta escatologia mondana. Teml)oralità e storicità determinano la struttura fondamentale dell'uomo. Tem1Jo oggettivo e storia si fondano sull a costi­ tuzione tem?Orale e storica dell'uomo. La temporalità si manifesta nel f::Jtto che l'uomo

«

precorre » la sua propria possibilità, la sua capacità

piu propria di essere, esperimenta e comprende la sua esistenza e la :�ssume nei suoi limiti e pesi, e per questa via ritorna all'esistenza come

�ià sempre fu, al

«

passato », apre quindi la sua situazione e nell'incontro

attivo con questa acquista il suo presente. L'esistenza si estende quindi in tre direzioni : nel futuro, da questo nel passato ed attraverso a questo

nel presente. L'esistenza

«

matura » cosi il tempo. Passato, presente e

futuro secondo la filosofia dell'esistenza sono sostanzialmente uniti ed i ntrecciati tra loro. Passato non è ciò che è avvenuto in un determinato punto del tempo ed ora è trascorso, ma ciò che, come effetto di ciò che è avvenuto, interviene nel presente favorendo e sostenendo oppure osta­

colando ed onerando e perciò costituisce un elemento efficace del pre­ sente. Il futuro non è semplicemente un momento del tempo, che non è ancora divenuto reale, ma lo sarà un giorno, bensi ciò che come compito e

meta, in speranze e timori spunta nel presente e costituisce in tal modo

un elemento efficace del presente. Il presente stesso non è il punto di

P. I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

contatto, privo di estensione, tra il passato che già scomTJare ed che sorge, ma il tempo prodotto da ciò che

il futuro è stato e da ciò che sarà.

Ciò che è stato e ciò che sarà, che nel presente si unisc"lno a formare un tutto unitario, secondo la filosofia dell'es�stenza, portano

il carattere di

peso. Il passato non viene visto nella sua funzione promotrice, ma è inteso come oppressione, come limitazione della libertà di azione, come costrizione ad una determinata decisione. Corris?ondentemente

il futuro

non è ciò che si deve sperare, ma temere. Al pari del passato esso pesa

il '!)eso del passato e il momento acquista una acuta drammaticità.

sul presente e costringe l'uomo alla decisione. Tra l'oppressione del futuro,

Ciò appare ancora piu chiaro se si considera la possibilità ultima e piu propria dell'uomo : la morte. Di fronte alla morte, alla sua certezza di fatto ed alla incertezza del suo momento, l' uomo si vede costretto a dare al momento che gli viene accordato, con la raccolta di tutte le sue forze una pienezza tale, che il senso della vita diviene indi?endente dalla sua continuazione incerta> perché è condensato nel momento puntiforme. In questa concezione non rimane piu posro per un flusso dei tempi, che abbraccia passato e futuro, che porta il passato verso il futuro, e in cui

il futuro riceve l'eredità del passato. Rimane soltanto il momento isolato di fronte alla morte, al nulla. L'uomo esperimenta questa sua situazione nel sentimento dell'angoscia. Ogni momento esige da colui che vuole condurre una vera vita, in distinzione dall'esistenza di massa di coloro che si lasciano portare e spingere dalla pubblica opinione, la tensione di tutte le forze, la decisione dell'impegno assoluto. Questo reca in se stesso il suo significato ed

il suo valore.

Con la temporalità è strettamente connessa la storicità. Il legame del­ l'uomo al tempo diventa storicità in quanto l'impegno assoluto concen­ trato nella puntualità del momento di ?end e di volta in volta dalla situa­ zione provocata dalla comunità che abbraccia

il singolo. In quanto il

singolo è inserito nella comunità, il legarre al tempo diventa legame alla storia. Il singolo crova una eredità, il risultato del passato di comunità concrete, nelle quali e con le quali egli vive. Il suo comportamento storico consiste nel raccoglierla e farla sua. Che cosa sia questa eredità non ha importanza. Decisivo è il modo di appro?riazione. Si tratta esclusivamente di questo, che l'esistenza dell'atto dell'appropriazione acquisti un'estrema risolutezza. L'azione che deve essere com::>iuta non sta, come pensa la filosofia vitalistica, nell'ulteriore formazione creatrice dell'eredità traman­ data, ma nella intensità della assunzione. L'autentic:tà dell'azione non ha bisogno di legittimarsi in una unicità individuale ; si può avverare

§ 293 A, TEMPORALITÀ-STORICITÀ DELL' UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

39

anche in forme generali o tipiche che ritornano, senza nulla perdere di 'Jrofondità e di interiorità. L'intensità deLl'appropriazione di ciò che si

è ricevuto va continuamente diminuendo; deve quindi essere continua­ n:ente rinnovata. In tal modo la vera vita trascorre in una continua ripe­ tizione dell'impegno assoluto. Per quanto ogni contenuto della vita sto­ rica si riveli caduco e per quanto tutti gli scopi ed i valori mutino presso

i poooli, nell'im"?egno assoluto in una qualunque situazione esterna pre­ esistente c'è un valore ultimo ed assoluto, su ryeriore ad ogni relatività delle situazioni storiche e deLle finalità contenutistiche. La rioetizione insegnata dalla filosofia dell'esistenza è sostanzialmente diversa dal ritorno eterno delle cose nel senso di Nietzsche. Qui si tratta del circolo di ciò che è 3V Venuto, in cui la realtà oggettiva ritorna con tutte le sue singole circo­ stanze. Nell'esistenzialismo si tratta invece dell'atto della esistenza, che deve essere continuamente compiuto

ex

novo,

non importa quale sia la

situazione, in fondo indifferente. Essa non fa questione della modalità, .Jel contenuto, ma soltanto del fatto. Poiché, secondo la filosofia esistenzialistica, il mondo nel quale l'uomo vive ha il carattere della insicurezza, anche il suo rapporto con l'eredità ·; Lorica che si deve assumere, reca l'imoronta della estraneità

e della

m sicurezza. Come ogni passato, cosi anche l'eredità storica, il risultato d el passato di una comunità, viene sentito come oopressione e

peso.

È discutibile se l'uomo che prende su di sé una simile eredità, la possa

J uminare. Il senso deLl'agire umano sta nell'impegno assoluto, non im­ porta se esso conduca al successo od all'insuccesso. Jaspers spinge questi -:. oncetti della filosofia dell'esistenza fino alla loro ultima conseguenza. Nèga la oossibilità di un successo permanente. Le grandi cose entrano, ;, suo giudizio, nel mondo con

un

balzo e cessano di esistere realizzandosi.

G iacché per l'esistenzialismo l'azione è oosta nella puntualità del mo­ r·•ento e affonda con esso. L'uomo fallisce e naufraga per necessità e r:>-:r

natura.

Se guardiamo ancora una volta al saggio qui presentato degli enunciati della filosofia dell'esistenza possiamo dire che la parola ultima di questa filosofia suona rrorte. La morte è la possibilità somma ed estrema, me­ diante la quale l'esistenza si realizza. È una !)Ossibilità onninresente, di cui l'uomo acquista coscienza nell'angoscia. Al di là della morte la filo­ sofia dell'es· stenza non è in grado di a:,>rire altre ryros:>ettive ; non co­ nosce un termine ed una meta dell'esistenza caratterizzata dalla tempo­ ralità e finitezza. La fine è il nulla. In definitiva l'esistenzialismo è una escatologia nihilista od un nihilismo escatologico. Non costituisce una

P, I,

-

ESCATOLOGIA GENERALE

soluzione quando esso emette l'appello ad operare il rigetto dell'esistenza con una decisione di eroismo tragico. Per la questione se il « nulla )) possa essere per Heidegger il passaggio non esplicito e non esplicitato

Existenzphilosophie im geistigen Leben der Gegenwart, 2 ed., Heidelberg 1 9 5 8 ; B. Welte, Die Glaubenssituation der Gegenwart, Freiburg 1 949 ; Idem, Gemeinschaft des Glaubens, Frei­

a Dio, cfr.

M.

Miiller,

burg 1952.

V. - MARX ED ENGELS. Nella lotta contro l'idealismo hegeliano e nello stesso tempo con l'aiuto del metodo hegeliano, Carlo Marx sviluppò la sua dottrina, secondo cui il mondo non deve essere soltanto contemplato, ma trasformato, affinché l'uomo possa vivere in libertà. Mediante una nuova forma economica e sociale l'uomo, caduto sotto il dominio della macchina, dei mezzi di produzione, deve essere liberato dal suo asservimento. Attraverso alla dittatura del proletariato lo sviluppo porta ad una società senza classi e senza stato. Questa sarà per l'uomo il paradiso promesso in

turri i miti

ed ardentemente desiderato. Anche Federico Engels profetizza il sorgere di una organizzazione della produzione, in cui il lavoro produttivo non sarà piu mezzo di asservimento, ma di liberazione, in quanto offrirà ad ognuno l'occasione di pedezionare e dimostrare tutte le sue capacità spirituali e corporali in tutte le direzioni, nella quale quindi esso diverrà da peso un piacere. Finché non sarà raggiunto il paradiso terreno, la costrizione, anzi il terrore, non soltanto è permesso, ma necessario. Bolsce­ vismo e comunismo hanno commesso qui un errore decisivo. Si sostiene infatti l'opinione che la libertà possa essere raggiunta mediante la man­ canza della libertà. Tuttavia la libertà può essere raggiunta sempre sol­ tanto mediante la libertà (Kant). Or. Th. Steinbiichel, Der Sozialismus als sittliche Idee, 192 1 ; G. A. Wetter, Il matet'Wlismo dialettico sovietico, Torino 1948 ; Autori vari, La filosofia del comunismo, Torino 1 949 ; J. Calvez, La pensée de Karl Marx, Paris 1 956.

VI. - GIUDIZIO. Queste ed altre immagini del futuro sono rampolli secolarizzati, figli per cosi dire illegittimi e mai legittimabili della speranza cristiana nel futuro. Ciò che, secondo la rivelazione cristiana, è forma trascendente

§ 293 A. TEMPORALITÀ-STORICITÀ DELL'UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

41

del futuro viene da esse promesso come stato finale entro il mondo e

la storia. Senza la rivelazione di una meta definitiva della storia tali visioni intramondane del futuro sarebbero difficilmente pensabili. Ma la vera e legittima speranza nel futuro è degenerata in esse in utopia e fanatismo. La convinzione di un progresso incessante non soltanto non viene con­ fermata, ma confutata dall'esperienza. Questa piuttosto indica che gli uomini distruggono se stessi. Già nel I 849 Donoso Cortes ha dichiarato : « L'umanità muove a grandi passi verso il destino sicuro del dispotismo ... Questo dispotismo svilupperà una forza di distruzione, che sarà piu grande e piu potente di tutto ciò che finora abbiamo esperimentato ». La dottrina di una meta definitiva intrarnondana della umanità sembra anzitutto essere sostenuta da un grande ottimismo. Ma poiché contrad­ dice all'esperienza umana, il suo ottimismo è illegittimo. Legittima è in esso la convinzione che il corso della storia umana non è privo di senso e di risultato. Esiste di fatto un compimento definitivo della storia, che tuttavia sta al di là di essa. Verso di esso il cristiano guarda con speranza. L'ottimismo intramondano è la morte di una simile speranza ; viceversa questa accoglie il vero postulato dell'ottimismo senza cadere nel suo fana­ tlsmo utopistico. D' altro lato la convinzione che non esiste una meta definitiva intra­ mondana della storia non rappresenta un pessimismo. Anzitutto infatti questa fede conosce una vera meta, alla quale guarda con misurato senso della realtà. Inoltre essa non dispensa dalla formazione intrastorica del mondo. Il cristiano non attribuisce durata definitiva alle strutture della vita politica, economica e sociale, ma sa di essere obbligato dal mandato di Dio ad impegnarsi !Jer esse. Anzi è persin convinto che le forme del mondo da lui prodotte, nonostante il loro carattere di caducità, continuano ad esistere in modo trasformato nel nuovo cielo e nella nuova terra, in quanto cioè Dio conserva il significato, che esse realizzano, nella crea­ zione da lui trasformata. L'errore fondamentale della fede nel progresso, non dimostrata da ;1essuna indagine scientifica, ma alimentata da un sentimento irrazionale, sta nella sua falsa antropologia. Essa disconosce il peccato originale del­ l'uomo e, sotto questo as?etto, ha un ottimismo ingiustificato delle possi­ bilità umane. D'altro lato essa disconosce la dignità unica che spetta ad ogni individuo a motivo della sua personalità ; sottovaluta quindi l'uomo, in quanto vede in esso soltanto un rr. ezzo per lo sviluppo storico generale. La sua concezione dell'uomo è quindi im?ersonale e collettivistica, mentre la concezione biblica della storia è nello stesso tempo universalistica e

42

P. I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

personalistica. Cfr. W. Zorn, Fortschrift, in Saeculum, 4, 195 3, 340-345. Di fronte alle esperienze che gli uomini fanno con la storia, si può ·comprendere come la convinzione di una mancanza di senso ultimo e di risultato assoluto della storia e del singolo uomo trovi molti seguaci (nihilismo). Anche queste due forme di nihilismo (relativo ed assoluto) sono figli degeneri della rivelazione cristiana. Il nihilismo è alimentato da due motivi cristiani, cioè dalla dottrina della creazione dal nulla e nello stesso tempo dalla minaccia di Dio, secondo cui i violatori del patto perdono la vera e propria esistenza ed incorrono nel giudizio, nella se­ conda morte. Soltanto là, dove esiste la concezione dell'origine delle cose dal nulla, può sorgere l'idea ed il desiderio che le cose possano ritornare nel nulla od essere ricondotte nel nulla. Riguardo al nihilismo assoluto occorre dire che Dio, e soltanto Dio, potrebbe far ricadere le cose nel nulla, e precisamente cessando dal con­ servarle (cfr. § 1 1 1 ). Tuttavia ci è stato assicurato che Dio non abban­ donerà le cose al nulla. Egli infatti ha prodotto l'universo affinché esista; perciò tutte le opere di Dio esisteranno in eterno, quantunque in forma mutata a partire dal giudizio universale. ar. § I l I . Rimane quindi assodato che i l legame al tempo ed alla storia, l a tem­ poralità e la storicità dell'uomo sono state riconosciute nella loro vera natura e nella loro ponata soltanto nell'ambito della rivelazione. Soltanto là, dove l'uomo ha acquistato una genuina conoscenza di sé, perché ha accettato la conoscenza di se stesso da Dio, creatore della natura umana, anche la temporalità e la storicità in quanto strutture fondamentali della natura umana, sono state comprese nel loro senso proprio. Tuttavia nella rivelazione soprannaturale l'uomo non viene soltanto a sapere di essere legato alla storia; ma la rivelazione stessa è un atto storico di Dio verso l'uomo. L'uomo non è soltanto creato da Dio come essere storico, ma la rivelazione, con cui l'uomo acquista certezza ri­ guardo a se stesso, crea a sua volta storia, in quanto avviene in un atto storico di Dio. Studieremo ora il carattere storico della rivelazione, che è fondamentale per comprendere la dottrina delle ultime cose. Infatti il Dio, che si rivela con un atto storico all'uomo, attua la storia da lui iniziata fino al suo termine ultimo, che porta nello stesso tempo il com­ pletam ento della sua autorivelazione e con ciò la realizzazione di tutto ciò che egli ha promesso. Cfr. Jean Daniélou, Saggio sul mistero della storia, Brescia 1 9 5 7 ; R. Guardini, Il Potere, Brescia 1954·

SEZIONE Il.

LA STORICITA' DELLA RIVELAZIONE COME CONDIZIONE DI UN FUTURO ULTIMO

CAPITOLO l. NOZIONI BASILARI

Depone a favore dello stretto rapporto tra rivelazione e storia il fatto che la storicità della rivelazione venne messa in dubbio allorché venne messa in dubbio la rivelazione stessa : nell'illuminismo, che fu ostile nello stesso tempo alla storia ed alla rivelazione. Le due ostilità si condi­ zionano a vicenda. L'illwninismo del sec. XVIII cercò di dissolvere il cristianesimo in verità razionali aventi valore universale. Nella contro­ versia religiosa con Goze, pastore capo di Amburgo, Lessing ha dichia­ rato : « Verità storiche fortuite non potranno mai diventare la prova di verità razionali necessarie » (K. Aner, Die Theologie der Lessingzeit, 1929). L'illuminismo lo si può intendere come il processo della ragione contro la storia (Windelband). Si può aggiungere : è anche il processo del sentimento e presentimento umani contro la storia (G. Miiller). Logi­ camente è anche il processo contro la rivelazione avvenuta a modo di un atto storico, anzi creatore della storia. Ph. Funk, Von der Aufkliirung zur Romantik, 1925. Già fin dal Rinascimento e dalla Riforma la storia venne sentita, in un senso formulato chiaramente soltanto dall'odierna filosofia esisten­ zialista, come un peso che si deve buttare, se si vuoi procedere con passo spedito. Il Rinascimento ha buttato il peso della storia medievale ed è risalito all'umano che credette realizzato nella grecità. La Riforma è risalita alla forma del cristianesimo antecedente al suo sviluppo storico nel periodo subapostolico, che secondo l'opinione di Lutero l'aveva svi-

P.

44

I.

-

ESCATOLOGIA GENERALI:l

sato. Si imparò a distinguere tra il cristianesimo come idea e la Chiesa come fenomeno storico. Quest'ultima, che si era formata nel corso dei secoli, fu rigettata ; la prima, che si credette di trovare nella Scrittura, fu accettata. Il tentativo piu radicale di alleggerimento storico fu com­ piuto dall'illuminismo, il quale non è risalito a prima di una determinata fase della storia, per rimanere poi attaccato ad un qualche stadio del suo corso, ma a prima di ogni storia. Esso volle scoprire l'uomo nella sua pura razionalità, com'è

in

se stessa, senza alcuno svisamento da parte di

realizzazioni storiche. In questo stato d'animo pose anche la questione dell'essenza del cristianesimo e credette di poterla vedere nel suo conte­ nuto razionale morale, nel suo nobile umanesimo. Conseguentemente tutto ciò che è storico, ecclesiastico, confessionale è rivestimento acci­ dentale e scompare con il progresso della cultura umana. Contro l'illuminismo i teologi della scuola cattolica di Tubinga (Mohler, Drey, Staudenmaier, Kuhn) hanno accentuato la storicità della rivela­ zione e del cristianesimo. Fu questa una impresa teologica di primo piano, anche se coloro che condussero la difficile battaglia non ne uscirono illesi da ferite. Per tutto il sec.

XIX la teologia cattolica poté costruire sulla Lebendiger Glaube aus geheiligter U berlieferung. Der Grundgedanke der Theologie Johann Adam Mohlers und der katholischen Tiibinger Schule, Mainz 1942; Idem, Geist des Christentums und der Katholizismus, Mainz 1940. base dei teologi Tubingesi. Cfr. ]. R. Geiselmann,

Ci sono naturalmente nel cristianesimo delle verità eterne, immutabili. aventi valore universale, però esse non sono verità razionali evidenti, ma si fondano su fatti storici. Hanno validità perché sono garantite dal Cristo storico, e non perché la ragione umana le comprende. I fatti riferiti nella Scrittura non sono rivestimenti catechetico-pedagogici, dai quali traspare il contenuto superiore ed eterno di verità ; ma sono i modi storici in cui Dio parla all'uomo ed agisce con l'uomo. Qui sta una differenza fondamentale tra la rivelazione cristiana e tutte le altre religioni. Al di fuori del cristianesimo, quando l'uomo si innalza al di sopra della vita quotidiana nella sfera del religioso, si tratta di una fuga dal mondo e dalla storia, con le sue vicende e tribolazioni, nel regno dello spirituale. Cosi è in Platone, in Platino, che parla della « fuga di solo a solo

»

(Enneade VI, 9, 11). Cosi è nella religione romana.

Cicerone ad es. ha classificato con grande minuziosità ed ampiezza le manifestazioni della provvidenza divina, ma non ha conosciuto il pen­ siero che Dio appaia negli avvenimenti e nei rapporti della storia. Cosi è soprattutto in India. Delle religioni indiane Soderblom, protestante sve-



293

A.

' TEMPORALIT À -STORICIT À DELL UOMO E DELLA RIVELAZ. SALVIFICA

de stesso, non com prendendo la sua propria storia creata da Dio. Chi stacca l'Antico Testamento da Cristo, lo deve intendere falsamente e ·Jervertire in un mito tra gli altri (2 Cor. 3, 1 3 ss.). Tutto ciò è compendiato in I Piet. I, I 0-1 2 : « Su questa salvezza : che è il fine della fede) hanno cercato e indagato i profeti, che pronun­ :::iarono i vaticini riguardanti la grazia a voi destinata. Essi indagavano quale tempo e quali circostanze indicasse lo spirito di Cristo che era in loro, quando preannunciava le sofferenze per il Cristo e le glorie conse­ guenti. Fu loro rivelato che, non per essi, ma per voi avevano il compito ii preannunciare quelle cose che adesso vi furono annunciate da chi vi :v-angelizzò per O!Jera dello Spirito Santo, mandato dal cielo ». c) Come le parole dell'Antico Testamento indicano Cristo, cosi ifam!, che profanò il tempio con il culto degli idoli e divinizzò se stesso. Eze­ chiele (28, 2) condanna il re di Tiro, orgoglioso allo stesso modo. Ma ile parole dell'Antico Testamento indicano, al di là del loro significato sto­ rico, il futuro. Esse trascendono se stesse perché, come tutto l'Antico Testamento, sono predizione. I re citati fanno ciò che nella storia si fa sem9re contro D io. L'uomo orgoglioso rifiuterà sempre di dare a Dio l'onore, e ricercherà il ororyrio onore. La storia sarà sem�re il camryo, in cui si combatte per la gloria Dei e la gloria mundi. Il capo di coloro che propugnano la gloria mundi è Satana. Egli agisce in tutti coloro che

§

296.

I SEGNI PRECURSORI DEL RITORNO DI CRISTO

odiano Dio e servono agli idoli, ma agisce nascostamente, di dietro le quinte. Egli può manifestarsi maggiormente nei potenti della terra, i quali, allorché si rivoltano conrro Dio, offrono a Satana una possibilità particolarmente favorevole per rovinare il mondo. c Troppo presto il re terreno dimentica di essere soltanto il rappresentante del re celeste e allora va oltre il mandato storico che Dio gli ha dato... Dimentica che le armi della politica sono impotenti contro le piu profonde e vere miserie del mondo umano e allora si presenta come re salvatore ed apportatore di salvezza e si chiama Sotér.. . Dimentica di essere un uomo soggetto a colpa, e di aver bisogno, per la sua azione politica, del perdono quotidiano e allora si fa celebrare come un dio ... Dimentica di essere un uomo soggetto alla morte, il cui lavoro politico porta sempre il carattere della transitorietà e allora sogna che la sua opera sarà imperitura ... Dimentica la gloria di Dio e gli contende l'onore... e allora la comu­ nità di coloro che danno l'onore soltanto a Dio è per lui uno scandalo e la perse­ guita con furia crescente : un contendente di Dio, un mostro diabolico... Quando la civitas terrena nella lotta con i demoni del caos soccombe al proprio demone, la funzione storica del potere dello stato si trasforma nel suo contrario : da bastione contro l'anticristo diventa la roccaforte dell'anticristo ... La civitas terrena diventa la civitas diaboli » (Stauffer). R. Guardini, Il Potere, Brescia 1954.

c) Quel che Paolo chiama « avversario », Giovanni lo chiama « anti­ cristo ». Questa parola manca in Paolo ; ma l'avversario da lui nominato svolge lo stesso ufficio dell'anticristo in Giovanni. L'anticristo attacca il cristianesimo nel suo centro : nega che Gesu sia il Cristo, il Messia, il Salvatore ( I Gv. 2, I 8 . 22; 4, 3 i 2 Gv. 7). Giovanni lo descrive come il seduttore del mondo, che promette agli uomini la salvezza da questo mondo, dalla sua ricchezza e dalla sua gloria. Egli lo vede già all'opera (I Gv. 4, 3 ; 2 Gv. 7). La sua attività è per il veggenre il segno che gli ultimi tempi sono giunti. Anzi, secondo Giovanni, sono già apparsi molti anticristi ( 1 Gv. 2, 1 8). Il mondo è pieno del messaggio e delle arti sedutrrici degli avversari di Cristo. Secondo la descrizione, che Giovanni fa dell'anticristo, bisogna ammet­ tere che egli non pensa anzitutto ad un avversario personale di Cristo, come fa Paolo, ma allo spirito anticristiano, ad una atmosfera anticri­ stiana, ad un senso anticristiano della vita. Egli ha di mira l'atteggiamento spirituale anticristiano di coloro che commettono il peccato contro lo Spirito Santo, che rigettano per princi?io e consapevolmente Cristo e la sua legge. Il peccato, che agisce in questo atteggiamento spirituale, giunge al suo pieno sviluppo nell'avversario predetto da Paolo. Giovanni vede incarnato l'anticristo nelle dottrine anticristiane. L' avversario individuale di Paolo raggiunge potenza collettiva.

P

1 68

l.

-

ESCATOLOGIA

GENERALE

Ciò che è detto nella seconda lettera ai Tessalonicesi dell'avver­ sario, e nelle lettere gioannee dell'anticristo, appare nella sua figura ultima e terribile nelle visioni, piene di terrori e di orrori, dell'Apocalisse di Giovanni. Il veggente cosi descrive le sue VISIOni

(12, r8 -

13,

1 8) :

«

Ed (esso) si fermò

sulla spiaggia del mare. E vidi dal mare salire una fiera, che aveva dieci corna e sette teste, e sulle sue corna dieci diademi, e sulle sue teste nomi blasfemi. E la fiera che vidi era simile a una pantera, e i suoi piedi come quelli dì un orso, e la sua bocca come la bocca di un leone. E il drago le diede la sua potenza e il suo trono e un'autorità grande. E vidi una delle sue teste come uccisa, colpita a mortl!j ma la sua ferita mortale fu guarita. E l'intera terra fu mossa d'ammirazione dietro la fiera; e adorarono il drago, perché diede l'autorità alla fiera, e adorarono la fiera di cen d o : chi è simile alla

fiera,

c

chi può guerreggiare contro di

essa? E fu data

alla fiera una bocca capace di proferire magniloquenze e bestemmie, e le fu data l'autorità di op erare per quarantadue mesi. E apri la sua bocca in bestemm1.e lanciate a Dio, bestemmiando il suo nome e la sua dimora, coloro che dimorano ne; cielo. E le fu dato di fare guerra contro i santi

e

di vincerli, e le fu dal a

autorità su ogni tribu, popolo, lingua e geme. E la adoreranno tutti gli abitami

sulla terra, dei quali non è scntto il nome nel libro della vita dell'agnello sgozzato,

fin dalla fondazione del mondo. Se qualcuno ha orecchio, ascolti. Se qualcuno è destinatO alla prigionia, va alla prigionia; se qualcuno deve essere ucciso di spada, bisogna che egli sia ucciso di spada. Qui

è

la perseveranza e la fede dei

santi. E vidi un'altra fiera che saliva dalla terra. E aveva due coma simili a queHe

di un agnello, e parlava come un drago. E l'autorità della prima fiera, la esercita tutta davanti ad essa: fiera, di cui

è

e

fa si che la terra

e

gli abitanti

in essa

adorino la prima

stata risanata la ferita monale. E fa portenti grandi, al punto che

fa anche scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini,

e

inganna gli

abitanti sulla terra mediante i portenti che le fu dato di fare davanti all11 fiera, dicendo agli abitanti sulla terra d1 fare un'immagine alla fiera che ha la ferita della spada e rivisse. E le fu dato

di

dare uno spirito all'immagine della fiera,

sicché l'immagine della fiera perfino parlasse e facesse che q uanti non adorasser·o l'immagine della fiera fossero uccisi. E fa si che: tutti, i piccoli ed i grandi, i ricchi ed i poveri, i liberi e gli schiavi, riceyano un marchio sulla loro mano destra o sulla loro fronte, e che nessuno possa comprare o vendere all' infuori di chi ha il marchio, che

è

il nome della fiera o il numero del suo nome

».

Nell'immagine delle due fiere Giovanni scorge, come noi vediamo in sogno avvenimenti importanti, l'anticristo ed il suo profeta, il suo teologo. Si può dire che nella visione accordata gli compaiono le forme primor­ diali del male, che l'uomo possiede nel profondo del suo proprio io come tipi di ciò che è contrario a Dio. Nella visione esse vengono in certo modo proiettate nella realtà esterna e possono rivestirsi di quelle imma­ gini, che egli ha attinto dall'Antico Testamento e dalla storia dei tempi.

§ 296.

l

SEGNI

PRECURSORI

DEL

RITORNO DI

CRISTO

169

Per tratteggiare le figure delle fiere gli offre infatti colori e linee impor­ tanti la descrizione, che del sovrano contrario a Dio viene presentata nel libro di Daniele (Dan. 7, 1 ss.). Inoltre nella sua visione troviamo elementi desunti dalle condizioni dell'impero romano, quantunque né l'impero romano, né un' altra potenza mondiale contraria a Dio siano simboleg­ giate dalle due fiere. Tuttavia i prototipi del male, esistenti nello stesso veggente, e gli elementi provenienti dalla sua fede e dai legami che lo univano al suo tempo, non bastano per spiegare le immagini del potere di Satana che egli ci presenta. L'elemento decisivo è la rivelazione di Dio, che si è ammantata della maniera umana ossia della mentalità dell'Apostolo. Le nozioni ed i modi di vedere, le forme e le immagini esistenti in lui, divennero il vaso in cui entrò la rivelazione di Dio, il mezzo con cui Dio gli notificò il senso ed il corso della storia, allo stesso modo che le figure del sogno diventano simboli e forme dei desideri o delle angosce che vivono nel cuore e nello spirito dell'uomo. Che cos'è rivelato nelle imma­ gini spaventose? La prima fiera che Giovanni vede salire dal mare, abisso di tutti gli orrori, è simbolo di un sovrano degli ultimi tempi, che con una forza e brutalità fino allora sconosciute, col massimo impiego di potenza mili­ tare e politica e di cultura o meglio di cultura apparente, conduce la lotta contro i cristiani e diventa fondatore di un regno che abbraccia tutti i popoli, in cui ogni manifestazione di culto a Dio viene repressa e viene imposto il culto divino del sovrano stesso con tutti i mezzi della men­ zogna e della violenza. Se l'anticristo viene visto nella figura di una fiera, in essa è simboleg­ giata nello stesso tempo la sua forza sovrumana ed il suo carattere infra­ umano. Per quel che concerne quest'ultimo, esso significa che l'uomo cessa di vivere in modo degno di lui, quando si stacca da Dio. « È l'antica verità, che l'umanità senza la divinità degenera in bestialità » . L'elemento sovrano appare visibile dinanzi agli occhi del veggente a poco a poco : la fiera emerge Lenta e spaventosa dai flutti. Porta i simboli della potenza, del dominio, della scienza. In modo sinistro e terrificante tutto in essa è portato ad un grado, che non ha né misura né forma. Le corna sono segni della forza e dell'aggressività irresistibili. Brama di dominio e sete di potere si concretizzano in lui alla massima potenza. È sintomatico che Giovanni non scorge una figura di fiera ricorrente nella nostra esperienza. La fiera è anzi rara e misteriosa, non è nessuna delle bestie a noi note ; porta in sé elementi di terrore di parecchie : la ferocia

I 70

P. I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

e la scaltrezza del leo?ardo, la pesante voracità dell'orso, la raryacità del leone, re del deserto, si uniscono in essa. L'insolente ribellione conuo tutto ciò che è santo si rivela già nella sua figura. Le iscrizioni sulle coron•!, probabilmente sui loro frontali, sono caricature megalomane della corona del sommo sacerdote e del Verbo divino sul cavallo bianco, che « porta molti diademi ed un nome che nessuno conosce all'infuori di lui » (Apoc. r9, r2). Nei nomi blasfemi si esprime il carattere empio della fiera, che pretende qualità e titoli, che spettano soltanto a Dio, sovrano universale. La fiera si ribella contro Dio, ma non per togliere la fede religiosa dal mondo ; conosce l'inestinguibile bisogno umano di Dio e ne tiene conto. Non intende quindi distruggere la fede religiosa, ma riferirla a se stessa. È un usurpatore : vuole avvolgere se stesso col nimbo del divino. La fiera è vassallo di Satana. Il drago le ba trasmesso i suoi pierù poteri. È luogotenente di Satana in terra. Di qui viene la sua potenza (cfr. Le. 4, 6 ; Giuda 9). Poco prima della visione delle fiere Giovanni aveva udito le grida rabbiose di Satana contro il popolo di Dio. Nel capitolo I 2 egli descrive la lotta del drago contro la donna celeste, la quale è immersa in uno splendore, come se si fosse posto sulle spalle il sole a guisa di mantello. Sotto i suoi piedi brilla la luna come a servirla. Attorno al capo brilla come diadema una corona lurr inosa di dodici stelle. Nuova vita nasc:e dal suo seno. Ma anch'essa sta sotto il giudizio divino, sotto cui stanno tutte le madri do!JO il primo peccato (Gen. 3, r 6). Le doglie della donna avvolta nello splendore celeste sono cosi dolorose, che la sua invocazione di aiuto attraversa l' universo e Giovanni la percepisce in terra. Chi è questa donna straordinaria? Si è pensato a Maria. In base al tenore dd testo Maria non può essere intesa direttamente, quantunque il passo le possa essere applicato in senso accomodatizio. Non converrebbe ad essa il fatto che il parto si verifica alla presenza dell'universo ed avviene tra grandi dolori. La donna quindi deve essere interpretata diversamente. Essa è simbolo del pooolo di Dio, da cui è nato il Messia, e quindi in primo luogo « Israele secondo la carne ». Il suo destino fu quello di donare al mondo il redentore; questa vocazione gli ba fruttato dolore e pena cosi grandi, quali le doglie di una madre (cfr. Gal. 4, 26). Con il poryolo di Dio dell'A ntico Testa!T'ento sta in rapporto strettissimo la Chiesa del Nuovo Testamento, che è il vero Israele. La donna nello splendore della gloria celeste simboleggia quindi anche la Chiesa. In quanto donna che sta per divenire madre rappresenta Israele, in quanto

§ 296.

I

SEGNI PRECURSORI

DEL RITORNO DI

CRISTO

171

donna perseguitata e fuggitiva rappresenta il popolo di Dio del Nuovo Testamento. Essa viene perseguitata dal grande drago rosso-fuoco. Nel mondo figu­ rativo di molti popoli la potenza ostile a Dio dei tempi primitivi e degli ultimi tempi viene simboleggiata come un drago, come un mostruoso serpente a piu teste. Il drago è l'immagine piu frequente, usata tredici volte per designare il demonio. Il colore rosso-fuoco indica la sua sede nel fuoco infernale, ma anche l'avidità di sangue dell'omicida fin da principio (Gv. 8, 44; I Gv. 3, 12). Egli è il principe millantatore di questo mondo, che cerca di imitare e di sorpassare i segni della sovranità di Dio e dell'agnello. In esso si rivela e si fa sentire il mistero orrendo della malvagità. Eretto come un serpente, egli sta dinanzi alla donna celeste per divorare il bambino non appena sia nato. Se questo gli riesce, allora il suo dominio mondiale è assicurato; se non gli riesce, allora è spacciato per sempre. È un momento di estrema tensione. La vittoria di Satana sembra essere inevitabile. Che cosa può fare la donna inerme contro la sua sinistra potenza? Come se, nella sua petulanza, volesse esibire una prova sensazionale della sua forza irresistibile, egli dimena attorno a sé la coda e spazza dal firmamento un terzo delle stelle e le scaglia a terra (cfr. Dan. 8, IO). Con ciò raggiunge ancora uno scopo secondario. Le stelle gli sono odiose perché sono dispensatrici di luce e segni dell'or­ dine cosmico. Ma Satana ama le tenebre ed il caos, è il pervertitore del mondo. Tuttavia avviene l'imprevisto : la vittoria non tocca a Satana. Il bambino viene rapito in cielo. Con ciò il veggente indica l'ascensione di Cristo. Ciò che sta tra la nascita e l'ascensione, non viene menzionato. Ciò ba la sua ragione : interessano soltanto le grandi linee. Dio ba per­ messo durante la vita terrena molti mali io Cristo, ma da ultimo Satana è rimasto il soccombente. Questo è il fatto decisivo. La vittoria di Dio contro il terribile assalto delle potenze infernali è assicurata. Nonostante l'opposizione del nemico, Cristo è giunto alla meta fissata da Dio. La furia di Satana si è ancora accresciuta per la sconfina. Egli ha la certezza che la sua potenza finirà presto del tutto. Finché gli è ancora permesso vuole combattere con estremo fanatismo. Fino a quel momento egli cerca di distruggere ciò che può essere distrutto. « E si adirò il drago contro la donna, e parti per fare guerra contro i rimanenti del suo seme che osservano i comandamenti di Dio e hanno la testimonianza di Gesu » (A�oc. 1 2, 1 7). Nella visione della fiera viene descritta la lotta del drago contro i crisùani. Esso ba trasmesso i suoi pieni poteri alla bestia emersa dal mare.

I 72

P.

I.

-

ESCATOLOGlA GENERALE

all'anticristo, il quale impegna tutta la sua forza e le sue doti contro Cristo ed i cristiani. Nulla per lui

è santo. Terribili risuonano

i discorsi

ingiuriosi contro il cielo ed i celesti. La fiera si scaglia contro tutti coloro i cui nomi stanno nell' anagrafe celeste, e quindi non appartengono a coloro che credono solamente nella terra e nel mondo. La fiera porta · guerra contro coloro che dall'ingiuria e dallo scherno non si lasciano distogliere da Cristo. L'inconcepibile

in

tal fatto

è

che Dio stesso con­

cede alla fiera una simile possibilità. Anzi avviene una cosa ancora piu inconcepibile : il sovrano nemico di Dio riporta vittoria sulla comunità di Dio. Dio glie lo permette. Sugli uomini lo sviluppo della potenza, il successo e le imprese cull­ turali della fiera agiscono come un incantesimo. Essi si prostrano e l'ado­ rano. La fiera pretende infatti onore divino, esige per sé ciò che appar­ tiene a Dio ed a Cristo. L' anticristo si spaccia per Dio e redentore, imita Cristo in tutto, cerca di scimmiottarlo persino nella sua morte e nella sua risurrezione. Come l'agnello sul trono porta ancora la ferita dell'im­ molazione (Apoc.

5, 6), come Cristo è morto e

tuttavia vive per turta l'eter­

nità (Apoc. I , I 8), cosi la fiera porta una ferita monale e non

di meno

ha vita. Essa suscita l'impressione di essersi sacrificata per la salvezza degli uomini fino alla immolazione della vita e dì aver vinto la morte. Che cosa ancora le si deve rifiutare? Ora l'anticristo, l'incaricato di Satana, la per­ fetta antitesi di Cristo, può rivendicare a sé tutto ciò che gli uomini, credenti nella morte e nella risurrezione di Cristo, hanno offerto finora al Signore. Gli abitanti della terra prorom:_Jono in inni e canti di lode alla fiera, ed orrenda risuona alle orecchie dd veggente l'inversione diabolica del grande canto biblico dì lode, con cui un giorno il popolo ha esaltato il Signore della storia : chi

è simile alla fiera e chi può con essa contelli­ è il

dere? (cfr. Es. I 5 , I I ; Sal. 8 9 [ 88], 7· g; I I 3 [ I I 2], 3). L'anticristo

signore del mondo, universalmente adorato. Per mezzo suo, Satana è il signore del mondo. L'adorazione tributata all'anticristo Satana (Sal.

96

[95], s ;

I

Cor.

I O, 20 ; Apoc.

9, 20).

è adorazione di Quantunque

il

demonio sia sempre all'opera per distruggere i disce7oli di Cristo o ?er indurii all'apostasia, tuttavia alla fine della storia avrà successi tali, che metteranno ai suoi piedi il mondo intero. . Segni precursori e simbolo di questo dominio universale l'Apocalisse di Giovanni,

l'uccisione dei due

«

testimoni

è, secondo » (I I , 3- I 3).

Prima della fine Dio offre ancora una volta al mondo orgoglioso la possi­ bilità di aprire gli occhi e dì convertirsi dalle tenebre alla luce e dal potere dì Satana a Dio, per ricevere, mediante la fede in Cristo, il perdono dei

§ 296.

l

SEGNI PRECURSORI DEL RITORNO DI CRISTO

1 73

peccati e la partecipazione tra i santi (Atti 26, 18). I testimoni, che ven­ gono introdotti nel cap. I I , hanno da Dio l'incarico di annunziare il mes­ saggio inviato in Cristo al mondo e di impegnare a tal fine la loro vita. Come Giovanni Battista venne prima della prima venuta di Cristo, per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti per mezzo suo giungessero alla fede (Gv. 1, 1 8), cosi prima della seconda venuta di Cristo compa­ riranno due testimoni, che dovranno preparare gli uomini all'avvenimento decisivo. Fin dal tempo di Malachia si attendevano questi testimoni prima della venuta del Messia. In questa attesa da prima non si fece distinzione tra la prima e la seconda venuta di Cristo (Deut. 1 8, 1 5 ; 3, 1 - 3. 23 ; Eccli. 48, 10 s. ; cfr. Mc. 6, 1 5 ; 8, 28; 9, u ; Mt. 1 1 , 10. 1 4). I due « te­ stimoni » sono due personalità inviate da Dio, e non la personificazione di due funzioni ecclesiastiche. Essi sono unti da Dio e lucerne celesti della verità. Il ramo d'ulivo della pace è nelle loro mani e la parola di Dio nella loro bocca. Essi stanno sotto la tutela del loro Signore celeste, perciò nessuna opposizione umana li può impedire dal compiere il loro mandato. Ma quand'esso è compiuto, Dio permette a Satana, al drago, di ucciderli. Essi muoiono per il loro messaggio; Dio permette la loro fine ed anche la profanazione dei loro cadaveri. La cosa piu obbrobriosa che, secondo l'opinione degli antichi, si possa fare ad un morto, Satana la fa ad essi : fa si che i loro cadaveri rimangano insepolti sulla strada o sulla piazza del mercato della « grande città ». Essi devono essere esposti al disprezzo di tutti. In questo dev'essere raffigurata la superiorità della potenza anti­ cristiana. Giovanni vede svolgersi l' uccisione e la profanazione dei testi­ moni, inviati da Dio, in Gerusalemme. Gerusalemme era il luogo dove piu potente si manifestava la presenza di Dio, e nello stesso tempo il luogo dell'odio piu sinistro contro Dio. Per Giovanni apostasia da Cristo equi­ vale ad occu?azione della città santa di Gerusalemme da parte dei nemici di Dio. Parimenti nella visione l'uccisione e profanazione dei testimoni di Dio significa per lui profanazione della città di Gerusalemme, in quanto luogo di una particolare presenza divina. Con ciò non è detto che questi avvenimenti, anche nel loro corso storico, si compiano a Gerusalemme. Coloro che credono nel mondo sono cosi felici della rovina dei testimoni di Dio, da prorompere in giubilo e da farsi reciDrocamente dei doni. È l'av­ venimento piu lieto che possa essere loro offerto. Infatti i testimoni di Dio erano per essi fonte continua di inquietudine e molestia. Ora i mon­ dani sono liberi dai perturbatori della quiete. Ora possono sentirsi cosi sicuri, come i capi di Gerusalemme allorché ebbero fatto prevalere presso Pilato la loro volontà, ed ebbero messo Cristo in croce. Tuttavia le cose

1 74

P.

L

-

ESCATOLOGIA GENERALE

vanno diversamente . Come ha fatto per il Figlio incarnato, cosi Dio risu­ sciterà a vita nuova e gloriosa anche i testimoni uccisi. I morti ritornano e sono piu potenti dei viventi che li hanno giustiziati. Coloro che sono asserviti alla terra si accorgono di aver sbagliato e cadono in una tremante angoscia. I testimoni di Cristo, risuscitati da Dio a nuova vita, non ripren­ dono piu la loro attività interrotta dalla morte : vengono rapiti dalla terra nella gloria di Dio. Cosi gli uccisori hanno ottenuto la tranquillità dinanzi al loro messaggio inquietante, ma nello stesso tempo banno suggellata la propria condanna. L' uccisione dei due testimoni è quindi preludio e simbolo della vittoria sui santi. Il trionfo delle potenze di Satana dopo questa vittoria sembra completo e definitivo. La donna celeste, il popolo di Dio, è fuggito nel deserto (Apoc. I 2, 6. I 4). Il santuario è assediato tutto attorno dai pagani (Apoc. I I , 2). Tuttavia l'apostasia e la distruzione non sono complete : rimane una piccola comunità di persone che adorano il Padre in spirito e verità (Gv. 4, 23 ). Essa viene conservata per la vittoria dell'agnello (Apoc. I I , I s. 3 ss.). La vita pubblica è dominata dall'adorazione dell'an­ ticristo ; l'adorazione del vero Dio ne è sparita. Ma ciò nonostante essa continua ancora a compiersi. I cristiani sentono ciò che Dio ha fatto annun­ ziare nell'Antico Testamento dal profeta Geremia (I5, 2) : « Se ti do­ manderanno : dove andremo?, dirai loro : cosi dice J ahvè : chi è destinato alla peste, alla peste, chi è destinato alla spada, alla spada, chi è destinato alla fame, alla fame, chi è destinato alla schiavitu, alla schiaviru ». Allora sembrerà che Dio stesso, nella lotta che i suoi conducono per amor suo, stia dalla parte dei nemici; ma quando giungerà l'ora da lui stabilita, egli condurrà i suoi alla vittoria. Si tratta di perseverare sino a quel momento. Nella quiete e nella fiducia sta la forza (Is. 30, I 5). Alle violenze della prima fiera si aggiunge l'attività redutatrice della seconda. « Se quindi la prima fiera rappresenta l'anticristo come un so­ vrano degli ultimi tempi, come incarnazione diabolica, come portatore di ogni potere statale ostile a Dio, come il piu diabolico di tutti i perse­ cutori del regno di Dio, nella fiera che viene dalla terra si aggiunge una figura di profeta, una personalità che è la quintessenza, il rappresentante diabolico della cultura spirituale ostile a Dio ed odiatrice di Cristo, ban­ ditore di una religione di stato non piu legata ad un Dio personale, ma al servizio esclusivo dell'anticristo. Gesti aveva oarlato di una molte1Jlicità di falsi cristi e di falsi profeti (Mc. q, 22). Come nell'anticristo si con­ giungono gli attributi delle diverse e fallaci figure precedenti di libera­ tori e potenze nemiche, cosi in questa fiera della terra si congiungono le

§ 296. I SEGNI PRECURSORI DEL RITORNO DI CRISTO

1 75

caratteristiche dei falsi profeti. La fiera appare come un agnello ; ma non appena apre bocca si nota che non è un agnello, ma un dragone. Essa è caratterizzata dalla contraddizione tra essere e sembrare. La sua natura

il padre 8, 22). La propaganda, che le è affidata, contro

piu intima è insincerità. Essa è strettamente imparentata con della menzogna (Gv.

Cristo ed i discepoli di Cristo ed a favore dello pseudo-cristo, essa la svolge in modo da conservare parole e simboli cristiani, ma da riempirli con un nuovo contenuto ostile a Cristo. Essa continua a parlare di Dio e della redenzione, ma versa nelle parole, familiari al mondo, il nuovo conte­ nuto satanico. Cosi la grande massa non nota

il mutamento, perché i reci­

pienti, che le vengono offerti, sono rimasti gli stessi. Con ciò la seduzione dalla verità alla menzogna riesce tanto meglio. Come Cristo ha costituito

il segno (Le. 24, 1 9 ; Mc. 2-4; Atti 7, 22), cosi il profeta menzognero sedurrà il mondo mediante la pa­ rola e mediante il segno. Egli opera miracoli apparenti. Le masse, bra­ il regno del vero Dio con la parola e con

mose di miracoli ed avide di sensazioni, hanno il fatto loro. Egli non respinge beffardamente, come superstizione, la fede nei miracoli; ma anzi ne abusa. Fa piovere persino fuoco dal cielo. L'alto livello delle sue cono­ scenze naturali e della sua capacità tecnica gli vengono in aiuto a tal fine.

il suo messaggio. Chi può ancora il fuoco celeste, il lampo, obbedisce alla sua

Cosi egli legittima il suo dominio ed dubitare di lui, se persino

parola? La cristianità, per la quale non cade piu lampo dal cielo, ma soffre indifesa e muore inerme, sembra essere confutata

».

L a propaganda ha successo. Il propagandista f a persino erigere un'im­ magine cultuale, che dev'essere un segno della potenza e della presenza continue del sovrano del mondo anticristiano. Secondo un'idea molto dif­ fusa nel periodo ellenistico, nell'immagine cultuale è presente lo stesso dio o sovrano, che essa rappresenta. Chi rifiuta l'adorazione, viene an­ nientato ; non ha piu diritto di vivere nella comunità degli adoratori della fiera : o viene economicamente boicottato, oppure viene ucciso. I pagani possono domandare con scherno : dov'è dono :

«

il loro Dio? E se i cristiani rispon­

Il nostro Dio è nei cieli, tutto ciò che volle creò. I loro idoli sono

argento e oro, fattura di mani d'uomo. Hanno bocca ma non parlano. Hanno occhi ma non vedono. Hanno orecchi ma non odono... non par­ lano con le loro gole » (Sal. I I 5 [ I I J] , 3-7), i pagani possono dire che questo Dio sembra stare dalla loro parte, poiché dona loro il successo. Gli adoratori dell'anticristo professano il loro falso dio mediante un segno esterno. Chi non porta

il segno, si rivela con ciò come nemico del culto

pubblico. È soppressa la possibilità della neutralità. Nessuno può spa-

P.

I.

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ESCATOLOGIA GENERALE

rire od eclissarsi nella massa. Chi manca del segno sulla fronte o sulla mano destra, si tradisce come uno che sta fuori della religione totalitaria di stato e della comunità totalitaria anticristiana. Gli orrori descritti nell'Apocalisse di Giovanni non mancano mai del tutto nella storia del cristianesimo. Ma quand'essa si avvicinerà alla fine, tali orrori raggiungeranno per i cristiani un'esasperazione senza precedenti. I fronti si delineeranno con tale chiarezza, che nessuno potrà rimanere fuori dalla lotta. Non ci sarà possibilità di fuga : nessuno potrà emigrare. Quando si sarà giunti al punto che nessuno potrà piu condurre una vita nascosta fuori della lotta, ma di ognuno sarà manifesto a quale gruppo appartiene, allora la venuta del Signore non sarà piu lontana. Concludendo possiamo dire : l'anticristo cercherà di creare un nuovo ordine del mondo senza Cristo, anzi nella lotta piu violenta contro di lui. Egli è una figura politica, è il dittatore dell'umanità raccolta in un'organiz­ zazione totalitaria. Nello stesso tempo è un rivoluzionario religioso. L'an­ ticristo ed il suo teologo, forniti di conoscenza e di una potenza straor­ dinarie, cercheranno con successo di dimostrare che Cristo è il nemico principale dell'umanità. L'anticristo trasfigurerà in senso religioso se stesso e la sua opera, fondando un nuovo mito, una nuova religione natu­ rale. Alla fine dei giorni quindi ci sarà fede contro fede. Lo scandalo sarà quasi insuperabile. All'incanto della potenza satanica superterrena soccomberanno tutti coloro ai quali Dio stesso non apre gli occhi e for­ tifica il cuore. Questi però percorreranno l'ultimo e sanguinoso corso finale della storia con calma, pace e sicurezza, con pazienza e fedeltà. Quando il numero dei martiri sarà comoleto, Cristo ap!;)arirà (Apoc. 6, 1 1). L'anti­ cristo può quindi accelerare la venuta del vero Cristo con le persecuzioni dei cristiani ; il demonio può influire sulla durata della storia del mondo. I piu intendono l'anticristo come una persona singola concreta. Questa concezione si muove nella cornice della concezione generale della storia della salvezza. Rientra infatti nella « struttura fondamentale » di questa, che essa sia portata da singole personalità storiche e che anche i suoi avver­ sari siano personalità singole. Rientra parimenti nel suo corso che la lotta tra i portatori della storia della salvezza e quelli della storia della rovina diventi tanto piu aspra ed inesorabile, quanto piu si avvicina il momento del ritorno di Cristo. Si contraddirebbe a questo carattere della storia della salvezza, se si ritenesse l'anticristo come una figura mitologica. D'altro lato l'anticristo è esponente e promotore terroristico dello s1Jirito anticristiano, che a sua volta è portato da numerosi uomini singoli. Questi possono essere designati in senso largo come anticristi.

§ 296.

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SEGNI PRECURSORI DEL RITORNO DI CRISTO

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Non torna facile identificare con ì'anticristo predetto una precisa figura politica che spicca nella storia. La concentrazione in una sola mano, soprat­ tutto nella mano di un tiranno, di poteri eminenti, raccomanda tuttavia la sup�osizione che in lui si realizzi la profezia. Quanto piu il mondo intero si raccoglie e si organizza in una potente formazione unitaria, tanto piu diviene probabile che l'uomo di stato che la domina compia la fun­ zione dell'anticristo. Quantunque la concentrazione del potere non sia cattiva in se stessa, ma possa anche essere usata in bene, offre non di meno una grande possibilità di esercitare il dominio del mondo in senso anticri­ stiano. Nelle previsioni, che in tempi recentissimi vengono fatte sovente circa la venuta dell'anticristo, appare sempre la convinzione che egli sarà il sovrano universale. La sua comparsa presu.,�one sistemi totalitari. Oggi quindi le condizioni per l'anticristo sono in certo modo sostanzialmente piu favorevoli che non nei tempi passati. Alla metà del secolo scorso Donoso Cortes diceva con visione profetica : « L'umanità già si affretta a grandi passi verso il destino sicuro del despotismo... Questo despotismo acquisterà una potenza che confina con il gigantesco . . . Svilupperà una forza di distruzione, che supera tutto quanto abbiamo visto finora... Oggi sono spianate le vie ad un dominio tirannico di entità gigantesca, di dimen­ sioni colossali, mostruose, universali » (Discorso sulla dittatura del 4 gen­ naio 1 849). Quanto piu il dominio sul mondo si concentra, tanto piu chiaramente è da prendere in considerazione la possibilità della presenza dell'anticristo; ciò non di meno non possiamo designare con certezza assoluta una deter­ minata personalità come anticristo. Infatti in nessun momento è possibile prevedere se il futuro non apportera concentrazioni ancora piu forti e ter­ ribili. Soltanto quando giungerà la fine, si potrà dire con certezza, guar­ dando indietro, chi è stato l'anticristo. Si potrà tuttavia affermare che egli ha i suoi precursori e questi si potranno vedere nelle grandi figure poli­ tiche anticristiane. Il cristiano non sarà del tutto sorpreso da nessuna di esse, poiché sa dalla Sacra Scrittura che esse verranno. Su di esse la Chiesa può e deve richiamare l'attenzione, da esse deve mettere in guardia e le deve combattere. Aggiungiamo ancora che il pensiero dell'anticristo ha perso nel Medio Evo il suo valore escatologico, allorché si formò l'idea che l'anticristo non sia una figura del futuro, ma del presente, e lo si identificò in determinate personalità dello stato o della Chiesa. Il pensiero dell'anticristo divenne in tal modo un mezzo di polemica e perdette la sua serietà. Dopo che già gli amatriciani verso il 1 200 avevano identificato il papato con l'anticristo,

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ESCATOLOGIA GENERALE

sotto l'influsso della filosofia e teologia della storia di Gioachino da Fiore il papato o la Chiesa romana venne combattuta come l'anticristo dai frati­ celli (Pietro Giovanni Olivi, Angelo da Oareno). Questa tesi venne ripresa da Wycliff e da Hus. Con estrema passionalità Lutero, specialmente dopo il 1 522, ba soste­ nuto l'opinione che il Papa fosse l'anticristo, perché avrebbe falsato il Vangelo e posto la propria autorità al di sopra della parola di Dio. Mentre la spiegazione luterana del papato venne usata come arma importantissima nella lotta confessionale del periodo della Riforma, soprattutto dai centu­ riatori di Magdeburgo (Flacius), nel neoluteranesimo la identificazione si è mitigata nel senso che nel papato si vede un precursore dell'anticristo. La teologia controversistica cattolica si è tenuta lontana dalla tesi che Lutero fosse l'anticristo; tuttavia lo ha designato quale suo precursore. Il pietismo considera come anticristo ogni rigida organizzazione ecclesia­ stica. Cfr. H. Tiichle, Antichrist, in Lex. f. Theol. u. Kirche, 2 ed. 1 957, 636-638.

ART. IV. - CONDIZIONI CAOTICHE NEL MONDO

L'anticristo cerca di creare un ordinamento politico, economico e reli­ gioso unitario, che abbracci tutto il mondo. Tuttavia, per quanto gli uo­ mini da prima salutino con giubilo, quasi senza eccezione, il programma « un solo stato, una sola economia, una sola religione », devono presto sperimentare che l'ordinamento dell'anticristo è uno pseudo-ordinamento, che porta in sé il germe del terrore e del disordine (dr. WL Soloviev, L'avvento dell'anticristo, trad. di A. Asnaghi, 1 95 1 , Milano). L'anticristo non si serve del potere in lui accentrato per edificare, ma per distruggere. Come la ribellione dell'uomo all'inizio della sua storia si è dimostrato nemico della vita, cosi il potere mondiale anticristiano, che si formerà prima della venuta di Cristo, provocherà la piu funesta distru­ zione del mondo. Esso non è in grado di trovare e di creare l'ordine a cui aspira, libero da Dio, non piu a servizio dell'onore di Dio, ma soltanto dell'onore dell'uomo, da stabilirsi non in nome di Dio, ma in nome del mondo, in suo proprio nome (Gv. 5, 43) ; che anzi chiama il caos. L'anticristo, che promette al mondo una gloria antidivina, non gli ap?orta il paradiso ; ne diviene il becchino. E come potrebbe essere diversamente? L'anticristo è infatti il luogotenente di colui che rovina ed inganna il mondo (Apoc. Io, u; Didaché, 16, 4). L'avversario mette in moto con-

§ 296.

I

SEGNI

PRECURSORI

DEL RITORNO DI

CRISTO

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tro la comunità di Cristo le potenze nemiche della creazione : guerra, morte, fame. Ma le forze del caos da lui chiamate si rivolgono contro di lui. Il mondo formato dall'anticristo è votato all'autodistruzione. In tal modo peste, fame e guerra, terremoti e grandine, epidemie, morte e tormenti appartengono ai segni precursori della venuta di Cristo. Tribolazioni ci saranno sempre, ma quando la storia giungerà al punto morto, per modo che gli uomini non vedranno piu via di scampo e si irrigidiranno nella disperazione, allora verrà il Figlio dell'uomo. Nei suoi discorsi sul giudizio Cristo ha predetto la tribolazione ventura in grandi immagini, in cui si serve sovente delle idee apocalittiche con­ tem1Joranee. Abbiamo citato precedentemente i testi (cfr. § 295, cap. 5). In modo particolare la fine del mondo diviene evidente e nello stesso tempo viene operata dalla morte di Gesu Cristo. Poiché Cristo è il secondo Adamo (I Cor. 5, 45), la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione hanno importanza decisiva per l'intera creazione. Cristo ha posto per l'umanità e per il cosmo un nuovo inizio e nello stesso tempo un termine alla forma precedente. La sua morte ha fatto vedere e confermato che la creazione è ìneluttabilmente votata alla morte. Se lo stesso Figlio di Dio, nella natura umana da lui assunta, formata dalla materia della terra votata alla maledizione, ha dovuto piegarsi al destino della morte, non esiste per la creazione alcuna speranza di poter sfuggire a tale destino. Con la croce, anzi, questo destino venne nuovamente sug­ gellato e nella croce di Cristo rivelò la sua ultima validità e la sua serietà insopprimibile. Do'!)o che la croce di Cristo venne eretta nel mondo, la caducità del mondo aupare ancora piu di prima quale elemento strutturale insoupri­ mibile della creazione. « Il mondo passa » ( r Cor. 7, 3 1 ). La croce di Cristo è quel centro del mondo che attrae in sé, pezzo per pezzo, tutta la realtà. Espressione di questa situazione è ogni rovina. Nella distruzione di città e di case, nel crollo di paesi e di regni si manifesta nuovamente e sem1Jre che il mondo sta sotto la legge del Golgota. Il coruo morente di Cristo si delinea nella rovina, cui sono votate le cose di questo mondo. Cosi dalla croce di Cristo viene in definitiva condannato a fallire ogni tentativo del mondo di acquistare la sua forma definitiva in virtu delle sue forze immanenti. Il mondo esiste nello stato di decadenza; è una realtà in dissoluzione. Si comprende quindi come le lettere degli apostoli parlino dell'immi­ nente crollo della creazione, addirittura come di un evento naturale del

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ESCATOLOGI A GENERALE

futuro. Esse accentuano con questo il rapporto che esiste tra la caducità dell'uomo e la caducità del mondo materiale. Secondo la descrizione della Scrittura l'uomo è responsabile della creazione; questa partecipa al destino dell'uomo, poiché l'uomo è il pensiero primo e principale di Dio; tutto il resto è stato escogitato e creato da Dio per amore dell'uomo. Cfr. la dottrina della creazione. Questa situazione è attestata chiarissimamente da Paolo, il quale scrive ai Romani (8, 18-22) : « Ritengo, infatti, che le sofferenze del tempo pre­ sente non reggono il confronto con la gloria che dovrà manifestarsi in noi. La stessa intera creazione anela, in ansiosa attesa, alla manifestazione glo­ riosa dei figli di Dio; quella creazione che è stata sottomessa alla vanità non perché l'abbia voluto lei, ma per volontà di colui che l'ha sottomessa; sostenuta tuttavia dalla speranza che essa pure, la creazione, verrà affran­ cata dalla schiavitu della corruzione per partecipare alla libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta la creazione fino al momento presente geme e soffre i dolori del parto » . Come abbiam visto nella dottrina della creazione, alla creatura fuori dell'uomo non è stata promessa la libertà dalla morte. Ma prima dell'abuso della creazione da parte dell'uomo la morte aveva, per il mondo all'in­ fuori dell'uomo, un altro significato. Era il modo in cui una cosa, con naturale dedizione, serviva all'altra fmo al consumo della propria natura e vita. Per il peccato invece venne introdotta nella creazione quella morte che è una similitudine del peccato e che quindi, per l'occhio superficiale ed ignaro del peccato dell'uomo, non ha senso (Rom. 5 , 1 2). La caducità è rappresentativa della creazione. L'occhio dell'uomo, dovunque si posi, incontra caducità e decomposizione. La creazione non può accordare e non può rappresentare simbolicamente la vita futura della gloria. Ciò che essa può produrre è vita votata alla morte. Anche il suo servizio di morte la creazione lo presta all'uomo soltanto riluttante. Un giorno il destino di morte si compirà in modo radicale nella stessa creazione. Nello stesso tempo, secondo il comando di Dio, essa completerà il servizio della corruzione, che presta all'uomo, nella distruzione cui lo abbandona per la sua empietà (Apoc. 6; 8 ; 9 ; 1 1 ; 1 5 ; 1 6). Poiché è per il peccato che il destino di corruzione della creazione è stato inasprito, ciò costituisce per il mondo uno stato alieno dalla sua natura. Paolo sente addirittura la creazione gemere sotto questo stato. Avverte che la creazione desidera di esserne liberata. Poiché l'uomo è il centro decisivo del mondo, il desiderio della creazione di essere liberata diventa un desiderio della liberazione dell'uomo. L'uomo, se non sentisse

§ 296.

I

SEGNI

PRECURSORI

DEL

RITORNO

DI

CRISTO

IRI

il lamento della natura, se vole:>se S}liegarlo solo scientificamente, non sol­

tanto dimostrerebbe una mancanza di sensibilità, ma farebbe torto alla natura e verrebbe meno alla propria responsabilità nei suoi confronti. Secondo l'Apocalisse di Giovanni viene il momento in cui cielo e terra fuggono dalla presenza dell'uomo verso la rovina (Apoc. 20, I I ). Giovanni vede scomparire il loro modo attuale di essere, la forma di esistenza della nostra esperienza. Nel nuovo secolo non se ne può scorgere piu nulla. Le « prime » cose passano (Apoc. 2 1 , 4- r). La testimonianza della Sacra Scrittura circa la rovina del mondo viene intesa rettamente soltanto se la rovina viene considerata come processo di trasformazione, come doglie di parto (Rom. 8, 22) per una nuova forma della creazione. Ciò è chiaramente espresso nei testi finora citati ed ap ­

pare particolarmente in una frase della seconda lettera di Pietro, dove si dice (3, 10- 1 3) : « I cieli svaniranno in un sibilo, gli elementi si dissolve­ ranno in un terribile calore e la terra, con le opere che racchiude, sarà esplorata. E allora, poiché tutte queste cose devono dissolversi, quali non dovete essere voi per la santità della condotta e della pietà, mentre aspet­ tate e affrettate la venuta del giorno di Dio, per cui i cieli incendiati si dissolveranno e gli elementi si fonderanno nel calore ardente! Secondo la sua promessa noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abita giustizia » . L'Apocalisse di Giovanni continua l a predizione d i Cristo in terrifi­ canti visioni. Le « prime » cose passano (Apoc. 2 1 , 4 · 1). Nei simboli dei quattro cavalieri (Apoc. 6, r-8) si presentano le miserie ed i malanni che appartengono al periodo salvifico messianico, nel quale le forze della morte e del demonio sono bensi esautorate, ma non ancora distrutte. Il veggente scorge che nessuna disgrazia può irrompere sulla terra, se non chiamata da Dio. Il primo cavaliere siede su un cavallo bianco e passa di vittoria in vit­ toria. È il simbolo dell'imperialismo e del rnilitarismo. Egli fa guerra per amore della guerra, per soddisfare la sua brama di potenza, per asservire i popoli, per dominare il mondo. Al secondo cavaliere che siede su un cavallo rosso-fuoco è dato potere di togliere la pace dalla terra. Divampa la lotta di tutti contro tutti. Gli uomini infuriano l'un contro l'altro in una guerra civile. A questi due segue il cavaliere sul cavallo nero, che porta carestia e fame. Il quarto cavallo di color pallido, verdastro, porta il cavaliere peggiore : la morte. Egli tiene trionfante la sua messe. quando una quarta parte della terra viene trasformata in un campo di

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cadaveri (Apoc.

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ESCATOLOGIA GENERALE

6, 8). I quattro cavalieri stanno al servizio del sovrano

universale, che li chiama e li licenzia ; sono precursori del suo giudizio finale.

Ai portatori storici di sciagure si associano le forze malefiche della na­ tura, che sono segni precursori, ma anche già inizio della fine del mondo. Cristo le ha predette e Giovanni ne vede l'attuazione. Dagli assalti delle forze della natura, dai terremoti, dalle tempeste, dai mutamenti

in cielo

e sulla terra gli uomini vengono spinti ad un terrore cosi paralizzante, che della sicurezza di sé, con cui credevano di non aver bisogno di nulla, non rimane neppure piu l'ombra. L'angoscia li rende tutti uguali, dal re allo schiavo.

I detentori del potere politico ed economico, militare e so­

ciale saranno cosi impotenti come i piccoli ed i poveri.

«

E i re della

terra e i maggiorenti e i capi militari e i ricchi e i forti ed ogni uomo, schiavo e libero, si nascosero nelle caverne e nelle rupi dei monti, e di­ cono ai monti e alle rupi : cadete su di noi e nascondeteci dal cos:,Jetto di colui che siede sul trono e dall'ira dell'agnello, poiché giorno grande della loro ira, e chi può reggersi? calamità

»

(Apoc.

è venuto il 6, I 5 s.). La

è cosi grave che i peccator� fino allora fanfaroni e presuntuosi,

si nascondono nelle caverne e negli anfratti delle rocce come la belva scovata e preferirebbero essere seppelliti dai massi che non essere chiamati dinanzi al tribunale di Dio. Essi sentono che nelle catastrofi naturali, che si sfogano su di essi, parla a loro Dio, quel Dio che come un agnello

è

stato condotto al macello ed è stato ricoperto di beffe e di scherni e fu impotente, perché volle esserlo, ma ora si manifesta nella sua ira che sfra­ cella i nemici (Le. 1 9, 2 7 ). La rovina verrà da tutti gli elementi che servono alla vita dell'uomo. Terra e mare, flutù, onde, stelle, acqua, fuoco, ferro diventano organi del giudizio divino (Apoc. 8, 7- 1 2 ; 9, r-19). Particolarmente significativo

è il fatto che sono distrutti gli alberi, perché ad essi è congiunta la spe­ ranza nella vita, di modo che la loro scomparsa suggella lo slJegnersi della speranza (cfr. il racconto del paradtso circa l'albero della vita e la para­ bola di Cristo della vite). Per sfuggire ai tormenti terribili gli uomini cer­ cheranno la morte, ma questa fuggirà da loro. Colui che in definitiva fa tutto questo agli uomini

è il orincirye dell'in­

ferno, che tiene la chiave dell'abisso. A lui si sono obbligati gli uomini, allorché si sono sottratti alla sovranità di Dio. Egli esercita su coloro che gli sono soggetti una tirannia tonnentosa. Ma anch'egli

è strumento di

Dio, che prima della fine della loro storia vuole portare gli uomini alla conversione ed alla mutazione dei sentimenti. Ma per quanto i giudizi

§ 296. I

SEGNI

PRECURSORI

DEL

RITORNO DI

CRISTO

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di Dio incutano agli uomini angoscia e spavento, non raggiungono tuttavia la conversione intesa ; che anzi gli uomini si induriscono sempre piu nella loro ostinazione. Essi preferiscono la vita orgogliosa, empia, all'adorazione del Dio vivente e ne hanno in compenso il tormento che è peggiore della morte (Apoc. 9, 20 s.). Il mistero del peccato si rivela qui nella sua abis­ sale inconcepibilità. Invece di riconoscere i giusti giudizi di Dio, gli uomini si ribellano con rabbia contro Dio. Avevano creduto di poterlo ignorare e disprezzare senz'essere puniti ed ora sono furenti, perché Dio non si lascia beffare. Ma il loro strepito è il grido degli impotenti (Sal. 2, 4) .

CAPITOLO Il. PORTATA

DEI

SEGNI

La rivelazione attesta che la seconda venuta dì Cristo sarà preceduta dagli eventi descritti. Ma non ci ammaestra circa il tempo che trascor­ rerà tra essi ed il ritorno di Cristo. Ancor meno essa ci pone in grado di dichiarare con certezza infallibile che la profezia di Cristo si è realizzata in un determinato stato del mondo. In un certo senso le predizioni fatte da Cristo si manifestano in ogni generazione. Perciò i primi cristiani, in base alle loro esperienze storiche, hanno potuto ritenere come imminente il ritorno di Cristo; parimenti i cristiani al termine del primo millennio e quelli del sec. XVI ed ancora dei giorni nostri. Ogni generazione può pen­ sare che i segni precursori siano realizzati al suo tempo. Ma sarebbe un principio temerario il voler determinare in modo categorico che il proprio tempo è quello predetto da Cristo. Nonostante i segni predetti il giorno del Signore rimane nascosto. Esso sopravverrà inaspettatamente, cosi come la prima venuta di Cristo, nonostante le profezie dell'Antico Testamento, ha colto di sorpresa i contemporanei. Ma nello stesso tempo apparirà come il giorno a lungo atteso, per modo che i cristiani non ne saranno spa­ ventati, ma sentiranno anzi realizzate in esso quelle speranze che sono sempre vissute, parte consapevolmente, parte inconsapevolmente, nei loro cuori. Né per questa loro incertezza i segni precursori vengono svalutati. Per chi accoglie con la fede la parola del Signore, essi sono inviti a continua vigilanza; ricordano che il Signore può venire ad ogni ora e quindi il tempo dev'essere tesaurizzato. Benché la venuta di Cristo abbia già tar­ dato duemila anni, non c'è tuttavia garanzia alcuna che il mondo perduri ancora per incalcolabili millenni. I segni, attinti e intesi nella fede, inse­ gnano a guardare gli avvenimenti del mondo alla luce del Cristo venturo.

§ 296. I SEGNI PRECURSORI DEL RITORNO DI CRISTO

I85

Essi scongiurano il pericolo di vivere troppo sicuri e tranquilli nel mondo con la sua cultura e di confidare in un progresso perpetuo, di considerare le catastrofi soltanto come disgrazie passeggere e di relegare la venuta del Signore ai margini della coscienza, come una possibilità lontana ed inde­ terminata. Anche se possiamo pensare che il tempo della umanità redenta non abbracci soltanto due millenni dal momento che il tempo dell'uma­ nità non redenta è durato decine di migliaia di anni, e che quindi la Chiesa forse esca appena dalla sua infanzia, tuttavia ci è richiesto di stare sempre pronti. Il ritorno del Signore implica il compimento finale della creazione, e questo a sua volta è un evento corporale e collettivo (non collettivistico) ed uno stato che ne fluisce. La creazione sarà perfetta soltanto quando sarà conformata al suo capo. Ma ciò implica trasfigurazione corporea ed unione di tutti i beati. Nessuno quindi, prima della risurrezione dei morti e del perfezionamento di tutti i predestinati, vive nella pienezza e beati­ tudine definitiva.

§ 297. La risurrezione dei morti : sua realtà.

CAPITOLO UNICO LA

RISURREZIONE:

VERITA'

DI

FEDE

E

TESTIMONIANZE

I. - LA RISURREZIONE COME VERITÀ DI FEDE.

La morte significa la fine irrevocabile dell'esistenza temporale-storica dell'uomo. Essa ha importanza trasformatrice non soltanto per il corpo, ma anche per l'anima; libera, è vero, l'anima dal peso della materia, ma non si soddisferebbe alla concezione cristiana della morte, se si vedesse in essa soltanto la liberazione dello spirito da una prigione. Tali conce·­ zioni hanno la loro patria nel campo extracristiano (dr. § 1 30). Nella concezione cristiana la morte è la conclusione definitiva della forma di vita temporale e spaziale di tutto l'uomo fisico-psichico. Quantunque l'anima non si decomponga come il corpo, ma sopravviva, non di meno anch'essa passa attraverso ad una profonda trasformazione. È un mistero impenetrabile come l'anima capace del corpo, anzi ordinata al corpo, nossa sopravvivere senza di esso. Lo si può comprendere solo ammettendo un particolare intervento di Dio (cfr. § 127). Tuttavia la morte, per quanto costituisca una dura fine, da cui non c'è possibilità di ritorno, è nello stesso tempo l'inizio di una nuova forma di vita. Con la morte incomincia l'« altra vita ». Questa, nella sua essenza piu intima, non è soltanto una vita dello S!)irito, ma dell'uomo tutto in­ tero, costituito di corpo e di anima. Il corpo viene assunto nella nuova forma di esistenza. Nel periodo intermedio, in cui l'anima trasformata esi­ ste senza il corpo, essa non ha ancora la sua perfezione nella forma e maturazione definitiva. Il vertice della perfezione si raggiunge soltanto quando l'intero uomo partecipa, curno ed anima, alla vita gloriosa di Cristo. La partecipazione anche del corpo viene prodotta dalla risurre­ zione dai morti.

§ '-97· LA J;ISURREZIONE DAI MORTI : SUA REALTÀ

È dogma di fede che alla fine del mondo tutti gli uomini saranno risu­ scitati con i loro corpi. La Chiesa ha professato sovente questo fatto decisivo del futuro, piu chiaramente ed energicamente nel simbolo apo­ stolico, in quclìo atanasiano, al Concilio di Costantinopoli del 38 I ed in quello del Laterano del 1 2 1 5 : Denz. 2. 14. 40. 86. 429 ; cfr. inoltre Denz. 16. 20. 30. 242. 287. 347· 427. La risurrezione dei morti è una convinzione decisiva per la fede cri­ stiana. Secondo la rivelazione la redenzione si completa nel corpo. Se­ condo la testimonianza dell'apostolo Paolo la filiazione completa è la reden­ zione del corpo (Rom. 8, I 8). Come il Figlio di Dio è apparso in figura corporea, vivente in un dato luogo e tempo, è vissuto, è morto ed è risorto, cosi l'uomo deve partecipare col suo corpo alla vita di Dio. Proto­ tipo di questa piena redenzione è il Cristo risorto, che è nello stesso tempo la causa efficiente della risurrezione di tutti. Anzi egli è risorto dai morti ed è stato assunto in cielo come capo della Chiesa, anzi della creazione. Egli è il primogenito, cui seguiranno tutti gli altri (Rom. 8, 29 ; I Cor. I5, 20 s. ; Col. r, r 8 ; 2, 9). Egli è l'inizio (Gv. 8, 25). Ciò che in lui è avvenuto, deve avvenire in tutti. Egli è per tutti l'aurore della vita (Ebr. 2, r o). Tutta la storia, anzi tutto l'universo deve partecipare alla risurrezione di Cristo. A motivo del peccato la terra fu assoggettata alla corruzione; in Cristo è avvenuta una nuova creazione (Gal. 6, I 5). Con la risurrezione di Cristo furono poste nella creazione delle forze, che S !Jingono ad una nuova configurazione dell'uomo e del mondo. La risurrezione ed ascensione di Cristo raggiungeranno l'ultima pienezza dell'essere e del significato soltanto quando le forme naturali del mondo saranno portate, dall'intervento benigno di Dio, alla loro forma ultima, cioè nella risurrezione ed esaltazione degli uomini e del mondo. Il rap'Jorto tra la risurrezione di Cristo e La risurrezione dei cristiani, anzi di tutti gli uomini, è cosi stretto che si deve dire : se i cristiani non risorgono, neppure Cristo è risorto ( I Cor. rs, I 3); ma allora la testi­ monianza resa a Cristo dall'Apostolo, che è una predicazione del Signore crocifisso, risorto e glorificato, è vuota diceria (I Cor. 1 5, 14 s.). Allora i Corinti non sono redenti, poiché redenzione significa unione con il Cristo glorificato, che ha vinto il ueccato e la morte. La fede nella risur­ rezione futura dei morti è quindi la fede svilu'Jpata nel Cristo risorto. Da questo rap"Jorto auoare evidente che fuori della fede in Cristo non vi ouò essere una fede comTJleta nella risurrezione coroorea dell'uomo e che viceversa la convinzione della risurrezione dei morti distingue sostan­ zialmente il cristianesimo da tutte le speranze non cristiane nella immor.

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ESCATOLOGIA GENERALE

talità. Essa non si differenzia soltanto da quelle concezioni che riducono l'immortalità dell'uomo ad una sopravvivenza nei posteri della fama dei suoi atti e delle sue opere, ma anche da quelle tendenze religiose e filoso­ fiche, che ammettono soltanto l'immortalità dell'anima e per le quali lo spirito è l'essenziale, il corpo l' accidentale. La fede nella risurrezione dei morti deve apparire assurda a chiunque non crede nella risurrezione di Cristo. Per coloro che credono solo nel mondo e nella natura essa è un grosso scandalo. Ciò che costoro vedono è il ritmo perpetuo di vita e di morte. La dottrina, secondo cui l'uomo deve sopravvivere corporalmente, sta al di là di ciò che la ragione umana può comprendere con i suoi metodi di conoscenza. Ogni giorno l'uomo fa l'esperienza che la materia è il principio della caducità e della transi­ torietà. Finché la ragione viene considerata come unica norma del giu­ dicare e del divenire, la speranza nella risurrezione dev'essere intesa come contraddizione all'esperienza ed alla ragione. Nel beffarsi di questa dottrina i liberi pensatori giudei, che si facevano forti della loro pietà, si trovavano d'accordo con i Greci fieri della loro scienza, pur essendo tra loro separati da altri profondi contrasti. I sad­ ducei hanno cercato di ridicolarizzare la fede nella risurrezione con la capziosa domanda, a chi sarebbe appartenuta dopo la risurrezione la moglie che durante la vita terrena aveva avuto sette mariti (Mt. 22, 23-33). Dalla prima lettera ai Corinti dell'apostolo Paolo sappiamo quanto tor­ nasse difficile ai Greci l'accettare la risurrezione del corpo come un evento futuro e non soltanto come un simbolo. Per questo messaggio essi non avevano dei buoni preswJ .:�osti, poiché ritenevano in gran parte che il corpo fosse la prigione d eli 'anima. Inoltre nel processo di sincretismo storico-religioso, che inizia con Alessandro Magno (sincretismo ellenistÌI.:o) si diffuse l'idea, pienamente svilup?ata ne! tardo gnosticismo, che il corpo fosse la sede del male ed in sé cattivo. Ed allora doveva apparire piu che problematico, se fosse desiderabile che il corpo cosi svalorizzato tornasse un giorno a rivivere. Nella comunità di Corinto c'erano dei fedeli che, pur non negando formalmente la risurrezione, tuttavia, in accordo con l'atmosfera spirituale in cui vivevano, cercavano di spiritualizzarla. Cfr. 1 Cor. 1 5 . Nella sua prima predica ad Atene Paolo h a fatto esperienze ancora peggiori. Allorché sull'areo?ago, centro della cultura greca, ancora riuieno dei segni e dei monumenti della religione naturale greca, egli parlò della Provvidenza che determina la storia, del Dio ignoto che essi adoravano, che i loro poeti cantavano, gli Ateniesi ascoltarono volentieri . Questo

§ 297. LA RISURREZIONE DAI MORTI : SUA REALTÀ

messaggio poteva essere tollerato anche dalle orecchie di un greco orgo­ glioso della ragione e credente nel mito. Ma quando Paolo, dalla natura da essi adorata, li volle portare alla fede nel Dio diverso dal mondo, che ha il potere con la risurrezione dei morti di rompere il cerchio della natura, non lo hanno piu preso sul serio : che anzi scoppiarono in risate e lo licenziarono (Atti 17, 32). La stessa cosa capitò a Paolo dinanzi al procuratore Festo ed al re Agrippa. Allorché nella sua difesa egli portò il discorso sulla risurrezione dei morti, Festo gli gridò : « Tu stai delirando, o Paolo : la troppa cultura ti fa sragionare » (Atti 26, 8. 23 s.). Data l'importanza centrale che la fede nella risurrezione possiede nel complesso della fede cristiana, si comprende come il rigetto del cristiane­ simo si concentri in modo particoiare sulla dottrina deiia risurrezione, ia quale quindi viene piu direttamente e fortemente colpita dai ten tativi di « smitologizzare » il cristianesimo. Origene dovette difendersi dagli scherni che il gnostico Celso rivolgeva alla fede nella risurrezione. Agostino richia­ mava l'attenzione dei suoi lettori sul fatto che la dottrina cristiana in nessun punto incontra tanta opposizione come nella rivelazione della risurrezione della carne (Enarr. in Ps . 88, 3 6-3 8 ; Sermo 2, 5; PL . 37, I I 34). Egli ammoniva i cristiani di farsi ammaestrare su questo punto non dai filosofi, ma dalla Sacra Scrittura (De Trinita te, 4, I 7 ; PL. 42, 903). Si richiede quindi una conversione del pensiero, perché la rivelazione della risurrezione dei morti possa essere accettata. Colui che cerca di pensare e giudicare in base a Dio, troverà in essa una stu'Jenda manife­ stazione della onnipotenza e dell'amore divini e la sorgente della spe­ ranza piu ardita nella perfezione umana. .

Il.

-

TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA.

A. Antico Testamento. Per quanto riguarda la testimonianza della Scrittura, nei primi libri dell'Antico Testamento non troviamo un chiaro indizio della risurrezione corporale. Anche ciò che dice Isaia (25, 8 ; 26, 19-2 1 ; 5 3, 8-12) non è inteso della risurrezione dei morti, ma della restituzione del popolo ad una nuova potenza e gloria terrene. Parimenti Giobbe 1 9, 25 -27, secondo il testo originale non è una testimonianza per la risurrezione. Soltanto la traduzione di S. Gerolamo ha dato modo di intendere il passo in tale senso. La maggioranza dei Padri non lo usano. Nel testo originale esso

I 90

P.

I.

- ESCATOLOGIA GENERALE

significa che Giobbe spera nella guarigione e nel ristabilimento della sua vita terrena. In una grande visione Ezechiele vede la rianimazione di ossa morte (37, I - 1 4). Sovente questa visione viene intesa come testimo­ nianza della risurrezione dei moni al termine della storia. Ma neppure essa parla della risurrezione dei morti, bensi del ritorno della gloria ter­ rena del regno : perdute. Anche

Dio stesso ridarà al popolo la sua libenà e grandezza

il profeta Osea si serve dell'immagine della risurrezione

dei morti per illustrare la restaurazione etnico-nazionale, senza tuttavia essere del tutto chiaro (Os. 6, I s.).

è chiaramente attestata nel libro di è promessa ai pii come gioia, è minacciata

Tuttavia la risurrezione dei moni Daniele (Dan. I2, 1 -3). Essa

agli empi come tormento. Anche l'autore del libro della Sapienza può aver avuto dinanzi alla mente la risurrezione (4, 20 - 5, I 4). In 2 Mac. i martiri sperano per sé la risurrezione (cfr. specialmente nella risurrezione manca nell'Ecclesiaste, nei Proverbi

7 7, 1 1 ). La fede

(Harnp, Zukunft

und !enseits,

Bonn 1 950, 86-97). Verso il 200 a. C. la fede nella risur­

rezione non

è ancora patrimonio comune dei fedeli dell'Antico Testa­

mento; ma subito dopo si diffuse rapidamente e su larga scala. La risur­ rezione era attestata come privilegio dei giusti

in parecchi scritti apocrifi

giudaici (ad es. Salmi di Salomone, A?ocalisse di Baruch siriaca, Testa­ mento dei dodici patriarchi; cfr. anche i testi di Qumran). Una dottrina generale della risurrezione si trova ad es. nel Libro di Enoch e nel quarto libro di Esdra. Al tempo di Cristo i pii israeliti professano la risurrezione (Gv. I I , 24 ; Mt.

22, 2 3-3 3 ; Le. 20, 27; Mc. 1 2, I 8-27 ; Atti 4, I I) . Anche è stata portata a chiarezza e

questa rivelazione dell'Antico Testamento pienezza da Cristo.

Molto discussa, e fino ad oggi non ancora risolta con sicurezza, è la questione dell'origine della fede nella risurrezione dell'Antico Testamento. È stata desunta dalle cerchie culturali circostanti, egiziana, babilonese, persiana? Per sé ciò non sarebbe impossibile. Si potrebbe ammettere che nelle speranze nella risurrezione in campo extrabiblico si sia conservato un resto della rivelazione primitiva. Se lo scrittore sacro avesse desumo altrove la dortrina, questo processo implicherebbe che l'abbia liberata da tutte le deformazioni mitologiche e politeistiche in cui essa era involuta nelle citate cerchie culturali. Ma per quanto riguarda la questione di fatto, ad una reale derivazione da fonti extrabibliche si oppone l'osservazione che l'idea della risurrezione nell'An­ tico Testamento si differenzia sostanzialmente sia da quella egiziana che da quella persiana e babilonese. La religione egiziana in genere conosce soltanto una vita apparente nel sepolcro. Secondo la dottrina persiana la vita dopo la morte si svolge nelle forme sensibili che ci sono abituali.

§ 297 · LA RISURREZIONE DAI MORTI : SUA REALTÀ La fede nella risurrezione dei morti si dovrebbe quindi poter spiegare sol­ tanto con un diretto intervento divino, a modo di una rivelazione particolare. Non di meno le speranze nella risurrezione, sorte nella cultura religiosa del­ l'Oriente antico, costituirono un'atmosfera propizia per lo sviluppo della fede, per la quale fu un presupposto favorevole soprattutto l'idea della rimunerazione, che aveva il suo posto ed il suo fondamento nella fede in Dio nell'Antico Testa­ mento. Il fedele dell'Antico Testamento era violentemente agitato dalla questione, perché in questo mondo cosi spesso le cose vanno male al pio e bene all'empio. Durante la vita terrena non c'è corrispondenza tra pietà e destino. Contro la minaccia del dubbio nella giustizia di Dio si leva la speranza che quanto non avviene nella vita terrena avvenga al di là della morte. Là il giusto riceve il · premio meritato ed il cattivo il meritato castigo (Is . 26, 19; 53i Dan. r2; 2 Mac. 7). In piena realtà la rimunerazione può avvenire soltanto se gli uomini sopravvi­ vono col corpo. La potenza illimitata di Jahvè costituiva il fondamento per simili speranze. « Jahvè dà la morte e dà la vita; conduce alla romba e ne ritrae » (I Sam. 2, 6; cfr. D eut. 32, 39). Quale Dio vivente (Gios. 3, ro; Os. 2, I ; Ger. 23, 36) egli può per mezzo di Elia (I Re 17, 17-24) e di Eliseo (2 Re 4, 3 1 -37) risuscitare dai morti. Per la fede nella risurrezione era particolarmente feconda la speranza nella unione con Dio (ad es. Sal. 16, 19 ss.; 49, r6; 73, 23-28). Cfr. G. J. Bonerweck in Lex. f. Theol. und Kirche, I, 2 ed., 1957, 1042-1045·

B. Nuovo Testamento. Nel Nuovo Testamento la risurrezione viene promessa nei piu vari modi. Durante un banchetto Cristo dichiarò privo di valore morale l'amore che si fonda soltanto sul principio del contraccambio. Soltanto l'amore disinteressato sopravvivrà alla caducità ed aiuterà l'uomo ad ottenere la sua pienezza di vita nella risurrezione dei giusti (Le. 14, 1 2- 1 4). Allo stesso annunzio della risurrezione si giunge nella discussione coi sadducei, già precedentemente ricordata. Agli interroganti Cristo rispose che essi, in contrasto con la loro propria coscienza, si trovavano in una grande ignoranza teologica. Dimenticavano che la vita della risurrezione non è una continuazione della vita terrena del corpo. Che anzi, nella risurre­ zione ha luogo una trasformazione, che si fa sentire fino al punto che i figli della risurrezione non si ammogliano piu e non si maritano piu. La forma di esistenza del matrimonio non è piu necessaria nella vita futura. Durante il secolo attuale essa è necessaria affinché il genere utaano non si estingua. Coloro invece, che nella risurrezione diventano partecipi del mondo futuro, sono immortali. Il loro modo di essere uguaglia in ciò quello degli angeli. Per la dottrina della risurrezione dei morti Cristo si richiama alla testimonianza di Mosé, di cui i sadducei avevano grande stima. Se essi lo avessero realmente inteso, avrebbero dovuto sapere che

1 92

P.

l.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

Mosè fa almeno un accenno alla risurrezione dei morti, là cioè, dove parla del Dio di Abramo, di !sacco e di Giacobbe, il quale infatti è un Dio non dei morti, ma dei vivi (Es. 3, 6; Mt. 22, 2 3-33 ; Mc. 1 2, 1 8-27 ; Le. 20, 27-40). Secondo Giovanni (5, 24-30) colui che ascolta la parola di Cristo sarà partecipe della vita futura : « In verità, in verità vi dico : chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato ha la vita eterna e non è sottomesso a condanna, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità vi dico : viene l'ora, ed è adesso, che i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l'avranno ascoltata vivranno. Come, infatti, il Padre ha in se stesso la vita, cosi ha dato al Figlio d'aver la vita in se stesso : e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio d'uomo. Non vi meravigli questo, perché viene l'ora in cui tutti quelli che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno : quelli che bene operarono per una risurrezione di vita, quelli che male operarono per una risurre­ zione di condanna. Da me, io non posso far nulla; giudico secondo che ascolto, e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà ma la volontà di colui che mi ha mandato ». Mentre, secondo questo testo, la risurrezione per la futura vita trasfor­ mata si fonda sull'obbedienza alla parola, nella promessa della eucaristia Cristo ne pone il fondamento sulla fede e sulla manducazione della sua carne e del suo sangue. « Ora, la volontà di colui che mi ha mandato è che io non perda null a di quanto mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ul­ timo giorno. Perché la volontà del Padre mio è che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna, e lo risusciti io nell'ultimo giorno » (6, 39 s.). « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Poiché la mia carne è un vero cibo, e il mio sangue una vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me, e io in lui. Siccome il Padre, il vivente, ha mandato me, e io vivo per il Padre, cosi anche chi mangia me vivrà per me » (6, 54-57). Questi passi attestano che la risurrezione per la vita gloriosa del cor!JO diryende dall'unione con Cristo, la quale viene stabilita dalla fede in lui e diventa particolarmente intensa con la manducazione del cibo eucaristico. La testimonianza piu esplicita del Nuovo Testamento circa la risurre­ zione dei morti è offerta da Paolo nella prima lettera ai Corinti, in cui l'Apostolo prende posizione contro il dubbio insorto a Corinto circa il messaggio della futura risurrezione dei morti ( r Cor. 1 5) :

§ 29 7·

LA RISURREZIONE DAI MORTI :

S U A REALT

1 93

À

« Vorrei ora, o fratelli, mettere a voi in chiaro l'Evangelo che già vi annunziai, che voi accoglieste, nel quale perseverate e grazie al quale siete sulla via della salvezza se, come suppongo, lo ritenere nei termini in cui ve lo annunziai, a meno che abbiate aderito alla fede invano. Vi trasmisi, invero, prima di tutto quanto anch'io ho ricevuto, che cioè Cristo mori per i nostri peccati, conformemente alle Scritture; e che fu sepolto e risorse il terzo giorno, conformemente alle Scritture; e che apparve a Cefa e poi ai Dodici. In seguito apparve a oltre cinquecento fratelli in una sola volta, e di questi, la maggior parte resta tutt'ora in vita, mentre alcuni sono morti. Apparve quindi a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli. In ultimo, dopo tutti apparve, anche a me, come all'aborto.

Si, io sono il minimo degli

Apostoli, neppure degno di essere chiamato apostolo, perché perseguitai la Chiesa di Dio. Ma per grazia di Dio sono quello che sono, e la grazia che da lui mi è stata concessa non fu vana, poiché lavorai faticosamente piu di tutti quelli : non io però, ma la grazia di Dio con me. Tanto io, dunque, quanto essi cosi predi­ chiamo, e voi a questa fede avete aderito. Ora, se si predica che Cristo è risorto dai morti, come mai ci sono tra voi alcuni che dicono che non c'è risurrezione dei morti? Se non c'è risurrezione dei morti, neppure Cristo è risorto! Ma se Cristo non è risorto, allora la nostra predicazione è vana, vana anche la vostra fede. Piu ancora, noi risultiamo dei falsi testimoni riguardo a Dio, poiché contro Dio avremmo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, q uando certo non lo avrebbe risuscitato se davvero i morti non risorgono. Se infatti i morti non risor­ gono, neppure Cristo è risorto, e se Cristo non è risorto, la vostra fede è illusione : voi siete ancora nei vostri peccati. Non solo :

anche quelli che si sono addor­

mentati in Cristo, si sono perduti, e noi, che in questa vita abbiamo posto la nostra speranza in Cristo

soltanto, siamo tra tutti gli uomini

i

piu

degni di

commiserazione. Ora invece, Cristo è davvero risorto dai morti, primizia di quelli che si sono addormentati nel sonno di morte. Poiché la morte avvenne per opera di un uomo, anche la risurrezione dai morti viene per opera di un uomo. Come infatti tutti muoiono in Adamo, cosi pure tutti in Cristo saranno richiamati in vita. Ciascuno però nel suo ordine : primizia è Cristo; quindi quelli che alla sua venuta saranno di Cristo; poi, la fine! Allora egli rimetterà il regno a Dio, il Padre, dopo aver distrutto

ogni

principato e ogni

dominazione

e

potenza.

Bisogna

finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i piedi (Sal.

infatti

uo, I),

che,

egli regni.

L'ultimo nemico a essere eliminato sarà la morte, Dio, infatti, tutto ha posto sotto i suoi piedi (Sal.

8, 7).

Ma quando dice che tutto gli è stato sottomesso, fa

evidentemente eccezione colui che tutto gli ha sottomesso. Solo quando tutto gli sarà sottomesso, allora anche lo stesso Figlio si sottometterà a colui che gli ha sottomesso tutte le cose, affinché Iddio sia tutto in tutti. Poiché, che cosa fareb­ bero quelli che si fanno battezzare per i morti? Se i morti non risorgono affatto perché allora si fanno battezzare per essi? E perché noi stessi ci esponiamo ai pericoli a ogni istante? Ogni giorno rischio la morte, o fratelli, com'è vero che voi siete il vanto che io posseggo in Cristo Gesu, Signore nostro. Se per calcolo umano avessi lottato a Efeso con le fiere, che utilità ne avrei avuto? Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, che domani morremo ! (ls. Ma non lasciatevi ingannare!

22,

13).

Le cattive conversazioni corrompono i

buoni

1 94

P.

I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

costumi. Ritornate alla sobrietà come si conviene e non peccate più. Alcuni hanno dell'ignoranza riguardo a Dio : lo dico a vostra confus ione! Ma qualcuno dirà : come risorgono i morti? e con quale corpo ritornano? Insensati ! Quello che tu semini non riprende vita se prima non muore. E quel che tu semini, non è il corpo che dovrà nascere, ma un nudo chicco di frumento, ad esempio, o di qual­ siasi altra specie. È Iddio che gli dà un corpo secondo che ha voluto; a ciascuno dei semi un corpo proprio. Non ogni carne è la stessa carne, ma altra è quella degli uomini, altra la carne delle bestie, altra la carne degli uccelli, altra ancora quella dei pesci. Vi sono corpi celesti e corpi terrestri e lo splendore dei corpi celesti è diverso da quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle; si, perfino stella da stella differisce in splendore. Cosi pure è per la risurrezione dei morti. Si semina un corpo in preda della corruzione e risorge dotato di incorruttibilità. Lo si semina spregevole e risorge in splendore. Lo si semina soggetto a debolezza e risorge rive­ stito di forza. Si semina un corpo in condizione terrena e risorge un corpo spiri­ tuale. Poiché se c'è un corpo di condizione terrena c'è pure un corpo spirituale. Se, come sta scritto, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, il secondo Adamo divenne uno spirito che vivifica. Ma non venne per primo lo spirituale, bensi quello di condizione terrena e poi lo spirituale. Il primo uomo, essendo tratto dalla terra, era terrestre; il secondo uomo viene dal cielo. Qual era il terrestre, tali sono pure i terrestri : qual è il celeste, tali saranno pure i celesti. E a quel modo che portammo l'immagine di quello terrestre cosi porteremo l'i mmagine del celeste. Ma questo io affermo, o fratell i : né la carne e il sangue possono enrrare in possesso del regno di Dio, né la corruzione venire in possesso dell'incorruttibilità. Ecco, vi dico una cosa misteriosa : aon tutti morremo, ma tutti saremo trasfor­ mati, in un attimo, in un baner d'occhio, al suono dell'ultima tromba. Poiché squillerà la tromba e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. B isogna, infatti, che quesro corpo corruttibile rivesta l'incorruttibilità, che questo corpo mortale rivesta l'immortalità. Ma quando questo corpo corruttibile si sarà rivestito dell'incorruttibilità, e questo corpo mortale si sarà rivestito dell'immor­ talità, allora si compirà quella parola della Scrittura : la morte è stata ingoiata nella vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge. Ma s iano rese grazie a Dio, che ci dà la vil loria per mezzo del Signore nostro Gesu Cristo. Perciò, o miei diletti fratelli, siate fermi, incrollabilì, e progredite sempre piu nell'opera del Signore, sapendo che nel Signore non è vana la vosrra fatica ».

Anche Paolo, secondo questo testo, vede garantita la risurrezione nella unione di vita con Cristo. In ciò si fa sentire un motivo conduttore della sua teologia : ciò che avviene in Cristo, avviene anche nel cristiano ; ?Oiché Cristo è la primizia, cui seguono tutti gli altri. Il cristiano, come è stato dimostrato nel trattato sulla Grazia (§ 1 82), sta nel campo d'azione di Cristo ; partecipa alla morte, alla risurrezione ed alla ascensione di Cristo. Come nel battesimo ha ricevuto un colpo mortale dalla morte di Cristo,

§ 297. LA RISURREZIONE DAI MORTI : SUA REALTÀ

I 95

cosi, secondo la testimonianza dell' Apostolo Paolo, mediante il battesimo è stato pure risuscitato e trasferito in cielo assieme a Cristo (Rom. 6; Ef. 2, 6 ; Col. 2, 1 2). Durante il periodo del pellegrinaggio l a partecipazione alla vita di Cristo risorto è nascosta. Tuttavia ciò che mediante il battesimo e gli altri sacra�renti, specialmente mediante l'eucaristia, viene operato in modo nascosto, diverrà un giorno manifesto. Allora le forze dì risurrezione poste negli uomini giungeranno al loro pieno sviluppo. In tal modo la risurre­ zione futura completerà ciò che è stato iniziato nel periodo del pellegri­ naggio. Allora Cristo risusciterà mediante la sua potenza coloro che nella vita terrena furono a lui congiunti e da lui permeati ( I Cor. 6, I 4 ; 2 Cor. 4 , 14). Essi appartengono fin d'ora alla comunità celeste, in cui Cristo è entrato con l'ascensione, non come ospiti e pellegrini, come stra­ nieri, ma come concittadini, come membri della casa (Ef. 2, I I -2o ; Ebr. I I , 8-Io; I I , I 3- I 6 ; 1 2, 22 s. ; I 3, 14). Quaggiu essi abitano soltanto in tende, cioè in case provvisorie, costruite per una dimora passeggera. La loro vera, salda abitazione è nella città celeste, dove Cristo, la pri­ mizia, ha già preso dimora (Col. I , 1 6 ; Ef. 1 , 1 9-2 3 ; Fil. 2, 9-I 1). I vi egli prepara per i suoi le dimore eterne, indistruttibili, non soggette all'attacco della caducità e della insicurezza (Gv. I4, 2-4). Quando egli ritornerà, trasformerà i suoi a sua propria immagine, li rivestirà della sua gloria ed assegnerà a ciascuno il posto che gli conviene (Rom. 4, 1 7 ; 8 , I I ; Col. 2 , I 2 s.). Nella nuova forma essi saranno atti alla dimora ap?rontata da Cristo. Guardando ad un simile futuro Paolo ammonisce e consola i Filippesi (3, 20 s. ) : « Quanto a noi, la nostra patria è in cielo, donde inoltre aspet­ tiamo quale salvatore il Signore Gesti Cristo, il quale trasfigurerà il nostro corpo di miseria conformandolo al suo cor!JO di gloria, con la forza per cui egli può anche sottomettere a sé tutte le cose ». Dio stesso a�porterà questo stato, com�letando in tutto il mondo ciò che ha fatto in Cristo. « Se infatti crediamo che Gesti è morto e risorto, ci è chiaro che Iddio condurrà con Gesti quanti muoiono in lui. . . Perché il Signore in persona, al comando, al grido di un arcangelo, allo squillo della tromba divina, scenderà dal cielo e prima risorgeranno i morti nel Cristo, quindi noi, attualmente vivi, superstiti, saremo rapiti insieme ad essi sulle nubi in cielo verso il Signore. Cosi saremo sempre col Signore. Consolatevi pertanto scambievolmente con tali parole » ( I Tess. 4, I 4-I 8). Benché in questo passo di Paolo, come in altre testimonianze, la risur­ rezione dei morti sia rappresentata con mezzi espressivi desunti dall'an-

1 96

P

I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

tica immagine del mondo, che non è piu la nostra, tuttavia viene attestato indubbiamente il fatto di una nuova futura esistenza corporale. Quantunque dagli scritti paolini si ricavi a tutta prima l'impressione che risorgano soltanto coloro che sono uniti a Cristo, non di meno nella Scrittura è prospettata chiarissimarnente la risurrezione di tutti gli uomini (Gv. 5 , 28 s. ; Atti 24, 1 5 ; 1 Cor. 1 5 , 22; Mt. 1 3, 41). Il senso ed il modo della risurrezione è tuttavia sostanzialmente diverso nei buoni e nei pec­ catori. Cfr. il prossimo paragrafo. Con la risurrezione dei morti la morte stessa sarà definitivamente pri­ vata della sua forza. « E il mare restitui i morti che erano in esso, e la morte e l'ade restituirono i morti che erano in essi e furono giudicati, ognuno individualmente, secondo le loro opere. E la morte e l'ade furono gettati nel lago del fuoco. Questa è la seconda morte : il lago del fuoco » (Apoc. 20, 1 3 s.). Giovanni vede la morte come un essere personale, nemico della vita. Durante tutta la storia essa possiede un potere sinistro. Tutti le sono soggetti, singoli e comunità, potenti, eserciti e popoli. Questo nemico degli uomini resisterà piu a lungo, fino alla fine. Ma allora anch'esso sarà vinto ( 1 Cor. 1 5 , 39).

