Giovanni Pascoli. Poetica e poesia. Atti della giornata di studi, 15 ottobre 2009

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Giovanni Pascoli. Poetica e poesia. Atti della giornata di studi, 15 ottobre 2009

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GIOVANNI

PASCOLI

poesia e poetica

Sanguineti / Barberi Squarotti / Beccaria / Boaglio Corsinovi / Dal Santo / Del Beccaro / Fallani / Felcini Girardi / Giannangeli / Giudici / Goffis / Leonelli Marabini / Nava / Oldcorn / Paratore / Ferugi = | Pieretti / Piromalli

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| MAGGIOLI EDITORE

In copertina: Casa natia del poeta (schizzo di Guglielmo Giovagnoli)

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Comune di San Mauro Pascoli Comitato per le onoranze a Giovanni Pascoli nel 70° anniversario della morte (1912-1982)

GIOVANNI PASCOLI poesia e poetica

ATTI DEL CONVEGNO DI STUDI PASCOLIANI SAN MAURO 1-2-3 APRILE 1982 Sanguineti / Barberi Squarotti / Beccaria / Boaglio Corsinovi / Dal Santo / Del Beccaro / Fallani / Felcini Girardi / Giannangeli / Giudici / Goffis / Leonelli Marabini / Nava / Oldcorn / Paratore / Perugi Pieretti / Piromalli

Coi contributi della Regione Emilia-Romagna delle Casse di Risparmio di Cesena e Rimini della Cassa Rurale ed Artigiana di Savignano sul Rubicone

LE

Languages

PROPRIETA’

LETTERARIA

RISERVATA

© Copyright 1984 by Maggioli Editore - Rimini

gs PAS

Stampato

in Italia - Printed in Italy

Modulgrafica Maggioli

- Santarcangelo

Nov 18 1986

di Romagna

d

SETA

PRESENTAZIONE

Dando alle stampe le relazioni del Convegno Nazionale di Studi Pascoliani, svoltosi a San Mauro ai primi d'aprile del 1982, nel 70° anniversario

della Morte

del Poeta

(1912-1982),

occorre

precisare che il Comitato Comunale per le Onoranze a G. Pascoli s'è mosso proseguendo sulla traccia di altre Celebrazioni che San Mauro aveva realizzato dall'ultimo dopoguerra in poi, sempre per iniziativa e solerzia di Comitati Comunali, nella ricorrenza del Centenario della Nascita (1855-1955), del Cinquantennio della Morte (1912-1962) e che si erano concluse con impor-

tanti Convegni Nazionali di Studi e relativa pubblicazione degli Atti: rispettivamente « Studi Pascoliani » Stab. Grafico Fratelli Lega, Faenza, 1958 e « Pascoli » Maggioli Editore, Rimini 1965, nonché di altre notevoli sparse commemorazioni,

di cui una, per

merito di Edoardo Sanguineti, a cent'anni dall’assassinio del Padre del Poeta (1867-1967), viene edita oggi in appendice a questa

raccolta (!). Siamo certi che questo terzo volume, che San Mauro

lestito affettuosamente

in onore

ha al-

del Suo grande Concittadino,

sarà un contributo valido e prezioso per gli appassionati e per gli studiosi dell'ardua e affascinante arte pascoliana. Gli illustri relatori hanno indagato sottilmente e in profondità i vari aspetti del linguaggio poetico e della complessa personalità di Giovanni

Pascoli, pervenendo

ad esiti estremamente

nuovi e sorprendenti.

(1) Non ci risulta che il memorabile discorso tenuto da Antonio Baldini a San Mauro nell’aprile del 1952, a quarant'anni dalla morte del Poeta, sia mai stato pubblicato. E neppure Carlo Bo ha mai dato alle stampe la sua conferenza di San Mauro, nel sessantennio della morte del Poeta (1972), alla presenza di Sandro Pertini, allora Presidente della Camera dei Deputati.

La figura e l’arte del Poeta di San Mauro sono apparsi, ed appaiono, al centro dell'attenzione più capillare e più modernamente adeguata della nuova critica e il Pascoli è stato sorpreso e còlto sotto sfaccettature e illuminazioni inattese, e in stretta connessione coi grandi movimenti letterari europei. L'intervento di due Poeti: Sanguineti e Giudici, hanno offerto prove e spunti di raffinata sensibilità creativa. Tra i relatori uno straniero : Anthony Oldcorn della Brown University di Providence, USA. Fra il pubblico un ospite d'eccezione : Gianfranco Contini, costantemente presente (*). Nella raccolta sono inseriti anche i saggi, extra Convegno, di Antonio Girardi e Ottaviano Giannangeli. Si deve anche sottolineare che questo volume viene pubblicato con i contributi della Regione Emilia-Romagna, delle Casse di Risparmio di Cesena e Rimini e della Cassa Rurale ed Artigiana di Savignano sul Rubicone. Il Convegno, invece, è stato finanziato dai Calzaturieri e Albergatori di San Mauro e da imprese e ditte varie (come da elenco), che hanno risposto generosamente all'appello dell'ex Sindaco

Castagnoli,

allora

Presidente

del Comitato,

che

aveva

invano bussato alle porte governative e ministeriali.

L'Organizzatore Prof. Guglielmo Giovagnoli

Il Sindaco Presidente del Comitato per le Onoranze Prof. Giorgio Campana

(*) G. Contini tenne a San Mauro, il 18 dicembre 1955, il magistrale discorso : « Il linguaggio di Pascoli », rinnovando con estrema originalità l’analisi critica degli studi sul Poeta romagnolo.

COMITATO

D'ONORE

Sandro Pertini - Presidente della Repubblica Giovanni Spadolini - Presidente del Consiglio dei Ministri Guido Bodrato - Ministro della Pubblica Istruzione Remo Gaspari - Ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni

Vincenzo Scotti - Ministro per i Beni Culturali Nicola Signorello - Ministro del Turismo e Spettacolo Alessandro Adami - Sindaco di Barga Amos Alberici - Presidente Tribunale di Rimini Francesco Alici - Senatore Giordano Angelini - Sindaco di Ravenna Ottorino Bartolini - Presidente Consiglio Regionale EmiliaRomagna

Oddo Biasini - Deputato Pietro Boccuccia - Prefetto di Forlì Luigi Bruno Bonfiglioli - Presidente Cassa Rurale ed Artigiana di Savignano sul Rubicone Sante Burioli - Sindaco di Borghi Vanda Burnacci - Presidente Amministrazione Prov.le di Forlì Domenico Caputo - Sovrintendente Scolastico Regionale per l'Emilia-Romagna Giuseppe Corticelli - Assessore alla Cultura della Regione Emilia-Romagna Luciano De Carlo Provveditore agli Studi di Forlì Tebaldo Fabbri - Presidente Rubiconia Accademia Filopatridi Savignano sul Rubicone Francesco Finocchiaro - Provveditore agli Studi di Bologna Sergio Flamigni - Senatore Enzo Forcella - Direttore Radio “ 3” Gianni Gaudenzi - Prefetto di Lucca Gino Giardini - Preside Liceo Ginnasio

di Lugo (Ra)

Giorgio Londei - Sindaco di Urbino Giovanni Locatelli - Vescovo di Rimini Giovanna Lucchi - Senatore Michele Massarelli - Presidente Sezione Italia Nostra - Cesena Franco Montebelli - Presidente Cassa di Risparmio di Rimini Palmiro Paglierani - Sindaco di Gatteo Giovanna Paolucci Censi - Presidente Distretto scol. n. 45



Carlo Rizzoli - Rettore Università Studi di Bologna

— — — — — —

Paolo Ruozzo - Provveditore agli Studi di Ravenna Nicola Sanese - Deputato Carlo Sarpieri - Sindaco di Savignano sul Rubicone Angelo Satanassi - Deputato Stefano Servadei - Deputato Francesco Sisinni - Direttore Generale per i Beni librari e gli

Istituti Culturali del Ministero per i Beni Culturali ed Am— —

— — —

— — — — —

bientali Davide Trevisani - Presidente Cassa di Risparmio Antonino Tripisciano - Questore di Forlì

Giancarlo Urbini - Sindaco di Cesenatico Diana Venturi - Sindaco di Gambettola A. Maria Vichi Giorgetti - Direttore Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II - Roma Zeno Zaffagnini - Sindaco di Rimini Renato Zangheri - Sindaco di Bologna Giorgio Zanniboni - Sindaco di Forlì Sergio Zavoli - Presidente RAI Francesco Zurli - Sovrintendente Beni Ambientali e Architettonici delle province

di Ferrara,

COMITATO

— — — — — — — — — — — — — — —

di Cesena

Forlì

e Ravenna

ESECUTIVO

Oderzo Castagnoli - Sindaco - Presidente Gabriele Boselli - Direttore Didattico - Membro Floriano Canducci - Consigliere Comunale - Membro Mario Cantelli - Rappr. Albergatori - Membro A. Felice Colonna - Assessore - Membro Enzo Colonna - Assessore - Membro Fabio Dellamotta - Consigliere Comunale - Membro Fermo Fellini - Rappr. Rubiconia Acc. Filopatridi - Membro Sante Franca - Segretario Comunale - Segretario Nazario Ghinelli - Impiegato e congiunto del Poeta - Membro Guglielmo Giovagnoli - Ispettore Scol. - Organizzatore Giuliano Gori - Rappr. Industriali - Membro Piero Maroni - Presidente Domus Pascoli - Membro Walter Stargiotti - Preside Scuola Media - Membro Adolfo Venturi - Consigliere Comunale - Membro

HANNO FINANZIATO IL CONVEGNO DI STUDI E LE ALTRE MANIFESTAZIONI CELEBRATIVE:

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Silvano

Manifesto commemorativo del Comitato per le Onoranze a

GIOVANNI

Comunale

PASCOLI

nel 70° Anniversario

della Morte

(1912-1982)

Il 6 aprile 1982 ricorre il 70° anniversario

della morte

[Giovanni

di

Pascoli.

