Dogmattica cattolica. La Grazia [Vol. 3.2]

Citation preview

MICHELE SCHMAUS PROFESSORE All'UNIVERSITA DI MONACO

DOGMATICA CATTOLI CA

l.

INTRODUZIONE� DIO�CREAZIONE

Il.

DIO REDENTORE�LA MADRE DEL REDENTORE

III/1.

LA CHIESA

III/2. LA GRAZIA IV/ t. I SACRAMENTI IV/2. I NOVISSIMI

Titolo originale dell'opera KATHO L I S CH E DO G M A T I K Verlag Max Hiiber - Miinchen

Edizione italiana a cura di Natale Bussi

Nulla osta: Casale, 24-IX-1963. - Can. Teol. L. Baiano, Rev. Ecci. Imprimatur: Casale, 30-IX-1963. - Mons. M. Debemardis, Vie. Gen. Proprietà letteraria (I 5-X-1963 ) .

PARTE SECONDA LA GRAZIA

§ 178. Prospetto e ripartizione. 1. La ragione d'essere della vita e dell'azione di Cristo è il regno di Dio. La Chiesa, il popolo di Dio, da lui fondato, che vive come suo corpo mistico, ha il compito, mediante la predicazione della parola divina e l'amministrazione dei s2.cramenti - cioè rendendo di continuo presente quanto Cristo ha detto e fatto - di stabilire, durante il tempo che passa tra l'Ascensione e la Parush, il regno, la signoria di Dio nella storia umana e nel mondo, e in tal modo rendere l'uomo partecipe della vita eterna, già inaugurata nel tempo, e quindi salvarlo. Instaurare il regno di Dio e salvare l'uomo sono due aspetti di un unico compito in quanto proprio perché Dio regna nell'uomo, questi partecipa alla salvezza. In altre parole, quando Dio agisce da Signore in un uomo, questi entra in comunione con Dio medesimo e in tal modo diventa partecipe dell'essere e della vita del Dio tripersonale. -

2. Il regno di Dio viene instaurato da Gesu Cristo, il quale è già egli stesso la manifestazione di tale regno nel mondo sia durante tutta la sua vita, sia, definitivamente, nel suo stato glorioso raggiunto attraverso la morte e la risurrezione. Egli ne fa partecipi tutti gli altri, svolgendo la sua funzione mediatrice per l'uomo e il cosmo. E cosi si attua quel regno di cui egli è principio efficiente e modello. Gli uomini, perciò, accedono al regno di Dio, che è il regno del Padre celeste, quando essi entrano in comunione vivente con Gesu Cristo, che dopo la sua morte in croce e la sua risurrezione è il Signore perennemente vivo. Chiunque intende raggiungere un rapporto vitale con il Padre celeste, deve accogliere Cristo nella fede proclarnata dalla Chiesa e nei sacramenti da essa ammi­ nistrati. E questo è reso possibile dal fatto che Cristo è presente, in tutti i tempi sino al compimento della storia, nella predicazione della fede e nei sacramenti della Chiesa. -

P. Il.

8

3.

-

-

LA GRAZIA

Dopo aver dimostrato, nel trattato precedente, che Gesu ha edifi­

cato la Chiesa perché potesse esplicare il compito affidatole, dobbiamo ora ricercare che cosa significhi per l'uomo incontrare Cristo nella fede e nei sacramenti e, mediante lui, entrare in comunione col Padre celeste. Dobbiamo nel presente trattato rispondere ai seguenti tre problemi:

a)

Che cosa avviene nell'uomo che diventa partecipe del regno di

Dio instaurato da Cristo? In qual maniera si trasforma la sua esistenza e la sua vita? (stato di grazia).

b) In qual modo l'uomo entra in contatto con Cristo e per suo mezzo perviene al Padre celeste? L'iniziativa spetta a Dio o all'uomo? oppure l'azione divina e quella umana si uniscono intimamente? (genesi dello stato di grazia).

c)

Come può l'uomo entrato in comunione con Dio adem?ire i do­

veri della sua vita terrestre? La sua intima unione con Dio come deve esplicarsi e manifestarsi sia nel pensiero che nell'azione? (effetti dello stato di grazia). La teologia occidentale odierna stacca dal complesso di questi problemi (dottrina della grazia) la questione della comunicazione della grazia per mezzo dei sacramenti. Ma la Chiesa antica e la teologia orientale non conoscono una trattazione della grazia separata da quella dei sacramenti. La vita di grazia è anzi intesa come vita sacramentale. La dottrina della grazia coincide con la dottrina sacramentaria, in quanto la grazia non è altro che il contenuto dei sacramenti, venendo normalmente conferita da Dio per mezzo loro. Ma per uno studio sistematico delle questioni concernenti la grazia e per evitare inutili ripetizioni, è opportuno accettare la separazione dei due trattati quale fu introdotta da S. Agostino. Ciò

è, in un certo senso,

necessario e fu appunto attuato dall'alta Scolastica e da tutta la teologia occidentale posteriore. Non si deve tuttavia perdere mai di vista l'inelirni­ nabile rapporto tra grazia e sacramenti, dato che quella, nel piano ordi­ nario di Dio, deriva da questi. Chi desse alla grazia un'esistenza auto­ noma, indipendente dai sacramenti, giungerebbe a svuotare questi del loro contenuto, né avrebbe piu, all'infuori della volontà di Dio, alcuna fondata ragione per sostenere che l'uomo li deve ricevere per entrare in comunione con Cristo. D'altra parte, scindendola dai sacramenti, si toglie­ rebbe alla grazia il suo involucro corporeo e la sua storicità. Grazia e sacramenti, come vedremo meglio in seguito, stanno tra loro nel mede­ simo rapporto di anima a corpo. I sacramenti sono i vari modi con cui

§ 178.

PROSPETTO E RIPARTIZIONE

9

Cristo risorto e glorificato esce in certo senso dalla invisibilità della sua esistenza per affermarci entro la storia e condurci alla sua propria vita. Anche in una trattazione in cui i sacramenti si scindano dalla grazia è pur sempre necessario tener presente la loro intima unione.

4. Siccome noi rimettiamo a un trattato apposito lo studio sui sacra­ menti, possiamo raccogliere tutto il complesso della dottrina della grazia nelle tre seguenti sezioni : -

PRIMA SEZIONE : senso e natura della partecipazione dell'uomo al regno di Dio instaurato da Cristo (lo stato di grazia). SECONDA SEZIONE : la genesi dello stato di grazia ad opera della grazia attuale.

TERZA SEZIONE : la fecondità dello stato di grazia.

SEZIONE I.

SENSO E NATURA DELLA PARTECIPAZIONE UMANA AL REGNO DI DIO INSTAURATO DA CRI STO (STATO DI GRAZIA)

§ 179. La partecipazione al regno di Dio come grazia. Essenza della grazia.

Nessun uomo può raggiungere con le sole sue forze il regno di Dio, dato che esso è un puro dono divino, appartenente a quell'ordine che noi chiamiamo soprannaturale. Perciò chiunque vuol capire che cosa mai sia la grazia deve rievocare il concetto di soprannaturale e il mutuo rapporto esistente tra natura e soprannatura di cui si è già antecedentemente par­ lato ( § § I I 4-I I 7) . La partecipazione al regno di Dio non è altro che un aspetto di quella grandiosa realtà chiamata soprannaturale ed è proprio per accentuarne il carattere di dono che noi la chiamiamo « grazia ». I. - GRAZIA IN SENSO PROFANO. l.- Anche nel campo profano si parla di grazia e ciò in un triplice senso :

a) Si parla di grazia nel campo politico e sociale, quando un uomo che ha meritato la pena di morte viene graziato da colui che regge le sorti dello stato e che impedisce in tale modo l'esecuzione della legge. b) Si parla di grazia anche nel campo culturale, quando un'opera d'arte, di scienza o di tecnica ci si presenta come un vero capolavoro sgorgato non dalla capacità ordinaria dell'uomo, bensi dalla profondità creatrice di un genio o di un artista fuori classe. c) Si parla infine di grazia nelle relazioni spirituali tra gli uomini, quando si tratta non di aiuti o di prestazioni della vita sociale ordinaria,

§ 1 79·

II

LA PARTECIPAZIONE AL REGNO DI DIO COME GRAZIA

ma di un incontro che svela il senso dell'esistenza, di un'amicizia o di un amore che riempiono la vita.

2.

In tutti questi tre casi si parla di grazia solo quando si avverano

-

due indispensabili condizioni:

a)

Anzitutto la grazia presuppone che la serie degli eventi non di­

penda esclusivamente e totalmente da causalità meccanica e da necessità logica, né solo dal diritto e dalla legge, né dalla ricerca dell'utile e dalla fuga del nocivo, ma che invece dipenda dalla libertà, dall'imprevedibile, dallo indeducibile, dalla creatività, che, quindi dietro la visibile connes­ sione causale sussista ed operi l'inverificabile e l'imponderabile.

b) Inoltre lontà,

il

carattere gratuito di

un evento presuppone

vi sia vo­

vi sia dietro le cose e gli eventi un essere personale che con libertà

ed amore crea e ordina. Il fatto che vi sia grazia è comprensibile solo quando si ammetta che il mondo e il suo corso in ultima analisi sono strutturati personalmente, poggiano sulla libera volontà divina (cfr. § 1 o8). Cfr. R. Guardini,

Libertà, grazia, destinoJ

trad. ital. di Paronetto-Valier,

1956.

3.

-

Questo concetto di grazia che non trascende aff atto l'ordine della

natura è non di rado usato pure dai Padri della Chiesa, come quando essi dicono che il mondo e la sua magnificenza sono un dono della benevo­ lenza divina o quando esaltano Dio per la sua inesauribile e prodiga be­ nignità (cfr. Clemente Romano nella sua

Ep. ad Cor. 23,

1; 19, 2; 59, 3;

Didaché I, 5). S. Agostino descrive in modo molto chiaro la grazia natu­ rale distinguendola con grande precisione da quella propriamente detta, ossia soprannaturale. In una lettera al Papa Innocenza I intorno a Pelagio, il dotto vescovo d'Ippona afferma che l'errore proprio di questo eretico consiste nel non riconoscere altra grazia fuori di quella naturale. Poi continua:

«

S i può senza difficoltà chiamare grazia di Dio il fatto di

essere creati, di essere cioè qualcosa, e non solo qualcosa come un cada­ vere senza vita, o come un albero che non sente, o come un animale privo d'intelligenza, ma uomini dotati d'essere, di vita, di sentimento e di ragione.

E per si grande beneficio dobbiamo ringraziare il nostro Creatore.

Un tanto beneficio possiamo ben chiamarlo grazia per il fatto che non ci venne conferito come ricompensa di precedenti opere meritorie, ma per pura liberalità divina. Di tutt'altra specie però è la grazia mediante la quale, come predestinati, siamo chiamati giustificati e santificati » (PL. 33, 767). Questa idea della grazia naturale si trova pure nei teologi medievali

P. Il.

12

-

LA GRAZIA

ed è particolarmente accentuata in S. Bonaventura, come ad esempio, nel

Comm. Sent., I, dist. 8, p. 1, a. 2, q. 2 ad 9; dist. 44, a. I ad 4 ; 27 ; cfr. J . Auer, Die entwicklung der Gnadenlehre in der Hochscholastik, parte I, 337-354. Con questa caratterizzazione della na­ suo

II, dist.

tura si esprime chiaramente la sua apertura nei confronti di Dio.

4.

-

L'idea che

il mondo intero sia qualcosa di gratuito, si rinviene

anche nella letteratura

stoica

ed ellenistica. Ma anche qui vi è una pro­

fonda differenza fra la dottrina cristiana e quella pagana . Nella conce­ zione acristiana la grazia naturale dell'uomo infatti lo rende assai indi­ pendente dagli dèi, mentre invece la letteratura cristiana dei primi secoli mette bene in risalto il fatto che l'uomo dipende da Dio, che nella sua misericordia e benevolenza ha creato il mondo per pura sua liberalità. L'uomo, perciò, deve accostarsi a Dio con il comportamento di chi gli è grato. Come non sentire

la gratitudine quando si rinviene ovunque la

traccia che il mondo è nobile, elevato, fuor del comune e al di sopra della banalità quotidiana?

Il. 5.

-

-

GRAZIA IN SENSO TEOLOGICO.

Dalla grazia naturale sinora considerata si distingue intrinseca­

mente ed essenzialmente la grazia in essa una realtà

soprannaturale.

senso strettamente teologico,

essendo

Non si tratta solo di una meravigliosa pie­

nezza dell'esistenza conferitaci da Dio e trascendente l'ordine usuale. Non ha semplicemente lo scopo di portare la natura al suo completo sviluppo. Non appartiene all'ordine naturale e non mira solo ad elevare alla mas­ sima potenza le possibilità che Dio creandola ha dato alla natura.

È invece

un dono divino che trascende ogni potenza, ogni sforzo ed ogni valore naturale e che viene da Dio elargito perché l'uomo possa entrare in co­ munione con lui stesso. Suo scopo è quello di creare una partecipazione alla vita divina trinitaria. Certo tutto ciò che è naturale, a motivo della trascendenza divina, ha

il carattere di dono (cfr. § § 107 e 10 8). Ma la grazia soprannaturale pro­ cede dall'amore divino in misura ben piu grande e ben diversamente che non ciò ch'è naturale, dato che per essa Dio elargisce agli uomini, in Cristo Gesu, la partecipazione di sé medesimo. Oggetto infatti del piano salvifico di Dio è proprio la partecipazione dell'uomo alla vita divina. Il Padre celeste ha creato il mondo e gli uomini in piena libertà d'amore per potere loro comunicare se stesso. Dio ha creato l'uomo in modo da

§ 179.

LA PARTECIPAZIONE AL REGNO DI DIO COME GRAZIA

13

è altro s e non Dio me­ è pura espressione del suo amore libero e per­

potere accogliere in s é l'amore eterno che non desimo. Dono questo che

sonale. Da lui si può veramente apprendere che cosa sia mai l'amore. La grazia è perciò qualcosa di assolutamente

indebito.

L'uomo non può

avanzare nei confronù di essa pretesa alcuna, e questo, non solo perché è peccatore, ma perché è creatura ; non potrebbe, quindi, accampare alcun diritto alla grazia anche se fosse già liberato da ogni colpa e si fosse

del tutto dimenùcato ch'egli era un peccatore. (In seguito si mostrerà, tuttavia, che l'uomo ha la capacità di ricevere tale grazia e si mostrerà pure di quale natura sia tale capacità; cfr. il § 1 90).

6.

-

La grazia intesa nel suo senso preciso reca un'impronta

cristologica

poiché nell'ordine concreto di salvezza non vi è alcuna grazia che non ci venga comunicata per mezzo di Cristo e non ci renda simili a lui (Ef. 3-14). Cristo, perciò,

I,

è tanto causa efficiente quanto causa esemplare della

esistenza in stato di grazia. Questa infatti non è altro che la conforma­

è attuata nella storia umana me­ ». Si può quindi anche definire la grazia come

zione a quella forma d'esistenza che si diante l'« unione ipostaùca

quella forma d'esistenza di cui Cristo è principio ed esemplare. Possiamo quindi dire che la

grazia è un dono soprannaturale che Dio, a motivo di Cristo e a sua immagine, dona gratuitamente alla creatura ragionevole perché possa partecipare alla vita divina trinitaria. III. 7.

-

-

LA GRAZIA NEL CAMPO ESTRABIBUCO.

La grazia intesa in questo senso rigidamente teologico è del tutto

ignota al di fuori della cerchia biblica. Con ciò non si vuole tuttavia asserire che nel campo estrabiblico non vi sia alcuna grazia. Dobbiamo invece dire che anche qui vi è una grazia in senso stretto e in vista di Gesu Cristo, per il semplicissimo fatto che vi si può trovare un genuino amore verso Dio (cfr. Ohm,

L'amore a Dio nelle religioni non cristiane,

trad. ital., Alba 1 9 5 6). L'esistenza della grazia nell'ambiente non biblico appare ancora piu verosimile quando si pensa che il piano divino nella creazione del mondo fu sino dall'inizio cristologico. Cristo, in altre parole, cosùtuisce il nucleo di tale piano in modo che tutto il resto fu creato in vista di lui (cfr. § § 103 e 1 42). Anche se l'ambiente estrabiblico non

è privo di grazia, si deve tuttavia

riconoscere che essa non fluisce qui con abbondanza, ma scarsamente.

14

P. IL

-

L A GRAZIA

E come non possiamo attribuirgli una chiara conoscenza della grazia in senso stretto, cosi non possiamo negare che sia permeato da oscuri pre­ sentimenti e aneliti verso di essa. Ciò si deve ammettere ogni qual volta troviamo l'autentica preghiera in cui l'uomo si professa peccatore e bi­ sognoso di aiuto e perciò invoca la benevolenza divina. La storia della preghiera va di pari passo con quella della conoscenza della grazia. L'oscura coscienza della grazia è in certo senso un preludio di quella rivelazione piu completa della grazia che s'attuò con Cristo Gesu. Un tale preludio si trova, ad esempio, nelle preghiere della religione babilonese. Presso gli Indiani, a motivo della loro concezione panteistica di Dio e dell'uma­ nità, si attenua non poco senza tuttavia mancare del tutto. Qui la redenzione è un frutto dei propri sforzi. Piu marcata ancora appare questa autoredenzione nel p arsismo, da cui deriva il culto di Mitra, che la diffuse in vasti ambienti. Di qui si comprende come nel III e IV secolo la religione di Mitra divenne il concorrente piu pericoloso per la religione cristiana. Presso i Greci Prometeo è il simbolo dell'umanità che si sforza di liberarsi dagli dèi per plasmarsi a suo gradimento la propria vita. L'uomo non ha in mano il principio, la fine e la via della propria esistenza, ma entro i limiti a lui fissati si determina per suo conto. La tragedia greca cerca di tratteggiare l'azione di un fato onnipossente e spietato che domina sull'uomo. Di qui la convinzione che gli dèi non ascoltano la preghiera degli uomini e che l'umano desrino ignora ogni giustizia del governo divino. Una forte espressione della fede nel destino crudele ed inesorabile si legge in un coro dell'A/cesti di Euripide: « Io percorsi le opere dei poeti e dei filosofi, ma, pur avendo molto indagato, nulla trovai di piu pos­ sente dell'ananke. Nessun riparo contro di quella scoprii nelle tavole tracie, che il canoro Orfeo descrisse, né tra i molti farmachi, che Febo diè agli Sclepìadi, per i travagliati mortali. - Questa è la sola Dea ai cui altari non è lecito accostarsi, che non accetta alcun sacrificio. O veneranda, non colpirmi piu gravemente che nel passato! Solo col tuo consenso Zeus conduce a termine ciò che vuole. Tu pieghi colla tua forza anche il ferro dei Càlibi, né alcuna pietà v'è nel tuo animo ine­ sorabile» (trad. L. Cammelli). I sofisti greci, pur essendo riusciti a spezzare la convinzione nella inesorabilità del fato, tuttavia per il loro modo di pensare non lasciano alcun posto alla grazia, dato che per essi « di tuue le cose è misura l'uomo; di quelle che esistono, in quanto esistono; di quelle che non esistono, in quanto non esistono» (Protagora). Secondo Platone Dio è il grande ed invisibile (personale?) artefice che domina gli uomini per mezzo di Eros (amore). Platone elimina la preghiera a Dio. Nella sua filosofia vi è oggettivamente altrettanto poco posto per la grazia, che in quella di Aristotele. Ma la filosofia platonica con la sua concezione della irradiazione di Dio nell'uomo e della preesistenza dell'anima umana preparò i pagani alla rivela­ zione cristiana della grazia. Gli stoici concepiscono la vita umana in modo rigidamente deterministico. Tutto quanto avviene s'avvera per leggi naturali, che sono poi leggi di Dio. Di certo non mancano presso loro preghiere d'insolita potenza e interiorità. Spesso vi si dice che l'uomo deve piegarsi alla legge della natura che è legge divina,

§

15

179. LA PARTECIPAZIONE AL REGNO DI DIO COME GRAZIA

perché l'uomo è parente di Dio, perché Dio gli è padre. Se l'uomo pensa d'essere figlio di Dio :

«

Che può mai temere di ciò che gli uomini gli preparano? Se l a

parentela con Cesare o con un grande d i Roma è sufficiente a farci vivere nella sicurezza, esenti da ogni disprezzo e paura, l'avere Dio come creatore, come Padre e come protettore, non deve renderei esenti da dolore

e da timore?

(Epitteto, Diss. I, 9, 6 s.). Cosi Epitteto si rivolge a Dio (Diss. Il, 16, 41):

«

»

Ser­

viti di me come tu vuoi: i miei pensieri sono i tuoi; io sono tuo; non mi oppongo in nulla a ciò che ti piace; conducimi ove tu vuoi; rivestimi di quegli abiti che ritieni opponuni. Vuoi tu che io eserciti una carica? che viva come un semplice privato? che rimanga in patria? che ne sia bandito? che sia ricco o povero? In qualunque cosa io ti giustificherò dinanzi agli uomini ». In ogni azione noi dob­ biamo elevare la nostra lode a Dio dicendo:

c

Dio è grande, poiché è lui che

ci dona gli strumenti con cui lavorare la terra. Grande è Dio, poiché è lui che ci dona e mani e gola e ventre, che ci fa crescere senza che ce ne abbiamo ad accorgere e ci fa riposare tranquillamente nel sonno» (Diss. I , 16, 15). Chiunque pensa a tali cose può accogliere ciò che gli dèi gli mandano.

c

Conducimi tu,

o Zeus, e tu, o Fato, al fine che mi è stato preordinato. Devo seguirlo senza esi­ tazione. Fossi pure uno stolto e non lo volessi, vi dovrei camminare ugualmente

:t

(Cleante in H. v. Arnim, Stoicorum veterum fragmenra I, 118, 24 s.). Il discepolo di Epitteto, Marco Aurelio, supera lo stesso maestro giungendo a dire che Dio aiuta l'uomo nelle sue necessità e nei suoi bisogni purché l'uomo si metta in

ar­

monia con lui. Ma una vera fiducia in Dio e una reale speranza nella grazia non è possibile nello stoicismo, poiché qui Dio non è concepito come

un

essere per­

sonale bensi panteisticamente. Il che vale anche per le religioni misreriche. Vi si trova, è vero, una meravi­ gliosa fiducia del mistà verso la divinità. E nei riguardi di Iside, la divinità mas­ sima e la regina del cielo, tale fiducia vi ha acceso una pietà viva e interiore. Basti ad esempio la preghiera che Apuleio le rivolge:

«

Santa

e

perpetua salva­

trice del genere umano, tu che sei sempre larga di favori ai mortali, largisci un dolce affetto di amore alle sventure dei miseri. Né un giorno né una notte e nessun istante passa senza i tuoi benefizi, tu proteggi per terra e per mare gli uomini, e disperdi le tempeste della vita, e distendi la tua mano salutare, tu che hai la potenza di districare le fila inestricabili dei fati; tu mitighi le tempeste della fonuna e trattieni gli influssi nocivi delle stelle. Te onorano i celesti, ti venerano gli inferi, tu fai roteare il mondo, fai comparire il sole, reggi l'universo, calchi il Tartaro. A te rispondono le stelle, per te ritornano le stagioni, giubilano i numi, servono gli elementi.

Al tuo cenno spirano i venti, le nubi si gonfiano, i semi

germogliano, i germogli crescono. Si impauriscono gli uccelli, che trapassano per i cieli davanti alla tua maestà, le fiere erranti per i monti, i serpenti nascosti nel suolo, le belve nuotanti nel mare. Ma io sono troppo scarso d'ingegno per poter intrecciare le tue lodi, e sono povero per poterti offrire sacrifici né ho voce tanto potente da dire quello che sento intorno alla tua maestà, perché non bastano mille bocche e altrettante lingue, né un discorso instancabile che durasse eterno. Però quello che può un povero sacerdote mi sforzerò di condurre a termine. Tenendo nascosto e custodito in perpetuo entro i segreti del mio petto il tuo volto divino, non tralascerò dal rappresentarmelo sempre presente » (Met., XI, 25). Identica la situazione presso i gnostici. Vi si trovano indizi del concetto di

16

P . II.

-

LA GRAZIA

grazia, che però a motivo della corrente panteistica dominante non possono espli­ carsi ulteriormente. Espressione della pietà gnostica è la seguente ode laudatoria: Mi sono svincolato dalle mie catene ed a te sono fuggito, mio Dio. Perché tu fosti per me una destra mia salvezza e mio soccorso. Tu hai trattenuto quelli che mi insorgevano contro e piu non comparvero. Poiché la tua persona era meco, che mi salvava nella tua grazia. Io a vece ero spregiato agli occhi di molti e reietto : ero ai loro occhi si come scoria : ma mi venne forza dal tuo fianco e soccorso. Una lampada tu m'hai porto a destra e a sinistra, si che non vi è nulla in me che non sia luce. Io sono stato ricoperto dalla veste del tuo Spirito. m'hai levate le vestimenta di pelle. La tua destra m'ha rialzato, ed ha cacciato la mia infermità : mi san fatto gagliardo nella tua verità e santo della tua giustizia. Temettero dinanzi a me quanti mi erano contro, e divenni del Signore nel nome del Signore. Fui giustificato nella sua benignità, la soavità di lui nei secoli dei secoli. Amen » «

(Odi di Salomone, 25; trad. L. Tondelli; l'ode si rinviene pure nello scritto gnostico Pistis Sophia, c. 69). In tutte le predette concezioni religiose non può essere possibile un .reale incontro dell'uomo con la divinità, poiché o l'uomo vi è considerato solo come uno sviluppo del divino o Dio è solo una raffigurazione dell'uomo, e quindi non ha una vera e propria personalità. Per il medesimo motivo a cominciare dall'epoca moderna il concetto di grazia è stato rimosso sempre piu dalla coscienza umana. Quanto piu si è esaltata la libertà e l'autonomia umana, tanto meno vi ha trovato posto la concezione di un Dio benevolo o pronto a soccorrere. È poi totalmente naufragata in quella visione del mondo creata dallo scientismo positivista e dalla filosofia razionalistica, per cui nulla vi è di reale se non ciò che la ragione umana può stabilire e controllare. Anche la filosofia hegeliana non fa eccezione al riguardo, dato che essa nella realtà vede solo uno sviluppo necessario, attuantesi in un processo dialettico, dello spi­ rito impersonale divino.

IV. - LA GRAZIA NELL'ANTICO TESTAMENTO. 8.

-

Nell'Antico Testamento

il messaggio neotestamentario della grazia

vi si rispecchia in modo assai piu chiaro che non presso le altre religioni, ma anche qui manca tuttavia un chiaro concetto della grazia sopranna-

§ 179. LA PARTECIPAZIONE AL REGNO DI DIO COME GRAZIA

17

turale. Come tutto l'Antico Testamento non è che una preparazione del Nuovo che in esso vi si trova solo germinalmente, cosi anche la dottrina della grazia ha i suoi problemi nella rivelazione veterotestamentaria. Si tratta solo di ombre di ciò che sarà la vera realtà. a) Tra gli elementi preparatori che si rinvengono nell'Antico Testa­ mento vi è la rivelazione di un Dio personale e della sua benevolenza verso gli uomini. Due sono i termini con cui si designa questa benevo­ lenza divina : hen e hesed. La parola hen si trova, ad esempio, nell'espres­ sione : egli ha trovato grazia negli occhi del Signore. I Settanta traducono il vocabolo hesed con il termine èleos (compassione), tradotto a sua volta dalla Volgata con « misericordia», anche in quei passi ove colui verso il quale Dio prova hesed, non ha bisogno di misericordia. Spesso il termine hesed viene unito con quello di 'emet =bontà e fedeltà (verità; cfr. Gv. 1, I4). Cfr. ]. Guillet, Temi biblici, trad. ital. di L. Bonomi, cap. II. b) Ma piu che nelle fomrule è con il suo contenuto che l'Antico Testamento prepara il concetto neotestamentario della grazia. Dio, ivi de­ scritto, è il giudice rigoroso, il vendicatore, colui che punisce ogni viola­ zione umana del patto. Ma sarebbe totalmente errato concepirlo alla stregua di Marcione, come un Dio vendicativo, crudele e impassibile da opporre al Padre buono e misericordioso del Nuovo Testamento. Anche l'Iddio dell'Antico Testamento è infatti pieno di premure e di bontà. Spesso e con tratti commoventi se ne descrivono l'amore e la misericordia, che sono espressione della sua personalità libera e sovrana. Dio parla a Mosè: Io faccio grazia a chi voglio e ho pietà per chi mi piace (Es. 33, I9). La terra è piena della sua bontà e misericordia (Sal. 3 3, 5; II9, 64), che inesauribilmente la pervade tutta senza escludere i peccatori e i pagani. aa) Dio con la sua bontà e misericordia anzitutto avvolge collettiva­ mente il popolo che si è scelto. È questo il suo figlio, il primogenito (Deut. 32, 6; Os. II, I; Es. 4, 22). Verso di esso Iddio ha gli stessi sen­ timenti del padre (Ger. 3I, 20). Lo ha scelto perché lo ha amato (Deut. 7, 7 ss. ). Anche se una madre può dimenticare il suo proprio figlio, non può affatto Dio dimenticare il suo popolo (Os. II, I-9). I biasimi che gli fa sono rimproveri di un amico umiliato, di uno sposo ferito (Os. 7, I3; Ez. 23, I2-27). Se egli punisce, lo fa per guarire (Am. 4, 6-1 2). È sempre pronto a perdonare i peccati, purché il popolo si ravveda (Es. 32, 30-3 2 ; 3 3 , I2-I9 ; Num. 1 4, IO-I9; Os. I-3). Il suo amore per il popolo è forte come la morte, alla cui potenza nulla sfugge, ed è cosi ardente che nessuna acqua lo può spegnere (Cantico, specialmente 8, 6 ss.). L'amore divino

18

P. II.

-

LA GRAZIA

3 1 , 3; Sal. 106, 1 ; 1 1 7, 2 ; 1 1 8, 1 -4. 29; 1 36, 1-26; 1 38, 8). «Si moveranno i monti e i colli vacilleranno; ma la

infatti è eterno e immutabile (Ger.

mia clemenza da te non smoverà, e il mio patto di pace non vacillerà ; dice il Signore, che ti vuole bene» (ls.

54> IO; cfr. Sal. 100, s ; 103, I7i

3, 89 s.). bb) Ma Dio esercita pure la sua bontà e misericordia verso i singoli individui. Vigila sui profeti che ha chiamati a un duro servizio (I Re 18, I5i 8, 2 1 -29 ; I9, I-8; Ger. 28, 1 5); li consola nei loro travagli (Ger. 20, 7-1 3). Egli chiama e guida Mosè, Giosuè e Davide (cfr. Bonnetain, GrO.Ce, in Dict. de la Bible, Suppl., III, 1938, 809 ss., S?ecialmente 822-824). Dio ama i giusti (Eccli. 5I, 1 - 1 2 ; Sap. 2, 2 1 ss.; 3, 1 - 1 2), ma usa misericordia anche per i colpevoli (Os. 6, 1 -3; Giob. 5, 1 8; Es. 34, 7; Ez. I8, 2I-23i 33, 1 I; Is. 55, 7; Sal I3o, 3 ss.; 50 (5I]). cc) Per conseguenza anche il popolo che Dio si è eletto ha la netta Dan.

sensazione che tutti i beni provengono dal Signore. Esso ha la chiara coscienza che l'Iddio buono e misericordioso è colui che va svolgendo la sua storia. Lui lo ha liberato dall'Egitto e introdotto nella terra promessa

I5, I-I9i Deut. 8, 7-I7); è da lui che procede la vittoria di Debora 5, 2-3); da lui proviene la forza di Sansone (Giud. 1 3-16). Da solo nulla può l'uomo (Deut. 9, 4; 8, 17). Si sente peccatore e solo spera nella grazia divina (Os. 6, 1; Ger. 14, 20; Bar. 2, 1 2). Tale sentimento si rileva specialmente nelle preghiere veterotesta­ mentarie ad esempio in quella di Abramo (Gen. I8, I7-33), di Giacobbe (32, Io), di Anna (1 Sam. I, II), di Davide (2 Sam. I2, 20; I Cron. 2 1 , 7- 1 3; Sal. 5 1), d i Salomone (I Re 8 , 23-61) e in modo particolare nella preghiera di Geremia (15, ro-2 1 ; 1 7, 1 2- 1 8; 20, 7- 1 8). Nel modo piu pro­ fondo tale convinzione si manifesta nei salmi. I Padri della Chiesa li (Es.

sui popoli pagani (Giud.

hanno quindi intesi come una grande preghiera invocante la grazia. Cosi Girolamo a Pelagio, il negatore della grazia, suggeriva: Leggi il Salterio

(Dial. contra pelagianos, I, 5; PL. 23, 523). Sia che si tratti della pre­ ghiera collettiva del popolo o di quella individuale del singolo fedele, della supplica del peccatore o del giusto, il credente invoca sempre la bontà divina da cui aspetta ogni bene.

c) Anche se l'Antico Testamento è solo una preparazione alla rive­ lazione neotestamentaria della grazia, vi sono tuttavia alcuni passi che vi alludono in modo particolarmente chiaro. Cosi il giusto prega Dio che gli dia intelligenza e gli apra gli occhi nei riguardi della legge (Sal.

I 19, 34).

Passo questo che suona come una prefazione alla parola paolina secondo cui solo la grazia di Cristo può eliminare il velo che ricopre l'Antico Te-

§ 179. LA PARTECIPAZIONE AL REGNO DI DIO COME GRAZIA

I9

stamento (2 Cor. 3 , I 4). E Dio stesso h a voluto preannunciare la novità che si sarebbe attuata in Cristo (Ez. 36, 26; Ger. 3 1 , 3 1 - 34; 32, 38-40). d) Tuttavia nell'Antico Testamento non ci si presenta in modo ben chiaro ciò che è la grazia intesa in senso stretto. I Padri e gli scolastici, che leggevano l'Antico Testamento con gli occhi illuminati dal Nuovo, hanno voluto rinvenire tracce di tale grazia anche in passi dove letteral­ mente essa manca. Furono presi in considerazione particolarmente i se­ guenti testi : Sal. 5 I , I 2 (« Creami un cuore puro, o Signore, dammi un nuovo spirito nel mio petto »); Sal. 1 1 8, 34; Sal. 59, u ; Prov. 21, 1 ; 8, 3 5 ; Ger. 3 1 , 1 8). e) Benché nell'Antico Testamento manchi una chiara conoscenza della grazia, la sua realtà tuttavia non vi fa difetto, come del resto non manca nemmeno presso i popoli estrabiblici. Tuttavia la grazia nell'An­ tico Testamento non è data a motivo della legge, bensi in vista di una realtà preparata dalla legge, ossia in vista di Gesu Cristo. Agostino (De spiritu et liltera, c. 17) scrive che nell'Antico Testamento la legge fu data per scuotere gli ingiusti. Nel Nuovo essa è donata interiormente perché gli uomini possano venire giustificati. Tommaso d'Aquino tratta a piu riprese il problema, particolarmente quando parla del battesimo. Egli (S. Th., I-II, q. xo6, a. 2 e 3) afferma che la legge antica non conferiva, come la nuova, lo Spirito Santo, per mezzo del quale gli uomini sono giustificati, in quella pienezza che ebbe inizio dalla Pentecoste. Se nell'Antico Testamento ci furono dei giusti in pos­ sesso della carità e della grazia conferita dallo Spirito Santo, dipende dal fatto che essi vivevano nell'attesa dei beni promessi, e per una tale speranza già appar­ tenevano alla nuova legge. Essi venivano quindi giustificati mediante la fede nel Cristo venturo (S. Th., I-II, q. 107, a. I ad 3). Trattando della circoncisione, Tommaso dichiara che essa conferiva la grazia in quanto segno della fede nella futura passione di Cristo, mentre il battesimo la conferisce per la fede nel Cristo già venuto. Nel tempo precedente l'istituzione della circoncisione la giustificazione era egualmente operata dalla fede nel Cristo venturo, senza però che dovesse esprimersi con segni esterni, « dato che gli uomini fedeli non avevano ancora incominciato ad adunarsi separatamente dagli infedeli per celebrare il culto di Dio 7i (S. Th., III, q. 70, a. 4 e ad 2). Cfr. § 167. Il triplice stato della natura, della legge e della grazia, di cui parlano Tommaso e Bonaventura con altri teologi medioevali, già conosciuto dai Padri e risalente, in radice, al tempo del giudaismo, esprime il graduale sviluppo della storia della salvezza, che raggiunge il suo vertice in Cristo, e illumina il concetto di grazia. Cfr. G. Philips, La gr6ce des justes de l'A. T., Louvain 1948. La dottrina di S. Tommaso coincide con quella del Concilio di Trento (Sess. 6, cap. 1; Denz. 793), secondo cui i Giudei con la lettera della Legge non potevano liberarsi dalla schiavitu del peccato. Non si può tuttavia determinare con maggiore precisione il modo con cui Dio conferiva nell'Antico Testamento la sua grazia, poiché la rivelazione veterotestamentaria nulla ci dice al riguardo.

20

P. II.

-

LA GRAZIA

V. - LA GRAZIA NEL NUOVO TESTAMENTO. 9.

- Nel Nuovo Testamento, che ci rivela la grazia nel suo senso stret­ tamente teologico, rinveniamo una serie di espressioni che ce la caratte­ rizzano. Gli evangeli sinottici parlano del regno dei cieli, del regno di Dio, di una vita in comunione con Cristo, di una unità con Dio; Giovanni descrive la grazia come nuova nascita, come divina figliuolanza, come luce e vita; Paolo come essere in Cristo, come Cristo in noi, come incorpora­ zione a Cristo, come partecipazione alla sua morte e risurrezione, come un'esistenza nello Spirito Santo, come nuova creazione. La parola charis non appare nel Vangelo di Matteo e di Marco, si legge otto volte in quello di Luca, diciassette n egli Atti degli Apostoli, qu attro nel Vangelo giovanneo, centodieci nelle lettere paoline, dodici nella prima epistola di Pietro, due nell'Apocalisse e solo raramente altrove. Nel campo estrabiblico indica bellezza, nobiltà d'animo, graziosità, disinteresse, pron­ tezza nel beneficare, gratitudine. Quando i testimoni di Cristo usano tale parola non escludono nessuno di questi sensi, ma la elevano in un campo totalmente nuovo e che trascende ogni valore datole dagli autori profani, sia pure quello assai notevole del grande filosofo Aristotele. Gli scrittori neotestamentari la usano per indicare quella beltà, quella graziosità, quel disinteresse, che hanno il loro principio in Cristo. Non solo quindi tra­ sferiscono il termine in un campo nuovo, ma gli conferiscon o pure un nuovo e piu profondo significato. Ecco i principali sensi del vocabolo biblico : a) In primo luogo designa la benevolen za, il favore, la misericordia di Dio (ad es. Le. 2, 40; 1 Cor. r, 3; Rom. 5, 15). In questo senso la grazia appare come realtà personale, come Tu divino, come il Padre ce­ leste che mediante Cristo e nello Spirito Santo si rivolge all'uomo. La Scrittura e i Padri sottolineano in modo particolare che è lo Spirito Santo colui che forma il seguace di Cristo. b) Passa poi a designare tutto il complesso dei doni che Dio Padre ha conferito all'umanità per mezzo di Cristo, ossia tutto l'ordine salvifico del Nuovo Testamento (cfr. Rom. 5, 17-20; 6, 15; Gv. r, 17). c) Inoltre designa pure i singoli doni soprannaturali elargiti all'uomo da Dio, come la compunzione del cuore ad opera del divino amore, l'il­ luminazione dell'intelletto umano mediante lo Spirito Santo (Rom. 2, 5; r Cor. 3, ro; 2 Cor . 6, I I ; Atti ro, 45; I Pietr. 5, 12). d) Designa anche i connotati di coloro che hanno accolto i doni di-

§ 1 80. DIVISIONE DELLA

2I

GRAZIA

vini, come la loro beltà, la loro riconoscenza, la loro letizia (Ef.

I

Piet.

2, 20;

Le.

I7, 9 ;

7, 29; I Cor. I, 4). vocabolo charisma. Questo

4, 20 ;

Rom.

Simile è pure l'uso del

si rinviene solo

presso Paolo e Pietro e designa doni soprannaturali che lo Spirito Santo compartisce a singoli individui per l'edificazione e il bene della comunità (vedere particolarmente

I

Cor.

I2-14).

Il termine presso la letteratura

profana e, specialmente nel linguaggio misterico e magico dell'ellenismo, designava quel complesso di forze insolite che trascendono le potenze della natura. Indicava inoltre il regalo in denaro che il padrone dava ai soldati

in occasione del suo compleanno o della festività di capodanno. E in questo senso esprimeva pure la completa libertà del donatore nei riguardi del donatario. Talvolta la grazia, intesa oggettivamente, appare come una

personale

come ad es. in Rom.

5· È

potenza

come una regina che dall'alto domina

il suo regno e si sottopone i suoi nemici, debellando particolarmente la potenza del peccato, della morte e della legge.

§ 180. Divisione della grazia. La forma d'esistenza resaci accessibile da Cristo e risultante dalla par­ tecipazione al regno di Dio è un tutto unitario, la cui pienezza però si può percepire solo quando se ne studiano i singoli elementi o aspetti. Noi dobbiamo quindi distinguere ciò che normalmente non è diviso al fine di una piu viva intelligenza e piu chiara rappresentazione di questa complessa e ricca realtà che è la grazia. l. - Si può in primo luogo parlare di una grazia

increata.

creata

e di una grazia

L'increata è Dio medesimo, che ci chiama alla partecipazione

della sua vita tripersonale. La grazia creata invece, è quello splendore che pervade l'uomo e quell'ardore che ne infiamma

il cuore (Rom. 5, 5),

proveniente dalla presenza del Dio trinitario. Le due grazie si possono pure denominare grazia

personale

( = grazia increata)

e grazia

reale

( = grazia creata); vanno certo distinte, ma non sono separate, bensi inti­ mamente unite. Il primato, com'è evidente spetta alla personale.

2. Spesso salvatore. Con -

si suol distinguere la

grazia del creatore

e la

grazia del

la prima si intende la grazia che Dio ha elargita agli

P. II.

22

-

LA GRAZIA

angeli e ai nostri progenitori prima del loro peccato; con la seconda tutta la vita soprann aturale don ata, per i meriti di Cristo, all'umanità dopo la colpa originale. Tuttavia se si pensa con Col. I, I3- I7 che la creazione dell'universo ebbe sin dall'inizio un'impronta cristologica e che perciò ogni grazia è conferita in vis ta di Cristo, bisogn a concludere che si deve chiamare grazia di Cristo anche quella elargita agli angeli e ai protopa­ renti. Tuttavia tale grazia non aveva, come tutte le altre oggi, un carat­ tere redentivo (cfr. § § 103; I04; us).

3. Piu profonda è la distinzione tra la grazia esterna e quella interna. La prima è qualsiasi opera salvifica di Dio esteriore all'uomo, mediante la quale questi viene chiamato alla fede, alla speranza e all'amore. Vi si può incl�dere la predicazione della parola di Dio, gli esempi d ei santi, la rimozione delle occasioni di peccato. L'interna è quella grazia che tocca l'io umano e lo trasforma introducendolo in una nuova forma di esistenza. La grazia esterna a nulla giova senza l'interna. K Chiunque osasse asserire che noi possiamo accogliere la predicazione dell'evangelo senza l'illumin azione e l'infusione dello S:Jirito San to è ingannato da uno spirito eretico » (Concilio di Orange 529, can . 7, Denz. I8o). Si deve però ammettere che la grazia esterna è sempre �ccompagnata da quella interna. Mentre l'orecchio ascolta la parola di Dio, Dio illumina il cuore dell'uditore, in modo che si può quasi parlare per la predica­ zione del messaggio evangelico di una sua efficacia sacramentale. -

4. Per la comprensione esatta della Chiesa è di grande importanza la distinzione tra grazia santificante e grazia di ministero (gratia gratum faciens e gratia gratis data). La prima significa giustificazione e interiore san tificazione di chi la riceve (grazia in dividuale). La seconda significa l'elargizione a un individuo di una capacità che lo rende atto a compiere determinate azioni, non direttamente per la sua personale santificazione, bensi per la san tificazione e la salvezza degli altri (grazia non individuale, ma collettiva, sociale). Questa grazia abilita l'uomo a divenire s trumento di Cristo per determinate azioni salvifiche. Grazia santificante e grazia di ministero sono tra loro intimamente unite in quanto normalmente gli uomini ricevono la prima tramite la seconda; talvolta però possono essere separate, come ad esempio nel caso del battesimo o della ordinazione sacerdotale conferiti a degli indegni. La Bibbia chiama carismi le grazie gratis datae (I Cor . I2, 8). Essi servono all'edificazione del corpo di Cristo che è la Chiesa, servono alla struttura del popolo di Dio. -

§ 181. 5.

-

LA PARTECIPAZIONE AL REGNO DI DIO COME VITA NUOVA

23

Si distingue pure la grazia abituale da quella attuale. Questa non

è altro che una mozione transeunte divina che spinge a un atto salvifico,

l'abituale, invece, è una qualità permanente che inerisce alla persona umana. L'attuale serve per acquistare, conservare e aumentare quella abituale. 6. - Strettamente affine è la ripartizione della grazia in santificante (elevante) e grazia sanante. La prima eleva l'uomo a uno stato sopranna­ turale ( = cristiano), e gli dona una nuova forma di esistenza. La seconda aiuta invece l'uomo perché possa superare gli impedimenti verso il bene e curare le ferite infertegli dal peccato originale. Alla grazia santificante spetta il primato. Abbiamo già visto in antecedenza come non sarebbe giusto il concepire la grazia primariamente o esclusivamente come una forza che aiuti a fare il bene (vedere § § II 5-11 7).

§ 181. La partecipazione al regno di Dio come vita nuova. Il compendio di tutte le grazie divine è l'instaurazione del regno di Dio e la partecipazione dell'uomo ad esso. L'idea del regno di Dio non ha nella predica­ zione degli Apostoli quella emergenza che ha nell'insegnamento di Gesu. c L'espres­ sione tecnica è usata rare volte e in tono formalistico (Atti I, 3· 6; 8, 12; 14, 22; 19, 8; 20, 25; 28, 23. 3I). Nondimeno tutta la speranza della salvezza si muove nell'ambito dell'attesa del regno; poiché l'idea della basiléia non si trova solo là dove se ne parla espressamente ma anche e soprattutto là dove si parla di Gesu Cristo (Atti 2, 3I; 3, 20; 4, 26 s.; 5, 42; 7, 52; 8, 6; 9, 22), della sua parusia (I, 11; 3, 20), della sua risurrezione (4, 2), dell'apocatastasi (3, 2I), del giudizio (Io, 42), del giorno del Signore (2, 2I), della condanna e della salvezza (2, 40. 47; 3, 23; 4, I2). La nuova situazione nata dai giorni del Venerdf santo e della Pasqua spiega come le questioni circa la persona di Gesti acquistino capitale importanza. La predicazione degli Apostoli non è un semplice messaggio del regno di Dio (Mt. 1, I4 s.; 4, 23; 9, 35; Le. 8, 1; I6, I6), ma un evangelo del regno di Dio e del nome di Gesu Cristo (perì basiléias tou rheoii caì con on6matos I. Chr.). In realtà nella situazione in cui si trovano gli Apostoli tutto dipende dal riconoscimento della persona di Gesù » (I. Gewiess, Die urapostolische Heilsverkundig11ng nach der Apostelgeschichte, Breslau I939, 100).

Chiunque entra nel regno di Dio subisce una trasformazione profonda. Trasformazione è uno dei concetti fondamentali della fede cristiana ed ha una importanza capitale per una elaborazione teologica dell'essenza del cristianesimo. La parola esprime diversi procedimenti di varia profon­ dità, che stanno in stretta connessione tra loro. La trasformazione piu decisiva è quella che si avvera nella transustanziazione, ossia nella muta­ zione degli elementi eucaristici; la piu ricca di conseguenze è quella che

24

P.

Il.

-

LA GRAZIA

avviene nella risurrezione di Cristo. Un'altra trasformazione di grande importanza si opera ogni qual volta un uomo si accosta a Cristo e l'acco­ glie con fede. Quale sia la natura di questa trasformazione si dirà meglio in seguito. Basti per ora accennare che per non pochi uomini la tra­ sformazione operata e nello stesso tempo pretesa dalla fede in Cristo è il vero motivo per cui rifiutano la rivelazione cristiana. Si ergono contro tale trasformazione antologica e contro le sue esigenze religiose e morali, contro la « conversione

»

per la semplice ragione che, sicuri di se stessi,

vogliono borghesemente rimanere quelli che sono.

I. - LA VITA DI GRAZIA COME NUOVA ESISTENZA. La mutazione avverantesi quando un uomo entra nel regno di Dio im­ plica che egli divenga diverso da quel che prima era, che in lui abbia a finire qualche cosa per iniziare qualcos'altro di nuovo. Questa fine e questo nuovo inizio sono partecipazione a quella fine e a quel nuovo inizio che si sono avverati con l'ingresso di Cristo nella storia umana. L'entrata nel regno di Dio avviene non con un processo fuori della storia, ma mediante la viva partecipazione alla storia della salvezza, che

è carat­

terizzata a un tempo da continuità e discontinuità. Come già sopra vedemmo, tanto secondo la Bibbia quanto secondo i Padri, con Cristo inizia una nuova e;Joca per l'umanità, senza che venga eliminata la connessione con quella precedente. Questo duplice aspetto si esprime nello schema « promessa e compimento » (vedere § 1 4 3). l.

-

mento

a)

La nuova epoca era stata già preannunciata dall'Antico

particolarmente in Isaia e in Geremia. Quest'ultimo dice :

Testa­ «

Ecco,

verranno giorni - oracolo del Signore - nei quali con la casa di Israele io concluderò una nuova alleanza. Non come l'alleanza che conclusi con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d'Egitto, alleanza che essi violarono, benché io fossi loro signore - oracolo del Signore -. Questa sarà l'alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni - oracolo del Signore -. Porrò la mia legge nel loro intimo, la scriverò sul loro cuore ; sarò loro Dio ed essi il mio popolo. Uno non dovrà piu stimolare un altro, né uno dire al fratello : " Riconosci il Signore !" perché tutti mi riconosceranno, dal piu piccolo fra di essi al piu grande - oracolo del Signore ; - poiché io perdonerò la loro ini­ quità, non mi ricorderò piu del loro peccato. Cosi dice il Signore che ha dato

il

sole come luce del giorno, la luna e le stelle come luce della notte.

Egli solleva il mare cosi che le sue onde mugghiano ; Jahvè degli eserciti

§ 18 1. LA PARTECIPAZIONE

AL

REGNO DI DIO COME VITA NUOVA

25

è il suo nome : " Qualora vengano meno queste leggi dinanzi a me - ora­

colo del Signore - allora anche la progenie di Israele cesserà di essere un popolo davanti a me per sempre ". Cosi dice il Signore : " Se è pos­ sibile misurare i cieli di sopra e scrutare le basi della terra di sotto, anch'io rigetterò tutta la progenie di Israele per tutto ciò che ha commesso ". Oracolo del Signore. Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore - nei quali sarà riedificata questa città del Signore dalla torre di Khananael fino alla pona dell'Angolo. La corda per misurare sarà ancora tirata sempre diritto di là fino alla collina di Gareb, volgendo poi verso Goat. Tutta la valle, i cadaveri, le ceneri e tutti i campi fino al torrente Cedron, fino all'angolo della porta dei Cavalli a oriente, saranno consacrati al Si­ gnore ; non saranno piu sconvolti né distrutti in eterno » (Ger. 3 1, 3 1 -40 ; cfr. Ez. 36, 26). Isaia attesa :

« Ecco io faccio cosa nuova ! » (43, 19).

Secondo Gioele lo Spirito che sarà riversato in grande abbondanza sugli uomini, creerà una nuova stirpe (3, I

=

2, 28 Settanta). L'umanità nuova

potrà cantare un cantico nuovo.

b)

Quanto l'Antico Testamento aveva profetizzato, ebbe il compi­

mento secondo la

Gesti Egli

stesso è l' U amo

testimonianza neotestamentaria, in Cristo nuovo, per mezzo del quale l'umanità ha il

suo novello

principio storico. Per l'importanza universale di Cristo l'umanità tutta fu radicalmente rinnovata. Per mezzo di lui raggiunse la sua imperitura fre­ schezza e forza giovanile. Questo stato di cose fu da Cristo simboleggiato con l'espressione del vino nuovo (Mt. 9, 1 7 e paralleli). Lagrange pensa che queste parole del Signore siano la base per tutta la dottrina di Paolo riguardante la nuova vita (Commento a Mc. 2, 22). Nella medesima direttiva stanno le espres­ sioni di Cristo riguardanti il Nuovo Patto (ad es. Mt. 26, 28). Cfr. zeghy,

Nuova Creatura.

Z. Al­

La nozione della grazia nei commenti medievali

di S. Paolo, 1956. Con maggior enfasi Paolo asserisce che l'umanità fu con Cristo trasfor­ mata in un uomo nuovo. L'opera di Cristo è una novella creazione (2 Cor. 5, 1 7 ; Ef. 2, 10. 1 5 ; 4, 24; Gal. 6, 1 5 ; Col. 3, 3). Per Cristo l'umanità, liberata finalmente dalla profanazione del peccato, è divenuta una realtà nuova. Il rinnovellamento attuatosi con Cristo trascende la stessa storia umana (Gal. 6,

1) e ha un'importanza cosmica. Il credente

mediante la fede in Cristo prende parte a tutta questa trasformazione universale, a questo capolavoro dello Spirito divino, e diviene egli stesso

ai Corinti Paolo scrive (5, 1 7 ) : « Di modo che se uno è in Cristo, è una nuova creatura; il vecchio è

un uomo nuovo. Nella seconda epistola

P. II.

-

LA GRAZIA

scomparso, ecco è sorto il nuovo ». Tale uomo ha uno spmto nuovo (Rom. 7, 6), è liberato dalla profanazione della colpa. Non si deve rattristare vedendo che il suo uomo esteriore va disfacendosi, poiché di giorno in giorno il suo interiore si rinnova (2 Cor. 4, r6). Quest'uomo nuovo reca in sé l'immagine del Creatore, anzi è proprio in questo rispecchiare e in questo riprodurre in sé medesimo Dio, che consiste la sua novità di vita. Tuttavia il suo stato finale, definitivo si attuerà soltanto dopo che sarà terminato il corso attuale della storia umana sulla terra (Col. 3, 3). Perciò le parole paoline hanno anche un significato escatologico. Pro­ vengono dalla terminologia apocalittica dei Giudei e servono all'Apostolo per caratterizzare l'opera di Cristo. Questo stato finale è quello che aveva in mente Giovanni quando faceva dire a Cristo : Ecco io creo rutto nuovo (Apoc. 2 1 , 5). L'umanità rinno­ vellata appartenente a questo nuovo e6ne, canterà un cantico novello (5, 9 ; 14, 3). Chiunque vi apparterrà, riceverà un nome nuovo (2, 1 7 ; 3 , 1 2) e abiterà nella Gerusalemme nuova (3, I 2 i 2 1 , 2).

2. Per l'epoca patristica sarà sufficiente ascoltare queste poche voci. Clemente d'Alessandria cosi dice : « L'intero Cristo, per dire cosi� non si divide; non vi è né barbaro né giudeo, né greco, non vi è né maschio né femmina, ma un uomo nuovo trasformato dal santo Spirito di Dio >> (Protrepticus, c. I I ; cfr. Strom., I , 79). Simile l'espressione di Massimo il Confessore quando parla di : « Rivestire tutto l'uomo nuovo, che dallo Spirito Santo è creato ad immagine di Dio » (Capìtula theologica et oeco­ nomica, cent. 2, cap. 27 ; PG. 90, I I 37). Cirillo Alessandrino afferma che gli uomini sviati rinvengono la via che conduce al Padre celeste solo quando si riuniscono in un unico corpo all'uomo nuovo, di cui Cristo è il capo (ad es. In Ps. 45, I ] ; PG. 69, 1945 ; In Is.; PG. 70, 106 5 ; In lo.; PG. 74, 69). Il mistero di quest'uomo nuovo è per lui lo stesso mistero di Cristo. L'uomo rinnovellato sotto l'influsso vivificante dello Spirito Santo si sviluppa sino ad una forma la cui pienezza sta nascosta nel mistero di Dio (cfr. H. de Lubac, Cattolicismo, trad. ital. 1948, p. 27-29). -

II. - LA NOVITÀ COME VITA NUOVA. La novità qui in discussione è una novità di vita. La salvezza nel regno di Dio è la salvezza dalla morte e la vocazione alla vita eterna (Atti I I , r 8 ; 13, 46. 48). Vedremo in seguito come questa nuova vita si ottiene con una generazione da parte di Dio e con una rinascita da parte dell'uomo.

§ 1 8 1 . LA PARTECIPAZIONE AL REGNO DI DIO COME VITA NUOVA

27

l. L'uomo raggiunge una nuova vita di perpetua giovinezza fiorente quando partecipa alla vita glorificata di Cristo. È qui che ha completo appagamento quella brama di vita che è indistruttibile in ogni esistenza umana. Il Cristo glorificato è la risposta alla brama di vita, esistente in ogni uomo di ogni tempo. Nella letteratura contemporanea tale brama fu espressa in modo potente da Nietzsche. Il suo grido verso la vita non si è spento, ma è continuato dalla fine del secolo XIX all'attuale secolo xx in un inaudito attivismo che si esplica in ogni campo, sia esso politico, eco­ nomico, artistico, filosofico o religioso. E spesso lo spirito fu reputato un nemico irriducibile della vita (Klages). Nella odierna filosofia esistenzialistica si è ritornati all'antico concetto, proprio della rivelazione e dell'esperienza, che la vita umana è di con­ tinuo minacciata dalla morte, che il suo è un essere votato alla morte. E realmente anche la vita piu alta e attiva non può sottrarsi dalla convin­ zione che il suo essere va incessantemente incontro alla morte e che la morte non è solo l'atto finale della vita, bensi una potenza che la permea e l'informa tutta quanta. Media vita in morte sumus. Anche quando noi, ritraendo lo sguardo dalla vita singola, lo rivolgiamo a quella della stirpe, della natura o della famiglia per trovarvi un rifugio, ci accorgiamo che anche li si annida la stessa caducità. Disse un giorno Gregorio Magno : « La vita temporanea in confronto della vita eterna si può chiamare morte piu che vita! Anche se la nostra dissoluzione viene rimandata da un giorno all'altro, che è mai questo se non un morire protratto piu a lungo? » (Homilia 37; PL. 76, I275). E con tale esperienza si armonizza la descri­ zione della vita terrestre che ci presenta la Sacra Scrittura. Certo, anche questa vita proviene da Dio ed è un dono impareggiabile ; però la sua forma attuale caduca e misera non è che una conseguenza del peccato. La vita degli esseri immersi nella colpa, per la sua debolezza, la sua im­ potenza e la sua peribilità piu che vita può ben chiamarsi morte. Non è vita vera e reale, ma piuttosto parvenza di vita. Gli uomini, lasciati nel loro essere terreno, sono piu ombre che uomini veraci (Mt. 8, 22; Le. I 5, 24. 32 ; Col. 2, 1 3 ; Ef. 2, I ; 5, 1 4 ; I Tim. 5, 6 ; Apoc. 3, I). -

2. Ma al contrario Dio è la vera vita, egli è la stessa vita (§ 77). È vita eterna, in quanto la sua vita non solo è imperitura, non ha prin­ cipio né fine, ma è vita piena, perfettissima, di assoluta indefettibilità e pertanto infinita. Perciò la vita divina è di ben altra qualità di quella umana. Dio è vita in quanto lui è luce ed amore ( I Gv. 1, 5 ; 4, 16). -

P. II.

-

LA GRAZIA

3. - La vita di Dio, anche se apparsa in forma occulta, s1 rmviene in Cristo per cui l'uomo la può vedere ed accogliere in sé ( I Gv. I, 2 ; Gv. I, I4). Cristo al pari di tutti gli altri uomini ebbe pure un corpo mortale, poiché il Figlio di Dio si è abbassato in modo da assumere la debolezza della nostra carne ( I Piet. 4, I 5 ; Rom. 8, 3 ; Fil. 2, 7). Ma proprio morendo ha sconfitto la morte ed è divenuto principio di una vita indistruttibile e imperitura. Nella morte la sua natura mortale e peritura si è trasmutata in modo da essere capace d'accogliere in sé la gloria e la potenza della vita divina. La frase che, secondo Giovanni, Cristo disse di sé : Io sono la vita, la vita vera e propria (Gv. 14, 6) acquista pieno senso solo a partire dalla risurrezione. È da quel momento che è sorto l'uomo nuovo nel suo senso piu perfetto. Da quell'istante la vita e l'immortalità sono rifulsi d'insolito splendore (2 Tim. I , 1 0). Si cfr. § 152 e il trattato sui Novissimi. 4. - Ma la vita di Cristo è inscindibile dalla vita dell' umanità (dr. §§ I04 e 1 54). Cristo non è forse il caoo di tutto il creato? La sua vita non deve forse divenire la vita di tutti? Egli è l'apportatore della nuova vita attuatasi nella risurrezione (Atti 3, 1 5 ; Ebr. 2, 10). Per questo egli è venuto nel mondo, perché tutti abbiano vita e la possiedano abbondan­ temente (Gv. 3, 5 ; Io, Io). Non solo a se stesso ascrive la vita, ma anche a tutti coloro che gli sono uniti : Io vivo e voi vivete (Gv. 14, 3 1). Perciò tutto l'evangelo giovanneo è un evangelo di vita (20, 3 I). Il messaggio di Gesu Cristo è, secondo Paolo, la parola della vita (3, 3 s. ; Fil. 2, I6), per cui gli uomini che l'accolgono raggiungono la salvezza, mentre si perdono coloro che lo rifiutano. Cfr. i paragrafi seguenti. È per la partecipazione del credente alla morte e alla risurrezione di Cristo che, secondo S. Paolo, si ottiene la nuova vita in Dio. Ed è una vita nello Spirito. Non si tratta di una semplice prosecuzione della vita terrestre : tutto ciò che è terreno e inerente al presente mondo passa con esso. Ma è una vita plasmata dallo Spirito Santo, una vita gloriosa, una vita che partecipa alla vita stessa di Dio (cfr. Mt. 5, 3-I o ; 25, 34· 46 ; Mc. 1 2, 25). È mediante la fede e i sacramenti della fede che possiamo accogliere questa nuova vita. Coloro che accettano Cristo nella fede e nei sacramenti sono afferrati da lui e introdotti nella sua vita gloriosa (Gv. 3, I 5 s.; Rom. 3, I ss. ; 6, I ss.). Sono passati da morte a vita. Vita questa che è salvezza e scampo, proprio perché partecipazione alla sicurezza di esi­ stenza e alla pienezza di vita del Padre celeste. Chi non vi ha parte ri-

§

I 8 I . LA PARTECIPAZIONE AL REGNO DI DIO COME VITA NUOVA

29

mane nella morte, perché ignora la vera vita. Chiunque non crede in Cristo è un perduto, che rimane sotto l'ira di Dio, che non perviene alla luce ma si indurisce nelle tenebre e in una vita che è solo parvenza di vita (Gv. 3, 36 ; 5, 24 ; 6, 40. 47; I I, 25 s. ; 20, 3 I ). Vedere Fr. Mussner, ZQH. Die Anschauung vom « Leben » in vierten Evangelium, I 952. 5. - Gli scritti dei Padri apostolici sono permeati dal giubilo di chi si sente, per mezzo di Cristo Gesu, trasferito dalla morte e dalla caducità alla vita della giovinezza eterna. Essi quindi parlano di una « novità » , di un ringiovanimento della vita umana. Anche s e lo svelamento e l'espe­ rienza sensibile di questa vita si potrà avere chiaramente solo nell'eone futuro, essa tuttavia è già fin d'ora presente in noi con una tale potenza che trascende la vita terrena votata alla morte. Ed è proprio nella morte di Cristo che si è generata questa vita verace. Ce ne assicura Ignazio d'Antiochia, proprio quando egli vedeva vicina la morte di questa nostra vita presente (Eph., 7, 2). Nel sangue di Cristo siamo pervenuti alla vita dell'eone futuro che piu non teme la morte, anzi è proprio nella morte che essa dispiega la sua potenza e il suo massimo splendore (Eph., I, I ; 3, 2 ; 2, 2 ; Magn., I , 2 ; 9, 2; 5, 1 ss. ; si veda similmente il Pastor Hermae, precetti 8, 4, 9 ; parabole 9, 28; 6 ; visioni 4, 3, 5 ; Didaché, 9, 2 ; Ep. Barnabae, I9, 8). I cristiani secondo le testimonianze patristiche, si sen­ tono dei viventi. E che cosa mai possono avere in comune i viventi con i morti? (II Clem., 3, I ; 20, 5 ; 3, r ) . Bultmann, anzi, pensa che il nome « vivente » fosse in antico un'altra denominazione del cristiano (Kittel, ThWNT, II, 838) .

6. - Perciò il ministero della Chiesa a vantaggio del regno di Dio è un ministero di vita. Tutto quanto essa fa, predicazione della parola, ammi­ nistrazione dei sacramenti, tutti i precetti e i comandi, la preghiera e l'obbedienza servono per la vita eterna. Ogni azione della Chiesa non mira a sminuire o a restringere la vera vita, ma a farla fiorire nella sua pienezza. Come Cristo dovette morire sulla croce per liberarsi dalla vita peritura e cosi pervenire alla vita immortale e gloriosa di Dio, cosi il cristiano deve passare attraverso la morte e i suoi precursori, cioè i do­ lori e le sofferenze, per potersi trasmutare e accogliere la vita gloriosa che Cristo gli riversa in grembo. La Bibbia ci garantisce questa funzione ministeriale della Chiesa appor­ tatrice di vita e di giovinezza perenne quando la chiama la Chiesa del­ l'Iddio vivente. È in essa che scorre il fiume dell'acqua viva sgorgato da

P. II.

-

LA GRAZIA

Dio, sorgente di vita (Ger. 2, I 3), e che in lui nuovamente sfocia (Apoc. 22, I). Nella Chiesa, quindi, i singoli uomini e il mondo intero ritrovano la vita eterna. « Tutto ciò che essa abbraccia riceve da lei la vita : l'uma­ nità, le nazioni, i singoli individui, le loro relazioni matrimoniali e fa­ miliari. E anche le cose di questo mondo : l'acqua diviene in lei un'acqua viva (Gv. 4, Io) nel battesimo; il pane diviene in lei pane vivo nell'euca­ ristia (Gv. 6, 5 r . 58). Similmente il vino e l'olio trasmettono e apportano la vita eterna e la sua energia santificante » (J. Pinsk, Aus Gott geboren, in lch lebe und ihr lebet, 10). La liturgia, nella quale il popolo di Dio si manifesta nel modo piu evidente come la comunità di Cristo e sviluppa la vita celeste, proclama in modi svariati il messaggio della vita. Nelle sue azioni liturgiche la Chiesa si afferma come la dispensatrice di vita. Si osservi, ad esempio, la liturgia della Messa, la benedizione dell'acqua battesimale, il conferi­ mento dei sacramenti e in modo particolare il rito battesimale. Quando la liturgia parla di vita, e di giovinezza perenne è della vita soprannatu­ rale che essa parla, della vita eterna, celeste, sicché anche un vecchio può con tutta verità pronunciare questi passi senza sentirsi urtato (cfr. ad esempio la preghiera ai piedi dell'altare nella liturgia della Messa). 7 . - La nuova vita imperitura cb e per mezzo di Cristo fu resa accessi­ bile ai singoli uomini dev'essere studiata nei suoi singoli elementi, che sono di due specie. Essa abbraccia un elemento personale e uno reale, ed entrambi hanno diversi aspetti. L'elemento personale (che può carat­ terizzarsi come « incontro ») è e unione a Cristo e comunione con il Padre celeste, e questa comunione, a sua volta si presenta o come figlio­ lanza o come amicizia con Dio. L'elemento reale (che può caratterizzarsi come « qualità » ) include la liberazione dal peccato (giustificazione) e l'interiore rinnovamento e santificazione dell'uomo (grazia santificante) : rassomiglianza a Cristo. Siccome la vita divina nell'uomo non è adegua­ tamente identica alla grazia santificante, ne deriva che questa si può con­ siderare solo come un parziale elemento di quella pienezza meravigliosa. Non si potrebbe quindi sostituire il termine « vita divina » semplicemente con quello di irito Santo una presenza particolare, la teologia occidentale la spiega come pura appropriazione (cfr. § 5 1 ). I Padri greci al contrario concepiscono l'ina­ bitazione di Dio piuttosto come un avvenimento continuo in cui le per­ sone invianti fondano l'esistenza delle inviate e le persone producenti inviano le prodotte. Dio è e rimane presente, in quanto di continuo si rende presente, in quanto cioè il Padre invia il Figlio e Figlio e Padre inviano lo Spirito Santo.

3.

La presenza di Dio nella persona in stato di grazia come la Bibbia ce l'attesta fa sorgere il problema della sua differenziazione dalla presenza -

§ 18 3 .

' L UNIONE A CRISTO

È

PARTECIPAZIONE ALLA VITA TRINITARIA

75

divina in virtu della sua ubiquità (cfr. § 71). Essa realizza nell'uomo un rapporto di diversa qualità, che viene variamente spiegato dai teologi. Ecco come si può spiegare seguendo il pensiero di S. Tommaso d'Aquino (cfr. §§ 44, 50, 168). Secondo le affermazioni sia bibliche che patristiche noi per mezzo del Figlio presente nello Spirito Santo, siamo introdotti al cospetto del Padre (cfr. Ef. 2, 1 8). Lo Spirito Santo, come vedremo, è dedizione amorosa al Padre e al Figlio, è movimento amoroso verso il Padre e il Figlio. Chiunque entra in comunione con esso è quindi introdotto in questa corrente di amore, si trova cioè in perenne movimento verso il Padre e il Figlio. Di quale potenza sia questo movimento ne possiamo avere un sentore quando si pensi che ogni atto terrestre non è altro che risonanza di esso. Come l'atto che produce lo Spirito Santo parte dal Padre per sfociare attraverso il Figlio nella terza persona della Trinità, cosi il movimento di ritorno iniziandosi dallo Spirito Santo attra­ verso il Figlio raggiunge il Padre. Cosi il circolo si chiude. Quando il battezzato è introdotto nel torrente dell'amore che è lo Spirito Santo, allora viene attratto verso il Figlio e da questi verso il Padre, dato che il Figlio stesso non è altro che la tendenza personale continua verso la per­ sona che lo produce. Ed è tendenza personale verso il Padre solo in modo diverso da quello dello Spirito Santo. Lo Spirito lo è nella forma del­ l'amore raggiante dalla luce della conoscenza, il Figlio nella forma della conoscenza rilucente nell'amore. Il Figlio infatti è il Verbo in cui si ferma il colloquio del Padre; ed è nello stesso tempo la risposta personale, il movimento di risposta. L'uomo in stato di grazia è introdotto lui pure in questo movimento di risposta. Proprio perché è dominato dallo Spirito Santo è ricollegato con la natura umana di Cristo e ne diviene un membro. Ma la natura umana esiste solo in forza del Figlio di Dio, del secondo Io personale divino. Come già prima della risurrezione era sostenuta nel­ l'esistenza dal Logos divino, cosi dopo la risurrezione esiste nella gloria del Figlio di Dio che la pervade di irradiante splendore. Essa è stata intro­ dotta nella gloria e nel ritmo vitale del Figlio di Dio. Il battezzato, che è stato immesso nel torrente d'amore che è lo Spirito Santo e per mezzo suo è stato introdotto nella gloria del Cristo glorioso, resta pure avvolto dal movimento che dal Figlio glorificato risale al Padre. Egli per mezzo del Figlio è introdotto al cospetto di Dio Padre. Ma anche qui questo torrente non rinviene la sua quiete. Il Padre è pure lui movimento verso il Figlio e al di là del Figlio verso lo Spirito Santo. Perciò chiunque è stato accolto dal Padre viene immesso in questo movimento che è lo stesso Padre. In tal modo chi è in grazia compie con le tre persone divine

P. Il.

-

LA GRAZIA

il processo della vita interiore di Dio. Egli ha parte in modo reale e vivente allo scambio vitale delle tre persone divine. Ci ritroviamo qui ancora una volta di fronte al fatto piu volte ricordato che lo stato cri­ stiano non è affatto alcunché di statico, di inerte e quieto, ma in continuo movimento, rimanendo, d'altra parte, pur sempre nella pace e nella sicu­ rezza della pienezza e della stabilità della vita divina. Cosi la vita terrena si presenta come via verso la patria. L'uomo in grazia è un viatore. IV. - LA PARTECIPAZIONE ALLA VITA DI DIO COME GERME DELLA VITA CELESTE.

Tale processo, tuttavia, non si può in via ordinaria né vedere né spe­ rimentare. Ne conosciamo l'esistenza per fede, non per visione. Ma la nostra partecipazione alla tripersonale vita di Dio tende al progredire nel nostro spirito. La presenza nell'uomo in stato di grazia dell'Iddio triper­ sonale rende possibile una nuova conoscenza, un nuovo amore, un nuovo gusto di Dio. Tuttavia durante il pellegrinaggio terrestre questa possibilità non può attuarsi in modo perfetto. Si realizza imperfettamente nella fede e nella conoscenza della fede come pure nell'amore a Dio. La fede con la quale assentiamo a Dio e l'amore che portiamo a lui sono tali che in essi si esprime e si riflette la partecipazione alla vita di Dio medesimo, cioè al suo atto fecondo di conoscenza e di amore, senza però che noi abbiamo o possiamo avere coscienza sia dell'attività di Dio in noi, sia della qualità divina della nostra fede e del nostro amore. Cosi la fede e l'amore sono un mistero dato che in essi si esprime e si riflette la vita divina, e vengono quindi a possedere una profondità incommensurabile. Si può fare ancora un altro passo. In ognj sua conoscenza e in ogni sua parola di verità l'uomo santificato parla insieme col Padre al Figlio, ascolta e risponde insieme con il Figlio al Padre. Egli si trova in perenne comunione di parola con il Padre e in comunione di ascolto e di risposta con il Figlio. Similmente si trova pure in comunione di amore creatore con lo Spirito Santo. La conoscenza e l'amore puramente naturali non possiedono una tale profondità interiore. Essi sono solo una partecipazione all'essere spirituale di Dio, ma non al suo scambio vitale, perciò in essi vi è un riflesso di Dio minore di quello che si attua nella conoscenza e nel­ l'amore di chi è in stato di grazia. Questi ultimi sono piu ricchi e piu grandi penetrando essi piu a fondo nell'interiorità di Dio. Per quanto la cono­ scenza e l'amore naturali, in virtu della loro partecipazione all'essere divino, siano pur sempre d'una incomprensibile nobiltà e grandezza, essi

§ 1 83. L'UNIONE A CRISTO È PARTECIPAZIONE ALLA VITA TRINITARIA

77

sono tuttavia qualcosa di povero e di oscuro di fronte alla dignità e alla eccellenza del conoscere e dell'amore che si ha nell'uomo santificato. Il completo dispiegamento della loro potenza si avrà solo nello stato glorioso del cielo. Durante la vita del pellegrinaggio terreno vi germinalmente ciò che allora si dispiegherà in tutto

il

è solo

suo fulgore. Si può

quindi indicare la conoscenza e l'amore dell'uomo in stato di grazia come quella conoscenza e quell'amore che sfoceranno nella visione di Dio. ll rapporto tra le due situazioni si può paragonare a quello intercorrente tra la ghianda e la quercia, tra il bruco e la farfalla. Perciò l'uomo in stato di grazia, già durante

il

suo pellegrinaggio, si trova in un certo senso già

in cielo. Una forma intermedia ci questa situazione

è data dallo stato mistico. Tuttavia anche è piu ricollegata allo stato germinale che non a quello

dell'esistenza perfetta nella gloria celeste.