III. - TESTIMONIANZA PATRISTICA.

Nel periodo patnsuco furono composti scritti particolari sulla risurre­ zione della carne. La fede in essa, sovente attestata, la troviamo anche negli atti dei martiri, nelle iscrizioni e pitture delle catacombe, nel culto che era tributato ai corpi dei defunti. La fede dei Padri nella propria risurrezione si fonda sulla fede nella risurre­ zione del Signore. Ireneo cosi rende la dottrina dell'apostolo Paolo (Adv. haer., 3, 19) : « Chi non crede nell'Emmanuel nato dalla vergine, non riceve il dono della vita eterna; non diviene partecipe del Verbo incorruttibile, ma rimane nella carne mortale ed è soggetto alla morte, perché non prende la medicina della vita. A costoro il Verbo, indicando il dono della sua grazia, dice : io ho detto, voi tutti siete dèi e figli dell'Altissimo : ma morirete come uomini. Cosi egli parla a coloro che non accolgono il dono della filiazione, ma disprezzano la incarna­ zione della pura generazione del Verbo divino, privando cosi l'uomo della sua elevazione a Dio e sono ingrati verso il Verbo di Dio, che per amor loro si è fatto carne. Per questo infatti il Verbo di Dio si è fatto uomo ed il Figlio di Dio figlio dell'uomo, affinché l'uomo accolga in sé il Verbo e mediante l'adozione diventi figlio di Dio. Poiché noi non potremmo ricevere l'incorruttibilità e l'im­ mortalità se non fossimo congiunti con l'incorruttibilità e con l'immortalità. Mai

§ 297·

LA RISURREZIONE DAI MORTI :

SUA REALTÀ

197

avremmo potuto essere congiunti con l'incorruttibilità e con l'immortalità se prima l'incorruttibilità e l'immortalità non fosse divenuta ciò che siamo noi, affinché il corruttibile sia ingoiato dall'incorruttibile ed il mortale dall'immortale e noi riceviamo l'adozione in figli? ». Trattazioni speciali circa la risurrezione dei morti ci restano ad es. di Atenagora, Tertulliano, lppolito Romano, Pietro di Alessandria, Metodio di Filippi, Gregorio di Nissa.

IV. - LA TESTIMONIANZA DELLA LITURGIA.

La liturgia attesta sia la fede nella risurrezione dei morti in sé, sia l'im­ portanza che le compete per la pratica della fede cristiana. Il Prefazio della Messa dei defunti dice infatti : « Veramente è degno e giusto, equo e salutare, che noi sempre e dovunque ti rendiamo grazie, o Signore, Padre santo, Dio eterno e onnipotente, per Cristo Signor nostro. Nel quale ci rifulse la speranza della beata risurrezione, cosicché coloro cui contrista la certezza della morte, siano consolati dalla promessa della futura immor­ talità. Dacché, Signore, la vita dei tuoi fedeli non si distrugge, ma si commuta; e, demolita la casa di questa dimora terrestre, s'acquista eterna abitazione in cielo » . Questo testo esprime che soltanto la nsurrez10ne dell'ultimo giorno e la nuova vita, che con essa incomincia sulla nuova terra, rappresenta la forma piu alta di perfezione.

V. - LA TESTIMONIANZA DELL' ANTROPOLOGIA E DELLA CRISTOLOGIA.

Partendo dal presupposto che la risurrezione dei morti è attestata dalla Sacra Scrittura come rivelazione, la si può provare anche dall'antropo­ logia e dalla cristologia. L'uomo è un composto di corpo e di spirito (cfr. § 1 30). Cosi egli viene interpretato nell'Antico Testamento e nel Nuovo Testamento. L'anima spirituale è, come abbiamo visto precedentemente, il principio formale del corpo. Ciò è vero in cosi alto grado, che rappresenta un pro­ fondo mistero come l'anima spirituale ordinata al corpo, col quale costi­ tuisce il composto umano, possa esistere senza il corpo. Di questo si trat­ terà ampiamente al § 30 1 . In ogni caso lo stretto legame tra spirito e corpo fa apparire conveniente che il perfezionamento dell'uomo tocchi non sol­ tanto lo S?irito, ma anche il corpo. All'apostolo Paolo causa addirittura disagio il pensiero di dovere sopravvivere senza corpo (2 Cor. 5, 5-9 ; Fil. 3 , 1 2-1 4). L'anima che sopravvive alla morte, a motivo del suo ordi-

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-

ESCATOLOGIA GENERALE

namento antologico al corpo, aspira a riunirsi con esso. Soltanto la trasfi­ gurazione corporea soddisferà il rapporto antologico e l'attesa psicologica. La convenienza della risurrezione si può ancora meglio argomentare dalla unione dell'uomo con Cristo. Questa prova vale so?rattutto per il battez­ zato, ma, in un certo senso, anche per il non battezzato, perché anch'esso appartiene in potenza a Cristo. Riguardo al battezzato, egli col battesimo è stato conformato a Cristo (cfr. § 226). Durante la storia tale conformità presenta carattere di inizio e raggiunge la sua pienezza soltanto con la risurrezione dai morti, in quanto soltanto con essa la forza di Cristo risorto si impone in modo completo del battezzato. Nel Medio Evo si aveva piena coscienza di questo stato di cose. Cosi Bernardo di Chiaravalle nella prima predica sulla risurrezione del Signore, n. 13 (PL. 183, 28 1 ) dice :

«

inculcare :

cioè risurrezione, passaggio e trasferimento. Infatti Cristo, o fratelli,

In questa festa cosi eccellente pensiamo bene a ciò che essa ci vuoi

oggi non è rimasto steso nel sepolcro, ma e risorto, non è tornato indietro, ma è passato dall'altra parte, non si è di n uovo stabilito qui, ma si è trasferito altrove. Poiché la festa che noi celebriamo e che si chiama Pasqua non significa, per il suo nome, promette di

ma

ritorno, farsi

passaggio :

e

quella

Galilea,

vedere da noi, non significa

un

dove

colui

che

risuscitò

rimanere indietro, ma

un

trasferi rsi... Se Cristo Signore, dopo il compimento della croce, fosse rivissuto per tornare ancora una volta nella nostra monalità ed alle pene della nostra vita presente, io direi, o fratelli, che egli non è passato dall'altra par te , non si è trasferito a qualcosa di piu elevato, ma che

è

ma

che è ritornato, che

tornato allo stato di prima.

Ma ora egli è passato ad una nuova vita e perciò chiama anche noi a passare, ci chiama in Galilea

».

S. Bonaventura costituisce un esempio particolarmente convincente. Egli è in grado di illustrare con particolare chiarezza la problematica perché, in quanto teologo di idee platonico-agostiniane, ha una viva coscienza della relativa indi­ pendenza dell'anima spirituale,

ma

d'altra pane sottolinea intensamente l'ordina­

mento dello spiriro al corpo. Quanto egli con le sue dichiarazioni miri all'immor­ talità di tutto l'uomo, Lo si vede già da una questione posta nel l'an. 3 della di�tin­ zione 19 del libro II del suo Commem. zn quarruor lib. Sent. Qui infatti egli indaga il problema come e se il primo uomo sia stato immo rtale quantum ad

coniunctum. Alla immortalità totale abbracciante corpo ed anima, promessa da Dio all'uomo, ma distrutta dal peccato, corrisponde la risurrezione dai morti, in cui l'uomo acquista l'immortalità totale, negatagli nella storia a causa della sua propria colpa. Bonaventura la prova con due argom enta7ioni che si intrecciano in modo molteplice. La prima è cristologico-soteriologica, la seconda teologico­

IV del Comm. Sent. e nel Breviloquzum, p. 7, c. s e 7. Ri feriamo prima l'argomentazione del Comm. Sent., in quanto si riferisce al nostro problema. Due lunghe distinzioni del Libro IV trattano della risurrezione : sono Le distinzioni XLIII e XLtv. La prima

antropologica. Egli espone la sua dottrina soprattutto nel libro

§ 297. LA RISURREZIONE DAI MORTI : SU A REALTÀ

1 99

discute soprattutto il fatto e le ragioni della risurrezione, la seconda l'identità, interpretata in modo molto realistico, del corpo risorto con il corpo terrestre­ storico. Nella questione 1 dell'an. I della distinzione XLlll Bonaventura dice che la fede nella nsurrezione dai morti si fonda sulla fede nella risurrezione di Gesu Cristo. La risurrezione dai morti è la conseguenza della risurrezione di Cristo. Infatti Cristo è il capo, e le membra devono essere configurate al capo. Su questo fondamento di fede si levano motivi teologici, acquisiti cioè con la conoscenza scientifica della fede. La risurrezione dai morti viene infatti richiesta dal carattere rimunerativo della giustizia divina, la quale si adana al modo del merito umano, ed inoltre dal perfezionamento della gloria, che soddisferà e sazierà ogni desi­ derio umano, ed infine dal perfezionamento della natura, la quale consiste in un tutto composto, non in una parte. È vero che il corpo, come dice Bonaventura risolvendo una obiezione (ad 3), è strumento dell'anima spirituale, ma da ciò non si può concludere che esso non sia incluso nella perfezione della natura e nella beatitudine, poiché il corpo non è strumento separato dall'anima spirituale, ma uno strumento ad essa organicamente congiunto; ed è ad essa unito non sol­ tanto per una determinata attività, ma ad unam form.am. L'anima viene perfe­ zionata ed è connessa con il corpo in unilate formae totius. Senza il corpo l'anima spirituale, a motivo del suo rapporto con esso, non può avere la sua perfezione. Se consideriamo le rationes supra /idem fundatae della questione 1 dell'arti­ colo 1, troviamo, oltre al motivo della rimunerazione, due ragioni : una funzio­ nale ed una antologica. La funzionale consiste in questo, che la beatitudine non è perfetta, finché non viene soddisfatto ogni desiderio. Evidentemente, secondo Bonaventura, è proprio dell'anima spirituale l'aspirare al suo corpo. Come l'anima spirituale, partecipe della visione di Dio, possa aspirare al suo corpo, Bonaventura non lo dice formalmente. Sembra che corrisponda alla sua argomentazione il dire che essa vuole estendere la sua beatitudine al corpo. La ragione di tale desiderio sta nella sua natura. Nell'esistenza terrestre-storica essa forma con il corpo un tutto unitario, e precisamente per natura. Finché questo tutto non è ricomposto, l'anima, in base alla sua natura, deve aspirare al tutto. Vedremo subito ancora piu chiaramente la cosa. Nella questione z, in cui egli domanda se tutti risorgeranno, Bonaventura fa da prima una considerazione antologica ed una di storia della salvezza, che illu­ minano maggiormente il nostro problema. Egli infatti dichiara che il corpo è unito all'anima spirituale che è sia immortale per la sua natura, sia morta per la sua colpa. Da questa unione risulta per il corpo una duplice complicazione : la necessità di morire e la possibilità di una vita eterna. Questi due elementi immanenti nell'uomo si realizzano e si attualizzano secondo l'ordinamento del governo divino del mondo. Istruttiva è la questione 5 dell'art. I. Si tratta del problema se la risurrezione dei morti sia naturale oppure miracolosa. Il corpo dell'articolo non presenta nulla di nuovo per il nostro problema. Bonaventura vi dichiara : « Bisogna rite­ nere che nella risurrezione avvengano tre cose : la prima è la ricomposizione del corpo dalla polvere, la seconda la riunione dell'anima con il corpo ricomposto, la terza il legame indissolubile dell'anima e del corpo cosi uniti. La prima cosa

200

P. I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

è contro la natura, cioè contro il corso abituale della natura, la quale può distrug­ gere le cose perfette, ma non ricomporre le cose

distrutre.

La seccnda cosa

avviene conforme alla natura, perché l'anima si congiunge al corpo per lei oni­ mamente organizzato e al quale desiderava di unirsi. La terza cosa è superiore alla natura, e cioè che il distrutribile diventi qualcosa di indistruttibile, non piu separabile dallo spirito



Questo passo non contiene nulla che già non sappiamo.

Solo che l'espressione trovata finora di appetitus animae è sostituita dal termine

desiderare. Tuttavia qualcosa di piu dice la soluzione particolareggiata e circo­ stanziata dall'obiezione sesta, la quale muove dalla considerazione che è naturale quanto corrisponde ad un desiderio della natura; la nat ura non suscita invano nessun desiderio. Ma l'anima aspira al corpo. Agostino si serve di questo motivo per dimostrare che lo spirito umano solo lentamente e timidamente desidera il cielo, perché il suo desiderio tende al corpo (De genesi ad litte1·am,

1 2, 35, 68).

Contro questa argomentazione Bonaventura dichiara doversi distinguere plice appetitus narurae, uno il

cui

un

du­

soddisfacimento non è in potere della natura.

Egli quindi tiene conto che nella natura sia insito un desiderio, la cui realizza­ zione ne trascende le forze. Essa aspira ad un bene, il cui raggiungiroento è negato alle sue possibilità. Cita come esempio l'aspirazione dell'uomo alla beatitudine. Questa confutazione fatta da Bonaventura

è

efficace soltanto se nell'uomo, sia

nella sua anima, sia anche nel suo corpo, c'è il desiderio della risurrezione, che l'uomo stesso non può soddisfare con il proprio ano. Bonaventura riferisce che, secondo una teoria diffusa al suo tempo, di fatto anche gli elementi in cui il corpo si dissolve, aspirano alla risurrezione. Personalmente egli assume una posi­ zione critica contro questa tesi, e ritiene piu probabile un'altra opinione, e cioè

che gli elementi ultimi, in cui il corpo si dissolve, abbiano un desiderio ed un

ordinamento al corpo umano risorto non in base alla natura, ma in virtti di una disposizione divina. Ne risulta che il corpo non ha in sé immanente

un

ordina­

mento alla indistruttibilità in base al suo sl.ato attuale. Ma, essendo unito all'anima spirituale immortale, ha subito e fin da princi pio un ordinamento alla immorta­ lità in forza della disposizione divina. La cosa è diversa per l'anima spirituale,

cui l'aspirazione al corpo compete in base alla sua namra. Essa aspira alla materia, e se, nel farlo, preferisce quelle particelle di materia che un giorno hanno formato il suo corpo, quantunque si siano mescolate con la materia universale ed ontolo­ gicamente non si distinguano in nulla dall'altra materia, la ragione

5[3

in

questo,

che essa ha avuto un nesso ed una unione con le parti a cui aspira. Evidentemente Bonaventura è dell'idea che la materia, congiun ta una volta con l'anima spiri­ tuale,

rimane

per

sempre

caratterizzata

da

questa

appartenenza

e

che

anche

l'anima spirituale conserva per sempre un'affinità proprio per questa parte della materia universale. Ciò risulta dalla seguente considerazione. L'anima razionale si distingue dall'angelo e concorda con le altre anime, perché ha un'inclinazione al corpo e precisamente, essendo dotata di ragione, al corpo umano. Qui dunque l'ordinamento e l'inclinazione dell'anima al corpo è intesa come un rapporto insito nella natura corpo all'anima non

stessa

dell'anima.

Viceversa

è fondato nella natura del corpo, ma

l'ordinamento del nella

disposizione

divina. Esso non è immanente al corpo, ma esterno. Tuttavia con questo non è ancora detta l'ultima parola. In certo modo a tirolo di appendice, Bonaventura

§ 297.

LA

RISURREZIONE DAI MORTI : SUA REALT À

201

aggiunge che non osa affermare che il corpo sia ordinato all'anima spirituale per qualcosa esistente in esso stesso, poiché a favore di una simile tesi non depon­ gono né un motivo razionale, né un'autorità teologica, né la fede. Ma neppure oserebbe rigettare semplicemente una simile tesi, poiché esiste la possibilità che Dio abbia donato una cosa del genere. Egli intende accontentarsi di stabilire ciò che è certo e di lasciar risolvere a spiriti piu profondi ciò che è incerto. Qualcosa però, a suo giudizio, rimane in ogni caso anche nel corpo o nelle parti ultime in cui esso si dissolve, che mira alla risurrezione. Ancora piu riservato è in questa questione Tommaso d'Aquino (S. Th., III, q. 75, a. 3). Ciò che Bonaventura dice nel Breviloquium non va sostanzialmente oltre il Comm. Sent., ma serve tuttavia ad una ulteriore chiarificazione, a quel modo che, di regola, una sintesi mette talune cose in piu netto rilievo e le porta in piu chiara luce. Qui, in fondo, il tema non è la risurrezione, ma il giudizio e la gloria. La risurrezione viene considerata come circostanza concomitante del giudizio e come un fatto che comporta la gloria, in quanto perfezione di tutta la natura umana corporale. Nel cap. 5 della parte settima va considerata l'argomentazione seguente. « Il pri­ mo principio, appunto perché primo e sommo, è universalissimo e sufficientissimo, e quindi è il principio delle nature, delle grazie, e dei premi, ed è anche principio potentissimo, clementissimo, giustissimo; e sebbene, secondo una certa appro­ priazione, sia potentissimo nel costituire le nature, clementissimo nel conferire le grazie, e giustissimo nel retribuire gli stipendi; nondimeno ogni (mentovata) perfezione (del primo principio) è in ciascuna (delle opere mentovate), perché la somma potenza, la (somma) clemenza e la (somma) giustizia in nessun modo possono separarsi l'una dall'altra. E perciò nell'opera della retribuzione è neces­ sario che essa venga fatta, secondo che esige la rettitudine della giustizia e la riforma della grazia, e il compimento della natura. Poiché dunque la giustizia richiede di necessità che l'uomo, il quale ha meritato o demeritato non soltanto nell'anima, né soltanto nel corpo, ma insieme nell'anima e nel corpo, sia premiaro o punito in tutti e due; la riforma della grazia, richiede che tutto il corpo (mistico) sia assomigliato a Cristo capo, il cui corpo morto fu necessario che risorgesse, perché unito inseparabilmente alla Divinità; ed il compimento della natura ri­ chiede che l'uomo sia costituito di anima e di corpo, di materia e forma, che hanno un vicendevole appetito ed una vicendevole inclinazione : di necessità deve avvenire la risurrezione, richiedendolo la costituzione della natura, la infusione della grazia, e la retribuzione della giustizia, secondo le quali (divine perfezioni) deve essere stato retto tutto l'universo ». Ricordiamo di passaggio che Bonaventura concepisce la grazia in modo concreto e personalistico, allorché la pone in rap­ porto immediato con Cristo, capo della Chiesa. Troviamo qui un tratto caratte­ ristico del suo pensiero. La risurrezione futura è quindi richiesta dalla costitu­ zione della natura umana, dall'infusione della grazia e dalla giusta rimunerazione. Queste tre ragioni sono principi regolatori per l'ordinamento di tutto l'universo. In rapporto al compimento della natura Bonaventura fa dichiarazioni ancora piu precise. Tale compimento esige la risurrezione, perché rientra nelle esigenze dell'anima razionale il vivificare il proprio corpo. Della natura dell'anima fa parte la funzione della vivificazione. Avendo una

202

P.

l.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

esistenza immortale, essa deve pure avere continuamente un corpo in cui com­ piere la funzione della vivificazione che le è essenziale. Il corpo quindi, in base alla sua unione con l'anima ed all'appartenenza ad essa, è destinato ad un essere perpetuo. Non tutti gli strati del corpo ne sono toccati con la stessa intensità. Non è il caso ora di esporre ciò che il dottore serafico dice in proposito. L'ordi­ namento è stato impresso nel corpo da Dio. Con questa

resi Bonaventura va

oltre il Comm. Serrt., e va pure oltre S. Tommaso, il quale ammette una capa­ cità passiva del corpo e lascia eventualmente aperta la possibilità di una incli­ nazione del corpo all'anima. Bonaventura invece ammette senza difficoltà un ordi­ namento positivo del corpo all'anima, immanente nel corpo stesso, avente quindi un fondamento antologico. A suo giudizio l'anima è in certo modo capace e biso­ gnosa del corpo. Il corpo è capace e bisognoso dello spirito. Né il corpo né l'anima possono realizzare per virtu propria i l reciproco desiderio in essi impresso. Ora Dio non ha fatto nulla invano, come dice Bonaventura con Aristotele. Perciò il corpo deve essere ricomposto dall:l forza di D io con

un atto

meraviglioso e sopran­

naturale, per modo che viene completato ciò che è connaturale all'uomo. Si rea­ lizza cosi ciò che, pur non essendo in

�otere dell'anima, è tuttavia

nella

sua

inclinazione. Nel grandioso cap. 7 della parte settima Bonaventura è ancora piu chiaro. Egli dichiara che Dio dirige ciò che vi ba di piu alto nell'uomo, lo spirito, illumi­ nandolo, dirige ciò che è piu basso, il corpo, mediante la libera volontà, per modo che il corpo e le cose corporee, per quanto riguarda la direzione, sottostanno allo spirito, ma questo è sottomesso a Dio. Cosi Dio nell'ordine antologico ha legato il corpo all'anima razionale ed ha legato entrambi tra loro con

un

reciproco desi­

derio naturale; ma riguardo all'ordine funzionale è disposto che lo spiriro discenda e si rivolga al corpo e si concentri su di esso, per guidarlo all'azione ministeriale. Questo appetitus naruralis non permette all'anima di

essere pienamente beata,

finché non le viene restituito il corpo, per la cui riassunzione essa possiede Lina inclinazione naturale

insita

ed

immanente.

Cosi

pure

l'ordine

della direzione,

l'ordine funzionale, non permene se non che il corpo venga restimito allo spirito beato come un corpo, che in tuno è conforme

e

sottomesso allo spirito, nella

misura in cui un corpo può essere conforme allo spirito. Secondo queste conside­ razioni sia l'ordine antologico, sia l'ordine funzionale che in esso si fonda, esigono la risurrezione dai morti. Anzi l'anima senza il corpo, che le viene ridonato nella

risurrezione, non è pienamente beata.

La pienezza della beatitudine include il

corpo. Si può dire che l'anima, anche nella visione di Dio, viva ancora nella speranza finché deve essere senza corpo, nella speranza cioè del corpo? Bonaventura rig,etta un simile modo di parlare. Tuttavia si deve dire che, a suo giudizio, l'anima, anche nella visione di Dio, ha ancora un'attesa, in quanto attende il corpo. Non le si può attribuire la speranza, in quanto questa è una vinti con cui essa si protende verso il futuro non ancora pienamente assicurato. Ma ha un'attesa sicura. Soltanto quando questa sarà soddisfatta, essa sarà pa;:tecipe della piena beatitudo. Tocchiamo con questo la questione di ciò che significhi la risurrezione dai morti per la beatitudine dell'anima in gloria. Ci si potrebbe anche domandare :

in che cosa consiste l'elemento di insoddisfazione, nonostante la visione di Dio?

§ 297· LA RISURREZIONE DAI MORTI : SUA REALTÀ

203

Bonaventura non dà una risposta formale. La questione rappresenta un mistero non solubile. Sembra che all'uomo, che vede Dio, nulla piu manchi, anzi nulla piu possa mancare, per modo che la risurrezione sembra essere superflua od almeno secondaria per la pienezza della beatitudine. Ma proprio questa conclu­ sione rappresenterebbe piu filosofia platonica, che non rivelazione cristiana. La questione ha assillato tutto il Medio Evo. Wicki ci ha informati per il periodo che va da Pietro Lombardo fino a Tommaso d'Aquino. Richiamiamo l'attenzione sul fatto che Pietro Lombardo ammette un aumento intensivo della beatitudine ad opera della risurrezione; Roberto di Melun un aumento estensivo. I teologi successivi non hanno aggiunto nulla di nuovo alla soluzione del problema, anzi sovente non hanno neppure posto la questione. In Bonaventura sembra esservi una sintesi delle opinioni insegnate nella Scolastica anteriore. La beatitudine viene aumentata, sia nella intensità che nella estensione, dalla risurrezione. Piu precisamente egli immagina l'inserimento del corpo nella beatitudine come il ri versarsi della beatitudine dell'anima su! corpo, il quale viene cosi trasfigurato

e spiritualizzato. Sintetizziamo i risultati : a) Soltanto la risurrezione dai morti apporta il compimento. b) Dalla morte dell'uomo fino alla risurrezione dai morti l'anima continua a vivere, e precisamente, nel caso che sia del tutto purificata, nella visione di Dio. c) La sopravvivenza dell'anima è una verità di fede, cui assentono la filo­ sofia e la retta ragione. d) Nonostante la visione di Dio l'anima, prima della riunificazione col corpo, prima della restituzione del corpo, non ha il pieno compimento antologico e la piena beatitudine. Si trova quindi in stato di attesa. e) In che consista la differenza tra il compimento provvisorio e la beatitu­ dine provvisoria da una parte ed il pieno compimento e la piena beatitudine dall'altra, non viene chiaramente spiegato da Bonaventura. f) L'accento principale cade quindi sulla risurrezione dai morti. La ragione ultima e decisiva per la riunificazione dell'anima con il corpo è la volontà salvifica di Dio. Cfr. Nik. Wicki, Die Lehre von der himmlischen Seligkeit in der mittelalterlichen Scholastik von Petrus Lombardus bis Thomas v. Aquin, Friburgo (Sv.) 1954.

VI.

-

RISURREZIONE E SPIRITO SANTO.

Se l'unione con Cristo glorificato è la garanzia, il modello e la causa efficiente della risurrezione corporale (causa efficiens e causa exemplaris), lo STJirito Santo, che unisce l'uomo a Cristo e lo forma a sua immagine, è l'operatore della futura risurrezione gloriosa. Egli è il soggetto agente che ap ?lica le cause nominate. La sua inabitazione nell'uomo è l'intimo pegno misterioso che l'ultima cosa non è la morte, ma la vita. Mediante lo Spirito Santo l'uomo è suggellato per il giorno della redenzione

204

P.

l.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

(Ef. 4, 30). « Ma voi non siete esseri carnali ma spirituali, se, com'è vero, lo Spirito di Dio abita in voi, all'opposto, se uno non ha lo Spirito di Cristo, costui non gli appartiene; ma se Cristo è in voi, il vostro corpo è bensi morto a causa del peccato, lo spirito però, a causa della giustizia è vivo. E se lo Spirito di colui che risuscitò Gesu da morte abita in voi, colui che risuscitò Gesu da morte vivificherà anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo spirito che abita in voi » (Rom. 8, 9-1 r ). Secondo Ireneo è « lo spirito di Dio che afferra le membra dei morti che si dissol­ vono nella terra e le trasferisce nel regno dei cieli » (Adv. haer., 5, 9, 4). Poiché l' unione con Cristo viene accresciuta e interiorizzata dalla euca­ ristia, questa si può designare come il pegno esterno della risurrezione dai morti. In ogni celebrazione eucaristica viene resa piu intensa la somi­ glianza con Cristo morto e risorto, finché raggiunga la sua forma perfetta. L'unione con Cristo, rinnovata continuamente ed in grado crescente nel­ l'eucaristia, implica quella vivificazione spirituale, che si fonda in Cristo e che ha raggiunto nella risurrezione di lui il suo vertice. Sul Cristo risorto la morte non ha piu alcun potere. Cosi anche l'uomo unito a Cristo, quanto piu diviene simile a lui, tanto piu viene allontanato dalla morte. Anche se le forme terrene di esistenza si sfasciano, la vita interna, spirituale acquista sempre maggior forza. Si deve quindi ammettere un nesso intimo tra la celebrazione eucaristica e la vita della risurrezione (cfr. Gv. 6, 39 s.; I I , 23-26) . L'eucaristia è il mezzo piu importante di cui si serve lo Spirito Santo. Nel periodo patristico questa dottrina fu sostenuta soprattutto da Ireneo di Lione. Ma anche gli altri Padri designano l'eucaristia come un farmaco della immortalità corporale. Sovente essi non accentuano, come lreneo ed altri, l'ordinamenro interno dell'eucaristia alla trasfigurazione corporale, ma semplicemente la garanzia che sta nella promessa del Signore (cfr. i testi dei Padri § 2 59).

VII. - TOMMASO D'AQUINO. Tommaso d' Aquino nel libro IV, c. 79 della Summa Contra Gentiles, a proposito della nostra questione dichiara « che per mezzo di Cristo ci sarà la risurrezione dei corpi. Ma poiché sopra è stato dimostrato che per mezzo di Cristo siamo stati liberati da tutto ciò in cui eravamo incorsi per il peccato del primo uomo - ma dal primo uomo peccatore non è deri­ vato in noi soltanto il peccato, bensi anche la morte, che è la pena del

§ 297. LA RISURREZIONE DAI MORTI : SUA REALTÀ

205

peccato, secondo la frase dell'Apostolo in Rom. 5, 1 2 : ·· Per un solo uomo il peccato è entrato in questo mondo e per il peccato la morte " -, è necessario che noi siamo liberati ad opera di Cristo da entrambi, cioè sia dalla colpa che dalla morte. E perciò dice l'Apostolo nello stesso passo : " Se per il delitto di uno solo la morte ha regnato per mezzo di uno solo, quanto piu coloro che ricevono l'abbondanza della grazia, della donazione e della giustizia, regneranno nella vita per mezzo del solo Gesu Cristo " (Rom. 5, 1 2 e 1 7). Per conseguenza, al fine di dimostrarci in se stesso entrambe le cose, egli ha voluto morire e risorgere. Ha voluto morire per purificarsi dal peccato, onde dice l'Apostolo in Ebr. 9, 27-28 : " Come è stabilito agli uomini di morire una sola volta, cosi anche Cristo è stato offerto una sola volta per esaurire i peccati dei molti ". Ma ha voluto risorgere per liberarci dalla morte, onde l' Apostolo in 1 Cor. I 5, 20-2 1 dice : " Cristo è risorto dai morti, primizia dei dormienti. E poiché da un uomo è venuta la morte, pure da un uomo è venuta la risurrezione dei morti ". Di conseguenza noi conseguiamo l'effetto della morte di Cristo nei sacra­ menti per quanto riguarda il perdono della colpa ; è stato detto infatti pre­ cedentemente che i sacramenti compiono la loro opera in virru della pas­ sione di Cristo (c. 57 s.). Ma l'effetto della risurrezione di Cristo, per quanto concerne la libe­ razione dalla morte, lo conseguiremo alla fine dei tempi, quando tutti un giorno risorgeremo per la virtu di Cristo. Onde in I Cor. 1 5, 1 2-14 l'Apo­ stolo dice : " Se si predica che Cristo è risorto dai morti, come mai taluni tra voi dicono che non c'è la risurrezione dei morti? Ma se non c'è la risurrezione dei morti, neppure Cristo è risorto. Ma se Cristo non è risorto, la nostra predicazione è vuota, e vuota pure è la vostra fede ". Rientra quindi nella necessità della fede il credere che ci sarà la risur­ rezione dai morti. Ma alcuni che intendono questo al rovescio, credono che non ci sarà la risurrezione dei corpi e cercano di riferire ciò che si legge nelle Scritture della risurrezione, alla risurrezione spirituale, secondo cui taluni mediante la grazia risorgono dalla morte del peccato. Ma questo errore è già rigettato dallo stesso Apostolo, il quale infatti in 2 Tim. 2, I6-I8 dice : " Schiva le vuote chiacchiere profane, fonte solo di maggior empietà, parole mai sazie come una cancrena. Conosci il caso di Imeneo e Fileto, gente che sbagliò a proposito della verità, dicendo che la risurrezione è già avvenuta ", il che non poteva intendersi se non in

206

P.

l.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

rapporto alla risurrezione spirituale. È qumdi contro la verità della fede porre la risurrezione spirituale e negare quella corporale. Inoltre è evidente, da ciò che l'Apostolo dice ai Corinti, che le prece­ denti parole si devono intendere della risurrezione corporale . Infatti poco oltre aggiunge : " Si semina Wl corpo in condizione terrena e risorge un corpo spirituale ", dove evidentemente egli tocca la risurrezione del corpo, e poi aggiWlge : " Bisogna che questo corpo corruttibile rivesta l'incorrut­ tibilità, che questo corpo mortale rivesta l'immortalità " (1 Cor. 1 5, 44· 5 3). Ed ancora : in Gv. 5, 25. 28 il Signore promette entrambe le risurre­ zioni. Dice infatti : " In verità, in verità vi dico : viene l'ora, ed è adesso, che i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l'avranno ascol­ tata vivranno ". Ciò sembra appartenere alla risurrezione spirituale delle anime, che incominciò a verificarsi già allora, quando alcuni aderirono con la fede a Cristo. Ma poi esprime la risurrezione corporale dicendo : " Viene l'ora in cui tutti quelli che sono nei sepolcri udranno la voce del Figlio di Dio " . È evidente infatti che nei sepolcri non ci sono le anime, ma i corpi. Qui viene quindi predetta la risurrezione dei corpi. La risurrezione dei corpi viene preannunziata pure esplicitamente da Giobbe. Si dice infatti in Giob. 19, 2 5 : " Io so che il mio redentore vive e che nell'ultimo giorno risorgerò dalla terra e mi rivestirò nuova­ mente della mia pelle, e nella mia carne vedrò Dio ". Per dimostrare la risurrezione futura della carne viene pure presentato un argomento di ragione evidente, presupponendo tuuo ciò che è stato detto in precedenza. È stato infatti dimostrato nel libro secondo, cap. 79, che le anime degli uomini sono immortali e quindi rimangono dopo i corpi, separate dai corpi. Da ciò che è stato detto nel libro secondo, cap. 8 3 e 84, è pure evidente che l'anima è unita naturalmente al corpo, è cioè, per natura, forma del corpo. È quindi contro la natura dell'anima l'essere senza il corpo. Ma nulla, che sia contro la natura, può durare ininterrot­ tamente. Quindi l'anima non sarà per sempre senza il corpo. Ma poiché essa rimane per sempre, deve essere ricongiWlta al corpo : e ciò significa risorgere. Di conseguenza l'immortalità delle anime sembra esigere la futura risurrezione dei corpi. Ed ancora : è stato dimostrato nel Libro III, c. 25, che il desiderio natu­ rale dell'uomo tende alla felicità. Ma la felicità ultima è la perfezione di colui che è felice. Conseguentemente chiunque, cui manchi qualcosa alla perfezione, non ba ancora la felicità perfetta, perché il suo desiderio non è ancora totalmente soddisfatto : tutto ciò che è imperfetto desidera infatti naturalmente di conseguire la perfezione. Ma l'anima separata dal corpo

§

297.

LA RISURREZIONE DAI MORTI :

SUA REALTÀ

207

e m qualche modo imperfetta, come ogni pane che sia fuori del tutto. L'anima infatti è per natura una parte della natura un;ana. Di conseguenza l' uomo non può conseguire la felicità ultima se l'anima non viene nuova­ mente congiunta al corpo, particolarmente perché è stato dimostrato che in questa vita l'uomo non può giungere alla felicità ultima (1. III, c. 48). Similmente : com'è stato dimostrato nel libro III, c. 1 40, per disposi­ zione divina ai peccatori è dovuto il castigo ed a coloro che agiscono bene il premio. Ma gli uomini in questa vita peccano od agiscono rettamente in quanto composti di anima e di corpo. Di conseguenza agli uomini è dovuto il premio od il castigo sia nell'anima che nel corpo. Ma da quanto è stato dimostrato nel libro III, c. 48, è evidente che in questa vita essi non possono conseguire il premio della felicità ultima. Troppe volte anche i peccatori non vengono puniti in questa vita; anzi qui, come è detto in Giob. 2 1 , 7 : " Gli empi vivono, sono rafforzati ed innalzati dalla ric­ chezza ". Perciò è necessario ammettere che si rinnovi l'unione dell' anima con il cor9o, affinché l'uomo oossa essere premiato e punito nel corpo e nell'anima » .

§ 298. Il valore salvifico della risurrezione e la peculiarità del corpo risorto.

CAPITOLO l. IL

VALORE SALVIFICO

DELLA RISURREZIONE DAI

MORTI

Come dimostrano le testimonianze della Scrittura, nella rivelazione di­ vina l'accento poggia sulla trasfigurazione corporea, non sulla immortalità dell'anima spirituale. Anche l'immortalità dello spirito umano viene atte­ stata, anch'essa è una verità rivelata.

È espressa nella Sacra Scrittura for­

malmente, quantunque soltanto implicitamente, ed è stabilita dalla Chiesa come dogma. Allo sviluppo della testimonianza della Scrittura serve la filosofia platonica. Se ne tratterà ampiamente nel § 30 1 . Tuttavia gli accenti cadono con piu forza sulla risurrezione dai morti, che

è l' elemento

decisivo e distintivo. La risurrezione dai morti è lo sviluppo piu alto dell'unione dell'uomo con Cristo. Proprio in questo punto la escatologia si rivela come cristologia sviluppata. Poiché Cristo è

il capo della Chiesa, cioè degli uomini che in

ordinamento gerarchico vivono della fede in lui, egli giunge alla pienezza ultima del suo essere e del suo significato solo in quanto i fedeli vengono a lui assimilati nella massima intensità, che è possibile in base al disegno salvifico di Dio, e partecipano alla sua vita di risurrezione. Secondo la testimonianza della Scrittura (Rom. 6) l'esistenza cristiana

è sempre par­

tecipazione alla morte ed alla risurrezione di Cristo (cfr. § 1 82). Durante la storia però l'unione e la somiglianza con Cristo non vanno mai oltre uno stadio incipiente, ma esse tendono al compimento, alla perfezione che si attua nel cristiano glorificato,

il quale riflette pienamente Cristo. L'uomo

risorto non si riduce però ad essere uno specchio del Signore risorto. Ammettere una cosa del genere sarebbe pancristismo (cfr. § 1 82). Egli anzi nella vita di risurrezione conserva la sua personalità, che però è caratterizzata dal fatto, che nell'uomo glorificato si manifesta come in uno

§ 298. VALORE SALVIFICO DELLA RISURR. E PECULIARITÀ DEL CORPO RISORTO

209

specchio perfetto il Cristo glorificato. Cfr. Pio XII, Enc. Mystici corporis, 29 giugno 1943· Come la vita mortale attesta e rivela l'uomo in quanto peccatore (§§ 1 34 e I 36), cosi la vita della risurrezione lo rivela come un essere liberato perfettamente e definitivamente dal peccato (cfr. § 1 56). L'esistenza della risurrezione è per tutta l'eternità il segno della vittoria completa sul pec­ cato. L'uomo risuscitato dai morti è quindi il pienamente redento. Sol­ tanto quello può essere cosi chiamato. Finché la sola anima spirituale è partecipe della visione di Dio, la redenzione completa non è ancora raggiunta. Poiché gli uomini, secondo l'economia divina, non avrebbero dovuto subire quella morte che domina la storia uamana, se non avessero peccato; poiché quindi sugli inizi deiìa vita umana stava la promessa di una immu­ nità fisica dalla morte, la risurrezione dai moni significa il ritorno agli inizi della vita umana. Ciò che venne perso per il peccato, viene quindi riparato nella risurrezione dai morti. La fine, che è perfezione, viene cosi congiunta agli inizi. Sulla via lunga, amara, piena di lacrime e di dolori attraverso la storia umana, l'umanità giunge là dove ha deviato dal cam­ mino, quantunque in una situazione mutata, anzi in una situazione che si trova ad un livello superiore. Si può considerare come una garanzia divina aggiuntiva per l'acquisto di questa meta finale il fatto che l'esistenza di risurrezione di Cristo, che è causa efficiente, esemplare e finale di ogni risurrezione , si sia già attuata perfettamente in Maria per il suo rapporto unico e singolare con Cristo. Cfr. il trattato sulla Mariologia, § 7. La risurrezione è quindi il compimento ultimo della redenzione. Ciò significa che l'uomo acquista in essa la perfetta forma umana, la quale implica corpo ed anima. Soltanto la risurrezione dai morti inserisce anche il corpo, che assieme allo spirito costituisce il composto umano, nella redenzione completa. Cfr. tra altri Jos . Stadlmann-Ludwig Hansel, Chris­ tentum und moderne Geisteshaltung, Wien-Miinchen 1 954, 279-329.

CAPITOLO II. LA PECULIARITA' DEL CORPO MISTICO

I. - LA TRASFORMAZIONE IN GENERE l . Se la redenzione si rivela nel corpo, il corpo risorto deve essere diverso dal corpo dell'esistenza temporale-storica. Di fatto esiste tra le due forme di corpo una differenza sostanziale. La risurrezione non è la rias­ sunzione del corpo, lasciato dall'anima, nella sua forma antica, e la conti­ nuazione della vita precedente, bensi l'inizio di una nuova vita. Il risorto non viene riportato ad un qualche stato della sua esistenza temporale­ storica; ma la risurrezione implica piuttosto una trasformazione. Era l'er­ rore dei sadducei illuministi il non potersi immaginare la risurrezione se non come una grossolana restaurazione della vita corporale, distrutta con la morte. Cristo annunziò loro che il corpo risorto esiste in un modo di­ verso da quello storico (cfr. il § precedente). Paolo definisce stolte simili idee, esistenti anche a Corinto. Come il granello di seme dev'esser posto nella terra e morire affinché ne possa sorgere la pianta, cosi il corpo deve passare attraverso la morte, affinché possa sopravvivere in modo nuovo. Il uunto di comparazione è la trasfor­ mazione, che costituisce la categoria appropriata per comprendere il corpo risorto. Tuttavia la trasformazione non avviene con un processo di sviluppo organico, ma è operata da Dio ( 1 Cor. 1 5, 38. 52. 5 7), è grazia (2 Cor. 1 , 9 ; Col. I , 4). -

2 . Anche nella liturgia troviamo il pensiero della trasformazione : esso sta alla base del Prefazio dei defunti, quando dice che la meta definitiva dell'uomo può essere raggiunta soltanto nella risurrezione dai morti. « Vera­ mente è degno e giusto, equo e salutare, che noi sempre e dovunque ti ren­ diamo grazie, o Signore, Padre santo, Dio eterno e onnipotente, per Cristo -

§ 298. VALORE SALVIFICO DELLA IUSURR. E PECULIARIT À DEL CORPO RISORTO

2II

Signor nostro. Nel quale c i rifulse la speranza della beata risurrezione, cosicché coloro cui contrista la certezza della morte siano consolati dalla promessa della futura immortalità. Dacché, o Signore, la vita dei tuoi fedeli non si distrugge, ma si commuta ; e, demolita la casa di questa dimora terrestre, s'acquista eterna abitazione in cielo » . Risorgere non significa quindi continuare senza fine l'esistenza terrena, storica. Una simile concezione sarebbe in contraddizione diretta con la rivelazione della risurrezione dai morti. Con la sua inesauribile forza crea­ trice Dio risusciterà l'uomo in un corpo diverso, che non s'incontra nel­ l'esperienza e che non si può descrivere con i mezzi della nostra cono­ scenza sperimentale. Tra l'esistenza terrena e l'esistenza della risurrezione esiste, è vero, un rapporto, ma nello stesso tempo tra le due forme di esi­ stenza si apre un abisso non superabile con la forza umana. La via che porta dall' una all'altra passa attraverso la morte ed attraverso la trasfor­ mazione che dipende dalla morte ed è operata da Dio. Senza questa trasformazione nessuno può divenire partecipe della esistenza della risur­ rezione. Ma la trasformazione è interamente opera di Dio. È un miracolo incomprensibile. Conseguentemente il paragone dell'Apostolo con la tra­ sformazione del granello di seme non dev'essere portato agli estremi. Esso simboleggia la diversità del corpo risorto nei confronti del corpo storico, ma non è in grado di spiegare la ragione della trasformazione del corpo terrestre in un corpo celeste. Mentre la trasformazione, che il gra­ nello di seme subisce, si trova nell'ambito delle leggi che agiscono in esso, la trasformazione del cor�o storico in quello superstorico non si può spiegare con l'azione di leggi naturali, ma si richiede per essa un vero intervento soprannaturale della misteriosa potenza divina. Cfr. Tommaso d'Aquino, Summa Contra Gentiles, IV, So-8 1 .

3 . Nella seconda lettera a Timoteo Paolo si rivolge con sorprendente as:')rezza contro quei membri della comunità, che negano la trasforma­ zione attraverso la morte. Egli ammonisce Timoteo a schivare le vuote chiacchiere profane, « fonte solo di maggiore emnietà, parole mai sazie come una cancrena. Conosci il caso di Imeneo e Fileto, gente che sbagliò a proryc•ito della verità, dicendo che la risurrezione è già avvenuta, e sovverte cosi la fede di parecchi » (2 Tim. 2, 17 s.). Secondo l'eresia fla­ gellata da Paolo la vita attuale è già lo stato perfetto. Lo stato di pelle­ grinaggio viene scambiato con la vita di gloria e cosi non vengono prese sul serio né h vita di pellegrinaggio che è una partecipazione nascosta alla gloria di Cristo ed una uartecipazione sensibile alla sua croce, né la -

212

P. I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

trasformazione che avviene nella risurrezione. Una simile opinione si può comprendere soltanto se la risurrezione non si riferisce al corpo, ma solo allo spirito, che col pentimento si stacca dal peccato e si innalza ad una nuova vita, se quindi viene svuotata del suo senso reale.

Il. - LA QUALITÀ DEL CORPO TRASFORMATO.

Sulla natura del corpo trasformato la rivelazione ci dà solo poche indi­ cazioni. In definitiva è un mistero incomprensibile. Nella Scrittura il corpo risono viene paragonato con il corpo glorificato di Cristo, il quale è il modello della futura trasfigurazione. Al pari del corpo di Cristo, il futuro corpo risorto non è piu asservito alle leggi spa­ ziali e temporali, quantunque, 11 pari di quello, rimanga in qualche modo legato allo spazio ed al tempo.

l . In particolare Paolo nella lettera ai Corinti nomina le seguenti pro­ prietà del corpo risorto. Esso è dotato di incorruttibilità, di forza e di gloria, mentre il corpo temporale-storico è soggetto alla corruzione, alla debolezza ed alla ignobilità. Agli occhi dell'Apostolo l'incorruttibilità è un bene estremamente pre­ zioso. Che tutto debba passare, che anche la bellezza debba morire, ed anzi porti sempre già in sé il germe della corruzione, è un profondo dolore, reso piu acuto dal fatto che tale corruzione è segno del peccato (Gen. 3, 14- 1 9 ; vol. II, § 1 34). Ad essa la creazione venne sottoposta a motivo del peccato (Rom. 8, 20). Questa tesi viene sostenuta dalla Scrit­ tura anche altrove. A motivo della incorruttibilità e della immortalità, nella vita celeste, come già abbiamo visto, non è piu necessario il matri­ monio. I risorti diventano simili agli angeli dotati di vita immortale (Le. 20, 36 ; cfr. Apoc. 7, 1 6 ; 2 1 , 4). Perciò tra essi non ci sarà piu l'an­ goscia della morte ; sarà tolto tutto ciò che ostacola e minaccia la vita. I risorti « non soffriranno piu la fame né soffriranno piu la sete, né si abbatterà mai su di essi il sole né calura alcuna » (Apoc. 7, 16). Come esempi dei tormenti, che affliggono l'uomo entro la storia, Giovanni cita quelli che piu gravemente hanno oppresso il popolo di Israele nel suo viaggio attraverso il deserto. Allora i raggi torridi del sole sono scoccati come frecce. Sul mezzogiorno la canicola imperversava come un demone ed il vento caldo consumava tutte le forze (cfr. Eccli. 43, 4; Sal. 1 2 1 [ 1 20] , 6 ; Sal. 9 1 [90] , 5 s.). Queste tribolazioni sono similitudini delle -

§ 298. VALORE SALVIFICO DELLA RISURR. E PECULIARITÀ DEL CORPO RISORTO

213

sofferenze che i l popolo di Dio del Nuovo Testamento deve sopportare durante il suo pellegrinaggio attraverso il deserto della vita terrena. Esse non possono piu assalire i risorti. Infatti l'agnello che sta dinanzi al trono « sarà il loro pastore e li condurrà a sorgenti d'acqua di vita ; e Iddio ter­ gerà ogni lacrima dai loro occhi » (Apoc. 7, 1 7 ). Il messaggio della vita esente dalla morte suona talmente incredibile che il veggente vi insiste, annunziandolo una seconda volta (Apoc. 2 1 , 4) : « Ed egli tergerà ogni lacrima dai loro occhi, e la morte non sarà piu, né lutto né grido né dolore saranno piu; ché le cose di prima passarono » . Della attendibilità della promessa di un simile futuro, che contraddice a tutte le esperienze, si fa garante Dio stesso. Giovanni continua (vers. 5) : « E disse colui che sedeva sul trono : ecco, faccio nuove tutte le cose. E dice : scrivi, ché queste sono parole degne di fede e veraci ». 2. Una seconda proprietà del corpo risorto è, secondo Paolo, la forza, che secondo l'Apostolo è una caratteristica di tutte le azioni divine. Se essa viene attribuita al corpo risorto, ciò significa che esso è pervaso dal calore onnipotente dell'amore divino e dalla potenza della verità celeste. Il corpo risorto esisterà in forza divina. -

3. - Il corpo risorto esisterà inoltre in gloria e bellezza. Il termine greco per gloria (d6xa) può significare anche fama od onore . Secondo la Scrit­ tura la gloria è una proprietà di Dio ed anche una proprietà del Cristo risorto (Rom. r , 23 ; 8, 17. 29 s. ; I Cor. 2, 7 ; 2 Cor. 3, 1 8 ; 4, 4· 6 ; 2 Tess. 2 , 14). Sul corpo risorto si diffonde la gloria di Cristo; questa brilla in esso. Il corpo che esiste in gloria apparterrà al mondo celeste, non piu a quello terrestre. Esso viene riempito di quello splendore che lampeggiò su Paolo dall'apparizione del Cristo glorificato. È una pienezza di luce che nessun occhio terreno può sopportare. I giusti brilleranno come il sole (Mt. 1 3, 14).

4 . - Paolo chiama il corpo cosi trasformato corpo spirituale. Il corpo non trasformato è un corpo « carnale » . Con ciò l'Apostolo vuoi dire che esso ha soltanto un principio di vita naturale. Il corpo trasformato sarà permeato dallo Spirito Santo, principio di vita perfetto, che trasforma il principio di vita naturale. Si può quindi chiamare corpo celeste. Anche il corpo terrestre esprime lo spirito umano che lo informa. Come già abbiamo visto, la capacità espressiva del corpo durante il periodo del pellegrinaggio ha dei limiti ristretti. Il corpo, come rivela lo spirito, cosi pure lo vela. A motivo della sua propria debolezza e della resistenza della materia lo

214

P.

l.

-

ESCATOLOG IA GENERALE

spirito non si può manifestare perfettamente nel corpo. Tuttavia il futuro corpo trasformato sarà perfettamente trasparente per lo spirito, il quale apparirà visibile in tutto il cor�o. E questo non perché lo s�irito in quella futura esistenza possa permeare completamente il corpo in virru della sua propria forza di conoscenza o d'amore, ma perché il risorto è domi­ nato in tutti gli strati della sua esistenza dallo spirito celeste (pnéuma), dallo Spirito Santo. Lo Spirito Santo, che forma e permea il risorto, dona una nuova potenza sia allo spirito che al corpo umano. Lo slJirito viene in tale modo liberato dalla debolezza che gli è connaturale nella vita ter­ rena, il corpo dalla pesantezza e resistenza che gli è connaturale sul piano terrestre. Lo spirito umano, dominato dallo Spirito Santo, può manife­ starsi in un modo adeguato nel corpo trasformato. La vita, che il corpo trasformato rivelerà, è quindi la vita dello spirito che realizza la sua propria conoscenza ed amore, ma è inoltre la vita dello spirito che partecipa della conoscenza e dell'amore di Dio. Il corpo tra­ sformato riflette anche proprio la chiarezza e la luce di Dio. Soltanto il corpo trasformato dallo Spirito Santo è capace di accogliere l'ardore e la luce di Dio, la potenza della verità personale e l'intensità dell'amore personale, in modo da divenire trasparente per essi. Poiché la luce e l'ardore di Dio traspaiono attraverso ad esso, il corpo stesso diventa luminoso ed ardente. È trasfigurato. Cfr. in proposito § 1 5 8 . 5. - Circa l a figura del corpo risorto non possiamo dire nulla. Nonostante la spiritualizzazione del corpo si conserva non di meno la diversità dei sessi.

6. Se il compito ed il senso del corpo è quello di essere mezzo e strumento dello spirito, soltanto il corpo risorto lo realizza in modo per­ fetto. Il corpo terrestre, poiché in esso lo spirito si può manifestare solo imperfettamente, è corpo soltanto in un modo imperfetto, anzi iniziale. Il vero corpo sarà il corpo futuro. -

III. - RISURREZIONE COME PERFEZIONAMENTO DELLA MATERIA. Quantunque la trasformazione del coroo umano sia un mistero impene­ trabile, tuttavia può divenirci accessibile attraverso esperienze e cono­ scenze naturali. La filosofia e le scienze naturali moderne parlano della stratificazione del mondo. Ogni strato inferiore è aperto per il superiore ed accogliendo lo strato superiore, per il quale è aperto, non si estrania

§ 298. VALORE SALVIFICO DELLA RIS URR. E PECULIARITÀ DEL CORPO RISORTO

215

a se stesso, ma giunge cosi alla manifestazione ed estrinsecazione della natura in esso immanente. Ma mentre la filosofia e le scienze naturali non conoscono strati che trascendono l'es ?erienza, nella fede noi siamo certi che al di là dell'es?erienza ci sono ancora delle realtà, per le quali gli strati dell'essere che si incontrano nell'esperienza sono aperti. Gli strati che trascendono la nostra esperienza implicano il dinamismo del corpo risorto di Cristo, il quale dinamismo, secondo la volontà di Dio, agisce nella materia e la trasforma secondo il modello del Cristo risorto. Con ciò la materia non viene straniata a se stessa, ma soltanto portata pienamente a se stessa. Essa anzi rimane aperta sia nei confronti dello spirito creato, sia dello spirito increato. Infatti alla materia è proprio l'or­ dinamento allo spirito e l'ordinamento a Dio. In tal modo essa acquista il modo di esistere, per il quale porta in sé la capacità, in quanto lo S!Jirito creato l'afferra e la forma, ma soryrattutto in quanto lo spirito increato la compenetra e la trasforma, servendosi dello spirito umano come di strumento.

IV.

-

TOMMASO D'AQUINO.

Nel libro IV, c. 82 della Summa Contra Gen tiles, Tommaso d'Aquino a pro­ posito della immortalità del corpo risorto dice : « Dopo quanto abbiamo detto è evidente che nella risurrezione futura gli uomini non risorgeranno in modo da morire nuovamente. La necessità della morte è infatti un difetto proveniente nella natura umana dal peccato. Ora Cristo mediante i meriti della sua passione ha riparato i difetti della natura, sorti in essa dal peccato, come dice l'Apostolo in Rom. 5, 15 : " Non come il delitto cosi anche il dono. Se infatti per il delitto di uno solo molti sono morti, con quanta piu abbondanza si riversò su tutti gli altri la grazia di Dio e il dono conferito per il merito di un solo uomo, Gesu Cristo ". Di qui si ha che il merito di Cristo è piu efficace a togliere la morte, che non il peccato di Adamo a introdurla. Coloro quindi che per il merito di Cristo risorgeranno, liberi dalla morte, non subiranno piu la morte in futuro. Inoltre : ciò che deve durare in perpetuo, non è distrutto. Se quindi gli uomini risorti morissero continuamente, per modo che la morte durasse in per­ petuo, la morte non sarebbe stata distrutta dalla morte di Cristo. Invece sap­ piamo che attualmente è già distrutta nella causa, il che il Signore aveva predetto per mezzo di Osea (13, 14), dicendo : " Sarò la tua morte, o morte "; in futuro poi sarà distrutta nella realtà, secondo le parole : " L'ultimo nemico a essere elimi­ nato sarà la morte " (I Cor. 15, 26). Secondo la fede della Chiesa si deve quindi ritenere che i risorti non torneranno a morire. Ed ancora : l'effetto somiglia alla sua causa. Ma la risurrezione di Cristo è

216

P.

l.

-

ESCATOLOGIA GEN};RALE

la causa della risurrezione futura, come è stato deno (cap. 79). Ora Cristo è risuscitato in modo da non piu morire, secondo le parole di Rom. 6, 9 : " Cristo, risorto dai morti, non muore piu ". Quindi gli uomini risorgeranno in modo da non morire piu. Inoltre : nel caso che gli uomini risorti muoiano nuovamente, o risorgeranno ancora da questa morte, oppure no. Se non risorgeranno, le anime rimarranno separate in perpetuo, e ciò è sconveniente, come è stato detto sopra (cap. 79), onde si ammette la necessità della risurrezione. Oppure, se non risorgono dopo la seconda morte, non ci sarà ragione per cui risorgano dopo la prima. Ma se dopo la seconda morte risorgeranno ancora, risorgeranno per morire nuovamente, oppure no. Se per non morire nuovamente, ciò si dovrà porre per la stessa ragione nella prima risurrezione. Se, invece, per morire nuovamente, l'alternarsi di morte e di vita nello stesso ed identico soggetto si protrarrà all'infinito : il che appare sconveniente. Infatti l'intenzione di Dio deve portarsi a qualcosa di determinato. Ma proprio il successivo alternarsi di vita e di morte è quasi una trasformazione, che non può essere lo scopo ultimo. È infatti contro la ragione di movimento che esso sia lo scopo ultimo, poiché ogni movimento tende a qualcos'altro. Inoltre : la intenzione della natura inferiore mira nell'agire alla perpetuità. Infatti ogni azione della natura inferiore è ordinata alla generazione, il cui fine è proprio la conservazione in perpetuo della specie. E per questo la natura non tende, come a scopo ultimo, ad un individuo determinalO, ma alla conservazione in esso della specie. E ciò la natura ha, in quanto agisce in virtu di Dio, la quale è la radice prima della perpetuità; per cui anche il filosofo pone essere fine ultimo della generazione che il generato partecipi all'essere divino secondo la perpetuità. Tanto piu quindi l'azione di Dio stesso tende a qualcosa di perpetuo. Tuttavia la risurrezione non è ordinata alla perperuità della specie, che potrebbe essere con­ servata mediante la generazione. Deve quindi essere ordinata alla perpetuità del­ l'individuo; e non solo quanto all'anima, perché è immortale anche prima della ri­ surrezione; quindi quanto al composto umano. Perciò l'uomo risorto vivrà in eterno. Inoltre : anima e corpo sembrano essere posti in rapporto tra loro con ordine diverso quanto alla prima generazione dell'uomo e quanto alla sua risurrezione. Infatti, quanto alla prima generazione, la creazione dell'anima viene dopo la generazione del corpo. Infatti dopo che la materia corporea è preparata dalla virtu del seme staccato, Dio infonde l'anima per creazione; nella risurrezione invece il corpo viene adattato all'anima preesistenle. Ma la prima vita, che l'uomo acquista mediante la generazione, segue la condizione del corpo corruttibile in questo, che essa viene sottratta dalla morte. Quindi la vita, che l'uomo acquista nella risurrezione, durerà in perpetuo, secondo la condizione dell'anima incor­ ruttibile. Parimenti : se vita e morte si succedono all'infinito nello stesso individuo, proprio l'alternarsi stesso di vita e di morte avrà l'apparenza di un circolo. Ma ogni circolo nelle cose soggette a generazione ed a corruzione viene causato dal primo circolo dei corpi incorruttibili. Infatti il primo circolo lo si trova nel movimento locale ed a somiglianza di questo viene derivato agli altri movimenti. L'alternarsi quindi di morte e di vita sarà causato dal corpo celeste. E questo non può essere, perché la restituzione del corpo morto alla vita trascende la

§ 298. VALORE SALVIFICO DELLA RISURR.

E

PECULIARITA DEL CORPO RISORTO

217

capacità dell'azione della natura. Non si deve q uindi porre tale alternarsi di vita e di morte e conseguentemente neppure che i corpi risorti muoiano. Ed ancora :

tutte le cose che si succedono nello stesso soggetto hanno una

durata limitata quanto al tempo. Ma tutte le cose del genere sono soggette al movimento del cielo, a cui consegue il tempo. Ora l'anima separata non è soggetta al movimento del cielo, perché trascende tutta la natura corporea. L'alternarsi della sua separazione dal corpo e della sua unione con esso non è quindi soggetto al movimento del cielo. Non c'è quindi un simile circolo nell'alternarsi di vita e di morte, quale seguirebbe se i risorti morissero nuovamente. Essi quindi risor­ geranno per non piu morire. Per questo in ls. ed in Apoc.

21, 4 :

25, 8

si dice : " Il Signore precipiterà la morte per sempre ",

" Non ci sarà piu la morte ··.

Cosi viene escluso l'errore di taluni antichi pagani, i quali credevano che s i ripetes sero senza fine i medesimi cicli d i tempi e d i cose; per esempio, come in un dato secolo il filosofo Platone nella città di Atene e in una data scuola detta Accademia ha ammaestrato dei discepoli, cosi attraverso a secoli innumerevoli, e precisamente a molto lunghi, ma

determinati

intervalli, lo

stesso

Platone e

la stessa città, la stessa scuola e gli stessi discepoli si sono ripetuti e poi si dovranno ripetere attraverso secoli innumerevoli. S. Agostino ne parla nel De civitate Dei, 12, 13, e dice che a tale proposito taluni riferivano quanto è detto in Eccli.

1, 9- 10 :

" Che cos'è, che non fu? Lo stesso che sarà. Che cos'è che e

stato fatto? Lo stesso che è da farsi. Nulla di nuovo sotto il sole e nessuno è in grado di dire : ecco, questo è nuovo. Esso iniatti già precedette nei secoli che furono prima d1 noi ., . Questo però non è da intendersi nel senso che la stessa cosa numericamente identica si ripeta atuaverso le varie generazioni, ma piutrosto il simile nella specie, come spiega Agostino nello stesso passo. E questo ha inse­ gnato Aristotele alla fine del libro della generazione confutando tale sentenza Nel c.

86

S. Tommaso tratta della qualità del corpo glorioso :

e:

:t.

Ma benché

nella risurrezione, per i meriti di Cristo, il difetto della natura venga tolto via a tutti senza distinzione, buoni e cattivi, rimarrà tuttavia una differenza tra i buoni ed i cattivi riguardo a tutto ciò che spetta personalmente agli uni ed agli altri. Ma rientra nel concetto di natura che l'anima umana sia la forma del corpo, che lo vivifica e lo conserva nell'essere. Ma in virtu degli ani personali l'anima merita di essere innalzata alla gloria della visione divina, oppure di essere esclusa, per la colpa, dall'ordine di questa gloria. Il corpo di tutti quindi sarà indistin­ tamente disposto secondo quel che conviene all'anima, cioè in modo che essa, in quanto forma incorruttibile, conferisca al corpo l'essere incorruttibile, nono­ stante la composizione dei contrari, poiché la materia del corpo umano sarà per virtu divina completamente sottoposta quanto a questo all'anima umana. Ma dalla chiarezza e virtu dell'anima, innalzata alla visione divina, il corpo ad essa unito otterrà qualcosa di piu. Esso infatti, ciò operando la virtu divina, sarà pienamente soggetto all'anima, non soltanto in rapporto all'essere, ma anche in rapporto alle azioni e passioni, ai movimenti ed alle qualità corporali. Come quindi l'anima che fruisce della visione divina sarà ripiena in qualche modo di una chiarezza spirituale, cosi, per una certa qual ridondanza dall'anima nel corpo, il corpo stesso sarà rivestito a suo modo della gloria della chiarezza. Per cui l'Apostolo

218

P. l.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

in I Cor. I5, 43 dice : " Viene seminam il corpo spregevole, risorgerà nella gloria ", perché il nostro corpo ora è opaco, ma allora sarà chiaro, secondo le parole di Mt. I 3 , 43 : " I giusti rifulgeranno come il sole nel regno del Padre loro " . L'anima, c h e fruirà della visione divina, congiunta a l fi n e ultimo, vedrà ogni suo desiderio pienamente soddisfatto. E poiché il corpo è mosso dal desiderio dell'anima, ne verrà di conseguenza che il corpo ubbidirà pienamente al cenno dello spirito, per cui i corpi dei beati risorti saranno agili. E questo è quel che dice l'Apostolo nello stesso passo :

" Viene seminato nella debolezza, risorgerà

n ella forza " (I Cor. I5, 43). Esperimentiamo infatti la debolezza nel corpo, perché esso viene trovato inabile a soddisfare il desiderio dell'anima nei movimenti e nelle azioni che essa comanda. E questa debolezza sarà eliminata completamente quando la virtu ridonderà dall'anima unita a Dio nel corpo. E per questo è detto anche in Sap. 3,

7

dei giusti che " scorreranno come scintille nel canneto " ; non perché

ci sia in essi movimento per necessità, poiché di nulla hanno bisogno coloro che hanno Dio, ma per dimostrare ia vinti. Ma come l'anima, che fruisce di Dio, avrà un desiderio pienamente soddisfatto in rapporto al raggiungimento di ogni bene, cosi anche il suo desid erio in rap­

ogni male sarà soddisfatto, perché con il sommo E quindi il corpo reso perfetto dall'anima, corrispondentemente all'anima, sarà immune da ogni male, sia in rapporto all'atLo, sia in rapporto alla potenza. In rapporto all'atto, perché in essi non ci sarà cor­ ruzione, deformità né difetto. Quanto alla porenza invece, p erchè non possono porto all'allontanamento

di

bene non c'è posto per alcun male.

soffrire nulla che sia loro · molesto. E perciò saranno impassibili. Tuttavia questa impassibilità non esclude da essi la passione che rientra nella ragiope del senso. Essi infatti si serviranno dei sensi per il diletto secondo tutto ciò che non contrad­ dice allo stato di incorrunibilità. Per dimostrare q uesta loro impassibilità dice quindi l'Apostolo :

" Viene seminato nella corruzione,

risorgerà

nella

incorru­

zione " (I Cor. 15, 42). Ancora, l'anima, che fruisce di Dio, aderirà

a

lui nel modo piu perfetto e ne

parteciperà in sommo grado la sua bontà, secondo la

sua

capacità. Perciò anche

il corpo sarà pienamente soggetto all 'anima e paneciperà alle sue proprietà, in quanto è

possibile :

nella perspicuità

dei

sensi, nell'ordinazione del

desiderio

corporeo ed in ogni perfezione della natura ; poiché una cosa è tanto piu perfetta nella natura, quanto

piu

perfenamente la

E perciò dice l'Apostolo : " Viene seminato spirituale " (I

Cor.

sua materia è soggetta un

alla

forma.

corpo :mi male, risorgerà un corpo

15, 44). Il corpo del risorto sarà spirituale, non perché sia

spirito, come malamente hanno inteso taluni - sia che per spirito s'intenda la sostanza spirituale o l'aria o il vento (cfr. c. 84), - ma perché sarà pienamente soggetto allo spirito, come anche vien chiamato corpo animale non perché sia animale, ma perché soggiace alle passioni animali ed ha bisogno di nutrimento. Da quanto detto precedentemente è quindi evidente che come l'anima del­ l'uomo

sarà

innalzata

alla

gloria

degli

spiriti

essenza, com'è stato dimostrato nel libro III, c.

celesti

67,

affinché

veda

Dio nella

cosi il suo corpo sarà subli­

mato alle proprietà dei corpi celesti, in quanto sarà chiaro, impassibile, mobile senza difficoltà e fatica e perfetto nel modo piu completo per mezzo della sua forma.

E

in tal senso dice l'Apostolo che i corpi dei risorti sono celesti, non quanto

§ 298. VALORE SALVIFICO DELLA RISURR. E PECULIARITÀ DEL CORPO RISORTO

219

alla natura, m a quanto alla gloria. E perciò, dopo aver detto : « C i sono corpi celesti e corpi terrestri », aggiunge : « Altra è la gloria dei celesti, altra quella dei terrestri » (I Cor. 1 5, 40). Ma come la gloria, a cui sarà innalzata l'anima umana, trascende la virtu naturale degli spiriti celesti, come si è dimostrato nel libro III, c. 53, cosi la gloria dei corpi risorti trascende la perfezione naturale dei corpi celesti, per modo che la chiarezza è maggiore, l'impassibilità piu salda, l'agilità piu facile e la dignità della natura piu perfetta... La Chiesa intera - continua egli nel c. 88 - sarà come un uomo perfetto che correrà incontro a Cristo... Ma tutti devono risorgere nell'età di Cristo, che è l'età giovanile, a motivo della perfezione della natura, che esiste soltanto in questa età. L'età puerile infatti non ha ancora raggiunto la perfezione naturale con l'aumento (crescita), mentre l'età senile se ne è già allontanata per il depe­ rimento dell'organismo ».

V.

-

IDENTITÀ DEL CORPO RISORTO CON IL CORPO TERRESTRE.

Per quanto grande sia la differenza tra il corpo terrestre ed il corpo trasformato, esiste tuttavia tra le due forme di cor!JO uno stretto rapporto. È dogma di fede che il corpo risorto è identico al corpo terrestre non soltanto nella specie (specificamente)) ma nell'individuo (numericamente). Cfr. Denz. 287. 347 · 427. 429. 464 . 5 3 1 . A . Dottrina della Chiesa.

Citiamo anzitutto i testi ecclesiastici piu irn�crtanti. Nella cosi detta Fides Damasì, di un ignoto autore del 5 00 circa, sta la proposizione se­ guente : « Purificati in questa morte e sangue (di Cristo), crediamo che nell'ultimo giorno risorgeremo, in questa carne in cui ora viviamo » (Denz. r 6). Nella professione di fede del Concilio di Toledo XI (675) è detto : « Noi dunque confessiamo che, sul modello del nostro capo Gesu Cristo, ci sarà la vera risurrezione della carne di tutti i morti. Ma non crediamo che risorgeremo in un corpo aeriforme od in un qualche altro corpo, come taluni errano, bensi pro?rio in questo in cui viviamo, sussi­ stiamo e ci muoviamo. Nostro Signore e redentore dopo essere risorto come nostro modello, con la sua ascensione rioccuoò il trono paterno, che nella sua divinità non aveva mai lasciato. lvi egli siede alla destra del Padre e viene as�ettato alla fine dei temTJi come giudice di tutti i viventi e di tutti i morti. Di là egli verrà con gli angeli e con gli uomini per il giudizio, �er rendere a ciascuno la rimunerazione che ha meritato, a se­ conda che in vita ha fatto il bene od il male. Noi crediamo che la santa Chiesa cattolica, acquistata a prezzo del suo sangue, regnerà con lui in

220

P. I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

eterno. Vivendo nel seno di questa Chiesa, crediamo, e confessiamo un solo battesimo per la remissione di tutti i peccati. In questa fede riteniamo veramente la risurrezione dai morti ed aspettiamo le gioie del secolo ven­ turo. Pertanto dobbiamo pregare e chiedere che quando il Figlio avrà terminato e completato il giudizio e consegnerà il regno a Dio Padre, faccia partecipi anche noi del suo regno. Cosi possiamo anche noi per questa fede, con la quale a lui aderiamo, giungere con lui al regno senza fine » (Denz. 287). Nel simbolo, inviato da Leone IX il I 3 aprile 1 0 5 3 al vescovo Pietro d i Antiochia, stanno queste proposizioni : « Io credo che la Chiesa una santa cattolica e apostolica è la vera Chiesa, nella quale ci viene dato il battesimo e la vera remissione di tutti i peccati. Credo pure nella vera risurrezione della stessa carne che ora porto, e nella vita eterna » . Similmente si esprime i a professio fidei, prescritta ii 1 8 dicembre I 208 da Innocenza III a Durando de Osca ed ai suoi compagni valdesi (Denz. 427). Il Concilio Lateranense IV del 12 r 5 (ecumenico XII) stabilisce nella nostra questione quanto segue : « Gesu Cristo, Figlio unigenito di Dio ... ritornerà alla fine dei tempi, per giudicare i vivi ed i morti e retribuire ciascuno secondo le loro opere, sia i dannati che gli eletti. Risorgeranno tutti con lo stesso corpo che portano quaggiu, per ricevere gli uni il ca­ stigo eterno con il demonio e gli altri la gloria eterna con Cristo, a seconda delle loro opere buone o cattive » (Denz. 429). Nella professione di fede, proposta nel 1 267 dal papa Clemente IV all'imperatore Michele Paleologo ed accettata dagli inviati dell'imperatore romano d'Oriente nella sess. 4 del II Concilio di Lione, si dice : « La stessa santa Chiesa crede fermamente e fermamente afferma che nel giorno del giudizio appariranno tutti gli uomini dinanzi al tribunale di Cristo col loro corpo, per rendere conto delle loro azioni » (Denz. 464). Questa formula ripete quamo era stato detto nella costituzione Bene­ dictus Deus del I 3 36. In questi testi ecclesiastici è insegnata l'identità non soltanto generica o specifica, ma numerica del corpo risorto con il corpo terreno. Questa identità rappresenta una verità rivelata.

B. Spiegazione teologica. Non è tuttavia chiarita la questione del modo in cui si debba intendere questa identità. A tale fine si devono fare considerazioni teologiche, filo­ c,ofiche e di scienze naturali. Riguardo a queste ultime, è importante il

§ 298.

VALORE SALVIFICO DELLA R I SURR. E PECULIARIT

À

DEL CORPO R I SORTO

221

fatto che durante la vita umana storica, il corpo mediante il ricambio sostituisce ripetutamente (a ritmo settennale) la materia originaria con altra, in modo cosi radicale che nel corpo del vecchio non esiste piu nulla degli elementi strutturali materiali del corpo infantile. Non di meno il corpo mutato non cessa di essere il corpo di quell'uomo, cui appartenne fin da principio. Per quanto l'uomo si modifichi fisicamente per l'età, le privazioni, la malattia, non di meno l'io conserva il corpo che gli appar­ tiene e che si esprime con movimenti, gesti e atteggiamenti preferiti ben determinati, caratteristici dell'uomo in questione e propri a lui solo. La ragione teologica piu profonda, per cui con il cambiamento totale degli elementi materiali non viene distrutta la Identità dell'uomo, sta nel fatto che l'anima spirituale è la fanna corporis (cfr. § 1 30). Il fatto sperimentale del ricambio degli elementi corporei e la verità rivelata della personalità dell'uomo, che sopravvive a tutti i mutamenti corporali, si possono con­ giungere in sintesi mediante la proposizione di fede secondo cui l'anima spirituale è il principio formale del corpo. Evidentemente l'unità del prin­ cipio formale è sufficiente per garantire entro la storia l'identità dell'uomo con se stesso. Ci si domanda se soddisfiamo alla dottrina ecclesiastica della identità del corpo risorto con il corpo terreno ammettendo anche per esso soltanto l'identità del principio formale, cioè dell'anima spirituale, e non l'identità degli elementi materiali che rappresentano il principio materiale. Chi ri­ tiene che si debba ammettere anche l'identità del principio materiale, deve indagare la questione se nel corpo risorto ritornino tutte le parti ma­ teriali che furono unite al corpo umano, e nel caso che questo non si possa affermare, se venga in questione una determinata corporeità, ad es. quella del bambino oppure del vecchio, oppure se basti per la identità una qualche parte di materia che si sia trovata un giorno nel corpo umano. Il primo a trattare questo problema fu Origene. Le sue opinioni circa la nostra questione sono discusse, tuttavia si dovrà dire che egli ha di­ stinto tra il corpo materiale, che vive in mutazione ininterrotta, e la forma, superiore a tutte le mutazioni, che garantisce l'identità dell'individuo. Inoltre Origene ha ammesso nel corpo terrestre un seme della immor­ talità. Egli sembra quindi affermare continuità e discontinuità, quest'ul­ tima però con maggior forza (cfr. Miche!, Dict. de Théol. cath., 1 2, 2, 2528 s.). La sua dottrina in seguito, nelle controversie origeniane, venne intesa nel senso di uno spiritualismo esagerato, contro cui la realtà cor­ porale dell'esistenza nella risurrezione venne spesso fortemente accentuata (cfr. le dichiarazioni dottrinali precedentemente citate). Tuttavia la que-

222

P.

I. - ESCATOLOGI A GENERALE

stione della sua natura venne mossa nuovamente soltanto nel sec.

XII I .

Tommaso d' Aquino e Bonaventura hanno parlato del corpo risorto in un modo molto realistico, ma dal rapporto dell'anima spirituale col corpo, spiegato da Tornmaso d'Aquino con l'aiuto della filosofia aristotelica, una nuova luce fu proiettata sulla nostra questione. Secondo lo stesso Tom­ maso d'Aquino, nel processo di corruzione dopo la morte il corpo si avvi­ cina alla materia prima, senza però tornare completamente in essa. A suo giudizio il corpo risorto è desunto soprattutto dalla precedente materia corporea. Tommaso tuttavia non ritiene escluso che il corpo risorto venga anche formato di materia diversa. Or. inoltre

(t

Compendium theologiae,

Summa Contra Gentiles, IV, So-8 1 ; Super Ep. S. Pauli, I Cor. 1 5, l. 9·

c. 1 54 ;

Il passaggio ad una nuova soluzione fu opera di Durando di Pourçain 1 334), il quale sostenne l'opinione che l'identità del princi�io formale,

e quindi dell'anima spirituale, sia sufficiente per garantire l'identità del corpo risorto con il corpo terrestre. Egli si servi per questo della tesi di S. Tommaso dell ' an ima

forma corporis,

ma ne fa un uso che va molto

oltre S. Tommaso. La dottrina di Durando per molto tempo non trovò sostenitori, ma nel sec.

XIX e

xx venne accettata con risonanze diverse

da molti teologi. Gli uni dichiarano la tesi possibile, ma considerano come eccezione che nel corpo risorto non esista nulla della materia terrena. Altri invece considerano ciò come la regola. Senza rilevare le differenze citiamo i teologi piu importanti di questa tendenza : Hettinger,

Oswald, Laforet,

Schell, Billor, Hugueny, Krebs, Feuling, Michel, van der

Meersch, Parente, Meric . Altri invece sono convinti che l'identità inse­ gnata dalla Chiesa im'?lichi necessariamente anche una qualche identità del principio materiale,

e

quindi della materia del corpo (Scheeben, Lepi­

cier, D'Alès, Hugon, Zubizarreta, Lennerz, Daffara, Piolanti, Filograssi, De Broglie, Segarra).

I

teologi nominati per primi, e quindi i sostenitori

dell'opinione che l'identità del corpo risorto sia sufficientemente garantita dall'identità del principio formale, adducono come ragione il fatto che soltanto sotto l'influsso formativo dell'anima S!Jirituale la materia diventa corpo umano. Se quindi l'anima, che nella vita terrena è la legge formale del corpo terreno, nella vita futura è la legge formale del corpo risorto, allora, secondo questi teologi, il corpo risorto è il cor�o che appartiene a quest'anima e di conseguenza è intrinsecamente lo stesso corpo con cui l'anima una volta ha costituito un'unica natura fisico-osichica.

I sostenitori

di quest'o�inione affermano quindi che la loro dottrina è conseguenza logica e stretta della proposizione di fede secondo cui l'anima è la forma sostanziale del corpo.

§ 298. VALORE SALVIFICO DELLA RISURR. E PECULIARITÀ DEL CORPO RISORTO

223

Finora la Chiesa non si è opposta a questa s_:Jiegazione della risurrezione dai morti. Tuttavia il tenore immediato della testimonianza di Paolo sem­ bra andare oltre una simile interpretazione ed affermare anche una certa identità materiale. Prima di una decisione si dovrebbe quindi ricercare se la testimonianza di Paolo dev'essere intesa nel suo tenore immediato, op­ pure se il tenore dev'essere inteso come rivestimento o come corpo della dottrina espressa. Con la s�iegazione dei teologi citati parecchie obiezioni contro la risurrezione perderebbero il loro valore. Sarebbe ad es. del tutto indifferente il numero e la qualità degli organismi a cui la stessa ed iden­ tica massa di materia ha servito, durante la storia, da elemento strutturale. Non ci sarebbe pericolo che uomini diversi rivendichino la stessa materia perché le stesse parti materiali nel corso dei millenni sono stati elementi dei loro corpi. Queste dh'TI.col.tà possono essere elh-ninate anche dai soste­

nitori della dottrina citata per prima, perché per la struttura del corpo risorto basta una minima quantità di materia corporea; ma nei confronti della spiegazione addotta in secondo luogo tali difficoltà non possono essere neppure sollevate in partenza. Anche i corpi dei dannati vengono risuscitati, ma continuano ad esi­ stere in bruttezza, deformità, costrizione. In essi si estrinseca la vergogna e l'infelicità delle anime. Sull'argomento cfr. Fr. Gtmtermann, Die Eschatologie des hl. Paulus, 1 9 32, 1 63-195; R. Grosche, Auferstehung des Fleisches, in lch glaube, 1 9 37, 1 99-222 ; L. Ciappi O. P., La risurrezione dei morti secondo la dottrina cattolica, in Gregorianum, 39, 1 9 58, 203-22 1 .

§ 299. Il giudizio universale.

CAPITOLO I. I L FATTO DEL GIUDIZIO

l.

-

CONSIDERAZIONE PRELIMINARE.

Alla fine del mondo Cristo non apparirà nella forma di servo, ma nella gloria che si rivela a partire dalla risurrezione ed ascensione. Il ritorno di Cristo significa quindi la manifestazione svelata dell'amore di Dio apparso nel mondo con Cristo. Si comprende cosi il desiderio della seconda venuta o meglio della venuta svelata del Signore, che animava la cristianità pri­ mitiva. Tuttavia questa apparizione definitiva di Cristo è nello stesso tempo giudizio. Cristo viene come giudice. Il mondo alla sua fine viene da lui giudicato. In questo giudizio finale i giudizi particolari tenuti fino allora non vengono ripresi in esame e revocati oppure dichiarati defini­ tivi ; sono definitivi fin dal primo momento. Nel giudizio ultimo vengono confermati. Al giudizio universale sottostanno non soltanto i peccatori, ma anche i buoni (r Piet. 4, 14). Tuttavia per i peccatori esso ha un significato diverso che per i buoni. Per questi significa la conferma della loro unione con Cristo, per quelli la conferma della condanna e della dannazione. Per gli uni è un giudizio di grazia e di salvezza, per gli altri un giudizio di disgrazia e perdizione. Contro i buoni non si farà avanti nessun accu­ satore (Rom. 8, 3 1 -34 ; dr. Gv. 5, 45 ; Apoc. 12, 10). Giovanni nell'Apo­ calisse afferma che il potere, accordato a Satana durante la storia, di accu­ sare i « fratelli », coloro che credono in Cristo, dinanzi a Dio, gli è tolto per sempre. Come figli di Dio essi sono concittadini dei santi e familiari di Dio (Ef. 2, 19). Essi, gli eletti di Dio, non devono piu preoccuparsi che uno scellerato li denunzi presso Dio. Giovanni sente i beati giubilare perché è posta fine alle calunniose accuse del demonio. Alla base di questa descrizione sta forse la pratica delle denunce, fiorente al tempo dell'im-

§ 299.

IL GIUDIZIO UNIVERSALE

225

peratore Domiziano, che fece molte vittime tra i cristiani. L'accenno del veggente sarebbe allora una consolazione per i cristiani. Quando Cristo viene per il giudizio, essi non devono aver paura di denunzie. Nessuno avanzerà accuse contro di essi (Rom. 8, 3 1 -34). Mentre, nell'antichità cristiana, nella confessione del giudizio universale si accentuava il fatto che esso apporta salvezza definitiva ai buoni, e quindi nella coscienza di fede stava in primo piano la speranza, nel primo Medio Evo emerse sempre piu il pensiero, contenuto anch'esso nella fede nel giudice venturo, che Cristo esamina e valuta la vita. Sull'antica fiducia cristiana nel giorno del Signore prevalse in tale modo l'angoscia ed il terrore dinanzi ad esso. Quanto piu il peccato prevaleva nella Chiesa, tanto piu la Chiesa doveva annunziare la serietà del giudizio. Cosi anche i fedeli, di fronte al giudizio universale, incominciarono a porsi l'angosciosa do­ manda : che cosa risponderò io, misero? (Cfr. il Dies irae; l'espressione piu potente di questo atteggiamento è l'affresco del giudizio finale di Michelangelo nella cappella Sistina).

Il. - DOTTRINA DELLA CHIESA. È dogma di fede che dopo la risurrezione ha luogo il giudizio univer­ sale. La Chiesa professa questa fine della storia umana dovunque pro­ fessa il ritorno di Cristo. Cfr. § 309. Quanto tale fede informi la vita, lo si vede nel fatto che la Chiesa l'ha accolta nella sua preghiera quotidiana (simbolo apostolico ; simbolo niceno-costantinopolitano). Il giudizio universale è preceduto da molti giudizi particolari, con cui vengono definitivamente fissati i destini dei singoli uomini. I precedenti giudizi particolari non vengono piu ripresi in esame e, se del caso, cor­ retti, nel giudizio finale ; ma vengono confermati e notificati dinanzi a tutto il mondo. In questo senso il giudizio universale è chiamato l'ultimo giudizio.

III. - TESTIMONIANZA DELL' ANTICO TEST AMENTO. Il giudizio universale ha una lunga preistoria. Esso si estende su tutta la storia umana. L'Antico ed il Nuovo Testamento ne fanno testimonianza. a) Nell'Antico Testamento cogliamo quanto segue. Il giudizio sul peccato incominciò il primo giorno della storia umana, quando gli uomini

226

P. I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

peccatori furono cacciati dal paradiso ed un angelo con la spada fiammeg­ giante ne sorvegliò l'ingresso. Continuò nel diluvio e prese il suo corso attraverso alle catastrofi dei secoli. Con sempre maggiore insistenza viene predetto un giorno, in cui tutti i delitti devono essere espiati. È il « giorno del Signore », in cui Dio visiterà il popolo da lui eletto e gli altri po?Oli e vendicherà ogni male da essi compiuto. Con ciò sono intesi in primo luogo gli sfaceli nazionali, le rovine di popoli, di stati, di civiltà e di città. Come le predizioni dell'Antico Testamento in genere, cosi anche le minacce di giudizio sono da intendere in prospettiva. Il giudizio minac­ ciato da Dio si realizzerà in stadi successivi attraverso i secoli. Ogni singolo giudizio è una fase nella realizzazione dell'unico giudizio generale. Ogni singolo indica, oltre se stesso, un giudizio venturo. Ogni singola prova è trasparente, per modo che dietro ad essa se ne vede sorgere una nuova. Dietro ogni sfacelo se ne profila uno nuovo, ancora piu terribile, finché sorge il giorno inteso da tutti i precedenti giorni del giudizio. Karl Barth cosi scrive al riguardo : « Che cosa significa giudizio nell'Amico Testamento? Il giudizio si compie anzitutto in modo assai concreto e con sinistra frequenza in forma di disgrazie nazionali : dalla piaga dei serpenti nel deserto fino alla distruzione di Gerusalemme. Senza l'orrendo primo piano di rma visione di questo tipo, che secondo l'Antico Testamento può essere risparmiata a ben poche generazioni di questo popolo, senza l'immagine, molto realistica, piena di uccisi, di lrmghi cortei di deportati, senza questa immagine non si sa che cosa significhi giudizio nell'Antico Testamento. E ruttavia non da essa il pensiero del giudizio dell'Antico Testamento ha la sua serietà e severità. Poiché dietro a tutto ciò sta qualcosa di molto piu orrendo : la fine dell'amore di Dio, il rigetto d'Israele e, al di là, lo scarenamento dell'ira di Dio su tutti i popoli, il giudizio wùversale. Questo non è presente, questo è fururo nel senso piu stretto. Ma proprio di questo futuro si tratta nel presente. Al di là delle fiamme che, accese da uomini nemici, devastano Samaria e Gerusalemme ed infine anche Ninive e Babilonia, i profeti vedono questa fiamma inestinguibile del tutto diversa. E di essa, di questo sfondo, di questo giudizio futuro, i profeti parlano quando, con minacce ben determinare, parlano della scena che si svolge in primo piano •·

b) Il « giorno del Signore », annunziato dai profeti dell'Antico Te­ stamento, è in primo luogo il giorno in cui Dio stesso è entrato nella storia umana, il giorno della incarnazione. Esso viene annunciato da Gio­ vanni Battista come giorno del giudizio. « Veduti poi molti farisei e sad­ ducei venire al suo battesimo, disse loro : razza di vipere, chi vi ha inse­ gnato a sfuggire all'ira che sta per venire? Fate, dunque, un frutto degno della penitenza, e non crediate di poter dire dentro di voi : noi abbiamo per padre Abramo, perché io vi dico che Dio può da queste pietre far

§ 299· IL GIUDIZIO UNIVERSALE

227

sorgere figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi : ogni albero, dunque, che non ha buon frutto si taglia e si getta nel fuoco. Io vi battezzo in acqua per la penitenza, ma colui che viene dopo di me è piu potente di me; a lui io non sono degno di portare i sandali. Egli vi battez­ zerà in Spirito Santo e fuoco : nella sua mano tiene il ventilabro e purgherà la sua aia, e raccoglierà il suo grano nel granaio; brucerà, invece, la pula con un fuoco inestinguibile » (Mt. 3, 7- 1 2). Con Cristo i giudizi dell'Antico Testamento hanno quindi raggiunto il loro culmine. Con lui ha avuto inizio quella fase del giudizio, che intro­ dusse la separazione definitiva degli uomini. Infatti Cristo è posto a rovina e risurrezione di molti (Le. 2, 34). Ciò che ha avuto inizio con Cristo verrà completato dal giudizio finale. Con la sua apparizione, con la sua parola e la sua opera viene preparato il giudizio finale, il quale anzi spunta

già nella storia e si manifesta nel giudizio che Cristo significa durante la sua vita terrena ed attraverso a tutti i secoli.

IV. - TESTIMONIANZA DEL NUOVO TESTAMENTO. In quale senso Cristo stesso sia un giudizio per l'umanità, è stato espo­ sto precedentemente (§§ 1 56/7). Chi con la fede accoglie Cristo ed attra­ verso a lui si rivolge al Padre, viene liberato dalla maledizione del pec­ cato. Chi invece lo rigetta, rimane sotto la maledizione e non ha neppure piu bisogno di essere giudlicato ; è già giudica�, perché persevera nel giudizio (Gv. 5, 24; 12, 37-·48 ; 16, 1 1 ). Come quindi il messaggio della croce è lieto per i cristiani, cosi è funesto per coloro che si chiudono e si ribellano contro Cristo. Essi ora sono doppiamente perduti, sono soggetti ad un giudizio tanto peggiore. Essi si irretiscono ancora piu a fondo nel loro orgoglio perché, quanto piu Dio si accosta agli uomini, tanto maggiore è lo sforzo che essi devono compiere per poter mantenere il loro orgoglio. A motivo del peccato, dopo la morte di Cristo irrompono sul mondo che lo rigetta giudizi di pena sempre nuovi e sempre crescenti. Quanto piu si intensifica la ribellione contro Dio, tanto piu intensi diventeranno i giudizi di Dio. Negli sfaceli di ogni specie, nella rovina di regni e di città a partire dalla distruzione di Gerusalemme fino alla distruzione di Babilonia, capitale anticristiana degli ultimi tempi, nel chiarore del fuoco, in cui bruciano uomini, case ed animali, nei flutti in cui scompaiono campi e foreste, nella grandine di ferro in cui muoiono eserciti e popoli, Dio

228

P. l.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

tiene giudizio sul mondo che ha schernito il suo amore ed ha rigettato la croce del suo Figlio. Lo scopo di tutti i giudizi divini prima del giudizio universale è la rivelazione della gloria di Dio, che non si lascia beffare, ma è nello stesso tempo la salvezza degli uomini. Dai giudizi di Dio essi devono essere richiamati a senno ed essere preservati dalla condanna nell'ultimo giu­ dizio. Tuttavia gli uomini non si convertono. Quanto piu terribili i giudizi di Dio si riversano su di loro, tanto piu essi si induriscono e perseverano nella loro megalomania, nella loro ostinatezza, nel loro orgoglio. Sentono che è la mano possente di Dio a posarsi su di loro, ma maledicono colui che li vuole salvare dalle tenebre. Periscono con la maledizione sulle lab­ bra, mentre potrebbero essere salvati con una sola parola di adorazione (Apoc. 16, 19-12). L'Apocalisse di Giovanni descrive gli ultimi giudizi di Dio, che pre­ cedono la comparsa del giudice, con immagini piene di orrore e di terrore. La visione dei c. 1 4 dimostra che le prove finali sono da inrendere come giu­ dizio di Dio e come preparazione all'ultimo giudizio. Cosi le descrive Giovanni : « E vidi : ed ecco una nube bianca, e sopra la nube uno se duto simile ad klll figlio d'uomo, avente sopra la sua testa una corona d'oro c n ella sua mano una falce affilata. E un altro angelo usci dal santuario, gridando a gran voce a colui che sedeva sopra la nube : · · Manda la tua falce e mieti, pe rché è venuta l'ora di mietere, perché è disseccata la messe della terra , . . E colui che sedeva sulla nub e gettò la sua falce sulla terra, e fu mietuta la terra. E un altro angelo usci dal santuario che è nel cielo, avendo anch' e g li una falce affilata. E un altro angelo, quello che ha potere sul fuoco, usci dall'altare, e gridò a gran voce a colui che aveva la falce affilata dicendo : " Manda la tua falce affilata e vendemmia i grappoli della vigna della terra, perché sono appieno marurate le sue uve " . E gettò l'angelo la sua falce sulla terra, e vendemmiò la vigna della terra, e gettò l'uva nel tino grande del fu rore di Dio. E il tino fu pigiato fuori della città, e usci il sangue dal tino fino ai morsi dei cava lli , alla d istanza di mill e seice nro stadi » (Apoc. 14, 14-2.0).

I cristiani che, nonostante la loro unione con Cristo, sanno di essere ancora e sempre peccatori, desiderano il giudizio di Dio prima del giudizio finale, per sfuggire a quest'ultimo. Le prove della vita sono una forma di giudizio. Ma c'è ancora un altro campo in cui Dio tiene il suo giudizio di amore e condona a coloro che vi si assoggettano il giudizio di condanna. È il campo del mistero, il campo dei sacraTPenti (cfr. § 265). Il giudizio finale viene quindi preparato da segni molteplici e vari. Ognuno è sufficientemente ammonito della sua serietà inesorabile. Durante la sua vita terrena Cristo ha fatto accenno in termini espliciti

§ 299. Il GIUDIZIO UNIVERSALE

229

a questa sua parola che conclude la storia umana, per modo che nessuno potrà essere sorpreso o stupito quand'essa verrà pronunziata (Mt. 1 6, 2 7 ; Le. 22, 3 0 ; Gv. 5, 2 2 ) . I l giudizio al termine della storia umana confe­ risce a questa la sua importanza e la sua responsabilità. Merita che si faccia qualunque sacrificio per sfuggire alla condanna nel giudizio finale. La condanna colpisce sia colui che si chiude all' annunzio cb.e Cristo ha fatto del · regno di Dio, sia colui che non forma la propria vita in base ad esso. « Non chiunque mi dice : " Signore, Signore ! " entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno : " Signore, Signore, non abbiamo profetato nel tuo nome, e nel tuo nome non abbiamo cacciato demoni, e nel tuo nome non abbiamo fatto molti miracoli? ". Ma allora io dichiarerò ad essi : " Non vi ho mai conosciuti ; allontanatevi da me, voi che commet­ tete l'iniquità " » (Mt. 7, 2 1 ··2 3).

Nelle predizioni della fine

del

mondo Cristo

presenta

una descrizione

per

immagini dello svolgimento del giu dizio (MI. 25, 3 1 -46) : « Quando verrà il Figlio dell'uomo nella sua gloria, accompagnato da turri gli angeli, sedcrà sul suo trono di gloria. Davanti a lui si radunerann o rune le genti, ed egli separerà gli uni e

dagli altri come il pastore separa le pecore dai capri, destra e i capri

a

porrà le pecore alla sua

sinistra. Allora il re dirà a coloro che sono alla sua destr a :

" Venite, o benedetti dal Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi fino dalla fondazione del mondo. Perché ho avuto fame

e

mi avete dato da

mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; sono stato forestiero e mi avete accolto; nudo e mi avete ricoperto; sono stato malato e mi avete visitato; sono stato in carcere e siete venuti a trovarmi

·•

''

. Allora

i giusti gli risponderanno :

Signore, quando ti abbiamo veduto alìamato e ti abbiamo dato da mangiare,

o assetato e ti abbiamo dato da bere?

E

quando ti abbiamo veduto forestiero e

ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo ricoperto? malato o in carcere e siamo ve:nuri a rrovani?

".

E

E

quando ti abbiamo veduto

il re risponderà : " In verità

vi dico : ogni volta che l'avete fatto al piu piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me ". Allora dirà anche a que:lli di sinistra : " Andatevene lontani da me. male­ detti, nel fuoco eterno preparato al diavolo e agli angeli suoi. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; sono stato forestiero e non mi avete accolto, nudo

e

non mi avete ricoperto,

malato e in carcere e non mi avete visitato ". Allora anch'essi ris ponderanno : " Signore, quando ti abbiamo veduto aver fame o sete, o forestiero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo assistito? ". Allora risponderà loro :

" In

verità vi dico : ogni volta che non lo avete fatto ad uno di questi, i piu piccoli, neppure

a

me lo avete fatto ". E se ne andranno costoro al supplizio eterno e i

giusti alla vita eterna

».

Cfr. anche Mt. 13, 24-43.

La predizione che Cristo ha fatto del giudizio universale costituisce un elemento fondamentale della predicazione apostolica. Gli Apostoli anzi,

230

P. I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

come disse Pietro, avevano il mandato di annunziare al po?olo che Cristo era il giudice dei vivi e dei morti stabilito da Dio (Atti 1 0, 42). Parimenti Paolo predicò in Atene che Dio ha stabiliro un giorno in cui giudicherà il mondo in giustizia (Atti 1 7, 3 1 ; cfr. 24, 25; 2 Cor. 5, w; 2 Tess. I , 5-Io; 2 Tim. 4, 1 . 8 ; Ebr. 6, 2; 9, 27; IO, 27; 12, 23; I 3, 4 i I Piet. I , 1 7 ; 2 Piet. 2 , 3 ; 1 Gv. 4 , 1 7 ; Giac. 2 , I 3 ; Giuda 6, 1 5 ; Apoc. 6 , I o ; 1 1 , 1 8) Dio dilaziona il giudizio per dare agli uomini tempo di penitenza. Il pe­ riodo, che va fino al ritorno di Cristo, è il tempo della conversione e del pentimento. Esso è un segno della pazienza che Dio usa con gli uomini (2 Piet. 3, 9). Quando sarà trascorso, non ci sarà piu �roroga (Apoc. IO, 6). Chi, pensando alla longanimità di Dio persevera con eccessiva fiducia nei suoi peccati, si sentirà dire (Rom. 2, 4-8) : « Sei cosi sfrontato da disprez­ zare le ricchezze della sua bontà, della sua pazienza, della sua longa­ nimità, non comprendendo che questa bontà di Dio ti spinge solo al pentimento? Con la tua ostinatezza e con il tuo cuore imDenitente accu­ muli sul tuo capo l'ira per il giorno dell'ira, quando si manifesterà il giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue ot,Jere (Sal. 63 [62], I 2) : a quelli che, con perseveranza nella pratica del bene, ricercano gloria, onore e incorrunibilità, egli darà la vita eterna; mentre incorre­ ranno collera e sdegno i recalcitranti che si rifiutano alla verità e aderi­ scono all'ingiustizia » (cfr. 2 Piet. 3, 9). Il giorno del Signore rivelerà dinanzi a tutto il IJiondo l'opera di cia­ scuno ( 1 Cor. 3, 12-1 5). Come è già stato precedentemente notato, nella predicazione apostolica del giudizio universale l'accento poggia sul fatto che i cristiani vengono liberati dalle tribolazioni che loro approntano i pec­ catori, mentre gli increduli e ryeccatori vengono condannati. Paolo fa affi­ damento sulla salvezza di coloro che si assoggettano a Cristo con ubbi­ dienza di fede (Rom. 8, 3 1 s . ; I Cor. 5o s ; cfr. anche I Gv. 4· 1 7). Egli consola i suoi lettori ricordando che il Signore li introdurrà nella sua gloria, e li esorta a soffrire in modo da divenire degni del Signore. Cfr. Herntrich e Btichsel, in Kittel, Worterbuch zum N. T., In, 920-9 5 5 ; F. Guntermann, Die Eschatologie des hl. Paulus, 1932, 201 -264. .

CAPITOLO Il. LA NATURA DEL GIUDIZIO

I. - APOCALISSE DI GIOVANNI. Con la distruzione della capitale, con l'uccisione di tutti 1 seguaci non pienamente fidati, l'anticristo spera di assicurare il proprio potere. In realtà egli serve alle intenzioni di Dio e diviene cosi il fossore del proprio regno. La sua sapienza si rivela come stoltezza. Della città, la cui rovina viene proclamata dall'angelo, non rimarrà altro se non un cumulo di ro­ vine e di macerie. Tra le mura, che sembravano costruite per i millenni, non abitano piu uomini petulanti, ma vivono sryiriti impuri e bestie schi­ fose. La città, immagine ddla pienezza di vita, della ricchezza e della sicurezza è divenuta un luogo deserto, povero, sinistro e vuoto. Luce, vita e gioia sono scomparse. Sono sottentrate tenebre, afflizione e morte (c. 1 7). Per quanto grande sia attraverso i secoli l'arte di seduzione delle potenze av­ verse a Dio e per quanto aumentino sempre piu i loro successi nel mondo, alla fine saranno smascherate dal Cristo che ritorna come esseri impotenti ed inermi. La loro sconfitta incomincia, come Giovanni scorge nelle

sue visioni, con la

distruzione della metropoli degli ultimi tempi dell 'impero anticristiano. Sovente però le immagini non illustrano piu l'inizio, bensi l'attuazione del giudizio. Il veg­ gente scorge in parecchie visioni

la capitale dell'anticristo nella

sua potenza e

ricchezza e le dà il nome di Babilonia. Con tale designazione nell'Apocalisse di Giovanni non è intesa la capitale dall'antico impero babilonese, ma la capitale dell'anticristo, che porta il nome di Babilonia perché la città sull'Eufrate rappre­ sentava per gli Israeliti l'essenza della potenza mondana empia

ed idolatra, il

suo nemico mortale sotto l'aspetto politico ed ancor piu sono quello religioso. lvi già nei tempi primitivi la protervia umana si era eretro un monumento nella torre babilonese (Gen.

I I , r-8).