La Sua fama s'è nobilmente accresciuta e l’importanza della Sua [vasta opera riscuote i consensi unanimi di lettori e critici. La particolare visione del mondo, l’originalità della Sua arte, [la freschezza e la

profondità dei temi e dei contenuti definiscono oggi il Poeta di [San Mauro come

« maggiore

la

personalità poetica » della nostra letteratura « dopo [l'età di Leopardi e Manzoni » (Contini)

Pascoli è al di là delle strettoie provinciali e si erge come [alta figura nel panorama della letteratura europea. Il Suo influsso su altri poeti e scrittori è enorme, il Suo [ascendente su tutta la poesia dialettale fino a Pasolini è ampio, il fascino esercitato sui lettori

[è sempre

più

avvertito. A settant'anni dalla Sua scomparsa, sul Pascoli i critici più diligenti ed appassionate

[rivolgono le loro ricerche, per l'estrema modernità [e originalità del Suo

dettato poetico, anche perché i messaggi e i temi della Sua arte [sorgono da un humus profondo e vibrante di trepidante fervore per le sorti dell'umanità. [Pascoli non è solo il raffinato cantore delle « Myricae », ma anche il poeta dell’Italia [raminga, l’ispirato

11

aedo cosmico, l'interprete sottile della sensibilità moderna e dei [trasalimenti

dell'animo umano al cospetto dell’arcano mondo che ci avvolge. [in questi ultimi tempi saggi e studi critici sulla Sua opera si diffondono con ritmo numero

[incalzante, dei lettori s’accresce quotidianamente.

il

Per questi motivi la Sua piccola amatissima patria, che fu [costantemente al centro della Sua sublime ispirazione, ha predisposto un vasto programma di commemorazioni e celebrazioni, fra cui spicca un Convegno [Nazionale di Studi, con la partecipazione dei massimi pascolisti italiani, quasi per racco[gliere e sintetizzare tante voci fervide ed appassionate della recente ricerca, e per

[additare il cammino delle future indagini. Il Sindaco Presidente del Comitato

Oderzo Castagnoli San Mauro Pascoli, 1 aprile 1982

12

START

EDOARDO SANGUINETI OMAGGIO A PASCOLI L’ultima passeggiata a mia moglie ea ti esploro, mia carne, mio oro, corpo mio, che ti spio, mia cruda [carta nuda, che ti segno, che ti sogno, con i miei seri, severi semi neri,

[con i miei teoremi, i miei emblemi, che ti batto e ti sbatto, e ti ribatto, denso e duro, [tra le tue fratte, con il mio oscuro, puro latte, con le mie lente vacche, tritamente, [che ti accendo,

se ti prendo, con i miei pampani di ruggine, mia fuliggine, che ti [aspiro, ti respiro, con le tue nebbie e trebbie, che ti timbro con tutti i miei timpani, [con le mie dita che ti amano, che ti arano, con la mia matita che ti colora, ti perfora, [che ti adora, mia vita, mio avaro

amore

amaro

:

io sono qui così, la zampa del mio [uccello, di quello

che ti gode e ti vigila, sono la papilla giusta che ti degusta, la pupilla [che ti vibra e ti brilla, che ti tintinna e titilla : sono un irto, un erto, un ermo ramo, [io che

ti pungo, mio fungo, io che ti bramo : sono pallida pelle che si spella, [mia bella, io,

passero e pettirosso del tuo fosso : io la piuma, io l’osso, che ti scrivo: [io, che ti vivo:

13

Zi alta si alza, con l’alba, l’ala, in fretta, della mia allodoletta perfetta,

mia diletta brunetta, per la tua gioia e foia, incontro al saggio raggio del tuo messaggio e massaggio, in un mixaggio di clamori e vapori, [di tepori

e sapori e sudori, di odori concolori e rubacuori: vedo la vena in fuga, vedo la ruga, con la verruca che ti bruca, con la cancrena : vedo, [con pena, la radice

della varice, l'occhio della pernice, la zampa della gallina, la spina [coinquilina che ti inquina:

e poi ti cado a piombo, nel nostro rombo e rimbombo, [e qui mi spezzo grezzo, di schianto, nel mio pianto, dentro i tuoi vecchi specchi, [che lùccicano

e lùcciolano, e mi lùcidano: qui precipito giù, di lassù: volando basso, [io passo:

Si, la nostra prole, i nostri polli molli, che ti ballano e ti bollono, al sole [soli,

che ti beccano

e saltabeccano,

e ti mordono e non demordono, per [noi grami, tu che li ami,

si ingozzano, ci singhiozzano, si ingrassano, ci invecchiano:

mi piange [il cuore,

se ci penso, amore, e se ti penso, che a stento mi pento, e se mi penso,

[che mi porta il vento : strillano adulti e stridono,

scheletri con

la cresta, con la [corona

in testa, in festa, commestibili irresistibili, indefinibili, agili e fragili, interminabili, nostri animali morali, mortali:

ma

la pulcina tenerina, [l’ultima,

la bambina, quella gallina ruspante,

nostra cosa [gaudiosa, strepitosa, tutélala, mia sposa, tu, mia chioccia: la vita goccia a pioggia, [piove a doccia:

14

rampicante,

:

4. io sono il soffio asmatico, fantasmatico,

meccanico

e automatico

e

[patetico, e parodico patologico, psicologico pneumatico, di una voce vivace in controluce, [con filigrana onesta, di mesta e grana e trama, e grama, arcaico tanto, e apotropaico

[tanto,

da rimanermi

impigliato, impagliato, fossilizzato, tra le chele delle tue ragnatele telegrafiche, olografiche, oleografiche, grafiche, per atterrirti i tuoi

spaventapasseresco

fonema

[morti contorti, fresco, antipipistrellesco epirrema [picaresco, faunesco

furbesco grottesco, poetema piratesco, pappagallesco, gallesco, [parlante e punto, in punto e virgola, perturbante diarroico

logorroico,

alfabetico

in linea

compunto, provocante [logorante gongolante,

stoico, estetico

emetico, erpetico [energetico, erotico

ermetico, arpa sonora sinora vibrante, carpa canora

timidamente

[abboccante, e per fortuna,

al tuo lamo, al tuo richiamo,

in una

malora molto andante [di volto di luna

galante calante, colante pesante:

così dicevo e, dicendo così, la mia [voce svanì:

di io ti farò cucù e curuccuccù,

ragazzina lavandarina, se mi bacia il tuo [bacio a chi vuoi tu: ti farò reverenza e penitenza, questa in giù, quella in su,

suppergiù: e tra i tonfi dei miei gonfi fazzoletti poveretti, ti farò, [con le mie pene, cantilene e cantilene: e ti farò cracrà, crai e poscrai, in questa eternità

del nostro mai, e poscrigno e posquacchera, da corvo bianco, e stanco, [e sordo, e torvo:

15

ma tu, prepara qui, al mio picchio, la nicchia del tuo nicchio: [di più,

prepara, al mio domani, i cani nani delle tue umane

mani, le viti dei [tuoi diti

mignolini, le microsecchie delle tue orecchie, le arance delle tue [guance, il minivaso del tuo naso, l’albicocca della tua bocca, i corbezzoli dei tuoi

[capezzoli: e con entrambe quelle tue gambe strambe, preparami anche le anche [stanche tue, qui,

per noi due: per me, vecchio parecchio, prepara, nei tuoi occhi, uno [spicchio di specchio: io ti farò così, lo sai, lo so, vedrai, lì per lì, il mio cocoricò e [chiricchicchi:

6. questo cane incantato e incatenato, incimurrito e incancrenito [incretinito, che sogna

di sognarti e di leccarti, e che ti morde, in sogno, e che ti zompa, [con le sue zampe, e che ti impiomba e ti inchioda, con la sua coda, e che ti incastra [e ti impiastra,

idrofobo domestico, anfanante

lunatico e frenetico, e ansimante [pesante, ahimè,

che sono me, tanto tremante:

tirami tutti i sassi, o tu che pazza passi, [sopra il fieno del tuo carro che corre, mia luna e mio ramarro,

mia torre e mia [fortuna, mio vitale

veleno: ma succhiami, tu almeno, questi versi perversi, queste fiale [di inchiostro

bestiale, di fiele e di miele, che dall’aia ti latra e ti abbaia il tuo [mostro fedele:

16

Zi

a quella reginella ridarella, a quella raganella griderella, la bella [sopranella

in sottanella, a quella stella bianca, stella nana, unica mia sovrana [disumana, alla sua bianca mano, al piede bianco e stanco, e storto, e morto, [a quel suo buco

nero, buco vero, dunque io parlo, e così parlando dico:

felice la tua [faccia

di vinaccia, felici le tue braccia di focaccia, principessina di uvaspina, manducabile inconfutabile, amabile potabile: felice, mia selvaggia, [chi ti assaggia, candeggiante albeggiante, sola, tra due lenzuola: felice il tuo sensibile [cannibale,

felice chi ti inghiotte in una notte, chi ti concuoce veloce, e ti digerisce e smaltisce, e ti chilifica e chimifica: felice chi ti dice, e ti nientifica:

febbraio / marzo

1982

\7/

dedi

GIORGIO BARBERI IL FANCIULLINO

SQUAROTTI

E LA POETICA PASCOLIANA

Nel discorso del « fanciullino » il Pascoli scrive: « Tu dici in un tuo modo schietto e semplice cose che vedi e senti in un tuo modo limpido e immediato, e sei pago del tuo dire, quando chi ti ode esclama: Anch'io vedo ora, ora sento ciò che tu dici e che era, certo, anche prima, fuori e dentro di me, e non

lo sapeva io affatto o non così bene come ora! Soltanto questo tu vuoi, seppure qualche volta vuoi del diletto in fuori che tu stesso ricavi da quella visione e da quel sentimento. E come potresti aspirare

ad operazioni

così grandi

tu con

così piccoli

strumenti? Perchè tu non devi lasciarti sedurre da una certa somiglianza che è, per esempio, tra il tuo linguaggio e quello degli oratori. Sì: anch'essi, gli oratori, ingrandiscono e impiccioliscono ciò che loro piaccia, e adoperano, quando loro piace, una parola che dipinga invece di un’altra che indichi. Ma la differenza è che essi fanno ciò appunto quando loro piace e di quello che loro piaccia. Tu no, fanciullo: tu dici sempre quello che vedi. Essi lo fanno a malizia! Tu non sapresti come dire altrimenti; ed essi dicono altrimenti da quello che sanno che si dice. Tu illumini la cosa, essi abbagliano gli occhi. Tu vuoi che si veda meglio, essi vogliono che non si veda più ». Ciò che caratterizza il poeta è il punto di vista diverso, alternativo, rispetto a quello dell'uomo comunemente e quotidianamente intento alle sue attività pratiche, e diverso, anzi opposto rispetto al modo di presentare le cose da parte dell’oratore in quanto tale modo è un artificio per conquistare l'ascolto e l'assenso, e non è affatto illuminazione dell'oggetto, in primo piano, con rilevata

e concentrata

attenzione,

quale

invece,

è l’ottica

della

poesia.

19

Poco prima, quasi all’inizio del discorso,

aveva

il Pascoli

già immaginosamente indicato nella sostanziale diversità e specificità del punto di vista del poeta rispetto a ogni altro punto di vista scientifico, politico, logico, del buon

senso, il carattere

distintivo della poesia nei confronti di ogni altra attività dell’uomo: « Ma il garrulo monello o la vergine vocale erano dentro lui [Omero], invisibilmente. Erano la sua medesima fanciullezza, conservata in cuore attraverso la vita, e risorta a ricordare e

a cantare dopo il gran rumorio dei sensi. E la sua fanciullezza parlava perciò più di Achille che d’Elena, e s’intratteneva col Ciclope meglio che con Calipso. Non sono gli amori, non sono le donne, per belle e dee che siano, che premono ai fanciulli; sì le aste bronzee e i carri da guerra e i lunghi viaggi e le grandi traversie. Così codeste cose narrava al vecchio Omero il suo fanciullino, piuttosto che le bellezze della Tindaride

e le

voluttà della dea della notte e della figlia del sole. E le narrava col suo proprio linguaggio infantile. Tornava da paesi non forse più lontani che il villaggio che è più vicino ai pastori della montagna: ma esso ne parlava ad altri fanciulli che non c'erano mai stati. Ne parlava a lungo, con foga, dicendo i particolari l’un dopo l’altro e non tralasciandone uno, nemmeno, per esempio, che le schiappe da bruciare erano senza foglie. Ché tutto a lui pareva

nuovo

e bello, ciò che vi aveva

visto, e nuovo

e bello

credeva avesse a parere agli uditori. La parola « bello » e « grande » ricorreva a ogni momento nel suo novellare, e sempre egli incastrava nel discorso una nota a cui riconoscere le cosa Sopra tutto, per far capire tutto il suo pensiero, in qualche fatto o spettacolo

più nuovo

e strano,

s’ingegnava

con

paragoni

tolti da ciò che esso e i suoi uditori avevano più sott'occhio o nell'orecchio. E in ciò teneva due modi contrari: ora ricordava un fatto piccolo per farne intendere uno grande, ora uno maggiore per farne intendere uno minore.Così rappresentava un mare agitato che con le grosse ondate spumeggianti

si getta contro

la spiaggia, e strepita e tuona, per dar l’idea d'una moltitudine d’uomini

che accorre

in un luogo;

e descriveva

uno

sciame

di

mosche intorno ai secchielli pieni colmi di latte, per esprimere il confuso e vasto agglomerarsi d’un esercito di guerrieri ». Il Pascoli

si serve

di un

mito

vichiano,

rinnovato

per la sua esposizione di poetica: Omero

20

come

dal

Leopardi,

la voce

dell’in-

fanzia del mondo, ma anche l’idea che Omero, in qualche modo, è presente nell'infanzia di ciascun uomo prima del raggiungi-

mento dell’età della ragione e della filosofia, onde lo spazio della poesia è quello dell’ingenuità degli uomini antichi, quale vie-

ne ricapitolata nell’ingenua disposizione infantile verso la natura in tutti i tempi, anche in quelli moderni, dominati do vero », che ha cancellato le « favole antiche ».