V.

Durante l'epoca

-

patristica

DOTTRINA DEI PADRI.

Ireneo ed Origene furono coloro che meglio

degli altri descrissero la nostra partecipazione alla tripersonale vita di Dio, e precisamente nel senso che noi nello Spirito Santo e per mezzo Cristo siamo condotti al cospetto

di di Dio. I tre grandi Cappadoci, Ata­

nasio, soprattutto Cirillo di Alessandria e, sintetizzando tutti, Giovanni Damasceno, hanno meglio sviluppata la dottrina origeniana. ar. i passi nei

§§ s8-6o.

Ecco alcune citazioni. Atanasio (Contra Arianos, III, 24) : c Per la grazia dello Spirito, che ci è data, e noi siamo in lui e lui in noi... Fatti partecipi dello Spirito, veniamo uniti alla stessa divinità e perciò non dobbiamo a noi stessi il fatto di essere nel Padre ma bensi allo Spirito, che è e rimane in noi >. Cirillo di Gerusalemme scrive nella sua Catechesi, 17, n. 14 : « Lo Spirito Santo discese per rivestire della sua virtù e battezzare gli Apostoli : " Voi sarete battez­ zati nello Spirito Santo di qui a non molti giorni " (Atti 1, 5), non da una parte di grazia dimezzata, ma da un potere infinito, perfetto. Come il battezzando, che scende nella vasca battesimale, viene immerso e lavato in rutto il corpo per l'acqua che l'investe da ogni parte, cosi fu degli Apostoli battezzati e lavati dallo Spirito Santo. Ma l'acqua si ferma alla pelle del corpo, pur investendolo tutto, mentre lo Spirito penetra nell'anima, in ogni sua piega e la lava da ogni macchia. Perché meravigliarci? Ascolta questa similitudine, piccola e troppo piana, se vuoi, ma che può essere compresa anche dai piu umili e semplici. Se il fuoco penetra lo spessore del ferro e lo arroventa e lo accende, comunicandogli le sue stesse pro­ prietà, di modo che il metallo da freddo che era diventa incandescente, da nero diventa rosso e sprizza scintille luminose; se, dico, il fuoco che è un corpo mate­ riale permea e investe cosi il ferro senza che nessun ostacolo glielo impedisca,

P. H.

-

LA GRAZIA

che meraviglia se lo Spirito Santo entra nei penetrali piu nascosti dell'anima? ». Nella Catechesi, 16, n. 12, commentando Gv. 4, 14, elice : « Per quale motivo lo Spirito Santo chiama la grazia " acqua "? Perché ogni cosa sussiste per l'acqua; perché l'acqua delle nubi discende dal cielo; perché, pure scorrendo sempre uguale e uniforme, produce effeni multiformi. Un'unica fonte irriga tutto un giar­ dino; un'unica nube discende su tutta la terra e quasi si trasforma in giglio can­ dido, in rosa rubiconda, in viole, in giacinti purpurei ed in altre diverse varietà secondo la varietà delle cose. Ora si trasforma quasi in vite, ora in palma o in cento altre piante, pur avendo un'unica forma. Non si trasforma discendendo con proprietà diverse; ma adattandosi alla natura degli esseri che la ricevono, dà a ciascuna ciò che le è chiesto. Allo stesso modo anche lo Spirito Santo, pur essendo uno di un'unica natura indivisibile, dà a ciascuno la sua grazia secondo che gli piace ». Ambrogio scrive : « Noi siamo sigillati da Dio con lo Spirito Santo. Come moriamo in Cristo per rina.c;cere a nuova vita, cosi s.iamo suggeliati con lo Spirito per poter noi portare il suo fulgente splendore, la sua immagine e la sua grazia. Si tratta naturalmente di un suggello spirituale. Poiché mentre noi siamo visibil­ mente uniti nel corpo, noi siamo veracemente segnati nel cuore, affinché lo Spirito Santo esprima in noi l'immagine dell'effigie cdeste » (De Spiritu S�UICCO, 6; PL. 16, 752). Cirillo di Alessandria dice : « I santi non ottengono la partecipazione di Dio, se non per mezzo dello Spirito S anto... Non diciamo noi forse che l'uomo è stato creato sulla terra ad immagine di D io?... Ma chi imprime questa immagine divina e la fa rifulgere col suggello di una beltà supercosmica, è solo lo Spirito Santo ... L'uomo sin dall'inizio fu creato come essere vivente, in quanto Dio lo plasmò e, secondo la Bibbia, lo onorò in modo da mettervi mano lui stesso. Fu poi fatto a somiglianza di Dio in quanto dopo esser stato creato, Dio alitò in lui lo spirito di vita (Gen. 2, 7). Dopo aver persa la santità per aver compiuto il male, fu di nuovo ricondotto alla primitiva e originaria beltà quando Cristo ha ringiovanito quella forma spirituale e divina ormai invecchiata... Egli stesso inviò lo Spirito Santo nelle anime dei credenti e in lui e per mezzo di lui ricondusse l'uomo alla primitiva forma, ossia a se stesso, alla somiglianza sua per mezzo della santità, e in tal modo riporrò l'uomo all'archetipo dell'immagine che è il Padre. Poiché la vera e piu precisa immagine dei Padre è lo stesso Figlio e la piu naturale e alta immagine del Figlio è lo Spirito Santo, quando noi siamo configurati a lui me­ diante la santificazionc, diveniamo conformi anche a Dio... Cosi siamo chiamati e siamo in realtà tempio di Dio, anzi persino dèi. Noi siamo infatti il tempio dello Spirito esistente e personale; siamo parimenti dèi, perché per l'unione con lui diveniamo partecipi alla divina ... natura. Per questo Cristo dice dell'uomo credente e buono : Verremo, io e il Padre, e porremo la nostra dimora in lui » (De Trinitate, Dia!. VII). Nella stessa opera (Dia!. VI) Cirillo scrive : « Cristo, benché come Dio sia essenzialmente santo, come uomo è stato santificato come uno di noi, in quanto egli col suo proprio Spirito consacrò il suo stesso tempio (natura umana). Ma perché altrove si dice che è il Padre che l'ha santificato? Perché tutto viene fatto dal Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo ». Fulgenzio di Ruspe dice : « Questa costruzione spirituale del Corpo di Cristo, che si fa nella carità, in nessun momento la domandiamo con maggior opportunità

§ 1 83 .

' L UNIONE A CRISTO

È

PARTECIPAZIONE ALLA VITA TRINITARIA

79

di quando, per mezzo del Corpo stesso di Cristo, che è la Chiesa, è offerto nel sacramento del pane e del calice il corpo stesso e il sangue di Cristo. " Poiché il calice che beviamo è la comunicazione del sangue di Cristo, e il pane che spez­ ziamo è la partecipazione del corpo del Signore; perché vi è un solo pane, noi formiamo un solo corpo pur essendo molti, noi che partecipiamo tutti a questo unico pane ". E per questo preghiamo, affinché, per la stessa grazia in virtu della quale la Chiesa è divenuta il Corpo di Cristo, tutte le membra perseverino, restando solido il cimento della carità, nell'unità di questo Corpo. È a giusto titolo che domandiamo che ciò sia fatto in noi per il dono di quello Spirito, che è l'unico Spirito e del Padre e del Figliuolo : poiché la santa e natu­ rale unità, uguaglianza e carità della Trinità, che è l'unico e solo vero Dio, san­ tifica quelli che adotta per mezzo dell'unanimità. In questa unica sostanza della Trinità, l'unità è nell'origine l'uguaglianza nella filiazione, e l'unione dell'unità e dell'uguaglianza nella carità. Nessuna divisione di questa unità, nessuna diversità di questa uguaglianza, nessun disgusto ài questa carità. Non vi è ìa minima discor­ danza, poiché l'uguaglianza cara e una, l'unità uguale e cara, e la carità una ed uguale, perseverano naturalmente e immutabilmente. È per questa comunione del Santo Spirito, se cosi si può dire, che è dimostrata l'unica carità del Padre e del Figlio. .. Cosi l'Apostolo dice : " La carità di Dio è stata diffusa nei vostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato ". Difatti, lo Spirito unico del Padre e del Figlio opera, in coloro a cui conferisce la grazia della adozione divina, ciò che ha operato già in coloro di cui ci parla il libro degli Atti : " La moltitudine dei credenti aveva un cuore solo e un'anima sola ". Un cuore solo e un'anima sola : ecco ciò che aveva fatto di questa folla colui che è L'unico Spirito del Padre e del Figlio, e che è con il Padre e il Figlio un solo Dio. Cosi l'Apostolo dice che qnesta unità spirituale sia conservata con cura nel vin­ colo della pace : " Ve ne prego, io, prigioniero del Signore, scrive agli Efesini, abbiate una condotta degna della vocazione a cui siete stati chiamati, con tutta wniltà e dolcezza, sopportandovi pazientemente gli uni gli altri con carità, sforzan­ dovi di conservare l'unità dello spirito con il vincolo della pace. Non c'è che un solo corpo e un solo Spirito ". Perdono questo Spirito ritirandosi, coloro che, nella loro depravazione o il loro orgoglio, la rompono con l'unità del corpo della Chiesa. L'apostolo Giuda lo mostra bene quando dice : Si separino quelli che sono psichici e non hann o lo Spirito ". Paolo diceva anche : " L'uomo psichico non percepisce le cose dello Spirito di Dio ". Tali uomini sono preda della divi­ sione, perché non hanno lo spirito solo nel quale le membra del Cristo conservano spiritualmente la cara unità. Dio si compiace solo dei sacrifici della Chiesa : sacrifici che gli offre l'unità spirituale. Qui la verità della fede non crede a nessuna distanza nell'interno della Trinità, e la tenacità della pace conserva nella carità una concordia fraterna » (Ad Monimum, 1, Il, c. u ; PL. 65, 190-191). In un altro posto scrive : « Riconosci ciò di cui si tratta nell'offerta del sacrificio, e comprenderai perché vi si implori la venuta dello Spirito Santo . ... Il sacrificio è offerto, secondo l'insegnamento di Paolo perché la morte del Signore sia annun­ ciata, e riviva il ricordo di colui che dette la sua vita per noi. Dunque, Cristo essendo morto per noi per amore, quando, al momento del sacrificio, ricordiamo la sua morte, domandiamo che l'amore ci sia accordato con la venuta dello Spirito "

So

P. II.

-

LA GRAZIA

Santo. Domandiamo supplicando che, per l'amore stesso che ha spinto Cristo a essere crocefisso per noi, avendo ricevuto la grazia dello Spirito Santo, possiamo essere crocefissi al mondo e imitare la morte di nostro Signore per camminare in una vita rinnovata ... Cosi avviene che tutti i fedeli che amano Dio e il prossimo, anche se non bevono il calice d'una passione corporale, bevono tuttavia il calice della carità del Signore ... Poiché il calice del Signore carità

è bevuto finché la santa è conservata. Ma senza di essa non serve a niente dare il proprio corpo alle

fiamme. Ora, con

il

dono della carità, ci è conferito d'essere veramen te ciò che

celebriamo misticamente nel sacrificio. È ciò che l'Apostolo ci spiega, quando, dopo aver detto " S iamo un solo pane, un solo corpo ", aggiunge : " Noi tutti che partecipiamo a uno stesso pane ".

Per domandare questo nel tempo del sacrificio, abbiamo il salutarissimo esempio del nostro Salvatore, che ha voluto che domandassimo, commemorando la sua morte, quello stesso che egli, il vero Pontefice, ha domandato per noi nell'ora in cui andava a morire, quando dice : che

mi

"

Padre

sa mo,

conserva nei tuo nome quelli

hai dato, perché siano uno come noi ", e quando aggiunge poco dopo :

" Non lo domando soltanto per questi, ma per tutti quelli che crederanno in me per mezzo della loro parola; che tutti siano uno, come tu sei in

me,

Padre, e io

in te; che essi pure, siano uno in noi ... lo in essi, e tu in me, perché siano consu­ mati nell'unità ". Quando offriamo il corpo

e

il sangue di Cristo, domandiamo

dunque ciò che ha domandato per noi quando si è degnato di offrirsi per rtoi. Rileggi difatti il Vangelo, e uoverai che il nostro Reden tore, appena terminata quella preghiera, entra nel giardino, ove le mani degli Ebrei lo afferrarono ... Cosi ci ha mostrato chiaramente che ciò che dobbiamo domandare soprattutto durante il sacrificio, è ciò che egli, Pontefice supremo, si

è

degnato doman dare nel mo­

mento in cui istituiva la regola del sacrificio. Ora ciè che noi domandiamo - la nostra unità nel Padre e nel Figlio - lo riceviamo per mezzo dell'unità della grazia spirituale che il . beato Apostolo ci ordinò di conservare con cura, dicendo : " Sopportatevi gli uni gli altri nella carità, vegliate a conservare l'unità dello spirito nel vincolo della pace ". Dunque noi domandiamo che venga lo Spirito Santo, non secondo la sostanza della sua divinità senza limiti, ma secondo il dono d'una carità personale ... Lo Spirito Santo viene alla chiamata dei fedeli, quando si degna conferire, o aumentare il dono della carità e dell'unità. In questo ufficio

è soprattutto e, per

cosi dire, propriamente conosciuto lo Spirito Santo. .. Dunque la santa Chiesa, quando durante il sacrificio del corpo e del sangue di Cristo prega che lo Spirito Santo le sia inviato, allora domanda il dono della carità, che le permette di conser­ vare l'unità spirituale nel vincolo della pace. E poiché è scritto che " l'amore

è

forte come la morte ", per la mortificazione dei suoi membri terreni essa implora quella carità con la quale essa si ricorda che il suo Redentore è morto gratuita­ mente per essa. Lo Spirito Santo santifica dunque il sacrificio della Chiesa catto­ lica :

e per questo il popolo cristiano rimane nella fede e nella carità, perché

ciascun fedele, grazie al dono dello Spirito Santo, mangia e beve degnamente il corpo e il sangue del Signore, perché ha dal suo Dio una fede diritta, e con la sua condotta non abbandona l'unità del corpo ecclesiastico » (Contra Fabianum, fram­ mento 28; PL. 65, 789-791). Ireneo ha per primo sottolineato il carattere

escatologico

del possesso dello Spi-

§ 1 83 .

L'UNIONE A CRISTO È PARTECIPAZIONE ALLA VITA TRINITARIA

81

rito, in quanto egli lo mette in rapporto con l a risurrezione dei morti. I precedenti testi patristici - si pensi a Giustino, ad Atenagora, a Teofilo di Antiochia, al Mar­ tirio di Policarpo o al Pastore di Erma - ricordano le difficoltà opposte alla fede nella risurrezione. E solo di sfuggita vi si accenna all'attività che vi esplica lo Spirito Santo per formare il corpo risorto (cfr. il Martirio di Policarpo e il Pastore di Erma). Ireneo al contrario mostra, ricollegandosi a Rom. 8, I I, che lo Spirito Santo trasmuterà il corpo mortale in tal modo da renderlo partecipe della immor­ talità. Il possesso dello Spirito Santo tende cosi alla risurrezione dei morti, e questa presuppone tale possesso medesimo (Adv. haer., 5, 3, 2; 2, 2; 7, 2; 9, 4; 12, 4; 13, 4). Cfr. P. Nauùn, Je crois à l'Esprit Saint dans la sainre Eglise pour la résur­ rection de la chair. Etude sur l'histoire et la théologie du Symbole, Paris 1947. lppolito svolse ancor piu il pensiero di Ireneo.

Nella teologia posteriore colui che piu degli altri mise in risalto la vita della grazia come partecipazione al processo vitale della Trinità fu senza alcun dubbio S. Giovanni della Croce. VI. - RAPPORTO DELLA GRAZIA CON L' INABITAZIONE DI DIO.

La presenza dello Spirito Santo trasforma e rinnova l'uomo nel suo intimo eliminandone la lontananza da Dio e lo stato di peccato. L'io umano viene penetrato dallo ST)lendore della divina luce e dal fuoco divino dell'amore. L'elemento primo nella vita della grazia sembra perciò essere la novella relazione dell'uomo con l'Iddio tripersonale, non la sua trasfor­ mazione. È dalla presenza della triade augusta che sgorga il mutamento nella natura umana. Non è certo possibile scindere l'esistenza che la persona in stato di grazia ha nell'Iddio tripersonale e la mutazione della natura per mezzo della grazia santificante; però il primo elemento è piut­ tosto il principio che non la conseguenza del secondo. Come il sole illu­ mina e riscalda e non può fare altro che riscaldare e illuminare, cosi anche l'io umano viene illuminato e riscaldato dall'Iddio tripersonale che gli è presente. L'elemento personale è principio di quello reale. La Bibbia e i Padri inculcano infatti che la grazia santificante non è il fondamento, ma piuttosto la conseguenza della presenza tripersonale di Dio. Perciò si legge nella lettera ai Romani che, mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato, il divino amore è stato diffuso nei nostri cuori (Rom. 5, 5). Nella medesima linea ci conduce l'affermazione biblica che noi siamo giustifi­ cati nello Spirito o in Cristo ( r Cor. 6, I I ; Gal. 2, 1 7), che viviamo per lo Spirito (Gal. 2, 25), che Cristo è la vita nostra (Col. 3, 4 ; Fil. I, 21), che siamo figli di Dio per lo Spirito (Rom. 8, 14 s.), che viviamo perché Cristo dimora in noi (Rom. 8, 9-1 r). Per mezzo della morte e della risur-

P. II.

-

LA GRAZIA

rezione con Cristo, muore l'uomo vecchio e viene creato l'uomo nuovo (Rom. 6, 3-I I). Clemente di Alessandria cosi dice (Paedagogus, III, I) : « L'uomo in cui dimora il Logos, ha la forma del Logos, è simile a Dio, è bello, è la vera bellezza, perché è Dio e diventa Dio, perché vuole ciò che vuole Dio stesso... Questo mistero è chiaro : Dio è nell'uomo e l'uomo è Dio! ». In un altro passo (I, 5) cosi afferma : « Noi possediamo una giovinezza senza vecchiaia ... poiché tutto deve essere nuovo, dal momento che abbiamo parte al nuovo Logos. Chi poi partecipa all'eternità deve essere simile all'imperituro, sicché per noi il nome di età giovanile è una pri­ mavera di tutta vita, poiché la verità che è in noi è perennemente giovane ». Benché la presenza di Dio sia il principio della trasformazione soprannaturale dell'uomo, si può, tuttavia, anche dire che, in un certo senso ne è la conseguenza. Solo l'uomo illuminato e infiammato dalla luce e dall'amore divini è in grado di partecipare all'amore di Dio, a cui tende la presenza divina fondaia sulle missioni. Un uomo che non sia cosi mutato si troverebbe in presenza della vita tripersonale di Dio nelle medesime condizioni di un cieco di fronte a un quadro. La mutazione è quindi il presupposto dell'inabitazione di Dio. Si può anche dire, sotto un altro aspetto che essa ne è il principio in quanto le capacità soprannaturali di conoscere e di amare infuse da Dio nell'uomo tendono naturalmente a Dio. Quando egli accorda tali capacità deve pure donare sé medesimo altrimenti esse sarebbero un dono inutile non avendo l'oggetto a cui tendono per natura. Perciò l'inabitazione di Dio e la trasmurazione dell'uomo si condizionano a vicenda. Tuttavia va posto l'accento sulla inabitazione ossia su quella nuova relazione stabilita da Dio nel­ l'uomo in seguito alle divine missioni. Prendendo dimora nell'uomo, Dio lo plasma in modo da dargli la possibilità di aderire a lui mediante la nuova capacità di conoscere e d'amare. Perciò dobbiamo ora studiare le trasformazioni che si avverano nel­ l'uomo posto in nuovo rapporto sia con

il

Cristo che con l'Iddio triper­

sonale e introdotto al cospetto di Dio per mezzo del Cristo nello Spirito Santo. Vediamo anzitutto

la liberazione dal peccato.

§ 184. La partecipazione alla vita di Cristo come liberazione dal peccato. I. - GIUSTIZIA DI CRISTO E GIUSTIZIA DEL CRISTIANO.

Mediante la comunione con Cristo l'uomo partecipa alla sua giust1z1a e santità. Gesu Cristo

è infatti il mediatore per mezzo del quale Dio ha

liberato gli uomini dalla schiaviru del peccato, della morte e del demonio. Cristo quale plenipotenziario celeste ha definitivamente detronizzato que­ ste potenze nefaste. Egli che sino dall'inizio fu esente da questa schiaviru,

§ 1 84. LA COMUNIONE CON CRISTO COME LIBERAZIONE

DAL

83

PECCATO

per l'intera sua vita ha lavorato per eliminarla dal mondo e per ristabilirvi al contrario la signoria di Dio. Mediante la sua morte e risurrezione il regno di Dio è stato definitivamente ristabilito con la definitiva distru­ zione di Satana e dei suoi alleati. Quindi l'uomo che partecipa alla vita, alla morte e alla risurrezione di Cristo partecipa pure al regno di Dio instaurato da Cristo e alla sua decisiva vittoria su Satana, sulla tirannia del peccato e della morte. Egli in virtli della sua comunione con Cristo è sottratto alla loro tirannide. Normalmente tale liberazione si attua per l'uomo nel battesimo. È

proprio per questo che Tommaso d'Aquino cosi può scrivere del battesimo

(S. Th., III, q. 69, a. I) : « L'Apostolo dice (Rom. 6, 3) : " Tutti noi che siamo stati battezzati in Cristo, siamo stati battezzati nella sua morte " e ne deduce al v.

II

la conclusione : " Perciò dovete voi pure considerarvi tali da essere morti

al peccato, ma viventi solo in Cristo Gesu nostro Signore ". Si vede quindi come l'uomo mediante il battesimo muoia alla vetustà del peccato per iniziare la novella vita della grazia. Ogni peccato appartiene alla primitiva vetustà. Perciò ne segue che nel battesimo ogni peccato viene cancellato. Alla prima difficoltà si risponde che, come dice l'Apostolo in Rom. 5, 1 5 ss., il peccato di Adamo non

è

cosi potente come la grazia di Cristo ricevuta nel bat­

tesimo " poiché il giudizio parte da

un

delitto alla condanna, la grazia invece da

molte trasgressioni alla giustificazione ". Perciò anche Agostino dice : genera solo la carne, si contrae si ha non solo

il

Quando

il peccato originale; ma quando rigenera Io Spirito,

perdono del peccato originale, ma anche dei peccati attuali.

Alla seconda difficoltà. Nessun peccato può essere condonato se non in virtu della passione di Cristo; poiché secondo l'Epistola agli Ebrei 9,

22,

"

senza versa­

mento di sangue non vi è remissione ". Perciò lo sforzo umano non potrebbe pro­ curarsi il perdono delle colpe, se non

è

congiunto con la fede nella passione di

Cristo e con il proposito di partecipare ad essa o ricevendo il battesimo o sotto­ mettendosi al potere delle chiavi della Chiesa. Perciò quando un adulto accede al battesimo col pentimento consegue subito la remissione di tutti i suoi peccati per il proposito del battesimo, ma assai piu perfettamente quando lo riceve di fatto

•·

La giustizia di Cristo non si comunica a chi partecipa alla vita di lui, come se fosse una corrente senza soluzione di continuità. Ciò significhe­ rebbe infatti identità tra la giustizia di Cristo e quella del cristiano. Se­ condo la Scrittura tra la giustizia di Cristo e quella del credente non vi è affatto identità, bensi solo analogia. La giustizia di Cristo si esprime nell'uomo credente e riluce in lui. Il giustificato è una manifestazione e una espressione analogica della giustizia di Cristo. La giustizia con cui il cristiano diviene formalmente giusto è prodotta dalla giustizia di Cristo quale causa efficiente ed esemplare, ma rimane da essa distinta. Chi ne affermasse l'identità sfocerebbe in una sorta di pancristismo, secondo cui

P. II.

-

LA GRAZIA

la persona del cristiano si dissolverebbe in Cristo. Essa invece, nonostante la sua inconcepibile intimità con cui è unita a Cristo medesimo non viene soppressa, ma continua ad esistere. Il Concilio di Trento ha es_?resso una profonda verità di vasta risonanza quando ha condannata la dottrina pro­ pugnante l'identità tra la nostra santità e quella di Cristo. Cosi esso af­ ferma nel canone 10° del suo decreto sulla giustificazione : « Chiunque dica che gli uomini sono giustificati senza la giustizia di Cristo per la quale egli ha meritato per noi o che per quella stessa giustizia sono for­ malmente giusti, sia anatema » (Denz. 820). L'Enciclica Mystici corporis ha sanzionata e rinnovata tale decisione del concilio. II. - ERRORI.

Per meglio comprendere la dottrina rivelata concernente la liberazione dal peccato mediante la giustificazione riporteremo dapprima alcune con­ cezioni erronee. l . - Il pelagianesimo (cfr. la dottrina del peccato originale e della ne­ cessità della grazia), che nega l'esistenza della grazia propriamente detta, riducendola, in ultima analisi, ad una moralità naturale poggiante su principi teistici, intende la giustificazione come un semplice condono del peccato e della pena. Il suo errore consiste nel fatto che non prende ab­ bastanza sul serio la remissione dei peccati e non perviene quindi a cre­ dere in un'interiore rinnovazione e santificazione dell'uomo.

2. La teologia dei riformatori propugnò che la natura umana in se­ guito al peccato originale fu del tutto rovinata e distrutta. L'uomo deca­ duto è cosi reso schiavo della morte, del diavolo e del peccato. Egli è davvero un morto. La sua volontà non è piu libera. Non gli è piu possi­ bile fare alcun bene. Rimane interiormente peccatore, finché vive. Ma in seguito all'obbedienza di Cristo, Dio non gli imputa piu il peccato che tuttavia gli inerisce indelebile. Anche questa teologia conosce i santi, ma li intende come peccatori chiamati da Dio. Il santo non è senza peccato ma è solo ritenuto come fosse senza peccato e per tutta l'eternità rimarrà un peccatore che Dio ha chiamato. Altri santi all'infuori dei peccatori chiamati da Dio, ma perennemente peccatori, non ne esistono punto. Ecco come questa teologia precisa il processo della giustificazione. Il Padre celeste pone il suo sguardo su Gesti Cristo e ne vede il suo amore ubbi­ diente. Cristo sta come uno scudo protettore dinanzi agli uomini colpe-

§ 184. LA COMUNIONE CON CRISTO COME LIBERAZIONE DAL PECCATO

85

voli, in modo che il Padre piu non ne veda la colpevolezza. Con lo sguardo rivolto al Figlio egli giudica i peccatori come giusti ed esenti da punizione senza però che la qualità interna dell'uomo sia stata mutata (iustificatio forensis sive iudicialis). 3. La dottrina del protestantesimo originario si è poi sviluppata nel corso dei secoli. Nel protestantesimo moderno si è pensato che la giusti­ ficazione consista nel sentimento dell'unione con Dio (Schleiermacher). Altri la spiegano come uno sforzo serio di divenire un onesto uomo, che adempie coscienziosamente i suoi doveri. -

4 . Un rinnovamento e un'acutizzazione dell'antica dottrina riformata si ha nella teologia dialettica. Secondo Karl Barth anche i piu nobili sforzi umani, siano pur essi religiosi, non sono altro che nuovi peccati. L'uomo in ogni sua circostanza permane un condannato alla morte, ma che, contro ogni speranza ed esperienza, viene afferrato dalla gratuita volontà salvifica di Dio. Dottrina questa che mette in fortissimo risalto la santità e la trascendenza divina, la sua eccellenza e superiorità, la sua libertà e indipendenza. Ma essa erige una violenta opposizione tra l'uomo giusti­ ficato e Dio che fa grazia, opposizione che non è testimoniata, ma con­ traddetta dalla Scrittura. La teologia dialettica della morte è una teoria sconfortante, opposta alla Bibbia. -

5. Nella odierna teologia luterana si sostiene che la giustizia di Cristo diviene nostra propria e che per mezzo di essa viene vinto il peccato. Il perdono non significa soltanto un non tenere conto, una non imputa­ zione del nostro peccato, bensi una nuova creazione. I sostenitori di questa opinione si appellano a Lutero stesso, affermando che anch'egli è stato dello stesso parere. Si veda ad esempio B. H. Schlinck, Theologie der luterischen Bekenntnisschiften, 1940, 1 34 ss. Secondo questa interpretazione Lutero non sembra, a prima vista, sia stato incluso nella condanna del Concilio di Trento, almeno su questo punto. Tuttavia la condanna del concilio sarebbe stata giustificata e ne­ cessaria perché al tempo dei riformatori la dottrina dal concilio medesimo riprovata era realmente sostenuta, anzi perché si trovava nello stesso Lu­ tero non come affermazione dogmatica, ma bensi come espressione di confessione religiosa. Del resto presso gli antichi riformatori rinveniamo già la dottrina sostenuta dall'attuale teologia luterana. Basti l'esempio di Osiander : « Quando Dio chiama buono e giusto l'empio, questi in virtU della denominazione e chiamata divina re ipsa et veritate è buono e non -

86

P. II.

-

LA GRAZIA

empio, poiché la parola di Dio crea la trasformazione. Quando Dio chiama e nomina è sempre creatore ». Sembra contraddittorio che, secondo la dottrina dei riformatori, il giustificato rimanga pur sempre un peccatore, anche se il peccato gli è stato condonato. La contraddizione si può scio­ gliere sino a un certo grado qualora si accolga l'interpretazione secondo cui la dottrina dei riformatori respinge ogni considerazione metafisica per limitarsi unicamente a quella attualistica e personalistica. Il perdono dei peccati non porta seco alcuna mutazione antologica, ma solo crea una nuova relazione con Dio. Il peccatore, in virru della parola creatrice di Dio, è posto in un nuovo rapporto con Dio medesimo. È in questo senso che si avvera la mutazione. Ma in pari tempo perdura la corruzione pec­ caminosa, in quanto in lui rimane la concupiscenza opposta a Dio, la quale " di continuo sospinge al peccato. Da parte di Dio l'uomo non è piu un peccatore, ma da parte propria egli è pur sempre tale e tale rimarrà sempre. Se questa interpretazione della dottrina luterana è esatta, dobbiamo pur sempre dire che essa è in contrasto con la dottrina del Concilio Tri­ dentino, che sostiene invece un mutamento antologico nel peccatore. III. - DOTTRINA DELLA CHIESA.

È dogma di fede che la giustificazione non è solo un ricoprimento o una non imputazione, bensi una vera remissione dei peccati. &co quanto, tra l'altro, afferma il Concilio di Trento nel suo decreto sul peccato originale : « Se qualcuno nega che i bimbi appena usciti dal seno materno si debbano battezzare, anche se sono nati da genitori cri­ stiani, oppure afferma che si possono battezzare per la remissione dei peccati, ma che essi nulla contraggono del peccato originale di Adamo, che abbia bisogno di essere espiato col lavacro della rigenerazione per conseguire la vita eterna, dal che seguirebbe che la forma del battesimo in " remissione dei peccati ", sarebbe falsa in loro, sia anatema : perché non diversamente si deve intendere ciò che dice l'Apostolo : Per un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e per il peccato la morte, e cosi in tutti gli uomini è passata la morte perché tutti hanno peccato (Rom. 5, 12), se non come ha sempre inteso la Chiesa cattolica sparsa in tutto il mondo. Per questa regola di fede ricevuta dalla tradizione apostolica, anche i bambini che non poterono commettere peccato personale, vanno battez­ zati in remissione dei peccati, affinché siano mondati nella rigenerazione da ciò che per generazione hanno contratto. Se alcuno non sarà rinato di acqua e di Spirito Santo, non potrà entrare nel regno dei cieli (Gv. 3, 5) » .

§ 1 84. LA COMUNIONE CON CRISTO COME LIBERAZIONE DAL PECCATO

87

6. « Se qualcuno nega che per la grazia di Nostro Signore Gesu Cristo conferita nel battesimo si rimette il peccato originale, o afferma che per essa non si toglie tutto ciò che ha la propria ragione di peccato, ma che viene soltanto raso o non imputato, sia anatema. In coloro che sono rinati Dio nulla odia, poiché non vi è dannazione alcuna in coloro che sono stati seppelliti con Cristo nel battesimo nella sua morte (Rom. 6, 4), che non camminano secondo la carne (Rom. 8, I), ma che, avendo svestito l'uomo vecchio e rivestito il nuovo creato secondo Dio (Ef. 4, 22 ss. ; Col. 3, 9), sono divenuti innocenti, immacolati, puri, privi di colpa, di­ letti figli di Dio e coeredi di Cristo (Rom. 8, 17), sicché non vi è alcuna ragione per ritardare il loro ingresso in paradiso. Che nei battezzati per­ duri il fomite della concupiscenza questo santo sinodo lo riconosce e lo confessa; ma essendo esso lasciato per il combattimento non può nuocere a chi non vi acconsente e vi si oppone virilmente per mezzo della grazia di Cristo. E colui che legittimamente avrà combattuto (2 Tim. 2, 5) rice­ verà la corona. Se talvolta Paolo chiama peccato la concupiscenza, questo concilio dichiara che la Chiesa cattolica ha mai inteso che si chiami pec­ cato perché rimanga come veramente tale nei battezzati, ma perché pro­ viene dal peccato e induce al peccato. Se qualcuno penserà diversamente, sia anatema » (Denz. 79 1 ss.). Nel proemio della sesta sessione è detto : « Siccome ai nostri giorni per la rovina di molte anime e per grave danno dell'unità ecclesiastica si vanno diffondendo errori contro la giustificazione, il santo e universale Concilio di Trento ... ha ritenuto conveniente di esporre a tutti i cristiani la vera e sana dottrina della stessa giustificazione, che Gesu sole di giu­ stizia (Mal. 4 , 2), autore e perfezionatore della nostra fede (Ebr. r2, 2), ci ha insegnata. Dottrina che ci fu trasmessa incorrotta dagli Apostoli e dalla santa Chiesa sotto la guida dello S?irito Santo. È quindi rigidamente proibito di credere, predicare o insegnare diversamente da quello che è stabilito e dichiarato in questo decreto ». Al capitolo 3 si dichiara : « Benché Gesu Cristo sia morto per tutti (2 Cor. 5, 1 5), non tutti però ricevono i benefizi di questa morte, ma solo coloro ai quali viene comunicato il merito della sua passione. Infatti come gli uomini non nascerebbero ingiusti qualora non derivassero dal seme di Adamo, poiché è in questa propagazione che, nella concezione, contrag­ gono la propria ingiustizia, cosi non sarebbero giustificati qualora non rinascessero in Cristo (can. 2 e ro), dato che in tale rinascita e per merito della sua passione viene loro donata la grazia che li fa giusti. L'apostolo ci invita a ringraziare diuturnamente il Padre per tanto benefizio, poiché -

88

P. II.

-

LA GRAZIA

egli ci ha resi partecipi alla sorte dei suoi santi nella luce (Col. I, 12) e ci ha strappati dal potere delle tenebre per trasferirei nel regno dell'amore del Figlio, in cui abbiamo redenzione e remissione dei peccati » (Col. I, I 3 s.; Denz. 795). Nel capitolo 7 viene poi spiegato che cosa sia la giustificazione : « La giustificazione tiene dietro a questa disposizione e preparazione. Essa non è solo remissione dei peccati, ma anche santificazione e rinnovamento del­ l'uomo interiore mediante la volontaria accettazione della grazia e dei doni, per cui l'uomo da ingiusto diviene giusto, da nemico amico e quindi erede secondo la speranza di vita eterna (Tit. 3, 7). E le cause di questa giustificazione sono le seguenti : causa finale è la gloria di Dio e di Cristo e la vita eterna; causa efficiente è Iddio misericordioso che gratuitamente ci lava e santifica ( I Cor. 6, I I) segnandoci e ungendoci con lo Spirito Santo della promessa, che è pure pegno della nostra eredità (Ef. 1, 1 3); causa meritoria è il dilettissimo suo Figlio unigenito il Signore nostro Cristo Gesu, che mentre noi eravamo nemici (cfr. Rom. 5, I o), per la sua immensa carità con cui ci ha amato (Ef. 2, 4), ci meritò la giustificazione e soddisfece per noi a Dio con la sua santissima passione sulla croce; causa strumentale è il sacramento del battesimo, che è il sacramento della fede, senza della quale nessuno mai può essere giustificato; finalmente l'unica causa formale è la giustizia di Dio, non quella per cui egli è giusto ma quella di cui rende giusti noi; ossia della quale arricchiti da lui ci rinnoviamo nello spirito della nostra mente, e siamo, non solo riputati giusti, ma ci nominiamo tali e tali siamo in realtà, ricevendo in noi la giustizia nella misura che lo Spirito Santo vuol impartire ai singoli a suo beneplacito (I Cor. I2, I I) e secondo la disposizione e la cooperazione di ciascuno. Benché nessuno possa essere giusto senza che gli vengano comunicati i meriti della passione di Cristo, ciò tuttavia avviene in questa giustifica­ zione, per il fatto che in virtu dei meriti della medesima santissima pas­ sione, l'amore di Dio è diffuso dallo Spirito Santo nel cuore (Rom. 5, 5) di coloro che vengono giustificati e ad essi inerisce. Perciò nella giustifi­ cazione assieme alla remissione dei peccati l'uomo, per opera di Gesu Cristo in cui viene inserito, riceve simultaneamente la fede, la speranza e la carità. La fede infatti se non è congiunta alla speranza e alla carità non ci unisce perfettamente con Cristo né ci rende membri vivi del suo corpo. Perciò ben a ragione si dice che la fede senza le opere è morta (Giac. 2, 17) e oziosa, e che in Cristo Gesu né la circoncisione, né il pre­ puzio valgono qualcosa ma solo la fede che opera per la carità (Gal. 5, 6 ;

§ 184.

LA COMUNIONE CON CRISTO COME LIBERAZIONE

DAL PECCATO

89

6, I 5). È questa fede che, secondo la tradizione apostolica, prima del bat­ tesimo domandano alla Chiesa i catecumeni, quando chiedono la fede che dà la vita eterna, vita che senza la speranza e la carità la fede non può dare. Perciò essi tosto risentono le parole di Cristo : Se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti (Mt. I9, I7 ; can. I 8-2o). Poi ricevendo, al posto di quella che gli uomini persero in Adamo, la vera giustizia cri­ stiana, come la prima stola (Le. I 5 , 22) loro elargita in dono da Cristo Gesu, viene loro comandato di conservarla candida e immacolata si da portarla dinanzi al tribunale divino e ottenere la vita eterna » (Denz. 799 s.). E al cap. I6 si legge : « Cristo, Salvatore nostro, dice : Se alcuno berrà dell'acqua che io gli darò, non avrà piu sete in eterno, ma in lui si tra­ sformerà in una sorgente di acqua saliente sino alla vita eterna (Gv. 4, I 3 ss.). Perciò né la nostra propria giustizia si stabilisce come dipen­ dente da noi, né si ignora o si ripudia la giustizia di Dio (Rom. Io, 3). Infatti quella che diciamo giustizia nostra, perché inerente in noi ci giu­ stifica, è giustizia proveniente da Dio, poiché è Dio che ce la infonde per il merito di Cristo » (Denz. 809). IV.

-

SPIEGAZIONE.

l . - Per comprendere tutta l'importanza del processo che si attua nel perdono dei peccati si osservi quanto segue. Si può intendere il peccato e il superamento di esso come un fatto naturale morale o come un evento religioso soprannaturale. Nel primo caso il male è concepito come un momento necessario e denso di valore per l'esistenza umana. È come un fondo oscuro da cui sorge la vita bella e rigogliosa. Il superamento del peccato avviene perché considerato come un mezzo per potenziare la vita. Siccome l'oscuro mistero del peccato è cosi rivestito del manto del nu­ minoso, rientra in qualche modo nella sfera della religiosità naturale. Qui non si vede ancora il carattere etico del peccato. Esso appare solo quando si consideri l'uomo come essere personale e responsabile nella sua co­ scienza di quello che fa. Appunto qui si fa sentire l'insuperabile opposi­ zione tra il bene e il male. Il bene si presenta all'uomo con l'imperativo categorico : Tu devi ! Il male non può essere giustificato in se stesso da alcun buon effetto. Cosi inteso esso viene superato quand'è condannato dalla coscienza. L'uomo scostandosi dal peccato per rivolgersi al bene immette nella propria vita un nuovo principio, acquistando in tale modo l'energia morale e la volontà per i suoi doveri. Per quanto seria sia la condanna del male e la volontà di una nuova vita, tuttavia il peccato non

P.

90

II.

-

LA GRAZIA

può essere mai inteso in tutta la sua profondità abissale, né può essere totalmente rimosso in virtu di puro atto di volontà. Esso, in fondo, sus­ siste ancora.

2. Solo la fede conduce alla completa valutazione della gravità del male e al suo effettivo superamento. Il peccato non attinge solo la sfera di questo mondo, ma penetra persino nella realtà divina. Non è solo in contrasto con la sua eterna legge morale, bensi con lo stesso Dio santo e personale. È una rivolta contro il Tu divino. Costituisce un evento che ha l'impronta personale : è un sovversivo incontro dell'uomo con Dio. È il no a Dio, al Santo, al Signore, all'Altissimo, alla Verità e all'Amore. È il tentativo stolto di detronizzare Dio, di sottometterselo, di sbarazzar­ sene e di collocare il proprio io al suo posto. Nel peccato l'uomo cerca di costruire la sua vita senza Dio, anzi contro Dio. Fenomeno questo possibile all'uomo solo perché, partecipando alla libertà di Dio, è libero egli stesso. Egli può abusare della sua libertà imbarcandosi nella stolta avventura di abbattere la signoria divina per vivere una sua pro?ria vita autonoma, nella stolta avventura di divenire al posto di Dio signore di se stesso abusando di sé che è pure immagine di Dio. Proprio perché egli guarda solo a ciò che ha in comune con Dio e oblia ciò che lo diver­ sifica da lui, può illudersi di collocare sé medesimo sul trono. Dalla struttura personale della colpa deriva la sua portata cosmica. Mentre l'uomo s'inalbera contro Dio, si rivolta in pari tempo contro se stesso, contro la sua essenza imparentata con Dio. Perciò fa violenza a se stesso e si autodistrugge. Siccome poi egli può peccare solo nelle cose e con le cose di questo mondo, trascina pure queste nella sua auto­ distruzione. Il peccato quindi scatena il disordine e il caos nel mondo, divenendo cosi la tomba del creato. -

3. Il superamento del peccato significa quindi l'eliminazione della colpa, che l'uomo ha contratto con Dio, eliminazione che non può pro­ cedere dall'uomo, ma solo dal perdono misericordioso di Dio. E questo non consiste nel fatto che Dio prenda alla leggera il peccato, quasi dicesse all'uomo : Tu non hai poi fatto tutto quel male che credevi, né nel fatto che lo trascuri come alcunché di scarso valore, attenuandolo e sottovalu­ tandolo. Il perdono, anzi, mostra che Dio lo vede nella sua profondità e gravità paurosa. La crocefissione di Cristo dimostra come Dio realmente prende il peccato sul serio. Nessuno, anzi, può vedere tale abisso di mal­ vagità all'infuori di Dio. Essendo egli il Santo può ben comprendere -

§ 1 84. LA COMUNIONE CON CRISTO COME LIBERAZIONE DAL PECCATO

91

l'irreducibile contrasto esistente tra la santità e il peccato. E proprio dal­ l'immensa forza della sua santità proviene il giudizio che egli fa del pec­ cato, sulla croce, rivelando cosi che cosa mai sia il peccato e che cosa sia la santità. Ma proprio mentre palesa l'abissalità della colpa e nello stesso tempo la condanna, egli elimina il peccato da noi, in modo che piu non vi sia. Dio può distruggere la colpa perché egli è santità personale. Dio non è santo per il fatto che attua una norma che s'impone a lui come un dovere. No! Egli è norma a sé medesimo. Egli è legge a se stesso, in quanto è santità. Egli attua la legge, che è lui stesso, in quanto afferma la sua santità con pari volontà e forza creatrice. Siccome la potenza con cui Dio afferma la sua santità è infinita, ne viene che nessuno la potrà mai in alcun modo minacciare. La potenza divina è potenza d'amore. Dio afferma quindi la sua es­ senza santa con infinita potenza d'amore. È appunto questa potenza infi­ nita che annienta il male da lui visto nella sua profondità e gravità. Strappa l'uomo dal peccato e lo attrae a sé e vi elimina la malvagità inerente alla colpa. Con la sua immensa forza d'amore, per mezzo del suo no pronunziato contro il male, annienta tutto ciò che nell'individuo si frappone come elemento di separazione tra l'Iddio santo e l'uomo pec­ catore. Solo colui che, senza alcun pentimento si radica e incallisce nella colpa, respinge questo no amoroso che Dio dice al peccato e in tale modo si chiude alla misericordia divina. 4. Per mezzo della remissione divina viene tolto il reatus culpae ossia l'iniquità del peccato, senza però fare scomparire questo come fatto sto­ rico. La storia infatti non è reversibile e un fatto una volta che sia avve­ nuto permane per sempre come elemento della storia medesima. E nem­ meno con il perdono divino sono eliminati gli effetti storici di un'azione cattiva, gli sconvolgimenti sia dell'anima che del corpo che ne sono deri­ vati, cosi come il no che si dice alla colpa non rimuove immediatamente l'inclinazione al male da essa prodotta. -

Tommaso d'Aquino al problema fino a che punto con la remissione del peccato siano eliminate le sue conseguenze, risponde nel modo seguente : « Con il batte­ simo l'uomo è incorporato alla passione e alla morte di Cristo, secondo quanto è scritto in Rom. 6, 8 : Se siamo morti con Cristo, noi crediamo che vivremo pure con lui . È quindi ben chiaro che ad ogni battezzato viene comunicata a rimedio la passione di Cristo, come se lui stesso avesse patito e fosse morto. Ma la passione di Cristo è una soddisfazione sufficiente per tutti i peccati di tutti gli uomini. Perciò il battezzato viene liberato dal reato di ogni pena che gli è dovuta "

"

92

P. li.

-

LA GRAZIA

per i peccati, come se egli stesso avesse soddisfatto sufficientemente per tutti peccati suoi » (S. Th., III, q. 69, a. 2). « Il battesimo ha la forza di eliminare le penalità della vita presente, ma non le toglie effettivamente su questa terra; esse saranno eliminate, per sua virtu, solo nella risurrezione dei giusti, cioè quando il " corpo mortale rivestirà l'immorta­ lità " (I Cor. 15, 54) » . E ciò ragionevolmente. In primo luogo per mezzo del bat­ tesimo l'uomo si incorpora a Cristo e ne diviene membro (art. 3 ; 68, 5); è quindi conveniente che avvenga nel membro incorporato quanto è avvenuto nel capo. Ora Cristo sin dalla sua concezione fu pieno di grazia e di verità, ma ebbe un corpo capace di soffrire, il quale attraverso la passione e la morte risuscitò alla vita gloriosa. Perciò anche il cristiano nel battesimo consegue la grazia per l'anima, ma conserva il corpo passibile perché possa soffrire per Cristo. Alla fine però sarà lui pure risuscitato dai morti in una vita impassibile. Perciò l'Apostolo dice (Rom. 8, 1 1) : « Colui che ha risvegliato Gesu Cristo dai morti, farà rivivere pure ìa vostra vita mortale mediante il suo Spirito, che dimora in voi ». E poco dopo (v. 17) : c Eredi di Dio e coeredi di Crìsto; soltanto voi dovere anche soffrire con lui, per essere con lui glorificati », In secondo luogo, è conveniente per l'esercizio della vita spirituale, ossia affinché l'uomo combattendo contro la concupiscenza e le altre debolezze onenga la corona della vittoria. Perciò, commentando Rom. 6, 6 : « Perché sia distrutto il corpo del peccato » la glossa dice : « Fin quando l'uomo vive nella catne dopo il suo batte­ simo, deve combattere contro la concupiscenza e con l'aiuto di Dio deve trionfame » . In terzo luogo, è pure conveniente perché l'uomo non desideri il battesimo per raggiungere una vita senza dolore, ma per ottenere invece la vita eterna. Come dice l'Apostolo (1 Cor. 15, 19) : « Se noi speriamo in Cristo per questa vita sol­ tanto siamo i piu infelici degli uomini ». Alla Ia obiezione. La glossa al testo : « Perché poi in seguito non abbiamo piu a servire al peccato » (Rom. 6, 6) dice : Come uno il quale dopo aver vinto un nemico ferocissimo non lo uccide tosto, ma vuole che abbia ancora a vivere per un po' di tempo a sua onta e vergogna, cosi anche Cristo ha solo incatenato le pena­ lità che annienterà poi totalmente nel mondo futuro. Alla 2a obiezione. Nel medesimo posto la glossa cosi dice : Vi è una duplice punizione del peccato : la pena eterna dell'inferno e la pena temporale. La pena eterna è stata del tutto annientata da Cristo, in modo che i battezzati e i veramente pentiti non la subiranno. La pena temporale invece non è stata eliminata del tutto; perdurano infatti la fame e la sete e la morte. Ma il loro regno e il loro potere sono stati atterrati in modo che l'uomo non li possa piu temere, e saranno total­ mente distrutti alla fine dei giorni. Alla 3 • obiezione. Il peccato originale ha seguito questa via : dapprima la per­ sona ha macchiata la natura e poi la natura ha macchiata la persona (S. Th., I-II, q. 81, a. r ; q. 82, a. 1 ad 2). Cristo invece procede in ordine inverso. Dapprima restaura ciò che spetta alla persona; poi riparerà in tutto ciò che spetta alla natura. Egli pertanto, per mezzo del battesimo, toglie dall'uomo subito la colpa del pec­ cato originale e anche la pena della privazione della visione beatifica, che spettano alla persona. Ma le penalità di questa vita, come la morte, la fame e la sete e altre cose simili, riguardano la natura che le produce in quanto destituita c;lalla giu-

§ 1 84. LA COMUNIONE CON CRISTO COME LIBERAZIONE DAL PECCATO

93

stizia originale. E quindi questi difetti non saranno eliminati se non nella restau­ razione della natura, quale si avrà con la risurrezione finale «

(S. Th.,

La difficoltà verso il bene e l'inclinazione verso il male che

III, q. 69, a. 3).

il battezzato espe­

rimenta, non provengono da difetti delle virtu in lui infuse, bensi dalla concu­ piscenza che non viene tolta con il battesimo. Siccome però la concupiscenza ne è stata indebolita perché non domini, cosi anche quella difficoltà e quell'incli­ nazione sono fatte piu deboli, affinché l'uomo non sia travolto da esse

»

(lbid.,

a. 4, ad 3) . c Il battezzato non è stato sottoposto alla morte e alle penalità di questa vita per colpa della persona, ma per lo stato della natura. E perciò non sarà impedito al momento della morte di entrare nel regno dei cieli, avendo già pagato quanto era dovuto alla natura

»

(Ibid., a. 7, ad 3).

La colpevolezza del peccato viene cosi annientata che l'uomo deve sen­ tire nella sua coscienza d'esserne ormai libero. Della colpa infatti piu nulla rimane.

V.

-

TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA.

La Bibbia, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento, attesta la remis­ sione dei peccati.

A) Nell'Antico Testamento si afferma tanto che Dio annienta il pec­ cato, quanto che egli non ne tiene piu conto, ossia non lo imputa piu. I passi favorevoli alla seconda idea sono anzi piu numerosi degli altri. Tuttavia anche l'asserzione che il peccato viene distrutto è ben chiara e ben testimoniata. Basti leggere Is. 44, 22 ; Sal. 32, s ; s r, 3 ; IOJ, 1 2. B) Nel Nuovo Testamento abbiamo : 1 . La testimonianza dei Sinottici e degli Atti degli Apostoli. La promessa che i peccati saranno perdonati si trova subito nei primordi della vita di Gesu. Quando l'angelo spiega in sogno a Giuseppe ciò che si è attuato nel seno di Maria, dice che il bambino atteso porterà al suo popolo la salvezza come liberazione dal peccato, una forma di salvezza che il giudaismo al tempo del Messia non si attendeva (Mt. r, 20 s.). ]. Gewiess, sviluppando questo tema, afferma che tutta la predicazione degli Apostoli è incentrata sul tema del perdono dei peccati. Questa è la nota fondamentale del kérygma apostolico. «

La proclamazione del perdono dei peccati appartiene al contenuto essenziale

della primitiva predicazione missionaria cristiana. La liberazione dalla colpa è il primo frutto che scaturisce dalla conversione del fedele a Cristo.

È

la condizione

P. Il. -

94

LA GRAZIA

e nello stesso tempo il pegno della partecipazione ai beni futuri. Le espressioni al riguardo sono diverse. In primo luogo vi sta la dphesis ton hamartion (la remissione dei peccati) di cui ormai si potrà essere partecipi (Atti 2, 38; 5, 3 1 ; 8, 22; 10, 43; 13, 38). Come si debba intendere questo condono viene chiarito in 3, 1 9 :

me ta­

noésate ... eis tò exaleiphthénai hym6n tàs hamartias (ravvedetevi per la remissione dei vostri peccati). In altri passi tutti i beni, compreso quello della remissione dei peccati, sono racchiusi nel concetto di soteria (salvezza) (cfr. 13, 26; 15,

z,

40. 47; 4, 12; 1 1, 14;

I. I I). La aphesis ton hamartion implica come base l'idea di debito.

Infatti l'aramaico shebak (corrispondente al greco aphiénai) esprime il condono di

un

debito, sia che si tratti di denaro sia che si tratti di colpa. La stessa idea è

richiamata dal verbo exaléipho (3, 19), che significa " cancellare ", poiché si pen­ sava che le conseguenze che ci siamo meritate con il peccato e che sono segnate sul registro del cielo vengono cancellate. Perciò anche questo vocabolo diviene ben atto ad indicare la remissione, il condono, il cancellamento del peccato . . . La novità sta nel fatto che, secondo l a dottrina apostolica, il condono delle colpe si ricollega al Gesti storico crocefisso cipio fontale del perdono, ma Gesu è

e

risorto. Dio è la causa prima, il prin­

il mediatore che ci reca tale salvezza. Con lui

si attua l'eterna volontà salvifica di Dio. Egli è il priis, il portatore cioè della autorità e della potenza divina, è l'inviato da Dio per assumere su di sé

il

peso

delle colpe umane e per redimere l 'uomo dal suo complesso peccaminoso (Atti 3, 26). Mediante " il suo nome ", ossia per mezzo di Cristo e soltan to per mezzo suo si garantisce ai credenti la remissione (ro, 43 ; 2, 38; 13, 38). Dio h a concesso tale potere al Cristo risorto

(5, 3 1).

In lui e in nessun altro sta la salvezza e solo nel

suo nome noi possiamo essere salvi (4, 1 2). Merita pure d'essere notato che il giudaismo non ha mai messo in rapporto il condono del peccato con il Messia, come invece ha fauo il cristianesimo primitivo (Atti 3, 19-23). La letteratura giudaica, come ben nota il Volz, non contiene alcun passo in cui il Messia sia concepito come colui che porta la liberazione dalle colpe (cosi invece Gesu : M t. 9, 2; Mc. 2, 5). Quando si attende da lui una simile libe­ razione è solo per sperare, dietro suo intervento, la strage dei colpevoli catori (Enoch-etiopico 62, z;

69,

c

dei pec­

27-29; Saimo di Salomone 1 7 [22], 25 ss.). Il pec­

cato avrà termine nel novello regno di Israele perché non si permetterà a chiunque conosce il peccato di abitarvi (Salmi di Salomone 17 [27], 29). Sotto il suo scettro i peccati scompariranno e gli empi cesseranno di fare il male (Test. di Levi 1 8, 9). Israele ridiverrà santo e puro come lo era al principio (Salmi di Salomone 17 [30], 33; 1 8 [5], 6 ss.). Il superamento del peccato appare qui come un effeno della potenza del Messia, non necessariamente ricollegato con la sua missione. Infatti non di rado la purificazione della terra da ogni malvagità, ingiustizia ed empietà viene riferita all'angelo

Michele

(Enoch

10, 20 ss.)

»

(J. Gewiess, Die urapostolische

Heilsverkii.ndigung nach der Apostelgeschichte, 1939, 71-75).

Per quanto riguarda i singoli passi, basti quanto segue. Da tutti i Si­ nottici si riferisce la guarigione del paralitico di Cafarnao (Mc. 2, 1 - 1 2 ; Mt. 9, I-8; Le. 5 , 17-26). È l'unico incontro con un peccatore che sia testimoniato dai tre Sinottici. Quando si portò l'ammalato da Cristo per­ ché lo guarisse, il Salvatore gli rivolse le strane e meravigliose parole :

§ 1 84.

LA COMUNIONE CON CRISTO COME LIBERAZIONE DAL PECCATO

95

« Ti sono rimessi i peccati ». Cristo manifesta che causa della malattia e ostacolo al rifiorire della salute era il peccato. Egli parla della remissione non già dicendo : « Io ti perdono », ma esprimendone con autorità il fatto. Perciò si appropria l'autorità divina, cosi come bene comprendono i fa­ risei, i quali ritengono la frase di Gesu come una vera bestemmia. Solo Dio può infatti perdonare i peccati. Cristo mostra ch'egli ha davvero tale potere col guarire la malattia corporea. La guarigione che tutti possono constatare con i propri occhi è segno dell'invisibile perdono interiore. Come la vittoria sulla malattia è reale, cosi reale è pure la vittoria sul peccato. Inoltre sono narrati altri quattro incontri di Gesu con peccatori, che egli davvero libera dalle colpe perdonandoli. Ma ciò solo in Luca (7, 36-5o; 19, 3-8 ; 23, 39-42; 22, 54-62). 2. Paolo parla sia del perdono (Col. 2, I 3 ; 3, I 3 ; Ef. 4, 32) e della non imputazione (2 Cor. 5, I9; Rom. 4, 8-I I) sia della effettiva eliminazione dei peccati (Rom. 4, 7 ; Col. I , 14; Ef. I, 7). L'uomo, secondo lui, è un debitore dinanzi a Dio. Il suo debito è come scritto in un registro appo­ sito. Ma Dio rinuncia ad esigerne il pagamento. Egli condona, cancella la pena. È questo un atto di grazia, cui va unito un nuovo giudizio sulla situazione del peccato. Atto, questo, che ha un valore creativo, poiché attua ciò che dice. Muta l'uomo, sicché questi cessa di essere peccatore e diviene un uomo nuovo. Identica è la linea di pensiero quando Paolo insegna che i peccati sono lavati, o tolti via oppure che il peccatore è purificato e liberato dalle colpe ( I Cor. 6, I I ; Rom. 6 ; 5, 19; 7, 24 ss. ; 8, I ss. ; Ef. 5, 26; Ebr. 9, 28 ; cfr. I Piet. 3, 2 I). Certo in Paolo, come in altri passi della Scrittura, si rinvengono for­ mule secondo le quali i peccati non vengono piu imputati o sono rico­ perti (cfr. Sal. 32, I s. ; I Cor. 4, 4 s.; 2 Cor. 5, 1 9 ; Rom. 2, 1 3 ; 4, 8-u ; I Piet. 4, 8). Se non vogliamo mettere la Scrittura in opposizione con se stessa, ma intenderla in modo unitario, dobbiamo spiegare questi passi nel senso che Dio non tiene piu conto dei peccati perché essi piu non vi sono. Quando Dio in virtu di Cristo dichiara l'uomo giusto, la sua non è una parola vuota di senso, ma piena di possente dinamismo che penetra sino nella parte piu profonda dell'uomo e lo muta e lo ricrea interior­ mente. Il giudizio di Dio su di un peccatore non è un giudizio analitico ma sintetico, ossia non è una semplice dichiarazione, bensi una nuova creazione. Il peccatore perdonato, è, con la divina sentenza di grazia, in­ teriormente liberato dai peccati. I santi che sono stati ammessi nella grazia

P. II.

-

LA GRAZIA

di Dio non rimangono ugualmente e per sempre dei peccatori, ma in virru del verbo divino cessano di essere tali. Sarebbe anche difficilmente conciliabile con la santità divina che Dio avesse a ritenere un uomo giusto e lo avesse a trattare come tale quando in realtà egli

è ancora un peccatore.

Sarebbe poi impossibile, nel confronto che Paolo stabilisce tra Adamo e Cristo, che Adamo abbia ad essere piu potente di Cristo per il fatto che Adamo ci fece realmente peccatori mentre Cristo non ci renderebbe realmente giusti. Nella medesima linea di pensiero sta l'affermazione di Paolo che

il

condono dei peccati si attua mediante la partecipazione alla morte di Cristo. Il Salvatore con la sua morte ha preso su di sé la maledizione che era stata pronunziata da Dio dopo il primo peccato. Egli ha adempiuto la legge della sofferenza e della morte e perciò l'ha eliminata. Nell'adem­ pimento della legge della morte egli ha debellata la forza del peccato, che

è il

causa di morte. Nella fede e nel battesimo la morte di Cristo esercita

è introdotto nella dinamica di quella in tale modo un colpo mortale. E ciò che è vinto è

suo potere sull'uomo. Questi

morte e ne soffre

proprio la sua esistenza peccaminosa e carnale. Mentre l'uomo panecipa mediante la fede alla morte di Gesu Cristo, viene liberato dal peccato (Rom.

3, 25 ss. ; 5 ; 6 ; Col. 3 , 1 3 ).

3· Secondo Giovanni, Cristo è l'agnello di Dio, che toglie i peccati (r, 29). Tale immagine allude o all'agnello pasquale o al sacri­

del mondo

ficio quotidiano dei due agnelli (al mattino e alla sera); ma non allude al servo di Dio sofferente quale ci viene riferito nella profezia isaiana. Si può anche pensare che l'annuncio dell'agnello di Dio non sia stato origi­ nariamente pronunziato dal Battista, ma gli sia stato attribuito dalla co­ munità primitiva quale espressione della realtà ch'egli intendeva es?ri­ mere. E precisamente quanto segue. Sia che tale figura richiami l'agnello pasquale o quello quotidiano, essa significa che Cristo

è il vero agnello

sacrificale apparso nel mondo. È l'agnello voluto da Dio stesso e donato all'umanità. Se vogliamo chiederci come mai Cristo sia stato raffigurato sotto l'immagine, fondata nell'Antico Testamento, di un agnello, dob­ biamo ricordare che non solo gli Ebrei ma anche tutte le religioni estra­ bibliche ritengono l'agnello, specialmente quello appena nato e di sesso maschile, come un essere particolarmente atto ad essere offerto a Dio. Il montone, infatti,

è segno del vigore giovanile e incarna, in un certo

senso, la permanente forza del mondo. L'uomo medesimo nel suo anelito

§ 1 84. LA COMUNIONE CON CRISTO COME LIBERAZIONE DAL PECCATO

97

verso una giovinezza che mai tramonti si vede simboleggiato in esso. Ora l'uomo deve essenzialmente donare a Dio se stesso e tutto ciò che gli appartiene. Egli infatti può esistere in modo veramente ragionevole solo quando si offre a Dio. Se offrisse realmente se stesso, andrebbe contro alla sua stessa natura perdendo la sua vera e personale esistenza. Allora l'uomo sacrifica a Dio un ariete che, mentre palesa la sua volontà di offrirsi a Dio, denota pure la sua qualità piu importante quella cioè di offrirglisi in una giovinezza perenne. Quando Cristo viene chiamato l'agnello di Dio, ciò significa che egli si offre a Dio con forza giovanile, come rappresentante dell'umanità. Presso Giovanni incontriamo pure l'espressione della purifìcazione dal peccato ( I 3, 10; I5, 3). Cristo dice ai discepoli : Voi siete puri, in virtu della parola che io ho pronunciata. Con ciò non solo indica che i peccati sono rimessi ma denota pure il mezzo del perdono e cioè la parola. La parola che annienta il peccato è una parola efficace, una parola dello Spirito (pnéuma) e di potenza (dynamis). Secondo I Gv. I, I 2 solo i credenti ricevono il perdono delle colpe. VI. - INVISIBILITÀ DELLA REMISSIONE DEI PECCATI.

L'annientamento della colpevolezza del peccato è invisibile. Ne pos­ siamo essere certi solo in forza della fede, cosi come solo per mezzo della fede alla vista della croce comprendiamo quale abisso d'iniquità sia il peccato. L'invisibilità raggiunge un grado tale che anche nella vita del giustificato rimane pur sempre visibile la concreta tendenza verso il male. Fatto, questo, che non si può tuttavia mettere in contrasto con la rive­ lazione secondo cui il peccato è stato totalmente annientato nei giustificati. Esso si accorda piuttosto con la dottrina dei Padri del Concilio di Trento la quale insegna l'eliminazione nP.i giustificati della colpevolezza dei pec­ cati gravi, ma non l'eliminazione delle tentazioni e della inclinazione al male. È eliminata la lontananza dell'uomo da Dio, per il fatto che Dio stesso si rivolge di nuovo all'uomo debitamente disposto, ma perdura la tendenza umana a nuovamente scostarsi da Dio per iniziare una nuova vita orgogliosa di autonomia. Rimane cosi l'incentivo della concupiscenza, come bene esprimono i Padri del concilio (Sess. 5, cap. 4). Pertanto nel giustificato non vi è piu nulla di ciò che si chiama peccato in senso vero e proprio, ma perdura ciò che ha rapporto col peccato medesimo. La potenza del peccato è stata spezzata in linea di principio, ha ricevuto un colpo mortale, ma non è stata vinta del tutto in quanto l'uomo, anche

P. I l .

-

LA GRAZIA

dopo la sua giustificazione, vive tuttora sotto la legge della concupiscenza disordinata. Questa non presenta piu il carattere del peccato in senso vero e proprio, ma in senso largo può essere chiamata tale in quanto deriva dal peccato e al peccato sospinge. Essa, purtroppo, muove spesso l'uomo a decisioni peccaminose. Fin quando spinge a peccati veniali che non distruggono l'unione con il Padre celeste (cfr. lo studio sui peccati veniali e sui peccati mortali nel trattato sui sacramenti), lo stato di giustificazione non viene annullato. Il giustificato, perciò, è in pari tempo giusto e peccatore, non nel senso che egli, pure essendo tutto impigliato nella colpa sia di fatto ritenuto giusto da Dio, ma nel senso che egli, pure essendo libero dalla colpe­ volezza del peccato, cade di continuo in peccati che però non lo allonta­ nano completamente da Dio. È peccatore e giusto non nel senso ontologico (metafisico), ma nel senso della viva e concreta esistenza di fede che non riesce mai a realizzare pienamente. Finché l'uomo si trova pellegrino sulla terra e solo in speranza si protende verso la completa perfezione, egli deve pregare per il condono dei peccati. Tale domanda è stata inserita da Cristo anche nella preghiera ch'egli volle insegnare ai suoi. Come spesso la Chiesa unisca, con la dottrina del rinnovamento totale, la coscienza della reale tendenza al male e della quotidiana fragilità umana, appare dalla liturgia (ad es. preghiera a piè dell'altare, Oremus, Gloria, preghiera per la offerta del pane e del vino, postevangelium, Agnus Dei, preghiera prima della comunione). In modo chiarissimo è espressa nei postcommunio al termine della Messa, che pressapoco suonano tutti cosi : « Abbiamo ricevuto, o Signore, i doni di questo sacro mistero : umilmente ti supplichiamo, affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di te, torni di aiuto alla nostra debolezza » (22" domenica dopo Pentecoste). Da tutte le preghiere liturgiche appare il fatto che, secondo il pensiero della Chiesa, l'uomo non ha ancora raggiunto uno stato in cui possa glo­ riarsi di una completa liberazione dal peccato, ma deve piuttosto continua­ mente invocarne il perdono (vedi alcune eccezioni nel § 149). La formula luterana Simul iustus et peccator, non sarebbe stata con­ dannata dal Concilio di Trento, qualora non fosse stata intesa in senso metafisico, ma solo storico quale si avvera nell'uomo concreto. I lute­ rani moderni sono di diverso parere nell'interpretazione della predetta espressione. Se fosse vero che tale formula ''a intesa in senso storico­ concreto e non ontologico, allora si dovrebbe dire che il Concilio di Trento non ha espressamente condannato Lutero, bensi l'interpretazione metafisica della sua dottrina.

§ 1 85.

LA VITA DIVINA COME RINNOVAMENTO INTERIORE E SANTIFICAZIONE

99

Dalla dottrina della quotidiana manchevolezza dei giustificati sarebbe illogico dedurre che i peccati commessi anche dai santi, ossia i peccati veniali, sono qualcosa di insignificante e trascurabile. Cosi non li giu­ dicano i santi stessi, i quali anzi si sentono tanto piu colpevoli e sono tanto piu rigorosi nella valutazione delle proprie debolezze quanto piu sono in contatto con Dio. L'unione con Dio è per loro la misura secondo la quale giudicano i propri peccati. Essi s'accusano di vere mancanze pure trattandosi di cose che, presso quanti vivono piu lontani da Dio e perciò giudicano alla stregua del mondo, non sono assolutamente tenute in alcun conto. Le accuse che i santi fanno di se stessi non vanno perciò giudi­ cate come espressioni di una coscienza intristita e malata, ma piuttosto come manifestazione di una vigile coscienza affinatasi a contatto con l'Iddio a cui vivono sempre uniti. Per addurne un esempio basti riferire la preghiera di S. Teresa del Bambino Gesti : « Io non raccoglierò alcun merito per il cielo... Alla sera della mia vita comparirò in tua presenza a mani vuote. Perciò ti prego di non guardare affatto alle mie opere, o Signore. Tutte le nostre giustizie sono piene di macchie ai tuoi occhi. Io voglio rivestirrni della tua giustizia e dal tuo amore ricevere l'eterno possesso di te medesimo » (cfr. R. Grosche, Simul peccator et iustus, in Pilgernde Kirche, 1 9 38, 147- 1 5 8 ; E. Walter, Sorgenti d'acqua viva, Alba 1957, 320-373). Il giustificato che, pur essendo libero dal peccato, ne subisce di con­ tinuo la tentazione, va incontro a quello stato in cui sarà esente anche dalla tentazione stessa, lo stato cioè di perfezione che si attuerà quando, per la visione beatifica, egli sarà totalmente immerso nell'amore e nella santità di Dio. La sua vita terrestre è tesa fra il presente già libero dalla colpa ma pur sempre da essa minacciato e il futuro esente da ogni peri­ colo di peccato. La giustificazione ha quindi un carattere escatologico.

§ 185. La vita divina come rinnovamento interiore e santificazione. Con il condono della colpa sono ricollegati l'intimo rinnovamento del­ l'uomo e la santificazione. Anzi, la remissione dei peccati e l'interiore santificazione sono un unico evento sotto diversi aspetti. Non vi è santi­ fìcazione senza condono dei peccati, perché il peccato è mancanza di santità, né condono senza santifìcazione interiore, poiché la soppressione della colpa è pure eliminazione dello stato privo di santità.

IOO

P. Il.

-

LA GRAZIA

I. - DOTTRINA DELLA CHIESA.

È dogma di fede che la giustificazione non è solo imputazione della giustizia di Cristo, ma rinnovamento interiore e santificazione dello stesso giustificato. Il Concilio di Trento ha asserito questo fatto, interpretando autoritativamente la Bibbia contro gli errori infiltratisi nella scolastica tardiva e nel protestantesimo. Se ne veda la documentazione nei brani del Concilio di Trento sopra riferiti (Sess. 6, cap. 4 e 7 ; Denz. 796 ; 799 s.). Nel canone I I il concilio cosi sintetizza la dottrina cattolica : « Chiunque affermi che gli uomini sono giustificati solo perché loro è imputata la giustizia di Cristo o solo perché loro è condonato il peccato, esclusa la grazia e la carità, che è diffusa nei loro cuori dallo Spirito Santo e ade­ risce intimamente ad essi, o affermi che la grazia da cui siamo giustificati è solo favore di Dio, sia anatema » (Denz. 821). La Chiesa confessa la sua fede nella verità rivelata riguardante la interiore santificazione del giustificato anche nella liturgia e specialmente nella liturgia battesimale. Qui con svariati simboli si mette in rilievo che l'uomo viene ricreato in novità di vita. Se ne parlerà piu a lungo nel trattato sul battesimo. Per ora basti quanto segue. Il graduale ingresso del battezzando dall'ambiente non consacrato in quello sacro della chiesa significa ch'egli viene sottratto alla mondanità e alla rovina del peccato per essere introdotto nella vita di Cristo e del Padre celeste. L'alitazione, entro la chiesa, simboleggia la comunicazione della vita celeste, ossia dello Spirito Santo. Nell'alitazione visibile è simboleggiato l'al ito di vita celestiale, in cui per la prima volta l'uomo può respirare la vita eterna. I segni di croce e la imposizione delle mani significano la presa di possesso sia da parte di Cristo che da parte della comurutà cristiana e del Padre celeste, come pure la comunicazione della giustizia e della santità di Cristo. Il sale denota la preservizione dal peccato e il gusto delle cose divine. L'esorcismo contro il demonio indica che l'uomo viene cosi liberato dal dominio di Satana e dal potere del peccaro. La professione di fede e il Padre nostro simboleggiano sia l'unione con Cristo che l'appartenenza alla famiglia di Dio. L'unione con Cristo viene simboleggiata come comunione di pensiero e di parola nell'apertura delle orecchie e degli occhi; come comunione di vita nel rivolgere il battezzando verso oriente da cui viene la luce, nell'unzione con l'olio, nella stola bianca, nel cero ardente. L'unzione con il crisma denota l'ina­ bitazione dello Spirito Santo, che è spirito di Cristo, cosicché Cristo e il battezzato sono due esseri in un medesimo spirito. L'abito bianco simboleggia l'interiore santificazione di tutto l'essere umano. Il Catechismo romano (n. 192) cosi dice dell'abito bianco posto sul battezzato : « Con questo simbolo, secondo i Padri, si vuoi designare sia la gloria della risurrezione cui sono introdotti di diritto i battezzati, sia anche lo splendore e la beltà di cui l'anima purificata dalle macchie della colpa rifulge nel battesimo, sia infine l'innocenza e l'integrità che il battezzato dovrà mantenere per l'intera sua vita ».

§ 185.

LA VITA DIVINA COME RINNOVAMENTO INTERIORE E SANTIFICAZIONE

101

Nella benedizione del fonte battesimale al Sabato santo e nelle lezioni che la precedono, la Chiesa insegna con potenti simbolismi la grandiosità di ciò che si avvera nel battesimo. Quando si fa passare dinanzi il panorama di tutta la storia della salvezza, è segno che la Chiesa con la liturgia sua vuoi presentarci l'onni­ potente atto salvifico di Dio quale si avvera nel battezzato. Da questo panorama riluce la potenza, la profondità, l'importanza dell'evento che Dio opera per mezzo del battesimo. Se ci si presenta persino l'atto creativo di Dio, è segno che la muta­ zione avverantesi nel battesimo dev'essere paragonata alla stessa creazione pri­ mitiva. Essa è una nuova creazione, un rinnovamento. Dio che ha meraviglio­ samente creato gli uomini, ora in un modo non meno meraviglioso li ricrea, come dice la stessa Chiesa nell'orazione dopo la lettura della creazione e anche in quella sull'acqua mescolata con il vino della Messa. La profondità della mutazione che si attua nel battesimo è pure presentata in quelle cappelle battesimali, dove si raffi­ gura la storia sacra per simboleggiare la sublime trasformazione del battezzato (dr. ad esempio le raffi.gurazioni sulle tre porte nel battistero di Firenze oppure i mosaici di cui è ornato).

Il. - TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA.