Continuamente Dio aveva rintuzzato la superbia

titanica di questa città (Is. 13, 1 4 ; Ger. so-s r ; Dan.

z,

Nabucodonosor aveva denominalO la sua residenza come

31 s.). Nella sua petulanza «

Babilonia la grande

»

op-

P. l.

-

ESCATOLOG I A GENERALE

pure come « la grande Babilonia ». Per questo era stato subito punito dal cielo (Dan. 4, 27 ss.). Questa Babilonia storica giaceva da tempo in rovina, ma era rimasta ancora come simbolo di una metropoli empia ed immorale. Nell'Apo­ calisse di Giovanni Babilonia è quindi la designazione della capitale degli ultimi tempi nell'impero dell'anticristo, del centro di ogm empietà ed immoralità, del punto di partenza di ogni ostilità contro il regno di Cristo e di Dio. È il contrap­ posto del monte Sion. Sul monte Sion Giovanni vede stare l'agnello, invitto e potente (Apoc. 14, 1 ss.). Mentre le potenze anticristiane vengono dal profondo, dove regnano il caos e le tenebre, l'agnello viene dal monte, dalle altezze, dal campo di Dio. Da Sion è promessa la salvezza (ls. 28, 16 ss.; 30, 19; 40, 9 ss.; 52, 7 ss.; 59, zo; 6o; 6z; Gioe. 3, 5; Mt. 18, zo; 28, zo; Gv. 4, 18). Il Salvatore, che viene dall'alto, non dal basso, regna sul monte santo della vicinanza di Dio, nella riserva di Dio (Sal. z, 6; 48 [47], 2 ss.; I IO [109], 2 s.). Egli viene descritto come agnello, perché vive nella dedizione per il mondo. Mentre l'anticristo op­ prime e distrugge il mondo, Cristo si sacrifica per la SUl! salvezza. I cristiani sono sotto la sua protezione. Giovanni vede un grande numero, 144.000, al seguito e nella custodia dell'agnello. Essi portano il suo nome. Il numero è sim­ bolo della pienezza e della perfezione. La metropoli anticristiana viene scorta da Giovanni sotto l'immagine di una donna viziosa ( 1 7, 1-8), che siede su un animale rosso-scarlarro, carica di orna­ menti. Essa è simbolo di spudoratezza, di idolatria e di ebbrezza di sangue (17, r 8). Prima che la capitale anticristiana sia distrutta, Dio le fa giungere un ultimo ammonimento, che è annunziato da un angelo e p1·esenta la forma di un eterno messaggio di salvezza. Il suo contenuto dice : D10 è il re. Chi a lui si sottomette parteciperà alla sua giona. Il messaggio è rivolto a tutti i popoli, tribu, lingue e nazioni, a tutta l'umanità. L'angelo che lo proclama vola attraverso a tutto lo spazio celeste, sta al cospetto di tutto il mondo. Egli grida ad alta voce ( 14, 7) : « Temete Dio e dategli gloria, perché è venura l'ora del suo giudizio, e adorate colui che ha fatto il cielo e la terra. il mare e le sorgc:nti d'acqua •· Chi non si piega al regno, deve cadere : perciò Babilonia cadrà; il suo giudizio è pronun­ ziato (14, 8). Esso colpisce anche rutti coloro che sono dediti all'empietà della città anticristiana. Chi adora la bestia e la sua immagine e ne accoglie il segno sulla fronte o sulla mano, deve bere anch'egli del vino dell'ira di Dio, che è versato puro nel calice della sua ira ( r4, 9 s.). La decisione è definitiva ( 1 4_, I I s . ; 16, 1 9). La rovina delle potenze anticristiane rappresenta un evento cosi incredibile, che è opponuno annunziarlo piu volte e con crescente chiarezza e precisione. Cosi Giovanni sente una seconda proclamazione del decreto celeste della scom­ parsa di Babilonia. L'araldo è nuovamente un angelo potente, che risplende del riflesso della pienezza della luce divina. La terra è illummata dal suo splendore. Un altro angelo caratterizza la rovina della città in un gesto simbolico : solleva una pietra, pesante come una macina, e la scaglia nel mare gridando : « Cosi a precipizio sarà gettata Babilonia, la grande città e non sarà trovata mai piu. E un suono di arpisti e musici e flautisti e trombettieri non sarà udito in te mai piu, e qualsiasi artefice di qualunque arte non sarà trovatO in te mai piu, e rumore di macina non si udrà in te mai piu, e luce di lampada non apparirà in te mai piu, e voce di fidanzato o di fidanzata non sarà udita in te mai piu.

§ 299- 11 GIUDIZIO UNIVERSALE

233

Poiché i tuoi mercanti erano i maggiorenti della terra, poiché dall'incantesimo tuo furono ingannate tutte le genti; e in essa fu trovato il sangue dei profeti e dei santi e di tutti quelli che furono sgozzati sulla terra » (18, 21-24). Coloro che hanno sentimenti terreni intonano, come Giovanni percepisce nella VISIOne, un canto di lamento sulla rovina di Babilonia, coloro che erano dediti all'ebbrezza della potenza e del denaro, all'inclinazione del godimento e della gozzoviglia. Con la rovina della città essi perdono tutto ciò che riempiva il loro cuore. In un momento rutto è scomparso, come se non fosse stato. I celesti invece intonano un canto di giubilo, un canto di lode a Cristo vincitore, all'amore, aila verità ed alla giustizia. La rovina delle potenze anticristiane, annunziata dai potenti inviati di Dio, viene causata dall'attività dello stesso anticristo, nemica del mondo e distruggi­ trice del mondo. Soltanto in apparenza egli è il salvatore del mondo; in realtà, per il suo mandato diabolico, egli è il nemico e distruttore del mondo. Le potenze nemiche di Cristo distruggono se stesse, cadono nell'uccisione reciproca. Giovanni vede l'autodistruzione delle forze anticristiane in un'immagine raccapricciante. L'anticristo arde di gelosia e di odio contro la donna viziosa, in cui si incarna la sua propria capitale; la deruba fino a !asciarla nuda, la uccide e con i suoi vassalli ne mangia la carne e la brucia nel fuoco (Apoc. 1 7, r6). La natura dia­ bolica e rapace dell'anticristo prorompe nella follia della di struzione per la distru­ zione. Il suo dominio non tolloera rivali, perciò la sua ste�sa capitale deve perire, perché incomincia a diventare troppo potente e pericolosa. Nella sua furia egli non avverte che, con la distruzione della capitale, mina la sua propria esistenza. Egli corre ciecamente alla rovina. Il primo ad essere coinvolto nella caduta della metropoli dell'impero anticri­ stiano è l'anticristo stesso. Per un momento sembra che, con la distruzione della sua capitale, egli abbia ottenuto un nuovo aumento di potenza. Non ci sono piu concorrenti. Egli può impegnare rmta la forza politica e militare della terra contro Cristo e la comunità cristiana (Apoc. 16, 16). Essa viene da lui rigidamente rac­ colta e guidata secondo un disegno unitario. Tuttavia anche la sua ora è giunta. La sua forza è soltanto appar.�nte; per sconfiggerla non è necessario un grande sforzo; basta la comparsa di Cristo. Giovanni scorge il vincitore Cristo in una visione luminosa (19, I I-21) : o: E vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco, ed il cavaliere è chiamato " fedele " e .. verace · ·, e con giustizia giudica e guer­ reggia. Gli occhi suoi sono fiamma di fuoco, e sulla sua testa molti diademi, ha un nome scritto che nessuno sa all'infuori di lui; è ravvolto d'un manto intriso di sangue; ed il suo nome suona : " il Verbo di Dio ". E gli eserciti che sono in cielo lo seguono su cavalli bianchi, vestiti di vesti di bisso bianco puro. E dalla sua bocca esce una spada affilata, per colpire con essa le genti; ed egli le gover­ nerà con bastone di ferro; ed egli pigerà il tino del vino del furore dell'ira di Dio, dominatore universale. E ha sul manto e sulla coscia scritto un nome : " Re dei re e Signore dei signori ". E vidi un angelo ritto nel sole, che gridò a gran voce dicendo agli uccelli che volano allo zenit : " Venite, radunatevi al banchetto grande di Dio, per mangiare carni di re, carni di generali, carni di !(Uerrieri, carni di cavalli e dei loro cavalieri, e carni di tutti, liberi e schiavi, piccoli e grandi ". E vidi la fiera e i re della terra e i loro eserciti radunati per fare la guerra contro il cavaliere e il suo esercito. E la fiera fu catturata e con essa lo

2 34

P. I.

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ESCATOLOGIA GENERALE

pseudoprofeta che faceva i portenti davanti ad essa, con i quali ingannò coloro che ricevettero il marchio della fiera e coloro che adorarono l'immagine di essa. Vivi furono gettati entrambi nel lago di fuoco che brucia di zolfo. E i rimanenti furono uccisi dalla spada del cavaliere, la quale usciva dalla sua bocca, e tutti gli uccelli si satollarono delle loro carni ». Mentre Giovanni riceve soltanto oralmente la comunicazione della rovina di Babilonia, scorge la scomparsa della triade infernale in una serie di visioni. Per la terza volta (cfr. 4, 1 ss.; I I, 19) si apre il cielo e Giovanni vede Cristo come cavaliere su un cavallo bianco, cioè come vincitore e trionfatore, venire a capo di un grande esercito dalla capitale celeste e fare l'ingresso nel mondo, nella sua proprietà, dove la prima volta non fu accolto (Gv. I, I I), ma ora abbatte tutto ciò che a lui si oppone e porta i suoi nella vita celeste. Ciò che il veggente scorge non è ancora il ritorno predetto da Cristo, ma il suo preludio ed inizio. Giovanni scorge la sconfitta delle potenze nemiche di Cristo in una grande immagine, nell'immagine del corteo vittorioso del trionfatore celeste. Egli scorge Cristo nello splendore di numerosi diademi, con le insegne della dignità regale. Il dra­ gone, come millantatore, aveva usurpato setre diademi, la fiera dell'abisso dieci; Cristo ne ha innumerevoli. A lui spetta la suprema dignità sovrana. Egli è signore e re su tutri i signori e re della terra; perciò la sua natura è misteriosa, non può essere pienamente compresa da nessuno e non esiste neppure un nome, col quale possa essere chiamato in modo esauriente. Nessuno, all'infuori del Padre, conosce il suo vero nome (ML. I I, 27); è un nome al di sopra di tutti i nomi (Atti 4, 2; Fil. 2, 9 s.). Con parecchi spunti la visione tenta di spiegare al veggente la natura di Cristo. Egli porta i nomi « fedeltà e verità », il « Verbo di Dio », c re dei re » e c signore dei signori ». Ciascun nome rivela un lato della sua natura. Cristo è rimasto fedele ai suoi. Prima della sua dipanita dal mondo egli ha promesso ad essi, che vi dovevano perseverare, che sarebbe ritornato; ha annunciato che nella città celeste avrebbe preparato le dimore per i suoi. Ora egli si appresta a mantenere la sua promessa. Un tempo i petulanti adoratori della fiera hanno lanciato la sfida : chi è simile alla fiera? Chi può con essa contendere? (Apoc. 13, 4). Ora li colpisce l'ira del Figlio dell'uomo. Il fuoco del giudizio divampa dai suoi occhi. Nessuno gli può resistere. Gli avversari hanno formato il loro fronte contro di lui (Apoc. I I , 18; 16, 14. I6; 17, 14), ma egli è il piu fone, che incatena il forte di questo mondo (Mc. 3, 27; Le. 11, 21 s.). Con divina maestà e calma egli muove alla tona. La lotta è decisa prima ancora di inwminciare. Basta una parola della bocca di Cristo per gettare nella polvere gli avversari che fino a quel momento apparivano cosi sicuri di sé. La sua sentenza è come una spada affilata, che passa attraverso i nemici e li distrugge (Sap. 18, 14-16). Paolo scrive ai Tessalonicesi che l'anti­ cristo sarà ucciso da Cristo con l'alito della sua bocca (2 Tess. 2, 8). L'anticristo ed il suo profeta vengono gettati nell'abisso, dal quale sono assurti al potere mondiale. Dall'inferno essi avevano ricevuto i loro mandati e poteri, ed ora vi ritornano. L'inferno viene descritto con l'immagine del lago di fuoco, che è ripieno di zolfo fumoso e puzzolente. Nella Scrittura la giustizia punitiva divina viene presentata sovente con questa immagine (Gen. 19, 24; Num. I6, 30 ss.; l s. 34, 9 s.; 66, 24; Ez. 38, 22; Dan. 7, I; Apoc. 14, IO s.). Se ne parlerà piu ampia­ mente in seguito.

§

2 99 .

IL GIUDIZIO UNIVERSALE

23 5

La distruzione delle forze avverse a Dio avverrà in un istante, non con una lenta purificazione dell'umanità. Per ultimo viene vinto lo stesso dragone; ma prima di essere vinto definiti­ vamente, esso sarà incatenato per mille anni. « E vidi un angelo che scendeva dal cielo, avendo la chiave dell'abisso e una grande catena nella sua mano. E si impa­ dronì del dragone, il serpente an tico, che è il diavolo, Satana, e lo legò per mille anni, e lo gettò nell'abisso, che chiuse e suggellò sopra d1 lui, affinché non inganni piu le genti, finché finiscano i mille anni; dopo questi egli dovrà essere sciolto per poco tempo. E vidi dei troni, e le anime dei decapitati per la testimonianza di Gesu e per la parola di Dio, i quali non adorarono la fiera né la sua immagine e non ricevettero il marchio sulla fronte e sulla loro mano; e sedettero sui troni, e il giudizio fu dato loro; e vissero e regnarono con il Cristo per mille aruù. Gli altri morti non vissero sino alla fine dei mille anni. Questa è la prima risur­ rezione. Beato e santo colui che ha parte nella prima risurrezione! Su costoro la seconda morte non ha potere, ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo, e regneranno con colui i mille anni. E quando saranno finiti i mille anni, sarà sciolto Satana dal suo carcere, e uscirà per ingannare le genti poste ai quattro angoli della terra, Gag e Magog, al fine di radunarle per la guerra : il loro numero è come la sabbia del mare. E salirono nell'estensione della terra e investirono l'accampamento dei santi e la città amata : e scese da presso Dio un fuoco dal cielo e li divorò. E il diavolo, loro ingannatore, fu gettato nel lago di fuoco e zolfo, ove è anche la fiera e lo pseudoprofeta; e saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli J> (Apoc. 20, 1-10). Questo testo dell'Apocalisse con alcuni altri testi dell'Antico Testamento (ad es. Is. 6o; 62 ; Ez. 36-40; Dan. 7; Tob. 13, 16; 14, 5) ha dato occasione al chiliasmo. mille) ammettono che prima del ritorno di Cristo sorgerà I chiliasti (da chilioi su questa terra un regno di pace che durerà mille anni (millennio). Tali speranze furono pure alimentate dai sogm di una età aurea, diffusi nel paganesimo, e dalla tarda apocalittica giudaica, che intese le promesse dell'Antico Testamento nel senso di uno stato paradisiaco in terra. Si ammise una duplice risurrezione, una all'inizio del regno millenario, c:he viene accordata ai santi, ed una al suo termine, cui parteciperanno tutti gli altri. n chiliasmo ondeggiò tra speranze grossolane e concezioni piu spiritualizzate. Cosi ad es. taluni chiliasti ritennero che a colui, il quale nel tempo presente rinunzia ad una donna, nel regno millenario saranno concesse cento donne. Nell'anrichità il chiliasmo fu �astenuto da alcune sette ed anche da una serie di scrittori ecclesiastici. Agostino ha rigettato decisamente l'interpretazione chilia­ stica, per modo che a partire dalla sua epoca essa spari in gran pane dalla coscienza cristiana, finché poté celebrare la sua rinascita nell'epoca moderna. Agostino intende i mille anni nominati nell'Apocalisse non come determina­ zione cronologica, ma qualitativa dell'epoca che incomincia con Cristo. Giusta­ mente egli parte dal fatto che i numeri nell'Apocalisse sono da intendersi in senso simbolico, e che la concezione letterale commette il grave errore metodico di disconoscere il senso della visione e di prendere alla lettera ciò che è da inter­ pretare simbolicamente. Secondo Agostino l'incatenamento di Satana significa la vittoria di principio sui demoni da parte dell'opera salvifica di Cristo. I mille anni significano il periodo perfetto iniziato da Cristo, liberato per principio dal =

P.

I.

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ESCATOLOGIA

GENERALE

demonio. Esso va dalla ascensione fino al ritorno di Cristo. Prima del morno di Cristo il demonio viene liberato ancora una volta per breve tempo e può fare di tutto per perseguitare i cristiani. Con la prima risurrezione Agostino intende il passaggio dalla vita peccaminosa, soggetta alla morte, alla vita unita a Dio e libera dai peccati. Recentemente i teologi che seguono l'otJinione di Agostino hanno aggiunto che l'incatenamento è tale solo in un certo senso, cioè nei confronti dei fedeli (Allo, Karrer). Secondo Apoc. 7, 3 i cristiani portano un segno sulla fronte, per cui il male non può nulla contro di essi. Per coloro che credono nel mondo il de­ monio non è incatenato. Nella formula c dopo i mille anni » i l termine « dopo » secondo questi teologi non è da intendere in senso cronologico, ma del muta­ mento della posizione. Se uno abbandona la società dei cristiani e passa al mondo ostile a Cristo, entra nell'ambito della sovranità del demonio. Satana quindi è nello stesso tempo incatenato e libero. La liberazione dura soltanto per breve tempo, non nel senso di una durata cronologica, ma nel senso di una determina­ zione di grado. Confrontata alla pienezza di benedizioni messianiche essa ha poca importanza, ma cronologicamente può avere una lunga durata. Nell'epoca moderna l'interpretazione chiliasLica fu ripresa da molte sette, ad es. dagli apocalittici, dai flagellanti, dai taboriti_, dai ribanezzatori, dai fratelli boemi, dai pietisti, specialmente da A. Bengel ed òtinger, dai battisti, dagli avven­ tisti, dai mormoni, dai « s er i ricercatori della Bibbia ». Ciò che Agostmo ha detto contro i chiliasti antichi, vale anche contro i chiliasti moderni. È da aggiungere che secondo il tenore dell'Apocalisse di Giovanni non è promessa un'epoca beara di pace, ma soltanto l'incatenamento di Satana. Non è quindi promesso che non ci saranno piu peccati, miserie, malattie e morte. Cesseranno soltanto i tormenti causati direttamente dai demoni, ma la terra rimarrà una valle di dolori, perché rimangono le tribolazioni scatenate dagli uomini, dal loro egoismo, dalla loro credulità, dalla loro sete di sangue e dal loro odio, ed i dolori che appartengono alla forma attuale del mondo. Tutto ciò sfugge ai chiliasti . Tuttavia anche l'interpretazione agostiniana potrebbe non soddisfare piena­ mente al senso del passo. Agostino e i teologi che lo seguono sottovalutano le tentazioni cui Satana può sortoporre anche i cristiani. Egli va in giro come un leone ruggente e cerca di divorare (I Pier. 5, 8). Anche i cristiani devono com­ battere contro gli intrigh1 del demonio, contro i principari, contro le potestà, contro i signori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male nelle regioni celesti (Ef. 6, n s.). Satana infierisce contro i discendenti della donna celeste, contro tutti coloro che rimangono fedeli alla testimonianza di Cristo (Apoc. 12, 17). Ma prima della venuta di Cristo ci sarà un periodo in cui il demonio sarà incatenato. Quanto esso duri, noi non sappiamo. L'espressione « mille anni » indica che sarà un periodo di relativa periezione. Alla Chiesa sarà accordata una particolare possibilità di sviluppo. I crist iani avranno a che fare soltanto con tentazioni umane, non diaboliche. Non è del tutto impensabile che questa pausa di respiro sia già passata. Per le ulteriori indicazioni cfr. § 302. Durante la storia Satana ha gettato in prigionia molti uomini. Alla fine dei tempi sarà legato egli stesso. Ma poco prima del secondo ingresso di Cristo nel mondo gli sarà concessa ancora una volta una breve libertà, che egli sfrutta per l'ultima lotta contro la città diletta, contro la Chiesa, di cui Gerusalemme è

§ 299. IL GIUDIZIO UNI VERSALE

23 7

simbolo. Egli impegna tutte le forze anticristiane, di cui può impa dronirsi, nella lotta finale. Il veggente chiama Gag e Magog gli uomini pronti al servizio militare volontario. I nomi provengono da Ezechiele (cc. 37-39), dove le orde selvagge del principe Gag di Magog si avventano contro Israele, ma nonostante la loro superiorità numerica vengono distrutte. Con l'andare del tempo Gag e Magog divennero designazioni simboliche degli eserciti dei popoli empi della fine dei tempi. Tutti 1 loro sforzi sono solramo l'ultimo guizzo di un incendio che già si spegne (Stauffer). Il giudizio di Dio irrompe con tutta la sua forza sugli empi guerrieri. « Fuoco discese dal cielo e li divorò » (Apoc. 20, 9). Il demonio, il caporione di ogni empietà fi:n da principio, "iene ora definitivamente sconfitto. Ora non si rialzerà piu; ora è cacciato via per sempre dalla comunità umana, che per tanti millenni ha tiranneggiato e sedotto, ha tormentato ed ingannato, ha blandito ed asservito. Da lui non c'è piu nulla da temere. Ora infine e definiti­ vamente la testa del serpente antico è schiacciata. La promessa con cui ha avuro inizio la storia umana è adempiuta (Gen. 3, r s).

Il.

-

IL GIUDICE.

Quale giudice nella Scrittura è nominato ora il Padre ora Cristo. Per il Padre possiamo citare Rom. 2, 5 s . ; 3, 6; 14, 10; I Cor. 5, 1 3 ; Ebr. 1 2 , 1 3 ; I Pier. I , I 7 ; Apoc. 6, I O ; I I , I 8 ; per Cristo Gv. 5, 22. 27-30 ; Mt. 7, 21 -23 ; 1 3, 41 ; 25, 31 -46 ; Rom. 2, 2. 3 · 1 6 ; 3, 6 ; 14, 1 0 ; I Cor. I, 8 ; 4, 4 s. ; 5, 1 3 ; 2 Cor. 5, IO; 1 Tess. 4, 6; 2 Tess. r, 5 "'9 i 2 Tim. 4, 1. 8. 14. Anche nel Simbolo apostolico si dice : « Egli siede alla destra del Padre, di là verrà per giudicare i vivi ed i morti ». A prima vista qui sembra esservi una contraddizione, che si risolve� in quanto Dio compie le sue opere per mezzo di Cristo e Cristo non fa altro se non le opere del Padre. A lui è affidato dal Padre l'ufficio di giudice (Gv. 5, 22; Atti 10, 42; 1 7, 3 1). Nel giudizio Cristo eseguisce la volontà del Padre. « Da me, io non posso far nulla ; giudico secondo che ascolto:, e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ba mandato » (Gv. 5, 30). È quindi il Padre a pronunziare l'ultima parola sui destini umani, ma la pronunzia per mezzo di Cristo, che è il Verbo eterno di Dio incarnato. Perciò in quell'ora egli ha la parola; ciò che egli dice, è detto dal Padre e perciò è decisivo. Dinanzi a questa !'arola tutti devono tacere. Durante la storia terrena gli uomini hanno potuto dire molte parole rumorose contro di lui, ed egli ba taciuto. Nell'ora del giudizio egli solo parlerà e tutta la creazione lo deve ascoltare. Secondo l'Apocalisse di Giovanni cielo e terra fuggono via, sprofondano, svaniscono. Essi sono stati chiamati dal nulla da Dio e dovevano servire all'uomo, che doveva essere il loro signore e governarli per mandato di Dio.

P.

l.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

Al principio della sua storia egli con atto orgoglioso si è rivoltato contro Dio ed ha coinvolto la creazione nel suo orgoglio. Ora deve esperimentare

è stato abbandonato alla cadu­ 8, 7-1 3). Poiché ora il volto di Dio esce dal nascondimento, il

ciò che ha fatto al mondo, che per causa sua cità (Rom.

mondo abbandonato alla legge della caducità non può piu sussistere nella sua forma precedenre : non può sopportare il volto santo della onnipotenza. Questa irrompe come fuoco divoratore sul mondo divenuto problematico. Dinanzi alla onnipotenza di Dio si rivela la sua insicurezza e la sua debo­ lezza di essere, la cui colpa ricade sull'uomo. Per coloro che credono nel mondo ed ora si trovano dinanzi al giudizio di Dio ne consegue che non possono piu trovare in nessun posto pace e conforto, sostegno e rifugio, sicurezza e pace, perché sono abbandonati dalla terra, che per essi era l'unica cosa e tutto, che per essi occupava il posto di Dio. In tal modo la fuga della creatura è la privazione di ogni possibilità di esistenza. Ma questa fuga è anche un conforto. La terra non dev'essere testimone della vergogna e della impotenza del suo padrone. La sparizione della terra serve quindi sia al giudizio che alla grazia. Una terza ragione per la fuga silenziosa della terra è da vedersi nel fatto che ora non c'è piu per essa alcuna ragione d'essere e perciò neppure alcun diritto di esistere. Essa ormai non può piu prestare all'uomo

il suo servizio.

Dal giorno del giudizio l'uomo non può piu essere il suo signore e padrone come prima. I cristiani subiscono una trasformazione, in conseguenza della quale la terra non

è piu il luogo ad essi conveniente. Gli uomini nemici

di Cristo subiscono una trasformazione in esseri deformi e sfigurati, per cui la forma attuale del mondo non si addice piu nemmeno

a

loro.

Ciò che per Giovanni è solo piu possibile vedere nello spazio infinito dopo la fuga del cielo e della terra è

il trono immacolato e colui che vi

siede sopra come giudice dei vivi e dei morti, dinanzi al quale in silenzio assoluto si radunano i morti di tutti i tempi per sentire

il loro giudizio.

Indifeso e scoperto, ognuno deve affrontare lo sguardo scrutatore di Dio.

È l'occhio della verità che tutto penetra . Essa scruta l'uomo in tutti gli strati del suo essere, per modo che non rimane angolo che non sia investito della sua chiara luce

(1 Cor. 4, 3-5). Allora appare manifesto quanto c'è d'amore

e di egoismo nell'uomo. Nulla sfugge, nulla è dimenticato. I

«

libri » che

vengono aperti sono simboli della giustizia di Dio, che porta alla luce minime cose.

«

L'arte piu sbrigativa ed

in

un

fin le

certo senso piu soregevole

dell'uomo, che è quella di dimenticare, farla finita col suo oassato, la sua miseria e la sua colpa, non ha piu posto dinanzi a Dio » (Ph. Dessauer), al quale tutto è presente, quanto è avvenuto, quanto è stato detto, quanto

§ 299. IL GIUDIZIO UNIVERSALE

239

è stato fatto, mancanze ed omissioni. Chi non risulta nel libro della vita, viene condannato. Il libro della vita è il libro dell'Agnello immolato (Apoc. I 3, 8). La registrazione negli altri libri approntati non è sufficiente. Il che significa : comunque una vita si sia svolta, dinanzi all'esame della verità divina può reggere soltanto se è stata compiuta in unione con Cristo (sia consapevolmente, sia inconsapevolmente). Poiché soltanto per mezzo di Cristo l'uomo giunge al Padre (Gv. 4, 6). Onestà ed umanità naturali, in quanto e nella misura in cui esistono senza Cristo, non basteranno per sfuggire alla condanna, perché senza di lui l'uomo rimane nelle tenebre (Rom. 1 3, I 2), senza di lui la vita è morta (Ebr. 6, I ; 9, I4). Dinanzi al giudice spariscono le differenze di dignità : allora i potenti della storia non valgono piu degli insignificanti ; conta soltanto l'amore (Mt. 25, 3 1 -46).

III. - NORMA DEL GIUDIZIO. La norma del giudizio è quindi costituita dall'amore; non da un qua­ lunque amore, ma dall'amor�� di Dio apparso in Cristo. Nella misura in cui esso ha afferrato e formato l'uomo, questi sfugge alla condanna nel giudizio. Non il bene ed il male in genere, non l'idea astratta del bene e del male, non un valore o un disvalore impersonale, ma Cristo è la norma in base alla quale il giudice emette la sentenza finale. Il rapporto con una persona viva, con il Signore storico e glorificato, decide dell'ultimo destino. L'amore a Cristo si realizza nell'amore al fratello e vien meno nel ripudio del fra­ tello. Viceversa ogni amore soccorrevole verso l'uomo è rivolto in definitiva a Cristo, ogni rifiuto di aiuto all'uomo è rivolto in definitiva al Signore. La ragione per cui il principio del bene e del male riceve la sua ultima purificazione e la sua serietà assoluta da questa determinazione personali­ stica di salvezza e di perdizione, sta nel fatto che Cristo è il modello del­ l'uomo e l'essenza del vero e del bene (cfr. §§ 44 e 1 5 2). Il si a Cristo è un si al bene, il no a Cristo è un no al bene, a quel bene assoluto che è Dio stesso, non semplicemente ad una idea o ad un prin­ cipio, quale può trovare lo spirito umano, dal cui profondo assieme al bene sale sempre anche il male. L' uomo è buono nella misura in cui è simile al modello che ne porta in sé iil Verbo apparso in questo mondo nella carne. Su di esso egli viene misurato. Il giudizio consiste dunque in questo, che l'uomo viene valutato in base alla norma assoluta che è Cristo. Nel giudizio l'amore e la santità, la giustizia e la verità apparse in

240

P.

I.

-

ESCATOLOGIA GENERAL.Ii

Cristo irrompono sull'uomo. Dinanzi a questa irruzione ciò che non santo, ciò che non veritiero, non può reggere. Durante la storia terrena il Dio santo si è frenato, per modo che l'uomo non santo, nonostante la sua contraddizione a lui, ha potuto esistere. Ma nel giudizio finale la santità e verità di Dio si rivelano nella loro potenza assoluta. Allora vengono sull'uomo come « fuoco divoratore ». Con l'immagine del fuoco la Scrit­ tura descrive la forza con cui la santità e verità di Dio urtano contro l'uomo non santo e peccatore, per modo che egli ne deve perire. Se l'uomo è totalmente permeato di falsità, tanto che questa rappresenta il suo prin­ cipio di vita, incorre nella dannazione. Se qualcosa di non santo e non vero tocca soltanto di sfuggita alcuni strati dell'uomo, viene vinto dalla verità e santità di Dio. Guardini cosi scrive al riguardo :

c

La verlta costituisce il fondamento della

esistenza ed il pane dello spirito. Tuttavia nell'ambito della storia umana essa è separata dalla forza. La verità ha valore, la forza costringe. Alla verità manca la forza immediata, tanto piu, quanto piu

è

nobile. Le piccole verità hanno ancora

forza, per il fatto che istinro e necessità le confermano; pensiamo ad es. a quelle che concernono i bisogni immediati della nostra esistenza. Quanto piu alto

è

il

grado a cui appartiene la verità, tanto piu debole diviene la sua forza cogente immediata, tanto piu lo spirito deve aprirsi libe1·amente ad essa. Quanto piu no­ bile è la verità, tanto piu facilmente può essere messa da parte dalle grandi realtà o posta in ridicolo, tanto piu è affidata alla cavalleria o nobiltà dello ;;pirito. Ciò vale per ogni verità, ma in modo tutto particolare per quella sacra. Essa versa nel pericolo dello scandalo. Non appena entra nel mondo, depone la onnipotenza dinanzi alle sue porte

e

viene nella debolezza della forma di servo. Non soltanto

perché essa è la piu alta in dignità e quindi, secondo la legge della quale abbiamo parlato, deve essere la minima nella forza, ma perché viene dalla grazia e dal­ l'amore di Dio, chiama l'uomo peccatore alla conversione e per ciò stesso suscita la ribellione. Cosi poté avvenire ciò che Giovanni dice nel suo Vangelo : in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini, e la luce brillava nelle tenebre e le

tenebre non l'hanno accolta. Era nel mondo, e per mezzo suo il mondo è stato fatto,

ed il mondo non l'ha riconosciuta (Gv.

1,

4-5). Ma un giorno verità e forza diver­

ranno una sola cosa. La verità avrà tan ta forza quanto ha valore e q uanto merita. Quanto piu alto è il significato della verità, tanto piu forte sarà il suo dominio. Evento immenso ! Soddisfazione dì ugni desiderio dello spirito ! La verità infinita dì Dio. Forza infinita. La verità santa di Dio : volge e consuma.

Essa irromperà, inonderà,

forza santa, che scuote, scon­

permeerà

tutto.

E come

avverrà

questo? Mediante la parola di Cristo. Mediante la sua parola, che egli pronun­ zierà nell'ultima ora della storia e che poi starà in eterno :

come legge, spazio,

aria, luce della esistenza definitiva. Nella sua prima parola la verità era debole; debole come egli stesso, per modo che le tenebre hanno potuto chiudersi di­ nanzi ad essa. Nella sua seconda parola essa sarà cosi forte come il suo signi­

ficato, e cioè onnipotente. Evemo terribile per colui che non vuole la verità.

§ 299 . IL GIUDIZIO UNIVERSALE Tutto ciò che in noi non vuo.le la verità non avrà piu posto. Ora la falsità può esistere, perché la verità è debole; cosi come può esistere il peccato, perché Dio lascia lo spazio inconcepibile c:he rende possibile alla volontà di decidersi contro di lui. Ora esiste per breve tempo - cosi breve com'è vicina l'ora del ritorno di Crisro - la libertà di errare e di mentire. Ma quando la verità diventerà forza, non potrà piu esserci la menzogna perché tutto sarà pieno della verità. La falsità sarà espulsa dall'essere e consisterà soltanto piu in nna forma, per la quale non esiste concetto :

la dannazione... Ma per

colui

che

vuole la verità;

per ciò che in noi desidera la verità, quale liberazione ! Sarà per lui come per l'uomo che stava per soffocare e che ad un tratto giunge all'aria libera e pura. Ogni ente fiorirà, diverrà libe.ro e bello. Bello perché, come dice S. Tommaso, la bellezza è lo splendore della verità che diviene realtà » (Der Herr, 464 s.).

La verità onnipotente è quella dell'amore santo di Dio apparso in Cristo. In quanto uno ne è ripieno, sostiene il colpo che essa porterà contro og_n i realtà . Se uno non ne è permeato, non lo può sopportare e sprofonda in quello stato che la Scrittura chiama la seconda morte (Apoc. 20, 14). ar. § 263. Poiché alla luce della verità santa di Dio affiorano i veri valori, il giu­ dizio implicherà una revisione dei giudizi terreni. Allora può avvenire che uno, che ha ricevuto alte lodi dinanzi al mondo, sia condannato, ed uno che è stato condannato dal mondo, venga altamente onorato. Non ci saranno piu velami. Perciò il cristiano, guardando all'ultimo giudizio, sarà molto riservato nei suoi giudizi. Poiché a dire l'ultima parola è il Signore . Il cristiano non sarà neppure scosso dalla condanna del mondo, se la sua coscienza lo assolve dinanzi a Dio ; poiché Dio sosterrà la sua causa di­ nanzi al mondo. Cosi il sentimento offeso della giustizia umana, che du­ rante la storia non può mai essere completamente soddisfatto, può guar­ dare speranzoso al giudizio futuro. Mentre nel mondo la giustizia non può essere attuata in modo perfetto, ma solo faticosamente ricercata, e là dove si vuole realizzare fino all'estremo produce effetti disastrosi, Dio appor­ terà la piena giustizia. Cos[ nel caos di ingiustizia colTJevole ed incolpe­ vole si leva la fiducia che un giorno tutto si comporrà in ultima ed incon­ dizionata giustizia.

IV. - EFFETTO DEL GIUDIZIO. Il giudizio ultimo apporterà una separazione dei buoni e dei cattiVI (Ebr. 4, 1 2). Nessuna creatura rimarrà nascosta dinanzi a Cristo giudice . Tutto sta aperto e nudo dinanzi agli occhi di colui, al quale dobbiamo rendere conto (Ebr. 4, 1 3 ; cfr. Sap. 1 8 , 14- 1 6). I buoni saranno liberati

242

P.

I. - ESCATOLOGIA GENERALE

per sempre dalla compagnia dei cattivi, i cattivi saranno cacciati per sempre dalla compagnia dei buoni (Mt. 1 0, 22 ; 25, 46; Mc. I 3, I 3. 20. 27 ; Fil. I , 28; 2 Tess. I , s - r o ; Apoc. 2 I , 8. 27).

V. - CIRCOSTANZE DEL GIUDIZIO.

Circa il luogo e la durata del giudizio nulla è rivelato. Il profeta Gioele predice la valle di Giosafat come il luogo in cui Dio tiene giudizio sui popoli pagani (Gioe. 4, 2. 1 2). Per questo motivo la valle di Giosafat presso Gerusalemme venne sovente considerata come il luogo del giudizio finale. Ma questa designazione locale non ha che valore simbolico. Si può ritenere che Dio illumini ogni uomo in modo che in un mo­ mento questi scorga il corso della storia umana e la partecipazione di ciascun individuo al corso generale e giudichi con la norma della giu­ stizia di Dio. Nella luce di Dio egli non acquista soltanto la retta cono­ scenza, ma anche l'impulso ad adattarsi subito al giudizio. I santi e gli angeli partecipano al giudizio. Ai Corinti, che deferiscono le loro cause ai giudici pagani, Paolo ricorda che essi stessi dovrebbero essere capaci di mettere ordine nelle loro liti. Dovrebbero essere in grado di regolare le loro faccende terrene senza ricorrere all'aiuto dei giudici pagani, dal momento che dovranno fare una cosa molto piu importante, cioè partecipare al giudizio finale ( I Cor. 6, 1-7). « Come si deve inten­ dere questa partecipazione al giudizio? I " santi " saranno da prima giu­ dicati essi stessi. Ma se potranno sentire da Dio la loro beatificazione e diventare cosi una sola cosa con lui, nella chiara conoscenza di tutti i perniciosi influssi e tentazioni dei cattivi S?iriti in tutto il passato personale e di storia universale, si separeranno per sem�re in modo definitivo ed irrevocabile dalla loro compagnia e dal loro influsso, e con la forza divina della verità e santità li cacceranno da sé, come da sé li caccia Dio » (Kuss, commento a 1 Cor. 6, I -7).

VI. - OGGETTO DEL GIUDIZIO.

Per quanto concerne l'oggetto del giudizio, si può dire in modo gene­ rale che esso è costituito da tutti gli atti ed i pensieri delle creature dal­ l'inizio alla fine. Qui sorge però una difficoltà dal fatto che ogni singola creatura già nel giudizio individuale, di cui si tratterà in seguito, viene

§ 299.

IL GIUDIZIO UNIVERSALE

243

giudicata da Dio in base ai suoi atti e pensieri singoli e nello stesso tempo viene illuminata circa il senso della sua vita singola e del mondo nel suo complesso. Può quindi sembrare che per il giudizio universale non ri­ manga un oggetto proprio. Per risolvere questa difficoltà si può osservare che mentre nel giudizio particolare l'accento poggia sulla responsabilità del singolo, e sulla bilancia del giudizio viene posta la sua buona o cattiva volontà, nel giudizio uni­ versale l'accento poggia sul valore o disvalore oggettivo che le singole decisioni, pensieri ed istituzioni umane hanno avuto. Nel giudizio uni­ versale saranno anche rese note pubblicamente la lotta, la sconfitta e la vittoria, la ribellione e l'obbedienza del singolo. In tal modo ciascuno può vedere di ciascuno che la forma di esistenza, che Cristo gli assegna, è quella giusta. La giustizia di Dio si rivela dinanzi a tutto il mondo nella sua validità assoluta. Anche i peccati, di cui ci si è pentiti e che sono stati perdonati, saranno pubblicati dinanzi agli occhi di tutti. Tuttavia essi non saranno piu motivo di vergogna, ma di lode a Dio, poiché da essi apparirà manifesto che anche attraverso alla mancanza umana Dio porta l'uomo alla perfezione. Il ringraziamento a Dio e la lode della sua misericordia saranno tanto maggiori, quanto maggiori furono gli ostacoli che la volontà salvifica di Dio ha dovuto superare. Grande sarà lo stupore a questa manifestazione (Mt. 7, 2 ss. ; 9, I I ss. ; 25, 37· 44; Mc. Io, 27. 3 1 ) . M a per quanto importante sia questa assegnazione e pubblicazione della forma definitiva di esistenza a ciascun individuo, che avviene dinanzi a tutto il mondo, ancora piu essenziale è nel giudizio finale, a differenza del particolare, la manifestazione della oggettiva bontà o malvagità, della por­ tata o dell'insuccesso storico di ogni avvenimento nel corso del tempo. Per comprendere questa affermazione è importante distinguere tra i sen­ timenti con cui un'azione viene compiuta, ed il suo contenuto oggettivo. Tra gli uni e l'altro vi può essere non soltanto differenza, ma anche ten­ sione, anzi contraddizione. Mentre la qualità dei sentimenti dipende dalla purezza, dalla buona volontà dell'agente, il valore oggettivo dell'azione dinende dalla sua importanza per l'ordine entro il comnlesso della crea­ zione, in definitiva dalla sua portata per il trionfo del regno di Dio. Cosi uno può compiere un'azione dannosa con la migliore intenzione, mentre ciò che uno fa per un trovente egoistico, può avere effetti benefici. Nel giudizio universale viene svelata soT)rattutto la verità ed il valore delle O?ere culturali create dagli uomini, con intenzione sia pura che impura, delle creazioni scientifiche ed artistiche, dei sistemi e delle ten­ denze filosofiche, degli ordinamenti e dei provvedimenti economici, indu-

244

P.

l.

-

ESCATOLOG IA GENERATE

striali e politici, delle dottrine e delle istituzioni religiose ; il diritto ed tl torto, la potenza storica e l'impotenza delle forze spirituali, morali, reli­ giose e nazionali; la portata degli incontri degli uomini singoli e dei popoli, della lotta tra Stato e Chiesa, dei gruppi entro la Chiesa di Cristo; il senso delle sette e delle eresie; il significato delle guerre e delle rivoluzioni. Allora talune cose che parvero essere state grandi e potenti, benefiche ed utili saranno riconosciute come piccole e perniciose; e molte cose che apparvero senza valore ed insignificanti, come pericolose ed infauste, anzi come deleterie, saranno riconosciute come valide ed efficaci, come salu­ tari ed utili. Si marùfesterà pure la bontà e la verità che si trovano nel male e nel falso, ed il male ed il falso che si trovano nel male e nel falso, ed il male ed il falso che si trovano nel bene e nel vero. Apparirà quale importanza hanno avuto anche i peccati permessi da Dio, l'errore da lui non impedito, i duri destini di vita sopravvenuti anche ai fedeli. Spariranno allora dalla vista di tutti le assurdità che tanto ha1mo onerato la fede in Dio. La fede nel giudizio finale è quindi la fede nel chiarimento finale del senso di ciò che non aveva senso. Il giudizio ultimo si riferisce quindi agli uomini in quanto portatori della storia e della vita sociale.

VII. - GIUDIZIO DEI POPOLI. Il giudizio non viene pronunziato soltanto sui singoli, perché non sol­ tanto essi sono soggetti di aziorù e di istituzioni, di idee e di risoluzioni, ma anche sui popoli che sono i protagonisti della storia umana. Il singolo può recare benedizione o sventura all'insieme della storia umana in quanto è membro della comurùtà, è suo strumento e suo esponente creativo. Tutta la storia è avvicinamento od allontanamento dei popoli da Dio. Nel giudizio universale apparirà manifesto se ed in quale misura ogni popolo ha svolto il compito affidatogli da Dio. Allora verrà stabilito di fronte a tutto il mondo l'onore od il disonore, il valore od il disvalore di ciascun popolo, per sopravvivere nel ricordo eterno. I popoli in quanto tali non vanno né in cielo né all'inferno, ma sopravviveranno onorati o disonorati negli uomini che ne hanno fatto parte durante la storia.

§ 300. Il compimento o la consumazione generale.

CAPITOLO I. LA NUOVA UMANITA'

I.

-

SUO CARATTERE CRISTOLOGICO.

Ricordiamo ancora una volta il motivo fondamentale del Nuovo Testa­ mento : l'individuo perviene alla sua ultima pienezza soltanto nella risur­ rezione dai morti e mediante il compimento della comunità umana. Ri­ surrezione dai morti e compimento sociale hanno valore causale per l'uomo singolo. La causalità insita in questi due eventi agisce già in antecedenza, ma si sviluppa in tutta la sua forza soltanto quando gli av­ venirr:: enti stessi si verificano. Risurrezione dai morti e compimento so­ ciale a loro volta sono ancora in uno stretto rapporto, perché soltanto la risurrezione dai morti ed il passaggio attraverso al giudizio universale fanno giungere alla loro mèta la storia umana e la umanità nel suo com­ plesso. Alla comunità di coloro che durante la vita storica consapevolmente oppure inconsapevolmente si sono rivolti a Cristo e con ciò sono appar­ tenuti alla stirpe dei ricercatori e degli amanti di Dio, viene assegnata dal Padre la forma di esistenza celeste, mentre alla società dei peccatori e degli apostati viene assegnata la forma di esistenza della dannazione. Il sin­ golo diviene partecipe della sua beatitudine od infelicità individuale in quanto membro della comunità. Come si presenti la forma di esistenza del singolo, sarà discusso in seguito. Fin tanto che la risurrezione dai morti ed il compimento sociale non sono realizzati, la beatitudine del singolo non ha ancora la sua piena forma. La ragione di queste tesi sta nel fatto che, secondo la testimonianza della Sacra Scrittura, gli uomini costituiscono, nella colpa e nella reden­ zione, una unità inscindibile. La causa e nello stesso tem�o il simbolo della unione nella colpa è Adamo. La causa e la forma in cui si manifesta

P. l.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

l' unione nella redenzione è Gesu Cristo. Secondo Paolo per un solo uomo il peccato è venuto nel mondo e per il peccato la morte, per un solo uomo si è giunti alla salvezza per tutti (Rom. 5 , 1 2 - 1 8). La ragione piu profonda dell'unità è quindi cristologica. In Cristo gli uomini, resi nemici dal­ l'egoismo e dall'odio, sono stati congiunti nell'unità. In lui i Giudei ed i pagani sono stati trasformati nell'unico popolo di Dio, il quale, come abbiamo visto trattando della Chiesa, esiste come corpo di Cristo. Cristo è il capo di questo corpo che si manifesta nel popolo di Dio. A questo punto rimandiamo ancora una volta ad una testimonianza dell' apostolo Paolo circa la funzione unificatrice di Cristo e della sua opera. Nella lettera agli Efesini (2, I I -22) egli scrive : « Perciò ricordatevi voi, i pagani secondo la carne, che venite detti incirconcisi da quelli che si chiamano circoncisi - per un'operazione fatta nella carne, - che eravate un tempo senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, ed estranei alle alleanze della promessa, privi di speranza e senza Dio in questo mondo. Ora, invece, in Cristo Gesu, voi che eravate un tempo lontani siete divenuti vicini in virtu del sangue di Cristo. Egli, infatti, è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un solo popolo e ha abbattuto il muro che li separava, l'inimicizia, abolendo nella propria carne questa legge di precetti coi suoi ordinamenti, per formare in se stesso dei due un solo uomo nuovo e fare pace, per riconciliarli con Dio, ambedue in un unico corpo, mediante la croce, dopo avere uccisa in se stesso l'inimicizia. È venuto allora ad annunciare la pace : pace per voi che eravate lontani, e pace per quelli che erano vicini : per lui, infatti, abbiamo, gli uni e gli altri, in un mede­ simo Spirito, l'accesso al Padre. Cosi dunque non siete piu stranieri e pellegrini, ma siete concittadini dei santi e membri della casa di Dio, sovraedificati sul fondamento degli A!JOStoli e dei profeti, con lo stesso Cristo Gesu quale pietra angolare. In lui tutta la costruzione, ben com­ paginata, cresce come tempio santo nel Signore ; in lui anche voi siete inseriti nella costruzione per divenire abitazione di Dio nello Spirito » . L'Apostolo usa persino la forte esoressione che i cristiani in Cristo sono uno solo (Gal . 3, 28). I cristiani sono sotto l' influsso attivo di Cristo, vivono nel suo cam"!)o d'azione, su di essi esercitano potere la sua morte e la sua risurrezione. Ma anche coloro che non a';)oartengono alla società della Chiesa vengono raggiunti dalle sue forze benefiche. Il vincolo unitivo è lo Spirito Santo, l'am ore personale di Dio. Cfr. § 1 69". Nel corso della storia terrena un fitto velo oosa sulla unione degli uomini con Cristo e sull'unione rech>roca che in essa si fonda. Cristo in­ fatti è invisibile e vive nella gloria del Padre ; tuttavia la comunità dei

§ 300. IL COMPIMENTO GENERALE

247

fedeli mira a che il suo rapporto con Cristo ed il rapporto di Cristo con essa appaia un giorno manifesto e quindi git.mga visibilmente alla luce chi è il suo capo e di chi essa è il corpo. A questo è pure rivolta la virtti del Signore risorto. La dfmamis propria alla sua risurrezione agisce in modo che gli uomini congiunti con lui vengano trasformati a sua imma­ gine, e quindi partecipino alla sua esistenza di risorto senza che per altro ne venga distrutta la loro individualità. Soltanto cosi si realizza il motivo conduttore della teologia paolina : come Cristo, cosi il cristiano. Il carat­ tere di « capo », proprio di Cristo, è quindi la ragione dell'esistenza dei cristiani nella risurrezione. Soltanto se questa si verifica, il Cristo glori­ ficato si integra in certo modo nel Cristo totale, per dirla con Agostino. Soltanto i risorti sono la pienezza completa di Cristo; soltanto in essi Cristo e la sua opera pervengono alla pienezza del loro significato e del loro essere. Se quindi la risurrezione rappresenta il modo della pienezza, il popolo di Dio costituisce il campo della pienezza. Ai suoi membri, ed inoltre a tutti coloro che sono aperti all'azione di Dio (§ 1 77"), è rivolto il dina­ mismo della risurrezione di Gesti Cristo. Soltanto quando l'ultimo dei predestinati sarà conformato a Cristo quale signore del popolo di Dio (Rom. 8, 29 ), si realizzerà il senso di questo popolo nella sua forma ultima. Il popolo di Dio, entrato per la risurrezione nella glorificazione, apparirà come il popolo di Cristo, come il popolo del Signore caratterizzato dalla morte e dalla risurrezione.

Il. - LA TESTIMONIANZA DELLA LITURGIA. Il carattere cristologico della figura ultima perfetta degli uomini singoli, quali membri della comunità della risurrezione, è attestata in molteolici modi dalla liturgia, la quale in numerosi testi esprime che il com�imento ovvero la consumazione è un evento ed uno stato sociale. Cosi ad es. nella Messa per i martiri nel tempo pasquale è detto : « Dio, che ci concedi di festeggiare la nascita al cielo dei tuoi santi martiri, fa' che ci ralle­ griamo di partecipare con essi all'eterna beatitudine ». Quando si ammi­ nistra l'estrema unzione la Chiesa recita sull'ammalato la preghiera se­ guente : « Parti, o anima cristiana, da questo mondo, nel nome di Dio Padre onnipotente che ti ha creata; nel nome di Gesti Cristo Figlio del Dio vivente, che per te ha sofferto ; nel nome dello Soirito Santo che è stato effuso in te; nel nome della gloriosa e santa genitrice di Dio, la

P. I.

-

ESCATOLOGIA GENERALE

vergine Maria; nel nome del beato Giuseppe, sposo inclito di questa vergine ; nel nome degli angeli e degli arcangeli e delle potestà ; nel nome dei cherubini e dei serafini; nel nome dei patriarchi e dei profeti ; nel nome dei santi apostoli ed evangelisti ; nel nome dei santi martiri e con­ fessori ; nel nome dei santi monaci ed eremiti; nel nome delle sante ver­ gini e di tutti i santi di Dio ! » . Nella sua preghiera la Chiesa invita i membri perfetti a fare da scorta al fratello or ora glorificato : « Ti raccomando, o fratello carissimo, al Dio onnipotente e ti consegno nelle mani di colui che ti ha creato. Tu devi pagare con la tua morte il debito della natura umana e poi ritornare al tuo creatore che ti ha formato dal fango della terra. Ed ora, mentre la tua anima esce dal corpo, ti voli incontro la schiera splendida degli angeli, si trovi presso di te l'alta corte degli Apostoli, ti venga incontro l'esercito vittorioso dei martiri in bianche vesti, ti circondi la schiera dei confessori nello splendore liliale della purezza, ti accolga con canti di giubilo il coro delle vergini e ti avvolga la dolce pace nel seno dei patriarchi; il beato Giuseppe, patrono dolcissimo dei morienti, ti dia il coraggio per W1a grande speranza. La santa genitrice di Dio, Maria, rivolga a te benigna lo sguardo ; Gesu Cristo si mostri a te con volto lieto e festoso e ti assegni in eterno il posto tra coloro che circondano il suo trono. Ti siano ignoti i terrori delle tenebre, l'ardore delle fiamme, il tormento dell'inferno ; Sa­ tana, l'orribile, si allontani da te con i suoi soci. Quando voi tu e gli angeli che ti accompagnano - passate, egli tremi e fugga nell'abisso orrendo della notte eterna. Dio si levi; allora si dilegueranno i suoi nemici, fuggiranno dinanzi a lui coloro che lo odiano. Come il fumo si dissolve, cosi anch'essi si dissolvano. Come la cera si scioglie al fuoco, cosi essi si dileguino nel nulla dinanzi al volto del Signore. Ma i giusti si rallegrino al banchetto nuziale al cospetto di Dio. Resti quindi umiliata e sprofondi di vergogna tutta la genìa infernale ; ed i servi del demonio non osino ostacolarti nel tuo cammino verso la patria. Cristo, che ha sofferto in croce, ti liberi da tutte le torture ! Cristo, che per te è morto, ti liberi dalla morte eterna ! Cristo, Figlio del Dio vivente, ti porti alle campagne fragranti e sempre verdi del suo paradiso ! Egli, vero buon pastore, ti riconosca come pecorella del suo gregge ! Ti assolva da tutti i tuoi peccati e ti ponga alla sua destra nella schiera degli eletti. Possa tu vedere sempre il tuo redentore faccia a faccia ; guardare sempre da vicino con occhio beato la verità svelata. Inserito nella schiera dei beati possa tu fruire della visione di Dio nella felicità e nella delizia per tutta l'eternità » . Quando il moribondo ha chiuso gli occhi a questo mondo per aprirli all'altro, la -

§

300.

249

IL COM P I .\'.ENTO GENERALE

Chiesa prega : « Venite in aiuto, o santi di Dio, accorrete, o angeli del Signore. Prendete la sua anima e porta tela dinanzi all'Altissimo ». Nella celebrazione del sacrificio eucaristico il giorno di tutti i defunti si prega : « Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche per le anime dei tuoi servi e serve, a favore delle quali ti offriamo il sacrificio di lode, onde ti degni aggregarle alla società dei tuoi santi » (Secreta) ; similmente nella orazione della Messa esequiale, nelle stesse esequie, nella « Messa quotidiana per i defunti », soprattutto nelle orazioni per i vescovi e sacerdoti defunti, per parenti e benefattori. Nel breviario la Chiesa dice : « Alla società dei cit­ tadini celesti ci conduca il re degli angeli ». Circa la legittimità ed i limiti di una ec­ cato, esso fu il tentativo di costruire e formare la vita, che è possibile soltanto come dono di Dio, con una autonomia indipendente da Dio, anzi senza Dio. Gli uomini vollero prendere in mano essi stessi la vita ed at­ tuarla con le forze della terra, senza l'aiuto divino ; vollero che dipendesse

§

3 0 1 . LA

MORTE

3 59

unicamente dal loro proprio sforzo. La loro aspirazione all'autonomia non rimase senza successo, ma dovettero pagare un ben caro prezzo perché perdettero proprio ciò che cercavano di acquistare : la vita ricca e libera dalla morte. Secondo Gen. 3, 19 Dio dice all'uomo divenuto peccatore : « Con il sudore della tua faccia mangerai pane, finché tornerai al suolo, perché da esso sei stato tratto, perché tu sei polvere e in polvere devi tornare » . L'immunità dalla morte è finita per sempre e non può mai piu essere raggiunta entro la storia umana. Nella Scrittura ciò è espresso nel fatto che Dio cacciò l'uomo dal paradiso e « a oriente del giardino dell'Eden fece dimorare i Cherubini e la fiamma della spada fol­ gorante, per custodire la via dell'albero della vita » (Gen. 3, 2 3). Quanto riferisce la Genesi, riguarda un fatto storico (Denz. 21 3 3). Il suo racconto non serve a spiegare con un esempio tipico il senso della morte umana, ma vuole scoprire l'origine della mone e svelare cosi anche il suo significato. Senza peccato non ci sarebbe morte. Questa tesi rap­ presenta il fondamento della storia salvifica attestata neli' Antico e nel Nuovo Testamento. La decisione del primo uomo ebbe gravi conseguenze per tutta la storia umana, perché a questa decisione prendono parte tutte le future gene­ razioni ; cosi prendono anche parte al destino di morte. « Per opera di un solo uomo il peccato entrò nel mondo e attraverso il peccato la morte; cosi la morte passò su tutti gli uomini, perché tutti peccarono » (Rom. 5, 1 2, secondo il testo originale). Per il peccato di uno solo la morte acquistò il dominio su tutti (Rom. 5, 1 7 . I 7 i 8, I o ; I Cor. 1 5 , 21 s.). Lo stretm rapporto della morte con la ribellione a Dio diviene particolarmente evi­ dente nel fatto che, secondo la testimonianza della Scrittura, essa è espres­ sione e segno del dominio del demonio; è lo strumento con cui il « prin­ cipe di questo mondo » asservisce gli uomini (Geo. 3 ; Sap. 2, 24 ; Gv. 8, 44 ; Ebr. 2, I4). I teologi non sono concordi nel risolvere la questione se la morte, in quanto castigo, sia stata decretata sui peccatori dall'esterno, in modo da essere soltanto una punizione, forse particolarmente sensibile, del pec­ cato, oppure sia espressione e manifestazione dell'esistenza peccatrice del­ l'uomo stesso ; se quindi si trovi in un rapporto puramente estrinseco, oppure anche in un rapporto intrinseco, in certo modo naturale, con l'esi­ stenza peccatrice dell'uomo. Si oossono addurre ragioni oer entrambe le opinioni. Tuttavia la potenza della morte e la serietà della minaccia divina di morte appaiono piu chiare se si ammette la seconda opinione. Il nesso intrinseco tra morte e peccato si può intendere nel modo seguente. Esiste

P. II. - ESCATOLOGIA INDIV IDUALE

vita soltanto nella partecipazione alla forza vitale di Dio. Soprattutto la vita, che doveva essere sottratta per sempre all'assalto della morte, è possibile soltanto come dono perpetuo di colui che porta in se stesso la vita. Se l'uomo rifiuta di possedere la vita come dono di Dio, rinunzia all'unica possibilità di vivere. Cacciando via da sé Dio, egli caccia via da sé la vita. Nel distacco da Dio non c'è quindi che la morte. Non è perciò sorprendente che il ribelle a Dio sia votato alla morte ; ma è piut­ tosto un mistero imperscrutabile che il peccatore possa ancora vivere. Come può esistere l'uomo, se rigetta il principio dell'esistenza, il Dio vivente? Questo mistero fondamentale dell'esistenza peccatrice è latente in tutto il corso della vita del peccatore. La creatura può vivere soltanto da Dio; ma il peccatore non vuole vivere da Dio. Nasce la impenetrabile dialettica che anche colui che rigetta Dio viene conservato da Dio. Nella morte la situazione sinistra del peccatore acquista attualità visibile. La morte è un destino conforme al peccatore; manifesta il disordine pi u intimo della vita umana, la contraddizione dell'uomo col suo prìncipio di esistenza e di vita e perciò la contraddizione che regna nell'uomo stesso. La morte smaschera l'uomo come peccatore. Se esiste questo nesso intrinseco tra morte e peccato, si può dire che l'uomo ha condannato se stesso alla morte : è stato il suo proprio affossare. Con il peccato egli ha provocato la morte come mondo della sua vita. D'altro lato appare tanto piu comprensibile che Dio crea soltanto la vita e non la morte ; tuttavia Dio ha confermato l'autocondanna dell'uomo alla morte. Cosi la morte è nello stesso tempo un giudizio di Dio sull'uomo divenuto peccatore. Nella morte umana Dio rivela che c'è vita soltanto in unione con lui, che senza di lui l'uomo non può vivere, ma può sol­ tanto morire. La morte è quindi qualcosa di piu e di diverso da un fatto pura­ mente biologico; ma è anche questo. Le leggi biologiche, che a loro volta si fondano sulle leggi chimico-fisiche, non vengono svalutate dall'inter­ pretazione autentica della morte offerta nella Sacra Scrittura. L'interpre­ tazione autentica della morte da parte della Scrittura non è una fiaba, che sarebbe inconciliabile con le scienze naturali. Le leggi conservano il loro valore ; il loro carattere inviolabile viene addirittura garantito. Ma nell'azione delle leggi naturali si compie un mistero che non può essere constatato dall'esperienza e dall'esperimento. I processi chimico-fisico­ biologici sono per cosi dire un recipiente in cui viene accolto il giudizio divino sul peccatore umano. Nella morte l'uomo, avvertendo i suoi propri limiti, avverte allo stesso tempo la sua opposizione a Dio, il quale è la vita.

§ 301 .

LA MORTE

Nella morte egli conosce che cosa diventa, non appena evade dalla sicura tutela dell'amore divino : un essere abbandonato alla rovina. Nella morte l'uomo viene continuamente rimandato ai limiti che ha voluto superare nella orgogliosa ribellione a Dio. Ciò che troviamo sovente altrove, av­ viene anche qui : nell'ordine inferiore si realizza il superiore, che assume l'inferiore al suo servizio. Cosi ad es. l'attività dello spirito, qualitativa­ mente diverso dal corpo, viene inserita nel fatto corporeo. Similmente i processi chimico-fisici del morire sono il modo con cui Dio afferra l'uomo divenuto peccatore. La morte è quindi il salario del peccato (Rom. 6, 23). Ciò le dà il suo pungolo (I Cor. r s, 2I s.; Giac. I, I 5). Nella morte appare un destino che penetra piu a fondo del semplice sfacelo corporale. La morte è sin­ tomo di un disordine che attinge le radici dell'esistenza umana : l'inimi­ cizia con Dio. Essa è es!Jressione di un avvenimento addirittura « contro natura », che cioè va contro la natura dell'uomo, dotata della grazia. Perciò in un certo senso è essa stessa innaturale ; non doveva esserci ; contraddice al disegno originario della creazione divina. La ripugnanza che l'uomo sente contro la morte è quindi giusta. In essa si manifesta la consapevolezza umana che nell'ordinamento di vita voluto da Dio la morte è una estranea, anzi una nemica (I Cor. r 5, 2 1 ), che è la nemica dell'uomo. Perciò l'angoscia dinanzi alla morte è qual­ cosa di piu che l'arretrare inorriditi dinanzi alla fine corporale; è il ter­ rore dinanzi al Dio santo, che giudica l'uomo. Si dovrà pure dire che, secondo la dottrina della Scrittura, la morte è anche espressione e segno dei peccati personali, gravi (non rimessi) (Rom. I , 3 2 ; 7, 9· ro; 8, 1 3 ; 6, r6. 2 1 . 2 3 ; 7 , s ; 8 , 2 ; Giac. I , I 5), che procedono dal peccato origi­ nale e dalla concupiscenza. I peccati personali appaiono cosi come radice secondaria della morte, mentre il peccato originale ne è la radice pri­ maria. (In che modo la redenzione ad opera di Cristo muti il destino umano di morte, sarà dimostrato nel prossimo capitolo). Vediamo quindi che la morte proviene da una radice antologica e da una radice storico-salvifica, dal carattere di creatura dell'uomo e dalla po­ tenza del peccato (hamartia). Porta quindi anche un duplice volto : è la prova della finitezza e la prova della peccaminosità dell'uomo. Tuttavia l'aspetto antologico poteva divenire grave soltanto per l'influsso dell'aspetto storico-salvifico. Cfr. la dissertazione ancora inedita presentata all'univer­ sità di Monaco da St. Otto, Natura und dispositio. Untersuchung zum Naturbegriff und zur Denkform Tertullians, I958.

P. II.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

II. - L' INTERPRETAZIONE DELLA MORTE FUORI DELLA BIBBIA. In questa interpretazione la morte non viene né trasfigurata né deprezzata, ma svelata in tutta la sua abissalità. Una simile concezione della morte non ricorre fuori della rivelazione. Nell' ambiente che circonda quello biblico la morte viene valutata come un evento naturale, sovente desiderabile, spesso esecrando. La concezione orientale antica si esprime nell'antica redazione babilonese dell'epopea di Gilgames. L'eroe esclama : la morte che temo ». Gli si risponde :

«

«

Vorrei non vedere

Gilgames, dove corri? La vita che

cerchi non la troverai ! Allorché gli dèi crearono gli uomini, istituirono la morte per gli uomini; ma presero nelle proprie mani la vita » . Cosi pure agli Egizi.::mi ed ai Gred è estraneo il pensiero che la morte sia una punizione e perciò qualcosa di innaturale, tanto che muoiono persino gli dèi,

ai quali nessuno osa rinfacciare alcunché. Ciò non con­

trasta col fatto c:he la morte sia sentita come un grave peso. Se i Greci vedevano la morte come una potenza nemica, con ciò essi esprimevano, come in tanti altri casi, un sentimento umano universale. Holderlin si rivela come uomo nutrito deUo spirito dei Greci e nello stesso tempo come vivente dell'atmosfera del Cristianesimo quando all'amico Neuffer, in occasione della morte della moglie, scrive (ed. M. Schneider, IV, «

98) :

Io non posso pensare al trapasso, in cui il nostro cuore, la cosa migliore

che sia in noi, l'unica cosa che valga ancora la pena di ascoltare, implora con tutti i suoi dolori la conservazione. n Dio, che pregavo da bambìno, mi perdoni - io non concepisco la morte nel suo mondo » . Il freddo senso dei Romani si esprime anche nel fatto che nella morte non vedevano una punizione, ma una legge naturale che regna su tutti gli uominì (Seneca,

Dialoghi, 1 2, 1 3 , 2). Che la morte sia un giudizio divino l'uomo lo sa dalla rivelazione, non dai suoi propri sforzi intellettuali. Ma quando la rivelazione gli svela l'oscurità della morte, allora egli comprende perché la natura umana insorga concro la morte, perché questa le appaia innaturale e tuttavia non la possa sfuggire. La innaturalità della morte ed il suo carattere di punizione e di giu­ dizio viene confermato dalla nostra esperienza in due modi : nella morte prematura, assurda e nel fratricidio, con cui gli uomini ed i popoli si distruggono a vicenda. La storia umana è piena del grido di morte dei colpiti e degli assassinati. L'uomo che con autonomia libera da Dio ha voluto possedere la vita e l'ha perduta nella sua lontananza da lui, sente da una parte la morte come nemica e dall'altra cade sotto il suo dominio

§ 301 .

LA MORTE

in modo che non soltanto muore di fatto, ma ne diventa anche uno stru­ mento volontario (Stauffer, 54 s.). Anzi, violentando la sua propria natura, con una vera perversione egli ama la distruzione e la procura a sé e ad altri. Per quanto egli senta la morte come estranea, anche quando con im�egno pronto al sacrificio dà la sua vita, tuttavia nella sua volontà di vivere irrompe pure nello stesso tempo l'amore per la fine, anzi la pas­ sione per il null a . Si comprende quindi come nei Greci, pure in mezzo alla gioia dell'esistenza e nel desiderio di una vita perpetua, incontriamo nello stesso tempo il desiderio della morte. Da un lato il fiero Achille nel regno delle ombre tartaree dichiara che preferisce servire come schiavo ad un povero contadino, piuttosto che regnare su tutti i morti. In Euripide Ifigenia esclama : « Vedere la luce del giorno è la cosa piu dolce per i figli degli uomini, ed il Tartaro è un nulla! Chi si augura la morte è veramente un pazzo : una vita misera è meglio di una bella morte ! ». D'altro lato troviamo largamente diffusa una certa stanchezza di vivere, che si manifesta particolarmente dal sec. VI in poi. Essa può essere stata causata da gravi prove esterne, ma i fatti esterni sembrano soltanto aver liberato ciò che era conforme al temperamento greco. Nel sec. VI a. C. Teognide dichiara : « Non essere nati e non vedere i raggi del sole pungente è per i terrestri la cosa mi­ gliore di tutte; ma una volta nati (la cosa migliore è) entrare il piu presto possibile nelle porte dell'Ade, gettare molta terra su di sé e giacere (tranquilli) ». Da allora questi pensieri accompagnano il popolo greco, tal­ volta contraddetti, ma sempre vivi. Sofocle (t 406/ 5) fa dire ad Antigone nella tragedia omonima : « Se muoio prima del tempo, ciò non costituisce per me che un guadagno. E per chi, come me, è provato cosi dal dolore, una morte prematura non è altro se non liberazione ; se mi colpisce la morte, ciò non è per me un dolore ». Le sue parole suonano però diver­ samente, allorché essa si accinge all'ultimo passo. « O guardatemi, citta­ dini della patria, com'io percorro l'ultimo cammino, come per l'ultima volta guardo la luce risplendente del sole. Non la vedrò mai piu ». Il coro della tragedia sottolinea questi sentimenti cantando : « Chi è cosi stolto da desiderare di morire? » . Nella tragedia Edipo a Colono prorompe con tanta maggiore forza il desiderio della morte. In un canto del coro si dice : « Chi lunga vita desidera e il limite giusto degli anni sdegna, stolidità nell'anima, chiaro è per me, gli regna. Ché molti eventi i lunghi giorni arrecano piu prossimi ai dolori,

P. Il. - ESCATOLOG IA INDIVIDUALE

né riesce a trovare chi troppo il segno necessario varca dove il piacer dimori. Quella però che tutti soccorre, a tutti eguale assegna il termine, quando ascende la Parca dall'Averno, senza imèni, senza lira, senza danza, è la Morte, che il giorno ultimo avanza. Non nascere è per l'uom ventura massima; e poi, venuto il giorno, colà d'onde ebbe origine subito far ritorno » (Trad. E. Romagnoli) Euripide (t 407 j 6) fa dire all'eroina Polissena : « Con ciglio asciutto mi separo dalla luce del giorno ed abbandono il mio corpo all'Ade ». Presso i Romani simili canti in lode della morte aumentano ancora di tono. Seneca che, come già abbiamo visto, vede nella morte un evento naturale, la esalta come una grande felicià « Nulla è cosi illusorio come la vita dell'uomo, nu!Ia cosi insidioso. Per Ercole, nessuno l'avrebbe accet­ tata in dono, se già prima avessa saputo di che cosa si trattava. Se la mas­ sima felicità è il non nascere, quella che viene subito dopo è di morire giovani e di giungere cosi celermente a termine ». Anzi Seneca giunge a dire : « Ogni vita è una esecuzione capitale ». Qui si esprime l'opposi­ zione piu netta alla rivelaziOne del Vecchio Testamento circa la morte. Tali voci si possono spiegare soltanto ammettendo che la morte abbia corrotto anche il sentimento di vita dell'uomo (Leipoldt, l. c . , 1 06 ss.). Parimenti diviene comprensibile sotto questo punto di vista la mistica e la estatica della morte che si manifesta nel Barocco. Nell'innamora­ mento dell'uomo per la sua propria fine il dominio che la morte ha acquistato su di lui raggiunge il suo vertice supremo. La morte ha affer­ rato nel piu intimo l'essere e la vita dell'uomo e nello stesso tempo il sen­ timento umano della vita. Essa si estrinseca in ogni strato dell'uomo. Del tutto diverso è Dio. « Dio non ha fatto la morre, né si rallegra per la fine dei viventi » (Sap. I , 1 3 ; cfr. 2, 24 ; Ez. 18, 23). Dio è un amante della vita e soltanto lui è tale in un senso perfetto. Perciò possono essere amanti della vita in un vero senso soltanto coloro che sono amanti di Dio. Cfr. Joh. Leipoldt, Der Tod bei Griechen und 1uden, 1 942 ; M. F. Otto, Die Gotter Griechenlands, 1 929 ; K. Priimm, Religionsgeschichtliches Handbuch fur den Raum der altchristlichen Umwelt, 1943 ; M. P. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, 2 vol., 194 1 -50; O. Kern, Die griechische Religiositiit, 3 vol., 1930-38.

CAPITOLO IV. LA MORTE COME PARTECIPAZIONE ALLA MORTE DI CRISTO

I.

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LA MORTE DI CRISTO.

a) Ad opera di Cristo tutta la vita, e perciò anche la morte, che ne fa parre, è stata trasformata. In Cristo il Verbo divino ha preso su di sé il destino umano. Per il fatto che la persona del Verbo divino ha fatto sua una natura umana in modo da divenirne anche il principio di esistenza, il Figlio di Dio ha assunto il destino di morte che appartiene alla vita umana. Per sé l'uomo Gesti Cristo, non trovandosi come tutti gli altri nella serie delle generazioni, cioè nella serie dei peccatori, non era obbli­ gato come tutti gli altri alla morte. L'uomo Gesti Cristo nel suo nucleo personale piti intimo era completamente vivo, anzi la vita stessa, perché tale nucleo è divino e qwndi è la vita in persona. Ma l'io divino di Cristo, in quanto era il soggetto di tutte le azioni della natura umana, si è piegato alla legge di morte che vincola ogni uomo. Paolo motiva tale fatto dicendo che Cristo ha preso su di sé i peccati degli uomini ; e non si è neppure peritato di dire che Cristo è divenuto il peccato per noi tutti, cioè al posto nostro, in rappresentanza nostra ed a vantaggio di tutti (2 Cor. 5, 2 1 ). Cosi egli ha pure accettato la morte che deriva dal pec­ cato; con prontezza assoluta si è assoggettato al giudizio di morte decre­ tato sulla umanità peccatrice, al mandato paterno di portare il destino umano fino nelle estreme conseguenze per poterlo cosi trasformare. La morte quindi non lo colse come un evento accidentale o come un fatto inevitabile, ma il suo morire fu piuttosto un atto libero, l'atto di dedi­ zione senza riserve. b) Per dare una spiegazione piu precisa di questa morte, la possiamo considerare da parre di Dio e da parte dell'uomo. Da parte di Dio la morte di Cristo è un giudizio come la morte di chiunque altro e tuttavia sostanzialmente diverso dalla morte di chiunque altro. Cristo, che prese

P.

Il.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

su di sé i peccati di tutti, fu mandato dal Padre alla mone, ad una morte in cui si tenne giudizio su tutti i peccati della storia. L'orrore e l'infamia della sua esecuzione furono l'espressione esterna della serietà del giudizio che nella sua morte Dio tenne nascostamente su di lui, divenuro per noi tutti il peccato, ed in lui sulla umanità. In esso Dio si rivelò come il santo, dinanzi al quale l'uomo non può reggere. Tuttavia Dio non è un Dio di tormento e di disrruzione, ma è l'amore, e quindi qualunque cosa egli faccia è caratterizzata dall'amore (r Gv. 4, 7). Il giudizio che il Padre tenne nella morte di Cristo fu quindi un giudizio di amore. L'amore che in esso si manifestò era un amore verso il Figlio e verso il mondo. L'amore verso il Figlio mirava a che il Padre nella morte lo accogliesse nella gloria, che egli aveva presso di lui prima che il mondo fosse e della quale egli si era spogliato (Gv. I 7, r-s ; Fil. 2, ?). L'amore verso il mondo si esprime nella frase : « Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, l'Uni­ genito, affinché ognuno che crede in lui non perisca ma abbia la vita eterna » (Gv. 3, 1 6). L'amore, che è Dio, si è esternato in modo tale che il Padre non consegnò a morte una persona qualunque, ma il suo Figlio diletto, unigenito, affinché in lui si compia e si esaurisca ogni giudizio cui l'umanità era soggetta. Cosi colui che si unisce ad esso non è piu col­ pito dal giudizio di condanna. Nella morte del Figlio l'amore del Padre, o meglio l'amore che è il Padre, è divenuto presente nel mondo per modo che chiunque si mette, nella fede e nei sacramenti, entro la sfera d'influsso di questa morte, entra per ciò stesso nel campo d'azione del­ l'amore che salva e porta a compimento (ad es. Rom. 6, 1 -1 1 ). Da parte dell'uomo la morte di Cristo fu obbedienza al Padre. Mentre i primi uomini vollero costruire sul loro orgoglio contrario a Dio e sulla loro vita libera da Dio, Cristo nella �ma morte si è sottoposto a Dio Padre sino all'estrema possibilità ed ha lasciato che egli disponesse nel modo piu radicale della sua vita. In tal modo lo ha riconosciuto come il Signore assoluto, che ha potere sulla vira dell'uomo. Nello stesso tempo lo ha confermato come il santo, dinanzi al quale il peccatore non può reggere, ma deve morire. In tal modo ha ridonato al Padre l'onore che gli uomini gli avevano tolto, ma che gli spetta come a Signore santo. La morte di Cristo fu quindi adorazione fatta corpo e perché adorazione, anche espia­ zione e soddisfazione. Nello stesso tempo la sua morte, perché obbedienza all'amore, fu una risposta di amore; fu obbedienza amorosa ed amore obbediente. Cristo accolse la chiamata di amore del Padre e si lasciò ricondurre dal Padre nella gloria di Dio. L'amore che egli realizzò nella morte, si rivolge anche

§ 3 0 1 . LA

MORTE

agli uomini ; egli s1 sacrificò per i molti (Mc. 1 4 , 24 ; Le. 22, 1 9 ; Mt. 26, 28). N ella risurrezione apparve chiaro che la morte era un ritorno nella gloria del Padre, una consegna della sua natura umana al Padre. Allora il corpo richiamato alla vita divenne l'espressione della gloria di Dio presente in essa e divenne in tal modo nel senso piu completo corpo umano. La morte si rivelò cosi come ootente trasformatrice. Morendo Cristo acquistò il modo di esistere del Kyrios (Signore), come è continua­ mente chiamato negli scritti paolini. Venne innalzato ad una forma di esistenza, che è al di là della zona della morte. c) Riassumendo possiamo dire : nella morte di Cristo, Dio trionfò come Signore, come il santo, come l'amore in un modo perfetto, nella misura in cui egli può trionfare e manifestarsi nella creazione. Il trionfo di Dio nella creazione significa il trionfo della forza divina di vita nella creazione. Essa per l'uomo ha come conseguenza la salvezza, la trasformazione in una vita perfetta, libera dal peccato e dalla morte. La Sacra Scrittura chiama questo stato regno di Dio. Nella morte di Cristo il regno di Dio venne stabilito nella massima potenza possibile in questo mondo e fu suscitata la vita nella sua massima intensità possibile nella creazione. Essendo Cristo il centro e nello stesso tempo il vertice dalla creazione, la sua morte, come abbiamo or ora accennato e già eS IJOSto precedente­ mente, ha profonde conseguenze per gli uomini, anzi per tutto il mondo. Cristo è morto come primogenito della creazione ; è morto come rappre­ sentante dell'umanità , anzi del cosmo (cfr. vol. III/ r , § 1 6 9 "). Per mezzo di Cristo, suo ca�o, la creazione offri a Dio Padre amore ed adorazione senza riserva. Egli ha acquistato la vita corporale della gloria divina in quanto primogenito tra molti fratelli (Giac. r, r 8 ; r Cor. 5, 1 7). La forza della morte venne spezzata dalla sua morte per tutta la creazione. In futuro non regnerà piu la morte, pur continuando essa ad appartenere alla crea­ zione, bensi la vita (r Cor. 1 5 , 5 4 -56). Nel mondo intero sono penetrate le forze di gloria e di risurrezione partite dal corpo glorificato del Signore e diffusesi dovunque. Per intanto esse restano germi nascosti ; ma fa parte delle convinzioni fondamentali della Sacra Scrittura che il mondo attuale, soggetto alla caducità, compirà per l'intervento di Dio un processo di trasformazione, in cui sarà assimilato al modo di esistere di Cristo (ad es. Rom. 8, 2 9 ; 2 Cor. 3, r 8). Cfr. vol. II, §§ 1 56, 1 5 8. La croce e la risurrezione di Cristo apportarono quindi una nuova situazione nel mondo. Non regna piu la morte, segno del castigo divino, ma la vita, segno della grazia divina.

P. Il.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

II. - LA MORTE DEL CRISTIANO COME MORTE DI CRISTO. Il primo chiamato a questa trasformazione

è l'uomo, il quale è chiamato

a partecipare con decisione libera e responsabile al destino di Cristo, e quindi alla sua vita, alla sua morte ed alla gloria della sua morte. Nella partecipazione al destino di vita, di morte e di gloria di Cristo l'uomo acquista la salvezza. Il fondamento della partecipazione alla morte ed alla risurrezione del Signore l'apostolo Paolo :

«

è posto nel battesimo. Ne fa chiara testimonianza

Noi, morti ormai al peccato, come potremo ancora

vivere in esso? Non sapete forse che tutti noi che fummo battezzati in Cristo Gesu, fumm o battezzati nella sua morte? F!Lrnmo; col battesimo, sepolti con lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato da morte dalla potenza gloriosa del Padre, cosi noi pure vivessimo di una vita nuova. Se infatti siamo diventati un essere solo con lui nella somiglianza della sua morte, lo diventeremo altresi nella somiglianza della sua risur­ rezione; poiché, sappiamo bene, il nostro vecchio uomo fu crocifisso con lui, affinché foss'e distrutto il corpo dominato dal peccato e noi non si fosse piu schiavi del peccato... E se con Cristo siamo morti, crediamo che con lui parimenti vivremo, ben consci però che Cristo, una volta risu­ scitato dai morti, piu non morrà, non avendo la morte piu alcun dominio su di lui. Chi

è morto, è morto al peccato una volta per sempre :

e

chi

vive, vive ormai per Iddio. Cosi voi pure consideratevi morti si al peccato, ma vivi per Dio in Cristo Gesu

»

(Rom. 6, 2-1 1 ) . Nel battesimo avviene

è di lui. Viene

quindi una morte. Il battezzando subisce una morte ; muore in quanto colpito dalla morte di Cristo, la quale esercita un potere su

cosi vibrato un colpo mortale contro la sua vira caduca, che sta sono La legge del peccato. Si può anche dire che La morte di Cristo, in quanto produce i suoi effetti nell'uomo, diviene presente. Si tratta di una pre­ senza dinamica. Nello stesso tempo anche la risurrezione di Cristo esplica la sua azione nel battezzando, il quale pertanto cade sotto la virtU sia della morte che della risurrezione di Cristo. In questo senso si può dire che il battezzato

è inserito nella risurrezione e nella morte di Cristo.

Descrivendo sovente il modo di esistere del cristiano con la formula : «

Cristo in noi, noi in Cristo

»,

Paolo attesta per ciò stesso che il cri­

stiano sta nella sfera di azione di Cristo, che l'io del cristiano

è permeato

dall'io di Cristo. L'essere e La vita di Cristo nel cristiano, intesi in tale senso, significano la penetrazione del cristiano da parte del Signore, il

§

3 0 1 . LA MORTE

quale è passato attraverso la morte, di cui reca per sempre l'impronta e ora vive nella glorificazione. Cfr. vol. lllj2, § 1 82. ll colpo mortale, vibrato contro la vita caduca nel battesimo, viene raf­ forzato in ogni sacramento, poiché ogni sacramento vive della croce del Signore, la cui morte agisce in ogni sacramento sotto un punto di vista diverso, e si manifesta con forza maggiore nell'eucaristia, in quanto in essa e soltanto in essa il fatto della croce è presente come fatto sacrificale. Ciò che nei sacramenti avviene nell'ambito del mistero, e quindi in una profondità misteriosamente nascosta, si manifesta nel campo dell'esperienza nei dolori e nelle tribolazioni della vita (2 Cor. 4, 7- 1 8). In tale modo tutte le pene ed ogni tormento diventano modi sempre nuovi della parte­ cipazione alla morte di Cristo, il cui fondamento è posto nei sacramenti. Queste forme diverse di partecipazione alla morte di Cristo mirano al loro compimento nella morte corporale. I sacramenti ed i dolori della vita sono quindi precursori della morte. Ciò che ha avuto inizio nel bat­ tesimo, fu continuato negli altri sacramenti e promosso dai dolori della vita nel campo della storia, viene portato alla sua ultima realizzazione dalla morte corporale. Questa appare quindi come la possibilità ultima e somma di partecipazione alla morte di Cristo, cui mirano ed aspirano sempre i sacramenti e le pene della vira. Essa non è il punto conclusivo, che sopravviene accidentalmente o per legge di natura, della vita soggetta alla caducità, ma lo sviluppo e la maturazione suprema, logica e naturale, di ciò che è stato iniziato nel battesimo. La morte sta quindi sempre nella visuale di colui che è unito al Cristo crocifisso. È la possibilità ultima, sempre presente, della sua vita. Tutto il corso della vita ne è improntato. Per l'uomo che accoglie Cristo nella fede e diviene quindi partecipe del suo modo celeste di esistere, la morte perde il suo pungiglione. Cristo non ha dato rimedi fisici contro la morte. La fede in Cristo non è un incantesimo per prolungare la vita. La forma di vita immune dalla morte, destinata inizialmente da Dio all'uomo, non ritorna ; che anzi, per la morte di Cristo, la morte venne confermata per tutta la durata della storia umana come il destino irrevocabile degli uomini. Ma per mezzo di Cristo la morte acquista un nuovo senso; diviene il passaggio ad una vita nuova, indefettibile. Mediante la fede ed il battesimo l'uomo viene inserito nella morte e nella risurrezione di Cristo e diviene quindi partecipe della forza della sua morte e della gloria della sua risurrezione ; diviene simile a Cristo e viene unito a Cristo, il quale vive come crocifisso e risorto. Le forme terrene e caduche di vita ricevono nel battesimo il colpo mortale, e la forma di vita definitiva, cristiforme, viene posta in germe nell'uomo.

3 70

P. II.

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

Nella morte corporale appare ciò che dal battesimo era già sempre nel­ l'uomo. La morte corporale è il compimento della morte che l'uomo subisce nel battesimo (cfr. vol . III/2, § 1 8 2). È una « mone nel Signore » (Apoc. 14, 1 3 ; r Tess. 4, 1 6 ; 1 Cor. 1 5 , 1 5 ), una morte che non è tma morte definitiva, perché chiunque vive e crede in Cristo, non morirà in eterno (Gv. I I , 26; cfr. 2 Tim. 2, r r ; Rom. 6, 8). La morte del cristiano, essendo una morte in Cristo, realizza lo stesso senso della mone di Cristo, perché è partecipazione alla morte di Cristo, non nella pienezza e nella potenza di questa, ma soltanto attenuata, eppure reale. Di essa dobbiamo e possiamo quindi dire in senso analogico, in un modo ridotto, ma tuttavia vero, quanto abbiamo detto della morte di Cristo. Come abbiamo cercato di comprendere la morte di Cristo da parte di Dio e da parte dell'uomo, cosi possiamo comprendere anche la morte di colui che è unito a Cristo sia da parte di Dio che da parte dell'uomo. In modo generalissimo notiamo come nella morte di Cristo appaia chiaro che la morte ed ogni destino dell'uomo non sono soltanw fatalità che si fondano su leggi meccaniche o biologiche, ma prove di Dio. Nei dolori e nelle pene della malattia, nelle disgrazie e tribolazioni della vita, Dio stende la mano verso l'uomo. È la sua volontà ad agire nei destini della vita umana, che sopravvengono in base a leggi meccaniche e biologiche, oppure sono causati dalle libere decisioni umane. In essi l' uomo è chia­ mato a condividere il destino di Cristo, il primogenito. Quando nella morte Dio pone la sua mano sull' uomo, si compie anzi­ tutto, come nella morte di Cristo, un giudizio del S anto e dell'Inviolabile, del Signore sul peccatore. Dio non ritira il giudizio sotto il quale ha posto la storia umana fin dall'inizio. Nel corso dei secoli e dei millenni egli non si lascia persuadere, come un padre bonario, a modificare il suo verdetto emesso sull'uomo. L'uomo deve subire le conseguenze di ciò che egli stesso ha provocato; deve portare il destino che ha chiamato. Dio lo tratta come un maggiorenne, come un adulto che sa quel che si fa. Tuttavia l'uomo può liberarsi dal giudizio sotto il quale sta come peccatore, non nel senso che gli sia risparmiato il destino di morte, ma nel senso che in esso si realizza un nuovo significato. Ciò è concesso ad ogni uomo che subisce la morte in unione con Cristo . Per esso il giudizio che si compie nella morte diventa una partecipazione al giudizio che si è compiuto nella morte di Cristo. Questo giudizio si diffonde su tutti i cristiani. Cosi il giu­ dizio, cui il cristiano viene sottoposto nella morte, porta lo stesso carat­ tere del giudizio al quale si è sottoposto il Signore stesso. In esso Dio gli si rivela come il Signore in un modo assoluto, come il santo dinanzi al

§ 3 0 1 . LA MORTE

371

quale l'uomo peccatore deve scomparire. La morte nella storia umana è la rivelazione incessante della maestà e della santità di Dio e lo smasche­ ramento dell'orgoglio peccaminoso dell'uomo. Essa sta come un monu­ mento di Dio nel mondo. La morte assolve il compito che le spetta, rivelando la finitezza e limi­ tatezza, la nullità dell'esistenza umana. Con essa la forma terrena di esi­ stenza che ci è familiare e cara finisce, e nessuna forza della terra la può richiamare. La fine è irrevocabile ed inesorabile. Con la morte l'uomo esce per sempre dalla storia, dalla cerchia della famiglia e degli amici. La fine è ripiena del dolore della dipartita, di una dipartita definitiva, in quanto nella morte le forme terrene di esistenza scompaiono per sempre. Coloro che sono separati dalla morte non possono piu avere rapporti tra loro nel modo terreno abituale. In ciò sta l'amarezza della morte, che viene acuita dal peccato. Questo infatti dà alla morte il suo pungiglione (I Cor. I 5, 55). La morte è una penitenza ed espiazione imposta all'uomo, ed in essa egli, che volle diventare simile a Dio, espe­ rimenta una estrema umiliazione. Colui che ha voluto oltrepassare i suoi limiti, viene ad essi irresistibilmente rimandato. Nessuno sforzo gli per­ mette di gareggiare contro colui che lo rimanda nei suoi limiti. Questa forza annullatrice della morte, il suo carattere di castigo e di penitenza intende l'apostolo Paolo quando, come abbiamo già visto, chiama la morte il nemico, quel nemico che può mantenere la sua forza sino all'ultimo (I Cor. I 5 , 26). Questa connotazione della morte è intesa in modo estre­ mamente serio. Tuttavia per colui che muore con Cristo, in cui cioè esplica i suoi effetti la morte di Cristo, che perciò non subisce soltanto la disperata « morte di Adamo » , ma la « morte di Cristo » , la morte ha ancora un altro carattere. Come il verdetto del Padre per Cristo è un verdetto di amore, cosi p(.r colui che ottiene di partecipare alla morte di Cristo, il verdetto di Dio che si compie nella sua morte, diventa un giudizio di amore. Con ciò la morte viene liberata dalla sua disperazione. Nella morte Dio chiama l'uomo, che tratta come un adulto e cui quindi fa subire le conseguenze dei suoi atti, ad uscire dalla tribolazione e ad en­ trare nella pienezza e sicurezza di vita che Cristo ha acquistato nella risurrezione. Infatti nel Nuovo Testamento la morte viene spiegata come ritorno al Padre. Allora le misure, che ci sono familiari nella nostra vita quotidiana, vengono invertite. Coloro che vivono quaggiu sono i pelle­ grini ed i viandanti che hanno piantato all'estero le loro tende provvi­ sorie per una dimora passeggera (2 Cor. 5, I ) ; coloro che passano attra-

372

P.

Il.

-

ESCATOLOGIA INDI V IDUALE

verso la morte sono i reduci. Nella morte Cristo viene come duce della vita (Ebr. 2,

I o), come il messaggero del Padre e prende i suoi nella I 4, 2 s. ; Ebr. 3, 6). La morte serve quindi alla trasformazione in una nuova vita (I Cor. 7, 3 I ; 5 , I 7 i Apoc. 2 I e 22). Essa perciò non è soltanto la fine irrevocabile, ma

gloria in cui egli stesso vive dopo l'ascensione (Gv.

anche un nuovo inizio : è la fine del modo di esistere caduco, misero e sempre in pericolo, e l'inizio della forma di vita liberata per sempre dalla caducità e dotata di pienezza e di sicurezza. Tra la forma di vita terrena e quella che inizia nella morte c'è una differenza fondamentale e pro­ fonda, ma anche uno stretto rapporto. Al nuovo inizio che incomincia con la morte non segue piu alcun tramonto. Durante la sua vita l'uomo vive in una trasformazione continua. Nella morte le mutazioni permanenti della natura umana giungono a sosta, perché la morte trasforma l'uomo nella sua forma definitiva. La morte apporta la forma finale della vita umana, elabora nell'uomo il vero volto spirituale. In questa forma l' uomo entra nell'eternità. Fino ad un cerro punto la forma spirituale, divenuta definitiva nella morte, appare anche sul volto corporale. Cfr. Cfr. anche §

W. Schamoni, Das wahre Gesicht der Heiligen, 1938.

U9 s.

La morte quindi, per quanto sia la nemica dell'uomo ( I Cor. 1 5, 26), tuttavia è nello stesso tempo la sua amica e diviene in Cristo la sua sorella. Quando viene vinto da questo nemico, l'uomo è il vincitore, perché nello sfacelo acquista la pienezza della vita. Il nemico deve servire alla vita di colui sul quale ha riportato vittoria. Cosi Paolo, che senza alcuna attenuazione ha designato la morte come il nemico, può tuttavia dire nello stesso tempo (Fil. 1 , 2 1-23) : e il morire un guadagno. Se poi

« Per me, infatti, il vivere è Cristo,

il vivere nella carne significa che io lavori in questa

ancora fruttuosamente, io non so che cosa scegliere. Sono stretto

alternativa, ho il desiderio d'andarmene per essere con Cristo, che è cosa di gran lunga migliore dei defunti :

«

».

Nella stessa fede la Chiesa prega nel prefazio

Veramente è degno e giusto, equo e salutare, che noi

sempre e dovunque

ti rendiamo grazie, o Signore, Padre santo, Dio eterno

e onnipotente, per Cristo Signor nostro. Nel quale ci rifulse la speranza della beata risurrezione, cosicché coloro cui contrista la certezza della morte, siano consolati dalla promessa della futura immortalità. Dacché, Signore, la vita dei tuoi fedeli non si distrugge, ma si commuta; e, demo­ lita la casa di questa dimora terrestre, s'acquista eterna abitazione in cielo

».

Anche in altri passi la liturgia è piena della gioia della risurrezione.

Con l'estrema unzione l'uomo viene consacrato per la buona morte e

� 301.

LA MORl E

373

nello stesso tempo per la vita immortale, poiché in essa si rappresenta la morte di Cristo, in quanto ne fu la consacrazione per la vita celeste. Conforme a questa concezione della morte, la Chiesa antica proclamava beati quei suoi membri che nella morte avevano raggiunto la mèta delle loro aspirazioni, chiamava il giorno della morte come giorno della nascita al cielo, anche nella messa per i defunti cantava l'alleluia e usava para­ menti rossi. Ancora oggi, nelle chiese greche unite a Roma, è in uso il colore rosso. Il Papa, quando assiste ad una messa da requiem, porta anch'egli paramenti rossi. Il lato piu fosco della morte apparve con mag­ giore forza soltanto quando nel primo Medio Evo la mondanizzazione dei cristiani portò a considerare la morte piu come giudizio sulla vita peccaminosa, che ritorno a Dio (Dies irae, dies illa). La fede in Cristo, che ha subito la sua dura morte ed ha cosi vinto la morte, abbraccia sia il timore della morte sia la gioia per il Cristo che viene nella morte. La concezione cristiana della morte si differenzia chiaramente da tutte le altre. Fuori di essa, la morte viene fraintesa in molteplici modi. O viene celebrata come il culmine della vita, oppure sopportata come una fine senza scampo. Nel primo caso essa può essere spiegata o in senso naturalistico (forse persino con frenesia dionisiaca) come un dissolversi nella vita uni­ versale della natura (morte come artificio della natura per avere piu vita), oppure in senso spiritualistico come liberazione della persona dai ceppi che ne impediscono la vera vita. Nel secondo caso può essere o deplorata come una tragicità inevitabile, oppure essere accolta con sfida pseudoeroica.

CAPITOLO V. LA MORTE COME CONCLUSIONE DEFINITI VA DEL PELLEGRINAGGIO TERRENO

I. - SENSO DELLA TESI. Entro la storia umana, che nel suo complesso tende ad una meta deter·· minata, cioè alla seconda venuta di Cristo, la vita dell'individuo muove verso la meta ad essa conforme, l'ingresso cioè nel mondo celeste,

in cui

vive Cristo. Ciò avviene nella morte. La morte è la fine irrevocabile della vita di pellegrinaggio e l'inizio di un'altra vita, nuova, qualitativamente diversa dalla vila terrena. Chiamiamo la fase della vita che precede la morte

status viae, la fase della vita che viene dopo la morte status termini.

Il tempo della vita non può essere percorso una seconda volta : è unico ed irripetibile. n simbolo della vita individuale, come quello di tutta la storia umana, non è il circolo, ma la retta. Irresistibilmente, senza inter­ ruzione, senza pausa essa corre verso la fine inesorabile della sua forma terrena di esistere. Nel «

Faust

di Goethe (Il, 5, 5) si dice giustamente :

Il tempo si fa signore. Il vecchio giace qui nella polvere. L'orologio

s'arresta. S'arresta ! Tace come la mezzanotte . L'indice cade

».

Nessuno può anticipare l'esperienza della propria morte in questa sua inesorabilità, in cui la fanna terrena di esistenza viene distrutta una volta per sempre. Ciascuno deve invero subirla, ma ciò che noi esperi­ mentiamo sono per cosi dire gli stadi preliminari della morte. In via spe­ rimentale la sua serietà si può percepire soltanto nella morte degli altri. Jaspers dice in proposito :

«

La morte della persona piu vicina, piu amata,

con la quale sono in comunicazione, è, nella vita fenomenica, il taglio oiu profondo. Io sono rimasto solo allorché, lasciando solo il morente nell'ul­ timo istante, non l'ho potuto seguire. Nulla si può far tornare indietro. È la fine per sempre. Al morente non è piu possibile rivolgere la parola; ognuno

§

30 I . LA MORTE

375

muore solo ; la solitudine dinanzi alla morte sembra perfetta, sia per chi muore che per chi rimane. L'apparenza dell'essere assieme, finché c'è coscienza, questo dolore della separazione, è l'ultima espressione impo­ tente della comunicazione » (Philosophie, I I : Existenzerhellung, 22 1). La portata enorme della funzione della morte, di porre una fine defini­ tiva, consiste nel fatto che la morte significa una decisione definitiva. Essa non è soltanto la fine definitiva in un modo terminale o cronologico, ma nel senso di una fissazione definitiva del destino umano. Al di là della morte non si possono piu prendere decisioni che mutino la forma di vita raggiunta nel trapasso. Dopo la morte non c'è piu possibilità di acqui­ stare meriti o demeriti. Ciò non equivale alla fine dell' attività umana; che anzi, soltanto al di là della morte l'uomo acquista la possibilità e la capacità di un sommo amore e di un sommo odio. Ma né l'uno né l' altro avranno mai il carattere di merito o di demerito.

Il. - DOTTRINA DELLA CHIESA. Nella Chiesa antica Origene e, in modo piu riservato, i suoi seguaci (Evagrio Pontico, Didimo il Cieco ed anche Gregorio Nisseno, anz1 m forma attenuata persino Ambrogio) hanno espresso l'opinione che anche dopo la morte ci sia ancora un superamento della separazione da Dio e che perciò con l'andar del tempo tutti gli uomini sarebbero diventati partecipi della salvezza. Secondo Origene i peccatori, che dopo la morte vanno in un fuoco purificatore, e con essi anche i demoni, salgono di grado in grado sempre piu in alto ed infine, totalmente purificati, risor­ geranno in corpi eterei. Allora Dio sarà tutto in tutti. Secondo questa sen­ tenza la redenzione non sarebbe perfetta se ci fossero uomini esclusi per sempre dalla salvezza. Origene fu quindi indotto alla sua dottrina della apocatastasi dalla struttura fondamentale cristologica del suo pensiero, avendo tratto però false conseguenze dalla cristologia. La dottrina origeniana della definitiva redenzione universale (apokata­ stasis pdnton) fu combattuta dalla maggioranza dei Padri e rigettata in alcuni concili. Essa è in contrasto con la coscienza di fede della Chiesa universale. Nel 593 il Concilio provinciale di Costantinopoli nel canone 9 contro gli origenisti, seguaci di Origene, dichiara : « Chi dice o crede che la punizione degli spiriti maligni e degli uomini empi sia soltanto temporanea e finisca dopo un determinato tempo, e poi venga una com­ pleta restaurazione (apokatdstasis) degli spiriti maligni e degli uomini

P. IJ.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

empi, sia scomunicato » (Denz. 2I 1). Al Concilio Vaticano I doveva essere proposta alla discussione e decisione questa proposizione : « Dopo la morte, che è la fine della nostra vita, ci presenteremo subito dinanzi al tribunale di Dio per rispondere ciascuno del bene e del male che si è fatto nella vita corporale. Dopo la vita terrena non c'è piu spazio a peni­ tenza per la giustificazione » (Collectio Lacensis, VII, 567). Secondo la costituzione Benedictus Deus del 1 336 (Denz. 5 30 s.) e secondo il Con­ cilio di Firenze (Denz. 693) dopo la mone non c'è piu possibilità alcuna per meriti e per peccati (cfr. B. Altaner, Patrologia, trad. ital. di Ferrua, Torino 1956, 1 46 ecc.; Méhat, in Vigiliae Christianae, 1956, 196-2 14; A. Fliche-V. Martin, Histoire de l'Eglise, II, 1946, 249-293).

III .

- TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA.

Che la morte crei stati definitivi viene attestato in vario modo nella S acra Scrittura. Nell'Antico Testamento la morte viene descritta fin da principio come la fine irrevocabile della vita terrena, quantunque gli scritti dell'Antico Testamento, per la loro escatologia poco evoluta, non presentino dichiarazioni chiare circa gli stati finali dell'uomo. Tanto piu numerose e precise sono le testimonianze del Nuovo Testa­ mento. Nella parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro (Le. 1 6, 19-3 1 ) Cristo annuncia che la morte suggella per sempre il destino del­ l'uomo. La sort•! dell'empio uomo di mondo, che la ricchezza rendeva orgoglioso ed egoista, al trapasso viene fissata per sempre nel castigo per la sua vita contraria a Dio. Parimenti la sorte del povero, che si è guardato dall'attaccamento al mondo, è determinata per sempre con la morte. Anche nella parabola delle vergini prudenti e stolte (Mt. 25, 1 - 1 3) viene confermata la unicità ed irrevocabilità della decisione umana. Sulla vita dell'uomo, che il Signore venendo trova impreparato, sta indelebile la parola : troppo tardi. L'uomo invece, che egli trova preparato e quindi accoglie nel suo regno, vi rimane per sempre. La vita è il giorno che è concesso agli uomini; finché esso dura, si devono fare le opere commesse da Dio; poi viene la notte, in cui nessuno può piu operare (Gv. 9, 4). La vita di pellegrinaggio è il tempo della semina accordato all'uomo, in cui questi deve spargere il seme per la vita eterna; quand'esso è tra­ scorso, non gli viene data nessuna proroga (Gal. 6, 10) ; allora viene il raccolto.