« dall’ari-

Ma il Pascoli, come sempre quando opera su suggestioni leopardiane, compie significativi spostamenti. Anzitutto, c'è il rifiuto della poesia dei sentimenti: la poesia ha da essere poesia di oggetti, di cose, di situazioni, di fatti, non d’amore o di altri sentimenti che non siano direttamente legati con la vita delle cose, con l'osservazione di eventi e di personaggi (onde soltanto è ammessa la meraviglia che il « fanciullino » prova di fronte a ciò che ha visto, e che fa parte integrante della visione stessa, perchè è il punto

di vista in cui il « fanciullo » si pone

per poter meglio vedere e infiggersi nella memoria cose e fatti e, dopo, fare più efficace e persuasivo il racconto e la rappresentazione che ne propone agli uditori). In questa prospettiva, il particolare viene a essere esaltato a sfavore della gerarchia di valori e di importanza quale hanno gli « adulti »: non soltanto, ma il particolare ripetuto, ridetto, rivisto secondo altre angolature e in altri aspetti, o ancora accresciuto di altre determinazioni, di altri elementi, che finiscono

ad aggrandirlo in modo ancor più clamoroso, fino a quasi isolarlo nella rappresentazione. La poesia deve, allora, dare il senso della novità, della grandezza e della bellezza di ciò che raffigura non tanto perché obiettivamente e razionalmente nuovo, bello e grande sia, ma perché tale è visto dal poeta, e questo modo di vedere il poeta intende comunicare al lettore-uditore. Il privilegio della visione, che il Pascoli definisce come fondamentale nell'operazione poetica, è l'indicazione del valore centrale che ha il punto di vista come fonte della rappresentazione del poeta. Non

si tratta

soltanto

di ciò che il « fanciullo » vede, ma

del

modo in cui vede, della prospettiva in cui si pone per vedere, e che è necessariamente una prospettiva fortemente soggettiva, non dipendente da schemi e codici di valori di ragione o di pensiero, ma nel senso che dipende non già dalla disposizione

21

pu ®

psicologica o dai sentimenti e dalle passioni del « fanciullo », ma dalla sua meraviglia di scoperta del mondo e di manifestazione ugualmente stupita di tale scoperta. Il punto di vista del pascoliano « fanciullo » non è quello di un’interiorità ingenua e infantile recuperata dalla memoria, ma è quello di chi si dispone di fronte alle cose e ai fatti con il senso vivo e inesausto della scoperta originaria: è un recupero metastorico dei tempi remoti del « vero » Omero, che si ripete ogni volta che il poeta ritorna a vedere, come l'umanità fanciulla dei tempi di Omero, da fanciullo le cose. La retorica del « fanciullino » è, di conseguenza, non quella dei sentimenti, ma quella della meraviglia di fronte alle cose che egli scopre nuove, grandi e belle come per la prima volta, e come per la prima volta, attraverso il suo punto di vista, gli uditori e i lettori vedono, ponendosi nella stessa prospettiva della rappresentazione poetica. Come è al di fuori del sentimento, la poesia è al di fuori anche della logica e della ragionevolezza: e tende piuttosto all'estremo, a far coincidere, nelle similitudini,

gli opposti,

l’infinitamente

con un salto vertiginoso

piccolo con

di dimensioni

l’infinitamente

grande,

e di prospettive,

ancora

una volta contraddicendo a ogni ragionevolezza e logicità. Ma è anche qualcosa di più: è la coincidenza del sublime con il quotidiano, è il discorso intorno agli eventi fondamentali e alle esperienze decisive dell'uomo compiuto per via di antifrasi: il quotidiano è, allora, lo spazio delle similitudini, delle allegorie, delle metafore, proprio perché il punto di vista del « fanciulli no », pur nel rappresentare eventi e personaggi sublimi, è quello interno alle cose, non

al di sopra

di esse, è quello minimo,

dal

basso, da dove vede la lunga ombra delle aste dei guerrieri e l'agitarsi dei cimieri sugli elmi, ma dove sono anche le mosche sull'orlo del secchio colmo di latte. La poesia è sempre

sorpresa, stupore: ma

soprattutto

per-

ché il punto di vista del poeta è radicalmente diverso da quello dell'uomo comune, anche se questi finisce, per opera del poeta, ad adeguarsi a tale prospettiva di visione e a comprenderla e a porsi in essa, in forza della capacità comunicativa e suasiva della poesia stessa. È, quella del « fanciullino », una poetica anticlassica: non prevede, anzi respinge la prospettiva dall'alto, di carattere sintetico, per la dispersione dei punti di vista, molti-

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plicati all'infinito dal fatto che il « fanciullino » si pone dal punto di vista di ogni singola cosa, di ogni singolo fatto, di ogni singolo personaggio che cada sotto l'angolo d'incidenza della sua visionarietà. Ma è anche una poetica che intende fare a meno dell'io come soggetto e oggetto di poesia, se èx vero, appunto, che il « fanciullino » non è creatore di poesia perché parla di sé o delle passioni degli uomini, di queste in virtù dell'onniscienza che pretenda di possedere per entrare nell'anima degli altri, non narra la propria interiorità, la propria storia spirituale, la propria esperienza di maturazione, ma, in modo del tutto sincronico, si pone al centro del quadro, entro le cose,

nello svolgersi stesso dei fatti, che attualizza al massimo, non riflettendo su di essi, non tendendo al giudizio o alla classificazione o alla definizione erudita ovvero storica ovvero all’analisi psicologica. Il « fanciullino » non sa nulla più di quanto vede (e sogna di vedere e crede di vedere e immagina di vedere). Ciò che vede non ha storia: se mai, la rappresentazione dei fatti e delle vicende

sarà il risultato

dell'operazione,

che il « fanciulli-

no » compie, di porre l’uno dopo l’altro i vari momenti singoli, i diversi particolari, non l'esito di uno sguardo sintetico, dall’alto. Al contrario che nella tradizione poetica, anche recente (quel-

la che ha come ma

anche

nome

il primo

specificamente

d'Annunzio),

significativo

il Pascoli

il Carducci,

obiettava

nell’altro

dall’io che è il « fanciullino » la fonte della rappresentazione poetica. Si opera così una distinzione fra l’io e il creatore di poesia all’interno dello stesso poeta, così come, dal resto, all'interno di tutti gli uomini fra « l'adulto » e l’uditore, il lettore

della poesia. L’io non è più oggetto e soggetto: di poesia. Si apre una sorta di dialogo (ma anche di contrasto, di diversità, di opposizione) fra l'io, che sa di storia, di sentimenti, di bellissime

dee e di Elena

e di Circe, di ragioni

di guerre,

di scansioni

cronologiche, di ben definiti spazi geografici di viaggi e di imprese, e quell’altro interlocutore e attore che è il « fanciullino » sì dentro il poeta, ma dall’io del poeta come « adulto » distinto. È una divisione originaria e preventiva all’interno del tradizionale soggetto e oggetto di poesia, che è l'io. Si determina così un’oggettivazione, al di fuori dell'io, del creatore di poesia come modo di vedere le cose alternativo geneticamente rispetto a ogni

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altro rapporto di ragione, scienza, logica, storia. Essendo esterno rispetto all’io, il « fanciullino » non ne è condizionato né nella scelta dell'oggetto poetico, né nel modo di rappresentarlo, né dà privilegi al modo di sentire e di patire dell'io o alle sue vicende interiori o alle sue idee e alle sue prese di posizione. Si opera,

cioè, un distacco radicale fra l'io e la poesia, fra il tradizionale deposito di sentimenti,

di concezioni,

di sensazioni,

di volontà,

di ragionare e di definire le gerarchie e i significati

di modi

delle cose, che l’io è, e quello che è, invece, il discorso originario

della poesia, che il Pascoli si fa autorizzare dal vichiano esempio di Omero e degli uomini dell'infanzia del mondo e dalla leopardiana idea che l’infanzia di ciascun uomo ricapitola in sé l’intera vicenda della storia dell'uomo e può riproporsi come modo di vedere le cose e di rappresentarle omologo di quello degli uomini dei tempi di Omero. L’io come sapienza del mondo, nozione razionale e scentifica delle cose, meditazione e presa di coscienza della storia e della vita è messo

da parte

dal Pascoli,

è, attraverso

il mito

del « fanciullino », straniato rispetto al creatore di poesia: si tratta di due piani diversi, che il Pascoli arriva perfino a ipotizzare

atroce

non

comunicanti,

un'idea

anche

di umanità

se,

senza

poi,

respinge

poesia:

come

« Eppure

troppo

è chi dice

che veramente di generi umani ve ne ha due, e non si scorge che siano due, e che l’uno attraversa l’altro, sempre diviso ma sempre indistinto, come una corrente dolce il mare amaro. Vivono persino nella stessa famiglia, sotto gli occhi della stessa

madre, e vivono in apparenza la stessa vita germinata da uguale seme in unico solco; e questi sono stranieri a quelli, non d’un solo tratto di cielo e di terra, ma

la natura.

Essi si chiamano

si conosceranno

mai.

Ora

di tutta l’umanità

per nome

se questo

e non

è vero,

e di tutta

si conoscono non

può



avvenire

se non per una causa: che gli uni hanno dentro sé l’eterno fanciullo, e gli altri no, infelici! Ma io non amo credere a tanta infelicità... ». La divisione fra « l’adulto » come colui che pone altri e opposti valori in opposizione a quelli della poesia, e il « fanciullino » che crea la poesia, ma anche ne è l’uditore e il lettore, non passa attraverso l’umanità, ma passa attraverso ogni uomo, ne costituisce un’interiore divisione, non un’esteriore

separazione fra chi accoglie o crea la poesia e chi, invece, la respinge e la nega.