La Bibbia esprime l'interiore rinnovamento e santifìcazione dell'uomo con l'annuncio del regno di Dio, con la similitudine dell'albero buono e di quello cattivo (Mt. I 2, 23 ss.). Secondo il messaggio del regno l'uomo è cosi afferrato da Dio che questi in lui agisce da padrone e vi stabilisce la sua santità e giustizia. I principali assertori di questa mutazione nel giustificato sono Paolo e Giovanni, il primo con la sua dottrina sulla novità della vita e il secondo annunziando la rinascita. l . Secondo Giovanni, Dio, agli uomini che non seguono il volere della carne né ricercano la propria gloria, ma credono alla sua parola, ha dato in Cristo la potenza di divenire figli di Dio (Gv. I , 1 2). Per divenire tali occorre quindi una speciale facoltà divina, che solo in Cristo si può acqui­ stare. Figlio di Dio diviene l'uomo solo quando è nato da Dio (Gv. I , I 3 ; I Gv. 5 , 1 . 4 · I 8). L'evento che, con immagine tratta dalle religioni miste­ riche, viene detto « nascita da Dio » è di tale profondità che solo una tale immagine è atta ad esprimerlo. Come l'uomo riceve la sua vita peri­ tura da una madre terrena, ossia dalle forze di questa terra, cosi non può ricevere l'imperitura vita del cielo se non da Dio, ossia dalle forze cele­ stiali. « Si tratta qui di una vera nascita poiché a confronto della gene­ razione e della nascita umane normali, essa è considerata come superiore. S. Giovanni parla di coloro che sono nati da volontà carnale, ossia da -

102

P. II.

-

LA GRAZIA

impulso della carne e del sangue, e di coloro che sono nati da Dio. Con che egli intende stabilire il grado piu elevato, l'importanza piu grande, la vita piu piena di questa nascita da Dio; ora ciò sarebbe inconcludente qualora la nascita da Dio possedesse una realtà minore di quella che si attua nella nascita terrena nel grembo della madre, qualora la prima fosse solo una immagine di questa. Non si può di certo pensare alle forme fisiologiche della nascita terrena; ma la realtà e la genuinità di una nascita dipende forse da queste forme o non piuttosto dal fatto che un vivente trasmette la sua vita a un altro? » (]. Pinsk, Spes gloriae. L'espérance de la gloire, trad. dal ted., Parigi 1 952, I IO-I 1 1 ). Qui rientra pure l'incontro notturno che Gesu ebbe con Nicodemo. Gesu dice : « Se uno non rinasce di nuovo, non vedrà il regno di Dio » (Gv. 3, 3). Nicodemo non si raccapezza. Non osa ridurre quelle parole a puro simbolismo e d'altra parte non riesce a pensare che a una nascita reale dal grembo materno. « E come può uno nascere, essendo già vec­ chio? Può forse entrare da capo nel seno di sua madre e cosi rinascere? » (Gv. 3, 4). E Gesu afferma che la nascita di cui egli parla non avviene nelle forme della narura, ma in modo diverso. È una rinascita dall'acqua e dallo Spirito. « In verità, in verità ti dico, nessuno, se non nasce per acqua e Spirito, può entrare nel regno di Dio >> (3, 5). L'acqua fecondata dallo Spirito è la sorgente da cui sgorga la nuova vita dell'uomo ; vita reale e vera come quella che abbiamo dalla nostra madre, pur essendone diverso il modo. Come mediante la nascita dal grembo materno viene comunicata la vita peritura di questo eone terrestre, cosi mediante la rinascita ad opera dell'acqua e dello S?irito viene comunicata la vita imperitura dello Spirito Santo medesimo (3, 6). La vita dello Spirito è quella stessa di Cristo, che si ottiene incorporandosi a lui : vita di Cristo risorto e quindi di perenne giovinezza. Chi partecipa a questa vita non invecchia e non muore. Con l'incarnazione, la morte, la risurrezione e l'ascensione di Cristo l'intero cosmo è stato già trasformato in modo che esso, se cosi si può dire, porta i lineamenti di Cristo. Ma questi mediante il battesimo sono mag­ giormente e chiaramente impressi nell'uomo. In pari tempo siccome in lui è stato infuso lo spirito di Cristo e di Dio, gli sono state inserite nel suo intimo le forze vitali del Cristo risorto. Egli vive perciò in Cristo e per Cristo (Gv. 6, 57), è configurato alla santità di Cristo (Gv. 1 7, 19), per cui diviene pure simile al Padre celeste ( 1 Gv. 3, 2). Come avrebbe potuto essere diversamente? Come i genitori si ritrovano nei lineamenti dei figli, cosi anche il Padre celeste si ritrova nell'uomo, che, nello Spirito Santo, è

§ 1 85. LA VITA DIVINA COME RINNOVAMENTO INTERIORE E SANTIFICAZIONE 103 nato da Dio mediante Cristo. Anche se Giovanni non esprime formalmente l'idea della nuova creazione egli però l'include nel suo concetto di rina­ scita. Tale idea invece è formalmente espressa da Paolo.

2. Paolo descrive S;Jesso il conferimento della grazia nell'uomo giu­ stificato sotto il duplice aspetto della novità e della nuova creazione (Ef. 2, 1 0 ; 4, 2 3 ss. ; 2 Cor. 5, I 7 ; Gal. 6, I 5). La novità presuppone che le cose antiche siano passate. Nella morte di ciò che è vecchio sorge il nuovo. Come vedemmo, Paolo designa il battesimo come morte e risur­ rezione in Cristo. Col battesimo l'uomo partecipa alla morte e alla risur­ rezione di Cristo. L'antico modo d'esistere, quello legato al mondo, quello colpevole e perituro perisce nella morte di Cristo e la nuova esistenza cristiforme sorge partecipando alla sua risurrezione. Il passaggio dalla vita vincolata al mondo alla partecipazione della vita di Cristo è un auten­ tico rinnovamento radicale dell'essere umano. « Se uno è in Cristo, egli è una nuova creatura. Ciò che è antico è passato. Ecco esso è divenuto nuovo » (2 Cor. 5, I 7). Questa novità non invecchierà mai piu; è una giovinezza perenne. L'uomo, cosi ricreato, si rallegra, nonostante l'invec­ chiamento biologico, per la sua giovinezza eterna. Chiunque aspira a tale giovinezza è invitato a raggiungerla nella fede in Cristo. Solo in tale modo la potrà possedere, altrim enti il suo sogno non si avvererà giamm ai. Chiunque pretende attenerla altrove, sia pure nella natura, dovrà subire una terribile disillusione. Il suo destino è quello d'invecchiare e di morire. Chiunque è tratto fuori dalla corrente di vita che proviene da Adamo ed è immesso in quella scaturiente da Cristo, è immerso nella gloria, nel dina­ mismo vitale e nel pneuma di Gesu Cristo. Egli è penetrato e configurato dalla dinamica di Cristo, che è dinamica del suo Spirito. Perciò egli riceve in Cristo la vera santità e giustizia (Ef. 4, 2 3 s.). Egli infatti partecipa, sia pure in modo analogico, alla santità di Cristo. In 1 Cor. 6, I I Paolo dice : « Voi siete purificati, voi siete santificati nel nome di nostro Signore Gesu Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio » . Si confronti pure I Cor. 3, I 7 ; 6, I 9 ; Col. 3, 9 · Ai Romani l'Apostolo cosi scrive : « L'amore di Dio è infuso nei nostri cuori » (Rom. 5, 5). Il cuore dell'uomo giustificato è perciò inondato dall'amore del Padre celeste. Lo splendore che riverbera dal giustificato per la sua unione a Cristo proviene dalla gloria del Cristo risorto ; è uno splendore che lo permea e lo penetra totalmente raffigurandolo ad immagine di Cristo. Il battezzato è un'immagine del Figlio di Dio incarnatosi, creata dallo Spirito Santo (Rom. 8, 29). Egli è cristiforme (Origene, Contra Celsum, 6, 79). Cristo -

I 04

P.

II.

-

LA GRAZIA

traspare da lui, in modo che come il Cristo è una manifestazione (epifania) del Padre, cosi il battezzato è una manifestazione del Cristo. Cosi scrive Cirillo di Alessandria in armonia con il pensiero paolina (In lsaiam, 4, 2 ; PG. 70, 9 36 BC) : « Ciascuno d i noi è stato formato nel seno della propria madre. Parimenti ciascuno viene fatto figlio di Dio in quanto viene spiri­ tualmente plasmato, in quanto cioè scende nella sua anima la meravigliosa forma della virtu, la beltà stessa dello Spirito Santo. Gli uomini quindi, partecipando allo Spirito Santo sono in Cristo configurati all'archetipo di bellezza che è il Cristo medesimo. Questi perciò viene formato in noi, poiché lo Spirito Santo infonde in noi una forma divina, mediante la santifìcazione e la giustizia. Cosi nelle nostre anime splende il carattere della sostanza di Dio Padre, in quanto lo Spirito Santo, come già detto, ci raffigura a Cristo mediante la santificazione ». « In coloro invece che non vivono secondo la fede questo splendore è andato perso. Questi perciò hanno bisogno di un nuovo soffio di rinascita spirituale, di una nascita inte­ riore, affinché nuovameme siano raffigurati a Cristo » (Responsio ad Tiberium, 10). Ma, « se noi conduciamo una perenne vita di fede e di santità allora Cristo ci raffigura a sé interiormente e lascia spiritualmente brillare nel nostro interno il fulgore del suo volto » (De dogmatum solu­ tione, 3 ; cfr. anche In Iohan., I I , I ; De Trinit., Dial. VII). L'intero creato reca, secondo Paolo, una certa impronta di Cristo. Questi infatti è il capo di rutto, per cui ogni cosa ne riceve l'influsso, e reca un'impronta cristologica. Ma ben diversa è l'impronta che di Cristo reca il credente. Si potrebbe dire che solo il credente è un'immagine del Salvatore giunto, attraverso la morte e la risurrezione, alla gloria; tutte le altre creature sono solo tracce di Cristo. Da una traccia si conosce che qualcuno è passato di li; se ne può anche concludere chi mai esso sia. Chi riuscisse a penetrare nell'essere piu profondo delle cose potrebbe cono­ scere che il Figlio di Dio incarnatosi, crocefisso, risorto e asceso al cielo è passato per la terra, anzi è passato per ogni cosa. Ma solo colui che è in stato di grazia reca l'immagine del Cristo. Se tale uomo potesse scru­ tare la profondità del suo essere - e lo possono Dio e i santi - vi vedrebbe l'immagine del Cristo. In lui rifulge il volto di Cristo (Gal. 4, I 9 ) e, poiché il Figlio è l'immagine del Padre (2 Cor. 4, 4; Col. I , I 5), vi riluce pure quello del Padre celeste (2 Cor. 3, I 8 ; Col. 3, I o). Chi è in grazia porta in sé l'immagine celeste ( I Cor. I 5, 49 ). Né si può dimenticare un'ulteriore distinzione. I tratti del crocefisso e del Risorto si rinvengono soltanto nel battezzato. I giustificati che non siano stati battezzati, ossia tutti coloro che sono divenuti partecipi della

§ 185. LA VITA DIVINA COME RINNOVAMENTO INTERIORE F. SANTlFICAZIONE 105 salvezza in modo straordinario, non recano questa fisionomia. Solo il bat­ tesimo, infatti, ha il potere di produrre questi tratti (cfr. Rom. 6 con 8, 29). Ma anche il giusto non battezzato è in qualche modo assimilato in Cristo. La rivelazione non ci dice nulla sulla natura di tale somiglianza, ma in ogni caso essa dev'essere qualcosa di piu di una semplice traccia, di cui si parlava or ora. Probabilmente si può dire che anche in lui vi è l'immagine di Cristo, ma che questa immagine non reca i tratti del Cristo crocefisso, morto e risorto. Chiunque avesse la possibilità di penetrare nel profondo di tale individuo vi vedrebbe brillare il volto di Cristo, ma non vi vedrebbe i tratti che sono propri della sua passione e risurrezione. Il giustificato, che non abbia potuto ricevere il battesimo, non sarebbe stato immesso nella sfera d'azione della morte e della risurrezione di Cristo. Perciò la fisionomia di Cristo non sarebbe in lui cosi profonda e stabile come quella del battezzato. Quest'ultima invece è tale che non può mai essere persa del tutto. Mediante un peccato grave essa perde il suo splen­ dore, il suo fulgore, la sua chiarezza e in un certo senso il suo colorito, ma l'impronta vi rimane sempre. Non può essere cancellata completa­ mente, come meglio si vedrà nel trattato sui sacramenti. La trasformazione di un individuo mondano in un individuo cristiforme è avvenimento di tale profondità che Paolo può parlare di un atto creatore divino. Ciò che in esso si avvera non è solo miglioramento di quanto già prima esisteva, bensi una nuova creazione di qualcosa prima inesistente. Paolo sulla via di Damasco ha esperimentato Cristo come luce celeste. La conformazione a Cristo è oerciò partecipazione dell'uomo rinato alla luminosità di Cristo. « Ché Iddio il quale disse : dalle tenebre splenda la luce, brillò nei nostri cuori per l'illuminazione della scienza della gloria di Dio, che risplende sul volto di Gesu » (2 Cor. 4, 6). L'Apostolo cerca pure di lumeggiare questa conformazione del credente a Cristo con il simbolo dell'abito. Coloro che sono stati battezzati, sono stati rivestiti di Cristo (Gal. 3, 1 7). Ciò allude allo stato primordiale degli uomini nel paradiso terrestre. Con il peccato gli uomini hanno gettato via l'abito primitivo della innocenza, della immortalità e della giustizia. Un simbolo di ciò che av­ venne nell'intimo dell'uomo svestito e svuotato dello splendore celeste e della gloria divina, è il fatto che dopo la colpa si aprirono gli occhi dei progenitori che cosi si accorsero d'essere nudi. Si trovarono denudati e avviliti. L'abito perduto del paradiso terrestre aveva la funzione di rap­ presentare e di custodire il reciproco mistero personale. Ma dopo averlo perso, essi si trovarono ignudi e vergognati. Cercarono di ricoprire la loro

P.

I06

IT.

-

LA G RAZIA

nudità e in tal modo di vincere la vergogna che uno aveva dell'altro. Dio stesso venne in loro aiuto perché si potessero procurare abiti di pelle. Ma questi erano solo un ben misero surrogato di quanto era stato perso. Gli uomini, con sempre rinnovati tentativi, cercarono, ma inutilmente, di ricuperare quanto avevano smarrito. Ma tutti gli abiti terreni non riusci­ ranno mai a supplire l'abito originario del paradiso terrestre, poiché essi possono si donarci la modestia, ma non l'innocenza; l'onestà, ma non la giustizia, poiché con essi l'uomo può ben difendersi dai pericoli del mondo, ma non dalla mancanza di santità. Quell'abito che l'uomo prima posse­ deva e che poi ha perso con la colpa, quell'abito ch'egli gettò via e che pur sempre va ricercando gli viene ridonato nel battesimo. È l'abito dèlla gloria celeste e della immortalità, che è intessuto con la materia dell'acqua battesimale. Il battezzato rimette nuovamente l'abito della gloria, dell'in­ nocenza e della santità. Egli è rivestito della gloria di Cristo risorto. Quest'abito lo trasforma dall'intimo, sicché il battezzato diviene un uomo nuovo con un nome nuovo (Col. 3, 9 ; Ef. 4, 22 s. ; Rom. I 3, I4). Con esso si presenta come un uomo appartenente al cielo, alla casa di Dio, alla famiglia del Padre celeste (Gv. 14, 2). Quest'abito nuovo adempie perfettamente la funzione dell'abito : ricopre l'uomo nel mistero perso­ nale inaccessibile, noto solo a Dio e nello stesso tempo lo rivela come figlio di Dio. È in quest'abito che gli invitati al banchetto nuziale del cielo possono avervi parte (Mt. 22, I I). Simbolo di questo abito è la veste battesimale che si pone sul battezzato. Sarà visibile questo abito solo quando appariranno i nuovi cieli e la nuova terra (Apoc. 3, 4; 3, I 8 ; 6, I I ; 7 , 9 ; 7 , I 3). Perciò anche l'abito che il battezzato riveste nel bat­ tesimo presenta un carattere escatologico, poiché apparirà nel suo splen­ dore, ora velato, solo alla fine del tempo che noi ora viviamo. (Cfr. E. Pe­ terson, Theologie des Kleides in Benediktinische Monatsschrift, 16, 1934, 347-356). Paolo conosce pure il fatto della rinascita, poiché il « nuovo » uomo è l'uomo rinato. Nella lettera a Tito 3, 4 s. scrive : « Ma quando la beni­ gnità e la filantropia apparve del Salvatore nostro Dio, non già per mezzo delle opere che compimmo noi nella giustizia, ma in· modo conforme alla sua misericordia, ci salvò, mediante un lavacro di rigenerazione e di rin­ novazione dello Spirito Santo » .

3. Anche Pietro testifì.ca la rinascita dell'uomo rinnovato dalla grazia di Dio : « Sia benedetto il Dio e Padre del Signore nostro Gesu Cristo, il quale (Dio) per la sua grande misericordia, ci rigenerò ad una speranza -

§ 185. LA VITA DIVINA COME RINNOVAMENTO INTERIORE E SANTIFICAZIONE

107

viva, mediante la risurrezione di Gesu Cristo dai morti, ci rigenerò ad una eredità incorruttibile, immacolata e inalterabile, serbata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi, mediante la fede, per raggiungere la salvezza che deve manifestarsi nell'ultimo tempo » ( I Piet. I , 3-5). « A vicenda amatevi continuamente, poiché foste rigenerati, non da seme corruttibile, ma incorruttibile, mediante la parola di Dio viva e perma­ nente » ( I , 22 s.). Il rinato, mediante il suo innesto in Cristo, partecipa alla natura divina, cosi come il nato dai genitori riceve la natura loro : « La divina potenza di lui ci ha donato tutto quanto ci giova per la vita e per la pietà mediante la perfetta conoscenza di colui che ci chiamò per la sua gloria e potenza, per la quale ci ha donati i preziosi e magnifici beni promessi, affinché, mediante questi, voi diveniste parteci.!_Ji della divina narura, dopo aver fuggito la corruzione che è nel mondo per la concupi­ scenza. Per questo appunto voi, mettendo ogni impegno, unite alla vostra fede l'energia morale, all'energia la scienza, alla scienza la continenza, alla continenza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l'amore fraterno, all'amore fraterno la carità. Infatti se queste virtu si trovano in voi e vi crescono, non vi lasceranno oziosi e senza frutti, per la perfetta cono­ scenza del nostro Signore Gesu Cristo » (2 Piet. 1 , 3-8). La nascita da Dio, quale si attua con la nostra incorporazione a Cristo, ci fa partecipare pure alla regalità di Cristo medesimo. I rinati formano perciò una generazione eletta, un sacerdozio regale, un popolo apparte­ nente a Dio (2, 9). Essi sono tratti fuori dalle forme periture del mondo e sono autorizzati, anzi obbligati, a riformare le realtà terrene. Poi un giorno sederanno su troni per regnare sull'universo. Ognuno sarà signore di tutta la terra, ciascuno a modo suo, in guisa che niuno dia impiccio al prossimo (dr. il trattato sul Battesimo). Tutte queste testimonianze bibliche ci assicurano che nell'uomo giusti­ ficato non si verifica solo un mutamento di sentimenti bensi un vero cam­ biamento ontologico. L'uomo viene rinnovato sia nel pensiero che nel volere, ma anche nel suo essere, nella sua esistenza e nella sua essenza. Questo rinnovamento interiore è la ragione per cui i giustificati non solo si possono proclamare giusti, ma sono veramente tali. III. - LA CAUSA FORMALE DELLA GIUSTIFICAZIONE.

Il modo di questa interiore rinnovazione e santificazione dell'uomo fu dal Concilio di Trento precisato e fissato contro le deviazioni e gli errori, specialmente contro la dottrina protestantica dell'imputazione, affermando

P. II.

108

-

LA GRAZIA

che la giustizia di Dio, non già quella per cui egli stesso è giusto, ma quella con cui fa giusti noi, e che quindi riceviamo da lui, è l'unica causa formale della nostra giustificazione. Già nella terza redazione del decreto sulla giustificazione (novembre I 546) il concilio, per meglio esprimere la realtà della giustificazione stessa, usò termini tratti dalla filosofia aristo­ telica e disse che

unica causa formalis della nostra giustificazione è proprio

la giustizia donataci da Dio. Tra la giustizia nostra e quella di Dio non esiste identità bensi solo analogia. Nella nostra giustizia si riflette la giu­ stizia di Dio. La giustizia donataci da Dio e inerente a noi non è la causa efficiente della nostra giustificazione bensi la vera causa ·formale di essa. Noi siamo giustificati per la giustizia di Dio che si riflette e riluce in noi. Né sta in contrasto con la dottrina del Concilio di Trento asserente l'unicità del principio formale della nostra giustificazione, il fatto che la vita divina in noi comprenda vari aspetti, come l'unione con il Cristo, la partecipazione alla tripersonale vita di Dio e la grazia santificante. La comunione con Cristo e la partecipazione alla vita di Dio sono il principio da cui deriva l'interiore trasformazione dell' uomo

in grazia e quindi l'esi­

stenza stessa della causa formale della giustificazione . Senza una tale tra­ sformazione l'uomo rimarrebbe intimamente ingiusto e peccatore, ma quand'essa s'avvera, da peccatore diventa santo. La santità e la giu­ stizia interiori inerenti all'uomo sono ciò che chiamiamo grazia san­ tificante. Anche il riflesso della santità e giustizia divina che, secondo il Concilio di Trento, è l'unica causa formale della nostra giustificazione ha carattere cristologico : nella grazia santificante si riflette Cristo stesso.

IV. - GIUSTIFICAZIONE DI TUTTO L' UOMO. La nascita da Dio e il rinnovamento dell'uomo abbracciano l'uomo intero, quindi non solo l'anima ma anche

il corpo, benché questo solo in virtu e

per mezzo dell'anima. L'uomo non è solo spirito, bensi un composto di anima e di corpo, in cui l'anima domina perché forma sostanziale. Il corpo non è escluso dalla giustificazione e dalla santificazione. A ben riflettere, il messaggio di Cristo concernente la rinnovazione-giustificazione dell'uomo

è un messaggio che garantisce la glorificazione dell'uomo com­

pleto cosi come concretamente esiste. Anzi è proprio per questo suo carat­ tere di completezza e di totalità, ossia per aver incluso nella giustificazione

§ 185. LA VITA DIVINA COME RINNOVAMENTO INTERIORE E SANTIFICAZIONE

109

anche il corpo, che tale messaggio si diversifica dalle dottrine soteriolo­ giche sostenute, ad esempio, dalla filosofia platonica o neoplatonica, che al contrario si rivolgevano solo all'anima. Il rinnovamento dell'uomo inoltre non concerne solo il suo essere, ma comprende anche la sua attività. È appunto questo totale rinnovamento dell'uomo che intende esprimere la Bibbia parlando di un rinnovellamento del cuore (cfr. nel § 1 30 il con­ cetto biblico di cuore). Perciò anche le azioni dell'uomo giustificato recano un sigillo che le rende simili a Dio e al Cristo. Sono espressioni e manife­ stazioni della trasformazione antologica avveratasi nel suo intimo. Nel battezzato quindi non vi può essere un sfera profana che stia accanto a quella cristiana. Spirito e corpo, nella loro totalità, nel loro essere come nel loro agire, recano la impronta cristiana. Anche se esternamente le azioni del credente sono eguali a quelle del non credente, esse tuttavia nel loro intimo sono essenzialmente diverse perché in esse è la dinamica di Cristo e del suo Spirito che si dispiega e agisce sia pure in modo occulto. Come gli atti del mangiare e del bere, pure essendo nell'uomo fisiologi­ camente identici a quelli dell'animale, se ne differenziano essenzialmente perché atti del corpo informato dallo spirito, cosi anche l'azione del cri­ stiano, pure avendo la forma di quella del non battezzato, se ne distingue radicalmente perché reca l'impronta di Cristo. « Sia che mangiate o beviate o che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto ad onore di Dio » ( I Cor. Io, 31), ossia come appartenenti a Cristo. Ecco come Paolo ai Galati descrive questo profondo mistero cristiano : « Io infatti per la Legge sono morto alla Legge, al fine di vivere per Dio. Con Cristo sono stato crocefisso ; ora vivo non piu io, ma vive in me Cristo : e la vita che adesso vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e che si è immolato per me » (Gal. 2, 1 9 -20). Nello stesso spirito cosi afferma Ignazio di Antiochia : « Gli uomini carnali non possono far opere spirituali, né gli spirituali opere carnali... Anche le cose che voi fate secondo la carne sono opere dello Spiriro, perché voi fate ogni cosa in Cristo » (Ef. 8, 2). Anche i peccati del battezzato presentano una qualità diversa da quelli dei non battezzati. Sono un attacco contro la vita divina, alla santità del­ l'uomo quale si attua in Cristo. Mentre tutti i peccati sono un contrasto con l'essenza umana ordinata a Dio, quelli dei giustificati sono in con­ trasto con l'essere dell'uomo improntato e santificato dallo stesso Cristo. Il giustificato che pecca entra in una disarmonia piu stridente con la parte piu intima di se stesso quale non può avverarsi nel non giustificato che

P. II.

1 10

-

LA GRAZIA

pecca. Perciò tali peccati sono un « no » pronunziato contro il Cristo che domina l'uomo, contro lo Spirito di Cristo e contro il Padre celeste. Anzi è proprio questa maggior vicinanza dell'uomo a Dio che causa la maggior gravità della colpa.

V.

-

DOTTRINA DEI PADRI.

I Padri spesso chiamano il mutamento dell'uomo che viene giustificato con il nome di deificazione o divinizzazione. Secondo loro Dio si è fatto uomo perché l'uomo potesse divenire Dio. Può darsi che influssi neopla­ tonici e gnostici possano avere agito nella scelta di queste espressioni; però il neoplatonismo e lo gnosticismo hanno prestato ai Padri solo la formula esteriore, nori il suo contenuto essenziale. Quest'ultimo invece è stato tratto dalla rivelazione cristiana e particolarmente dalla prima lettera di Pietro. Infatti la divinizzazione neoplatonica o gnostica è cosa essen­ zialmente diversa, come tutti possono vedere, dalla divinizzazione inse­ gnata dai Padri. Secondo gli gnostici e i neoplatonici essa si attua mediante lo sforzo dell'uomo che sale a Dio raggiungendo cosi la sfera divina. L'uomo che è già in se stesso una manifestazione di Dio, con i suoi sforzi si svincola da ciò che è umano e trascende cosi per vari gradini sino a Dio accorgendosi della sua unità fondamentale con la divinità medesima. Egli diviene Dio da se stesso. Secondo la dottrina dei Padri ciò si attua, invece, solo attraverso il Cristo storico glorificato. La divinizzazione è qui ricollegata a un evento storico. Essa presuppone l'incarnazione di Dio, vale a dire l'ingresso di Dio nel mondo e nel tempo. Solo entrando in contatto con un evento storico determinato e partecipando alla vita di una determinata figura storica, l'uomo può raggiungere la divinizzazione. Inoltre, l'uomo non perde il suo carattere di creatura ; non si annulla ma si rafforza la distinzione tra Dio e l'uomo. Anche la creatura divinizzata permane una creatura e questo per l'eternità. La divinizzazione consiste nel fatto che la creatura rifulge tutta per l'essenza divina che la permea. L'idea dei Padri emerge chiara da un paragone che era loro familiare : come il ferro immerso nel fuoco s'impregna della natura del fuoco e di­ viene infocato, cosi il giustificato riceve la natura di Dio e diviene divino. I giustificati sono detti santi, portatori di Dio (deiferi) in quanto sono penetrati e dominati dalla santità di Dio. Altri Padri paragonano la grazia col sole, che illumina i corpi e li rende luminosi (Basilio), con la luce, che brilla attraverso l'aere, con il profumo che penetra negli abiti chiusi

§ 185.

LA VITA DIVINA COME RINNOVAMENTO IN TERIORE E SANT I F ICAZI ONE

I II

in un armadio (Cirillo di Alessandria). Sovente, seguendo Paolo, chiamano la grazia vestito dell'uomo. L'espressione però, come già in S. Paolo, non si deve intendere in senso puramente morale; essa significa un nuovo essere (vedi sopra in questo stesso paragrafo).

Basti addurre un paio di esempi. Origene dice : « I discepoli conobbero che in Cristo ebbe inizio l'unione della natura wnana con la divina, affinché ciò che è umano a motivo della sua stretta unione con il divino, fosse esso stesso divinizzato. E questo non solo in Gesu Cristo ma anche in tutti gli uomini che con la fede iniziano pur essi una vita quale la insegnò Gesu. Una vita che porta all'amicizia con Dio e alla comunione con lui tutti coloro che camminano secondo i precetti di Gesu » (Contra Celsum, 3, 28). Secondo Atanasio « Cristo non è divenuto Dio mentre prima era solo uomo, ma da Dio che era si è fatto uomo per condurre noi alla divinizzazione » (Contra Arianos, r, 39). « Come il Signore è divenuto uomo assumendo la carne umana, cosi gli uomini accolti dal Verbo nella sua carne e in tal modo divinizzati, ereditano una vita eterna :e (lbid., 3, 34). Egli dal fano che lo Spirito Santo ci divinizza ne deduce la natura divina. « Se lo Spirito Santo fosse una creatura noi non avremmo per mezzo di lui nessuna partecipazione di Dio, ma saremmo uniti alla creatura ed estranei alla natura divina, non parteci­ pando affatto ad essa. Ma ora, siccome siamo detti partecipi del Cristo e di Dio, è evidente che l'unzione e il sigillo che è in noi, non è della natura delle cose create, ma di quella del Figlio che, per lo Spirito che è in lui, ci unisce al Padre... Ma se per la partecipazione dello Spirito, noi diventiamo partecipi della natura divina, sarebbe insensato chiunque dicesse che lo Spirito appartiene alla natura creata e non a quella di Dio. Perciò coloro nei quali si trova sono divinizzati. Se poi egli divinizza non v'ha alcun dubbio che la sua natura sia quella di Dio » (Ep. ad Serapionem, r, 24). « Il Signore ha detto che lo Spirito è lo Spirito della verità e consolatore; donde appare che in lui la Trinità si completa. In lui dunque il Verbo glorifica la creazione e, conferendo la divinizzazione e la filiazione adot­ tiva, conduce gli uomini al Padre. Ma colui che unisce la creatura al Verbo non può esser lui stesso del numero delle creature; colui che conferisce la filiazione adottiva non può essere estraneo al Figlio, se no occorrerebbe cercare un altro Spirito, affinché in quest'ultimo sia lui pure unito al Verbo. Ma ciò sarebbe assurdo. Lo Spirito non è dunque del numero delle cose che furono tratte alla esitenza, ma è proprio alla divinità del Padre, e in lui il Verbo divinizza pure le cose create. Ora colui nel quale la creazione è divinizzata, non può essere egli stesso fuori della divinità del Padre » (Ibid., 25). La trasformazione della natura umana mediante la grazia non significa che la natura sia annientata. Questa rimane nella sua essenza, nella sua esistenza e con le sue forze. Ma è permeata e trasfigurata dalla luce e dal fuoco di Dio (cfr. §§ 1 1 4-1 17).

112

P. I I .

-

L A GRAZIA

§ 186. Peccato e grazia. l . - Come già detto,

il Concilio di Trento designa come causa finale

della nostra giustificazione la gloria di Dio e di Cristo e la vita eterna ; come

causa efficiente

l'Iddio misericordioso che senza alcun nostro merito

ci lava e ci santifica suggellandoci e ungendoci con lo Spirito Santo della promessa, che

è pure caparra della nostra eredità ; come causa meritoria, il nostro Signore Gesu Cristo ; come causa strumentale il battesimo, che è il sacramento della fede; come unica causa formale la giustizia di Dio, non quella della quale egli è il Figlio prediletto e unigenito di Dio,

giusto ma quella di cui rende giusti noi, della quale arricchiti siamo rin­ novati nello spirito interiore ; quella che riceviamo in noi stessi secondo la misura che piaccia allo Spirito di impartire liberamente ai singoli

(1 Cor. 12, I I ) e secondo la propria disposizione e cooperazione di ciascuno.

2.

-

Parecchi partecipanti al Concilio di Trento (Contarini, Sanfelice,

Pole, Pighi, Gropper e sopra tutti Seripando) pensavano che ci fosse nei giustificati una

duplice giustizia :

una, ossia la giustizia di Cristo, a noi

imputata da Dio, e un'altra inerente a noi ; Seripando voleva in tale modo opporsi alla concezione protestantica e specialmente all'opinione sostenuta ultimamente da Calvino. In pari tempo egli intendeva perfezionare con quella di Cristo la giustizia imperfetta propria al giustificato. Egli pensava pure che sarebbe ben maggiore la S?eranza qualora il cristiano potesse appoggiarsi non tanto sulla propria giustizia quanto piuttosto su quella di Cristo. La dottrina della duplice giustizia fu animatamente discussa e assai combattuta dal teologo gesuita Lainez. Fu respinta dal concilio nel senso che vi

è un'unica causa formale della nostra giustificazione. L'uomo è giusto per la giustizia a lui inerente, quindi per una propria giustizia. Il concilio ha tuttavia messo in risalto che la giustizia inerente all'uomo, la giustizia propria, è una giustizia donataci in vista della giustizia di Cristo, dei meriti suoi. La giustizia dell'uomo ha la sua causa efficiente ad esempio nella

iustitia Christi, quindi nella iustitia aliena. Perciò la è un elemento nella giustificazione dell'uomo, ma non L'uomo non è rivestito della giustizia di Cristo in modo

giustizia di Cristo

è quello formale.

tale che questa costituisca la causa formale della sua propria giustizia. La giustizia di Cristo

è la nostra giustizia cosi come la sua vita è la vita

nostra, in modo reale ma solo analogico. In ragione della sua origine la

§ 1 86 . PECCATO E GRAZIA

Il3

nostra giustizia può essere chiamata una giustizia « esteriore » . Ma questa giustizia proveniente dall'esterno è infusa nell'uomo a cui inerisce non come un possesso di cui possa usare a piacimento, cosi come può essere nel caso di un bene materiale, che si possiede, ma come un dono concesso dalla continua benevolenza divina, dono di cui l'individuo è responsa­ bile. Come Dio fa sussistere la natura per una azione creatrice continua, cosi egli produce la giustizia del giustificato con una continua azione santificatrice.

3.

-

Le scuole teologiche si sono posta la questione circa il rapporto

intercorrente tra la remissione dei peccati e il rinnovamento e la santifi­ cazione dell'anima. Il Concilio di Trento non ha definito questo problema. Esso si limitò ad attribuire alla grazia sia la remissione dei peccati sia l'interna santificazione dell'individuo (Sess. dentemente però sotto

5, can. 5, Denz. 792). Evi­ il nome di grazia che causa il perdono e la santi­

ficazione si intende la cosiddetta grazia attuale di cui parleremo piu avanti. Pertanto il problema sul rapporto tra remissione dei peccati e santifica­ zione rimane una questione puramente scolastica. È indiscusso che remis­ sione e santificazione sono due elementi tra loro in cosi intimo rapporto che non vi può essere l'uno senza l'altro. Ci si chiede tuttavia se si tratti di una connessione essenziale, in certo qual modo metafisica e necessaria. La scuola

tomista

sostiene un rapporto di tale genere, affermando che

la grazia santificante e il peccato per loro natura si oppongono necessa­ riamente, sicché nemmeno Dio con la sua potenza assoluta può far si che coesistano. Tale scuola va ancora oltre e sostiene che il peccato viene annientato mediante l'infusione della grazia santificante. Non si può qui naturalmente pensare ad una priorità temporale, ma solo ad una priorità di natura della grazia nei confronti del peccato. Secondo un'altra opinione sostenuta da parecchi

scotisti

e particolar­

mente accentuata dai nominalisti, l'infusione della grazia, che viene sem­ pre per togliere i peccati, è solo una condizione e occasione, data la quale, Dio con libero decreto della sua volontà rimette i peccati medesimi. Secondo

Scoto

peccato e grazia, considerate nella loro entità, non si

escludono necessariamente a vicenda ; considerate invece nella loro qua­ lità etico-religiosa non possono naturalmente coesistere in un individuo, dal momento che il peccato significa inimicizia e la grazia amicizia con Dio. L'uno cioè include la volontà della dannazione e l'altra al contrario la volontà della beatitudine celeste

l,

d. 1 7 ; d .

3,

n . 22).

(Oxon. IV,

d. 16, q. 2, n. 12 e 1 9 ;

1 14

P.

I I . - LA GRAZIA

Comunque si voglia risolvere il problema del rapporto tra la remissione dei peccati e l'interiore rinnovamento dell'uomo, il Concilio di Trento non sostenne formalmente la dottrina che Dio compia

l'atto

della giusti­

ficazione in modo tale che con l'infusione della grazia sia annientato il peccato. ·Perciò anche dopo il concilio il problema è lasciato alla discus­ sione dei teologi. Quanto allo

stato

di giustificazione è decisiva la dottrina

tridentina che la giustizia donata da Dio e a noi inerente è l'unica causa formale della nostra giustificazione.

§ 187. Spiegazione della interiore trasformazione e santificazione.

La potenza della grazia santificante attestata dalla Scrittura può essere o esagerata o sottovalutata.

l.

-

Fu esagerata, ad esempio, da

Pietro Lombardo, il

quale identificava

la grazia santificante con la carità o amore e l'amore con lo stesso Spirito Santo. L'amore poi, che è lo Spirito Santo, è, secondo lui, proprio l'amore che viene da Dio riversato negli uomini in grazia. In altre parole l'amore col quale Dio infiamma gli uomini in stato di grazia, è, secondo questo teologo, un amore personale. Egli quindi non distingue la grazia creata dalla increata. Nonostante la grande importanza goduta da Pietro Lombardo nei se­ coli

XII-XVI,

la sua dottrina rimase senza grande influsso nella teologia

scolastica. Contro tale teoria sta la ragione che la grazia è una realtà creata e non increata e

il fatto che la Scrittura distingue tra l'amore che

ci è infuso e lo Spirito Santo (Rom. 5, 5 ) . Essa poi è anche intrinseca­ mente impossibile, poiché lo Spirito Santo è Dio e non può unirsi all'uomo come principio formale, come forma sostanziale ; altrimenti sarebbe per l'uòmo ciò che l'anima è per il corpo. Cfr. la confutazione del panteismo. Distinta dalla dottrina di Pietro Lombardo è l'opinione secondo cui lo Spirito Santo, mediante la grazia quale causa formale della giustificazione, unisce a sé l'uomo giusto in un modo analogo a quello con cui il Logos ha unito a sé la natura umana di Cristo.

2.

-

Secondo i

nominalisti

la grazia santificante non è altro che il favore

di Dio. Affine è il concetto di alcuni teologi dell'epoca illuministica, come

§ 18 7.

SPIEGAZIONE DELLA INTERIORE TRASFORMAZIONE E SANTIFICAZIONE

II5

Satder e Hermes, pei quali la grazia santificante non è altro che la vo­ lontà benevola ed efficace con cui Dio garantisce ai giustificati gli aiuti gratuiti necessari alla conservazione della giustizia. 3 . Che cosa dunque è mai la grazia santificante? Se vogliamo definirne l'essenza dal punto di vista filosofico e con l'aiuto delle categorie aristo­ teliche dobbiamo dire che è una realtà creata, permanente, supernaturale da porsi tra le qualità inerenti all'io umano e classificabile come qualità stabile o abito. È una realtà accidentale che, secondo il Concilio di Trento (Sess. 6, can. r r), inerisce all'io umano. La grazia santificante non ha un'esistenza propria, non esiste in sé e per sé; è un accidente. Ma non si può intendere come una realtà che aderisce solo esteriormente all'uomo, poiché lo permea tutto e lo colora. L'uomo ne è trasformato come il ferro reso incandescente dal fuoco. Anche se antologicamente è inferiore alla sostanza, la grazia è tuttavia superiore ad ogni essere sostanziale creato per la sua potenza e il suo valore. Volendo maggiormente precisare il carattere accidentale, dobbiamo dire che appartiene alla qualità e, siccome non è pro,:Jriamente una po­ tenza, va collocata tra gli abiti. La concezione della grazia come realtà accidentale fu elaborata soprat­ tutto da Tommaso d'Aquino, il quale ne accentua l'aspetto statico­ entitativo. Anche Bonaventura concepisce la grazia come qualità, ma in base alla sua filosofia d'is?irazione piuttosto platonica e neoplatonica, presenta questa qualità come luce che si irradia continuamente da Dio e penetra l'uomo. La grazia quindi esiste nell'uomo in quanto vi è di continuo prodotta (II Sent., d. r6, a. 2, q. 3). In tale guisa se ne accentua maggiorii'.ente l'aspetto dinamico senza però escludere quello statico. Tut­ tavia anche l'Aquinate non nega che la qualità sussista mercé un continuo atto divino creativo, sicché mentre la grazia inerisce all'uomo dice pur sempre relazione a Dio. E questa è propriamente la sua base. Queste determinazioni sono, poi, cosi strettamente ricollegate con le decisioni del magistero ecclesiastico che si può attribuire loro il grado di certezza teologica (cfr. § 20 ; Conc. Trident., Sess. 6, cap. 4· 7· ro. 1 5 . r6, can. r r ; inoltre il Concilio di Vienne, Denz. 483). Secondo il Catechismo romano la grazia è divina qualitas in anima inhaerens. Quando la si chiama qualità, non si deve dimenticare il carattere analogico del termine. La grazia santificante esiste in un modo simile a quello con cui nel campo naturale esistono gli accidenti, ma, anche qui, la dissimiglianza soverchia la somiglianza. -

P.

n6

II.

-

LA GRAZIA

4. Dal punto di vista teologico si deve osservare quanto segue. Un gruppo di teologi (ad es. Alessandro d'Hales, Duns Scoto, gli scotisti, Bellarmino e parecchi teologi al Concilio di Trento) identificano la grazia donata all'uomo giustificato con la carità infusa. I sostenitori di tale opi­ nione poggiano su ragioni di notevole valore. La Bibbia e diversi Padri, tra cui principalmente S. Agostino, attribuiscono alla grazia gli stessi ef­ fetti che alla carità. Inoltre la facoltà a cui la grazia inerisce è, secondo questa opinione, la volontà. Sembra tuttavia che quest'ultima afferma­ zione non sia inscindibilmente ricollegata con la predetta opinione. Si potrebbe infatti osservare che, essendo Dio amore, anzi l'amore perso­ nificato, la grazia inerente all'uomo può concepirsi come un fuoco, un calore che penetra e afferra lo stesso essere intimo dell'uomo. Tomrnaso d'Aquino, Bonaventura, e gran numero dei teologi posteriori, sostengono invece una distinzione reale tra la carità e la grazia. Essi in­ tendono la grazia come una realtà che afferra l'intima essenza dell'indi­ viduo, vale a dire quella parte piu profonda del suo essere, in cui intel­ letto, volontà e sentimento non sono ancora facoltà distinte ; una realtà spirituale che racchiude in sé non solo l'amore, ma anche la conoscenza, essendo a un tempo luce e calore, luce ardente e calore splendente. Anche per questa O?inione si adducono prove bibliche e del magistero ecclesiastico. La Bibbia parla di grazia e di carità (amore) quasi come fossero due realtà distinte : 2 Cor. 1 3, I 3 ; I Tim. I , 14. Le definizioni ecclesiastiche pongono a fianco l'una dell'altra la grazia e la carità ; cosi il Concilio di Vienne (Denz. 483) e il Concilio di Trento (Sess. 6, cap. 7 e can. 1 1). Tuttavia queste ragioni non portano a una conclusione certa, come del resto non vi conducevano nemmeno le argomentazioni scotiste. Gli aderenti alla concezione tomfsta possono fare buona leva sulla cor­ rispondenza tra la vita naturale e soprannaturale. Le facoltà naturali pre­ suppongono un essere come principio da cui derivano. Sembra logico che anche le stesse potenze della vita soprannaturale presuppongano un essere supernaturale da cui provengono, ossia la grazia santificante. Anche se parecchi scotisti intendono la grazia non solo come un perfezionamento di una capacità naturale, bensi come un'entità accidentale ricolma di carità e tendente ad essa, sembra tuttavia che la spiegazione tomista della grazia sia piu ricca in quanto include pure la conoscenza. Sono pure nella linea dottrinale tomista tutti quei passi biblici in cui si parla di una ri­ nascita, di figli di Dio, di nuova creazione. Secondo l'opinione scotista­ francescana la grazia appare di piu nel suo aspetto dinamico e per­ sonalistico. -

§ 187. SPIEGAZIONE DELLA INTERIORE TRASFORMAZIONE E SANTIFICAZIONE

117

5. Mentre la filosofia conosce soltanto abiti operativi e li considera come perfezionamento di facoltà preesistenti, in quanto danno l'inclina­ zione e la facoltà di compiere determinati atti, la grazia al contrario è un abito entitativo, che non solo mira a dare tale facoltà, ma conferisce al­ l'uomo un nuovo modo di esistere soprannaturale. Questo modo di esi­ stere porta naturalmente anche ad agire, poiché ogni essere tende a ma­ nifestarsi e ad esprimersi nell'azione. -

6. Quanto al modo con cui l'uomo, mediante il dono del nuovo essere, viene permeato dalla luce e dal fuoco divino, si caratterizza pro­ prio dal fatto che questo nuovo essere è fondato nella partecipazione stessa di Dio. Sarebbe un sottovalutare i dati della rivelazione qualora si riducesse questa partecipazione a una semplice comunione di sentimenti (Kuhm). È una comunanza di essere, ma non in modo che Dio e l'uomo divengano un'unica essenza, un'unica esistenza o un'unica persona. Per avere sostenuto un'unità di essenza Maestro Eckhart fu appunto condan­ nato dal magistero ecclesiastico (Bolla In agro dominica dell'anno I 329, Denz. 5 10 ss. ; cfr. J. Koch, Meister Eckhart, in Kirche in der Zeiten­ wende, 1938, 277-3 10). E in realtà alcune sentenze del maestro, se si slegano dal loro contesto, suonano davvero erronee. Di esse abusarono nel sec. XIV spiriti entusiasti per trame conseguenze panteistiche. Ma con ciò non è detto che anche nel contesto in cui si trovano abbiano ad essere errate. Pare anzi, che non lo siano poiché anche Maestro Eckhart volle essere ed era un vero credente. Che abbia pronunziato sentenze le quali diedero occasione ad errori, dipende dal fatto che egli, interiormente tutto pieno di quella realtà che andava predicando, cercò d'esprimere con pa­ role ciò che in lui splendeva e bruciava. La lingua venne meno nel ten­ tativo di dire ciò che è indicibile. E 3· 5 ; 6, I 7 ; I 5, I 8 ; 2 Cor. 4. I 8 ; 5· 7 ; Gal. 2 , I 6 ; Ef. 2 , 4-9 ; Fil. 3, 4-9). Nella fede l'uomo cessa di far valere ostinatamente la propria volontà senza intelligenza (Rom. 9, 32; Io, 2). La realtà ch'egli accoglie, donandosi a Dio, è essenzialmente diversa dalle realtà sperimentali familiari all'uomo naturale. Anche quando la vede nella fede, essa gli rimane invisibile e sconosciuta; gli è vicina e in pari tempo lontana (Rom. 4, I 8 ; I Cor. I , 1 8-3 I ; 2 Cor. 4, I S ; 5, 7). « Ricordatevi poi di quei primi giorni, nei quali, dopo essere stati illwninati, sosteneste cosi grave e penosa lotta : ora fatti spettacolo di ludibri e di vessazioni, ora divenuti solidali con quelli che versavano in condizioni siffatte. E invero pren­ deste parte alle pene dei prigionieri e accettaste con gioia la rapina delle vostre sostanze, sapendo bene d'avere voi una ricchezza migliore e duratura. Non vogliate, dunque, far getto della vostra sicura fiducia, la quale ha una grande ricompensa. Di perseverante pazienza voi avete bisogno, affinché, avendo fatta la volontà di Dio, conseguiate l'oggetto della promessa. Poiché ancora un poco, appena un poco, e colui che viene verrà e non temporeggerà. Il mio giusto poi vivrà di fede; ché, se egli si ritira, non si compiace in lui l'anima mia. Noi però non siamo di quelli che si ritirano a rovina, ma di quelli che credono a salvaguardia dell'anima. È poi

§ 193· LE VIRTU DIVINE DELLA FEDE, SPERANZA E CARITÀ

151

l a fede sostanza di cose sperate e argomento d i quelle che non si vedono. Riguardo ad essa ricevettero buona testimonianza gli antichi. Per fede noi conosciamo che l'universo è formato dalla parola di Dio, di modo che non da cose visibili è deri­ vato ciò che si vede. Per la fede Abele offrf a Dio un sacrificio migliore di quello di Caino; perciò ricevette testimonianza d'essere giusto, rendendo Iddio testimo­ nianza ai suoi doni, e per essa, benché morto, parla ancora. Per fede Enoch fu traslato, cosi da non vedere la morte, e non fu piu ritrovato, perché Iddio lo aveva trasportato. Prima della traslazione, infatti, ricevette buona testimonianza ch'egli era piaciuto a Dio. Ma senza la fede è impossibile piacere; poiché chi s'accosta a Dio deve credere che egli esiste e di quelli che lo cercano diviene rimuneratore. Per la fede Noè, divinamente informato intorno a cose che ancora non si vedevano, con pio timore preparò un'arca per la salvezza del suo casato; per la quale con­ dannò il mondo e divenne erede della giustizia secondo la fede. Per la fede Abramo obbedi alla chiamata divina di partire per un paese che doveva ricevere in eredità e parti ignorando dove andava. Per la fede venne a soggiornare nella terra pro­ messa come in terra straniera, abitando sotto le tende, con !sacco e Giacobbe coeredi della stessa promessa; poiché aspettava la città che ha salde fondamenta, della quale architetto e costruttore è Dio. Per la fede Sara pure ricevette la forza di concepire, e questo oltre l'età appropriata, poiché ritenne fedele colui che aveva promesso. Per questo pure da uno solo e, per di piu, pressoché morto, derivò una discendenza come le stelle del cielo, per moltitudine, e come l'arena lungo la spiaggia del mare, innumerabile. Nella fede morirono tutti costoro, senza avere conseguite le cose loro promesse, ma avendole viste solo e salutate da lontano e avendo riconosciuto d'essere forestieri e pellegrini sulla terra. Coloro, infatti, che parlano cosi mostrano chiaramente di cercare una patria. E, certo, se avessero fatta menzione di quella onde erano usciti, avrebbero avuto opportunità di ritornarvi. Ora, invece, essi aspirano a una migliore, cioè celeste : per questo di loro non si vergogna Iddio, di chiamarsi Dio loro; poiché ha preparato per essi una città. Per la fede Abramo, messo alla prova, offri Isacco; e offriva l'unico figlio suo, lui che aveva ricevuto le promesse e a cui era stato detto : In Isacco ti sarà data una discendenza. Egli pensava che Iddio può anche suscitare di tra i morti. Perciò lo riebbe quasi in figura. Per la fede !sacco benedisse Giacobbe ed Esau anche in ordine a cose future. Per la fede Giacobbe morente benedisse ognuno dei figli di Giuseppe e adorò inchinandosi sulla cima del suo bastone. Per la fede Giuseppe, in fin di vita, menzionò l'uscita dei figlioli d'Israele e diede disposizioni circa le proprie ossa. Per la fede Mosè, appena nato, fu tenuto nascosto dai suoi genitori, perché videro che il bambino era grazioso, e non paventarono l'ordine del re. Per la fede Mosè, fatto grande, ricusò di venire chiamato figlio della figlia di Fa­ raone, avendo scelto piuttosto di essere maltrattato col popolo di Dio che di godere un passeggero vantaggio di peccato; poiché stimò ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto l'obbrobrio di Cristo : guardava egli alla ricompensa. Per la fede abban­ donò l'Egitto, senza temere l'ira del re : infatti, come se vedesse colui che è invi­ sibile, restò saldo. Per la fede celebrò la Pasqua e l'effusione del sangue, affinché lo sterminatore dei primogeniti non toccasse i loro. Per la fede passarono il Mar Rosso come per terra asciutta; il che avendo tentato gli Egiziani, furono inghiot­ titi. Per la fede le mura di Gerico caddero, dopo che ne fu fatto il giro per sette giorni. Per la fede Raab, la meretrice, non peri con gli increduli, avendo accolto

P.

Il.

-

LA GRAZIA

pacificamente gli esploratori. E che dirò io ancora? Mi mancherebbe il tempo per narrare di Gedeone, Barac, Sansone, Jefte, Davide e Samuele e dei profeti. I quali, in virtu di fede, soggiogarono i regni, esercitarono la giustizia, conseguirono le promesse, turarono le fauci dei leoni, estinsero la violenza del fuoco, sfuggirono al taglio della spada, si riebbero dall'infermità, divennero forti in guerra, fugarono eserciti stranieri. Delle donne riebbero per risurrezione i loro morti. Altri poi furono messi alla tortura, non avendo accettata la liberazione, per avere in sorte una migliore risurrezione; e altri sperimentarono ludibri e flagelli, inoltre catene e prigionia. Furono lapidati, segati, messi alla prova, morirono di spada, s'aggi­ rarono in pelli di montone e di capra, privi di tutto, tribolati - essi dei quali non era degno il mondo, - erranti nei deserti, sui monti, nelle spelonche e nelle ca­ verne della terra. E tutti costoro, benché abbiano ottenuta buona testimonianza a motivo della fede, non riportarono l'oggetto della promessa, avendo Iddio predi­ sposto qualcosa di meglio a nostro riguardo, affinché non raggiungessero senza di noi il perfezionamento ».

Nella serie dei credenti qui riportata, Abramo detiene il primato. Sia per il giudaismo posteriore che per il cristianesimo primitivo egli passa per il vero padre dei credenti. La sua fede è l'esemplare di ogni altra fede. La peregrinazione di Abramo e il cammino d'Israele nel deserto sono figura di ciò che sarebbe occorso in Cristo. La terra di Canaan è un'immagine terrestre del mondo futuro, Gerusalemme è figura della città celeste. Nella fede l'uomo vede questi rapporti, senza tuttavia vederli sino in fondo. La fede è in pari tempo una conoscenza e una non conoscenza (Ebr. I I, 3· 8. I9). La fede, infatti, concerne realtà invisibili che in avvenire diverranno visibili. Essa perciò è rivolta a ciò che è presente invisibilmente e nello stesso tempo futuro. Il futuro in un certo senso già ci diviene presente. Poiché le forze dell'eone futuro sono di già all'o?era nel tempo attuale (Ebr. 6, 5). La città celeste è già stata inaugurata dal sangue di Cristo (Ebr. 9, 24 ; 12, 22 s.). Nella fede l'uomo vede in lontananza questa città. La lontananza gli può far sorgere dei dubbi ; ma la promessa divina lo previene dall'accettarli. Nella confessione del futuro quel che oggi pos­ sediamo è di già alcunché che lo preannuncia. L'ultimo compimento l'at­ tende il credente da colui che deve venire. La sua esistenza è perciò vin­ colata alla promessa divina. Il suo movimento avrà termine alla fine del pellegrinaggio terreno quando finalmente avrà riposo nella città verso cui era diretto. L'avvenire per lui si attuerà dopo la risurrezione dei morti. Perciò la fede in ciò che ora è invisibile è fede nella risurrezione. Il cre­ dente vive proteso tra i due poli di un presente imperfetto e di un futuro perfetto. L'esistenza cristiana ha quindi un'impronta escatologica. c) La liturgia nella domenica di Quinquagesima e nel mercoledi dopo

§ 193· LE VIRTU DIVINE DELLA FEDE, SPERANZA E CARITÀ

153

la domenica di Quaresima legge il Vangelo del cieco nato. La guarigione avveratasi da quasi due millenni serve per trasmettere il lieto messaggio che la cecità spirituale sta per essere guarita. Il ristabilimento della vista sensibile è un'immagine per il ristabilirsi della vista spirituale. Il simbo­ lismo della luce nel sabato santo testifica ugualmente la fede della Chiesa nella illuminazione procurataci da Cristo. Cfr. A. Lohr, L'anno liturgico, Pado va 1956. Nella liturgia orientale è vivissimo il senso dell'illumina­ zione spirituale conferitaci dal battesimo. ti) I Padri chiamano il battesimo con il nome di illuminazione. È il grande mezzo voluto da Dio per comunicarci la luce, perché l'uomo possa partecipare alla luce di Cristo. Giustino martire dice : « Questo bagno si chiama illuminazione, poiché coloro che vi si immergono, sono illuminati nello spirito » (Apol. I, 6 1 ; cfr. 65). Lo Pseudo-Dionigi Areopagita (De eccl. hierarchia, c. 3) spiega : « Alla stessa guisa anche la santa iniziazione della rinascita in Dio, perché ci elargisce piena luce ed è principio di tutte le divine ascensioni nella luce, celebriamo con vero nome quale donatrice di luce. Se pure infatti è comune ai riti gerarchici tutti elargire sacra luce agli iniziati, tuttavia questo mi ha donato la prima visione e io sono condotto nella luce alla consummante contemplazione delle altre cose sacre attra­ verso la luce veramente fontale di quello » (rrad. di E. Turolla). e) La comunione di pensiero con Cristo, a cui la virtu infusa della fede ci rende atti, si distingue da tutte le altre comunanze di pensiero anche per il fatto che queste hanno per oggetto qualcosa di diverso dalla persona stessa cui ci si unisce. Invece la comunione tra Cristo e i cri­ stiani ha per oggetto lo stesso Cristo, e non solo la sua dottrina, la sua figura, la sua opera e la sua parola. Non si può scindere la sua parola dalla sua stessa persona. Ciò è possibile presso qualunque altro individuo, ma non è affatto possibile in Cristo. Egli è infatti il Verbo pronunziato dal Padre nel mondo. Il Padre parla la sua parola nella storia, in quanto parla in una natura umana, ossia nella umana natura di Cristo. Le parole di Cristo, nelle quali risuona e si può udire il suo mistero, sono la tradu­ zione in linguaggio umano del Verbo personale pronunciato dal Padre; linguaggio che in molteplici espressioni raccoglie e ci trasmette i raggi del divino mistero di Cristo. Accettare e sentire le parole di Cristo non vuoi dire altro che accogliere il Verbo pronunciato dal Padre (Gv. 1, 12). La fede nel messaggio di Cristo significa pertanto credere nel Verbo per­ sonale del Padre fattosi carne, credere in una persona vivente. È quindi ben piu di una fede nella parola di un sapiente. Quando diciamo che la fede consiste nel ritenere qualcosa per vero, asseriamo una cosa esatta, ma

154

P. Il.

-

LA GRAZIA

non ne diamo una definizione esauriente. La fede, se cosi è lecito espri­ merci, è un ritenere per vero, uno stringersi e un aderire fermamente alla persona del Verbo di Dio incarnato. Il cristiano nella fede non afferma soltanto né primariamente autentiche verità (certo, necessariamente anche queste), ma afferma e accetta una realtà personale e vivente. Per mezzo della fede ci teniamo stretti a Cristo che realmente ci è unito, sia pure in modo invisibile e inesperimentabile. Paolo scrive agli Efesini : « Nella fede è Cristo che dimora nei nostri cuori » (3, 1 7 ; cfr. § 1 82). f) Il si che la persona umana dice a Cristo è un atto dell'intelletto. Ma non si può dire si a un uomo in modo sincero e vivo senza amore, senza che vi sia una buona disposizione verso di lui. Perciò in una fede vivente e perfetta dev'essere pure incluso l'amore. Possiamo ancora meglio approfondire questo fatto pensando che Cristo è il Verbo d'amore pro­ nunziato dal Padre entro questo mondo. In Cristo, come già vedemmo, si è incarnato l'amore del Padre. La manifestazione del divino amore è lo Spirito Santo. Il Padre infatti ha pronunziato nello Spirito Santo il suo Verbo d'amore. Perciò l'uomo solo nell'amore può parlare al Verbo personale del Padre, pronunziato nello Spirito Santo. Non ci possiamo accostare all'amore mediante una semplice conoscenza intellettiva della sua realtà, bensi andandogli incontro con altrettanto amore. Dal momento che il Padre parla il suo Verbo d'amore, questo è in certo senso la cor­ rente per il cui mezzo la parola del suo amore perviene a noi. È pure la corrente per cui può pervenire, al Padre la risposta del nostro amore. Noi quindi affermiamo Cristo, ch'è l'amore fattosi visibile del Padre, proprio nell'amore che è lo Spirito Santo. Non se ne deve concludere però che la conoscenza sia esclusa, ma che noi facciamo il nostro atto di fede mediante l'intelletto reso diviniforme e interiorn:ente informato dalla ca­ rità. È mediante un tale atto di fede che strettamente aderiamo e ci strin­ giamo a Cristo. g) Come già abbiamo detto prima, il nostro movimento nello Spirito Santo non si ferma a Cristo, ma procede oltre sino al Padre. Il nostro « si » che, nel divino fiume d'amore, ossia nello Spirito Santo, è pervenuto a Cristo, da questi è ripreso e immesso in quel « movimento » che peren­ nemente porta Cristo verso il Padre. Il movimento della nostra conoscenza verso il Padre è parte del piu vasto movimento di tutto il nostro io, ma noi lo astraiamo da esso per dargli maggior rilievo, e lo possiamo spiegare nel modo seguente. Cristo, a cui è congiunto il battezzato, contempla immediatamente, come vedemmo (§ 1 50), la gloria di Dio. Ode parimenti il Verbo eterno del Padre e la

§

193· LE VIRTU DIVINE DELLA FEDE, SPERANZA E CARITÀ

155

missione salvifica affidatagli dal Padre medesimo (Gv. 3, 22 ; 5, 30 ; 6, 45; 8, 26. 2 8 ; 1 5, 1 5). A questi atti di vedere e di ascoltare ha pure parte colui che sta in comunione vitale con il Cristo. Egli però contempla tutto ciò, come già osservammo, non in visione, ma nella fede. Ecco le conseguenze che si possono trarre da quanto abbiamo sopra osservato. Come tutta la natura umana di Cristo, cosi anche il suo cono­ scere è stato afferrato dal ritmo vitale del Logos. Questo infatti è in Cristo il soggetto di tutte le azioni. È la persona anche della natura umana. Il Logos, con cui la natura umana è congiunta nella conoscenza di visione, è egli stesso movimento personale verso il Padre (§ 58 ) . Esso è sia il Verbo personale pronunziato dal Padre, sia la risposta personale ad esso rivolta. Accetta e afferma nella sua ris?osta con gioia ed amore tutto ciò che il Padre ha in lui espresso. La natura umana di Cristo sta quindi in vivente comunione di pensiero con il Padre. Perciò chiunque sta in comunione di pensiero con Cristo, viene attratto in questo movimento di pensiero verso il Padre, sta quindi in comunione di pensiero con lo stesso Padre. Chi crede in Cristo afferma, quindi, ciò che il Padre medesimo afferma. Dona il suo assenso a tutto ciò che il Padre decide e dispone, anche al dolore e alle sofferenze. Che la fede sia comunione con Cristo e per mezzo suo con il Padre, ma una comunione che si attua nella conoscenza, diviene ancor piu com­ prensibile se si pensa che la conoscenza stabilisce una specie di unione, di sposalizio tra il conoscente e il conosciuto. E ciò sia nella conoscenza visiva che nella conoscenza auditiva. Nella visione colui che vede si rivolge verso l'oggetto veduto. Ma anche ascoltando ci si rivolge a chi parla. Perciò ci uniamo a chi ci si rivolge sia con la vista che con l'udito. h) Possono gli uomini viventi in peccato mortale possedere la fede? Dal momento che la fede significa dire di « si » a Dio, mentre il peccato significa dire di « no » al medesimo Dio, ci si deve chiedere se sia pos­ sibile la fede senza l'amore. Il Concilio di Trento stabilisce a ragione che vi è anche una fede morta, non vivificata dalla carità, ossia una fede informe. Giacomo asserisce che anche i demoni posseggono una simile fede (2, 1 7- 1 9. 26), per la quale tremano dinanzi a Dio. Si può mai capire come uno mediante Cristo possa credere al Padre e non amarlo? Si può mai dire un « si » al Padre senza amore? È un mistero difficilmente pene­ trabile l'asserire che un uomo possa affermare il Padre celeste e tuttavia non amarlo sia pure in qualche maniera. Si può solo comprendere questo « si » come abituale, privo di forza e di serietà. Non è sufficiente per un'autentica dedizione a Dio. È come quando un individuo osserva una

P. Il.

-

LA GRAZIA

cosa che gli è indifferente e da cui poi storna lo sguardo. Tuttavia anche se la fede morta non può condurre a salvezza, è pur sempre un dono divino, in quanto può costituire il principio per un futuro « si » vivente pronunziato a Dio. Ma la Scrittura dice pure che simile fede porta a quel tremore dinanzi a Dio nel quale i demoni pronunziano il loro « si ». i) Se la fede è una comunione di pensiero con Cristo e per mezzo suo con il Padre celeste, non significa quindi affatto una oppressione e uno spegnimento del pensiero umano, bensi una liberazione e un'espansione nei confronti dei limiti terreni. Essa è, come dice Dante, « la verità che tanto ci sublima » (Par. XXII, 42). Significa in pari tempo una sicurezza contro l'errore vincolando il nostro pensiero a Cristo. Anzi quanto piu l'uomo mediante la fede si unisce a Cristo, tanto piu si libera dalla schia­ viru dell'errore e della incertezza. La massima unione con Cristo significa la massima libertà. La fede poi conduce l'uomo al vero, vivente e cosciente possesso del proprio essere individuale. Il « si » pronunziato dinanzi a Dio equivale a un « si » pronunziato per noi stessi. Nel nostro « si » a Dio abbracciamo, infatti, tutto ciò che Dio avvolge nel suo amore, e per ciò anche noi medesimi. Nella fede in Dio l'individuo raggiunge la certezza (sulla cui natura si veda il § 196) che lui stesso hic et nunc, in tutta la sua concre­ tezza e non semplicemente in modo impersonale è avvolto dall'amore divino. 2.

-

La virtu della carità.

La forza che informa e fa vivere la fede consiste nell'amore. a) Il messaggio della rivelazione soprannaturale è il messaggio del regno di Dio, ossia della signoria di Dio, che è una signoria d'amore (I Gv. 4, 8. I6). L'Antico e il Nuovo Testamento sono una testimonianza dell'amore di Dio verso di noi e in pari tempo un invito divino a pene­ trare nella grandezza di questo amore. Infatti l'autorivelazione divina è un'automanifestazione dell'amore, poiché Dio è amore ( I Gv. 4, 8. I 6). L'ingresso di Dio nel mondo e nella storia significa l'ingresso dell'amore (Gv. I, 9· I4). Quando Dio esce dalla sua inaccessibilità per rendersi ac­ costevole, significa che l'amore è uscito dalla sua riservatezza per rendersi a noi familiare. La via della storia salvifica divina è la via dell'amore. L'amore di Dio del quale ci parla la rivelazione è ben diverso da ogni altro amore di cui si parla fuori del campo rivelato. Con la parola « amore » si esprimono svariate e opposte concezioni. Anche se ogni

§

1 57

LE VIRTU DIVINE DELLA FEDE, SPERANZA E CARITÀ

193-

uomo crede di ben conoscere che cosa sia l'amore, tuttavia la molteplicità e diversità di opinioni al riguardo ci palesano la necessità di una piu pre­ cisa determinazione di esso.

b)

La Bibbia designa l'amore con il termine greco

lo indicano piuttosto con

agape.

I Greci

il vocabolo eros. La parola agapiin è quasi ignota

al di fuori del campo biblico. Dove si rinviene ha spesso un significato assai vario e non ben determinato. Equivale quasi a stimare, valutare. Si riferisce tanto

ai beni preziosi come anche all'uomo che ci è caro. il termine eros l'amore che sale verso Dio, mentre

Platino designa con con

il termine agapan indica l'amore che scende verso le cose inferiori.

I Greci hanno in ogni tem�o elevato inni al demoniaco Eros appor­

tatore

eli gioia;

all'iddio che non può essere incatenato ma che tutti in­

catena. Nell'Eros l'uomo trascende sé medesimo per attrarre a sé violen­ temente l'amato. Cosi facendo esso acquista uno stato di ebbrezza, una specie di estasi.

È

appunto ciò che i Greci andavano ricercando nel­

l'amore. I tragici greci lo esaltano con un brivido pari all 'ardore. piu grande degli dèi.

È

È

dominatore degli dèi e degli uomini.

un dio, il «

Tutte le

potenze sia del cielo che della terra sono potenze di sott'ordine di fronte all'onnipotenza unica di Eros. Chiunque ne è stato afferrato piu non possiede alcuna scelta o alcun altro volere o libertà veruna. Nella sua pre­ potenza egli vive la piu eccelsa beatitudine » . Il brivido che i Greci ri­ cercano non è necessariamente l'ebbrezza sessuale. Secondo Platone ogni essere, specialmente lo spirituale, è guidato da Eros. Aristotele lo intende come una forza cosmica, come la forza di attrazione mediante la quale ogni cosa sta in ordine e in movimento. Nel neoplatonismo l'istinto di trascendere la propria vita non è altro che l'Eros,

il

quale ci spinge verso

l'unità e specialmente verso l'uno piu eccelso. (Cosf Stauffer in

l, 34-36). c) Ciò

che la

rivelazione

ThWNT,

soprannaturale ci riferisce circa l'amore

è

essenzialmente diverso, anche se non contrastante con quanto abbiamo sinora visto. L'amore palesatoci dalla rivelazione divina in armonia con l'eroe classico è pur sempre un movimento di uno verso un altro, ma tale che

il primo non cerca di attrarre a sé l'altro, bensi di donare se stesso

all'altro. Non proviene dal sentimento di povertà, bensf dal sentimento di ricchezza. Non si rivolge al « tu » per ricevere da lui qualcosa di cui abbia bisogno, bensf per donargli alcunché della propria pienezza.

È

in

tale modo che Dio viene chiamato amore. Si accosta all'uomo per attrarlo

P.

Il.

-

LA GRAZIA

nella sua vita gloriosa. Tale suo amore è divenuto palese in Cristo e spe­ cialmente nella sua morte sulla croce. d) Nonostante questa divergenza, tra l'amore (eros) e la carità (agape) vi è tuttavia un'intima relazione. L'agape è in un certo senso una forza celeste che, affermando la potenza d'amore esplicantesi nell'eros umano, la determina, le dona la sua direzione, e per cosi dire le dona la sua energia. Inoltre anche alla carità non manca totalmente quell'elemento che caratterizza l'eros, ossia l'anelito dell'amante di accogliere in sé l'amato. Mentre si rivolge al tu, l'io brama di essere da esso accolto. Solo quando il tu si dischiude all'io che gli si offre, il movimento dell'agape raggiunge pienamente il suo fine. Perciò il movimento della dedizione include essenzialmente il fatto d'essere accolto. L'eroç non è soffocato dall'agape, ma piuttosto ne è modificato. Se si chiama eros la capacità d'amare connaturale all'uomo, si deve dire che l'agape ne è l'elevazione soprannaturale e la sua sublimazione. L'eros non è quindi dominato dal­ l'agape come una realtà è dominata da una potenza ostile, bensi viene ad essere da essa spinto al suo ultimo e massimo perfezionamento, poiché è solo l'agape che sa donare rhoso e quiete al cuore umano (cfr. Agostino, Confessioni, I, I ). Mediante il sentimento dell'eros l'uomo anela a Dio, che è amore e beltà. Nella potenza dell'agape l'uomo perviene invece a Dio. L'agape è conseguentemente la redenzione dell'eros. S. Tommaso cosi presenta il rapporto tra i due (S. Th., I, q. 1 , a. 8 ad 2) : « La ra­ gione deve servire la fede, cosi come anche l'inclinazione naturale della volontà deve mettersi a dis;msizione dell'amore ». e) La Sacra Scrittura, sia negli scritti dell'Antico Testamento (se­ condo le sue versioni greche) sia in quelli del Nuovo, adopera il termine agape per caratterizzare l'amore divino in essa testimoniato. Perciò con­ ferisce al termine una nuova forza e un nuovo senso. La parola ebraica ahab, che è la parola principale per designare l'amore, indica talora la passione suprema tra uomo e donna, tal'altra la fedeltà disinteressata dell'amico, tal'altra l'adesione decisa e ferma alla giustizia. Racchiude, quindi, i significati che sono espressi in greco dalle tre parole : eros, philia, agape. Ma, a differenza della espressione greca, la parola ebraica non designa alcun erotismo religioso. L'amore di Dio per Israele e l'amore di Israele per Dio non sono affatto passione ma volontà, non sono ebbrezza ma azione (Deut. 6, 5 ; Lev. I9, 1 8). Si distingue pure dall'eros greco per la caratteristica dell'esclusività. Il suo attributo prin­ cipale è la gelosia (cfr. Giob. 8, 6 ; Gen. 29 ; 37, 3 ; Os. I). L'amore per il prossimo non è un amore cosmopolita, bensi un amore che sceglie, che

§ 193· LE VIRTlJ DIVINE DELLA FEDE, SPERANZA E CARITÀ

1 59

pondera, che preferisce e scarta. È vincolato alle situazioni poiché si ri­ volge a quelli piu vicini, ai membri della famiglia e solo dopo a sfere concentriche sempre piu lontane. Dal fatto che i Settanta hanno scelto il vocabolo greco agapan per tra­ durre la parola ebraica, si vede che tale vocabolo non va spiegato me­ diante la filosofia plotinica, bensi per mezzo dell'Antico Testamento. La parola agape, priva di colore e calore, apparve la piu adatta ai traduttori greci per racchiudere i significati vari dell'ebraico ahab e soprattutto per designare i due aspetti della volontarietà e della attività. Mentre presso Plotino il vocabolo agape è un concetto naturalistico, presso la Bibbia è soprattutto un concetto etico. Nel suo uso biblico ha ricevuto un signifi­ cato nuovo che sino a quel momento gli era estraneo. Tale uso piu com­ plesso del termine ricorre anche quando la parola agape non è traduzione dall'ebraico, ma un creazione degli autori dei libri canonici al tempo ellenistico. Agape designa in essi una relazione fedele tra Dio e l'uomo. Il martire che si decide incondizionatamente per il suo Dio e per amore di Dio accetta ogni sofferenza, esperimenta anche nei dolori piu atroci la fedeltà divina e acquista per il mondo futuro la vita eterna (Sap. 3, 9 ; presso i LXX è 9 , 4; Tob. 14, 7). L'agape è l'amore di Dio per l'uomo che a sua volta invita l'uomo ad amare Dio. Quest'ultimo fatto è però pur esso un dono divino. È la forza della pietà (Lettera di Aristea). Anche in questo campo il Nuovo Testamento è il perfezionamento dell'Antico. Infatti mentre l'Antico accenna solo all'inizio del divino amore, il Nuovo invece ce ne palesa il compimento. Si può quindi dire : Dio è amore, in quanto si accosta all'uomo per accoglierlo nella sua vita gloriosa. L'amore di Dio non è affatto una risposta ad eventuali valori o beni creati; esso invece possiede forza creatrice, produce ciò che ama. L'amore divino si è palesato in Cristo e particolarmente nella sua morte in croce (cfr. § 92). f) Il mondo è stato trasformato dall'amore di Dio che con Cristo si è introdotto nella storia umana. Il mondo è caratterizzato da Giovanni (secondo una terminologia che sa del dualismo gnostico) come tenebra. Ma Cristo vi ha recato la luce. Il dominio satanico, che era dominio dell'orgoglio, della menzogna e dell'odio, è stato distrutto dalla signoria divina, che è signoria d'amore. Tutti i misteri salvifici sono misteri d'amore (Clemente Alessandrino, Quis dives salvetur, 3 7 , 1). Dal tempo di Cristo il mondo è tutto permeato dalla forza di un amore che si offre e si dona, anche se questa rimane occulta. Anche se all'apparenza sembra che le antiche forze dell'odio e dell'orgoglio siano ancora dominanti, di

r6o

P. Il.

-

LA GRAZIA

fatto giu nel profondo è invece l'amore che dice l'ultima parola. E verrà giorno in cui ciò apparirà chiaramente. Allora l'odio e l'orgoglio che già hanno ricevuto il colpo mortale, perderanno del tutto la loro potenza. Anche l'uomo è divenuto altro da quel che era prima. Dal giorno in cui si è verificata la scena del Golgota agisce in lui l'amore celeste apparso in Cristo. Questa potenza non costringe alcuno, ma sospinge tutti. Chiun­ que, ciò nonostante, si dona all'odio deve opporre resistenza all'amore. Per mantenersi in tale suo stato d'odio deve fare oggi piu sforzi di quel che fosse stato necessario nel tempo precristiano, cosicché l'odio nel tempo attuale ha un'impronta assai piu marcata e decisiva. g) Il giustificato è avvolto e permeato in modo piu vivo dall'amore apparso in Cristo e che gli viene infuso con la grazia santificante con tale abbondanza da esserne tutto immerso (Rom. 5, 5). Quest'amore ha la sua origine in Dio (Gv. 3, r6; I Gv. 4, 19; 2 Cor. 1 3, r r ; Ef. 2, 4; r Tess. r , 4). Mentre Dio si comunica all'uomo lo rende pure partecipe del suo amore, poiché Dio è amore. Il Padre celeste configura cosi l'uomo a sua propria immagine, a immagine dell'amore personale. Il giustificato è, quindi, un'epifania dell'amore celeste, in quanto la sua nuova esistenza è improntata all'amore. Questo fatto è percepibile solo da colui che ha gli occhi della fede. Solo chi crede può rendersi como del come l'amore di Dio rifulga nell'uomo giustificato. Dio è l'amore nella sua realtà ori­ ginaria, l'uomo lo è in una realtà riflessa. In tutto il suo essere il giusti­ ficato reca l'impronta del divino amore, di cw è come un'immagine ri­ flessa. È infatti l'amore che riluce e brilla nel giustificato. L'amore del Padre celeste viene partecipato all'uomo per mezzo di Gesu Cristo. Mentre il credente prende parte alla morte e alla risurre­ zione di Cristo, partecipa pure di quell'amore che si è incarnato negli eventi del Golgota e della Pasqua di risurrezione. L'essere « in Gesu Cristo » equivale ad essere nell'amore che si è palesato in lui (I Cor. r6, 24; Rom. 8, 39 ; I Tim. 1 , 14). Perciò la via normale per avere parte all'amore del Padre celeste è identica a quella con cui si entra in comu­ nione con Cristo, ossia la fede e il battesimo. L'amore palesantesi in Cristo manifesta la sua peculiarità e forza pro­ prio nella morte e nella risurrezione. Includendo la disposizione alla stessa morte, conduce in tale modo alla conquista di una vita imperitura. Perciò chiunque riceve l'impronta di tale amore riceve anche, in sigillo, la predisposizione alla morte e acquista in pari tempo il diritto alla vita indefettibile. La comunione con Cristo è attuata per mezzo dello Spirito Santo.