§ 301.

LA

MORTE

377

Paolo paragona la vita del pellegrinaggio ad una vita nella tenda. Chi è in viaggio, non si costruisce una casa stabile, ma deve andare sempre piu avanti. Tuttavia egli aspira ad un posto permanente, al riposo, alla sicu­ rezza ed alla pienezza. Con questa aspirazione egli non corre dietro ad un fuoco fatuo o ad un fantasma. Essa viene soddisfatta proprio nel momento in cui la vita terrena visibile crolla e colui che crede nel mondo perde ogni speranza. Anche 2 Cor. 5, I-Io si deve intendere della fine del­ l'individuo, che sopravviene nella morte, e non della fine di tutta la storia. La stessa cosa viene attestata dalla Sacra Scrittura nell'immagine della lotta e della vittoria, della corsa e della corona. Paolo promette ai Corinti una corona immarcescibile di vittoria, se essi vincono la corsa della vita. Parimenti Giovanni nell'Apocalisse (2, I O) pone questa esigenza : « Sii fedele fino alla morte, ed io ti darò la corona della vira » . Per i fedeli l a prospettiva del compimento definitivo in Cristo è con­ forto e forza. Ad essi è promesso che devono essere soggetti all'odio ed alla persecuzione, di cui è stato vittima Cristo. Tuttavia non per questo devono cadere nella paura o nella disperazione, perché i persecutori pos­ sono uccidere il corpo, ma non tutto l'uomo : l'anima è sottratta al loro attacco. Perciò il cristiano non deve temere dinanzi al suo torturatore. Soltanto Dio gli potrebbe infliggere un tormento senza fine ; ma non lo fa; anzi, si preoccupa di donargli la salvezza definitiva (Mt. IO, 28). Il buon ladrone riceve una promessa individuale. Alla sua domanda : ricor­ dati di me quando verrai nel tuo regno, si risponde : « In verità ti dico : oggi sarai con me nel paradiso » (Le. 2 3, 43). La vita corporale del ladrone è alla fine; tuttavia spera in una vita definitiva al di là dello sfacelo del corpo, e riceve l'assicurazione che la sua domanda si fonda su una illusione. In un altro passo (Gv. 14, 2 s.) si attesta che l' uomo con la morte va al Signore, il quale nella casa del Padre prepara le dimore per i suoi. I moribondi sono in senso vero e proprio i reduci. Perciò Paolo si ral­ legra della morte, che è la partenza verso il Signore. L'Apostolo prigio­ niero a Roma può quindi scrivere alla comunità di Filippi : « Ho tutta la sicurezza che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo sia per la vita sia per la morte. Per me infatti il vivere è Cristo, e il morire è un guadagno. Se poi il vivere nella carne significa che io lavori ancora fruttuosamente, io non so che cosa scegliere. Sono stretto in questa alternativa : ho il desiderio di andarmene per essere con Cristo, che è cosa di gran lunga migliore » (Fil. I , 20-23). Pietro ammonisce i suoi lettori di guardare con occhio fisso alla meta.

P.

li.

-

ESCATOLOGIA UID�VIDUALE

Quando questa è raggiunta, non c'è piu ritorno, ma felicità senza fine. « Benedetto il Dio e Padre del Signore nostro Gesu Cristo, il quale, per sua grande misericordia, cì fece rinascere, risuscitando Gesu Cristo da morte, a una vivente speranza, a una eredità incorruttibile, incontaminata e immarcescibile, riservata nei cieli per voi, che per la forza di Dio siete custoditi, mediante la fede, in vista della salvezza pronta ormai per essere rivelata nell'ultimo tempo. Trasalite di gioia per questo, anche se adesso dovete essere molestati ancora un poco da prove di vario genere, affinché la genuinità della vostra fede, ben piu preziosa dell'oro che perisce, ma che pure viene saggiato col fuoco, sia trovata in voi, a lode e gloria e onore, per il tempo della manifestazione di Gesu Cristo. Voi lo amate senza averlo conosciuto; in lui voi ora credete senza averlo visto, mentre esultate d'una gioia ineffabile e gloriosa, sicuri come siete di conseguire il fine della vostra fede, cioè la vostra salvezza » ( I Piet. I, 3-9).

IV. - TESTIMONIANZA DEI PADRI. Nel periodo patristico troviamo la convinzione del carattere definitivo degli stati raggiunti con la morte negli antichi monumenti cristiani, i quali dicono dei morti che riposano nella pace, che vivono in Dio. Negli atti dei martiri innumerevoli volte il giorno del martirio viene designato come il giorno della nascita, come il giorno in cui il martire entra nella gloria di Cristo, nella gioia della vita eterna. Nell'antica letteratura cristiana questa valutazione della morte echeggia come in un coro possente, pieno ad un tempo di gioia e di terrore. Già nella cosi detta Seconda lettera di Oemente (cap. 8), scritta verso il I 50 a Corinto, viene evocata la serietà della morte : « Finché siamo in terra, facciamo penitenza ... , finché siamo in questo mondo, facciamo penitenza di tutto cuore per il male che abbiamo commesso nella carne, per essere salvati dal Signore, mentre abbiamo ancora tempo per la conversione. Poiché, quando avremo lasciato questo mondo, nell'altro non potremo piu fare alcuna confessione, né convertirci ». Cipriano (Ad Demetrianum, 24 s.) scrive : « Come sarà glorificata la fede e punita l'infedeltà, quando verrà il giorno del giudizio! Quanto sarà grande la gioia dei credenti e la tristezza degli increduli, perché prima quaggiu non hanno voluto cre­ dere ed ora non possono piu ritornare per credere ! L'inferno che sempre divampa e la pena struggente con le sue fiamme guizzanti brucerà i dan­ nati, e non è da prevedere nessuna fine del tormento e nessun riposo.

§

3 0 1 . LA

MORTE

379

Assieme ai loro corpi le anime vengono conservate per tormenti infiniti. . . Allora il dolore della pena sarà senza il frutto della penitenza, sarà vano il lamento ed inutile l'implorazione. Troppo tardi credono alla pena eterna coloro che non hanno voluto credere alla vita eterna. . . Partiti di qui, non c'è piu possibilità per la penitenza, la soddisfazione è senza effetto. Solo qui si effettua o la perdita o il guadagno della vita eterna ; solo qui si può provvedere alla salvezza eterna con il culto di Dio ed il frutto della fede. E nessuno tardi a venire in cerca di salvezza o perché gravato di colpe o perché avanzato negli anni. Finché si è ancora in terra, non è mai troppo tardi per pentirsi. Aperto è l'adito al perdono di Dio, e per coloro che cercano e comprendono la verità l'accesso è facile. Anche se soltanto al momento di di?artirti ed alla sera della vita temporale pregherai per i tuoi peccati ed implorerai il Dio uno e vero riconoscendolo e credendo in lui, sappi che a colui che confessa viene concessa la remissione e a colui che crede viene accordato dalla bontà di Dio il perdono salutare, si da passare proprio per mezzo della morte all 'immortalità » . Simili accenti ascoltiamo d a Afraate : « Dicendo a l ricco : tra noi e voi c'è un grande abisso, da voi non si può venire a noi, né da noi a voi (Le. 1 6, 26), Abramo dimostra che dopo la morte e la risurrezione non c'è piu penitenza. Né gli empi giungono a giudizio ed entrano nel regno, né piu peccano i giusti, in modo da poter cadere nei tormenti . Ecco il grande abisso » (Trattati, 20, 1 2). Ilario di Poitiers dichiara : « Non c'è confessione dei peccati se non in quesw tempo, finché ciascun uomo ha ancora potere sulla sua volontà e la vita attorno a lui concede la possibilità di volontaria confess!one. Quando infatti noi ci separiamo dalla vita, ci separiamo pure nello stesso tempo dal nostro diritto sulla volontà. Allora la legge immutabile o del riposo o della pena, a seconda del merito della passata decisione volontaria, accoglie la volontà di coloro che si sono separati dal corpo ... Quando infatti cessa la libertà della volontà, anche la volontà non può piu fare nulla » (Tract. in Ps., 5 1 , 2 3 ; PL . 9, 322 s.). Gerolamo esorta ad agire in vista della morte : « Finché abbiamo ancora tempo facciamo del bene a tutti, ma S!Jecialmente ai fratelli di fede >> (Gal. 6, 10). Il tempo della semina ... è il presente e la vita in cui cammi­ niamo. In questa siamo liberi di seminare ciò che vogliamo. Passata questa vita, il tempo dell'azione è finito. Perciò anche il Redentore dice : opera finché è giorno, viene la notte, quando nessuno può piu operare (Gv. 9, 4 ) » (Comm. in Ep. ad Galat., l. 3 su 6, r o ; PL. 26, 4 6 1 ). Agostino dichiara : « Nessuno deve persuadersi ed illudersi di poter riparare dopo la morte lassu presso Dio ciò che ha tralasciato nell'al di qua » (Enchiridion, c. 1 1 0).

P.

I I . - ESCATOLOGIA INDIV IDUALE

Cesario di Arles fa incominciare la salvezza come la dannazione subito dopo la morte :

«

Perché si ricerca con grandi spese e con molti dolori per

la sanità del corpo, mentre la sanità dell'anima, che viene data gratuita­ mente, da taluno non è accolta con gioia? Perché ci sono molti che hanno per la loro carne una sollecitudine maggiore che per la loro anima? Eppure dovrebbero rivolgere maggiore attenzione alla loro anima, nella quale c'è l'immagine di Dio. Infatti quando la carne, che solo ora viene amata, incomincia nel sepolcro ad essere divorata dai vermi, l'anima viene presentata dagli angeli a Dio in cielo. Allora, se fu buona, viene subito incoronata, se fu cattiva, viene cacciata nelle tenebre. Da queste tenebre preghiamo perciò insistentemente ci voglia liberare la grazia di Dio, che vive nella unità dello Spirito Santo, Dio dall'eternità nell'eternità. Amen »

(Sermo 301 [tra le prediche di Agostino], 5). Nello spirito di 200 anni dopo di lui, Fulgenzio di Ruspe scrive : « Dio ha

Agostino,

dato tempo agli uomini di acquistare la vita eterna soltanto i.n questa vita, nella quale, secondo la sua volontà, anche la penitenza può ancora giovare. Ma la penitenza quaggiu è giovevole perché qui l'uomo può deporre la malvagità e vivere bene, può mutare la sua cattiva volontà e cambiare merito ed opere e nel timore di Dio compiere opere che sono gndite a Dio. Chi non fa questo nella vita presente, nella vita futura subirà pene per i suoi peccati, ma non troverà remissione dinanzi a Dio. Poiché se anche là sopravvive il pungiglione della penitenza, tuttavia là non c'è mutamento di mente. Questi uomini si faranno rimproveri per la loro perversità, ma non potranno mai piu amare e desiderare la giustizia, poiché la loro volontà è tale da portare continuamente io sé la punizione per la sua malvagità, ma non è mai suscettibile di un'inclinazione al bene. Come infatti coloro che regnano con Cristo non hanno in sé alcuna trac­ cia di cattiva volontà, cosi coloro che con il demonio ed i suoi angeli sono consegnati al castigo del fuoco eterno, da una parte non troveranno mai piu riposo, ma dall'altra non potranno neppure mai piu avere un moto di buona volontà. E come ai coeredi di Cristo viene conferita la grazia completa per la gloria eterna, cosi ai compagni del demonio viene preparata dalla loro propria malvagità la punizione, in cui - consegnati alle tenebre esteriori - non sono illuminati da nessuna luce interiore di verità »

(De fide, 3, 36 ; PL. 65, 689).

§ 301.

V.

-

LA

MORTE

LA DOTTRINA DELLA TRASMIGRAZIONE DELLE ANIME.

a) A prima vista può sembrare che le preghiere della liturgia dei defunti facciano conto che la morte non crei destini definitivi. In esse infatti la Chiesa prega per i defunti, affinché Dio li conduca dalla morte alla vita, e li strappi all'abisso degli inferi. Alla lettera queste parole sembrano indi­ care che anche dopo la morte ci sia ancora un mutamento sostanziale del destino umano. Ma in realtà la Chiesa con queste preghiere si trasferisce al momento della dipartita dell'uomo. Esse sono in certo modo l'amplia­ mento ed il prolungamento di quelle preghiere che la Chiesa incomincia a recitare quando accompagna dinanzi al volto del Padre coloro che si dipartono da questo mondo. Essa supplica perché la morte sia una trasfor­ mazione alla vita e non alla morte eterna, perché sia una morte in Cristo, perché tutti gli angeli ed i santi vengano incontro al morente per accom­ pagnarlo nella gloria del Dio trino. Appunto questo carattere pregnante, che esprime ad un tempo apprensione e fiducia, delle preghiere della Chiesa attesta l'importanza decisiva che la Chiesa attribuisce alla morte. Nel giudicare la liturgia dei defunti non si deve neppure dimenticare che in origine la sepoltura e la memoria nel sacrificio eucaristico erano molto vicine nel tempo alla morte. Cfr. Winterswyl, Laienliturgik, II, 1 38-1 5 2 . Per l'insopprimibile carattere temporale della vita di pellegrinaggio rie­ sce difficile all'uomo immaginare ed affermare il carattere definitivo di un destino, tanto piu che ci manca l'esperienza personale della morte. Si comprende quindi come fuori della Sacra Scrittura s'incontri di rado, anzi venga quasi dovunque negata la convinzione del carattere definitivo dello stato creato dalla morte. L'uomo è sempre tentato di trasferire alla propria vita le esperienze che fa nella natura. Ora in questa troviamo il ritmo perpetuo di prima­ vera, estate, autunno ed inverno. Alla morte segue sempre nuova vita. L'uomo, ritenendosi una parte della natura, giunge alla convinzione del ritorno continuo della sua propria vita. Questa fede trovò elaborazione concreta nella dottrina della migrazione delle anime (metempsicosi, rein­ carnazione). Le dottrine della trasmisgrazione delle anime compaiono in forme varie. La loro patria è l'Asia, la religione postvedica degli Indiani (upanisad, vedanta, induismo) . Di là esse passarono in forma mutata nel buddismo. Dall'Oriente la fede nella trasmigrazione delle anime ha tro­ vato accesso presso i Greci (Pitagora, Posidonio, Empedocle, Platone,

P. II.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

neoplatonismo). Con Schleiermacher la dottrina penetrò in talune ten­ denze protestanti. Tutte queste concezioni religiose hanno in comune l'opinione che l'anima che si dipane dal corpo entra in un altro corpo nuovo, della stessa o di diversa natura (reincarnazione) e ciò si ripete finché in un futuro difficilmente raggiungibile si sia purificata da tutte le macchie morali. Conseguentemente la nascita è rinascita. Il ciclo delle nascite (samsara) venne sentito in India come un peso. Il corso delle rinascite è determinato dal karma, che è l'impronta che l'uomo acquista mediante le sue opere buone e cattive. Il dolore è espiazione per le opere prenatali. Da un altro sentimento della vita, cioè dall'idea che la pienezza ed il contrasto del tutto non si può presentare in un'unica vita, sono nati i pensieri del ritorno del classicismo tedesco. Cosi Goethe ha creato in Faust il rappresentante della vita che si svilu�pa con ritmo incessante, si dispiega e ritorna nuovamente in se stessa, arrraverso alla marre ed al divenire, attraverso al godimento ed all'attività, attraverso allo struggersi nella cupi­ digia ed attraverso alla gioia dell'opera, nel dualismo di bene e di male, nel patto con Dio e con Satana. In base a questo sentimento della vita, alla morte di Wieland, Goethe poté dichiarare di sperare di incontrarlo nuovamente un giorno, a distanza di rniUenni, come stella di prima gran­ dezza, cosi come egli stesso è certo di essere già esistito migliaia di volte e di tornare ad esistere ancora migliaia di volte. La dottrina della reincar­ nazione ha una grande parte nella teosofia e nella antroposofia. In queste pseudo-religioni viene considerata come prova principale della reincar­ nazione l'assicurazione di R. Steiner, di aver visto ricomparire ìn nuovi corpi le anime dei defunti. In opposizione all'idea indiana della trasmigrazione delle anime, la rein­ carnazione nei sistemi occidentali viene intesa e sperata come espressione della inesauribilità della vira. In rapporto con la dottrina del superuomo, Nietzsche sviluppò l'idea del ritorno di tutte le cose, anche dell 'uomo. Secondo Nietzsche il super­ uomo è quella figura umana che con potere sovrano crea tutto il cosmo, la verità e la moralità, la natura e la storia. Affinché il superuomo abbia nella sua mano creatrice la storia, il passato deve muoversi in un circolo continuo in modo da presentarsi dinanzi a lui ed offrirsi cosi alla sua presa. Mentre la dottrina orientale della trasmigrazione delle anime è congiunta ad una visione pessimistica del mondo e vede nella rinascita continua una dura sorte, Nietzsche giudica il ritorno eterno delle cose come un felice modo dell'esistenza, perché rende possibile il superuomo.

§ 301.

LA MORTE

Veramente anche in lui si trovano talora lamenti sulla difficoltà ed ama­ rezza del corso della storia, che con ritorno continuo muove verso il superuomo : « Ah, l'uomo ritorna eternamente ! Il piccolo uomo ritorna eternamente ! Nudi entrambi li ho visti un giorno, l'uomo piu grande e quello piu piccolo, troppo simili tra di loro - troppo umano ancora anche il piu grande, - troppo piccolo il piu grande ! Questo fu il mio tedio dell'uomo; ed un eterno ritorno anche del piu piccolo ! Questo fu il mio tedio di ogni esistenza. Oh schif'O ! schifo ! schifo ! » . b) La dottrina della trasmigrazione delle anime e del ritorno eterno di­ strugge l'unità di corpo e di anima e perciò la personalità dell'uomo; sdramrnatizza la morte ed anche la vita che la precede ; spoglia la vita della sua serietà e della sua responsabilità; toglie l'ultimo impulso all'aspi­ razione moraie-religiosa, anzi ad ogni sforzo culturale. Se l'anima umana ritorna sempre in nuove incalcolabili incarnazioni, in definitiva è indiffe­ rente se inizia i suoi sforzi subito, oppure soltanto tra mille anni, oppure non li inizia affatto. In nessun caso essi portano ad una meta definitiva. Secondo queste concezioni la lotta della vita ha il suo significato in se stessa, nell'atto del lottare, e perciò in definitiva è priva di significato (cosi pure in Goethe, Faust, parte seconda, V, 5). Contro la dottrina della trasmigrazione delle anime in quanto dichiara che ciascuna delle vite seguenti è una penitenza per la precedente, depone il fatto che una vita può essere vissuta come penitenza soltanto quando l'uomo è cosciente che deve espiare e di ciò che deve espiare. Soltanto la vita vissuta nella coscienza della colpa e nella disposizione alla peni­ tenza h a reale valore espiatorio. Ma noi non abbiamo coscienza di una eventuale vita precedente. Se nelle dottrine della trasmigrazione delle anime non si tiene conto del nesso tra la coscienza della responsabilità dell'uomo ed il valore espia­ torio della sua azione, ciò è segno che in questi sistemi religiosi e filosofici si dimentica la differenza essenziale tra il fatto naturale e la decisione personale, anzi l'uno viene identificato con l'altra. Cfr. K. Priimm, Reli­ gionsgeschichtliches Handbuch, 1934; G. F. Moore, Metempsychosis, New York 192 1 ; C. de Henseler, L'ame et le dogme de la transmigration dans les livres de l'lnde, Paris 1 928 ; W. Stettner, Die Seelenwanderung bei Griechen und Romern, 1934; A. E. Jensen, Mythos und Kult bei den Naturvolkern, 19 5 1 ; C. J. Bleeker, Anthropologie religieuse, Leida 1 955.

SEZIONE II.

L'ETICA DELLA MORTE

CAPITOLO I. LA MORTE COME ATTO

L

IL CARATTERE PERSONALE DELLA MORTE.

La morte è un evento che colpisce l'uomo. Si compie sotro il potere delle leggi chimico-fisico-biologiche ; è quindi un evento naturale, cui l'uomo è votato, senza possibilità di sottrarvisi. Tuttavia, come tutto ciò che riguarda l'uomo è caratterizzato dal fatto che egli è persona, cosi anche la morte, e con maggiore intensità, è deter­ minata dalla personalità dell'uomo. Come abbiamo visto in precedenti occa­ sioni (vol. I, § 1 3 0), la personalità implica due cose : l'essere in sé, da sé e per sé da una parte, la trascendenza di sé in ordine alle cose, agli altri (comunità), a Dio dall'altra parte. Sotto l'aspetto antologico la personalità comprende un elemento immanente ed uno trascendente ; sotto quello etico la fedeltà a sé e la dedizione alla comunità, da ultimo ed in defi­ nitiva a Dio. È un compito perpetuo dell'uomo, che non può mai essere assolto pienamente, il realizzare la fedeltà a sé, e quindi la autoconserva­ zione. Ciò significa che la fedeltà a sé non deve portare alla chiusura nei confronti degli altri, in particolare nei confronti di Dio, e la dedizione di sé non deve portare alla perdita dell'io nel mondo delle cose o nella realtà delle persone. La morte offre all'uomo una particolare possibilità di esplicare la sua natura personale. La soggezione alla morte significa infatti per l'uomo un compito particolare ; in essa sta l'appello all'io personale dell'uomo di esserne cosciente e di affrontarlo spiritualmente e psicologicamente e quindi di farlo suo consapevolmente e di inserirlo nella pratica della vita. Questo compito spetta all'uomo durante tutta la sua vita. Se egli lo svolge, si esercita in esso per l'atto della stessa morte. Tale atto rivolge

§ 301.

LA MORTE

all'io personale dell'uomo, con forza potenziata, l'invito di penetrarlo

e

di formarlo spiritualmente e psicologicamente. Quantunque il morire sia da prima qualcosa di passivo, che si subisce, tuttavia, nel caso che l'uomo non voglia trascurare la sua personalità, deve farlo suo coscientemente.

In tale modo il subire diventa un agire. La passio moriendi diventa l' actio

moriendi.

II.

-

LA MORTE COME AUTOREALIZZAZIONE DELL' UOMO.

Occorre poi notare come ogni azione umana che realizza il senso del­ l'umano, serve al nostro sviluppo, che si attua gradualmente nella con­ tinua fedeltà a noi stessi e nella dedizione al mondo ed a Dio. La morte rappresenta la piu alta possibilità per l'autosviluppo umano entro la storia. Come abbiamo già visto sovente, essa è la fine della vita non soltanto nel senso di una data, ma nel senso di una fissazione definitiva del destino umano ; essa offre all'uomo, che colpisce, la possibilità ultima e onnideci­ dente di determinare per sempre la natura del destino. Essa pone all'uomo l'esigenza di portare ora a termine, in modo definitivo, ciò che doveva avvenire sempre durante tutta la vita, cioè la autorealizzazione nella auto­ conservazione ed autodedizione. La morte avanza quindi l'esigenza che l'uomo prenda posizione in modo definitivo nei confronti di tutta la sua vita. Una cosa del genere si può realizzare soltanto se l'uomo capisce vera­ mente e spassionatamente se stesso e raccoglie tutte le sue forze e sta con risolutezza concentrata a disposizione di se stesso e con ciò simulta­ neamente di Dio. La morte dona quindi all'uomo l'occasione ultima e somma entro la storia della suprema autorealizzazione. Questa tesi si differenzia sostanzialmente dalla inter!Jretazione della morte, precedentemente citata, della filosofia esistenzialista. Questa ha ra­ gione quando afferma che nella morte l'uomo acquista la possibilità su­ prema di giungere a se stesso ; ma commette un errore decisivo quando, come abbiamo visto precedentemente, considera importante soltanto il modo e non la sostanza della presa di posizione umana. Ed è proprio la sostanza che conta. Ha portata incalcolabile se nella morte l'uomo afferma Dio oppure soltanto se stesso, negando o dimenticando Dio. Se nella possibilità della autorealizzazione, che la morte apre all'uomo, c'è l'esigenza di essere fedele a sé nella forma della dedizione a Dio, ciò si fonda sulla origine dell'uomo da Dio e sulla somiglianza con lui che ne deriva. Tale esigenza viene approfondita dal fatto che nella morte

P.

li.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

Dio stesso stende la mano verso l'uomo. Dio stesso si rivolge all'uomo quando la morte gli si avvicina. La morte è il mezzo mediante il quale Dio chiama l'uomo a sé. È una chiamata di amore e nello stesso tempo di giudizio quella r:he Dio rivolge all'uomo nella morte. Perciò l'uomo com­ prende rettamente la morte soltanto quando la accoglie come incontro con Dio. Se nella morte egli non si aprisse con prontezza assoluta a Dio, non realizzerebbe neppure la fedeltà a se stesso in un modo conforme alla sua natura. La chiusura di sé nei confronti di Dio porterebbe alla propria perdita definitiva. L'incontro con Dio è un incontro con il Padre nello S pirito Santo per mezzo di Cristo (Ef. 2, 1 8), per mezzo di quel Cristo che nella sua morte si rimise al Padre ed ha cosi offerto un sacrificio formato dallo Spirito Santo (Ebr. 9, 14).

III. - LE POSSIBILITÀ RELIGIOSO-MORALI DELL'UOMO NELLA MORTE. A questo punto sorge un problema di grande portata esistenziale, e cioè se l'uomo nel momento della morte sia ancora in possesso di quelle forze spirituali e psichiche, senza le quali non può rimettersi con concentrata intensità a Dio; perché la morte implica proprio l'indebolimento, la para­ lisi delle forze umane. Il problema si acuisce per quei casi in cui l' uomo viene sorpreso dalla morte. Trova ancora tempo allora per ricordarsi di Dio? Questo problema nasce da due radici : una per cosi dire metafisico­ psicologica e l'altra esistenziale-psicologica. La prima questione è questa: l'uomo nella morte, e quindi nello stato in cui le sue forze svaniscono, in cui la sua coscienza scompare, possiede la possibilità interna di con­ centrarsi ancora una volta e piu che mai nella vita, per offrirsi in certo modo a Dio con forza raccolta? La seconda questione si riferisce al fatto, se l'uomo nel momento della morte possa compiere soltanto ciò per cui è preparato. Senz' altro non si può comprendere come un uomo, che per tutta la vita è vissuto contro Dio, nel momento della morte si rivolga a lui con la massima intensità nel pentimento e nell'amore. Il passaggio dall'avversione e dall'odio all'amore perpetuo si potrebbe comprendere soltanto come frutto di una particolare efficacia della grazia celeste. Af­ finché l'uomo possa sperare che la morte gli riesca bene, deve allenarvisi durante la vita. Questo allenamento comporta un atto analogo alla morte, · :1e si può descrivere come distacco dal mondo e dedizione a Dio. La

§ 301.

LA

MORTE

Chiesa antica ha visto il distacco dal mondo soprattutto in tre modi : nel digiuno, nella vigilia e nell'astinenza sessuale. Una particolare possibilità

è offerta dalla malattia, che è presagio e preludio della morte e con la quale Dio lega l'uomo. Accettandola l'uomo presta obbedienza a Dio, rinunzia alla libertà di movimento nel mondo e lascia che Dio disponga di lui. (Poiché la malattia segnala la soggezione alla morte soltanto in forma generica, ma non necessariamente indica la morte come un fatto direttamente imminente, nulla impedisce che l'uomo cerchi di eliminare la malattia come un male. Anzi, il farlo corrisponde al mandato di Dio per il mondo. Con ciò è conciliabile la prontezza assoluta per la volontà di Dio, i cui decreti sono avvolti nell'oscurità). Il distacco dal mondo im­ posto al cristiano non può essere scambiato con il disprezzo del mondo del

buddismo, come è già stato esposw preceàentemente. Cfr. vol. HI/2, § 2 1 7. Il problema dell'attività umana

nel pwcesso della morte è stato trar rato con

particolare chiarezza e profondità da A. Winklhofer Letzten Dinge, Ettal 195

I ).

(Zie/

wul Vollendung. Die

Riportiamo il testo deci:,ivo (p. 27 ss.) :

« Non lascia­

moci anzitutto inquietare da difficoltil fisiologiche. Scru tiamo q uesto avvenimento soltanto con l'occhio del teologo. Di fatto è ovvio che nella morte, e quindi non prima e non do po, avviene ancora q ualcosa di deci5ivo per il destino dell' uomo e conseguentemente la morte è q 1mkosa di piu che un termine temporale, una stoccata finale che giunge a caso ed

a

cui Dio ricorre per decidere del destino

dell'uomo in eterno; anzi è ovvio che l'uomo stesso decide allora il suo destino eterno in piena coscienza e nel

e-

rende definitivo

pieno pos�esso della

sua

v1sione del!� portata della �ua d �cisiont:, come mai prima in vita. In altre parole, ogni uomo nella oscurità e nella soffe­ libertà spirituale e di una grandiosa

renza terribili di quest'ora si trova di fronte

a

Cnsto, alla sua ri velazione ed al

suo atto di redenzione con una chiarezza inevitabile, sia pure ancora nell'oscurità della fede. Egli quindi non solo deve reggersi ed avere fiducia nella sofferenza di

questa

situazione, ma può anche

decidersi

per un'amo revole comunione di

destino con il Signore, il quale hli sopportato anch'egli questa sofferenza, anzi può

ancora

decidersi

contro

l'ultimissima

decisione

che

ha

preso

prima

del

sopravvenire della morte e che forse è stata una decisione contro Cristo e contro Dio. Ma l'uomo in quest'ora può anche rinunciare in piena libertà all'unione con Cristo, per sé anche contro una vita intera, che sia stata fedele e pura. Sia nel senso, che contro il senso di una vita mtera l'uomo può ancora in questo momento rivolgersi liberamente ed energicamente a Cristo. " L'ultimo atto dà l'impronta a tutti gli atti precedenti " (Carossa). Ma la regola sarà che l'uomo può fare uso positivo o negativo di quest'ultima possibilità decisiva soltanto nel senso della impostazione della sua vita mtera e sarebbe anche necessario un enorme impiego di forza interiore perché egli, dopo una vita formata senza ritegno contro Dio e contro

la coscienza, rinneghi improvvisamente tutto il suo passato, si rimetta

con fiducia e con fede a Dio e sia pronto ad un amore incondizionato per lui. Chi non è in stato di grazia e di amore allorché cade in questa notte, si trova

P. 11.

-

ESCATOLOG I A

INDIVIDUALE

in grande pericolo di mancare al postulato di quest'ora. Certamente l'uomo cattivo incontra in quest'ora piu difficoltà ed è piu minacciato che non il buono. Questi sfrutterà piu facilmente la possibilità di quest'ora e ne supererà anche i pericoli con piu facilità e fedeltà, e perciò essa non sarà neppure cosi oscura per lui. Chi entra in essa in stato di amore e di grazia, si rallegrerà di sé, di poter ass umere ancora qualcosa di difficile

l'

di oscuro che lo unisce nella sorte al Si gnore, il

quale non ha evitato neppure la pena terribile che può gravare su quest'ora. Cosi la decisione pro o contro Cnsto, in questo momento in cui si varca la soglia, implica l'obbligo di rinnegare o di affermare la propria vita nella soggezione o nella ribellione, in un bilancio positivo, oppure negativo che spinge ai margini della disperazione,

e

in anticipo. Dalla

perciò è già appesantita od alleggerita

decisione per Cristo può dipendere nello stesso tempo la dichiarazione di falli­ mento sul volere e sull'agire appa�sionato di una vita intera

».

Per la tesi dell'attività dell'uomo nell'ora della morte Wink lhofer si richiama tra l'altro alla prassi delb preghiera dell3 Chiesa, «

e

giustamente. Dice (p. 31-3�) :

Anche la prassi della preghiera della Chiesa, in base alla quale essa accompagna

ancora con la sua preghiera i moribondi e coloro che sono privi di coscienza e

(in exspil·atione) aiuti della grazia, (egressa auima de corpore). non cessa di

con ciò assegna loro al momento della dipartita e quando l'anima si è staçcata dal corpo pregare :

" S ubvenite, sancti Dei, occurrite, angeli Domini . . .

a

porta inferi erue,

Domine, animam eius " (Accorrete in aiuto, o santi di Dio ! Venite,

o

angeli del

Signore! Salva, o S1gnNe, la sua anima dalle porte dell 'inferno!), sembra riferimento

alla

nostra

concezione

dell'importanza

del momento

della

fare

mone.

Perché, diversamente, sarebbe ancora stato conservata neriorità di Dio, ma perché è cosa equa e giusta dinanzi alla dignità e santità di Dio. Dio non imt)iega contro l'uomo la sua potenza esterna, contro la quale il misero non può gareg­ giare, ma fa valere in lui la sua volontà di amore, che per natura è santa, giusta ed onnipotente.

E lo fa, senza sopraffare l'uomo, per modo che

§ 301.

LA MORTE

391

questi dinanzi a lui non viene gettato nella polvere, ma conserva la pos­ sibilità di libera decisione. La morte è quindi l'ultima e piu pressante chiamata all'adorazione. Poiché l'adorazione è il senso proprio della vita, nella vita di pellegrinaggio la morte rappresenta un'ottima possibilità di realizzare il senso della vita.

Il. - ESPIAZIONE E SODDISFAZIONE. Il riconoscimento di Dio implica il riconoscimento della sua santità. Lo sguardo al Santo richiama il riconoscimento e la confessione della colpevolezza umana. Poiché l'uomo è peccatore, è conveniente che debba morire ; e quindi egli, se intende rettamente se stesso, accetta la morte con sentimenti di penitenza e di espiazione, la interpreta come partecipa­ zione >

>>

1 0, 28).

Tale pretesa non nasce dall a cecità dinanzi ai molteplici

e

violenti peri­

coli per la vita terrena ; al contrario, Cristo ha rimosso tutti i veli che potrebbero nascondere all'uomo gli abissi della insicurezza. L'uomo deve far conto di essere ucciso. Questo è

un

pericolo che agli occhi di Cristo

non si prospetta con carattere eccezionale, ma è una minaccia onnipre­ sente. Cristo rivela cosi all'uomo il pericolo supremo che lo minaccia, e toglie tutte le sicurezze terrene.

Egli non consola sorvolando con disin­

voltura sugli orrori, ma li mette a nudo.

Neppure promette protezione

contro di essi. Nel momento del commiato, secondo la testimonianza del Vangelo di Giovanni, egli non fa

ai discepoli delle promesse per la vita

terrena (Gv. 14, r s.); tuttavia li invita a non temere dinanzi ai pericoli di questo mondo : una pretesa difficilmente sopportabile per l'uomo i cui pensieri sono limitati solamente al mondo

e

che cerca sicurezza nel mondo.

Tanto piu oscuro si leva su questo sfondo il comando di temere di un solo evento, cioè dell'incontro con Dio giudice (Mt.

ro, 28).

Anche il

cristiano deve conservare e sopportare questo timore. Proprio lui l'avrà ; l'incredulo non conosce Dio e quindi non sa nulla del pericolo che l'in­ contro con Dio comporta. Egli invece tanto piu trema là, dove

il cristiano

non deve tremare. Tuttavia questi, cui è dato il comando di avere timore di Dio, percepisce nello stesso tempo il comando di non abbandonarsi alla paura di Dio, di non sprofondare in essa (Gv. 1 4, 1 -4). Il comando di temere Dio si unisce all'appello di innalzarsi dall'abisso dell'angoscia nella fiducia in Dio. « Credete in Dio, e credete in me » (Gv. 14, 1 ), cosi Cristo nel momento del commiato invita i suoi discepoli ad uscire dallo stato

§ 301 . LA MORTE

3 99

d'animo dell'angoscia paralizzante. La fiducia, cui egli li chiama, ha un fondamento. Essi vedono dinanzi a sé la sua e la propria morte, ma la morte diviene per essi la via al Padre. Questa via è percorribile, perché Cristo la apre con la sua morte. Chi è unito a Cristo conosce la morte come una via alla patria, e la può percorrere ; sa che, al di là della morte, è atteso ed ivi gli è preparata una ricca possibilità di dimora (Gv. 14). lvi gli è quindi approntato ciò che nella vita terrena gli rimane negato : pienezza e sicurezza di vita, cose che Cristo non promette per la vita di quaggiu, ma per l'esistenza ultraterrena. Chi percepisce ed accoglie questa promessa può, fidando in essa, sopportare e superare la paura del giudizio di Dio, che ha luogo nella morte. In tale modo « la rigidità dell'angoscia si trasforma nel tremore dell'attesa, perché il Signore viene ! » (J. Gold­ brunner, l. c., 42 s.). Chi attende in tal modo, non si lascia sedurre a sfiorare ad occhi chiusi l'abisso della morte ed a cercare scampo contro i suoi terrori con lo stor­ dimento e la distrazione, ma raccoglie piuttosto l'invito a cercare, dal­ l'abisso dell'angoscia, un volto che è invisibile, ma che sa a lui rivolto, ad afferrare una mano che non è sensibile, ma è presente nell'oscurità, ad affidarsi ad un cuore, il cui battito non si può udire, ma tunavia è vivo. Mentre l'uomo, che si abbandona all'angoscia, cerca sicurezza e nella sua volontà di sicurezza chiude il proprio io, il fiducioso apre il suo cuore e vi lascia fluire l'amore di Dio. Quanto piu egli è pronto per Dio, con tanta maggior forza potrà superare l'angoscia nella fiducia e nell'amore. Giovanni interpreta l'invito di Cristo ad avere fiducia nel Padre ed in lui stesso quando dice : « Non c'è paura nell'amore ; al contrario, il per­ fetto amore caccia via la paura, perché la paura suppone un castigo, e chi teme non è arrivato alla perfezione nell'amore » (1 Gv. 4, 1 8). Ma chi potrebbe raggiungere questo amore perfetto in vita? Esso significherebbe assoluta mancanza del peccato. Ma Giovanni sa che nessun comune mor­ tale giunge a tanto. Se egli volesse affermarlo di sé, dovrebbe incorrere nel verdetto di essere un mentito�e, e quindi uno che inganna sé e gli altri (r Gv. r, 8). Perciò di fronte alla morte ad ognuno non rimane se non la fiducia e la speranza con cui si protende verso Dio. Con queste forze si può superare l'angoscia inevitabile della morte.

400

P. I I .

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

VII. - FALSI TENTATIVI DI SICUREZZA. a) Come l'uomo può giungere a superare rettamente la morte soltanto con un esercizio che dura tutt'l la vita, cosi c'è anche una linea retta che dalla vita conduce all'ultima e suprema ostinazione contro Dio, ed è l'illu­ sione di sicurezza nella quale l'uomo ritiene di non avere bisogno di Dio, ma di poter fare tutto da solo. Allora egli si aggrappa alla terra e spera tutto da essa, dal possesso terreno, dalla potenza, dal piacere ; allora vive come se non dovesse mai morire ed il mondo non dovesse mai venirgli tolto. Egli scaccia dalla sua vita la morte e tutto ciò che glie la ricorda. Anche se vi urta contro, non la riferisce a sé, ma ad altri. Gli uomini si cullano nella illusione che « le loro case durino in eterno, le loro abita­ zioni rimangano per sempre, i loro nom i determinino interi paesi ». È una illusione. « Ma l' uomo non perm ane in onore ; si assimila al bestiame che perisce. Tale è la via per coloro che hanno fiducia, la fine di coloro che si compiacciono nei loro vanti » (Sal. 49 [48], 12 ss. ; cfr. Le . 1 2, 20). Il sal­ mista (Sal. 3 9 [38], 5 ) prega Dio di spezza rgli questa falsa sicurezza : « Fammi sapere, j ahvè, la mia fine e quale sia la misura dei miei giorni » . Nella illusoria sicurezza, con cui cercano di sfuggire alla morte, gli uomini camminano verso di essa come fantasmi. Cfr. H. Thielicke, Tod und Le ben, 2 ed ., 1946. b) Nell'ebbrezza di vita del Rinascimento e del Barocco la paura della morte poté cosi essere assopita. Troviamo la glorificazione della morte immemore di Dio dovunque l'uomo nella morte non crede di incontrare il Dio personale : nella concezione panteistica e nella filosofia moderna della finitezza. Nell'atmosfera panteistica del romanticismo ad es., la morte viene salutata come liberazione dalla prigionia dell'esistenza tem­ porale-individuale e come passaggio nel tutto impersonale. L'aspirazione al tutto diviene desiderio della morte. In Nietzsche la morte diviene la possibilità suprema della libertà umana; non si oppone alla vita, ma ne è il vertice supremo. Infatti nella morte l'uomo si mostra vivo al piu alto grado, se muore come si deve : non della morte naturale, della morte del vile, ma della libera morte che giunge all'uomo quando egli vuole e come vuole, che egli infligge a se stesso. Chi cosi muore è un santo che dice no alla vita, di cui ha raggiunto il piu alto limite. Simili canti retorici in lode della morte risuonano nell'opera di R. Wagner, per cui la morte possiede un'impronta di ebbrezza dionisiaca. Da allora la mistica estatica della

§ 3 0 1 . LA MORTE

401

morte non s'è piu taciuta. Anche nella concezione filosofica di Rilke tro­ viamo una tinta, che è affine alla concezione romantica della morte. La morte è il punto culminante della vita, perciò è familiare come la terra. « Terra, o cara, io ti voglio. Oh credi, non sono piu necessarie le tue primavere, per conquistarmi a te; una sola, si, un'unica è già di troppo per il sangue. In modo indicibile io sono risoluto per te da gran tempo. Tu avesti sempre ragione, e la tua santa irruzione è la fida morte » (Dui­ neser Elegien, 9 , ed. Insel-Verlag, l, p. 25 9). Simili accenti cogliamo anche in Jaspers (Existenzerhellung, p. 225). Ma in verità l'uomo non riesce a creare un sentimento perfetto di sicu­ rezza. Nonostante la sicurezza superficiale, egli non si libera dalla inquie­ tudine piu interna, la quale si manifesta « nella sempre nuova scelta e consolidamento di quei beni (carnali) della vita, nell'accumulamento di danaro, di onore e di potenza, perché questa addizione sembra identifi­ carsi con l'acquisto di un piu ampio margine di sicurezza. Ma per quanto questa inquietudine sia sempre animata dalla speranza che la mia vita si appaghi, che io la possa saziare con l'acquisto di quei beni, essa è inquietudine sistemata sul terreno della sicurezza. Perciò anche l'inquie­ tudine di Faust, vista da questa prospettiva, è sicurezza : è un voler vivere senza la morte » (Thielicke, l. c., 1 72). c) Questo sentimento di sicurezza pervaso di inquietudine, nel quale la vera angoscia della morte non può allignare, è colpevole . Paolo (Rom. r, r8 ss.) dice dei pagani che non hanno la conoscenza di Dio, perché l'hanno respinta e repressa con un rifiuto incosciente o cosciente del Dio vivente. Non esiste quindi una vera ignoranza di Dio, come non esiste una vera ignoranza del senso della morte. Dove sembra esistere, essa è frutto del mancato riconoscimento del senso della morte, della fuga dinanzi alla morte, tentata con molteplici mezzi, dello stordimento dello spirito e del cuore davanti alla sua terribile chiamata. Ma quando poi la morte si precipita sull'uomo e ne infrange la falsa sicurezza, egli non è piu capace di quella vera angoscia, che è una parte­ cipazione all'angoscia mortale di Cristo e può essere sopportata nella fede in lui. Allora egli o cade nell'aperta disperazione, oppure reprime ancora la disperazione e si indurisce in una ostinazione diabolica. Quando l'osti­ nazione riesce a liberarsi dall'eccitazione del sentimento, sopravviene quella fredda tranquillità, in cui tutti i movimenti del cuore che tendono a Dio sono morti. Con essa l'uomo si è totalmente staccato da Dio e nella empietà cerca di acquistare una vita indipendente e chiusa in sé. In un simile stato di tranquillità l'uomo è morto per Dio e Dio è morto per l'uomo. Ma al

402

P. II. - ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

di là della morte tale tranquillità si trasformerà nella massima inquietudine. Di ciò parleremo trattando dell'inferno. Se il senso piu profondo della morte sta nell'essere un incontro dell'uomo con Dio, essa è un atto tra Dio e l'io umano e riguarda direttamente colui che ne viene colpito. La morte avviene nella solitudine del tu divino e dell'io umano, perciò nella morte l'uomo viene isolato . Deve affrontare la morte e l'incontro con Dio, che in essa avviene, per proprio conto ed in definitiva da solo. Alla morte egli prende coscienza di se stesso, vede il suo proprio io, e nessun altro, nel suo vero aspetto. In questo incontro con Dio l'uomo non può farsi rappresentare da nessuno, e nessuno può evitare all'altro la morte. Non può scomparire nella massa per non essere visto. Ancbe se durante la vita non ha mai potuto essere solo e non l'ha mai affrontata da solo, anche se si è sempre rifugiato nella dissipazione e nella opinione comune per non avere una propria opinione e non dover pren­ dere una propria decisione, nella morte è l'individuo che viene convocato da Dio, che deve comparire per affrontare Dio, da solo, non sostenuto e non protetto dagti altri. Deve oarlare e rispondere per sé solo. Anche se non lo ha mai fatto in VIta, lo deve fare in morte. Nessuno lo può sostituire. Nella morte si rivela e sì realizza la unicità e la insostituibilità dell'uomo. Rientra nel giusto comportamento di fronte alla morte che l'uomo sia pronto a presentarsi dinanzi a Dio da solo. Entro le possibilità di questo mondo non c'è alcun mezzo per togliere alla morte la solitudine. Ma c'è, da parte di Dio, una possibilità per supe­ rarla. Come il vero mistero dell'esistenza crisùana consiste per il crisùano nell'essere permeato dall'io di Cristo e nel conservare tuttavia il proprio io, cosi fa pure parte del mistero della morte cristiana che l' uomo muoia come singolo, e che non di meno nella sua morte agisca e si manifesti la morte di Cristo. Egli partecipa alla morte di Cristo e non di meno in questa partecipazione realizza la s�a pro?ria morte. L'unione con Cristo, nonostante l'intimità, non fa si che il suo io si fonda con l'io di Cristo, ma lo aiuta a superare la radicale solitudine dell'io (cfr. la condanna del pan­ cristismo da parte di Pio XII, Enc . Mystici corporis). Si aggiunge l'unione del cristiano con gli angeli e con tutti i membri del corpo mistico di Cristo nella comunione dei sanù. Infatti gli angeli ed i santi vengono invocati dalla Chiesa affinché accompagn;no dinanzi a Dio colui che muore.

§ 302. Il giudizio

«

particolare

».

CAPITOLO I. IL FATTO DEL GIUDIZIO

I.

-

DOTTRINA DELLA CHIESA.

Nella morte si decide la sorte del singolo. Questa viene svelata immedia­ tamente dopo la morte, in quanto lo stato religioso-morale, cioè il rap­ porto dell'uomo con Dio, viene rivelato irrevocabilmente da Dio in modo infallibile. Questo atto porta il nome di giudizio. Già trattando della se­ conda venuta di Cristo si è parlato del giudizio ; quello è il giudizio « ge­ nerale », mentre questo che consegue alla morte dell'individuo è il « par­ ticolare ». Nel giudizio particolare ciascun uomo conosce la propria sorte immutabile . Tuttavia il giudizio generale non è superfluo. Quale nesso esista tra i due giudizi sarà esposto al n. IV di questo capitolo. Sta quindi la tesi che immediatamente dopo la morte ha luogo il giu­ dizio particolare, in cui mediante una sentenza divina si decide la sorte eterna. Per quel che riguarda il grado di certezza di questa tesi le opinioni divergono. Infatti la dottrina del giudizio particolare non è stata procla­ mata es ?licitamente dogma della Chiesa; ma è contenuta o presupposta chiaramente in p:uecchie decisioni dottrinali della Chiesa. Inoltre è oggetto del magistero universale. Quanto alle decisioni dottrinali della Chiesa che la presuppongono, sono da prendere in considerazione le dichiarazioni dei concili per l'unione di Lione ( 1 2 7 5 ; Denz. 464) e di Firenze ( 1 439 ; Denz. 693). In essi è detto che gli uomini liberi dalla pena e dal peccato sono accolti subito in cielo, e coloro che muoiono in peccato mortale discen­ dono subito nell'inferno. Particolannente istruttiva è la costituzione, già piu volte citata, Benedictus Deus di Benedetto XII del 1 336 (Denz. 5 30). Quanto al magistero ordinario universale della Chiesa, esso si presenta nel

P.

I l . - ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

Catechismo romano (n. 89), composto per incarico del Concilio di Trento, ed in quasi tutti i Catechismi moderni. Cosi nel nuovo Catechismo tedesco alla domanda 238 si dice : « Subito dopo la morte l'anima si presenta dinanzi al tribunale di Dio, per rendere conto di tutti i suoi pensieri, di tutte le sue parole, di tutti i suoi atti e tutte le omissioni del bene che doveva fare ». Si può ben dire che il magistero ordinario parla chiaramente del giu­ dizio individuale, mentre le definizioni della Chiesa trattano soltanto dell'inizio immediato degli stati finali dopo la morte e vogliono ovviare all'errore che la sorte degli uomini rimanga incerta fino al giudizio univer­ sale. Secondo la concezione tradizionale nella dottrina della rimunera­ zione immediata è inclusa la verità di un giudizio individuale che precede la rimunerazione. Richiamiamo ancora una volta l'attenzione sul fatto che nel Concilio Vaticano I era stata proposta per essere definita una dichiara­ zione circa il giudizio particolare. Cosi stando le cose, si com9rende come i teologi, nello stabilire il grado di certezza della nostra tesi, oscillino tra la sententia fì.dei proxima e la sententia de fide. La prima qualifica è sostenuta da Pohle-Gummersbach­ Gierens, Fr. Diekamp-Kl. Jiissen, L. Ott, A. Piolanti (De Novissimis, 3 ed. , 1949, 20), la seconda da B. Bartmann, van Noort, F. Dander, J. M. Hervé. La prima sembra essere quella giusta.

II.

-

PROVA DELLA SCRITTURA.

Ciò che vale della dottrina della Chiesa, vale pure della testimo­ nianza che la Scrittura presenta per un giudizio particolare. Anch'essa non lo attesta esplicitamente. Si possono tuttavia citare parecchi testi della Scrittura, dal cui sviluppo si può riconoscere con certezza l'esistenza di un simile giudizio. H. Haag nel suo Dizionario biblico (ed. ir. a cura di G. Gennaro, Torino 1 960, p. 459 s.) dice : « Che Dio retribuisca ogni uomo secondo le sue opere e perciò lo giudichi, o che ogni uomo debba rendere conto al suo Dio delle proprie opere, è una verità e:>pressa sovente nell'Antico Testamento e nel Nuovo Testamento (ad es. Sal. 62, 1 2 ; Eccle. 3 , 1 7 ; 1 1 , 9; 1 2, 1 4 ; Ger. 32, 1 9 ; Eccli. 1 6, 1 -2 3 ; Mt. 1 6, 2 7 ; Rom. 2, 6; 2 Cor. 5 , 1 0 ; Apoc. 20, 1 1). Che questo giudizio abbia luogo immediatamente dopo la morte del singolo uomo, non è detto esplicita­ mente in nessun passo biblico. I testi o parlano molto chiaramente del giorno del ritorno di Cristo come del giorno del giudizio, oppure parlano l.

-

§ 302.

IL GIUDIZIO

«

PARTICOLARE »

del giudizio in quanto tale in modo cosi generico che non viene accennato il momento (ad es. Sap. 3, I 8). Eccli. I I , 26 secondo il contesto intende una rimunerazione durante la vita, sia pure nel giorno della morte. Ebr. 9, 27 (il giudizio segue la morte) per il parallelismo con il v. 28 (morte e ritorno di Cristo) si deve intendere del giudizio finale. Tuttavia il giudizio particolare è contenuto implicitamente nella dottrina dell'Antico Testamento e del Nuovo Testamento sulla retribuzione, in quanto questa conosce uno stato diverso dei giusti e dei peccatori, che inizia immedia­ tamente do�o la morte (" morte " e " vita ), e nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Le. I6, I 9-3 I ), dove Cristo si attiene alle concezioni giudaiche del tempo, che credevano in una sorte diversa dei giusti e dei peccatori subito dopo la morte, ed infine nella parola di grazia ad uno dei !adroni (Le. 23, 43) ed in passi paolini come Fil. I , 2 3 ; 2 Cor. 5, 6-8 ». La parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Le. I 6, I 9-3 1) e la parola del Signore al !adrone pentito (Le. 23, 43) contengono quindi implicitamente il fatto di un giudizio particolare. Sovente viene anche citato, ma a torto, come testimonianza il passo del fattore infedele (Le. 1 6, I -8). Cosi pure non si dovrà addurre la parabola, riferita in Mt. r8, 23-35, del servo cui è rimesso un grosso debito, ma è privo di misericordia. Infatti in questo testo non c'è l'attestazione del giudizio, ma l'ammonizione ad essere remissivi nei confronti dell'offensore. La remis­ sività viene richiesta soprattutto dal fatto che l'uomo è debitore a Dio, suo Signore, in un grado incomparabilmente maggiore di qualunque uomo nei confronti del suo prossimo, e perciò non può fare affidamento che sulla benigna misericordia di Dio. Negli scritti paolini si insiste sul giudizio universale. Non di meno l'Apostolo attesta con sufficiente chiarezza anche il giudizio particolare. Qui naturalmente non vengono in questione quei testi relativi al giudizio, che parlano del ritorno di Cristo, ma soltanto quelli che trattano della sopravvivenza individuale oltre la morte. Cosi il passo 2 Cor. 5, 9 deve essere interpretato del giudizio particolare (cfr. § 301 , cap. II, 3). Non si potrà invece ricorrere a 1 Cor. 4, 1-5 dove ai Corinti, che gli trovano a ridire, Paolo dichiara che poco gli importa della loro opinione, poiché in definitiva egli sa di non dover rendere conto ad un tribunale umano, ma al tribunale di Dio, nel quale sarà stabilito il vero valore dell'uomo. Allora potrà avvenire, anzi c'è da attendersi, che si faccia una revisione dei giu­ dizi umani. Perciò i Corinti dovrebbero essere riservati nel giudicare la sua persona e la sua attività missionaria. Pensando all'imminente giudizio "

406

P.

II.

-

ESCATOLOG IA lNDIVIDUALE

infallibile, Paolo vuole giudicare con prudenza e riserbo anche di se stesso. Poiché la prima lertera ai Corinti non sostiene una escatologia individuale, ma soltanto generale, questo passo non si dovrà intendere del giudizio particolare, ma di quello universale. Nella lettera agli Ebrei la unicità del sacrificio di Cristo viene dimostrata con la unicità della morte dell'uomo. Il testo dice : « A quella guisa che è stabilito per gli uomini di morire una volta sola, e dopo ciò il giudizio, cosi anche Cristo, essendo stato offerto una volta per togliere i peccati di molti, una seconda volta appa­ rirà senza rapporto al peccato, a salvezza di coloro che l'aspettano » (Ebr. 9, 27 s.). Questo testo sembra deporre a favore del giudizio parti­ colare; tuttavia da taluni teologi viene interpretato del giudizio universale, perché il giudizio attestato dall'autore viene messo in rapporto con la seconda venuta di Cristo.

III .

-

TESTIMONIANZA DEI PADRI.

Nel periodo p:atnstlco regnò sovente, come abbiamo visto in prece­ denza, incertezza ed oscurità circa il destino dell'uomo che consegue immediatamente alla morte (cfr. § 30 1, c. II, 4). I sostenitori della dot­ trina della trasmigrazione delle anime (gnostici e rnanichei) ed i tnetopsi­ chiti, le cui tesi presentano molteplici varianti, non potevano naturalmente ammettere un giudizio particolare dopo la morte. Esso viene es?licita­ mente rigettato da Lattanzio ed Mraate. Lattanzio dice (Div. instit., VII, 2 1 , 7 s.) : « NessUtno tuttavia pensi che le anime vengano giudicate subito dopo la morte. Tutte infatti vengono tenute prigioniere assieme, finché giunga il tempo in cui il giudice supremo farà l'esame dei meriti. Allora coloro, la cui giustizia è provata, riceveranno il premio della immortalità; mentre coloro, di cui sono rivelati i peccati ed i delitti, non risorgeranno, ma saranno gettati con gli empi nelle tenebre ». Cfr. H. Lennerz, De Novissimis, Roma 1931, 1 34· Ricordiamo ancora una volta a questo punto il chiliasmo (millenarismo dot­ trina del regno millenario) già precedentemente menzionato. Come abbiamo dimo­ strato nella esposizione della escatologia genrrale (§ 299, c. Il, I ), il chiliasmo ha sostenuto una certa parte sia nell'antichità che nel Medio Evo. Nei tempi mo­ derni ha avuto una rinascita in talune concezioni settarie e, nella variante illumi­ nistica, anche in taluni sistemi filosofici, sociali e politici. L'idea del regno millenario sorse sotto l'influsso di Apoc. 20, I-Io, di diverse =

§ 302. IL GIUDIZIO

«

PARTICOLARE »

407

predizioni dell'Antico Testamento (ls. 6o; 62; 65; 66; Ez. 36-40 ; Dan. 7; Tob. 13, 16; 14, 15) e della loro interpretazione nel tardo giudaismo (apocrifi giudaici [4 Esdra] e scritti rabbinici). Regnava l'idea che alla fine della storia Cristo appa­ rirebbe sulla terra ed istituirebbe un regno mess1anico terreno della durata di mille anni. In esso soltanto i giusti risusciterebbero col loro corpo (prima risur­ rezione) e regnerebbero con Cristo per tutto questo tempo. Il demonio sarebbe condannato alla impotenza. Dopo di che sarebbe liberato per breve tempo e, nell'ultimo giudizio, vinto definitivamente. Soltanto a questo momento i peccatori risorgerebbero col corpo (seconda risurrezione) ed entrerebbero nella mone eterna, mentre i giusti soltanto dopo l'ultimo giudizio entrerebbero nel regno celeste per la beatitudine definitiva. Il chiliasmo venne sostenuto in una crassa forma materialistica da Cerinto (fine del sec. I), dagli ebioniti e da Papia di Gerapoli. In forma mitigata lo inse­ gnarono nel sec. n Giustino (Dialogo con il Giudeo Trijone, c. 1, n. 8o) ed anche Ireneo. L'opinione di quest'ultimo è discussa, ma i testi sembrano non permet­ tere alcun dubbio. Nell'Adversus haereses (5, 32), Ireneo dichiara : >

(7, 25) è detto della sapienza che " nulla di lurido penetra in essa ", ed in Isaia (35, 8) è detto " Non la percorrerà l'impuro ". Ma l'anima viene insudiciata dal peccato, in quanto viene unita disordinatamente con le cose inferiori. Da questo inquinamento viene purificata in questa vita mediante la penitenza e gli altri sacramenti, come è stato detto sopra (cc. 56, 59-6I, 70, 72-74), ma talora avviene che una simile purificazione in questa vita non sia attuata in modo completo, ma essa rimanga ancora debitrice di pena per una qualche trascuratezza od occu­ pazione od anche perché l'uomo viene prevenuto dalla morte. E tuttavia non per questo essa merita di essere totalmente esclusa dal premio, perché tali cose possono succedere senza peccato mortale, che toglie l'amore, cui, come appare chiaro da tutto ciò che è stato detto nel libro I I I (c. I43), è dovuto il premio della vita eterna. Esse devono quindi essere purificate dopo questa vita, prima di conseguiie il premio finale. Ma questa purificazione avviene mediante pene, cosi come anche in questa vita la purificazione sarebbe stata completata mediante pene soddisfattorie. Diversamente i negligenti sarebbero in condizioni migliori dei premurosi, se in futuro non subissero le pene che qui non hanno prestato completamente per i peccati. Perciò le anime dei buoni, che hanno qualcosa da purificare in questo mondo, sono ostacolate nel conseguimento del premio, finché abbiano subito le pene purificatrici. E questa è la ragione per cui poniamo un luogo di purificazione (purgatorio). Questa tesi trova appoggio nel detto dell'Apostolo in I Cor. 3, 15 : " Se l'opera di qualcuno sarà consumata dal fuoco, egli la perdera; quanto a lui, però, sarà salvo, ma come attraverso il fuoco ". A questo mira pure la consuetudine della Chiesa universale che prega per i defunti. Ed invero tale preghiera sarebbe inu­ tile, se non si ponesse un luogo di purificazione dopo la morte. Infatti la Chiesa non prega per coloro che sono già nel termine del bene o del male, ma per coloro che non hanno ancora raggiunto il termine. Che le anime conseguano il premio od i! castigo subito dopo la morte, se non c'è un impedimenro, è confermato dalle prove di autorità della Scrittura. Si dice infatti in Giobbe (2 1, 13) dei cattivi : " Trascorrono i loro giorni nei beni, ed in un istante discendono all'inferno ··, ed in Luca (I6, 22) : " Mori il ricco e fu sepolto nell'inferno ". Ma l'inferno è il luogo dove le anime sono punite. Ma la cosa è parimenti manifesta riguardo ai buoni. Come infatti sta scritto in Luca (23, 43), il S ignore, mentre pendeva in croce, disse al ]adrone : Oggi sarai con me nel paradiso ". Ma per paradiso s'intende il premio promesso ai buoni, secondo le parole dell'Apocalisse (2, 7) : " Al vincitore darò da mangiare dell'al bero della vita, che è nel paradiso del mio Dio ". Ma dicono alcuni che per paradiso non s'intende l'ultima rimunerazione, che è nei cieli secondo le parole di Matteo (5, 12) : " Godete ed esultate perché la vostra mercede è abbondante nei cieli ", bensi una qualche rimunerazione che sarà in terra. Poiché il paradiso sembra essere in qualche luogo terreno, secondo quel che è detto nella Genesi (2, 8) : " Il Signore Iddio aveva piantato un paradiso di delizie, dove collocò l'uomo che aveva formato ". Ma se consideriamo bene le parole della Sacra Scrittura, troveremo che appunto la rimunerazione finale, che è promessa ai santi in cielo, viene data subito dopo questa vita. Infatti l' Apo­ stolo nella seconda lettera ai Corinti (4, 7-1 8 ; 5, I), dopo aver parlato della gloria finale, dicendo che " quello che di presente è momentanea e leggera nostra tribo·•

414

P. I I .

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

!azione opera in noi un peso eterno di una sublime e incompara bile gloria, non mirando noi a quel che si vede, ma

a

quello che non si vede. Giacché le cose

che si veggono sono temporali : quelle poi che non si veggono sono eterne " - ed è evidente che questo è detto della gloria finale che è nei cieli, - per dimostrare quando e come si avrà questa gloria, aggiunge : " ci è noto che, ave la casa terrestre di questo nostro tabernacolo venga a disciogliersi, abbiamo da Dio un edificio, una casa non manufatta, eterna nei cieli

''

. E con ciò fa intendere

evidentemente che alla dissoluzione del corpo l'anima viene condotta nella eterna

dimora celeste, che altro non è se non il fruire della divinità, come ne fruiscono gli angeli nei cieli. Ma se alcuno volesse contraddire, sostenendo che l'Apostolo non ha detto che alla dissoluzione del corpo noi avremo la casa eterna nei cieli in realtà, ma sol­ tanto nella speranza, per averla poi infine nella realtà, ciò sarebbe evidentemente contro

l'intenzione

dell'Apostolo.

Infatti,

mentre

viviamo

quaggiu,

siamo

in

attesa di avere la dimora celeste secondo la predestinazione divina, e già l'abbiamo

nella speranza, secondo le pa ro l e della lettera ai Romani (8, 24) : " Mediante la speranza siamo

salvati " . Inutilmente egli quindi ha aggiunto :

stati

" Ove la

casa terrestre di questo nostro tabernacolo venga a disciogliersi ". Infatti sarebbe stato sufficiente dire .

Ci è noto che abbiamo da Dio

un

edificio ecc. ". Ciò

appare ancora piu esplicitamente chiaro oerche si aggiunge :

" Conoscendo che,

"

mentre siamo nel corpo, siamo lontani dal Signore (poiché canuniniamo per fede, e non per visione) pieni di fidanza abbiamo questa buona volontà di pi uttosto dipartirei dal corpo, ed

essere

presemi al S ignore ".

dipartirei dal corpo, cioè esserne Signore. Ma non

separati, se non

siamo presenti se non quando

finché camminiamo per fede

e

Ma inutilmente

vorrc:mmo

fossimo subito presenti

al

vediamo per visione; infatti,

non per visione '' s1amo lontani dal Signore " , come

è detto ivi stesso. Perciò non appena l'anima santa viene separata dal cor po, vede Dio per visione : libro III (c.

s r).

e

questa è l'ultima beatitudine, come è stato dimostrato nel

La stessa cosa dimostrano pure le parole del medesimo Apostolo,

che nella lettera ai Filippesi (I,

23)

dice : " Bramo di essere disciolto e di essere

con Cristo " . Ma Cristo è in cielo. L'Apostolo quindi sperava di giungere al cielo subito dopo la dissoluzione del corpo. Con ciò viene pure escluso l'errore di alcuni greci, che negano il luogo di purificazione e dicono che le anime prima della ri surrezione dei corpi né ascen­ derebbero in cielo, né sprofonderebbero nell'inferno

».

IV. - PROBLEMATICA DEL GIUDIZIO PARTICOLARE.

Il problema del giudizio particolare consiste in questo, che sembra ren­ dere superfluo il giudizio generale. Se infatti a ciascun uomo viene rive­ lato il valore o il disvalore della sua vita subito dopo la morte, il giu­ dizio generale non sembra piu avere alcun oggetto. Ma proprio sul giu­ dizio generale la rivelazione pone l'accento principale. Se viceversa questo

§ 302. IL GIUDIZIO

«

PARTICOLARE

»

415

viene preso con la serietà con cui dev'essere preso secondo la Scrittura, non sembra piu rimanere posto per il giudizio particolare. Sorge quindi la questione del rapporto reciproco tra giudizio generale e particolare. Rimane fermo che il giudizio generale non dev'essere attenuato a favore di quello particolare, ma che si deve pure riconoscere il fatto di quest'ul­ timo. La rivelazione non ci dà schiarimenti circa il modo della connes­ sione. Si dovrà ricercare la soluzione nel fatto che i due giudizi formano un tutto organico. Il giudizio particolare dev'essere inteso come l'inizio, l'introduzione del generale. Questa tesi ha un corrispondente nella tesi secondo cui la beatitudine, che viene accordata a certe condizioni all'anima spirituale dopo la morte, non è che l'inizio, l'introduzione della forma piena della sua beatitudine. Tale interpretazione del rapporto tra giudizio particolare e generale implica due cose : la non identità dei due giudizi e la loro inseparabilità. Poiché per la vita che ha inizio al di là della morte non vale piu il fluire del tempo, tra i due giudizi non corre una continuità temporale. Gli eventi che toccano l'uomo al di là della morte non sono fasi di un decorso temporale, ma in certo modo dei colpi di esistenza che si manifestano in modo discontinuo. Relativamente alla successione di giu­ dizio particolare e generale si può distinguere un lato soggettivo ed uno oggettivo. La distinzione oggettiva tra giudizio individuale e sociale non si può misurare con le categorie che ci sono abituali, ma è avvolta in un mistero impenetrabile. È il mistero di Dio, che ha escogitato il disegno salvifico umano. Quanto all'aspetto soggettivo, si deve ammettere che gli uomini, al di là della soglia della morte, posseggono un'intensità di vita talmente inconcepibile da non aver piu alcuna sensibilità per la durata e da non attendere quindi neppure il sopravvenire del giudizio generale come un evento situato in un futuro sterminato, ma da guardare ad esso con sicura fiducia od anche con inevitabile terrore come ad un avveni­ mento imminente. S'è già dimostrato precedentemente che il giudizio finale ha pure un suo oggetto adeguato, che va oltre il giudizio particolare. Mentre nel giudizio particolare viene giudicata la volontà buona o cattiva dell'uomo, nel giudizio generale viene svelato anche, e soprattutto, il valore o disvalore oggettivo che le azioni ed opere umane hanno per il corso della storia. Nell'un caso l'uomo viene valutato quale individuo sociale, nell'altro quale essere sociale individuale. Tommaso d'Aquino ha in vista questa distin­ zione quando nel Supplemento alla Summa (q. 88, a. 1 ad 1 ) dice : « Ogni uomo è sia persona individuale, sia parte di tutto il genere umano. Perciò gli conviene un duplice giudizio : uno individuale, che si compie

P. I l .

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

su di lui dopo la morte. In esso egli riceverà la retribuzione corrispon­ dentemente agli atti compiuti nel corpo, non ancora però completa, perché non la riceverà ancora riguardo al corpo, ma soltanto riguardo all'anima. Un altro giudizio deve avere luogo relativamente all'appartenenza del­ l'uomo a tutto

il genere umano� di cui è parte... Perciò anche quando il giudizio generale su tutto il genere umano con la

viene pronunciato

separazione generale dei buoni dai cattivi, viene logicamente giudicato ciascun individuo. Tuttavia Dio non pronuncia due volte un giudizio circa la stessa causa, perché non infliggerà due castighi per un solo peccato, ma il castigo, che prima del giudizio non era completo, verrà completato nell'ultimo giudizio . ..

».

CAPITOLO Il. NATURA DEL GIUDIZIO PARTICOLARE

I.

-

PROSPETTO.

Circa la natura del giudizio particolare le opinioni dei teologi divergono, e vanno da una concezione del fatto estremamente letterale ad una estre­ mamente simbolica. Cosi ad es. M. Premm (Katholische Glaubenskunde, Vienna 1 952, IV, 5 57), dichiara che nel giudizio particolare rientrano tutti quegli elementi che sono costitutivi per il giudizio terreno : istruttoria, sentenza, esecuzione della sentenza. O. Karrer per contro, secondo una relazione di O. Betz (Das neue Dogma und die Bibel, in Neue Zuricher Zeitung, 26 dic. 1950) fa coincidere giudizio generale e particolare, e precisamente con la motivazione che per l'anima umana, al di là della morte, non ci sono piu dimensioni spazio-temporali. Tra questi due estremi si muovono le tesi di D. Feuling, L. Beauduin e J. Hild. Feuling (Katho­ lische Glaunbenslehre, 4 ed., Salzburg 1 9 5 1 , 899) combatte l'idea di uno svolgimento drammatico del giudizio particolare e crede che esso con­ sista soltanto nel verdetto della coscienza dell'anima umana separata dal corpo. L'anima separata possederebbe una completa conoscenza di sé e la visione spirituale che le è propria sarebbe infallibile. A seconda del caso particolare del defunto l'autogiudizio infallibile si compirebbe in una luce naturale o soprannaturale data da Dio. Beauduin (nel volume Le mystère de la mort et sa célébration, Paris 195 1 ; trad. it., Alba 1958, p. 206 s.) sostiene l'opinione che l'amore, che pervade l'anima nello stato di grazia, al momento della morte si trasfor­ merebbe spontaneamente in luce della gloria, e questa in forza della sua natura include la visione beatifica. Viceversa l'anima onerata di colpa grave nasconderebbe spontaneamente la sua vergogna, lontano da Dio, trasci­ nata via dal peso delle sue mancanze. Beauduin ritiene che del giudizio

418

P. Il.

-

ESCATOLOG IA INDIVTDUALE

particolare si debba parlare in senso puramente metaforico, perché in esso non si troverebbe neppure uno degli elementi essenziali per un giu­ dizio. Egli non separa la morte dal giudizio e al carattere decisivo della morte dà una tale importanza teologica che il giudizio diviene un elemento intrinseco della morte stessa. Nel suo articolo « La morte, mistero cristiano » (nello stesso volume, p. 1 7 1 ss.), Hild sostiene l'opinione che il giudizio, che ha luogo imme­ diatamente dopo la morte, trasferirebbe semplicemente nell'al di là il giudizio che l'anima ba compiuto in questo mondo mediante la sua vita nella fede e nell'amore. Il cosi detto giudizio particolare avverrebbe già in questa vita, ma diverrebbe pienamente manifesto soltanto nell'al di là. Il giudizio individuale viene quindi caratterizzato da Hild come un evento dopo la morte ; ma esso non sopravviene all'anima dall'esterno, ma è piut­ tosto un autogiudizio, perché non fa che riprendere la decisione presa nell'al di qua e pubblicarla. Per quesro prospetto cfr. Leo Scheffczyk, Das besondere Gericht im Lichte der gegenwiirtigen Diskussion, in Scholastik, 32, 1957, 5 26-54 1. Le spiegazioni qui presentate del giudizio particolare non ne negano il fatto, in quanto a..'lllii.ettono tutte sia il carattere decisivo della morte, sia il fatto, definito dalla Chiesa, della retribuzione che segue immediatamente la morte. Ma per quanto riguarda la natura del giudizio sembrano peccare parte per ecceso, parte per difetto. Si esagera quando si presenta il giu­ dizio come se Dio dovesse prima esaminare la situazione, cosi come il giudice terreno dopo ogni delitto compie una indagine. Si pecca per difetto quando si identifica completamente il giudizio con la morte, oppure con l'autogiudizio dello spirito libero dal corpo. Non si può negare che il giudizio particolare implica un autogiudizio; ma questo è diverso dal giu­ dizio della coscienza, con cui l'uomo giudica se stesso durante la sua vita terrena. Inoltre lo spirito separato dal corpo dopo la morte ha bisogno di quella conoscenza di Dio, che gli dà la giusta norma per il suo auto­ giudizio; ma questa conoscenza di Dio egli l'acquista soltanto per mezzo di una particolare azione divina. Dio perciò entra nel giudizio finale in due modi, e cioè : anzitutto come soggetto agente e poi come misura normativa. Il giudizio è quindi un autogiudizio dell'uomo, causato dall'at­ tività di Dio. Ora possiamo tentare di analizzare la natura del giudizio particolare.

§

302. IL GIUDIZIO

Il.

-

>

ANALISI.

l . Le descrizioni del tribunale, dinanzi al quale l'anima viene portata; della bilancia, su cui vengono pesate le opere buone e cattive; del libro, in cui è registrato tutto il bene ed il male, che viene aperto da Dio nel giudizio, sono immagini per il mistero del giudizio, il quale consiste nel fatto che Dio illumina l' uomo sul suo vero stato, e mediante l'illuminazione divina l'uomo misura infallibilmente il suo stato religioso-morale sulla santità di Dio e conosce chiaramente la sorte che gli conviene. Agostino (De civitate Dei, 20, 14) dice del libro del giudizio : « Con esso si deve intendere una forza divina, mediante la quale sono richiamate aìla me­ moria dell'uomo tutte le sue opere, per modo che esse sono viste da lui e lo accusano o lo assolvono ». -

2. Durante la vita terrena l'uomo possiede l'arte di dimenticare le sue azioni colpevoli. Gli è dato di cancellarle cosi pienamente dalla memoria, che stupisce e scuote incredulo il capo, se gli vengono ricordate. Inoltre può velare o svisare dinanzi ai propri occhi i motivi delle sue azioni pre­ cedenti. Nel giudizio, cui deve sottoporsi dopo la morte, la ventà onni­ sciente ed onnipotente di Dio gli richiama alla memoria tutta la vita prece­ dente, per modo che ogni particolare ed anche l'insieme della vira, intes­ suto di tutte le singole decisioni, stanno dinanzi agli occhi del suo spirito in luce chiarissima. Egli quindi si vede qual è, vedendo qual è diventato. In tale modo il suo passato « rievocato » nel momento presente, diviene vivo dinanzi a lui. Egli non può sfuggire a questa visione di se stesso ; non può, come nella vita terrena, distogliere lo sguardo da se stesso, oppure chiudere gli occhi dinanzi a sé; ma sta nettamente delineato nella luce di Dio e trasparente dinanzi agli occhi del suo spirito fin nell'ultimo strato del suo proprio io. Dovendosi considerare e giudicare qual è, senza veli e scuse, egli diventa nella morte il suo proprio giudice. Ma in quanto deve compiere in sé quel giudizio al quale lo costringe la verità onnipotente di Dio, il suo autogiudizio è nello stesso tempo giudizio di Dio. Piu esattamente : il giudizio di Dio si compie nel suo autogiudizio. Il giudizio di Dio gli appare giusto in grado sommo, per modo che non vi può muovere critica come in un giudizio umano. Lo deve accettare per l'intima visione della sua giustizia. -

P. II.

420

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

3. Il giudizio, al quale l'uomo deve assoggettarsi nella morte, è il coro­ namento di tutti quegli autogiudizi che egli ha compiuto in sé durante la vita. Nel tempo del pellegrinaggio l'uomo si giudica con la voce della coscienza, nella quale Dio tiene giudizio sull'uomo. L'uomo, piegandosi alla voce della coscienza, si piega al giudizio, all'accusa od all'assoluzione di Dio. Tuttavia durante il pellegrinaggio l'uomo può addormentare la voce della coscienza e quindi può eluderne il giudizio. Un modo particolare di giudizio celeste sull'uomo durante il tempo del pellegrinaggio è il sacramento della penitenza (cfr. § 265). In esso infatti il Padre celeste tiene un giudizio per mezzo del sacerdote, che fa le sue veci, sul peccatore, che fa le veci del Cristo crocifisso. Qui di­ viene efficace quel giudizio che Dio ha tenuto su Cristo nella sua morte in croce. Normalmente il giudizio del sacramento della penitenza significa per l'uomo assoluzione dalla col!Ja. In esso viene in certo modo anticipato il giudizio dopo la morte. Chi si assoggetta al giudizio del sacramento della penitenza non deve piu avere timore del giudizio particolare, per quanto esso sveli le sue imperfezioni cd i suoi peccati in modo del tutto diverso da quel che è in grado di fare un qualsiasi giudizio entro la vita terrena. I giudizi coi quali l'uomo giudica se stesso nel corso della vita, sono precursori del giudizio con cui Dio lo giudicherà dopo la morte. Mentre nel tempo del pellegrinaggio l'uomo è esposto al pericolo di ingannarsi, il giudizio finale è caratterizzato da una assoluta veridicità. Quantunque subito dopo la morte, prima dell'ingresso nel modo celeste di esistere, non sia permesso all'uomo incontrarsi con Dio faccia a faccia - poiché questo sarebbe il cielo, - tuttavia l'uomo si vede nella luce di Dio; conosce ed esperimenta la vicinanza del Dio santo con piu forza di quanto non l'abbia mai fatto in vita; si giudica nella chiara luce che Dio accende in lui. Anche durante la vita terrena l'uomo deve guardarsi con gli occhi di Dio ; soltanto allora si vede con quella spassionatezza e ''erità, che gli garantiscono l'esattezza del suo aurogiudizio. Ma mentre nella esistenza terrena può evadere dalla spassionatezza nella illusione e nella fantasia, tale fuga non gli è piu permessa dopo la morte : deve affrontare la visione di se stesso nella chiarezza luminosissima della luce divina. Si conosce quindi qual è, con tutto ciò che di buono e di nobile c'è in lui, ma anche in tutta la sua incompiutezza e frammentarietà, con tutte le sue mancanze e debolezze. -

4 . II metro su cui egli si misura, anzi si deve misurare, è la santità, la verità e l'amore di Dio stesso, o piu esattamente la verità e santità -

§ 302.

IL GIUDIZIO

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PARTICOLARE

42 1

»

divine, la giustizia ed amore divini, che sono apparsi in Cristo. Tale metro è quindi ad un tempo oggettivo e personale. L'uomo viene misurato e deve misurarsi sulla verità e sull'amore personali. L'uomo dopo la morte ha come misura della sua vita e del suo destino

il Dio che si rivolge al mondo

in Cristo, e non il conveniente o l'utile, non l'opinione pubblica od il sentimento privato. Misurate su questo metro, molte cose che durante la vita gli sembrano innocenti ed indifferenti appariranno molto gravi e fatali. In base al metro di Dio, presente in Cristo nel mondo, egli si vedrà spas­ sionatamente e secondo verità, senza maschera ed illusione, nella sua unione con Dio o nel suo distacco da lui. Poiché l'uomo dopo la morte non misura, anzi non deve piu misurare, le sue azioni in base alla loro utilità ed alla loro opportunità terrena, ma esclusivamente in b a se alla loro vicinanza o lontananza dalla vedtà e dall'amore apparsi in Cristo, Cristo può essere chiamato giudice (Gv.

5, 22).

Con formula piu esatta si deve dire che l'uomo giudica se stesso in quanto

il Padre celeste lo giudica per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Nell'ultimo giudizio si esplica il giudizio che Dio ha tenuto in croce su Cristo, rappresentante dell'umanità. Chi

è unito a Cristo esperimenta

quest'ultimo giudizio come giudizio assolutorio, cosi come per Cristo stesso ebbe efficacia creatrice. Chi non è a lui unito, lo esperimenta come giudizio di condanna. Nell'ultimo giudizio la croce di Cristo perviene quindi

in

ogni singolo uomo la croce alla pienezza del suo essere e del suo signi­ ficato sotto l'aspetto del giudizio. Quando alla luce di Dio l'uomo diviene manifesto dinanzi

a

se stesso,

scorge pure qual è il suo destino. Nel giudizio particolare non si rivela soltanto

il livello religioso-morale dell'uomo, ma il modo futuro di esistere

che vi corrisponde. Egli comprende che ha diritto di esistenza e di vita soltanto nella misura in cui è formato dalla verità e dall'amore. La misura della sua pienezza di vita corrisponde, come gli appare chiaro, alla misura in cui l'amore e la santità di Dio, cioè il regno di Dio, hanno trionfato in lui. Nella misura in cui egli si

è sottratto all'amore ed alla verità e si è abbandonato all'egoismo ed all'orgoglio, gli viene assegnata un'esistenza misera e debole. La forma estrema di questa meschinità ed incompiutezza la chiamiamo inferno. La forma somma della pienezza di verità e di amore la chiamiamo cielo. Infatti il cielo, come vedremo, con la verità e l'amore svelati in persona propria.

è la comunione di vita

422

P. II. - ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

III .

-

ESECUZIONE DELLA SENTENZA.

La sentenza pronunziata nel giudizio particolare viene subito eseguita; anzi, l'esecuzione della sentenza coincide con il verdetto, e cioè : immedia­ tamente dopo la morte l'uomo si conosce qual è agli occhi di Dio, come unito a Dio, oppure da lui separato, ed è perciò stesso beato o dannato. Da prima la sentenza viene eseguita nell'anima; il corpo verrà compreso nel verdetto del giudice alla seconda venuta di Cristo. Rientra nella esecuzione della sentenza che Dio faccia giungere a piena maturazione sia l'unione con Dio (l'amore), sia il peccato mortale. Alla luce di Dio l'uomo che sta sotto il giudizio riconoscerà pure il suo amore come insufficiente e se ne spaventerà, sia pure con gioia fiduciosa. Dio colmerà le insufficienze per modo che l'uomo (attraverso al purgatorio) acquista quella maturità dell'amore per cui è fatto e che deve raggiun­ gere secondo il disegno salvifico di Dio. Il giudizio di Dio non è quindi semplicemente analitico-constatativo, ma anche sintetico-creatore.

§ 303. L'inferno. Sua realtà.

CAPITOLO l. LA DOITRINA DELLA CHIESA

L'uomo che lascia questa vita in peccato mortale deve vivere eterna­ mente nello stato dell'inferno. È dogma di fede. Nel simbolo atanasiano la Chiesa professa la rivelazione dell'inferno eterno : " Al suo (di Cristo) ritorno tutto gli uomini risorgeranno nei loro corpi e rende­ ranno conto delle loro azioni. E coloro che hanno fatto del bene entreranno nella vita eterna, e coloro che hanno fatto il male andranno nel fuoco eterno :t. Il Concilio ecumenico Lateranense del 1215 dichiara (Denz. 429) : « Egli (Gesu Cristo) verrà alla fine del mondo per giudicare i vivi ed i morti, per retribuire ciascuno secondo le sue opere, sia i reprobi che gli eletti. Essi risorgeranno tutù con il proprio corpo che portano, affinché gli uni ricevano il castigo eterno con il demonio, e gli altri la gloria eterna con Cristo, a seconda delle loro opere buone o cattive » . La professione di fede, prescrina dal papa Clemente IV all'imperatore bizantino Michele della stirpe dei Paleologi, come condizione per la riunificazione con la Chiesa occidentale, contiene la frase seguente (Denz. 464) : « Le anime di coloro che muoiono ... in peccato mortale... , vanno subito all'inferno ». Cfr. anche Denz. 693 : bolla Laetentur coeli del 6 luglio 1439 (decreto del Concilio di Firenze per gli Armeni). Nella costituzione Benedictus Deus del 1 336 il papa Bene­ detto XII riguardo all'inferno dichiara (Denz. 531) : « Inoltre stabiliamo : secondo ia comune disposizione di Dio, le anime di coloro che muoiono in peccato mortale attuale discendono subito dopo morte all'inferno, dove vengono mrmentate con tormenti infernali. Ma ciò nonostante nel giorno del giudizio tutti gli uomini compariranno col loro corpo dinanzi al tribunale di Cristo e renderanno conto dei loro propri atti, affinché ciascuno riceva la sua retribuzione per quanto ha fatto durante la vita (2 Cor. 5, 10) » . Cfr. anche Denz. 835 (can. 25 del Concilio di Trento sulla giustificazione); Denz. 840 (can. 30); Denz. 228 a (lettera Humani generis di papa Pelagio a Childeberto I del 557); Denz. 546 (lettera di papa Inno­ cenza IV al vescovo di Tuscolo del 1254). L'eternità dell'inferno, che già è dichiarata in queste definizioni ecclesiastiche, viene insegnata ancora in modo particolare dal Concilio provinciale della Chiesa

P. li.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

costantinopolitana del 543 contro i seguaci di Origcne (Denz. 2 I I ) : « Chi dice o crede che la punizione degli spiriti cattivi e degli uomini empi sia soltanto temporanea e dopo un determinato tempo abbia fine ed allora giunga una com­ pleta restaurazione (degli spiriti cattivi e degli uomini empi), sia scomunicato ». Un decreto imperiale dello stesso anno si esprime nello stesso senso. Il quinto Concilio ecumenico (Costantinopoli 553) conferi valore per tutta la Chiesa alla condanna della dottrina origeniana.

In questi testi non soltanto viene stabilito in modo autoritativo che Dio ha minacciato l'inferno eterno agli empi, ma con essi i titolari del magi­ stero ecclesiastico professano in nome di tutta la Chiesa la rivelazione di Cristo sull'inferno. I testi costituiscono quindi nello stesso tempo un invito a tutti i cristiani alla stessa confessione. Tale invito contiene un avverti­ mento molto energico, che acquista forza e valore per il fatto che i titolari del magistero ecclesiastico insistono ripetutamente con la professione di fede nella rivelazione dell'inferno. L'uomo, sempre tentato dalla superfi­ cialità e dal desiderio della gioia disordinata nel mondo, ha bisogno di un simile insistente avvertimento, per non cadere nel piacere disordinato delle cose e dimenticare Dio. Nelle gioie che il mondo, nonostante il suo stato caotico, ancora sempre gli offre, egli dev'essere scosso di continuo, affinché non si appaghi della beatitudine terrena, ma spinga lo sguardo e si pro­ tenda verso la gioia ultraterrena. La professione di fede della Chiesa nella rivelazione dell'inferno è l'ob­ bedienza alla minaccia, attestata nell'Antico e Nuovo Testamento, che Dio rivolge agli empi.

CAPITOLO II. TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA

I.

-

ANTICO TESTAMENTO.

Come già è stato notato, nell'Antico Testamento non troviamo da prima alcuna chiara rivelazione circa la sorte degli empi che lasciano questa vita. Gli inferi sono il luogo per i buoni ed i cattivi. Tutti gli uomini, senza ec­ cezione, devono discendervi : buoni e cattivi, re e mendicanti, signori e schiavi, vecchi e giovani. Gli inferi sono la casa di raccolta di tutti i morti, i cui abitanti conducono un'esistenza di ombre. Qui gli uomini hanno riposo ; qui cessa la ricerca di ricchezza e di onore ; anche gli empi rinun­ ziano al loro corruccio. Non c'è sofferenza, ma neppure felicità. Tale stato si può appena appena chiamare ancora vita. Gli inferi sono la regione dell'oblio, del silenzio. I morti non hanno alcuna attività spirituale : il loro amore ed il loro odio scompaiono. Tuttavia essi non sembrano privi di ogni coscienza. Coloro che furono vicini in vita, si riconoscono tra di loro. Talora sembrano essere risvegliati da panicolari avvenimenti dal loro stato simile al sonno. Queste concezioni dominarono i fedeli dell'An­ tico Testamento fino al tempo dei profeti, e si sono conservate nella teo­ logia giudaica, che troviamo nel Talmud e nel Midras. Nei circoli dell'An­ tico Testamento dominati dalla rivelazione di Dio stesso, a partire dal tempo dei salmi e dei profeti, troviamo la credenza che i buoni defunti giungono a Dio, mentre gli empi vengono puniti negli inferi. Il prevalere di questa rivelazione fu favorito da due presupposti naturali : dalle idee che regnavano nel Parsismo sulla sopravvivenza dopo la morte, e dal problema che andava sempre piu assillando i fedeli dell'Antico Testamento, perché nella vita terrena le cose vadano cosi spesso bene all'empio, e male al pio. Le vicende storiche portarono i fedeli dell'Antico Testamento in stretto contatto con le concezioni dell'al di là, dominanti nel Parsismo.

P. Il.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

Il problema della conciliazione tra il valore morale e la felicità terrena degli uomini, che ad es. assill ava in modo gravissimo Giobbe, apriva ai fedeli dell'Antico Testamento la mente ed il cuore per la rivelazione della retribuzione al di là della morte. Si può supporre che Dio abbia accordato la rivelazione circa gli stati nell'al di là allorché il popolo vi fu preparato dallo sviluppo psichico­ religioso all'interno e dall'influsso esterno, allorché il bisogno di chiarezza in queste questioni fu cosi cresciuto, che un ulteriore ritardo della rive­ lazione avrebbe gravemente minacciato la fede nella giustizia di Dio. Si può anche ammettere che nelle speranze nell'al di là, espresse nei profeti e nei salmi, siano conftuiti taluni elementi delle religioni ambientali : il che non dovrebbe costituire una corruzione del!a rivelazione da parte di elementi pagani, perché esiste la possibilità che nelle concezioni pagane dell'al di là siano sopravvissuti resti di una rivelazione primitiva, sia pure involta in un ammasso di errori. Ma anche se elementi singoli della fede nell'al di là dell'Antico Testamento dovessero provenire dal mondo reli­ gioso circostante, tuttavia l'insieme delle concezioni dell'al ili là dell'An­ tico Testamento offre un quadro totalmente diverso dalla fede pagana nell'al di là, perché vengono inserite in un contesto diverso e con ciò vengono determinate nel loro vero senso, cosi come le identiche pietre, per l'inserimento in diversi disegni costruttivi, svolgono di volta in volta funzioni totalmente diverse. La differenza fondamentale tra la concezione dell'al di là dell'Antico Testamento ed ogni altra fuori del campo della rivelazione si fonda sulla diversità dell'idea di Dio. Nel campo della rive­ lazione Dio appare come un essere diverso dal mondo, padrone della storia, agente ; nelle altre religioni come una realtà mitica, che è della stessa natura del mondo. Citiamo alcuni testi dei Salmi e dei profeti. Cosi in Is. 66, 24 si dice dei pellegrini, che escono verso il luogo di pena in cui giacciono i cadaveri dei cultori degli idoli. « Uscendo, ve­ dranno i cadaveri degli uomini che si sono ribellati a me; poiché il loro verme non morirà, il loro fuoco non si spegnerà e saranno un abominio per tutti ». Il luogo dell'orrore è la valle di Hinnom (a sud di Gerusa­ lemme), che era stata la sede del culto di Moloc. Da quando sotto i re Achab e Manasse erano stati offerti qui all'idolo Moloc sacrifizi umani, la valle era maledetta ed aborrita. Le minacce di giudizio pronunciate su di essa (Ger. 7, 32 ; 1 9, 6) divennero l'occasione per cui la valle fu consi­ derata come luogo dell'inferno di fuoco che si aprirà dopo il giudizio finale, e per cui il suo nome venne anche trasferito ad esso (geenna). Nella sua visione Isaia vede giacere qui i cadaveri dei cultori degli idoli.

§

' 3 0 3 . L INFERNO. SUA REALTÀ

Essi vengono rosi dai vermi e tuttavia non divorati, arsi dal fuoco e tuttavia non consumati. Ciò che qui succede è straordinario. Su questo quadro spaventoso aleggia il brivido del prodigio. Qui si rivela la maestà del Dio santo, che non può essere lesa. Le anime di coloro, i cui corpi giacciono insepolti come nutrimento dei vermi e del fuoco, in una misteriosa unione con il corpo subiscono l'ignominia ed il tormento che tocca i loro corpi. Il tormento non avrà fine. Ciò che si poteva vedere nella valle di Hin­ nom, divenne immagine della pena dei reietti. Un tormento eterno viene minacciato ancora piu volte agli empi (24, 21 s. ; 50, I 1), i quali secondo Dan. 1 2, 2 risorgeranno « alla vergogna e al ludibrio eterno » (cfr. Giudit. I 6, 20 s. [Vg]). La fede nella pena eterna dopo la morte divenne patrimonio comune nel sec. n a. C. La prospettiva della pena nell'al di là dà all'uomo la forza per essere fedele nelle sofferenze della vita terrena (2 Mac. 6, 26 ss.). Mentre secondo il libro della Sapienza i pii entrano nella pace di Dio, gli empi sopravvivranno nei dolori (Sap. 4, 19). Di fronte alla pace di colui che crede in Dio, essi si lamenteranno (5, 4-1 3) : « Questi è colui che un tempo abbiamo deriso e oltraggiato. Insensati ! Giudicammo la sua vita una pazzia e la sua morte ignominiosa. Come mai egli è annoverato tra i figli di Dio ed è toccata a lui la sorte tra i santi? Noi errammo lontani dalla via della verità, e il lume della giustizia non brillò per noi, e il sole non venne a sorgere! Ci siamo saziati delle vie inique e perdute e abbiamo percorso deserti senza piste, abbiamo ignorato il cammino del Signore. Che cosa ci è giovato l'orgoglio, e che cosa ci hanno portato le ricchezze e il vanto? Tutto questo è passato come un'ombra e come un messaggio veloce! Come nave che fende l'onda agitata e di cui, dopo il passaggio, non Si può trovare traccia, né la scia della carena nei flutti. O come dell'uccello che vola per l'aria non si trova indizio di cammino; ep?ure l'aria leggera, percossa dal battito delle ali e divisa per forza d'im­ peto, è stata attraversata dalle ali agitate e dopo non si trova in essa indizio di passaggio. O come di una freccia scagliata al bersaglio ; divisa, l'aria ritorna subito al suo stato, cosi che si ignora il passaggio di quella. Ugualmente noi, appena nati, abbiamo cessato di essere, e non abbiamo potuto mostrare segni di virtù e ci siamo spenti invece, nella nostra malizia ». Cfr. 3, r o ; 6, 5 ss. ; Heinisch, Teologia del Vecchio Testamento, 2 ed., Torino 1959, 3 19-327.

428

P.

II.

Il.

-

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

NUOVO TESTAMENTO.

La rivelazione iniziale, che l'Antico Testamento dà dell'inferno, viene resa piu completa e piu chiara nel Nuovo Testamento. Giovanni Battista sottolinea

il suo invito alla penitenza con l'accenno minaccioso all'inferno

che attende gli impenitenti.

«

Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sot­

trarvi alla collera imminente? ... Già la scure è posta alla radice degli alberi ; ogni albero, dunque, che non fa buon frutto, si taglia e si mette al fuoco »

7· 9 ; cfr. Mt. 3, 1 0. 1 2). Cristo rivela il fatto terribile che esiste

(Le. 3,

un peccato eterno. Contro i farisei, che screditano come opera diabolica le sue espulsioni dei demoni, Cristo dichiara (Mc. 3, 28 s.) :

«

In verità

vi dico : ai figli degli uomini saranno perdonati tutti i peccati e tutte le bestemmie che avranno detto ; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non avrà perdono in eterno, ma è reo di peccaro eterno

».

La ma­

ligna e falsa interpretazione della lotta di Gesu contro il potere di Satana è una violenta chiusura degli occhi di fronte allo spuntare del regno di Dio e dinanzi alle chiare testimonianze di questo evento. Chi pecca in tale modo, rigetta con mente accecata la rivelazione di Dio e la dichiara opera dell' avversario

di Dio. Egli non può trovare perdono, perché oppone alla conversione (cfr. Mt. 1 2, 32;

resistenza all'azione di Dio che porta Gv.

8,

2 1 -24). Tale uomo fa resistenza allo Spirito Santo.

il pec.cato contro lo Spirito Santo « peccato per la 5, 1 6). Esso porta alla morte eterna nella dannazione.

Giovanni chiama morte » (1 Gv.

Commettono questo peccato coloro che rigettano Cristo, la sua opera e la sua legge. Secondo Giovanni essi sono gli anticristi ed i bugiardi, contro i quali l'Apostolo mette in guardia con la massima insistenza i suoi lettori. Contro tali seduttori ha scritto la prima delle sue lettere, dove dice :

«

Ed ecco l'annunzio che abbiamo sentito da lui (Cristo) ed annun­

ziamo a voi : Dio è luce e in lui non è tenebra alcuna. Se diciamo d'aver comunione con lui e camminiamo nella tenebra, mentiamo e non ope­ riamo la verità. Se invece camminiamo nella luce, come lui

è nella luce,

siamo in una reciproca comunione, e il sangue di Gesu, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo di non avere peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è tanto fedele e giusto da rimetterceli e purificarci da ogni iniquità. Se di­ ciamo di non avere commesso peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi. Figlioletti miei, vi scrivo queste cose affinché non pecchiate. Ma se qualcuno cade in peccato, abbiamo, come avvocato

§ presso

303. L'INFERNO. SUA REALTÀ

il Padre, Gesu Cristo giusto . Anzi, egli stesso è il propiziatore per

i nostri peccati e non per i nostri soltanto, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo appunto sappiamo di conoscere lui, se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice : comandamenti,

« Lo conosco », ma non osserva i suoi

è mentitore e la verità non è in lui. Ma se uno osserva ta

sua parola, veramente l'amore di Dio è in lui perfetto. In ciò conosciamo di essere in lui. Chi dice di dimorare in lui, deve camminare cosi come egli camminò >> (r Gv. r, 5 - 2,

6).

Con queste frasi Giovanni combatte i maestri di errore, che pretendono di possedere una vera visione di Dio ed una reale unione con lui senza la mediazione del Cristo storico e senza l'osservanza dei suoi comandamenti, e quindi non soltanto trasgrediscono

in pratica questo o quel precetto di

Cristo, ma rigettano per principio ia sua legge ed annunziano e praticano

il diritto di peccare. Questa gente inganna se stessa. Chi ha riconosciuto è in unione con lui, non può fare il peccato, non lo può

realmente Dio ed

approvare, perché esso

è in comraddizione con la natura e la volontà di

Dio. Chi con piena coscienza rigetta Cristo e la sua legge, rivela con ciò stesso di vivere in opposizione a Dio. Giovanni mette in guardia i suoi lettori contro il pericolo insito nell'eresia che va incontro alla debolezza ed alla leggerezza. Soltanto colui che cammina nella luce e vive nell'obbe­ dienza a Cristo può essere

in

unione con Dio.

Il camminare nella luce presuppone la vita nell'unione fraterna dei cristiani e la purificazione dal peccato mediante il sangue di Cristo. La ouri­ ficazione mediante il sangue di Cristo è garantita dall'unione con i fra­ telli cristiani. Chi è in comunione con gli apostoli,

è in comunione con

Cristo e col Padre. L'unione cristiana comunica ai suoi membri la forza del sangue di Cristo, che cancella i peccati e vivifica. Chi abbandona l'unione, pecca contro l'amore fraterno e si pone in contraddizione con Dio, amore per essenza (2, 8- I I ; 4,

1 1 - 1 6).

Perciò i falsi maestri si trovano in un errore non soltanto grande, ma pernicioso, quando credono di essere in unione con Dio.

È vero che anche

i cristiani commettono peccati e, nonostante la loro unione con Cristo, partecipano ancora in qualche modo alla peccaminosità generale del mondo. Ma se essi non negano, come fanno i maestri di errore, il loro peccato, ma lo riconoscono e confessano, ne sono continuamente purificati dal sangue di Cristo. Anzi, il loro peccato è anche del tutto diverso dal peccato dei falsi maestri. Essi non vivono in quello stato infelice di incredulità e di cecità, come coloro che rigettano coscientemente Cristo e la sua legge. In questo senso

è da intendere, quando Giovanni dice che colui, che è

P.

43 0

IL

-

ESCATOLOGIA INOIVIDUi\l.E

geì1erato da Dio, non fa peccato, anzi non può peccare (3,

9 ). I peccati,

che anche i cristi�ni commettono, sono di tipo diverso dal peccato degli anticristi. Da essi l'uomo può essere purificato mediante

il sangue di

Cristo, se non li nega, come fanno i maestri di errore, ma li confessa e li riconosce. Egli può nutrire la fiducia che la sua domanda di perdono sia accolta, pen..:hé Cristo stesso intercede per lui presso il Padre. La via del perdono è preclusa soltanto a coloro che non ritengono

il loro peccato

come qualcosa di contrario a Dio. Questi sono figli del demonio e peccano per la morte.

«

Dinanzi a lui

è questa la sicurezza che noi abbiamo : che E se sap­

se chiediamo qualcosa conforme alla volontà sua, ci esaudisce.

piamo che ci concede qualunque cosa si chieda, sappiamo di avere già da lui quanto abbiamo richiesto. Se uno vede

il fratello suo commettere un

peccato non per la morte preghi, e darà la vita a lui che commise tale peccato. Ma c'è pure un peccato per la morte : non per questo dico di pregare. Tuttavia, se ogni ingiustizi a è peccato, c'è anche un peccato non per la morte » ( 1 Gv. 5, 1 4 - 1 7). Secondo questo testo il peccatore può ottenere il perdono mediante la preghiera. La preghiera dei fratell1 e del peccatore stesso riconciliano l'uomo con Dio. La preghiera

è s icur a dell' esaudimento, perché Cristo

stesso è intercessore presso il Padre. La preghiera del cristiano è una pre­ ghiera in unione con Cristo, perciò ha la forza di comunicare nuovamente la vita al peccatore. Poiché alta preghiera compete questo valore salvifico, tutti i membri della Chiesa devono pregare per un fratello peccatore. Da questa ammonizione Giovanni vuole eccettuare soltanto un caso. Se uno commette un peccato per la morte, allora per la comunità non c'è alcun obbligo di implorare da Dio lui, a tale preghiera

non

il perdono per esso. Se tuttavia si prega per

può essere promesso

un

sicuro esaudimento,

perché all'uomo, che pecca per la marre, manca il presupposto per l'esau­ dimento della preghiera. Che cosa intende Giovanni con peccato per la morte? Che cosa intende per vita? Per vita intende l'unione con Cristo nella fede e nell'amore ; unione che nella vita terrena

è nascosta, ma sarà

concessa un giorno in forma svelata al credente : dopo la morte. La morte, che è in opposizione a questa vita,

è la soppressione dell'unione

con Cristo e conseguentemente dell'unione con Dio a causa della incre­ dulità e del rigetto radicale dei comandamenti divini. La defezione da Cristo opera subito la morte, ma la sua terribilità si rivela soltanto nella morte eterna, che incomincia al di là della morte corporale. La morte eterna è la morte in senso pieno. A questo stato di morte definitiva si riferisce l'espressione

«

peccato per la morte

».