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2

È, in sostanza, una presa di posizione che più radicalmente separa la creazione poetica dall’io come privilegiato portatore di esperienze,

idee, passioni, volontà, progetti

di azione. La di-

visione fra la poesia e l’altro, passando all’interno di ciascun uomo, immediatamente indica che l’oggetto della poesia non sono,

appunto,

sentimenti,

operazioni,

concezioni,

ragionamenti

in quanto la poesia stessa non è espressione dell’interiorità adulta, ma è modo di veder le cose, disposizione alla visione, al sogno, scelta del punto di vista interno alle cose, nel cuore

del

paesaggio o dell'evento, è mitopoiesi, fondazione del linguaggio, continua ripetizione dell'atto originario di Adamo di denominazione

delle

cose,

orfica

operazione

di far esistere

le cose

in

quanto, appunto, vengono nominate: « Egli [il fanciullino] è quello... che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l'ombra

di fantasmi

e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura,

temperandole

d’'amaro e di dolce, e facendone

due

cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella

donna. Egli nell'interno dell'uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa echeggiare stridule fantare di trombette = di pive, e in un cantuccio dell'anima di chi più non crede, vapora d'incenso l’altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora Egli ci fa perdere il tempo quando noi andiamo per i fatti nostri,

ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce. E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedrem-

mo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della

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cosa più grande alla più piccola, e al contrario. e a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come

di chi due pensieri dia

per una parola. E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta ». La poesia è, per il Pascoli, una

rappresentazione

di finzioni, di sogni, di visioni, di azioni:

di cose,

ma soprattutto è of-

ferta di un punto di vista diverso e, a volte, alternativo rispetto

a quello comune e « adulto ». Per questo il Pascoli non parla di rappresentazione del dolore, del lutto, della morte, dell'amore, ma della presentazione, che la poesia compie, di tutti questi eventi o temi o esperienze di vita secondo una prospettiva che vi rivela dentro aspetti opposti e liberatori rispetto a quelli normalmente

conosciuti e vissuti,

e ne muta

e anche capovolge

gli stessi modi di sperimentarli e di viverli: né parla di descrizione della natura, ma

questo

o quell'oggetto,

della rilevazione,

dello sguardo gettato a volta a volta su

sulla pianta,

sull’animale,

cioè, di ciò che comunemente

sulla pietra,

non

è neppure

visto oppure è considerato inferiore, di scarso interesse, di presso che nessun valore. Non ciò che la poesia deve dire costituisce il significato del discorso pascoliano, e neppure il modo di parlare, ma piuttosto il Pascoli indica la posizione in cui la poesia si mette di fronte alle cose e ai fatti, proprio da tale punto di vista derivandone la specificità, l’unicità, il significato universale ed eterno, la verità, la necessità della durata dai tempi di Omero

a quelli moderni. L'indicazione pascoliana viene a essere molto lontana dall'idea della poesia come luogo del forte sentire, delle grandi passioni, dei supremi motivi di esistenza e di azione, che attraversa

ancora la concezione crociana, dopo essere stata il fondamento dell'opera del De Sanctis. Siamo del tutto al di fuori di una poetica dell’espressione, ma anche di una poetica del reale storico o morale o sociale in cui si incarni l'ideale, e, di conseguen-

za, anche di una poetica della storia e dei fondamentali sentimenti della vita. La novità del Pascoli consiste nel totale superamento di ogni poetica dell'espressione come poetica dell’io che sperimenta, apprende, sente, agisce ed esprime tutto ciò nel discorso poetico (magari oggettivando le proprie lacrime nelle

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cose, come vuole il De Sanctis delle ultime pagine della Storia: ma sempre lacrime sono, sempre la manifestazione dell'io che sente, soffre, spera, opera). Accade, invece, che, per il Pascoli,

la poesia sia uscita dal soggetto, perfino quando vi sormonta il patetico, come si può quelle più remote.

verificare

nelle Myricae,

soprattutto

in

Si veda qualche esempio, come Ceppo: « È mezzanotte. Nevica. Alla pieve / suonano a doppio; suonano l’entrata. / Va la Madonna bianca tra la neve: / spinge una porta; l’apre: era accostata. / Entra nella capanna: la cucina /è piena d’un sentor di medicina. / Un

bricco

al fuoco

s’ode borbottare: / piccolo

ceppo brucia al focolare. / Un gran silenzio. Sono ne. / Gesù trema;

Maria

a messa?

il

Be-

si accosta al fuoco. / Ma ecco un suono,

un rantolo che viene / di sù, sempre più fievole e più roco. / Il bricco versa e sfrigge: la campana, / col vento, or s’avvicina, or s’allontana. /La Madonna, con una mano al cuore, / geme: Una mamma, figlio mio, che muore! / E piano piano, col suo bimbo fiso / nel ceppo, torna all’uscio, apre, s’avvia. / Il ceppo sbracia

e crepita improvviso, / il bricco versa e sfrigola via via: / quel rantolo... è finito. O Maria stanca! / bianca tu passi tra la neve bianca. / Suona d’intorno il doppio dell’entrata: /voce velata, malata, sognata ». Non ci potrebbe essere aneddoto più patetico: la mezzanotte di Natale, la capanna che pare abbandonata, ma

dentro

la quale

c'è * una

mamma...

che

muore », l’arrivo

della Madonna con Gesù, il suono della campana e un interno povero e abbandonato, infine Maria che si allontana. Ma ciò che è immediatamente evidente è la dissoluzione dei particolari, che porta con sé anche la dissoluzione dell’aneddoto stesso, che diventa enigmatico, misterioso, incomprensibile. Il discorso poetico si svolge per brevissimi cenni, per indicazioni isolate, fortemente scandite proprio dall’isolamento della singola informazione che viene data (e le frasi nominali sottolineano anche meglio tale dispersione del centro descrittivo e rappresentativo, spaziale e temporale). Abbiamo un punto di vista esterno, rappresentato

dalla pieve, dalle campane,

dalla neve,

dalla strada;

e un punto di vista d’interno, con la capanna e la cucina. Non c'è nessun legame fra i due diversi spazi in cui si divide la rappresentazione dell’aneddoto, in quanto l’arrivo di Maria con Gesù non porta nulla, non conduce a nessuna soluzione la situazione

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che abbiamo nell'interno della capanna: Maria non soccorre affatto la mamma che muore, Gesù non compie quel miracolo che l'improvvisa apparizione in mezzo alla neve, nella notte. di Natale, mentre suonano le campane della messa, farebbe prevedere 0, almeno, presagire. L'arrivo della Madonna porta esclusivamente a un'ulteriore moltiplicazione di particolari e di punti di vista, assommandosi alla neve, alle campane, alla pieve, alla

capanna. Come non c’è organicità e sinteticità degli spazi, esterni e interni, così lo sguardo nella capanna finisce a rapprendersi sugli oggetti: il ceppo, il bricco, gli unici che sembrino avere una vicenda nella sospensione

totale degli eventi, mentre

la campana

continua a sonare per tutta la durata della visita della Madonna, quasi che questa non abbia più che la durata di un attimo. Il ceppo, che brucia sul focolare, finisce a sbraciare e crepitare; il bricco, che borbotta,

alla fine versa

e sfrigola. Tutta

l’atten-

zione sembra polarizzata nella minima vicenda del ceppo e del bricco tanto è vero che Gesù è « fiso / nel ceppo ». L'altra vicenda, quella della morte della mamma, che non si vede, né si sa chi sia, rimane in secondo piano, allontanata com'è dalla fissità

dello sguardo sui particolari dell'interno, sulla vicenda degli oggetti, sulla loro piccola catastrofe. La visita di Maria e di Gesù finisce anch'essa come in secondo piano: ma in questo modo, se ne accresce l’enigmaticità poiché non pare avere nessuna motivazione,

nessun

significato.

È un'apparizione,

ma

sen-

za nessuno che in qualche modo possa godere della visione: la giustificazione è che siamo nella notte di Natale, favorevole, nella tradizione agiografica e fiabesca, ai miracoli e alle apparizioni sacre, ma poi la rappresentazione contravviene del tutto alla tradizione, poiché l'apparizione della Madonna col Bambino non porta a nessuna conseguenza di fatti e di azioni, rimane un inesplicabile evento, che si conclude come si era iniziato, con la partenza della Madonna e di Gesù nella notte, fra la neve, dopo

che nella capanna di sopra.

si è spento il rantolo che veniva

dal piano

La pateticità dei singoli dati (la notte di Natale, la Madonna che cammina nella neve ed è sempre più stanca, il rantolo della mamma

che muore,

l'insistenza del suono

della campana)

è come dispersa nell’analiticità con cui essi sono esposti e anche

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nel modo riferiti,

indiretto,

tanto

allusivo, velato, enigmatico,

è. vero che

soltanto

a posteriori

con

cui sono

possono

essere

recuperati e riordinati da una rappresentazione che li fa intuire, non li chiarisce affatto. Ma in questo modo il patetico è anch'esso disperso e come dissolto a causa del fatto che è immotivato e inesplicato nei suoi aspetti e caratteri concreti, ed è invece affidato soltanto all’allusività, all’intuizione del lettore, mentre l'attenzione è portata sugli oggetti, sui gesti della Madonna, che nulla hanno a che fare con la morte della mamma, sulla campana che suona. Non c'è più un centro che si faccia carico della pateticità della situazione e ne esprima le lacrime e il dolore, oppure che si faccia portatore della visione della Madonna in mezzo alla neve nella notte di Natale, poi nella capanna. Non c'è più un testimone, insomma, un io come soggetto che si incarichi della rappresentazione poetica e che rilevi, di conseguenza, i significati della situazione. La conclusione è, poi, tale da accrescere ancora il carattere enigmatico del testo: il suono della campana diventa « voce velata, malata, sognata », cioè perde totalmente di realisticità, diviene la voce di un delirio, di un sogno, di un sonno, annulla la nozione che le sembrava legata di essere

il richiamo

della messa

di mezzanotte,

nel Natale,

si

trasforma nell’impressione imprecisa e vaga di un sogno malato. Non c'è nulla di « vero », insomma, nell’aneddoto: nessuno lo testimonia, lo prende su di sé, se ne fa emanatore e narratore.

Di conseguenza, non è che un sogno di malato, raccontato da una voce attraverso il velo del sonno febbrile. Il punto di vista è moltiplicato entro la rappresentazione negli oggetti dell'interno della cucina della capanna e negli atti dei personaggi dell'apparizione: ma è anche esterno a tutto, situato in un altrove indefinito, dove il suono della campana è « voce velata, malata, sognata », e la pateticità della situazione, dell’aneddoto, il carat-

tere fiabesco dell’apparizione della Madonna con il Bambino, finiscono a essere annullate dall’infinita lontananza del punto d'origine della scena e della narrazione, che per di più, rimane indefinito,

indeterminato,

non

chiarito

(cioè, negato

come

sog-

getto da cui emani il testo poetico).

Si prenda un altro esempio, ancor più marcatamente sottolineato quanto a potenziale contenuto di patetismo, Morto: « Manina chiusa, che nel sonno grande / stringi qualcosa, dimmi

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cosa ci hai! / Cosa ci ha? cosa ci ha? Vane domande: / quello che stringe, niuno saprà mai. /Te l’ha portato l'Angelo, il suo dono: / nel sonno, sempre lo stringevi, un dono. / La notte c'era, non c’era il mattino. / Questo ti resterà. Dormi, bambino ». Che l'immagine del bambino morto non sia il frutto della disposizione al patetico del soggetto poetico, appare rilevato dalle inflessioni parlate e semidialettali delle domande rivolte al bambino che escludono il poeta dalla possibilità di essere proprio lui a farsene carico e a porle. Anche in questo caso, la dissoluzione

dei tempi è conseguenza della mancanza del punto di vista del soggetto che unifichi e sintetizzi tutto il discorso e dia ragione dell'evento. Si accumulano nozioni parziali, limitate, discontinue,

che mescolano

tempi diversi: il tempo

della morte, quello del

sonno del bambino, il dono dell’angelo, la notte che « c’era », mentre non « c'era » il mattino (ed è un'indicazione che ancor

più profondamente strania il lettore dall’aneddoto, con il tempo storico che non ci aspetteremo per il mattino, se è vero che la notte è metafora della morte), il futuro di « questo (ma che cosa resterà, non è detto: il dono, forse,

ti resterà » dell’angelo,

ma rimane un margine di enigmaticità). Anche qui la dispersione dei punti di vista, non spaziali, ma temporali, comporta la fine della determinatezza e della chiarezza dell’aneddoto, ma, soprat-

tutto, l'annullamento della pateticità, pur con il bambino morto che sembra stringere nella mano l’ultimo dono. Nessuno facendosene

più carico

come

testimone,

soggetto

poetico,

punto

di origine di tutto ciò che è detto e rappresentato, ecco che il patetico è scaricato sulla scansione enigmatica dei tempi della rappresentazione, né è possibile cogliere realmente chi è il testimone, se colui che fa le domande

e dice l’esortazione conclusiva

(« Dormi, bambino ») si cela dietro il linguaggio semidialettale, l'immaginazione parareligiosa, la dissoluzione dei tempi. La situazione si ripete per Abbandonato: « Nella soffitta è solo, è nudo, muore. / Stille su stille gemono dal tetto. / Gli dice il Santo - Ancora

un po’; fa’ cuore - / Mormora

- Il pane;

è tanto che l'aspetto - / L'Angelo dice - Or viene il Salvatore / Sospira - Un panno pel mio freddo letto - / Maria dice - È finito il tuo dolore! / - Oh! mamma io voglio, e dormire al suo petto. - /Lagrima a goccia a goccia la bufera / nella soffitta. Il Santo veglia, assiso; /l’Angelo guarda, smorto come cera;/ la Vergine Maria piange un sorriso. /Tace il bambino, aspetta

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sei

sino a sera, / all’'uscio guarda, coi grandi occhi, fiso.