§ 193· LE VIRTU DIVINE DELLA FEDE, SPERANZA E CARITÀ

161

Perciò è anche lo Spirito Santo che riversa nel giustificato l'amore del Padre celeste. Si comprende quindi come di solito la Bibbia nomini si­ multaneamente l'amore e lo S?irito (Rom. 5, 30; 12, 9-I I ; 2 Cor. 6, 6 ; Volg. 5, 22 ; 2 Tim. I, 7 ; Col. 1, 8 ; Ef. 3, 16 ss. ; Gv. 1 4, Gal. 5 , 1 3 1 5 -1 7 ; I Gv. 3, 23 s.; 4, I2 s.). Siccome l'amore comunicato all'uomo mediante la giustificazione ha la sua origine in Dio e quindi è un amore divino, ne consegue che esso reca la caratteristica della santità (Rom. 8, I 7 ss. ; 12, x ; I 5, I 6 ; Ef. I, 4 s. I 5 ; 5 , 23-27; Col. 3 , 1 2 ; I Tess. 3, I2 s. ; 1 Tim. 2 , 1 5 ; Ebr. 12, 1 4 ; I Piet. I, I5 s. ; 2 Piet. 3, n ; Giuda 20 s.). L'uomo diviene santo proprio mentre riceve in dono l'amore e in esso si immerge. Egli santifica anche coloro a cui si rivolge con tale amore (Gv. I7, 19). Originato com'è da Dio, l'amore tende pure a ritornare in lui. Non può accontentarsi di ciò che è nell'universo creato. Non può consumarsi entro il limitato spazio delle creature. Anzi sospinge sempre piu il mondo che ad esso si schiude verso Dio. È quindi una realtà dotata di forza trascen­ dente. Non può quindi essere racchiusa nel mondo poiché la sua dimora non è la terra, ma il cielo. Perciò è scandalo per tutti coloro che si acquietano nel mondo terrestre. Ci diviene quindi comprensibile come costoro abbiano inchiodato sulla croce tale amore palesatosi in Cristo. Esso presenta, infatti, un mistero celeste che può essere accolto solo dai credenti, ma che al contrario urta tutti coloro che sono ancorati al mondo. h) L'effetto che il mistero dell'amore divino produce nell'uomo giu­ stificato è tale che avvolge l'essere intiero e non una facoltà sola. L'amore afferra l'uomo nel vertice del suo spirito, nel suo centro piu intimo e piu profondo. È un movimento metafisica, proveniente dall'alto, che penetra nell'uomo e lo pone al servizio di Dio. Per esso l'uomo diviene persona che riflette Dio, che non è chiusa in se stessa, ma che si protende verso il tu, specialmente verso il tu divino. Questa inclinazione dell'essere umano prodotta dal divino amore sta al di là della polarità sessuale. Certo avvolge pure la tendenza naturale che l'uomo ha per l'amore, ma gli introduce un cangiamento si profondo che vale qui quanto dice Paolo della nuova vita in Cristo : qui non vi è piu né greco né giudeo né uomo né donna, né schiavo né libero, poiché tali differenze sono troppo esigue di fronte alla nuova potenza di vita (Gal. 3, 28 ). Anche se l'amore donato da Dio all'uomo afferra in primo luogo il vertice dello spirito e conseguentemente informa tutto quanto l'essere umano, esso può tuttavia raggiungere il suo fine, che è di spingere l'io =

P. I I .

-

LA GRAZIA

verso il tu, solo quando compenetra le potenze che muovono l'io verso il tu. Esso attua quindi nell'uomo un atteggiamento generale dell'io verso il tu, da cui poi sgorgano i singoli atti d'amore. L'ardore che infiamma l'uomo, cosi trasmutato, lo spinge a donarsi a Dio e anche agli uomini verso cui Dio si rivolge. Perciò l'amore che informa l'uomo si trasforma in un amore attivo (Le. IO, 25-37 ; I Tess. I, 3 ; Gal. 5, 6. I 3 ; Ebr. 6, Io; IO, 24; Giac. I, 25-27 ; A!)oc. 2, I9). Il movimento verso Dio e gli uomini si attua in forza dell'amore di Dio, anzi è esso stesso un atto divino (Gv. 4, 7· 10. 1 9 ; 3, I). L'amore umano è amore nel Padre (Giuda I). È manifestazione dell'amore river­ sato da Dio nell'uomo. Ora, siccome è lo stesso amore divino che agisce in quello dell'uomo, ne consegue che l'atto dell'amore umano è una rea­ lizzazione e una manifestazione analoga dell'amore stesso di Dio; ma pur essendo un effetto di Dio, è pur sempre nello stesso tempo un atto umano. L'uomo infatti è responsabile di accogliere nella sua propria attività umana l'attività amorosa di Dio. Egli stesso perciò diventa soggetto agente dell'amore, e questo diventa suo atto personale. Si avrebbe una contrad­ dizione con l'intima trasformazione, con la nuova esistenza del battezzato, qualora questi non manifestasse il suo nuovo essere infonnato dall'amore con atti corrispondenti - il che sarebbe debolezza e infermità - o peggio se vi si opponesse con l'egoismo e con l'odio. La contraddizione appare ancora piu evidente quando si pensi che il suo « stato » della trasforma­ zione mediante l'amore è l'effetto di un continuo atto di donazione di Dio e quindi ha pure esso stesso carattere attuoso. Se l'amore è dono di Dio ci può sorprendere il fatto che esso ci sia pure comandato. Cristo ne propugna la doverosità con una forza estrema. Egli esige sia l'amore in se stesso sia la manifestazione nell'adempimento dei precetti. Per quanto riguarda questo comando di Cristo, va osservato che esso si spiega dal fatto che Dio, pur presentando il dono dell'amore, non vi costringe alcuno. La proposta divina presenta il carattere di un invito a cui l'uomo può piegarsi oppure opporsi. Il comando con cui Cristo ci obbliga all'amore ha il medesimo valore del dovere di accogliere e non respingere l'amore che ci viene offerto. L'uomo è, quindi, respon­ sabile del fatto che l'amore a lui presentato possa raggiungere il fine per cui gli era stato donato. Quando, opponendosi all'amore che gli viene offerto, respinge tale amore, questo, contro suo volere, si trasforma in condanna e rovina per lui (Gv. I, 10 ss. ; 5, 43; 12, 48). Perciò l'amore si ricollega strettamente all'obbedienza della fede, che è un'obbedienza verso Cristo, ossia verso l'amore che in lui si è palesato (Rom. I, 5 ; 16, 26;

§ 193·

LE VIRHJ DIVINE DELLA FEDE, SPERANZA E CARITÀ

163

2 Cor. ro, 5). Tommaso d'Aquino cosi dice : « La volontà è mossa dallo Spirito Santo all'amore in modo tale che diviene essa pure esecutrice del­ l'atto » (S. Th., 11-11, q. 23, a. 2). Innocenza XI ha condannato l'opinione di Michele de Molinos il quale sosteneva che l'amore è puramente pas­ sivo (Denz. 1242). Tra l'essere e l'agire dell'uomo informato dall'amore sussiste una reci­ procità di rapporti (V. Warnach). L'essere tende ad esplicarsi e a svol­ gersi nell'atto; l'atto dal suo canto non è altro che la manifestazione este­ riore dell'essere che si svolge con libera e responsabile decisione. Se l'amore si intendesse solo come una somma di atti si finirebbe col to­ gliergli il fondamento e conseguentemente si correrebbe il rischio di ridurlo ad un mero attivismo. Ciò varrebbe qualora l'amore o carità si conside­ rasse soio o primariamente come un organizzare degli aiuti per il pros­ simo. Tuttavia l'amore manifesta la sua genuinità solo mediante l'azione (r Gv. 3, r 8 ; Giac. r, 25-27 ; 2 Cor. 8, 7 s. ; Rom. 1 2, 8 s . ; I I ; 2 Tim. 2, 1 5). Rimarrebbe un amore impotente qualora non si palesasse nell'agire quotidiano. Come l'amore di Dio si è incarnato in Cristo, cosi anche l'amore infuso nell'uomo deve esplicarsi, in comunione con Cristo nel­ l'azione, per potere in tale modo acquistare una portata storica. Insomma l'amore è essere attuoso e atto permanente. i) Gesu esige l'amore con tale esclusività che tutti gli altri precetti si riducono ad esso e da esso ricevono la misura del loro valore. Il precetto dell'amore è la sintesi di ogni norma e prescrizione morale. Quando gli si chiese quale fosse il comandamento principe, Cristo rispose : « Ama il Signore, Dio tuo, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua, con tutta la mente tua, con tutte le tue forze. Questo è il primo comanda­ mento. Il secondo è questo : Ama il prossimo tuo come te medesimo. Non vi è altro comandamento maggiore di questi » (Mc. 12, 28-3 1 ; cfr. 22, 34-40; Le. ro, 26 s.). Tutto ciò che è secondo l'amore è cristiforme, è cristiano, mentre ciò che con l'amore contrasta è automaticamente anticristiano. L'amore è il modo di vivere dei credenti. S. Tomrnaso d'Aquino cosi scrive (S. Th., 1-11, q. 65, a. 4) : « La fede e la spe­ ranza, come anche le virtu morali, si possono considerare sotto un duplice aspetto : in uno stato incipiente e poi in uno stato perfetto come virtu. Siccome la virtu è indirizzata a compiere un atto buono, si dice perfetta quando può compiere un atto totalmente buono. Il che si avvera quando non solo si compie una cosa buona ma anche la si compie bene, poiché se quanto si fa è qualcosa di buono ma non lo si compie bene, allora l'opera non è totalmente buona; e neanche l'abito, che

P. Il.

-

LA GRAZIA

è il principio di tale opera realizzerà perfettamente l'essenza della virtU. Cosi quando uno fa delle cose giuste fa

di

certo un'opera buona, ma essa non sarà

opera di virtu perfetta se non le compie bene, ossia secondo una giusta scelta, che

è effetto della prudenza; perciò una virtu senza la prudenza non può affatto

essere una virtu perfetta. Cosi a loro volta, la fede e la speranza possono in ceno modo sussistere senza la carità, ma senza

di essa non hanno l'essenza della vinu perfetta. Infatti siccome

l'atto della fede consiste nel credere a Dio, e credere significa assentire ad un altro di spontanea volontà, ne segue che se la volontà non ha il suo modo dovuto, non potremo mai avere un atto perfetto di fede. Che poi si voglia nel debito modo,

Ogni modo retto della volontà Civ. Dei, 9, inizio), da un retto amore.

ciò dipende dalla carità, che perfeziona la volontà. procede infatti, al dire di Agostino (De

Perciò la fede può ben stare senza la carità ma in tal caso non può essere una virtu perfetta; cosi come la temperanza o la fortezza non lo possono essere senza

la prudenza. Similmente si deve dire della sper:�nz!.l , Inf:nri �hi spem attf."nrie da Dio la beatitudine futura; il che

è di ceno un atto perfetto se procede dai

meriti che uno ha; ma ciò non può essere senza la carità. Se attende la beatitudine, fondandosi su dei meriti che non ha, ma che propone di acquistare in futuro, avremo si un atto di vinu della speranza ma imperfetto, perché privo di carità. Perciò la fede e la speranza possono si sussistere senza la carità; ma senza la carità, se si vuol parlare in senso proprio, non 3ono virtu. Poiché

è essenziale

alla virtu che non solo si operi qualcosa di buono, ma anche che lo si operi bene come afferma Aristotele

(II Ethic.)

».

I precetti che la rivelazione compiutasi in Cristo ci presenta non sono altro che richiami per mostrare, in una determinata situazione, ciò che l'amore esige. È in essi che si rispecchia il comandamento principale, quello dell'amore. Il settimo comandamento, ad esempio, stabilisce come ci si debba comportare, nei riguardi della pro;:>rietà, con il « tu » a cui ci si accosta con amore; il sesto come comportarci nei riguardi del sesso (cfr. §§ 1 56 e 2 1 7). Il precetto dell'amore include in sé tutti i singoli precetti. Perciò il discepolo dell'amore, Giovanni, sempre insiste sulla raccomandazione : amatevi a vicenda (Gv. 13, 34 s . ; 14, 20 s. ; I Gv. 3, 1 8). L'amore impe­ disce il frantumarsi della vita (comprese le « pratiche religiose ») in una molteplicità di atti senza vincolo tra di loro. È nell'amore, principio da cui provengono tutti gli sforzi e le fatiche per uno sviluppo cosciente dello stato cristiano, che si realizza l'unità, di tutta la vita del fedele. È in esso che poggia l'interiorità della vita. L'interiore da cui sgorga l'agire cristiano è creato dallo stesso Dio. È infatti il fuoco d'amore che ci viene infuso nello Spirito Santo. È nell'amore che i singoli precetti perdono il carattere di eteronomia e di peso che loro inerisce finché ad essi ci si accosta con il comporta-

§ 193· LE VIRT"U DIVINE DELLA FEDE, SPERANZA E CARITÀ

165

mento dello schiavo che si piega dinanzi al proprio padrone. È nell'amore che l'uomo accetta e fa sua la volontà divina palesantesi nei diversi pre­ cetti. Mentre li esegue esplica la sua essenza informata dall'amore. È in tale senso che si deve comprendere l'assioma di S. Agostino : « Ama e fa ciò che tu vuoi » (In epist. Ioan., 7). Ciò non implica già una sfrenatezza senza limiti, ma un vincolo superiore : quello dell'amore. Proprio adem­ piendo i precetti, l'uomo si vincola alla sua propria legge fissata dall'amore. L'amore è quindi la via per mezzo della quale l'uomo perviene a se stesso, e si svincola da ogni schiavitu. Raggiunge la libertà dei figli di Dio, che non consiste nel capriccio, ma nell'essere superiore alle potenze antidivine che cercano di renderlo schiavo (Rom. 8, 21 ; cfr. Gal. 2, 4 ; 5, I . 1 3). L'amore non è quindi mancanza di legge (2 Cor. 6, 14), benché d'altro canto dia un colpo mortale ad ogni legalismo. Poiché l'obbedienza alle leggi è, ogni volta, la concreta decisione dell'uomo di vivere d'amore. Perciò i comandamenti recano ormai l'impronta della « novità ». Ciascun coman­ damento, di cui parlano sia i sinottici (Mc. 12, 28-3 1 ) che Paolo (Rom. 1 3, 8 s . ; Gal. 5, 14) e Giovanni ( 1 3, 34 ; I Gv. 3, 23), sono in realtà un comandamento nuovo, in quanto non sono altro che la esplicazione del precetto d'amore (Rom. 1 3, 10; Gal. 6, 2). Agire da cristiano è qualcosa di ben superiore al non commettere peccato. È la realizzazione dell'amore. Chi non odia, chi non dice bugie può anche solo manifestare una impo­ tenza. Mentre l'agire per amore significa tensione e concentrazione di tutte le forze. Se talvolta la legge sembra in contrasto con l'amore ciò deriva dal fatto che in seguito allo sconcerto del mondo ad opera del peccato, all'acceca­ mento della volontà e al disordine del cuore umano prodotti dalla concu­ piscenza, non si riesce piu a vedere bene e ad eseguire volentieri ciò che in realtà corrisponde all'amore. Ci è quindi necessario un precetto perché ci mostri non solo ciò che apparentemente è in armonia con l'amore, ma quanto in realtà ad esso corrisponde. L'antagonismo tra la legge e l'amore potrà perciò durare solo finché sussista un mondo disordinato e un uomo peccatore soggiacente alla tentazione. Avrà termine quando l'umanità rag­ giungerà il suo stato finale e il cosmo si trasformerà in una nuova terra e in un cielo nuovo. Finché dura questo antagonismo l'amore, anzi solo l'amore vero e genuino perché proveniente da Dio, sarà sempre la misura della legge. Questa legge è stata data in vista dell'amore e non l'amore in vista della legge. È infatti la legge che serve all'amore e non viceversa. k) Secondo le precedenti riflessioni l'amore si esplica in due modi : come amore verso Dio e come amore verso gli uomini.

166

aa) eros

II.

P.

-

LA GRAZIA

Per quanto riguarda l'amore di Dio la distinzione tra

agape

ed

fa sorgere un piccolo problema. Ci si può infatti chiedere se sia pos­

sibile avere verso Dio

l'agape

o solo

l'eros.

Dio infatti è

il bene sommo,

è il valore assoluto verso cui l'uomo tende irresistibilmente per potersi redi­ mere dalla sua miseria e debolezza partecipando alla vita divina. Perciò alcuni teologi (ad es. Nygren) pensano che nei riguardi di Dio l'amore sia possibile solo in quanto

eros.

Ma vi si oppone la Bibbia che pre­

scrive la carità nei riguardi di Dio.

L'eros

in quanto è brama naturale

verso un valore piu nobile non può essere soggetto a un comando. Si può solo comandare quell'amore che sia frutto di una decisione personale e cosciente dell'uomo responsabile. Quindi l'amore a Dio si esplica pure obbedendo alla sua parola. L'uomo donandosi a Dio nell'obbedienza abbraccia e sublima la sua tendenza naturale verso di lui. Di per sé non si capisce che Dio abbia a comandare tale amore e che con tale comando abbia a palesare l'importanza da lui anribuita all'amore umano. Sarebbe anzi logico che dinanzi ad esso Dio rimanesse del tutto indifferente. Teresa di Lisieux dice : « Quanto è bello che Dio ci abbia comandato di amarlo. Altrimenti noi non ci saremmo mai azzardati a farlo ». Questa sentenza ci scopre il significato recondito

di quanto resta invece nella penombra

qualora si accetti la concezione del Nygren o il pensiero aristotelico circa la possibilità d'amare Dio. Ireneo celebra con parole festanti la com­ piacenza divina nel farsi amare dagli uomini cfr.

Demonstr.

(Adv. haer.,

4, 1 3, 2 s. ;

96).

L'amore verso Dio appare ancora meglio come

agape,

quando si consi­

deri il modo della sua attuazione quale ci viene presentato dalla Scrit­ tura. Amare Dio equivale ad essere pronto per Dio, ad essergli presente, ad avere del tempo per lui, per ascoltarlo, sottoporsi

al suo dominio e

stabilire la sua supremazia sopra ogni cosa . « Significa pure fondare rutta l'esistenza in lui, permanere in lui con fiducia assoluta, abbandonarsi a lui in ogni nostra preoccupazione, vivere nelle sue mani » . Significa odiare tutto ciò che non proviene da Dio e non serve per lui, distruggere ogni vincolo che si frapponga alla nostra comunione con lui. Cristo nomina principalmente due potenze che vanno strenuamente combattute dal­ l'uomo desideroso d'amare Dio : la mammona e la vanagloria. Chiunque brama la ricchezza ha scarsità di fede ed è un pagano privo di speranza per il regno dei cieli (Mt. 6, 19-24 ; 19, 23-26; Le. 1 2, 3 3). Guai

ai

farisei

che amano i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sui mercati (Le. 1 1, 43), che desiderano essere stimati dagli uomini (Gv. del fuoco dell'amore verso Dio

5, 44). La decisiva prova è costituita dagli assalti e dalle opposizioni,

§ 193· LE VIRTU DIVINE DELLA FEDE, SPERANZA E CARITÀ

1 67

dalle umiliazioni e dai dolori, dalle minacce della vita terrena. Perciò l'amore a Dio si palesa come una bruciante sofferenza, come la fedeltà di una piccola schiera che con forza persevera di mezzo a tutti i dubbi e le minacce sino a quando diverrà visibile colui ch'essa ama (Mt. Io, I 7-42; 5, Io-!2; cfr. Stauffer, l. c., 45). L'amore si esplica in tale comporta­ mento e lo rende possibile, poiché, essendo una partecipazione all'amore immutabile di Dio, possiede una stabilità indistruttibile, a meno che l'uomo non vi rinunci, e rende capaci quelli che lo posseggono di star saldi in mezzo ad ogni tribolazione senza affatto rifuggirne, di essere pazienti (hypomoné : Rom. 5, 4-5 ; I Tess. I , 3 ; 2 Tess. 1 , 3-5 ; 3, 5 ; I Tim. 6, u ; 2 Tim. 3 , 1 0 ; Tito 2, 2 ; 2 Piet. I, 6 ; Apoc. 2, 2 s. I9) e di avere una fiducia senza riserve (Rom. 8, 28. 35-39). Siccome per andare al Padre occorre sempre passare per Cristo, ne viene che anche l'amore risale al Padre mediante il Cristo. Questi è il Figlio diletto del Padre (Ef. I , 6; Col. I, I 3). In lui si concentra tutto l'amore del Padre; lui stesso vive totalmente e solo per il Padre. La sua vita consiste nel fare la volontà del Padre (cfr. § I 5 I). Chiunque entra in comunione con Cristo è immesso in questa consacrazione totale al Padre, viene infiammato dal fuoco d'amore con cui Cristo si rivolge al Padre. Per una piu profonda conoscenza di questo fatto si pensi che dalla natura glorificata di Cristo si riversa in noi lo Spirito Santo, che è l'amore per­ sonale di Dio, inviato dal Padre e dal Figlio. Lo Spirito Santo immerge . gli uomini nel suo fuoco (Gal. 5· 22; Col. I, 8 ; I Cor. 4· 2 I ; Rom. I5, 30), li trasmuta in modo che possano fare il loro ingresso in quel movimento vitale che è lo stesso Spirito Santo. Questo torrente d'amore trae anzitutto l'uomo a Cristo. Rimanere nel Cristo significa vivere nel suo amore (Gv. I4, 20 ; I 5, 9· 10). Il credente accoglie Cristo con la sua nuova capa­ cità d'amore, con una dedizione incondizionata e pronta alla stessa morte (Mt. Io, 37-42). Chiunque entra in contatto con l'amore di Cristo, è affer­ rato dall'amore con cui il Figlio si rivolge al Padre e con cui, unitamente al Padre, fa procedere lo Spiriro Santo (cfr. § 58); con questo amore egli per mezzo del Figlio nello Spirito Santo ama il Padre. Il nostro amore è quindi una partecipazione all'amore beatificante del Padre e del Figlio. L'amore dell'uomo giustificato è un'eco dell'amore intradivino, una riso­ nanza procedente dall'intimo di Dio. Cfr. § I 87. bb) L'amore verso Dio si mostra genuino e serio solo quando si estende anche al prossimo. Infatti soltanto l'amore verso il prossimo dimostra che il nostro amore a Dio non è illusione e inganno. Ma di rimando l'amore verso il prossimo riceve dall'amore verso Dio la sua profondità massima

I68

P. II.

-

LA GRAZIA

e la sua sicurezza reale. Nell'amore verso il prossimo ci rivolgiamo diret­ tamente ad un determinato individuo, ma pure sempre per amore di Dio. Il che diviene evidente quando si pensa che ogni uomo è avvolto dall'amore di Dio e che specialmente il cristiano è un membro del corpo mistico di Cristo. Chiunque ama Cristo non può simultaneamente anche non amare il suo corpo, ossia tutti i membri che gli sono ricollegati. Chiunque ama il Padre celeste non può fare a meno di avvolgere nel suo amore anche tutti coloro che sono avvolti dall'amore del Padre. Se ciò non si facesse vorrebbe dire che un tale amore verso Dio è qualcosa di menzognero. Scrive infatti l'Apostolo dell'amore : « Carissimi, amiamoci l'un l'altro, perché l'amore è da Dio e ognuno che ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. L'amore di Dio ci si è manifestato cosi : Dio inviò il Figlio suo, l'unigenito, nel mondo, affinché noi vivessimo per mezzo di lui. In questo sta l'amore : non noi amammo Iddio, ma egli amò noi e inviò il Figlio suo a espiare per i nostri peccati. Carissimi, se cosi Iddio amò noi, noi pure dobbiamo amarci scambievolmente. Iddio nessuno mai l'ha contemplato; se ci amiamo scam­ bievolmente, Dio dimora in noi e il suo amore in noi è giunto a perfe­ zione. Conosciamo poi che noi dimoriamo in lui e lui in noi, per averci egli fatto dono del suo Spirito. E noi abbiamo contemplato e attestiamo che il Padre inviò il Figlio come salvatore del mondo. Chiunque confessa che Gesu è il Figlio di Dio, Iddio in lui dimora ed egli in Dio. E noi abbiamo conosciuto e creduto all'amore che ha Iddio per noi. Dio è amore e chi dimora nell'amore, in Dio dimora e Dio dimora in lui. In questo l'amore è giunto per noi a perfezione, ché abbiamo già sicurezza per il giorno del giudizio, giacché tali anche noi siamo in questo mondo come egli è. Non c'è paura nell'amore; al contrario, il perfetto amore caccia via la paura, perché la paura suppone un castigo, e chi teme non è arrivato alla perfezione nell'amore. Quanto a noi, amiamo perché lui per primo amò noi. Se uno dice : " Io amo Dio " e ha in odio il fratello suo, è men­ titore : chi infatti non ama il fratello suo che vede, non può amare quel Dio che non vede. Ora abbiamo da lui questo comandamento : chi ama Dio, ami anche il fratello suo » (I Gv. 4, 7-2 1 ; cfr. pure 2, 7-n ; Mt. 25, 34-40). L'amore verso il prossimo dev'essere fattivo e pronto all'aiuto (Giac. I, I9 - 2, I 3). Non ha nulla a che vedere con l'esaltazione. Esso è amore puro non sentimentale, leale e riflessivo, alieno da ogni spirito borghese. Ed è naturale che cosi sia proprio per la sua origine divina. La sua nascita dall'abisso del traboccante amore di Dio e la sua schiettezza e genuinità gli conferiscono la caratteristica di una « sobria ebbrezza ». Cfr. Atti 26, 2 5 ;

§ 193· LE VIRTU DIVINE DELLA FEDE, SPERANZA E CARITÀ

169

I Tirn. 2, rs; 2 Tim. I, 7; Rom. 12, 8 ; I Cor. 9, I I ; 1 3 ; H. Lewy, Sobria ebrietas. Untersuchungen zur Geschichte der antiken Mystik, 1929. Come ci palesa la parabola del buon samaritano, l'amore compie in ogni circostanza ciò che è opportuno (Le. ro, 30-37). È quindi un amore vin­ colato alle circostanze. Sarebbe una sua negazione qualora non si aiutasse quel bisognoso che in questo determinato momento ci si presenta sul cam­ mino, per ricercarne uno piu lontano a cui rivolgerei. Si identificherebbe un tal modo di agire, con l'astratto umanitarismo, che non si sente vinco­ lato ad alcun aiuto concreto. L'amore compie invece ciò che il momento richiede. L'uomo che trascurasse l'occasione presente per tendere gli orecchi verso un richiamo che ancora non si ode, cadrebbe sotto la condanna che Cristo ha rivolta ai farisei raccontando la parabola del buon samaritano. Su costui cadrebbe un giudizio di dannazione. Il suo rifiuto all'uomo è un rifiuto a Cristo (Mt. 25, 41-45). L'amore verso il prossimo è l'unico comportamento che risponda vera­ mente alla realtà delle cose. Ma sta, come ogni altro, per tutta la vita del pellegrinaggio terreno, sotto il segno della croce. « È infatti volontà di servire e di sacrificarsi, di donare e di rispettare, di compatire e di sop­ ponare, di raddrizzare ciò che è caduto e di ricostruire ciò che è stato distrutto in una comunione d'affetto e di sentimento che deriva la sua propria esistenza dalla misericordia di Dio e dal sacrificio di Cristo cro­ cefisso » (Stauffer, l. c., 5 1). Palesa di conseguenza il suo carattere stret­ tamente personale. Si rivolge alla persona del prossimo e non al suo valore sia economico che spirituale, non al vantaggio che essa può arrecare. Mentre l'eros si rivolge al valore del « tu », la carità si rivolge al contrario al « tu » stesso. Può quindi estendersi anche agli ammalati, ai poveri, agli esseri sgradevoli, ai cattivi. Il tu che ci si presenta non è solo l'oggetto di un aiuto o di un esercizio di virt:U, ma un essere che va amato per se stesso, in quanto è un richiamo divino all'io che ama. Perciò coloro a cui ci si rivolge con amore per volere divino, sono visti con gli occhi medesimi di Dio. L'amore ci conferisce quindi la vera facoltà visiva, mentre l'odio acceca nei riguardi del prossimo. Perciò all'amore genuino si ricollega la stima e il rispetto verso la persona creata da Dio (Rom. 16, 2 ; 1 Tim. 6, I ; 1 Piet. 3, 7). Il dovere d'amare il prossimo si estende pure al nemico. Esigenza questa che è del tutto incomprensibile all'uomo puramente naturale. Può forse essere frutto di riflessione il fatto che ci si debba mantenere in ar­ monia con tutti per la tranquillità della vita. Ma il pensiero di Cristo è ben lontano da quest'idea filantropica, come ben ci palesa la sua lotta con

1]0

P. II.

-

LA GRAZIA

i farisei. Quando prescrive di accettare volentieri su di sé l'inimicizia del mondo, quando prescrive di contraccambiare la maledizione con la bene­ dizione, di fare del bene a chi ci odia, quando spinge i martiri a pregare per il mondo ostile che rifiuta Dio e vuol annientarne i fedeli, egli si palesa bene al di là della precedente utopia. Egli conosce questo mondo, ma ciononostante prescrive l'amore proprio in mezzo al regno dell'odio. Lo vuole con la piu serena obiettività e sicurezza, senza risentimento né rassegnazione, con una naturalezza che il mondo non comprende. Comando questo che si può capire solo quando si crede alla nuova con­ dizione del mondo creata dalla morte di Cristo in croce (cfr. 1 Gv. 2, 7-1 1). Come l'amore divino palesa la sua divinità e la sua potenza creatrice nel rivolgersi all'uomo senza che sia stato suscitato da un precedente amore umano, cosi l'amore dei cristiani mostra la sua origine divina proprio quando si riversa anche su coloro che non possono mostrare alcun con­ traccambio d'amore. Esso vede anche nel nemico un uomo ricollegato a Cristo, e conseguentemente vede anche nel nemico Cristo in persona. �li si rivolge non per la sua volontà di male fare, ma per il bene che gli proviene dal fatto d'essere unito a Cristo. Cfr. § § 140 e 145. Un simile amore possiede una forza trasformatrice che gli proviene dal fatto di essere una partecipazione dell'amore creativo di Dio. E proprio perché è un atto operato da Dio nell'uomo, traduce e manifesta la forza creatrice divina. Quando l'amore dell'uomo si rivolge ad un altro, a costui perviene l'amore creativo di Dio, che è capace di vincervi il male e susci­ tarvi il bene. L'amore quindi rappresenta una fase iniziale della trasfor­ mazione dell'uomo in quella forma in cui Dio lo volle da principio e nella quale vuole che sia alla fine. l) Nell'amore verso Dio e verso il prossimo predicato nel Nuovo Testamento l'uomo perfeziona il suo ç�ro?rio essere. Dal momento che il suo nucleo personale è l'amore (cfr. § 125) ne sgorga la conclusione legittima che egli donandosi non si perde ma raggiunge la sua perfezione. Se talora l'uomo sente il peso greve che gli deriva dal comandamento di amare, si spiega dal fatto che, a motivo del peccato che lo ha ottenebrato nell'intelligenza e alienato dal suo vero essere non è piu in grado, con le sue proprie forze, né di comprendere ciò che gli giova a salvezza, né di fare ciò che conviene al suo vero essere stesso. La tendenza a com­ piere ciò che è in antitesi con il suo vero essere, ossia la concupiscenza, perdura anche nel giustificato. Perciò occorre un continuo sforzo e un per­ severante esercizio perché si possa agire in modo da condurre alla perfe­ zione il proprio essere. L'uomo che è ancorato nell'amore può consacrarsi

§ 193·

LE VIRTU DIVINE DELLA FEDE,

SPERANZA E CARITÀ

171

totalmente agli altri, senza alcuna tema di smarrirsi, poiché si sente soste­ nuto e garantito dall'amore divino. Non può sentirsi minacciato o sminuito dall'amore del prossimo poiché vive nella profondità, nella estensione, nella pienezza e nella sicurezza del divino amore. Chiunque non è ricolmo del­ l'amore di Dio, ma è mosso da amor proprio, deve sentire gli altri come una minaccia. Di li originano l'invidia, l'odio e l'inimicizia che sono i distin­ tivi del « vecchio » uomo « carnale » (Gal. 5, 20; Tito 3, 5 ; 2 Tim. 3, 2-4). Tali uomini non hanno pace e nemmeno possono portare la pace. « Solo l'uomo ricolmo d'amore celeste può vivere disinteressatamente. Anzi che proprio nel disinteresse l'io raggiunga la pienezza di sé medesimo e per­ sino la nota distintiva della sua individualità, è una delle leggi fondamentali dell'esistenza umana >) (Guarclini5 Welt und Person, ! 0 2 ; cfr. Mc. 8, 35). Perciò anche i suggerimenti di Paolo (1 Cor. 1 3, 4-7) che suscitano scan­ dalo e sembrano stoltezza all'uomo vincolato al mondo, sono non dei suggerimenti ridicoli bensi delle sagge direttive perché l'uomo, svilup­ pando in sé medesimo il vero amore, possa pervenire al suo vero essere. L'amore edifica l'uomo ( 1 Cor. 8, r). Mediante l'amore l'uomo raggiunge la sua esistenza perfetta, poiché per mezzo suo ha parte alla perfezione medesima di Dio (Col. 3, 14; Mt. 5, 45 · 48). E al contrario senza di esso l'uomo è un bel nulla ( I Cor. 1 3, 2), in quanto la sua vita è priva di signi­ ficato e va incontro alla perdita totale. m) La Bibbia all'amore, e solo all'amore, attribuisce un avvenire eterno (1 Cor. 1 3, 12 s.). L'amore costruisce il regno di Dio e ogni suo atto è di già realizzazione della signoria divina. La fede e la speranza recano i segni di questo eone destinato a perire, e perciò scompariranno con esso. Ma l'amore, invece, non verrà meno e sopravvivrà alla morte di questo mondo. Nell'amore il mondo futuro entra nella provvisorietà del nuovo presente, il quale nei limiti che non si lascia informare dall'amore è dominato dal demonio e votato alla distruzione. * n) Inno di S. Caterina da Genova all'amore : « Tu m'hai, Signore, mostrato altro lume, nel quale ho veduto, che tutto l'altro amore era amor proprio : e quelle operazioni, che parevano tanto amorose in te e per te, erano tutte imbrat­ tate di me propria; perché per mezzo mio passavano, e in occulto io me le appro­ priava e in me nascose stavano sotto l'ombra di te, Signore, nel quale io mi quietava. Ma poi che ho veduto il tuo amore, puro, semplice, netto ed affocato, colle operazioni sue, io sono restata fuor di me propria, in esso annegata; e gli altri amori tutti mi son paruti piu che propri. O divino amore, che potrò mai piu di te dire? Io son superata e da te vinta. Io mi trovo annegata nell'amore, e non conosco amore : sento in me operare questo amore, e l'opera non intendo : sento bruciare il mio cuor d'amore, e non veggio fuoco d'amore. O Signor mio, non un

P. Il.

172

-

LA GRAZIA

posso cessare di cercar indizio di questo amore : e benché dal nuovo lume che tu m'hai mostrato, io sia in tutto vinta, non sono però ancor disperata di saper piu innanzi di questo amore, nel quale ogni cosa in cielo ed si contiene, e dove l'uomo si contenta, e

mai

in terra desiderabile

non si sazia; anzi gli fa sempre

crescere la fame.

O pascolo senza sapore! o sapor senza gusto! o gusto senza cibo ! o cibo d'amore, O beatifico cibo ! chi non ti gusta non sa che ben tu ti sia. O vero cibo, che soddisfi il nostro appetito, che del quale son pasciutti gli Angeli, i Santi, e gli uomini !

ogni altro appetito estingui! Chi di questo cibo gusta, si par beato, essendo ancora in questa vita, nella quale Dio nonne mostra eccetto una piccola stilla :

un

che se

poco piu ne dimostrasse, l'uomo morrebbe in quell'amore tanto sottile e pene­

trante, e tanto lo Spirito se ne accenderebbe, che il debile corpo ne consumerebbe.

O divino Amore, o Amor divino! tu mi hai chiusa la bocca : io non so, né piu

posso parlare; né piu voglio cercare quello che non si può trovare; e resto vinta e superata ...

O Amore, quel cuore che ti gusta, ha il principio già di vita eterna fino in

questo mondo :

ma

tu, Signore, tieni occulta questa operazione al suo possessore,

acciocché egli colla proprietà sua non guasti l'opera

rua. O

Amore, che si può

di te dire? Chi ti sente, non t'intende; e chi ti vuole intendere, non ti può cono­ scere.

O Amore, vita nostra, beatitudine nostra, riposo nostro ! Il divino amore O cuore ferito del divino

ogni bene con seco porta; e ogni male da lui fugge.

amore, tu incurabile resti, e sempre vai fino alla morte peggiorando (cioè, infer­ mandoti maggiormente infinita.

di

questa beata malattia) ; poi ricominci a vivere di vita

O fuoco d'amore, in questo uomo che fai? tu lo purifichi siccome al fuoco

l'oro; e poi con teco in patria il porti, al fine al quale creato l'hai. L'amore

è divin fuoco : e siccome il fuoco materiale sempre scalda, e opera

secondo sua natura; cosi nell'uomo l'amor di Dio, per sua natura, opera sempre, e verso il suo fine l'accende; né giammai, quanto per parte sua, resta d'operare,

è sempre innamorato. E chi l'opera è sua la colpa; perché Dio mai non si mura di far bene all'uomo, sino ch'egli sta in questa vita, e sempre di lui è inn amorato ... O Amor forte e soave ! beato chi da te è posseduto; perché tu lo fortifichi, tu

in benefizio ed utilità dell'uomo, del quale non sente,

lo difendi e conservi, da ogni contrarietà dell'anima, e del corpo. Tu guidi ogni cosa dolcemente al suo fine, né giammai l'uomo abbandoni :

tu

gli sii fedele, ru

gli dai lume contro i diabolici inganni, contro la malignità del mondo, contro noi stessi, d'ogni proprietà e pervers ità pieni. Questo amore

è tanto efficace e illu­

minativo, che tira fuori delle occulte e segrete nostre caverne tutte le imperfezioni, e le mette innanzi agli occhi nostri, acciocché diano ad esse rimedio, e le pur­ ghiamo. Questo amore regge e governa la nostra volontà, acciocché stia forte e costante combattendo cont-ra le tentazioni : talmente occupa l'affetto e lo intel­ letto, che niente altro cercano. Resta in esso ancora la memoria occupata, e restano esse potenze dell'anima contente; di modo che l'abitatore e possessore dell'anima resta il solo Amore; né altri che sé vi lascia entrare. L'Amore con seco porta

un

è tanto questo sapor soave, che quando bene per molti tormenti l'uomo passi alla salute, non è mar­

continuo soave sapore, dal quale l'uomo guidar si lascia : ed tirio ch'egli non sopporti volentieri.

O Amore, benché io dica di te parole, non posso però esprimere la dolcezza e

§

193· LE VIRTU DIVlNE DELLA

1 73

FEDE, SPERANZA E CARITÀ

soavità, che ne sente il cuore : ma essa dentro resta chiusa; e parlandone, si ac­ cende. Chi ode o legge queste parol e senza sentimento dell'amore, non ne fa troppo conto; e passano come vento, senza gusto : ma s'io esprimere potessi il gaudio, la letizia, il contento che dona questo amore al suo diletto cuore, ogni uomo che udisse o leggesse quelle parole, ne resterebbe preso senza far difesa; perché egli

è

tanto appropriato all'uman cuore, che come da presso il sente, tutto si apre per ben riempirsene. Benché niuno si possa empire di questo amore, se non ha prima evacuato ogni altro amore. Ma quando il cuore ne sente sola

una

piccola stilla,

brama talmente moltiplicarlo, che niente stima tutto quello che in questo mondo si possa desiderare. Per questo amore l'uomo co' suoi cattivi abiti combatte,

i quali

gl'impediscono d'acquistarlo : e sempre sta pronto a fare ogni gran cosa per esso tanto amore.

O Amore, colla tua soavità tu rompi i cuori piu duri che diamanti, e come la cera al fuoco, liquefar li fai. O Amore, tu fai i grandi uomini riputarsi i piu mi­ nimi della terra, e i gran ricchi i piu poveri del mondo. O Amore, tu fai gli uomini savi parer pazzi, e a' dotti la scienza levi, e doni loro una intelligenza la quale supera ogni altra intelligenza.

O Amore, tu scacci dal cuore ogni malinconia, ogni durezza, ogni proprietà, e ogni mondana dilettazione. O Amore, tu fai gli uomini di cattivi buoni, di mali­ ziosi semplici, e col tuo ingegno tu rubi all'uomo il suo libero arbitrio; di modo che gli si contenta poi da te solo esser guidato; perché tu sei la dolce nostra guida.

O Amore, le tue operazioni sono aliene dalla terra; e perciò tu fai l'uomo di ter­ reno celestiale, e inetto e inabile alle mondane operazioni, levandogli tutti i modi di occuparsi in terra. O Amore, tu fai tutti

i fatti della nostra salute, i quali noi

non sappiamo senza di te fare. O Amore, il tuo nome

è

soave tanto, che fa ogni

cosa dolce : dolce è la bocca di chi ti nomina, quando escono massime le parole dal cuore pieno del tuo dolcissimo liquore, il quale fa l'uomo benigno, mansueto, grazioso, giocondo, e liberale; cosicché egli serve quando può ognuno, sta allegro e leggi�ro in terra; e gli pare appena colla cima de' piedi toccarla. O Amore, quando tu puoi per qualche via penetrar colla tua soave e graziosa saetta il cuor dell'uomo, pur che esso non sia occupato e pieno di un altro amore, per piccola che sia la tua scintilla, tanta forza ha, come l'uomo lascia ogni cosa per te. Questo amore fa parer dolce ogni amarezza e contrarietà. O Amore, che dolce soavità e soave dolcezza con teco porti, le quali tu fai a ognuno comuni ! e quanto in piu creature i diffondi, tanto piu si fa la tua volontà : e quanto piu sente l'uomo, e piu conosce questo tuo soave ardore, tanto piu ne resta acceso, perduto

è

come fuor di sé; né altra prova

ne cerca, se non quella che ne sente, né sa darne altra ragione. Imperciocché l'amore porta con seco essa ragione, e ancora la volontà, e resta signore di tutto l'uomo, e ne fa tutto il suo volere, come vuole, e quando vuole; e l'opera resta tutta sua; perché allora tutte le opere son fatte o per amore, o nell'amore, ovvero dall'amore. Per amore le opere s'intendono fatte, quando l'uomo opera tutte le operazioni sue per l'amor di Dio, dato da esso Dio, coll'istinto d'operare per sua utilità e del suo prossimo. E in questo primo stato d'amore, Dio fa fare all'uomo molte e di­ verse operazioni, utili e necessarie, le quali si fanno in Dio : e queste opere son quelle, che si fanno senza vista d'alcuna utilità propria, o del prossimo :

ma

restano in Dio senza oggetto di chi le fa. E per l'abito che ha fatto l'uomo di ben operare, persevera operando : e Dio gli ha levata la parte sua propria, la quale

P. I l .

1 74 si aiutava e dilettava.

-

LA

GRAZIA

E cosi l'opera resta piu perfetta della prima; perché in quella

l'uomo aveva molti oggetti, ne' quali pasceva l'anima

e

il corpo. Le opere final­

mente che son fatte dall'amore, son piu perfette che quelle degli altri due generi; perché son fatte senza parte alcuna dell'uomo : ma l'amore ha cosi superato e vinto l'uomo, ch'egli si trova per cosi dire, annegato nel mare di sa dove si sia :

esso amore, né

resta in sé proprio perduto, non potendo alcuna cosa operare.

In questo caso l'amore

è quello stesso il quale opera nell'uomo; e queste opera­

zioni sono opere di perfezione, per esser fatte senza la parte propria dell'uomo; e sono opere della grazia gratum faciente, che Dio tutte accetta. Questo dolce e puro amore ha preso e tirato in sé l'uomo, e l'ha di lui stesso privato : se ne

è

posto in possessione, e opera di continuo in quest'uomo, solo per benefizio ed utilità di lui, senza ch'esso se ne impacci.

è la tua ! Di te non si può ben è il cuore da te posseduto ed imprigionato.

O Amore, che dolce compagnia, e fedel guardia parlare, né ancora pensare :

ma

beato

L'amore fa gli uomini giusti, semplici, netti, ricchi, savi e contenti, senza fatica; e colla soavità sua mitiga ogni amarirudine. O Amore, rutto quello che per te si fa, con facilità si fa, con allegrezza, e volentieri;

t!

benché vi siano assai fatiche,

la tua dolcezza tempera ogni affanno. Oh che cruccio

e

tormento si

è l'operar

senza l'amore! chi lo potrebbe stimare? L'amore ad ogni cibo dà il suo dolce sapore : se

è cattivo, lo fa buono ; ed essendo buono lo fa migliore. Secondo il grado

e la capacità del soggetto, Dio infonde nel cuore degli uomini l'o.more. Oh, che dolce cosa sarebbe parlare di questo amore, se si trovassero vocaboli appropriati a quella dolcezza che ne sente il cuore ! Ma perché l'anima è immor­ tale, e capace di maggior amore ch'ella non può in questa vita sentire (per la debi­ lità del corpo, il quale quamo l'anima vorrebbe non può sostenere); perché elta resta sempre desiderosa e famelica di quello che le manca, né mai si può perfetta­ mente in questa vita quietare. O Amore, tu empi

il cuore dell'uomo, e di te stesso

il fai santamente smaniare. Tu sei si grande, ch'egli non ti può capire :

resta

contento, ma non satisfano : e per la via di esso cuore, tu prendi e possiedi tutto l'uomo; né altri che te vi lasci entrare; e di un fone legame leghi rutti suoi senti­ menti, dell'anima e del corpo. Oh servi tLi dolce d'amore, la quale mette in libenà e contentezza in questo mondo, e poi il tuo legame

lo fa

senza fine beato nell'altro ! O Amore,

è tanto soave e forte, che insieme lega gli Angeli e i Santi, e sta

fermo e stretto, né si rompe mai : e gli uomini di questo legame legati, restano talmente uniti, che sono

di

una medesima volontà,

di un medesimo oggetto, e par

che ogni cosa tra loro resti comune, cosi temporale come spirituale. In questo legame non si fa differenza da ricchi a poveri, da nazione a nazione : ogni contra­ rietà esclusa resta, pur che vi sia questo amore, il quale acconcia tutte le cose torte, e le contrarie unisce. O Amor mio Gesu dolce, chi ti ha fatto venire dal cielo in terra? l'amore. Chi ti ha fatto patire tanti e cosi terribili tormenti fino alla morte? l'amore. Chi ti ha fatto lasciare te stesso in cibo all'anima, tua diletta? l'amore. Chi ti ha mosso, che n'hai mandato, e di continuo ne mandi, per nostra fortezza e guida, lo Spirito S anto? l'amore. Molte cose si possono di te dire. Tu in questo mondo, tanto vile ed abbietto sei apparso, e tanto ti umiliasti nel cospetto della plebe, solo per amore, che non solo non fosti riputato Dio,

ma

quasi né pur uomo. Un quanto si voglia

servo fedele ed amoroso, tanto per lo suo padrone non sopporterebbe, benché gli

§ 1 93· LE VIRTU DIVINE DELLA

FEDE, SPERANZA

E

CARITÀ

I 75

fosse promesso il Paradiso : perché senza il tuo interiore amore, il quale tu all'uomo doni, non si può con pazienza alcun tormento sopportare, nell'anima, né ancora nel corpo. Ma tu, Signore, portasti dal cielo questa soave manna, e questo dolce cibo, il quale in sé ha un tale vigore, che ogni supplicio fa sopportare. Il che per espe­ rienza, prima veduto abbiamo in te, dolce maestro nostro, S ignore, e guida e poi ne' tuoi Santi. Oh quante cose hanno eglino con gran pazienza fatto e sopportato, per questo tuo amore ne' cuori loro infuso! del quale talmente accesi restavano, e con teco uniti, che qualsivoglia tormento non li poteva da te separare : ma in essi tormenti si accendeva loro uno zelo, il quale tanto cresceva, quanto cresce­ vano

i tormenti. E perciò esser superati non potevano da quanti martirii i crude­

lissimi tiranni immaginar potessero, benché per vincerli li tormentassero crudel­ mente. Guardavan solo di fuori alla debil carne, non veggendo quel soave e forte amore, né lo zelo che Dio infondeva loro nel cuore il quale è tanto vivo e forte, che se alcuno se gli attacca bene, non può mai piu perire. Niuna via, piu breve, né migliore, né piu sicura alla salute nostra si trova, di questa nuziale e dolce veste della carità, la quale dà tanta fiducia, e si fatto vigore all'anima, che ella si presenta a Dio senza alcun rispetto. Ma, per lo contrario, se ella di carità nuda si trova al tempo della morte, resta tanto abbietta e vile, che per non comparire alla divina presenza ella se n'andrebbe in ogni altro punto quanto si voglia tristo e cattivo luogo. Perché per esser Dio semplice e puro, non può in sé altro ricevere, eccetto che puro e semplice amore :

ed essendo Dio un mare d'amore, nel quale restano

assortiti ed abissati tutti i Santi, è impossibile che una quantunque minima imper­ fezione vi possa entrare. Perciò l'anima

di

carità nuda (quando quella è separata

dal corpo, questo intendendo) piuttosto che presentarsi a quella nettezza e sempli­ cità, si getterebbe nell'inferno Firenze 1923,

10-28).

»

(S. Caterina da Genova, Dialogo del divino Amore,

*

3-

-

La virtu della speranza.

La terza virru teologica è la speranza. a) Mediante tale virru ogni sforzo e ogni comportamento con cui l'uomo si rivolge al futuro, diviene cristiforme. Il che include un rinno­ vamento interiore e una direzione verso Cristo. Ogni uomo vive proteso verso il futuro (cfr. § 70) ; ciò dipende dalla sua condizione di essere nella storia. Secondo i Greci non si può vivere senza speranza, che è l'espressione spirituale del nostro legame al tempo. L'uomo che spera, dal tempo presente che reca in sé l'impronta del passato, si protende verso l'avvenire, e tutto ciò con le forze del suo spirito. L'uomo vincolato al tempo vive essenzialmente nell'attesa di ciò che avverrà, sia esso foriero di letizia o apportatore di dolore. La speranza è la consolatrice del presente. b) Nell'Antico Testamento la speranza non è l'attesa di un avvenire

I76

P. I l .

-

LA

GRAZIA

qualsiasi, bensi l'attesa di un avvenire migliore, un'attesa paziente e fidu­ ciosa, mentre lo sguardo appassionatamente tende verso tale avvenire. Fin­ ché l'uomo vive, esso spera (Eccle. 9, 4). La speranza si rivolge a Dio non solo durante la necessità, ma anche nel momento della gioia. Sempre l'uomo è rivolto al suo Signore. Solo Dio ne è la sua sicurezza. Certo le decisioni divine gli sono sconosciute. Ma egli è certo e sicuro che Dio lo ama e lo protegge, gli riservi dolore o felicità. L'uomo, che spera in Dio, ripone la sua speranza non sulla sicurezza che lui medesimo si crea, poiché queste sono sempre mancanza di sicurezza. Quando l'uomo edifica pog­ giando su di esse deve aspettarsi che Dio le distrugga e abbia a mu­ tare la sicurezza umana in ansietà e tremore (Am. 6, I ; Is. 32, 9-1 I ; Prov. I4, I6). Nessun uomo può riporre la sua fiducia nelle ricchezze (Sal. 52, 9 ; Giob. 3 1 , 24), nella sua giustizia (Ez. 33, 1 3), in un altro uomo (Ger. I], 5). Le considerazioni e i calcoli umani sono fiato (Sal. 94, 1 1) e Dio li annienta (Sal. 33, ro; Is. 19, 3 ; Prov. r6, 9). Solo la speranza in Dio, in colui che trascende i disegni e i mezzi um;!ni, può liberare appieno dall'ansietà della vita (ls. 7, 4 ; 12, 2; Sal. 46, 3 ; Prov. 28, 1). Questa fiducia è però un riposare in Dio congiunto al timore (Is. 32, u; Sal. 33, I 8 ; Prov. 1 4, I6). La speranza si rivolge finalmente verso il momento in cui ogni angustia cesserà con la venuta del Messia (Bultmann, in ThWNT, Il, 5 I 9 s.). c) Cristo ha infatti debellato le potenze maligne, ossia il peccato, la morte e il diavolo e quindi la speranza dell'Antico Testamento ha avuto in lui il suo compimento che però non ha ancora raggiunta la sua forma defi­ nitiva. I credenti sono stati tratti fuori dal mondo di cui Cristo ha detto che è sottoposto al giudizio, che è dato in balia alla morte e alla caducità. Fu loro donata un'esistenza celeste, ma per ora solo germinale. Essi sono santi, ma solo in radice. La figura di questo mondo sta passando, ma non è ancora passata (1 Cor. 7, 3 1 ; 1 5 , 32. 49 i Rom. 8, I 8 ; 8, 29 ; Fil. 3, 2 1). Noi siamo figli di Dio (Rom. 6, I -23 ; 8, 13 s. ; Ef. 6, 12-20), ma non è ancora manifesto che siamo davvero tali (Rom. 8, 19. 28). È ancora lotta, non vittoria trionfale (Rom. 6, r-23 ; 8, 1 3 s. ; Ef. 6, 1 2-20). Il peccato ancora ci minaccia. La sua potenza ha già ricevuto un colpo mortale, ma non ha ancora perso tutta la sua efficacia di tentazione allettante. Siamo in cammino verso lo stato in cui la santità apparirà in tutto il suo fulgore e avvolgerà ogni cuore. Siamo in cammino verso la meta, ma non l'ab­ biamo ancora raggiunta. Viviamo in un regno intermedio, che si protende tra la risurrezione di Cristo e il suo ritorno. Perciò il nostro stato cri­ stiano ha un carattere escatologico. La speranza è appunto in armonia

§

193·

LE VIRTU DIVINE DELLA FEDEJ SPERANZA E CARITÀ

I77

con questo fatto. In essa noi « realizziamo » in modo cosciente la nostra esistenza di pellegrini. d) La speranza è un comportamento essenziale al cristiano durante il suo stato di pellegrinaggio terrestre. Chiunque mediante la fede accoglie Cristo e lo afferma con l'amore va incontro a quello stato in cui vedrà Cristo nella sua gloria. Perciò la speranza sgorga naturalmente dalla fede e dalla carità. Ma d'altro canto essa rende piu viva la carità (cfr. I Tess. I, 3 ; 5 , 8 ; Col. I , 4 s. ; Gal. 5 , 6 ; I Cor. I 3, I 3). Paolo assicura i Tessalonicesi che egli di continuo nelle sue preghiere fa menzione della fermezza della speranza che essi hanno nel nostro Signore Gesu Cristo (I Tess. I, 3). Il cristiano è rivestito della corazza della fede, dell'amore e della speranza ( I Tess. 5, 8 ; cfr. 1 3, I 3 ; Tito r, I s.). In questa speranza tutti i credenti in Cristo sono tra loro ricollegati (Ef. 4, 4). e) La speranza include tre cose : l'attesa del futuro, la fiducia in Dio e la pazienza nell'aspettare ciò che deve venire. Non è una semplice im­ pressione o un oscuro presentimento che il futuro andrà meglio e che le cose si metteranno a posto da sé. Colui che spera non è come il guidatore di una barca, che spinto verso una cateratta si consola pensando che potrà superare bene il salto. La speranza è invece una forza immessa nel cuore da Dio, per mezzo della quale l'uomo si protende con pazienza e fiducia verso i beni futuri invisibili. Ciò che deve venire è di già presente, ma è ancora nascosto. Ne siamo certi solo per fede, non per visione. « Ora la fede è sostanza di cose sperate e argomento di quelle che non si vedono. Riguardo ad esse ricevettero buona testimonianza gli antichi. Per fede noi conosciamo che i secoli futuri furono formati per la parola di Dio, di modo che da cose visibili è derivato ciò che si vede » (Ebr. I I, I-3 ; cfr. 2 Cor. 4, 1 8). La salvezza è già in noi. Ma ne dobbiamo attendere la manifestazione. « Perché nella speranza fummo salvati; ora la speranza che si vede non è speranza : infatti quel che uno vede, come anche lo spera? Ma se quel che non vediamo noi speriamo, con pazienza fermamente l'aspettiamo » (Rom. 8, 24 s.). La speranza dei credenti non poggia quindi sul mondo visibile. Anzi questo è piuttosto a suo sfavore, poiché sembra mostrare di continuo che la speranza dei cristiani è illusione e inganno. Il cristiano spera « contro ogni speranza », contro ogni potenza ed evento, che sembrano ridurre la sua speranza a un puro sogno (Rom. 4, 1 8). Per questo la sua fiducia è indistruttibile. Non poggia infatti su potenze terrene, bensi su Dio che sa risvegliare anche i morti dal loro sonno. « Il quale da tanti generi di morte

1 ]8

I' .

H.

-

LA GRAZIA

ci liberò e ci libererà : in lui abbiamo speranza che ci libererà, cooperando anche voi per noi con la preghiera, affinché il dono a noi concesso per l'intercessione di molte persone, sia oggetto di ringraziamento per molti, a favore nostro » (2 Cor. r , ro s.). E ai Filippesi cosi scrive l'apostolo Paolo : « So, infatti, che questo tornerà a mia sal vezza, grazie alle vostre preghiere e all'assistenza dello Spirito di Gesu Cristo. È mia ferma attesa e speranza di non venire confuso in cosa alcuna : ho tutta la sicurezza, anzi, che, come sempre anche ora, Cristo sarà glorificato nel mio corpo sia per la vita sia per la morte » (Fil. I , I9-20 ; cfr. pure Ebr. IO, 2 3 ; 1 Piet. I , 2 1 ; Rom. I 5, 4). f) Ciò che il cristiano spera è la manifestazione della gloria di Cristo, che racchiude in sé anche la sua propria gloria con la risurrezione dai morti (Gv. 1 7, 24). « Poiché per tutti gli uomini si è manifestata la grazia di Dio come principio di salvezza e ci ha dato degli insegnamenti, perché, rinnegando l'empietà e le passioni mondane, vivessimo in questo secolo con temperanza, giustizia e pietà, nell'attesa che si realizzi la beata spe­ ranza della manifestazione gloriosa del grande Iddio e salvatore nostro Cristo Gesu, il quale sacrificò se stesso per noi, per riscattarcì da ogni iniquità e acquistarsi un popolo puro, suo pro�r:o. pieno di fervore per le opere buone » (Tit. 2, 1 1-I4; cfr. 1 Tirn. 4, r o ; Tit. 3 , 7; Ebr. 6, r 8 s. ; 7, 1 9 ; 1 Piet. r, 3- 1 3). La neranza dei cristiani si rivolge quindi all'esi­ stenza celeste (Col. r, 5), alla vita eterna (Tit. 3, 7) che include in sé la risurrezione dei morti. Il cristiano nell'eone presente in cui regna la morte, fissa lo sguardo verso quel tempo in cui invece regnerà solo la vita (Atti 23, 6; 24, 1 5 ; r Cor. 15, 19). La speranza si rivolge pure alla protezione divina durante la vita ter­ rena. Ma il credente deve lasciare a Dio la decisione se debba essere libe­ rato o meno dalle tribolazioni di questo mondo. Ciò che conta è che Dio sia glorificato. Perciò la speranza non è l'attesa di una vita facile. Chiunque ripone la sua speranza in Dio, non conta su eventi miracolosi, che lo libe­ rino da dolori e da preoccupazioni, da pericoli e da affanni. Egli accetta con prontezza ogni tribolazione, persino la stessa morte, certo che cosi cresce la gloria di colui verso il quale va incontro. La speranza, quindi, gli reca un novello rapporto con la sofferenza. In lui vi è una tensione tra l'oggi e il_domani, tra il pellegrinaggio e la patria : con la forza della speranza egli si rianima e sopporta energicamente la sofferenza fino a quel momento in cui Dio gliela toglierà. Cosi scrive Paolo ai Corinti dopo aver loro parlato della gloria che essi hanno acquistato in Cristo (2 Cor. 4, 7

-

5, Io) : « Noi però portiamo questo tesoro in vasi

§ 193·

LE VIRTU DIVINE DELLA FEDE, SPERANZA E CARITÀ

1 79

di creta, affinché appaia che la straordinaria sua forza è di Dio e non proviene da noi. In ogni circostanza siamo pressati, ma non schiacciati; in diffi coltà, ma non senza via di scampo; inseguiti, ma non abbandonati; abbattuti, ma non perduti. Sempre portiamo nel nostro corpo i parimenti di Gesu morente, affinché anche la vita di Gesu sia manifesta nel nostro corpo. Infatti, noi, pur essendo vivi, siamo dati di continuo in preda alla morte, a causa di Gesu, affinché anche la vita di Gesu si manifesti nella nostra carne mortale. Perciò in noi compie l'opera sua la morte e in voi la vita. Ma avendo quello stesso spirito di fede, di cui sta scritto : Ho cre­ duto, perciò ho parlato, noi pure crediamo e appunto per questo parliamo, ben sapendo che colui che ha risuscitato il Signore Gesu, risusciterà anche noi con Gesu e ci farà comparire davanti a lui insieme con voi. Si, tutto ciò è a vostro bene, affinché la grazia, divenuta piu copiosa per opera di molti, renda piu abbon­ dante il ringraziamento a gloria di Dio. Ecco perché noi non ci scoraggiamo; anzi, ancorché in noi l'uomo esteriore si consumi, tuttavia quello interiore si rinnova di giorno in giorno. La nostra tribo­ lazione, momentanea e di lieve peso, procura a noi, assolutamente al di sopra di ogni misura, un peso di gloria eterna, dato che non miriamo alle cose visibili, ma alle invisibili; ché le cose visibili sono effimere, le invisibili, invece, eterne. Sappiamo, infatti, che se la nostra abitazione terrestre, questa nostra tenda, viene distrutta, avremo nei cieli una abitazione di Dio, una casa eterna non co­ struita da mano d'uomo. E infatti noi sospiriamo in questa tenda, bramando di sopravvestirci di quella nostra abitazione celeste; beninteso, se saremo trovati vestiti e non ignudi. Si, mentre siamo in questa tenda sospiriamo oppressi, poiché non vorremmo svestircene ma indossare altro su di essa, affinché ciò che è mortale sia assorbito dalla vita. E chi proprio a questo ci ha preparato è Dio, il quale ci ha dato il pegno dello Spirito. Facendoci sempre coraggio e consci che dimorando in questo corpo siamo esuli, lontani dal Signore - camminiamo infatti al lume della fede e non della visione - facciamoci coraggio e preferiamo piuttosto sloggiare da questo corpo per andare nella patria, presso il Signore. Perciò, sia dimoranti nel corpo sia esuli dal S ignore, ci sforziamo di essere a lui graditi. Poiché tutti noi dobbiamo com­ parire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno raccolga, in ragione delle azioni compiute, ciò che ha meritato quand'era col corpo, o il bene o il male » (cfr. 2 Cor. 6, 4-10; 1 Tim. 4, ro; Fil. 1, rz-26).

La speranza dona cosi tranquillità e sicurezza, pace e letizia in tutte le vicende della vita (Rom. 1 5,1 3 ; 1 2, 1 2). È in virtu della speranza che Paolo si gloria persino della tribolazione (Rom. 5, 4). La speranza signa­ reggia pure quella grande potenza che è la morte e contro la quale a nulla valgono le forze del mondo. La morte è la dimostrazione della nullità di tutto ciò che è puramente terreno, prova la precarietà di ogni forma di vita terrestre. Il lezzo della morte appesta tutto. Chi non sa accogliere la morte nella sua vita, ha solo speranza limitata, gli manca l'ultima speme, anche se dal futuro si attende svariate e piccole felicità. Paolo dice che il pagano non ha speranza alcuna ( 1 Tess. 4, 1 3). Un tale uomo infatti si

I 80

P. II.

-

LA GRAZIA

dirige verso il non essere, verso l'assurdità, il non senso. Ma la speranza del credente avvolge pure la morte, nella quale vede il mezzo con cui l'uomo passa alla gloria definitiva. Nella speranza perciò si estingue ogni angoscia esistenziale. Il credente non si chiede : Che avverrà dopo questa vita? (Fil. I , 20; cfr. la dottrina della mone nel trattato sui Novissimi). g) Siccome la vita terrena non è che una preparazione alla gloria fu­ tura, assume una importanza decisiva. Nel tempo è infatti presente la eternità. La speranza verso il ritorno del Signore è persistente richiamo alla santità, ad agire in modo conforme alla vocazione che Dio ci ha data (I Gv. 3, 3 ; Ef. 4' I-4; I Tim. s, s ; Tit. 2, I I s. ; I Piet. I , I 3 s.). La speranza verso ciò che deve avverarsi non toglie quindi alcun valore al tempo presente. !! credente valuta il mondo come una realtà P"'...!Ìtura; ma lo prende sul serio, anzi molto piu sul serio di quanto lo possa pren� dere uno che creda solo alle realtà terrene, poichè nelle forme di questo mondo destinate a perire si va già attuando, benché in modo occulto, la realtà eterna del futuro. Il cristiano, perciò, agisce nei riguardi del mondo con piena consape­ volezza della propria res1mnsabilità, ma anche con la piu grande libertà interiore. La speranza di un'esistenza definitiva gli dona la forza per parlare ed agire liberamente (2 Cor. 3, 12), sino a dare la propria vita per Cristo (Atti 7 ; Mt. 1 0, 28 ss.). La speranza non è quindi una sem­ plice attesa, ma è in pari tempo viva operosità (Col. I, 23 ; Ef. 1, I S ; I Piet. 3, I 5). h) Come può l'uomo nutrire tale attesa in un mondo dove le fatiche e le preoccupazioni quotidiane con tutte le loro illusioni e apparenti iira­ zionalità sembrano elevare una perenne accusa alla speranza di una per­ fezione e gloria futura? S. Bonaventura ci dice che il mondo è sempre pieno di notti, di oscurità. Come ci è possibile rivolgerei verso la meta in mezzo alle tenebre, senza dover temere ad ogni istante di precipitare in un qualche abisso? L'uomo non può venire, per conto suo, a una tale speranza. È Dio che gliela suscita in cuore. Il Padre del nostro Signore Gesu Cristo, a cui siano lode e grazia, secondo la sua grande misericordia, ci ha fatti rinascere a tale viva speranza mediante la risurrezione di Gesu Cristo dai morti (I Piet. I , 2 I). Il Padre ci infonde la speranza della nostra gloria, proprio mentre ci fa rinascere a novella vita nel suo unigenito Figlio. Egli ce l'infonde nello Spirito Santo dimorante in noi per mezzo di Gesu Cristo cui siamo uniti. Chiunque sta in comunione con Cristo è immesso nel suo ritmo vitale. Cristo vive come colui che ha raggiunto la gloria per mezzo della croce e della morte. Pur vivendo ora tutto glo-

§

1 93 ·

LE VIRTlJ DIVINE DELLA FEDE, SPERANZA

E

CARITÀ

I8I

rioso, reca pur sempre i segni della morte da lui vinta. Chiunque vive in comunione con lui deve, finché si trova su questa terra, essere piu in comunione con la sua passione che con la sua gloria. Ma chi passa attra­ verso la passione e la morte con Cristo e mediante Cristo, sfocerà pure nella gloria con Cristo. La vita cristiana è dominata dalla medesima legge che regolò la vita del Cristo : « Non doveva forse il Messia soffrire e cosi raggiungere la gloria? » (Le. 24, 26). Cosi il credente anche con la sofferenza testimonia di adempiere la legge di Cristo. La speranza è quindi una manifestazione della nostra unione con Cristo, conveniente alla nostra vita di pellegrini. Chiunque entra in comunione con Cristo, si accosta con lui e per lui al Padre (Col. 1, l-5-27; l Tiro. I, x ; I Cor. 15, 17-18). Perciò i pagani non hanno alcuna speranza ( I Tess. 4, I 3 ; Ef. 2, 12) . Il che non significa che i pagani non abbiano alcuna idea del futuro e alcuna attesa di esso. Pur loro hanno le loro mete. Ma rivolgono il loro sguardo solo verso il contingente e l'effimero, non essendo loro rivelata l'ultima realtà. Essi non hanno nes­ suna speranza ultima e quindi, in definitiva, nessuna speranza, perché le speranze temporali crollano tutte col tempo. Di rimando al cristiano non mancano speranze temporali, ma queste sono subordinate e incluse nell'« ultima », la quale è loro misura e legge. Dio, e solo lui, è il motivo della nostra speranza. Egli ce ne ha data anche una garanzia, ma questa non è visibile, sicché per la nostra spe­ ranza non vi sono sicurezze temporali. Quando essa si rivolge a istitu­ zioni e strutture terrene per trovarvi appoggio e sicurezza, Dio subito distrugge ciò che gli uomini hanno edificato, affinché questi non cadano nella tentazione di curare con maggior zelo la propria sicurezza, i propri beni e onori che non la salvezza dell'anima; affinché quindi non dimen­ tichino che la prima e piu importante cura del cristiano deve essere quella che Cristo metta radice e cresca nel cuore dei credenti, che il suo onore, e con esso la salvezza delle anime siano procurati ognor piu attuando in tal modo il regno di Dio (Mt. 6, 33). L'unico vero garante, dunque, della nostra speranza è lo Spirito Santo che dal Padre e dal Figlio fu inviato nei nostri cuori. « E la speranza non arrossisce, perché la carità di Dio si è riversata nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci fu dato » (Rom. 5, 5). Nello Spirito Santo, in virtu della fede, noi attendiamo la speranza della giustizia, cioé la gloria che la giustizia ci fa sperare (Gal. 5, 5 ; cfr. Rom. 8, 24 s.). Lo Spirito Santo è l'amore tra il Padre e il Figlio. Perciò Dio ha posto nei nostri cuori il suo amore come garanzia della nostra speranza. L'amore

1 82

P. II.

-

LA GRAZIA

è beatitudine. Dio, quindi, ha posto la sua beatitudine come pegno della nostra beatitudine. La speranza, che ha una tale garanzia, è premunita contro ogni tentazione di dubbio. L'amore e la beatitudine riversati nei nostri cuori costituiscono la forza personale capace di opporsi

al

dubbio,

che, di fronte alle sofferenze indicibili di questo mondo, minaccia soffo­ care la nostra speranza, e

al

peccato che potrebbe indebolirla.

Il credente nella forza dello Spirito Santo può attendere la venuta del Signore. L'avvenire verso cui si avvicina, lancia

il

suo bagliore in questa

vita. Come un viandante notturno, raggiunto dai fari di una macchina cammina per un tratto di strada alla luce dell'auto che gli si avvicina per superarlo, cosi il cristiano e la comunità dei credenti, in mezzo alla notte del presente eone di morte, sono già sotto la luce del regno di Dio che si avvicina (E. Brunner,

Vom Werk des Heiligen Geistes).

Si ! l'avvenire è

già presente. Il presente è una sorta d'avvenire. Ciò che ora non è ancora manifesto, lo diverrà in seguito. Chiunque s'avanza in virtU. dello Spirito verso questo avvenire, non riterrà questo mondo né come un paradiso né come un inferno, bensi come un puro passaggio.

i)

La speranza afferra, certo, le singole persone, ma alcunché di ana­

logo penetra pure tutta la creazione, tutta la natura estraumana, facendole sospirare la sua glorificazione. La natura è legata al destino dell'uomo . Come a causa del peccato umano fu racchiusa sotto la maledizione, e fu condannata a perire, cosi parteciperà pure alla gloria dei figli di Dio. Tutto

il mondo è quindi avvolto dalla speranza di essere liberato dalla

schiaviru di ciò che è caduco per aver parte alla libertà gloriosa dei figli di Dio. « Sappiamo infatti che tutta la creazione è insieme

il gemito e

nella doglia del parto sino ad ora » (Rom. 8, 1 8-22). La figura di questo mondo sta per passare. Le forze dell'avvenire sono già all'opera. Sono già presenti. Esse agiranno, finché

il mondo non sarà mutato e diverrà in esso

presente la gloria che vi è nascosta.