Secondo Giovanni peccato

§ 303.

L 'INFERNO. SUA REALTÀ

43 1

per la morte non è quindi ogni peccato grave, ma il distacco da Cristo operato dall'apostasia cosciente o dal rigetto radicale dei comandamenti. Tutti gli altri peccati possono ottenere perdono. Che tra essi siano compresi anche peccati gravi, lo si vede dal fatto che mediante l'intercessione dei fra­ telli dev'essere data la vita al peccatore, il quale quindi l'ha persa apparen­ temente, ma non definitivamente, perché ha conservato la fede in Cristo. Chi invece commette un peccato per la morte è sulla strada della morte eterna e per la sua impenitenza si esclude dalla salvezza. Giovanni non proibisce la preghiera per tale uomo peccatore, ma non le può promettere esaudimento, perché il peccatore non è ricettivo del perdono. La conclu­ sione normale di una tale vita è perciò l'inferno. In questo modo Giovanni chiarisce il peccato, che Cristo stesso chiama « bestemmia contro lo Spi­ rito Santo » . Esiste quindi un peccato eterno e perciò una morte eterna. Alla legge dell'amore, da lui instaurata nel mondo in armonia con la nuova situazione creatasi con la sua venuta, Cristo aggiunge la minaccia che i suoi sprezzatori incorreranno nella disgrazia eterna. Chi chiama empio il proprio fratello, incorre nel fuoco dell'inferno (Mr. 5, 22). Per sfuggire tale disgrazia, merita che si compia ogni sacrificio. « Chiunque scandalizza uno di questi piccoli che credono, meglio sarebbe per lui che gli fosse messa al collo una mola d'asino e fosse gettato nel mare. E se la tua mano ti scandalizza, tagliala ; è meglio per te entrare nella vira monco, che andartene con due mani nella gehenna, nel fuoco inestingui­ bile. E se è il tuo piede a scandalizzani, taglialo ; è meglio per re andare nella vita zoppo, che essere gettato con due piedi nella gehenna. E se è il tuo occhio a scandalizzarti, càvalo; è meglio per te entrare con un occhio solo nel regno di Dio, che essere gettato con due occhi nella gehenna, dove il loro venne non muore e il fuoco non si estingue » (Mc. 9, 42-48 ; cfr. Mt. 18, 8 s.). Similmente si dice in Mt. 5, 29 s. : « Se il tuo occhio destro ti scandalizza, càvalo e gettalo lontano da te : perch� è meglio per te che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo sia gettato nella gehenna. E se la tua mano destra ti scandalizza, mozzala e gettala lontano da te : perché è meglio per te che perisca uno dei tuoi membri piuttosto che tutto il tuo corpo sia gettato nella gehenna ». Per l'uomo orgoglioso è difficile piegarsi alla legge del Signore, che conduce alla beatitudine. « Entrate per la porta stretta, perché è larga la porta ed ampia la via che mena alla perdizione, e molti sono quelli che vi si incam­ minano. Quanto è stretta la porta ed angusta la via che mena alla vita, e pochi sono quelli che la trovano ! » (Mt. 7, 1 3 s.). Al giudizio si può sfug­ gire soltanto mediante la conversione per fede e non mediante opere sen-

P. II.

432 sazionali.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

« Molti mi diranno in quel giorno :

Signore, Signore, non

abbiamo profetato nel tuo nome, e nel tuo nome non abbiamo cacciato demoni, e nel tuo nome non abbiamo fatto molti miracoli? Ma allora io dichiarerò ad essi : non vi ho mai conosciuti ; allontanatevi da me, voi che commettete l'iniquità » (Mt. 7, 22 s.). Ai Giudei increduli dice (Mt. 8,

il Signore I I s.) : « Molti verranno da Oriente e da Occidente per

sedere a mensa con Abramo ed !sacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno gettati nelle tenebre di fuori : là sarà il pianto e lo stridor dei denti ». Il timore dell'inferno è un terrore dinanzi al quale spariscono tutti gli altri terrori. « Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l'anima. Temete, piuttosto, colui che può fare perire e anima e corpo nella gehenna

»

(Mt. ro,

28). Nelle parabole e nelle esemplificazioni

Cristo annunzia piu volte che dopo la morte esistono due forme di vita : una di gioia e di beatitudine e una di incompiutezza, di rormento e di disperazione (Mt. 1 3, 24-30. 47-50; Le.

1 4, 1 6-2 4 ). Nella parabola del

ricco epulone e del povero Lazzaro (Le. 1 6, 19-3 1 ) il contrasto delle due forme di vita viene espresso nel modo piu netto. L'uomo di mondo, il

è il godersi lietamente la vita, che non si cura dei poveri parti sono invertite. La sua miseria è tanto grande, che egli implora sollievo cui unico scopo

che stanno dinanzi alla sua porta, proverà che nel mondo futuro le

ai suoi tormenti dal povero che non ha conosduto in questa vita. Ma non gli si può portare aiuto. Neila parabola del banchetto nuziale, che il re prepara al proprio figlio (Mt. 22, 1 - 1 4), si racconta

è presentato senza l 'abito nuziale. Il re ha comandato :

di un ospite che si «

Legategli piedi e

mani e gettatelo nelle tenebre di fuori, là sarà il pianto e lo strider dei denti ». Le vergini stolte devono sentirsi dire :

«

Non vi conosco » (M t.

2 5 , 1 - 1 2 ; cfr. Le. 1 3, 27 s.). Del servo, che ha nascosto il suo talento, detto (Mt. 25, 30) :

«

è

Il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre, là sarà

il pianto e lo stridor dei denti ». Cfr. anche 24, 5 1 ; 1 3 , 41 s. ; 2.2, 1 3. Un'altra volta Cristo racconta la seguente parabola : Il padrone ha intra­ preso un lungo viaggio ed ha affidato la casa al suo servo. Se al ritorno lo trova vigilante, lo farà amministratore di tutti i suoi beni, « ma se è un servo malvagio che dice in cuore suo : il mio padrone tarda, e si mette a pic­ chiare i servi suoi compagni, a mangiare e bere come gli ubriaconi, drone del servo verrà nel giorno in cui quello non l'aspetta

e

il pa­

nell'ora che

quello non conosce, e lo punirà severamente, facendogli subire la sorte degli ipocriti ; là saranno il pianto e lo strider dei denti » (Mt. 24, 48-5 1 ; cfr. 1 3, 4 1 s. ; 22, 1 3). Nella previsione del giudizio finale Cristo dice :

§

303.

L'INFERNO.

SUA

REALTÀ

433

« Quando verrà il Figlio dell'uomo nella sua gloria, accompagnato da tutti gli angeli, sederà sul suo trono di gloria. Davanti a lui si radune­ ranno tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore all a sua destra e i capri a sinistra ... Allora dirà a quelli di sinistra ; andatevene lontano da me, male­ detti, nel fuoco eterno preparato al diavolo ed agli angeli suoi... E se ne andranno costoro al supplizio eterno » (Mt. 25, 3 I -33· 4 1 . 46). Per le im­

W. Bauer, Griechisch-Deutsches Worterbuch zu den Schriften des Neuen Testaments und der ubrigen urchristlichen Literatur, 4 ed. , I 9 5 2, 3 I 6. 597· magini « sinistra » e « destra » cfr. ad es.

Secondo Giovanni Dio ha mandato

il

Figlio suo affinché coloro che cre­

dono in lui non si perdano, ma abbiano la vita (Gv. 3, I 5 s. I 8 ; I o , 28). Tut­ tavia, chi non crede in lui, non può vedere la vita ; rimane su di lui l'ira di

Dio (Gv. 3, 36; 1 2, 4 8 ; 1 7 , u; 8, 2 1 -24 ; cfr. Apoc. I 4, 9- n ; 2 1 , 8 ; 20, 9 s.).

L'apostolo Paolo presenta una chiara testimonianza soltanto della pena infernale, che Cristo infliggerà al suo ritorno alla fine dei tempi. Si deve tuttavia ritenere che in sostanza ammetta le stesse pene per il tempo che sta tra la morte ed il ritorno del Signore. Egli si attende che i battezzati, che sono in Cristo Gesu, diventino partecipi della salvezza ( 1 Cor. 4, 5 ; 3, 1 5 ; 5 , 5 ; I I , 30-32; Rom. 8, I s . ) ; tuttavia tiene conto della possibilità che anche taluni di essi si perdano. Tutti i cattivi, battezzati e non battez­ zati, sono colpiti dall'ira di Dio (2 Tess. I, 2, 8 ; 5, 9 ; 9, 22 ; I Cor. 3, 1 7 ; Ef. 5 ,

7-ro;

2, 3- 1 0 ; Rom. 2, 5 ; 3, 5 ;

6; Gal. 6, 7 ; Col. 3, 6); esistono nella

tribolazione e nel tormento (2 Tess. I, 6-9 ; Rom. 2, 6-9); la loro esistenza non

è vita, ma morte (2 Cor. 2, 1 6 ; 7, ro; Rom. I, 32 ; 6, 16. 2 1 . 2 3 ;

8, 6. I 3) ; l a loro sorte è perdizione e rovina ( 2 Tess. 2 , 3 ; Rom. 9, 22 ; Fil.

r,

28 ; 3, 1 9 ; I Cor. 8, n ; Gal. 6, 8); sono esclusi dal regno di Dio

(Gal. 5, 2 I ; I Cor. 6, 9; Ef. 5, 5 ) ; sono lontani dal volto del Signore e dalla gloria della sua potenza

(2 Tess. 1 , 9 ; Rom. 3, 23). Cfr. inoltre

Ebr. I o, 26 s. Secondo la testimonianza della seconda lettera di Pietro i falsi dottori che diffondono eresie tradiscono il Signore che li ha comprati e si prepa­ rano cosi una rapida rovina (2 Piet. 2, 1 ). Nella loro cupidigia essi sfrut­ teranno con discorsi ingannevoli gli uditori, ma il giudizio non si fa atten­ _ dere, anzi è già stato pronunziato su di essi e la loro rovina non tarda. « Dio non perdonò neppure agli angeli peccatori, ma, gettatili nell'inferno, li consegnò ad abissi tenebrosi per esservi custoditi per il giudizio » (2 Piet. 2, 4· 6. 1 7 ; cfr. 3, 7· 1 6). Cfr. anche Giac. 2, 1 3 ; 3, 6 ; Giuda 7 ; Apoc. 20, r o ; 2 1 , 8 .

CAPITOLO III. DOTIRINA DEI PADRI

Nel periodo patristico regna una convinzione concorde circa il fatto dell'inferno. Tra le singole voci cmamo le seguenti :

Ignazio di Antiochia mette in guardia gli Efesini contro la seduzione delle eresie (Ad Eph., 1 6, 1-2) : « Non vi lasciate sedurre, fratelli miei : coloro che seminano la rovina nelle famiglie non erediteranno il regno di Dio. E se coloro che furono rei di tale colpa nella carne se ebbero in punizione la mone, quanto piu sarà meritevole di tale pena chi corrompe con perverse dottrine la fede di Dio, per la quale fu crocifisso Gesu Cristo? Un uomo sordido di si gravi peccati andrà nel fuoco inestinguibile, e chi l'ascolta seguirà la sua sorte ». Al giudice che lo minacciava del rogo e delle belve feroci, Policarpo rispose (Mart. Polycarp1, 10) : c Tu mi minacci di un fuoco che brucia soltanto per un momento e dopo poco si spegne; poiché non conosci il fuoco del giudizio futuro e della pena eterna che attende gli empi. Perché dunque esiti? Fa' venire quel che ti piace ». Nel cap. 2 dello stesso Marty1-ium si dice : « Benedetti ed onorevoli furono tutti i manlri, se avvennero secondo la volontà di Dio; poiché, se temiamo Dio, dobbiamo attribuirgli il potere su tuuo. Chi infatti non dovrebbe ammirare la loro (dei màrtiri) nobiltà d'animo, la loro perseveranza ed il loro amore per il Signore? Dilaniati con flagelli a tal punto che si potevano vedere fin le vene ed i vasi sanguigni nella strunura interna del loro corpo, essi resistettero; persino gli spettatori furono presi da compassione e piansero : ma essi si slanciarono ad una tale altezza di forza d'animo che nessuno di loro gridava o gemeva, e con ciò offrirono a noi tutti la prova che i màrtiri generosi di Cristo nel momento della tortura erano lontani dalla carne, o per meglio dire, che il S ignore era presso di loro e parlava loro. Rivolgendo la loro mente alla grazia di Cristo, disprezzarono i tormenti terreni e mediante le sofferenze di un momento si riscat­ tarono cosi dalla pena eterna. Il fuoco dei carnefici brutali parve loro un refrigerio, perché avevano un solo pensiero, quello di sfuggire al fuoco eterno che non si spegne mai, e con gli occhi dello spirito guardavano ai beni che sono riservati ai perseveranti » .

§ 303.

' L INFERNO.

Ireneo scrive (Adv. haer., 4, 39, 3 s.) :

SUA

«

La

REALT À

435

luce non diviene

piu debole a

motivo di coloro che accecano se stessi, ma rimane qual è; coloro che hanno accecato se stessi, giacciono per propria colpa nelle tenebre. E come la luce non porta nessuno con la forza nel

proprio potere, cosi anche

Dio non costringe

nessuno, se non vuole, ad accettare la sua ane (con cui egli trasforma l'uomo). Coloro quindi che si distolgono dalla luce del Padre e trasgrediscono la legge della libertà, apostatarono per propria colpa, poiché avevano conservato libera volontà ed autodecisione. Ma Dio, che tutto prevede, ha preparato dimore con­ venienti per gli uni e per gli altri : a coloro, che cercano la luce indefettibile e corrono dietro di essa, ha donato nella sua bontà la luce che desiderano; ma per gli altri, che la disprezzano e si distolgono da essa, che la fuggono e per cosi dire accecano se stessi, egli ha creato le tenebre che convengono ai nemici della luce. Cosi a coloro che si sono sottraui all'obbedienza verso di lui, ha imposto la pena conveniente. Ma l'obbedienza a Dio è il riposo eterno; e coloro che fug­ gono dinanzi alla luce hanno un posto che corrisponde alla loro fuga, e coloro che fuggono il riposo eterno, hanno una dimora confacente alla loro fuga. Ma poiché in Dio tutto è bontà, quelli stessi che per propria decisione fuggono Dio, si privano di tutti i beni e cadono con ciò nel giusto giudizio di Dio. Chi fugge il riposo, giustamente andrà vagando nella pena; chi fugge la luce, giustamente dimorerà nelle tenebre. Ma come coloro che fuggono questa luce temporale si affidano alle tenebre, per modo che è colpa loro se sono abbandonati dalla luce e dimorano nelle tenebre, e la luce, come si è detto, non ne ha alcuna colpa, cosi anche coloro che fuggono la luce eterna, che è Dio, e che contiene in sé ogni bene, saranno i soli colpevoli di dimorare nelle tenebre eterne, abbandonati da tutti i beni ». Nel commento a Luca (7, 205) Ambrogio dichiara :

" Non si

tratta di uno

stridore di denti corporeo di una qualsiasi specie, né di un fuoco fiamm eggiante naturale di una qualsiasi specie, e neppure il verme è di tipo naturale. Ma di essi si parla soltanto perché se uno non cuoce per cosi dire i suoi peccati con l'aggiunta di una sobria astinenza, ma mescolando peccati a peccati compone per cosi dire un miscuglio indigesto di mancanze vecchie e nuove, viene d ivorato dal proprio fuoco e dai propri vermi .. . È un fuoco, quello che genera il triste stato di peccato.

È un verme, perché i peccati irrazionali dell'anima rodono spirito e cuore del colpevole e si nutrono per cosi dire del midollo della coscienza

».

Circa la questione della durata e della natura delle pene dell'in ferno nel periodo patristico vi fu una serie di opinioni, che si scostavano dalla dottrina generale.

Origene sostenne l'opinione che le pene dell'inferno non fossero eterne. La sua dottrina

fu condannata

sembra che papa Vigilio

in

un

Concilio

particolare

abbia confermato tale

di

Costantinopoli

condanna.

(543)

e

Tuttavia le idee di

Origene avevano già trovato ampia diffusione fino a quel momento e, con talune varianti, furono sostenute anche da alcuni rinomati Padri della Chiesa (Gregorio Nisseno, Ambrogio). Tuttavia la maggioranza dei Padri avverti queste dottrine come corpi estranei e le rigettò. Verso il 420 Agostino riferiva di idee eterogenee che circolavano circa l'inferno. Gli uni credevano che tutti i peccati venissero espiati in vita, oppure dopo la morte. Altri si aspettavano la salvezza di tutti dalla intercessione dei santi :

nel

giudizio finale Dio non condannerebbe alcun uomo all'inferno eterno per tale

1'.

Il.

-

ES CATOLOGIA

INDIVIDUALE

intercessione. Un terzo gruppo era convinto che nessuno dei battezzati, neppure degli eretici, andasse perduto. Il battesimo e la partecipazione al corpo mistico di Cristo che in esso si fonda sarebbe la garanzia, accordata dalla stessa Scrittura, di vita eterna. Altri ancora limitavano la salvezza ai battezzati nella Chiesa cattolica, i quali, per quanto siano caduti nella empietà e nella idolatria, non verrebbero puniti con pene eterne, ma soltanto con pene gravi e di lunga durata. Un quinto gruppo era dell'idea che coloro, i quali perseverano nella fede cattolica, verrebbero salvati, anche se cadessero in peccati gravi. Altri insegnavano che soltanto gli spietati verrebbero condannati (De civi cate Dei, 21 , 17-22). Tali opinioni furono sostenute nell'Africa Settentrionale, nella Spagna, nelle Gallie e nell'Italia in nome della misericordia divina e tenuto conto della forza redentrice della fede di Cristo. Agostino giustamente rigettò tali concezioni dell'inferno perché comrarìe alla Scrittura. « Dopo l'ultimo giudizio gli uni non hanno piu la volontà, gli altri non hanno piu la capacità di peccare in alcun modo; non c'è piu alcuna possi­ bilità di morire. Gli uni vi vono nella vita eterna una vera vira beata, gli litri rimangono infelici nella morte eterna, senza la possibilità di morire : non c'è piu fine né per gli uni, né per gli altri... Quella morte eterna dei dannati, cioè il loro allontanamento dalla vita di Dio, durerà quindi all 'infinito, ed in ciò consi­ sterà la pena comune a rutti i dannati, checché gli uomini, guidati dai loro senti­ menti umani, possano ancora presumere di diverso circa la cessazione delle pene o circa la mitigazione o interruzione dei wr m e nri » (Bnchiridion, c. 29, I r I e I IJ). M. Richard, Enfer, io Dicrionnaire de théol. cllth., VJ 1939, 47-83. Altri testi patristici in Rouer de Journel, Enclliridion Pawisricum, Index n. 590-596. In un punto Agostino cedette ad una tendenza mite. Fino al 415 egli rigettò seccamente l'idea che le pene dell'inferno subissero una intt'rruzione, e precisa­ mente dal sabato sera fino al lunedi mattino. Tuttavia dal 421, sotto l'influsso dell'Apocalisse apocrifa di Paolo c di teologi spagnoli, egli ritenne la cosa possibile. Prudenzio ed il messale mozarabico sostengono la dottrina con alcune varianti circa il tempo della interruzione. Essa si fa sentire fino a Tommaso d'Aquino, il quale la rigetta. Tu ttavia non fu tenuta come impossibile fin nell'epoca moderna. S. Merkle, Auguscin i(ber die Unre-�·b1·echung der Hollenstrafen., in M. Grabmann­ J. Mausbach, Aurelius A rtgustinus, 1930, 197-202 e A. M. Landgraf, Dogmen­ geschichte der Frilhscho/astik, IV, 2, 1956, 203-320. Senza la rivelazione la ragione non conoscerebbe l'esistenza del l'inferno eterno; tuttavia, illuminata dalla fede, può infirmare le obiezioni mosse contro il mistero dell'inferno, e dimostrare che l'eternità dell'inferno no n è in conuaddizione con il vero concetto di Dio, in particolare con l'amore, la santità e la giustizia di Dio. Essa può svolgere questo compito penetrando e spiegando la rivelazione della natura dell'inferno.

§ 304. La natura dell'inferno.

Né la S acra Scrittura, né la tradizione orale, né il magistero ecclesia­ stico, che interpreta le due fonti di fede, offrono una descrizione sintetica dell'inferno. Tuttavia la sua natura si può dedurre della descrizione che Scrittura e tradizione danno dello stato di lontananza da Dio. In nessun caso si può tacciare la teologia cattolica di indebita curiosità, quando indaga la natura dell'inferno, poiché il meditare su di esso altro non

è se non

il tentativo dell'uomo di conoscere teologicamente se stesso fin negli ultimi abissi. Vogliamo accostarci passo passo alla sinistra realtà dell'inferno. Dob­ biamo incominciare con la constatazione che l'inferno un mistero : il mistero del peccato, perché

è

è nel suo piu intimo

l'effetto e l'esperienza del

è la pienezza dell'unione con Dio, cosf l'in­ è la pienezza del peccato. In tutti i tentativi di fare meglio com­

peccato mortale. Come il cielo ferno

prendere la natura dell' inferno, dobbiamo tenere presente il fatto che in definitiva l'inferno

è inesplicabile. Non si può parlare della pena dell'in­

ferno come si parla delle pene terrene. Gli enunciati che facciamo sull'in­ ferno hanno lo stesso carattere di tutti gli enunciati teologici, solo che noi nel caso dell'inferno ce ne rendiamo conto in modo particolarmente doloroso : il carattere della analogia. Il che significa che essi convengono

ai mali dell'inferno in un modo simile a quello con cui li usiamo a pro­ posito delle disgrazie e dei dolori che ricorrono nella nostra esperienza ; ma nello stesso tempo

è vero che l'inferno è in misura molto maggiore

dissimile che non simile alle realtà dolorose dell'esperienza, che noi com­ prendiamo e descriviamo con i nostri concetti, immagini e parole.

CAPITOLO I. L'INFERNO ED IL PECCATO MORTALE

Se l'inferno è l'effetto del peccato, per la sua conoscenza analogica è di importanza fondamentale sapere che cos'è il peccato mortale. Di questo non esiste, è vero, una definizione adeguata, anzi non può esistere, perché esso è contraddizione a Dio inconcepibile. Perciò è un mistero impene­ trabile, perché immerso nel mistero inconcepibile di Dio. Ma la Sacra Scrit­ tura mette in rilievo in esso alcuni lati, che ci aiutano a vedere ed a deli­ neare la sua natura.

l.

A.

-

IL PECCATO.

Nozioni generali. Il peccato viene descritto come partenza del figlio dalla casa del padre

(Le.

15, n-32). Il peccatore volta le spalle a Dio, lascia l'amore e la verità

per vivere lontano da Dio, nel mondo, sia nel suo piacere, sia nella sua lordura. Il peccato è anarchia, contraddizione alla volontà di Dio. La pro­ fondità di questa contraddizione appare visibile se riflettiamo che l'uomo può esistere soltanto perché è sostenuto dall'amore di Dio. Col peccato egli si ribella al suo proprio principio personale di esistenza ed abbandona in certo modo il terreno che solo lo sostiene. Col peccato l'uomo si sottrae alla sovranità di Dio ed agisce come fosse padrone assoluto di se stesso. Si arroga una indi�endenza che compete soltanto a Dio, fa di sé il centro e la misura dei suoi pensiero e delle sue aspirazioni. Trasforma, falsificandola, la sua completa dipendenza da Dio in una indipendenza completa. Perciò il peccato è menzogna. Coloro che lo commettono cadono nella schiavitu del demonio, padre della men­ zogna (Vangelo e lettere di Giovanni). Secondo Paolo il peccato è offesa

§ 304. LA NATURA DELL'INFERNO

43 9

della maestà divina ed inoltre attiva opposizione dell'uomo a Dio; del­ l'uomo che non uguaglia Dio, ma che vuole disporre di se stesso; anzi è ostilità a Dio. Poiché Dio incontra l'uomo in Cristo, l'ostilità contro Dio diventa ostilità contro Cristo. Il peccatore, non volendo sopportare il regno di Dio che viene stabilito ed annunziato in Cristo, si difende contro Dio che lo chiama in Cristo ; cerca di tenere lontano Cristo da sé. I contempo­ ranei di Cristo ponarono questo tentativo fino al punto di pronunciare la sentenza di morte su Cristo e di giustiziarlo. La tendenza ad uccidere Dio è insita in ogni peccato monale. Paolo quindi può dire che il peccatore crocifigge nuovamente Cristo. Egli compie la crocifissione di Cristo, in quanto è dominato dagli stessi sentimenti antidivini, da cui furono domi­ nati i giudici ed i carnefici di Cristo. Il peccatore insorge quindi contro il fatto che Dio esista, si scandalizza dell'esistenza di Dio e gli contesta il diritto all'esistenza. Volgendosi contro il diritto alla vita dell'essere divino, egli offende la dignità personale di Dio : il peccato appare quindi come offesa di Dio. Nella nostra esperienza quotidiana annoveriamo tra i delitti piu gravi dell'uomo il ledere non soltanto una cosa, ma il diritto alla vita di un altro. Questa lesione del diritto alla vita di un essere umano raggiunge nel peccato un vertice funesto, perché in esso viene intaccato e contestato il diritto alla vita di quell'essere che costituisce il fondamento del diritto alla vita di ogni essere creato. La contraddizione a Dio, che in Crisro chiama l'uomo, si allarga nella contraddizione alla Chiesa, corpo di Cristo, ed agli uomini uniti a Cristo, anzi ad ogni persona umana in genere. Cosi la fede ci insegna a vedere il peccato. La natura del peccato, che si può conoscere nella fede, è divenuta manifesta per mezzo di Cristo e della sua opera. Queste determinazioni convengono soltanto al peccato mortale. La Scrit­ tura conosce anche dei peccati che non costituiscono una partenza dalla casa del padre e quindi non distruggono l'unione con Dio. Allo stesso modo in una famiglia taluni piccoli disordini e disaccordi non turbano la pace, mentre importanti e profonde diversità di opinione minano la vita fami­ liare. Cfr. IV j r , § 268. B.

Sviluppo teologico.

La teologia si è adoprata per trovare delle note ancora pm precise, al fine di distinguere il peccato mortale, quale viene sperimentato nella sua nuda deformità nella vita dell'inferno, dai peccati veniali. Poiché il valore

440

P. II.

-

ESCATOLUGIA INDIVIDUALE

dell'azione umana è determinato sia dall'oggetto che dall'intenzione del­ l'agente, si può dire che all'essenza del peccato mortale si richiede una materia grave e la piena dedizione dell'uomo all'atto contrario a Dio. Tale dedizione a sua volta implica la piena conoscenza delle cose ed un com­ pleto assenso della volontà.

I)

Contenuto dell'azione. aa) Per quanto concerne anzitutto il contenuto dell'atto umano, occorre

notare che l'uomo può peccare soltanto volgendosi alle cose di questo mondo. Non esiste un peccato sospeso nel vuoto. Anche i peccati, che noi chiamiamo puramente spirituali, avvengono nelle cose di questo mondo e con esse. Quando l'uomo volta le spalle a Dio, si rivolge alle cose di questo mondo e le adora a quel modo che dovrebbe adorare Dio; vede nel possesso, nel piacere, nel potere quei valori supremi, che il fedele ed il pio vedono in Dio. Ogni peccato è quindi abuso della creatura. Mentre l'uomo dovrebbe dirigere e plasmare il mondo nell'obbedienza a Dio,

il

peccatore se ne serve con presunzione orgogliosa ed indipendente da Dio, come se ne fosse il padrone ; lo adora come se fosse la sua divinità. La divi­ nizzazione di sé e del mondo si condizionano e sostengono a vicenda. Mediante il rappono del peccatore con le cose di questo mondo è pos­ sibile stabilire una gerarchia, una graduatoria dei peccati. Il peccato si deve misurare in base alla grandezza del valore che l'uomo lede col suo peccato. Nel complesso della creazione ogni cosa ha il suo posto, il suo grado e la sua dignità. La creazione rappresenta un ordine assiologico, ossia di valori, stabilito da Dio stesso. Le cose sono in molteplice rap­ porto tra loro. Quanto piii un oggetto od un complesso di oggetti è impor­ tante nell'insieme e per l'insieme della creazione, in ultima analisi per il regno di Dio, tanto piii la sua lesione è grave di conseguenze. In defini­ tiva, per il grado assiologico di un oggetto è determinante la forza con cui esso partecipa alla gloria di Dio e quindi la rivela e la manifesta. Dio ha manifestato se stesso in ogni cosa del mondo e quindi per ogni oggetto impegna se stesso, il suo amore e la sua potenza, la sua grandezza e la sua gloria. Entro e dietro ogni cosa creata si leva Dio come garante della sua esistenza e del suo modo di esistere. La lesione di una creatura significa perciò un colpo contro Dio, una offesa di Dio. Il rapporto delle creature col Padre passa attraverso Cristo, capo della creazione. È la gloria, l'amore e la santità di Cristo che per l'occhio del credente rifulge attraverso la creazione. Quanto piii un oggetto è importante per il complesso della

§ 304. LA NATURA DELL ' INFERNO creazione, per la edificazione del regno di Dio, per la rivelazione ed il trionfo del dominio di Dio, tanto piu gravemente Dio viene offeso con la sua lesione e distruzione. Infatti quanto maggiore è la forza con cui un oggetto fa apparire nel mondo la gloria di Dio, tanto piu fortemente e vivamente Dio fa appello all'uomo, quando gli affida tale oggetto, e perciò tanto maggiore è la responsabilità dell'uomo per esso, tanto mag­ gior peso ha quindi anche la disobbedienza alla chiamata di Dio, tanto piu funesto è il disordine provocato dalla lesione. Poiché i sacramenti di Dio rivelano piu chiaramente la gloria di Dio e prestano un contributo piu importante per il trionfo del regno di Dio che non le cose che servono alla vita naturale, l'oltraggio insensato dei segni sacramentali, ad

es.

del

pane eucaristico, costituisce un'offesa di Dio piu grave che non la deli­ berata distruzione di altre cose. Poiché l'uomo unito a Dio è

al di sopra

di tutte le cose che non sono persona, la sua distruzione appartiene ai pec­ cati piu gravi. E qui ancora la distruzione della vita soprannaturale è piu funesta che non la distruzione di quella naturale .

bb) Queste considerazioni sull'importanza dell'oggetto del peccato non ci portano però ancora a piena certezza. Ora infatti sorge la questione quando mai di un oggetto si possa dire che ha grande importanza per l'ordine universale. Vi risponde in certo modo la Sacra Scrittura, secondo la quale Cristo parla di peccati che non vengono perdonati né in questo, né nell'altro mondo. Secondo Cristo esiste quindi un peccato eterno.

È il

peccato contro lo Spirito Santo, cioè il peccato di chi coscientemente e di proposito rigetta Cristo, salvatore ed apportatore di salvezza inviato dal Padre nella storia. La ribellione contro Cristo appartiene quindi ai peccati che condannano l'uomo all'inferno. Cfr. Mt.

1 2, 3 1 s . ; Mc. 3, 29 ; Le. 12, ro.

Quello che Cristo chiama peccato contro lo Spirito Santo, appare in Gio­ vanni come peccato per la morte. Abbiamo già detto in proposito le cose piu importanti. Sinonimo del peccato per la morte è, secondo Giovanni,

il peccato di incredulità. Nei suoi discorsi d'addio, che Giovanni riferisce dal c. 1 4 al c. 1 7 del suo Vangelo, Crisro dichiara che lo Spirito Santo, che verrà ai suoi come suo rappresentante invisibile, si presenterà come accusatore del mondo dinanzi al Padre (Gv. 1 6, 9 ). Muoverà al mondo l'accusa di essere peccatore. Il peccato del mondo inteso da Cristo è l'incre­ dulità, perché in questo contesto egli per mondo intende la società degli uomini increduli, cioè di quegli uomini che si ribellano a Cristo ed al suo messaggio, che non vogliono lasciarsi salvare da lui, ma nel loro orgoglio indipendente da Dio e senza Dio vogliono aiutarsi da soli. Questi uomini, che vivono nel rifiuto e nella ribellione contro Cristo, sono quindi

442

P. l i .

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

accusati dallo Spirito Santo dinanzi al Padre. Lo Spirito Santo è un accu­ satore inesorabile. Contro la sua accusa non c'è scappatoia; egli convince gli empi della colpa di cui li accusa dinanzi al Padre. Essi quindi devono sentire dal Padre una sentenza con cui vengono condannati. Secondo Giovanni esiste soltanto questo peccato mortale, il peccato del rigetto incredulo di Cristo. Egli conosce però anche altri peccati, ma questi sono tali che egli può dire che coloro i quali li commettono non peccano. Essi cioè non peccano in modo cosi pernicioso ( 1 Gv. 3, 9). Il peccato per la morte, il peccato quindi di incredulità, è, secondo Giovanni, il peccato radicale. Esso si manifesta nei modi piu vari. Cosi la tesi dell'Apostolo, secondo cui esiste un solo peccato, non diviene una patente di immunità per il peccatore. Ciò che egli dice con essa è che in ogni peccato grave si manifesta in pratica l'incredulità contro Cristo. L'incredulità pratica ha varie forme, che noi chiamiamo peccati gravi. Ciascuna di essa non è che una manifestazione di volta in volta diversa della incredulità. Nei suoi cataloghi dei vizi l'apostolo Paolo enumera una serie di simili forme di incredulità pratica. Ne abbiamo trattato precedentemente. Secondo S. Paolo escludono dal regno di Dio l'impudicizia, l'idolatria, la bestemmia, il vizio del bere, la rissa, l'inimicizia, l'ira, l'assassinio ecc. (1 Cor. 6, 9; Ef. 5, 5; Gal. 5, 19-2 1). Nella Chiesa antica i peccati gravi nominati da Paolo erano sottoposti alla penitenza ecclesiastica. Tuttavia nei particolari regnava molta incertezza. Nella questione, che cosa sia peccato grave, la scienza teologica si è sviluppata ed ha raggiunto quelle precisazioni che si presentano oggi nella istruzione quotidiana della Chiesa. Cfr. IV ; r , § 268. 2) Intenzione. Per quanto l'oggetto sia importante, a decidere del valore salvifico del­ l'atto umano è l'intenzione. Sarebbe funesto il volere identificare peccato mortale ed importanza del contenuto dell'azione umana. Al peccato mor­ tale si giunge soltanto se al momento dell'azione l'importanza dell'oggetto è chiaramente presente alla coscienza dell'agente, se quindi egli perce­ pisce la chiamata di Dio e la rifiuta con una disobbedienza liberamente attuata. Se l'opposizione a Dio sfiora soltanto fugacemente la coscienza, oppure se l'uomo non acconsente pienamente all'atto contrario a Dio, non commette un peccato grave meritevole dell'inferno. Si dovrà però ammettere che normalmente un oggetto importante si fa sentire con tutto il suo peso alla coscienza dell'uomo e viene riconosciuto nella sua gravità e quindi la decisione viene presa con piena consapevolezza. Di fronte ad

§

304.

LA NATURA DELL'INFERNO

443

una situazione importante normalmente l'uomo viene chiamato e scosso in modo da essere costretto ad una chiara presa di posizione. Non di meno si può pensare che per la cecità del suo spirito e l'ignavia del suo cuore egli non comprenda in tutta la sua portata una situazione anche importante e quindi si decida soltanto in superficie, non nello strato piu profondo del suo io . Viceversa il completo allontanamento da Dio può avvenire anche a proposito di un oggetto non importante. Anch'esso può divenire occa­ sione per il cuore umano passionale di ribellarsi a Dio e di perdere cosi Dio. Come risultato delle nostre considerazioni circa la natura del peccato mortale, possiamo stabilire che esso è la violazione della legge di Dio in cosa importante per il trionfo del regno di Dio, fatta con libera volontà ed in piena conoscenza. Esso è quindi un allontanarsi da Dio ed un vol­ gersi alle creature in opposizione a Dio; è espressione ed attuazione della propria affermazione da parte dell'uomo in opposizione a Dio. Qui l'orgo­ glio umano può manifestarsi nell'ostinazione o nella debolezza. Anche la debolezza del cuore può indurre l'uomo ad allontanarsi da Dio, ricer­ cando solo se stesso, ed a preferire a Dio le cose da lui create. Cfr. IV / I , § § 263

e

268.

II. - L'INFERNO COME AFFERMAZIONE DI S É IN OPPOSIZIONE A DIO . l.

-

Con la morte del corpo il peccato mortale compiuto in vita, di cui

non ci si è pentiti, diventa uno stato immutabile. Chi senza pentimento muore in peccato mortale, vivrà eternamente in esso. Forse si può am­ IT'ettere che nel momento della morte Dio concede ancora una volta all'uomo la possibilità di decidersi pro o contro di lui. Questa decisione

è

definitiva. Cfr. § 30 1 , c. V . I n ogni caso subito dopo la morte il colpevole di peccato grave vede il suo stato di opposizione a Dio con una chiarezza quale non ha mai avuto durante la vita. Vede in certo modo il peccato nella sua forma pura, fin dove l'uomo è in grado di penetrare l'opposizione a Dio. Ma non si di­ stoglie piu dal peccato ; persevera in esso; rimane nella sua volontà pec­ catrice. Non smette oiu di affermarsi orgogliosamente contro Dio ; sta saldo 'Jer sempre nell'affermazione di sé in op ?osizione a Dio ; si indurisce nella sua volontà colpevole; si irrigidisce in essa. Continua quindi senza fine l' affermazione di sé contro Dio incominciata in vita. Ci si può doman­ dare se possa distogliersi dal peccato. Il peccatore naturalmente ne avrebbe

444

P. II. - ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

la possibilità metafisica, perché la libertà è inseparabile dall'uomo; tuttavia gli manca la possibilità esistenziale-psicologica, perché gli manca la grazia della conversione. L'ostinazione e l'irrigidimento, l'indurimento ed il rafforzamento nella affermazione di sé in opposizione a Dio, dopo la mone non sono causati da un nuovo atto di volontà, come se il dannato potesse dire ancora una volta :

mi libero dalla divinizzazione di me stesso, ma in realtà si decidesse

con un nuovo atto peccaminoso per l'autodivinizzazione e dicesse : non mi voglio piegare dinanzi a Dio né adorarlo in eterno. Una simile nuova decisione per una vita empia non ha piu luogo dopo la mone, ma il peccatore rimane piuttosto nella sua decisione presa durante la vita. Non sceglie nuovamente la forma di vita della empietà, ma ritiene quella che ha scelto una volta. 2.

-

In definitiva egli non può più decidersi per Dio, perché Dio non

gli dà piu alcuna grazia di conversione. Poiché il dannato è irrigidito nel suo peccato e quindi vuole vivere sempre in esso, non avverte il rifiuto della grazia della conversione come segno di mancanza di misericordia divina, perché non vuole conversione . Visto da pane di Dio, il motivo della incapacità del dannato

a

convertirsi appare come negazione della

grazia; visto da parte dell'uomo, appare come mancanza di volontà di conversione.

Al dannato è concesso di vivere nel modo che desidera :

lontano da Dio, nell'affermazione di sé in opposizione a Dio, nell'orgoglio indipendente da Dio.



-

Nella storia della teologia fu talora sostenuta l'opinione che l'affer­

mazione di sé contro Dio si sviluppi nell'inferno in odio di Dio. A favore di questa opinione sembra deporre il fatto che il peccatore dopo la morte possiede una conoscenza di sé molto piu profonda e piu vasta che non in vita, e parimenti ha una conoscenza di Dio maggiore che non nel tempo del pellegrinaggio. Possiede se stesso con una forza ed intelligenza incom­ parabilmente

maggiore che non nel corso del pellegrinaggio terreno,

perché si vede alla luce di Dio.

È vero che non può vedere Dio stesso,

ma valuta sé ed il suo peccato con la misura di Dio. Di conseguenza si ribella contro Dio necessariamente con un impegno maggiore di quanto gli sia stato possibile durante la vita terrena. Questa opinione non implica che l'uomo dopo la morte commetta nuovi peccati, ma che i suoi senti­ menti peccaminosi, per la sua situazione mutata, per la piena chiarezza del suo stato, si sviluppano nella loro forma piena e matura,

§

304.

LA NATURA DELL'INFERNO

445

Questa tesi non dev'essere scambiata con l'opinione che soltanto l'odio formale di Dio porti all'inferno. Tale dottrina è errata e perniciosa. Da essa tuttavia si differenzia l'opinione che ogni peccato mortale si sviluppi dopo la morte, con necessità psicologica, in odio di Dio, il cui germe è insito in ogni peccato mortale, ma il cui grado di intensità è diverso a seconda del peccato. 4 . Il dannato compie esattamente l'opposto dell'atteggiamento in cui vivono i beati : l'opposto dell'adorazione. Mentre il cielo è adorazione eterna, l'inferno è ribellione eterna. Per la ribellione contro Dio il dan­ nato perderà anche tutti gli altri buoni sentimenti. In particolare, poiché si ribella contro l'amore, che è Dio, sarà completamente privo dell'amore. Bernanos (Diario di un curato di campagna, Mondadori, 1 9 5 1 , 3 ed., p. 1 58) cosi descrive lo stato di privazione assoluta dell'amore : « Il piu miserabile degli uomini viventi, anche se non crede piu di amare, con­ serva ancora la possibilità di amare. Persino il nostro odio s'irradia; il demone meno torturato s'espanderebbe in quella che chiamiamo dispe­ razione, come in un luminoso, trionfale mattino. L'inferno è il non amare piu. Non amare piu suona come un'espressione familiare. Non amare piu, per un uomo vivente, significa amare meno, o amare altrove. E se questa facoltà, che ci sembra il nostro stesso essere - comprendere è ancora un modo di amare - potesse tuttavia scomparire? Non amare piu, non comprendere piu e vivere lo stesso, o prodigio ! L'errore comune a tutti è di attribuire a codeste creature abbandonate ancora qualcosa dì noi, della nostra perpetua mobilità, mentre esse sono fuori del tempo, fuori del movimento, fisse per sempre. Ahimè ! Se Dio ci conducesse per mano verso una di queste cose dolorose, anche se un tempo fosse stato l'amico piu caro, quale linguaggio le parleremmo? Certo, se un uomo vivo, un nostro simile, l'ultimo di tutti, il piu vile tra i vili, venisse gettato tale quale in codesti limbi ardenti, vorrei condividere La sua sorte, andrei a disputarlo al suo boia. Condividere la sua sorte! ... La disgrazia, l'inconce­ pibile disgrazia di quelle pietre roventi che furono degli uomini, è che non hanno piu nulla da condividere » . -

CAPITOLO Il. L'INFERNO COME LONTANANZA DA DIO

l.

-

L'INFERNO COME INCOMPIUTEZZA.

In base a queste considerazioni possiamo cercare di determinare il carat­ tere sinistro della forma di vita infernale. Se il peccato è distacco da Dio ed attaccamento disordinato alle creature, il dannato dovrà subire un du­ plice orrore : l'uno deriva dalla lontananza da Dio, l'altro dall'attacca­ mento disordinato alla creazione (poena damni, poena sensus). In questo capitolo tratteremo della lontananza da Dio. I dannati non possono e non devono vedere Dio, sono cacciati via dalla sua vicinanza, sono espulsi dall'unione con lui. Non devono provare l'amore e la verità. Ad essi è negato ciò che costituisce la somma felicità per i beati : incontro con l'amore e la verità in persona. Cosi viene descritto l'inferno nella Sacra Scrittura. I dannati vivono lontani dalla gloria del Signore. Han dovuto sentire da lui le parole : via da mel (Mt. 25, 4 1). Queste parole gravano per sempre sulla loro vita. Essi sono respinti per sempre dall'amore di Dio con forza irresistibile. Vengono quindi respinti dalla luce e dalla gioia, poiché Dio è la luce e la gioia. Conseguentemente devono vivere nelle tenebre, nel freddo e nell'oscurità. Dio non conosce i dannati (Mt. 25, 12); non vuole sapere nulla di essi. Il volto del suo amore rimane distolto da essi. Cosi al distacco dell'uomo da Dio corrisponde il distacco di Dio dall'uomo. In base alle sue esperienze terrene il peccatore potrebbe giungere a sup­ porre che la lontananza da Dio non sia uno stato del tutto insopportabile, perché durante la vita terrena non sente la contraddizione a Dio, insita nel peccato, come somma infelicità. Ma una tale « speranza » sarebbe una fatale illusione, perché durante la vita terrena l'uomo può illudersi di

§ 304. LA NATURA DELl'INFERNO

447

consolarsi della perdita di Dio godendo dei beni e valori passeggeri della terra. Nella vita terrena lo aiutano molti consolatori e consolatrici. La gloria del mondo gli può velare compiacentemente l'orrore della perdita di Dio ; tuttavia nello stato dell'inferno egli sente con terribile evidenza e con estrema chiarezza la contraddizione con Dio. Allora nulla piu gli vela il suo stato, perché nessun bene creato sta piu a sua disposizione. Anzi con la morte egli ha dovuto lasciare il mondo, che si è da lui allontanato quand'egli ne ha preso commiato. Mentre nella sua vita terrena egli lo piegava al suo proprio piacere, invece di governarlo nell'obbedienza a Dio, ora ne è lasciato solo. Perciò deve provare la lontananza senza alcun velo. Questa esperienza significa per lui un orrore senza misura, perché nella sua natura piu intima egli è ordinato a Dio. Anzi, il suo essere piu intimo porta l'impronta della sua origine àa Dio. Egli quindi è simile a Dio e perciò è attratto verso di lui. L'ordinamento del suo essere a Dio affiora nella sua coscienza e si manifesta come aspirazione a lui. L'io umano desi­ dera con tutte le fibre Dio, la verità e l'amore. Anche se nei suoi giorni terreni l'uomo si dà all'odio ed alla menzogna, e perciò il desiderio genuino del suo cuore viene seppellito, tuttavia esso prorompe nuovamente, sia pure soltanto a modo di egoismo e senza amore, in quel momento in cui gli si svelano i veri rapporti. ar. §§ 105, 125, 190. Dio ha cosi disposto, che per l'uomo esista una realizzazione della natura soltanto nella parte­ cipazione alla sua propria vita trinitaria. Cfr. § § I I 3 e 1 83 . Poiché soltanto Dio può realizzare l a natura dell'uomo e saziare i l suo desiderio, il cuore umano rimane inquieto finché non è con Dio. L'uomo sente l'unione con Dio come realizzazione della sua natura, come dimora nella casa del Padre (Gv. 1 4, 2). L'incompletezza del dannato si deve intendere sia in senso antologico che esistenziale, metafisica e psicologico. Anche il dannato rimane uomo, ma è per sempre una carcassa umana e si conosce e si esperimenta come tale. Con brama ardente egli desidera di essere liberato da questo stato e sa che soltanto Dio lo può salvare. A lui aspira con la forza del suo essere umano, pure odiandolo nello stesso tempo come colui che è il suo creatore e signore, al quale però egli non vuole piegarsi. Ha un desiderio sterile. Il dannato non realizza il desiderio dell'amore, ma quello dell'egoismo. In fondo anche nel suo desiderio egli ricerca soltanto se stesso. Rimane in eterno un immaturo e deve sentire con spirito vigile la sua propria immaturità.

P.

II.

-

ESCATOLOG I A

INDIVIDUALE

II. - L'INFERNO COME LACERAZIONE. La perdita di Dio porta quindi inquietudine, insicurezza, incompiutezza, senso di esilio nella vita umana. Nietzsche (Frohliche Wissenschaft, in Nietzsches Werke 1906, VI, 1 89 7) ha visto questo stato nella sua terri­ bilità e ne ha fatto una vibrante descrizione : « Non avete sentito di quel pazzo che in pieno giorno accese una lanterna, corse al mercato e gridava senza posa : cerco Dio ! cerco Dio ! Poiché là erano riuniti proprio molti di coloro che non credevano in Dio, egli suscitò grandi risate. " Si è mai perso? ", diceva l'uno. " Si è smarrito come un bambino? ", diceva l'altro. " Oppure si tiene nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato? ". Cosi gridavano e ridevano confusamente. Il pazzo saltò in mezzo ad essi e li trafisse col suo sguardo. " Dov'è Dio? - gridò - ve lo voglio dire! Noi l'abbiamo ucciso, voi ed io. Noi tutti siamo i suoi uccisori. Ma come l'abbiamo fatto? Come abbiamo potuto vuotare il mare? Chi ci ha dato la spugna per cancellare l'orizzonte intero? Che cosa ab­ biamo fatto, allorché abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? In che direzione si muove ora essa? Per dove ci muoviamo? Lontano da tutti i soli? Non precipi tiamo continuamente? Ed indietro, dai lati, in avanti, da tutte le parti? C'è ancora il sopra ed il sotto? Non erriamo attraverso ad un nulla infinito? Non ci assorbe il vuoto spazio? Non s'è fatto piu freddo? Non viene continuamente la notte e sempre piu notte? Non si devono accendere lucerne al mattino? ... Dio è morto : Dio rimane morto ! E noi l'abbiamo ucciso ! Come ci consoliamo, assassini di tutti gli assassini. n piu santo ed il piu potente, che il mondo abbia posseduto finora, ha perso rutto il sangue sotto i nostri coltelli, chi asciuga da noi il sangue? Con quali acque ci possiamo purificare? Quale espiazione dobbiamo celebrare, quali santi giochi dovremo inventare? La grandezza di quesw atto non è troppo grande per noi? Non dobbiamo diventare noi stessi Dio per apparire soltanto meritevoli di esso? Non ci fu mai atto piu grande, e chiunque nascerà dopo di noi, a motivo di quest'atto appartiene ad una storia piu alta di tutta la storia che fu finora ". Qui il pazzo tacque e guardò nuo­ vamente i suoi uditori : anch'essi tacevano e lo guardavano sorpresi. Infine egli gettò a terra la sua lucerna, sicché s'infranse in pezzi e si estinse. " Io giungo troppo presto - disse allora, - non sono ancora al momento giusto. Questo fatto enorme è ancora per via e cammina, non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Lampo e tuono hanno

§ 304.

LA

NATURA DELL'INFERNO

449

bisogno di tem1JO, la luce delle stelle ha bisogno di tempo, gli atti hanno bisogno di tempo, anche dopo che sono stati fatti, per essere visti ed uditi. Questo atto è per essi ancora sempre piu lontano delle stelle piu lontane, eppure l 'hanno compiuto essi stessi ! ". Si racconta ancora che lo stesso giorno il pazzo sarebbe entrato in diverse chiese e vi avrebbe intonato il suo requiem aeternam Deo. Portato fuori ed interrogato avrebbe risposto sempre e soltanto questo : " Che cosa mai sono ancora queste chiese, se non le tombe ed i sepolcri di Dio? » . L a perdita d i Dio viene quindi sentita e descritta da Nietzsche come solitudine ed insicurezza. Ciò che noi chiamiamo peccato, appare qui in chiara forma : l'uomo non vuole che Dio esista. E ne viene citato anche il movente. « Nella valle " Tomba dei serpenti " Zaratbustra incontrò il piu brutto degli uomini. " Ti conosco bene - disse con voce di bronzo, tu sei l' assassino di Dio ! Lasciami andare! Tu non sopportasti Colui che ti vedeva sempre da pane a parte, o uomo laidissirno, E tu ti vendicasti di quel testin:one! Al che il piu brutto degli uomini rispose : " ... Hai indo­ vinato come si sente chi ha ucciso Lui. Rimani ! E se vuoi proprio andar­ tene, tu, impaziente, non seguire la via che ho percorso io. La via è cat­ tiva. .. Guardati anche da me : tu bai sciolto il migliore e il peggiore dei miei enigmi, me stesso e l'azione che ho commesso. Ma egli doveva mo­ rire ! Mi vedeva con occhi che vedono tutto . Vedeva le profondità e le radici dell'uomo, tutta la sua nascosta ignominia e bruttezza... Quel Dio che vedeva tutto, anche l'uomo, quel Dio doveva morire ! L' uomo non può sopponare che un simile testimone viva » (Also sprach Zarathustra, ibid., VII, p. 382 s.). In questo passo appare visibile la abissalità dell 'inferno. La lontananza da Dio significa una contraddizione con la natura umana. Il rifiuto a Dio è un rifiuto al proprio e vero nucleo essenziale. Infatti l'uomo è immagine di Dio e può comprendersi ed affermarsi logicamente solo quando accetta se stesso da Dio come immagine di Dio. Chi si ribella a Dio, fa violenza a se stesso. Perciò il dannato vive in contraddizione con se stesso. Essa penetra nel suo intimo e viene sentita come lacerazione interna, alla quale il dannato non può mai 1JiU. sfuggire, ma la deve sopportare per sem�re. Egli deve sopportare di non giungere mai piu alla realizzazione della sua natura. Dal punto di vista psicologico l'inferno è l'esperienza dell'eterna, insopprimibile incompletezza del proprio essere, fondata sulla aversione da Dio. L'eterna incom:?iutezza significa per il dannato tormento inim­ maginabile ; ed è tanto piu terribile, perché il cuore umano è un grido verso "

".

.,

l'. li.

45 0

-

ESCATOLOGIA

INDIV IDUALE

Dio. L'uomo rimane un'opera incompiuta finché non gli sia concessa l'unione con Dio. Il desiderio ardente del dannato non può mai ptu essere soddisfatto, perché egli non può mai liberarsi dal suo atteggiamento di ostilità a Dio, perché a motivo della sua ostinazione non può mai piu rivolgersi a Dio nell'amore . Mentre possiamo designare lo stato celeste come un eterno mangiare e bere, lo star.., infernale

è eterna fame ed eterna sete. Poiché

il dannato non può giungere all'unione con Dio, deve vivere eternamente nella solitudine. Poiché non può esistere nel colloquio con l'amore, è con­ dannato alla mutezza eterna. Non ha linguaggio. Poiché non può aprirsi ad un interlocutore, si sente imprigionato.

III.

-

L'INFERNO COME DISPERAZIONE.

Già nella vita di pellegrinaggio l' uomo può cadere nella disperazione,

il conti­ di significato e di valore, da farne getto. Nella letteratura questo stato è raffigurato in I dolori del gio­ vane Werther. In modo inconcepibilmente pìu acuto la disperazione afferra se la persona amata e desiderata non gli è raggiungibile. Allora nuare a vivere gli può apparire cosi privo

colui che senza alcuna speranza viene cacciato nell'eterna glaciale solitu­ dine, alla quale il dannato

è condannato, o meglio condanna se stesso.

Con la massima forza del suo cuore il dannato aspira alla vera vita, senza poterla mai raggiungere. Perciò l'esistenza gli appare priva di significato e deve sopportare con la coscienza piu sveglia questa mancanza di senso e di speranza ; non può sottrarvisi col suicidio o col sonno ; non gli

è

accordata nessuna evasione dal tormento nello svenimento o nella pazzia. Deve sopportare una vita che non è piu vita, perché gli manca totalmente ciò che a noi sembra inseparabile dalla vita : l'amore e la speranza. Non gli manca soltanto questa o quella speranza, ma ogni speranza. Non ha futuro, ma soltanto un

presente eternamente

uguale, raccapricciante.

Quando nella vita terrena le speranze crollano una dopo l'altra, ci aggrap­ piamo continuamente ad una nuova. Se l'orizzonte del futuro torna con­ tinuamente ad oscurarsi, torniamo continuamente a rivolgerei ad un altro futuro. Al dannato tali prospettive sono precluse. Mancandogli Dio, egli deve reggersi da solo. Abbiamo già visto prece­ dentemente che la solitudine

§ So.

è per l'uomo uno stato terribile. Cfr. vol. l,

§ 304.

' LA NATURA DELL INFERNO

45 1

Pasca! (Pensieri, framm. 1 39) cosi dice in proposito : « Gli uOII!ini hanno segreto istinto, che li spinge a cercare distrazione ed occupazione nelle cose esterne, istinto che deriva dal risentimento delle loro continue miserie. E hanno un altro segreto istinto, residuo della grandezza della nostra prima natura, che fa loro comprendere come la felicità effettiva sia soltanto nel riposo, non nel tumulto. Da questi due istinti contrari si forma in loro un confuso proposito, che si nasconde al loro sguardo nel profondo del­ l'anima, e li porta a tendere al riposo attraverso l'affanno e a figurarsi sempre che la soddisfazione di cui mancano verrà, per loro, qualora, supe­ rando certe difficoltà che essi si prospettano, possano per questa via a p r irs i la porta al riposo. E cosi scorre tutta la vita. Si cerca il riposo combattendo certi ostacoli ; e, superati questi, il riposo diviene insopportabile, perché o si pensa alle miserie che si hanno, o a quelle che ci minacciano. E quand'anche ci si vedesse al sicuro da tutte le parti, la noia, di sua propria iniziati va, non mancherebbe di salire dal fondo del cuore, ove ha naturali radici, e di riempire l'animo col suo veleno. . . Di qui viene che gli uomini amano tanto il rumore ed il movim ento ; di qui viene che la prigionia è un su_?_?li z io cosi orribile ; di qui viene che il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile. E ciò che infine rende lo stato dei re piu felice (di tutti) è il fatto che sempre ci si sforza di divertirli e di procurare loro ogni sorta di p iacere . Il re è circondato da persone che non pensano ad altro se non a distrarlo ed impedirgli di pensare a se stesso. Perché se egli vi pensa, è infelice, per quanto sia re » . Il dannato fa quindi nausea e tedio a se stesso. Sente una noia insop­ prim ibil e . Deve perseverare in uno squallore ed in un vuoto insuperabili. un

IV.

-

L 'INFERNO COME SOLITUDINE.

La lontananza da Dio significa, come abbiamo visto, una solitudine terribile, da cui la compagnia di altri dannati non può liberare. Infatti, se anche i dannati hanno in comune la ribellione contro Dio, tuttavia questa si estrinseca nell'odio di tutti contro tutti. Anzi la incompletezza im pli ca ap?unto che il dannato non è p ermeato dall'amore di Dio. Con seg ue nte­ mente non è piu capace di un amore disinteressato ; non può p iu pronun­ ciare una 1Jarola di amore. Come e muto verso Dio, cosi è muto verso i comp agn i di dannazione. Anzi, ci si può chiedere se i dannati sa p p ian o in gen er e l'uno dell'altro. Forse si deve dire che nessun dannato sa se ha compagni. Nel caso che questa tesi sia giusta, la solitudine dell ' in ferno

P. II.

452

-

ESCATOLOGIA INDIVlDU ALE

sarebbe totale. Anche se sa di avere compagni di dannazione, il dannato non li conosce. Tutti sono sconosciuti per tutti. Ognuno è per ognuno un sinistro ignoto. Sono l'uno per l'altro semplici anonimi, non amici intimi. I dannati non possono piu realizzare quella forma di vita, che è essenziale all'uomo : il colloquio. Perciò nessuno riceve conforto ed incoraggiamento dall'altro. Il proverbio : il dolore diviso è dolore dimezzato, qui non ha valore. Poiché i dannati, nel caso che sappiano l'uno dell'altro, si contrap­ pongono tra loro nell'odio, non condividono il loro dolore in modo da portarlo nella reciproca partecipazione ; ma odiandosi, accrescono recipro­ camente il loro tormento. Come sul beato, dalla comunione con i beati, si riversa una felicità secondaria, cosi al dannato, dalla convivenza con ribelli ed odiatori, deriva una infelicità secondaria (nel caso che ciascuno, come s'è detto, sappia almeno che esistono compagni di dannazione). Si realizza allora in somma terribilità ciò che Hermann Resse sentiva della solitudine, senza ruttavi� la possibilità contemplata dal poeta di evadere nella sapienza. L'inferno conosce soltanto la solitudine della disperazione. « Strano camminare nella nebbia! 1 Solitario è ogni cespuglio ed ogni pietra, l nessun albero vede l'altro, l ognuno è solo. l - Pieno di amici era per me il mondo, l quando ancora la mia vita era luminosa; l ora che la nebbia scende, l nessuno piu è visibile. l - Veramente nessuno è saggio, l se non conosce l'oscurità, l che inevitabile e lieve 1 lo separa da tutti. l Strano camminare nella nebbia! l La vita è solitudine. l Nessun uomo conosce l' altro, l ognuno è solo }) (Die Gedichte, Berlino 1953, r 6 1). Cfr. anche J.-P. Sartre, Huis clos_, 1944.

V.

-

PARTECIPAZIONE DEL CORPO ALLA DANNAZIONE.

A partire dal giudizio finale il corpo umano parteciperà alla lacerazione ed al tormento dello spirito. Si ripercuoterà e si manifesterà in esso la lontananza da Dio. Come il corpo dell'uomo beato lascerà trasparire la gloria di Dio, cosi il corpo dei dannati lascerà trasparire la mancanza di Dio. Si compirà allora nel corpo ciò che in esso già era incominciato col peccato umano. Per la vita storica, che inizia con il primo uomo, vale il p rincipio che il peccato si manifesta nella malattia, nella morte ed in ogni sorta di sofferenze. Secondo la disposizione di Dio l'uomo esperimenta e prova la lontananza da Dio, che è la vita, nella soggezione alla morte ed ai mali che la preannunciano.

§

3 04.

LA NATURA DELL'INFERNO

45 3

Dobbiamo quindi am mettere che anche la lontananza da Dio nell'in­ ferno si estrinseca nel corpo umano con la fiacchezza ed il disordine, la bruttezza e deformità del corpo. Anche i dannati risorgeranno nel giorno del giudizio, ed avranno un corpo completo, non mutilato; ma, come il corpo dei glorificati è immerso nella luce, cosi il loro corpo sarà immerso nelle tenebre, per modo che essi stessi lo dovranno aborrire. Cosi il corpo accrescerà (accidentalmente) il loro tormento.

La corporeità dell'inferno, che incomincia con il giudizio finale, acuisce anche il senso della solitudine. Infatti a partire da questo giorno la crea­ zione, nel suo complesso, sarà trasfonn ata nel nuovo cielo e nella nuova terra. Perciò i dannati sentiranno il contrasto della loro esistenza corpo­ rale con la creazione trasformata in modo ancora piu terribile che non

prima della fine del mondo. Essi sanno di essere esclusi per sempre

e

senza speranza dal nuovo cielo e dall a nuova terra; non hanno accesso alla natura che li circonda, perché non hanno un modo di essere ad essa conforme. Non hanno parte alcuna col mondo, il cui lume

è il corpo glori­

ficato di Cristo, né possono ricevere da esso alcun valore ed alcun bene. Sono fuori del regno beatificante dei valori. Il loro retaggio sono le tenebre e l'orrore, per sempre e senza sosta. Come la beatitudine, cosi che l'infe­ licità raggiunge la sua forma completa nella risurrezione. Essi sentiranno nel modo piu doloroso il loro incatenamento nel corpo.

(È difficile dire

se per i dannati, dopo il ritorno di Cristo, verrà riservata una parte di mondo non trasformato).

CAPITOLO III. L'INFERNO COME PENA DEL SENSO E PENA DEL DANNO

Con queste considerazioni ci siamo già accostati al secondo aspetto della pena infernale. In primo luogo e principalmente il dannato viene inon­ dato da quella infelicità, che ha la sua fonte nella lontananza di Dio. Ma il peccato, come abbiamo visto, non è soltanto di stacco da Dio, ma anche attaccamento disordinato alle creature. Il dannato esperimenta il peccato anche sotto questo secondo as ?erto. Mentre a lui, che gli ha voi tato le spalle, Dio risponde voltandogli le spalle, il mondo, cui si è rivolto in modo disordinato, si rivolge a lui inceppandolo ed incatenandolo. Egli sperava di raggiungere nel mondo il soddisfacimento della sua sete di potere, del suo desiderio di possesso, della sua brama di prestigio e della sua avidità di piacere. Nell'inferno deve esperimentare che il mondo si rivolge a lui, ma non per soddisfare il suo desiderio, bensi per legare ed inceppare la sua vita. Si può anche dire : esso si allontana da lui, in quanto è destinato da Dio ad accordare all'uomo ciò che gli è necessario. Esso gli rifiuta il servizio, per il quale è creato. Cfr. § § 1 34 e 1 36. I teologi chiamano questa seconda pena dell 'inferno pena del senso, mentre chiamano la lontananza da Dio pena del danno. Questa distinzione corrisponde alla dottrina della Chiesa sull'inferno. Tuttavia non esistono esplicite dichiarazioni del magistero su ciò che si debba intendere per pena del senso. La maggiore parte dei teologi la spiegano come una somma di mali inflitta da Dio al peccatore. Secondo essi questa pena è una pena positiva. Secondo questa spiegazione Dio condanna il peccatore a pene e tormenti, affinché in tale modo sia vendicata la violazione della legge. Queste pene non sono semplicemente l'effetto del peccato, ma si aggiungono dall' esterno per l'imperscrutabile volontà della giustizia divina. Secondo questa dot-

§ 304 . LA NATURA DELL'INFERNO

·1 5 5

trina Dio non agisce direttamente sui dannati, ma si serve di cose create come di suoi strumenti. Questo l_)rocedere di Dio corris:Jonde esattamente al procedere dell'uomo peccatore, il quale col suo peccato ha divinizzato il mondo e se ne è fatto servo ; ora deve provare ciò che significa quando il mondo tratta l'uomo come suo schiavo. L'uomo sperimenta un presen­ timento della schiavitu in cui la creazione lo incatena non ap?ena egli la divinizza e quindi le tributa l'onore che co:npete soltanto al Dio vivente, allorché la creazione si abbatte ann:entatrice su di lui, allorché il fuoco e l'acqua e il ferro estinguono la sua vita. Le sinistre possibilità che il mondo, non piu dominato ma dorr.inatore dell'uomo, possiede contro di lui, ap­ paiono con particolare orrore nelle distruzioni delle bombe atomiche. Possiamo vedere in esse una immagine ed un oreludio della schiavitu in cui cade l'uomo, quando Dio impegna contro di lui la creazione. Per comprendere la tesi della pena positiva dell'inferno, bisogna con­ siderare che essa non è una pena arbitraria inflitta da Dio, ma si fonda piuttosto sulla forma di vita dello stesso oeccatore e si avvicina quindi alla pena naturale. Infatti il peccatore, per la lacerazione che deriva dalla lontananza da Dio, è tormento a se stesso, è origioniero di se stesso, non può evadere dalla sua incompiutezza e contraddizione. In questo stato egli non conviene alla creazione trasfigurata, la quale perciò non gli offre alcuna possibilità di esistenza. Al peccatore, in conseguenza della sua situazione creata dal peccato, essa non può accordare ciò che, secondo il primitivo disegno divino, il mondo materiale deve accordare all'uomo (§ 127). Esso infatti è a lui ordinato da Dio, affinché egli lo penetri spiritualmente e lo formi con la forza della sua volontà e delle sue mani. Con ciò l'uomo si rivela come padrone della creazione, e questa è obbligata a servirlo. Tale servizio essa rifiuta al dannato. Ci si chiede se sia necessario ammettere, oltre la pena naturale, anche una particolare pena positiva, oppure se la pena naturale basti da sola a spiegare la pena del senso di cui parla la Chiesa. Dovrebbe essere giusta quest'ultima supposizione. È un solo e identico atto, che ha nello stesso tempo il carattere di pena naturale e di pena positiva. La creazione trasfigurata è in op1)osizione alla forma di esistenza del dannato, il quale non possiede piu la forma di vita caratteristica della storia umana, ma è trasformato, non però nella trasfigurazione, bensi nella defor­ mità. Poiché non può uscire dalla creazione, ma deve vivere in essa, il mondo trasfigurato, col quale è in contraddizione, costituisce un con­ tinuo ostacolo ed inceppamento della sua vita. In certo modo egli do­ vunque urta contro una realtà che lo respinge; non può muoversi libera-

P.

Il.

-

ESCATOLOGIA

INDIVIDUALE

mente, come corrisponderebbe alla volontà divina della creazione, nel mondo di Dio. E qui costituisce per lui una oppressione su_:,>plementare il fatto di non potere comprendere in definitiva le resistenze che da tutte le parti lo premono e lo paralizzano. Anzi il dannato non può spiegare la trasfigurazione, perché gli manca la fede in Cristo informata dall'amore, che dà all'uomo la retta conoscenza della esistenza della risurrezione. Tut­ tavia egli sente la estraneità del mondo incompreso che lo incalza. Poiché la trasfigurazione è prodotta dalla morte e risurrezione di Cristo, lo stato del dannato riceve un carattere cristologico negativo. Come ha rifiutato e rifiuta di riconoscere Cristo come mediatore, viene continua­ mente angustiato dalla croce di Cristo. In tale modo riceve ostacoli sia dalla natura, cioè dalla creazione che viene da Dio, sia dalla storia. In fondo non si tratta di due diversi urti contro la sua vita, ma di uno solo ; poiché si tratta della creazione caratterizzata dalla morte e dalla risurrezione di Cristo, e della quale Cristo è il capo. Il dannato non può fuggire dinanzi alle forze che lo inceppano, ma deve tenere duro, senza poter fare loro una fruttuosa resistenza. Si può dire addirittura che la croce di Cristo si estrinsechi per il dannato come una crocifissione continua, ma non come una crocifissione che rappresenta il passaggio alla trasfigurazione, bensi come una crocifissione che spinge nella disperazione senza scampo.

CAPITOLO

IV.

IMPRIGIONAMENTO AD OPERA DEL MONDO MATERIALE (IL FUOCO DELL'INFERNO)

I.

-

NOZIONI GENERALI.

Il dannato non prova soltanto l'infelicità della lontananza di Dio, ma anche le forze distruttive della creazione mobilitata contro di lui : ciò è attestato dalla Sacra Scrittura, e precisamente in tutti quei testi, in cui l'inferno viene descritto come tenebre, come pianto e stridore di denti, come verme che non muore, come fuoco che non si spegne (cfr. § 303). A prima vista il tenore della Sacra Scrittura sembra persino insinuare che Dio abbia creato da tutta l'eternità un luogo di tormento, che sta preparato per coloro che si ribellano contro di lui. lvi essi devono bruciare in un fuoco inestinguibile. Ma vedremo subito che una simile interpreta­ zione del luogo dell'inferno non si può tenere (quantunque i dannati siano legati allo spazio e quindi si debba parlare del « luogo » dell'inferno). Invece la dottrina che il dannato soffre tormenti anche dalla creazione, è attestata con certezza dalla Sacra Scrittura. Non possiamo però dire con esattezza ciò che la Sacra Scrittura intende con i diversi mezzi creati da essa citati, che Dio usa per punire il peccatore, e piu precisamente che cosa intenda con verme e con fuoco. Non si terrebbe il dovuto conto della Scrittura se intendessimo le sue parole come riproduzione diretta della realtà, senza domandarci qual è il senso della sua descrizione. Appunto la interpretazione « letterale » deve rendersi conto di ciò che le parole intendono.

P. I I . - ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

Il. A.

-

IL FUOCO DELL'INFERNO.

Il fuoco come simbolo della presenza divina. Per quanto concerne in particolare

il fuoco, secondo la Sacra Scrittura

esso è sovente simbolo della presenza di Dio. Per la sua forza luminosa ed

il suo splendore è simbolo della gloria di Dio, segno della sua grazia e del suo amore. Ma per i dolori che 1Jrocura è anche simbolo e strumento della sua ira e del suo giudizio, delle sue punizioni e castighi. La Scrittura riferisce di numerose apparizioni del fuoco, in cui si manifestano la pre­ senza salvifica e redentrice, ma anche il giudizio di Dio. Citeremo alcuni esempi. Sul monte Sinai il popolo percepi la presenza di Dio nel simbolo del fuoco.

«

Nel terzo giorno, sul fare del mattino,

tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un fortissimo suono di tromba: tutto

il popolo tremò nell'accampamenw. Mosé allora fece uscire il popolo

dall'accampamento incontro a Dio : si mantennero alle falde della mon­ tagna. Il monte Sinai era tutto fumante, poiché su di esso era sceso Jahvè sotto forma di fuoco. Il fumo saliva come fumo di fornace e il popolo tremava assai » (Es. 1 9 , r 6- r 8 ; cfr. Deut. 4,

I I s . ; 4, 1 5. 33· 36 ; 5, 4 s. ;

5, I9 s. 23). A Mosè, che sali sul monte per ricevere la Legge del patto, Dio apparve nel fuoco (Es . 24, 1 7 ; cfr. Deut. 9, 1 0. I 5 ; I o, 4 ; I 8, I 6). Allorché al Sinai venne offerto un sacrificio a Dio e Mosè ed Aronne entrarono nel tabernacolo e ne uscirono

>

(Num.

I I, I ; Sal. 7 8

[77], 2 I ). La fazione di Korach, che disputò contro Mosè e d Aronne, fu divorata dal fuoco, 250 uomini, per modo che divennero un segno (Num. 26, 9 s . ; Sal. 78 [77], 6 3 ;

1 06 [ I 05], 1 8). Quando Gedeone do­

mandò a Dio un segno, questo gli fu accordato : fuoco scoccò dalla roccia e consumò carne e pane (Giud. 6, 2 1 ; cfr. 9, 1 5).

§ 304. LA NATURA DELL'INFERNO

45 9

Nella lotta contro i Baal pagani ed i loro sacerdoti Elia volle mostrare al popolo in modo evidente la nullità degli idoli e la potenza del Dio vivente. Disse al po?olo :

«

Io solo sono rimasto come orofeta di Jahvè,

mentre i profeti di Baal sono quattrocentocinquanta ! Da remi due gio­ venchi ; loro se ne scelgano uno, lo facciano a oezzi e lo pongano sulla lqna, senza accendervi il fuoco. Io pre;>arerò l'altro giovenco senza appic­ carvi il fuoco. Voi invocherete il nome del vostro dio mentre io invocherò il nome di Jahvè. Il dio che ris?onderà con il fuoco è Dio ! Allora

il popolo

rispose : ben detto. Poi Elia disse ai !Jrofeti di Baal : scegliete vi un gio­ venco e fate voi per primi, perché siete in molti. Invocate il nome del vostro dio, ma non appiccate il fuoco. Quelli presero il giovenco, lo prepa­ rarono e invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno, dicendo : o Baal, ris ?ondici ! Nessuna voce, nessuna risposta!

E danzavano

zoppicando di fronte all'altare che avevano costruito. A mezzogiorno Elia cominciò a beffarsi di loro : gridate ohi forte. Lui

è certamente dio ; ma

forse è occupato, ba dovuto assentarsi o è in viaggio ; forse sta dormendo e deve essere svegliato ! Quelli si misero a gridare piu forte e a incidersi, alla loro maniera, con spade e lance, finché non grondarono di sangue. Passato m ezzogiorno, continuarono

a

farneticare fino al tempo dell'obla­

zione. Ma neppure una voce ; nessuno che rispondesse o prestasse atten­ zione ! Allora Elia disse a tutto

il popolo : accostatevi a me! Tutto il popolo

si accostò a lui ed egli rimise in piedi l'altare di Jahvè, che era stato demo­ lito. Quindi Elia prese dodici pietre, secondo il numero delle tribu dei figli di Giacobbe, cui Jahvè aveva detto : Israele sarà il tuo nome! Con le pietre edificò un altare al nome di Jahvè e costrui un fosso intorno all'al­ tare, della capacità di due sea di semente. Dispose la legna, fece a pezzi

il giovenco e lo pose sopra la legna. Poi ordinò : riempite quattro brocche di acqua, versatela sopra la vittima e sopra la legna. L'ordine fu eseguito ; poi soggiunse : ripetete la cosa. Fu fatto per la seconda volta. Continuò : per la terza volta ! Lo fecero per la terza volta. L'acqua scorreva intorno all'altare; anche il fosso fu da lui riempito di acqua. Giunto il tempo del­ l'oblazione il profeta Elia si accostò e disse : Jahvè Dio dì Abramo, di !sacco e di Israele, oggi appaia che tu sei Dio in Israele, che io sono il tuo servitore e che la tua parola ha compiuto queste cose. Esaudiscimi, o Jahvè, esaudiscimi affinché questo popolo sappia che tu sei Dio, o Jahvè, e hai permesso che il loro cuore si pervertisse. Allora cadde

il fuoco di

Jabvè, che consumò l'olocausto, la legna, le pietre e la oolvere, prosciu­ gando l'acqua del fosso. A tale vista, tutto il popolo cade con la faccia a terra, esclamando : Jahvè è Dio, Jabvè è Dio ! >> (1 Re 1 8 , 22-3 9 ). Il sal-

P.

mista prega (SaL

II.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

1 1 [Io J, 6) :

«

Fa piovere sui peccatori carboni ardenti,

>> (cfr. SaL 97 [96], 3). Anche nel Nuovo Testamento Dio si rivela nel fuoco. Quando

e zolfo e turbine fiammeggiante è porzione della loro coppa lo Spirito Santo discese sui discepoli

«

videro delle lingue che parevano

di fuoco, dividersi e posarsi su ciascuno di loro » (Atti

2, 3).

B. Il termine fuoco come designazione del giudizio e dell'amore. Il termine fuoco viene usato sovente come espressione figurata sia per l'ira ed il giudizio, sia anche per la gelosia e l'amore di Dio. Citiamo come

1 2, 22 s. ; 2 Sam. 22, 1 1 . 1 4 ; 66, 1 5 s. ; Ger. 4, 4; 5, 1 4 ; Lam. I , 1 3 ; Ez. 38, 1 9 ; Nah. r , 6 ; 1 2, 49 s . ; Ebr. 1 2, 29 ; Apoc. 1 , 1 4 ;

esempi : Deut. 33,

8 s. ; Is. 4, 4; 26, 1 1 ; 29, 6 ; 30, 27 ; 1 1 , 1 6 ; 1 5, 1 4 ; 1 7, 4i 2 1 , 1 2 ; 2 3, 29 ; Sof. 1, r 8 ; Mt. 3, I I ; Le. 3, 1 6 ; 14, 9-1 1 . S e esaminiamo e giudi­

chiamo i testi dell'Antico Testamento e del Nuovo Testamento qui citati giungiamo al risultato seguente :

Dio stesso nella Sacra Scrittura viene

descritto come fuoco divoratore. Il suo giudizio è una fornace piena di brace ardente, un crogiuolo per gli empi. La sua parola brucia come fuoco. Il lieto annunzio, il messaggio dell'amore di Dio, è come

un

tizzone

gettato dal cielo ; separa gli uomini . Per gli increduli esso diventa, contro la loro intenzione, giudizio. Il fuoco viene usato pure come designazione figurata delle passioni umane, della litigiosità, dell'empietà ed anche delle tribolazioni, delle prove, dei dolori che derivano dal peccato oppure sono inviati da Dio. Secondo la Sacra Scrittura il fenomeno naturale, che noi designiamo con il termine fuoco, è quindi un simbolo di Dio. Parimenti il termine fuoco viene usato con significato simbolico per l'amore ed il giudizio di Dio. C.

La realtà del fuoco infernale. a) Sorge ora la questione del senso in cui viene usato il termine fuoco,

quando si parla del fuoco dell'inferno. A tutta prima si potrebbe essere propensi ad intendere anche qui il termine fuoco in modo simbolico. Tale interpretazione torna particolarmente logica per quei testi

in cui il fuoco

che non si spegne viene abbinato al verme che non muore. Questa com­ binazione risale ad Isaia

(66, 24). Quando Cristo la usa per descrivere la

forma di vita dell'inferno, si serve

di

un testo che è noto ai suoi uditori

per averlo trovato nel profeta Isaia, cita quindi un testo familiare ai contem­ poranei. La sua descrizione e la sua minaccia degli orrori dell'inferno si con­ cretizza in un termine noto agli uditori, in una immagine di quel tempo.

§ 304.

LA NATURA DELL ' I N F ERNO

L'opinione secondo cui il termine fuoco, nei passi in cui viene abbinato al termine verme, non si dovrebbe intendere in senso letterale ma figu­ rato, potrebbe richiamarsi al fatto, che in una diversa interpretazione anche il termine verme dovrebbe essere inteso in senso letterale, cosa evidente­ mente impossibile. Si potrebbe aggiungere in favore di tale opinione che la descrizione dell'inferno con espressioni figurate in bocca a Cristo non è cosa che debba sorprendere dato che egli parla con immagini e parabole anche del regno di Dio. Inoltre nel suo messaggio sull'inferno egli si serve anche altrove di un linguaggio figurato, come quando parla di pianto e stridore di denti, per designare la furia e la disperazione, l'afflizione e la mancanza di speranza dei dannati. Si comprende quindi come nell'antichità cristiana alcuni scrittori eccle­ siastici e Padri della Chiesa di gran nome, Origene, Teofilatto e talora Gregorio Nisseno, Ambrogio, Gerolamo ed Agostino, abbiano inteso i termini verme e fuoco, usati dalla Scrittura per descrivere l'inferno, come una immagine del rimorso di coscienza e dell'afflizione dei dannati. Questa interpretazione fu sostenuta nel sec.

XVI dal domenicano Ambrogio Cata­ Dict. de Théol. Cath., V, 22 1 3 ss.). Lo seguirono con varie attenuazioni anche alcuni teologi. posteriori (ad es. Mohler, K l ee, Het­ rino (cfr.

tinger), per i quali i passi che possono essere intesi soltanto in senso metaforico, proiettano luce su quelli in cui la cosa non è cosi manifesta, e la serietà del messaggio di Gesu circa il fuoco infernale non viene pregiu­ dicata da simile modo di intenderlo. Secondo questa opinione, soltanto il fuoco è atto a chiarire all 'uomo gli orrori delle torture e dei tormenti della forma di vita infernale. Ai discepoli, che sentivano le parole del Signore,

in base alla loro conoscenza dell'Antico Testamento, sarebbe tornata facile una comprensione metaforica. In particolare potevano ricordare il testo di Isaia (4 7,

r 4)

:

«

Gli empi sono come stoppia, il fuoco li consuma

menti poteva presentarsi al loro spirito un testo di Ecc! i. ( 2 r , come stoppa ammassata ; una fiammata è la loro fine

9) :

».

Pari­

«

Sono

».

b) Tuttavia una spiegazione puramente metaforica, pur sembrando avere taluni punti a suo favore ed in particolare potendo facilitare la compren­ sione dell'inferno all'uomo moderno, incline ad interpretazioni spirituali­ stiche e simboliche, non è esatta. Anzitutto Cristo ha parlato cosi spesso ed in modo cosi preciso del fuoco dell'inferno, che non si potrà vedere in esso una semplice metafora. I dannati sono puniti con un fuoco eterno, sono gettati nel lago di fuoco. Dalla frequenza e precisione con cui Cristo parla del fuoco dell'inferno risulta che è inteso un fuoco reale. In base a questi passi devono essere interpretati quei testi, in cui il termine fuoco

P. II. - ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

viene abbinato alle espressioni che sono passibili soltanto di una inter­ pretazione figurata. A favore di una interpretazione letterale del fuoco depone inoltre tutta la tradizione ecclesiastica, ad eccezione dei pochi teologi ;Jrecedentemente nominati. Ed infatti è opinio communis che si debba ammettere un fuoco reale dell'inferno. Chi abbandona questa sentenza, si allontana dalla co­ scienza generale della Chiesa; perciò il suo atto implica un rischio, una temerarietà. Cosi ad es. il Catechismo Romano (n. 94), pubblicato per incarico del Concilio di Trento, dichiara : « I teologi chiamano pena del senso questo secondo genere di pena, perché si percepisce coi sensi del corpo, come avviene dei flagelli e delle battiture o di altro piu grave sup­ plizio, tra i quali il tormento del fuoco provoca senza dubbio la piu forte sensazione di dolore » . È vero che in questo testo è intesa direttamente soltanto le pena che colpisce i dannati a partire dal giudizio finale, ma è dottrina comune dei teologi e oggetto del magistero ecclesiastico che anche gli spiriti incorporei prima della risurrezione dai morti vengono puniti mediante il fuoco. Cosi nel Catechismo cattolico del Cardinal Ga­ sparri si dice : « È teologicamente certo, quantunque non di fede, che il fuoco con cui i dannati sono tormentati nell'inferno, è fuoco reale, ossia fisico, non metaforico » (trad. it., Brescia 1 932, p. 486). È pure impor­ tante una dichiarazione della Penitenzieria del 30 aprile I 890. Un con­ fessore della diocesi di Mantova domandò come dovesse comportarsi di fronte ad un penitente che gli dichiarava di non credere nel fuoco dell'in­ ferno, ma di vedervi una metafora per i dolori dell'inferno. La risposta fu che tali penitenti dovevano essere accuratamente istruiti e, qualora per­ sistessero ostinatamente nella loro opirùone, non si dovessero assolvere. D. Il mondo del fuoco infernale. a) Tuttavia con queste constatazioni la nostra questione non è ancora risolta, poiché ora nasce il problema del modo in cui il fuoco possa influire sullo spirito separato dal corpo. Nessuna luce offre l'idea che del fuoco troviamo nell'antichità e nel Medio Evo, secondo cui sarebbe una materia, e conseguentemente l'inferno sarebbe un luogo in cui Dio fin dalla crea­ zione del mondo avrebbe acceso un fuoco che brucia continuamente, nelle cui fiamme verrebbero gettati i dannati. Una simile S?Ìegazione era pos­ sibile soltanto nella concezione antica della natura. Ma anche nel tempo in cui questa dominava, nelle spiegazioni teologiche dell'inferno veniva affermata la diversità del fuoco infernale da ogni fuoco terreno. L'antica

§ 3 04. LA NATURA DELL' INFERNO

concezione del fuoco non può piu offrire alcun aiuto per la spiegazione dell'inferno, dal momento che essa stessa è caduta. Ma comunque venga spiegata la natura del fuoco dalla scienza, la genuina spiegazione teologica dell'inferno non vi può contraddire. I teologi non contendono con la no­ zione scientifica, secondo cui il fuoco non è materia, ma un processo, un fenomeno fisico o chimico. Essi infatti per fuoco dell'inferno intendono un fuoco di tipo particolare, completamente diverso da ogni fuoco noto dalla esperienza, una cosa materiale creata da Dio, che serve a lui come stru­ mento della sua giustizia. Di che natura è quindi il fuoco infernale? Come agisce sull'anima? Come agisce sul corpo? In proposito non ci sono dichiarazioni ecclesia­ stiche, ed infatti i teologi seguono vie diverse. Per comprendere rettamente il fuoco infernale dobbiamo ricordare che tutti gli enunciati teologici hanno carattere analogico. Quando parliamo di tale fuoco intendiamo un qualcosa che è bensi simile ma nello stesso tempo molto piu dissimile d2l nostro fuoco. Per procedere oltre nella nostra questione, dobbiamo considerare gli effetti che il fuoco dispiega nel campo della nostra esperienza. Il fatto che esso investe l'uomo e lo ferisce od uccide, importa un doloroso impedimento ed incatenamento. Colui che è avvolto dal fuoco perde la capacità di muoversi. Lo stesso dobbiamo ammettere quando l 'inferno viene descritto come tormento del fuoco : si vuol dire che il dannato conduce tma vita ostacolata ed incep­ pata. Rientra nell'idea del tormento del fuoco che l'impedimento e l'incep­ pamento avviene ad opera di uno strumento materiale creato da Dio. b) Una simile spiegazione della pena infernale del fuoco è quella di Tommaso d'Aquino ed è perciò sostenuta dall'autorità del massimo dot­ tore della Chiesa. Tommaso dice : « Può sorgere il dubbio in che modo il demonio, che è incorporeo, e le anime dei dannati, prima della risurre­ zione, possano soffrire per il fuoco materiale, per cui nell'inferno soffriranno i corpi dei dannati, come dice pure il Signore in Matteo (25, 4 I) : ·· An­ date, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo ed i suoi angeli ". Non si deve pensare che le sostanze incorporee possano soffrire per il fuoco materiale in modo che la loro natura ne venga consunta od alte­ rata o comunque trasformata, come succede quaggiu dei nostri corpi cor­ ruttibili sottoposti all'azione del fuoco. Infatti le sostanze incorporee non hanno una natura materiale da poter essere trasformate sotto l'influsso di agenti fisici, e non sono neppure ricettive di forme sensibili, se non con

P.

Il.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

la ragione. Ma una simile assunzione non è penale, bensi perfeniva e dilettevole. E neppure si può dire che soffrano afflizione per il fuoco materiale a motivo di una qualche contrarietà, come soffriranno i corpi dopo la risur­ rezione, perché le sostanze incorporee non hanno organi sensibili e nep­ pure si servono di facoltà sensitive. Perciò le sostanze incorporee soffrono per il fuoco materiale a modo di un certo incatenamento. Infatti gli spiriti possono essere legati ai corpi a modo di forma, come l'anima

è legata al

corpo umano per dargli la vita, oppure anche senza esserne forma, come i necromanti per la virtli dei demoni legano gli spiriti ad immagini

o

simili cose. Tanto piu perciò gli spiriti meritevoli di dannazione possono essere legati al fuoco materiale dalla virtu divina. E questo appunto è afflizione per essi : il sapere che sono legati per punizione a cose infime. Vi sono pure delle ragioni

di convenienza c:er ammettere che gli spiriti

dannati siano p uniti mediante pene corporali. Ogni peccato infatti della crearura razionale deriva da ciò che non soggetta a Dio con l'ubbidienz� . Ma la pens

deve

è

corrispondere propor­

zionalmente alla colpa, per modo che la volontà viene afflitta dal castigo nel contrario di ciò in cui, amando, ha peccato. È quindi punizione con­ veniente per la natura razionale peccatrice che venga sottomessa a cose che le sono inferiori, cioè materiali, legata in un qualche modo ad esse. Parimenti : al peccato che viene commesso comro Dio, è dovuta non soltanto la pena del danno, ma anche la pena del senso ... La pena del senso corrisponde infatti alla colpa rispetto alla conversione inordinata al bene mutabile, cosi come la pena del danno corris)Onde alla colpa quanto alla aversione dal bene immutabile. Ma la creatura razionale, e specialmente l'anima umana, pecca rivolgendosi inordinatamente alle cose materiali.

È

quindi punizione conveniente il fatto che venga d� esse afflitta. Inoltre : se al peccato è dovuta una pena affl i ttiva, che chiamiamo pena del senso, tale pena deve provenire da ciò che può arrecare afflizione. Ora nulla arreca afflizione se non in quanto è contrario alla volontà. Ma alla volontà naturale della natura razionale non

è conrrario che essa

venga congiunta con una sostanza spirituale ; che anzi ciò è per essa di diletto e ridonda a sua perfezione, poiché

è unione di simile a simile e

di intelligibile all'intelletto. Infatti ogni sostanza spirituale è in sé intel­ ligibile. Invece è contrario alla volontà naturale della sostanza spirituale che venga sottoposta al corpo, dal quale deve essere libera secondo l'or­ dine della sua natura. Perciò è conveniente che la sostanza spirituale venga punita mediante cose materiali.

§ 304 . LA NATURA DELL'INFERNO Di qui appare pure chiaro che, benché le cose materiali di cui si legge nelle Scritture riguardo ai premi dei beati, siano intese in senso spirituale, come

è stato detto in rapporto alla promessa di cibo e di bevanda, tuttavia ai pec­

talune cose materiali, che la Scrittura minaccia come punizione

catori, si devono intendere come dette in senso fisico e per cosi dire proprio. Non

è infatti conveniente che la natura superiore venga pre­

miata mediante l' uso di quella inferiore, ma piuttosto mediante la con­ giunzione con quella superiore. Invece la natura su?eriore viene conve­ nientemente punita con l'essere abbassata all'inferiore. Tuttavia nulla impedisce che anche talune cose che si leggono nella Scrittura circa le pene dei dannati come dette in senso materiale, vengano prese come dette in senso spirituale e per cosi dire come per similitudine,

cosi come si dice in Isaia (67, 24) :

"

Il loro verme non morirà

".

Per

verme si può infatti intendere il rimorso della coscienza, dal quale gli empi saranno pure torturati. Non è infatti possibile che un verme materiale corroda una sostanza spirituale e neppure i corpi dei dannati, che saranno incorruttibili. Anche " pianto e stridore di denti " nelle sostanze spiri­ tuali può essere inteso soltanro in senso traslato, quantunque nulla impe­ disca che nei corpi dei dannati dopo la risurrezione venga inteso in senso fisico, ma in modo che con " pianto " non si intenda il versamento di lacrime - poiché da quei corpi non può a vvenire nessuno scioglimento, bensi soltanto dolore del cuore e disturbo degli occhi e del capo, come

(Summa Contra Gentiles, IV, 90). c) L'impedimento ed inceppamento imposto ai dannati, e la conseguente

avviene di solito quando si piange »

mancanza di movimento, si attuano fino alla risurrezione dai morti nel campo spirituale-psichico. L'impedimento ed inceppamento psichico signi­ ficano cecità dello spirito e paralisi delia volontà. Il dannato è cieco, perché non può vedere Dio, che è amore, con gli occhi dell'amore e quindi non lo vede bene. L'accecamento del dannato non significa che egli sia privo di qualsiasi attività spirituale. Gli rimangono quelle nozioni del mondo, che ha potuto acquistare durante la vita terrena. Gli rimane pure la chiara nozione che non potrà mai piu essere liberato dalla sua disgrazia, che Dio solo potrebbe apportargli la pienezza della vita. Egli vede a fondo la sua situazione sinistra piu chiaramente di quanto un vivente possa mai comprendere una situazione terribile. Tuttavia

è cieco perché, man­

candogli l'occhio dell'amore ed essendo quindi la sua conoscenza guidata dall'odio, non vede Dio in modo efficace come amore, ma in lui sente soltanto il Signore che ostacola il suo orgoglio. d) L'incatenamento che il dannato subisce, si attua come paralisi della

P. Il.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

volontà. Egli non è capace di alcuna decisione veramente buona, in parti­ colare di nessun atto di amore e di vero pentimento. Ogni genuina aspi­ razione religiosa è quindi spenta in lui. Egli porta ancora in sé i segni della sua origine da Dio, poiché anche il dannato è creatura di Dio e quindi partecipa in un qualche modo all'essere di Dio. Cosi pure c'è ancora anche sul dannato un raggio della gloria divina. Inoltre il dannato battezzato porta i segni di Cristo. L'immagine del Signore, che gli è stata impressa nel battesimo, nella cresima o nell'ordine, non può essere completamente cancellata. Ma egli non accoglie piu con amore nei suoi sentimenti la somiglianza con Dio e con Cristo, anzi si rivolge alla sua somiglianza con Dio e conformità a Cristo con odio ininterrotto. Col suo odio orgoglioso egli perseguita tutto ciò che gli ricorda Dio, come Dio stesso. e) Non potendosi rivolgere in alcun modo con amore a Dio, amore per­ sonale, egli è nel suo piu intimo privo di libertà esistenziale. Vedremo che il cielo significa la massima libertà, perché l'uomo nella forma di esistere celeste può fare ciò che il suo cuore brama. Viceversa la forma di vita dell'inferno è la suprema mancanza di libertà esistenziale (non metafisica). Infatti in essa l'uomo non può esplicare in alcun modo la sua natura piu intima, che a motivo della somiglianza con Dio e con Cristo è caratteriz­ zata dall'amore. In tale modo il dannato si trova in una contraddizione insopprimibile col suo proprio essere piu intimo. L'essere ed i sentimenti del dannato sono in una eterna opposizione insolubile. Al dannato, che è cieco e paralizzato, che non può saziare il desiderio piu intimo del suo cuore e la fame e la sete del suo SlJirito, è negata una vita veramente u!nana. Egli deve condurre una vita disumana. La vita dell'inferno è la morte di ogni vera umanità : ce Lo accenna la Sacra Scrit­ tura quando descrive lo stato degli indemoniati. L'inceppamento e l'incatenamento in cui il dannato deve esistere, di­ viene particolarmente acuto pel fatto che egli è rigettato, rinchiuso in se stesso, non è in rapporto con altri, deve farcela da solo. Se ciò è già insopportabile per l'uomo nella vita terrena, quando gli è ancora pem1essa una certa misura di libertà, e provoca noia e nausea, la solitudine dell'in­ ferno, in cui l'uomo deve rimanere solo con se stesso, costituisce la somma intensificazione della noia e della nausea di sé. Col giudizio finale l'inceppamento ed incatenamento afferrerà anche il corpo. Il dannato sarà legato per sempre ad un luogo determinato.

§ 304 .

III.

-

LA NATURA DELL' INFERNO

L' UOMO CARCERE DI SE STESSO?

l. - Alcuni teologi (ad es. Doms) hanno creduto di poter modificare la spiegazione del fuoco infernale risalente a S. Tommaso dicendo che l'incep­ pamento ed imprigionamento non deriva da uno strumento creato da Dio e diverso dall'uomo, ma dalla natura stessa del dannato. Spiegano il ter­ mine fuoco come rappresentazione analogica della pena, della incompiu­ tezza, della odiosità, della paralisi in cui il peccatore si troverebbe a motivo della lontananza da Dio. La perdita di Dio non sarebbe la mancanza di un qualsiasi bene, il cui possesso sarebbe meglio del non possesso, ma la mancanza di quel bene, senza il quale la vita umana subisce il laceramento piu doloroso. Il peccatore si sarebbe staccato da Dio e dovrebbe soppor­ tare il peso terribile della lontananza da Dio che ha voluta. Questa interpretazione del fuoco infernale si differenzia sostanzialmente dalla spiegazione puramente simbolica, che troviamo negli antichi Padri della Chiesa precedentemente citati ed in alcuni teologi moderni. Con la tradizione ecclesiastica essa ririene il carattere reale del fuoco infernale e lo spiega nel senso di S. Tommaso d' Aquino. Tuttavia si differenzia da questa spiegazione, in quanto nello strumento con cuì i dannati vengono imprigionati ed ostacolati non vede un mezzo creato da Dio e diverso dall'uomo, ma concepisce la stessa natura umana, e precisamente fino al giudizio finale lo spirito incorporeo, ed a partire da questo momento l'es­ sere fisico-spirituale dell'uomo, come

il mezzo mediante il quale l'io umano

si lega e si incatena. Secondo questa inter!Jretazione il termine fuoco è assai significativo per descrivere le pene infernali. Infatti i dannati espe­ rimentano i terrori e tormenti della perdita di Dio in tale misura ed inten­ sità, che soltanto il nostro fuoco ne può dare un'idea analogica. Ciò che già soffre colui che con vigile coscienza deve subire la morte per combustione, questo ed ancora inconcepibil�ente

di piu, soffre il dannato per la sua

lontananza da Dio. L'inferno è per cosf dire la sintesi e pienezza di ogni pena. Il dannato porta il fuoco in se stesso, in quanto il suo essere, per il distacco del suo io da Dio, è lacerato, schiavo, cieco e paralizzato. Egli è la sua propria fornace. I sostenitori di questa opinione affermano che la loro spiegazione farebbe comprendere piu facilmente che anche l'inferno è una manifestazione della gloria di Dio, serve alla glorificazione di Dio e realizza cosi il senso della creazione. Secondo questa spiegazione l'inferno non rappresenterebbe sem-

P

I I . - ESCATOLOG IA INDI V ID U A L E

plicemente un trionfo esterno del Dio onnipotente sui cattivi, una scon­ fitta ed umiliazione esterna dei nemici di Dio ad opera della giustizia onni­ potente e della onni:_Jotenza giusta. I cattivi non si troverebbero in uno stato in cui dovrebbero riconoscere inermi e digrignando i denti la propria inferiorità e la superiorità di Dio ; ma sarebbero piuttosto in se stessi una rivelazione della gloria divina. Il loro modo di esistere sarebbe essenzial­ mente una manifestazione dell'amore e della santità, della misericordia e della giustizia, della infinità e della perfezione di Dio. Essi glorifichereb­ bero Dio non ammettendo controvoglia la sua giustizia, ma manifestando la perfezione di Dio. Perciò non sfuggirebbero alla legge che domina tutta la creazione, alla legge per cui tutta la creazione riflette in modo infinito la gloria di Dio. Conseguentemente l'inferno sarebbe in se stesso una pro­ clamazione della gloria di Dio. Nella infelicità dei dannati apparirebbe infatti che Dio basta da solo a realizzare la natura e perciò la beatitudine dell'uomo, menrre tutto il resto è insufficiente. In ciò si rivelerebbe la incomrnensurabile perfezione di Dio ed il carattere di creatura dell'uomo e di ogni altro essere, la sua limitatezza e la sua incapacità di bastare a se stesso e di esistere senza Dio. Nello stesso tempo si rivelerebbe la sostan­ ziale bontà dell'essere creato, che per la sua origine da Dio è simile a Dio e perciò apparterrebbe a Dio e solranto in lui troverebbe completa­ mento e beatitudine, mentre senza di lui rimarrebbe incompiuto e perciò infelice. Perciò il mezzo di punizione non sarebbe altro che la qualità della bontà, che resta ed è affidata anche al peccatore. Quindi anche il dannato lascerebbe ancora trasparire la gloria divina. 2. Per valutare questa dottrina occorre dire che essa non può essere designata come opinione temeraria alla stregua della spiegazione pura­ mente simbolica del fuoco infernale, perché ritiene la dottrina tradizionale della realtà di tale fuoco. Tuttavia non sembra tenere conto di tutta la situazione. È vero che il dannato soffre della sua deformità causata dal peccato, ma non può vivere fuori del nesso della. creazione, la quale è stata ordinata all'uomo una volta per sempre dall'atto creativo di Dio. È insito nel suo senso e nella sua natura il servire all'uomo, il quale, vice­ versa, è chiamato ed obbligato da Dio a dominare il mondo materiale. Come possiamo desumere dal racconto del primo peccato e delle sue con­ seguenze, il rapporto dell'uomo col mondo è stato turbato nel modo piu profondo e pernicioso dal peccato. L'uomo, che non è piu nell'amore di Dio, non può neppure piu incontrare il mondo con amore, il che vuoi dire oggettivamente, cioè nel modo previsto nel disegno creativo di Dio, bensi -

§

304.

' LA NATURA DELL I N FERNO

solo piu nell' egoismo e nell'orgoglio. Ciò ha co:ne conseguenza che l'uomo fa violenza alla creazione. Di qui risulta ancora un rapporto della crea­ zione con l'uomo, in cui le cose non accordano piu all'uomo ciò che secondo

:] disegno di Dio gli dovrebbero accordare, perché l'uomo impedisce loro di agire, in base alle leggi poste in esse, nel senso previsto nel disegno della economia divina. Poiché l'uomo fa loro violenza, conseguentemente e necessariamente anch'esse fanno violenza all'uomo. Questo stato viene completamente mutato dalla trasfigurazione dell'uomo, la quale comporta la trasfigurazione della creazione ordinata all'uomo. Nella sua esistenza trasfigurata la creazione servirà nel modo piu alto all'uomo trasfigurato e quindi realizzerà in modo assoluto il proprio scopo. I dannati non hanno parte beatificante alla creazione trasfigurata.