/La notte

cade, l'ombra si fa nera; / egli va, desolato, in Paradiso.» È ancora una situazione di miseria e di morte: ma anche questa

è come dispersa dalle presenze enigmatiche e non esplicate, intorno all’« abbandonato » del titolo, del Santo, dell'Angelo, di Maria, del bambino, con il dialogo franto e spezzato, anzi con gli inutili conforti dati all’« abbandonato », che risponde con

l'implicito rifiuto, anzi con una sorta di sorda protesta alle parole di incoraggiamento e di pazienza delle tre presenze sacre intorno a lui. L'attenzione è, però, non tanto sul morente di fame e di freddo, ma sul Santo, sull’Angelo, su Maria e sul bambino.

In più, il bambino darsene,

guarda all'uscio, « sino a sera », per poi an-

« desolato », in Paradiso:

dell'Angelo

non

altro si può

rilevare che il fatto di guardare, così come fa anche il Santo, cioè sempre si tratta del punto di vista che ciascuna figura assume come proprio, e che viene a disperdere il quadro, apparentemente così unitario, della soffitta miserabile con il morente, men-

tre, all'esterno, cade la pioggia. Il racconto si disperde in tante situazioni puntiformi, né le battute dei personaggi costituiscono un dialogo e instaurano un rapporto, ma semplicemente pongono a fronte affermazioni e dichiarazioni che restano irrelate, tanto è vero che né il Santo, né l'Angelo, né Maria forniscono davvero un conforto al morente, al quale, anzi, propongono la morte come

vera

consolazione

e salvezza,

senza

neppure

un

richiamo

al riscatto ultraterreno dalla fame, dal freddo, dalla solitudine patiti (in Paradiso, infatti, va il bambino, non già il morente),

mentre il miserabile abitatore della soffitta contrappone frasi di desiderio, che esprimono l’ancor vivo desiderio del pane, del calore, dell’affetto

materno.

In questo modo, il Pascoli viene a straniare completamente

la possibilità di un riferimento autobiografico: la dispersività della rappresentazione non consente di riferire i vari momenti e aspetti dell’aneddoto a quell’unità espressiva e patetica che sarebbe l’io che manifesta, attraverso l’oggettivazione aneddotica, la propria tragedia di miseria e di morte e di perdita di tutti gli affetti (soprattutto della madre, effettivamente invocata a confronto e contrasto con il tentativo di conforto di Maria, che non

ha per nulla un'inflessione materna). Gli stessi tempi vengono a farsi estremamente relativi: soltanto il bambino « aspetta sino

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a sera », di tutti gli altri personaggi non si sa più nulla, neppure dell’agonizzante. In questo modo la pateticità della scena è totalmente straniata: non esiste più il portatore privilegiato dei sentimenti, questi sono dispersi nella molteplicità di coloro che se ne prendono il carico e dei punti di vista da cui si pongono, ma neppure essi vengono davvero a farsi interpreti della pateticità della situazione fino in fondo, perché è loro tolta dal poeta almeno una parte della funzione sentimentale, non comprendono

in sé l’intera visione e il significato complessivo ne sono

soltanto

una

sezione,

che rimanda

della vicenda,

al di là, agli altri

personaggi che sono accanto e ancora oltre, al di fuori del testo verso quello spazio di paradiso dove va, a sera, il bambino, verso quel tempo che sembra lasciare da parte il morente, il Santo, l'Angelo, Maria, e continuare, invece, nel movimento, nel viaggio

metafisico del bambino

(che non è mai stato citato prima, nella

scena).

Una notevole

parte del significato

della rappresentazione

si pone, insomma, fuori del quadro descritto, in un al di là ovvero

in un altrove che è al di fuori dello stesso soggetto come autore materiale del testo, neppure a lui del tutto noto, tanto è vero che può, al massimo, segnalarlo, darne un indizio, fornirne un'’indicazione, che viene a dilatare al massimo spazio e tempo al di fuori dei termini che, apparentemente, sono dati all’inizio come quelli che dovrebbero definire la situazione rappresentata. Il punto di vista, insomma, non è soltanto moltiplicato all’interno del quadro, ma viene anche a essere collocato al di fuori del quadro, in un altrove in cui non è né il soggetto poetico tradizionale, come portatore e manifestatore di poesia e di sentimenti poetizzabili nonché inventore di situazioni, di vicende, di personaggi, di miti per il discorso poetico, né sono gli stessi protagonisti della situazione o della vicenda rappresentata.C’è un punto di vista che è estraneo alla soffitta, all’agonizzante, alle tre (quattro, anzi) presenze religiose nella soffitta, dedite al compito di confortare il morente: e proprio per questo finisce a

sfuggire la possibilità stessa di cogliere un senso

definitivo

e

chiaro della vicenda raffigurata, rinviato, appunto, al di là del testo, che dice sempre molto meno di quanto gli si chiede o anche sembrerebbe dover dare.

Ciò è vero anche per le descrizioni del paesaggio « Al campo,

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ET dove roggio nel filare / qualche pampano brilla, e dalle fratte / sembra la nebbia mattinal fumare, / arano: a lente grida, uno le

lente / vacche spinge; altri semina; un ribatte / le porche con sua marra paziente; / ché il passero saputo in cor già gode, / e il tutto spia dai rami irti del moro; / e il pettirosso: nelle siepi s’ode / il suo sottil tintinno come d’oro ». Il titolo è Arano: non c'è significativamente

soggetto, onde il punto

di vista è come

proiettato

subito al di fuori di un qualsiasi centro ben definito. Subito il luogo dell’aratura viene spezzato e disperso: il campo, sì, all’inizio, ma poi il filare con il brillio del pampano e le fratte, che sono al di fuori del campo e ne dissolvono immediatamente l’unità di luogo dell’azione e anche la centralità. Poi c'è la moltiplicazione analitica del punto di vista fra chi spinge a lente grida le vacche, chi semina, chi ribatte le porche con la marra. Infine c'è il sollevamento della prospettiva al di sopra dello spazio e delle azioni degli aratori, e il punto di vista conclusivo finisce a essere quello del pettirosso con «il suo sottil tintinno come d’oro », dalla siepe, che sostituisce il più semplice spiare del passero dai « rami irti del moro ». Siepe e moro costituiscono due ulteriori prospettive con cui l’azione dell’aratura, i gesti degli aratori, il paesaggio sono considerati ed esaminati: proprio per essere quelle finali, vengono a rappresentare i punti di vista più significativi, quelli che sembrano raccogliere in sé il significato del testo poetico, i modi di guardare privilegiati. Ma ecco che non si tratta né di chi ara il campo,

né del poeta, ma

del passero e del pettirosso, due spettatori inconsueti, fuori della norma poetica, tanto è vero che non può essere deferito loro il compito di farsi portatori effettivi di messaggio e di significato del paesaggio e della situazione che vi è descritta. Non c'è, insomma, la rappresentazione sintetica dell’aratura, ma una serie di elementi di un paesaggio che nulla più richiama a unità. Se il punto di vista non è fuori del paesaggio, è tuttavia posto in un elemento o in un dato o aspetto laterali, minori secondo la consueta e tradizionale gerarchia di possibibli centri di visione, anche obiettivati, dal momento

che non si pone più come

di emanazione di tutta la descrizione l'io poetico. C'è in più l’assoluta discontinuità di carattere Le

diverse

azioni

di

arare,

spingere

le vacche,

punto

temporale.

seminare,

ri-

battere le porche, sono concentrate in un unico tempo, al di fuori di ogni realisticità, proprio perché ciò che importa al Pa-

33

scoli è quel punto di vista fuori del quadro contadino che è del passero e del pettirosso, come molto bene indica la congiunzione causale « ché », che vale a dimostrare come il punto di riferimen-

to del quadro autunnale non sia lo sguardo degli indeterminati uomini che sono l’implicito soggetto del titolo Arano, ma i due invece determinatissimi personaggi che spiano ciò che accade dal moro

e dalle siepi. Il quadro

pettirosso:

e anche

in questo

è in funzione modo

del passero

si compie

descrittivo, radicale davvero, dal momento

e del

lo straniamento

che non il lavoro dei

campi, non la situazione autunnale, non il mondo

contadino co-

stituiscono il termine reale della rappresentazione poetica, ma il punto di vista dei due spettatori, che si aspettano qualcosa da quanto fanno gli uomini. Non questi, ma il passero è « saputo »: sa, cioè, il significato vero e le vere conseguenze delle azioni degli uomini, e gode di questa sapienza negata a tutti gli altri, e comune soltanto col pettirosso. Il mondo naturale non è, di conseguenza, in nessun modo più antropocentrico: l'eliminazione

del soggetto,

dell’« io », comporta

l'elevazione

al privilegio

di

fornire il senso del paesaggio e il fine delle azioni, appunto, a passero e a pettirosso, in una sorta di implicito « elogio degli uccelli ». Si prenda, per ulteriore esempio, un altro testo di Myricae, Già dalla mattina:

« Acqua, rimbomba;

dondola,

cassetta; / gira,

coperchio, intorno la bronzina; / versa, tramoggia, il gran dalla bocchetta; / spolvero, svola. Nero

da una fratta / l'asino attende

già dalla mattina / presso la risonante cateratta. /Le orecchie scrolla e volgesi a guardare, / ché tardi, tra finire, andar bel bello, / intridere, spianare ed infornare, / sul desco fumerai, pan di cruschello ». C'è un interno, che è evocato

attraverso

una

serie

di termini tecnici non subito percepibili e comprensibili, anche perché gli oggetti sono come straniati da se stessi e dalle loro funzioni attraverso l’animazione e la personificazione che li attualizza al massimo, facendoli protagonisti attivi e vivi della scena del mulino; ma il punto di vista conclusivo è al di fuori di tale interno, poiché è quello, dapprima, dell'asino nella fratta, fuori dello spazio del mulino e dei lavori che vi si svolgono (si badi bene) senza che nessuno

se ne faccia carico

(e già l’indefini-

to « arano » finiva a togliere ogni possibilità di riferimento della situazione e delle azioni che vi hanno luogo a qualche perso-