§ 194. Le virru morali. l . - Come già abbiamo espresso la moralità cristiana non consiste anzi­ tutto nell'adempimento di una legge, bensi nell'obbedienza a Cristo che opera nel credente, nell'attuazione cioè di quell'amore che è penetrato nel mondo con Cristo. Le virtu morali esprimono, quindi, una tale mutazione delle potenze e delle facoltà umane, da renderle cristiformi, cosicché

§ 194·

LE

VIRTU MORALI

l'uomo, per m·ezzo loro diviene atto ad accogliere con libera decisione l'azione di Cristo e a esprimerla nelle quotidiane vicende della vita. Le virt:U morali abilitano quindi l'uomo a svolgere la sua vita in Cristo cosi come le circostanze del momento lo esigono. L'azione che compiamo, unitamente a Cristo, ora la chiameremo giusta, ora saggia, ora eroica, ora nobile a seconda del suo aspetto. Ciò che viene indicato da queste denominazioni, tratte dall'etica cristiana, acquista tuttavia dalla comunione con Cristo una nuova impronta, sicché le nostre virtu morali sono inti­ mamente diverse dalle virtu omonime del campo acristiano. In esse infatti agisce la gloria di Cristo risorto. 2. La filosofia stoica ha sintetizzato in quattro virtu tutta l'eticità umana : prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Se anche nel campo cristiano queste si chiamano virtu cardinali (o fondamentali) lo si deve al fatto che esse costituiscono i modi principali secondo cui la vita quoti­ diana del credente si svolge nell'amore e nell'obbedienza a Cristo. Secondo l'opinione di S. Tommaso e della maggioranza dei teologi odierni, le potenze dell'uomo giustificato sono informare in modo parti­ colare da Dio, sicché l'interiore capacità e inclinazione ad agire secondo questi modi principali derivano dalla sua comunione con Cristo. -

Ci si può certamente chiedere se per quanti hanno la carità infusa siano neces­ sarie altre ulteriori facoltà soprannaturali. S. Tomrnaso l'afferma poggiando sui motivi seguenti. L'ordine soprannaturale non può essere meno perfetto del naturale. Ora Dio nell'ordine naturale ha dotato l'uomo di facoltà permanenti, come la volontà e la ragione, mediante le quali esso raggiunge il suo fine na­ turale. È quindi conveniente che con la grazia soprannaturale equivalente ad una novella creazione e, quindi, a una nuova natura siano date all'uomo delle forme permanenti, mediante le quali egli possa tendere verso Dio, suo fine eterno. Queste sono le virtu infuse. Inoltre nel campo naturale le potenze vengono perfe­ zionate da abiti, che nei riguardi dei mezzi al fine creano una buona disposizione permanente (virtu acquisite). Pertanto conviene che anche nell'ordine sopranna­ turale le stesse facoltà dell'io umano siano ben disposte nei riguardi dei mezzi al fine. Il che avviene mediante gli abiti soprannaturali. Ma questi, non potendo essere acquisiti dall'uomo, dovranno per forza venire infusi da Dio. Cfr. S. Th., 1-11, q. 63, a. 3· Questa dottrina di S. Tommaso ha come suo ultimo fondamento l'idea della analogia entis, la quale però non lo porta affatto a una teologia puramente natu­ rale, poiché la corrispondenza tra ordine naturale e soprannaturale gli è garantita dalla rivelazione. Pertanto anche in S. Tommaso, non però cosi espressamente come in S. Bonaventura, l'analogia entis è sostenuta dall'analogia fidei. L'uso del­ l'etica greca, particolarmente stoica e aristotelica non rappresenta quindi in S. Tommaso una morale naturale. Piuttosto le idee dell'etica precristiana sono

P. II.

-

LA GRAZIA

assunte nella realtà della fede, in modo che questa apporta gli elementi strutturali o formali mentre i filosofi pagani forniscono solo un prezioso materiale che viene elaborato secondo la legge della fede medesima. Pertanto la seconda parte della Somma non contiene una morale naturale, ma cristiana. S. Tommaso vi mostra come mediante la fede, la speranza e la carità debba agire l'uomo unito a Cristo e alla Chiesa, suo corpo mistico. Cfr. Y. Congar, Esquisses du mystère de l'Eglise,

2 ed., Paris 1953.

3. Passiamo ora a descrivere brevemente gli abiti che chiamiamo virtU. cardinali. a) Al vertice sta la prudenza. Cristo ha imnosto ai suoi discepoli di essere prudenti. Prudenza non è scaltrezza, tattica e astuzia. Non è neanche abilità con cui si sa cavarsela in situazioni difficili. La prudenza rende capaci ad agire rettamente in ciascun caso, in ciascuna situazione della vita. Dal momento che tutte le cose e tutte le situazioni provengono da Dio e possono essere rettamente valutate solo alla sua luce, agire ret­ tamente equivale ad agire in modo deiforme. Un tale agire importa tanto un giudicare quanto un decidersi che si compiono in Cristo, sicché la prudenza umana, informata cosi soprannaturalmente, diventa una virtU cristiana (Mt. 7, 24 ; ro, 1 6 ; 25, 1 ss.) e assurge a sapienza. Sapienza supe­ riore, poiché l'agire cristiano agli uomini mondani appare sovente come un agire da stolto. La prudenza sta al primo posto perché è la piu irnoortante delle vi..rtll cardinali. Prudente è quell'uomo che sa come egli, ordinato al Padre mediante Cristo e nello S ?irito Santo, debba agire in questo particolare momento. Stolto è colui che agisce come se nulla sapesse del suo legame con Dio. Si vede quindi come la prudenza non ha nulla a che vedere con il freddo calcolo. La rettitudine di cui si ])ada qui è un agire per amore di Dio. È, come spesso si esprimono i Padri, una sobria ebrietà (Clemente di Alessandria, Cirillo di Gerusalemme). b) In secondo luogo viene la fortezza. Sottoposta alla prudenza, rende l'uomo capace di agire in circostanze in cui si ha qualcosa da temere. In certe situazioni non si può affatto agire rettamente ossia con prudenza se non si possiede la fortezza. La fortezza non ha nulla a che vedere con la mancanza della paura o con la spregiudicatezza. Essa vede il pericolo e ne sente orrore. L'uomo va incontro a ciò che è pauroso con timore (cfr. Cristo nell'orto del Getsemani). Ma non fugge a motivo di ciò che è spaventoso, bensi si tiene fermo in forza della potenza di Cristo. L'orrore che l'uomo risente può provenire non solo dai pericoli che minacciano la vita terrena, ma ancor piu da quelli che minacciano la vita dell'anima, -

§ 194· LE VIRTU MORALI

ossia dal peccato. Con la fortezza l'uomo diventa padrone di se stesso di fronte a un pericolo incombente. La fortezza è talmente indispensabile alla vita cristiana che questa non può sussistere senza quella. c) La giustizia come virtu cristiana, è un agire rettamente nei con­ fronti degli altri, ossia quell'agire dell'uomo unito a Cristo, che rende a ciascuno ciò che gli è dovuto. Ciò, com'è evidente, suppone che ogni uomo abbia i suoi diritti che derivano, piu o meno direttamente, dalla sua dignità di persona umana. Siccome nell'esercizio della giustizia si tratta di un diretto rapporto tra uomini, in essa ha parte l'amore. Giustizia e amore si possono e si devono distinguere concettualmente, ma non si devono realmente separare. Giustizia ed amore non si oppongono mai, ma si richiedono e si compenetrano a vicenda. L'amore crea l'atmosfera in cui la giustizia può esplicarsi. Esso dona la capacità di vedere ciò che è giusto e di dare agli altri ciò che loro spetta. Si può persino dire che senza amore la giustizia non può vivere. Chi non vuole la giustizia non la realizza; per realizzarla ci vuole qualcosa di piu della giustizia stessa, ci vuole l'amore. Se talvolta sembra che vi sia opposizione tra la giustizia e l'amore, ciò dipende dal disordine, sia oggettivo che soggettivo, introdotto nel mondo dal peccato, ossia dall'egoismo e dalla superbia umana. Per realizzare la giustizia in un mondo disordinato occorre moderare gli interessi, cosa questa irraggiungibile senza l'amore per cui ognuno è disposto a dare o a lasciare a ciascu..no ciò che gli conviene. In Dio giustizia e amore sono una cosa sola; cosi nella profondità del nostro io, dove Dio agisce, sono pure un'unica realtà. Si vede quindi come non vi può essere alcuna giustizia senza amore e alcun amore senza giustizia. d) La temperanza non significa mediocrità (vedere Hello, L'Homme, il cap. sulla mediocrità). La mediocrità non è affatto una virtu cristiana, anzi non è nemmeno una virro. Temperanza significa che le cose sono la misura del nostro agire, che noi non decidiamo capricciosamente, ma in armonia con la realtà delle cose. Ogni cosa ha la misura del suo essere da Dio, ossia dall'amore di Dio. Prendere le cose come misura del nostro agire significa assumere l'amore divino a norma delle nostre azioni. Tem­ perante è colui che, senza esaltazioni ed eccitamenti di orgoglio, si lascia permeare dal fuoco del divino amore. Il che può attuarsi solo quando l'uomo è unito a Dio per mezzo di Cristo. Con questa « temperanza » non solo sono congiunte ma, anzi, richieste sia l'interiorità, sia lo slancio del cuore. Certo, con nessuno slancio amoroso possiamo accogliere quella fiamma d'amore che si sprigiona dalle cose e ci investe. Nessun uomo

186

P. II.

-

LA GRAZIA

può quindi convertire pienamente in azione la misura delle realtà. Noi ne rimaniamo sempre al di sotto, poiché non sapremo mai accogliere in tutta la sua estensione la fiamma del divino amore. Che lo si possa, sia pure in modo ridotto, lo dobbiamo alla nostra unione con Cristo. Solo per mezzo di Cristo abbiamo la possibilità di agire con temperanza. 4 . - Sul rapporto delle virtu morali con le virtu teologiche, e soprattutto con

(S. T h., 1-11, q. 65, a. 2) :

l'amore, Tommaso d'Aquino cosi si esprime

c

Le virtu

morali per il fatto che sono operative del bene in ordine al fine che non supera la capacità naturale dell'uomo si possono acquistare con opere uman e. Perciò le virtu acquisite possono sussistere senza la carità, come

di fatto esistono in

molti pagani. Ma solo in quanto sono operative del bene in ordine all'ultimo fine soprannaturale, si possono dire virtu perfette in senso vero e proprio, e non si possono acquistare con atti umani,

ma

devono ·venire infuse da Dio. Simili virtu

morali non possono stare senza la carità.

È

stato detto piu sopra (q. 65, a. 1 e

q. 58, a. 4) che le altre virtu morali non possono sussistere senza la prudenza. La prudenza poi per conto suo non può esistere senza di esse, in quanto tali virtu

di alcuni fini, dai quali procede la

fanno che si sia ben disposti nei confronti ragione della prudenza. Ora perché vi sia

una

retta prudenza è assai piu indispen­

sabile essere ben disposti nei riguardi dell'ultimo fine, il che si ottiene per la carità, che non esserlo nei riguardi degli altri fini, il che si otùene con le virtu morali, allo stesso modo che la retta ragione in materia speculativa ha soprattutto bisogno del primo principio indimostrabile, che cioe " le due con traddittorie non possono essere simultaneamente vere ". Perciò diventa chiaro che né la prudenza infusa non può sussistere senza

la

carità; né per conseguenza le altre virtu morali

poiché esse non possono esistere senza la prudenza.

È

dunque evidente, da quanto

abbiamo detto, che soltanto le virtu infuse sono verameme perfette e devono essere chiamate assolutamente virtu, perché orientano bene l'uomo verso il fine assolutamente ultimo. Le altre virtu, cioè quelle acquisite si possono si chiamare virtu

ma

solo in un certo senso. Esse infatti ordinano l'uomo a

fine ultimo,

ma

un

determinato

non semplicemente al fine ultimo. Per cui sul passo dell'Apostolo

(Rom. 14) : " Tutto ciò che non è dalla fede

è peccato " dice la glossa di Agostino :

" Dove manca la conoscenza della verità non vi è vera virtu anche nei buoni costumi *

"

,_

Nel suo commento a questo passo di

Paris 1935, 336 s.) C05i scrive :

c

S.

Tommaso, R. Bernard

(La

vertu, Il,

Questo articolo veramente capitale riprende e

raggruppa in una sintesi definitiva le diverse specie e i diversi ordini di virtu. S. Tommaso riConosce formalmente che vi è un ordine naturale in cui non è im­ possibile all'uomo acquistare delle virtu con le sue proprie opere : molti pagani, egli dice, hanno fatto questo. Ma al di sopra di questo ordine vi è quello sopran­ naturale, in cui non si può far nulla senza virtu infuse. Ora, tutta la forza e la abilità dell'argomentazione sta qui nel mostrare in nome stesso della prudenza, che l'uomo non si deve chiudere né rifi.utarsi a quest'ordin e soprannaturale, ma deve invece aprirvisi e prepararvisi con tutta la sua potenza obedienziale. S. Tom­ maso ha richiamato nell'articolo precedente il compito organizzatore della pru­ denza nella concezione e nella condotta della vita; e qui prosegue logicamente

§

195·

I DONI DELLO SPIRITO SANTO

sottolin eando che la prudenza non compire bbe veramente la sua opera e non adempirebbe il suo ufficio qualora si limitasse a organizzare la vi ra umana secondo fini puramente naturali, e trascurasse di informarsi dei fini soprannaturali e di ispirarsene praticamente. L'uomo non

è prudente se non cerca e non si preoccupa

dei veri fini della vita e non si governa in conseguenza. Ora i veri fini, quelli che sono veramente ultimi e assolutamente decisivi, non sono quelli che si presentano su un piano limitato e in un campo ristretto, come esser giusto negli affari, onesto nei costumi, fedele nel matrimonio, veridico nelle parole, buon patriotta, vero cittadino del mondo, e ogni altra cosa di questo genere, ma sono quelli stessi

è fine a se stesso; è il nostro fine. La prudenza per l'uomo, la vera saggezza, il senso del destino, non è esser se stessi, ma essere ciò che Dio vuole, è vivere nella sua intimità, è amarlo con amicizia come lui stesso ci ama. Ecco

ai quali Dio ci destina e che ci trasportano in lui. L'uomo non neppure l'umanità. Dio solo

l'ideale e il fine dei fini, come dirà con emozione l'articolo quinto della presente

questione. Chi non riconosce questo ordine della carità, per quante v'uti1 acqu isit e e reali qualità di onesto uomo egli abbia, ha lo spirito cosi limitato nelle virni e va a rischio di averlo cosi falsato quanto colui che nella scienza ha l'intelligenza sconclusionata e non riconosce neppure piu la verità dei primi principi. Insomma,

è dunque vinti nel senso pieno della parola, se non è eminentemente e formalmente quello della carità. La suprema saggezza è amare Dio, e la genialità della vita è di governarsi in tutte conclude l'articolo, non vi

nell'ordine soprannaturale che

le azioni come qualcuno che ama Dio e di ispirarsi in tutte le vinti a questo amore medesimo

».

*

§ 195. I doni dello Spirito Santo. I.

-

IN GENERALE.

l . Nel « nobile corteggio » ricordato dal Catechismo del Concilio di Trento e che accompagna la grazia santificante, sono pure inclusi i sette doni dello Spirito Santo. Sono doni dell'Iddio tripersonale, ma si chia­ mano doni dello Spirito Santo per il fatto che, essendo lo Spirito Santo stesso il dono che il Padre e il Figlio inviano all'uomo giustificato (cfr. § so), ha un particolare rapporto con tali doni. Ogni dono è segno d'amore. Donando, il donatore offre il suo amore al donatario, e questi accettando il dono accoglie pure tale amore. Il dono rappresenta il donatore. Nel dono questi offre sé medesimo. Quando il Padre e il Figlio donano lo Spirito Santo, in esso è l'Iddio tripersonale medesimo che si dona all'uomo in grazia. Il che diviene parti­ colarmente chiaro quando si pensa che lo Spirito Santo è l'amore perso­ nale stesso. Padre e Figlio, inviando lo Spirito Santo all'uomo giustificato, gli donano l'amore personale, nel quale essi si amano e si abbracciano. -

P. I I .

1 88

-

LA GRAZIA

Lo Spirito Santo non è quindi, come nei doni puramente naturali, un mero segno d'amore, ma è l'amore medesimo, l'amore personale. Egli è perciò il dono del Padre e del Figlio all'uomo giustificato, in quanto è l'amore che il Padre e il Figlio spirano nell'uomo arricchito della grazia divina. Ora questo dono, che è lo Spirito Santo, viene in un certo modo ripar­ tito nei sette doni come nei suoi raggi creati. Ciò naturalmente non va inteso in senso panteistico. La ripartizione di un dono totale nei suoi vari elementi va intesa come la esplicazione in singoli doni di un dono piu grande. I sette doni sono come raggi di un unico sole. ·

2. I teologi hanno variamente spiegato i sette doni dello Spirito Santo. Secondo il pensiero di S. Tommaso, condiviso oggi dalla maggioranza dei teologi, i doni sono da intendersi come abiti per mezzo dei quali l'uomo è reso capace di seguire prontamente e facilmente le illuminazioni e le ispirazioni divine. A motivo della sua origine divina, l'uomo ha una natura sempre aperta a Dio (potentia oboedientialis). Egli tuttavia, può anche rinchiudersi nel suo amor proprio e opporre resistenza all'influsso divino. I doni dello Spirito S anto spezzano questa umana opiJosizione ; creano una tale connaturalità con Dio, una tale prontezza di cuore, che l'azione divina non appare piu come qualcosa di estraneo e di minaccioso, bensi come qualcosa di suadente e di beatificante da dover essere accolto volentieri, gioiosamente. I sette doni dello Spirito Santo recano una pm fine sensibilità per Iddio, un piu fine udiro per la sua voce, un piu fine tatto per la sua mano che ci prende e ci vuole trarre con sé. L'arricchito di tali doni è pronto a seguire la mozione divina senza al­ cuna resistenza. Non agisce piu col proprio sforzo. È S?into dallo Spirito Santo e non piu dalla sua propria volontà. Come la barca che non procede piu a forza di faticoso remare, ma spinta dal vento che ne gonfia le vele. S. Tommaso d'Aquino dice che i sette doni dello Spirito Santo creano nell'uomo una disposizione per cui egli bene agitur a Spiritu Sancto, mentre le virtu infuse creano una disposizione per cui noi stessi bene agimus. Non si deve naturalmente intendere questa affermazione in senso esclusivo, come se i doni ci abilitassero ad un comportamento puramente passivo e le virtu ad un comportamento puramente attivo. Ogni azione umana, è in pari tempo attiva e passiva. Poiché in essa agisce come causa principale Dio, essendo l'umana attività causata da Dio. Dio agisce nel mondo mediante l'azione dell'uomo. La distinzione tra le virtu e i doni consiste quindi nel fatto che le prime -

§ 195.

I DONI DELLO SPIRITO SANTO

esigono la riflessione e lo sforzo per accogliere la divina mozione nella volontà umana, mentre i secondi conferiscono una maggior facilità e gioiosità nell'accogliere tale mozione, anche quando arrechi dolore e fatica. Ad esempio, un individuo trovandosi in una situazione in cui gli si pre­ sentano due doveri opposti cerca ansiosamente come risolverla. Il dono del consiglio fa si che egli la risolva bene con facilità, quasi d'istinto. I doni, conferendo all'uomo una stretta connaturalità con Dio, lo ren­ dono capace di obbedire prontamente e facilmente alle ispirazioni divine anche in azioni difficili ed eroiche. Questa forte accentuazione dell'attività di Dio in ogni azione dell'uomo non significa punto che l'attività umana venga sminuita, anzi questa parte­ cipando alla potenza dell'azione divina che è l'azione sussistente acquista una tale energia e vitalità che mai sarebbe possibile ad una pura creatura. Non si deve confondere l'attività prodotta da Dio con l'agitazione este­ riore. Essa si realizza anche quando ogni attività esterna sembra spenta, come ad esempio, avviene nella contemplazione. La piu alta attività ope­ rata in noi da Dio si avrà nel cielo. Si può quindi dire che il massimo di attività divina causa il massimo di attività umana.

3. - Per quanto concerne l'esistenza e la natura dei doni, si deve osser­ vare che i Padri sono sempre stati concordi per quanto ne riguarda l'esi­ stenza, ma non invece circa il loro numero e la loro essenza. La teologia medievale si è fissata sul numero sette. La dottrina che sette siano i doni poggia su Is. I 1, 2 dove si dice che sul futuro Messia « riposerà lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e d'intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà ; lo riempirà lo spirito del timore del Signore » (Volgata; nel testo originale manca lo « spirito di pietà » ). Siccome Cristo possiede tutte le ricchezze spirituali soprannaturali come capo dell'umanità, e quindi non solo per sé, ma anche per noi, si deve concludere che i doni dello Spirito Santo in lui esistenti vanno pure attribuiti a tutti i giustificati. Tanto piu che la Bibbia ci assicura che Cristo donerà la nuova vita con pienezza a coloro che cre­ deranno in lui (Gv. IO, Io; Col. 2, 9- 12). Anche la liturgia attesta la credenza nel settemplice dono dello Spirito Santo. Cfr. gli inni Veni Sancte Spiritus e Veni creator Spiritus.

190

P . II.

II.

-

-

LA GRAZIA

IN PARTICOLARE.

4 . - Per quanto riguarda i doni in particolare si è soliti dividerli in doni riguardanti l'intelligenza e doni riguardanti la volontà. Non si deve tuttavia supporre che queste due categorie di doni siano nettamente distinte, dato che una tale distinzione non esiste neppure tra intelligenza e volontà. È sempre tutto l'uomo soprannaturalmente trasformato che agisce, ora piu con l'intelletto divinamente illuminato, ora piu con la volontà divina­ mente ispirata. Tutti i doni sono sempre in attività, ma ora piu l'uno ora piu l'altro. Ciò che noi distinguiamo concettualmente per averne una visione piu completa e profonda in realtà non si trova cosi distinto. I quattro doni riguardanti la conoscenza sono quelli dell'intelletto, della sapienza, della scienza e del consiglio. a) Con il dono dell'intelletto vogliamo indicare la capacità infusa da Dio nell'uomo in stato di grazia di ascoltare la rivelazione soprannaturale di intenderla, di comprenderla in modo chiaro e profondo. Esso dona cosi l'intelligenza del mistero della nostra salvezza (cfr. Ef. 1, 1 8 ; 3 , 4). Questo dono è inteso da Paolo quando scrive ai Corinti (2 Cor. 4, 3-6) : « E se anche il nostro evangelo resta velato, è velato per quelli che si perdono, per quegli infedeli ai quali il dio di questo mondo ba accecato la mente, perché non vedano brillare la luce dell'evangelo della gloria di Cristo, immagine di Dio. Poiché noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesu come Signore, noi invece siamo vostri servi per causa di Gesll. E quel Dio che aveva detto : " Risplenda dalle tenebre la luce ", è colui che la fece risplendere anche nei nostri cuori per irradiare la conoscenza della gloria di Dio che brilla sul volto di Cristo ». b) Il dono della sapienza è attestato dalla Bibbia in svariate maniere. Paolo oppone la sapienza del mondo, la sapienza dei filosofi che cercano di raggiungere la conoscenza delle realtà terrene e celesti, alla misteriosa sapienza divina apparsa in Cristo ( r Cor. r-3). Questa ci viene rivelata mediante lo Spirito, il quale ci fa partecipi della sapienza di Dio onde siamo in grado di riconoscere che la sapienza di Dio è davvero sapienza. Mediante la partecipazione alla sapienza divina infusaci nello Spirito Santo siamo resi atti a intendere rettamente e la Scrittura e Cristo (r Cor. 2, ro; 2 Cor. 3, 4-1 8). La sapienza divina che ci viene rivelata e comunicata nello Spirito Santo non solo ci illumina ma anche ci muove verso Dio. Ci viene partecipata nel battesimo. Ma con la crescita del-

§ 195.

l

DONI DELLO SPIRITO SANTO

191

l'amore aumenta pure la conoscenza spirituale della sapienza divina sve­ lataci nei misteri salvifici. Cfr. § 85. Poggiando su queste testimonianze rivelate, Tommaso d'Aquino cosi ha costruito la sua spiegazione del dono della sapienza. Questo dono rende possibile all'uomo di intendere e di valutare tutte le cose dal punto di vista di Dio, e per una specie di connaturalità con Dio, di amarle cosi come Dio le ama. La sapienza dona gusto per Dio e per le cose divine. Nella Summa Theologica (11-11, q. 45, a. 2) cosi scrive : .« Come circa le cose della castità giudica rettamente per scienza chi conosce la teo­ logia morale, ma per una certa connaturalità ad esse solo chi ha la virtli della castità; cosi giudicare rettamente delle cose divine per scienza è proprio della sapienza in quanto virtu intellettuale, ma giudicarne retta­ mente per una sorta di connaturalità ad esse appartiene alla sapienza in quanto dono dello Spirito Santo » . Cosi l a vera scienza diventa sapienza. La scienza, specialmente quella teologica, raggiunge la sua vera espressione solo nella sapienza (Ef. 1 , 17). Il dono della sapienza costituisce il principio dell'avvenimento centrale della vita mistica, la contemplazione. La sapienza poggia sull'amore e sfocia nell'amore; non è quindi un puro atto intellettuale; è conoscenza e amore : amore che conosce, conoscenza che ama. La contemplazione, in cui si esprime il dono della sapienza, non è, almeno come si attua in questa vita (a prescindere dall'estasi), la visione immediata di Dio, bensi un sentire e uno sperimentare, un gustare Dio. La sapienza divina, il giudicare e stimare tutte le cose con gli occhi di Dio, appare stoltezza all'uomo chiuso e murato nel mondo. Ma al con­ trario la sapienza del mondo è stoltezza dinanzi a Dio. Il dono della sa­ pienza ci dà la possibilità di giudicare stoltezza la sapienza mondana e vera sapienza quella della croce, che invece di fronte al mondo è pura stoltezza (1 Cor. 1, 22-3 1). c) Il dono della scienza ci rende capaci di vedere le cose nella loro relazione a Dio, sicché possediamo la giusta misura per non esagerarne il valore e comprendere che esso si fonda in Dio e che pertanto tutte le cose create sono limitate. Questo dono quindi ci preserva da ogni interpre­ tazione puramente immanentistica del mondo e delle sue parti. Ci dona pure la capacità per giudicare ciò che deve essere creduto e ciò che invece no, di distinguere tra i misteri contenuti nella rivelazione divina e i misteri del mondo nonostante la molteplice apparente affinità tra loro (ad esempio la distinzione tra la dottrina trinitaria cristiana e non cri­ stiana). Esso racchiude quindi in sé il dono del discernimento degli spiriti.

192

P. Il.

-

LA GRAZIA

d) Il dono del consiglio ci dona la possibilità di percepire nelle intri­ cate circostanze della vita la voce di Dio, di formulare una decisione esatta, di pronunziare la giusta parola e di agire con rettitudine (cfr. Mt. 10, 19 s.). Ai doni concernenti la conoscenza si associano i tre riguardanti la vo­ lontà, il dono della pietà, il dono della fortezza e il dono del timore di Dio. e) Il dono della pietà ci dà la facilità d'amare e onorare Dio come Padre, anche nei momenti del dolore e delle prove. Che noi si possa invocare Dio con il nome di Padre non è cosa di per se stessa compren­ sibile, ma rientra nel mistero dell'amore divino che racchiude in sé ogni altro mistero. « Padre nostro ... Ecco la voce della libertà piena di fiducia », si legge nel Sacramentario Gelasiano (ed. Wilson 1 894, 5 8). Il dono della pietà tende a fare si che noi ci comportiamo con Dio con l'atteggiamento e il sentimento di figlio, senza mai staccarcene anche nei momenti in cui ci invia delle prove. Inoltre fa che noi abbracciamo nel nostro amore anche tutti gli altri uomini, che li vediamo come fratelli e sorelle in Cristo, superando tutte le avversioni che talvolta sgorgano nei loro riguardi. f) Il dono della fortezza è un rafforzamento della omonima virru morale. Opera nell'uomo l'energia sufficiente perché stia impavido di fronte alle difficoltà piu gravi, in modo d'essere pronto, se non v'è altro scampo, a tutto sacrificare pur di stare unito al Signore (martirio). Un'altra forma, invisibile ma non meno seria di fortezza, è quella dei mistici e sta nell'abbandonarsi totalmente alle esigenze dell'amore divino, pronti a passare per tutte le forme di prove, le cosiddette notti oscure attraverso le quali Dio li conduce e che giustamente sono chiamate il purgatorio in terra. Teresa di Avila afferma che la fortezza è una delle condizioni fondamentali della perfezione (cfr. Pieper J., Sulla fortezza, Brescia 1956). g) Il dono del timore dona la capacità di vivere nell'atteggiamento di profondo rispetto, ossia di timore amoroso e di amore timoroso di Dio. Ciò che il cristiano teme con questo dono non è affatto Dio nel quale anzi ripone la sua speranza, quanto piuttosto la propria debolezza. Il timore di Dio ci dà pure la capacità di comportarci rettamente nei riguardi degli altri uomini e degli altri essere creati e che da Dio ci sono posti sul cam­ mino. In ogni uomo e in ogni essere è l'Iddio silente che ci si presenta. 5. Con i sette doni dello Spirito Santo stanno in stretto rapporto le otto beatitudini e i frutti dello Spirito Santo, che sono pure da annove­ rarsi tra gli elementi costitutivi della vita divina in noi. -

§ 195· l DONI DELLO SPIRITO SANTO

a)

Le otto beatitudini (Mt. 5, 3-1 2 ;

Le.

19 3

6, 20-26 :

i poveri nello

Spirito Santo, coloro che piangono nello Spirito Santo, i miti, gli affamati della giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, i pacifici, i perseguitati per la giustizia) sono dei comportamenti religioso-morali di particolare qualità dell'uomo unito a Cristo e per mezzo di Cristo all'Iddio tripersonale. In esse l'uomo palesa nel modo piu visibile il suo stato cristiano. Quando ci incontriamo con una persona che pratica le beatitudini, non possiamo du­ bitare del suo cristianesimo. Sono possibili solo nella nuova situazione creata da Cristo. Chi non ha accolto Cristo e non ne

è stato trasformato

non ha alcuna possibilità di comprendere tali beatitudini. Si chiamano cosi perché Cristo medesimo ce le ha indicate come la via per il raggiun­ gimento della felicità e perché sono in se stesse sorgente di gioia, perché sono segni della nostra elezione e perciò donano a coloro che le possiedono la piena fiducia della beatitudine, ossia del regno di Dio. b) Paolo nella sua epistola ai Galati (5, 22-23) elenca i seguenti frutti dello Spirito Santo :

« Carità, gioia, longanimità, benignità, bontà, fe­

deltà, pace, dolcezza, tem�eranza » . Il testo greco non parla di frutti, bensi

al singolare di frutto dello Spirito Santo. La qual cosa viene cosi

spiegata dal Windischmann in armonia con S. Tommaso : « Quanto piu l'uomo si assimila a Dio, tanto piu partecipa alla semplicità divina, tanto piu i suoi pensieri, le sue parole, le sue opere divengono un tutto unico, un continuo atto di amore e di adorazione di Dio, un organismo di cui

le singole virtl.l costituiscono solo delle parti. Avviene nel campo spiri­ tuale ciò che si avvera in quello naturale. La vita dell'organismo consiste nell'unità risultante dalla coordinazione e collaborazione di tutte le sue singole parti; dove cessa questa unità sorge tosto una molteplicità in cui le singole parti pretendono un'esistenza autonoma e vivono una vita fit­ tizia che

è poi la morte di tutto l'organismo. Come un corpo vivente

perisce scomponendosi nei suoi elementi, cosi l'unità di tutte le virtt1 fondata nell'amore scompare nella molteplice decom;:JOsizione del vizio, che nonostante l'apparente pienezzg di vita

è del tutto infruttuoso » .

La Volgata e , con essa gran parte dei teologi, invece di nominare i nove frutti dello Spirito Santo di cui parla

il testo greco, ne elenca dodici in

quanto al posto della bontà pone la pazienza e la longanimità e invece della dolcezza la mitezza e la modestia aggiungendovi inoltre la castità.

194

P. II.

-

LA GRAZIA

§ 196. Invisibilità della vita divina. (Certezza e incertezza dello stato di grazia). l. Sin qui abbiamo cercato di analizzare nei suoi vari aspetti la vita divina nell'uomo. Ora dobbiamo vedere alcune sue caratteristiche, quali l'invisibilità, la ineguaglianza, la possibilità di aumento e l'amissibilità. L'invisibilità consiste nel fatto che l'esistenza dello stato di grazia non può essere percepita né con i sensi corporei e nemmeno con gli occhi dello spirito. Rimane perciò una possibilità di incertezza e insicurezza. Noi siamo infatti certi solo di ciò che possiamo percepire con i sensi o vedere in qualche altro modo. Evidentemente Dio ce ne potrebbe certificare l'esi­ stenza mediante una particolare rivelazione, ma ciò, in via ordinaria, non lo fa. -

2. I riformatori pensano che il giustificato con la sua fiducia in Cristo possa e debba eliminare ogni incertezza. Secondo Lutero, l'uomo con la sua fede fiduciale abbraccia Cristo, in modo che i suoi peccati sono da Cristo coperti ed egli viene ritenuto giusto da Dio. Poiché l'uomo rag­ giunge la giustificazione per mezzo della fede fiduciale egli ne è pure naturalmente certo per la stessa fiducia che ha verso Cristo. Senza la fiducia e la certezza, fondata in essa, della propria giustificazione, l'uomo non è affatto giustificato; con questa fiducia invece ha anche la piena cer­ tezza di essere in grazia. Secondo Calvino, questa fede fiduciale è proprio il segno della giustificazione. -

l.

-

DOTTRINA DELLA CHIESA.

3. Contro la dottrina dei riformatori il Concilio di Trento ha stabilito il seguente dogma di fede : Senza una speciale rivelazione nessuno può o deve avere una certezza di fede, che esclude ogni possibilità di errore, circa il suo stato di grazia (Sess. 6, cap. 9). -

Ecco come suona l'intero capitolo : « Benché si debba credere che i peccati sono e furono rimessi sempre gratuitamente per mezzo del Cristo, tuttavia non si può dire che sono e furono rimessi a chi si vanti della fiducia e della certezza di quella remissione ed in essa sola si adagi. Infatti si può trovare presso gli eretici e gli scismatici questa vana fiducia priva di ogni pietà, come avviene ai nostri giorni

§ 1 96. INVISIBILITÀ DELLA VITA DIVINA

19 5

in cui si declama con tanto calore contro la Chiesa cattolica. E nenuneno si deve affermare essere necessario che coloro i quali sono veramente giustificati debbono

esserne certi senza ombra di dubbio e che nessuno sia veramente assolto dai pec­ cati e giustificato se non colui che crede con certezza di esserlo, e che in questa sola fede si attui la remissione dei peccati e la giustificazione, quasi che senza questa fede si venisse a dubitare della promessa di Dio e dell'efficacia della morte e risurrezione di Cristo. Infatti nessuno che veramente voglia essere pio può dubitare in alcun modo della misericordia di Dio, del merito di Cristo e dell'effi­ cacia e virtu dei Sacramenti, ma nessuno, osservando la propria debolezza e indi­ sposizione, non può non trepidare e temere della sua grazia, dato che nessuno può sapere con certezza di fede, che esclude la possibilità di errore, se abbia con­ seguito la grazia di Dio » (Denz. 8oz). I canoni relativi a questo capitolo sono cosi formulati : Can. 1 3 : « Se alcuno dirà che per conseguire la remissione dei peccati sia necessario ad ognuno credere con certezza e senza alcuna esitanza della sua propria debolezza e indisposizione, che i peccati gli sono rimessi, sia anatema » (Denz. 823). Can. 1 4 :

11 Se qualcuno dirà che l'uomo è liberato dai suoi peccati per il fatto che crede con certezza di

essere assolto e giustificato, oppure che nessuno è davvero giustificato se non colui che crede d'essere giustificato, e che l'assoluzione e la giustificazione si compiono in questa sola fede, sia anatema » (Denz. 824). Can. 1 5 :

« Se alcuno dirà che

l'uomo rinato e giustificato è tenuto a credere per fede di essere certamente nel numero dei predestinati, sia anatema » (Denz. 825).

Ciò che il Concilio di Trento esclude è l'opinione di quei riformatori (Lutero) i quali ritengono che noi conseguiamo la giustificazione con la sola fede fiduciale, e inoltre anche la dottrina che ogni uomo deve credere alla sua propria giustificazione come a un mistero rivelato, sicché senza questa fede non possederebbe la giustificazione stessa, mentre con tale fede, che esclude ogni errore, ne avrebbe la certezza. Una tale rivelazione la ebbero ad esempio Maria (Le. r , 28), il parali­ tico (Le. 20), la peccatrice (Le. 47 ss.), Maria sorella di Marta (Le. ro, 42), il buon !adrone (Le. 2, 43), gli Apostoli (Gv. 1 3, ro). Costoro avevano l'obbligo di credere alla propria giustificazione. Il negarla o il dubitarne sarebbe stato per loro un dubbio nei riguardi della rivelazione divina. Se si parla di tale dovere è solo per meglio chiarire l'errore dei riformatori. Ma a coloro cui era stata fatta, tale rivelazione era stata data in dono e non come obbligo. Essi l'accolsero con pace e gioia, ma non l'hanno affatto sentita come un obbligo. Né si può dire che tutti gli uomini abbiano ricevuta tale rivelazione a motivo della sentenza : chiunque crede e si fa battezzare sarà salvo. Poiché a questa e a simili altre parole sono aggiunte delle condizioni, e non è detto che ognuno le adempia nel modo dovuto. Come non possediamo la certezza d'essere giustificati nello stesso modo con cui siamo certi delle

P.

II.

-

LA GRAZIA

verità di fede, cosi non possiamo nemmeno averne quella certezza che è propria dei primi principi metafisici o matematici, oppure delle realtà percepite dai sensi. Ogni oggetto ha una sua propria certezza. Quella dei primi principi del pensiero si chiama metafisica, quella riguardante le cose della natura e le loro leggi si chiama fisica. Di queste ultime non si può affatto possedere una certezza metafisica, cosi come delle supreme leggi metafisiche non si può possedere una semplice certezza fisica. A queste due categorie di certezza si può aggiungere quella morale, che poggia sulla veridicità e sulla fedeltà umana. Tale certezza è necessaria e sufficiente per la comune vita tra gli uomini. Consiste nel fatto che nei rapporti con gli altri si fa assegnamento sulla fedeltà e sulla veracità umana. Tale certezza può raggiungere talvolta, come nel caso dell'amicizia o del­ l'amore, un grado tale da non lasciare adito ad alcun dubbio ragionevole nei riguardi dell'altra persona. Benché assolutamente parlando, sarebbe possibile anche in tale caso una illusione. Il migliore amico ci può sempre ingannare. Ma quando si tratta di vera amicizia non si tiene conto di tale possibilità. Quando il Concilio di Trento non ammette che del proprio stato di grazia si possa avere una certezza che esclude ogni errore, non intende affatto negare la certezza morale. Una simile certezza dello stato di grazia si può infatti conciliare col Concilio Tridentino, e del resto può natural­ mente assumere vari gradi di sicurezza. 4 . Sbaglierebbe chiunque pensasse che il Concilio di Trento avesse soprattutto l'intento di precisare la certezza dello stato di grazia. Ha voluto soltanto biasimare quella certezza (di fede) insegnata dai riformatori. Dato tale intento polemico era fuori luogo determinare con precisione quale grado di certezza se ne possa avere. Eliminando l'errore protestantico, il concilio veniva indirettamente ad ammettere che esiste un altro grado dì certezza diverso da quello sostenuto dai riformatori. Il concilio non ha affatto inteso porre dei limiti alla misericordia divina, bensi di eliminare ogni compiacente « vanto » della propria salvezza. Perciò esso ha accolto la concezione, non rettamente intesa dai riformatori, che la salvezza non è frutto di potere umano, bensi dono della grazia divina, e non ci è stata donata per il vanto dell'uomo bensi per la gloria di Dio, la quale consiste nel fatto che Dio liberamente si dona ed effonde la sua grazia. Su tale fatto l'uomo può riporre la sua massima fiducia. Non darebbe infatti gloria a Dio chi volesse porre dei limiti alla sua fiducia nel Signore. Appog­ giandosi su di lui con piena speranza, raggiunge la certezza di apparte-

§ 196. INVISIBILITÀ DELLA VITA DIVINA

1 97

nere a Dio, anzi tanto piu ne è certo quanto maggiore è la sua fiducia, analogamente a quanto avviene tra gli uomini ove uno è tanto piu sicuro di un altro quanto piu cresce la confidenza nell'amicizia. Questa fiducia sgorga dalla stessa personalità umana, e soprattutto dal dono di sé con cui l'uomo risponde a Dio con tutte le potenze della sua anima. Quanto piu questo si avvera senza riserve, tanto maggiore è la certezza che tra lui e Dio non vi è contrasto alcuno. Quando l'uomo si dona fiduciosamente al « Tu » divino, scompare la sua riserva nei riguardi di Dio e si schiude l'adito a lui. Queste riflessioni raggiungono il loro massimo valore quando si pensa che tale atto di donazione umana a Dio non è in fondo altro che un atto propriamente operato dallo stesso Dio. Esso quindi dona fiducia all'uomo perché possa essere certo della propria grazia. Ma questa certezza non è tuttavia una certezza di fede e nemmeno una certezza metafisica. Essa sta nel campo personale ed esistenziale, ma non nel campo dell'astrazione metafisica e teologica. II. - TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA.

5. Il Concilio Tridentino ha emesso le sue decisioni poggiandosi sia sulla Scrittura che sull'insegnamento patristico. La Scrittura e i Padri inse­ gnano sia la incertezza che la certezza del nostro stato di grazia. a) Paolo dopo essere stato trasportato al terzo cielo (2 Cor. 12, 1-5) cosi scrive ai Corinti (I Cor. 4, 3-5) : « E quanto a me, m'importa assai poco d'essere giudicato da voi o da tribunale umano. Anzi, io non giudico neppure me stesso; poiché, anche se non mi sento colpevole di nulla, non per questo sono giustificato. Chi mi giudica è solo il Signore. Perciò, non vogliate giudicare innanzi tempo di cosa alcuna, finché non venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e farà palesi i disegni dei cuori; e allora ciascuno si avrà da parte di Dio la sua lode ». E poco dopo : « Io pertanto cosi corro non come all'avventura; faccio del pugi­ lato, non però per battere l'aria, ma maltratto il mio corpo e lo rendo schiavo, perché non avvenga mai che dopo essere stato araldo per gli altri, io resti squalificato ». Ai Filippesi della cui fede egli ringrazia Dio ( I , 3), Paolo cosi scrive (2, 12) : « Pertanto, o carissimi, come sempre siete stati obbedienti, non solo come quando io ero presente, ma tanto piu ora che sono assente, con timore e trepidazione lavorate alla vostra salvezza », ossia con la massima preoccupazione, senza alcuna compiacente fiducia, sempre con il timore di non avere fatto abbastanza (cfr. Ef. 6, 5). b) Ma la Scrittura parla simultaneamente della salvezza di tutti gli -

P. II.

-

LA

GRAZIA

uomini con tale certezza e sicurezza da non lasciare alcun margine per l'angustia e l'inquiemdine. Secondo la testimonianza evangelica è salvo colui che si ravvede e si fa battezzare (Mc. I, r s ; I6, r6). Queste parole indicano chiaramente che chiunque, senza lunghe riflessioni filosofiche o sottili elucubrazioni, senza alcun angoscioso esame di se stesso, se le può applicare e capire facilmente. Nel sermone della montagna si dice con tutta naturalezza : chiunque agisce cosi avrà parte al regno dei cieli (Mt. s, 1-12). Persino lo stesso apostolo Paolo, il testimone principale del­ l'incertezza della salvezza eterna, è tutto animato da gioiosa fiducia. Proprio in un passo dei piu salienti per la testimonianza di Cristo esce in quel grido trionfale : « Sono certo infatti che né la morte, né la vita, né gli angeli, né i principati, né il presente, né l'avvenire, né potenza, né altezza, né profondità, né alcun'altra creatura ci separerà dalla carità di Dio, la quale è in Cristo Gesu, il Signor nostro » (Rom. 8, 38 s.). Tutte le sue lettere esprimono la gratitudine e la gioia per la salvezza acquistata in Cristo. c) Le parole gioia e pace dominano l'intero Nuovo Testamento. Già l'Antico fa risuonare con note vibranti la gioia del giusto (cfr. ad es. Eccli. 30, 22-25 ; Eccle. 9, 7 s. ; 1 1 , 9). Il giusto ha letizia in Dio (ad es. Est. I4, r 8 ; Sal. Ioo, 2-5 ; 3 I , 8 ; 32, 7 ; 40, I 7 ; 68, 4; 92, s). L'allegrezza in Dio è la sua piu ferma difesa (Neem . 8, Io). Egli si rallegra per la legge divina (Sal. I, 2 ; I I9, 6l-I24), per il tempio di Dio (Sal. 84, 3 ; 12, I ; 8 I , 2-4), per le opere divine (Sal. I49, I-4; 8, I 8 ; 96, n-1 3). Ma la letizia piu perfetta sgorga dalla comunione con Cristo. È la disposizione ultima che Gesu ha lasciato ai suoi discepoli prima di par­ tire : « Queste cose io vi ho detto affinché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia compiuta » (Gv. IS, I I). Cosi egli prega il Padre per la gioia dei suoi : « Ma adesso io vengo a te, e queste cose io dico essendo ancora nel mondo, affinché abbiano in sé la pienezza della mia gioia » (Gv. I 7, I 3). Questa letizia si rinviene in chiunque ha ricevuto lo Spirito Santo (Gal. 5, 22 ; Rom. I4, 1 7 ; I S, 1 3). Il regno di Dio è un regno di contentezza (Rom. I4, I 7). Scrivendo ai Corinti Paolo si definisce colui che deve accrescere la loro letizia, come colui che collabora con Dio, il donatore unico della vera gioia, affinché rafforzi la contentezza che già essi posseggono in Dio e in Cristo (2 Cor. I , 24). Ai Colossesi raccomanda di ringraziare il Padre che ci ha resi atti a partecipare alla eredità dei Santi (Col. I, I 2). Giovanni scrive : « Si, la comunione nostra è col Padre, e col Figlio suo Gesu Cristo. E queste cose scriviamo noi, affinché la gioia nostra sia completa » ( I Gv. I, 3 s.).

§ 196. INVISIBILITÀ DELLA VITA DIVINA

I99

La gioia non viene mai meno anche nelle prove e nei pericoli di questa vita. Anzi si erge dalle tenebre e dalle amarezze della vita come una po­ tenza indistruttibile e vittoriosa. Anche nelle prove i credenti in Cristo devono conservare inalterata la loro gioia, poiché esse non sono altro che puri segni della nostra comunione con Cristo e un indizio della gloria futura (Gv. I 6, 20-22; Mt. 5, I I ss. ; Rom. I 2, I 2). Perciò anche « gli Apo­ stoli uscirono quindi dal sinedrio, lieti d'essere fatti degni di patire ol­ traggio per il nome di Gesti » (Atti 5, 4 1 ; cfr. I 3, 52). Paolo assicura i Corinti di rimanere pieno di fiducia anche in mezzo ad ogni prova : « Sono ripieno di consolazione, sovrabbondo di gaudio in mezzo a tutte le tribo­ lazioni nostre » (2 Cor. 7, 4). E racconta loro che la pienezza del gaudio che regnava tra i cristiani della Macedonia ha fatto si che quelli potessero con la loro povertà abbondare per ricchezza di generosità (2 Cor. 8, 2). Nelle lettere paoline il tono non poggia mai sulle raccomandazioni ad aver paura e a temere, bensi sui richiami alla letizia in Cristo e in Dio. Le lettere ai Corinti e ai Tessalonicesi si chiudono con il saluto : « Siate allegri » (2 Cor. 1 3, n ; I Tess. 5, I6). e< Rallegratevi nel Signore », ripete l'Apostolo ai Filippesi (3, I ; 4, 4). Questo gaudio è ben diverso da quello del mondo. È piuttosto un frutto dello Spirito Santo, che in noi attua l'amore e la beatitudine di Dio. Chi è in Cristo sta cosi saldo in lui che nessuno glielo può strappare (Gv. I6, 22). Un'altra parola che palesa la confidenza del credente è il vocabolo « pace ». Questo termine di solito nel Nuovo Testamento denota non un sentimento del cuore, bensi uno stato del mondo. Pace è lo stato ordinato del cosmo. Pace è l'esistenza ordinata dell'universo e di ogni essere. Dio, è l'Iddio della pace ( I Cor. I4, 33), poiché egli non vuole il disordine ma l'ordine. Il disordine e la confusione suno una conseguenza del peccato. Quando l'universo è ordinato e tutti gli esseri stanno tra loro nel giusto rapporto, allora abbiamo una situazione di salvezza. Solo Dio può attuare la sal­ vezza. Perciò in ultima analisi salvezza indica la stessa realtà della pace, ossia armonia con il Signore. Con la mancanza di pace si designa il pec­ cato, il male, il disordine da esso creato. Mediante la pace con Dio si riacquista la salvezza. Solo Dio può condurre l'universo e l'umanità alla armonia e alla pace con sé medesimo (Rom. I 5 , 3 3 ; I 6, 20; I Cor. 14, 33; 2 Cor. I 3, n; I Tess. 5, 2 3 ; I Tim. I, 2; 2 Tim. I, 2). La pace è perciò una grazia ( I Cor. I, 2; Gal. I, 3 ; Ef. I, 2; Fil. I, 2 ; Col. I , 2 ; I Tess. I, I ; 2 Tess. I, 2 ; Tit. I, 4 ; Fil. 3; 2 Gv. 3 ; I Piet. I, 2; Giud. 2). Dio ha operata la pace mediante Cristo, che, quindi, è la pace nostra (Fil. I, 2 ; Le. I , 7 9 ; 2 , I4; I 9 , 42 ; 38; Atti IO, 3 6; Ef. 2 , I4; 6 , I 5 ; Col. I, 20;

200

P. II.

-

LA GRAZIA

3, I 5 ; I Piet. 5, 14). L'evangelo di Cristo e della sua opera è perciò un lieto messaggio di pace (Ef. 2, I 7 ; 6, I 5 ; Atti I o, 36). Cristo stesso designa la sua missione come un'opera destinata a fondare la vera pace (Gv. I4, 27; I6, 33; cfr. Mc. s, 34; Le. 7, s; Gv. 20, I9; Mt. IO, I2 s.). La parola pace pur significando riconciliazione del mondo con Dio, indica anche lo stato dell'animo che si sente tranquillo e sicuro. Effetti­ vamente si sostiene che i lettori e gli scrittori del Nuovo Testamento si sentano partecipi della pace fondata in Cristo e che anzitutto significa lo stato del mondo riordinato con Dio. Si ha l'impressione leggendo i passi in cui Paolo o Pietro o Giovanni parlano della pace, che con tale vocabolo vogliano designare non solo uno stato oggettivo degli esseri, ma anche uno stato personale proprio al lettore e allo scrivente. Non si rinviene la minima traccia che i destinatari o i mittenti vivano nell'angoscia e temano di essere esclusi dalla pace recata da Cristo. S. Paolo nella lettera ai Fi­ lippesi designa la pace recata da Cristo come tranquillità della coscienza che supera ogni intendimento : « È la pace di Dio che sorpassa ogni inten­ dimento, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesu » (Fil. 4, 7). Qui intende la pace dell'animo che Dio crea nell'uomo rige­ nerato in Cristo mediante lo Spirito Santo (Rom. 14, 1 7), e che perdura anche in mezzo a tutte le contrarietà e le prove e che quindi rimane incon­ cepibile e inspiegabile all'intelletto umano. Sia la pace oggettiva che quella della coscienza sono comprese dalla parola di Cristo che dice : « Io lascio a voi la pace : io vi do la mia pace; ve la do non come la dà il mondo » (Gv. I4, 27). E ancora : « Vi ho detto questo, affinché abbiate pace in me; nel mondo avere da soffrire; ma fatevi animo, io ho vinto il mondo » (Gv. I6, 33). ci) Perciò il vero atteggiamento fondamentale del cristiano non è affatto l'ansietà o la paura dell'inferno, bensi la pace e la fiducia a causa della sua comunione con Cristo. Di certo la gioia e la pace del cuore non sono un segno indispensabile della nostra comunione con Dio. Esse pos­ sono anche mancare, senza che ne abbia a scapitare l'amicizia con Cristo. Dio le può ritirare. Ne è una prova lampante l'abbandono di Cristo poco prima della morte, quando egli stava dinanzi alle porte della eterna gloria divina (Mt. 27, 46). Non deve quindi fare meraviglia se anche i discepoli di Cristo possano avere parte all'abbandono subito dal loro Maestro e abbiano a trascorrere la notte del completo isolamento. Se poi ci chiediamo perché mai ciò avvenga, possiamo solo rispondere in generale che avviene in penitenza della fuga da Dio che consiste nel peccato. Nessuno può

§ 1 96. INVISIBILITÀ DELLA VITA DIVINA

201

sapere se ciò sia per espiazione dei propri peccati o degli altru,i. Cristo con il suo abbandono espiò la lontananza da Dio, in cui giacciono i peccatori. e) Siccome la pace e la gioia sono segni che possono anche mancare nella nostra vita di grazia, ne consegue che la loro presenza non dimostra in modo indiscutibile la nostra unione con Dio. Molti dicono : pace, pace, e invece non vi è affatto pace (Ger.

III.

6.

-

-

6, 14; 8, n).

' SEGNI DELL UNIONE CON CRISTO.

Vi sono tuttavia alcuni segni che testimoniano la nostra unione con

Cristo, i quali per il fatto che non stanno nella sfera del sentimento non possono dar luogo ad illusioni. Tali segni sono la sottomissione alla divina volontà, il timore dei peccato, Famore pronto a sacrificarsi (1 Gv. 4, 7-21). I figli del mondo riconosceranno i figli di Dio dal loro mutuo amore (Gv. 1 3, 33-35). Da esso anche i cristiani potranno perciò riconoscersi in comunione con il Cristo. L'amore è il segno della nostra comunione con Cristo, il quale non è altro che l'amore del Padre divenuto carne. 7. - Ma pur questi segni non sono pienamente evidenti. Anche per mezzo loro non è possibile constatare lo stato della giustificazione, cosi come si può sul termometro leggere il grado di temperatura. Il che non può affatto meravigliarci quando si pensa che la giustificazione primieramente non è altro che una nuova relazione con l'Iddio tripersonale. L'amico può essere del tutto certo che il suo amico lo ami, cosi come ne è certo il figlio nei riguardi del genitore. Ma quando si cerca di ana­ lizzare questa certezza secondo le regole dell'antologia (metafisica) e della gnoseologia, ed esprimerla nelle formule di queste scienze, si deve piut­ tosto parlare di insicurezza che di certezza. Questa incertezza nel campo dell'amicizia e dell'amore non deve affatto meravigliarci dal momento che è propria della natura di tale campo. Essa non paralizza la vita, ma l'aumenta. Essa induce l'amico ad agire con amore e fiducia per meglio cattivarsi l'amore e la confidenza del suo amico. In tal modo colui che davvero ama una persona raggiunge una certezza vissuta di essere da essa amato. Come potrebbe del resto essere diversamente? I mutui rapporti tra gli uomini non consistono in un con­ gegno bell'e pronto nel quale si debba venire introdotti, bensi in un atteg­ giamento personale e vivo prodotto e sorretto dalla libera iniziativa, e che di continuo può essere rinnovato, se non si vuoi giungere ad una stasi d'immobilità e di susseguente morte.

P. Il.

202

- LA GRAZIA

8 . Ciò si avvera pure nel nostro rapporto con l'Iddio tripersonale quale si attua mediante la grazia. Noi siamo sempre piu certi della nostra comu­ nione con Dio, quanto piu ci sforziamo di amarlo. Perciò l'incertezza che si trova in ogni relazione personale non distrugge l'intimità della nostra unione con Dio, ma elimina invece quell'atteggia­ mento contro cui Cristo ebbe a lottare per tutto il tempo della sua vita, ossia il fariseismo; atteggiamento che è perenne tentazione dello spirito umano, e che - come lo descrisse Cristo nella parabola del fariseo e del pubblicano (Le. 1 8, 9-14) - consiste nel fatto di ritenere se stessi per giusti e tutti gli altri come peccatori. Se noi fossimo sicuri della nostra unione con il Signore in modo da fugare ogni minimo dubbio, allora ci mancherebbe il pungolo dell'umiltà, per mezzo del quale sempre piu ci raccomandiamo alla misericordia divina. Incomberebbe il pericolo che colui il quale si trova contento e tranquillo circa il possesso di Dio, disponga poi dello stesso Dio a suo talento e se ne serva come un oggetto utilitario. Dio sarebbe allora al servizio dell'uomo e non l'uomo al servizio di Dio; poiché gioverebbe alla sua comodità e alla sua tranquillizzazione. Pericolo, questo, che raggiunge il suo acme quando, nell'esperienza di Dio, si vede la garanzia della presenza divina in noi. Allora si accentua sempre piu tale esperienza da considerarla la cosa piu importante. L'estre­ mo limite di questo stato si avvera quando si ricerca e si stima solo piu l'esistenza per se stessa, trascurando Dio, che viene anzi, del tutto respinto nella sua realtà personale. La vita cristiana scorre perciò tra due poli, è tesa tra l'incertezza e la certezza, tra la vicinanza e la lontananza, tra il timore e l'amore. Il timore preserva l'amore dalla mancanza di premura e dalla indiscrezione, l'amore preserva il timore dallo scoraggiamento e dalla disperazione. Il timore non riguarda perciò Dio, la cui misericordia è infinita, quanto piuttosto la debolezza del proprio cuore che si può chiudere dinanzi a Dio. -

§ 197. Ineguaglianza dello stato di grazia. Sua crescita.

l . Secondo la concezione dei riformatori la nostra giustizia è la giu­ stizia stessa di Dio che ci viene imputata dal Padre celeste. Perciò com'è ovvio la giustizia è identica in tutte le persone giustificate e non è ripar­ tibile per gradi. O la si possiede totalmente o non la si possiede affatto. -

§ 1 97· INEGUAGLIANZA DELLO STATO DI GRAZIA. SUA CRESCITA

203

Non vi è via di mezzo. Nell'antichità (verso il 380) anche Gioviniano so­ stenne l'eguaglianza della giustizia in tutti i battezzati. 2. Contro questa dottrina il Concilio di Trento ha stabilito il seguente dogma di fede : La giustificazione è essenzialmente eguale in tutti i giusti­ ficati, ma è ineguale per il suo grado di attuazione. Inoltre essa può crescere in uno stesso individuo. Il Concilio di Trento nella sua 6a Sessione (cap. 7) sostiene che Dio ci conferisce la giustizia nella misura che piaccia allo Spirito Santo im­ partire liberamente ai singoli e a seconda della propria disposizione e cooperazione di ciascuno. Nel cap. IO si legge : « Giustificati e fatti amici e domestici di Dio (Gv. 15, 1 5 ; Ef 2, 19), progredendo di virru in virtu (Sal. 83, 8), i cristiani, come dice l'Apostolo, si rinnovellano di giorno in giorno (2 Cor. 4, 16), cioè mortificano la loro carne, fanno delle loro membra strumenti di giustizia per vivere nella santità con l'osservanza dei comandamenti di Dio e della Chiesa. Nella stessa giustizia ricevuta per grazia di Cristo, per la collaborazione della fede con le buone opere, crescono e vengono sempre piu giustificati, cosi come sta scritto : Chi è giusto diventi piu giusto (Apoc. 22, I I ), e anr0ra : Non temere di conser­ varti giusto fino alla morte (Eccli. I 8, 22), e di nuovo : Osservate che è dalle buone opere che l'uomo è giustificato e non dalla fede soltanto (Giac. 2, 24). Questo aumento di gius:izia chiede la santa Chiesa quando prega : Dacci, o Signore, l'aumento della fede, della speranza e della ca­ rità (Dom. I 3 dopo Pentecoste) ». Cfr. pure can. 24 e 32 (Denz. 799, 803, 834, 843). -

.

3 . Dalla precedente esposizione della vita divina in noi appare chia­ ramente in che consista l'eguaglianza essenziale e l'ineguaglianza di grado nella giustificazione. È essenzialmente identica in quanto significa in ogni credente la sua morte e risurrezione in Cristo, in quanto è comunione con Cristo e per mezzo suo con le tre persone divine, è compenetrazione della luce e del fuoco di Dio. È a tutto Cristo che ogni giustificato viene immesso come membro. È a tutto il medesimo mistero di salvezza, a un unico e indivisibile merito, ad una identica passione che il credente viene a partecipare. Ma tale partecipazione ha gradi diversi di realizzazione dal momento che i singoli uomini hanno diversa capacità recettiva. Ciascuno riceve tutto il Cristo (totus Christus) ma non lo riceve totalmente (tota­ liter). Il grado d'intensità della ricezione dipende dalla misura con cui il fedele si apre a Cristo, e questa apertura è condizionata dall'azione dello -

204

P. II.

-

LA GRAZIA

Spirito Santo e dalla disposizione che a sua volta tale azione crea nel­ l'uomo. Perciò anche l'aumento della grazia santificante significa una maggiore penetrazione

è

un piu grande splendore della divina gloria

dell'uomo, un radicarsi piu profondo in Cristo e un essere maggiormente e piu vitalmente unita alle tre divine persone. L'aumento della divina vita in noi si avvera di pari passo col dimi­ nuire della nostra superbia e del nostro legame al mondo. Come già di­

il battesimo ha inferto un colpo mortale alla nostra vita mondana è necessario che siffatto nostro modo di vivere sia ora eliminato da ogni piu recondita piega del nostro essere. È stata rimossa

cemmo

e autosufficiente. Ma

la nostra lontananza da Dio, ma perdura la tendenza alla nostra vanagloria boriosa. Perciò anche dopo

il battesimo l'uomo è pur sempre tentato a

vivere come quando trascorreva la sua esistenza mondana, come quando non stava ancora in comunione con Cristo. La crescita della divina vita in noi richiede che si abbia a rimuovere, mediante la forza e l'intimità della nostra comunione con Cristo, le tracce della nostra mondanità rimaste anche dopo

il battesimo, senza tuttavia che si possano eliminare total­

mente, finché rimaniamo su questa terra.

4.

in noi ci è testificato anche dalla liturgia. Abbiamo già detto che nella liturgia l'uomo è tratteggiato in -

L'accrescimento della vita divina

modo da apparire simultaneamente un giusto e un peccatore. Vi si rivela la tensione tra il presente e il futuro tra la debolezza della vita divina attuale e la speranza del suo futuro vigore. Cosi, ad esempio, la comunità nel celebrare l'eucaristia sempre invita a pregare durante la Messa per ottenere incremento (IV domenica di Avvento, postcommunio), vittoria (IV domenica dopo l'Epifania, colletta), purificazione (VI domenica dopo l'Epifania, secreta; Quinquagesima, secreta; lunedi dopo la II domenica di Quaresima, orazione; mercoledi dopo la IV domenica di Quaresima, postcommunio), protezione (domenica di Passione, secreta) zelo e conso­ lidamento (giovedi dopo la domenica di Passione, secreta; XI domenica dopo Pentecoste, postcommunio). Invita pure a pregare perché la vita celeste quotidianamente si esplichi sempre piu nell'azione (II domenica dopo Pontecoste, secreta) perché la vita terrena divenga sempre piu pura e sia orientata verso i beni celesti (martedi dopo la II domenica di Qua­ resima, secreta). Cfr. E. Severus,

der Liturgie, 5.

-

in

Das Bild des christlichen Menschen in Liturgisches Leben, 4, 1937, 270.

La Scrittura testimonia

in molti modi sia l'eguaglianza essenziale

sia la diversità di grado della vita divina elargitaci da Dio. Si pensi alla

§ 197· INEGUAGLIANZA DELLO STATO DI GRAZIA. SUA CRESCITA

205

parabola dei talenti (Mt. 25, I4-30), alla similitudine della vite e dei tralci che devono recare sempre maggiori frutti (Gv. 1 5 , 1-3), al racconto sulla peccatrice a cui fu molto condonato per la grandezza del suo amore (Le. 7, 47). Paolo assicura agli Efesini (4, 12) che l'attività di quanti hanno cariche nella Chiesa serve al perfezionamento dei membri. E quando al v.

I 3 si dice che dobbiamo pervenire all'età matura di Cristo, ciò verosi­ i singoli membri quanto l'intero

milmente va inteso nel senso che sia

complesso della Chiesa deve pervenire dallo stato di immaturità prece­ dente a quello della maturità. Tale accrescimento

è invisibile, come lo è

del resto tutta la vita divina in noi. Esso, infatti si attua pienamente pro­ prio quando le forze umane vengono meno.

«

Perciò non ci scoraggiamo,

ma se anche il nostro uomo esteriore si disfa, l'uomo interiore si rinnova di giorno in giorno. Poiché il momentaneo e leggero peso della tribola­ zione, appresta a noi oltre ogni qualsivoglia misura, un eterno peso di gloria, a noi che non miriamo alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono, poiché le cose che si vedono sono temporanee, e quelle che non si vedono eterne » (2 Cor. 4, r 6-r 8). Colui che tale crescita ci dona maturare il seme (2 Cor. 9,

IO).

è lo stesso Dio. Nessun altro può far

L'uomo però deve prepararsi per acco­

gliere tale semente. Pietro suggerisce :

«

Crescete, invece, nella grazia e

nella conoscenza del Signore nostro e Salvatore Gesu Cristo 3, r 8 ; cfr. Apoc. 22,

I I). (I testi Ef. 4, 7 e

I Cor. I2,

»

(2 Piet.

I I non riguardano

la diversità della grazia santificante, quanto piuttosto i carismi che sono necessari per l'edificazione dell'intera comunità).

6.

-

La ragione principale della diversa misura di grazia sta nella libera

volontà divina, il cui amore si esplica e si manifesta diversamente nel creato (§ 9 1 ). La ragione secondaria sta nella diversa preparazione del­ l'uomo (cfr. Concilio di Trento, Sess. 6, cap. 7). Ma in ultima analisi di­ pende ancora dall'amore divino se uno si prepara piu di un altro a rice­ vere la grazia. L'aumento della vita divina in noi si chiama seconda giustificazione. 7. - Per quanto riguarda il modo con cui la vita divina cresce, ci si può richiamare con S. Tommaso d'Aquino alla corrispondenza tra la vita natu­ rale e quella soprannaturale

(S.

Th., III, q. 68, a.

I). Non si deve tuttavia

pensare che la vita soprannaturale sia solo una vita naturale portata in un piano piu alto. Essa

è invece di specie assai diversa, come Dio è diverso

dalla natura. Ma nonostante tale diversità si può stabilire tra le due un parallelismo, per cui la crescita dell'una si può pensare simile alla crescita

206

P.

II.

-

LA GRAZIA

dell'altra. Che esista un tale parallelismo si può arguire dalla rivelazione.

L'analogia entis

è garantita e sorretta

dall'analogia fidei.

La vita naturale deve innanzitutto essere nutrita e rafforzata e poi di­ fesa e mantenuta. Entrambi i momenti camminano di pari passo, ma il rafforzamento è ciò che piu importa. Infatti, quand'è forte e vigorosa, la vita è capace di combattere tutte le minacce e i pericoli e di eliminare ogni germe patogeno che le penetra nell'interno. Ora la vita soprannaturale è nutrita mediante il soprannaturale pane di vita, cioè mediante la predicazione e l'eucaristia. La guarigione dalle malattie spirituali si effettua soprattutto con il sacramento della peni­ tenza. Come avviene nella vita naturale anche quella soprannaturale si accresce organicamente e lentamente, non

in modo repentino e capric­

cioso. Si sviluppa nel tempo fissato da Dio sino a quella maturità che deve raggiungere secondo il volere divino. Ma nel ritmo della crescita non esiste alcuno stretto parallelismo tra la vita naturale e quella soprannaturale. Non sempre con

la

fanciullezza e la giovinezza dell'uomo coincide la

immaturità spirituale, e con la virilità e la vecchiaia la maturità della vita cristiana. Può anzi avverarsi il contrario. L'uomo però con il progredire dei suoi anni dovrebbe donarsi ognor piu a Dio e unirsi sempre piu stret­ tamente a lui con la mente e con il cuore. Vi è tuttavia una eccezione secondo la testimonianza biblica : quando un uomo raggiunge nella sua giovinezza il grado della vita divina che gli è stato assegnato da Dio, allora viene da Dio tolto d a questa vita terrena (Sap.

4, 14).

Come abbiamo già accennato, il modo dell'accrescimento della vita divina in noi si determina con quello della sua nascita. Tale vita ha origine nella unione a Cristo mediante la fede e il battesimo, e aumenta con la partecipazione alla liturgia e la vita quotidiana di fede. La liturgia a sua volta comprende la predicazione della parola di Dio e l' amministrazione dei sacramenti. Questi due elementi sono l'uno ordinato all ' altro. I sacra­ menti però sia per la loro forma che parla maggiormente ai sensi, sia per la certezza della loro efficacia oggettiva hanno particolare importanza. Possiamo quindi affermare che come la vita divina nasce dai sacramenti cosi cresce soprattutto mediante essi. Dio accresce la vita divina da lui generata nei sacramenti con i sacramenti medesimi. Qui occorre sottolineare anche l'importanza dell'anno liturgico della Chiesa poiché in esso l'uomo, entrato in comunione con Cristo per mezzo del battesimo, attua la sua vita in continua comunione con Cristo croce­ fisso e risorto. L'anno liturgico non è altro che la manifestazione e la pre­ sentazione di Gesu e dei suoi misteri nella Chiesa (Guéranger).

§ 197. INEGUAGLIANZA DELLO STATO DI GRAZIA. SUA CRESCITA

207

La partecipazione alla vita di Cristo per mezzo della liturgia deve neces­ sariamente esplicarsi nella vita quotidiana, nell'esercizio della propria pro­ fessione, nel nostro incontro con gli altri uomini e nel modo di trattare le cose. La morte e la risurrezione con Cristo, che si attua nel battesimo, si prosegue e si realizza nelle quotidiane vicende dell'esistenza sino alla morte (ascesi, 2 Cor. 4, I I), sino a quando non venga distrutto il nostro egoismo e domini l'amore di Dio in noi. Il battesimo rimane incompleto sinché non si esplica nel superamento quotidiano del nostro orgoglio. E di rimando ogni sforzo morale rimarrebbe infruttuoso se l'uomo volesse perfezionarsi con le sue sole forze naturali. I sacramenti sono il presupposto, il principio e la forza creatrice di ogni verace moralità cristiana. Accanto alla vita liturgica (sacramenti) non vi è altro cammino normale o di pari valore per raggiungere la santifica­ zione e la salvezza. Ma i sacramenti tendono allo scopo di far perfetta­ mente morire nell'uomo, che è già in stato di grazia, l'odio e la superbia. Anche se già vive l'esistenza nuova che i sacramenti hanno in lui creata, egli deve tuttavia con sforzo diuturno sempre meglio conformarsi a Cristo. Benché qui abbiamo posto in risalto la necessità della partecipazione alla liturgia, non dobbiamo tuttavia sottovalutare l'adempimento dei pre­ cetti divini. Si è voluto soltanto richiamare al retto ordine : in primo luogo sta l'azione di Dio, poi viene lo sforzo dell'uomo. Con ciò mettiamo bene in luce il fatto che è Dio colui che fa crescere in noi la sua vita. Sono però necessari gli sforzi umani . Essi sono essenziali e insostituibili. Ma l'uomo, nei riguardi dell'accrescimento della vita divina si trova nella medesima situazione del seminatore che non può donare al seme la potenza di svi­ lupparsi. Egli può solo realizzare le condizioni necessarie a questa cre­ scita. Solo nell'unione armonica tra Dio e l'uomo può crescere la semente supernaturale. Ma agente principale è pur sempre Dio. L'uomo non può far altro che aprirsi nell'amore e nell'obbedienza al torrente della vita divina. Ora nella liturgia è sempre Dio che agisce nei santi segni e nelle parole. Chi vi partecipa si dispone per ricevere l'azione di Dio. Nella liturgia infatti il battezzato prende parte in modo sempre nuovo alla morte, alla risurrezione di Cristo e al suo sacrificio celeste di lode al Padre. I vari metodi di vita religiosa che presero un grande sviluppo a partire dai secoli XIV e xv, non vengono a perdere la loro efficacia dalle conside­ razioni precedenti. Essi devono tuttavia, rimanere al loro giusto posto. Si veda in proposito l'Enciclica Mediator Dei di Pio XII.

208

P.

II.

-

LA GRAZIA

§ 198. Amissibilità della vita divina. l . - Calvino era del parere che i predestinati alla felicità eterna non peccano piu. Se uno, dopo la giustificazione, cade nella colpa è segno che non era stato giustificato per davvero. Secondo Lutero la vita divina si può perdere soltanto con l'abbandono della fede fiduciale. Molino (I64o-I6 9 6) che si acquistò come confessore e direttore di spirito una fama grandissima, nel suo libro La guida spirituale sostenne l'opinione che si dà uno stato d'amore tale in cui l'uomo piu non può commettere colpa grave (cfr. Denz. I22 I - 1 28 8). 2. È invece dogma di fede che la vita divina si può perdere e di fatto si perde con ogni colpa mortale. Ecco come si es?rime il Concilio di Trento (Sess. 6, cap. I 5) : « Contro la malizia di alcuni uomini che con dolci e pie parole seducono il cuore dei semplici (Rom. 16, 1 8), si deve asserire che non solo l'infedeltà in cui fa naufragio anche la stessa fede, ma anche ogni altro peccato grave, benché non tolga la fede, fa perdere la grazia della giustificazione. Cosi difendiamo l'insegnamento della Legge divina secondo la quale sono esclusi dal cielo non solo gli increduli ma anche i fedeli fornicatori, adulteri, effeminati, omosessuali, ladri, avari, ubriaconi, maldicenti, rapaci (I Cor. 6, 9 s.), e tutti coloro che commettendo una colpa mortale, da cui possono astenersi con l'aiuto della grazia divina, di fatto si separano dalla grazia di Cristo ». Nel can. 2j si dice : « Se alcuno dirà che non vi è nessun altro peccato mottale eccetto il peccato dell'infe­ deltà, e che solo per quello e per nessun altro quantunque grave, si perde la grazia ricevuta, sia anatema ». E nel can. 28 : « Se qualcuno dirà che quando si perde la grazia a causa del peccato si perde pure sempre la fede, o che quella fede che rimane non è vera fede, per quanto non sia viva, o che colui che possiede la fede senza la carità non è cristiano, sia anatema » (Denz. 8o8, 8 3 7-8 3 8). La medesima verità è professata dalla Chiesa nella sua liturgia, quando prega per la liberazione dagli assalti demoniaci e dai pericoli del maligno. Nelle orazioni della Pasqua la comunità che si sente vivente con Cristo in novità di vita, cosi prega : « O Dio, che accresci la tua Chiesa con sempre nuova prole, concedi ai tuoi servi di conservare nella vita la grazia di quel sacramento che hanno ricevuto nella fede » (martedi di Pasqua). « Concedine, o Dio onnipotente, che avendo celebrato le feste pasquali, -

§ 1 98. AMISSIBILITÀ DELLA VITA DIVINA

209

ne conserviamo per grazia tua, lo spirito nei costumi e nella vita » (Dome­ nica in Albis).