Al contrario, la trasfìgura­

zione del mondo avrà per essi la conseguenza che dovranno sentirsi in esso

in modo raccapricciante come degli estranei, degli intrusi. La loro

propria deformità comporta necessariamente questa opposizione. Il mondo trasfigurato è nemico del dannato e la sua attività contro di lui non consiste nell'esercitare un'azione distruggitrice sull'uomo, simile a quella del mondo non trasfigurato entro la storia, ma nel fare sentire ai dannati la sua com­ pleta diversità e la loro propria esclusione. In tale modo la deformità del dannato stesso si congiunge al tormento che la creazione gli arreca. Cfr. tuttavia quanto detto sopra nel cap. 2, V. Come riguardo alla tesi, secondo cui Dio infligge ai dannati anche delle pene puramente positive, si può dimostrare che la

«

pena positiva

»

si

estrinseca come pena di natura, cosi contro la tesi, secondo cui lo stato del dannato sarebbe la sua propria p unizione, si può dimostrare che anche la creazione diventa per lui una pena. Riguardo la prima tesi si comprende che Dio non è un giudice arbitrario. Nei confronti della seconda tesi appare chiaro che per il suo giudizio egli impiega anche le cause seconde. In defi­ nitiva l'uso della creazione come strumento punitivo di Dio giudice si fonda sia sul fatto che Dio ha ordinato

il mondo materiale all' uomo e ne al mondo

ha affidato a questi il dominio, sia sul fatto che Dio ha assegnato

materiale un'esistenza glorificata sul modello di Cristo. Col peccato questo rapporto dell'uomo con la creazione, stabilito da Dio, viene pervertito in un senso contrario alla creazione. Nell'inferno l'uomo deve sperimentare questa assurdità che contraddice al senso della creazione e perciò a Dio. Dio stesso glie la fa sperimentare. In quanto questa esperienza ha il suo fondamento nell'azione di Dio, è pena positiva ; in quanto ha il suo fon­ damento nella deformità dell'uomo provocata dal peccato, è pena di natura. Perciò è entrambe le cose simultanèamente.

470

P. II.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

La tes1 m questione trova pochi punti di appoggio nella tradiz::l'lne; tuttavia potrebbe appellarsi alle parole di Agostino : « Quando Dio pu­ nisce i peccatori, non arreca loro alcun male, ma li abbandona ai loro proprii mali ... Quando dunque Dio castiga, non lo fa corr:e il giudice che punisce i violatori della legge, procurando loro un male da parte sua, ma cacciandoli nel male che essi stessi hanno preparato, affinché si com­ pleti cosi la somma della loro disgrazia » (Enarr. in Ps., 5, 1 0). Parimenti si potrebbero citare le parole di Ireneo : « Ed a chiunque conserva l'amore per lui, egli dona la sua comunione . Ma la comunione con Dio è luce e vita e godimento dei beni che sono presso di lui. Ma coloro che per propria decisione si staccano da lui, egli li conduce nella separazione da essi scelta. Ma la separazione da Dio è la morte, e la separazione dalla luce è tenebre, e la separazione da Dio è la perdita di tutti i beni che sono in lui. Ma coloro che per la loro apostasia hanno perso i beni citati - e con ciò hanno perso ogni bene - incorrono in ogni specie di pena, senza che Dio decreti in anticipo la punizione ; imme­ diatamente li segue la pena, in quanto vengono privati di tutti i beni. Ma poiché i beni presso Dio sono eterni e senza fine, anche la loro pena è eterna e senza fine, come pure, stante la immensità della luce, coloro che accecano se stessi o vengono accecati da altri sono privati senza fine del godimento della luce, senza che la luce li punisca con la cecità. Poiché appunto la loro cecità è la loro infelicità. Perciò anche il Signore ha detto : " Chi crede in me, non viene giudicato ·•, cioè non viene separato da Dio, perché è sempre congiunto a Dio con la fede. " Ma chi non crede - dice - è già giudicato, perché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito , cioè si è separato da Dio con decisione volontaria. " Questo è infatti il giudizio, che la luce è venuta in questo mondo e gli uomini hanno amato piu le tenebre che la luce ! Poiché chiunque fa il male, odia la luce e non giunge alla luce, affinché le sue opere non siano biasimate. Ma chi fa la volontà, giunge alla luce, affinché le sue opere diventino manifeste, poiché ha O_!)erato in Dio ·· » (Adv. hae1·., 5, 2). Ma questi passi non sono decisivi. "

3 · L'arte cristiana si è ingegnata a rappresentare le sofferenze senza speranza dei dannati, che si fondano sulla lontananza da Dio e sulla conse­ guente incompiutezza e lacerazione della natura ur:-r. ana e trascendono ogni forza di immaginazione, servendosi delle immagini offerte dalla Sacra Scrittura e dalla tradizione ecclesiastica. Sarebbe un fraintendere tali rap­ presentazioni se si considerassero in certo modo come tentativi di fedele -

§ 304. LA NATURA DELL'INFERNO

47 1

riproduzione della vita infernale e non come immagini e similitudini. Ciò che ad es. Dante e, con colori ancora piu forti e terribili, Angelo Silesio hanno detto dell'inferno, sono tentativi di dire l'indicibile, di far vedere l'invisibile. Per comprendere la forma di esistenza dell'inferno è della massima importanza il fatto che i dannati, per quanto

il loro tormento sia inimma­

ginabile, non vogliono rinunziare al loro peccato. Il dannato sa che la sua empietà è il motivo della sua pena. Tuttavia persevera con volontà ininterrotta nella sua malvagità. Sarebbe una concezione totalmente falsa dell'inferno il ritenere che un tormento, che dura centinaia e migliaia di anni, ammorbidisca

il dannato e faccia maturare in lui il desiderio di

giungere a Dio e di amare Dio. Questo desiderio sarebbe la fine dell'in­ ferno ; ma esso non spunterà nei dannato, il quale non è capace di un vero pentimento. Poiché la sua volontà di peccato, i suoi sentimenti di orgoglio, ostili a Dio, sono immutabili ed eterni, l'inferno è eterno.

CAPITOLO V. ETERNITA', ESISTENZA, UBICAZIONE DELL'INFERNO

ART. I.

-

L'ETERNITA' DELL'INFERNO

L'eternità dell'inferno viene motìvata nella teologia anche nel modo seguente. Il peccato è un'offesa infinita

di Dio e perciò, non potendo essere

punito con intensità infinita per la finitezza dell 'uomo, dev'essere punito in modo infinito nella estensione. Secondo questa opinione il peccato,

in

quanto è atto dell'uomo, è finito; ma in quanto si riferisce a Dio, è infinito. Perciò esige una punizione infinita, cioè eterna. Contro questa motivazione d ella eternità della pena dell'inferno Duns Scoto solleva l'obiezione che il peccato non può essere chiamato offesa infinita di Dio, perché l'uomo non può commettere un'offesa di tale genere. Se si vedesse la ragione della sua infinitezza nel rapporto con Dio, con uguale diritto -- dice Scoto - si potrebbe chiamare infinita ogni pena disposta da Dio, anche se non di durata infinita, in quanto appunto viene da Dio. Perciò l'inferno è eterno non perché il peccato, in quanto offesa infi­ nita di Dio, esige una pena che dura all'infinito, ma perché esso stesso dura all'infinito. L' eternità del peccato è la ragione della eternità dell'in­ ferno. Il dannato non può piu liberarsi del suo peccato. Ha orrore di se stesso, ha nausea della sua lacerazione ed incompiutezza, odia se stesso ; ma non è disposto a rinunziare alla divinizzazione di se stesso. Vorrebbe essere liberato dal tormento che la lontananza da Dio comporta, ma non vuole rinunziare ai suoi sentimenti di ostilità a Dio. Maledice la pena dell'autoidolatria, ma non l'autoidolatria stessa; non sente pentimento del­ l'offesa recata a Dio, ne maledice soltanto l'effetto.

§ 304. LA NATURA DELL'INFERNO

473

Egli ha un piacere insopprimibile nel vivere nella ribellione contro Dio. Si dovrà dire che al dannato non manca del tutto il piacere, ma per esso

È un piacere velenoso e diabolico, quello È il piacere di Satana, di poter esistere nella ribel­

non si può usare la parola gioia. in cui vive il dannato. lione.

È il piacere del rivoluzionario nihilista distruggitore.

ART. Il. - L'INFERNO E DIO

Poiché l'inferno è l'esperienza tormentosa dell'orrore provocato dalla divinizzazione che l'uomo fa di se stesso con tutta la forza del cuore, poiché quindi è conseguenza ed effetto del peccato eterno, si può dire addirittura che il peccatore si giudica e si condanna all'inferno da sé. Il modo di esistere dell'inferno lo deve subire soltanto colui che si è determinato a vivere nella empietà con il piacere della divinizzazione di sé ed il tormento della lontananza da Dio. L'inferno è in certo modo la auto­ realizzazione del peccatore ; è creato dalla creatura, non da Dio. Ogni dannato si crea l'inferno che gli spetta. Dio, come non ha creato il pec­ cato e la morte, cosi neppure causa l'irrigidimento eterno nel peccato e la conseguente infelicità. Egli non è responsabile della eterna volontà peccatrice della creatura. L'uomo porta la responsabilità del suo peccato immortale. Ciò posto, bisogna aggiungere che Dio ha parte nella pena eterna del dannato. La partecipazione di Dio alla dannazione eterna dell'uomo si può considerare sotto un duplice aspetto : anzitutto Dio non impedisce la volontà peccatrice dell'uomo di decidersi per una vita di autonomia senza Dio ; inoltre egli conserva il peccatore nel suo essere e nel suo agire. l . - Quanto al primo punto, Dio ha creato l'uomo libero. La libertà è un grande bene dell'uomo, perché gli accorda una partecipazione alla sovra­ nità di Dio. Essa conferisce all' uomo una dignità, che lo innalza al di sopra di tutte le altre creature del mondo visibile. Dio rispetta la libertà che egli stesso concede agli uomini. Non ostacola la libera decisione del­ l'uomo neppure quando questi si decide in un modo perQicioso. Proprio qui si esprime l'alta opinione che Dio ha dell'uomo libero. Dio considera e tratta l'uomo come persona maggiorenne, indipendente, responsabile di sé e del mondo, non come una macchina oppure come un bambino imma-

P.

474

Il.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

turo. Col dono della libertà Dio ba imposto all'uomo il peso della respon­ sabilità. Allorché Dio ba ideato e creato l'uomo libero, ba assunto in certo modo il rischio che il mondo venisse corrotto dalla libertà dell'uomo. Ma evidentemente egli ritenne essere meglio correre

un

simile rischio ed

affrontare un simile pericolo per la creazione, piuttosto che mancasse nella creazione il gradino piu alto, cioè la partecipazione alla sua propria sovranità. Chi volesse muovere rimproveri a Dio per il dono della libertà accordato all'uomo, chi crede di dover sostenere l'opinione essere meglio che egli esista senza libertà e quindi senza rischio e pericolo, ha dell' uomo un concetto piu basso che non Dio, desidera che egli sia come una mac­ china od un membro di una colonia di termiti. Dio, avendo creato l'uomo libero, lo chiama alla partecipazione della sua propria vita personale, ma non gli impone questa forma di vita. Egli non obbliga la creatura ad una vita che essa rifiuta. Se Dio lascia che l'uomo elegga liberamente la forma

di vita che preferisce, ciò esprime la

sua stima dell'uomo libero e quindi in definitiva il suo amore. Se ciò nonostante Dio costringesse un peccatore, quindi un uomo che con tutte le forze si difende contro l'amore di Dio, che preferisce una vita nell'autonomia radicale alla vita di unione con Dio, alla forma di vita del cielo, ciò sarebbe veramente una pena inimmaginabile. Quest'uomo non sopporterebbe di vivere in

un

ambiente che non gli si confà e che

egli non vuole, di tenere un colloquio con l'amore che egli odia. L'amore di Dio è quindi la ragione per cui Dio non impone all'uomo, contro la sua volontà, il modo di esistere celeste. 2.

-

Questa è pure la ragione per cui Dio conserva l'uomo nell'essere

e nell'agire. La creatura dovrebbe subito cessare di esistere, se non fosse piu sostenuta dalla forza creatrice

di Dio. Nessuna creatura può compiere

un'azione, se Dio non interviene. Ogni atto umano è causato da Dio. Ma, per la sua libertà, la creatura è in grado di volgersi contro Dio nel movimento causato da Dio e coinvolgente essa stessa. Quindi anche l'atteg­ giamento del dannato ostile a Dio è possibile soltanto in virru di Dio. Il dannato scorge questa situazione.

È una parte essenziale della sua pena

il sapere di poter vivere soltanto in virru di colui, contro il quale si ribella, anzi di fare assegnamento sul suo amore creatore persino per !a propria ribellione contro di lui. Questa consapevolezza costituisce una continua umiliazione del dannato, che non tollera di prostrarsi in adora­ zione dinanzi a Dio.

§ 3.

-

304.

LA NATURA DELL' INFERNO

4 75

Tenendo presente che è l'amore di Dio a rendere possibile la forma

di esistenza dell'inferno, il mistero di questo non è ancora risolto. Riman­ gono insolute due questioni :

anzitutto perché Dio, dando all'uomo la

libertà, gli dia la libertà di peccare. Per quel che riguarda questa questione,

il poter peccare non appartiene necessariamente alla libertà. Dio è la libertà personale e tuttavia non può peccare. Cristo fu l'essere piu libero, e poté non peccare. I beati del cielo vivono nello stato di somma libertà, e tut­ tavia non possono piu peccare. Rimane quindi la questione perché Dio abbia dato all'uomo la libertà in modo che possa peccare. Non è possibile dare una risposta completamente soddisfacente. Si possono tuttavia ad­ durre alcuni motivi che possono illuminare l'agire divino. Dio ha voluto evidentemente dare all'uomo ogni libertà possibile nel periodo del pelle­ grinaggio ; ha voluta dargli la libertà in tutta l'ampiezza propria alla crea­ tura. Nel periodo del pellegrinaggio l'uomo è essenzialmente determinato dal fatto di essere in via di formazione, un combattente, non un perfetto. A motivo di questa proprietà della sua esistenza, egli deve cercare nell'oscu­

rità della fede la via alla meta ; e qui può essere sviato dai beni creati, perché il bene increato è invisibile. La questione, perché Dio abbia dato all'uomo una

libertà tale da poter peccare, si trasforma cosi nell'altra, perché Dio

non abbia creato subito l'uomo nella perfezione ultima. A questa domanda non si può piu ris?ondere, se non ricordando che anche il divenire ed

il maturare, e non solo la perfezione, sono preziosi agli occhi di Dio. In secondo luogo : perché al peccatore defumo Dio non dà la grazia della conversione? Senza distruggerne la libertà, egli lo potrebbe illuminare e trasformare

in modo che l'uomo rinunzi al suo orgoglio e si prostri in

adorazione dinanzi a lui. Perché Dio rifiuti una simile grazia, in definitiva non sappiamo. Riguardo a questa difficilissima questione circa l'inferno possiamo tuttavia dire che non dobbiamo staccare l'amore di Dio dalla sua santità e giustizia. Esso, anzi, è un amore configurato e formato dalla santità e giustizia, dalla verità. In questo amore determinato dalla sua san­ tità, verità e giustizia, Dio cerca di realizzare in ogni caso il suo regno nella creazione. Con serietà ultima ed inesorabile l'uomo ha la resTJonsabilità che il regno di Dio, cioè il regno del bene, della verità e dell'amore, possa trionfare in lui stesso e quindi nel mondo. A questo obbligo ed a questa responsabilità dell'uomo l'inferno dà un'ultima sanzione. Anche nei dannati trionfa il regno di Dio; anche in essi regna, come abbiamo visto, l'amore, e precisamente l'amore che è nello stesso tempo verità e santità. Ma essi non l'accolgono nei loro sentimenti. Perciò tra il Dio che domina e la tendenza della loro volontà esiste una contraddizione abis-

P.

n.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

sale. Poiché l'amore, che è nello stesso tempo giustizia e santità, per il suo valore assoluto è padrone assoluto dell'esistenza, essi, che lo odiano come loro nemico, ne vengono legati ed imprigionati. Essi sentono la forza assoluta e sovrana di esistenza dell'amore e della verità santi e giusti, e ne esperimentano il dominio come asservimento e schiavitu. L'inferno rivela quindi il contrasto incancellabile tra bene e male, tra amore ed odio, tra verità e menzogna, tra santità ed empietà. 4 . Contro l'eternità delle pene infernali non si può obiettare che non abbia scopo, perché non può piu migliorare i puniti. Lo scopo dell'inferno non è il miglioramento, l'educazione dell'uomo, bensi la gloria di Dio, santo, misericordioso, verace e giusto. Nei dannati appare manifesto che la san­ tità e l'amore, la verità e la giustizia sono valori assoluti, e colui che non li riconosce conduce una vita indegna dell'uomo. Cosi anche nell'in­ ferno viene reso l'onore a Dio, che è la verità e l'amore, e precisamente per il fatto della sua esistenza. Mentre i beati rendono onore alla verità ed all'amore personali mediante una gioiosa adorazione, i dannati devono rendere loro l'onore mediante la manifestazione, per essi penosa, della onnipotenza della verità e dell'amore che imprigiona i menzogneri e gli odiatori. Queste considerazioni naturalmente possono essere comprese sol­ tanto da chi riconosce nella glorificazione di Dio lo scopo della creazione . Chi crede solo nel mondo ne riderà. -

ART. III.

-

IL L UOGO DELL'INFERNO

Da quanto finora esposto risulta che la questione del luogo dell'inferno passa in seconda linea. Il dannato, anche se non è piu soggetto alle leggi dello spazio e del tempo come l'uomo nella vita del pellegrinaggio, è tuttavia legato allo spazio, perché è una creatura e quindi non è onnipre­ sente. Il legame allo spazio vale sia per lo spirito incorporeo, sia per l'uomo che dopo la risurrezione esiste col corpo. Tuttavia il modo del legame allo spazio è un mistero impenetrabile. Essi sono il loro proprio spazio. Si dovrà pure dire che Dio assegna ai dannati un determinato campo di azione. Inoltre �i potrà ammettere che tutti i dannati sono legati allo stesso spazio. Tuttavia se si pone la questione, dove si trovino i dannati, non possiamo dare alcuna risposta. Non si può citare nell'universo nessun luogo determinato, che in certo modo possa essere designato come abi­ tazione dei dannati. Tutti i tentativi di fissare un determinato punto nel

§ 304 . LA NATURA DELL'INFERNO

477

cosmo o sulla terra come luogo dell'inferno, di relegare ad es. l' inferno nell'interno della terra, sono infruttuosi ; anzi, espongono al ridicolo la fede per quanto riguarda l'inferno ; perciò favoriscono piuttosto l'incredulità che non la fede. Alla fine dei tempi tutto il mondo, cielo e terra, verrà trasformato. Come la questione del cielo, cosi anche la questione dell'inferno è pie·· namente indipendente da ogni immagine del mondo. Come è impossibile presentare in certo modo una geografia o topografia dell'inferno, cosi pure è impossibile far valere contro la fede nell'inferno il fatto che, nonostante tutte le avanzate della scienza e della tecnica nello spazio universale oppure all'interno della terra o nel nucleo dell'atomo, esso non ha potuto essere scoperto e perciò non possiede realtà. Simili obiezioni disconoscono com­ pletamente la natuia dell' itLferno e sarebbero legittim.e solo se nell'in= ferno si dovesse vedere una realtà sul tipo della realtà della nostra espe­ rienza. Ma esso è sostanzialmente diverso da tutto ciò che conosciamo con l'esperienza e quindi non può essere in alcun modo assodato coi mezzi di conoscenza, coi quali cerchiamo di indagare la natura. Già il tentativo di una simile impresa dovrebbe essere bollato come ignoranza. Se ciò nonostante nella Sacra Scrittura si dice che l'inferno è in basso, si tratta di un modo di dire figurato, che deriva da una concezione fondamentale simile al modo di dire che il cielo è in alto. Come con quest'ultimo viene espressa la superiorità del cielo sulla terra, cosi con l'idea che l'inferno sia in basso se ne esprime il carattere disumano. I dannati conducono una vita sottoumana, ed infatti sono chiamati cani (Apoc. 22). Hanno perso la vera dignità umana. La questione del luogo dell'inferno è piu una questione di curiosità che di fede; ed infatti i grandi teologi hanno rinunziato a darvi risposta. Ago­ stino confessa la sua ignoranza. Gregorio Magno dichiara di non sapere nulla su questa questione. Crisostomo dice : « Non cerchiamo dov'è l'in­ ferno, ma come evirarlo » .

CAPITOLO VI. DIVERSITA' DELLE PENE INFERNALI E SIGNIFICATO SALVIFICO DELLA RIVELAZIONE DELL'INFERNO

l . Le pene dei dannati sono diverse, e dipendono dalla misura del pec­ cato, dalla intensità dell'orgoglio ostile a Dio. Quanto maggiore è la deci­ sione con cui l'uomo si volge contro Dio, tanto piu tormentosa egli dovrà sentire la lontananza da lui (Mt. Io, 1 5 ; 1 6, 27 ; I I , 2 1 s. ; 2 Cor. 5, 1 0 ; Apoc. 1 8, 7). -

2. - Circa la rivelazione di Cristo riguardo all'inferno si può dire conclu­ dendo che anch'essa è un messaggio dell'amore di Dio. Dio ci mette in guardia contro lo stato, cui va incontro chi muore in peccato mortale. Dio non pensa a preci?itare l'uomo nell'inferno, ma a salvarlo. Egli ha dimostrato la serietà della sua volontà di salvezza nella morte del Figlio suo, nella quale il suo amore salvifico è divenuto credibile in modo asso­ luto nonostante tutte le delusioni dell'uomo. Tutte le descrizioni dell'in­ ferno, secondo le quali Dio in certo modo spia e fa di tutto per rovinare l'uomo e frustra con astuzia i temativi dell'uomo debole di raggiungere la santità e la beatitudine, sono bestemmie contro Dio e corrispondono ad un'idea pagana, non cristiana, di Dio. Se rispondessero a verità, non si potrebbe confutare il rimprovero secondo cui la dottrina dell'inferno è monosatanismo (Eduard von Harunann). La rivelazione dell'inferno è un invito dell'amore a !asciarci salvare da questa forma di vita. Perciò colui che crede nella rivelazione dell'inferno, non vive nella paura e nel terrore, bensi nella fiducia e nell'amore. Pur diffidando della sua debolezza, egli pone una fiducia incondizionata nel­ l'amore di Dio; anzi, ha la promessa che nessun potere né in terra, né al di là della terra, lo può staccare dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesu, nostro Signore (Rom. 8, 38 s.). Egli è sottratto da Cristo al giudizio. Contro

§ 30 4.

LA

NATURA DELL'INFERNO

479

coloro che credono in Cristo nessun accusatore comparirà dinanzi al Padre. Cristo non lo querelerà, poiché è il salvatore (Rom. 8, 34) . Lo Spirito Santo, che viene mandato da Cristo nel mondo come accusatore contro gli empi, non lo querelerà, perché egli non appartiene agli empi (Gv. 1 6, 8-1 I). Perciò egli non verrà neppure condannato. Secondo la Sacra Scrittura colui che con fede viva si è rimesso a Cristo, è sottratto agli orrori dell'in­ ferno (ad es. Le. 1 6, 9 ; 23, 43 ; 2 Cor. 5, 8 ; Fil. I , 2 3 ; Ebr. 1 2, 22). La rivelazione dell'inferno gli mostra quanto è terribile il giudizio in cui era incorso, e quanto grande è la misericordia di Dio che lo salva (Rom. 3, 2 1 ). Di fronte all'inferno, anzi proprio di fronte al suo orrore, egli può quindi dire a Dio la sua lode ed il suo ringraziamento. Nelle sue lettere l'apostolo Paolo si eleva continuamente alla lode della grazia salva­ trice di Dio. Per la dottrina deila Scrittura circa la natura ed il luogo dell'inferno cfr. in particolare H. L. Strack-P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch. Vol. IV : Exkurse zu einselnen Stellen des Neuen Testaments. A bhandlungen zur neutesta­ mentlichen Theologie und Archiiologie, Miinchen 1 9 29, p. II : Scheol, Gehinnom und Gan Eden, 1 0 1 6-1 1 65.

§ 305. La purificazione dopo la morte. Sua realtà.

CAPITOLO I. OSSERVAZIONE PRELIMINARE E DOTTRINA DELLA CIDESA

I

.

- La morte reca la decisione ultima e definitiva : non compimento,

imperfezione (inferno) per l'uomo staccato da Dio, oppure compimento, perfezione (cielo) per l'uomo unito a Dio. Abbiamo già visto come questa vita celeste, che si inizia con la morte, pure non essendo piu minacciata e perciò non costituendo uno stato provvisorio, tuttavia è soltanto

un

pre­

ludio, perché alla sua pienezza è richiesta la trasfigurazione del corpo. Ma anche nel preludio della vita celeste l'uomo unito a Dio non può entrare senz'altro dopo la morte. Si può pensare che subisca ancora una dilazione per difetti morali-religiosi, perché soltanto coloro che sono infiammati dall'amore di Dio fin nello strato piu intimo e profondo della loro natura, sono capaci di quella unione con Dio che chiamiamo cielo. Tra le migliaia di persone che ogni giorno compiono il passo dal tempo all'eternità, sol­ tanto pochi saranno quelli che sono permeati di Dio fino nelle uJtime fibre della loro vita e del loro essere, nei quali quindi il regno di Dio ha trion­ fato in modo perfetto. Gli uomini, nella gran maggioranza, anche se lasciano la vita nell'atteggiamento di dedizione a Dio, saranno ricoperti di difetti e di macchie ; nella maggioranza il pieno dominio di Dio sarà ancora ostacolato dall'orgoglio. Essi pe1ciò hanno bisogno di una purifi­ cazione, che non si compie necessariamente in modo completo già per mezzo della morte. Questi uomini quindi non sono degni né capaci di

(Symbolik, p. 32) in uno stato che corrisponde alla loro

quella forma somma di unione con Dio . A. Mohler dice che questi uomini

«

entrano

vita spirituale ancora difettosa dal punto di vista religioso-morale

».

Dio h a aperto la possibilità di compiere un processo di purificazione dopo la morte. L'offerta di questa possibilità costituisce una grande grazia, senza la quale l'uomo dovrebbe irrigidirsi per sempre nello stato in cui termina la propria vita. Nel suo amore Dio gli ha offerto ancora una possi­ bilità di sviluppo dopo la morte, che nel linguaggio ecclesiastico è chia-

§ 305. LA PURIFICAZIONE DOPO MORTE. SUA REALTÀ mata purgatorio, parola latina, in cui sta in primo piano

481

il pensiero della

purificazione, mentre manca l'idea del fuoco che è sottolineata invece in altre lingue (ad es. in tedesco Meglio forse

=

Fegfeuer) e che può creare facili malintesi.

è parlare del luogo di purificazione, oppure del processo di

purificazione dopo la morte. Divideremo la trattazione di questo argomento in tre parti. Anzitutto si dimostrerà la realtà di un processo di purificazione concesso benigna­ mente da Dio; poi se ne discuterà la natura; infine si parlerà dei nostri rapporti con gli uomini che passano attraverso al processo di purificazione. Nel dimostrare la realtà del purgatorio la dottrina dei Padri costituisce l'argomento principale. 2.

-

Esiste un purgatorio, cioè uno stato di pena e di purificazione, in

cui le anime, che hanno ancora peccati veniali o pene temporali da scon­ tare per i peccati, vengono purificate (dogma di fede). Nel Concilio II di Lione (1 274) la Chiesa orientale, per bocca dell'im­ peratore Michele Paleologo, ha professato la fede in uno stato di purifi­ cazione dopo la morte (Denz. 464). Nel Concilio di Firenze ( 1 439) i parla­ mentari dei Greci hanno sottoscritto la formula

:

«

Se i peccatori veramente

pentiti sono spirati nell'amore di Dio prima di avere soddisfatto per i peccati commessi e le omissioni con frutti degni di penitenza, le loro anime vengono purificate mediante pene purificative dopo la mone

»

(Denz. 693). Poiché i riformatori hanno rigettato decisamente, anzi con violenza, la dottrina del purgatorio, Calvino

fin

dall'inizio, Lutero a par­

tire dal 1 5 30, il Concilio di Trento dichiarò (Denz. 983) :

« Illuminata

dallo Spirito Santo, attingendo alla Sacra Scrittura ed all'antica trad izione dei Padri, la Chiesa cattolica nei santi concili

e

da ultimo in questo concilio

ecumenico ha insegnato che esiste uno stato di purificazione (purgatorio), e che le anime in esso ritenute sono aiutate dai suffragi dei fedeli, ma soprattutto dal sacrificio dell'altare gradito a Dio. Perciò il santo concilio prescrive ai vescovi di curare con zelo che la sana dottrina del luogo di purificazione, quale è tramandata dai santi Padri e dai concili della Chiesa, sia dai cristiani creduta, ritenuta, insegnata · e dovunque predicata. Ma nelle predicazioni popolari dinanzi alla gente incolta si escludano le que­ stioni piu difficili e sottili, che non favoriscono la edificazione e per lo piu non accrescono la divozione. Parimenti non lascino esporre e trattare cose incerte o sospette di falsità. Proibiscano come scandalo ed intoppo per i fedeli ciò che sa di curiosità o di superstizione, di turpe lucro Cfr. inoltre Denz. 5 3 0 ; 777-7 8 8 ; 998.

».

CAPITOLO Il. LA TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA, DEI PADRI E DELLA LITURGIA

ART. I.

-

LA TESTIMONIANZA DELLA S CRITTURA

Che Dio ci abbia concesso la possibilità di una purificazione oltre la morte, pure non essendo attestato esplicitamente in nessun punto della Sacra Scrittura, tuttavia vi

è spesso sufficientemente accennato. Il fatto di

una purificazione dopo la morte appartiene a quelle verità che stanno in stretto e vivo rapporto con altre realtà salvifiche, per modo che da prima non appaiono nettamente delineate nei loro contorni, ma sono involute nel comçl.esso della rivelazione e soltanto col passare del tempo ne emer­ gono chiaramente. La Chiesa, quanto piu si immerge nella rivelazione fattale da Cristo, tanto piu chiaramente vede ciò che da prima è contenuto in modo involuto nell'organismo della rivelazione, ma tuttavia esiste in piena realtà (esplicazione della rivelazione implicita).

I.

-

ANTICO TESTAMENTO.

Una simile testimonianza allusiva è già offerta dall'Antico Testamento ; il che è tanto piu notevole, in quanto l' Antico Testamento è abbastanza reticente circa la sorte dei defunti. La testimonianza è conservata nel secondo libro dei Maccabei e si trova nel racconto relativo ai caduti nella lotta contro il governatore Gorgia. Quando infatti Giuda, comandante dell'esercito, al momento della sepoltura dei soldati caduti trovò sotto i loro abiti degli idoletti, che essi contro il divieto portavano come amuleti «

fu palese a tutti il motivo per cui erano morti. Tutti, allora, benedicendo

§ 305 .

LA PURIFICAZIONE DOPO MORTE. SUA REALT À

48 3

le opere del Signore giusto che rende manifeste le cose occulte, accorsero a pregare, supplicando che il delitto commesso venisse completamente perdonato. .. Dopo aver raccolto quasi duemila dracme d'argento secondo la possibilità di ognuno, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio per il peccato. Questa fu una buona e nobile azione, perché ispi­ rata dal pensiero della risurrezione. Infatti, se non avesse sperato che coloro che erano morti sarebbero risorti, sarebbe stato superfluo e vano il pregare per i morti. Inoltre egli pensava alla magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella pietà. Santo e pio pensiero ! Perciò egli fece compiere un sacrificio espiatorio per i morti, affinché fos­ sero assolti dal peccato » (2 Mac. 1 2, 40-46). In base a questo racconto, nell' Antico Testamento negli ultimi secoli prima di Cristo, regnava la fede che dopo la morte ci fosse una liberazione dal peccato. I peccati, di cui si spera liberazione anche dopo la morte, non devono essere designati come piccoli ed insignificanti. Secondo il racconto del libro dei Maccabei, nel sacrificio della vita si vide una ragione per tranquillizzarsi piu facilmente circa le precedenti mancanze dei sol­ dati caduti. La loro morte venne considerata per cosi dire una ritrattazione del loro peccato, per modo che si poteva sperare dalla misericordia di Dio la loro salvezza dalla perdizione. Si poté cosi confidare di poter venire in aiuto ai defunti con la preghiera ed il sacrificio. Anche in Eccli. 7, 33 è attestato un sacrificio di espiazione per i defunti. (Invece il passo di Tob. 4, 17 si deve intendere di un banchetto funebre in aiuto ed a conso­ lazione dei superstiti).

II.

-

NUOVO TESTAMENTO.

Questa fede si è conservata fino ai tempi di Cristo ed apparteneva al patrimonio comune dei fedeli. Non c'era perciò motivo che Cristo met­ tesse in particolare rilievo il fatto di una purificazione nell'al di là. Infatti egli non aveva da Dio il mandato di parlare di tutte le questioni della salvezza, poiché non doveva abrogare, ma completare la legge dell'Antico Testamento. La conoscenza di una purificazione nell'al di là apparteneva alle cose che egli poteva presupporre e non c'era bisogno che le comu­ nicasse per la prima volta. Poteva fondarsi su di esse, per annunziare nuove verità. A queste verità apparteneva la rivelazione del peccato contro lo Spirito Santo, col quale si dovrà intendere il rigetto cosciente di Cristo e della

P. II

sua opera

-

ESCI\TOLOGIA INDIV IDUALE

(B. Poschmann, Paenitentia secunda, 1 940). Ora di esso Cristo I 2, 32;

ha detto che non sarà rimesso né in questo, né nell'altro mondo (Mt.

cfr. Mc. 3, 29 ; Le. 1 2, I o). Da queste parole del Signore si dovrà conclu­ dere l'esistenza di peccati, che possono essere rimessi nell'altro mondo. Con molta probabilità si può ritenere che a questo abbiano pensato gli uditori contemporanei di Cristo, cui erano familiari i fatti del secondo libro dei Maccabei. Nella stessa direzione indica forse un'altra frase del Signore riferita da Matteo (5, 25 s . ; cfr . Le. 1 2 ,

58 s.). Cristo parla di una prigione dalla

quale nessuno esce, prima che il debito sia pagato sino all'ultimo centesimo. L'apostolo Paolo si muove nell'atmosfera delineata da queste parole del Signore, quando nella prima lettera

ai Corinti scrive (3, I I - 1 5 ) : « Nessuno

può porre un altro fondamento, oltre quello che vi sra di già ; e questo è Gesu Cristo. Ora, se si costruisce su questo fondamento con oro, argento, pietre preziose, legname, fieno, stoppia, l'opera di ognuno si renderà manifesta. Il giorno del giudizio la farà conoscere� dato che esso si ha da rivelare col fuoco,

e

il fuoco stesso proverà la qualità dell'opera di ciascuno.

Se l'opera di chi ha costruito sussisterà, egli ne riceverà la mercede ; se l'opera di qualcuno sarà consumata da l fuoco, egli la perdera, quanto a lui, però, sarà salvo, ma come attraverso il fuoco (in greco :

hos dia pyr6s)

».

Questo passo, p ur e non essendo una testimonianza diretta del purga­ torio, è tuttavia un accenno sufficiente alla sua esistenza. Secondo il testo di S. Paolo l'uomo può costruire in modo diverso sul fondamento che è posto, cioè su Cristo. Colui che si mette all'opera con indolenza, nel « giorno del Signore

»

non sarà condannato, ma salvato soltanto come un

uomo che, in un incendio, scampa passando attraverso alle fiamme e quindi perde tutto, conservando soltanto la nuda vita : se la caverà soltanto a malapena. Il « giorno del Signore

»

è il giorno del giudizio finale. Paolo

ha quindi in vista la fine del mondo ed attesta che anche nell'ultimo giudizio, dopo la fine dell'era attuale, esiste ancora una possibilità di purificazione. Se ne deve concludere che anche per coloro che muoiono durante l'era attuale esiste una possibilità di purificazione dopo la morte . Se persino nel giudizio finale è ancora possibile una purificazione dei defunti, tanto piu lo sarà nel periodo intermedio. I Padri piu antichi (Origene per primo,

Contra Celsum, 5, 1 5) riferiscono il fuoco all'incendio cosmico, ma la salvezza attraverso al fuoco alla purificazione e giustificano quindi la dot­ trina del purgatorio. Cfr. J. Gnilka, l st fiir das Fegfeuer?, Dtisseldorf 1 9 5 5 ·

I

Kor 3, IO-I 5 ein Schriftzeugnis

§

3 0 5 . LA PURIFICAZIONE DOPO MORTE. SUA REALTÀ

ART. II. - LA TES TIMONIANZA DEI

485

PADRI

Ciò che la Scrittura accenna, fu sviluppato nella Chiesa antica; occorse però lungo tempo perché le idee di una purificazione nell'al di là acqui­ stassero piena chiarezza e precisione. Per parecchi secoli troviamo qua e là, specialmente in alcuni Padri della Chiesa orientale, l'opinione che i defunti si trovassero in una specie di sonno delle anime e venissero risve­ gliati alla seconda venuta di Cristo che si riteneva prossima. A tale idea andava congiunta in Origene e negli origenisti la speranza che Dio per­ donerà ogni sorta di peccato, ad eccezione forse del peccato contro lo Spirito Santo. Perciò, anche quando si paria delia canceUazione del pec­ cato nell'al di là, non è sempre chiaro se sia attestato quel processo, che noi designiamo con purgatorio, cwè il perdono dei peccati che oggi chia­ miamo veniali e della pena temporale per i peccati, oppure la remissione del peccato e della pena in genere, senza riguardo al fatto che si tratti di peccati gravi o leggeri. Ma, in ogni caso, in queste dichiarazioni si esprime la fede in una purificazione nell'al di là. Tuttavia fin da principio si tro­ vano anche testimonianze chiare ed univoche del purgatorio m senso pro­ prio. Nei testi si deve però distinguere esattamente tra l'attestazione del fatto di una purificazione dopo la morte e la spiegazione del processo di purificazione. I Padri sono da prendere in consideraz10ue come testimoni della rivelazione in quanto attestano il fatto della purificazìone, mentre nella spiegazione del modo della purificazione possono rivendicare sol­ tanto l'autorità di teologi, le cui affermazioni ìn tanto hanno valore, in quanto i loro argomenti teologici banno forza probativa. Senza questa distinzione non di rado i resti patristici dovrebbero portare a malintesi. Tertulliano (De anima, n. 5 8 ; M . ]. Rouet de Journel, Ench. Patr., n. 3 5 2) ammette uno stato di sofferenza espiatoria dopo la morte_ Ad ecce­ zione dei martiri, i defunti rimangono fino al giorno del Signore negli inferi e vi sopportano tribolazioni, dalle quali, mediante la preghiera di intercessione dei viventi, vengono condotti al luogo del refrigerio. Similmente pensa Cipriano (Poschmann, l. c.; B. Altaner, Patrologia, 6 ed., Torino 1 960, p. 1 27 s.). Egli afferma che i penitenti, che prima di avere prestato tutta la penitenza ecclesiastica di loro spettanza, la cui misura è nota soltanto a Dio, vengono accolti nella comunione ecclesiastica e muoiono subito, dopo la morte avranno l'occasione di completare il resto della penitenza che ancora manca. In una lettera (55, n. 1 7. 20 ;

P. II.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

cfr. 58, n. 5, e inoltre De unitate ecclesiae, 14) scrive : « Altro è aspet­ tare il perdono, altro giungere alla gloria ; altro andare in carcere ed esserne liberati solo quando è pagato l'ultimo centesimo, altro essere emendati e come purificati dal fuoco per il proprio peccato mediante lungo dolore e lungo tormento, altro avere lavato tutte le colpe col martirio ». Lattanzio (Div. inst., 7, 2 1 , 6, in Ench. Patr., n. 646) dichiara : « Anche i giusti, quando saranno giudicati, saranno provati da Dio nel fuoco. Coloro, nei quali i peccati prevarranno in gravità e numero, verranno stretti e bruciati dal fuoco; mentre coloro i quali saranno stati purificati dalla piena giustizia e maturità di virtu, non sentiranno quel fuoco, perché hanno in sé qualcosa di divino, che rigetta e respinge la forza della fiamma. n potere della loro innocenza è cosi grande, che quel fuoco non può farle alcun male, poiché esso riceve da Dio il potere di bruciare gli empi e di refrigerare i giusti » . Ambrogio (Enarr. in Ps., 36, 26 ; dr. Apologia David, 6, 2 ; cfr. J. Nie­ derhuber, Die Eschatologie des hl. Am brosius, 1907) insegna che le anime di tutti i defunti devono passare attraverso alle fiamme, sia pure lo stesso discepolo prediletto Giovanni. I giusti vi passano attraverso come Isr&ele attraverso al Mar Rosso, gli increduli come Fa raon e : per essi ìl fuoco diventa la fornace fumosa per sempre. In una terza categoria, i peccatori, Ambrogio distingue due gru?pi, a seconda che prevalgono le O?ere buone o cattive. Il secondo gruppo condivide la sorte degli increduli. Per gli appartenenti al primo gruppo le fiamme diventano il fuoco di purifica­ zione, che dispone per il paradiso. In un altro passo il Padre della Chiesa dice (Enarr. in Ps., 36, 1 5 ) : « Chi è passato attraverso al fuoco, giunge al riposo... Questo, mediante il quale vengono distrutte le mancanze for­ tuite e non del tutto volontarie, è un fuoco che il Signore Gesu tiene pronto per i suoi discepoli, �er purificarli dopo questa vita terrena, offu­ scata dall'alito della morte. Del tutto diverso da questo è il fuoco prepa­ rato per il demonio ed i suoi seguaci ». Efrem Siro nel suo testamento (Testamento di S. Efrem, 7 2 ; cfr. 7 8 ; Ench. Patr., n . 7 4 1 ) cosi esona i suoi amici : « Avvicinandosi il giorno tri­ gesimo dopo la morte, tenete, o fratelli, una celebrazione commemorativa per me; perché i morti ricevono aiuto dal sacrificio dei viventi ». In una omilia sui Salmi, Basilio rende la testimonianza seguente (Omilie sui Salmi, 7, 2 ; Ench. Patr., n. 956) : « Quando incombe la minaccia imminente della morte, colui il quale sa che esiste un solo redentore e liberatore dice : io spero in te, salvami dalla debolezza, liberami dalla prigione. Ma io credo che i valorosi combattenti di Dio, che durante

§ 305.

LA

PURIFICAZIONE DOPO MORTE. SUA REALTÀ

487

tutta la vita hanno lottato con i nemici invisibili, quando sono scampati ai loro attacchi, al termine della vita, vengono provati dal principe di questo mondo, affinché, se risulta che vi son rimaste ferite delle lotte oppure che essi hanno conservato macchie e tracce di peccato, siano trattenuti. Ma se vengono trovati senza ferite e macchie, entreranno come invitti e liberi nel regno di Cristo ». Gregorio Nisseno (Or. de mortuis ; Ench. Patr., 1061) dice : « La sa­ pienza di Dio ha cosi disposto, che all'uomo tocchi la sorte che egli stesso elegge... Infatti, già in questa vita, egli può purificarsi mediante preghiere e buone opere. Soprattutto dopo la morte può ricevere purificazione da Dio nel fuoco purificatore... Dopo l'uscita dal corpo riconoscerà quale contrasto separa la vinu dal peccato. Non potrà partecipare all'essere di­ vino, se il fuoco purificatore non cancella la macchia fatta alla sua anima ». Agostino (Enarr. in Ps., 37, 2 s. ; PL. 36, 396 s.) in una spiegazione dei Salmi dice : « Il sabato significa riposo. Indubbiamente qui il salmista si trova in qualche inquietudine, perché sosryirando desidera il riposo. .. E se non temesse anche qualcosa di peggio del oresente, non incomince­ rebbe cosi : Signore, non �mnirmi nella tua rabbia, non emendarmi nella tua ira. Poiché un giorno Dio emenderà nell'ira e punirà nella rabbia, e forse non tutti coloro che allora verranno castigati, saranno pure emen­ dati... Purificami in questa vita, affinché non abbia bisogno allora del fuoco purificatore... Poiché sta scritto : ma egli stesso sarà salvo, tuttavia come attraverso al fuoco ( r Cor. 3, 1 5). E poiché è detto che egli sarà salvo, si fa poco conto di questo fuoco... , che oure è piu terribile di tutto ciò che l'uomo può tollerare in questa vita >) . Per quanto Agostino attesti chiaramente il fatto della purificazione nell'al di là, tuttavia cerca invano di stabilire quali siano i peccati che portano in purgatorio. Deve confes­ sare (De civ. Dei, 22, 27) : �t È molto difficile chiarire quali sono i peccati che precludono l'accesso al regno celeste e tuttavia ottengono perdono per i meriti di santi amici. Il volerlo determinare piu esattamente è molto arrischiato; in ogni caso finora non m'è riuscito di farlo, per quanti sforzi abbia fatto. Forse rimane del tutto nascosto, affinché non si paralizzi lo zelo di progredire nell'evitare tutti i peccati ». Cesario di Arles (Sermo 104 tra i Sermones di Agostino, 2-5) offre ai fedeli questa riflessione : « Quantunque l'Apostolo menzioni parecchi pec­ cati capitali, vogliamo non di meno dire in breve, per non causare dispe­ razione, quali essi siano : bes!emmia, omicidio, adulterio, falsa testimo­ nianza, furto, rapina, boria, invidia, avarizia; tra essi devono essere anno­ verati anche l'ira, se dura a lungo, ed il vizio del bere, se è continuo.

P.

II.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

Se uno vede dominare in sé uno di questi peccati, non può essere puri­ ficato dal solo fuoco temporale, di cui parla l'Apostolo (2 Cor. 3, 1 3-1 5), se non si emenda a dovere, e qualora abbia tempo, se non ha fatto lunga penitenza, non ha dato abbondanti elemosine e non si è astenuto dai peccati stessi. Egli sarà piuttosto tonurato dal fuoco eterno senza sal­ vezza.

I peccati minori possono appena essere enumerati. Da essi ... nep­

pure un santo può essere libero. Secondo la nostra fede questi peccati non uccidono l'anima, ma la deturpano e la macchiano per cosi dire con pustole e lebbra spaventevole e la lasciano giungere a malapena, oppure solo con grande vergogna, all'abbraccio dello sposo celeste. Questi vengono incessantemente rimessi mediante la preghiera perse­ verante, il frequente digiuno, piu abbondanti elemosine e soprattutto se noi perdoniamo a coloro che mancano contro di noi. Altrimenti possono accumularsi e tutti assieme sprofondare l'anima nella rovina. Ciò che noi non espiamo di questi peccati, dev'essere cancellato da quel fuoco di cui parla l'Apostolo ; salvo che o noi tormentiamo noi stessi, finché siamo in questo mondo, con la penitenza, oppure veniamo tormentati con molte afflizioni almeno per volontà e per missione di Dio a motivo di questi pec­ cati e, se ne siamo grati

a

Dio,

ne

veniamo liberati. Cosi questi peccati

vengono cancellati nel tempo presente, affinché nella vita futura quel purgatorio o non trovi nulla affatto Ma se non siamo riconoscenti

a

o

soltanto poco da poter bruciare.

Dio nella tribolazione e neppure cancel­

liamo i peccati mediante buone opere, dobbiamo rimanere nel purgatorio finché quei peccati minori siano bruciati come legno o paglia o stoppia. Ma allora uno può dire : per m e è indifferenre quanto tempo vi rimanga, purché giunga alla vira etern;J . Nessuno dica questo, o fratelli cari, poiché quel purgatorio sarà pili duro di tutte le pene che possono essere escogitate, viste o sentite in quesw mondo

».

Nonostante che in questo testo egli metta in guardia contro idee esa­ gerate sulle possibilità di purificaz10ne nel mondo futuro, Cesal'io di Arles enumera tra i peccati) che a suo giudizio devono essere purificati nel pur­ gatorio, alcuni di quelli che secondo il successivo giudizio reologico evoluto vengono designati come peccati gravi. Gregorio Magno

(Dialog., 4, 9; Ench. Patr., 232 1 ; cfr. n. 57) sinte­

tizza la dottrina del purgatorio della Chiesa antica e l'adatta a cerchie piu vaste. Soprattutto risalgono a lui molti racconti sulla vita e le apparizioni delle anime defunte. Citiamo il testo seguente (ibid.) : « Come uno lascia questa vita, cosi si presenterà nel giudizio. Tuttavia si deve credere che per certi peccati leggeri prima del giudizio esiste un purgatorio, perché la

§ 305. LA PURIFICAZIONE DOPO MORTE. SUA REALTÀ

489

Verità dice : se alcuno pronuncia una bestemmia contro lo S�irito Santo, non gli sarà perdonato né in questa vita né nella futura

(Mt.

1 2, 32). Da

questa frase si può dedurre che alcuni peccati possono essere perdonati in questa vita, altri invece nella futura. Infatti se si nega la remissione per un peccato, è segno che è ammessa per alcuni altri. Tuttavia, come dissi, ciò si deve credere soltanto per peccati piccoli ed insignificanti ».

ART. III. - LA TESTIMONIANZA DELLA LITURGIA

Il sacrificio e le preghiere, che venivano offerte per i defunti, costitui­ scono una testimonianza indiretta della fede della Chiesa antica nel fatto

II ci è attestata la preghiera III troviamo l'abitudine di pregare per essi durante la celebrazione dell'eucaristia. A poco a poco invalse l'uso di offrire per essi lo stesso sacrificio. La consuetudine di rkordare i defunti durante il delia purificazione dopo ia morte. Già nel sec. per i defunti. Nel sec.

sacrificio eucaristico viene attestata dalle antiche liturgie cristiane. Nella celebrazione liturgica delle sec.

IV (Bibliothek der

Kirchewoater,

Costltuzior1i apostoliche, risalente al 5 1) nelle preghiere di intercessione

dopo l'epiclesi, si dice : « Ti presentiamo l'offerta anche per tutti i santi, che fin da principio ti sono piaciuti, i patriarchi, i profeti, i giusti, gli apostoli,

i martiri, i confessori, i vescovi, i sacerdoti, ì diaconi, i suddia­

conì, i lettori, i cantori, le vergini, le vedove, i laici e tutti coloro di cui tu stesso conosci i nomi ». Prima della elevazione il diacono annuncia ancora una volta :

«

Preghiamo per coloro che si sono addormentati nella

fede ». Le stesse Costituzioni riportano tra le consacrazioni, ordinanze e preghiere la sezione seguente (n. 4 1 ; B K V, 72-74) :

«

Riguardo a coloro

che si sono addormentati in Cristo, il d iacono dopo aver pronunziato la

prima parte della preghiera di intercessione, per non ripetere la stessa cosa, deve aggiungere quanto segue: preghiamo per il riposo di quest'uomo o di questa donna. Che Dio, amante degli uomini, il quale ha accolto la sua anima, le rimetta ogni peccato volontario ed involontario. Che egli, benigno e pietoso, la trasferisca nel luogo dei giusti, che riposano nel seno di Abramo, di !sacco e di Giacobbe, con tutti coloro che fin da principio sono piaciuti a Dio ed hanno compiuto la sua volontà ; là ov'è scomparso ogni dolore, afflizione e sospiro. Leviamoci

in piedi ! Racco­

mandiamoci vicendevolmente all'eterno Iddio per mezzo del Verbo che fu fin dall'inizio. Ed il vescovo dica : tu che per natura sei immortale e senza fine, dal quale provengono tutti gli immortali ed i mortali; tu che

490

P.

II.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

all'atto della sua formazione hai fatto mortale quest'essere razionale. l ' uomo cittadino del mondo, e gli hai promesso l'immortalità ; tu che non hai permesso che Enoch ed Elia provassero la morte ; tu, il Dio di Abramo, di !sacco e di Giacobbe, non sei un Dio dei morti, ma dei viventi, poiché le anime di tutti vivono presso di te e gli S?iriti dei giusti sono in mano tua; nessun tormento Ii toccherà, ?erché tutti i santificati sono nelle tue mani. Rivolgi ora lo sguardo a questo tuo servo, che hai eletto e condotto ad un altro destino, e perdonagli quanto ha peccato volontariamente od involontariamente, e mettigli a dis ?osizione angeli benevoli. Introducilo nel seno dei patriarchi, dei profeti, degli apostoli e di tutti coloro che fin da principio

ti sono piaciuti, dove non c'è afflizione, sos'Jiri e lamenti,

nel luogo tranquillo dei pii e nella terra a te consacrata dei giusti e di coloro che in essa vedono la gloria del tuo Cristo, per mezzo del quale saranno a te ed allo Spirito Santo onore, gloria, venerazione, ringrazia­ mento ed adorazione in eterno. Amen ». Nella

liturgia di Giacomo (BKV,

I I 1 s.) si dice :

«

(Il sacerdote pro­

segue nel Memento : ) Degnati ancora di ricordarti di coloro che fin da principio ti sono uiaciuti di generazione in generazione, dei santi padri, patriarchi, profeti, B?OStoli, martiri, confessori, discepoli, di ogni spirito giusto, perfetto nella fede nel tuo Cristo. (Il sacerdote prega ad alta voce : ) In particolare della nostra santissima, immacolata, sovraesaltata, gloriosa signora, la genitrice di Dio e sempre vergine Maria. (l diaconi incominciano la lettura dei nomi dei defunti : ) Ricordati, o Signore Dio nostro, ... (il sacerdote 'Jrega inclinato : ) di S. Giovanni, glorioso orofeta, precursore e battista, dei santi apostoli Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Fili?po, Bartolomeo, Tommaso, Taddeo, Matteo, Simone, Giuda, Mattia, degli evangelisti Marco e Luca, dei santi profeti, patriarchi, giusti, del santo protodiacono e protomartire Stefano, di tutti i tuoi santi fin dal principio : non quasi che noi siamo degni di ricordare la loro beatitudine, ma affinché anch'essi stiano a questo tremendo e terribile altare e si ricor·­ dino a loro volta del nostro bisogno di aiuto, affinché troviamo grazia e misericordia dinanzi a te, o Signore, per aiuto al tempo giusto. Ricordati, o Signore e Dio, degli s;,>iriti e di ogni carne, di cui noi ci siamo ricordati e non ricordati, degli ortodossi da Abele il giusto fino al giorno attuale. Tu stesso concedi loro ri ?OSO nel paese dei viventi, nel tuo regno, nella delizia del paradiso, nel seno dei nostri santi padri Abramo, !sacco e Gia­ cobbe ; di dove sono lontani dolore, afflizione e sos?iro, dove veglia e brilla per sempre la luce del tuo volto. Nella pace, o Signore, rendi cri­ stiana, piacevole e senza peccato la fine della nostra vita ; raccoglici, o

§ 3 05 .

LA PURIFICAZIONE DOPO MORTE. SUA REALTÀ

49 1

Signore, ai piedi dei tuoi eletti, quando tu vuoi, purché senza ignomtma e peccato. Per il tuo Figlio unigenito, nostro Signore, Dio e salvatore Gesu Cristo, poiché egli solo è apparso sulla terra senza peccato ». Nell'Euchologium di Serapione (n. 1 3 ; BKV, 149) del sec. IV sta il testo della seguente preghiera, e precisamente nella preghiera del sacri­ ficio liturgico : « Ti preghiamo pure per tutti i defunti, di cui noi fac­ ciamo la commemorazione (poi vengono letti i nomi). Santifica queste anime, poiché tutte le conosci ; santifica tutti coloro che si sono addor­ mentati nel Signore; mettili nel numero delle tue potenze sante. Dona loro posto e dimora nel tuo regno ». Inoltre l'Euchologium contiene ancora una particolare « Preghiera per un defunto che dev'essere seppellito » (n. 30 ; BKV, 1 57 ) : « O Dio, che hai potere sulla vita e sulla morte� Dio degli spiriti e signore di ogni carne, Dio che dai la morte e la vita, tu conduci alle porte degli inferi e riconduci indietro, crei lo S?irito dell'uomo, accogli le anime dei santi e dai loro riposo; muti le tue creature e le trasformi e configuri com'è giusto e utile; tu solo sei l'indefettibile, l'immutabile e l'eterno. Noi ti preghiamo per il sonno di morte ed il riTJoso di questo tuo servo (o di questa tua serva) ; fa riposare l a sua anima, il suo spiriro nei luoghi del tuo pascolo, nelle dimore del riposo con Abramo, !sacco e Giacobbe e con tutti i tuoi santi, ma risuscita il corpo nell'ora che bai fissato secondo le tue promesse infal­ libili, per dare loro l'eredità conveniente al merito nei tuoi santi pascoli. Non ricordare i suoi errori e peccati, fa si che la sua di:oartita sia pacifica e benedetta, lenisci il dolore dei superstiti con lo spirito di consolazione e dona a noi tutti una buona fine per il tuo un igenito Gesu Cristo, me­ diante il quale sia a te onore e forza nello Spirito Santo per tutta l'eter­ nità. Amen ». Tra le « invocazioni » della liturgia di B1Silio (BKV, 273) sta il testo seguente : « Unifica noi tutti, che ryartechiamo all'unico pane e calice, nella comunione dell'unico Spirito Santo e fa si che nessuno di noi nane­ cipi per il giudizio o per la condanna al santo corpo e sangue del tuo Cristo, ma troviamo misericordia e grazia con tutti i santi, che fin da nrincipio ti sono piaciuti, con i proto:,Jadri, con i patriarchi, apostoli, predicatori, evan­ gelisti, martiri, confessori, discepoli e con ogni spirito santo e perfetto nella fede in te, so ")rattutto con la nostra santissima, immacolata, sovrae­ saltata e gloriosa signora, la genitrice di Dio e semryre vergine Maria (il coro canta : In te, o piena di grazia, si rallegra tutta la creazione ecc.), con S. Giovanni, profeta, precursore e battista, i santi e celeberrimi apo­ stoli, S. N., di cui celebriamo la memoria, e con tutti i tuoi santi. Visitaci,

492

P.

Il.

-

ESCATOLOG lJI INDIVIDUALE

o Signore; per la loro intercessione e ricordati di tutti coloro che si sono addormentati sperando nella risurrezione della vita e tern a (Qui il sacerdote ricorda per nome i defunti, che intende ricordare). E concedi loro riposo, dove brilla la luce del tuo volto >> . Nella liturgia di Marco (BKV, 175) si prega : « Alle anime dei padri e dei fratelli, che si sono addormentati nella fede in Cristo, dona ri�oso, o Signore Dio nostro, memore dei nostri protopadri fin dal principio, dei nostri padri, patriarchi, profeti� apostoli, martiri, confessori, vescovi, giusti, e di ogni spirito che divenne perfetto nella fede in Cristo, come pure di coloro dei quali oggi facciamo memoria, e del nostro santo padre, l'apostolo ed evangelista Marco, che ci ha mostrato la via della santità ». Nella liturgia di Crisostomo (BKV, 249) la preghiera di intercessione suona : « Ora offriamo questo sacrificio razionale per i padri che si sono addormentati nella fede, per i patriarchi, gli apostoli, i predicatori, gli evangelisti, i martiri, i confessori, le vergini e per tutti gli spiriti giusti, che sono perfetti nella fede, in modo particolare per la nostra santissima, immacolata, sovraesaltata, gloriosa signora, la genitrice di Dio e sempre vergine Maria, per S. Giovanni, profetico precursore e battista, i santi, gloriosi e venerandi apostoli, per i santi N.N , di cui celebriamo la me­ moria, e per turri i tuoi santi ; per le loro preghiere rivolgi a noi lo sguardo benigno e ricordati di tutti coloro che si sono addormentati spe­ rando nella risurrezione alla vira eterna . . . Dona loro, o Dio nostro, riposo là dove brilla la luce dd tuo volto » . Nell'odierna liturgia romana il ricordo dei defunti, di cui abbiamo tro­ vato i prodromi nelle amiche liturgie cristiane or ora citate, ha conservato la formulazione seguente : o. Ma questa non era l'inten­ zione ultima e princilJale di Cristo. Diversamente il fatto sarebbe stato un intermezzo insignificante nella storia umana. Che im?ortanza avrebbe potuto avere infatti il fatto che una volta alcune migliaia di persone sono state saziate, mentre continuaJTente degli uomini, a milioni e milioni, hanno fame? Quel fatto aveva un'importanza che trascendeva di gran lunga il superamento di una momentanea situazione dis?erata. Il satolla­ mento di quel giorno era immagine di un altro satollamento eterno. Il pane fornito allora era immagine di un altro pane che non cresce sulla terra e non può essere preparato dagli uomini, ma viene dal cielo e può essere dato soltanto da Dio. In quell'ora è stato auerto per un momento il sipario che separa le cose terrene da quelle dell'al di là, per modo che in questo mondo di fame perpetua, insaziata ed insaziabile, si vide sorgere per breve tempo uno stato di sazierà. Nel mondo che risuona dei gemiti degli affamati è necessa ria una forte assicurazione che un giorno verrà un'epoca di piena sazierà, se il parlarne non deve apparire agli uomini come vuota diceria. Perciò Cristo non si accontenta della parola, ma vi aggiunge ancora l'atto simbolico. Anzi egli non si accontenta di un unico atto, ma, come si può ben ritenere, lo compie per due volte (Mt. 1 5 , 32-39 ; Mc. 8, 1-9 ; Mt. 1 4, 1 3-2 1 ; Mc. 6, 32-44; Le. 9, 10- 1 7 ; Gv. 6, 1-14). Gli uomini affamati ed assetati non dovranno disperare, ma vedere dai m iracoli del pane del Signore che la sua promessa di saziare un giorno ogni fame, è credibile. C'era bisogno per una volta di una simile dimostrazione del futuro. « Noi ciechi avevamo bisogno per una volta del miracolo ». Quest'unica volta deve anche bastare. I canestri, che dopo il pasto poterono ancora essere riempiti con il pane rimasto,

§

309. IL CIELO COME VITA CON CRISTO

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sono segni che Cristo non offre nutrimento in modo parco e frugale, ma in quantità sovrabbondante. Ciò che nello sfamare la folla egli ha presentato simbolicamente, lo ha realizzato in modo provvisorio nella eucaristia, nella quale offre se stesso ai suoi come pane indefettibile per una vita indefettibile. In ogni pasto l'uomo accoglie in sé l'amore di Dio creatore, ma nell'eucaristia accoglie in sé corporalmente l'amore apparso in Cristo. Tuttavia anche nell'euca­ ristia il Signore si dona ai suoi soltanto sotto il velo dei segni, in una dona­ zione ordinata a quella in cui egli si offrirà ai suoi in forma svelata nella eternità. Mediante il pasto eucaristico gli uomini diventano capaci del pasto celeste, dove egli si concede loro in un atto continuo di dedizione, per modo che essi possono accoglierlo continuam ente nel proprio io. Con ciò essi ne vengono continuamente ristorati e ne ricevono una vita indefettibile, che fiorisce eternamente e non a., Jass:sce mai. Con la manducazione celeste del pane celeste viene cosi saziata in rrodo perfetto la fame di pane degli uomini. In quella forma di vita Cristo presta per gli uomini ciò che il pane terreno non può prestare; e lo presta in un modo perfetto. Perciò ogni pane terreno è simbolo del Signore, ogni manducazione terrena è preludio della manducazione celeste, ogni preparazione terrena del pane è dimo­ strazione della preparazione celeste del pane ad opera di Cristo. L'incontro di Cristo nel modo di esistere celeste non è un fatto unico e poi concluso, ma continuo. Perciò anche il ristoro insito in esso è un evento continuo : in cielo avviene continuamente una manducazione, in quanto il Signore si dona continuarrente ai suoi, e questi lo accolgono con un atto che non è mai interrotto. Cosi i celesti sono sempre saziati e nello stesso tempo nerti incessanterrente al fluire dell'amore. b) Con la promessa del pane è strettamente connessa la promessa della vita. Con essa Cristo si rivolge alla fame di vita dell'uomo. La parola vita è una parola magica, che ammalia tutti. L'uomo ha fa:ne e sete di vita, di una vita sempre maggiore (cfr. Commenti di Tillmann e di Bultmann a Gv. 14, 6). Tuttavia la fame di vita non può essere saziata sulla terra né col possesso esterno, né col lavoro ed il successo, né col piacere e la gioia, né con l'amore o con la professione, tanto meno col danaro e gli affari, poiché il cuore umano è insaziabile. Esso dovrebbe disperare, se ci fossero soltanto le possibilità terrene di vita. Di fronte a questa situazione Cristo dice : conservate le vostre grandi as?irazioni, anche se non TJossono essere soddisfatte da nessuna cosa terrena; io le soddisferò, perché io sono la vita vera e propria. Tutto ciò che chiamiamo vita è riflesso ed ombra della vita che troviamo in Cristo, vita abbondante e sicura : due qualità che

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mancano alla vita creata, cui sono proprie la povertà e la caducità. Al con­ trario, la vita che Cristo ba ricevuto dal Padre e conseguentemente porta in se stesso (Gv. 5, 26), è una vira di pienezza e di forza. È propria di Cristo un'abbondanza assoluta di vita ed una forza esistenziale indi­ struttibile. Di questa vita, che non conosce caducità e insicurezza, il cri­ stiano diviene partecipe (Gv. 3, 1 5 . 36). Giovanni e Paolo ne fanno testi­ monianza in passi innumerevoli. La liturgia parla instancabilmente di tale vita. Per riceveme una forte impressione non c'è che da percorrere i testi della celebrazione eucaristica, oppure la liturgia della notte di Pasqua. Ma durante il tempo del pellegrinaggio questa vira è nascosta e sembra essere debole (Col. 3, 3). Tuttavia essa è piu forte della morte. Chi è partecipe di questa vita, rimane vivo anche attraverso la morte ; anzi, la morte ne deve aiutare il pieno trionfo. Soltanto con l'unione a Cristo l'uomo acquista questa vita indistruttibile. Cristo è la vite, dalla quale la vita fluisce nei rami (Gv. 1 5 , 1 ss.). La vite è l'albero della vita. Cristo è la fonte della vira vera e propria. Il mito sogna di un albero della vira; ciò che esso sogna, in Cristo è realtà. Il mondo non può soddisfare il desiderio di vita dell'uomo. Cristo solo può accordare vita indefettibile, perché in lui la vita di Dio è apparsa nel mondo (Bult­ mann su Gv. I 5, I). Cosi Cristo sazia la fame di vita di colui che lo incontra nella forma di esistenza celeste . La forma di esistenza celeste si­ gnifica che la vita indefettibile, abbondante, di Cristo trionfa nell'io umano. c ) Con la parola vita è congiunta la parola luce. Cristo è la vera luce. Come tale egli è venuto nel mondo, per fugare la notte delle tenebre e dell'errore, della empietà e del peccato (Gv . I, 1 -9 ; 3, 19 ss. ; 8, 1 2 ; 2 Cor. 4 , 4 ; Ebr. 6, 4 ; 10, 22). Ogni luce terrena è immagine della luce che è Cristo. La luce rischiara e illumina il mondo. Quando il mondo sta nella luce, l'uomo può orientarsi, vede le strade e le mete; vede pure gli ostacoli ed i pericoli del cammino. Tuttavia ogni luce terrena può scac­ ciare l'oscurità sempre solo per breve tempo; è troppo debole per scac­ ciarla per sempre. L'oscurità prende continuamente il sopravvento. Anche il sole piu splendido può fugare l'oscurità solo per alcune ore. Ma, sopra[­ tutto, il sole terreno può offrire all'uomo solo quell'orientamento di cui egli ha bisogno per muoversi col corpo entro il mondo; non può accordargli quella illuminazione di cui l'uomo ha bisogno per comprendere se stesso, le vie dello spirito e del cuore, le mete del proprio io. Ma proprio a questo aspira l'io umano che non si è chiuso in se stesso. Ora simile illuminazione viene accordata dalla conoscenza e dall'amore. Ma la cono­ scenza terrena può fornire all'uomo una comprensione di se stesso solo

§ 309. IL CIELO COME VITA CON CRISTO

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entro i limiti del mondo. Anche questo può essere una cosa grande e beatificante ; ma finché persevera soltanto in una simile comprensione di se stesso, finché ha soltanto speranze terrene, egli è prigioniero nella cerchia dell'esistenza terrena . Per quanto questa sia ampia e grandiosa, l'uomo la sente come una prigione, per modo che fino quando vive soltanto con la fede nel mondo, vive in una cosciente od incosciente angoscia e disperazione (E. Spranger, Weltfrommigkeit, 1 942). Per un'esistenza vera e propria gli sono necessarie porte e finestre, che portino oltre il mondo, e questo può accordarglielo Cristo, e soltanto lui, perché Cristo è venuto nella storia umana dalla realtà, che è diversa da ogni realtà del mondo, e perché con la sua risurrezione ed ascensione, col ritorno al Padre, ha spezzato il cerchio delle cose terrene in direzione di Dio. Per mezzo suo l'uomo acquista cosi la conoscenza vera ed ultima di se stesso. Cristo è quindi la vera luce dell'uomo, e perciò può saziare la fame di luce del­ l'uomo. Egli solo può farlo, perché in lui la luce essenziale che è Dio (Sal. 1 7, 29 ; 66, 2 s. ; 1 1 8, 1 3 5), è apparsa nelle tenebre della storia umana. Cristo è la luce per gli uomini anche già nei giorni del pellegrinaggio. Nella liturgia egli è chiamato continuamente la luce. Per fare un esempio, Cristo è cantato con giubilo come luce nella liturgia della notte pasquale. Il cero pasquale è il suo simbolo. Nel preconio pasquale il diacono canta: « Esulti ormai l'angelica rurba dei cieli : celebrino con gioia i divini mi­ steri, e risuoni la tromba salutare per la vittoria di tanto re. Goda pure la terra irradiata di tanti fulgori e, dello splendore del re eterno illustrata, si risenta al fine libera e sgombra dalla caligine del mondo intero. Si allieti perciò la Chiesa madre, adornata dei fulgori di cosi gran luce, e l'aula dei suoi templi echeggi delle grandi voci dei popoli. Onde voi, fratelli caris­ simi, che assistete a tanta meravigliosa chiarezza di si santo lume, invo­ cate, di grazia, con me la misericordia di Dio onnipotente. Affinché egli che, non pei miei meriti, si degnò computarmi tra il numero dei leviti, mi infiammi del suo fuoco, e m'aiuti a celebrare la lode di questo cero. Per nostro Signore Gesu Cristo, suo figlio : il quale vive e regna Dio con lui nell'unità dello Spirito Santo. Per tutti i secoli dei secoli. Cosi sia. ll Signore sia con voi. E col tuo spirito. In alto i cuori. Sono rivolti al Signore. Ren­ diamo grazie al Signore Dio nostro. È degno e giusto. Veramente è degno e giusto che impieghiamo la voce a celebrare con tutto l'ardore del cuore e dell'anima l'invisibile Dio Padre onnipotente, e il suo Figlio unigenito, nostro Signor Gesu Cristo. Il quale per noi ha pagato all'eterno Padre il debito di Adamo, e col suo sangue cancellò generosamente le pene dell'an-

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

tico peccato. Ché queste sono le feste pasquali nelle quali si uccide quel vero agnello, il cui sangue consacra le porte dei fedeli. Questa è la notte in cui dopo aver tratto prima dall'Egitto i figli d'Israele, i nostri padri, li facesti camminare a piedi asciutti attraverso il Mar Rosso. Questa dunque è la notte che, con la colonna di fuoco, ha fugate le tenebre dei peccati. Questa è la notte che oggi, dopo aver per tutto il mondo sottratti i credenti in Cristo dai vizi del secolo e dalla caligine dei peccati, li restituisce alla grazia, li unisce alla santità. Questa è la notte in cui, spezzati i vincoli della morte, Cristo esce vincitore dagli inferi. Poiché nulla ci avrebbe giovato nascere, se non avessimo avuto il beneficio del riscatto. O meravi­ gliosa degnazione della tua pietà per noi ! O eccesso inestimabile di carità, che per redimere il servo consegnasti il Figlio ! O necessità del peccato di Adamo, cancellato dalla morte di Cris to ! O felice colpa che meritò di avere tale e tanto redentore! O notte veramente beata, che sola meritò di cono­ scere il tempo e l'ora in cui Cristo risuscitò dagl'inferi. Questa è la notte di cui sta scritto : la notte sarà illuminata come il giorno; e : la notte mi è luce nelle mie delizie. La santità dunque di questa notte fuga i delitti, lava le colpe, ridona l'innocenza ai colpevoli e la letizia ai mesti. Fuga gli odii, ritorna la concordia, e sottomette gli Ìm!Jeri. In questa sacra notte ricevi dunque, Padre santo, il sacrificio vespertino di questo incenso, che nell'ablazione solenne di questo cero composto di materia di api, ti fa la santa Chiesa per le mani dei ministri. Ma già conosciamo quel che raf­ figura questo cero, che luminosa fiamma accende in onore di Dio. La qual fiamma, benché sia divisa in parti, pure non soffre detrimento comuni­ cando la sua luce. Dacché si alimema di cera liquefatta, che la madre ape ha prodotto per la formazione di questa preziosa lampada. O notte vera­ mente beata, che spogliò gli Egiziani e arricchi gli Ebrei ! Notte in cui le cose celesti si uniscono alle terrene, le divine alle umane. Ti preghiamo dunque, Signore, che questo cero consecrato in onore del tuo nome a dis­ sipare le tenebre di questa notte, si mantenga intatto. E, ricevuto in onore di soavità, si confonda con i lumi supemi. Che l'astro del mattino trovi ancora la sua fiamma, quell'astro dico, che non conosce tramonto. Quello che, risorto dagl'inferi, brilla sereno sul genere umano. Ti preghiamo dunque, Signore, che, concessa quiete ai tempi in questi gaudi pasquali, ti degni, con una protezione continua, di reggere, governare e conservare noi tuoi servi e tutto il clero, insieme col nostro papa... e col nostro vescovo... Per lo stesso nostro Sigoore Gesu Cristo tuo Figlio, il quale teco vive e regna Dio nell'unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen » .

§

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Coloro i quali vivono nella luce, che è Cristo, sono veramente gli illu­ minati. (Perciò il battesimo nella Chiesa antica si chiamava « illumina­ zione » ; cfr. ad es. Giustino martire, Apol., I, 6 s.). Cristo ha aperto loro gli occhi del cuore. Senza di lui l'uomo è cieco. Nelle guarigioni dei ciechi viene espresso simbolicamente che Cristo è l'apportatore di luce. Per coloro che sono da lui illuminati il sole non tramonterà piu. Durante tutta la vita terrena l'uomo unito a Cristo è un illuminato ( I Tess. 5, 5 ; Ef. 5, 8. 9 ; 2 Cor. 6, 1 4 ; Col. 1 , 1 2) ; ma a colui che crede nel mondo, e talora anche a se stesso, apparirà come uno stolto, perché costruisce sull'in­ visibile e non corre dietro ai profitti terreni con tutti i mezzi di colui che crede nel mondo. Nell'altra vita conoscerà che egli è stato il vero saggio, mentre invece il credente nel mondo, che pensava di essere saggio, è stato un uto?ista, un sognatore, uno stolto (Ebr. 1 1 , I ; I Cor. 1, 1 8-3 1). Si rea­ lizza allora ciò che Paolo scrive ai Corinti (2 Cor. 4, 6) : « E quel Dio che aveva detto : risplenda dalle tenebre la luce, è colui che la fece risolen­ dere anche nei nostri cuori, per irradiare la conoscenza della gloria di Dio che brilla sul volto di Cristo » . Cfr. anche Sap. 2, I 2-23. cl) Il concetto di luce richiama il concetto di verità. Cristo è la verità, la verità vera e propria. Stauffer (Theologie des NT, p. ro8) cosi cerca di spiegare quel che s'intende con queste parole : « Io sono la Verità, dice il Verbo incarnato, in Gv. 1 4, 6. Noi sappiamo o scopriamo molte verità. Ma qui si parla della Verità semplicemente. La " prostituta ragione " mette in vendita le sue verità per ognuno ed è compiacente ad ogni volontà. Ma qui si annuncia la Verità, che non ammette civetteria ed esige decisione. Piu d'uno dice una verità, e tuttavia la sua parola ritorna vuota, perché egli non risponde della sua verità con tutto il suo essere. Ma Cristo dice la Verità, e la sua parola provoca una rivoluzione, perché egli è tutto proteso per la verità che annunzia. Noi siamo ostacolati ed inceppati perché non vogliamo sapere nulla della Verità. Cristo invece è un libero ed un liberatore, perché vuole la Verità e la Verità si rivela in lui ; ma la Verità rende liberi. Quando l'uomo testimonia qualcosa della Verità, accusa se stesso, perché la Verità testimonia contro di noi. Ma Cristo testimonia per la Verità e la Verità testimonia per lui. Noi possiamo parlare soltanto della Verità, e se es_é)rimiamo qualcosa della Verità, diciamo piu di quel che abbiamo e che siamo. Ma il Verbo incarnato è la Verità ; è piu di quanto esprime a parole. Dovunque nel nostro mondo umano verità e realtà sono cose diverse. Ma qui verità e realtà sono una sola cosa » . Tuttavia il senso piu profondo del concetto d i verità s i svela a noi sol-

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II.

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

tanto se la intendiamo come la realtà divina svelata da Cristo. La verità (alétheia) è la realtà svelata, non nascosta, di Dio (Tillmann e Bultmann su Gv. 1 4, 6 ; cfr. anche Quell e Bultmann, art. Alétheia, in Kittel, Wor­ terbuch zum NT, I, 233-25 1 ). Dio, che abita in una luce inaccessibile ( 1 Tim. 6, 1 6), è divenuto acces­ sibile a noi in Cristo, nel quale possiamo vedere ed afferrare il Padre (Gv. 14, 9 s.). Ma durante la vita terrena del Signore la realtà di Dio divenutaci accessibile in lui, è nello stesso tempo nascosta. È manifesta attraverso veli. L'incontro con Crisro nell'esistenza celeste significa che i veli vengono rimossi, e perciò allora l'uomo incontra la realtà di Dio, divenuta accessibile in Cristo, nella sua gloria svelata. Essa gli viene offerta da Cristo, ed egli l'accoglie in sé, anzi ne viene permeato. Cosi la sua fame di realtà viene completamente saziata. L'incontro con Cristo nel modo di esistere celeste significa quindi il soddisfacimento definitivo e perfetto della fame umana di pane di vita, di luce, di realtà.

III. - IL CIELO COME CONFIGURAZIONE

A

CRISTO.

L'incontro con Cristo, giunto al piu alto vertice, completa anche la con­ formità dell'uomo celeste a Cristo. Il cristiano viene configurato a Cristo, è una immagine del Signore incarnato, trasfigurato (Rom. 8, 29). Coloro che sono battezzati in Cristo, hanno rivestito Cristo (Gal. 3, 27); hanno rivestito l'abito della sua gloria. Col peccato gli uomini avevano buttato via la veste paradisiaca dell'innocenza, della incorruttibilità e della giustizia. Espressione visibile dello spogliamento e privazione interiore fu il fatto che ai primi uomini si aprirono gli occhi ed essi sentirono e videro di essere nudi. Cercarono di coprire il loro corpo nudo e di creare cosi un surrogato per ciò che era stato perso. Ma i loro abiti terreni non possono riportare lo splendore della veste paradisiaca perduta col peccato. Possono accordare protezione contro i pericoli e le minacce esterne; possono anche, se ben riusciti, aiutare l'uomo a fare una conveniente figura nella società umana e nello stesso tempo a serbare il suo segreto personale. Possono esprimere rispettabilità e probità. Ma non possono accordargli quel che egli in definitiva, coscientemente od inconsciamente, cerca in tutti gli abiti terreni che porta : il rivestimento con lo splendore e la gloria di Dio, con l'innocenza e la santità. Nel battesimo l'uomo riveste nuovamente

§ 309.

IL CIELO COME VITA CON CRISTO

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quest'abito, che una volta ha portato e perduto, la veste raggiante della gloria di Dio. Il battezzato è rivestito della gloria del Cristo risorto. In questa veste egli è un uomo nuovo (Col. 3, 9 s. ; Rom. 1 3, 14). Essa è segno del suo nuovo stato, della sua appartenenza alla famiglia, alla casa di Dio (Gv. I4, 2). Ma quest'abito è invisibile nella vita terrena; diverrà visibile in quella celeste, dove apparirà che l'uomo beato porta una veste di gloria. Tutti gli abiti terreni sono immagine della futura veste di gloria, che sarà l'espressione perfetta della sua natura. Con essa egli è intonato alla compagnia degli invitati al banchetto nuziale (Mt. 22, I I ), perché è totalmente immerso nello splendore del Cristo trasfigurato. « E noi tutti, che a viso scoperto rispecchiamo la gloria del Signore, siamo trasformati nella sua stessa immagine, di gloria in gloria, come si addice al Signore che è spirito » (2 Cor. 3, I 8 ; cfr. 5, 4; E. Peterson, Theologie des Kleides, in Benediktinische Monatssch,-ift, I 6, I 9 34, 347-356). Ora anche in Margi­ nalien zur Theologie, Miinchen I 956, 4 I -56. Cfr. IIIj2, § 1 82.

ART. III. - TESTIMONIANZA DEI PADRI

Anche nel periodo patnsuco la comunione con Cristo venne considerata come un elemento essenziale della vita celeste. S econdo Ireneo tutti i giusti godono della vista di Cristo e per mezzo suo posseggono una vita immortale. Cristo è

la loro pace e la loro forza e rifulge dello splendore del Padre. Essi quindi, vi­ vendo con lui, sono immersi nello splendore di Dio. Come coloro, che vedono la luce, sono nella luce e partecipano al suo splendore, cosi coloro, che in Cristo

vedono Dio, sono in Dio e partecipano alla sua gloria. /ppolilo descrive Cristo come l'albero della vita. Coloro che vogliono fruire di questa vita, possono goderne continuamente dinanzi al volto del Padre, assieme ad Adamo ed a turti i giusti. Secondo Clemente Alessandrino i celesti sono caratterizzati dalla visione di Dio, che compete loro per mezzo di Cristo. Cristo regna su di essi. Secondo Origene Cristo è salito al cielo, per aprircene la via. Là noi dimoreremo con lui nella chiara luce di Dio. In cielo noi godremo il riposo che è proprio della felicità, contemplando pienamente il Verbo vivente. S econdo Cipriano il cielo è la vita nel regno di Cristo, la convivenza con lui e col Padre. Essere chiamati al cielo significa essere chiamati all'onore con Cristo. Secondo Gregorio Nazianzeno colui che starà a lato del gran re e sarà inondato della sua luce, sorriderà di tutte le cose terrene. La sua vita è quindi una festa eterna. S econdo Ambrogio i celesti vivono nella piu intima unione tra loro e con Dio, unione stabilita da Cristo. La vita con Cristo è il fondamento di tutta la beatitudine celeste. Anche Gerolamo annovera tra le principali beatitudini del cielo la vita con il Signore, che sarà il capo degli eleni

e

per mezzo del quale essi esperimentano la beatitudine della

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P. Ir.

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ESCATOLOGIA INDlVIDUALE

vita divina. Secondo Awnasio Cri s t o con la sua morte ci ha riaperto l'accesso al paradiso. Pervenire al cielo significa andare al Signore che colà precedette; in lui i celesti formano un corpo mistico. Tutta la gloria, lo splendore e la gioia che affluisce loro, la ricevono dal Signore glorificato, loro capo. Crisostomo esalta la morte, perché unisce i sami con Cristo. La gloria e la bellezza, lo splendore e la gioia della vita celeste, per quanto siano grandi, affluiscono ai celesti dal S ignore trasfigurato, loro re, nel quale essi rappresentano un regno festoso di pace e di benessere, di amore e di beatitudine. lreneo, Adv. Haer., 5, 36, I; cfr. anche 5, 3 1 , 2; 4, 33, 1 3 ; 3, 12, 3; 3, 16, 4; l p po li w, Frammenti sui Proverbi, ed. G. N. Bonwetsch-H. Achelis, 163; Clememe Alessandrino, Pmtrepticus, 1 ; Stromilta, 3, 7 ; Origene, De princ ip1 is 2, I I , 6 ; 1 , 6, 3 ; Cipriano, Epistula 56 (Rouet de Journel, Ench. Patr., n. 579); Gregorio Nazianzeno, Oratio 7, 23; 24, 19; 34, 19; Ambrogio, De obitu Theodosii oratio, 29. 3 1 ; Gerolamo, Epi­ stula 39; In ep. ad Ephes. comment., Il, 4, 8; Atanasio, De incarnatione Verbi, c. 3; s ; Crisostomo, Omelia sui santi martiri Bernico e Prosdoco, n. 3· ,

CAPITOLO II. DIFFERENZA DI GRADO TRA CRISTO E L'UOMO BEATO

Per quanto l'unione del beato con il Signore glorificato sia intima, non si cancella tuttavia, e non può cancellarsi, la differenza di grado, perché Cristo rimane il Signore, e coloro, che sono da lui chiamati alla comu­ nione di vita, rimangono da lui dipendenti anche nello stato celeste (Le. 19, 2 5 ; Mt. 25, 37· 44). Anche in cielo essi stanno al suo servizio (Mt. 24, 47; 25, 2 1 -2 3). Proprio in questo senso, il veggente dell'Apocalisse vede come in cielo viene offerta l'adorazione a Cristo nello stesso tempo che a Dio Padre. « E vidi nella destra di colui che sedeva sul trono un libro scritto dentro e fuori, suggellato con sette sigilli. E vidi un angelo forte che bandiva a gran voce : " Chi è degno di aprire il libro e di sciogliere i sigilli di esso ". E nessuno poteva, né nel cielo né sulla terra né sotto la terra, aprire il libro e leggerlo. Ed io piangevo molto perché nessuno fu trovato degno di aprire il libro o di leggerlo. E uno degli anziani mi dice : " Non piangere. Ecco; ha vinto il leone della rribu di Giuda, la radice di Davide, onde aprire il libro e i suoi sette sigilli ". E vidi, fra il trono e i quattro viventi e gli anziani, un agnello ritto come sgozzato, avente sette coma e sette occhi, che sono i sette spiriti di Dio inviati a tutta la terra. Venne e rice­ vette il libro dalla destra d i colui che sedeva sul trono. E quando ricevette il libro, i quattro viventi e i ventiquattro anziani si prostrarono dinanzi all'agnello, aventi ognuno un'arpa e coppe d'oro piene di profumi, che ;;ono le preghiere dei santi. E cantano un cantico nuovo dicendo : " Degno sei di ricevere il libro e di aprire i suoi sigilli, perché fosti sgozzato e col sangue tuo ci comprasti a Dio, noi di ogni tribu, lingua, popolo e gente, e di essi hai fatto per il Dio nostro un regno e dei sacerdoti, e regneranno sulla terra ". E vidi, e udii voce di molti angeli intorno al trono e ai viventi e agli anziani; il loro numero era di miriadi di miriadi e migliaia di migliaia, e dicevano a gran voce : " Degno è l'agnello sgozzato di ricevere la potenza, ricchezza, sapienza, forza, onore, gloria e lode " . Ed ogni creatura che è nel cielo, sulla terra e sotto l a terra e nel mare, e tutti gli esseri che ivi sono, li udii dire : A colui che siede sul trono e all'agnello "

P. n.

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

la lode, l'onore, la gloria e il dominio per i secoli dei secoli dicevano :

".

E i quattro viventi

" Amen " . E gli anziani si prostrarono e adorarono » (Apoc.

5,

r-14).

L'adorazione dell'agnello, qui descritta in immagini e similitudini, avviene con progresso graduale. Da prima i quattro esseri celesti si prostrano dinanzi al Padre ed all'agnello, nella cui morte in croce la storia ha raggiunto il suo vertice e la sua svolta, in cui alla fine dei tempi vengono risolte anche le sue questioni ed enigmi, ed intonano tra il suono delle arpe ed il fumo degli incensieri il loro canto di

lode. Poi irrompe l'esercito sterminato delle schiere celesti, ed infine

tutta la creazione si accorda nel grandioso coro finale, finché al termine risuona solo piu dalle labbra dei quanro esseri celesti l'amen, la cui eco i seniori adorando riprendono. Cfr. H. Lilje, Das lerzce Buch der Bibel, 1940, 105 s., e J. S icken­ berger su questo passo.

Nel canto di lode dei celesti si consuma l'omaggio che i cristiani offrono al loro Signore durante la vita terrena. Nel mondo, che brulica di signori e dèi celesti e terreni, il cristiano conosce soltanto un unico Signore ed un unico Dio (1 Cor. 8, 6). A lui la schiera dei suoi fedeli acclama col Kyrie-eléison, senza vederlo, mentre i credenti nel mondo possono vedere ed esibire i loro signori e dèi. Nella vita celeste l'osanna al Signore acquista la massima intensità, perché egli si mostra ai suoi ; ed allora questi lo vedono come l'amen, come il si di Dio alla loro vita, alla loro salvezza, alla loro gioia. Nella chiara luce della visione lo possono esaltare come il realizzatore, come l'unico garante della vera esistenza e della vera vita, come il principio di vera umanità (Apoc. 3, 14). Perciò a lui solo spetta la lode e la gloria per tutti i secoli (2 Tim. 4, 1 8).

CAPITOLO III. CRISTO COME MEDIATORE

Cristo è la via vera e propria. Ciò che ogni via significa, ma non può prestare, lo presta Cristo. Durante la vita terrena gli uomini seguono molte vie, perché molte vie li invitano a percorrerle : vie su cui il corpo può pellegrinare, su cui viaggiano spirito e cuore. Gli uomini percorrono le strade terrene, perché sperano di giungere su di esse alle mete, cui il loro cuore aspira. Se una via presenta una delusione, perché si rivela falsa, l'uomo ne imbocca un'altra. Ma io definitiva deve riconoscere che tutte le vie terrene sono vicoli ciechi e non portano al di là del mondo. Si inter­ rompono là, dove finiscono le stesse cose terrene; ritornano in se stesse, girano io cerchio. Ma il cuore umano aspira ad una realtà, che è diversa da tutte le realtà dell'esperienza e sta al di là del mondo, senza però trovare nessuna via che vi porti. In questa situazione echeggia la parola del Signore : io sono la vera via. Cristo è la vera via, perché può portare là, dove nessun'altra via può portare, dove tuttavia l'uomo deve giungere, se deve pervenire alla meta dei suoi desideri. Cristo non è soltanto colui che indica la via, non è soltanto il maestro, dal quale l'uomo può sapere dove porta il cammino; ma è la via stessa che dev'essere percorsa. Gv. 1 4, 1. Quando Cristo dice di essere la via, ciò non costituisce una semplice informazione, ma un invito. Egli invita l'uomo a percorrere la via che è lui stesso. L'uomo segue questo invito, quando si unisce a lui nella fede ; ma proprio perché si tratta di fede, non può vedere apertamente il carat­ tere di via di Cristo. Nella vita celeste invece l'uomo esperimenta diret­ tamente che in Cristo può raggiungere quella realtà che aspira a raggiun­ gere. In Cristo egli può attingere continuamente la realtà stessa del Padre. Cristo lo porta al Padre. Egli è il Figlio che ha diritto di disporre della casa paterna, e può introdurvi coloro, che sono a lui uniti, senza temere,

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

né lui né quelli, di essere respinti. Egli invita i suoi amici al banchetto gioioso, al banchetto solenne che si tiene alla mensa familiare di Dio, senza che o lui o gli invitati debbano aver timore di venirne scacciati dal Padre (Gv. 14, 2 ; Mt. 25, 1 - 1 2 ; 22, 1-14 ; Le. 1 3, 25 ; 22, 29). Anzi egli va ancora oltre : li serve al banchetto celeste (Le. 1 2, 3 7 ; Gv. 1 3, 1-1 7 ; Mt. 20, 28; Le. 22, 26 ; Mc. Io, 45). Con tale servizio egli comunica loro continua­ mente l'amore del Padre, e con esso la beatitudine di essere amati e di poter amare. È il massimo servizio che possa essere prestato ad un uomo (]. Pinsk, Die sakramentale Welt, 1 938, 83-88). Egli li fa partecipare alla sua sovranità (Le. 22, 28-30), alla sua libertà dalle forme di vita caduche, transitorie, di questa terra, alla sua vita di gloria (cfr. § I 82 ). Cosi l'incontro celeste con Cristo è l'incontro con il fratello e il Signore, che a sua volta si manifesta come incontro perpetuo con il Padre. Sotto questo duplice aspetto Cipriano cosi descrive il cielo : « Quando noi moriamo, attraverso alla morte entriamo nella immortalità; la vita eterna non può cominciare se non a condizione di uscire da questo mondo. Non è la morte la fine per sempre, ma soltanto un passaggio ed un tra­ passo nell'eternità, dopo che il viaggio temporale è compiuto. Chi non s'affretterebbe verso una sorte migliore? Chi non desidererebbe di essere al piu presto trasformato secondo la figura di Cristo e secondo la dignità della grazia celeste? Come proclama l'apostolo Paolo " la nostra dimora è in cielo, donde pure aspettiamo il Signore Gesu Cristo, che trasfigurerà il nostro corpo di miseria, conformandolo al suo corpo di gloria ". Che noi saremo cosi trasformati, lo promette anche Cristo Signore quando prega il Padre per noi, affinché possiamo essere presso di lui, e con lui possiamo rallegrarci nelle dimore eterne e nel regno celeste, dicendo : " Padre, voglio che anche coloro, che tu mi hai dato, siano con me, dove sono io, e vedano la gloria che tu mi hai dato, prima che il mondo fosse creato ". Chi dunque sta per giungere alla sede di Cristo, alla gloria del regno celeste, non deve affliggersi e piangere, ma, fondandosi sulla pro­ messa del Signore sostenuto dalla fede nella verità, deve piuttosto ralle­ grarsi della sua partenza e del suo passaggio alla vita eterna » (De morta­ litate, n. 22 ). Secondo questa descrizione il cielo non è in primo luogo un possesso di una cosa, ma un incontro personale, un incontro di amore perfetto e beatificante. La partecipazione alla vita del Signore implica la parteci­ pazione alla vita trinitaria di Dio.

§ 310. II cielo come visione immediata di Dio.

CAPITOLO l. IMMAGINE DEL BANCHETTO COME ESSERE CON DIO, VISIONE DEL SUO VOLTO E SCAMBIO DI VITA CON LUI

L'unione con Cristo costituisce il fondamento della comunione di vita con il Padre celeste. Solo quando sta dinanzi al volto del Padre, l'uomo è giunto là, dove infine deve giungere. Quando può contemplare il volto del Padre celeste, può contemplare il volto della verità e dell'amore sussi­ stenti, ed è quindi pienamente se stesso.

ART. I.

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IL CIELO COME BANCHETTO

Nella Scrittura l'unione con Dio in cielo è attestata sovente con l'im­ magine del banchetto. Cristo usa questa similitudine nelle piu mclteplici variazioni. Ora parla della grande cena di un uomo ricco (Le. 14, 1 6-24), ora del banchetto notturno che il padrone, al ritorno, prepara ai suoi servi (Le. 1 2, 37), ora di un banchetto solenne dei popoli che confluiscono da tutti i confini della terra (Le. 1 3, 2 9 ; Mt. 8, 1 1), ora del banchetto nu­ ziale di gente comune, ora del banchetto per nozze regali (Mt. 25, 1 - 1 2 ; 22, 1-14). In tutti i casi Cristo con l'immagine e la similitudine rivela l'unione intima e familiare tra Dio ed i beati. I convitati hanno stretti rapporti tra loro e costituiscono una comunità fraterna. Tutti i banchetti terreni sono preludio di quello celeste, in cui :Qio, benché sia il superiore ed il Signore, siede a mensa con gli invitati al banchetto come con dei suoi pari. Siede di fronte ad essi faccia a faccia. Questo non è un muto accostamento, ma uno scambio vivo. Dio è in colloquio con essi. Ciò significa che l'amore e la verità in persona propria sta in colloquio con essi con volto svelato. Questa comunione è fonte di gioia. Infatti il banchetto, che Cristo usa

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I I . - ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

come immagine per il mistero inesprimibile dell'unione con Dio, è un ban­ chetto solenne, gioioso. Ciò appare nel modo piu evidente nella simili­ tudine del banchetto nuziale. Le nozze sono la festa principale nella vita dell'uomo comune, vi si fa tutto lo sfoggio possibile ; vi dev'essere cibo abbondante (Mt. 22, 4) e vino in quantità (Gv. 2, 1-1 1). Il fatto che alle nozze di Cana avanzino molte anfore di vino costituisce un indizio della prodiga sovrabbondanza che regna nelle nozze celesti. La sala della festa è illuminata a giorno (Mt. 22, 1 3 ; 25, 1 - 1 2). Molti ospiti sono convenuti e portano gli abiti da festa (Mt. 22, 1 I s.). Musica, canto, giubilo della com­ pagnia nuziale riempiono tutta la città. Già solo la celebrazione di sette giorni può esprimere la gioia illimitata (S. J. Theissing, Die Lehre 1esu von der ewigen Seligkeit, 1940, 83-85). L'immagine del banchetto nuziale ci presenta la vita eterna come essere con Dio, come visione del volto divino, come scambio di vita con Dio. Vogliamo spiegare piu esattamente questi tre punti, che acquistano la loro portata dal fatto che Dio è la verità e l'amore personali nel modo di esi­ stere in tre persone. In tal modo lo stare assieme con Dio diventa vita con l'amore in persona, lo scambio di vita con Dio diventa scambio di vita con l'amore stesso.

ART. Il.

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IL CIELO COME UNIONE CON DIO

Riguardo al primo punto, il beato esperimenta che Dio è il valore su­ premo, l'essere che lo rende felice. Il fedele lo sa già anche durante l'esi­ stenza terrena, perciò è pronto a rinunziare ad ogni altra cosa per amore di Dio, e null'altro lo può saziare se manca Dio. La Sacra Scrittura, soprat­ tutto nel Nuovo Testamento, parla ovunque di questo fatto. Per l'Antico Testamento è particolarmente significativo il Sal. 73 (72). Lo storico sve­ dese delle religioni, N. SOderblom (Der lebendige Gott im Zeugnis de!' religionsgeschichte, ed. da Fr. Heiler, 1 942, 269 ss.) ha spiegato il Salmo sotto questo punto di vista. Il salmista soffre per l'ingiustizia che domina il corso del mondo ed opprime la sua propria vita. Certamente Dio è buono per coloro che sono di cuore p�ro; ma non sembra donare la sua amicizia ai prepotenti ed ai malfattori? Poiché tutto va loro bene. « Non ci sono parimenti per loro ; sano e pasciuto è il loro ventre. Il travaglio dei mortali non provano e con i tapini non sono percossi. Perciò l'orgoglio è loro collana; la violenza li copre d'una veste. Si riversa dal grasso la loro

§ 3 1 0. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

iniquità, straboccano le fantasie del cuore » (vv. 4-7). Essi scherniscono i pii ed attaccano persino Dio, ne proclamano l'impotenza. Egli è molto lontano ; che gli importa di quel che capita tra gli uomini? (< Ecco, questi sono i peccatori; sempre contenti accrescono la loro agiatezza » (v . 1 2). Al salmista viene il dubbio che ogni preghiera non abbia senso. Ma ecco capovolgersi la situazione. La felicità degli insolenti è vuota e caduca. Dio si leverà, e gli empi ed i cattivi, per quanto possano apparire potenti e fortunati, sono dinanzi a lui un nulla. « Come tm sogno allo svegliarsi, Signore ; al destarsi, disprezzi la loro figura » (v. 20). Ma soprattutto manca agli empi, anche nel tempo della felicità esteriore, la felicità principale : Dio. Questa è propria del pio, anche se la sua vita è immersa nelle acque del dolore. Nelle questioni assillanti della giustizia di Dio e della ingiu­ stizia del corso del mondo, il salmista trova riposo e pace nella coscienza della vicinanza e dell'amore di Dio. « Chi c'è per me su nei cieli? E vicino a te di nulla mi compiacqui sulla terra. Viene meno la mia carne e il mio cuore? Rocca del mio cuore e mia porzione è Dio in eterno. Poiché i lon­ tani da te sono perduti ; distruggi via da te ogni fornicatore. Ma per me la vicinanza di Dio è buona; pongo nel Signore il mio rifugio, narrando tutte le tue gesta » (vv. 25-28). Il salmista non può penetrare nei disegni di Dio; Dio è troppo in alto, troppo superiore all'uomo, troppo incom­ prensibile. Ma l'arante sa che Dio è vicino ed allora ogni cosa terrena sparisce. Il dolore non viene minimizzato, ma perde la sua importanza. Che cos'è la fortuna, il successo? Dio è tutto. Anche se il corpo e l'anima languiscono, anche se l'inferno della vergogna e del rormento seppelliscono il giusto, tuttavia Dio è il suo bene supremo. Lo stesso apprezzamento di Dio balena brevemente quando Abramo fa assegnamento sulle parole : io stesso sarò la tua mercede (Gen. 1 5 , I ; cfr. Apoc. 2 1 , 7 ; 22, 1 2) e si in­ contra attraverso i secoli nei cuori che furono pieni di Dio. Esso ha la sua piu nobile espressione nella prontezza a soffrire per Dio, che troviamo ad es. nella grande e nella piccola Teresa. Nelle terribili e interminabili sofferenze della morte Teresa di Lisieux dichiara con nobile fierezza : « Non mi pento di essermi abbandonata all'Amore » (Storia di un'anima, Milano 1959, 335). Tuttavia l'unione terrena con Dio, per quanto possa essere intima e beatificante, è onerata dal nascondimento di Dio. Perciò chi ne è favorito deve rinnovare continuamente gli sforzi per esperimentare la vicinanza di Dio ; deve cercare di scorgerla nella notte della prova. Nello stato celeste invece l'uomo sperimenterà direttamente Dio come la cosa piu alta, anzi come l'Altissimo. Scompaiono allora le cose terrene che gli velano Dio.

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

ART. III. - IL CIELO COME VIS IONE DI DIO

I. - LA DOTTRINA DELLA CHIESA.

L'elemento decisivo nell'unione tra Dio e l'uomo nello stato celeste è la visione immediata di Dio. È dogma di fede che i beati in cielo vedono direttamente e svelatamente Dio stesso faccia a faccia. Il Concilio di Firenze ( 1 439) stabilisce che i beati vedono con chiara visione Dio trino, qual è, senza immagine e senza mediazione. Denz. 693. Nella dichiarazione dogmatica del 29 gennaio 1 3 36 (Denz. 530) Bene­ detto XII insegna : « Dopo la passione e morte del Signore Gesti Cristo essi hanno visto e vedono l'essenza divina con visione intuitiva, faccia a faccia, senza mediazione di creatura che li avvii all'oggetto della loro visione, mostrandosi loro questa divina essenza immediatamente, svelatamente, chiara ed aperta. E vedendola, godono pienamente questa stessa essenza divina, e da tale visione e da tale godimemo le anime di coloro, che sono già trapassati, sono veramente beate ed hanno vita e requie eterna. Anche le anime di coloro che moriranno in futuro, vedranno e godranno la stessa essenza divina prima del giudizio universale. La visione e il godimento della essenza divina sostituirà in essi l'esercizio della fede e della speranza, in quanto fede e speranza sono vere virtu teologali. Una volta che questa visione intuitiva e questo godimento hanno avuto o avranno inizio in essi, durano senza alcuna interruzione o diminuzione e continueranno fino al giudizio finale e da allora per l'eternità » .