34

naggio preciso, a un io qualsiasi che possa costituire il punto di vista sintetico da cui dipendano i vari elementi della descrizione), poi del desco e del « pan di cruschello », che è, oltre tutto, un

punto di vista collocato in un tempo diverso da quello in cui le varie parti del mulino compiono, animate dal poeta, le loro funzioni, in un futuro indeterminato, del tutto al di fuori di quello che sembrava, per tutta la prima stofe, la motivazione descrittiva del testo (non il mulino, ma il desco, non l’interno del mulino, ma quello della casa, tuttavia anch’esso raccolto nel-

l'oggetto, non già nella persona

o nelle persone

che vi abitino

o operino, e le stesse azioni di « intridere, spianare ed infornare» sono date dai verbi all'infinito, con un effetto di strania-

mento rispetto a ogni presenza umana, della vicenda rappresentata quale esattamente uguale dànno, nella prima strofe, le forme imperative rivolte ai vari strumenti del mulino). Il discorso vale anche per la dislocazione dei tempi perfino

nei testi di carattere descrittivo, come appare da Già dalla mattina, ma più chiaramente da Pioggia: « Cantava al buio d’aia in aia il gallo. / E gracidò nel bosco la cornacchia: / il sole si mostrava a finestrelle. / Il sol dorò la nebbia della macchia, / poi si nascose; e piovve a catinelle. / Poi fra il cantare delle raganelle / guizzò sui campi un raggio lungo e giallo ». C'è una scansione di tempi e di luoghi che ha, però, un rapporto abbastanza allentato con quello che il titolo definisce come il tema del testo: un canto di gallo dalle aie, il bosco con la cornacchia, poi il sole che si mostra «a finestrelle », quindi indora «la nebbia della macchia », infine si nasconde e allora piove, mentre alla con-

clusione riappare il sole, ma sui campi. Non esiste, in sostanza,

un paesaggio unitamente

definibile: aie, bosco, macchia, campi

si pongono come distaccati elementi, l'uno all’altro estraneo, ma ciascuno in sé autonomo, dato come assoluto. I tempi sono ugualmente contrapposti e irrelati: il sole è fra le nuvole, dora la nebbia della macchia, si nasconde, ritorna a risplendere, senza

che nulla si dica sulla complessiva situazione meteorologica stagionale. Ciascun dato è offerto come assoluto, irrelato,: ciascuno è un punto di vista che assorbe in sé ogni attenzione e propone una prospettiva

da cui guardare il paesaggio

e circoscrivere

il

tempo di uno degli eventi naturali. Non c'è un'effettiva rappresentazione del fenomeno di una pioggia fra l’uno e l’altro risplen-

35

dere del sole, e se c'è un’inquetudine prima della pioggia e una quete dopo la pioggia, ecco che tali stati del paesaggio sono non descritti, ma

affidati

ad allusioni

quasi impalpabili

0, meglio,

proprio alla dissoluzione di punti di vista e di tempi, che sembrano

tendere

a riunificarsi nei « campi » del verso

conclusivo,

cioè in un collettivo generico per indicare il paesaggio

campe-

stre, non più dissolto fra aie, macchie, bosco, e nel « raggio lun-

go e giallo » che lo illumina, riportando a unità anche le prime prospettive divise fra cielo e terra. L'interpretazione del paesaggio e del fenomeno metereologico che vi è avvenuto non esiste più perché non vi è nessun portatore di significati, nessuno

che ab-

bia il compito di raccogliere il messaggio affidato al paesaggio e agli eventi che vi sono contemplati e descritti (come, invece, accade al Leopardi della Quiete dopo la tempesta, dove il poeta si preoccupa di raccogliere di volta in volta e, conclusivamente, nella parte finale del testo, il messaggio che la descrizione possiede in sé e che va reso esplicito perché il lettore vi si riconosca e se ne assuma in proprio il riconoscimento di validità: nel testo leopardiano c'è, infatti, la perfetta coincidenza dello sguardo del poeta che descrive il paesaggio e la situazione meteorologica e del poeta che ne trae le conseguenze di concetti e di idee intorno alla condizione umana).

Il modo della rappresentazione pascoliana non è diverso là dove più si complicano le forme, come ne I canti di Castelvecchio. Cito L'or di notte:« Nelle case, dove ancora/ si ragiona coi vicini / presso il fuoco, e già la nuora / porta a nanna i suoi bambini, / uno

in collo

e due

per

mano; / pel camino

vento, / tra lo scoppiettar dei ciocchi, / porta un suono

nero

il

largo e

lento, / tre, poi cinque, sette tocchi, / da un paese assai lontano: / tre, poi cinque, sette voci, / lente e languide, di gente:/

voci dal borgo alle croci, / gente che non ha più niente: / - Fate piano! piano! piano! / Non vogliamo saper nulla: / notte? giorno? verno? state? / Piano, voi, con quella culla / che non pianga

il bimbo.. Fate / piano! piano! piano! piano! / Non vogliamo ricordare / vino e grano, monte e piano, / la capanna, il focolare, / mamma, bimbi.. Fate piano! / piano! piano! piano! piano! ». Nella prospettiva del discorso del « fanciullino », la rappresentazione dell’« or di notte », in un borgo di campagna, viene a proporre momenti e dati inessenziali rispetto alla comprensione del

36

testo, come

il ragionare con i vicini, il camino,

i bambini

che

vanno a dormire, mentre lascia un largo margine d’ombra intorno al nucleo centrale che è evidentemente quello che racchiude l'ideologia e il messaggio, Non c’è, appunto, chi abbia, nella costruzione del testo, il compito di raccogliere a unità i vari elementi della rappresentazione, suggerendo quale debba essere il significato delle « tre, poi cinque, sette voci » e del discorso

che esse

fanno. Si tratta, invece, dei dati assoluti di una situazione ripetitiva, rituale, che si rifà uguale a ogni « or di notte »: non è un accadimento, una vicenda, un’esperienza, ma il fatto di tutte le sere. Ciò che conta, nella prospettiva del « fanciullino », è la ripetizione senza varietà e diversità dello stesso stato di cose, vicini che conversano, scoppiettare di ciocchi nel camino, suono di campane, bambini che vanno a dormire in braccio o per ma-

no alla mamma, « voci dal borgo alle croci » e il contenuto di questi altri misteriosi discorsi, che non è altro che la dichiarazione di non voler più sapere nulla, di non voler più partecipare all'esistenza dei vivi, di essere lasciati in pace, nel silenzio, senza

pianti di bambini, senza le preoccupazioni delle stagioni, senza quelle della campagna(« vino e grano »), senza neppur più il pensiero del paesaggio, che è cancellato, respinto, negato (monte e piano, / la capanna, il focolare »). Non interessa, nella rappresentazione pascoliana, l'evento, ma il carattere, che esso ha, di eterna identità nel tempo, anzi in un’assenza di tempo, che è quella della famiglia nell’« or di notte », del borgo mentre cadono le tenebre, dei morti che parlano con il suono delle campane. Non ci sono spiegazioni intorno a ciò che è rappresentato nel testo: ciò che importa sono i particolari sempre uguali della vita e i discorsi sempre uguali delle voci che vengono con il vento, attraverso il « camino nero ». L'autore non sa nulla più di quello che dice. Offre materiali, non si propone come l'interprete, lo stratega del discorso poetico, quello che sceglie gli oggetti e le situazioni, ordinandoli al messaggio conclusivo 0, comunque, al punto di vista complessivo e sintetico. Le ripetizioni, nel discorso delle « voci », è quasi ossessiva: essa rimane nella memoria, con la raccomandazione a fare « piano », cioè a non vivere o, almeno, a vivere poco, a non far udire i suoni e le vicende della

vita. Non c’è spiegazione, non c’è interpretazione, pure, espressa, un’idea della vita e della morte:

non c'è nep-

c'è, soltanto, lo

37

stupore per il discorso che viene col vento e con il suono delle campane (cioè, quel non sapere nulla di più di ciò che si vede, anche al di là delle cose, nulla oltre oggetti, gesti, parole che sembrano formarsi chi sa da chi entro il suono delle campane: e il testo intende, appunto, dichiarare soltanto ciò è giunto al poeta come tramite, non più in nessun tore, chiosatore, portatore di idee).

caso interprete, esplica-

Lo stesso discorso si potrebbe fare per testi celebri de / canti di Castelvecchio, come La tovaglia o come Il gelsomino notturno. Più complesso è il caso de La servetta di monte: « Sono usciti tutti. La serva / è in cucina, sola e selvaggia. / In un canto siede ed osserva/ tanti rami appesi alla staggia. / Fa un giro con gli occhi, e bel bello / ritorna a guardarsi il pannello. / Non c'è nulla ch’essa conosca. / Tutto pende tacito e terso. / E non ode che qualche mosca / che d’un tratto ronza ad un vetro: / non ode che il croccolio roco / che rende la pentola al fuoco. / Il musino aguzzo del topo / è apparito ad uno spiraglio. / È sparito, per venir dopo: / fa già l’acqua qualche sonaglio.. / Lontanto lontano lontano / si sente sonare un campano. / È un muletto per il sentiero, / che s’arrampica su su su; / che tra i faggi piccolo e nero / si vede e non si vede più. / Ma il suo campanaccio si sente / sonare continuamente. / È forse anco un’ora di giorno. / C'è nell'aria un fiocco di luna. /Come è dolce questo ritorno / nella sera che non imbruna! / per una di queste serate! / tra tanto odorino d’estate! / La ragazza guarda, e non sente / più il campano che a quando a quando. / Glielo vela forse il torrente / che a’ suoi piedi cade scrosciando; / se forse non glielo nasconde / la brezza che scuote le fronde; / od il canto dell’usignolo / che, tacendo passero e cincia, / solo solo con l’assiuolo / la sua

lunga veglia comincia, / ch’ha fine su l'alba, alla squilla, / nel cielo, della tottavilla ». Qui la situazione è ancora più complessa che nei testi precedenti. All’inizio sembra che il punto di vista sia quello della protagonista del titolo, la servetta di monte, che pare raccogliere in sé il punto di vista dell'interno di cucina: i rami appesi alla staggia, le pareti intorno, il proprio grembiule; e, dopo, pare costituire il termine di comunicazione dei suoni e delle voci che le giungono: la mosca che ronza a un vetro, il croccolio roco della pentola che è sul fornello. Ma, in ogni caso, anche nelle prime due strofe del testo, c'è più un'indicazione di non co-

38 PS

ci

dans

noscenza («non c'è nulla ch’essa conosca ») che un’appropriazione delle cose. Queste sono, sì, raccolte intorno allo sguardo della

servetta « sola e selvaggia », ma, non appena la cornice in cui la ragazza è collocata si complica, ecco che sfuggono a una razio-

nalità e a una normalità di disposizione e di presenza e si collocano entro un'assoluta arbitrarietà di evocazione: la mosca e la pentola, designate dal rumore che di esse giunge alla servetta, si aggiungono a una cornice che dapprima sembra non doverle presupporre, così come poi accade per « il musino aguzzo del topo » e per il « sonaglio » dell’acqua e per il « campano », tutti

elementi nuovi che vengono a proporsi al di fuori di ogni prevedibilità, come le successive accessioni di una situazione d’interno e di un paesaggio di fuori (già preannunciato dal battere della mosca contro il vetro, a indicare che c'è qualcosa, forse un messaggio, che deve o vuole entrare per giungere fino alla servetta sola, in un luogo a lei del tutto straniero). Ma

già con

la mosca

che

ronza

a un

vetro

siamo

fuori del punto di vista e di ascolto della protagonista: servetta,

quindi, può essere

la portatrice

usciti

non la

dei significati e delle

presenze degli oggetti e delle mutazioni delle minime situazioni del giorno, né, quindi, gli oggetti e i suoni e le apparizioni sono in esclusiva funzione di lei, dei suoi sentimenti, delle sue paure,

del suo essere « sola e selvaggia ». Non c’è protagonista, cioè il Pascoli non sceglie la strada dell’oggettivazione dell'io come soggetto - oggetto di poesia. La destituzione della parte di protagonista per la servetta è denunciata dal passaggio dallo sguardo e dall’udire di lei all’impersonalità dei successivi verba videndi et sentiendi : « si sente sonare un campano »; il muletto che «tra i faggi piccolo e nero / si vede e non si vede più ». L'impersonalità dell’udire e del vedere denuncia lo spostamento del punto di vista e di rappresentazione dalla ragazza nella cucina a fuori, altrove, nel paesaggio, nel suono del campanaccio del muletto, nell’arrampicarsi dell'animale fra i faggi, verso il monte. Ciò che conta è, allora, non più l’immobilità dell'interno con i rami appesi alla staggia, ma il movimento che c’è fuori: la mosca dietro al vetro, il topo che penetra nella cucina da fuori e sparisce, ma

per ricomparire

più tardi, in una

nuova

visita, il campano,

il

muletto, la salita lungo il monte.