3. Perché si possa meglio comprendere quanto insegna il Concilio di Trento circa la possibilità di tentazione e la debolezza che permangono ancora nel giustificato, va osservato quanto segue. Mediante la giustifica­ zione l'uomo è tratto dallo stato di mondanità orgogliosa per essere collo­ cato con Cristo nella gloria del cielo. Ma questa gloria è tuttora nascosta (Col. 3, 3). Diverrà palese soltanto nell'avvenire, quando Cristo tornerà dal cielo « per sollevare il corpo della nostra miseria si che sia conforme al corpo della sua gloria » (Fil. 3, 2 I), quando noi saremo posti nel pieno stato della nostra figliolanza, che segue la manifestazione dei figlioli di Dio (Rom. 8, 23. I9). Ora siccome la gloria divina è in noi ancora occulta, siccome il volto di Dio è tuttora velato, il nostro cuore e il nostro spirito non ne restano cosi cattivati come quando tale gloria apparirà io tutto il suo fulgore. Allora l'uomo non potrà mai piu scostarsi da Dio, per ricercare altrove la propria felicità e perfezione. Ma sino a quando non si attuerà questo stato di vita dovremo sempre sforzarci nella fede e nella fiducia per giun­ gere alla convinzione che in noi già si attua la vita di Cristo risorto, che noi si vive in Cristo e che le forme d'esistenza mondane hanno già rice­ vuto una ferita mortale. Queste forme infatti alle quali siamo morti nel battesimo, si ergono pur sempre davanti al nostro occhio, al nostro cuore, e costituiscono quindi una perenne tentazione che ci induce a credere piu alla loro realtà e potenza che non alla realtà e potenza di Dio. La tentazione che ci viene dal mondo è resa ancora piu efficace dal fatto che il nostro cuore tende già verso di esso, trova cioè un alleato nella nostra debolezza. Anche se nel battesimo è stata ioferta una ferita mortale all'alterigia umana vincolata al mondo, questa tuttavia non è ancora totalmente morta. Compito continuo per tutta la vita del battez­ zato e che non sarà mai attuato completamente, è quello di annientare del tutto la signoria del proprio io, ossia il dominio dell'orgoglio personale e della menzogna per erigervi il regno dell'amore e della verità, e questo in tutti i campi della vita umana sia in estensione che in profondità. Finché l'uomo non sarà trasformato in Dio mediante la morte, finché anch'egli non potrà ripetere la parola di Cristo : Tutto è compiuto (Gv. I9, 30), la sua comunione con Cristo è perennemente minacciata e occorre lot­ tare di continuo contro le tentazioni dell'effimera gloria mondana e contro la debolezza e l'incostanza del cuore umano. -

2IO

P. II.

-

LA GRAZIA

4. - La Scrittura mette specialmente in rilievo la forza tentatrice di due potenze del mondo : quella del denaro e quella dell'ambizione (Mt. 6, 24-34; Le. I6, 9- I 3 ; 1 1, 43). Anche i credenti sono ammoniti a pregare incessantemente : Non ci indurre in tentazione (Mt.

6, I 3).

Paolo si preoccupa sempre che i cri­

stiani da lui convertiti, possano dilapidare l'eredità avuta e non cessa di ammonire che i battezzati devono trascorrere la loro esistenza in armonia

con la loro vita novella. Anzi, quest'appello costituisce in definitiva il senso delle sue lettere : « Noi che siamo morti al peccato come vivremo ancora in esso?. . . Cosi anche voi stimatevi come morti al peccato, ma viventi per Iddio nel Cristo GesU. Fate dunque che il peccato non regni piu nel vostro corpo mortale, si da ubbidire alle sue concupiscenze ; né presentate le membra vostre quali armi d'iniquità al peccato, ma esibite voi stessi a Dio come viventi da mone e le membra quali armi di giu­ stizia a Dio; poiché il peccato non eserciterà piu impero su di voi : non siete infatti sotto la legge, ma sotto la grazia » (Rom.

6, 2. 1 1-14).

I credenti che in Cristo sono morti a questo mondo non devono piu vivere con sentimenti conformi a quelli del mondo. Non devono con il loro sentire rinnegare il loro essere. Non possono agire come se fossero ancora i vecchi uomini

di prima. Alla novità della loro esistenza deve

corrispondere la novità del loro comportamento. Il figlio di Dio deve pensare ed agire da figlio di Dio (Rom.

12, I

s.). Ai Galati Paolo rivolge

« Ma un temoo ignari di Dio, serviste a quelli

la seria ammonizione :

che in realtà non sono dèi; mentre ora, avendo conosciuto Dio, o piut­ tosto essendo conosciuti da Dio, come mai vi rivolgete a quegli elementi deboli e poveri, ai quali nuovamente volete prestare servitu? Voi osser­ vate i giorni, i mesi, i tempi e gli anni. Temo per voi che invano per voi » (Gal.

4, 8-1 1).

mi sia affaticato

Come i battezzati si sono rivestiti di Cristo

in modo da trovarsi nel loro essere ricoperti da lui, cosi devono seguirlo e rivestire pure i suoi sentimenti (Rom.

I 3 , 14;

Ef.

4, 24).

Se intendono

vivere nel loro antico modo terrestre anziché nella nuova esistenza spiri­ tuale non possederanno il regno dei cieli. Il vecchio lievito va assoluta­ mente eliminato

(I

Cor.

5, I-8).

Paolo raccomanda ai Corinti di non tra­

scorrere, anche dopo il battesimo, una vita quale in parte l'avevano tra­ scorsa prima, quando erano impudichi, idolatri, adulteri, effeminati, omo­ sessuali, ladri, avari, ubriaconi, maldicenti, rapaci. Altrimenti nonostante il loro battesimo perderanno il regno dei cieli Gal.

5 , 1 9-2 I ; 2

Cor.

6-7).

(I

Cor.

6, 9-I I ; Io,I-22 ;

Chiunque, pure essendo stato battezzato, tra­

scorre una vita mondana e in contrasto con Dio,

è un menzognero. Il

§ 198. AMISSIBILITÀ DELLA VITA DIVINA

211

battezzato h a vinto il maligno e deve ricordarsi che non può piu amare il mondo : « Se uno ama il mondo non possiede l'amore del Padre, poiché tutto quanto è nel mondo, la concupiscenza della carne e la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita non è dal Padre, ma dal mondo » (Gv. I , 4· I4-I6). Il Nuovo Testamento afferma quindi che a motivo del peccato mortale si smarrisce l'amicizia divina e che l'ira di Dio ci incombe. Questa testi­ monianza si riferisce sia all'ira con cui Dio colpisce i peccatori nel tempo sia anche al giudizio di condanna eterna. La Scrittura non afferma esplicitamente la perdita della grazia santi­ ficante per causa del peccato mortale, o almeno vi allude solo scarsamente. Tuttavia dato che giudizio e ira di Dio si ricollegano con la privazione della grazia, e poiché non vi può essere nella giustificazione un ele­ mento (l'amicizia con Dio) senza che vi sia l'altro (grazia santificante) la testimonianza per l'uno è pure implicitamente testimonianza per l'altro. Cfr. K. Rahner, Siinde als Gnadenverlust in der friihkirchlichen Literatur, in Zeitschrift fiir katholische Theologie, 6o, I936, 4 7I-5 IO. Quando Giovanni afferma che i nati da Dio non peccano, anzi non pos­ sono peccare perché nati da lui (1 Gv. 3, 9), non attesta la inamissibilità della vita ottenuta con la nascita da Dio, ma la sua inconciliabilità con la colpa. Chi è figlio di Dio, è senza peccato. Il peccatore infatti è figlio del diavolo. Quando un figlio di Dio commette peccato - Giovanni pensa all'odio - allora cessa d'essere figlio di Dio per divenire figlio del diavolo. Si può mai ammettere che un figlio di Dio possa essere capace di un tale rinnegamento del Padre? Si può mai supporre che uno che ha gustato l'amore di Dio possa mai agire come uno che non ne ha mai sentito par­ lare? Si deve rispondere : No di certo ! Chiunque è pronto a rinnegare l'amore del Padre per darsi in balia dell'odio, costui è un assassino e non possiede la vita eterna ( I Gv. 3, I 5 ). Si dovrebbe ancora chiarire che cosa mai sia il peccato mortale. Ma questo lo si vedrà nel trattato sul sacramento della penitenza. Basti per ora accennare a ciò che dice S. Agostino e cioè che il peccato è un allon­ tanamento da Dio e un'adesione alle creature. Questo allontanamento e questa adesione non stanno solo alla superficie della persona umana, ma, nel caso del peccato mortale, la toccano cosi profondamente che essa si pone in realtà contro Dio. 5. - Se si dice che la vita divina viene annientata con ogni peccato mortale e non solo con l'incredulità, si deve tuttavia asserire che ogni

212

P. Il.

-

LA GRAZIA

peccato grave include in sé medesimo una forma d'incredulità, poiché è inconciliabile con una fede che sia veramente viva, efficace e informata dalla carità. Chiunque s'eleva contro Dio con un peccato mortale ne nega con il suo comportamento la superiorità, la signoria e l'amore. La fede che ancora rimane è priva di carità e quindi il Concilio di Trento la chiama una fede morta. Inoltre ogni peccato grave ha in sé la tendenza a progredire sino alla negazione totale di Dio. Ciò mai diviene cosi evidente come nell'afferma­ zione che non vi può essere alcun Dio, poiché l'uomo non potrebbe sop­ portare di avere tale testimone (cfr. § 3 1 ). L'uomo borioso e superbo non tollera alcun signore sopra di sé che lo abbia a porre completamente al suo servizio. Simili riflessioni non sono aliene dalla testimonianza biblica per cui la fede ha un valore decisivo per la salvezza, mentre l'incredulità ne ha un altro pure esso decisivo per la dannazione. « Chi crede nel Figliuolo ha la vita eterna; chi invece nega fede al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio pesa sopra di lui » (Gv. 3, 36; cfr. 8, 24). Qui l'incredulità è desi­ gnata come il peccato per eccellenza. E lo è in quanto la fede morta e non informata dalla carità accompagna ogni peccato grave. Al contrario secondo l'Apostolo la fede è detta semplicemente il dono di sé a Dio : « Chiunque crede che Gesu è il Cristo, è generato da Dio... perché chiunque è generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che vinse il mondo : la fede nostra. Chi è mai che vince il mondo, se non chi crede che Gesu è il Figlio di Dio? » ( 1 Gv. 5, 1 . 4 s.). Con il peccato leggero, nel quale l'uomo mantiene il suo orientamento fonda­ mentale verso Dio pur lasciando del posto per l'amor proprio, non si perde la vita divina. Anzi questa non ne viene sminuita nemmeno nella sua intima forza. Se cosi fosse si finirebbe con il perderla mediante una serie di molteplici peccati veniali. Ma per la consuetudine di compiere peccaù veniali diminuisce la dispo­ sizione verso Dio e si pone il presupposto per la susseguente caduta in peccati gravi. Sulla distinzione, non facile a determinarsi, tra peccato veniale e monale si parlerà trattando del sacramento della penitenza (§ 268).

SEZIONE II.

LA NASCITA DELLO STATO DI GRAZIA IN VIRTÙ DELLA GRAZIA ATTUALE

§ 199. Prospetto. La giustificazione è opera di Dio. È lui infatti che con la sua libera iniziativa stabilisce nell'uomo il suo regno, creando in tale modo lo stato di grazia. Dio però non usa sopraffare l'uomo, ma ne rispetta la perso­ nalità. Lo ha creato come essere libero e non gli toglie mai la libertà. Egli quindi stabilisce il suo regno solo in colui che con prontezza di cuore viene incontro a tale dono. Perciò sia l'uomo che Dio cooperano assieme nell'attuazione dello stato di grazia, ma non come cause uguali bensi come il creatore e la creatura, in modo che l'attività umana è una risposta alla vocazione divina, in modo anzi che la stessa risposta sia sostenuta e causata da Dio medesimo. La cooperazione tra Dio e l'uomo da cui nasce appunto lo stato di giu­ stificazione sarà studiata in questa seconda sezione. Dio non crea lo stato di grazia per il solo fatto ch'egli ne produce i vari elementi, ma anche per il fatto ch'egli stesso adduce la predisposizione umana sia pure in modo da non ledere la libertà dell'uomo. Dio opera l'azione dell'uomo non solo per il fatto che immediatamente afferra e muove le potenze umane, ma anche per il fatto che le rende intrinsecamente capaci, le attrezza perché possano compiere un'azione deiforme. Questo gratuito agire divino, dal quale proviene nell'uomo lo stato di salvezza, noi lo chiamiamo grazia attuale. Include due elementi : come grazia increata è l'immediata azione divina, quindi Dio, l'amore personale, in quanto il Padre nella sua infinita misericordia, mediante Cristo e nello Spirito Santo produce l'azione dell'uomo. Come grazia creata è l'aiuto

P. Il.

214

-

LA GRAZIA

soprannaturale e passeggero prodotto da Dio nell'uomo perché possa fare atti salutari. Certo grazia creata e grazia increata sono sem pre tra loro intimamente unite ; tuttavia nella esposizione presente si considererà in modo particolare

la

grazia attuale creata. Se la grazia di cui parliamo qui

è quella che aiuta ad agire soprannaturalmente, non se ne deve concludere che la grazia santificante, da noi studiata come elemento della giustifica­ zione, e che a sua volta racchiude in sé e una realtà creata e increata, cioè Dio, sia solo una grazia entitativa e non operativa. Ogni essere tende all'azione e ogni azione è pure essere. Ma nella grazia santificante si ac­ centua l'essere, mentre nell'attuale si accentua l'azione. Lo stato di giustificazione sgorga normalmente dal battesimo. Tuttavia non si indaga qui l'origine sacramentale della vita divina. Per il momento si vuole solo studiare come Dio e l'uomo collaborino assieme, come l'amore di Dio afferri l'uomo e come l'uomo accolga tale amore, come agisce Dio e come agisca l'uomo, come sia avviato quel movimento, quel processo che trova la sua manifestazione sensibile nel battesimo. Anche se non par­ liamo per ora del modo con cui il battesimo reca la giustificazione, tuttavia, quanto qui si dice della grazia attuale va visto nel suo rapporto con il battesimo stesso. Va ricordato che il battesimo è il modo normale e ordi­ nario della giustificazione, per cui non si deve parlare della giustificazione quasi che il battesimo ne fosse solo alcunché di secondario ed accidentale. Ciò che Dio e l'uomo compiono nell'incontro del loro amore tende sempre alla giustificazione operata nel battesimo. Prima studieremo la natura e l'importanza della grazia attuale, poi la sua azione nella preparazione dell'uomo alla giustificazione e infine la colla­ borazione tra l'azione di vina e la umana.

CAPITOLO I.

NATURA ED IMPORTANZA DELLA GRAZIA ATTUALE

§ 200. Concetto e dhisione della grazia attuale.

Per grazia attuale creata intendiamo un aiuto transeunte soprannaturale che Dio per suo amore dona liberamente all'uomo perché possa compiere un'azione soprannaturale. Si distingue dalla grazia santificante per il fatto che essa è una mozione passeggera di Dio. Se questo aiuto viene detto soprannaturale, significa che reca in sé il carattere della vita intima di Dio e che tende a introdurre in essa (cfr. § I I 4). La grazia attuale si suddivide nel modo seguente : l . Grazia operante e grazia cooperante. Ecco come meglio si possono comprendere queste denominazioni : la grazia operante è quella per cui Dio agisce in noi senza di noi, cioè senza la nostra collaborazione; la grazia cooperante invece è quella per cui Dio agisce simultaneamente con la volontà umana. Non si intende qui parlare di un prima o di un poi nel tempo, ma solo di un primato della grazia rispetto alla libertà umana. L'agente principale è pure sempre Dio. L'uomo agisce sotto l'azione divina. È Dio che effettua l'agire umano. In quanto Dio prende l'iniziativa di questa azione si parla di grazia « operante », in quanto causa con la sua attività l'azione umana si parla di grazia « cooperante ». Se l'uomo non accoglie l'azione divina allora la grazia rimane solo « operante ». Il ter­ mine « cooperante » non ci deve spingere all'errata concezione che l'uomo sia l'agente principale e che Dio, operante nella grazia, sia l'agente secon­ dario. Secondo l'usuale modo di dire non è il superiore che collabora con l'inferiore, bensi l'inferiore con il superiore (cfr. § I 1 2). Perciò non si dovrebbe affatto parlare di grazia cooperante, ma di grazia con cui l'uomo coopera. Ma il detto modo di esprimersi si rifà a una lunga tradizione. -

P. II.

216

-

LA GRAZIA

Basta quindi usarlo eliminando il fraintendimento a cui la terminologia potrebbe indurre il lettore. Nella Bibbia si allude alla grazia operante e alla cooperante in Fil. 2, 1 3 e i n 1 Cor. 1 5, 10. Affin e alla divisione precedente è quella di : 2. Grazia eccitante e grazia adiuvante. La prima eccita l'uomo al bene, la seconda lo aiuta ad intraprendere e compire la buona azione (cfr. Ef. 5, 14; Apoc. 3, 20; Ebr. 1 3, 6). Espressamente ne parla il Con­ cilio di Trento (Sess. 6, cap. 6 ; Denz. 798). Si veda pure la preghiera : Actiones nostras, quaesumus, Domine. -

3 . La grazia si distingue ancora in preveniente, concomitante, susse­ guente. La prima precede la libera determinazione della volontà e tende a produrla. Di nuovo va sottolineato che questo precedere e prevenire non va inteso in senso temporale, ma solo in senso antologico. L'azione divina primeggia sull'attività umana. È Dio che fa scattare l'azione del­ l'uomo. La grazia poi si chiama concomitante in quanto l'uomo accoglie l'azione divina. Si dice infine susseguente in quanto l'uomo continua ad agire sotto l'influsso di tale azione. Cfr. il Concilio di Trento, sess. 6, cap. 16 (Denz. 809) e anche l'orazione della XVI e XXIV domenica dopo Pentecoste. Con queste denominazioni non intendiamo parlare di altrettante qualità di grazia. I termini « eccitante », « preveniente » indicano la medesima realtà della grazia « adiuvante », « cooperante » e « concomitante ». Si deve anzi dire che la grazia eccitante e quella adiuvante sono una mede­ sima unica realtà, anche se molti teologi pensino che siano realmente di­ stinte. Dio attua con la sua grazia l'azione umana. È solo per il diverso rapporto in cui l'azione dell'uomo si trova nei riguardi della mozione divina, che si parla di grazia eccitante o concomitante. L'azione divina si realizza in modo continuo, come l'atto creativo di Dio. -

4. Una piu diffusa spiegazione esige la distinzione della grazia in sufficiente ed efficacej ma sarà data piu avanti. Basti per ora dire che la prima conferisce la possibilità d'agire, ma non è seguita dall'azione, mentre la seconda opera effettivamente l'azione umana. -

217

§ 201. PRECISAZIONE SULLA NATURA DELLA GRAZIA ATTUALE

§ 201. Precisazione sulla natura della grazia attuale.

l . - La grazia attuale sta in stretto rapporto con il concursus divinus universalis, ma non indica precisamente la medesima cosa (cfr. § I I2). Per « concorso divino universale » s'intende quell'attività divina che attua ogni azione delle creature, in cui la natura creata da Dio si esplica e si dispiega. Quest'attività di Dio non aggiunge alle possibilità date agli esseri nell'atto creativo nessuna potenza nuova. Mette solo in attività le potenze di cui gli esseri sono già arricchiti, dona loro la possibilità di passare dalla potenza all'atto, dal riposo all'attività. Ma mediante la grazia attuale - e questa è la prima rlif!erenza Dio conferisce alle creature un'operare che non è semplice esplicazione delle loro possibilità naturali, ma avente una qualità che non si può assoluta­ mente trarre dalla loro natura, ossia dal loro modo d'essere, d'esistere e d'agire. Questa qualità consiste nel fatto che nell'azione umana si riflette l'azione intima di Dio, ossia la feconda conoscenza e il fecondo amore divino, mentre l'attività operata dalla pura natura riflette solo per cosi dire l'aspetto esteriore di Dio, la sua potenza e giustizia. Ne consegue una seconda differenza. La grazia attuale non è solo, come nel caso del concorso divino universale una realtà increata, ossia lo stesso Dio operante, ma è pure una realtà creata che abilita le potenze umane ad una determinata azione, impossibile a compiersi in virtU. della sola natura. Dio, grazia increata, con la sua luce e il suo fuoco penetra ogni singola azione dell'uomo e gli dona con ciò un determinato impulso. Le virtU. infuse, di cui abbiamo già parlato, costituiscono una disposizione permanente. La grazia attuale creata invece ra9presenta una passeggera illuminazione e infiammazione e una spinta momentanea dell'uomo verso Dio. La grazia attuale aggiunge quindi qualcosa alle potenze umane. Anche se concettualmente il concorso divino universale e la grazia attuale si distinguono tra loro, non sono tuttavia due realtà separate; ma costituiscono, in virtu della semplicità divina, un unico atto con cui Dio realizza le azioni naturali dell'uomo e dona ad esse qualità soprannaturali. Con un medesimo atto Dio realizza l'azione umana per quanto questa possa essere diversamente costituita. Nell'agire umano possiamo distin­ guere le azioni naturali a cui l'individuo viene mosso in virtU. del sem­ plice concorso universale di Dio e le azioni soprannaturali che sono poste in forza della grazia attuale. Secondo la dottrina comune dei teologi nel­ l'uomo concreto vi sono anche di fatto azioni puramente naturali; invece -

P. II.

2!8

-

LA GRAZIA

secondo la sentenza del Ripalda (t 1 6 1 8) e di molti altri teologi soprat­ tutto della scuola agostiniana, tali azioni non sarebbero nemmeno pos­ sibili (cfr. H. de Lubac, Surnaturel, 1946). Perciò, nel campo della libera decisione umana, non vi sarebbe posto per un'azione puramente naturale. I sostenitori di questa sentenza fanno osservare che l'uomo non è stato chiamato ad un fine naturale bensi solo ad uno soprannaturale, per cui tutto ciò ch'egli compie si trova in un rapporto o positivo o negativo con tale fine, per cui, anzi, l'uomo concreto si trova nello stato d'uomo o decaduto o elevato, ma mai in uno stato per cosi dire neutrale. Perciò essi concludono che, mediante il concorso divino universale, Dio causa l'azione umana e anche il suo carattere soprannaturale; attua cioè l'azione umana come un'azione che sta in rapporto con il fine ultimo sopranna­ turale e ne reca quindi l'impronta. Il che include che Dio dona all'uomo per ogni suo atto la grazia soprannaturale, in quanto gli conferisce sia l'agire sia anche la soprannaturalità dell'agire stesso. 2. Mediante la grazia attuale l'uomo viene mosso da Dio a conoscere, volere ed amare. Perciò la grazia si può dire un'illuminazione dell'intel­ letto, un rafforzamento della volontà e un infervoramento del cuore. Si deve ad ogni modo osservare che l'intelletto, la volontà e il cuore (sentimento) non si possono scindere tra loro. Non vi è né un conoscere né un volere né un amare che siano solo tali. Le facoltà umane non agi­ scono mai isolatamente ma insieme. Non vi è quindi una grazia che sia o solo dell'intelletto o solo della volontà o solo del cuore. La grazia muove sempre l'uomo intero verso un atto determinato unico. Vi agisce come illuminazione sostenuta dalla volontà e da sentimento e come rafforza­ mento della volontà sorretta dalla conoscenza e dall'amore, come un infer­ voramento dell'amore colorito dalla conoscenza e dalla volontà. Anche da parte di Dio è facile vedere che la mozione dell'intelletto, della volontà e del sentimento si presenta come un'unica realtà. Dio è simultaneamente luce e calore, conoscenza, volontà e amore. Egli è la verità, l'amore e la potenza, anzi la verità è in lui potenza ed amore, l'amore è verità e potenza, la potenza è verità e amore. Dio può dunque agire solo simultaneamente come luce e calore e potenza. L'attività divina tocca l'uomo sempre e simultaneamente come luce, amore e potenza. L'illuminazione prodotta da Dio afferra possentemente l'uomo e lo spinge verso Dio medesimo. La forza con cui Dio afferra l'uomo non è una forza cieca ed oscura, ma è spirito e luce (cfr. I Cor. I, I 7-25 ; 2, 4 s. ; 4, I9 s. ; Rom. I , I 6 ; 1 5, 13; Ef. 3, 16; 5, 8 s., I 3 ; r Tess. I, 5). La luce con cui Dio -

§ 201.

PRECISAZIONE SULLA NATURA DELLA GRAZIA ATTUALE

2I9

illumina gli uomini è in pari tempo anche un calore con cui li riscalda. Chi si sottrae al fuoco del divino amore, non riceve conseguentemente nemmeno il raggio della sua luce; costui rimane nelle tenebre ( I Gv. 2, 9 ss. ; I, 6). Dipende, purtroppo, dalla limitatezza del nostro spirito se non pos­ siamo comprendere in una sola idea tutta questa realtà complessa, per cui ci è giocoforza esprimerla in tanti concetti. In questo senso possiamo parlare di una grazia riguardante l'intelletto, di un'altra riguardante la volontà e di una terza concernente i sentimenti (cfr. Concilio di Milevi, can. 4 [Denz. I04] ; di Orange [Denz. I48 ss. ; 178 ss.] ; di Trento, Sess. 6, cap. 3 [Denz. 797 ; can. 3 ; Denz. 8 I 3]).

3. - È in questo senso che anche la Scrittura presenta la grazia come un'illuminazione dell'intelletto, un movimento della volontà e un infer­ voramento del cuore. a) Dio, luce senza tenebra alcuna (I Gv. I , 5), ha chiamato gli uomini alla luce (I Piet. 2, 9) mediante Cristo nel quale la luminosità divina è brillata nelle tenebre del mondo (Gv. I, 5· 7· 9; 3, I9; 8, 1 2 ; 2 Cor. 4, 4). La luce è venuta nel mondo per illuminare ogni uomo (Gv. I, 9). Per mezzo di Cristo il Padre insegna agli uomini ciò che riguarda la vita eterna (Gv. 6, 44 ss.). Egli illumina gli occhi del cuore perché possano comprendere la ricchezza della sua grazia (Ef. I, I6-I 8 ; cfr. 2 Cor. 3' 5 ; 4, 4-6; I Gv. 2, 27; Atti I6, I4; 2 6 , I 7 s. ; Ebr. 6, 4). Questa illwnina­ zione è insieme interiore ed esteriore (Ef. 3, 9), benché l'accento poggi sulla interiore. Con la parola della predicazione Dio illumina lo spirito umano. Tale illuminazione viene attribuita allo Spirito Santo, il quale è spirito di verità e ci introduce in ogni verità, ossia nel complesso della realtà divina che ci fu svelata (Gv. I6, I 3 ; I4, 26; I 5, 26 ) . Il che non significa soltanto che lo Spirito illumina il nostro intelletto perché noi si possa comprendere qualcosa che prima non si era capito, ma altresi che per mezzo suo possiamo entrare in una relazione vitale con l'Iddio che ci si svela, accostandosi a lui nell'adorazione e nel ringraziamento. b) La grazia della volontà viene indicata ogni qualvolta si parla di un « potere » che Dio dona e che manca all'uomo carnale, ossia di una mozione, di una potenza che Dio opera in noi (Gv. I , 1 2 ; 6, 44 ; Fil. 2, I 3 ; Rom. 8 , 7 ; 2 Cor. I 3, 8 ; Gal. 3, 2). c) Per l'infervoramento del cuore vedi ad esempio I Gv. 3, 20; Ef. I, I6-I 8. Cfr. H. Urs von Balthasar, Sehen, Horen, Lesen im Raume der Kirche, in Die Schildgenossen, I8, I939, 400-4 I4.

P.

220

II.

-

LA GRAZIA

4. La liturgia testimonia con varie espressioni le operazioni della grazia attuale : illuminazione, conoscenza, illustrazione, pio pensiero, aper­ tura della verità, parola, persuasione, rivelazione, ispirazione, giocondità, dilettazione celeste, brama del bene, santo ardore. Cfr. ad esempio la liturgia natalizia. Per maggiori svilu!Jpi si veda : Ild. Herwegen, Lumen Christi, I924 e J. Pinsk, Das Pascha des Herrn. Quadragesima und Pen­ tecostes, in Liturgisches Leben, I9 34-I938. -

5. La grazia agisce in questi tre modi sia come grazia elevante che come grazia sanante. È elevante quando snerva la forza della concupi­ scenza, ossia in quanto cerca di ricondurre al retto ordine le potenze umane rese disordinate dal peccato e cerca di far superare lo squilibrio della volontà, dell'intelligenza e del sentimento sicché l'uomo possa orien­ tarsi verso Dio. Siccome l'ordine a cui tende l'uomo è soprannaturale ne consegue che la grazia non può agire come sanante senza, in pari tempo, dirigere l'individuo verso tale fine. E poiché il disordine è derivato dal fatto che l'uomo si è allontanato da Dio, ne deriva che il retto ordine potrà esser ristabilito solo quando l'uomo sarà di nuovo ricondotto a quel Dio e a quella vita divina da cui è decaduto. Perciò nell'attuale ordine di prov­ videnza non vi può essere una grazia puramente sanante, che non sia in pari tempo anche levante. Non vi può essere una grazia che abbia a porre l'uomo in un ordine semplicemente naturale. Se cosi fosse, anzi, servi­ rebbe a ben poco, poiché la nostra salvezza si attua solo con la comunione a Cristo glorificato e con la conseguente partecipazione alla vita divina. -

6. Quando poi vogliamo penetrare piu a fondo nell'essenza della grazia attuale ci imbattiamo in interpretazioni assai diverse. a) Il giansenista Quesnel ( 1634-1 719) che accentuò talmente la effi­ cacia di Dio da lasciare ben poco spazio alla causalità umana, pensava che la grazia non fosse altro che la onnipotente volontà divina. Dio agisce con la sua potenza in modo che nessuno possa opporsi o indugiare dinanzi alla sua azione (Denz. I 360 s. ; I 369 ). Questa dottrina fu condannata da Clemente XI l'anno 1 7 1 3. Il giansenista Arnauld sostenne l'pinione che la grazia sarebbe la stessa decisione umana operata da Dio. Anche qui non si dà piu luogo per la libertà umana. Queste interpretazioni, pongano esse la grazia totalmente in Dio o total­ mente nell'uomo, eliminano, a quel che sembra, il carattere soprannatu­ rale dei comportamenti e delle azioni umane, carattere che si mantiene -

§ 201 . PRECISAZIONE SULLA NATURA DELLA GRAZIA ATTUALE

22 1

solo quando le azioni umane non sono compiute esclusivamente dalle potenze naturali, bensi da esse in quanto elevate soprannaturalmente, da potenze cioè divinizzate. La realtà che eleva soprannaturalmente le po­ tenze umane deve operare simultaneamente con esse formandosi cosi un unico principio attivo, in modo che le azioni medesime siano sopranna­ turalizzate. Cosi è lo stesso Dio che afferra l'uomo e opera mediante l'azione di questo. Ma nello stesso tempo gli comunica in modo analogico la sua luminosità e il suo ardore. L'azione di Dio non si svolge meccani­ camente parallela all'azione dell'uomo, ma le due si compenetrano mutua­ mente in modo del tutto intimo e profondo. b) I molinisti, con alcuni altri teologi (cfr. § 84), pensano che la grazia attuale consista in atti vitali indeliberati, sia dell'intelletto che della volontà, prodotti da Dio nella profondità del subcosciente. Questi atti, in quanto preparano le azioni riflesse, sarebbero grazie eccitanti; in quanto producono i buoni pensieri e le buone decisioni, sarebbero grazia adiu­ vante. Suarez aggiunge che la grazia attuale, oltre gli atti vitali indeli­ berati, include pure un particolare aiuto dello Spirito Santo. La concezione molinistica mette in risalto un aspetto che non si potrà mai valutare a sufficienza, ossia l'importanza di tutto il regno dell'in­ conscio per ciò che riguarda l'orientamento e la forza della nostra vita riflessa. In esso si avverano le predecisioni, che determinano continua­ mente le risoluzioni deliberate. Ma il loro valore sarebbe troppo accen­ tuato, qualora gli atti vitali inconsci si facessero coincidere con la grazia. Questi appartengono al regno della natura umana. In tal caso non si capisce come possano addurre l'impronta soprannaturale alle susseguenti azioni riflesse. È dubbioso poi se, per il fatto che Dio medesimo compie immediata­ mente gli atti indeliberati, si possa concludere ch'egli dona loro un'im­ pronta soprannaturale. Perché un atto possa davvero possedere un tale carattere sembra necessario che rechi in se stesso un principio d'azione soprannaturale. Sembra quindi necessario che venga infusa nell'uomo una realtà, la quale, precedendo le potenze umane, loro conferisca un'esistenza soprannaturale. c) I tomisti sostengono perciò che la grazia attuale è ben distinta dagli atti indeliberati. Tali teologi sono costretti a trascurare, nella deter­ minazione della grazia attuale, il campo cosi importante dell'inconscio, in modo che l'eliminazione della problematica molinistica viene pagata a ben caro prezzo. Secondo questi teologi la grazia attuale è perciò una mozione che, procedendo da Dio, viene comunicata all'uomo solo fugge-

P. Il.

222

-

LA GRAZIA

volmente (qualità) e penetra le potenze umane, ill uminandole e raffor­ zandole interiormente, in modo che siano indotte all'azione. Tale grazia è eccitante in quanto dona all'uomo la possibilità interiore di agire, è adiuvante o concomitante in quanto costituisce con le potenze naturali dell'uomo un unico principio operativo. Non si può tuttavia scindere questa « qualità fuggevole » o transeunte sostenuta dai tomisti dall'azione divina. È Dio che opera l'azione soprannaturale dell'uomo. Per questa operazione irradia nelle potenze umane la sua luce e il suo calore. Questo irradiamento dura finché Dio stesso lo sostiene. Perciò grazia creata e grazia increata non si possono scindere tra loro. È però difficile spiegare, secondo tale interpretazione, che cosa mai sia questa « qualità fuggevole ». Si può, forse, paragonarla al mutamento che si avvera nei metalli, quando, messi in contatto con una sorgente elettrica, sono percorsi dalla corrente che poi svanisce con l'interruzione del contatto medesimo. 7.

Vi è un mezzo per stabilire se un'azione provenga dalla profondità dell'io umano oppure da!Pabisso divino? Si può distinguere l'azione della grazia dalla suggestione e dall'autosuggestione? Non ci è possibile asse­ rire, con certezza escludente ogni dubbio, che in determinato caso agisca la grazia attuale, cosi come non si può asserire con assoluta certezza la esistenza della grazia abituale. Si può solo ametterla per fede e raggiun­ gerne una certezza morale. Come vi sono dei segni per arguire lo stato di grazia, cosi ve ne sono altri per l'azione e la presenza della grazia attuale, come la frequente repentinità di un atto diretto a Dio, la sua intensità, la sua fermezza, la forza con cui essa tranquillizza, fortifica e allieta e tra­ sforma i sentimenti. (Cfr. la conversione di S. Paolo, il comportamento degli AIJostoli do!)O Pentecoste). Di solito, tuttavia, essa agisce solo lieve­ mente, si da passare inosservata e impercettibile. La gioia per il bene, sia pur sentita, il pentimento dei peccati, la volontà di servire e aiutare sono le ultime onde del movimento della grazia proveniente da Dio. Cfr. W. Poli, La suggestione, 2 ed., Roma 1960. -

§ 202. Necessità della grazia. Già vedemmo che per l'uomo caduto nella colpa non vi è alcuna possi­ bilità di autoredenzione (§ 140), e che, perciò, solo Dio può ridonargli la salvezza perduta. L'uomo non può redimersi per conto suo, nemmeno

§ 202. NECESSITÀ DELLA GRAZIA

223

in base alla redenzione preparatagli dal Cristo. Non può in virru delle sue forze entrare in comunione con Cristo morto e risorto, ma ha bisogno per questo dell'aiuto di Dio. È di ciò che intendiamo parlare quando asse­ riamo la necessità della grazia. l.

-

LA DOTTRINA DELLA CIITESA.

Per ogni atto salutare è assolutamente necessaria l'azione interiore della grazia divina. È dogma di fede. Il Concilio di Trento (Sess. 6, can. I) dichiara : « Se alcuno dirà che l'uomo possa giustificarsi davanti a Dio per le sue opere fatte o con le forze della natura o per la dottrina della Legge senza la grazia divina per mezzo di Gesu Cristo, sia anatema » . Can. 2 : « Se alcuno dirà che la grazia divina per mezzo di Cristo ci è concessa solo perché l'uomo piii facilmente possa vivere con giustizia e meritare la vita eterna, quasi che possa ottenere le due cose, sia pure con maggior difficoltà, mediante l'eser­ cizio del libero arbitrio senza la grazia, sia anatema ». Can. 3 : « Se alcuno dirà che, senza l'ispirazione preveniente dello Spirito Santo e senza il suo aiuto, l'uomo possa credere, sperare, amare e pentirsi come è neces­ sario perché gli sia conferita la grazia della giustificazione, sia anatema » (Denz. 8 1 1-8 I 3). Nei primi quattro capitoli della medesima Sessione 6 si ammette e si sostiene, in un modo ancora piu forte che non presso i riformatori senza accettare tuttavia la loro concezione unilaterale, il fatto che la giustifica­ zione si attua sola gratia. Ecco quanto si legge nei capp. 2 e 3 : Il Padre celeste, « Padre di misericordia e di ogni consolazione (2 Cor. I , 3), quando arrivò quella beata pienezza dei tempi (Ef. r , ro), mandò agli uomini il suo Figlio, Cristo Gesii, già manifestato e promesso a molti santi Padri prima della Legge e nel tempo della Legge, affinché redimesse i Giudei che erano sotto la legge, e i Gentili che non seguirono la giustizia e la com­ presero (Rom. 9, 30), e tutti ricevessero l'adozione di figlioli (Gal. 4, 5). Lui Dio propose come propiziatore, per la fede e nel suo sangue (Rom. 3, 25), dei peccati nostri, e non solo nostri, ma anche di quelli di tutto il mondo » (I Gv. 2, 2). Tuttavia, benché egli sia morto per tutti (2 Cor. 5, 1 5), non tutti rice­ vono i benefici della sua morte, ma solo quelli a cui viene comunicato il merito della sua passione. Infatti, come gli uomini non nascerebbero ingiusti se non derivassero dal seme di Adamo di cui contraggono, mentre sono concepiti, l'ingiustizia, cosi non sarebbero giustificati se non rina-

224

P. II.

-

LA GRAZIA

scessero in Cristo, perché è in quella rinascita e per merito della sua pas­ sione che viene loro donata la grazia che li rende giusti. L'Apostolo ci raccomanda di rendere continuamente grazie di tale beneficio al Padre che ci ha resi degni d'aver parte alla sorte dei santi nella luce (Col. I , I2) e ci ha tratti dal potere delle tenebre per trasferirei nel regno del suo figlio diletto, in cui abbiamo redenzione e remissione dei peccati (Col. I , 1 3 s.) (Denz. 794-795). Il quinto capitolo descrive con particolare forza la salvezza come una grazia (Denz. 797). Si cfr. pure la dichiarazione del Concilio provinciale di Cartagine tenuto l'anno 4 1 8 (Denz. 103-108). Importante, anche senza essere una decisione del magistero ecclesiastico, è pure l'indice (Indiculus) compilato da Prospero d'Aquitania verso la metà del secolo v, che sinte­ ticamente raccoglie tutte le decisioni della sede apostolica e dei concili africani, come pure le affermazioni della fede esprimentesi nella liturgia, in modo da costituire una classica esposizione della dottrina della grazia (Denz. 129-14 1). Eccone i passi piu salienti : c 2. Nessuno è buono per se stesso, ma solo per partecipazione di colui che è l'unico buono. Il che è affermato dal Papa (Innocenza l) nella sua lettera (al Con­ cilio di Cartagine) : " Quale rettitudine possiamo ancora attenderci da costoro i quali ritengono di non dovere che a se stessi il fatto di essere buoni, i quali misco­ noscono colui da cui ogni giorno ricevono la grazia e presumono potere senza di lui ottenere un si gran bene? ".

3· Nessuno, anche se rinnovato dalla grazia battesimale, può essere capace di superare le insidie del demonio e vincere le concupiscenze carnali, se non ha rice­ vuto, per l'aiuto di Dio, ogni giorno rinnovato, la perseveranza nella vita buona. Il che il medesimo Papa afferma dicendo : " Benché Dio abbia riscattato l'uomo dai suoi peccati sapendo tuttavia che egli poteva ancora peccare, gli ba riservato nuove grazie per rifare le sue forze e guarire le sue ferite; egli ci offre dunque ogni giorno nuovi rimedi, e se noi non fondiamo in essi i nostri sforzi e la nostra fiducia non possiamo in alcun modo trionfare degli errori umani. Vale infatti la inevitabile legge che col soccorso di Dio noi siamo vincitori e che senza di lui noi siamo vinti ".

5· Tutti gli sforzi, tutte le opere e tutti i meriti dei santi si devono riferire alla gloria e alla lode di Dio, poiché nessuno può piacergli se non per ciò che da lui stesso è stato donato ... 6. Dio agisce a tal segno nel cuore degli uomini e nello stesso libero arbitrio che ogni pensiero santo, ogni pio consiglio e ogni movimento di buona volontà pro­ viene da lui, poiché se possiamo fare qualcosa di buono è solo per colui senza del quale non possiamo far nulla (Gv. 15, 5). Tale è l'insegnamento che ci ha dato lo

§

202.

NECESSITÀ DELLA GRAZIA

225

stesso dottor Zosimo, quando, parlando ai vescovi di tutto il mondo dell'assistenza della grazia di Dio, cosi diceva : " Vi è forse un solo istante in cui noi non si abbia bisogno del suo aiuto? Perciò in tutte le azioni, in tutte le opere, in tutti i pensieri e moti dobbiamo invocarlo come aiuto e protettore. È infatti un atto di superbia l'attribuire qualcosa alla nostra umana natura... ".

8. Ma oltre queste decisioni inviolabili della Santa Sede Apostolica, con cui 1 nostri piissimi Padri, rigettata la superbia e perniciosa novità, ci insegnarono a riferire alla grazia di Cristo e l'inizio della buona volontà, e l'aumento degli sforzi lodevoli e la perseveranza sino alla fine, esaminiamo le parole sacre delle preghiere sacerdotali, trasmesse dall'insegnamento apostolico e adoperate uniformemente da ogni Chiesa cattolica, in modo che la norma della preghiera costituisca la norma della fede. Infatti quando i presuli dei popoli cristiani, compiono la funzione di ambasciatori loro affidata (2 Cor. 5, 20), trattano presso la clemenza divina gli interessi del ge.1ere umano, e uniti a tutta la Chiesa che geme con loro, chiedono

e pregano perché sia conferita la fede agli increduli, gli idolatri siano liberati dei loro errori, perché i Giudei, tolto il velo che ne offusca la vista, possano contem­ plare la luce della verità, gli eretici si ravvedano accertando la fede cattolica, gli scismatici ricevano lo spirito della carità rediviva, i peccatori prendano i rimedi della penitenza e infine i catecumeni, ricevuto il sacramento della rigenerazione, vedano dischiusa l'aula della celeste misericordia. Il che si chiede a Dio, non vana­ mente e non inutilmente, come lo dimostrano i risultati. Dio infatti non di rado si degna trarre di ogni genere di errori molti uomini, che strappati dal potere delle tenebre, trasferisce nel regno del Figlio suo diletto (Col. 1, 13), facendone, da vasi d'ira, vasi di misericordia (Rom. 9, 22 s.). E ciò è cosi sentito come dono divino che azioni di grazie e testimonianze di lode sono continuamente rese a Dio che si degna illuminare o correggere queste anime. 9. Da queste regole ecclesiastiche e da questi documenti dell'autorità divina, siamo cosi confermati, con l'aiuto di Dio, che tutti gli affetti buoni, che tutte le buone opere, che tutti gli sforzi e tutte le virtu con cui tendiamo a Dio, sin dal­ l'inizio della fede, devono a lui riferirsi come aurore. E non dobbiamo quindi dubi­ tare che tutti i meriti dell'uomo sono prevenuti dalla grazia di colui al quale dob­ biamo e di iniziare a volere e di fare il bene (Fil. 2, 13). Con tale aiuto e beneficio di Dio non ci è ceno tolto il libero arbitrio, che anzi, viene cosi liberato sicché da tenebroso diventa illuminato, da cattivo retto, da languido vigoroso, da imprudente accorto. Tanta è infatti la misericordia di Dio verso gli uomini da volere che i suoi doni siano nostri meriti e da ricompensarci nell'eternità per quelle cose che egli stesso ci ha donato. Egli agisce in noi perché vogliamo e facciamo ciò che lui vuole, né permette che abbiano a rimanere oziosi quei doni che ci ha elargito per essere fatti valere e non trascurati; e in tal modo vuole che siamo cooperatori della sua grazia. E se vediamo che qualcosa languisce in noi per il nostro rilassa­ mento, ricorriamo sollecitamente a colui che guarisce tutti i nostri mali e riscatta dalla morte la nostra vita (Sal. 107, 3-4), a colui al quale diciamo ogni giorno : non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male (Mt. 6, 13). Noi perciò non riteniamo affatto per cattolica una dottrina che contrasti con quanto fu sopra asserito » (Denz. 1 3 1-141).

226

P. Il.

-

LA GRAZIA

La polemica semipelagiana si protrasse sino al sesto secolo (cfr. G. de Plinval, in Fliche Martin, Storia della Chiesa, 307 ss.). Si concluse nel Concilio provinciale di Grange (anno 529) sotto il vescovo Cesario di Arles. Il sinodo fu approvato da papa Bonifacio II l'anno 531. Ecco come suonano alcuni articoli redatti nello spirito di S. Agostino e talora con le medesime sue parole. « 3· Se uno dice che la grazia divina possa essere conceduta mediante l'invoca­ zione umana, anziché affermare che è la stessa grazia di Dio a rendere possibile la nostra invocazione, contraddice al profeta Isaia o all'apostolo asserenti : Mi hanno trovato coloro che non domandavano di me (Rom. IO, 20; Is. 65, I).

4· Se alcuno pretende che Dio, per purificarci dal peccato, attenda la nostra volontà e non confessa che, per poter volere la purificazione della colpa, abbiamo bisogno dell'infusione e dell'azione dello Spirito Santo, si oppone al medesimo Spirito che per bocca di Salomone cosi afferzr.a : La volontà è prepan�ta dal Si­ gnore (Prov. 8, 35 : LXX), e anche all'apostolo che afferma in modo salutare : È Dio che opera in noi e il volere e il compiere secondo il suo beneplacito (Fil. 2, 13).

5· Se alcuno afferma che tanto l'aumento quanto l'inizio della fede e Io stesso affetto di credulità (ipsumque C1'edulitcllis affectum) col quale noi crediamo a colui che giustifica l'empio e perveniamo alla rigenerazione del santo battesimo, sono in noi effetto della natura, non dono della grazia, ossia di un'ispirazione dello Spirito Santo che corregge la nostra volontà conducendola dalla infedeltà alla fede, dalla empietà alla pietà, costui contraddice agli insegnamenti apostolici, perché S . Paolo ha detto : Confidiamo che colui il quale iniziò in noi l'opera buona, la condw-rà a compimento fino al giorno di Cristo Gesti (Fil. I, 6). E ancora : A voi è stato dato come una grazia non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui (Fil. I, 29). Inoltre : È per grazia che siete stati salvati mediante la fede, e ciò non viene da voi; è dono di Dio (Ef. 2, 8). 6. Se alcuno dice che, quando noi senza la grazia di Dio vogliamo, desideriamo, crediamo, ci sforziamo, ci affatichiamo, preghiamo, vigiliamo, chiediamo, doman­ diamo, battiamo, ci venga concessa la divina misericordia anziché asserire che per credere, volere e fare tutto il resto come si deve, ci occorre l'infusione e la mozione dello Spirito Santo; se subordina l'aiuto della grazia all'umiltà e all'obbedienza dell'uomo, anziché affermare che lo stesso fatto d'obbedire e di essere umili è dono della grazia, si oppone all'apostolo asserente : Che hai che tu non abbia rice­ vuto? (I Cor. 4, 7) e ancora : Per grazia di Dio sono quel che sono (1 Cor. 15, 10). 9· È dono di Dio che noi si possa pensare alcunché di retto e che i nostri piedi possano scostarsi dalla falsità e dall'ingiustizia; infatti ogni qualvolta compiamo alcunché di bene è Dio che agisce in noi e con noi perché possiamo compierlo. I5. Adamo si è mutato da come Dio l'aveva formato, ma in peggio per la sua iniquità. Il fedele si muta da come l'ha fatto l'iniquità, ma in meglio per la grazia di Dio. Quella mutazione è opera del primo peccatore, questa invece, come dice il Salrnista è opera della destra dell'Eccelso (Sal. 76, n).

§

202.

NECESSITÀ DELLA

GRAZIA

227

17. La fortezza dei pagani è opera della cupidigia terrestre; la fortezza dei cri­ stiani è opera della carità di Dio, diffusa nei nostri cuori, non per il libero arbitrio che è nostro, bensi per lo Spirito Santo che ci viene donato (Rom. 5, 5). 25. È di certo un dono divino quello di poter amare Dio. Lui che amò senza essere amato ci conferisce infatù la possibilità di amarlo. Fummo amati mentre gli spiacevamo e questo perché si creasse in noi qualcosa che gli fosse gradito. Lo Spirito infatti ha diffuso la carità nei nostri cuori (Rom. 5, 5), quello Spirito del Padre e del Figlio che noi amiamo insieme al Padre e al Figlio. Perciò conformemente alle Scritture sopra riferite e le antiche definizioni patri­ stiche, con l'aiuto divino, dobbiamo predicare e credere che per il peccato del primo uomo il libero arbitrio fu cosi attenuato e inclinato (al male) da non poter amare Dio cosi come si deve, o credere in lui, od operare per lui alcunché di buono, senza che non abbia a prevenirci la grazia della divina misericordia ... Questa grazia, anche dopo la venuta di Cristo, non è nel libero arbitrio di coloro che desiderano essere battezzati, ma viene conferita, cosi come noi sappiamo e crediamo, dalla liberalità divina, secondo ciò che spesso Paolo afferma e predica : Vi è stata data la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di patire per lui (Fil. 1, 29). Secondo la fede cattolica, crediamo pure che, dopo aver ricevuto la grazia per mezzo del battesimo, tutti i cristiani, con la cooperazione e l'aiuto di Cristo, pos­ sono e devono, purché siano fedeli, lavorare per la salvezza dell'anima. Non cre­ diamo tuttavia che vi siano alcuni predestinati al male, anzi anatemizziamo con ogni nostra forza coloro che osassero credere ad una cosa si detestabile. Ma pro­ fessiamo e con gran profitto crediamo che non siamo noi ad iniziare un'opera buona poi perfezionata con la misericordia di Dio, ma che lui medesimo, senza alcun nostro precedente merito, ci ispira sia la fede che l'amore di sé medesimo, in modo che si possa ricevere con fedeltà il sacramento del battesimo e dopo il battesimo si possa adempiere ciò che gli è gradito. Si deve quindi credere sicuramente che la fede mirabile del buon !adrone che il Signore chiamò al paradiso (Le. 23, 43), e del centurione Cornelio a cui fu inviato un angelo (Atti ro, 3), e di Zaccheo che meritò di accogliere in casa sua lo stesso C'isto, non era frutto della natura ma dono della liberalità divina » (Denz. 176-179· 188. 199 s.).

Secondo queste decisioni la grazia non solo è necessaria perché si possa fare un atto salutare con maggiore facilità, ma anche perché nessuno sforzo, nessuna preghiera, nessun sacrificio è in grado di ottenere la salvezza, se Dio non ce la dona. L'uomo senza la grazia può fare qualcosa di buono, ma non la può compiere in modo che abbia un intimo rapporto con la vita gloriosa di Cristo. Il.

-

CONCETTO

DI

ATTO SALUTARE.

Il senso di queste decisioni ci diverrà ancora piu chiaro qualora si pensi . a ciò che è un atto salvifico. È un atto interiormente ordinato alla salvezza, e che perciò deve presentare la medesima qualità della salvezza stessa. Ora la salvezza consiste nella nostra comunione con Cristo e per mezzo suo

P. II.

228

-

LA GRAZIA

con l'Iddio tripersonale, con il Padre celeste. Nel suo piu alto sviluppo è la visione, permeata d'amore, del volto divino. Già la stessa comunione di vita con un altro uomo è possibile solo quando egli si apre e si mani­ festa a noi. Senza tale comunicazione nessuno può penetrare nell'essere personale di un altro individuo. Ora Dio non è soltanto un essere personale sussistente in se stesso come l'uomo; ma è del tutto diverso. Perciò la partecipazione alla sua vita richiede non solo che egli si apra e si mani­ festi, ma anche che ci doni in pari tempo il potere (Gv.

I, 12) di svolgere

con lui la medesima vita, che quindi ci dia nuove facoltà di vedere e di amare. Senza queste nuove forze ci è molto piu impossibile partecipare alla sua vita di quanto sia possibile agli animali partecipare alla vita del­ l'uomo,

ai suoi sentimenti, alle sue speranze e ai suoi timori. L'uomo da

solo, è totalmente impotente a penetrare nella vita divina tripersonale, poiché Dio, nonostante la somiglianza tra lui, Creatore, e le creature, ha un altro essere, un altro modo di pensare, di vivere, di volere, poiché egli trascende in una maniera assoluta ogni creatura. Siccome il cielo, perfetta partecipazione alla svelata gloria e maestà della vita divina, non è altro che il compimento della vita già iniziata nel mondo, ne deriva che questa vita dev'essere della medesima qualità di quella perfetra in cielo. Anche le sue azioni devono essere soprannaturali, se da esse deve svilupparsi la sal­ vezza perfetta come dalla radice l'albero. Riflessioni, queste, che nel loro nucleo fondamentale già si rinvengono in S. Tommaso d'Aquino. Varrebbero anche qualora la natura umana non fosse stata deturpata dal peccato, poiché poggiano sul carattere creaturale dell'uomo. Ma, la natura umana è stata deformata e indebolita a motivo della colpa originaria che l'ha gettata nel disordine : la volontà piu non tende a Dio, bensi al mondo ; l'intelletto si è ottenebrato talmente che non conosce piu Dio se non con grandi sforzi e tanti errori. A motivo del peccato l'uomo è in stato di inimicizia con Dio. Solo quando Dio offeso, nella sua libera iniziativa si rivolge di nuovo alle crea­ ture può risorgere l'amicizia distrutta. Ma l'uomo immerso nella colpa non è piu capace per suo conto di questa amicizia, poiché in conseguenza del peccato egli si è perduto nel mondo, si è dato in balia all'egoismo e all'or­ goglio, è divenuto schiavo di Satana e della morte ; è talmente soggiogato dal peccato che non è piu capace di un amore disinteressato. Non è piu quindi in grado di elevare lo sguardo all'intimo mistero di Dio. Dio stesso, quindi, deve liberarlo dal suo legame col mondo, deve ristabilire la possi­ bilità di amare ciò che il peccato distrusse, e ridonare la capacità di inten­ dere i misteri divini.

§ 202. NECESSITÀ DELLA GRAZIA

229

La ragione fondata sul carattere creaturale dell'uomo per provare la necessità della grazia è metafisica, quella fondata sul suo stato di peccatore è storico-religiosa. È meglio riunire insieme le due ragioni, sicché si completino e si raf­ forzino a vicenda. Infatti quella storico-religiosa ha il suo fondamento nel fatto che l'uomo non ha riconosciuto di essere creatura e non ha agito in conseguenza cosicché la storia è stata turbata. Nella storia da lui tur­ bata deve diventare partecipe della salvezza, non col suo proprio sforzo, ma per iniziativa di Dio. E proprio in quanto Dio forma la storia, nasce la storia sacra, che è quella che Dio, nella sua propria iniziativa fa nel­ l'uomo e con l'uomo per ristabilire il giusto ordine dell'uomo medesimo con sé. Tale intervento di Dio raggiunge il suo punto piu alto in Cristo. Ciò che dopo avviene non è piu storia sacra nel senso proprio delia paroia, ma sviluppo di essa. Il tempo dopo Cristo è salutare solo perché viene deter­ minato e improntato dalla vita e dall'opera di lui. L'opera di Cristo, nel tempo a lui posteriore, viene resa presente, di modo che questo tempo diventa salutifero, anche se non vi è piu storia sacra in senso stretto. L'uomo, che è per natura sua storico e realizza la sua vita solo entro la storia, ha bisogno della virtu dell'opera salvifica di Cristo, non solo per il buon esito della sua vita politica, economica e culturale, ma per parte­ cipare alla salvezza, per raggiungere il suo giusto rapporto con Dio. Egli quindi ha bisogno che nella storia vi sia la storia sacra per conseguire la grazia. La virru dell'opera salvifìca di Cristo gli è conferita da Dio nella fede e nei sacramenti. Quando il Concilio di Trento dichiara che la libertà umana non è total­ mente estinta, non intende dire che l'uomo possa fare qualcosa in riguardo alla propria salvezza, anche se la parte massima spetti a Dio, bensì che entro il disordine in cui egli vive può ancora decidersi liberamente nella sfera delle cose terrestri. Ma tutto ciò non ha alcun valore positivo nei riguardi della vita eterna. L'affermazione conciliare riguarda la natura dell'uomo, ma non le sue possibilità salvifiche. Vuoi solo dire che anche un peccatore rimane pure sempre uomo. È un'affermazione del valore della natura umana. Il che ha una grande importanza, per l'azione salvifica. Infatti quando la grazia afferra la volontà umana caratterizzata nella sua intima struttura dalla libertà anche dopo il peccato, l'uomo ha la possi­ bilità di compiere un atto soprannaturale dietro l'impulso dell'attività stessa di Dio.

230

P. II. - LA GRAZIA

III. - TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA.

Tanto gli evangeli che le lettere apostoliche inculcano la necessità della grazia. a) Cristo esige una giustizia assai superiore a quella degli scribi e dei farisei (Mt. 5, 20), che non è possibile all'uomo tendente alla vana­ gloria e al denaro. Per la sua realizzazione occorre l'onnipotenza di Dio, il Santo sempre disposto ad imprimere la sua propria santità nell'azione umana (Mt. 19, 23-26 ; Mc. ro, 23-27). L'uomo non ha per conto suo la forza di creare tale santità, di stabilire il regno di Dio, che è regno d'amore. Può solo invocare Dio che lo istauri lui stesso (Mt. 7, 7-r r). Il Padre lo attua nello Spirito Santo e mediante Cristo. Solo chi è rinato d'acqua e di Spirito può entrare in questo regno (Gv. 3, 5). Solo chi è reso atto da parte dello stesso Dio può entrare in comunione con lui vivente in tre persone (Gv. r , 12). Solo coloro che Cristo chiama a sé possono godere della sua amicizia. Nessuno può scegliersi Cristo come amico. È Cristo stesso che nel suo libero e sovrano amore cerca i suoi amici. È lui e non l'uomo che chiama (Gv. 1 5, 1 6), è lui che conduce gli altri al Padre sicché, senza di lui, nessuno vi può avere accesso (Gv. 1 5 , 1-5). E di rimando solo chi è tratto dal Padre, può giungere a Cristo (Gv. 6, 44). Solo chi è interior­ mente illuminato può comprendere ciò che Cristo dice (Gv. 6, 45 ss.). Perciò anche i discepoli non devono meravigliarsi se gli uditori di Cristo non comprendono quand'egli afferma d'essere il pane di vita (Gv. 6, 43). b) L'incapacità per gli uomini di pervenire dal regno delle tenebre al regno della luce, viene descritta con forti accenti dall'apostolo Paolo, spe­ cialmente nelle lettere ai Galati e ai Romani. Tutti a motivo del peccato sottostanno all'ira di Dio. Tutti vengono giustificati dalla grazia senza alcun loro merito. Niuno può vantarsi per la sua salvezza delle proprie opere. Solo se ne deve ringraziare la misericordia divina (Rom. 3, 22-28). Con parole che valgono per tutti, Maria ha posto in risalto nel suo Magnificat la legge della salvezza (Le. 1, 45-55) : « L'anima mia glorifica il Signore, e il mio spirito esulta di gioia in Dio mio Salvatore, poiché ha riguardato all'umiltà della sua ancella. Ecco infatti, che da questo mo­ mento tutte le generazioni mi chiameranno beata, perché grandi cose mi ha fatto l'Onnipotente. Santo è il suo nome, e la sua misericordia di gene­ razione in generazione si estende sopra coloro che lo temono. Ha messo in opera la forza del suo braccio; ha sventato i superbi coi disegni da loro concepiti, ha rovesciato i principi dal trono, e innalzato gli umili; ha ricol-

§ 202. NECESSITÀ DELLA GRAZIA mato di beni gli affamati, e rimandati i ricchi a mani vuote. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, da lui già predetta ai padri nostri verso Abramo e la sua discendenza, per sempre ». Tutto si riconduce quindi alla misericordia divina e non al proprio volere o al proprio correre (Rom. 9, I6). La vita eterna è grazia di Dio, non frutto della propria azione (Rom. 6, 23). L'uomo decaduto nel peccato è schiavo della colpa (Rom. 6, I 7). Non si può risollevare al di sopra di ciò che è terreno. Guarda a ciò che sta sulla terra e non a ciò che è proprio dello Spirito : « Infatti quei che sono secondo la carne hanno in mente le cose della carne, quelli invece che sono secondo lo Spirito, quelle dello Spirito : l'aspirazione, infatti, della carne è morte, l'aspirazione dello Spirito invece è vita e pace. Poiché l'aspirazione della carne è un'inimicizia con Dio non sottoponendosi alla legge di Dio, giacché non lo può. E quei che sono nella carne non possono piacere a Dio }) (Rom. 8, s-8). Dall'agire carnale non si miete altro che corruzione. Chiunque vuole raccogliere la vita eterna deve seminare nello spirito. È solo lo Spirito che può donare tale vita (Gal. 6, 7 s.). È Dio, perciò, che nel singolo uomo inizia l'opera sal­ vifica (Fil. I, 6). Solo lui può fare crescere il seme divino ( 1 Cor. 3, 6). Inutilmente s'affatica l'uomo che vuole edificare la casa che Dio non edifica (I Cor. 3, g). Senza la sua luce e il suo amore non è possibile cono­ scere l'opera di Cristo. Solo chi è illuminato dallo Spirito Santo può rico­ noscere ch'egli è stato inviato da Dio. Agli altri il suo messaggio, pure rac­ chiudendo la sapienza e la potenza divina, sembra null'altro che stoltezza e debolezza (I Cor. 2, IO-I6; cfr. i capp. 1-3). Solo nello Spirito Santo l'uomo può invocare il Signore, ossia, entrare in rapporto vivente con Cristo ( I Cor. 12, 3). L'azione salutare, che sia cioè fruttuosa per la vita eterna, si può compiere solo nello Spirito Santo (Ef. 3, 9 s.).

IV.

-

DOTTRINA DEI PADRI.

L'epoca patristica non fa che meglio sviluppare questi dati biblici. Dap­ prima i Padri hanno semplicemente ripetuto ciò che la Bibbia asseriva circa la necessità della grazia. Al tempo degli apologisti si dovette repri­ mere l'errore gnostico, secondo cui il peccato è emanazione di una potenza oscura, e perciò si pose in risalto la libertà del volere umano. Non si ebbe quindi troppa occasione di parlare della grazia. La necessità della grazia fu invece sostenuta tanto dai padri greci che dai latini, anzi piu dai latini che dai greci, durante il periodo pelagiano. Nella lotta contro gli ariani lo

232

P. II.

-

LA GRAZIA

Spirito Santo fu specialmente indicato come il principio della nostra san­ tità; se ne mostra anzi la divinità proprio per il fatto che esso è colui che ci rende santi. Bastino pochi passi. Origene cosi scrive (Contra Celsum, l. 7, n. 33) :

«

Solo il

cuore puro può conoscere Dio... Ma il nostro proposito e la nostra volontà non bastano a farci possedere un cuore puro; per questo ci occorre un aiuto di D io, che solo ce lo può rendere tale «

».

E nel commento alla lettera ai Romani (9, 3) dice :

Quanto alla sapienza è scritto : Fosse pur uno il piu perfetto degli uomini, senza

la sapienza da te mandata non vale nulla (Sa p. 9, 6). Similmente possiamo dire :

fosse pur uno il piu perfetto degli uomini nella fede (wnana), senza la fede che è frutto della tua grazia non vale nulla. . . E cosi in ogni altra cosa ... Vi è una certa

perfezione tra i figli dell'uomo, che si può acquistare per proprio studio e fatica, sia nella saggezza che nella istruzione o in ogni altra qualità. Ma essi, senza la grazia data da Dio a nulla valgono, poiché dove manca la grazia dello Spirito, non è possibile essere membri del corpo

di Cristo

».

La dottrina di Origene rimase la credenza dei padri greci anteriori al pelagia­ nesimo. Citiamo solo un esempio. Gregorio di Nissa cosi scrive (De oratione do­

minica, Or. 4, 2) :

«

Perché noi preghiamo Dio di donarci la volontà per il bene?

Perché la natura umana è tanto fiacca nei suoi riguardi essendosi le sue forze inde­ bolite per il peccato. Infatti l'uomo dopo essere caduto nel male non torna a Dio e al bene con la stessa facilità con cui tende verso il male. Cosi del resto avviene pure nel nostro corpo; infatti un ammalato stenta a ricuperare quella salute che un sano può perdere con facilità ... Per questo preghiamo Dio :

Siccome la tua

volontà, o S ignore, è la rettitudine stessa mentre io sono carnale e venduto alla signoria del male, possa

la

mia volontà per la tua forza essere ristabilita e

com­

piere cosi la giustizia e la pietà, allontanandosi dal male. Poiché il concetto di volontà racchiude germinalmente ogni virtu e la volontà di Dio include ogni bene che noi non riusciamo nemmeno ad immaginare » .

Agostino, l a cui dottrina fu accolta nella decisione del Concilio d i Orange, so­ stenne nel modo piu assoluto la necessità della grazia contro l'eresia pelagiana. Cosi egli dice nella «

sua

spiegazione di Giovanni 6, 43 (In Ioan., tract. 26, 2-5) :

Non brontolate tra di voi : nessuno può venire a me, se il Padre mio, che mi ha

inviato, non lo tragga. Ecco un magnifico elogio alla grazia! Ness llllo, se non colui che è attratto. Perché egli attragga e non attragga, perché tragga l'uno e non l'altro, non devi tu giudicare per tema di non cadere nell'errore. Solo tieni bene in mente : Non sei ancora stato tratto? Prega di essere tratto. Che diciamo noi con ciò? Se siamo tratti a Cristo, allora crediamo noi contro nostro volere? Alla Chiesa uno può andare contro volontà, può ricevere il sacramento contro volontà, può ascendere l'altare contro volontà, ma credere lo si può solo quando si vuole ... Se uno è tratto da Dio sembra che lo sia contro la sua volontà. Dal momento che si dice : N es suno può venire a me se non lo tragga il Padre, come si può dire che si crede liberamente? Tu devi essere tratto... ma non pensare di essere tratto contro tua volontà : è l'amore che attrae i cuori ... Danuni un uomo che ami Dio, ed egli sperimenterà la verità di quanto dico; dammi un uomo ... impegnato nel deserto di questa vita e divorato dalla sete della giustizia, anelante alla fonte della

§ 202. NECESSITÀ DELLA GRAZIA

233

vita eterna, ed egli mi comprenderà. Ma se io parlo ad un uomo ghiacciato dal freddo dell'indifferenza, costui non intenderà le mie parole 11. Nell'opera De vocatione gentium, apparsa verso il 450 verosimilmente per mano di Prospero d'Aquitania, si legge (1, 7) : c Anche se possa darsi che uno, sforzan­ dosi con la sua mente possa combattere i suoi vizi, egli ha solo adornata sterilmente questa temporanea vita terrena, ma non ha fatto alcun passo verso la vera vinu e la beatirudine eterna. Infatti senza l'adorazione del vero Dio, anche ciò che appare virtu è peccato, e senza Dio niuno può piacere a Dio 11 .

V.

-

ERRORI DEL NATURALISMO E DEL RAZIONALISMO.

Contro le predette decisioni della Chiesa stanno tutti i sistemi natura­ listici, specialmente quelli che negano il rapporto di creatura a creatore, come ad esempio lo gnosticismo, il manicheismo, il pelagianesimo, la sote­ riologia delle religioni misteriche, il razionalismo con tutte le sue varietà, il modernismo. Cfr. P. Hazard, La crisi della coscienza europea, trad. ital. di P. Sereni, 1946 ; Idem, La pensée européenne au XVII'm• siècle, 1946. Secondo gli Gnostici la redenzione e la santificazione è un processo cosmico naturale e non etico. Il destino dei singoli uomini dipende neces­ sariamente dalla misura di luce (germe divino) da essi posseduta. Ogni sforzo morale e personale non può liberarsi dalla ineluttabilità di questo processo naturale e apersonale. La piena santificazione è riservata solo ai pneumatici (uomini spirituali); gli ilici (uomini materiali) non possono in alcun modo salvarsi, mentre gli psichici (uomini animali, da anima) in cui luce e tenebre si equilibrano possono raggiungere solo una salvezza intermedia. Cfr. H. Urs von Balthasar, lreniius, Geduld des Reifens. Die christliche Antwort auf den Mythus des zweiten 1ahrhunderts, 1949. Il Pelagianesimo nacque nel secolo v dal monaco inglese Pelagio, che contro la secolarizzazione della Chiesa, introdottasi già dal tempo di Costantino, divenne a Roma l'assertore della serietà cristiana. Celestio e Giuliano di Eclano ne diffusero la dottrina. Essa non è altro che un otti­ mismo morale illimitato, un'esagerazione della fiducia nelle capacità del­ l'umana natura. Le idee di Pelagio si possono sintetizzare nel modo seguente. Lo stato di Adamo peccatore non si diversifica essenzialmente dallo stato prece­ dente al peccato. Il primo uomo ha nociuto al genere umano solo con il suo cattivo esempio, ma non con la trasmissione di una colpa. Non vi è quindi alcun peccato originale. Similmente Cristo ha aiutato l'umanità solo con il suo esempio buono. Le forze morali dell'uomo perdurano anche dopo la colpa primordiale, senza alcun indebolimento. L'uomo in possesso di

234

P. II.

-

LA GRAZIA

un equilibrio tra il bene e il male, può in forza della sua libertà incorrotta, determinarsi a fuggire la colpa e dopo il peccato a tornare a Dio. Può anzi guadagnarsi la vita eterna con le sue sole forze. Il battesimo dei bambini è necessario solo per entrare nel regno dei cieli, ma non per rag­ giungere la vita eterna. Pelagio riconobbe la grazia divina; ma la intese o come una grazia esteriore (esempio di Cristo) oppure come la libera volontà dell'uomo. Parecchie decisioni della Chiesa si opposero al pelagia­ nesimo (cfr. sopra, n. 1). Siccome esso negava il soprannaturale o lo rite­ neva qualcosa di superfluo, finiva col colpire al cuore la stessa sopranna­ turalità della rivelazione. Respingendo il pelagianesirno la Chiesa confes­ sava Cristo e la sua opera nonché il suo proprio essere soprannaturale. Il Razionalismo deve negare la grazia poiché elimina dal mondo e dalla condotta della vita come irreale tutto ciò che non può essere conosciuto dalla pura ragione e non può essere espresso in concetti razionali accessibili. Ma effettivamente già alcune manifestazioni naturali della vita umana specialmente l'arte e la poesia si trovano al di sotto della soglia della conoscenza direttamente accessibile alla pura razionalità umana. Ora i principi della vita soprannaturale sono ancora piu profondi e perciò ancora piu irraggiungibili dai concetti puramente razionali. Essi provengono dalla profondità stessa di Dio. Di qui si può capire che quando si descrive la vita cristiana si parli spesso di notte e di morte, come presso Clemente di Alessandria, lo Pseudo-Dionigi Areopa­ gita e i mistici. Con tali termini si vuole indicare la causa prima misteriosa oscura e inafferrabile della vita di fede. Il termine

«

morte " significa che la vera vita di

grazia non nasce nell'uomo dalle sue intime forze vitali, ma viene infusa da una forza che è di fuori dì lui. Esprime inoltre la consapevolezza dell'intimo intreccio della morte della vita. La dottrina cristiana della grazia come il piu profondo principio vitale di ogni religiosità redime l'irrazionalismo estracristiano quale si trova ad esempio nei mi­ steri orfici e nell'estasi dionisiaca.

Come il razionalismo cosi anche il Modernismo sviluppatosi dalla corrente liberale del protestantesimo, specie da Schleiermacher, respinge la grazia nel vero senso della parola (cfr. Denz. 2072, 2077, 2079, 2089, 2094). La piu profonda opposizione tra la dottrina cattolica della necessità della grazia e la soteriologia non cristiana e del passato e del presente consiste nel fatto che, per la prima, la salvezza viene dall'alto e libera l'uomo dal circolo chiuso della natura, mentre, per la seconda, deve venire dal basso, dall'uomo stesso e quindi non libera da quel circolo. Per queste

§

202.

NECESSITÀ DELLA GRAZIA

23 5

dottrine soteriologiche si raggiunge la salvezza immergendosi nella vita universale della natura, col suo nascere, svilupparsi e perire con la consa­ pevolezza che la propria vita

è solo una fase della vita naturale universale.

Tali dottrine importano quindi una negazione della inalienabile dignità della persona. La loro religiosità piu profonda consiste proprio nel fatto che la persona con la sua esigenza ad una intangibile unicità e dignità viene annullata, e viene sentita come un'onda nella corrente, come un albero nella foresta. Al contrario la soteriologia cristiana significa perma­ nenza e promozione della dignità personale (cfr. § 105). Sarebbe certo un grande equivoco pensare che la grazia miri anzitutto allo sviluppo della persona, dato che la sua prima ragione d'essere

è quella di introdurre

l'uomo nel regno di Dio, perché possa servire il Signore ed essere in grado di lodarlo degnamente e, facendo ciò, partecipare alla vita divina. Nella partecipazione a tale vita l'uomo perviene alla sua vera personalità. L'unione con Dio, alla quale la grazia introduce, significa nello stesso tempo la piu alta perfezione dell'uomo. La grazia quindi cerca di formare il figlio di Dio, non una personalità chiusa in sé. Ma il figlio di Dio è in pari tempo il piu alto sviluppo della persona umana.

VI.

-

NESSUNA NEGAZIONE DELLA

UBERTÀ.

Non si deve affatto temere che la dottrina sulla necessità della grazia abbia a condurci ad un comportamento solo passivo e significhi perciò la rovina dell'etica dell'azione e della volontà. Tale timore può essere giu­ stificato, pure avendo un nucleo di vero, solo nell'odierna teologia dialet­ tica della grazia che considera l'uomo come del tutto rovinato dopo la colpa originaria, come legato intimamente al peccato e necessariamente sempre peccatore; ma non ha nulla a che vedere con l'insegnamento cattolico. Non

è affatto una sminuzione dell'uomo ch'egli sia da Dio destinato

ad un fine particolare che può raggiungere, non con le sue proprie forze, bensi solo con l'aiuto della grazia divina. Dal momento che Dio

è il crea­

tore e Signore ha diritto e il potere di stabilire l'ordine che gli uomini devono osservare. Non sta nel beneplacito dell'uomo il determinare dove e per dove egli debba andare. Inoltre la determinazione del fine umano non

è frutto del capriccio, ma dell'amore piu profondo e piu vivo di

Dio, che vuoi condurre l'uomo il piu vicino possibile a sé medesimo, e vuole farlo partecipe della sua ricchezza e della sua gloria. Perciò la

P.

Il.