II. - IMPOSSIBILITÀ NATURALE DELLA VISIONE DI DIO.

a) Nella visione di Dio si realizza l'anelito dei millenni. Di essa sogna­ rono i filosofi ed i mistici presso tutti i popoli ed in tutte le religioni. Troviamo questo anelito ad es. nella filosofia indiana, in Platone e nelle religioni misteriche-ellenistiche. Dalla visione di Dio gli uomini sperarono salvezza e pienezza di vita anche già nel tempo prima di Cristo ed anche nel campo extrabiblico. Tale speranza non poteva riferirsi alla visione della natura divina chiaramente conosciuta o addirittura del Dio trino, perché una tale conoscenza di Dio non si trovava fuori dell'ambiente bi­ blico. Si riferiva al « divino » in genere. La vera trascendenza di Dio

§ 3 10. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

rimase nascosta agli uomini fuori del campo della rivelazione. Cfr. §§ 39 s. Forse negli antichi sogni e speranze vive un frammento del paradiso, un elemento della rivelazione primitiva, la cui luce brilla in tutte le tenebre umane. b) La speranza nella visione di Dio domina soprattutto i credenti nella rivelazione dell'Antico Testamento, che vi vedono la grazia di tutte le grazie. Fammi vedere il tuo volto : questa è la preghiera, l'unica, la piu grande, che Mosè esprime dinanzi a Dio. Ma egli domanda troppo. Dio non gli può mostrare il suo volto; e Mosè può vedere soltanto l'ombra di Dio che passa (Es. 3 3, 1 7-23). Tuttavia la sua preghiera non si è piu taciuta. Giobbe è disposto a tutto sacrificare per poter vedere Dio coi suoi occhi (Giob. I9, 26 s. ; 43, 5). Il salmista vuole destarsi dinanzi all'imma­ gine di Dio e saziarsi nella visione della sua gloria (Sal. I 7 [ I 6], I 5 ). La preghiera viene ripresa nel Nuovo Testamento. Filippo dice : « Si­ gnore, mostraci il Padre e ci basta » (Gv. I4, 8). c) Tuttavia per la durata dell'era presente queste preghiere rimangono inascoltate. La risposta, che riceve Mosè, vale per tutti : « Farò passare innanzi a te tutta la mia bontà e innanzi a te pronuncerò il mio nome, Jahvè. Io faccio grazia a chi voglio far grazia e ho pietà di chi voglio avere pietà. Disse ancora : tu non puoi contemplare la mia faccia. Poiché nessun uomo può contemplare me e restare vivo. Jahvè inoltre disse : ecco un luogo vicino a me. Tu starai sulla roccia e, quando passerà la mia gloria, io ti porrò nelle fessure della roccia e, mentre passo, ti coprirò con la palma della mia mano. Indi ritirerò la palma della mia mano e tu potrai contemplare il mio dorso, ma la mia faccia non si può vedere » (Es. 33, I9-23). Per tutto il corso della storia vale la tesi categorica di S. Paolo : « A suo tempo, egli farà rifulgere : lui, il beato e unico sovrano, il re dei re e signore dei signori, l' unico immortale, che abita in una luce inaccessibile, che nessuno degli uomini vide né può vedere. A lui onore e potenza eterna. Amen ! » (I Tim. 6, 15 s . ; cfr. Gv. 1 , 1 8). d) È difficile dire quel che gli eletti di Dio vedono, quando affermano di aver visto Dio (cfr. Is. 1 , I ; 6, I ; 2, I ; Am. 9, 1 ; Cant. I , I). Le opi­ nioni dei teologi divergono. Tuttavia si dovrà dire che quegli eletti non hanno mai visto Dio, ma il suo splendore, la sua parola, la sua gloria. Egli appare in visioni e sogni, ma non nella sua figura vera e propria (ls. 6 ; Num. 1 2, 6). Salire al monte di Jahvè, al tempio, al luogo della presenza benigna di Dio equivale, secondo il Salmo (42 [4 1 ] , 3), a vedere Dio. Una vera visione di Dio è preclusa all'uomo. Ciò vale pure, come abbiamo visto in altra sede, della vita del mistico. Cfr. IV, I, § I9L

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

e) Le ragioni della impossibilità umana di vedere Dio immediatamente, sono varie. Anzitutto Dio è totalmente diverso da noi, per modo che nella nostra natura non abbiamo alcun organo adatto con cui poterlo attingere direttamente. Ciò implica che Dio è pienamente indipendente da noi, per modo che non lo possiamo cogliere da noi stessi con una conoscenza imme­ diata, ma possiamo penetrare nel suo mistero soltanto nella misura in cui egli si manifesta a noi. Infine per la nostra limitatezza non possiamo accoglierlo, lui infinito, nella sua propria forma, nella nostra coscienza senza esserne spezzati. I Padri della Chiesa, e tra essi soprattutto Agostino, furono sovente dell'idea che l'uomo possegga per natura la capacità della visione di Dio, ma che per il peccato sia stato indebolito nella sua forza visiva a tale punto da dover essere risanato con la grazia prima di poter realmente vedere Dio (S. H. Koster, Die Heilslehre des Hugo von St. Viktor, 1940). Tommaso d'Aquino esprime talora l'opinione che l'uomo sia ordinato alla visione di Dio, e ne porti quindi in sé la disposizione, senza però poterla attuare. È dottrina comune dei teologi odierni che la visione di Dio sia stretta­ mente soprannaturale, e quindi l'uomo non soltanto per la sua situazione storico-salvifica, ma anche per sua natura, e perciò ontologicamente, sia incapace di vedere direttamente Dio con le proprie forze, ma possegga la potentia oboedientialis per cui può essere elevato per grazia a tale visione. L'incapacità dell'uomo di contemplare direttamente Dio con le sole forze della natura è cosi grande, che la sua potenza conoscitiva sarebbe arsa ed accecata, se la luce e l'ardore di Dio influissero direttamente su di lui (cfr. Es. 33, 20 ; cfr. § § 37 e 68). f) Durante il periodo del pellegrinaggio possiamo quindi conoscere Dio soltanto mediatamente nelle creature, cioè negli uomini, nelle cose, negli avvenimenti. Le creature rappresentano Dio in misura finita. Per piu ampia spiegazione cfr. quanto è stato detto sul desiderium naturale videndi Deum al § 308.

III. - LA TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA. Nei sogni e nelle speranze, negli esercizi e negli sforzi per la VISione celeste di Dio scende l'annunzio del Signore, che il Padre celeste ci ha chiamati alla visione del suo volto. Essa non sarà piu privilegio di alcuni eletti, come la visione del volto regale nell'antichità, ma sarà un dono di Dio a tutti. Questo annunzio era la realizzazione dei bei sogni, che filosofi

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3 1 0. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

e devoti hanno avuto della visione di Dio fuori della rivelazione biblica. Nello stesso tempo esso era qualcosa di completamente nuovo, di inaudito e di sconvolgente per il fedele dell'Antico Testamento, poiché le sue spe­ ranze erano accompagnate dalla fredda consapevolezza d'essere inattuabili, perché Dio è totalmente diverso dall'uomo. Sull'anelito del fedele dell'An­ tico Testamento stava la parola : nessun uomo che mi vede può rimanere in vita (Es. 33, 20). Capovolgendo questa legge della conoscenza di Dio, Cristo ha portato il lieto annunzio che quanto si era sempre sperato, ma appariva impossibile, diverrà ora realtà. Con questo suo annunzio egli non ha tolto nulla alla superiorità di Dio sul mondo, che anzi, al con­ trario, l'afferma con la massima risolutezza. I suoi discepoli e le grandi folle esperimentano continuamente che il Dio apparso in Cristo è diverso da ogni cosa umana. Tutte le idee che gli uomini se n'erano fatte, devono essere corrette. La diversità di Dio non soltanto non viene attenuata da Cristo, ma viene messa nel piu forte rilievo. Poiché Dio è totalmente diverso dall'uomo, a questo non è !JOSSibile, in base alle sue proprie forze, realizzare l'unione con Dio. Cristo tratteggia questa impossibilità con i colori piu forti, quando dichiara che è piu facile al cammello passare attra­ verso alla cruna che non al ricco entrare in cielo. Ma ciò che è impossibile all'uomo, è possibile a Dio (Mt. 19, 23-26). Dio accorda all'uomo la grazia di vederlo direttamente. L'uomo dev'essere soltanto disposto a lasciarsi illuminare gli occhi da Dio. Tuttavia la visione di Dio non è promessa da Cristo come un evento per questa vita, bensi come il compimento dopo la morte. Per quanto quindi l'unione con Dio possa diventare intima, per il pellegrino di questa terra egli rimane sempre nascosto. L'uomo deve subire la trasformazione della morte prima di essere in grado di vedere Dio. Per la forma di unione con Dio, introdotta dalla morte, è promessa la visione immediata di Dio, che sarà il contenuto essenziale della vita che ha inizio dopo la morte. Essa è la promessa suprema del Signore. Nel discorso della montagna Cristo proclama (Mt. 5, 8 ) : « Beati i puri di cuore perché vedranno Dio » . Quindi i puri, i retti ed i sinceri vedranno Dio non piu soltanto in un simbolo, in un segno, in un fenomeno, nella nube o nello splendore della luce, in un prodigio, ma nel suo essere pro­ prio. Tra il Dio contemplato e l'uomo contemplante non si insinua piu nessuna immagine, nessun mezzo. Nello stato celeste viene accordato all'uomo ciò che compiono sempre gli angeli, i quali vedono il volto del Padre (Mt. 1 8, 1 0). Questa visione viene permessa soltanto a coloro che si donano a Dio senza riserva. Soltanto il puro può avvicinarsi a Dio. Già la visione di Dio in immagini e similitudini è accessibile soltanto al puro,

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del quale è detto : « Chi potrà salire al monte di Jahvè? E chi potrà stare nel luogo santo? Il puro di mano e il mondo di cuore » (Sal. 24 [23], 3 s.; cfr. 51 [50], 4-9). Tanto piu la visione diretta di Dio faccia a faccia è promessa soltanto ai puri, a coloro che si sono donati totalmente a Dio (cfr. J. Schmid su Mt. 1 8, 10). Poiché siamo imprigionati nel mondo delle immagini e delle ombre, non possiamo farci alcuna idea del futuro che ci è promesso. « Carissimi, già adesso siamo figli di Dio, e ancora non si manifestò quel che saremo. Sappiamo che quando si manifesterà, saremo somiglianti a lui, poiché lo vedremo cosi com'è » (1 Gv. 3, 2). Quando s'inaugurerà questo stato, la fede, il si a colui che è nascosto, avrà termine. Paolo paragona lo stato della fede con la vita del bambino, quello della visione con la vita dell'adulto. « Quando ero bambino, parlavo da bambino, e da bambino pensavo e ragionavo; ma dacché sono diventato uomo, mi sono disfatto di ciò che era infantile. Ebbene noi vediamo ora come in uno specchio, in un'ombra ; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso io conosco imperfettamente ; ma allora conoscerò appieno, come sono conosciuto » (1 Cor. 1 3, I I s.). La visione di Dio significa piena maturazione. Colui che vede Dio è l'uomo maturo. IV.

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IL PROCESSO DELLA VISIONE DI DIO.

La visione di Dio non avviene naturalmente con gli occhi corporali, ma con lo spirito, e nasce dal fatto che Dio si offre allo spirito umano. Ago­ stino (Confessiones, 9, Io, trad. di G. Capello, Torino 1 947, 275-278) cerca di spiegare questo processo nel modo seguente. Scrive : « Si avvi­ cinava intanto il giorno in cui ella doveva uscire di questa vita, giorno che tu sapevi ed io ignoravo. Per tua dis?Qsizione, credo, la quale opera per occulte vie, accadde che lei ed io, soli ce ne stessimo a\)poggiati al davanzale d'una finestra prospiciente il giardino interno della casa che ci ospitava, là nei pressi di Ostia Tiberina, dove, lontani dal frastuono, dopo le fatiche del lungo viaggio ci ristoravamo per poi imbarcarci. Intanto discorrevamo tra noi soli, con molta dolcezza e, dimentichi del passato, tesa l'anima verso quello che ci sta davanti, andavamo cercando tra noi, te presente che sei la verità, come sarà la vita eterna dei santi, che occhio non vide, né orecchio mai udi, né entrò mai in cuore d'uomo. Ma ane­ lavamo con la bocca del cuore all'onda suprema della tua fonte, fonte di vita che è presso di te, affinché aspersi di quella secondo la nostra capa­ cità, in qualche modo potessimo pensare una cosa tanto sublime.

§ 3 10. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

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E giunto il nostro discorso alla conclusione che il diletto sensibile della carne, per quanto grande esso sia e per quanto grande sia la bellezza corporea da cui deriva, nei riguardi della felicità di quella vita non sembra degno di confronto e neppure di menzione; noi sollevandoci con affetto piu ardente verso ciò che è sempre il medesimo, trapassammo a grado a grado tutte le cose corporee e lo stesso cielo, da cui il sole e luna e le stelle mandano la loro luce sulla terra. E ancora ascendevamo interior­ mente pensando, parlando e ammirando le opere tue. Arrivammo alla nostra mente e la trascendemmo per attingere la regione dell'abbondanza inesauribile, dove tu pasci Israele con l'eterno pascolo della verità e dove è vita la sapienza che fece tutte queste cose che sono, quelle che furono e quelle che saranno : ed essa non è fatta, ma è come fu e cosi sempre sarà : o meglio fu e sarà non esiste in essa, ma soltanto è perché è eterna, e fu e sarà non è eterno. Mentre parlavamo, anelando a quella, l'attingemmo un poco con tutto l'impeto del cuore e sosuirammo. Lasciate ivi legate le primizie dello spirito, ritornammo verso il rumore delle nostre labbra, dove la parola ha principio e fine. Ma che cosa può essere simile al tuo Verbo, Signore nostro, che permane in sé e non invecchia, anzi, tutto rinnova? Dicevamo dunque : se ad uno tacesse il tumulto della carne, tacessero le fantasie della terra, dell'acqua e dell'aria, tacessero anche i cieli e tacesse anche la sua stessa anima superandosi senza rivolgere a sé il pen­ siero; se tacessero i sogni e le rivelazioni per via di immagini; ogni parola, ogni segno ; se tacesse completamente ogni cosa che nasce e trapassa, cose tutte che dicono a chi ascolta : noi non ci siamo fatte da noi, ma ci ha fatte colui che permane in eterno ; se, dopo aver detto questo, tacessero, perché ormai hanno fatto drizzare l'orecchio a colui che le fece e allora parlasse egli solo non per mezzo di quelle, ma per se stesso, facendoci udire la sua parola non mediante lingua umana o voce d'angelo o per tuono di nubi, non mediante il senso ri ?OSto d'una similitudine, ma lui stesso che in queste cose amiamo, lui stesso che senza di essa ascoltiamo, come abbiamo fatto ora, levandoci su e con rapida intuizione di pensiero attingendo l'eterna sapienza che sopra ogni cosa permane; se questo stato continuasse e, sottratte le altre visioni troppo disuguali, questa sola rima­ nesse per rapire, assorbire e riporre nei gaudi piu intimi il suo spettatore e cosi la vita fosse sempre quale fu quella momentanea estasi che ci fece sospirare, non sarebbe questa la felicità espressa da quelle parole : entra nel gaudio del tuo Signore? E questo quando? Forse quando tutti risor­ geranno, ma non tutti saremo trasformati?

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

Cosi dicevamo, se non proprio a questo modo e con queste precise parole ; tuttavia, o Signore, tu sai che quel giorno mentre noi cosi parla­ vamo, cotesto mondo tra parola e parola ci diventava vile con tutti i suoi diletti. E allora mia madre disse : figlio, quanto a me, nessuna cosa ormai ha per me dell'attrattiva in questa vita. Non so che cosa faccia ancora qui, né perché ci sia, compiute ormai le mie speranze in questo mondo. Uno solo era il motivo per cui desideravo di restare ancora un poco in questa vita : vederti cristiano cattolico prima di morire. Dio me l'ha concesso con maggiore larghezza facendomi vedere che disprezzi la felicità terrena e ti consacri al suo servizio ; che cosa faccio ancora qui? » . L a gloria di Dio, che afferra d a prima lo spirito, irradia nel corpo trasfi­ gurato e si esprime in esso, cosi come nella vita terrena la concentrazione nel mondo dello spirito si imprime sul volto. Dio riempie, con la sua propria forma, la coscienza umana. Lo spirito umano riempito da Dio si imprime nel corpo, che divema in tal modo la manifestazione dello spirito riempito da Dio. Cosi avviene in esso ciò che durante il tempo del pellegrinaggio non si può mai realizzare completamente, ma costituisce lo scopo del corpo : manifestare lo spirito. Perciò soltanto il corpo che rispec­ chi lo spirito ripieno di Dio, è corpo umano nel senso piu completo.

V.

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LA VISIONE DJ DIO COME ATTO DELL'INTELLETTO O DELL'AMORE?

La visione di Dio non è un considerare curioso od ammirato la gloria divina, bensi una visione amorosa del volto svelato di Dio. Essa nasce soltanto dal fatto che Dio rivela il suo volto e riempie la coscienza umana. Perciò è unione dell'uomo con Dio. Nella visione di Dio l'uomo e Dio non stanno di fronte in un riposo immobile, rigido, ma si immergono recipro­ camente nella piu intima unione d'amore. L'uomo vede soltanto ciò per cui ha interesse. Solo quando l'io si volge ad un oggetto con attenzione, nasce l'atto della visione. Noi vediamo soltanto ciò che vogliamo vedere. Senza un minimo di amore, l'io non vede un oggetto, neanche quando l'occhio, strumento della visione, è ad esso rivolto. Quanto l'amore sia unito alla visione, di cui è presupposto ed accompagnamento, appare dal fatto che gli occhi hanno palpebre per cui quando non vogliamo vedere un oggetto, possiamo chiudere gli occhi . Il vedere implica quindi una unione del soggetto che vede con l'oggetto che è visto (H. Urs von Bal­ thasar, Sehen, Hiiren, Lesen im Raume der Kirche, in Schildgenossen, 18, 1 9 3 9, 400-4 14).

§ 3 1 0. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

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Questi fatti appaiono in una luce nuova e ancor piu chiara, se ricor­ diamo che Dio, secondo la testimonianza dell' apostolo Giovanni, è amore. La visione di Dio significa quindi visione dell'amore stesso. Dio rivolge all'uomo il suo sguardo, che è uno sguardo d'amore. Questi ricambia lo sguardo di Dio e si dona in esso a Dio. La visione di Dio significa quindi unione tra Dio e l'uomo. È un rapporto vivo tra Dio e l'uomo. Da queste considerazioni risulta la risposta ad una questione molto di­ scussa : la visione di Dio è in primo luogo un atto di conoscenza, oppure un atto di amore, un processo intellettuale oppure un fatto del cuore umano? Le opinioni tra i teologi sono diverse. I Tomisti ritengono che la visione di Dio sia formalmente ed in primo luogo un atto di cono­ scenza, cui consegue l'amore. Gli Scotisti invece credono che sia formal­ mente ed in primo luogo un atto di amore, illuminato dalla conoscenza. Forse le due opinioni si possono unire. Si potrà dire : la visione di Dio avviene nello strato piu intimo dello spirito umano, in quella profondità in cui il conoscere e l'amare non sono ancora distinti in due facoltà ed in attività separate. Secondo la Sacra Scrittura è il cuore che vede Dio e il cuore è il centro piu intimo dell'uomo, in cui avviene nello stesso tempo la conoscenza e l'amore. Secondo l'apostolo Paolo l'amore ha un futuro eterno, mentre la scienza cessa ( 1 Cor. r 3, 8- 1 3). Si potrà quindi dire che la visione di Dio è un atto di amore illuminato dalla conoscenza ed un atto di conoscenza infiammato dall'amore. (Questa spiegazione è parti­ colarmente evidente dal punto di vista della psicologia agostiniana, secondo cui l'anima non ha facoltà che ineriscano ad essa come accidenti, ma agisce mediante la sua propria natura. Le sue facoltà sono soltanto dire­ zioni diverse della sua attività. Cfr. ad es. Cl. Baeumker, Patristische Philosophie, in Kultur der Gegenwart, ed. da Hinneberg, l, 5, II ed., 1 9 1 2 ; M. Schmaus, Einfiihrung zur deutschen Vbersetzung von Augustins Werk De Trinitate, BKV, vol. XI).

VI. - IL « LUMEN GLORIAE » . Della visione immediata di Dio l'uomo diviene capace soltanto se Dio gli dona una nuova facoltà di vedere e di amare, superiore alle sue forze naturali. I teologi chiamano questa facoltà di vedere e di amare lumen gloriae, lume della gloria. Esso consiste nel fatto che Dio afferra e tra­ sforma l'uomo, gli accorda una partecipazione della sua propria capacità di

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P. I I .

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

vedere e di amare, per modo che l'uomo cosi trasformato può conoscere ed amare Dio con quella conoscenza ed amore, con cui Dio penetra se stesso. Soltanto se l'uomo è preparato per Dio mediante questo lume della gloria, Dio gli può essere presente immediatamente con se stesso, senza distruggerlo con l'ardore del suo amore e la chiarezza della sua luce. Senza questa preparazione dello spirito fatta da Dio stesso, l'uomo non sarebbe in grado di vederlo direttamente. La visione di Dio è quindi partecipazione alla vita di conoscenza e di amore propria di Dio stesso ed a lui riservata (cfr. Sal. 35, 10). L'uomo che vede Dio immediatamente è deiforme. Il Catechismo Ramano, edito per incarico del Concilio di Trento, cosi descrive questo stato : c La beati­ tudine consiste essenzialmente in queste due cose : che vedremo Dio com'è nella sua natura ed essenza, e che noi stessi diverremo come dèi giacché chi gode di lui, pur conservando la propria natura, riveste una qualità meravigliosa, anzi quasi divina, che lo fa apparire più un dio che non un uomo. Si può intendere la ragione di questa trasformazione considerando che qua­ lunque realtà viene conosciuta o per la sua stessa essenza o attraverso qualche similitudine e analogta. Ora, poiché non esiste alcuna cosa che abbia tale �omi­ glianza da farci giungere anraverso se ste�sa alla conoscenza perfetta di Dio, è chiaro che nessuno ne può vedere la natura e l'essenza, salvo che la stessa essenza divina si unisca a noi. Un accenno a tale fatto è contenuto nella parole dell' Apo­ stolo : " Ora vediamo mediante uoo specchio, in enigma, ma un giorno faccia a faccia ". L'espressione ·• in enigma ·• è intesa da Sant'Agostino come similitudine che ci fa conoscere in qualche modo Dio. La stessa cosa che evidentemente vuole dire anche San Dionigi, quando afferma che le cose celesti non possono essere conosciute attraverso la somiglianza delle cose terrene. Le cast: terrene infatti esprimono somiglianze corporee e queste sono incapaci a darci l'idea delle cose incorporee. Per questo è essenzialmente impossibile che una cosa creata possa darci una similitudine cosi pura e spirituale com'è Dio stesso e farci conoscere perfettamente la purissima essenza divina. A ciò si aggiunga che tutte le cose create sono limitare: e circoscritte nella loro perfezione, mentre Dio è infinito, e nessuna similitud.ine di cosa creata può racchiudere la sua immensità. Se quindi Dio deve essere da noi conosciuto nella sua essenza, non rimane che un'unica via, che la narura stessa di Dio si unisca a noi, elevi misteriosamente la nostra intelligenza e ci ponga quindi in grado di vedere la sua bellezza sostan­ ziale. Ora questo ci viene reso possibile dal lume della gloria, quando cioè, illu­ minati da questo splendore, noi vedremo Dio, vera luce, nella sua luce; infatti i beati vedono sempre Dio faccia a faccia. Mediante questo dono, il piu grande e magnifico di rutti i doni, essi partecipano alla essenza di Dio e possiedono cosi la vera e perfetta beatitudine ... Tutto ciò è semplicemente soprannaturale; nessuna parola arriva a spiegarlo completamente, nessun pensiero ad afferrarlo totalmente. Tuttavia una pallida immagine di questa beatitudine può esserci data anche dalle cose sensibili. Come il ferro, posto nel fuoco, prende fuoco e, senza mutare la sua natura, sembra

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3 1 0. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

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assumere un'altra natura, cioè quella del fuoco, cosi tutti coloro che vengono accolti nella gloria del cielo, infiammati dall'amore di Dio, pur perdurando la loro natura, ne sono a tal punto trasformati, che si può dire tranquillamente differiscano dall'uomo che è in questo mondo molto piu di quel che il ferro, incandescente, differisca dal ferro freddo » (n. 145).

VII. - OGGETTO DELLA VISIONE DI DIO.

1) Prospetto. Che cosa vede colui che contempla Dio? Vede soprattutto la gloria della natura divina e lo scambio di vita delle tre persone divine. In Dio e per mezzo di Dio vede pure il mondo nella giusta luce. La visione del mondo corre in certo modo parallela. L'elemento decisivo, primario è la visione della natura divina e delle tre persone divine. Il beato può contemplare il mistero piu intimo di Dio. Dio gli si manifesta come non può manifestarsi all'uomo nel tempo del pellegrinaggio. 2) Presentimento terreno. Della gloria, che si offre allo sguardo dell'uomo in quello stato, nella vita terrena possiamo avere soltanto un vago presentimento. Possiamo farcene una pallida idea, ricordando che tutta la pienezza della realtà terrena è un'ombra della ricchezza divina. Quel che incontriamo in natura e nella storia, dal tepore e dal rigoglio della primavera fino alla matura­ zione estiva, alla raccolta nell'autunno e alla bellezza immacolata dell'in­ verno, dall'infinitamente piccolo degli atomi fino all'infinitamente grande delle stelle, dalle intuizioni dei grandi artisti e scienziati fino alle imprese di grandi uomini di stato, dalle figure gloriose dei secoli fino alle espe­ rienze beatificanti della comunione umana, tutto ciò è una eco ed una risonanza della pienezza della vita divina. Conseguentemente la visione della gloria terrena è un'aurora della visione celeste. 3) Bellezza creata e bellezza divina.

a) La profondità della visione immediata di Dio diviene ancora piu chiara sullo sfondo dell'esperienza terrena, se consideriamo una diffe­ renza essenziale tra la bellezza delle cose terrene e la gloria di Dio. In Dio le magnificenze, che nella creazione sono frazionate nello spazio

P.

Il.

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ESCATOLOG I A INDIVIDUALE

e nel tempo, sono raccolte insieme, sono in certo modo concentrate in un unico punto, ma non in un tutto indeterminato, come ad es. i colori sono uniti nel bianco in modo che i singoli colori non sono piu visibili al nostro occhio e prima deve avvenire la scomposizione nel prisma, affinché possiamo percepire la bellezza dei singoli. Ogni magnificenza immaginabile e piuttosto contenuta in Dio nel modo che a lui compete e di lui è degno : l'amore, la verità, la giustizia, la santità, la potenza. Queste perfezioni però non sono riunite insieme una accanto all'altra, ma formano piuttosto, per la semplicità divina, una realtà assolutamente unitaria. L'amore è verità, la verità è amore. L'amore è potenza, la potenza è amore. Qui si rivela il contrasto profondo tra Dio e tutte le cose della nostra esperienza, che sono dominate dalla legge della separazione e della tensione. In Dio regna la legge della semplicità e della totalità. b) La legge della separazione o della particolarità che domina ogni cosa creata ci può apparire specialmente chiara nell'uomo. Nessun uomo rap­ presenta la totalità dell'uomo. Infarti ognuno è il conio maschile o fem­ minile dell'« idea » uomo, e quindi è a priori essenzialmente unilaterale o frammentario. Questa situazione antologica si manifesterà naturalmente nel pensiero e nella volontà, nel sentimento della vita e nel carattere. Anche entro la realizzazione maschile e femminile ci sono a loro volta varie grada­ zioni, per modo che il singolo tipo maschile e femminile non è mai realiz­ zato in maniera pura e perfetta. Anche nella cornice della unilateralità delle disposizioni, dipendente dalla unilateralità ontologica, la vera unità dei pensieri, dei sentimenti, del carattere dev'essere prima conquistata. Essa non verrà mai raggiunta totalmente. Perciò la unilateralità dell'uomo sin­ golo non sarà mai completamente superata, anzi, sembra essere addirittura una forza dell'uomo e sembra farlo capace delle sue piu importanti im­ prese. Parliamo di uomini di intelletto, di cuore, di volontà, di nature contemplative ed attive, di un artista nato, di un uomo di stato nato, di uomini spirituali ecc. Ciò sembra indicare che la grande prestazione in un campo dev'essere pagata con un difetto nella completezza umana. Il prevalere di una disposizione può, entro lo spazio limitato della vita umana, portare ad una grande compattezza e armonia della personalità. Per uomini di cuore, come ad es. Agostino, Bonaventura, Pasca!, l'amore è il centro da cui partono tutte le decisioni ed in cui si riconcentrano. Tuttavia sarà compito morale aspirare, entro limiti delle sue possibilità, alla completezza dei valori umani, alla ricchezza e pienezza dell'umano. Questa aspirazione però porta con sé il pericolo di perdersi nella molte­ plicità, di distrarsi e di sciogliersi in una inquietudine e mobilità caotiche.

§

3 1 0. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

577

Qui appare pure visibile la differenza tra gioventu e vecchiaia. Proprio della gioventli è il senso per la vita, la varietà, il colorito, il dinamismo. Le riesce difficile, nell'eterno suo vagabondare, giungere ad una forma solida e ferma. Viceversa, vale per la vecchiaia che quanto piu la vita si impone ordine nel fluire del tempo, si controlla e si circoscrive entro precisi limiti, tanto piu è minacciata dal pericolo di diventare fiacca, rigida, gretta, pedante, schematica. È un grande compito, che però non può mai essere assolto completamente, portare la pienezza e mobilità della gioventu nella legge, e non lasciare stagnare la vita nelle forme. Si tratta di un avvenimento che ha del miracoloso, come quello che Goethe descrive in Paria : « Per i cuori beati, per le mani pie l'onda mossa si compone magnifica in una sfera di cristallo ». Quanto sia difficile per l'uomo rag­ giungere l'armonia morale, quanto i tentativi di farlo siano minacciati dalla unilateralità umana, appare chiaro dal fatto che la forte accentuazione di un atteggiamento morale può portare alla violazione di un altro dovere. 4) Pienezza armonica in Dio.

In questo mondo l'amore è diverso dalla verità. La diversità può giun­ gere fino al punto che l'uomo (sia pure erroneamente) creda che l'amore gli comandi di violare la verità. Viceversa la preoccupazione della verità può portare a violare l'amore verso gli uomini. Soprattutto giustizia ed amore sono talmente in contrasto tra loro, che quando l'uomo si obbliga alla giustizia, l'amore può cadere nel pericolo di recedere, la giustizia può divenire durezza e brutalità (summum ius - summa iniuria: fiat iustitia, pereat mundus), e viceversa, quando l'uomo cerca di attuare senza riserve l'atteggiamento dell'amore servizievole, sorge il pericolo che la giustizia venga repressa e l'amore degeneri in debolezza e dabbenaggine. Soprattutto amore e forza, verità e forza entrano quasi sempre in conflitto tra loro nella storia. La forza è quasi necessariamente spietata e solo con diffi­ coltà può anche sfuggire alla tentazione di ricorrere alla menzogna. Per l'uomo, che viene da queste esperienze opprimenti, sarà un fatto sconvol­ gente vedere una realtà in cui amore, verità, santità, forza e giustizia sono una sola cosa. A motivo della assoluta semplicità, Dio è assolutamente per­ fetto. Chi vede Dio vede la perfezione assoluta, in cui ricchezza e forma, mobilità e riposo, giovinezza e maturità, fioritura e sviluppo coincidono in un mistero inconcepibile. Agostino ne dà la descrizione seguente : « Ecco, guarda ancora, se puoi! Certamente tu ami solamente il bene. Buona infatti è la terra per gli alti

P. I I .

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

monti, le dolci colline ed i vasti campi, buono è un podere grazioso e fertile, buona è una casa vasta e luminosa, simmetricamente divisa e ripar­ tita, buoni sono gli animali, corpi animati, buona è la dolce aria salutare, buono un cibo ghiotto, utile alla salute, buono è il volto di un uomo con forme proporzionate, espressione serena e colorito fiorente, buona è l'anima di un amico nella dolcezza della purità di cuore e della fedeltà all'amore, buono è un uomo giusto, buone sono le ricchezze perché danno facile libertà di movimento, buono è il cielo con il sole, la luna e le sue stelle, buoni sono gli angeli in santa obbedienza, buono è il discorso che istruisce piacevolmente ed ammonisce convenientemente gli uditori, buona è la canzone nella melodia del ritmo e nella serietà dei pensieri. Ma perché devo continuare la enumerazione? Questo bene e quel bene? Togli via questo e quello, e guarda la bontà stessa, se puoi : vedrai Dio, il quale non è buono per via di un altro bene, ma è il bene di ogni altro bene. Di tutti i beni infatti che ho enumerato, o che ancora si possono vedere o imma­ ginare, se diamo un giudizio fedele alla verità, non chiameremmo l'uno migliore dell'altro, se non fosse impresso in noi il concetto del bene stesso, in base al quale esaminiamo un bene determinato e preferiamo l'uno all'altro. Dio quindi non è da amare come questo o quel bene, ma come il bene stesso. Infatti è da ricercare il bene dell'anima, non quello dal quale essa, giudicando, rifugge, ma a cui essa aderisce nell'amore. Che altro è questo se non Dio ! Non l'anim a buona, non l'angelo buono, non il cielo buono, ma il bene buono » (De Trinitate, 8, 3). Commentando S. Giovarmi (In loan . tract., 20, n. 4) dice : « Nell'uomo altro è ciò che egli è, altro ciò che egli può. Infatti talora egli è uomo, e non può ciò che vuole ; ma talora è cosi uomo da potere ciò che vuole ; cosi quindi altro è il suo essel'e, altro il suo potere. Se infatti il suo essere fosse ciò che è il suo potere, egli potrebbe quando volesse. Ma in Dio altro non è la natura con cui egli è, e altro la potenza con cui egli può, ma in lui tutto è ugualmente essenziale, ciò che egli può e ciò che egli è, perché è Dio; non in altro modo egli è, ed in altro modo egli può, ma egli ha l'essere ed il potere nello stesso tempo, perché è l'essere e l'agire nello stesso tempo ». Poiché Dio è tutto, l'uomo trova in lui tutto. Nel commento ai Salmi (Enarr. in Ps., sermo 1 , n. 12) scrive : « I miti... godranno la pienezza della pace... Il tuo oro è pace, il tuo argento è pace, il tuo possesso è pace, la tua vita è pace, il tuo Dio è pace. Qualunque cosa tu pensi, è per te pace. Infatti l'oro che hai qui (in terra), non può essere per te argento; ciò che è vino, non può essere per te pane; ciò che per te è luce, non può essere per te bevanda : il tuo Dio è per te il tutto.

§

3 1 0. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

579

Tu lo mangerai per non avere fame; lo berrai per non avere sete; sarai da lui illuminato per non essere cieco ; sarai da lui sostenuto per non cadere; egli come tutto ed intero possederà te tutto ed intero. Là non subirai limi­ tazioni e restrizioni da colui col quale possiedi il tutto : tu avrai il tutto, ed il tutto avrà anche quello ; poiché entrambi, tu e quello, sarete d'ac­ cordo e quest'unico tutto avrà anch'egli, che vi possiede entrambi » . Nella pienezza armonicamente configurata Agostino vede la bellezza che affascina l'uomo divenuto partecipe della visione di Dio. La visione della bellezza terrena è un presentimento della visione celeste. « Da qualunque parte si rivolga, l'animo umano si ficca tra i dolori, meno che in te ; sebbene si attacchi a cose belle fuori di te e fuori di sé, le quali, però, non sarebbero affatto, se non fossero da te. Nascono e muoiono e nascendo, cominciano in certo modo ad essere; poi crescono ; giungono a compì­ mento e quindi invecchiano, periscono : neanche tutte invecchiano, ma tutte periscono. Pertanto quando nascono e tendono all'essere, quanto piu rapidamente crescono per essere, ranto piu si affrettano verso il non essere. Tale è la loro legge : tu hai dato loro questo ... Non essere vana, o anima mia, non assordare l'orecchio del tuo cuore nel tumulto delle tue vanità... Se ti piacciono i corpi, lodane Dio e nvolgi al loro artefice l'amore, perché nelle cose che ti piacciono tu non sia spiacevole. Se ti piacciono le anime, amale in Dio, perché esse pure sono mutevoli e solo in lui fisse acquistano stabilità, altrimenti passano e periscono. Amale dunque in lui e rapisci a lui insieme con te quelle che puoi, dicendo loro : amiamolo, amiamolo. È lui che ha fatte queste cose e non è lontano. Non le ha create e poi se n'è andato; ma da lui e in lui esistono. Ecco dove sta, dove si sente il sapore della verità. È nell'intimo del nostro cuore; ma il cuore s'allontanò da lui. Tornate, o traviate, al vostro cuore e stringetevi a colui che vi ha create. State con lui e sarete stabili, riposate in lui e sarete tranquilli. Dove andate fra tanti dolori? Dove andate? Il bene che amate viene da lui, ed è buono e soave solo in ordine a lui. Ma giustamente diverrà amaro, se ingiustamente si è abbandonato lui, amando quello che da lui viene. Che vi giova ancora e sempre andare per vie difficili e faticose? La pace non è dove la cercate. Cercate, cercate pure : essa non è dove cercate. Voi cercate la vita e la felicità nel paese della morte : non c'è. Come può trovarsi vita e felicità dove non c'è neanche la vita? ... Questo io non sapevo allora e amavo le bellezze inferiori andandomene verso l'abisso. Dicevo agli amici : amiamo noi altro che il bello? E che cosa è il bello? E che cosa è la bellezza? Che cosa ci attrae e ci affeziona alle cose che amiamo? Se non ci fosse in esse grazia e bellezza non ci attirerebbero in nessun

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P. II.

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

modo... Ma il punto fondamentale d'una questione cosi importante io non scorgevo ancora nella tua arte, Onnipotente » (Confessioni, 4, IO-I 5, trad. di G. Capello, Torino 1 947). Mentre nel campo terreno verità e bellezza e soprattutto santità e bel­ lezza, almeno per lo sguardo che si ferma alla superficie delle cose, sono sovente distinte, anzi in contrasto tra loro, Dio, verità amore e santità, si offre all'uomo sotto l'aspetto della bellezza assoluta. Lucia Cristina ne ha un presentimento nella vita terrena. Scrive : « Non appena il Signore diletto mi svelò la sua somma bellezza, la mia anima si perdette comple­ tamente in essa. Vi scorsi ogni bellezza creata. Vi scorsi la bellezza spirituale, la profondità del pensiero... l'alto volo del genio, l'ispirazione dell'arte... Scorsi la bellezza morale, lo splendore di ciò che è buono e puro. Scorsi anche la bel­ lezza visibile della creazione : bellezza dell'ordine, dei rapporti, della immensità; bellezza dell'armonia, della forma e del colore. Non so se posso esprimermi chia­ ramente; ma tutte queste cose non le vidi in se stesse, come le vediamo abitual­ mente, perché allora non ero in grado di pensare anche soltanro ad esse; ma le vidi nel loro principio e q uesto è la stessa bellezza divina. Vidi questa infinita bellezza, che è indipendente da tutto il bello che ha creato; ma ciò che essa sia, non potrei esprimere, perché vidi ed ador:ti senza comprendere. Tutto ciò che posso dire è questo : l'anima riconosce le proprietà della fonte divina nelle opere che ne fluiscono, ma vede chiaramente che le opere non possono dare un concetto esatto della fonte. Vede che la bellezza increata versa qualcosa della sua magni­ ficenza nelle creature e che Dio è in ceno modo la bellezza di ciò che noi vediamo bello. Questa è già una vista meravigliosa. Ma ne llo stesso tempo si . rivela all'anima quella bellezza infinita n e ll a stessa nat ura divina, incomparabilmente superiore alla bellezza creara, che rapisce l'anima, e le sue forze, sopraffatte dallo stupore, ammutoliscono dinanzi ad esso. Non è la prima volta che nostro S1gnore nella sua bonrà mi ha accordato la visione interna della bellezza divina, ma fino ad oggi, ancor meno di ora, io non la potei esprimere. E poi ho una testa cosi dura ed una sensibilità cosi straordi­ naria per il bello, che certamente pe.r me è m o lto prezioso se il buon Maestro imprime profondamente nella mia anima i lineamenti della bellezza divina. Cosi tutto ciò che appartiene al bello creato può soltanto sfiorare il mio cuore, ma non potrà !asciarvi alcuna impressione, che si riferisca realmente alla creatura. L'amore del bello può e deve, cosi mi pare, elevare a Dio in tre gradi. Anzitutto deve portare la parte superiore dell'anima a dominare sulla inferiore; in secondo luogo ci insegna ad adorare Dio, quale si è rivelato nelle sue opere; infine, in terzo luogo, fa si che le creature per noi non possono piu essere che un velo, che lascia trasparire il creatore. Oh, la mia anima nel suo cammino dal creato all'increato ha appena superato la prima di queste pietre miliari ! Ogni cosa bella che incontravo, mi entusiasmava un tempo appassionatamente e mi rapiva completamente l'anima. Quando vidi per la prima volta il mare e le coste, ho dovuto piangere. Sovente stavo ferma per ore intere e contemplavo tutta l'immensità; non potevo esprimere ciò che sentivo e il mio prolungato si-

§

3 1 0. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

lenzio veniva biasimato. La musica era per me una vera passione, p1u ancora lo studio; segretamente ho commesso per questo parecchie pazzie. Non mi stan­ cavo di ammirare i capolavori dei pittori, quantunque non avessi alcuna attitudine per la pittura. Non potevo trovare un'espressione che rivelasse sufficientemente l'ardore, con cui il bello infiammava la mia immaginativa, ed in questo smisu­ rato entusiasmo non vedevo nulla di dannoso, ma al contrario mi dedicavo a queste cose con tutta la forza della mia volontà. Veramente la mia anima infelice ne ritornava con il sentimento del vuoto e della insoddisfazione, ma proprio per questo tornava a rivolgere continuamente tutta la sua consumante energia all'ideale, che pure conteneva tanti pericoli per essa. Se avessi avuto meno sete del bello, mi sarei forse accontentata delle cose visibili; ma come il corridore nell'impeto di una corsa frenetica vola oltre la meta, cosi la mia anima si precipitava sul bello, non appena l'avesse notato, e ricercava ancora oltre. Ma piu tardi - guidata da una mente, che invero meritava maggior fede della mia - riconobbi che questa aspirazione della mia anima al bello ed all'ideale mi aveva preparata, a mia insa­ puta, per la via, per cui Dio mi voleva condurre. Cosi vissi fino al giorno in cui la

prima

chiamata

soprannaturale

di

Dio mi

gettò completamente nelle

sue

braccia... Allora si aprirono i miei occhi, e piu di ogni altra cosa incominciai, o mio Dio,

a

godere della tua bellezza nelle cose sante. Nel Vangelo, nei Salmi,

nei riti della Chiesa scoprii un senso ed

un

incanto divini, che fino allora mi

erano stati relativamente nascosti. Poi levai lo sguardo, che tu hai dato alla mia anima per vedere ed ammirare, a te solo. Dovunque vedevo il bello, cercavo te, o mio Dio, e devunquc ti ho trovato. A tutte le creature ho chiesto di te e tutte hanno risposto : egli è qui ! Ho chiesto al mare di te . . . Tu riposa VI nei suoi abissi e

facevi moltiplicare la vita attraverso al suo seno. Ho chi esto di te alle sue coste

dirupate, e la loro superba altezza mi ha gridato : egli è qui l Nelle ombre impe­ netrabili delle selve ti ho incontrato; ti ho vistO guizzare nel lampo; ti ho per­ cepito nella voce lontana del vento, nel rumoreggiare del tuono e nell'infuriare scatenato dei temporali, ed il mio cuore non ha tremato, perché eri tu. Nell'alba e nel tramonto ti ho salutato; ti ho sorpreso nel fresco delle valli, ti ho sentito nel dolce murmure della fontana solitaria. Ho raccolto i cinguettii che migliaia di piccoli cantori innalzavano a te. Il mio occhio affascinaro ti ha scoperto quando produci l'abile affaccendarsi dell'insetto, ed il mio sguardo si è posato attonito sui misteri, con cui la ma sapienza riempie la vita di un fiore ... Ti ho sentito nel lavoro segreto delle forze naturali, nelle ore in cui una grande, pesante calura

sembra sprofondare

la terra nel sonno, e

tuttavia

migliaia

di

rumori impercettibilmente lievi giungono al nostro orecchio . . . Sono i germi che si aprono, i fiori che si schiudono, i microbi che chiamano e rispondono in un raggio di sole. E tutti dicono nel loro linguaggio :

egli è qui !... Gloria a Dio !

Ho visto pure brillare su di noi, o Signore, lo sguardo della tua misericordia nella luce delle stelle, ed il loro numero e le loro infinite distanze non mi hanno piu atterrita, perché invitavano la mia anima a slanciarsi nella tua infinità. Infine ti ho visto nelle tue parole piu perfette, nei tuoi santi; ho udito il cantico che ti innalzano l'eroismo, il genio, l'eloquenza, la scienza e l'arte. Ti ho visto, o mio salvatore Gesu Cristo, nella persona dei poveri, dei vecchi e degli afflitti; essi portano il nobile nome,

che tu hai dato a tutto ciò che soffre e piange ! Ti ho

cercato nella forza, nella intelligenza ed energia della giovinezza e dell'età matura,

P. II. - ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

e poiché temevo di vedere la tua santa immagine sovente sfigurata o misconosciuta, ho ancora cercato oltre ed altrove e ti ho trovato, o mio Dio, nel profondo dello sguardo del bambino . . Sf, tu sei presente nell'anima che non ti ha mai afflitto, sei l'incanto misterioso che attira gli uomini all'essere innocente; la sua sola debolezza non ci porrebbe ispirare una cosi profonda e tenera partecipazione. Sei tu che appari nei suoi occhi puri e tu regni, senza dover spartire, in questa anima ancora chiusa al maligno. Questa fu la prima mutazione, che Dio operò nella mia anima, ma non era ancora sufficiente. Presto sentii qualcosa di strano, strano almeno per me. Tutto ciò che fino allora io avevo ammirato mi appariva ancor sempre cosi bello, e tuttavia non potevo piu goderne nello stesso modo. Come le stelle alla luce del sole, cosi tutto spari nello sguardo di Dio alla mia anima » (J. Bernhart, Der stumme Jubel, 2 ed. 1936, 71 -76). .

ART. IV. - IL CIELO COME DIALOGO

I.

-

SCAMBIO CON

DIO.

Per comprendere la forma di vita celeste è importante il fatto che quanto il beato vede non è la fredda magnificenza di una cosa e neppure il supremo valore impersonale, né la verità oggettiva in sé (summum bonum, summa veritas), ma l'ardore e la luce della verità e dell'amore personali. Il beato, incontrando Dio, incontra la verità e l'amore in persona propria. Il cielo è l'incontro con la verità e con l'amore personali . Il designarlo unilateral ­ mente come possesso del sommo bene o della somma verità corrisponde­ rebbe al pensiero platonico, non al cristiano. Anche secondo quest'ultimo, Dio è il valore sommo e la somma verità, ma in modo che verità e valore hanno carattere personale. In questo mondo non abbiamo una esperienza che ci permetta di con­ cretare l'idea che il cielo è l'incontro con l'amore ipostatizzato, poiché vediamo soltanto uomini che amano, che dicono la verità, ma non la verità e l'amore in persona. La verità e l'amore, che l'uomo incontra nello stato della vita celeste, non è un atto posto da un essere personale, ma una persona. Quella verità e quell'amore sono padroni e coscienti di se stessi : sono personali. Quella verità e quell'amore hanno quindi un volto, in cui si può guardare, un occhio, dal quale l'uomo può essere guardato. Quando perciò il beato guarda Dio, guarda negli occhi del tu divino, che è insieme la verità e la santità, l'amore e la giustizia, la potenza e la sapienza. L'amore e la verità in persona propria non si possono guardare senza giungere ad uno scambio con essi. Infatti la creatura li può guardare

§

3 1 0. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

soltanto se essi le si rivolgono e le si schiudono, e se essa stessa si apre e si volge alla verità ed all'amore. Possiamo chiamare dialogo lo scambio con la verità e con l'amore ; e perciò possiamo definire il cielo come dialogo con la verità e l'amore in persona, o meglio, con l'amore che è nello stesso tempo verità, con la verità che è nello stesso tempo amore. Dio si dona all'uomo con amore svelato e questi risponde con un beato abban­ dono di sé a Dio. Lo scambio tra Dio e l'uomo è determinato dalla trinità di Dio.

Il. - PARTECIPAZIONE ALLO SCAMBIO DI VITA DELLE PERSONE DIVINE. Il dialogo con la verità e con l'amore sussistenti è una partecipazione al dialogo che si tiene di continuo fra le tre persone divine. Dobbiamo quindi, per comprenderlo piu a fondo, cercare per un momento di renderei chiaro il dialogo divino (cfr. § § 5 8 s. 86. 9 0).

I) Lo scambio di vita in Dio. Le tre persone divine stanno nella piu intima unione di vita tra loro. Ciascuna vive della dedizione all'altra; anzi ciascuna non è altro se non dedizione alle altre due. Ciascuna può dire io, soltanto pronunziando nello stesso tempo il tu. Da ciò dipende la loro esistenza. La teologia scolastica dice : ogni persona è una relazione sussistente (relatio subsistens). Questa situazione diviene ancora piu chiara, se la consideriamo alla luce del fatto che Dio è spirito, e quindi è l'amore e la verità, il conoscere e l'amare in persona propria. In base a diversi accenni della Sacra Scrittura la relazione del Padre al Figlio sembra essere determinata da un atto di conoscenza, la relazione del Padre e del Figlio allo Spirito Santo da un atto di amore. La prima è indicata dalla denominazione Verbo, a favore della seconda depone una spiegazione, usuale dopo sant'Agostino, del modo di esistere dello Spirito Santo. (Cfr. in proposito M. Schmaus, Die psychologische Trinitiitslehre

des heiligen Augustinus, 1927). Il Padre penetra e contempla tutta la realtà. Penetra il suo proprio essere divino e nello stesso tempo tutte le possibilità, in cui egli può manifestare se stesso in modo infinito. In questo sguardo, che tutto penetra e tutto contempla, egli vede cielo e terra, oltre a cui non c'è piu nulla da conoscere, perché piu nulla esiste. A quello che egli conosce in questa visione che tutto penetra, il Padre dà forma in un profondo e vasto pen-

P. II.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

siero. Tale pensiero, nonostante la sua profondità e ampiezza abissali, ha una lwninosa chiarezza ed una figura nettamente delineata. Il Padre forma e configura quindi la sua conoscenza in un pensiero di assoluta pienezza e vastità. In esso egli rende presente a se stesso

il proprio essere divino e

nello stesso tempo l'essere della creazione. In esso egli esprime a se stesso la sua gloria divina e la magnificenza del mondo, cosi come l'uomo in un pensiero che concepisce, esprime a se stesso ciò che è presente al suo spirito. Il pensiero vasto e profondo formato dal Padre si può quindi chiamare anche la Parola, che il Padre scambia con se stesso. Questa Parola differisce da ogni parola umana per due particolarità. Non è, come la parola umana, povera di contenuto e debole nell'esistenza. Nelle nostre parole noi possiamo offrire sempre soltanto un aspetto del nostro pensiero

e

del nostro semimento. Anzi, anche all'uomo dotato di

grande capacità espressiva, al poeta ed all'artista geniali accade di non poter incarnare nella parola le imm agini ed i pensieri che vivono in essi. Questa è la sofferenza del dialogo umano : il non poter esprimere nella parola i nostri pensieri ed il nostro amore

in

un

modo adeguato. Nella

nostra parola vive sempre soltanto una piccola parte di ciò che si

trova

nel nostro spirito e nel nostro cuore. Perciò la parola umana è sempre soltanto

un

indizio del mondo invisibile ed impercettibile dell'intimo del­

l'uomo. L' uditore viene invitato dalla parola umana ad ascoltare quella realtà che risuona nella parola, ma che non può entrare nella parol a in un modo perfetto. Se non è in grado di farlo, se quindi non può afferrare la realtà nascosta che risuona attraverso la parola umana, anche la parola umana piu ricca rimane per lui vuota. Al contrario, la parola divina è di una ricchezza illimitata. In essa viene espressa tutta la pienezza della realtà, per modo che non rimane piu nulla di inespresso. Nello stesso tempo

è piu profonda della parola umana

poiché scende nella profondità abissale dell'essere divino. Tuttavia non paga la sua pienezza con la superficialità, né si perde per questo nell'inde­ terminatezza, ma conserva estrema perspicuità e chiarezza. Un'altra imperfezione della parola umana

è la sua debolezza di esi­

stenza. Le parole umane sono fuggevoli, vanno e vengono e, appena pro­ nunziate, si disperdono come il vento. Tra le molte parole umane che non meritano di durare, se ne trovano però anche di quelle consistenti e vitali, e tra esse, poi, alcune meritano di persistere, perché degne e pre­ ziose in se stesse. Cosi può avvenire che una parola umana impronti tutta un'epoca, aprendo nuovi orizzonti al mondo e alla vita. Tali parole sono creatrici della storia ed agiscono ben oltre il momento in cui vengono

§

3 1 0. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

pronunziate. Ma ciò che di loro sopravvive non è il suono e la forma, ma soltanto la forza operativa. Al contrario, la parola divina ha un forza assoluta di esistenza, non soggiace alla caducità, poiché partecipa della esistenza di Dio. Anzi, la sua forza di esistenza è quella stessa del Padre. Perciò la parola, in cui il Padre esprime se stesso e il mondo, esiste prima del tempo. E durerà pure oltre tutti i tempi. È una parola eterna. Questa parola viene continuamente pronunziata dal Padre ed esiste con forza asso­ luta, in quanto viene formata dal Padre con un processo eterno. Risuona quindi attraverso tutti gli spazi e tutti i tempi. Se non la possiamo perce­ pire, la ragione è da vedersi nel fatto che nella vita di pellegrinaggio non abbiamo l'orecchio necessario per farlo. Dobbiamo fare ancora un altro passo. La parola pronunziata dal Padre non ha soltanto una pienezza assoluta di contenuto ed una forza indistrut­ tibile di esistenza, ma è anche personale. È padrona e cosciente di sé. Ha un volto, per modo che la si può guardare e si può entrare in dialogo con essa. È un io e può anche rivolgersi a un tu. È il Figlio di Dio. Dal fatto che il Figlio è la parola formata e pronunziata dal Padre, pos­ siamo determinare con piu esartezza il movimento di dedizione in cui stanno tra loro Padre e Figlio. Il Padre sta al Figlio nella relazione del parlante, anzi non è soltanto il parlante, ma il movimento del parlare stesso, il parlare in persona. Viceversa, possiamo intendere il rivolgersi del Figlio al Padre come il movimento del rispondere. Il Figlio è il rispon­ dente, non solo, ma il movimento del rispondere stesso. L'esistenza del Padre e del Figlio si risolve quindi in questo, che l'uno è il parlare e l'altro il rispondere in persona. Ciò che quindi il Padre dice al Figlio è quanto di piu alto e di piu pro­ fondo si possa dire ad un altro. È il mistero di Dio e del mondo. Ciò che il Figlio percepisce è quanto di piu beatificante e di piu ricco si possa sentire dall'altro. Il Padre non riserva per sé nessun mistero, celandolo al Figlio. Il Figlio è interessato nel suo piu intimo al colloquio del Padre : ascolta il Padre con quell'interesse da cui dipende la sua esistenza. Se il Padre volesse riservare a sé un settore del mistero della realtà, ciò sarebbe per lui la morte. Se il Figlio si disinteressasse di una pur minima parte della comunicazione paterna, questa mancanza di interesse sarebbe anche per lui la morte. Una simile cosa però è intrinsecamente impossibile. Poiché Dio è amore, il dialogo tra Padre e Figlio è un dialogo d'amore, amore che è nello stesso tempo verità e santità. La parola che il Padre pronuncia è una parola di amore di profondità abissale e di pienezza incon­ cepibile. La risposta che il Figlio dà, che anzi è, è una risposta di amore.

s86

P.

II.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

Cosi la realtà ultima, oltre la quale non esiste nulla, è un dialogo di amore, anzi l'assoluto dialogo di amore. Quando la realtà ultima viene cosi definita, non si sminuisce affatto la realtà di Dio. Benché nell'ambiente umano il dialogo possa essere debole ed imperfetto, tuttavia il dialogo amoroso, che noi chiamiamo Dio, è di una potenza assoluta e di una ric­ chezza assoluta, perché i movimenti del parlare e del rispondere sono di una potenza assoluta. Ciò che ivi esiste nel modo del parlare e del rispon­ dere, è la pienezza divina di vita, l'unico essere assoluto di Dio. Nel dialogo beatificante tra Padre e Figlio si parla non soltanto della realtà divina, ma anche di quella creata. Nel contenuto di questo dialogo rientra il mondo nel suo complesso, rientrano le cose singole, soprattutto i destini degli uomini. I pensieri che il Padre ha delle cose e dell'uomo, vengono ivi espressi. In esso è garantito il senso eterno del mondo, delle singole cose che vi appartengono, della storia umana e dei singoli uomini. Al di sopra di tutte le assurdità si leva il senso eterno, che il Padre ha formato nel suo Figlio. La fede nella Parola eterna di Dio è quindi la fede nel senso eterno del mondo e degli uomini. Tale fede ha in sé la forza di superare le assurdità SUIJerficiali del mondo. Chi vive di essa può penetrare attraverso ad ogni assurdità e giungere al segreto del senso eterno del mondo. Per quanto questo segreto, durante il corso della sroria e della vita singola, sia ancora nascosto dai fitti veli di un'assurdità superficiale, il fedele sa che tuttavia è reale. Colui che è unito a Cristo vive nella cer­ tezza che un giorno esso sarà svelato. Nell'epoca della esistenza, che verrà dopo il crollo delle forme terrene di esistenza, Dio stesso S?iegherà all'uomo il senso eterno del mondo e della sua vita, facendolo parteci?are al dialogo che egli tiene col Figlio. Al dialogo tra Padre e Figlio partecipa essenzialmente anche lo Suirito Santo, che è il respiro di atnore, che il Padre alita verso il Figlio ed il Figlio verso il Padre. Come la oarola, che il Padre 'Jronuncia, ha una forza assoluta di esistenza ed è nello stesso tempo personale, cosi anche il respiro di amore alitato dall'uno verso l'altro ha una forza assoluta di esi­ stenza ed è nello stesso tempo personale. In esso il Padre è certo dell'amore del Figlio, ed il Figlio è certo dell'amore del Padre. Lo Spirito Santo si pone come un vincolo personale tra il Padre ed il Figlio; è come una corrente di amore tra i due. In questa corrente viene oortata al Figlio la parola d'amore del Padre, ed al Padre la ryarola d'amore del Figlio. Nella reciproca unione le persone divine sono beate. Con la parola d'amore del Padre il Figlio riceve una beatitudine traboccante; nella risposta d'amore del Figlio la riceve il Padre.

§ 3 1 0.

IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

2) Il cielo come partecipazione al dialogo delle tre persone divine. L'uomo beato partecipa quindi al dialogo eterno che Padre e Figlio tengono nello Spirito Santo. Anche la parola umana nella vita di pelle­ grinaggio è in qualche modo partecipazione al dialogo eterno di Dio. Qui si fonda la sua dignità. Se l'ultima realtà è il dialogo tra il Padre ed il Figlio, anzi il movimento del dialogo stesso, vi dev'essere anche nel discorrere dell' uomo un riflesso celeste. La parola umana è una risonanza del dialogo divino. Se la parola umana è una eco del dialogo del Padre col Figlio, ne diviene visibile l'importanza sociale. La parola umana è espressione e nello stesso tempo veicolo di comunione. Nella parola umana si palesa l'ordinamento dell'io al tu, che in essa acquista anche nuova forza. La parola umana rende udibile l'unione e nello stesso tempo la crea, diventando un segno dell'amore. E non potrebbe neppure essere altrimenti, poiché il dialogo tra il Padre ed il Figlio, è un dialogo di amore. Perciò la parola umana, se rettamente adoperata, è una parola di amore. Nella parola umana di amore il dialogo eterno di amore risuona nel tem?o. Cosi già nel tempo il redento parteci?a in modo misterioso al dialogo del Padre e del Figlio. Nella vita celeste questa partecipazione sarà perfetta e senza veli. Il dialogo, nel quale consiste la vita del cielo, è quindi un dialogo con il Padre e con il Figlio nello Spirito Santo. In questo dialogo il beato conosce il mistero di Dio e del mondo. Il Padre gli spiega tutto ciò che dice al Figlio ; gli spiega tutto ciò che può essere spiegato in cielo ed in terra. Gli spiega perché egli è amore. Inizia al suo segreto colui che ha eletto come amico e come fratello del suo proprio Figlio diletto. Gli spiega tutta la realtà che esiste, la realtà di Dio e la realtà del mondo. Gli chiarisce tutti gli enigmi dell'esistenza e della storia. Il beato riceve quindi in questo dialogo la ris!'osta a tutte quelle domande che lo banno angustiato durante la vita terrena e per le quali non c'è alcuna ris ?osta nella storia. Egli avrà i necessari schiarì­ menti da Dio stesso, schiarimenti che lo renderanno felice e lo indurranno a lodare e ringraziare Dio per tutte le prove e grazie avute durante la sua vita. Però egli non potrà penetrare completamente il mistero di Dio.

CAPITOLO II. IL CIELO COME ADORAZIONE

I.

-

DIO MISTERO ANCHE PER I BEATI.

Per quanto intimo sia lo scambio di vita tra Dio e l'uomo beato, Dio rimane non di meno assolutamente superiore all'uomo. È vero che Dio e l'uomo siedono, per ripetere ancora una volta un' imm agine già usata, come commensali alla stessa tavola; ma è Dio a invitare gli uomini al banchetto da lui preparato. Il dialogo celeste può nascere soltanto se Dio ne prende l'iniziativa, se rivolge la parola all'uomo e gli dà la capacità di ascoltare la sua parola e di rispondergli. Il dialogo celeste significa quindi il trionfo del regno di Dio nell'uomo, del regno della verità e dell' amore . Tuttavia la superiorità di Dio va ancora oltre. Anche nello stato del cielo Dio e l'uomo rimangono diversi tra loro come il creatore e la crea­ tura e quindi Dio rimane per l'uomo un mistero impenetrabile. Il beato vede Dio in modo immediato, ma non penetra fin nel profondo del suo essere. Con lo sguardo di amore abbraccia tutto Dio, ma non lo penetra totalmente . Lo vede totum, non totaliter. Possiamo paragonare questo fatto alla contemplazione di un'opera d'arte, in cui l'osservatore vede la sinfonia dei colori, ma non riesce sempre a penetrare l'opera nella sua profondità. Nessun uomo in terra vede cosi chiaramente e vivamente che Dio è un mistero, quanto il beato, perché egli contemplando Dio direttamente rico­ nosce in modo perspicuo quanto sia superiore alla creatura. Egli com­ prende che Dio dev'essere un mistero. La sua vista di Dio è una vista del mistero in persona. Il mistero di Dio, o meglio, il tu divino che è un mistero, sta aperto dinanzi al suo occhio spirituale ; vi è persino congiunto nel modo piu intimo. Egli riconosce ed ama il mistero. L'ìncomprensibilità

§ 3 1 0.

IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

di Dio non può mai essere eliminata per la creatura, neppure in cielo. Perciò l'uomo neanche nel dialogo celeste può comprendere tutto ciò che il Padre comunica al Figlio. La sua capacità ricettiva è limitata. Soltanto il Figlio può accogliere pienamente l'infinita parola del Padre nella sua ricchezza e nella sua profondità. Per poter uguagliare il Figlio, l'uomo dovrebbe essere Dio.

II. - BEATITUDINE E MISTERO. A questo punto si potrebbe essere presi dall'ansia che il cielo sia uno stato di tragicità, che perciò l'uomo sia avvolto eternamente da un' atmo­ sfera di tragedia e quindi l'ultima parola non sia bea titudine eterna, ma eterna oscurità. Ma simili timori sono inconsistenti, poiché l'incompren­ sibilità di Dio non lascia nel beato alcuna spina di insoddisfazione, non ha nulla di opprimente e di enigmatico, null a di angustiante e di forzato. Il beato accoglie infatti Dio nella misura in cui ne è capace. Se Dio si donasse a lui con maggior forza, egli non ne sarebbe felice, ma ne pati­ rebbe danno, perché verrebbe accecato dalla luce di Dio e consumato dal suo ardore. Se Dio gli spiegasse piu di quanto egli può comprendere, il suo spirito ed il suo cuore non ne verrebbero maggiormente illuminati, bensi ottenebrati, come l'occhio del corpo quando guarda nel sole. Egli perciò non ha alcun desiderio di ricevere da Dio piu di quel che riceve. Non può neppure avere un simile desiderio; ma per un beato la gioia suprema è di vedere con conoscenza immediata il mistero impenetrabile dell'amore e della verità, della santità e della giustizia in persona, e di esservi unito. Egli avverte come felicità appunto questo, che esiste Dio, l'incomprensibile che trascende ogni misura umana, perché soltanto Dio lo può trarre dalla ristrettezza di ciò che è puramente umano e portarlo nell'ampiezza e nella ricchezza. Il mistero eterno di Dio non è quindi per l'uomo, che mira oltre se stesso, una tragedia eterna, ma un'eterna beati­ tudine. L'uomo, che è fatto per superare il proprio io, percepisce il dia­ logo intimo con l'abissale mistero svelato dell'amore e della verità perso­ nali come realizzazione felicitante della sua natura.

5 90

P. ! 1 .

lll .

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-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

BEATITUDINE ED ADORAZIONE.

Proprio la superiorità ed incomprensibilità di Dio danno all'uomo la possibilità di soddisfare il secondo dei suoi bisogni fondamentali già nomi­ nati, cioè il bisogno della venerazione, di rendere onore. Abbiamo visto precedentemente che questo bisogno viene già soddisfatto nell'incontro con Cristo, in quanto l'uomo che incontra Cristo non soltanto vive con lui faccia a faccia, ma può guardare a lui adorando. Questo soddisfacimento acquista il suo carattere definitivo nell'incontro con il Padre, che è l'in­ contro con il piu alto ed ultimo interlocutore dell'uomo. Al di là di esso non esistono piu altri nuovi incontri. Poiché il Padre è l'amore in persona, guardare a lui è guardare in volto all'amore personale. L'onore reso al Padre diviene quindi onore reso all'amore personale. Poiché questo onore può e deve essere offerto a Dio in modo incondizionato ed assoluto, lo chiamiamo adorazione. Perciò possiamo affermare, con maggiore ragione di prima, che la vita celeste è l'amore adorante, l'adorazione amorosa del­ l'amore in persona. I beati offrono lieti e felici questa adorazione all'amore in persona. Il loro giubilo consiste nell'adorare l'amore. Essi sentono che l'amore, che è nello stesso tempo verità e santità, è, per la sua intrinseca preziosità, degno dell'adorazione. E di tale amore sperimentano tutta la dolcissima potenza.

IV.

-

LITURGIA CELESTE.

Che il cielo non sia soltanto la visione del volto svelato dell'amore, ma anche la sua contemplazione adorante, lo atresta la Sacra Scrittura quando completa l'immagine del banchetto celeste con l'im magine della liturgia celeste. Giovanni la descrive nelle grandi visioni della sua Apocalisse (c. 4) con i mezzi espressivi della fine del sec. I, con il linguaggio sim­ bolico, derivato dal culto dell'imperatore. « Dopo ciò vidi : ecco, una porta aperta nel cielo, e la voce che prima avevo udita, come di tromba, parlare con me, mi disse : " Sali quassu, e ti mostrerò ciò che deve accadere dopo queste cose ". E all'istante fui rapito in spirito. Ed ecco : un trono era situato nel cielo, e sul trono uno seduto ; e il seduto, simile all'aspetto a gemma di diaspro e cornalina e l'arcobaleno, intorno al trono, simile nell'aspetto a smeraldo. E intorno al trono ventiquattro troni, e sui

§

3 1 0. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

59 1

troni sedevano ventiquattro anziani ravvolti in vesti bianche, e sulle loro teste corone d'oro. E dal trono escono lampi, voci e tuoni. E sette fiac­ cole di fuoco ardono davanti al trono : sono i sette spiriti di Dio. E da­ vanti al trono come un mare dall'aspetto del vetro, simile a cristallo . E in mezzo al trono e attorno al trono quattro viventi pieni d'occhi dinanzi e dietro. Il primo vivente simile a un leone, il secondo vivente a un vitello, il terzo vivente ha la faccia come d'uomo, e il quarto vivente simile a un'aquila volante. E i quattro viventi hanno ognuno sei ali, intorno e dentro sono pieni d'occhi, e dicono senza tregua giorno e notte : Santo, santo, santo il Signore Dio, il dominatore universale, colui che era e che è e che viene. E ogniqualvolta i viventi daranno gloria, onore e ringra­ ziamento a colui che siede sul trono, a colui che vive per i secoli dei secoli, si prostreranno i ventiquattro anziani davanti a colui che siede sul trono, e adoreranno colui che vive per i secoli dei secoli, e getteranno le loro corone davanti al trono, dicendo : " Degno sei, o Signore Dio nostro, di ricevere la gloria e l'onore e la potenza, perché tu creasti tutte le cose, e per la tua volontà esistono e furono create " » . In questa visione Giovanni può dare uno sguardo in cielo. Vede la maestà di Dio, che è superiore ad ogni cosa creata. Il nome di Dio viene taciuto con santo timore. Il trono significa il riposo sovrano, il governo onnipotente di Dio, che vive al di sopra delle tempeste agitate del tempo e guida con mano sicura i destini umani alle mete da lui fissate. Il suo trono è eterno; sussisterà per tutta l'eternità. Rimane, anche se tutti i troni terreni cadono. Dio è rivestito di luce e di gloria. È attorniato da una grande corte. Coloro che ne fanno parte, partecipano alla sua gloria, vivono nella trasfigurazione, sono ornati con il diadema dei vincitori. La precisazione che si tratta di anziani, indica che gli uomini che vivono con Dio sono perfetti. L'anzianità è l'espressione della maturità. La presentazione dell'omaggio celeste dinanzi a Dio continua nel c. 5 dell'Apocalisse. Abbiamo già citato precedentemente il testo come testi­ monianza dell'adorazione resa al Cristo trasfigurato. Anche nel c. 7 si parla del ringraziamento e della lode, che Dio riceve conùnuamente dalle creature beate. Vi si dice : « Dopo ciò vidi : ed ecco una folla numerosa, che nessuno poteva computare, d'ogni gente e tribii e popolo e lingua : ritti davanti al trono e davanti all'agnello, ravvolti in vesti bianche e con palme nelle mani. E gridano a gran voce dicendo : la salvezza appartiene al Dio nostro seduto sul trono e all'agnello ! E tutti gli angeli stavano ritti intorno al trono e agli anziani e ai quattro viventi ; e si prostrarono davan�i al

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P. II.

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

trono sulle loro facce e adorarono Iddio dicendo : Amen. La benedizione, la gloria, la sapienza, il ringraziamento, l'onore, la potenza e la forza al Dio nostro per i secoli dei secoli. Amen » (Apoc. 7, g-12). I beati del cielo nel loro canto di lode celebrano Dio come il salvatore. Essi sanno che non esiste altro salvatore per gli uomini. Dio solo ha potuto liberarli da ogni miseria e di ciò spetta a lui il ringraziamento e la lode per sempre. Le creature che vivono con Dio gli offrono continuamente adorazione e ringraziamento, perché egli ne è degno. In ciò si realizza il senso di tutta la creazione. I quattro esseri rappresentano l'intera creazione : gli uomini, gli animali domestici e selvatici e gli uccelli. L'adorazione in cielo è diversa che sulla terra ; è il compimento dell'ado­ razione terrena. Questa è ordinata alla celeste, e soltanto in essa raggiunge la sua ultima e suprema intensità. I beati cantano un « cantico nuovo >> (Apoc. 5, g). Di per sé non conoscono questo canto di lode a Dio. Lo possono cantare soltanto coloro cui è aperta la porta del cielo (Apoc. 4, I), che sono accolti nella vita che compete a Dio solo, nella riserva di Dio.

V.

-

PARTECIPAZIONE AL CANTO DI LODE DEGLI

ANG ELI .

La lode del mondo è la partecipazione alla lode degli angeli. Peterson

(Das Buch von den Engeln, 1 9 3 5 , 88 ss.) cosi descrive il canto di lode degli angeli e la partecipazione dell'uomo ad esso : « Ora i puri spiriti, che il gnostico (il fedele divenuto partecipe della conoscenza) qui incontra, e che nella loro natura sono essenzialmente orientati verso Dio, non sono esseri in qualche modo pietrificati in una muta adorazione dinanzi a Dio. La loro caratteristica essenziale non è costituita dal fatto che essi stanno fermi, ma dal fatto che si muovono, che battono con le ali - come Isaia per primo li ha descritti con inaudita potenza - e che ora a questo battere d'ali e ricoprirsi i piedi con le ali, tanto significativo nel suo ricco simbo­ lismo, corrisponde una determinata forma dell' effondersi nella parola, nel grido, nel canto del santo, santo, santo. In altre parole : in questo effon­ dersi e fluire in parole ed in canto, in questo fenomeno, consiste la vera natura di questi angeli. Non già che nel mondo angelico, concepito ad analogia dell'essere umano, una parte degli angeli sia scelta ed incaricata di cantare qualcosa dinanzi al Dio Signore. Questa è di fatto una conce­ zione inaccettabile, ed il desiderio di fare qualcosa del genere per tutta l'eternità, è addirittura incomprensibile. In realtà qui si tratta di qualcosa di completamente diverso ; cioè non di angeli, che siano in primo luogo

§

3 1 0. IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA DI DIO

5 93

angeli in un modo del tutto astratto, e che poi per soprappiu cantino, bensi di angeli i quali in tanto sono tali in quanto si effondono nella lode del santo, santo, santo secondo il modo precedentemente descritto. E questo grido costituisce propriamente la loro natura, in questo effondersi essi sono quel che sono, Cherubini e Serafini... Gli angeli sono qualcosa di piu di una figura poetica del repertorio della poesia popolare e fiabesca. Essi appanengono a Dio ed a Cristo ed allo Spirito Santo, ma appartengono anche a noi. Per noi essi signi­ ficano una possibilità del nostro essere, possibilità di una sua elevazione ed intensificazione del nostro essere, ma non mai la possibilità di una nuova fede diversa. Essi ci ammaestrano circa oscure profondità della nostra esistenza, nelle quali esiste un movimento ed una mobilità, forse indipendenti da noi, forse mai riconosciuti da noi come tali o tanto meno considerati come movimento verso ciò che è angelico. Un movimento che viene sentito ora come un impulso alla purezza del cuore, ora come brama di chiarezza spirituale e di una esistenza autentica. Ci sono molte vie per le quali l'uomo si dirige verso l'angelo, non nel senso che si proponga propriamente di divenire angelo, ma perché l'essere che egli vive è soltanto un essere provvisorio e non è ancora apparso ciò che noi siamo. E se non ci dirigiamo verso l'angelo che sta dinanzi a Dio, ci volgiamo certamente verso quell'angelo che si è allontanato da Dio, ci avviciniamo al demonio. Poiché l'uomo esiste sempre soltanto in modo da trascendere se stesso e da avvicinarsi cosi all'angelo o al demonio. Quest'uomo che trascende se stesso, perché soltanto cosi esiste, può salire e salire, non in un senso morale ma metafisica, fino a divenire compagno degli angeli e degli arcangeli, fino a giungere a quel confine, su cui stanno anche i Cherubini ed i Serafini. Là, dove gli è imposto l'alt da un confine che né lui né alcun arcangelo ha tracciato, incomincia a risuo­ nare con le sfere ed a cantare con gli arcangeli. Il suo canto non è sem­ plicemente un'imitazione del canto degli angeli, non è un modesto accordo nel grido del santo, santo, santo, che risuona in modo incessante e maesta­ tico dalle loro labbra, ma è nello stesso tempo anche qualcosa che pro­ rompe dalla sua natura piu intima, quando egli giunge al confine di tutte le creature, che è pure il suo confine di creatura. Nel suo canto con Cherubini e Serafini si compie la sua ascesa, si realizza la sua perfezione, poiché che altro può sperimentare l'uomo, che sale fino agli angeli, se non che la creatura loda Dio, lo loda sia nell'ultimo dei pianeti, sia nel piu piccolo filo d'erba? Come prima egli esisteva solo in quanto saliva conti­ nuamente e trascendeva se stesso, per poi salire ancora, cosi giunto al

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ESCATOLOGIA INDI VIDUALE

termine con gli angeli e gli arcangeli egli esiste solo piu come un canto, e come un canto si effonde dinanzi a Dio. Ciò che qui si espande in cantico è la creatura che, giunta al suo limite di creatura, di qui rende testimo­ nianza a Dio. Quanto si dice del piu alto grado dell'essere creato, vale però anche per quei gradi inferiori, che come le piante, gli animali e le cose, stanno molto al di sotto della natura umana. Quando nei Salmi gli animali od i monti prorompono nella lode di Dio, non si tratta solo di una iperbole letteraria, di una animazione figurata della natura, ma di qualcosa che si fonda sull'essenza intima dell'essere creato, dal Cherubino e dal Serafino fino alla piu piccola realtà, poiché tutta la creazione, come sappiamo dal Van­ gelo, è piena della gloria divina. Com'è strano che l'uomo dall'intimo della sua costituzione metafisica possa esprimere la propria qualiLà di creatura e l'inferiorità del suo essere incominciando a salire, e unendosi al Cherubino ed al Serafino, e che poi assieme ad essi non possa dire altro se non che egli è nulla ed esiste soltanto come un canto di lode dinanzi a Dio. Si tratta di comprendere che un simile canto, come ad es. il Cantico del sole di S. Francesco, non rappresenta una deviazione della fede nella poesia, non ha le sue radici

in

una mistica della natura, ma che S. Fran­

cesco incomincia a cantare - si potrebbe quasi dire a risonare - perché toccato profondamente dalla grazia di Cristo. Il Poverello incomincia a risonare cosi fraternamente con

il sole e con le stelle, con l'acqua e con la

morte, perché la grazia del crocifisso ha risvegliato le ultime profondità della sua natura creata, per modo che egli non esiste soltanto come pec­ catore cui sia stata concessa misericordia, ma anche come misera crea­ tura - frate asino - che non ha piu altra possibilità se non di effondersi nella lode di Dio ».

VI. - TESTIMONIANZA DEI PADRI. Del periodo patrisùco riportiamo un testo di Cipriano, in cui il cielo viene descritto come ringraziamento perpetuo : « Cristo conferisce questa grazia, regala questo dono della sua misericordia, assoggettando la morte col segno della croce, redimendo i fedeli a prezzo del suo sangue, ricon­ ciliando gli uomini con Dio Padre e vivificando nuovamente i mortali mediante la rinascita celeste. Seguiamolo, se è possibile, tutti, riceviamo il suo sacramento e sigillo. Egli ci apre la via della vita, ci riconduce al

§ 3 1 0.

IL CIELO COME VISIONE IMMEDIATA Dl DIO

595

paradiso, ci guida al regno celeste. Con lui vivremo per sempre, perché per mezzo suo siamo divenuti figli di Dio, con lui esulteremo per sempre, perché siamo stati redenti dal suo sangue. Come cristiani vivremo assieme a Cristo nella gloria, beati in Dio Padre, in eterna delizia dinanzi a Dio sempre giubilando e ringraziando sempre Dio. Poiché non potrà che essere sempre lieto e riconoscente chi, dopo essere stato soggetto alla morte, viene liberato da ogni preoccupazione per mezzo dell'immortalità » (A De­ metriano, n. 26).

VII. - ADORAZIONE CELESTE COME REALIZZAZIONE DELLA VITA. All ora si realizza nel modo piu perfetto il senso ultimo della vita umana. Come il fine Hltimo di tutta la creazione, cosi anche quello della vita umana è di manifestare e riconoscere la gloria di Dio. La vita dell'uomo dev'essere una trasparenza della gloria di Dio, che nella creazione mani­ festa se stesso, la gloria della sua verità e del suo amore (glorificazione oggettiva di Dio). Egli deve riconoscere la verità e l'amore, che è Dio, come la cosa suprema, e cosi rendere loro il dovuto onore. Nel peccato l'uomo rifiuta a Dio questo onore sovverrendo la gerarchia dei valori. Cristo l'ha di nuovo ristabilita. Con la sua morte egli ha dato al Padre, all'amore e alla verità in persona, l'onore nel modo piu alto possibile alla creatura. La morte di Cristo costituisce nello stesso tempo l'invito agli uomini a partecipare all'onore che egli ha reso al Padre. Ciò avviene nel culto, specialmente nel sacrificio eucaristico, nel quale la lode tribu­ tata a Dio è una partecipazione alla lode degli angeli, come risulta dal testo del prefazio e del Sanctus. L'onore reso al Padre nel sacrificio euca­ ristico per mezzo di Cristo nello Spirito Santo viene accolto e continuato dal cristiano nella vita quotidiana. Ma durante la vita l'uomo onora Dio solo in modo imperfetto, perché ostacolato dall' egoismo mai completa­ mente superato. Il cielo invece realizza appieno ciò che l' uomo di buona volontà ha sempre cercato di fare qui in terra. Colà dal cuore del beato si effonde verso Dio in modo perfetto la lode ed il ringraziamento. L'onore cosi reso a Dio non è da scambiare con l'adulazione o il calcolo nei riguardi di un padrone benevolo e benefico, ma è il riconoscimento che l'uomo tri­ buta alla verità ed all'amore personali, quando la loro preziosità ed il valore assoluto che si fonda su di essa gli si mostra in gloria svelata. La descri­ zione che Giovanni ed I saia fanno del canto del trisagio celeste è una immagine dell'onore reso instancabilmente alla verità ed all'amore. Quanto

P. JI.

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

piu nell'attuale ordinamento del mondo soffriamo perché non ottengono la lode suprema quelle forze che la meritano : la verità e l'amore, la giustizia e la santità, ma quelle che non ne sono degne : l'odio e l'egoismo, la violenza e l'ingiustizia, con tanta maggiore letizia possiamo guardare allo stato in cui viene tributato all'amore ed alla verità quel supremo riconosci­ mento che chiamiamo adorazione. Il beato che viene dal mondo dell'odio e della menzogna, ma ora è solo piu un amante, non si stancherà di ringraziare la verità e l'amore perso­ nali, cioè Dio, per la loro esistenza, e di celebrare la loro gloria. La sua lode confluisce con quella degli angeli in un coro di ringraziamento e di esaltazione. Allora egli vede realizzarsi pubblicamente in cielo la pre­ ghiera che durante la vita di pellegrinaggio ha fatto come membro della Chiesa in tutte le ore solenni : « Ti lodiamo, o Dio, ti esaltiamo, o Signore ; te, Padre eterno, celebri tutta la terra. A te gli angeli tutti, a te i cieli e tutte le potenze, a te i Cherubini ed i Serafini gridano con voce instan­ cabile : santo, santo, santo è Dio, il Signore degli eserciti. Cielo e terra sono pieni dello splendore della tua gloria » .

§ 311. L'unione dei beati tra loro.

CAPITOLO I. SCRITTURA E PADRI

Nonostante l'unione piu intima con Dio, i beati del cielo non perdono la loro personalità; al contrario soltanto in Dio l'acquistano pienamente, come abbiamo visto. Il mistero della personalità non viene violato dal cielo, ma assicurato nel modo piu alto. Cfr. Pio XII, Enc. Mystici corporù, dove viene condannato il pancristismo (maggiori schiarimenti nel vol. I II / r , § 169"). Questo esprime la Sacra Scrittura dicendo che ogni beato riceve da Dio il nome che spetta a lui solo (Apoc. 2, 1 7). Tuttavia ogni beato si possiede in modo da essere nello stesso tempo in comunione di vita con tutti gli altri beati. L'ordinamento al tu si rea­ lizza in cielo non soltanto nel dialogo amoroso con Dio, ma anche nel­ l'unione con tutti i beati. Un legame di unione si intreccia intorno a rutti. È Dio Spirito Santo che come un legame personale di amore abbraccia tutti. La Sacra Scrittura attesta l'unione celeste dei beati con l'immagine del banchetto (§ 3 1 0, c. I). Il beato siede alla mensa, cui Dio l'ha chia­ mato, non come singolo, ma come compagno tra molti commensali. Ognuno diviene partecipe della vita celeste proprio perché si siede a quella mensa, a cui già molti sono assisi, entrando cosi nel coro costituito dai beati ed inserendosi nella comunità degli angeli e dei santi. Nel periodo patristico il pensiero che i celesti formano tra loro una unione intima era del tutto familiare. Nella prima parte di quest'opera abbiamo visto che nell'antichità e nel Medio Evo si accentuava fortemente il carattere sociale del cielo (§ 300, c. I). Rimandiamo quindi alle cita­ zioni già allegate, accontentandoci di aggiungere qui qualche testimonianza. Cipriano vede nella unione con gli angeli ed i santi uno dei tratti essenziali della felicità del cielo. Il cielo è una vita in cui l'uomo è libero dalla

P.

Il.

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ESCATOLOG IA INDIVIDUALE

società dei cattivi, degli odiatori e dei violenti, degli egoisti e dei calun­ niatori, dei bugiardi e dei ladri e può condurre una vita beata in unione con uomini nobili e disinteressati, amanti di Dio e veritieri. La convi­ venza con gli eletti dell'umanità

è un elemento essenziale della gioia celeste.

Allorché la comunità di Tibari fu minacciata da una nuova persecuzione, egli, non potendola visitare, scrisse nel raggia ed ammonisce

:

252 una lettera, in cui la inco­

« Quale giorno grande e magnifico si annunzia

a

noi, o fratelli dilettissimi, quando il Signore incomincia ad esaminare il suo popolo e come giudice divino soppesa con sguardo scrutatore i meriti di ciascuno, quando manda i colpevoli nell'inferno e condanna i nostri persecutori all'ardore eterno della fiamma tormentosa, mentre offre

a

noi il premio della fedeltà alla fede e della dedizione ! Quale gloria, quale piacere sarà, quando sarai ammesso a vedere Dio, quando sarai ritenuto degno dell'onore di godere con Cristo, tuo Signore e Dio, la gioia della salvezza e della luce eterna, di salutare Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i patriarchi, gli apostoli, i profeti ed i martiri, di godere con i giusti e gli amici di Dio nel regno celeste della delizia della immortalità concessa e di ricevervi ciò che nessun occhio ancora ha visto, nessun orecchio ha udito e ciò che non

è ancora penetrato nel cuore di nessun uomo » (Ep. 5 8,

n.

27).

Energici asserrori della dottrina dell'unione dei beati tra loro sono Am­ brogio ed Agostino. Nei reciproci rapporti dei celesti, nell'amore che li congiunge indissolubilm ente tra loro in un solo coro di esseri giubilanti,

Ambrogio (De om:tu Theodosii, n. 29, 32� De bono martis, n. I I ; De obitu Valentiniani, n. 7 1 , 77) vede un elemento importante della vita celeste. A suo giudizio i celesti attendono i loro amici ancora viventi e li accolgono quando entrano in cielo e li accompagnano. Entro la beatitu­ dine celeste è una gioia di natura speciale, in certo modo una gioia parti­ colare, il poter essere per sempre in rapporti di confidenza con uommi veramente grandi. Gerolarr.o (Ep. 39, n. 9; Ep. 23) aggiunge che coloro, i quali entrano nella comunità celeste, incontreranno uomini che non hanno mai conosciuto, di cui non hanno mai sentito nulla, ma la cui amtclZla apporterà loro una felicità assai piu intensa della piu profonda amicizia terrena.

CAPITOLO Il. L'UNIONE CELESTE COME PERFEZIONAMENTO DI QUELLA TERRESTRE

I beati realizzano la loro unione che si fonda nell'> (Geo. 15, I ). Isaia fa dare ai depressi uno sguardo nel futuro per conso­ larli (I s. 40, 9- I I ) : « Sali su un alto monte, o messaggera in Sion ; alza la voce con forza, o messaggera in Gerusalemme. Alza la voce, non temere ; di' alle città di Giuda : ecco il vosr:ro Dio ! Ecco, il Signore Jahvè viene con potenza, egli domina con il braccio. Ecco, egli porta con sé il suo premio, lo precede la sua ricompensa ». Il termine ricompensa risuona ancora una volta in 62, I I : « Jahvè proclama all'estremità della terra : dite alla figlia di Sion : ecco arriva il tuo salvatore ; ecco, il suo salario è con lui, la sua ricompensa è davanti a lui ». Cfr. 62, I 1 . Nei Salmi sono uniti il pensiero della grazia e della ricom�ensa. La ricompensa di Dio è grazia : « Una volta l'ha detto Dio, ben due volte lo udii : infatti, a Dio è la forza ; e a te, Signore, la grazia. Infatti, tu ri�aghi l'uomo secondo le sue opere » (Sal. 62 [6I], 1 2). Cfr. Sal. 7 3 [72]. Nei Proverbi viene affer-

§

31 4. IL CIELO COME GRAZIA E RICOMPENSA

61 5

mata la responsabilità dell'uomo (24, 1 2) : « Se dici : ma io non ne so nulla... colui che scruta i cuori non lo capisce? Colui che custodisce la tua anima lo sa e renderà a ciascuno secondo le sue opere ». Il libro della Sapienza parla allo stesso modo (5, 1 5) : « I giusti, invece, vivono per sempre e la loro ricompensa è nel Signore, e la loro preoccupazione è presso l'Altissimo ». Nell'Antico Testamento la promessa della ricompensa oscilla tra beni terreni e futuri. Vengono promessi beni terreni, ma essi sono immagini di beni futuri. Quanto piu i tempi si avvicinano a Cristo, con tanta maggiore chiarezza e precisione la ricompensa promessa viene descritta come un bene futuro.

II.

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NUOVO TESTAMENTO

Cristo stesso ha ripreso il termine ricompensa. Tuttavia la ricompensa che egli promette non è una cosa della terra, ma l'amore e la verità di Dio, la vita con Dio, un valore al di là delle cose terrene, al di là della morte. Le sue promesse valgono per le cose terrene solo in quanto esse sono presupposto di quelle eterne. Nessuno può dire quanti e quali beni terreni gli siano necessari per acquistare i beni eterni. Lo sa Dio solo. Vale qui un testo di Pascal : « O Dio, ti domando né salute, né malattia, né vita, né morte, ma che tu disponga della mia salute e della mia malat­ tia, della mia vita e della mia morte, a ruo onore, a mia salvezza ed a vantaggio della tua Chiesa e dei tuoi santi, di cui per tua grazia spero far parte. Tu solo sai quel che mi conviene, tu sei il Signore supremo, fa quel che vuoi. Dammi, toglimi, ma conforma la mia volontà alla tua e fa che con umile e perfetta sottomissione io mi prepari in santa fiducia a ricevere gli ordini della tua provvidenza eterna ed adori egualmente tutto ciò che da te mi viene ! » (Preghiera per il buon uso delle malattie, n. 1 3). La retri­ buzione non avviene quindi nel mondo presente, ma in quello futuro. Nel presente c'è solo una caparra. Nel discorso della montagna Cristo dice agli uditori (Mt. 5, 3-1 2) : « Beati i poveri in ispirito, perché ad essi appartiene il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché possederanno la terra. Beati gli affamati e gli assetati della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché otter­ ranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché ad essi appartiene il regno dei cieli. Beati siete, quando vi oltraggeranno e vi perseguiteranno e diranno, mentendo, ogni male

6I6

P . II.

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ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

contro di voi per causa mia. Gioite ed esultate, perché la vostra ricom­ pensa è grande nei cieli; cosi, infatri, perseguitarono i profeti che vi hanno preceduti » (cfr. Le. 6, 20-23). Non soltanto i profeti perseguitati devono sperare nel futuro, ma anche coloro che li accolgono : « Chi acco ­ glie un !Jrofeta nella sua qualità di profeta riceverà ricompensa di profeta; e chi accoglie un giusto nella sua qualità di giusto, riceverà ricompensa di giusto. E chiunque darà a bere ad uno di questi piccoli, nella loro qualità di discepoli, anche solo un bicchiere d'acqua fresca, in verità vi dico : non perderà la sua ricompensa » (Mt. IO, 4I s.). La ricompensa è diversa dai valori terreni. Chi cerca questi, nella pro­ messa di Cristo non trova il suo tornaconto ; Cristo mette addirittura in guardia dal confidare nelle cose terrene : « Non vi ammassate tesori sulla terra, dove tignola e ruggine distruggono, e dove i ladri sfondano e rubano » (Mt. 6, I 9-2 I = Le. 12, 33 s.). Al giovane ricco Cristo disse (Mc. IO, 2 I = Mt. 19, 2 1 = Le. 1 8, 22) : « Ti manca una cosa, va', vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo ; poi vieni, seguimi portando la croce ». La vita di coloro che si sottomettono alla volontà di Dio viene descritta con l'immagine del lavoro nella vigna, nella casa, dietro l'aratro, nella messe, ed a questo servizio viene promessa una grande ricom­ pensa (Mt. 20, 2; 24, 45-5 1 = Le. 1 2, 42-46; Mc. 9, 4 1 ; Mt. 19, 27 2 9). Nel grande discorso del giudizio, con cui la storia umana troverà la sua conclusione definitiva, la salvezza eterna e la dannazione eterna vengono giustificate con il comportamento terreno dei salvati e dei dannati. Per quanto le promesse di ricompensa fatte da Cristo siano chiare, tuttavia egli rigetta la brama della ricompensa, soprattutto quella che si riferisce ai beni terreni. « Badate di non praticare la vostra giustizia agli occhi degli uomini, per essere guardati da loro, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli. Quando, dunque, fai elemosina, non farla strombazzando davanti a te come, nelle sinagoghe e nelle strade, fanno gli ipocriti per avere gloria dagli uomini. In verità vi dico : hanno ricevuto già la loro ricompensa. Quando tu, invece, fai l'elemosina, ignori la sinistra ciò che fa la destra, affinché la tua elemosina resti segreta e il Padre tuo che vede in segreto, ti ricompenserà. E quando pregate, non imitate gli ipocriti, i quali amano, nelle loro preghiere, stare nelle sina­ goghe e agli angoli delle piazze per essere veduti dagli uomini. In verità vi dico : hanno ricevuto già la loro ricompensa. Tu, invece, ritirati, quando preghi, nella tua stanza, chiudi l'uscio e prega il Padre tuo che è pre­ sente nel segreto, e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà » (Mt. 6, I-6). « Quando, poi, digiunate, non prendete un aspetto lugubre -

§

3 1 4. IL CIELO COME GRAZIA E RICOMPENSA

617

come gli ipocriti, i quali mostrano il volto disfatto perché gli uomiru st accorgano che essi digiunano. In verità vi dico : hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu, invece, quando digiuni, ungiti il capo e lavati il viso, per non far vedere agli uomini che digiuni, ma al Padre tuo che è presente nel segreto, e il Padre tuo che vede nel segreto, ti ricompenserà » (Mt. 6, I 6- I 8). L'uomo non può avanzare pretesa alcuna nei confronti di Dio. « Chi di voi, se ha un servo ad arare o al pascolo, al suo ritorno dalla campagna gli direbbe : svelto, vieni a metterti a tavola? Non gli dirà invece : preparami da cenare, cingiti per servirmi finché io abbia mangiato e bevuto; dopo mangerai e berrai tu? Forse è obbligato col servo perché ha eseguito gli ordini? Cosi anche voi : quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato coman­ dato, dite : servi inutili siamo ; abbiamo fatto quello che dovevamo fare » (Le. I 7, 7- Io). L'uomo deve tributare a Dio amore ed obbedienza, ado­ razione ed onore, perché cosi è giusto, non perché gli giova. Deve libe­ rarsi da ogni utilitarismo e cercare cosi di comprendere e di realizzare con tanta piu forza lo scopo della sua vita. Diversamente sarebbe simile al bambino che dimostra amore ai genitori col secondo fine che questo gli frutti qualcosa. Proprio chi non ricerca la ricompensa, la conseguirà con abbondanza. Se Dio promette ricompensa, per modo che l'uomo può sperare in essa, lo fa come Signore e re. Che egli la prometta, è grazia ; che egli l'accordi, è grazia (Mt. 1 5 , 14 ss.) e fedeltà alle sue promesse. Ciò che Cristo ha annunziato, fu trasmesso dagli Apostoli. Paolo scrive nella lettera ai Romani (2, I - I 1 ) : « Per questo sei senza scusa tu che ti erigi a giudice, chiunque tu sia; si, mentre giudichi gli altri, condanni te stesso, perché commetti le medesime azioni tu, il giudice. Ora sappiamo che il giudizio di Dio condanna secondo verità gli autNi di opere simili. E pensi tu, che giudichi coloro che compiono tali azioni mentre tu pure le fai, di poter sfuggire al giudizio di Dio? Op!>ure disprezzi le ricchezze della sua bontà, della sua pazienza, della sua longanim.ità, non compren­ dendo che questa bontà di Dio ti spinge solo al pentimento? Con la tua ostinatezza e con il tuo cuore impenitente accumuli sul tuo capo l'ira per il giorno dell'ira, quando si manifesterà il giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere (Sal. 62, 1 2) : a quelli che, con perseveranza nella pratica del bene, ricercano gloria, onore e incorrut­ tibilità, egli darà la vita eterna; mentre incorreranno collera e sdegno i recalcitranti che si rifiutano alla verità e aderiscono all'ingiustizia. Tribo­ lazione e angoscia ricadrà su ognuno che opera il male : sopra il giudeo

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P. I l .

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ESCATOLOG IA INDIVIDUALE

prima e poi sul greco. All'opposto, chiunque opera il bene avrà gloria, onore e pace : il giudeo prima e poi il greco. Poiché dinanzi a Dio non hanno luogo parzialità » . Ai Corinti accesi di gelosia l' Apostolo dice ( 1 Cor. 3, 6-8) : « Io piantai, Apollo irrigò, ma era Dio che faceva cre­ scere. Di conseguenza, né colui che pianta è qualche cosa, né colui che irriga, ma colui che fa crescere : Dio. Colui che pianta come colui che irriga sono tutt'uno ; ma ciascuno riceverà il suo salario, in proporzione della sua fatica ». Chi desidera la ricompensa celeste, deve pagarla a caro prezzo. « Non sapete che quelli che fanno le corse nello stadio corrono si tutti, ma uno solo riporta il premio? Correte dunque in modo da riportarlo. Ma quelli che partecipano alla gara s' impongono ogni sorta di privazioni : essi, per ottenere una corona corruttibile, noi invece per una incorruttibile. E appunto io cosi corro, non come alla cieca ; cosi io faccio il pugilato, non battendo colpi in aria; ma pesto il mio corpo e lo meno schiavo, per timore che, dopo aver predicato agli altri, io non finisca reprobo » ( r Cor. 9, 24-27). A differenza delle gare terrene, tutti possono e devono divenire vincitori nella gara per il cielo. Ma è neces­ sario lo sforzo supremo. Paolo spera, grazie alle sue fatiche per il Van­ gelo, di aver parte con Cristo e col Padre in cielo (v. 2 3). Ciò che egli attende per sé, tutti lo possono attendere. « Tutti noi dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno raccolga, in ragione delle azioni compiute, ciò che ha meritato quand'era col corpo, o il bene o il male » (2 Cor. 5, ro). Paolo però afferma continuamente che la ricom­ pensa che il cristiano riceve è grazia (Rom. 4, 4). Cfr. Rom. 1 3, 2 s. ; 14, Io- 1 2 ; Gal. 5, 21 ; 6, 4 ; 1 Cor. 6, 9 s. ; I Tess. I , I o ; 5, 23. Giovanni annunzia la stessa dottrina di Paolo, sia pure con alcuni spo­ stamenti di accento. È vissuto bene soltanto colui che alla fine, guar­ dando indietro, può dire con Cristo a Dio : « Io ti ho glorificato sulla terra compiendo l'opera che mi desti da fare ; e adesso glorificami tu, o Padre » (Gv. I 7, 4 s.). L'Apocalisse ridonda delle consolanti promesse della ricompensa e delle ammonizioni del castigo. Gli angeli delle secte comunità mettono cominuamente in rilievo le opere e lodano ed ammo­ niscono. Cosi alla comunità di Efeso viene detto : « So le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza; so che non puoi sopportare i malvagi, e che hai messo alla prova coloro che si dicono apostoli e non lo sono e li hai trovati ingannatori. Hai perseveranza, hai sopportato per il mio nome, e non ti sei stancato. Ma ho contro Ji te che hai abbandonato il tuo amore primiero. Ricordati dunque da quale stato sei decaduto, ravvediti e fai le opere primiere. Se no, vengo a te, e rimuoverò la tua lampada dal

§ 3 1 4.

IL CIELO COME GRAZIA E RICOMPENSA

6 19

suo po�to, se non ti ravvederai. Hai però a tuo attivo che odii le opere dei Nicolaiti, che anch'io odio. Chi ha orecchio ascolti ciò che lo spirito dice alle Chiese : a colui che vince, gli darò a mangiare dall'albero della vita, che è nel paradiso di Dio » (Apoc. 2, 2-7 ; cfr. 2, ro. I9. 2 3 ; 3, 4 s. I O. I 2 . 20 s.). La ricompensa sarà data al momento stabilito da Dio. « E le genti si adirarono; ma è venuta l'ira tua e il tempo per i morti di essere giudicati, il tempo di dare la mercede ai tuoi servi, i profeti, e ai santi e ai tementi il tuo nome, piccoli e grandi, e di distruggere coloro che distrug­ gono la terra » (Apoc. I I, I 8). Le opere seguiranno i morti, per modo che questi saranno per sempre caratterizzati dalle loro azioni terrene. « Beati fin d'ora quei morti che muoiono nel Signore. Si - dice lo Spirito cosicché si riposeranno delle loro fatiche ; le loro opere infatti li seguono » (I4, I 3 i cfr. 19, 7-9 ; 20, r 8). Alla fine il veggente sente ancora una volta la promessa che pervade tutta l'opera e riceve nello stesso tempo l'incarico di non tacerla, ma di annunziarla. « Non suggellare le parole della profezia di questo libro. Il tempo, infatti, è vicino. Chi agisce ingiu­ stamente continui ad agire ingiustamente, e il sozzo continui ad insoz­ zarsi; il giusto invece continui a praticare la giustizia, e il santo continui a santificarsi. Ecco, vengo presto, e porto con me la mercede che darò, per rendere ad ognuno come è la sua opera. Io sono l'alfa e l'omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti, sicché avranno il potere sull'albero della vita e per le porte entre­ ranno nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli impudichi, gli assassini, gli idolatri, e chiunque ama e fa menzogna. Io, Gesti, ho mandato l'angelo mio per testimoniare a voi queste cose relative alle Chiese. Io sono la radice e la stirpe di Davide, la stella splendente del mattino » (Apoc. 22, IO-I6). Cfr. I I , r 8 ; 7· 9-I 7 i I 4, I 3 i r s , 2-4; I 8, 6; 20, l s. I I ; 2 1 , 7 i 22, 3 i I Piet. I , 3 · 7 · I 3 i 5 , 6.

III.

-

TESTIMONIANZA DEI PADRI.

Agostino cosi esprime il pensiero paolino : Dio corona le sue proprie azioni quando ricompensa le nostre opere, perché le nostre opere sono atti di Dio per mezzo nostro. Nel 4 1 8 (Ep. I 94, 5, I 9) scrive al « santo fratello e copresbitero Sisto » : « Come può dunque l'uomo meritare la grazia, poiché ogni nostro merito è esso stesso opera della grazia e Dio, quando corona i nostri meriti, altro non corona se non i suoi propri doni? Poiché, come da principio, noi abbiamo ricevuto la grazia della fede,

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P. II.