39

AR

A questo punto il testo sembra mutare di nuovo direzione, e costituirsi come monologo non pronunciato della servetta che pensa alla sua casa: un monologo, appunto, non detto, ma suggerito in modo distaccato, fatto quasi impersonale, tuttavia ugual-

mente inteso a manifestare all’esterno lo stato d'animo della ragazza, tradotto in una serie di scatti patetici, marcati particolarmente dall'insistenza dell’esclamativo: « Com'è dolce questo ritorno / nella sera che non imbruna! / per una di queste serate! / tra tanto odorino d'estate! ». Ma al monologo disincarnato ri-

spetto a colei che dovrebbe esserne la fonte, almeno sentimentale, segue un’ulteriore dispersione spaziale della cornice (che è venuta ad acquistare sempre più importanza e forza rispetto al quadro della servetta nella cucina, sola, mentre tutti sono usciti),

con l’indicazione dell’ora e con l’evocazione nell'aria (che è, poi, una metafora adeguata cazione di presenza della luna i riferimenti diani, come la « falce di una luna calante » precedente Canto novo: non la luna piena e

del « fiocco di luna » per togliere all’indiromantici e leopardel di qualche poco luminosa, ma un'’im-

magine ridotta, limitata, circoscritta del pianeta, che, attraverso

la metafora, vede spostate tutte le relazioni patetiche che gli erano tradizionalmente legate, tanto più che, a differenza della falce di luna di d'Annunzio, il fiocco di luna del Pascoli non dà

luce, anzi non ha nessun

rapporto con immagini

di luce).

La conclusione del testo è interamente sotto il segno della negazione e dell’altrove rispetto al quadro della servetta che, sola nella cucina, mentre scende la sera, di fronte al muletto che ri-

sale il sentiro del monte, sente come obiettivate le parole del suo desiderio di ritornare alla propria casa: la ragazza guarda, sì, ma non sente più il suono del campanaccio del muletto, non ne avverte più il richiamo nella sua solitudine, poiché altro tempo e altri richiami la frastornano, e sono

il torrente che è com-

parso « a’ suoi piedi », dove « cade scrosciando », la brezza fra le fronde, il canto dell’usignolo, quello dell’assiuolo. Il quadro è spezzato, disperso: il patetico della nostalgia della propria casa nella servetta che viene dai monti, dove desidera ritornare, già allontanato, staccato dal soggetto, reso incerto, ambiguo, quasi irriconoscibile 0, comunque, non facilmente decifrabile, ecco che

viene sommerso da una serie di presenze che non hanno nulla a che fare con esso, mentre

40

la stessa

ragazza

viene come

espulsa

dalla cucina e dagli oggetti che a questa appartengono,

e col-

locata davanti al torrente che cade ai suoi piedi, fra le fronde mosse dalla brezza, in mezzo al canto dell’usignolo e dell’assiuolo,

e poi ancora oltre, in una lunga veglia che dura l’intera notte e cessa all'alba, quando si udrà la « squilla, / nel cielo, della tottavilla ». Non c'è più sentimento, non c'è più il senso di estranei-

tà e di solitudine e la nostalgia della casa: c'è soltanto il rinviarsi l'uno all’altro dei suoni ormai tutti all’esterno della cucina da cui era mossa la rappresentazione, il punto di vista è totalmente mutato, vertiginosamente alzandosi al di sopra dello sguardo e dell’ascolto della servetta, fra torrente, fronde, canto di usignolo e assiuolo e tottavilla, nel cielo, ormai, alla fine, nel-

l'infinito cielo, dove non può più esserci traccia della pena solitaria della servetta di monte. Il paesaggio sembra costituirsi a posteriori, non essere il presupposto di un'operazione descrittiva che rimandi a un'indicazione preventiva di luogo, secondo i modi leopardiani, per esempio, o anche secondo la circolarità esaustiva dello sguardo del soggetto come creatore di poesia che è propria dei celebri testi carducciani di impostazione descrittiva, come il Canto dell'amore ovvero Alle fonti del Clitumno o anche di Nevicata, che unisce anche la raggiera dei suoni intorno all’io che costruisce e dà il significato al testo. Il Pascoli non muove da un dato che sia situato in un ordine spaziale ben definito, ma sembra partire da uno spazio vuoto nel quale poi via via si accampano, non necessariamente con coerenza realista, anzi con esclusione di ogni logicità realista, vari oggetti, elementi paesistici,

suoni, ecc.

Si veda l’ultima parte de // bolide, che è un ulteriore esempio di tale costruzione dello spazio: « Mentre pensavo, e già sentia, sul ciglio / del fosso, nella siepe, oltre un filare / di viti,

dietro un grande olmo, un bisbiglio / truce, un lampo, uno scoppio.. ecco scoppiare / e brillare, cadere, esser caduto, / dall'infinito tremolio stellare, / un globo d’oro, che si tuffò muto / nelle campagne, come in nebbie vane, / vano; ed illuminò nel suo minuto / siepi, solchi, capanne, e le fiumane / erranti al buio, e

gruppi di foreste, / e bianchi ammassi di città lontane. / Gridai, rapito sopra me: Vedeste? / Ma non v'era che il cielo alto e sereno. / Non ombra d'uomo, non rumor di peste. / Cielo, e non altro : il cupo cielo, pieno / di grandi stelle; il cielo, in cui som-

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merso / mi parve quanto mi parea terreno. /E la Terra

sentii

ch'è del cielo anch'ella. RESTE

nell'Universo. / Sentii, fremendo,

vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella ». Qui sembrerebbe esserci un io come soggetto di poesia, come intreprete di una vicenda di cui è anche attore, protagonista: il timore dell’agguato nella notte nella campagna, nel ricordo dell'altra imboscata di cui fu vittima il padre; la meteora che cade d'improvviso, il commento

conclusivo.

Ma ecco che tale costru-

zione viene subito contraddetta dal modo con cui il Pascoli organizza il testo.C'è un passaggio repentino di punti di vista che si contraddicono

decisamente:

le siepi e i filari, dietro cui si at-

tende l'agguato, ecco che sono liberati da ogni ansia e terrore dalla luce del « bolide » che li illumina, ma per un altro più profondo terrore. L'immagine del «bolide » che, precipitando nella campagna, fa esistere in un modo diverso e allucinato siepi, solchi, capanne,

fiumane,

« bianchi

ammassi

di città lontane »,

è come una figura del modo di vedere del Pascoli: nel vuoto si accampano d'improvviso gli oggetti del paesaggio, illuminati per un istante da una luce che non è naturale e realista, ma, appunto, cosmica (se non proprio metafisica). Le cose o non preesistono all’illuminazione che le fa entrare nel testo o, se esistono, sono

del tutto rinnovate dalla di cui sono fatte oggetto. ficare molto più dell'io che questo finisce come

rilevazione improvvisa e imprevedibile La cornice del paesaggio viene a signiche è al centro del quadro, tanto più cancellato dall'assenza di ogni persona

accanto, di ogni suono, e anche il bolide è vano non meno nebbia vana che è la campagna.

della

Il messaggio gridato (« Vedeste? ») non incontra che il vuoto, il nulla, e non conta se è il nulla della terra dove soltanto per un istante sono apparse siepi, fiumane, città, o se è il nulla di un cielo pieno, sì, di stelle, ma vuoto, in realtà di ogni significato

e di ogni presenza divina. Ma allora ciò che il soggetto dichiara o grida o prova non va oltre quello spazio vuoto e vano che è intorno.

Lo stupore

si chiude

su se stesso,

senza

comunicarsi.

La dissoluzione del privilegiato soggetto poetico è ancor più evidente. Si pensi a testi come // soldato di San Piero in Campo o come Suor Virginia, che della dissoluzione del personaggio come oggetto di poesia sono testimonianze esemplari: il primo perché il protagonista

42

non

c’è, è morto

lontano,

e ciò che

si avverte

I x

nella pluralità dei punti di vista e di ascolto della sera d'estate, al paese, è appunto e soltanto questa assenza, ossessivamente riproposta da tutto ciò che è evocato e descritto; il secondo perché di fronte a Suor Virginia sta un'infinita quantità di cose che sono tanto prive, in sé, di chiarezza di messaggio e di significato quanto cariche di suggestioni, di suggerimenti misteriosi, di inespressi e inesplicabili avvertimenti. La visione che conclude il poemetto, non che fornire una soluzione interpretativa, muta invece il punto di vista del discorso, lo trasferisce nell’infinitamente

grande

(il Cielo) e, al tempo

stesso,

in una

dimensione

cosmica e visionaria, nella quale l'evento singolo della morte di Suor Virginia viene a essere, al tempo stesso, esaltato per il corteo delle undicimila vergini martiri che l’accompagnano alla porta del Cielo, ma anche reso uno degli infiniti altri trapassi santi e in grazia di Dio, quasi annullato nell’enorme e rituale numero delle vergini che formano il corteo. Si aggiungano il privilegio e l'esaltazione, che in entrambi i testi sono marcati, del particola-

re: l'ottica del « fanciullino » non è mai complessiva e sintetica, ma ingrandisce e isola il particolare e lo pone come termine conclusivo della rappresentazione, non come elemento di un quadro ordinato e logico. Ciò avviene esemplarmente nelle descrizioni che si susseguono, lungo i Poemetti, dei lavori dei campi, delle vicende stagionali, dei fatti della famiglia contadina, protagonista di quello che si può definire un «romanzo georgico ». Il protagonista si trova continuamente negato come tale, cioè come occhio o anima che si assuma il compito di definire i significati, i valori, i sentimen-

ti, le situazioni. La dispersione comporta, naturalmente, l’oscurità, l'ambiguità, la polivalenza, l'impossibilità stessa di giungere a delineare un movimento

retto di discorso poetico, che, invece,

si ingorga continuamente e si ferma nel particolare, mentre il senso della rappresentazione o l’evento di una narrazione rimangono al di fuori del testo (poiché l’attenzione del poeta è sollecitata sempre soltanto dall’elemento di interesse che non è l’aneddoto nella sua interezza e logicità, ma piuttosto il bosco, la siepe, il vento, il suono, l'oggetto, che non dovrebbero essere altro che cornice, e invece si fanno di volta in volta fine della

rappresentazione, quadro, appunto). Perfino nel « romanzo georgico » non abbiamo un preciso ordine di eventi, che pure do-