-

LA GRAZIA

grazia che Dio dona all'uomo è come i donativi tra gli uomlD.l, segno e pegno d'amore. Accogliere un simbolo d'amore non è affatto una sminu­ zione per colui che lo riceve, ma un arricchimento suo e una gioia; e in pari tempo tale accettazione è pure essa un dono dell'amato per colui che ama. La realtà indicata con il termine « amore » non è affatto una debolezza. Infatti l'amore di Dio non adduce in prima linea carezze e tenerezze, bensi grandezza, gloria ed onore, poiché partecipare ad esso significa avere parte alla grandezza e all'onore di Dio. La dottrina cattolica della grazia non significa punto negazione della libertà umana, ma anzi ne garantisce lo svolgimento. La nostra libertà essendo creata, ha i suoi limiti. La creatura proprio perché tale, non può godere di un'attività assoluta e indipendente. Anzi, come il suo essere è continuamente vincolato al creatore, cosi anche la sua attività djpende pure di continuo dall'agire divino. Eppure ciò non toglie che quando Dio eccita e spinge la creatura ad agire vi sia spazio sufficiente per la attività piu intensa e piu viva. La creatura è appunto indotta dalla grazia alla piu alta attività. La cosa può forse chiarirsi con quanto si verifica tra chi parla e chi ascolta. Quanto piu l'uditore subisce l'influenza del­ l'oratore, tanto piu sembra passivo mentre invece è quanto mai attivo perché deve far proprio quanto riceve. Un massimo di passività include quindi un massimo di attività. Un ascoltatore che, dormendo si sottragga all'influsso dell'oratore, non è piu passivo, ma in pari tempo non è neanche piu attivo. Quanto piu Dio agisce nell'uomo, tanto piu questi accoglie l'attività divina e in tal modo viene sempre piu messa in movimento la sua attività. La coscienza del peccato inclusa nella fede sulla necessità della grazia, non si può eliminare dall'uomo, come lo palesa sia l'esperienza umana che la storia delle religioni. Consiste nel fatto che l'uomo si sente in con­ trasto con l'Iddio samo e ciò per sua responsabilità. Nel credente poi vi si ricollega la consapevolezza che la separazione da Dio prodotta dal pec­ cato può essere eliminata solo da lui e non da noi stessi. Questa coscienza è però accompagnata dalla certezza che Dio con un atto creativo vuole ristabilire l'amicizia distrutta (cfr. l'agostiniano perhorresco et inardesco; Conf., 7, 4). La coscienza del peccato non significa rattrappimento e inde­ bolimento della volontà umana, congiunta com'è dalla fiducia che l'Iddio onnipotente ci ama. Sapendo di poter contare sull'aiuto divino, l'uomo non si lascia intimorire da difficoltà veruna e certo com'è d'avere tale « potere » da Dio per la sua fede sente che, di continuo, da questa inesau­ ribile sorgente d'amore gli pervengono torrenti di novelle energie. Perciò

§ 202. NECESSITÀ DELLA GRAZIA

237

il cristiano per la sua fede nella grazia acquista il senso di un insospettabile arricchimento e approfondimento. Il che non impedisce tuttavia che tale senso sia congiunto, in modo misterioso e non facilmente spiegabile con la ragione, con quello della propria debolezza e deficienza. Umiltà e co­ scienza di sé medesimi vanno di pari passo. E, di rimando, il confidare esclusivamente in se stessi, benché possa anche essere motivo di un grande sviluppo delle proprie forze, conduce ben tosto a una spasmodica esaltazione di sé, a un fanatico attivismo e alla lunga, per l'inevitabile esperienza della propria insufficienza, ultimamente fondata sul carattere di creatura, può farci giungere alla nausea e alla disperazione.

VII. - NECESSITÀ DELLA GRAZIA PER LA PREPARAZIONE DELLA GIUSTIFICAZIONE. a) Le considerazioni precedenti mostrano che per ogni atto salutare occorre in modo assoluto la grazia divina. In esse si è però parlato di grazia in generale. La grazia richiesta per la salvezza, nelle decisioni ecclesiastiche riferite sopra, non è sempre designata come grazia atruale. In non pochi testi può anche essere solo la grazia abituale, vale a dire lo stato di grazia. Ma si deve sempre intendere come grazia attuale per tutti i casi in cui si afferma la necessità per poter compire gli atti che conducono allo stato cristiano. L'uomo è invitato dalla Bibbia ad allon­ tanarsi dal peccato e a ritornare a Dio. Ma per ben comprendere, accogliere e ubbi­ dire a queste raccomandazioni si esige la grazia. La grazia che precede la giusti­ ficazione e che prepara ad essa è naturalmente quella attuale non quella santi­ ficante ossia la vita divina in noi. Il problema se coloro che sono già in possesso di questa vita divina abbiano bisogno di un'ulteriore grazia attuale, sarà meglio studiato nella terza sezione, dove parleremo della fecondità dello stato cristiano.

b) È dogma di fede che per ogni atto salvifico che prepari alla giusti­ ficazione noi abbisognamo della grazia soprannaturale. Tale verità di fede fu proclamata dal Concilio di Trento nella Sess. 6, can. 3 (se ne veda n · testo citato sopra al n. 1). Nel quinto capitolo tale dottrina è cosi precisata :

1:

Il santo concilio dichiara

inoltre che negli adulti il principio della giustificazione si deve desumere dalla grazia preveniente di Dio; cioè quelli che per i loro peccati si erano allontanati (crversl) da Dio, sono da lui chiamati, senza alcun loro merito preesistente, perché si dispongano alla giustificazione assentendo e cooperando liberamente alla grazia che li eccita e li aiuta, in modo che, toccando Dio il cuore dell'uomo con la illumi­ nazione dello Spirito Santo, non solo l'uomo non resta inerte, ma riceve quella ispirazione. Benché egli possa anche respingerla, tuttavia senza la grazia non può muoversi con la sua libera volontà verso la giustizia davanti a Dio. Perciò nelle

P. 1 1 .

-

LA GRAZIA

sacre pagine quando si dice : Convertitevi a me, ché io mi rivolgerò verso di voi (Zac. 1, 3) siamo avvertiti della nostra libertà; e quando rispondiamo : Convertici a te, o Signore, e ci conveniremo (Lam. 5, 21) dichiariamo che la grazia divina ci previene » (Denz. 797). Già oltre mille anni prima il Concilio di Orange (529), in occasione dell'errore semipelagiano ha fissata una medesima professione di fede. I sostenitori del semi­ pelagianesimo erano persone assai in vista e moralmente stimatissime : Cassiano, Fausto di Ries, Vincenzo di Lerino. Secondo costoro il primo passo verso la via della salute, il primo suo desiderio, la predisposizione a credere in Cristo sarebbe un atto compiuto dalla sola volontà umana. Ma contro tale opinione il concilio insegnò che il primo passo con cui si dirige verso Dio deve pur esso venire com­ piuto da Dio medesimo. Non riuscirebbe infatti comprensibile come mai l'uomo non possa percorrere da solo anche il resto della via salvifica qualora il primo passo potesse compirsi da lui personalmente. Se l'uomo può attuare il primo atto salvi­ fico mentre Dio si riduce a svolge.re il susseguente, allora la salvezza non è piu una grazia bensi un atto umano rafforzato poi da Dio. Sarebbe infatti l'uomo a decidere sulla sua salvezza o dannazione e Dio non farebbe che accettare la deci­ sione umana. Nel semipelagianesimo emerge l'autosufficienza umana che si vanta del proprio potere. Alla fine tale dottrina finisce per costringere Dio che non può negare la sua grazia a chi gli si rivolge. Il Concilio di Orange ba inferto un colpo mortale a questa umana sufficienza. I Padri qui riuniti professano la supremazia divina, restituendo a Dio la gloria che gli compete, mentre i semipclagiani attri­ buivano all'uomo una gloria indebita. La salvezza consistente nel partecipare alla vita divina rimane per sempre esclusa a coloro che non sono attratti da Dio. È con piena libertà che Dio si dona all'uomo. L'uomo può compiere un passo in tale direzione solo perché risponde alla chiamata divina. Ogni moto verso la parteci­ pazione della vita divina, cioè ogni atto salutare, quindi ogni azione davvero per­ fetta, è solo possibile quando la mente e il cuore dell'uomo sono aperti per Cristo che è l'unica via con cui si può pervenire al Padre e alla intima vita di Dio. L'uomo non può fare alcun passo verso Dio, se non è illuminato c mosso dallo Spirito Santo. Secondo la maggioranza dei teologi la decisione del magistero ecclesiastico riguarda non solo l'inclinazione alla fede (pius credulicatis affectus) beasi anche il giudizio sulla credibilità della rivelazione (iudicium o·edibilitatis).

c) I passi biblici sopra addotti e che riguardano la necessità della grazia in genere, testificano pure la necessità della grazia per il primo passo verso la salvezza. Fu Dio a schiudere il cuore di Lidia, commerciante di porpora in Tiatira, perché ascoltasse con attenzione le parole di Paolo (Atti 16, 14). La fede in Cristo è una grazia (Fil. 1, 29). È da Dio che parte il moto della volontà che porta a Cristo (Gv. 6, 44). La fede con cui si accoglie l'uomo Cristo come il Figlio di Dio incarnato non è opera umana bensi opera divina (Ef. 2, 8 s.). La retta conoscenza di Cristo e l'atto di fede in lui proviene non dalla natura umana bensi dal Padre che è in cielo (Mt. 16, 1 7). Il passo di 2 Cor. 3, 5 non insegna che l'uomo naturale è incapace anche solo di pensare alcunché di buono, ma attesta

§

203.

NECESSITÀ DELLA GRAZIA : SUOI LIMITI

23 9

che l'Apostolo non è in grado di trovare il giusto mezzo e la via esatta per una attività apostolica feconda ed efficace. Accanto ai passi che mettono in risalto la necessità della grazia ve ne sono altri nella Bibbia in cui si spinge l'uomo a rivolgersi a Dio, a ravve­ dersi, a divenire nei suoi riguardi come un figlio, a farsi battezzare. Con tali richiami non si elimina la forza degli altri in cui si afferma la necessità della grazia, ossia si proclama l'assoluta e incondizionata supremazia divina. Hanno valore entrambi. La salvezza è un atto di Dio. L'uomo la raggiunge solo quando si decide liberamente per Dio. Come mai possano accordarsi tra loro e la sovranità dell'azione divina e la libertà umana sarà spiegato piu tardi. La Bibbia per suo conto non fa alcun tentativo per accordare i due aspetti che a prima vista sembrano tra loro in stri­ dente contrasto. cl) Nell'epoca patristica Agostino poté appellarsi alla tradizione anche nella lotta contro i semipelagiani. Dovette però ammettere che fin quando i Padri non ebbero la necessità di combattere tale errore non si espressero con molta accuratezza. Contro lo s:!_Jirito semipelagiano combatterono anche Prospero d'Aquitania, e Fulgenzio di Ruspe. Si veda A. M. Land­ graf, Dogmengeschichte der Frii.hscolastik, I, 2, 28 7-302.

§ 203. Necessità della grazia : suoi limiti. l. Quando la rivelazione accentua la necessità della grazia non in­ tende dire che l'uomo sia rovinato fin nell'intimo del suo essere, ma solo che egli è incapace di agire soprannaturalmente, di compiere azioni che lo pongono in rapporto diretto con la vita santa delle tre divine persone. Solo i riformatori hanno sostenuto una totale corruzione dell'uomo. Per loro la natura umana non è solo ferita o indebolita bensi totalmente cor­ rotta e perciò tutto quello che fa non può essere che peccato. L'uomo è in sé incapace di compiere anche la minima buona azione. Solo Dio può fare alcunché di bene attraverso il peccatore. La teologia dialettica ha condotto questa dottrina sino alle sue ultime conseguenze. Secondo questa anche lo sforzo con cui l'uomo privo di grazia tende verso Dio, anche la preghiera recano l'impronta del peccato. Anzi quanto piu l'uomo si sforza, tanto piu mostra la propria superbia su cui grava la condanna di Dio. La ragione profonda di tale concezione sta nel fatto che i riformatori credevano di poter solo cosi conservare a Dio la gloria che gli spetta. -

P. II.

-

LA GRAZIA

Soli Deo gloria! Ecco l'adagio in cui essi hanno sintetizzato il loro pen­ siero. La gloria di Dio non può essere sminuita. All'uomo va tolto ogni preteso onore. Cfr. tuttavia § 205, II. 2. Il Concilio di Trento ha asserito che questa dottrina non si può armonizzare con la rivelazione. Non l'ha condannata per ciò che asseriva, bensi per quel che negava. Il concilio riconobbe la totalità della rivela­ zione, affermando sia la supremazia divina nei riguardi delle creature, sia la grandezza della natura umana derivante da Dio, e offuscata ma non distrutta dal peccato. E ciò non è affatto una diminuzione della gloria di Dio, poiché la stessa grandezza che perdura ancora nell'uomo peccatore è pur sempre da attribuirsi a Dio. Il Concilio di Trento non ha tuttavia sciolto tutti i problemi. I secoli XVI e XVII sono pieni di polemiche nei riguardi della corruzione dell'uomo decaduto e della potenza della grazia divina. Quanto piu gli uni, pog­ gianti sulla coscienza allora rifiorente della propria personalità (Rinasci­ mento) esaltavano le capacità dell'uomo, tanto piu gli altri le ponevano in dubbio. Gli uni magnificavano gioiosamente il mondo e nella trasfor­ mazione di esso ponevano appunto il valore dell'esistenza umana. La na­ tura occultava sempre piu la gloria di Dio (immanentismo dell'epoca con­ temporanea). Ma contro costoro gli altri proclamavano con maggior voce ed esclusivamente la grandezza del mondo soprannaturale e contrasse­ gnavano ogni attività al servizio del mondo col marchio d'infamia, come concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia della vita. Mentre i primi tutto si attendevano dalla natura, i secondi tutto si aspet­ tavano dalle forze soprannaturali. La Chiesa ha riunito io una superiore unità, piena di tensione, le due opposte tendenze. Gli errori vengono evitati quando l'uomo e Dio siano visti non solo nel loro contrasto, ma anche nella loro vivente relazione. -

3. Michele Baio ( 1 5 30-1589), professore a Lovaoio, io armonia con Lutero, collocò l'essenza del peccato originale nella concupiscenza. La vo­ lontà umana, sempre orgogliosa e ribelle, corrompe tutto quanto viene compiuto dall'uomo privo di grazia, ossia, a suo dire, dall'infedele. La grazia deve dominare la volontà che le si oppone di continuo, affinché l'uomo possa pervenire a compiere atti veramente buoni, e la domina con l'amore o carità. Da tale doinioio della grazia non è affatto sminuita la libertà, che significa solo mancanza di costrizione esteriore ma non di necessità interna. Baio si richiamava a S. Agostino, come sempre si vuol -

§ 203. NECESSITÀ DELLA GRAZIA : SUOI

LIMITI

fare quando si intende elevare una protesta teologica contro la secolariz­ zazione del cristianesimo. In realtà Baio si armonizza piu con Pelagio che con Agostino. Egli sottolinea che l'uomo senza la grazia non può compiere alcunché di buono. Tuttavia l'uomo ha diritto alla grazia senza la quale la sua natura sarebbe qualcosa di incompleto. Perciò la grazia si riduce presso lui a un elemento della natura. Il soprannaturalismo che non lascia alla natura alcuna possibilità di bene, si riduce a un naturalismo in cui la grazia è annientata proprio nel suo carattere di grazia. Pertanto Pio V l'anno I 579 ha giustamente condannato 79 proposizioni tratte dagli scritti di Baio. Cfr. Denz. IOO I -Io8o. Cornelio Giansenio (1 585-1 638), vescovo di Ypres, scrisse una mono­ grafia sulla dottrina agostiniana della grazia dal titolo Augustinus, che apparve anonima l'anno 1640. Essa suscitò caldi consensi e forti oppo­ sizioni. Le opinioni esposte in quest'opera furono accolte con fervore dalle suore e dai romiti di Port-Royal. L'uomo è dominato dalla cupidità terrena (delectatio terrestris) e perciò deve ineluttabilmente peccare finché non gli venga infuso l'amore o diletto celeste (delectatio coelestis) che vince quello terreno. La delectatio celeste domina l'uomo, che quando essa è ben piu forte di quella terrena non può resisterle. Tale grazia è rara. Nel donarla o nel rifiutarla Dio si palesa come Signore e Padrone assoluto. È soprattutto per il suo rigido ascetismo e la sua austera serietà che l'opera di Giansenio fece una grande impressione sulle suore e sui romiti di Port-Royal. Papa Innocenzo X condannò 5 proposizioni tratte dal libro (Denz. 1092-1096; cfr Denz. 1650). 4. Contro tali esagerazioni la Chiesa ha definito che la natura umana non è stata totalmente corrotta dal peccato originale. In tal modo ha di­ chiarato che l'uomo anche dopo la colpa è pur sempre creatura di Dio e che, come tale, conserva sempre in qualche modo l'immagine di Dio medesimo ed è permeato dal suo amore. Affermare che nell'uomo pecca­ tore permane, anche se offuscata, la sua gloria o grandezza è affermare la gloria di Dio che stampa la sua orma in ogni creatura, specie nello spi­ rito umano, orma che l'uomo anche se dannato, non ha potere di distrug­ gere completamente. Questa impronta divina nell'uomo si manifesta soprat­ tutto nel fatto che l'uomo può partecipare alla vita spirituale di Dio. Secondo le decisioni ecclesiastiche il residuo della gloria di Dio, che si rinviene nell'uomo decaduto, sta proprio nel fatto ch'egli ha pur sempre un occhio per vedere la gloria di Dio e un orecchio per percepire la vo­ lontà divina. La Chiesa, perciò, insegna che l'uomo decaduto con le sue -

P.

I I . - LA GRAZIA

sole forze naturali, anche senza la grazia divina, può conoscere l'esistenza di Dio e compiere alcunché di moralmente buono. Sulla possibilità di conoscere l'esistenza di Dio con le sole forze natu­ rali abbiamo già parlato nel primo volume (§ 3 0). L'affermazione che l'uomo decaduto con le sue sole forze, senza l'ausilio della grazia, può compiere qualcosa di moralmente buono non è dogma di fede, ma una dottrina sicura della Chiesa inclusa nella condanna delle opinioni con­ trarie di Baio e di Quesnel, come ad esempio nelle due seguenti propo­ sizioni (di Baio) : « Senza la grazia divina la libera volontà dell'uomo non è capace che di peccare » (Denz. 1027) ; « È un errore pelagiano l'asserire che la libera volontà ha la forza di evitare anche un solo peccato » (Denz.

1028 ; cfr. 1030, 1 389, 1524).

Come già dicemmo per le decisioni riguardanti la naturale conoscibilità dell'esistenza di Dio, cosi ri�tiamo anche qui che le decisioni eccle­ siastiche parlano soltanto di una possibilità da parte delle forze naturali di compiere atti moralmente buoni, ma non parlano che siano compiuti di fano. Con la dottrina della Chiesa si può quindi accordare anche la sentenza che asserisce non darsi di fatto azioni che siano naturalmente buone, ma tali che siano dirette alla comunione con il Padre celeste. Anche se di fatto ciò fosse vero, la dottrina ecclesiastica circa la possibilità del­ l'azione naturalmente buona conserverebbe pur sempre il suo valore. Essa ci !'resenta un'immagine dell'uomo in cui esiste ancora la possibìlità, l'inclinazione e la libertà della volontà verso il bene, anche se indebolite e inefficaci. La grazia divina trova qui il suo punto d'inserzione per ope­ rare. Essa non deve spingere l'uomo quasi fosse un sasso, sicché egli, sotto la sua azione e la sua forza che lo eccita e vivifica, può pervenire a un atto degno di un uomo. Milita inoltre per la sentenza che non si dà in concreto un'azione buona solo naturalmente il fatto che tutto il creato nel presente ordine di prov­ videnza è ordinato a Cristo. Non vi è cosa alcuna che non dica rapporto a lui. Di piu il fine della creazione è unico e consiste nella partecipazione alla signoria di Dio partecipando alla gloria di Cristo risorto. Non vi è un essere che non sia in cammino verso questo fine o che gli si opponga. L'uomo nemmeno per un istante può sottrarsi a questo torrente che o conduce tutto il creato a Cristo o che lo allontana da lui. In conseguenza, quindi, di tale rapporto con Cristo l'umanità non è mai senza grazia. Anche se vi si rinviene solo scarsamente, non vi manca mai del tutto. L'umanità non è obbligata a vivere in uno stato totalmente

§

203.

NECESSITÀ DELLA GRAZIA : SUOI LIMITI

243

privo di grazia e quindi non deve sostenere il peccato in tutta la sua spaventosità. Baio errava pure nel ritenere gli infedeli come persone prive di grazia. Da ciò sgorgò poi l'altro errore di ritenere le opere degli infedeli e dei pagani e anche le stesse virru dei filosofi come tante colpe. La Chiesa ha giustamente condannata tale sua asserzione (Denz. 102 5 ; cfr. 1298). 5.

Secondo la Scrittura la situazione morale dei pagani è assai triste, ma tuttavia non manca loro ogni bontà (Mt. 5, 48 ; cfr. pure Dan. 4, 24; Es. I, 1 5-2 1 ; Ez. 29, 1 8-20). -

6. - Giustino Martire esprime una dottrina assai diffusa tra i Padri pre­ agostiniani, asserendo (Apol. I, 46) : « Abbiamo nella nostra dottrina che Cristo è il primogenito di Dio e già lo indicammo come il Verbo del quale tutto il genere umano partecipò. E quelli che vissero secondo il Verbo sono cristiani, anche se furono stimati atei, come tra i Greci Socrate, Eraclito, ed altri simili a loro, e tra i barbari Abramo, Anania, Azaria, Misaele, Elia e molti altri ; le nazioni e i nomi dei quali, che sarebbe lungo enumerare, ora tralasciamo. Come tra quei che nacquero prima e vissero senza il Verbo ve ne furono di cattivi e nemici di Cristo e perse­ cutori di coloro che vivono secondo il Verbo, al contrario quelli che vis­ sero e vivono secondo il Verbo sono cristiani intrepidi e tranquilli » . Anche Agostino,

che suole giudicare assai

sfavorevolmente la moralità dei

pagani, non ritiene che le loro azioni siano di per sé cattive. Manca solo ad esse il senso ultimo e definitivo e pertanto, pur avendo in sé un certo valore, è come se non ne avessero alcuno. Egli scrive :

«

Benché possa sembrare che l'anima

co­

mandi lodevolmente al corpo e la ragione ai vizi, in realtà se l'anima e la ragione non servono a loro volta a Dio come egli stesso comandò di essere servito, l'anima non comanda rettamente né al corpo né ai vizi. E come può essere signora del corpo e dei vizi quella mente che non conosce il vero Dio

e

non è soggetta al suo

impero, ma è venduta ai viziosissimi demoni che la corrompono? Perciò se non riferisce a Dio quelle virtu che le sembra di possedere, mediante le quali comanda al corpo e ai vizi, esse sono piuttosto vizi che virtu . Poiché se anche alcuni credono vere ed oneste le virtu quando si riferiscono a se stesse e non si desiderano per altro fine, anche allora, sono gonfie e superbe e non si devono giudicare virtu, ma vizi. E come non nasce dalla carne, ma è superiore ad essa ciò che la fa vivere, cosi ciò che rende beato l'uomo non ha origine dall'uomo, è sopra di lui, non solo, ma

anche sopra ogni potestà o virtu celeste

»

(De civ. Dei, l. 19, 25). Richiamandosi

a Gv. 1 0, 1, Agostino scrive : « Vi sono molti che per una certa regolarità di con­ dotta si dicono buoni, buoni uomini, buoni sposi e spose, innocenti ed osservanti dei precetti della legge : onorano i genitori, non commettono adulterio, non ucci-

244

P. Il.

-

LA GRAZIA

dono, non rubano, non dicono falsa testimonianza contro nessuno, adempiono gli altri precetti e tuttavia non sono cristiani. Costoro spesso si vantano come gli interlocutori di Gesu : Noi pure siamo dei ciechi? Poiché fanno tutte queste opere ma non sanno a quale fine ordinarie, le fanno invano; ed

è per quesm che nella

lezione di oggi il Salvatore propone una similitudine relativa al suo gregge e alla porta per la quale si emra nell'ovile.

I pagani potranno dire : noi viviamo bene;

ma se non entrano per la porta a che cosa serve ciò di cui si vantano? Vivere bene significa trovare il mezzo di vivere sempre; infatti a che cosa serve la buona vita se non conduce alla vita eterna? Evidentemente non si può parlare di vita buona in coloro che sono ciechi da non sapere il fine del ben vivere od orgogliosi da disprezzarlo. Quanto alla speranza vera e certa di vivere sempre, nessuno la può possedere se non conosce la via, Gesu Cristo, e se non entra nell'ovile per la

(In Ioan. tract. 45, 2; PL. 35, 1 720). Commentando il Salmo 31, dice :

c

porta »

Molti si

gloriano delle opere e tu puoi trovare molti pagani che non vogliono divenire cristiani, perché si accontentano della loro vita buona. Vivere bene, essi dicono,

è

la cosa principale; che altro mai Cristo mi può prescrivere? ... Nessuno può par­

lare di buone opere prima della fede. Le buone opere prima della fede possono apparire assai degne di lode agli uomini, ma sono senza valore. Mi appaiono grandi sforzi e una rapida corsa fuori strada... Ciò che rende buona un'opera

è

il suo rapporto con il fine. Ma la visione del giusto fine ci viene conferita solo dalla fede ... Supponiamo che un navigante voglia condurre una nave, ma se ha perso la retta direzione che gli giova tendere bene le vele? ... Gli si chied e : Dove

andiamo? Vi risponde : Non lo so. Oppure non vi dil'à : Non lo so, ma : In un qualche porto; ed intanto urta contro le rocce • (Enan-. in Ps. 31, II, 2 e 4; PL. 36, 258-26o).

7. Non si può ricorrere al Concilio di Orange per sostenere la dot­ trina di Baio che le opere degli infedeli sono peccato e menzogna. Il con­ cilio adopera realmente la frase che nessuno ha di suo altro che il peccato e menzogna (can. 22), ma con ciò non intende parlare delle azioni umane nella loro eticità naturale, bensi nel loro rapporto col fine ultimo sopran­ naturale. Tali buone azioni puramente naturali non hanno, infatti, alcun intrinseco riferimento a quell'ordine in cui l'uomo è introdotto nella tripersonale vita di Dìo e sono quindi, in ultima analisi senza valore, anche se in rapporto all'ordine naturale di questo mondo abbiano una vasta risonanza e molto contribuiscano all'ordinamento della vita terrena. Rimangono racchiuse nel campo della terra e partecipano perciò alla caducità, alla peribilità e alla limitatezza delle semplici creature. Non tendono verso il fine ultimo, non portano alla vita intima di Dio. L'uomo mediante tali azioni non intacca la natura che è stata creata da Dio, ne realizza anzi il valore immanente al mondo. Ma misconosce la relazione di tutto il creato con Dio. Egli agisce come se le creature che entrano nella sua orbita vitale non stessero in rapporto con Cristo glori-

§

203.

NECESSITÀ DELLA GRAZIA : SUOI LIMITI

245

ficato e per mezzo suo con l'Iddio tripersonale. L'uomo si fissa nel mondo e dimentica che in ultima analisi ogni azione veramente perfetta è un cammino verso Dio. Per il fatto che agisce come se il mondo fosse sussi­ stente in se stesso, ogni sua azione è menzogna. È peccato non perché egli si opponga direttamente e volontariamente a Dio, ma per il fatto che non ha quel rapporto con Dio che dovrebbe avere per volontà divina. La peccam.inosità dell'azione compiuta da un uomo privo di grazia va intesa come la peccaminosità di uno privato, a motivo del peccato origi­ nale, dello stato di grazia (cfr. § 1 3 5). Cfr. pure H. de Lubac, Il dramma dell'umanesimo ateo, trad. ital., 1949. 8. Quando si fanno queste riflessioni sul potere morale dell'uomo senza grazia, occorre ricordare che si tratta di un frazionamento mentale della realtà. Ma in concreto non vi è affatto un'azione deliberata, ossia cosciente e libera, solo naturale. L'uomo concreto, sia esso decaduto o giusto, vive o in opposizione a Dio o nella fede in lui. Non si dà il caso di un'esistenza che nei suoi riguardi sia neutrale. L'uomo giunto all'età della ragione non si trova nella condizione di poter o dover fare un atto puramente naturale. Quando parliamo di possibilità nei riguardi di azioni solo naturali separiamo mentalmente ciò che nella realtà si trova con­ giunto; separazione questa che ha il suo valore in quanto palesa il punto di inserzione che Dio trova per afferrare l'uomo e per convertirlo. Anche se dobbiamo valutare cosi ottimisticamente l'uomo riguardo alle possibilità naturali rimastegli nello stato di decaduta, tale ottimismo ha tuttavia i suoi limiti ben definiti. L'uomo decaduto non è solo incapace di compiere un'azione salvifica, ma, senza grazia, non riesce nemmeno ad adempiere tutta la legge morale naturale scritta da Dio nella sua coscienza (è la sentenza oggi comune tra i teologi, la quale sta in diretta opposizione con l'ottimismo naturale di Rousseau). La sua intelligenza e la sua volontà non sono piu, a motivo del peccato originale, orientate verso Dio. La con­ cupiscenza lo trascina lontano da Dio sicché, se egli non resiste e si sforza di continuo, cede e cade. Ora, se rimanesse senza grazia non sarebbe diffi­ cilmente in grado di resistere alle molte e continue tentazioni d'orgoglio e di egoismo. Solo con l'aiuto della grazia può riuscire in ciò che gli sa­ rebbe altrimenti moralmente (non fisicamente) impossibile. La grazia agisce qui soprattutto come grazia sanante. Ma come già vedemmo non vi sono grazie puramente sananti. La grazia sana in quanto santifica. Quando Dio afferra l'uomo con la grazia e lo illumina e fortifica nei ri­ guardi del bene, lo compenetra con la sua luce e potenza. Per una piu -

P. Il.

-

LA GRAZIA

profonda comprensione di questo fatto si rilegga la dottrina del peccato originale. 9.

Nel corso dei secoli è stato anche discusso il problema se l'uomo decaduto sia capace, senza la grazia, di un atto d'amore perfetto. Con tale atto s'intende un amore in cui l'uomo non abbia ad agire per suo torna­ conto personale, ma per la grandezza e bontà divina, amando cioè Dio per sé medesimo e quindi disinteressatamente. S'intende un amore che sia espressione del cuore, e non un puro atto della volontà (un amore cioè affettivo e non solo un amore effettivo). Quest'ultimo, come si è già detto, per il fatto che include l'osservanza di tutti i precetti, non è pos­ sibile senza l'ausilio della divina grazia. Da quanto è stato detto sopra si vede come tale problema abbia solo un'importanza teorica. In realtà non vi è uno stato umano in cui ci si trovi del tutto senza la grazia. La questione ha solo l'intento di meglio stabilire fino a qual pro­ fondità sia pervenuta nell'uomo la distruzione provocata dal peccato ori­ ginale e quanto grande sia la grazia che vi pone riparo. Tommaso d'Aquino è del parere che l'uomo decaduto abbisogni della grazia sanante per rea­ lizzare l'amore perfetto di Dio, vale a dire che la grazia deve guarire l'uomo dal suo egoismo perché sia capace di un tale amore. -

§ 204. La gratuità della grazia. I. La dottrina della necessità della grazia raggiunge il suo vertice pm alto e nello stesso tempo viene illuminata in tutta la sua importanza da quella della gratuità della grazia medesima. L'uomo abbisogna di qual­ cosa che lui stesso non può acquistarsi. Ne abbisogna come del pane quotidiano. Vita e morte dipendono dal fatto del suo possesso o meno. Ma ciò nonostante, per quanti sforzi compia, non se la può creare. È de­ stino che gli venga donata da Dio. Egli perciò è totalmente in balia di Dio. Non è necessario trattare questo punto in tutta la sua estensione, poiché l'essenziale è già stato detto nella dottrina della redenzione. Bastino, quindi, solo pochi accenni. Come la redenzione, in quanto atto divino, è per l'uomo un puro dono di Dio, cosi lo è anche l'attuale partecipazione di ogni individuo all'opera di Cristo. II. Per esaminare sotto tutti i suoi aspetti la gratuità della grazia stabi­ liamo i punti seguenti :

§ 204. LA GRATUITÀ DELLA GRAZIA

247

l. È dogma di fede che l'uomo per quanti sforzi compia non può meritarsi la grazia. Non la può ottenere né dalla giustizia né dall'amore di Dio. In altre parole l'uomo non può agire in modo tale che Dio debba donargliela per non essere ingiusto o immisericordioso. L'uomo non può attuare un'azione dinanzi alla quale Dio non possa o per la sua giustizia o per la sua equità astenersi dal donargli la sua grazia. Questa non si può meritare, secondo la terminologia scolastica, né de condigno né de congruo. Non vi è cosa alcuna nel regno del creato che possa muovere o addirittura costringere Dio a donare la salvezza. a) Contro l'eresia pelagiana il Concilio di Orange (a. 529) dichiarò doversi credere che la grazia non si può meritare (cfr. can. I 8-2o; Denz. I9 I-I93). La Chiesa riconfermò questa dottrina di fede nel Concilio di Trento (Sess. 6, cap. 6 ; Denz. 799, riferito al § 206, n. 2). b) La Bibbia afferma la gratuità della grazia negli stessi passi in cui attesta l'impossibilità di un'autosalvezza e la conseguente necessità della grazia. È uno dei capisaldi paolini che noi siamo salvati in Gesu Cristo per grazia di Dio senza alcun nostro merito (Rom. 3, 24; cfr. Rom. 9, 16. 1 8 ; I I, 6 . 3 5 ; Ef. I , 4-n ; 2 , 8-Io). Agli Efesini l'Apostolo cosi scrive : « Per amore ci predestinò, secondo il suo beneplacito, ad essere figli suoi adot­ tivi per mezzo di Gesu Cristo » ( I , 5 ; cfr. inoltre i vv. 6-I I). E ancora piu chiaramente : « E voi ha pur fatto rivivere, che eravate morti per i vostri falli e i vostri peccati ... E Iddio, ricco di misericordia, per il grande amore che ci portava pur essendo noi morti per le nostre coloe, ci richiamò a vita in Cristo (per sua grazia siete stati salvati), in Cristo Gesu ci ha risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli affinché nelle età avvenire fosse fatta palese l'immensa ricchezza della sua grazia, nella benignità verso noi in Cristo Gesu. Si, per grazia siete salvati mediante la fede; e ciò non da voi ma è dono di Dio; non dalle opere vostre, che nessuno abbia a gloriarsene » (2, 1. 4--9). L'intera lettera ai Galati vuoi testificare che la giustificazione non è affatto conseguenza delle nostre opere di pietà. Paolo consola il suo disce­ polo Timoteo dicendo che le sofferenze che egli deve sopportare nella predicazione dell'evangelo le sopporta non per propria forza, ma per aiuto divino. Una garanzia dell'aiuto divino l'ha già avuta Timoteo nella sua stessa conversione : « Dio ci ha salvati e ci ha chiamati con una santa chiamata, non già per le nostre opere, ma secondo il proprio disegno e per la grazia concessa a noi in Cristo Gesu avanti che cominciasse il tempo dei secoli » (2 Tim. I , 9 s.). Siccome è Dio che con libera sua misericordia giustifica gli uomini, -

P. II.

-

LA

GRAZIA

Paolo prende l'occasione di ringraziare Dio per la fede dei Romani (Rom. I, 8), dei Corinti ( I Cor. I , 3), degli Efesini (Ef. I, I6), dei Filip­ pesi (Fil. I , 3), dei Colossesi (Col. I , 3), dei Tessalonicesi ( I Tess. I, 2 ; 2 Tess. I, 3), di Timoteo ( 2 Tim. I , 3). Altre prove nel § I40 e nel § 202. 2. Che la grazia sia un puro dono di Dio appare in modo chiarissimo nel fatto che non può essere ottenuta efficacemente da nessuna preghiera dell'uomo privo di grazia. La preghiera è la manifestazione del senso religioso dell'uomo. Si potrebbe pensare che Dio abbia sempre ad ascol­ tare la voce di colui che lo invoca, che gli si rivolge e chiunque lo prega nel suo nome. In verità anche la preghiera dell'uomo non redento è sotto­ posta alla medesima maledizione in cui geme tutto l'uomo. La ricerca di se stesso e l'amore del proprio io, che predomina nell'uomo lontano da Dio, s'insinuano anche nella sua preghiera. L'orazione non informata dalla grazia può persino diventare una sorgente di illusione e d'inganno. Essa fa vedere che anche nell'uomo immerso nel peccato per­ dura pur sempre una brama e una tendenza verso Dio, ma tale espressione è purtroppo permeata da orgoglio umano. L'uomo cerca per mezzo della sua preghiera quella comunione con Dio, che Dio solo può fondare e formare. Poiché egli è minacciato dalla tentazione di pensare e preten­ dere di già essere in comunione con Dio, si mette sulle difese di fronte all'autentica rivelazione del Dio vivente, che non gli sembra piu neces­ saria. Cosi la preghiera non informata dalla grazia può ergersi come un muro contro la vera adorazione di Dio richiesta dalla sua rivelazione. Una siffatta preghiera quindi non è affatto un mezzo per procurarsi la grazia. La preghiera, è essa stessa un frutto della grazia. Forse Dio in­ tese ciò esprimere in modo sensibile non invitando al presepio del neonato Gesu non solo i magnati della forza e della cultura terrestre, ma neppure i rappresentanti della religiosità giudaica. La salvezza non è dovuta né alla saggezza greca, né alla politica romana e n emmeno alla pietà ebraica. a) Il Concilio di Orange (can. 3) ha chiaramente asserito che la pre­ ghiera non è la sorgente ma l'effetto della grazia. b) Secondo la Scrittura, Dio deve prima inviare il suo Spirito nel nostro cuore perché si possa conoscere e invocare il suo nome (Rom. 8, I5). Ogni uomo che non sia stato illuminato da lui ignora il vero nome di Dio. Non può parlare una lingua che sia percepita da Dio. Solo lo Spirito che conosce la vita intima di Dio, può parlare il linguaggio divino. Ci sug­ gerisce le parole che dobbiamo rivolgere a Dio perché si possa essere da lui esauditi. Sono le stesse parole con cui Cristo parla con il Padre. Tutto -

249

§ 204. LA GRATUITÀ DELLA GRAZIA

ciò che Cristo dice parlando con il Padre sta racchiuso nel termine di « Padre » . Perciò anche tutto ciò che noi possiamo rivolgere al Padre è sintetizzato in questa parola (Mt. 6, 9), che può pronunziare solo chi è informato dallo Spirito Santo. Solo costui può invocare Cristo come il Signore e per mezzo di Cristo pregare Dio come Padre. Solo a questa preghiera elevata per mezzo di Cristo è stato promesso l'esaudimento. Dio ascolta il suo nome, ma solo gli illuminati dallo Spirito Santo pos­ sono pronunziarlo (1 Cor. 12, 3; 2, I I s. ; Gal. 4, 6 ; Gv. 16, 24 s.). Solo la preghiera formata dalla grazia dello Spirito Santo è una preghiera in spirito e verità (Gv. 4, 23). Quando Cristo la preannunziava, intendeva parlare di una preghiera che l'uomo non avrebbe rivolta al Padre in virru delle sue forze naturali, bensi in virtU. dello Spirito Santo, cioè col cuore inondato dalla luce e dal calore del Dio della rivelazione (cfr. § 44). 3. I Padri hanno insegnato chiaramente e decisamente, dall'epoca della eresia pelagiana, la gratuità della grazia e hanno ritenuto questo dato di fede come un punto fondamentale del cristianesimo. Ma anche prima di tale eresia essi hanno affermato con energia la libera iniziativa di Dio sia nei riguardi della redenzione che della giustificazione. È solo contro il naturalismo stoico che hanno dato un forte rilievo alla libertà dell'uomo nell'accettazione o nel rifiuto del dono divino. -

Sant'Agostino scrive : « Gesu ha detto : '' Rimanete nel mio amore E come vi rimaniamo? Sentite ciò che segue : " Se osserverete i miei comandamenti, rimar­ rete nel mio amore ". Ora è l'amore che ci fa osservare i comandamenti oppure è la fedeltà ad essi che fa nascere l'amore? Chi può dubitare che l'amore precede? Infatti colui che non ama non ha il mezzo di osservare i comandamenti. Quando Gesu dice : " Se osservate i miei comandamenti rimarrete nel mio amore " ci fa vedere non ciò che fa nascere l'amore, ma ciò che ne è la prova. È come ci dicesse : Non crediate di rimanere nel mio amore, se non osservate i miei comandamenti; ma se li osservate, vi rimarrete, cioè apparirà che rimanete nel mio amore se voi osservate i miei comandamenti. Poiché quanto piu osserviamo i comandamenti, tanto piu lo amiamo; e se li osserviamo meno, meno lo amiamo. Benché dalle parole : " Rimanete nel mio amore '' non appaia di quale amore egli abbia voluto parlare, se di quello con cui l'amiamo o se di quello col quale ci ama, tuttavia lo possiamo sapere da quanto disse prima. Infatti dopo avere detto : " Io vi ho amati ", egli soggiunge subito : " Rimanete nel mio amore "; si tratta dunque del­ l'amore col quale ci ha amati. Che cosa dunque vuoi dire : " Rimanete nel mio amore "? Questo : Rimanete nella mia grazia. Pertanto le parole : " Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore " significano : Voi conoscerete di rimanere nell'amore con cui vi amo, se osserverete i miei comandamenti. Dunque perché egli ci ami non occorre che dapprima noi osserviamo i suoi comandamenti; ma se egli non ci ama per primo, non li possiamo osservare. È proprio questa la ".

P.

II.

-

LA GRAZIA

grazia conosciuta dagli umili ma nascosta ai superbi » (In Ioan. tract. 82, 3). Altrove cosi dice :

«

Ci ama forse Dio perché noi lo amiamo o piuttosto noi lo amiamo

perché egli ci ama? Nella sua lettera lo stesso evangelista ce ne dà la risposta : Noi amiamo, risponde egli, perché Dio per primo ci ha amati. Proprio per questo lo amiamo perché per primi siamo stati amati.

È

quindi dono di Dio il fatto che

noi lo amiamo. Ci ha reso possibile di amarlo, lui che ci ha amati prima d'essere da noi amato. Noi gli spiacevamo ed egli ci ha amati solo perché vi fosse in noi alcunché che gli piacesse. Poiché noi non ameremmo il Figlio, se non amassimo anche il Padre. Il Padre ci ama, perché noi amiamo il Figlio, ma noi abbiamo dal Padre e dal Figlio la possibilità di amare sia il Padre che il Figlio. Infatti lo Spi­ rito ci riversa in cuore l'amore per entrambi, e per mezzo dello Spirito amiamo sia il Padre che il Figlio e di rimando amiamo lo Spirito con il Padre e il Figlio. Il nostro amore pio con cui amiamo Dio ce lo ha operato Dio stesso ed egli vede che

è buono ciò ch'egli ha in noi compiuto. Ma egli nulla avrebbe potuto effettuare

in noi degno d'essere am2tc qualora non fosse stato !ui stesso a.d amarci per primo

(In Ioan. tract. 102, 5). Leone Magno osserva in

un

suo discorso (Senno 67, 3) :

«

»

Il Signore che era

venuto per salvare i peccatori non escluse gli assassini dalla sua misericordia . Perciò egli ha trasformato l'azione malvagia dell'incredulo in

un

atto di benedi­

zione per i credenti. La grazia ci appare in tal modo ancora piu meravigliosa quando si pensa che non

è ripartita agli uomini secondo il loro merito, bens{ viene

elargita perché Dio nella sua onnipotente e onnisciente misericordia infinita la riversa anche su coloro che versarono il sangue del Salvatore, chiamando pure essi al fonte battesimale

».

Il fatto che la grazia sia assolutamente necessaria e che tuttavia da noi stessi non ce la possiamo affatto procurare, può in un primo tempo suscitare un senso di tormento, che però svanisce di fronte alla fede nella universale volontà salvifica di Dio. L'insegnamento della gratuità e della necessità della grazia, non ci mette di fronte a una specie di fato bensi all'infinito amore di Dio che tutti avvolge. La grazia indispensabile per la salvezza non può essere procurata dall'uomo, ma viene elargita a tutti come dono divino. Noi siamo sicuri che l'amore di Dio non esclude alcuna persona. Se un individuo non si salva ciò non deriva dal fatto che gli sia stata rifiutata la grazia di Dio, ma per il fatto ch'egli ha respinto l'amore divino quando gli si presentava. Non è affatto una diminuzione della dignità dell'uomo e un pregiu­ dizio per la sua attività se si fa risalire a un dono ciò che per lui decide della vita eterna (cfr. § 202, VI). Si deve osservare che solo la prima grazia in senso stretto non si può meritare. Ma quando l'uomo è stato afferrato dalla potenza creatrice di Dio che in lui opera, allora l'uomo può divenire lui stesso creatore del suo destino (cfr. la dottrina del me­ rito nella sez. III).

4.

-

§ 204. LA GRATUITÀ DELLA GRAZIA

25 1

La rivelazione della gratuità della grazia non mira a dipingere con foschi colori l'incapacità umana, quanto a mettere in piu chiara luce il divino amore. Il libero dono della grazia è la manifestazione della maestà divina (2 Piet. 1 , 3). La peccaminosità umana è il retroscena che meglio pone in risalto l'amore creativo di Dio. Le verità rivelate non stanno tutte sul medesimo piano, non hanno tutte la medesima importanza. Costituiscono tra loro un tutto armonico in cui ognuna occupa un suo posto e ha un suo particolare valore. Ora secondo il Nuovo Testamento questa dell'amore di Dio che liberamente si rivolge a noi in Cristo è centrale e tutte le altre comunicazioni del Padre si raggruppano intorno ad essa. Tale amore, da coloro che vi si abbandonano, deve essere lodato ed esaltato senza inter­ rnissione. Dai passi della lettera agli Efesini sopra citati (II, b) appare che la gratuità della grazia ci è stata rivelata per mettere maggiormente in risalto l'amore di Dio e rendere piu intimo sia il nostro pentimento che il nostro ringraziamento. L'espressione scolastica che Dio non nega la sua grazia a colui che fa tutto ciò che gli è possibile (facienti quod in se est Deus non denegat gratiam), non è affatto un travisamento pelagiano della rivelazione. Sarebbe tale qualora si dovesse inten­ dere nel senso che quando l'uomo compie con le sole sue forze naturali ciò che gli è possibile, Dio debba donargli la grazia oppure glie la doni in vista di ciò che ha compiuto. Ma l'espressione non va intesa in questo senso; significa, invece, che Dio afferra ogni uomo con la sua grazia in modo che questa non manca se non a colui che positivamente la rifiuta.

CAPITOLO II.

LA GRAZIA ATTUALE NELLA PREPARAZIONE DELL' UOMO ALLA GIUSTIFICAZIONE

§ 205. La conversione dal peccato. La libertà non fu distrutta dal peccato, ma solo ferita e indebolita. Essa permane anche nel peccatore, perché dote inalienabile della natura umana, e costituisce il punto vivo in cui Dio cerca l'uomo. Per essa la persona umana partecipa alla signoria di Dio ed è perciò sua immagine (Gen. 1, 26). Peccando, l'uomo abusa di questa libertà per ergere la sua propria signoria contro quella del suo Signore. I.

-

DIO

E

L'UOMO.

Per il fatto che l'uomo è creatura totalmente dipendente da Dio, Dio stesso opera in lui, che rimane libero, l'azione libera, anche quella con la quale egli si ribella al suo Creatore e Signore. Per quanto la cosa sia piena di mistero, occorre tener saldi i due punti : che Dio opera l'azione nell'uomo e che l'uomo agisce liberamente. Giammai e in nessuna maniera Dio sprezza quella libertà che lui stesso creò nell'uomo. Egli non costringe alcuno ad amarlo, anche se in modo pressante gli offre tale suo amore. È certo Dio che santifica l'uomo, ma in modo tale che questi debba agire personalmente nell'opera santifica­ trice divina. La nuova vita non entra nell'uomo né come un evento ma­ gico né come una forza irresistibile. Dio non soggioga l'uomo, ma lo chiama e lo invita; e l'uomo può pie­ garsi od opporsi a tale divino richiamo. Il Padre si rivolge ad ogni uomo nello Spirito Santo per mezzo di Cristo; e l'uomo può sottrarsi all'amore che gli si accosta, oppure accoglierio in se stesso.

§

205.

LA CONVERSIONE DAL PECCATO

25 3

Quando lo accetta, egli spiritualmente morto, ma risvegliato da Dio, abbandona la sua volontà cattiva contraria all'amore divino, si spoglia del suo egoismo e del suo orgoglio, eliminando cosi ogni impedimento che ostacola l'entrata di Dio nel suo cuore. Preparazione, questa, che esige la piu alta attività. L'uomo deve in un certo senso raccogliere nelle sue mani tutte le energie spirituali per orien­ tarle in un'altra direzione, rovesciando fino nelle piu profonde radici del pensiero e dell'azione l'andamento della sua vita. Agostino chiama ciò aversione dal mondo e adesione a Dio. Una tale attività è possibile, come appare dalle precedenti considera­ zioni, solo quando interviene l'attività divina che avvolge l'uomo. Solo colui che è stato toccato dall'amore misericordioso di Dio è capace di rivolgersi al Signore. Ma d'altra parte l1uomo, anche se permeato da questa azione divina, rimane pure sempre responsabile poiché interviene attivamente nella sua conversione. In tale modo la conversione è opera di Dio e opera dell'uomo. Non è la formula « Dio solo », ma la formula « Dio e l'uomo » che esprime la verità evangelica. La particella « e » esige tuttavia una spiegazione. Essa non significa che una parte spetti a Dio e un'altra all' uomo, ma che l'evento è operato tutto da Dio e tutto dall'uomo. La differenza sta nel fatto che Dio l'opera in quanto Dio e l'uomo in quanto creatura, anzi in quanto creatura colpevole. La preparazione del cuore, che si attua con tale atti­ vità proveniente dal centro piu intimo e penetrante sino nella piu pro­ fonda abissalità umana, non è un puro e semplice presupposto della giusti­ ficazione. Non ne è però causa strumentale e, tanto meno, causa formale, ma è piuttosto una intima capacità recettiva causata da Dio che rende pos­ sibile l'incontro con il Padre celeste. L'uomo, che afferrato dalla luce e dalla forza della grazia attuale si allontana dal peccato, presenta un inte­ riore orientamento, prodotto pure esso da questa stessa grazia, verso la vita tripersonale di Dio. Egli si adatta, s'armonizza con Dio. Dio nella sua prodiga bontà gli dona la sua propria vita entrando in lui come suo Signore. Ma la conferisce a chi per essa ha una certa capacità ricettiva, anzi un'inclinazione, non invece a chi è totalmente insensibile e impre­ parato. Colui al quale Dio dona la sua vita ha già una certa affinità con Dio stesso. Cfr. Schmaus, Mariologia, § 9, 8 ss. Dalla parabola delle nozze regali si può dedurre che significhi questa capacità ricettiva o predisposizione. Gli storpi, i ciechi, gli accattoni che dalle strade e dalle siepi sono stati invitati al banchetto regale, per la loro condizione possedevano si la chiamata esteriore a tale invito, ma non ne

P. II.

254

-

LA GRAZIA

avevano ancora la interiore preparazione. Perciò, prima, furono rivestiti, istruiti ed avvisati in modo che fossero atti a sedere alla tavola del re. Similmente, sotto l'influsso della grazia attuale, l'uomo che si volge a Dio viene predisposto a ricevere degnamente la vita divina. H. S;:>aemann, Das konigliche Hochzeitsmahl. Vom Wesen und Wachsen des Glau­ bens, 1 939. La preparazione alla giustificazione non pregiudica affatto il suo carat­ tere soprannaturale. Rimane pure sempre vero che il peccatore non pos­ siede, per conto suo, alcuna forza creatrice nei riguardi della propria sal­ vezza che anzi di fronte ad essa è come morto. Tuttavia sotto l'influsso dell'attività di Dio può lui stesso divenire attivo. Ma ciò che può fare, lo deve fare, dato che ogni dono divino costituisce un dovere per l'uomo.

Il.

-

DOTTRINA DELLA CHIESA.

È dogma di fede che per gli adulti è necessaria una preparazione alla giustificazione. Il Concilio di Trento lo afferma nella Sess. 6, cap. 5 (cfr. il testo al § 202, VII) e inoltre nei canoni 4-9, che cosi dicono : « 4· Se qualcuno dirà che il libero arbitrio dell'uomo mosso ed ecci­ tato da Dio, non cooperi affatto, assentendo alla chiamata e all'eccitamento divino, e non possa prepararsi e disporsi a ricevere la grazia della giusti­ ficazione e non possa dissentire, se vuole, ma comportarsi solo passiva­ mente, come un essere morto che in nessun modo può agire, sia sco­ municato.

5 . Se qualcuno dirà che il libero arbitrio dopo il peccato adamitico è stato perso ed estinto, o trattarsi solo di un nome e di un nome senza contenuto, e finalmente essere invenzione introdotta da Satana nella Chiesa, sia scomunicato. 6. Se alcuno dirà che l'uomo non ha in suo potere di operare il male ma che le stesse azioni cattive, al pari delle buone, sono prodotte da Dio non solo col permetterle, ma propriamente e direttamente, sicché appar­ tenga a lui non meno il tradimento di Giuda che la conversione di Paolo, sia scomunicato.

7 · Se alcuno dirà che tutte le opere, compiute anteriormente alla giustificazione, per qualunque motivo siano state fatte sono veri peccati e meritino l'odio di Dio, e che quanto piu un individuo si sforza di disporsi alla grazia tanto piu gravemente pecca, sia scomunicato.

§

205.

LA CONVERSIONE DAL PECCATO

255

8. Se alcuno dirà che il timore dell'inferno per mezzo del quale, dolendoci dei peccati, ci rifugiamo nella misericordia divina o ci aste­ niamo dal peccare, è esso stesso peccato o che ci rende maggiormente peccatori, sia scomunicato » (Denz. 8 14-8 19). La decisione del Concilio di Trento si rivolge contro la dottrina assai diffusa al tempo della Riforma, secondo cui la natura umana, completa­ mente rovinata dal peccato originale, non avrebbe alcuna possibilità di prepararsi alla giustificazione : l'uomo si troverebbe nella situazione di un essere privo di vita, capace solo di essere spinto e mosso da Dio, senza la minima possibilità di collaborare attivamente. Noi abbiamo già visto che la ragione fondamentale di questa dottrina sta nel desiderio di esaltare la gloria di Dio. A Dio solo compete la gloria. L'uomo non ne merita in alcun modo. Certo, un tale desiderio è giusto e importante, ma possiamo chiederci se nella dottrina dei riformatori venga davvero realizzato. Sembra infatti che Dio avrebbe una gloria maggiore qualora avesse ad agire verso il peccatore non come con un morto da muovere meccanicamente, ma da risvegliare alla vita, perché possa lui stesso muoversi di nuovo in virtU di Dio. Vi è pure un altro problema, e cioè quello di vedere se Lutero abbia veramente aderito a questa sentenza. È certo che nelle sue opere si tro­ vano affermazioni di tale genere. Ci si può tuttavia chiedere se egli le intese come espressioni di fede o semplicemente come riconoscimento della potenza della grazia divina e della insufficienza della natura umana nei suoi riguardi. I pareri sono di visi. Secondo una interpretazione, Lutero avrebbe totalmente sostenuto e accentuato la passività dell'uomo che l'atto di fede potrebbe ridursi a questa formula : non è l'uomo a credere in Dio, ma Dio che crede nell'uomo, in quanto lo Spirito Santo attua in lui la fede. Secondo un'altra interpretazione che presenta la piu alta verosi­ miglianza, il riformatore non avrebbe qui parlato scientificamente da teo­ logo, ma come un predicatore desideroso di magnificare l'efficacia della divina grazia e l'incapacità dell'uomo colpevole. Se questa interpretazione è vera, Lutero non sarebbe stato colpito, almeno su questo punto, dalla sentenza del Concilio Tridentino. La con­ danna del concilio sarebbe tuttavia stata necessaria sia a motivo delle espressioni materiali che si rinvengono nelle sue opere, sia perché la dot­ trina condannata era di fatto sostenuta da alcuni al tempo della Riforma.

P. II. - LA GRAZIA

III. - TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA.

La Bibbia, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento, invita i peccatori alla conversione. Senza ravvedimento non si può accedere al regno di Dio. Il Concilio di Trento richiama il passo di Zac. 1, 3· a) La parola che nel Nuovo Testamento di solito e nel modo piu intenso indica l'esistenza della conversione è metanoia. Mentre questo termine nel greco profano indica di regola « cambiamento di sentimenti » o « pentimento » nella letteratura neotestamentaria, in armonia con il pensiero veterotestamentario e l'uso rabbinico, ha un significato assai piu ricco, simile a quello del termine « capovolgimento ». In tal modo traduce l'ebraico shub, attraverso la versione greca dei LXX. Il valore è quindi di « totale rovesciamento », di « conversione » dell'uomo sino nel suo intimo piu profondo (R. Schnackenburg). Il ravvedimento è la condizione primaria per l'ingresso nel regno di Dio. Dove questo regno viene predicato sgorga l'esigenza della metdnoia. Sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento tale esigenza è inculcata varia­ mente in armonia con i rispettivi momenti della storia sacra. b) Nell'Antico Testamento la me tanoia è predicata dai profeti. I meglio espressivi sono gli scritti di Amos ed Osea, di Isaia ed Ezechiele. Con parole veementi minacciano il divino giudizio al quale si può sfuggire soltanto per mezzo del ravvedimento, senza che sia invece sufficiente la tanto decantata origine abraoùtica o il comportarsi secondo la legge. Sul limitare del Nuovo Testamento Giovanni Battista chiama a peni­ tenza con parole dure, aspre e sconvolgenti. Si pone sulla medesima linea dei profeti antichi, ma da essi si distingue per l'urgenza della sua predi­ cazione. Il che s'armonizza con la situazione del momento, poiché il regno di Dio è ormai alle porte. Chi non si ravvederà non parteciperà ai beni messianici, ma cadrà sotto il giudizio divino. Alle schiere che gli si affol­ lano attorno nei pressi del Giordano, il Battista cosi grida : « Convertitevi, ché il regno dei cieli è vicino » (Mt. 3, 2 4, 1 7). Ma cosi minaccia i farisei e i sadducei baldanzosi per la loro pietà : « Razza di vipere, chi vi ha inse­ gnato a sfuggire all'ira che sta per venire? Fate, dunque, un frutto degno della penitenza, e non crediate di poter dire dentro di voi : " Noi abbiamo per padre Abramo ", perché io vi dico che Dio può da queste pietre far sorgere figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi : ogni albero, dunque, che non fa buon frutto si taglia e si getta al fuoco. Io vi battezzo in acqua per la penitenza, ma colui che viene dopo di me è piu -

§

205.

LA CONVERSIONE DAL PECCATO

257

potente di me; a lui io non sono degno di portare i sandali. Egli vi bat­ tezzerà in Spirito Santo e fuoco : nella sua mano tiene il ventilabro e purgherà la sua aia, e raccoglierà il suo grano nel granaio; brucerà, invece, la pula con un fuoco inestinguibile » (Mt. 3, 7-12). Il Signore nel tenere il suo giudizio non avrà riguardi a distinzioni raz­ ziali o classiste; egli vorrà vedere azioni e non solo udire dei puri suoni verbali. La predicazione del Battista ha quindi un tono squisitamente so­ ciale : « Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne possiede, e simil­ mente faccia chi ha mezzi di vivere » (Le. 3, I I). La predicazione sulla metcinoia e la sua attuazione da parte degli udi­ tori avevano la loro espressione sensibile nel battesimo conferito da Gio­ vanni (Mc. I, 4; Le. 3, 3). Con tale gesto si voleva indjcare la propria prontezza nei riguardi della metcinoia. Chiunque attuava la conversione totale raffigurata nel battesimo giovanneo, aveva parte alla grazia del pros­ simo regno di Dio. c) Anche Geso iniziò il suo ministero pubblico con un richiamo al ravvedimento : « Il tempo è compiuto, il regno di Dio è prossimo, conver­ titevi e credete all'evangelo » (Mc. I , 1 5). In questa proposizione che sintetizza il senso della vita, della predicazione e dell'opera di Cristo, il Salvatore pone il regno, la signoria divina, che è regno di verità e d'amore, in intimo rapporto con il ravvedimento dell'uomo. Ora è finalmente giunto il tempo della decisione predetto dai profeti e ultimamente da Giovanni Battista. Il tempo è compiuto. Chi trascura quest'ora perseverando nel modo precedente di vita, rimane escluso per sempre dal regno di Dio. La conversione ha quindi un'importanza vitale per il destino dell'uomo. Con la esigenza del ravvedimento viene addossata all'uomo una grave responsabilità. Dalla sua decisione di attuare o di trascurare tale conver­ sione dipende il poter partecipare al regno della verità e dell'amore oppure il cadere sotto la condanna divina. Il regno della verità e dell'amore si istaura nell'uomo, ma solo quando questi liberamente vi si sottopone. Tale regno può essere accolto veracemente solo quando l'individuo giudica le realtà non con misura intraterrena, bensi con quella divina. È quindi un incomprensibile rifiuto quello di non ascoltare il richiamo di Gesu Cristo : « I Niniviti risorgeranno nel di del giudizio insieme con questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono; ed ecco che qui vi è pio che Giona » (Mt. I2, 4 I ; Le. I I, 32). Che in Geso vi sia pio che Giona, che in lui siano presenti il potere regale e l'attività del Messia inviato da Dio per la salvezza umana, si può dedurre dalle opere grandiose che egli compie. Perciò coloro che non si ravvedono

P. II.

-

LA GRA.ZIA

sono inescusabili : « Guai a te Corozain ! Guai a te, Betsaida ! Perché se in Tiro e Sidone fossero stati fatti i miracoli che sono stati fatti in voi, già da tempo nel cilicio e nella cenere avrebbero fatto penitenza. Ebbene, io vi dico che nel giorno del giudizio Tiro e Sidone avranno sorte migliore della vostra » (Mt. I I, 2I s; Le. Io, I 3). L'esigenza della conversione è annunziata da Cristo a tutti gli uomini. In modo particolarissimo il Maestro si rivolge ai sedicenti pii, a quelli che si credono giusti per proprio conto, cioè agli « ipocriti ». Nella parabola del fariseo e del pubblicano (Le. 1 8, Io-q), Gesu raffigura tanto la vera e genuina metanoia, quanto il comportamento di chi, credendosi giusto e superiore agli altri, si rifiuta ad essa. Agli occhi di Cristo tutti gli uomini sono dei peccatori bisognosi di ravvedimento. Quando gli fu riferita la uccisione dei Galilei sull'altare dei sacrifizi, egli respinge l'opinione ch'essi fossero stati peccatori piu degli altri, e perciò castigati con la morte : « Credete che quei Galilei, perché cosi malcapitati, erano peccatori piu di tutti i Galilei? No, vi dico; ma se non vi ravvedete, rutti ugualmente perirete » (Le. 1 3, 2). La richiesta della metanoia indica ciò che Cristo intendeva per conver­ sione. Questa include un duplice elemento, negativo l'uno e positivo l'altro. aa) L'aspetto negativo consiste nel distacco totale senza alcuna riserva da tutto ciò che è peccato e che è contro Dio, dall'egoismo e dalla su­ perbia. Ciò che nel peccato vi è di attaccamento disordinato alle creature a motivo dell'egoismo, dell'amore proprio e dell'orgoglio viene eliminato con il ravvedimento. Nel peccato l'uomo dimentica Dio, anzi gli si oppone, elevando il mondo o se stesso al posto di lui; nella conversione il mondo e l'io sono rimessi al loro giusto posto, e cioè considerati in dipendenza da Dio. Chi si decide a ravvedersi, è pronto ad accogliere Dio per quel che è, ossia come il Signore assoluto dell'universo. È disposto a rinunciare a ciò che è contabile e ponderabile, misurabile e palpabile per aderire invece all'incomprensibile e all'invisibile. bb) L'aspetto positivo della conversione richiesta da Gesu Cristo è dato dalla fede. Consiste questa nel sottoporsi al volere sovrano di Dio, e nel riconoscere Gesu Cristo come il Messia inviato dal Padre; nell'accettare l'avvenire, ora invisibile, di un nuovo cielo e di una nuova terra, promesso già ad Abramo e garantito finalmente dal Cristo. Gesu esprime quel che si intende per metanoia con l'immagine del fanciullo : « Se non vi ravvedete e non diverrete come dei fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli » (Mt. I 8, 3). Colui che per mezzo del Cristo vuole salire al Padre, deve

§ 205. LA CONVERSIONE DAL PECCATO

259

avere l'ingenuità, la semplicità, il candore, la docilità, la fiducia del fanciullo. cc) Sono invece contrari alla conversione il desiderio del danaro, la brama della potenza, della stima, del piacere sensibile (cfr. la parabola del banchetto nuziale in Le. 14, 1 2-24 ; la parabola dei cattivi vignaiuoli in Mt. 2 1 , 33-46; Mc. 1 2, 1-12; Le. 20, 9-19). All'opposto la via che ci trae fuori dal mondo per condurci al regno di Dio, sta nella preghiera, nel digiuno, nelle veglie e nel distacco dai piaceri terreni (Mt. 1 7, 20), non in quanto queste opere sono un semplice esercizio di buona volontà, ma in quanto sono confessione della muta­ bilità e transitorietà delle cose terrene e della immutabilità dei beni futuri del regno di Dio. Il convertito non deve prodigarsi per i beni di questo mondo, beni che le tarme e le tignuole divorano e che i ladri derubano, bensi per i tesori del cielo (Mt. 6, 19-2 1 ; 1 3, 44-46). Non piu il suo interesse, ma la vo­ lontà di Dio deve essere la norma delle sue azioni (Mt. 6, 10). Nel sermone sul monte (Mt. 5, 4- 10) Cristo sottolinea la caducità dei beni, della potenza, della sicurezza e della vita di questo mondo per esaltare quei valori, quelle ricchezze, quella pace, quella soddisfazione, quella vita che si possono solo godere nel regno di Dio. Una tale conversione, secondo quanto ci afferma Cristo (Le. I I, 26), avviene una volta sola, ma deve essere di continuo rinnovata e difesa. Ha come frutto una giustizia del tutto nuova e « superiore » ed include la volontà di tendere alla perfezione e di amare Dio e il prossimo di tutto cuore (cfr. § 2 1 7). Dal momento che la conversione è tanto difficile e cosi grave di con­ seguenze si capisce come essa rechi grande gioia in cielo. Cristo paragona tale gioia a quella che prova una donna nel ritrovare una dramma per­ duta e un povero pastore nel ritrovare una pecora smarrita. Per un pec­ catore che si converte si fa in cielo maggior festa che non per novanta­ nove giusti che si conservino tali (Le. 1 5, 4-10). La genuina metanoia trascende le sole possibilità umane. Sua princi­ pale difficoltà od ostacolo è la potenza demoniaca delle ricchezze. Cristo paragona tale difficoltà a quella di un cammello che voglia passare per la cruna di un ago. Ma ciò che riesce impossibile per forza naturale lo si può compiere con l'aiuto della grazia divina. Ai discepòli sconcertati al sentire tale paragone, Cristo rivolge l'assicurazione : « Ciò che non è possibile all'uomo, lo è invece per Dio » (Mc. IO, 25-27). La conversione può essere attuata dall'uomo solo nella luce e nella

P. Il.

260

-

LA GRAZIA

forza dell'amore divino, ma ciò non esclude la sua responsabilità. Infatti la grazia divina penetra solo in colui che gli si schiude. Mediante la pro­ clamazione del regno di Dio e la predicazione della

metanoia, l'uomo è

invitato ad accogliere nel suo cuore la conversione che viene operata da Dio stesso. Solo chi ne

è pronto lo riceve a sua salvezza. Anche gli altri

vedono la parola dell'amore pronunciata da Cristo, vedono le opere da lui compiute, ma i loro occhi rimangono ciechi, i loro orecchi sordi e il loro cuore chiuso (Mt. 1 3, 1 4- 1 7). cl) Gli

Apostoli e la Chiesa primitiva hanno accolta e diffusa l'esor­ tazione di Cristo alla metcinoia. Ne abbiamo varie testimonianze nel libro degli Atti. La metanoia è per loro un capovolgimento di tutto l'uomo, è un accostarsi a Cristo che chiama gli uomini, è un avvicinarsi alla sal­ vezza recata da Dio (Atti 3, 19 ; 26, 20). Con particolare accento gli Apo­ stoli esigono la fede in Gesti Cristo come inviato dal Padre e realizzatore del regno divino (Atti 20, 2 1 ; 26, 1 8 . 20). La conversione comprende lasciare il peccato, accogliere il Mediatore di salvezza che

è Cristo e voler entrare nella comunità salvifica da lui 3, 19). Perciò Pietro esorta gli Ebrei che, udito il suo

fondata (Atti �� 22;

sermone, gli hanno chiesto che cosa dovessero fare :

« Ravvedetevi e

ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesu per la remissione dei vostri peccati » (Atti 2, 38). Diverso

è il tono con cui la Chiesa primitiva ha predicato la metcinoia

ai Giudei e quello con cui l'ha insegnata ai gentili. I membri e i condot­ tieri giudaici hanno respinto, sino a provocarlo ad ira, l'Iddio che loro donava salvezza, avendo crocefisso colui ch'egli aveva loro inviato. Essi devono quindi riconoscere il loro torto e pentirsene. Devono porre la loro speranza nella seconda venuta del Salvatore « perché possano venire da parte del Signore i tempi di refrigerio, ch'egli vi mandi Gesu Cristo a voi predicato che il cielo terrà accolto fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose » (Atti 3, 20). I pagani, invece, sono esortati a ravvedersi a motivo del giudizio futuro, che Gesu Cristo deve attuare su tutto l'universo (Atti 1 7, 30 s.). A coloro che si lamentano perché Gesu temporeggia, Pietro risponde che Cristo

è paziente e non vuole la dannazione di alcuno, ma attende

che tutti si ravvedano (2 Piet. 3, 9).

è considerata in pari tempo 5, 3 1 ; I I, 38). e) Presso Giovanni e Paolo non appare la parola metcinoia benché

Anche nel libro degli Atti la conversione

sia come dono di Dio sia come atto dell'uomo (Atti

se ne trovi la realtà fortemente accentuata con altre formule.

§

205.

LA CONVERSIONE DAL PECCATO

261

Paolo oppone la precedente vita del peccato alla attuale creata nel bat­ tesimo e caratterizzata da purezza e santità. Ne dobbiamo ringraziare Dio poiché tale mutazione d'un peccatore in un giusto è suo dono. L'atto trasmutante di Dio raggiunge tuttavia il suo fine solo in colui che volge le spalle alla impudicizia e alla impurità, alla intemperanza e alla cupidigia (2 Cor. 12, 21). L'uomo può anche opporsi a tale ravvedimento (Rom. 2, 5) poiché la bontà di Dio lo sospinge senza però affatto costringerlo (Rom. 2, 4). Paolo esorta i lettori a camminare nello spirito della purezza e della santità di cui divennero partecipi (Gal. 5, 25 ; Rom. 8, 12 s.) distac­ candosi dalla vita « carnale » propria dell'uomo vecchio. I battezzati sono morti al peccato e non possono piu vivere in esso (Rom. 6). Paolo scon­ giura i Corinti : « Siate riconciliati con Cristo » (2 Cor. 5, 20) e cosi consiglia Timoteo : « E le stolte e incivili dispute evitatele, sapendo che generano contese. Un servo del Signore non deve litigare ma essere affa­ bile con tutti, bravo a insegnare, paziente, tale che con mitezza ammaestri quelli che gli si schierano contro, se mai conceda loro Iddio il pentimento per riconoscere la verità, e ritornino in sé liberandosi dai lacci del dia­ volo, che li aveva fatti prigionieri perché eseguissero la volontà sua » (2 Tim . 2, 23-26). Paolo racchiude tutte le sue esortazioni nel concetto di fede. Dal che si deduce che per lui la conversione è una grazia di Dio. f) Anche nel Vangelo di Giovanni manca del tutto il termine meta­ noia, ma quello che esso significa è incluso nell'idea comprensiva di fede. La fede denota il comportamento nel quale l'uomo si distacca da tutto ciò che è contrario a Dio, cattivo e tenebroso, per rivolgersi alla salvezza apparsa con Cristo, alla luce e alla vita da lui promanante (Gv. 3, 36 ; 8, 5 1 ; 1 2, 47 ; 1 4, 2 1 . 23). « Chiunque opera il male odia la luce e non viene alla luce, perché le sue opere non abbiano ad essere manifeste. Chi invece compie la verità, viene alla luce ». Su quanti amano le tenebre sovrasta l'ira di Dio. Questa diverrà manifesta non appena il Signore tornerà dalle nubi. Ma è già fin d'ora operante. Infatti l'invito al ravvedimento e all'ingresso nel regno di Dio è proprio l'inizio della salvezza e del giudizio. Chiunque non lo accoglie è di già condannato (Gv. 3, 1 8). Chiunque rifiuta la luce che lo deve illuminare diviene totalmente cieco; chi disdegna l'amore che lo vuole infiammare, finirà con l'indurirsi definitivamente (Gv. 9, 39). g) L'ultimo appello alla conversione viene pronunziato nel Nuovo Testamento dall'Apocalisse di Giovanni. Si rivolge a quei battezzati nei ,

P. Il.

-

LA GRAZIA

quali l'amore si era intiepiclito e raffreddato. Richiamandosi al giudizio finale, l'autore con limpida chiarezza e vibranti oarole esorta al ravvedi­ mento di fiacchi e i tiepidi. Richiama le singole Chiese a rinnovare per il ritorno di Cristo Gesu la piena dedizione di un tempo, se almeno vogliono sfuggire alla condanna. « Ma ho contro di te che hai abbandonato

il tuo

primo amore. Ricordati dunque da dove tu sei caduto, e ravvediti e fa'

il tuo candelabro dal ti ravvedi » (A"Joc. 2, 4 s. ; cfr. 2, r 6 ; 2, 2 1 ; 3, 3 ; 3, 19).

le opere di prima. Se no, verrò da te e rimuoverò suo posto, se non

Naturalmente il veggenre deve spesso constatare che gli uomini, a dispetto dei piu gravi eventi e delle prove divine, sono condotti non al ravvedi­ mento bensi ad una piena opposizione a Dio (Apoc. 9,

20 s. ; r6, 9. 1 1).