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ESCATOLOGIA INDI VIDUALE

non perché eravamo credenti, ma affinché lo divenissimo, cosi afta fine, quando ha inizio la vita eterna, Dio ci incoronerà, come sta scritto, " con pietà e misericordia ". Non per niente quindi si canta di Dio : " E la sua misericordia mi preverrà ", come pure : " La sua misericordia mi seguirà ". Per questo la stessa vita eterna, che noi al termine posse­ deremo senza fine e che quindi viene conferita per i precedenti meriti, è pure chiamata grazia, considerando che questi meriti, per cui l'uomo l'ottiene, non sono acquistati da noi con le nostre forze, ma operati in noi dalla grazia medesima. Certo, la vita eterna viene data anche come ricom­ pensa per i meriti, ma i meriti stessi, per i quali viene conferita, sono un dono. In favore della nostra affermazione, che anche la vita eterna viene chiamata grazia, abbiamo il passo dello stesso grande difensore della grazia, l'apostolo Paolo, ove si dice : " Lo stipendio del peccato è la morte ; ma grazia di Dio è la vita eterna in Gesu Cristo nostro Signore " » .

CAPITOLO II. LA NATURA DELLA RICOMPENSA CELESTE

Designare il cielo come ricompensa, come retribuzione, è un modo di esprimersi del tempo per indicare l'impenetrabile ed ineffabile mistero della vita celeste. La dottrina neotestamentaria della ricompensa è nel piu netto contrasto con la relativa speranza giudaica, quale troviamo presso i contemporanei di Gesu e quale viene combattuta nel modo piu deciso da Paolo. Secondo l'opinione giudaica il rapporto tra Dio e l' uomo è un affare giuridico. L'uomo in base alle sue prestazioni morali può avanzare pretese presso Dio. Ciò che attende da Dio è ricchezza terrena, onore terreno e gioia terrena. La rivelazione di Gesu circa la ricompensa celeste conrraddice total­ mente a queste aspettative giudaiche. Egli non promette gioie terrene. La sua promessa di ricompensa si riferisce alla vita che incomincia dopo la morte. Per la vita di pellegrinaggio i s uoi fedeli devono aspettarsi lotta e persecuzione. Come egli stesso dovette passare attraverso alla morte per entrare nella gloria, cosi anche il retaggio dei suoi fedeli è sofferenza e tribolazione. La vita dopo la morte non è neppure un risarcimento delle gioie sen­ sibili mancanti nella vita di pellegrinaggio, oppure dei dolori !Jrovati quag giu. Non è una vita di godimento sensibile. La ricom!Jensa è qualcosa di completamente diverso da ogni cosa terrena ed esperimentabile. È il regno di Dio. A chi, durante questa vita, si sottomette al regno di Dio, è promesso che diverrà partecipe in modo perfetto di tale regno, che Dio sarà suo re con potenza assoluta (Mt. 5, 3· ro. 1 2 ; 19, 1 4 ; 5, 1 9 s. ; 7, 2 1 ; 8, I I ; r 8, 3 ; 19, 23 s. ; 25, ro; Mc. 9 , r . 47; Le. 1 2, 32; 22, r 6 ; Gal. 5 , 2 1 ; Col. r , 1 3). Chi ha fame di giustizia, sarà saziato di giustizia (Mt. 5 , 5). La ricompensa promessa è l'unione con il Cristo glorificato, la partecipa­ zione alla sua vita gloriosa, al suo regno, l'unione con Dio, la piena giu­ stizia, la rivelazione della perfetta filiazione divina, la visione dell'amore di Dio. Cfr. § § 221, 1 69, 1 77. ·

CAPITOLO III. GRATUITA' E SOVRABBONDANZA DELLA RICOMPENSA CELESTE

La concessione della unione con Dio viene designata nella Scrittura come ricompensa. Ma questa ricompensa Dio non la dà come giudice che giudica con giustizia� bensi come padre che dona con bontà . Per grazia Dio trae l'uomo nella sua propria vita trinitaria di verità, di amore e di santità. Dio non impone questa vita a nessuno. Chi sceglie la vita di odio eterno, non viene da lui costretto alla vita di amore. Egli si dona sol­ tanto a coloro che gli si aprono. Se lo si può fare� è ancora effetto del suo amore. Soltanto l'uomo permeato dalle forze di Dio può prepararsi per Dio. La chiamata al regno di Dio, al cielo, è quindi pura grazia. Allora non c'è motivo di gloriarsi (Rom. 3, 27; cfr. §§ 302 e 204). La dedizione obbediente dell'uomo a Dio, per la quale è promessa come ricompensa il cielo, la tribolazione e la sofferenza per amore di Cristo, sono frutti delle forze spirituali celesti donate all'uomo. Quando perciò Dio dona il cielo come ricompensa, porta a termine ciò che egli stesso ha iniziato con la grazia. Ma lo porta a termine soltanto in coloro che lo permettono. Egli suggella la sua propria opera in coloro che non oppon­ gono resistenza. Dio ha stabilito che il completamento, il suggello, di ciò che egli stesso ha iniziato, dipenda dalla disposizione dell'uomo. Quando egli porta a termine ciò che ha iniziato, ciò costituisce il riconoscimento reso all'uomo di essersi aperto all' amore di Dio. Nella ricompensa celeste Dio dà all'uomo la conferma che egli ha combattuto seriamente contro l'egoi­ smo ed ha lottato per l'amore servizievole. Gli fa provare la felicità della vittoria dell'amore che si sacrifica. Glie la fa provare in una misura che l'uomo non può immaginare o sognare. Se l'inizio della dedizione umana a Dio è opera di Dio, il suo completamento è una nuova prova dell'amore divino, di cui il donatario non sospetta, anzi non può sospettare la pro­ fondità. Colui che è unito a Dio non deve temere che Dio lo privi della

§ 3 1 4.

IL CIELO COME GRAZIA E RICOMPENSA

623

sua « ricompensa ». In base alla promessa divina la può sperare con cer­ tezza (cfr. la dottrina del merito de condigno, § 221 ). Il riconoscimento tributato da Dio all'uomo è rendimento di onore e premiazione. Dio rende onore a coloro che si sottomettono al suo regno (Gv. 8, 50. 54). Cristo onora i suoi discepoli, riconoscendo pubblicamente dinanzi a tutto il mondo coloro che non si sono vergognati di lui (Mc 8, 38). La risposta di Dio allo sforzo spirituale dell'uomo non è semplicemente il riconoscimento di ciò che l'uomo ha compiuto in virtu della grazia, ma, ben di piu, è un dono dell'amore del Padre buono e ricco, che distribuisce con prodigalità. Non c'è equivalenza tra lo sforzo umano e la ricompensa divina. Dio ricompensa in sovrabbondanza. Egli punisce in modo piu mite di quel che l'uomo meriti, e ricompensa a dismisura (Mt. 5, 1 2 ; 24, 45-47 ; 25, 21 ; Le. 6, 3 8 ; Mc. ro, 30). Ciò vale anche del merito de condigno. La cosa viene attestata chiarissimamente nella para­ bola degli operai della vigna (Mt. 20, r r 6) . Il fulcro della parabola sta nella ricompensa che viene pagata ai lavoratori assoldati soltanto verso l'ora undecima. Se il padrone della vigna paga loro la mercede di tutta la giornata, si rivela in ciò la sua generosa bontà, che dona liberamente. Il rapporto di Dio con gli uomini non dev'essere considerato come quello di un datore di lavoro che calcola con esattezza con i suoi operai. Si può pensare che gli operai che si affaticano per tutto il giorno, ed alla sera ricevono la loro giusta mercede, siano presenti nella parabola solo per mettere nella luce piu chiara la ricompensa sovrabbondante di quelli giunti all'ultima ora e la bontà inconcepibile del padrone della vigna. L'amore di Dio è cosi grande, che coloro i quali pensano solo in modo umano e misurano solo in modo terreno, non comprendono il suo modo di agire e mormorano contro di lui. Cfr. anche Le. 15. Cosi i beati, benché rice­ vano il cielo come ricompensa, come riconoscimento che viene tributato loro da Dio, tuttavia non si gloriano della loro fatica, ma esaltano l' amore di Dio (Le. 1 7, 7- 10). Cfr. Preisker, fLLcr06ç, in Kittel, Worterbuch zum N. T., IV, 699-736. .

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CAPITOLO IV. SPERANZA NELLA RICOMPENSA CELESTE E PUREZZA DELLO SFORZO MORALE

Se in base a questa dottrina della Scrittura consideriamo la natura della ricompensa celeste, risulta che la speranza in questa ricompensa non necessariamente pregiudica la purezza degli sforzi morali, ma anzi può addirittura motivare la pìu alta moralità. La ricompensa promessa al cristiano è l'unione con Dio, il regno di Dio. Il cielo è la realizzazione piu alta del regno di Dio. La ricompensa con­ siste nell'affermarsi e manifestarsi totalmente del regno di Dio in un uomo.

«

Dio vi ha chiamati al suo regno e alla sua gloria

»

(1 Tess. 2, 1 2).

Dio è la verità, l'amore, la bontà, la santità in persona. Il perfetto affer­ marsi del regno di Dio è quindi la suprema rivelazione della verità e dell'amore, del bene e della santità in persona. La verità, l'amore, la bontà e la santità, che nei giorni del pellegrinaggio sembrano essere cosi impo­ tenti, nel beato del cielo si rivelano come la vera e sola cosa potente e dominante. Il cielo quindi significa la piu alta glorificazione oggettiva di Dio, santità e amore, serve

in modo perfetto all'onore di Dio, all'onore in uno stato in cui la

della verità e dell'amore. Chi spera nel cielo, spera

verità e l'amore si manifestano come la sola cosa consistente e di valore ; egli spera quindi

in uno stato di perfetta moralità.

Dio si rivela realizzando la sua bontà nell'uomo ; non dicendo che egli è buono, ma manifestando la sua bontà nel beato del cielo. L'uomo viene cosi attratto nella verità e santità di Dio, da esserne totalmente formato e

configurato. Nello stato celeste non c'è piu nell'uomo nulla di egoistico

e nessun attaccamento al proprio io. Il beato accoglie nella sua coscienza

§ 3 1 4.

IL CIELO COME GRAZIA E RICOMPENSA

la verità e la santità che lo inondano e si dona loro senza riserve. Vede e riconosce Dio, la verità e l'amore in persona, come l'unico Signore. Afferma il bene ed il vero come gli unici valori. Si sottomette al regno del vero e del bene per il loro intrinseco pregio e valore. Anzi adora la verità e l'amore in persona. In tale modo egli è anche la suprema glorificazione soggettiva di Dio. Chi quindi spera nel cielo, spera che venga un momento in cui il vero ed il bene sono amati per se stessi. Durante il pellegrinaggio in genere all'uomo non è possibile questo amore in modo perfetto, perché conti­ nuamente s'insinua l'egoismo e cerca la verità ed il bene per la loro utilità. Nel fatto che l'uomo si sottomette alla verità e santità personali e le riconosce come padrone della sua vita, si dona loro e si unisce in tale modo con esse, consiste nello stesso tempo la felice perfezione del suo essere ordinato alla verità ed all'amore. Certo, il cielo è in primo luogo la rivelazione della gloria di Dio e serve quindi alla sua glorificazione, ma esso è pure il compimento dell'uomo, perché la rivelazione della verità e dell' amore, che penetrano senza veli nella coscienza umana, ed il felice perfezionamento dell'essere umano da parte della verità e dell'amore divini non sono che due aspetti di un solo e identico evento. Chi spera nel cielo, nella rivelazione e nella sovranità della verità e dell'amore, spera necessariamente anche nel compimento del proprio essere da parte della verità e dell'amore. Questa speranza non dev'essere scam­ biata con un desiderio egoistico. Essa significa che l'uomo brama ardente­ mente il momento, in cui riuscirà ad amare senza riserve la verità e la santità per se stesse. A questo desiderio va congiunta la convinzione che un simile atto celeste costituisce nello stesso tempo ciò che con viene alla sua natura e quindi la perfeziona. Pretendere che l'uomo debba reprimere il desiderio del proprio compimento nella piena realizzazione del bene e del vero significherebbe fare violenza alla natura umana. Il tentativo di eliminare ogni pensiero del proprio io, implica addirittura una contrad­ dizione. Chi cosi agisse, desidererebbe la realizzazione del bene e del vero, ma escluderebbe se stesso dalla loro realizzazione. Inoltre un simile comportamento significherebbe la negazione dell'essere e del valore proprio della natura umana, creata da Dio e destinata alla perfezione. Colui quindi che sryera nel cielo in un modo conveniente, desidera in primo luogo l'onore di Dio ed in secondo luogo il !Jroprio compimento, che si fonda sulla glorificazione di Dio, e la beatitudine che vi è congiunta. Se nella coscienza di fede talora l'onore di Dio dovesse passare in seconda

P. II. - ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

linea e la speranza della propria perfezione avanzare in primo piano, ciò non costituisce un comportamento immorale, perché il proprio perfezio­ namento viene cercato in Dio. Sarebbe immorale soltanto il comporta­ mento in cui l'uomo desidera la sua felicità, senza badare alle vie con cui la raggiunge. Un simile desiderio di felicità potrebbe allearsi con la nega­ zione della verità e della bontà personali e sarebbe quindi in contraddi­ zione con la speranza cristiana del cielo. Cfr. W. Pesch, Der Lohngedanke in der Lehre Jesu nach der synoptischen Uberlieferung verglichen mit der religiosen Lohnlehre des Spiitjudentums, Miinchen 1 9 5 5 .

§ 315. Il cielo come compimento dell'umano desiderio di vita e come eterna beatitudine.

CAPITOLO I. ORDINAMENTO DELL'UOMO A DIO

I.

-

NOZIONI GENERALI.

L'unione col Padre celeste, prodotta da Cristo nello Spirito Santo, signi­ fica arricchimento e compimento della natura umana. Per comprendere questa proposizione bisogna partire dal fatto che l'uomo può condurre una vita saggia e piena soltanto nell'incontro con ciò che è diverso da lui. Senza questo incontro egli rimane chiuso nella sua ristrettezza. La mancanza di apertura e di dialogo porta al rattrappimento. Affinché l'io nell'incontro cresca e maturi, l'essere incontrato dev'essere diverso. Soltanto se non è uguale a me, mi può dare ciò che io non ho ancora, può rendermi quel che non sono ancora. Tuttavia una qualche affinità deve unire coloro che s'incontrano, altrimenti non si può giungere neppure ad un reciproco contatto ed ordinamento, ad essere l'uno con l'altro e l'uno nell'altro. L'incontro sarà piu fecondo se l'altra parte non soltanto è diversa, ma migliore e maggiore. Nessun uomo può sapere in anticipo quale incontro sarà per lui il piu salutare ed utile, quale sarà dannoso e pernicioso. Un incontro tuttavia è indispensabile per la vita e la salvezza : l'incontro con Dio. Finché l'uomo non è unito a Dio, rimane in lui qualcosa di incom­ pleto, e precisamente non solo un settore marginale, ma la parte piu intima del suo essere. L'uomo esiste per Dio, e la ragione sta nella sua origine da Dio. La provenienza da Dio dà l'impronta alla sua essenza ed alla sua esistenza. L'uomo esiste come immagine di Dio, e Dio è il suo archetipo. Egli è quindi ordinato a Dio come l'immagine all'originale. Avendo l'impronta divina, egli ha perciò inclinazione verso Dio. Questo ordinamento sussiste anche se l'uomo non se ne rende conto, non ne ha

628

P. I I .

··

ESCATOLOGI A INDIVIDU ALE

chiara coscienza, perché non è già un fatto psichico, ma una determina­ zione dell'essere. L'ordinamento antologico a Dio si esprime psicologica­ mente nel fatto che l'uomo deve continuamente guardare e mirare al di là di se stesso e non può essere contento di sé in modo autosufficiente. L'uomo quindi è una realtà che non può essere compresa in base a se stessa, quale è oggi. Egli non si esaurisce nei limiti de!lla natura e del­ l'umano. È per costituzione creatus ad Deum, ordinato ad essere toccato dall'incontro con Dio e immesso nella partecipazione del Dio vivente . L'uomo non è un essere autosufficiente, limitato a se stesso. Egli è « un essere che sorpassa se stesso » , secondo la grandiosa formulazione del frammento 434 di Pascal : « L'homme passe infìniment l'homme ». « Egli non si realizza propriamente nello sviluppo chiuso in sé delle dispo­ sizioni umane, ma in quanto viene attratto, al di là di sé, nella comunione di vita con Dio. La necessità di superare se stesso, proprio questa è la natura piu profonda dell'uomo. Il rifiuto di questo autosuperamento, quale viene espresso nell'idea della natura autosufficiente, costituisce quindi l'ultima formula di quella immagine borghese dell'uomo, sia naruralistica od umanistica, individualistica o collettivistica, significa propriamente la distruzione della sua vera natura » (R. Guardini, Christliches Bewusstsein, 99 s.). L'origine da Dio si può determinare ancora piu esattamente. È una ori­ gine dall'amore, perché Dio è amore ed ha creato il mondo per amore. L'origine dall'abisso dell'amore divino dà quindi all'uomo la sua impronta piu intima. L'amore è perciò il centro piu intimo dell'io personale umano. Se l'uomo è immagine di Dio, è nella sua natura piu intima immagine dell'amore. L'amore è il suo archetipo. Perciò l'io deve protendersi verso il tu. (Ciò hanno riconosciuto soprattutto i filosofi e teologi del Romanti­ cismo. Ma non si tratta di una concezione della filosofia e teologia rmnan­ tica condizionata dal tempo, bensi di una intuizione valida per tutte le età. Cfr. Th. Steinbiichel, Der Umbruch des Denkens, 1 936 ; Idem, Philo­ sophische Grundlegung der Katholischen Sittenlehre, 1 9 3 8 ; Idem, Von Wesen und Grenzen menschlicher Personalitiit, in Akademische Bonifa­ tius-Korrespondenz, 47, 1 933, 1 77 ss. ; Idem, Das Problem der Existenz in idealistischer und romantischer Philosòphie und Religion, in Scientia Sacra. « Festschrift fiir Karl Josef Kardinal Schulte », 1925, 1 68-225). La vita dell'uomo può avere un senso soltanto nell'incontro con il tu (nella società). Segno esterno di questo fatto è il linguaggio umano. Alla vita dell'io umano appartiene il linguaggio, e quindi il dover stare fronte a fronte con il tu. Nell'uomo rimane il vuoto e il deserto, se non si giunge

§

3 1 5 . IL CIELO COMPIMENTO DELLA NA Tt;RA UMANA E ETERNA BEATITUDINE

629

al colloquio, al dialogo. Egli avverte questo vuoto nel sentimento della solitudine. L'incontro con il tu avviene nell'amicizia, nell'amore, nel ma­ trimonio, infine e nel modo piu alto, quando l'uomo viene afferrato dal tu divino. L'uomo deve protendersi verso Dio, perché proviene dal suo amore e ne è coniato nel piu intimo. Perciò in fondo egli è sempre in via verso Dio, sia che lo sappia o no, sia che lo voglia esplicitamente oppure no. Solo donandosi a Dio egli agisce secondo natura. Solo allora egli rea­ lizza le sue disposizioni naturali. Solo cosi diventa ciò che deve divenire. Può giungere al suo vero io solo nel tu che lo incontra, in definitiva solo nel tu divino. Rivolgendosi a Dio egli si avvicina al suo archetipo (§ 1 25). Quanto piu si avvicina a Dio, tanto piu si esprime in lui l'archetipo. L'unione suprema con Dio nella esistenza celeste è la formazione suprema dell'io umano. Chi si chiude in se stesso, chi gira solamente in sé ed attorno a sé e si isola nei confronti del tu, fa violenza alla sua propria natura, distrugge se stesso. Negazione di Dio e odio di Dio significano in definitiva autodistruzione (dell'uomo). Solo in Dio quindi l'io umano giunge al suo compimento, alla sua perfezione. Per l'uomo, che vuole giungere a sé, non esiste una via piu breve della via infinita che porta nella infinità di Dio. Tutte le altre vie non conducono alla meta.

II. - ORDINAMENTO AL DIO TRINO. Ora Dio ha stabilito che l' uomo lo possa possedere soltanto in modo soprannaturale, cioè Dio gli si comunica soltanto accogliendolo per mezzo di Cristo nello svolgimento della vita intradivina. Perciò l'uomo perviene al suo proprio io, diviene se stesso, solo in quanto viene afferrato da Dio ed innalzato alla partecipazione della sua vita trinitaria (§ 1 2 5). Ciò non dev'essere inteso nel senso che l'uomo diventi uomo solo per mezzo di Dio ed in Dio, per modo che Dio sia un elemento dell'essere umano, e senza di esso l'uomo manchi di una parte essenziale della sua natura e quindi sia incompleto. Ciò sarebbe una confusione naturalistica e monistica di Dio e uomo. Con la proposizione che l'uomo diviene se stesso soltanto nella partecipazione alla vita trinitaria di Dio, resa acces­ sibile da Cristo, si vuoi dire che l'ordinamento essenziale a Dio, proprio dell' uomo, per una misteriosa disposizione di Dio trova la sua ultima realiz­ zazione soltanto in modo soprannaturale, e quindi non esiste una realizza­ zione naturale. Vera e perfetta umanità non è quindi raggiungibile senza

P. II.

-

ESCATOLOGIA

INDIVIDUALE

Cristo. Non c'è in definitiva un compimento puramente naturale dell'uomo. L'unione suprema con Dio non è quindi uno sviluppo di ciò che è già preformato nella natura umana. La partecipazione alla vita divina triper­ sonale avviene in modo che Dio, verità ed amore, si riversa nell'io umano che gli si apre. Ciò trascende sostanzialmente la capacità dell'essere umano, perciò essa viene trasformata e potenziata dal

lumen gloriae

infuso da Dio.

La realtà personale, a cui l'uomo si unisce nell'incontro con il Dio tri­ personale, è totalmente diversa da se stesso. Appunto per questo essa può arricchirlo e condurlo in modo inimmaginabile oltre se stesso, oltre la sua imperfezione e limitatezza. L'uomo quindi può divenire vero uomo, cioè perfetto, uomo nel modo in cui Dio lo vede e lo vuole da tutta l'eternità, solo in quanto Dio gli accorda per mezzo di Cristo, al di là di tutte le aspettative ed esigenze, al di là di tutti gli sviluppi e attuazioni della natura umana, una partecipazione alla sua vita trinitaria, se quindi l'uomo diviene piu che uomo. Una cosa del genere viene già concessa all'uomo nella vita terrena, quand'egli afferra Cristo nella fede; ma rag­ giunge

il

suo ultimo sviluppo nella visione celeste di Dio. Si comprende

cosi la parola che Ignazio di Antiochia, in viaggio verso il martirio, scrisse ai Romani (c. 6), affinché non si adoprassero per la sua liberazione : « Non m'impedite di vivere, non vogliate la mia morte ; non donate al mondo e non ingannate con le seduzioni della materia chi vuoi appartenere a Dio. Permettete che io raggiunga la pura luce : sarò veramente uomo

cbé, giunto ad essa,

».

III. - ORDINAMENTO NATURALE E SOPRANNATURALE A DIO. Molto controversa è la questione circa il modo in cui dev'essere inteso il rapporto tra il compimento soprannaturale dell'uomo ed il suo ordina­ mento naturale a Dio. Gli uni credono che la natura dell'uomo non abbia in sé un ordinamento positivo all'unione soprannaturale con Dio. Tuttavia la natura umana, per la sua totale subordinazione a Dio, sarebbe capace di compimento per via soprannaturale. Essa sarebbe un « sustrato pura­ mente passivo

»

per la grazia. Sarebbe aperta per Dio. Quando Dio afferra

la natura umana e trionfa nell'io umano, in modo che questo è permeato dalla verità e dall'amore, verrebbe concesso all'uomo ciò per cui egli ha capacità ricettiva, senza tuttavia poterlo raggiungere da solo. Secondo un'altra sentenza la natura dell'uomo è ordinata positivamente

§ 3 1 5.

IL CIELO COMPIMENTO DELLA NATURA UMANA E ETERNA BEATITUDINE

63 1

al compimento ad opera della grazia soprannaturale. L'uomo non potrebbe acquistare mediante le sue forze la grazia, che in definitiva consiste nella visione immediata di Dio, e precisamente per due motivi : uno metafisica ed uno storico-salvifico. Infatti l'uomo, benché sia positivamente ordinato alla visione di Dio, non potrebbe tuttavia, per la sua finitezza che si fonda sul carattere di creatura, realizzare col proprio sforzo la meta che è conforme alla sua natura. Questa sproporzione tra la destinazione natu­ rale e la forza realizzatrice sarebbe resa piu forte dal peccato umano, il quale come una forza di gravità trascinerebbe l'uomo in una direzione antidivina, ne oscurerebbe la ragione ed indebolirebbe la volontà o la capacità di amore. Ignoranza ed indolenza di cuore impedirebbero all'uomo di giungere alla visione di Dio con le sue proprie forze. Per giudicare queste due tesi opposte occorre dire che la prima può far comprendere meglio il carattere soprannaturale, gratuito, della visione di Dio, mentre la seconda può spiegare piu facilmente perché la visione di Dio non costituisce qualcosa di estraneo alla natura umana od un elemento superfluo del compimento umano, come anzi l'uomo può giun­ gere pienamente a se stesso solo nel dialogo con il Dio trino. Ma nel giu­ dicare la seconda tesi bisogna notare che essa paga i suoi vantaggi con un pericolo, quello cioè che non possa piu conservarsi intatto il carattere totalmente gratuito della visione di Dio, ma che questa, anche se viene accordata soltanto dall'amore di Dio e può essere raggiunta solo mediante l'iniziativa divina, sia richiesta dalla natura stessa dell'uomo. Il carattere soprannaturale della visione di Dio è un fatto fondamentale del pensiero cattolico. Si comprende quindi come Pio XII nell'enciclica Humani generis del 1 2 agosto 1 9 50, biasimi coloro che « snaturano il concetto della gra­ tuità dell'ordine soprannaturale, quando sostengono che Dio non può creare esseri intelligenti senza ordinarli e chiamarli alla visione beatifica » (Denz. 3 0 1 8). Per ulteriori dichiarazioni sistematiche ed in particolare di storia dei dogmi cfr. § § 1 1 4- 1 1 7 con la rispettiva bibliografia. Comunque si risolva la questione, lo scambio di vita con Dio, con l'amore e la verità in persona, apporta il compimento della natura umana, e precisamente in una intensità che trascende tutte le sue possibilità. Cosi appare chiaro che il cielo non distrugge l'io personale dell'uomo, ma è la meta a cui l'uomo è indirizzato. Dio perfeziona quindi i beati attraen­ doli a sé al di là di tutte le possibilità naturali. La Sacra Scrittura attesta questa elevazione e sopraelevazione della na­ tura umana, impossibile alle sue proprie forze, ma fondata sull'amore onni­ potente di Dio, quando pone i beati sullo stesso piano degli angeli

P.

II.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

(Mc. 1 2, 2 5). Sono simili agli angeli : ciò non significa che siano incor­ porei come gli angeli, ma che hanno la vicinanza a Dio degli angeli. Essi vengono accolti nella corte celeste, che

è costituita dagli angeli. Come la

comunità che celebra l'eucaristia durante la vita del pellegrinaggio nel prefazio e nel

Sanctus panecipa alla lode degli angeli nel modo di esistere

della fede, cosi i beati nella vita celeste partecipano al modo di vivere degli angeli. Sono accolti nella loro unione con Dio. Mediante l'assunzione dell'uomo nell'unione con Dio, amore e verna, la natura umana viene consolidata e perfezionata non soltanto in generale, ma nella sua legittima peculiarità creata da Dio. L'uomo viene attratto nella sfera dell'amore trinitario proprio nella sua individualità. Cosi la pecu­ liarità dell'uomo e la peculiarità della donna, l'aspirazione all'infinito e l'impulso dinamico del Germanico, la gioia della forma del Latino, la capacità di dedizione dello Slavo troveranno la loro realizzazione.

CAPITOLO II. IL CIELO COME BEATITUDINE

I.

- LA GIOIA TERRENA COME PRELUDIO DELLA BEATITUDINE CELESTE QUESTA COME COMPLETAMENTO DELLA GIOIA TERRENA.

Il perfezionamento del suo essere e la realizzazione di tutti i desideri apporta al beato una somma felicità. Mentre la vita terrena è caratterizzata dal fatto che lo sforzo religioso-morale non è sempre accompagnato dalla felicità, nello stato del cielo perfezione religioso-morale e somma beati­ tudine, verità e forza, amore e successo sono definitivamente uniti tra loro nel modo piu intimo. Lo stato del cielo significa proprio l'unione definitiva con la verità e l'amore. Verso questa meta il cuore umano è conti­ nuamente in cammino. L'unione con la verità e con l'amore significa arrivo alla meta essenziale, sempre desiderata nel tempo del pellegrinaggio, ma mai raggiunta. Poiché la beatitudine non è altro se non un attivo riposare nella meta naturale a cui il cuore umano aspira, il cielo è la somma beatitudine. Si realizza allora il desiderio umano di gioia, che nella vita terrena non può essere soddisfatto. Il massimo, che la vita terrena può accordare, è un acconto della gioia celeste. Questo acconto viene però accordato all'uomo, ed è sufficiente perché, nonostante la malinconia che sorge continuamente nel suo cuore, e nonostante la tristezza che da un mondo caduco di con­ tinuo l'assale, egli non debba disperare. Nell'acconto, accordatogli da Dio, della gioia perfetta, egli possiede la certezza che la gioia e non la tristezza, la beatitudine e non la disperazione avranno l'ultima parola. Questa certezza ha la sua ragione piu profonda nel fatto che Dio stesso è la beatitudine. Egli è la beatitudine, perché è l'amore. Nel dialogo di amore, che Padre e Figlio tengono continuamente tra loro nello Spirito Santo, essi sono beati. Anzi, Dio, essendo l'amore personale, è nello stesso

P. II.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

tempo la beatitudine personale. Perciò anche nella creatura, che proviene da Dio, cioè dall'amore e dalla beatitudine, c'è il desiderio di gioia e di felicità. Tale desiderio non può essere mai completamente sommerso da tutte le acque della malinconia perché, stante la provenienza dell'uomo da Dio, beatitudine in persona, è congenito alla natura umana. Affinché l'uomo non disperi di raggiungere, nonostante tutti i tormenti della vita terrena, ciò che in lui domanda vivamente di essere realizzato, Dio, amore e beatitudine, gli ha dato nell'amore e nella gioia della vita terrena un pre­ sentimento della gioia celeste. Ogni gioia terrena è un preludio di quella celeste . In ogni beatitudine terrena agisce in anticipo la beatitudine futura. Viceversa, la gioia del cielo è la consumazione delle gioie terrene. La gioia terrena viene perfezionata dalla celeste in un modo che supera tutte le aspettative dell'uomo. Il modo di vita celeste consiste anzi in questo, che l'uomo incontra la beatitudine, che è Dio, nella sua forma svelata, anzi può vivere con la beatitudine in persona, può prendere parre intimamente al dialogo, che la stessa beatitudine tiene. Il beato viene inondato dalla beatitudine infinita che è Dio. Essa lo pervade in modo tale che non rimane piu alcuno spazio libero per la tristezza e per la malinconia. Egli ne viene completamente pervaso. Regno perfetto di Dio nell'uomo e regno perfetto dell'amore e della beatitudine. Da questa descrizione appare chiaro che la beatitudine promessa all'uomo è incomprensibile ed inimmaginabile nello stato di pellegrinaggio. Consi­ stendo essa nell'unione con la beatitudine in persona, la sua natura è per noi cosi inconcepibile ed inesprimibile come l'essere di Dio. Dio solo può misurare l'abisso di beatitudine che dona ai suoi fedeli, perché egli solo può comprendere se stesso. Noi possiamo cercare di rappresentarcela soltanto con immagini e similitudini che provengono dalla gioia terrena. Ma tutte le immagini e similitudini non possono andare oltre la confes­ sione : « Ciò che occhio non vide e orecchio non udi, né mai cuore d' uomo ha potuto gustare, questo Iddio preparò per coloro che

lo amano

»

( 1 Cor. 2, 9). Per l'uomo, che vive nel mondo della malinconia e della tristezza è addirittura incredibile che Dio gli tenga preparata una cosa simile. Con la promessa della beatitudine eterna egli fa perciò quella esperienza che i discepoli hanno fatto con il Signore risorto. Allorché apparve loro la sua figura, essi non poterono inserirla nelle loro esperienze quotidiane. Improvvisamente egli fu in mezzo ad essi, senza dover prima, come gli altri uomini, aprire le porte e varcarle. Perciò si sono spaventati di lui come di uno spettro. Talmente strana ed incredibile parve loro questa figura

§ 315.

IL CIELO COMPIMENTO DELLA NATURA UM A NA E ETERNA BEATITUDINE

63 5

del Signore, che contraddiceva a tutte l e esperienze della vita quotidiana. Egli li aiutò a credere, dando loro una prova della sua realtà : si fece dare da essi del cibo e lo mangiò. Mediante questo atto, che rientra nelle forme primitive della vita umana, egli mostrò loro la realtà della sua esistenza corporea trasformata. L'esperienza della realtà di ciò che accadeva dinanzi ai loro occhi li riempi di tale gioia, che non potevano credere per il con­ tento. Quel che il Signore presentava ai loro occhi come realtà, pareva loro troppo grande e troppo magnifico per potervi credere. Una esistenza libera dai ceppi della vita quotidiana, dalla gravezza e ristrettezza del­ l'essere, era talmente al di là delle loro speranze, che non vi poterono credere quand'essa apparve loro. Fu quindi la gioia ad impedire loro di credere. Ma proprio rallegrandosi della esistenza perfetta del Signore ap­ parsa loro, hanno compiuto, sia pure in modo imperfetto, un atto di fede (Le. 24, 36-47). Poiché all'uomo nella valle di lacrime può apparire incre­ dibile che esista una vita di beatitudine e di gioia perfette, ha bisogno d'una grande garanzia. Cristo glie l'ha data, impegnando la propria parola come garanzia dell'esistenza beata del futuro. Nel momento dell'addio disse ai suoi discepoli che già nella vita del pellegrinaggio possono prendere parte alla sua beatitudine, che è una beatitudine di amore (Gv. 1 5 , 1 0 s.), ma che la gioia perfetta sarà apportata soltanto dal futuro. Questa parola di promessa accompagnò i discepoli in tutte le tribolazioni e persecuzioni. Per quanto ancora la loro esperienza quotidiana sembrasse smentire la spe· ranza in una vita di gioia e di beatitudine, tuttavia essi potevano fondarsi sulla parola indefettibile della promessa, che il Signore aveva loro lasciato. La comunità dei cristiani ha accolto la parola della gioia futura e la pro­ fessa attraverso tutti i secoli in mezzo ai lamenti e ai dolori.

II. - DOTTRINA DELLA CHIESA : REALTÀ E SENSO DELLA BEATITUDINE. Poiché per l'uomo che vive nell'oscurità del dolore non è cosa spontanea sperare nella gioia futura, ma anzi la sua esperienza leva continuamente proteste contro una simile speranza e tenta di smascherarla come illusione, poiché la tribolazione ed il tormento della vita minacciano di indurre l'uomo alla disperazione od alla rassegnazione, colui che vive in questo mondo ha continuamente bisogno di essere invitato ad abbandonarsi alla promessa del Signore. Anzi dev'essere obbligato a sperare in un simile futuro di gioia. Questo invito ed obbligo viene proposto al cristiano nel dogma di fede

P. II. - ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

secondo cui ad ogni uomo purificato da colpa e da pena toccherà in sorte una beatitudine perfetta. Esso fu proclamato dal Concilio di Firenze e dal Papa Benedetto XII (Denz. 693 e 5 30) nella costituzione Benedictus Deus. Cfr. anche i Simboli di fede. TI dogma dice : Agli uomini purificati da ogni colpa e pena viene concessa una completa beatitudine sopran­ naturale. Questo dogma non costituisce soltanto una constatazione oggettiva circa quel che verrà un giorno, ma nello stesso tempo l'appello a non disperare nel mondo dei crolli e delle rovine, delle pene e dei tormenti, bensf a protendersi verso la vita di gioia e di beatitudine. Esso scuote continua­ mente l'uomo affinché non sprofondi nell'abisso dell'affi.izione e della ma­ linconia, ma si protenda verso la gioia e la felicità. Proprio quando si vede ai limiti delle sue speranze terrene, quando il suo destino naufraga, l'uomo viene invitato da questo dogma a innalzarsi dal muro della disiJerazione alla gioia in Dio. Il cristiano accoglie questo appello alla gioia quando nei Simboli professa la vita eterna. È caratteristico che egli emette questa confessione del battesimo e per lo piu anche nella celebrazione dell'euca­ ristia, e quindi là, dove partecipa alla morte del Signore. Ciò significa due cose : primo, che la speranza nella gioia non viene soffocata dalla morte, bensi accesa; secondo, che la via alla gioia sperata dal cristiano è la morte. Qui appare pure che la disperazione non è soltanto una rinuncia del cuore umano, ma una disobbedienza alla chiamata inclusa nel dogma della beati­ tudine futura. Esso obbliga l'uomo a credere che non la tristezza, bensi la gioia avrà l'ultima parola, che la forma definitiva di vita non è la dispera· zione e la rassegnazione, bensi il compimento e la beatitudine. Questa speranza diffonde la sua luce su tutta l'oscurità terrena.

lll.

-

TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA.

Troviamo la promessa della gioia futura non soltanto nel passo del di­ scorso d'addio precedentemente citato, ma in tutta quanta la Scrittura che ne è ripiena. Ne parlano i libri dell'Antico e del Nuovo Testamento. È vero che l'Antico Testamento, nelle sue parti piu antiche, conosce sol­ tanto uno stato simile al sonno nello sheol, ma negli scritti piu recenti, specialmente nel libro di Daniele, nei profeti e nel libro della Sapienza, il destino dei giusti defunti viene descritto come pace e vicinanza di Dio. Essi risplendono come le stelle, sono simili a giudici e re. Posseggono onore e bellezza ; al di là della morte li attende la « ricompensa ». Questa

§ 3 1 5.

IL CIELO COMPIMENTO DELLA NATURA UMANA E ETERNA BEATITUDINE

637

promessa ha potuto sopire il grave ed oscuro problema della sofferenza del giusto di fronte alla felicità e al successo dell'empio. Il compenso si ha nella fase di vita dopo la storia. Abbiamo già detto precedentemente le cose piu importanti in proposito. Nel Nuovo Testamento i Vangeli sinottici descrivono la vita dell'al di là come libertà dalle tribolazioni e pene dell'esistenza terrena. La vita futura apporterà ciò, per cui Cristo ha insegnato ai suoi a pregare (Mt. 6, 1 3) : liberazione dal peccato, dalla morte, dalla tentazione, dalla sofferenza. I beati del cielo guarderanno a tutto ciò, che è dolore e peccato, come ad un lontanissimo passato, il cui ricordo non costituisce una diminuzione della loro beatitudine, bensi un accrescimento. Quanto piu abissale e sinistro sta il passato nel loro ricordo, tanto piu viva e luminosa sarà la gioia della salvezza da tutti i pericoli. La vita futura apporterà completa libertà dalla schiavitu di Satana (Mt. 25, 4 1 ) . Questo corruttore e tormentatore del mondo non potrà piu molestare i beati. Con lui è eliminato il focolare principale di ogni inquie­ tudine e tribolazione. Essi non saranno neppure piu torturati dagli stru­ menti di Satana. Tutti i ricchi e potenti oppressori dei discepoli di Cristo sono condannati all'impotenza nei confronti del celeste (Le. r8, r-8). Il beato non deve piu avere paura degli assalti e delle violenze dei mal­ vagi : la dolorosa convivenza con gli avversari di Dio è terminata (Mt. I 3 , 24-50). Egli è al sicuro nelle braccia della misericordia di Dio (Mt. 5, 5-Io; Mc. I O, 26 s.). Parimenti è libero da tutte le tribolazioni, che l'asservimento del mondo al dominio del demonio porta con sé. Malattia, fame, povertà, miseria, morte sono estranee alla vita celeste (Le. 20, 36); esse sono caratteristiche della vita di pellegrinaggio. Anche se il beato alla fine dei giorni continuerà a vivere col suo corpo, questo avrà una forma diversa dalla presente. Il dolore non ha pìu alcun potere su di esso. Nelle beatitudini riferite da Matteo, Cristo annunzia che in quel mondo non vi saranno piu né fame né lacrime. Coloro che qui hanno fame, là saranno saziati, coloro che qui piangono, là rideranno (Mt. 5 , 1-1 2 ; Le. 6, 20-26). Essi vivono nella gioia della loro salvezza definitiva (Mc. I o, 25 s.). La ragione principale della loro gioia è il possesso di Dio, la parteci­ pazione all'amore di Dio (Mt. 5 , 9). Si fraintenderebbe totalmente la beatitudine celeste, se la si volesse distaccare da Dio. L'unione con Dio porta già con sé la somma beatitudine, perché implica la suprema realiz­ zazione della natura umana. Questo fatto appare ancora piu chiaro se con­ sideriamo che Dio è amore. Perciò quando l'uomo incontra il tu divino

P.

IL

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

nel modo piu intenso, incontra l'amore stesso. La sua beatitudine consiste quindi nell'essere circondato dall'amore stesso. Se Dio è l'amore in per­ sona, è pure la beatitudine in persona, perché amore significa beatitudine. Perciò l'incontro con l'amore in persona è, come abbiamo già visto, l'in­ contro con la beatitudine personale. Il cielo è l'incontro con la stessa beati­ tudine. Questo fatto è al di là di tutte le esperienze del nostro mondo. La beatitudine che qui ci è accordata, è sostanzialmente diversa dalla beati­ tudine che ci è accessibile in cielo, perché in Dio la beatitudine ha un volto e possiede un'assoluta forza di esistenza. Il beato del cielo vive nell'unione piu intima con la beatitudine sussistente. Essa lo inonda e lo sommerge. Allora la gioia prorompe dal suo cuore come il giubilo e l'esul­ tanza dalla bocca di chi è felice (Apoc. 19, 6 s.). La gioia traboccante viene attestata nella Sacra Scrittura in modo evidente con la parabola del ban­ chetto celeste. Mettiamo ancora una volta in rilievo che la felicità del beato non ba nulla a che fare con l' egoismo, perché sgorga dalla pienezza della verità e dell'amore. Inoltre la gioia del beato è gioia per il fatto che Dio è la beatitudine. Un aspetto particolare della gioia del beato è costituito dal fatto che tutti i suoi desideri di vivere, di possedere una vita piena e sicura sono totalmente soddisfatti perché partecipa alla ricchezza della vita divina (cfr. § 77). Con ciò egli diviene piu vivo di quanto lo possa divenire il piu vivo nell'esistenza terrena. Infatti, discendendo Dio in lui ed acco­ gliendolo nella sua propria vita, egli partecipa allo svolgimento della vita di Dio : è vivente in quanto vive la vita di Dio. Quantunque in tutti gli scritti del Nuovo Testamento il cielo sia carat­ terizzato come pienezza di vita, tuttavia viene attestato come vita eterna soprattutto da Giovanni. Il beato partecipa alla vita eterna di Dio ; è nella luce e nell'amore. I poteri oscuri della morte e delle tenebre non hanno piu alcun potere su di lui. Il veggente dell' Apocalisse consola i suoi lettori circa i giorni della tri­ bolazione, ricordando il tempo futuro del trionfo. Nel suo sguardo in cielo egli vede e sente quanto segue (Apoc. 7, 1 3- 1 7) : « Ed uno degli anziani mi rivolse la parola dicendo : questi, ravvolti in vesti bianche, chi sono e donde vennero? E dissi a lui : Signore mio, lo sai tu. E disse a me : questi sono coloro che vengono dalla grande tribolazione, e lavarono le loro vesti e le imbiancarono nel sangue dell'agnello. Perciò sono davanti al trono di Dio, e lo servono giorno e notte nel suo tempo, e colui che siede sul trono dimorerà sopra di essi. Non soffriranno piu la farne né sof-

§

3 1 5 . IL CIELO COMPIMENTO DELLA NATURA UMANA E ETERNA BEATITUDINE

639

friranno piu la sete, né si abbatterà mai su di essi il sole né calura alcuna, poiché l' agnello che è verso il mezzo del trono sarà il loro pastore e li condurrà a sorgenti d'acqua di vita; e Iddio tergerà ogni lacrima dai loro occhi » . Questa visione riguarda, è vero, anzitutto la fine dei tempi ; ma in essa appare anche il destino degli uomini beati prima della fine del mondo. Secondo Paolo la vita del mondo futuro è ristoro (2 Tess. I, 6 s.), con­ forto eterno (2 Tess. 2, I 6), pace (Rom. 2, 10) ed onore (Rom. 2, 6 s.). A suo giudizio la vita celeste è una vita di forza e di santità, di abbon­ danza e di indefettibilità, di gioia e di gloria. Essa proietta la sua luce, e la sua prospettiva può trasformare le sofferenze del tempo presente. L'Apostolo scrive ai Corinti (2 Cor. 4, ro- I 8) : « Sempre portiamo nel nostro corpo i patimenti di Gesu morente, affinché anche la vita di Gesu sia manifesta nel nostro corpo. Infatti noi, pure essendo vivi, siamo dati di continuo in preda della morte, a causa di Gesu, affinché anche la vita di Gesu si manifesti nella nostra carne mortale. Perciò in noi compie l'opera sua la morte e in voi la vita. Ma avendo quello stesso spirito di fede, di cui sta scritto : ho creduto, perciò ho parlato (Sal. 1 1 6, I o), noi pure crediamo e appunto per questo parliamo, ben sapendo che colui che ha risuscitato il Signore Gesu risusciterà anche noi con Gesu e ci farà comparire davanti a lui insieme con voi... Ecco perché noi non ci scoraggiamo ; anzi, ancorché in noi l'uomo esteriore si consumi, tuttavia quello interiore si rinnova di giorno in giorno. La nostra tribolazione, momentanea e di lieve peso, procura a noi, assolutamente al di sopra di ogni misura, un peso di gloria eterna, dato che non miriamo alle cose visibili, ma alle invisibili ; ché le cose visibili sono effimere, le invisibili, invece, eterne » . Ai Romani dà l'asscurazione (Rom. 8, r 6- r 8) : « Lo spi­ rito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E, se figli, siamo pure eredi : eredi di Dio e coeredi di Cristo, dacché soffriamo insieme con lui per essere altresi con lui glorificati. Ritengo, infatti, che le soffe­ renze del tempo presente non reggono il confronto con la gloria che dovrà manifestarsi in noi » .

CAPITOLO III. ATTIVITA' E RIPOSO

l.

-

SOMMA ATTIVITÀ .

Dalla descrizione, che la Sacra Scrittura fa della beatitudine eterna, possiamo vedere che il cielo non

è uno stato passivo,

un vegtrare apa­

tico e insensibile, ma altissima attività. Lo si può chiamare passivo solo nel senso che l'attività celeste

è prodotta da Dio stesso. L'attività consiste

nella partecipazione allo scambio trinitario di vita del Padre, del Figlio e

è la conoscenza piu viva e l'amore piu intimo. è una debole eco, un' immagine di quella attività

dello Spirito Santo. Perciò Ogni attività terrena

celeste, perché anche nella piu intensa attività di quaggiu l'uomo si affa­ tica soltanto attorno alla creazione prodotta da Dio, mentre invece nella vita celeste ha rapporto con il conoscere e l'amare assoluti, con l'atto asso­ luto, che

è Dio stesso. La Sacra Scrittura attesta l' attività del beato in

tutti i passi in cui parla della vita celeste. Accenna all'azione del cielo anche nella parabola dei servi. Ai servi fedeli dei suoi beni (Le. 19, 1 7 . 1 9 ; cfr.

il re affida l'amministrazione Mt. 24, 47 ; 2 5 , 2 1 ) . Essi rappresentano

non soltanto una parte del mondo, neppure soltanto la terra, neppure sol­ tanto l'intero universo, ma la stessa pienezza della vita divina. I beati del cielo sono chiamati ad esercitare il dominio regale assieme a Cristo. Perciò essi compiono continuamente un atto, che supera in modo incon­ cepibile per importanza ed intensità ogni azione terrena, anche le azioni di maggior risonanza storica. La forza e la profondità dell'attività dei beati si può misurare dal fatto che Dio possiede nella piu forte concentrazione ed attualità la sua vita infinitamente ricca, a cui il beato partecipa. Infatti la vita di Dio non scorre in una successione di stadi e di sviluppi ; non

è distinta in una

§ 31 5·

IL CIELO COMPIMENTO DELLA NATURA UMANA E ETERNA BEATITUDINE

641

molteplicità di fasi che si susseguono e tra le quali vi potrebbero anche essere dei tempi vuoti. Ma egli la possiede e la attua in un presente eterno, con una forza assoluta di autopenetrazione e di autoaffermazione. Cosi tutta la pienezza, che gli è propria, è concentrata in un solo punto. A questa pienezza di vita stabile, J?ersonale, incapace di aumento, il beato partecipa con la suprema attenzione e dedizione del suo spirito e del suo cuore. La concentrata pienezza della vita divina si riversa in lui, per modo che egli è totalmente immerso in essa. L'intensità della vita di Dio porta la vita umana alla massima intensità. Poiché l'esistenza celeste è partecipazione alla vita di Dio, la quale è senza tempo e non si divide in una molte::>licità di atti, la chiamiamo vita « eterna ». L'espressione non significa in primo luogo I'interminabilità, quantunque essa dica anche questo, bensi l'intensità, la qualità della vita celeste. Il beato partecipa allo svolgimento della vita eterna di Dio in quanto partecipa allo scambio eterno di vita che il Padre ed il Figlio compiono nello Spirito Santo. Ed è in grado di farlo, perché non possiede soltanto le forze vitali che gli competono per natura, ma anche le forze divine, infuse in lui da Dio con il lumen gloriae. Agostino dice che la vita eterna supera in vivezza quella terrena. Il beato vive in somma vigi­ lanza di spirito e di cuore ; si possiede nella partecipazione alla vita celeste, come non può mai possedersi sulla terra. Non è stornato da nulla e per nulla. È completamente presente a se stesso. Essendo totalmente preso dalla verità e dall'amore, egli non riflette su di sé. Tra il suo io ed il suo possesso di sé e la sua affermazione di sé non si frappone l'intervallo della riflessione. Il beato è immediatamente e totalmente in sé, non nella osservazione e nel godimento di sé, ma in vicinanza e presenza imme­ diata. Ogni ottusità dello spirito ed ogni indolenza di cuore, ogni sonno­ lenza e distrazione, ogni disattenzione ed irresolutezza sono finite. Perciò il cielo è una forma di vita desiderabile proprio per spiriti vigili e cuori forti . Quando Fichte (Anweisung zum seligen Leben, 6. Vorlesung; Sii.mtliche Werke, II, 299) afferma che l'attività costituisce la beatitudine dell'uomo, riconosce qualcosa di giusto. Si deve tuttavia aggiungere che l'uomo non può conseguire la somma attività col proprio sforzo, ma sol­ tanto nella partecipazione all'attività di Dio stesso. L'atto del beato, che avviene con estrema concentrazione di tutte le forze, non può essere inteso come atto puro, perché atto puro è Dio solo. Nello stato del cielo l'uomo viene divinizzato, ma non diventa Dio. La dif­ ferenza tra l'atto puro che è Dio, e l'atto perfetto dell'uomo beato sta in questo, che se anche quest'ultimo agisce con somma concentrazione e

P.

II.

-

ESCATOLOGIA INDIV IDUALE

presenza, tuttavia l'atto dell'uomo rimane, a differenza dell'atto puro, un atto finito. Il beato nella v1sione di Dio si possiede soltanto con forza creata, anche se sostenuta da Dio. Perciò il suo atto, sotto l'aspetto meta­ fisico, è capace di una intensificazione, per quanto sia controverso se questa effettivamente avvenga. L'atto di Dio invece non è capace di una intensificazione, perché è assoluto. Qui appare chiaro, sotto un nuovo aspetto, ciò che già abbiamo ricono­ sciuto, e cioè che l'uomo può pervenire a se stesso soltanto giungendo a Dio, può possedere se stesso soltanto possedendo Dio. Egli si trova non persistendo presso di sé, ma oltrepassando se stesso in ordine a Dio. Solo sulla via infinita, che porta nella infinità di Dio, egli trova quella che sembra essere la cosa piu vicina : il proprio io. Tuttavia a questo autopos­ sesso dell'uomo è posto un limite. Egli non può giungere a se stesso in modo tale da penetrarsi totalmente. Durante la sua vita di pellegrinaggio l'uomo è un mistero, anzi sovente un enigma per se stesso. Con sorpresa sperimenta talvolta quali inattese possibilità ci sono in lui, di che cosa è capace nel bene e nel male, per modo che deve confessare di se stesso : non mi comprendo. In cielo l'uomo può bensi penetrare in se stesso con una forza che non gli è accordata durante la vita terrena, ma neppure in quella vita non può penetrarsi completamente. Rimane per tutta l'eter­ nità un mistero per se stesso. Potrebbe comprendersi pienamente soltanto se comprendesse pienamente il suo rapporto con Dio, e quindi Dio stesso. II carattere di mistero, che egli conserva insopprimibile per se stesso, non ha in sé nulla di opprimente. L'uomo, comprendendo di essere un mistero, conosce la dignità donatagli da Dio e ne è felice.

li.

-

RIPOSO ETERNO.

Il cielo, pure essendo somma attività, è nello sresso tempo riposo eterno, perché è un'attività che rende felice senza affaticare e spossare. Secondo S. Agostino (Ep. 5 5 , IX, 1 7 ; PL. 33, 2 1 2) essa è azione dolce e lietis­ sima, senza fretta ed agitazione, senza angosciosa ricerca del successo e preoccupazione della concorrenza. Egli scrive ad un amico : « Infatti ciò che, come ho notato sopra, è la meta del nostro cammino nella fede e nella speranza, ed a cui mediante l'amore ci sforziamo con tutte le forze di giungere, è un santo e perpetuo riposo da ogni fatica e peso. Ad esso conduce il trapasso da questa vita, e questo il nostro Signore Gesu Cristo ci ha voluto mostrare e santificare con la sua passione. Ma questo riposo

§ 315.

IL CIELO COMPIMENTO DELLA NATURA UMANA E ETERNA BEATITUDINE

643

non consiste in una inoperosa oziosità, bensi in una inesprimibile pace piena di deliziosa attività. Nella beatitudine ci si riposa quindi dalle opere di questa vita e ci si rallegra nello stesso tempo dell'attività nell'altra vita. Ma poiché questa attività si svolge nella lode di Dio, senza sforzo delle membra, senza ansia e preoccupazione, non si verifica una successione di riposo e di lavoro, e l'attività non incomincia quando cessa il riposo. Non avviene alcun ritorno alla fatica ed alla preoccupazione, ma si rimane in un'attività che è un elemento del riposo; il lavoro è senza fatica, il pen­ siero senza inquietudine. Poiché quindi mediante il riposo si ritorna alla vita originaria persa per il peccato, il riposo sabbatico ha significato tipico. Ma quella vita originaria, che viene nuovamente conferita ai pellegrini che ritornano in patria, a coloro che ricevono " la veste precedentemente posseduta , è prefigurata dal primo giorno della settimana, che chiamiamo domenica. Quando perciò leggi nel racconto della creazione dei sette giorni, al settimo giorno non troverai menzionata la sera, perché esso significa un riposo senza fine. Poiché l'uomo peccò, la vita originaria non ebbe per lui durata perpetua; ma alla fine il riposo durerà eterno, e perciò anche l'ottavo giorno implicherà la beatitudine eterna . Infatti quel riposo eterno continua nell'ottavo giorno e non finisce in esso, perché diversamente non sarebbe eterno. Perciò l'ottavo giorno sarà ciò che fu il primo e cosi la vita originaria si rivelerà non come passata, ma come rivestita del sigillo dell'eternità » . Nel commento al Salmo 83 (Enarr. in Ps., 83, 8 ; PL. 37, 106 1 s.) il Padre della Chiesa dice : « Beati coloro che dimorano nella tua casa. Tutti coloro che sulla terra sono detti beati, posseggono qualcosa e fanno qual­ cosa... Ma per che cosa sono beati colà? Che cosa avranno, che cosa faranno? Quel che avranno, l'ho detto or ora : beati coloro che dimorano nella tua casa. Se hai una casa propria, sei povero, se hai la casa di Dio, sei ricco... Che cosa quindi faranno colà? Poiché madre di ogni azione umana è la preoccupazione ... Togli i contendenti, a chi verrebbe in aiuto l'avvocato? Sopprimi ferite e malattie, che cosa guarirebbe il medico? E tutte queste nostre azioni, che sono richieste e si compiono per la vita quotidiana, provengono dalla preoccupazione. Arare, seminare, piantare viti, navigare, tutte le opere del genere, chi le genera se non la preoccu­ pazione? Togli la fame, la sete, la nudità, chi ne avrebbe bisogno? Spezza il tuo pane all'affamato ! A chi lo spezzi, se nessuno ha fame? Accogli in casa tua il bisognoso senza tetto ! Quale ospite vuoi ricevere se tutti vivono nella loro casa? Quale ammalato vuoi visitare, se tutti godono di eterna salute? Quali contendenti riconciliare, dove regna pace eterna? Quali "

P. II.

-

ESCATOLOG I A INDIVIDUALE

morti seppellire, dove c'è vita eterna? . . . Di' quindi pure ciò che essi faranno, poiché non vedo là nessuna preoccupazione, che mi stimoli ad agire ... Loderanno Dio per tutta l'eternità! Questa sarà tutta la nostra azione : alleluia senza interruzione. Non vi deve sembrare, o fratelli, che vi possa essere colà tedio... Quando un giorno '' la morte sarà ingoiata dalla vittoria, quando questo corpo mortale rivestirà l'immortalità, questo corpo corruttibile l'incorruttibilità " ( 1 Cor. I 5, 5 3-54), nessuno dirà : io sono stato in piedi a lungo, ho digiunato a lungo, ho vegliato a lungo. Là sarà una grande stabilità, e lo stesso nostro corpo mortale sarà innal­ zato alla visione di Dio... Non preoccupiamoci, o fratelli, la lode di Dio, l'amore di Dio non ci stancherà. Se tu potessi rallentare nell'amore, rallen­ teresti anche nella lode ; ma l'amore sarà eterno, perché vi sarà quella insaziabile bellezza, e perciò non temere di non poter lodare in eterno » . Nel commento al Salmo 85 (Enarr. in Ps . , 8 5 , 2 4 ; P L . 3 7 , 1 098 s.) si dice : « Poiché tu, o Signore, mi hai aiutato e mi hai consolato ... Nulla è cosi vicino alla miseria come l'affii zi one, nulla cosi contrario alla miseria come la beatitudine. Tu dici : " gli afflitti ", e dici " beati " (Mt. 5 , 3). Comprendi, dice, quel che ho detto : io chiamo beati gli affl.itti. Perché beati? Nella speranza. Perché affiitti? Nel momento presente . . . Afflitto era il beato Cipriano nel martirio, ed ora è confortato nella corona della vit­ toria. Ora, anche se confortato, egli è ancora afflitto : poiché il nostro Signore Gesu Cristo ancor sempre intercede per noi. Tutti i martiri, che sono con lui, intercedono per noi. Le loro intercessioni non cessano, finché non cessi il nostro lamento, ma quando un giorno il nostro lamento sarà cessato, noi tutti saremo confortati non formando una sola voce, in un solo popolo, in una sola patria. . . - Che vi sarà colà? Quale sarà la nostra occupazione? Quale la nostra azione? Non ve ne sarà alcuna, perché riposo? Sederemo quindi trasognati senza fare nulla? Se il nostro amore potesse raffreddarsi, potrebbe raffreddarsi la nostra azione ... Ma tu non cesserai di amare, perché colui che tu vedi non ti dà alcun disgusto. Egli ti sazia e non ti sazia ad un tempo. È strano quel che dico : se dicessi che ti sazia, temerei che tu per cosi dire possa andartene via sazio come da un pasto . . . Che devo quindi dire? Non ti sazia? Nuovamente devo temere che se ti dico questo, tu appaia ancora indigente, rimanga in te qualche desiderio insoddisfatto. Che devo quindi dire, se non quel che ho detto, ma che non può essere immaginato. Egli ti sazia e non ti sazia, poiché entrambe le cose trovo nella Scrittura quando dice : " Beati coloro che hanno fame, perché saranno saziati " (Mt. 5, 6), e tuttavia si dice ancora della sapienza : " Coloro che ti mangiano avranno nuovamente fame, e

§ 3 1 5.

IL CIELO COMPIMENTO DELLA NATURA UMANA E ETERNA BEATITUDINE

64 5

coloro che ti bevono avranno nuovamente sete ,. (Eccli. 24, 39) ... Man­ giando, hanno fame . . . , bevendo, hanno sete » . La Sacra Scrittura attesta il riposo con l'immagine del banchetto (Mt. 8, 1 1 ; 22, 1 0 ; 29, 29 ; Le. 1 2, 37). Il cielo è il riposo piu profondo nella somma attività e somma attività del riposo piu profondo (cfr . Le. 22, 30). (Zahn, l. c., 276, richiama l'attenzione sul fatto che l'arte ha trovato il mezzo per rappresentare il riposo nel movimento. Cosi i fratelli van Eyck simboleggiano il paradiso celeste con fontane, ai cui getti perenni i beati si ristorano. Fra Angelico raffigura gli angeli ed i santi su un prato in fiore uniti in una ridda gioiosa, simbolo del ritmo santo che governa i beati là dove il movimento piu puro e piu gioioso ed il riposo piu beato si sono congiunti in modo indissolubile).

CAPITOLO IV. PROGRESSO NELLA BEATITUDINE CELESTE?

Queste considerazioni dimostrano che non c'è da temere che la vita eterna del cielo abbia mai a provocare noia o tedio. Noia

e

tedio possono

sorgere soltanto quando l'uomo deve rimanere solo con se stesso, con la sua propria limitatezza, op_Jure quando l'inconlTo con

il tu o con un

valore non lo può piu colmare, perché non ha piu nulla da dirgli. Allora la noia lo può indurre a gettarsi nell'attività febbrile, anzi nel delitto, per salvarsi dallo squallore dire :

«

e

dal vuoto dell'esistenza. Perciò Pasca! ha potuto

Tutta l'infelicità degli uomini proviene da una sola causa, che è

il non sapersene rimanere in riposo nella propria camera

».

Egli oensa

che la cosa peggiore che si possa fare ad uno consista nel rinchiuderlo da solo in un ambiente senza porte e finestre. Il privilegio dei re sarebbe questo, che tutto il mondo si dà da fare per procurare loro distrazioni

(Pensieri,

n. I 39).

Una cosa simile non è da temere per

la

vita celeste. Dio infatti non

può mai divenire noioso per gli uomini, perché è inesauribile. Tutto ciò che nella vita terrena può avvincere l'uomo alle cose, è come una eco iontana di ciò che il beato prova continuamente in Dio. L' uomo non si stancherà mai di accogliere in sé la ricchezza di Dio, perché la sua forza di amore e la sua capacità visiva hanno una freschezza ed una giovinezza inconsumabili. Anzi, la sua capacità rìcettiva non è altro se non la parte­ cipazione alla forza di conoscere e di amare di Dio stesso, che non invec­ chiano mai. Queste nozioni ci appaiono ancora piu chiare, se consideriamo che h p artecipazione alla vita di Dio è un fatto continuo. L'uomo non possiede la gloria di Dio come si può possedere nella vita terrena un pezzo del mondo, ma l'accoglie in un evento perenne.

È

unito a Dio, in quanto la

§ 315.

IL CIELO COMPIMENTO DELLA NATURA UMANA E ETERNA BEATITUDINE

64 7

luce e l'amore di Dio si riversano continuamente in lui. Perciò in tanto possiede, in quanto riceve continuamente. È continuamente saziato, in quanto riceve continuamente il ristoro di Dio. In tale modo la vita celeste rimane sempre fresca e giovane, fiorente e matura nello stesso tempo. In essa l'uomo può fare senza soste ciò a cui aspira nel 'Jiu intimo del suo essere ; può attuare sempre la conoscenza e l'amore. Essere in cielo signi­ fica poter sempre amare. Il problema, se la vita celeste possa mai essere sooraffatta dalla noia o dalla sazierà, riceve una nuova luce dall'altra questione, se la beatitudine dei celesti sia suscettibile di accrescimento. La maggioranza dei teologi ritiene che in cielo non vi possa essere « progresso » . Affermano che il beato partecipa allo svolgimento della vita di Dio conformemente alla sua capacità ricettiva con una attività vitale sostanzialmente sem!Jre iden­ tica, non suscettibile di diminuzione e di aumento. Adducono come mo­ tivo il fatto che l'uomo, a motivo della semplicità di Dio, non a'Joena vede immediatamente la vita di Dio, subito la vede nella sua totalità . Secondo questa spiegazione la sem?licirà divina non permette né aumento né dimi­ nuzione nella visione di Dio. Come seconda ragione si fa valere il fatto che con la morte è finito il tempo dei meriti e perciò non è piu da attendersi un aumento nella grazia. Enressione di questa o'Jinione è ciò che leg­ giamo in un mistico - probabilmente maestro Eckart - (H. Denifie, Das geistliche Lebenj ed. da A. Auer, 1936, 459 s.) : « Là è la patria, là riposo totale, là giubilo magnifico, là vita profonda e peroetua, in quanto non c'è piu posto per il tempo, né per un prima né per un douo, ma tutto è presente, racchiuso in un adesso sem!Jre nuovo, in cui mille anni sono cosi brevi e rapidi come un istante ; in quanto tutto ciò che è avve­ nuto mille anni fa, oppure il giorno che verrà tra mille anni, nella eter­ nità non è piu lontano di questo momento, nel quale io ora parlo » . Tuttavia l e ragioni per questa opinione non sono del tutto convincenti. La sentenza, secondo cui nella vita del cielo esiste un progresso continuo, non sembra essere impossibile, ma anzi insinuata da alcuni accenni della Sacra Scrittura e da talune considerazioni. Si può ammettere che i beati progrediscano di vita in vita, di amore in amore, di gioia in gioia, di stupore in stupore, di chiarezza in chiarezza : che possano oenetrare sem­ pre piu profondamente nel mistero di Dio, oerché Dio si svela loro con sempre maggiore forza. Egli li inizia sem"Jre oiu ?rofondamente nel mi­ stero della sua vita ; spiega loro sem?re pié chiaramente il mistero di se stesso ed il mistero della creazione da lui prodotta. Questo progresso non avviene in base a meriti, e non consiste nel fatto che il beato scopra in

P. I I .

-

ESCATOLOG IA INDIVIDUALE

Dio per virtu propria qualcosa che fino allora non ha visto. Non avviene in un fluire continuo del tempo, ma piuttosto in quanto Dio, con bontà che si dona in modo del tutto libero, schiude ai beati profondità sempre nuove del suo essere divino. Il beato ne viene continuamente sorpreso. Le sorprese avvengono a colpi discontinui, od a salti. (Una immagine di questo processo la si può vedere nei « salti dei quanti » , che dominano gli avvenimenti nella materia, e secondo cui tra determinati stati di atomi e di molecole non si devono ammettere passaggi continui [natura non facit saltus], ma discontinui, a salti [M. Planck]). Il « progresso » operato da Dio, in cui l'uomo in Dio e con Dio penetra sempre piu profondamente in Dio, può continuare per tutta l'eternità, senza mai giungere ad un confine, perché il mistero di Dio, essendo ine­ sauribile, non può mai essere esaurito dall'uomo. L'uomo, quand'anche si spinga in tutte le profondità di Dio, non può mai raggiungere l'abisso divino. Egli quindi cresce per tutta l'eternità in amore e conoscenza e perciò in beatitudine. Possiamo dire che ogni singolo grado di questo au­ mento implica una misura di gioia superiore a qualunque gioia sia mai accessibile all'uomo nell'esistenza terrena. In opposizione al testo di Eckart, precedentemente citato, leggiamo nella mistica medioevale - la maggior parte del testo proviene ancora da maestro Eckart, ma sono da prendere in considerazione anche Taulero e Suso - (H. Denifle, l. c., 455 s.) : « Conseguentemente i santi, dalla percezione nella quale conoscono come un solo Dio è in tre persone e tre persone sono un solo Dio, hanno una gioia meravigliosa, inesprimibile, per modo che ogni loro desiderio è sod­ disfatto. E di ciò, di cui sono pieni, hanno desiderio senza interruzione, e ciò che desiderano, questo hanno completamente in delizia nuova, fio­ rente, gioiosa, e questo godono con tutta sicurezza di eternità in eternità. Nella visione di Dio l'anima trova sempre nuove meraviglie e nuova gioia e nuova verità. Se non trovasse sempre del nuovo in Dio, l'eternità avrebbe fine, ed il regno dei cieli cesserebbe. Perciò dice un m aestro : " La vita eterna non è altro che un contemplare Dio " ; poiché Dio è una fonte di acqua viva senza fine ». Ma comunque si debba risolvere la questione dell'aumento della perfe­ zione e beatitudine celeste, in ogni caso c'è un progresso nella beatitudine dello spirito libero dal corpo, in quanto il beato con l'avanzare della storia umana acquista sempre nuovi lumi sul suo significato, e soprattutto in quanto alla fine del mondo anche il corpo viene assunto nella vita di gloria. In nessun caso si può verificare una diminuzione della beatitudine.

CAPITOLO V. ETERNITA' DEL CIELO

Quando un uomo vede immediatamente Dio, verità ed amore, il suo spirito ed il suo cuore ne sono presi a tale punto, che egli non se ne può mai piu distogliere. L'amore non cessa mai (I Cor. 1 3, 8). Rientra nella natura della consumazione e beatitudine celeste il non avere, anzi, il non poter avere fine. Il beato non può essere assalito dalla paura di perdere l a vita celeste. Questa perdita l o potrebbe colpire soltanto se egli potesse allontanarsi da Dio. Ma proprio di questo gli manca la capacità. Egli non può piu essere minacciato da nessuna tentazione e da nessun peccato. Il cielo è

il consolidamento definitivo nell'amore. Dio stesso fa

si che

il

beato gli si doni irrevocabilmente col massimo impegno del suo spirito e del suo cuore. Il beato sa, e questo rientra intrinsecameme nella sua beati­ tudine, di non poter piu defezionare da Dio. Perciò sente l'unione con Dio come sua sicurezza definitiva nell' amore sussistente in modo assolu[O. Perciò

il beato non può piu fare ciò che appartiene insopprimibilmente

alla vita di pellegrinaggio, se Dio non interviene in modo particolare : non può piu peccare. Può soltanto piu amare. La capacità di poter peccare non appartiene necessariamente alla libertà, ma è conseguenza e segno della imperfezione della libertà ( § § 1 2 7, 1 36, 1 56). L'incapacità di peccare non risveglia affatto

in lui la sensazione della

mancanza di libertà. Ciò appare evidente, se consideriamo che esistono due forme di libertà : la libertà di scelta,

in cui l'uomo si decide, e la libertà

con cui è reso capace di compiere un atto · conforme alla sua natura piu intima. L'uomo sente maggiormente la sua libertà, quando può agire nel modo che corrisponde alla sua natura. Si sente invece vincolato, quando deve compiere un atto contrario alla sua natura piu intima, alle sue incli­ nazioni e desideri. Il beato sente la sua esistenza come somma libertà,

P. II.

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

poiché compie un atto che è conforme alla sua natura piu profonda, può attuare le inclinazioni piu recondite poste in lui da Dio. In cielo l' uomo può fare liberamente ciò che desidera fare, ed a cui lo spinge tutto il suo essere : può esercitare l'amore in somma intensità. Cfr. § 127. Da queste considerazioni risulta che la visione celeste di Dio, e la beatitudine che si fonda su di essa, non avranno mai piu fine. Anche in questo senso possiamo dire che il cielo è eterno. L'eternità del cielo è un dogma che professiamo nei Simboli. La durata perpetua della beatitudine celeste viene pure proclamata dal Concilio Lateranense IV e nella costi­ tuzione sovente nominata Benedictus Deus (Denz. 5 30 ). In quest'ultima il Papa Benedetto XII dice : « Questa visione e questo godimento (di Dio) dura senza interruzione o diii' inuzione della visione e del godimento, e continuerà fino al giudizio finale e da allora per tutta l'eternità » . Le deci­ sioni dottrinali della Chiesa possono ap poggiarsi a numerosi testi della Scrittura, ad es. Mt. 6, 20 ; r8, 1 0 ; 19, 29; 25, 46; Gv. 3, 1 5 s . ; 1 7, 3 ; I Pier. I , 4; 5 , 4 ; 2 Cor. 4, 1 7 s . ; I Cor. 9 , 2 5 ; 1 3, 8 , ed all' insegnamento quasi unanime dei Padri. Nei testi citati Cristo paragona il premio celeste a tesori che non si possono perdere (Mt. 6, 20 ; Le. 1 2, 33). Chi si fa amici con la ricchezza ingiusta, viene accolto nei tabernacoli eterni (Le. r 6, 9). I giusti entre� ranno nella vita eterna (Mt. 25, 46). Paolo descrive la beatitudine eterna con l'immagine di una corona incorruttibile ( 1 Cor. 9, 25). Pietro la chiama corona immarcescibile di gloria ( r Piet. 5, 4). Secondo S. Agostino la durata eterna rientra nel pieno concetto della beatitudine perfetta. Dove manca la certezza della durata eterna, non si può parlare, a suo giudizio, di vera beatitudine (De civ. Dei, 22, 1 3, 1 ) . I l dogma della durata perpetua della beatitudine celeste non può essere considerato soltanto come un legame dei fedeli, ma anche come tma pro­ messa consolante. Esso costituisce nello stesso tempo l'invito a non aver timore che la beatitudine celeste possa mai scomparire, e che quindi il nihilismo e la tragedia abbiano l'ultima parola. Chi si lascia vincolare dal dogma della beatitudine senza fine è liberato dal timore di dover mai essere in apprensione per l'amicizia di Dio in cielo. Il beato, come abbiamo visto or ora, ha chiara coscienza della interminabilità della sua gloria. A differenza della vita di pellegrinaggio egli è per sempre sicuro della vita celeste. Tutto ciò che abbiamo detto del cielo viene sintetizzato da Agostino nella conclusione del De civ. Dei, 22, 30 (trad. di F. M. Bongioanni e

§ 315.

IL CIELO COMPIMENTO DELLA NATURA UMANA E ETERNA BEATITUDINE

65 1

G. Savio, Torino 1 9 5 3 , p. 1 86 ss .) : « Quanto grande sarà allora quella

felicità ; non ci sarà alcun male ; nessun bene sarà tenuto nascosto, saremo tutti dediti a lodare Dio, il quale sarà tutto in tutti ! Che cosa faremo là dove avrà fine ogrù bisogno e non ci sarà il tormento della necessità, io non lo so. Sono ispirato anche dal sacro cantico, dove leggo e ascolto : " Beati coloro che abitano nella tua casa, o Signore ; essi ti loderanno nei secoli dei secoli ". Tutte le rr.embra e le viscere del corpo incorruttibile, che ora vediamo variamente distribuite per uso di necessità, poiché allora questa necessità non sarà j)iU., ma vi sarà oiena, certa, sicura sempiterna felicità, tutte allora gioveranno a lodare Dio. Quell'intima e razionale armonia che regge il corpo all'interno e all'esterno, di cui già ho parlato e che ora è nascosta, allora non lo sarà piu. E con uguale armonia tutte le altre cose, che li si vedranno grandi e mirabili, accenderanno - col diletto della bellezza razionale - le menti alla lode di tanto grande arte­ fice. Quali saranno poi i movimenti dei corpi spirituali, non oso esprimerli a caso, perché non riesco ad immaginarli. Tuttavia i loro movimenti e la loro quiete, come il loro aspetto, saranno belli e nulla di sconveniente sarà in essi. Certamente dove vorrà lo spirito, ivi immediatamente sarà il corpo : né lo spirito vorrà alcunché che non possa convenire allo spirito o al corpo. lvi sarà vera gloria e nessuno riceverà lode per isbaglio o per adulazione. Ci sarà vero onore, che non verrà negato ad alcuno che ne sia degno, e non verrà dato a chi sarà indegno ; del resto, non vi sarà nessun indegno a cercare l'onore, là dove non sarà permesso di stare se non ai degni. Ivi sarà pace : nessuno ootrà patire contrarietà alcuna né da se stesso, né da altri. Premio alla virro sarà proprio colui che ha dato la virtu e che ha promesso se stesso, di cui nulla può essere migliore e piu grande. Quando infatti per mezzo del ;:,rofeta ha detto : " Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio po polo ", che altro ha voluto dire se non . sarò io a saziarli, io sarò l'oggetto di tutte le loro esigenze, io sarò vita, salute, cibo, abbondanza, gloria, onore, pace, e ogni alrro bene? Cosi va inter­ pretato rettamente anche l'A;:,ostolo : " Affinché Dio sia tutto in tutti ". Dio sarà il fine di tutti i nostri desideri, egli che sarà contemplato senza stanchezza. Questo dono, questo affetto, questo atto sarà senza dubbio comune a tutti, come lo sarà la vita eterna. Quali saranno poi i diversi gradi d'onore e di gloria, spettanti a cia­ scuno in premio del suo merito, non solo non lo sa?piamo dire, ma nem­ meno congetturare. Comunque è fuor di dubbio che questi gradi vi saranno. Anzi i cittadini della beata città di Dio vedranno pure la pre­ senza di quel sommo bene, la cui fruizione nessun inferiore invidierà ad

P. II.

-

ESCATOLOG IA INDIVIDUALE

alcun superiore, allo stesso modo come ora gli altri angeli non invidiano gli arcangeli. Nessuno vorrà avere ciò che non ha ricevuto. Il vincolo che lo salderà a colui che avrà ricevuro, sarà di tale pacifica concordia qual è in un corpo il vincolo che riunisce in compagine gli organi, si che il dito non vuole essere l'occhio e ciascuno organo s' appaga del posto che gli tocca nell'armonica compagine di tutte le membra. Cosi uno avrà un dono minore d'un altro, ma avrà anche il dono di non desiderare di piu. I beati godranno d'una volontà piu che mai libera, perché finalmente essa sarà liberata dal dissidio tra la tentazione, che offre diletto al peccato, e la vera gioia del non peccare. Infatti il primo libero arbitrio, che viene dato all'uomo, quando fu creato giusto, fu tale da poter non peccare, ma anche da poter peccare : la nuova e suprema libertà invece sarà tanto piu assoluta, in quanto non potrà peccare. Questo però lo potrà non per facoltà sua naturale, ma per dono di Dio. Altro infatti è essere Dio, altro l'essere partecipe di Dio. Dio per sua natura non può peccare ; chi invece è parte­ cipe di Dio, da lui riceve l'impossibilità di peccare. Del resto risulta necessario che i doni di Dio avessero a compartirsi per gradi. Nel primo grado fu dato all' uomo un libero arbitrio per cui potesse non peccare, nel grado invece della libertà novissi.ma gli viene dato di non poter peccare. Il primo grado dunque gli fu dato affinché s'acquistasse il merito, il secondo gli sarà dato a titolo di premio. Poiché quando poteva peccare, l'uomo ha effettivamente peccato, egli può venire riscattato solo mercé una grazia sovrabbondante, che lo conduca a quella libertà per la quale egli non potrà piu assolutamente peccare. Come infatti vi fu una prima immortalità, perduta da Adamo col peccato e consistente nel poter non morire, e una seconda immortalità dopo il giudizio finale consistente nel non poter morire ; cosi vi sono due volontà : la prima di porer non peccare, la seconda, nel trionfo della città celeste, di non poter peccare. La volontà d'essere pii e giusti non si potrà perdere, e neppure quella d'essere felici. Infatti, mentre rimane fermo che peccando non abbiamo conservato né la pietà, né la felicità, sta pure che la perdita della felicità non ci tolse affatto la volontà d'essere felici. Forse che dovremmo dire che Dio, per il fatto che non può peccare, non possiede la libertà? La libera volontà della città dei santi sarà dunque unica in tutti ed inseparabile in ciascuno ; libera da ogni male, piena d'ogni bene ; intenta al godimento indefettibile dell'eterna cittadinanza ; dimentica delle colpe, non dimentica però d'essere tale mercé la liberazione che le fu donata, si da non essere ingrata al suo liberatore. Per quel che riguarda la conoscenza razionale, memore anche dei suoi mali passati, ma per quel che riguarda

§ 315.

IL

CIELO COMPIMENTO DELLA NATURA UMANA E ETERNA BEATITUDINE

l'esperienza dei sensi, completamente dimentica anche di essi.

65 3

Sarà di

essa come del medico esperto, che conosce tutte le malattie del corpo, come le può conoscere la professione, ma non ne conosce la maggioranza come le sente il corpo, perché non ne ha sofferto. Come quindi esiste una duplice conoscenza del male, una che

è data alla pura forza dello spirito,

l'altra che si fonda s ull'esperienza dei sensi - poiché diversa è la cono­ scenza del vizio nella scienza del sagg1o, diversa nella vita cattiva dello stolto - cosi vi sono pure due dimenticanze del male. Diversamente lo dimentica colui che lo conosce scientificamente e razionalmente, diversa­ mente colui che l'ha egli stesso sperimentato e sofferto; quello, quando dimentica la sua scienza, questo quando non sente piu la miseria nel proprio corpo. Secondo quest'ultima dimenticanza anche i santi avranno dimenticato la miseria ; non la sentono piu, ed essa sarà totalmente can­ cellata dai loro sensi. Ma nella forza della scienza, che sarà grande in essi, non soltanto conosceranno la propria miseria passata, ma anche la miseria eterna dei dannati. Poiché, se non sauessero piu come sono stati miseri, come dovrebbero allora, secondo quel che dice il salmo : •· Cantare in eterno la misericordia del Signore? ''" Anzi questa lode della grazia di Cristo, nel cui sangue sono redenti, sarà la delizia piu grande

di quella

città. E cosi si realizza ciò che sta scritto : " Fate festa e vedete che io sono Dio ! ". E questo sarà allora veramente il grande sabato senza tra­ monto, che il Signore raccorr_andò nel creare il mondo, ove si legge : " Dio il settimo giorno riposò da tutte le opere che aveva compiute ; bene­ disse il settimo giorno e lo santificò, poiché in esso riposò da tutte le opere che aveva intrapreso ". Noi saremo il settimo giorno, quando saremo pieni e rinnovati con quella benedizione e santificazione. Là noi faremo festa e vedremo che egli

è il Dio che noi stessi volemmo essere, quando

lo rinnegammo ed ascoltammo le parole del seduttore : dèi

",

" Sarete come

e ci allontanammo dal vero Dio, per opera del quale dovevamo

essere dèi, partecipando a lui, non abbandonandolo.

Poiché che cosa

abbiamo fatto senza di lui, se non perire nella sua ira? Ma rialzati d a lui e perfezionati in una grazia maggiore, noi ora faremo festa

in eterno

e vedremo che egli stesso è il Dio di cui saremo ripieni, perché egii stesso sarà tutto in tutti. E comprenderemo che anche le nostre buone opere sono piu opere sue che nostre, che vengono ascritte ora a noi, per acqui­ stare il sabato eterno. Queste opere sarebbero servili, se noi le attribuis­ simo a noi stessi, e tuttavia si dice di questo sabato : " Non farete alcuna opera servile ". E cosi pure parla il Signore per mezzo del suo profeta Ezechiele : " Ed io ho dato ad essi il mio sabato come segno tra me ed

654

P. I l .

-

ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

essi, affinché sappiano che io sono il Signore che Ii santifico

· ·.

Questo

riconosceremo allora con perfezione quando con perfezione faremo festa e con perfezione vedremo che egli è Dio. Anche il numero delle ère, per cosi dire dei giorni del mondo, se cioè si calcola secondo quei periodi che sono dati nella Sacra Scrittura, annunzia chiaramente quel riposo sabbatico, poiché il settimo giorno sarà quel tempo. La prima èra, il primo giorno del mondo per cosi dire, va da Adamo fino al diluvio, il secondo fino ad Abramo, entrambi disuguali per durata, ma uguali per numero di generazioni, che vengono enumerate dieci per ognuno. Dopo poi fino alla venuta di Cristo seguono le tre ère enumerate dall'evange­ lista Matteo, comprendenti ciascuna quattordici generazioni :

la prima

da Abramo fino a Davide, la seconda fino alla prigionia babilonese, la terza fino alla nascita di Cristo nella carne. Sono complessivamente cinque ère. Nella sesta poi vjviamo noi ora, che non si deve misurare per numero di generazioni, poiché sta scritto : '' Non è affare vostro sapere il tempo che il Padre ha posto in suo potere ' '. Ma poi Dio riposerà, per cosi dire, come nel settimo giorno, poiché appunto questo settimo giorno, in cui noi saremo, egli farà riposare in se stesso. Trattare ora esattamente di queste singole ère, ci porterebbe troppo lontano. Ma questo settimo giorno sarà il nostro sabato, e la sua fine non sarà sera, bensi il giorno del Signore, l'ottavo giorno eterno per cosi dire, che è santificato dalla risurrezione di Cristo e che prefìgura il riposo eterno non soltanto dello spirito, ma anche del corpo. lvi faremo festa e vedremo, vedremo ed ameremo, ameremo e loderemo. Ecco, e ciò sarà alla fine senza fine. Poiché che cosa sarà la nostra fine se non giungere

al regno che non ha fine?

Credo di aver assolto con l'aiuto del Signore il compito postomì da questa opera enorme. Chi ne ha avuto poco e chi ne ha avuto troppo mi perdoni; chi invece ne ha avuto abbastanza si rallegri con me e ringrazi non me, ma Dio con me. Amen. Amen ))

.

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INDICE GENERALE

§ 293.

La posizione della escatologia nella teologia

Pag.

5

PARTE PRIMA ESCATOLOGIA GENERALE

§ 293". Carattere temporale e storico dell'uomo e della rivelazione salII

vifica di Dio SEz. I. - La fondamentale costituzione temporale-storica dell'uomo

come presupposto di un futuro ultimo.

CAP. I.

-

Considerazione preliminare: fatto e conce tto della fondamentale costituzione temporale-storica dell'uomo

II

I. Autorealizzazione dell'uomo nella autotrascendenza, 1 1. - II. Legame al tempo e temporalità dell'uomo, 13. - III. S toricità del­ l'uomo, r s .

CAP. II. - La temporalità e la storicità dell'uomo nella tes timonianza della rivelazione

I8

I . Considerazione preliminare, 1 8. - Il. Le concezioni indiana e greca, 19. - III. La dottrina della rivelazione, 23.

CAP. III.

-

La storicità dell'uomo nel pensiero moderno

31

I . L'illuminismo, 3 1 . - I l . L a filosofia romantica, 33. - III. Nietzsche e Kierkegaard, 34· - IV. Heidegger e Jaspers, 37· - V. Marx ed Engels, 40. - VI. Giudizio, 40.

SEz. Il. - La storicità della rivelazione come condizione di un futuro ultimo. CAP. L CAP. II.

43

- Nozioni basilari La rivelazione come fatto storico nell'A . T. I. Nozioni generali, 48. l'A. T., 5 1 .

-

Il. Svolgimento della rivelazione del-

48

INDICE GENERALE

CAP. III. - La rivelazione come fatto storico nel N. T. CAP. IV. - Cristo pienezza dei tempi

Pag. 55 59

I. Cristo meta dei tempi, 59. - Il. Cristo il contenuto dei tempi, 65.

CAP. V. - La rivelazione nel N. T. come promessa

67

I. Il tempo di Cristo è l'ultimo tempo, 67. - Il. Carattere nascosto della rivelazione di Cristo, 68. - III. La prima venuta di Cristo come garanzia e promessa della seconda venuta, 69.

SEz. III.

Il regno di Dio come contenuto e scopo dell'azione rivelatrice divina.

-

CAP. l.

- Lo scopo ultimo dell'attività divina

72

CAP. Il.

- Il concetto di regno di Dio

76

CAP. III. - Il regno di Dio nell'A. T.

78

CAP. IV. - Il regno di Dio proclamato e stabilito da Cristo

87

I. Cristo come manifestazione del regno di Dio, 87. - II. Regno di Dio e regno di Cristo, 90. - III. Vittoria sulle potenze nemiche di Dio, 9 1 . - IV. Il regno di Dio nel mondo, 96. - V. Regno di Dio e salvezza, 97. - VI. Regno di Dio ed eucaristia, 99. - VII. Re­ gno di Dio e responsabilità umana, 1 0 1 . - VIII. Carattere esca­ tologico del regno di Dio, 102. - IX. La dottrina dei Padri, 108. X. Chiesa e regno di Dio, 109.

§ 294.

Il ritorno di Cristo

CAP. l. Dottrina e liturgia della Chiesa . Art. l. - Dottrina della Chiesa Art. II. - Liturgia della Chiesa -

1 10 I lO I lO III

CAP. Il. - Importanza, carat!ere pubblico, spiegazione teologica del ritorno di Cristo Art. I. - Importanza della rivelazione del ritorno di Cristo Art. II. Carattere pubblico del ritorno di Cristo Art. III. - Spiegazione teologica del ritorno di Cristo .

1 19 1 19 1 21 122

CAP. III. - Ritorno come vittoria e conforto nella perseveranza e speranza nella venuta del Signore in virtu dello Spirito Santo - Ritorno come vittoria Art. l. Art. 11. - Speranza nel ritorno come conforto Art. III. - Ritorno e perseveranza Art. IV. - Speranza escatologica quale caratteristica del cristiano Art. V. - Ritorno di Cristo e Spirito Santo

1 24 1 24 1 27 1 27 1 28 1 29

-

§ 29 5 . Il tempo del ritorno di Cristo CAP. I. - Carattere di sorpresa del ritorno di Cristo

CAP. II. - L'escatologismo conseguente I. Testi favorevoli, 1 32. - II. Testi contrari, 133.

INDICE GENERALE

671 Pag.

CAP. III. - l punti essenziali della rivelazione nel N. T. come obiezione contro l'escatologismo

1 35

CAP. IV. - l testi escatologici .

138

I . I Sinottici, 138. - I l . L e Lettere degli Apostoli, 146.

CAP. V. - Giudizio conclusivo § 296.

CAP. I. Art. Art. Art. Art.

I segni precursori del ritorno di Cristo -

Predicazione del Vangelo - Conversione degli Ebrei - L'Anticristo - Il caos nella creazione .

- La predicazione del Vangelo in tutto il mondo La conservazione del popolo eletto . La grande apostasia (l'anticristo) IV. - Condizioni caotiche nel mondo

l.

Il. 111. -

CAP. II. - Portata dei segni § 297.

CAP.

La risurrezione dei morti : sua realtà

UNICO. -

La risurrezione: verità di fede e testimonianze

Y 54 1 57 1 57 1 57 1 58 161 1 78 1 84 1 86 1 86

I. La risurrezione come verità di fede, 1 86. - II. Testimonianza della Scrittura, 1 89. - III. Testimonianza patristica, 196. - IV. La testimonianza della Liturgia, 197. - V. La testimonianza dell'an­ tropologia e della cristologia, 197. - VI. Risurrezione e Spirito Santo, 203. - VII. Tommaso d'Aquino, 204.

§ 298.

CAP. I.

Il valore salvifico della risurrezione e la peculiarità del corpo risorto

208

- Il valore salvifico della risurrezione dai morti

208

CAP. II. - La peculiarità del corpo risorto

210

I. La trasformazione in genere, 210. - Il. La qualità del corpo trasformato, 212. - III. Risurrezione come perfezionamento della materia, 2 14. - IV. Tommaso d'Aquino, 215. - V. Identità del corpo risorto con il corpo terrestre, 219.

Il giudizio universale .

224

CAP. I. - Il fatto del giudizio

224

§ 299.

l. Considerazione preliminare, 224. - II. Dottrina della Chiesa,

225 . - III. Testimonianza dell'A. T., 225. - IV. Testimonianza del N. T., 227.

CAP. II.

-

La natura del giudizio .

I. Apocalisse di Giovanni, 23 1 . - II. Il giudice, 237. - III. Norma del giudizio, 239. - IV. Effetto del giudizio, 241 . - V. Circostanze del giudizio, 242. - VI. Oggetto del giudizio, 242. - VII. Giudizio dei popoli, 244.

INDICE GENERALE

§ 300.

Pag. 245

Il compimento o la consumazione generale

CAP. I. - La nuova umanità

24 5

l. Suo carattere cristologico, 245. - II. La testimonianza della li­

turgia, 247. - III. La testimonianza dei Padri e dei teologi, 249. IV. Lo S pirito Santo ed il compimento, 254. - V. La comunità celeste come compimento del regno di Dio, 255. - VI. La città di Dio come simbolo della comunità celeste, 257. - VII. I beati de­ siderano la risurrezione dai morti ed il compimento della comunità?, 277.

283

CAP. Il. - Il nuovo cielo e la nuova terra I. L'uomo signore della creazione, 283. - Il. L'uomo destino della creazione, 286. - III. Cristo ed iì comp,mento della natura, 292. IV. Trasfigurazione della creazione, 298.

PARTE SECONDA ESCATOLOGIA INDIVIDUALE

§ 301.

La morte

Osservazione preliminare SEz. l. - La ontologia della morte.

CAP. I. - Il fatto della morte l. La dottrina rivelata, 308. Il. La soggezione alla morte come contrassegno della vita, 309. - III. La morte come disposizione di Dio, 3 1 3 . -

314

CAP. II. - Immortalità dell'anima . l. La questione, 314. II. Dottrina della Chiesa, 321. - III. La testimonianza della Scrittura, 323. IV. La testimonianza dei Padri, 333. - V. Gli argomenti di ragione, 345. - VI. False dottrine della immortalità, 350. -

-

3 57

CAP. III. - Motivo e senso della morte l. La rivelazione del motivo e del senso della morte, 357· Il. L'interpretazione della morte fuori della Bibbia, 362.

CAP. IV . - La morte come partecipazione alla morte di Cristo

.

365

l . L a morte d i Cristo, 365 . - I I . La morte del cristiano come morte

di Cristo, 368.

CAP. V. - La morte come conclusione definitiva del pellegrinaggio terreno l. Senso della tesi, 374· - II. Dottrina della Chiesa, 375· - III. Te­ stimonianza della Scrittura, 376. - IV. Testimonianza dei Padri, 378. - V. La dottrina della trasmigrazione delle anime, 381.

3 74

INDICE GENERALE

SEz. II. - L'etica della morte.

CAP.

I.

La morte come atto

-

l. Il carattere personale della morte, 384. - Il. La mone come autorealizzazione, 386. - III. Le possibilità religioso-morali del­

l'uomo nella morte, 386. CAP.

II. - L'atteggiamento umano nei confronti della morte nei suoz singoli atti l. Obbedienza, 390. - II . Espiazione e soddisfazione, 391. - III. Pe­

390

nitenza, 392. IV. La morte come amore, 394· V. Preparazione alla morte, 394. - VI. Angoscia e fiducia, 395· - VII. Falsi tentativi di sicurezza, 400. -

§ 302. CAP. I.

Il giudizio

«

particolare

-

»

- Il fatto del giudizio . l. Dottrina della Chiesa, 403. - I I . Prova della Scrittura, 404. I I I. Testimonianza dei Padri, 406. - IV. Problematica del giu­ dizio panicolare, 414.

CAP.

Il. - Natura del giudizio particolare . l . Prospetto, 417. - I l . Analisi, 419.

4 17 -

I I I . Esecuzione della sen-

tenza, 422.

§ 303.

L'inferno. Sua realtà

CAP. I.

- La dottrina della Chiesa

CAP.

-

II.

423

Testimonianza della Scrittura

42 5

I. Antico Testamento, 425. - II. Nuovo Testamento, 428.

CAP.

III.

§ 304 . CAP.

Dottrina dei Padri

4 34

La natura dell'inferno

43 7

-

I. - L'inferno ed il peccato mortale

438

l . I l peccato, 438. - I l . L'inferno come affermazione d i s é i n op­

posizione a Dio, 443·

CAP.

Il. - L'inferno come lontananza da Dio

446

.

l. L'inferno come incompiutezza, 446. - Il. L'inferno come lace­ razione, 448. - III. L'inferno come disperazione, 450. - IV. L'in-

ferno come solitudine, 451. - V . Partecipazione del corpo alla dan­ nazione, 452. CAP.

III. - L'inferno come pena del senso e come pena del danno .

CAP.

IV. - Imprigionamento ad opera del mondo materiale (il fuoco dell'inferno) l. Nozioni

generali, 457. - II. Il fuoco dell'inferno, 458. III. L'uomo carcere di se stesso?, 467.

454

-

45 7

INDICE GENERALE

CAP. v . - Eternità, esistenza, ubicazione dell'inferno Art. l . - L'eternità dell'inferno Art. Il . - L'inferno e Dio Art. III. - Il luogo dell'inferno

Pag. 47 2 47 2 47 3 476

CAP. VI. - Diversità delle pene infernali e significato salvifico della rivezione dell'inferno

4 78

§ 305 .

La puri.fì.cazione dopo la morte : sua realtà

4 80

CAP. I.

- Osservazione preliminare e dottrina della Chiesa

480

CAP. II. - La testimonianza della Scrittura, dei Padri e della liturgia Art. l. - La testimonianza della Scrittura . I. Antico Testamento, 482. - I I . Nuovo Testamento, 483. Art. Il. La testimonianza dei Padri . Art. III. - La testimonianza della liturgia

482 482 485 489

-

CAP. III.

-

496

La dottrina della Chiesa orientale

498

CAP. IV. - Rifiessione teologica l. La concupiscenza come causa dei continui peccati, 498. II. Occultezza della volontà divina, soo. - III. Pericolo della

-

mancanza di misura, sor. - IV. Importanza storico-psicologica dei peccati commessi, 503. - V. Responsabilità anche di peccati perdonati, 504.

CAP. V. - Purgatorio ed estrema unzione

508

§ 306.

5 10

Natura del purgatorio

CAP. l. Fonti della nostra conoscenza e luogo del purgatorio Art. l. - Fonti della nostra conoscenza Art. Il. Il luogo del purgatorio .

5 10 5 10 511

CAP. Il.

-

Pena del senso e pena del danno

512

CAP. III.

-

Dolore e gioia

517

CAP. IV. - Oggetto della purificazione

519

CAP. V.

525

-

-

- La purificazione come soddisfazione

CAP. VI. - La durata del purgatorio . § 307.

L'unione dei viventi con i defunti in stato di purificazione

527 529

CAP. UNICO. Aiuto ai defunti e natura dell'aiuto Art. l. - Il fatto Art. Il. - Natura dell'aiuto Art. 111. - Aiuto dei defunti per i viventi

529 529 530 534

§ 308.

535

-

Il cielo come compimento del regno di Dio nel singolo uomo

Osservazione preliminare .

535

INDICE GENERALE

CAP. L

-

67 5 Pag. 536

Concetto di cielo I. Il cielo come volta celeste, 536. - II. Il cielo come abitazione di Dio, 536. - III. Il cielo spaziale come simoblo di Dio, 537·

CAP. II.

-

Il cielo come luogo e come forma di vita .

CAP. III. - Il cielo come pienezza della grazia

541 544

l. Carattere occulto della grazia, 544· - II. Rapporto e differenza

tra cielo e vita terrena di grazia, 545· - III. Cielo e risurre­ zione, 546.

§ 309.

Il cielo come vita con Cristo

CAP. I. - Importanza dell'unione con Cristo - Te�timonianza della Scrittura e dei Padri Art. l. - L'unione con Cristo Art. Il. - Testimonianza della Scrittura .

547 547 547 548

I. Visione generale, 548. - Il. Particolari, 549. - III. Il cielo come configurazione a Cristo, 556.

Art. III. - Testimonianza dei Padri

5 57

CAP. Il.

559

- Differenza di grado tra Cristo e l'uomo beato

CAP. III. - Cristo come mediatore § 3 1 0.

561

Il cielo come visione immediata di Dio

CAP. l. - Immagine del banchetto come essere con Dio, visione del suo volto e scambio di vita con lui Art. l. - Il cielo come banchetto Art. Il. - Il cielo come unione con Dio Art. III. - Il cielo come visione di Dio I. La dottrina della Chiesa, 566. - II. Impossibilità naturale della visione di Dio, 566. - III. La testimonianza della Scrittura, 568. IV. Il processo della visione di Dio, 570. - V. La visione di Dio come atto dell'intelletto o dell'amore?, 572. - VI. Il « lumen gloriae », 573. - VII. Oggetto della visione di Dio, 575·

Art. IV. - Il cielo come dialogo

.

582

I. Scambio con Dio, 582. - II. Partecipazione allo scambio di vita delle persone divine, 583.

CAP. II. - Il cielo come adorazione

588

I. Dio mistero anche per i beati, 588. - II. Beatitudine e mistero, 589. - III. Beatitudine ed adorazione, 590 - IV. Liturgia celeste, 590. - V. Partecipazione al canto di lode degli angeli, 592. - VI. Testimonianza dei Padri, 594. - VII. Adorazione celeste come realizzazione della vita, 595·

§ 31 l . CAP. l. CAP. II.

L'unione dei beati tra loro - Scrittura e Padri

- L'unione celeste come perfezionamento di quella terrestre

597 597 5 99

INDICE GENERALE

CAP. III. - Il cielo come rivedersi e come conservazione e dedizione di sé CAP. IV. § 3 r 2.

-

Unione dei celesti con gli uomini della terra

602 604

I gradi della vita celeste .

6o6

CAP. I. - Loro realtà

6o6

l. Dottrina della Chiesa, 6o6.

CAP. II.

Pag.

- Il. Scrittura e Padri, 607.

Senso della gerarchia celeste

-

l. Gradi ed ordine in cielo, 609. - I I . Rivelazione dei veri rap­ porti assiologici, 610. - III. Stati particolari, 610.

§ 3 1 3.

Il cielo come possesso beatificante della realtà oggettiva creata da Dio

612

Il cielo come grazia e ricompensa

614

.

§ 3 1 4.

CAP. I. - Fatto e senso della ricompensa celeste

614

l . Antico Testamento, 614. I I . Nuovo Testamento, 6 1 5 . III. Testimonianza dei Padri, 619. -

CAP. II. - La natura della ricompensa celeste

621

CAP. III. - Gratuità e sovrabbondanza della ricompensa celeste

622

CAP. IV. - Speranza nella ricompensa celeste e purezza dell'aspirazione morale

624

I l cielo come compimento del desiderio umano di vita e come eterna beatitudine

627

§ 315.

CAP. I. - Ordinamento dell'uomo a Dio . l. Nozioni generali, 627. - Il. Ordinamento al Dio Trino, 629.

627 -

III. Ordinamento naturale e soprannaturale a Dio, 630.

CAP. II. - Il cielo come beatitudine I. La gioia terrena come preludio della beatitudine celeste - questa come completamento della gioia terrena, 633. - Il. Dottrina della Chiesa : realtà e senso della beatitudine, 635. - III. Testimo-

nianza della Scrittura, 636.

CAP. III. - Attività e riposo

.

I. Somma attività, 640. - Il. Eterno riposo, 642.

CAP. IV. - Progresso nella beatitudine celeste? CAP. V.

- Eternità del cielo

Bibliografia

633