Ma coloro che si lasciano condurre al pentimento e sopportano con spirito ravveduto le sofferenze sovrumane del tempo finale e le procelle suscitate dall'inferno e dalle sue potenze, ap?artengono alle schiere dei vincenti

il dominio nel futuro regno di Dio. Cfr. R. Schnackenburg, Typen der Metanoia-Predigt im Neuen Testament, in Munchener Theol. Zeitschr., 1, 1950, IV, r-13. ed hanno

IV. - DOTTRINA DEI PADRI. Nell'epoca patristica la serietà della conversione emerge dalla crea­ zione del catecwnenato e della disciplina penitenziale (si cfr. per questo

il trattato sul sacramento della penitenza). Agostino cosi scrive nel commento al Vangelo di Giovanni (In Ioan. tract. 12, 13; PL. 35, 1491) : « Dio accusa i tuoi peccati; se anche tu li accusi, ti unisci a lui. Vi sono in noi come due cose distinte : l'uomo e il peccatore. Come uomo siamo opera di Dio, come peccatori siamo opera di noi stessi. Annienta ciò che tu hai fatto perché Iddio salvi ciò che ha farro lui. D evi odiare in te la tua opera ed amare l'opera di Dio. Quando cominci a pentirti di ciò che tu medesimo hai fatto, allora cominci a bene operare poiché biasimi le tue opere malvagie. L'inizio delle opere buone è la confessione delle opere cattive. Tu fai la verità e pervieni alla luce. Che significa : fai la verità? Che tu non ti rendi bello, non ti lusinghi, non ti aduli, non dici : sono giusto, mentre sei ingiusto. In tal modo cominci a fare la verità. Tu pervieni cosi alla luce, affinché le tue opere siano manifeste, poiché esse sono compiute in Dio. E anche l'esserti pentito del tuo peccato è dipeso dalla illuminazione di Dio e dalla manifestazione della sua verità. Ma chi, avvertito, persevera nel peccato, odia la luce ammonitrice e la fugge perché essa condanna le sue opere cattive che egli ama. Chi invece fa la verità riprova il suo proprio male, non si risparmia, non si perdona, perché Dio lo abbia a perdonare. Infatti ciò di cui desidera il perdono da parte di Dio egli lo riconosce e cosi viene all!Jongono al movimento suscitato da Cristo nel giustificato. Un'opposizione ancora maggiore na­ scerebbe da un'azione contraria a Dio. 3 . Va ora meglio chiarita la natura dell'azione a cui tende la comunione con Cristo. Come già vedemmo, l'uomo in stato di grazia è dominato da Cristo. L'io di Cristo lo dirige. Egli esiste « in Cristo ». Tale vincolo con Cristo avvolge tutto l'uomo. Domina e pensiero e amore umano. Il Cristo glorioso, che domina l'uomo in stato di grazia, cerca di esprimersi in certo qual modo nell'azione del credente, la quale perciò è un atto com­ piuto da Cristo nell'uomo e per mezzo dell'uomo (Ef. 2, Io). Cristo è, quindi, il nuovo principio d'essere e anche il nuovo principio d'azione del giustificato e, questo, non solo nel senso che l'amore per Cristo è, per chi opera, motivo del suo agire, ma per il fatto che lo stesso Cristo è colui che produce l'azione dell'uomo in stato di grazia. Il giusti­ ficato in ultima analisi compie tutto ciò che fa in virtu di Cristo (Mt. IO, 39 ; I 8, 8 ; Col. 3, Io), ossia in virtu del Padre che a noi si unisce mediante Cristo (Rom. 6, IO s. ; I4, 7 s.). Ma egli compie tutto ciò che fa anche in unione con Cristo. Cristo è il principale agente in ogni atto. A lui -

§ 217. SVOLGIMENTO DELLA UNIONE CON DIO NELL'AZIONE UMANA

32 7

spetta l'iniziativa. Ogni azione dell'uomo in stato di grazia è un'azione di Cristo. Ma con ciò non si distrugge affatto la libertà dell'uomo, anzi non la si pone nemmeno in pericolo, dato che essa si attua proprio per la virru di Cristo. La collaborazione e compenetrazione dell'attività di Cristo e della libertà umana costituiscono un mistero insolubile, che è una espressione del mistero dell'unione dei cristiani con Cristo. Per meglio determinare questo stato di cose dobbiamo dire che la li­ bera azione dell'uomo in stato di grazia è prodotta dal Padre per mezzo del Cristo nello Spirito Santo. Nel processo e nello stato di giustifica­ zione l'uomo per mezzo di Cristo nello Spirito Santo è condotto al Padre. Ma non termina qui il movimento in cui il giustificato è introdotto. Egli, in certo senso, è qui risospinto da un movimento contrario che procede dal Padre e per mezzo di Cristo perviene allo Spirito Santo e tende ad esplicarsi nell'uomo. Cfr. la dottrina della grazia attuale. 4. Poiché, in via ordinaria, la partecipazione alla vita divina si attua con il battesimo, l'azione dell'uomo giustificato è, normalmente, lo svol­ gimento della realtà che è stata creata con il battesimo stesso (cfr. il trat­ tato sui Sacramenti). Siccome è Cristo vivente nella Chiesa che agisce nell'uomo giustificato, si può anche dire che la Chiesa è il soggetto del­ l'azione. Ciò che il singolo compie è avvolto e sorretto dalla comunità. La comunità di tutti coloro che mediante Cristo sono uniti a Dio nello Spirito Santo, opera nell'azione dei singoli, è presente e attiva in ogni individuo. L'io singolo vive avvolto nell'io piu grande della Chiesa, ossia di Cristo che continua ad agire nella Chiesa. -

' II. - L AZIONE DEL CRISTIANO COME TESTIMONIANZA DI CRISTO.

5. Se Cristo opera nella nostra azione, ne consegue che questa è manifestazione, apparizione e rappresentazione di lui. Essa diviene cosi una testimonianza che il giustificato depone in favore della sua comu­ nione con Cristo. Nell'azione cristiana diviene visibile all'occhio credente la gloria del Cristo. Il cristiano deve essere una « lettera commenda­ tizia » per la rivelazione di Dio in Cristo, « conosciuta e letta da tutto il mondo » (2 Cor. 3 , 2 ; 4 , 2). Questa manifestazione di Cristo è natural­ mente sottoposta alla legge delle rivelazioni divine : si attua velatamente (Col. 3 , 3 s.). Essa quindi può suscitare scandalo (2 Cor. 2, 1 5). L'uomo che è tutto preso dalla gloria di questo mondo, non possiede alcuna facoltà atta a percepire la gloria di Cristo, quale si esplica e si manifesta nei -

P. II.

-

LA GRAZIA

giustificati ( r Gv. 3 , r). Il pericolo dello scandalo aumenta quanto piu il giustificato offusca quella gloria, normalmente già occulta, con peccati, egoismo, mancanza d'amore e di generosità. Gregorio di Nissa scrisse (in Illud : tunc ipse filius subicietur; PG. 44, 1321) : « Paolo dice in un passo dei suoi scritti : Sono crocefisso con Cristo; vivo, ma non io però, bensi è Cristo che vive in me. Se il Paolo crocefisso con Cristo, piu non vive, ma vive il Cristo in lui, allora le azioni e le parole di Paolo sono a ragione attribuite a Cristo in lui vivente. Lui stesso afferma di esprimere le parole di Cristo e lo prova ricordando tutte le grandi imprese da lui sostenute per la diffu­ sione del vangelo. Non dice che sono cose sue, ma le ascrive tutte alla grazia di Cristo che dimora in lui... Ciò che abbiamo detto di Paolo trova la sua applica­ zione anche a tutto il genere umano. Quando, come attesta il Salvatore, l'evangelo sarà predicato in tutto il mondo, allora tutti saranno svestiti delle opere del vecchio uomo e della loro malvagia concupiscenza, per essere rivestiti di Cristo. Il che necessariamente avrà per conseguenza che colui che in Cristo vive produrrà le opere buone fatte in lui da Cristo medesimo ». Agostino (In Ioan., tract. 72, 2) dice : « La fede in Cristo è opera di Cristo. È lui che l'attua in noi, certamente non senza di noi ». E nelle Confessiones (13, 37) : « E anche allora tu riposerai in noi come ora in noi operi; e sarà quello il tuo riposo per nostro mezzo, come queste sono le opere tue per mezzo nostro ». Altri passi patristici si possono rinvenire nello studio sul carattere escatologico dei sacramenti (cfr. § 233) e là dove si parla dell'azione dello Spirito Santo in noi (cfr. §§ 49-5 1 , I 6o , r 68, 1 84).

6. L'agire cristiano quindi non sta solo nell'adempimento di deter­ minati precetti, bensi anche nell'accettazione consapevole e voluta del­ l'azione di Cristo. Il peccato consiste nell'opporsi ad essa. Possiamo com­ prendere meglio quanto stiamo dicendo se riflettiamo che Cristo è l'amore del Padre resosi visibile ( § 1 4 1). Ogni azione di Cristo è un atto d'amore. Tutta la sua vita è svolgimento dell'amore del Padre palesatosi in lui. Nulla si trova nella sua vita che non rechi l'impronta dell'amore. Quando Cristo agisce nell'uomo, in lui è l'amore che opera. Questa riflessione acquista maggior vigore se si pensa che Cristo agisce in noi con la forza dello Spirito Santo (cfr. § r68). Ora lo Spirito Santo è l'amore personale che unisce Padre e Figlio. Cristo, l'amore del Padre fattosi visibile, opera in noi e per noi con una forza che è essa stessa amore personale. In tale modo l'amore, proprio l'amore che si effonde e si dona, è il primo e piu profondo principio d'azione nell'uomo in stato di grazia e questo, lo dobbiamo ribadire, non solo nel senso che esso è il movente decisivo dell'atto, ma nel senso che è potenza divina personale determi­ nante all'azione. Se l'uomo non le si oppone, ma con libera decisione -

§

217.

SVOLGIMENTO DELLA UNIONE CON DIO NELL'AZIONE UMANA

329

l'accoglie e la lascia agire, allora l'atto umano è necessariamente un atto d'amore. Come l'amore di Dio si manifesti in Cristo lo vediamo dalla sua vita. Con essa ci ha palesato quale sia l'amore divino, sicché, da questo mo­ mento, non c'è piu bisogno di studiare e di ricercare come sia in se stesso l'amore divino che è diverso da quello umano. Esso è quale si è palesato in Cristo : è l'amore che si dona e che si sacrifica.

' III. - L AGIRE CRISTIANO COME IMITAZIONE DI CRISTO.

7.

Siccome Cristo opera in noi in modo invisibile e nascosto, se vo­ gliamo conoscere come agisca e come dobbiamo accogliere in noi il suo influsso occorre guardare agli esempi della sua vita terrena. Cristo è la misteriosa causa efficiente e nello stesso tempo la causa esemplare, l'esempio luminoso della nostra azione, sicché tutto l'agire cristiano è una imitazione di Cristo. Cristo è simultaneamente mysterium et exemplum. Sarebbe una visione unilaterale quella di ritenerlo o solo un mistero o solo un esempio : è l'uno e l'altro insieme. (La teologia dell'attività umana, ossia la teologia morale, è quindi la dottrina dell'imitazione di Cristo, ossia dell'amore che si esplica nella imitazione di Cristo. Il prin­ cipio oggettivo della morale cristiana è Cristo, ossia l'amore poggiante su Cristo. La sequela di Cristo non è una parte della dottrina morale, ma il principio da cui sgorga tutto il resto e anche il centro che tutto include e compendia; cfr. Fr. Tillmann, Katholische Sittenlehre). Imitare Cristo non vuoi dire ricopiare tutti i minimi particolari della sua vita, ma compiere ogni cosa con quel medesimo sentimento con il quale Cristo trascorse i suoi giorni terreni : il sentimento dell'amore che si dona e sacrifica. I singoli tratti della sua vita ci manifestano il suo amore; alcuni esempi ci dicono come esso opera. (Le azioni di Cristo sono certamente piu che puri esempi. Sono principalmente misteri di sal­ vezza ma sono pure degli esempi. Cfr. la dottrina del carattere escato­ logico dei sacramenti). Siccome Cristo che esplica la sua attività nel giustificato è nascosto, ne consegue che il principio di ogni azione non è l'amore beato nella visione di Cristo glorioso, ma l'amore che fermamente spera in lui. L'amore operante nella oscurità della fede che spera e nella forza della speranza che crede è quello che dà forma e figura a tutto l'agire cristiano. Cfr. lo studio sulla fede, la speranza e la carità. -

330

P.

II. - LA GRAZIA

IV. - DOTTRINA DELLA SCRITTURA.

8. La Scrittura richiede di continuo che il cristiano agisca in modo conforme al suo nuovo stato. Tale esigenza si esprime come seria minaccia sul labbro di Cristo (Mt. 7, 2 1 -23) e prosegue attraverso tutte le lettere apostoliche. Queste in gran parte sono scritti parenetici e se parlano della nuova vita lo fanno d'ordinario solo per inculcare la necessità e l'impor­ tanza di un nuovo comportamento ad essa adeguato. Il modo d'agire del vecchio uomo non ancora giustificato è carnale, egoistico e mondano. Da queste opere morte il cristiano deve ritrarsi, cosi come egli è reso libero dall'esistenza mortale (Ebr. 6, 1 -3). L'uomo giustificato è dominato dall'amore di Cristo (2 Cor. 5, 14-21). È SOSJJinto dallo spirito e non dalla carne, ma non dal suo s:�irito soggiacente alla legge dell'egoismo, bensi dallo Spirito Santo che è amore (Gal. 5, 25). I figli di Dio devono vivere come figli di Dio e gli amici di Dio come amici di Dio. Colui che è vincolato a Cristo non può piu agire secondo il proprio capriccio, ma deve dare i frutti di Cristo, deve agire alla maniera divina e non a quella umana (1 Cor. 3, 3 ; Gal. 5, 22; 6, 2 ; Rom. 8, I-I7)­ Còloro in cui si è stabilita la signoria di Dio devono apparire dei cittadini e dei messi celesti. Dalla loro veracità e fedeltà, dal loro amore e dalla loro giustizia deve divenire visibile e credibile in questo mondo, che pure tanti segni reca dell'inferno, il cielo. Il comportamento dei giustificati verso gli altri uomini, il mondo, il matrimonio, la società e i beni terreni deve essere determinato dal vincolo esistente con Cristo (Rom. 6 ; 7, 4-6 ; 8 ; I Cor. 6, IO. I4-3 3 i 1 2 ; I 3 i 1 5 , 58 ; Gal. 3, 3 i s, I 6 ; 6, ro; Ef. 4· 2-5· I5-3 2; 5, I ss. ; Col. 3 ; Fil. 4, I ; I Tim. 6, 12). La nuova esistenza importa dunque un nuovo dovere. Il cristiano deve palesare nella sua vita la gloria in cui è stato battezzato. L'importanza di questo nuovo dovere appare dalla arditezza e dalla energia con cui Paolo formula i suoi ammonimenti riguardo a questa nuova vita, prove­ niente dal Cristo nello Spirito Santo, quasi che i lettori non l'avessero ancora ricevuta. Egli attesta che il nostro vecchio uomo è stato crocefisso con Cristo e che la carne del peccato è stata annientata (Rom. 6, 6) e tut­ tavia scongiura a spogliarsi dalle azioni del vecchio uomo (Col. 3, 9 ; Ef. 4 , 22). Afferma che gli appartenenti a Cristo hanno crocefisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri (Gal. 5, 24 ; Rom. 8, 9), eppure raccomanda di uccidere ciò che nelle nostre membra è ancora terrestre (Col. 3, 5) e di non ubbidire agli stimoli della carne (Rom. I 3, 14). Assi-

§ 217. SVOLGIMENTO DELLA UNIONE CON DIO NELL'AZIONE UMANA

33I

cura che chi esiste in Cristo è una nuova creatura (2 Cor. 5, I 7), ma scon­ giura i lettori a rivestirsi dell'uomo nuovo (Ef. 4, 24; Col. 3, IO). Ci garan­ tisce che il Cristo dimora nei cristiani (Rom. 8, I o ; Gal. 2, 20; Fil. I , 2 I ; Col. I , 27) ; e augura agli Efesini che Cristo dimori nei loro cuori (Ef. 3, I ]). La tensione tra le frasi indicative e imperative rivela la tensione e la coerenza tra il nuovo essere e il nuovo dovere dei cristiani. L'apparte­ nenza a Cristo deve avvolgere e permeare tutto il pensiero e il volere del­ l'uomo, finché Cristo in lui operante ricolmi ogni suo sentimento e sia in lui formato (Gal. 4, I 9 ; Ef. 4, I 3 s.).

V. - DOTTRINA DEI PADRI. 9 . Nell'epoca patristica si insegna tanto la necessità delle buone opere quanto la loro relazione a Cristo. Ignazio ad esempio scrive agli Efesini (c. I 4) : « Chi professa la fede non commette il peccato e chi possiede la carità non odia. Come l'albero si conosce dai suoi frutti, cosi coloro che si dicono discepoli di Cristo si conosceranno dalle loro opere. Poiché ora non è questione di professare la fede con le parole, ma di perseverare nella pratica di una fede viva e operosa per essere trovati fedeli sino alla fine ». Vedi particolarmente la lettera a Diogneto. Cipriano nel suo De habitu virginum, n. 7 afferma : « Occorre sforzarsi di tendere alle cose eterne e divine e di fare in tmto la volontà di Dio, seguendo le orme e gli insegnamenti di nostro Signore Gesu, che ci ammoni dicendo : Scesi dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha inviato. Che se il servo non è maggiore del padrone e se il redento deve obbe­ dienza a colui che lo ha liberato, noi che vogliamo essere cristiani, dob­ biamo praticare ciò che Cristo ha detto. È scritto e leggiamo e udiamo di frequente quanto viene pubblicamente a nostra edificazione procla­ mato nell'insegnamento della Chiesa : colui che professa di essere in Cristo deve pure c amminare come egli ha camminato. Bisogna dunque cammi­ nare sulle sue stesse orme, gareggiare insieme tutti per seguirlo. Allora si che la veracità della vita cristiana corrisponderà pienamente alla ga­ ranzia del nome di cristiano » (PL. 4, 459). -

VI. - AMORE E LEGGE. 10. Quando si afferma che l'amore apparso in Cristo e da Cristo susci­ tato nei nostri cuori è principio dell'azione morale, non si deve pensare -

33 2

P. II. - LA GRAZIA

che i precetti e la legge siano per questo messi fuori uso o sminuiti ; essi vengono invece rafforzati (cfr. § 193). L'amore verso Dio si esplica in Cristo stesso nell'obbedienza verso la volontà del Padre suo (Gv. 6, 38; Fil. 2, 8). Anche in coloro che gli sono uniti si esprime nel « si » ubbi­ diente alla legge del Padre celeste (Fil. 2, 5-12). Poiché questa legge è Cristo stesso. I precetti sono manifestazione dell'amore divino. In essi Dio rivela, con un amore che liberamente si effonde, la sua gloria sotto aspetti sempre nuovi chiamandoci ed esortandoci ad entrare in essa. Ciascun precetto è un richiamo dell'amore di Dio, perché abbiamo a penetrare nella gloria divina che si manifesta in quel tale comandamento, ad esempio nella ric­ chezza di Dio (7 ° comandamento), nella vita di Dio (5" comandamento) e nella comunione con lui (6° comandamento). La volontà di Dio perviene a noi in Cristo. L'ubbidienza alla volontà del Padre, resaci manifesta nel Cristo, è sempre un nuovo modo per svi­ luppare il nostro amore verso Dio. Osservando i precetti accogliamo l'ap­ pello del divino amore che si è incarnato in Cristo. Amore e legge non si oppongono come due nemici, ma si condizionano mutuamente. La legge è una rivelazione del divino amore e l'ubbidienza è per l'uomo un modo d'amare. Di qui sgorga il retto ordine nei rapporti tra legge e amore. L'amore domina la legge, ma la legge non domina l'amore. L'amore è quello che informa l'agire del cristiano. Si vede da questo che i comandamenti non sono affatto contrari alla natura dell'uomo. Non provengono dal suo intimo, ma non contraddicono alla sua essenza. L'adempimento dei precetti da parte di chi è in stato di grazia sta al di sopra dell'antitesi , 35, 1948, 92 ss. - IDEM, Gregor von Nyssa, Der versiegte Quel!, 1939· - S. BARBALATO, La dottrina della grazia in S. Cipriano, Roma 1953. - K. BARTH, Die Botschaft von der jreien Gnade Gottes, Stuttgart 1948. - B . BARTMANN, Des Christen Gnadenleben, 1921. - 0. BAUHOFER, Maske und Ebenbild, Luzem 1 950. - 0. BECKER, SS. CC., Die Gnadenlehre des Duns Scotus nach den theol. Disputationen des Barth. Mastrius, Oberlahnstein 1949. - BL. BERAZA, Tractatus de gratia Christi, 1 9 1 6. - G. C. BERKOUWER, De Tn'omf der gnade in de theologie van Karl Barth, Kampen I954· E. BERRAR, La grdce, in G L'année théol. •>, 1 944, 5 12-5 16. - S. BIRNGRUBER, Das Giittliche im Menschen, Graz 1 948. - r. BoNNETAIN, Grace, in III, 70I-13 19. - ros. BoNSIRVEN, S. 1., Exégèse Rabbinique et Exégèse Paulinienne, Paris 1939· H. BoRNKAMM, Luther und das Alte Testament, Ttibingen 1948. - C. BoYER, Divi Augustini de correptione et gratia secundum textum Maurinorum, Romae 1932. - IDEM, Le système de saint Augustin sur la grdce d'après le De correptione et gratia, in « Rech. se. rel. e, 20, 1931, 481 -505. IDEM, Tractatus de gratia divina, Romae 1938. - r. BRINKTRINE, Die Lehre von der Gnade, Paderborn 1957. - R. BRUCH, Die Urgerechtigkeit als Rechtheit des Willens nach der Lehre des hl. Bonaventura, in « Franz. Stud. e, 33, 1951, r 8o-2o6. - E. BRUNNER, Natur und Gnade . Zum Gesprdch mit Karl Barth, Ttibingen 1935 (protestante). - M. CANDAL, In­ novaciones palamiticas en la doctrina de la gracia, in « Miscellanea Giov. Mercati *• III,

Rupe/la benutzt?, in « Franz. Stud.

•>,

Gnadenlehre des Alexander von Hales, in « Schol.

-

-

-

BIBLIOGRAFIA

65-103, 1 946. - V. CAPANAGA DE S. AGUSTiN, La teologia Agustiniana de la gracia y in ), 1 950, 59-85. - C. COLOMBO, De gratia, Venegono 1956. - Concilium Tri­ dentinum, edito dalla Gorresgesellschaft, 1901 ss. - W. R. O'CONNOR, A new Concept of Grace and Supernatural, in ), 98, 1938, 401-413. M. CoRTI - M. BAT­ TAGLIERI, Vivere in Cristo, Roma 1951. - M. CoRVEZ, O. P., Gratia Christi, in RTh 48, 1948, 525-537. - M. DAFFARA, O. P., De Gratia Christi, Taurini-Romae, Marietti 1950. - J. M. DALMAU, S. 1., San Agustin en la Teologia de la gracia de Suarez, in « Est. Ecl. >), 22, 1948, 339-374. - IDEM, Notas criticas sobre la interpretacion de la doctrina agustiniana de la gracia, in ), 17, 1943, 5-3 1 . - F. DANDER, S. 1., Summarium tractatus dogmatici de gratia Salvatoris, Oeniponte 1953· - J. DANIÉLOU, S. 1., Les divers sens de l' Ecriture dans la Tradition chrétienne primitive, in ), Ser. II, fase. 6, Paris-Louvain 1948. - TH. DEMAN, O. P., Saint Thomas d'Aquin, théologien de la grO.ce, in ), 19, 1 949, 66*-79*. - IDEM, La théologie de la gr6.ce, in ) (lnternationaler Augustinuskongress 1954), 3, 247-263 . - H. DENIFLE, Luther und Luthertum, Mainz 1906. - P. DENIS, O. P., La révélation de la grdce dans saint Pau/ et dans saint Jean, Liége, Pensée catholique, 1948. - M. P. VAN D1JK, Existentie en Genade. Grondgedachten en samenhangen in de Kirchliche Dogmatik van Karl Barth, Franeker 1952. - H. DoMs, Die Gnadenlehre des seligen Albertus Magnus, Breslau 1 929. - P. DUDON, Le gnostique de saint Clément d'Ale­ xandrie, Paris 1930. - P. DUMONT, Le surnaturel dans la théologie de S. Augustin, in RSR II, 1931, 5 1 3-542. - IDEM, Le surnaturel dans la théologie de Saint Augustin : l. Réalité du surnaturel, Il. Gratuité du sumaturel, in RSR 12, 1932, 29-55, 194-219. - IDEM, Le caractère divin de la grO.ce d'après la théologie scolastique, in RSR 13, 1933, 325-352. - J. DUPONT, O. S. B., Gnosis, Louvain-Paris 1949. - F. X. DURRWELL, La Résurrection de Jésus, Paris 1950. - A. FARNE, A. A., La notion de la grO.ce chez le Docteur Angélique, in « L'Année théol. >), 6, 1945, 426-440. - MGR. FEIGE, Noblesse oblige. La GrO.ce sancti­ fiante, Paris 1933· - C. FERNANDEZ, S. 1., La Gracia segun San Léon el Grande, Mexico 1951. - G. FEUERER, Begnadetes Leben, Regensburg 1939. - H. F1EDLER, Glaube, Gnade und Erlosung nach dem Christus der Synoptiker, Bern-Leipzig 1939. - A. FLE1SCHMANN, Die Gnadenlehre des Wilhelm Estius und ihre Stellung zum Baianismus, Kallmiinz 1940. J. B. FREY, Le concept de ) dans l'Evangile de s. Jean, in ), 1, 1920, 37-58, 2I I/39· - L. B. GILLON, 0. P., Théologie de la grdce, in ), 46, 1 946, 603612. - N. N. GLOUBOKOWSKY, Grace in the Greek Fathers, in The doctn"ne of Grace, London 1932, 61-86. - IDEM, The use and application of the Expression and Conception of Charis in the Greek Fathers, ivi 87-105. - W. GoossENS, De notione gratiae, in « Coli. Gand. >), 22, 1935, 8 1-83. - M. GRABMANN, Die Idee des Lebens in der Theologie des hl. Thomas von Aquin, 1922. - R. GROSCHE, Wenn du die Gabe Gottes erkenntest, 1930. R. GUARDINI, Unterscheidung des Christlichen, 1936. - C. GUTIERREZ, S. 1., Espafioles en Trento, Valladolid 1 95 1 . - A. Guzzo, Agostino e il sistema della grazia, Torino 1930. O. HARDMANN, Christian doctrine of grace, New York 1948. - L. HoDGSON, The Grace of God in Faith and Philosophy, London 1936. - FRIEDR. HtiNERMANN, Die Bedeutung des Konzils von Trient fur die Entwicklung der kath. Gnadenlehre, Bonn I 920. - K. JANSSEN, Die Entstehung der Gnadenlehre A ugustins, Rostock 1936. - CH. }OURNET, Entretiens sur la grdce, Bruges 1959. - J. A. }UNGMANN, Die Gnadenlehre im Apostolischen Glaubensbe­ kenntnis und im Katechismus, in ZkTh 50, 1926, I96-219. - W. KAHLES, Radbert und la historia de las conversiones,

-

-

BIBLIOGRAFIA Zwei Auspriigungen christlicher Frtimrnigkeit, 1938. - H. KARLEN, Die Gna­ Roma 1950. - A. KERKVOORDE, O. S. B., Scheeben et la grlice, in « Vie Spir. •>, 1939, 65-89. - AnoLF KoLPING, Die Lehrbedeutung der Enzykliken Mystici corporis Christi und Mediator Dei, Bonn 1949· - H. K6STER, Die Heilslehre des Hugo von St. Viktor. Grundlage und Grundzuge, 1941. - H. KiiNG, Rechtfertigung. Die Lehre Karl Barths und eine katholische Besinnung, Einsiedeln 1957. - H. LArs, Die Gna­ Bernhard.

denlehre des Rhabanus Maurus,

denlehre des hl. Thomas in der Summa contra genti/es und der Kommentare des Franziskus Sylvestris von Ferraris,

Miinchener Theol. Stud. •>, Il, 1951, 3· - E. LAMPERT, The in « East Church &, 1946, 248-58. - A. LANDGRAF, A lten Bundes nach der Lehre der Frilhscholastik, in ZkTh 57,

in

11

Orthodox Church teaching of grace, Die Gnadeniikonomie des

1 933, 21 5-253. - IDEM,

Grundlagen fur ein Verstiindnis der Busslehre der Fruh- und Hoch­

scholastik, in « Zeitschr. kath. Th. &, 46, 1927, 1 61-194· - IDEM, Studien zur Erkenntnis des Obernaturlichen in der Frilhscholastik, in « Schol. •>, 4, 1929, 1-37, 189-220, 352-389. -

IDEM, Anfiinge einer Lehre vom Concursus simultaneus im XIII. Jahrhundert, in 11 Rech. &, 1, Ltiwen 1929, 202-228, 338-355. - IDEM, Die Lehre vom geheimnis­

Théol. Anc. Méd.

vollen Leib Christi in den fruhen Paulinenkommentaren und in der Fruhscholastik, 1948, in « Div. Th. •>, 26, 160-1 80. - IDEM, Dogmengeschichte der Fruhscholastik. Parte prima : Die Gnadenlehre, 2 voll., Regensburg 1952. - P. L. LANDSBERG, Probleme der Gnaden­ lehre, in 11 Deutsch. Viertelj. ftir Literat. u. Geistesgesch. •>, 8, 1930, 373-401. - H. LANGE, De gratia, Freiburg 1929. - F. X. LAWLOR, S. I., The doctrine of grace in the « Spiritual Exercises &, in « Theol. Studies •>, 3, 1942, 5 1 3-532. - H. LENNERZ, De Gratia Redemptoris, Romae 1934. - M. LEROY, Le don de Dieu, Spes, 1 942. - W. VON LOEWENICH, Zur Gna­ denlehre bei Augustin und bei Luther, in « Archiv. Reformationsgeschichte &, 44, 1953, 52-63. - ERNST LOHMEYER, Kultus und Evangelium, Gtittingen 1942 (protestante). - IDEM, Grundlagen paulinischer Theologie, Tiibingen 1929. - J. LONCKE, Naturalismus modernus et gratia, in « Coll. Brug. •>, 48, 1952, 182-186. - B. LONERGHAN, St. Thomas' Thought on Gratia Operans, in « Theol. Studies &, 1942, 69-88 e 533-578. - J. LOOSEN, Ecclesiolo­ gische, chn'stologische und trinitiitstheologische Elemente in Gnadenbegriff, in « Geschichte und Gegenwart >> (« Festgabe M. Schmaus &) , Miinchen 1957, 89-102. - H. DE LUBAC, S. I., Remarques sur l'histoire du mot « surnaturel •>, in « Nouv. Rev. Théol. &, 61, 1943, 225-249, 350-370. - IDEM, Cattolicismo, Roma 1948. - IDEM, Surnaturel, Paris 1946. - P. LuM­ BRERAS, O. P., De Gratia, Romae 1947. - E. MAssAux, Infiuence de l' Evangile de saint Matthieu sur la littérature chrétienne avant saint Irénée, Louvain 1950. - J. VAN DER MEERSCH, Grlice, in DTC VI, 1 554-1687. - IDEM, De notione entis supernaturalis, in 11 Eph. Th. Lov. &, 7, 1930, 227-263. - ALBERT MIRGELER, Geschichte u. Dogma, Hellerau 1928. - A. MINON, Grlice et expérience, in « Rev. Ecci. >>, 35, 1948, 102-109. - CH. MOELLER, Théologie de la grdce et Oecuménisme, in 11 Irénikon •>, 28, 1955, 19-56. - J. MoFFAT, Grace in the New Testament, London 193 1 . - B. NEUHEUSER, O. S. B., Die Gnade in der Liturgie, in « Anima >>, 9, 1954, 16-23. - J. H. NICOLAS, O. P., Le Mystère de la Grdce, Liége 195 1 . - A. NIEBERGALL, Augustins Anschauung von der Gnade. Ihre Entstehung und Entwicklung vor dem pelagianischen Streit (bis zum Abschluss der Confessiones), Gtit­ tingen 1951. - G. VAN NoORT, De Gratia Christi, Bussum (Holland) 1920. - Z. M. Numz, Las profundas doctrinas de S. Agustin sobre la gracia y las grandes necesidades espirituales

in « Relig. y Cuit. Gtittingen 1951. - A. 0DDONE, S. 1.,

1931, I r-88. - ANDR. NYGREN,

de la sociedad contemporanea,

•>,

Riimerbrie/,

I Problemi della grazia divina, Milano

Der

1937· - J. H. OSWALD, Die Lehre von der Heiligung, r 885. - R. PANIKER, El Concepto Madrid 195 1 . - P. PARENTE, Grazia, in 11 Enc. Catt. •>, VI, 1019-1028. G. PHILIPS, La grdce des justes de l'Ancien Testament, in « Eph. Th. L . >>, 23, 1 947, 521556. - IDEM, L e don surnaturel, in « Rev. Ecci. Liége >>, 25, 1933 {34, 69-8 1 . - A. PIO­ LANTI, Dio nel mondo e nell'uomo, Roma 1959. - IDEM, Aspetti della grazia, Roma 1958. - PH. PLATZ, Der Riimerbrief in der Gnadenlehre Augustins, Wiirzburg 1938. - H. PRIBNOW, Die johanneische Anschauung vom Leben, 1934. - E. PRzYWARA, Christliche Existenz, 1934· de Naturaleza,

BIBLIOGRAFIA - A. RADEMACHER, Die ubernaturliche Lebensordnung nach der Paulinischen und Johanneischen Theologie, 1903. - RIDDERBOS, S. l., Rondom het Gemene-Gratie-Probleem, Kamoen, J. H. Kok, 1949. - E. RIDEAU, S. I., La grace du Christ, in 11 N. Rev. Th. >), 69, 1 947, 897905. - K. RoMErs, O. F. M., Zum Begriff des VbernatUrlichen in der Lehre des heiligen Augustin, in 11 Festschrift zum 1500. Todestag Augustins, hg. von M. Grabmann und Mausbach >), Koln 1 930. - H. RoNDET, S. I., Gratia Christi, Paris 1948. - W. A. Roo, S. I., Grace and origina/ justice according to St. Thomas, Roma 1955. - W. RosLAN, Die Grundbegriffe der Gnade nach der Lehre der Apostolischen Viiter, in 11 Theol. Quart. >), I I 9 (1938) 200-225, 275-317, 470-503. - CONSTANTIN VON SCHAZLER, Das Dogma von der Gnade und die theologische Frage der Gegenwart, Mainz r 865. - MATTHIAS Jos. SCHEEBEN, Nature et grace, trad. dal ted., Paris 1957. - IDEM, Le meraviglie della grazia divina, Torino 1939. - E. SCHLINK, Theologie der lutherischen Bekenntnisschriften, 3 ed., Miinchen 1 948 (protestante). H. SCHMIDT, Bruckenschlag zwischen den Konfessionen, Paderborn 1 9 5 1 . - J. SCHMIDT, S. I., Gnadenfuhrung. Was sie ist, ihre Verschiedenheit, was sie verlangt, in 11 Z. Asz. Myst. >), 8, 1933, 336-343. - H. ScHUMACHER, Kraft der Urkirche. Das ) nach den Dokumenten der ersten zwei Jah1·hunderte, Freiburg 1 934. - J. SCHUPP, Die Gnadenlehre des Petrus Lombardus, Freiburg 1 932. - FR. ScrASco, Fulgenzio di Ruspe e i massimi problemi della grazia, Roma 1941. - R. SEEBERG, Beitriige zur Entstehungsgeschichte der Lehrdekrete des Konzils von Trient, in 11 Z. f. ki.rchl. Wissenschaft und kirchl. Le ben >) , ro, r 889, 656 ss. - G. SoLA, Tractatus de gratia Christi, Barcelona 1958. - F. STEGMULLER, Zur Gnadenlehre des jungen Suarez, 1933. - IDEM, Zur Gnadenlehre des spanischen Konzils­ theologen Domingo de Soto, in ), r, 1951, 169-230. - IDEM, Francisco Vitoria y la doctrina de la gracia en la escuela Sal­ mantina, 1934. - H. STEPHAN, Luther in den Wandlungen seiner Kirche, Berlin 1951. E. STRASSER, Alfonsus Tostatus und seine Gnadenlehre im Kommentar zum 19. Kap. des Matthiiusevangelium, Emsdetten 1 941. - J. B. TERRIEN, La grace et la gioire, 2 ed., Paris 1 948. - S. THOMAS DE AQUINO, Quaestio de Gratia capitis, edit. J. Backes, Bonn 1 935· T. F. TORRANCE, The Doctrine of Grace in the Apostolic Fathers, Edinburgh 1948 (pro­ testante). - T. URDANoz, Juan de Sto Tomas y la transcendencia sobrenatural de la gracia sanctificante, in ), 69, 1 945, 48-90. - C. VERFAILLIE, La doctrine de la justification dans Origène, 1926. - P. WAHMANN, Gnade. Der althochdeutsche Wortschatz, Berlin 1 937. - F. WALLAND, La grazia divinizzante, Colle D. Bosco (Asti), Elle Di Ci. 1949. - E. W. WATSON, Grace in the Latin Fathers to St. Augustin, in The Doctrine of Grace, London 1932, 1o6- I I 3 . E. WEIGL, Die Heilslehre des hl. Cyrillus von Alexandrien, 1905. - W. T. WHITELY, The Doctrine of Grace, New York 1932. - R. WINKLER, Grace in the N. T., in ), I I7, 1933-34, 52-88. - J. ZIMMERMANN, Trinitat Schopfung, Vbernatur, Regensburg 1949. -

-

§ 180. Divisione della grazia.

J. M. ALONSO,

in 6, 1 946, 3-59. A. CECCATO, La specie della grazia abituale di Cristo secondo San Tommaso, in DTh 43, 1940, 193-214; 1 89-309. - M. J. CONGAR, O. P., Albert le Grand théologien de la grace sanctifiante, in , 5, I 947, 349-363. - E. PRZYWARA, S. I., Der Grundsatz , in « Schol. •>, 17, 1942, 178-186. - H. W. RussEL, Gesta/t eines chri­ stlichen Humanismus, 1 940, trad. it., Roma 1945. - M. J. ScHEEBEN, Nature et grdce, trad. dal ted., Paris 1957· - }. SELLMAIR, Der Mensch in der Tragik, 1 939. - CHR. SMITS, O. F. M., Natuur en Genade bij St. Paulus, in « Collect. Francisc. Neerland. >>, III, 7, 1-18. - CHR. SMITS, OcT. SAGAERT, W. LAMPEN, M. SOENS, Minderbroeders, Natuur en Bovennatuur, S. Hertogenbosch 1937· - L. SoUKUP, O. S. B., Gratia supponit naturam, in >, 15, 1937, 25-32. - R. SPIAZZI, Il cristianesimo perfezione dell'uomo, 2 ed., Alba 1953· - ED. SPRANGER, Wilhelm v. llumboldt und die Humanitiitslehre, 1929. - TH. STEINBUCHEL, F. M., Dostojewski. Sein Bild vorn Menschen und vorn Christen, Diisseldorf 1947· - 0. TUML1TZ, Anthropologische Psy chologie, 1939. - H. WEISWEILER, S. 1., Natur und Obernatur in Glaube und Theologie, in , 14, 1 939, 346-372. Teologia dogmatica

•>,

The eternai quest. The teaching of St. Thomas Aquinas on the natura! desire for God,

§ 191. Stato di grazia e suo rapporto con lo stato celeste e lo stato mistico. N. VON ARSENIEW, Geistige Nuchternheit und Gebet. Einige Ziige aus der Mystik des christlichen Orients, in >, 1 5, 1940, 136-143. - IDEM, Ostkirche und Mystik, Miinchen 1925. - T. ARVEDSON, Das Mysterium Christi. Studio su Mt. I I, 25-30, Leipzig 1937. - M. BASTIDE, Les problèmes de la vie mystique, Paris 1934. - A. BERNA­ REGGI, La spiritualità dei cristiani d'oggi, Bergamo 1948. - A. BEUMER, S. I., Theologische und mystische Erkenntnis, in , 1 6, 1 941, 62-78. - IDEM, Die Theologie der mystischen Beschauung im Kommentar zum Hohen Lied des P. Luis de la Puenta, in , 17, 1942, 77-90. - H. BLEIENSTE1N, S. I., Heinrich Seuse in neuem Licht, in >, 16, 1941, 200-204. - IDEM, Die geschichtlichen Grundlagen der deutschen Mystik, in « Zeitschr. Asz. Myst. •>, IO, 1935, 3 1 8-324. - O. BaLZA, Meister Eckehart als Mystiker, Miinchen 1938. - J. BoUTET, Memento de vie spirituelle, Rennes 1948. - A. BRIVA MIRABANT, La Gloria y su relacion con la Gracia segun las Obras de S. Bonaventura, Barcellona 1957. - G. DE BROGLIE, S. I., Le mystère de notre élévation surnaturelle, in « Nouv. Rev. Théol. •>, 65, 1938, I I 53-1176. - W. BRUGGER, S. I., Das Ziel des Menschen und das Verlangen nach der Gottesschau, in « Scholastik •>, 1 950, 4· D. C. BUTLER, Western mysticism, 1927. - GAETANO DA CASTELLAMARE, Interpretazioni di vita spirituale, Milano 1939. - J. CHAPMAN, Was ist Mystik ?, in , 1 8, 1939, 321-342. - H. DELACROIX, Les grandes mystiques chrétiens, Paris 1938. M. DIBELIUS, Paulus und die Mystik, Miinchen 194I. - P. DICK, Christliche Mystik, Miinchen 1936. - DOBBINS DUNSTAN, 0. M. Cap., Franciscan Mysticism, New York 1927. -

374

BIBLIOGRAFIA

J. DoNELLY , S. I., The gratuity of the beatific vision and the possibility of a natura! destiny,

1 950. - H. EBELING,

Meister Eckharts Mystik, Stuttgart 194 1 . - R. ERNST, Mystik der in « Zschr. Asz. Myst. », 1 5 , 1940, 80-90. - C. FECKES, Die Lehre vom chn"stlichen Vollkommenheitsstreben, Freiburg 1949. - A. J. FESTUGIÈRE, Psychologie des mystiques, in « Vie Spir. ,,, 58, 1939, 65-79. - IDEM, Ascèse et mystique au temps des Pères, in « Vie Spir. •>, 6 1 , 1939, 65-84. - D. FEULING, Vom Wege der Frommigkeit, Beuron 1947. - IDEM, Vom Sinn und Grundwesen des mystischen Lebens, in , 12, I934, 400-429. - R. GUELLUY, La Grtice, commencement de la gioire, in , 62, 1 935, 699-710. - A STOLZ, O. S. B., Teologia della mistica, Brescia 1940. - IDEM, Mystik und christliches Lebensideal, in , 13, 1935, 425-436. - J. B. TERR1EN, La gréìce et la gioire, 2 ed., Paris 1948. C. TRUHLAR, De experientia mystica, Romae 1951. - J. G. J. THIEKE, O. Carm., Der weerken van Geert Groote, Utrecht-Nijmegen 1941. - L. VERSCHUERREN, O. F. M., Kronik der spiritualiteit, in « Ned. Kath. Stemm. •>, 39, 1 939, 302-31 r . - M. VILLER, S. I., K. RAHNER, S. I., Aszese und Mystik in der Vdterzeit, Freiburg 1939· - M. VILLER, S. l., F. CAVALLERA et J. DE GUIBERT, S. 1., Dictionnaire de spiritualité. Ascétique et mystique. Doctrine et histoire, Paris 1932 ss. J, VITALIS, Spiritualité du la'ic, Paris 1948. - W. V6LKER, Das Vollkommenheitsideal des Origenes, Tiibingen 1931. - H. WAAcH, Theresia von Avila. Leben und Werk, Wien 1949. - G. E. M. Vos DE WAEL, De mystieke theologie van Dionysius Mysticus in de werken van Dionysius Carthusianus, Nijmegen 1942. - H. WILD, Theresianische Mystik. Berufung, Streben und Disposition, in >, 12, 1937, 147-156. H. WILMS, O. P., Des Heiligen Antonin Anschauung von Aszese und Mystik, in « Zschr. Asz. Myst. >>, r6, 1941, 137-147. - IDEM, Das Seelenfunklein in der deutschen Mystik, in « Zschr. Asz. Myst. •>, 12, 1937, 1 57-166. - IDEM, Um das Wesen der Mystik, in , 14, 1 936, 52-72. - A. WINKLHOFER, Die Gnadenlehre in der Mystik des Hl. Johannes vom Kreuz, Freiburg 1936. - J. ZAHN, Einfuhrung in die christliche Mystik, Paderborn 1922. -

-

-

§ 192. Gli abiti soprannaturali delle potenze umane. J. B. ALFARO, Adnotationes in Tractatum De Virtutibus, Romae 1956. - R. BERNARD, La vertu acquise et la vertu infuse, in « Vie Spir. •>, 42, 1 935, 25-53· - ET. CARTON

O. P.,

DE WIART, Notio virtutis supernaturalis infusae, in « Coli. Mechl. », 7, 1933, 303-312, 656663. M. D. CHENU, O. P., La surnaturalisation des vertus, in « Bull. Thom. •>, 9, 1 932, 93-96. - A. LANFRANCO, La necessità delle virtù morali infuse secondo S. Tommaso (Dis­ sert.), Casale Monf. 1942. - E. NEVEUT, Les vertus morales surnaturelles, in >, 59, 1934, 395-406. P. PARENTE, Anthropologia supernaturalis. De gratia et virtutibus, 4 ed., Taurini 1962. - S. SCHIFFINI, De virtutibus infusis, Friburgi B. 1904. - J. B. SCHUSTER, Naturliches und ubernaturliches Sittengesetz, in « Schol. », 13, 1938, 392-399. - P. DE VOOGHT, O. S. B., Y a-t-il des vertus morales infuses ?, in « Eph . Theol. Lov. » r o , 1933, 232-242. -

-

§ 193. Le virtU divine della fede, della speranza e della carità. 1939. - W. J. PYTHIAN ADAMS, Chr. de A. Nygren, in « Church quart. Rev. >>, 125, 1939, 335-40; 128, 1 939, 142-46. J. ALFARO, Fides in terminologia biblica, in >, 33, 1937, 248-259. - R. AUBERT, lntelligence, volonté et gréìce dans la foi, in « Rev. Nouv. », 3, 1946, 72!733· - IDEM, Questioni attuali intorno all'atto di fede, in Probl. e Orient. di Teol. dogm ., A. ADAM,

Der Primat der Liebe,

Agape und Eros,

3 76

BIBLIOGRAFIA

Milano 1957, vol. I, 655-708. Ricca bibliografia. IDEM, Le problème de l'acte de foi, 2 ed., Louvain 1950. - AUTORI VARI, Qu'est-ce que la foi ? I Données bibliques, II Réfie­ xions théologiques, in , nn. 22-23, Lyon 1955. - l. BACKES, Der Glaube als Licht, in « Past. B on. ••, 47, 1937/38, 3 1 6-323. - R. BALDUCELLI, Il concetto teologico di carità attraverso le maggiori interpretazioni patristiche e medioevali, Roma 195 r . H. URS VON BALTHASAR , Sehen, Horen, Lesen im Raume der Kirche, in « Schildgenossen &, r8, 1939, 400-414. - K. BARTH, Das erste Gebot als theologisches Axiom, in , 1933, 297-3 14. - O. BAUHOFER, Der Grund der Liebe, in , 35, I935, 681-693. - H. BENCKERT, Der Begriff des Glaubensaktes, Wiirzburg I935· - P. BERNARD, De goddelijke deugden, Utrecht 1943. - R. BERNARD, O. P., La vertu théologale, in « Vie Spir. &, 41, 1934, 146-167. - H. BEYERSBERGEN, S. 1., Over het geloof, in « Verburn •>, 8, 1937/38, 120-136. - J, DE Bue, L'analyse de la foi chez Newman, in , 1948, 136-145. - P. BOISSELOT, 0. P., La lumière de la foi, in « Vie Spir. •>, 4I, 1934, 8 1-95. - K. BoRGMANN, Vom Wesen und Walten christlicher Liebe, Kolmar 1 944. - B. BRINKMANN, S. I., Chr. de A. Nygren, Eros und Agape, in « Schol. >>, 13, I938, 575-78. - E. BRUNNER, Eros und Liebe, 1937. - J. BUR­ NABY, Chr. de A. Nygren, Agape und Eros, in , 34, 1933, I04I05 ; 40, 1939, 408-10. - J, Mc CARTHY, Theological Hope, in « Ir. Ecci. Ree. •>, 1934, 617-632. - P. CHARLES, S. 1., Spes Christi, in , 61, I934, roo9-I02 1 ; 64, 1937, I057-I075· - C. CoLOMBO, Il problema della fede, in , 3, 1950, 193 s. - PH. DELHAYE-J. BouLANGÉ, Espérance et vie chrétienne, Tournai I958. - K. DENZINGER, Die Lehre vom Glauben beim jungen Suarez, Freiburg 1941. - G. DESBUQUOIS, Die Hoffnung, Base! 1950. - IDEM, Dans le mystère. L'espérance, Paris I934· - G. DESGRIPPES, L'humilité, la raison, la foi selon Pasca!, in , 1935, 381-399. - H. C. DESROCHES, Le de la charité, in , 40, 1 946, 51 8-536. - J. ENDRES, Die Liebe als sittliche Grundmacht, in , 1 947, 2, 242-262. - G. ENGELHARDT, Die Entwicklung der dogmatischen Glaubens­ psychologie in der mittelalterlichen Scholastik, Miinster 1933. - A. FALANGA, Charity the form of the virtues, Washington 1949. - J. D . FoLGHERA et H. D. NOBLUE, La charité, Desclée 1 942. - I. FoREST, The Meaning of Faith, in , I943, 230-250. - E. RAITZ VON FRENTZ, S. I., Drei Typen der Liebe. Eine psychologische Analyse, in « Schol. •>, 6, 1931, 1-4 1 . - M. FUERTH, Caritas und Humanitas. Zur Form und Wandlung des chri­ stlichen Liebesgedankens, Stuttgart 1933. - R. GARRIGOU-LAGRANGE, O. P., De virtutibus theologicis, Taurini 1949. - IDEM, L'espérance selon Sainte Catherine de Sienne, in « Vie Spir. •>, 49, 1936, 225-238. - G. GrLLMANN, S. I., Eros ou agapè. Comment centrer la conscience chrétienne?, in >, 72, I950, 3-26, I I3-133· - TH. GREN­ TRUP, Hoffen und Vertrauen, Wiirzburg 1948. - R. GuARDINI, Die christliche Liebe. Eine Auslegung von r Kor 13, Wiirzburg 1940. - IDEM, Vie de foi, Paris 195 r . - M. L. GuÉ­ RARD DES LAURIERS, Dimensions de la foi, 2 voll., Paris 1952. - J. GUITTON, Difficultés de croire, Paris I948, trad. it., Torino 196r. - H. GYLLENBERG, Glaube bei Paulus, in , 13, 1937, 6 r2-630. - F. HARTZ, Drei Sèiulen unseres katholischen Lebens : Glaube, Hoffnung, Liebe. Lettera pastorale, Paderbon1 1934. - C. A. HERBST, S. I., Hope, in , 9, 1950, 25-30. - V. HEYLEN, Speramus Deum, in , 12, 1938, 44-5 ! . - P. HIRT, Das Wesen der Liebe, Immensee 1943. - E. JoLY, Che significa credere?, Catania 1957. - J. KELLER, O. P., De virtute caritatis ut amicitia quadam divina, in , Roma 1925. - J. KEUP, La charité chrétienne, Paris 1948. - H. KLuG, Die Lehre des hl. Bonaventura uber die Aufgabe der eingegossenen Tugend des Glaubens, in , 1937, 105- 121. - N. KRAUTWIG, , in « Wissen­ schaft u. Weisheit >>, Il, 1-10, 1944. - W. G. KUMMEL, Der Glaube im N T, seine katho-·

BIBLIOGRAFIA

377

in >, I6, I937, 209-221 . - R. LACROZE, Rev. Phil. >>, I 944, 257-67. - BERNH. LANWER, M. S. C., Jesu Stellung zum Gesetz auf dem Hintergrund des A T und Spdtjudentums, Hiltrup I933· - B. LAVAUD, O. P., Amour et perfection chrétienne selon S. Thomas d'Aquin et S. François de Sa/es, Lyon I94I. K. LEESE, Eros und Agape (Bemerkungen zu A. Nygren), in « Zschr. Theol. Kir­ che >>, I9, 1938, 3 I9-33 9· - A. LEMONNYER, O. P., Comment nous aimer en chrétiens, in « Vie Spir. o, 58, I939, 225-257. - IDEM, Amour intéressé et pur amour, ibid., I 32-I45· M. Li:iHRER, O. S. B., Der Glaubensbegriff des hl. Augustinus in seinen ersten Schriften bis zu den Confessiones, Einsiedeln, Ztirich, Koln I955· - P. LUMBRERAS, O. P., De fide, Romae I937· - A. MANCINI, S. S., Due questioni proposte sulla speranza, in « Pal. Clero >>, 3, 1937, 1 87-1 89. - G. MARcEL, Réfiexions sur la foi, in « Rev. Apol. •>, 59, 1 934, 656-676. - IDEM, Filosofia della speranza, a cura di A. Scivoletto, Firenze 1 953. - R. MARETT, Glaube, Hoffnung und Liebe in der primitiven Religion, Stuttgart I936. - P. MATTHES, Von Gesta/t und Wesen des Glaubens. Strukturlinien, herausgearbeitet an den Schriften des NT, in >, I3, I934, 4I 5-428. - J. MATTHEWS, The virtue of faith in the spiritual !ife, in , 9, I950, I 8o-Igo. - E. MERSCH, S. I., La grdce et !es vertus théologales, in >, 64, 1937, 8o2-8I7. - F. METZLER, Gottes Trost. Die christliche Hoffnung, Hochst 1 933. - A. MEuNIER, La fermeté de l'espérance, in « Rev. Ecci. •>, 28, 1936/37, 9 I -99· - IDEM, L'espérance, in , 28, 1936/37, 44-49. IDEM, De peccatis contra spem, in >, I I, 1930. - MtiLLER-ARMAcK, Vber die Macht des Glaubens in der Geschichte, in > (Howe), Gtitersloh I949· - W. MUNDLE, Der Glaubensbegriff des Paulus, Leipzig I932. - D. M. MUNERATI, La fede, Volterra I940. - P. MUNoz, Psicologia de la conversi6n en San Agustin. Introducci6n al problema de la gracia y de los dos amores, in >, 22, 194I, 9-24. - V. Mc NABB, O. P., Speranza buona, Milano 1939. E. NEVEUT, C. M., La vertu de charité. Son caractère surnaturel, in « Div. Th. >>, 40, 1 937, 129- 1 58. - IDEM, La vertu d'espérance. Son caractère surnaturel, in > , 39, 1936, 97-I I2. - R. NoRMA.l'IDIN, O. M. I., Saint Pau! et l'espérance, in , I7, I 947, 385-392. - IDEM, Une grande oubliée. L'espérance, Ottawa I948. - A. NYGREN, Eros et Agapé, 3 voli., Paris I 944-52. - J. OVERDUIN, Het onaantastbare. Over de christelijke hoop, Kampen I94I. - G. M. PERRIN, Le mystère de la charité, Bruges Ig6o. - H. PÉTRÉ, Caritas, Etude sur le vocabulaire latin de la charité chrétienne, Louvain 1948. - W. J. PHILBIN, The Scholastic Teaching on the Nature of Charity, in , 1933, 20-46. P. PHIL. DE LA TRINITÉ, Certitude et surnaturalité de la foi, in '' Et. Carm. », I, I937, 1 57-1 88. - J. PIEPER, Sulla Speranza, Brescia I953· - S. RAMJREZ, La esencia de la espe­ ranza cristiana, Madrid Ig6o. - E. RANWEZ, De munere fortitudinis, in , 28, 1934, 256-262. - H. REINER, Das Phdnomen des Glaubens, dargestellt im Hinblick auf das Problem seines metaphysischen Gehalts, Halle 1934. - F. X. REMBERGER, Der hl. Alfons von Liguori und der Primat der Liebe, in « Klerusbl. >>, 22, 1941, 273-76. - J. REuss, Die theologische Tugend der Liebe nach der Lehre des Johannes Duns Scotus, in « Zeitschr. f. kath. Theol. », 58, I934, I -39· - H. RIONDEL, S. I., La vie de foi, Paris 1931. - A. Ro­ SMINI, La dottrina della carità, Domodossola 193 1 . - RoYo MARIN, Teologia de la caridad, Madrid 1960. P. L. VON RUDLOFF , 0. S. B., St. Thomas uber die Liebe, in « Div. Tho­ mas >>, I I, 1933, 344-35 1 . - M. M. SCHUMPP_, O. P., Der Glaubensbegriff des Hebrderbriefes und seine Deutung durch den hl. Thomas v. Aquin, in « Div. Thomas •>, I I, I933, 306410. F. SCHWENDINGER, O. F. M., Duns Scoti doctrina de substantiali supernaturalitate fidei infusae, in « Antonianum •>, 7, 1932, 3-38. - IDEM, Die Losung des Problems der analische und reformatorische Deutung, L'Espérance,

in

-

-

-

-

, 47, 1 937, 309-3 15. - SILVERIO DE SANTA TERESA, El precepto del amor. Estudio hist6rico­ critico de la carida d cristiana y de sus relaciones con la legai y la filantropia, Burgos 1941. - TH. SoiRoN, Glaube, Hoffnung, Liebe, Regensburg 1934. - L SouBOGOU, La vertu d'espérance, in « Pensée Catholique >>, ro, Paris 1 949, 3 1 -47. - H. SPAEMANN, Das Konigliche Hochzeitsmahl. Vom Wachsen und Wesen des Glaubens, Miinster 1939. R. SPIAZZI, Piccola teologia della carità, Roma 1961. - IDEM, Piccola teologia della speranza, ivi 1960. - C. SPICQ, Agapé dans le N. T., 3 voli., Paris 1958-59. - ED. STAKEMEIER, Der Glaube des Sunders. Seine Vbernatilrlichkeit und sàne Bedeutungfur das Heil, in « Theol. Gl. >>, 27, 1935, 416-438. - A. STÉVAUX, La doctrine de la charité dans les Commentaires des Sentences de saint Albert, de saint Bonaventure et de saint Thomas, in « Eph. Theol. Lov. >>, 1948, 59-97. - A. STOLZ, O. S. B., Glaubensgnade und Glaubenslicht nach Thomas von Aquin, Roma 1 933· - D. TAMBOLLEO, Le Agapi, Roma I93I. - E. THAMIRY, Les vertus théologales. Leur culture par la prière et la vie liturgique, Avignon 1933· G. THILS, Perfectio spiritualis et perfectio caritatis, in « Coli. Mechl. >>, 1 2, 1938, 256-260. - L. ToviNr, La carità cristiana sopprime la giustizia?, in >, 1 948, 1-2. G. TREDICI, La carità, Brescia t938. - IDEM, La fede, Brescia 1 935. - IDEM, La speranza cristiana, Brescia 1 936. - L. VOLKEN, Der Glaube bei Emi! Brunner, Ziirich 1947· E. WALTER, Glaube, Hoffnung, Liebe im Neuen Testament, Freiburg 1940. - V. WARNACH, Agape. Die Liebe als Grundmotiv der neutest. Theologie, 195 1 . - E. WEBER, La carità cristiana, Roma 1947. - F. WESSELY, Das Wachstum der gottlichen Tugenden (Glaube, Hoffnung, Liebe), in Leben aus Gott und fur Gott, Miinchen 1940. - D. W1LLIAMS, God's Grace and Man's Hope, New York 1 949. - L. WINTERSWYL, Gestaltwandel der Caritas, 1939. - J. WoBBE, Der Charis-Gedanke bei Paulus, Miinster 1 932. - B. W6HRMULLER, O. S. B., Het koninklijk gebod, Mechelen 1935. - M. ZEPF, Chr. de H. Arendt, Der Liebes­ begriff bei Augustin, in « Gnomon >>, 8, 1932, 101-105. - C. ZrMARA, Das Wesen der Hoff­ nung in Natur und Vbernatur, Paderborn 1936. liche Grundhaltung,

§ 194. Le virtU morali. J. ARINTERO, Las virtudes mora/es, in >, 36, 1 939, 82-90. - AUTORI VARI, Prudenza cristiana, Milano 1 959. - R. BERNARD, O. P., Apologie de la vertu de force, in « Vie Spir. >>, 68, 1943, 105-I I 6 e 69, 1944, 3-12. - W. BoPP, Die Geschichte des Wortes , 1945. - N. PFEIFFER, Die Klugheit in der Ethik von Aristate/es und Thomas von Aquin, Freiburg 1943. - G. PHILIPS, De virtutibus injidelium, in , 27, 1935/36, 37-44. - J. PIEPER, Sulla pru­ denza, Brescia 1 956. - IDEM, Sulla giustizia, ivi 1 956. - IDEM, Sulla fortezza, ivi 1956. - IDEM, Sulla temperanza, ivi 1956. - TH. PIKET, S. 1., De dapperheid en de christelijke levensopvatting, in « Schild. », 1 940/41, 22, 279-28 1 . - M. PRIBILLA, S. 1., Tapferkeit, in , 24, 1 934, 385-40 1 . - M. SALOMON, Der Begriff der Gerech tigkeit bei Aristate/es, 1 937. J, B. S cHUSTER , De iustitia Aristotelis Ethicorum ad Nicomachum liber V, Romae 1938. TH. THEUWS, O. F. M., Christendom en heldhaftigheid, in « Sacerdos >>, 13, 12-18, 1 945/46. - S. THOMAS D'AQUIN, La prudence, Tournai 1949. - J, TONNEAU, La vertu cardinale de justice, in , 3, 1579-164!. - R. BERNARD, O. P., La vertu infuse et le don du Saint-Esprit, in , 42, 1935, 65-90. - J. BIARD, Les dons du Saint-Espn't, Avignon 1 930. -

, I (Chile), 31-34. - FR. CRrs6GONO DE JESUS S . , O. C. D . , Les dons du Saint-Esprit, in , 2, 1934, 2 1 5-232. - A. GARDEIL, O. P., Le don de force et la faim de la justice, in , 34, 1933, 204-226. - IDEM, Dons du Saint­ Esprit, in >, 27, 1 933, 39-49. - IDEM,

BIBLIOGRAFIA

Doni dello Spirito Santo,

in ,

IV, r86I -I86s. - A. GAZZANA, Sulla necessità

dei Doni dello Spirito Santo pe1· tutti gli am soprannaturali del giusto,

22, 1941, 2 15-30. - R. GRABER,

in « Gregorianurn », Regensburg I936. - J. DE I4, I 933, 3-26. - R. HoFMANN,

Die Gaben des heiligen Geistes,

GUIBERT, Les dons du Saint-Esprit, in « Rev. Asz. Myst. >>, I933· - l. IMLE, Die Gabe des Intellektes nach dem hl. Bonaventura, in « Franz. Stud. », 20, I 933, 34-50. - F. IMLE, Die Gabe der Weisheit, in « Franz. Stud. », 20, I 933, 286-297. - P. VAN IMSCHOTT, De dono Spirùus sancti apud Jo 20, 22 s., in « Coll. Gand. •>, 25, 1938, 3-5. - B. KELLY, C. S. Sp., The Seven Gifts of the Holy Ghost, London I 94I. - M. J. KoLPINSKI, Le don de l'Esprit-Saint. Don créé et don incréé, I9Z4. B. LAVAUD, O. P., Les dons du Saint-Esprit d'après Albert le Grand, in >, 7, I947, 423-481 . - J. LONCKE, De donis Spiritus Sancti, in >, 48, I952, 79-83, I03-I07. J. LoosEN, S. 1., Logos und pneuma im begnadeten Menschen bei Maximus Confessar (Miinst. B. Theol.), I 94I. - O. LOTTIN, O. S. B., Les dons du Saint-Esprit chez [es théologiens depuis P. Lombard jusqu'à S. Thomas, in « Rech. théol. anc. méd. >>, I, I 929, 4I-97· - IDEM, Textes inédits relatifs aux dons du Saint-Esprit, in >, I, I 929, 62-97. - IDEM, La théorie des dons du Saint-Esprit au début du XIV' siècle, in « Mélanges, J. d. Ghellink S. l. », II, I95I, 849-875. IDEM, The thomist theory of the gifts of the Holy Ghost i n the last quarter of the thirteenth century, in , II, 1 949, I04-I44· - M. MESCHLER, Die Gabe des hl. Pjìngstfestes, Freiburg I 892. - A. MINON, L'Esprit-Saint et la gréìce, in « Rev. Ecc!. Liége », 3 5, I948, 43-47. - V. Mwc, Septem dona Spiritus Sancti, in Doctrina Bo­ naventurae, 1 924. - A. MITTERER, Die sieben Gaben des hl. Geistes nach der Vaterlehre, in « Zschr. f. kath. Theol. •>, 49, 1925, 529-566. - G. M. PARIS, O. P., Ad mentem S. Tho­ mae Aquinatis dissertatio de Donis Spiritus Sancti in genere, Milano 1930. - J. PASCHER, Die heroische Tugend,

-

-

Der Glaube als Mitteilung des Pneumas nach Joh

6, 6 1 -65, in , 59, 1959, 451-483. - E. RANwEz, Les Dons du Saint-Esprit, in , 1945, 563-68. - J. REGLER, Die sieben Gaben des Heiligen Geistes, 1 899. - W. SCHA­ MONI, I doni dello Spirito Santo, Brescia !957· - F. M. SCHINDLER, Die Gaben des Hei­ ligen Geistes nach Thomas v. Aquin, 1 9 1 5. - K. ScHLUETZ, Isaias II, 2 (die sieben Gaben des hl. Geistes) in den ersten vier christlichen Jahrhunderten, Miinster I932. - A. SCHORN, Ober die Gabe der Weisheit nach Bonaventura, in , I6, 1935, 1 -24, I I3-I40. TH. TASCON, O. P., Poi et don d'intelligence d'après Saint Thomas, in >,

33, I930, sz8-559. §§ 196 ss. Invisibilità della vita divina. - Ioeguaglianza dello stato di grazia. Sua crescita. - Amissibilità della vita divina. PAUL ALTHAUS, Paulus und Luther ilber den Menschen, Giitersloh I95 I (protestante). -

R. ANGERMAIR,

Gottes Geist gibt meinem Geiste Zeugnis,

in , 43, I938, I6I-I69.

- J. AUER, Die > Lehre von der Heilsgervissheit. Walter von Chatton der erste >, in « Wiss. u. Weish. », 1 6, I 953, I-19. - BIEDERMANN, Erlosung der Schopfung,

I940. - F. BuucK, S. 1., Zum Rechtfertigungsdekret. Die Unterscheidung zwischen fehlba­ rem und unfehlbarem Glauben in den vorbereitenden Verhandlungen, in > (hrsggb. von Georg Schreiber), I, I 95 I , I I 7-I43· - M. GUÉRARD

BIBLIOGRAFIA DES LAUR1ERS, O. P., Saint Augustin et la question de la certitude de la grtice au Conci/e >> (Congr. agostiniano intern., Parigi 1 954), 2, 10571067. - M1CHAEL 0LTRA HERNANDEZ, Die Gewissheit des Gnadenstandes bei Andreas de Vega, O. F. M., Diisseldorf 1941. - V. HEYNCK, O. F. M., Das Votum des Generals

de Trente, in « Augustinus Magister

der Konventualen Bonaventura Costacciaro, vom 26, Nov. I546 ilber die Gnadengewissheit,

3 1 , 1949, 274-303. - H. HUTHMACHER, S. I., La certitude de la grtice in « Nouv. Rev. Théol. >>, 6o, 1933, 213-226. - C. M. LACHANCE, O. P., L'homme peut-il savoir où'il a la grtice?, in >, 24, 1954, 65*92*. - A. LANDGRAF, Die Erkennbarkeit des eigenen Gnadenstandes nach der Lehre der Frilhscholastik, in >, 1949, 20-24, 39-58. - A. M1NON, De incertitudine perse­ verantiae finalis, in , 37, 1934, 321-349. - J. OLAZARAN, La controversia Soto-Caterino­ Vega sobre la certeza de la gracia, in « Est. Eci. •>, 16, 1 942, 145-183. - M. OLTRA, La certeza del estado de gracia segun Andrés de Vega, in >, 1945, 46-96, 325-356, 502-543. - L. M. POLISENO, O. Caxm., I Carmelitani e la certezza dello stato di grazia nel Concilio Tridentino, in >, I, 1954, 1 1 1·145· - A. STAKEMEIER, Das Konzil von Trient iiber die Heilsgewissheit, Heidelberg 1947. in « Franz. Stud.

>>,

au Conci/e de Trente,

§§ 200 ss. Concetto e divisione della grazia attuale. - Precisazione sulla natura della grazia attuale. - Necessità della grazia. - Necessità della grazia: suoi limiti. La gratuità della grazia. G. BARDY, Grecs et Latins dans les premières controverses pélagiennes, in « Bull . Litt. Ecci. >>, 49, 1948, 3-20. - J. DE Bue, Sur le canon 22 du conci/e d'Grange, in >, 6, 1929, 1929, 633-654. - A. BoNET, El determinisme luterà en relaci6 amb les controversies « de auxiliis >> i el Jansenisme, in > d'Grange 529, in « Rech. théol. anc. méd. >>, 6, 1934, 121-142. - M. D1SN1ER, Le pélagianisme au conci/e d'Ephèse, in « Div. Thomas Pl. &, 34, 1931, 53 1-540. - A. FLE1SCHMANN, Die Gnadenlehre des Wil­ helm Estius und ihre Stellung zum Bajanismus, Kallmiinz 1940. - M. GoRGE, O. P., Nicolai et les Jansénistes ou la grace actuelle suffisante, in >, 14, 1931, 761-775. W. GRZELAK, Zur dogmatischen Lehre des Papstes Gelasiu.ç I., in >, 13, 1932, 261-297. - P. GuÉRARD DES LAURIERS, La Théologie de Saint Thomas et la grace actuelle, in « L'Année théol. >>, 6, 1945, 376-425. - A. Guzzo, Agostino contra Pelagio, Torino 1934· - D. HEDDE et E. AMANN, Pélagianisme, in >, 8, 1936, 63-65. - A. LANDGRAF, Die Erkenntnis der helfenden Gnade in der Friihscholastik, in « Zeitschr. f. kath. Theol. •>, 1 931, 177 ss., 403 ss. - C. LATTEY, The true Paulinism, in « Clergy Rev. », 1 93 1 , 290-3 1 1. - J. Lrrr, La question des 1·apports entre la nature et la grtice de Ba"ius au Synode de Pistoie, Paris 1934. - J, LoNCKE, De existentia gratiae actualis, in , 33, 1 930, 29-59. - A. N1EBERGALL,

d'Ephèse, in >, les controverses pélagiennes,

Augustins Anschauung von der Gnade bis zum Beginn des Pelagianischen Streites, Marburg

1 944. - G. DE PL INVAL , Pélage et !es premiers aspects du pélagianisme, in , 1938, 171-196. - A. S ouTER, Pelagius ' Expositions of thirteen Epistles of St. Pau!, Cambridge 1 93 r . - T. URDANOZ, O. P., Ne­ cesidad de la fe explicita para salvarse segun los teOlogos de la Escuela Salmantina, in , 61, 1941, 83-107. - M. C. WHEELER, R. S. C. J., Actual Grace According to St. Thomas, in , 16, 1 953, 334-360.

§§ 205 ss. La conversione dal peccato. - La fede come preparazione alla giustificazione. - La fede morta non è sufficiente preparazione per la giustificazione. F. X. ARNOLD, Der Glaube als Heilsweg und als machtvollste iibernaturliche Wirklichkeit, in >, 45, 1949, 75-86. - M. BENDISCIOLI, Il problema della giustificazione, Bre­ scia 1940. - G. B1EL, Quaestiones de iustificatione, ed. C. Feckes, 1 929. - P. BLAESER, Rechtfertigungsglaube bei Luther, Miinster i. W. - H. Bou1LLARD, Conversion et Grdce chez saint Thomas d'Aquin, Paris 1944. - IDEM, Karl Barth. Parole de Dieu et existence humaine. Première partie, Paris 1 957. Presenta, tra l'altro, la dottrina barthiana della giustificazione. - H. BRAUN, Gerichtsgedanke und Rech tfertigungslehre bei Paulus, Leipzig 1 930 e , 46, 1 945, 54-64. - IDEM, La session VI du Conci/e de Trente. Foi et justification, in >, 53, 1952, 99-108. - IDEM, Le Décret du Conci/e de Trente sur la justification, in >, 1 949, 65-76 e 146-168. - L. CRISTIANI, L' Eglise à l'époque du Conci/e de Trente, in Histoire de l'Eglise di A. Fliche-V. Martin, 17, Paris 1 948. - J. M. DALMAU, S. I., La justificaci6n, eje dogmatico de Trento, in >, 1 3 1 , 1 945, 79-97. - H. DENIFLE, O. P., Die abendldndischen Schrzftausleger bis Luther uber > (Rom l, I7) und « iustificatio >>, Mainz 1905. - A. DESCAMPS, Les Justes et la Justice dans les évangiles et le christianisme primitij, Louvain 1 950. - IDEM, Justice et justification, in >, XXIII, 1 949, 1417 ss. - R.-CH. DHONT, O. F. M., Le problème de la préparation à la grdce, Paris 1 946. - ST. EHSES, Johann Groppers Rechtfertigungslehre auf dem Konzil von Trient, in >, 23, 1 909, 3 ss. - K. FECKES, Die Rechtferti­ gungslehre des Gabriel Biel, 1 925. - IDEM, Die Rechtfertigungslehre des Gabriel Biel und ihre Stellung innerhalb der Nominalistenschule, 1 925. - M. FL1CK, S. I., L'attimo della giu­ stificazione secondo S. Tommaso, Roma 1947. - P. GALTIER, Satisfaction, in >, 14, 1 939, r r 29-1210. - G. DE GIER, De rechtvaardigingsleer in het interconfessioneel gesprek, in >, 21, 1947, 147-170. W. GRUNDMANN, Gesetz, Rechtfertigung und Mystik bei Paulus, in « Zschr. neutest. Wiss. >>, 32, 1 933, 52-65. - C. GunEREZ, S. I., Un capitulo de teologia pretridentina : el problema de la justificaci6n en los primeros coloquios religiosos alemanos, in >, 4, 1945, 7-32. - J. HEFNER, Die Entstehungsgeschichte des Trientiner Rechtfertigungsdekretes, 1909. - R. HERMANN, Das Verhdltnis von Rechtfertigung und Gebet nach Luthers A uslegung ,

BIBLIOGRAFIA Giitersloh 1 926. - IDEM, Luthers These : Gerecht und Sunder zugleich, Giitersloh 1930. H. HOFER, Rechtfertigungsverkundigung des Paulus nach neuerer Forschung, Giitersloh 1940. - M. HOFFER, Metanoia (Bekehrung und Busse) im NT. (Dissert.), Tiibingen. - H. }EDIN, Girolamo Seripando, 1937. - H. J. IWAND, Rechtfertigungslehre und Christusglaube, Leipzig 1930. IDEM, Glaubensgerechtigkeit nach Luthers Lehre, Miinchen 1 941. - IDEM, Sola fide (protestante). K. l, 3, 1939, 230-245. J. LORTZING, Die RechtfertigungslehreLuthers im Lichte der Heiligen Schrift, Paderborn 1 932. - L. MALEVEZ, La pensée d'Emi/e Brunner sur l'homme et le péché. San con/lit avec la pensée de Karl Barth, in , 34, 1947, 407-453. - V. MANNAERT, De fide necessaria necessitate medii ad iustijicationem et salutem, in , 1 8, 193 1, 86-95. W. MICHAELIS, Rechtfertigung aus Glauben bei Paulus, 1927. - F. MrTZKA, Die Lehre des hl. Bonaventura von der Vorbereitung auf die heiligmachende Gnade, in « Zeitschr. f. k. Theol. &, so, 1926, 27-72, 220-252. - E. B. MoONEY, The formative evolution of Newman's concept on the doctrine of justijication, in « Rev. Un. •>, 7, 1947, 20-50. - J. W. MoRAN, S. I., Justification by faith and works, in , 1 19, 1948, 407-413. - E. M6scY, Problema imperativi ethici in iustijicatione paulina, in , 54, 1932, 25-48. J, OLAZARAN, Voto

der Friihscholastik, in Fruhscholastik, in



-

-

-

tridentino inedito sulla giustificazione e la certezza della grazia del Generale carmelitano

Nicolò Audet, in : Il Cane. di Trento, 2, 1945, 272-285, 337-355.

-

G. M. PERRELLA, De

iustijicatione secundum Epistolam ad Hebraeos, in « Biblica •>, 14, 1933, 1-21, 1 50-169.

-

H. PoHLMANN, Die Metanoia als Zentralbegriff der christlichen Frommigkeit, Leipzig 1938. - P. PoRROT, La nécessité de l'acte de fai pour la justification, in , 1 94c, 43-68. - M. D. CHENU, O. P., Spiritualité du travail, Liége 1 947· - G. E. CLOSEN, Die heilige Schrift und das Beten der Christen, Wien 1941. - P. CoRNE1LLE, L'imitation de Jésus-Christ, Paris 1 941. - FR. DòLGER, Sol salutis, Gebet und Gesang im christlichen Altertum, 1925. - J. ENDRES, Zur Philnophie des Gebets, in , 91, 1 938, 424-429. - R. GARRIGOU-LA­ GRANGE, La Providence et la prière, in