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vrebbero essere dettati dal ritmo sempre uguale delle stagioni: e, significativamente, il « romanzo » si interrompe spesso per lasciar passare altri testi, estranei a esso, in qualche caso addirittura opposti (come nel caso de Gli emigranti della luna o della sezione Il bordone - L'aquilone, che si inseriscono in mezzo ai « poemetti » georgici). La situazione del racconto poetico come dislocazione completa dei fatti secondo un punto di vista che non si cura di chiarezza di narrazione, di precisione di incastri, di evidenza di tempi e

di luoghi, è denunciata con più clamorosa forza nei Poemi conviviali, proprio perché ci troviamo di fronte alla rappresentazione di situazioni e di eventi mitologici ovvero storici. Cito Tiberio: « Discende a notte Claudio dal monte / Borèo: col vento dalle nubi fuori / rompe la luna e gli balena in fronte, / fuggendo. Egli rimira, a quei bagliori, / Livia e l’infante: intorno vanno frotte / silenziose di gladiatori. / S'ode tra lunghe raffiche interrotte / l'Eurota in fondo mormorar sonoro; / s'ode un vagito. E nella dubbia notte /le nere selve parlano tra loro./ Rabbrividendo parlano le selve / di quel vagito tremulo, che a scosse / va tra quel cauto trapestio di belve. /Sommessamente parlano, commosse / ancor dal vento, che vanì; dal vento / Borea, che le aspreggiò, che le percosse. / Dal ciel lontano a quel vagito lento / egli era accorso; ma nell’infinito / ansar di tutto, dopo lo spavento, / risuona ancora quel lento vagito. / Chi vagisce è Tiberio. E il vento accorre / dal ciel profondo tuttavia; spaura / le nubi in fuga, e sbocca dalle forre. / Le selve il mormorio della congiura / mutano in urlo, e gli alberi giganti / muovono orridi in una mischia oscura. /Lottano i pini coi disvincolanti / frassini, e l'elci su la stessa roccia / coi faggi urtano i vecchi tronchi infranti. / E il fiore della fiamma apresi e sboccia. / Sboccia la fiamma, e il vento la saetta, /come

una frusta lucida e sonante,

/ via per ogni pendio, per ogni vetta. / Il vento con la frusta fiammeggiante, / col mugghio d'una mandria di tori, / cerca il vagito del fatale infante. / Ardono i monti; ma ne’ suoi due cuori / Livia tranquilla, indomita, ribelle, / tra i rossi omeri de’ gladiatori,/

nutre Tiberio con le sue mammelle ». Non c'è affatto, nel « poema », la narrazione della nascita di Tiberio: c'è un paesaggio selvaggio di monti, fiume, vento, foreste, illuminato appena dalla luna (che, tuttavia, è in fuga) e, dopo, dai fuochi dell’incendio

44

che il vento ha suscitato; c'è un'atmosfera di apocalissi, raccolta intorno all'evento di una nascita misteriosa, « fatale », come dice il testo; c’è, infine, in tutto lo sconvolgimento del vento, dei boschi, delle fiamme, la figura ieratica, simbolo della maternità e della Natura, di Livia che « nutre Tiberio con le sue mammelle ».

Sono

tutti motivi e temi che rinviano

un codice di informazioni

fuori del testo, in

che non rientra nel testo e, di conse-

guenza, non è comunicato al lettore. Ciò che il lettore apprende è la prospettiva fissata su una foresta, una notte di vento, il vagito di un infante, un incendio fra gli alberi, le frotte dei misteriosi gladiatori, Claudio che scende dal monte, Livia che allatta il bambino. L'atmosfera di apocalissi si unisce con la celebrazione della nascita misteriosa e fatale, quasi quella di un messia o di un antimessia:

ma i nomi sono romani, romana

l’am-

bientazione con i gladiatori. A contrasto sta la selva, sta il vento Borea che infuria, sta la stessa immagine allegorica di Livia che, fra l'incendio e la bufera, allatta il figlio. Al lettore non è data nessuna informazione: non si tratta soltanto della ricerca di notizie e di dati storico-mitologici più peregrini, ma di un punto di vista scelto dal Pascoli all’interno della situazione o della vicenda narrata. Anche il Carducci non manca di fare sfoggio di erudizione mitologica e storica nei testi in cui concreta il suo sogno di una romanità e di una classicità come ancora vive e

attuali, in cui sia ancora possibile ritrovare valori e vera virtù di fronte a un mondo contemporaneo invilito e volgare o, addirittura, morto agli ideali e alla grandezza: ma lo sguardo carducciano rimane sempre dall'alto, e il poeta non manca mai di fornire, nel testo, le indicazioni di guida alla lettura e alla com-

prensione degli elementi e delle funzioni più culte e più ardue che egli vi inserisce. Il Pascoli, invece, non dice nulla all’interno

del testo che possa essere utile all’esplicazione di esso:

tutto è

al di fuori, in una dimensione di informazioni e di cultura che non interessano realmente al poeta, onde accade che l'evento

rappresentato rimanga come sospeso nel vuoto, come astratto, e in questo modo l’attenzione si polarizzi più decisamente sui particolari dell'evento, cioè, qui, appunto, sulla foresta, sul vento, sull’incendio, sui gladiatori che passano in silenzio, su Livia e

sull’infante (e, allora, la suggestione di un'antitesi fra questa e un’altra nascita finisce a coagularsi intorno alle immagini not-

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turne e apocalittiche: non detta, ma, appunto, suggerita misteriosamente, in una contrapposizione che esalta, da un lato,.la violenza della natura, il paesaggio rupestre e boschivo, il vento, il fuoco, la distruzione, i gladiatori, intorno a una nascita che non è avvenuta in una casa o in un palazzo, ma nella solitudine montana del campo militare, dall'altro Livia « tranquilla, indomita, ribelle », che allatta il figlio Tiberio, e dietro tutta la rappresentazione c’è l’immagine dell’opposta nascita di Cristo e Maria che dichiara di essere l’ancella di Dio, l'umiltà dei pastori e della capanna, la serena notte del natale di Gesù).

Anche per questo il discorso pascoliano viene a porre i suoi segni indicativi e i suoi messaggi fuori di se stesso: c'è sempre una prospettiva « altra » da cui è guardato il testo, che non è né quella del poeta né quella del protagonista del testo. In questo modo l’io è, in ogni caso, escluso, sia che non compaia come ordinatore e interprete autorizzatissimo

del testo, sia che, invece,

non abbia affatto delegato ai protagonisti dei componimenti di carattere storico o mitologico la funzione di essere i portatori del messaggio, coloro che, come portavoce dell’autore, parlano al lettore e gli dànno le opportune indicazioni perché questi comprenda il significato del testo e l'intenzione del poeta. Il punto di vista rimane al di fuori del testo per quel che riguarda il messaggio, mentre all’interno del testo c’è l'esplosione del particolare (bosco, alberi, vento, luna, incendio, vagito, ombre di gladiatori, mugghio delle fiamme), ciascuno rilevato decisamente, all’infuo-

ri di ogni preordinata e preesistente gerarchia di valori, ma soprattutto in modo indipendente dall’aneddoto del testo, dal significato o, comunque, dai dati della rappresentazione. Si prenda ancora un testo di Odi e inni, quello dedicato a Chavez: « Cercano ancora... Cercano tra i venti / randagi, in mezzo alle selvaggie strette, / su scrosciar di valanghe e di torrenti: / cercano ancora, l'ultime vedette, / rapide trasvolando per le gole, /placide roteando sulle vette, / lungo il confine, immenso azzurro, sole / tra l’aria e il vuoto, tra la terra e il sole. / Hanno

sognato forse nella notte! / Battono l’ala contro la parete / dei borri, presso l’orlo delle grotte. /Ad ogni tonfo che l’eco ripete, / sbalzano su, guardando fise in fondo / dei cupi abissi, guardando inquiete / subito in cielo; con orror profondo / solcano a sghembo,

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spaurite,

il Gondo; / hanno

esplorato

i monti,

hanno

gridato / alle montagne; con insonne cuore / mirano il cielo immobile e stellato: / palpitano alle raffiche sonore, / tremano d’una nuvola, d'un tuono / ch'a un tratto scoppia e lungamente muore: / posate ognuna sur un irto cono / mirano gli astri, se ne venga un suono.. / se ancora appaia, cresca agli occhi, e passi / forte rombando, un essere terreno.. / colui che ascende ma strisciando ai sassi, / colui che sogna e non è mai sereno, / colui che pensa, ma non vola, bruto / dannato al suolo dove rode il freno; / che in cielo, un dì, mirabilmente muto / passar fu visto, come

Dio, seduto! /un uomo!

l’uomo alato! che discese / e che sparì.

Dietro le roccie nere, / ei discendea con le grandi ali tese / simile al sole che si trascolora, / quanto Ebbe ultime,

l’occaso;

quando

ancora. / Aquile,

avrà no!

al salire, tanto

l’aurora? Non

nel cadere./

/ Cercano,

lo vedrete.

le vedette

Ancora / egli di

discende e nell'orecchio il gelo/ ha di quel soffio e il rombo

di

quell’ora. / Aquile, no! Non più raffrena anelo / il suo remeggio, più non chiude l’ale / poi ch’una volta le distese in cielo. / Discende

ancora

con un volo eguale, / discende

sempre,

calmo

ed

immortale. / Che forre e gole e vortici e spavento / di precipizi e giganteggiar d’erte / roccie e improvvisi sibili di vento! /O voi delle altitudini deserte, /aquile dei ghiacciai, delle morene,/ ei va con l’ale eternamente aperte, /va per le solitudini serene,/ fuor della terra, o aquile terrene! / fuor della terra che notturne a prova / serrate, come

preda da voi morsa, / tra i fieri artigli,

a che più non si muova; / eppur si muove, e corre, e nella corsa / v'aggira e porta e al sole riconduce; / mentre lontana splende la Grande Orsa, / splende Orione, Aldebaran, Polluce.. /Ma ei discende nella pura luce. / Discende? Ascende! Aquile, gli occhi aprite /avezzi al sole che gli spazi invade, / alle stelle remote ed infinite! / Là, sulle incerte nebulose rade, / là, sull'immensità che gli s’invola / di sotto, là, su l’alto cielo ei cade. / Cade, con

la sua grande anima sola / sempre salendo. Ed ora sì, che vola! » Anche in questo testo manca ogni informazione per il lettore: chi sia Chavez, che cosa gli sia accaduto, dove. La cronaca

come

la storia e il mito non è che il punto di partenza del discorso poetico, e tutte le notizie (di carattere complessivo e sintetico) sono, di conseguenza, al di fuori del testo, che è, invece, allusivo, enigmatico, disperso, analitico.

47

Nell’evocazione dell'eroe, il punto di vista non è quello del

protagonista e dell'impresa che ha compiuto o della morte eroica che ha incontrato

durante

le sue gesta, ma

è del tutto altrove,

nello sguardo delle aquile così insistentemente richiamate e invocate per tutto il testo. È un punto di vista che si rinfrange immediatamente nelle montagne, nelle valli, in cielo, fra gli astri, fino a

perdere fra gli spazi così dilatati la figura stessa dell'eroe, che viene a essere collocato in tanta dispersione di luoghi e dimensioni come a riempirla di una straordinaria immensisità cosmica. Il dato finisce a dilatarsi e a disperdersi nell'infinitamente grande delle alpi, dei cieli, delle costellazioni, tanto più vasto in quanto la prospettiva discende dall'occhio delle aquile. In questo modo, il Pascoli elimina totalmente la possibilità che l’io dell’eroe assorba in sé il giudizio e il racconto della propria vicenda, della quale, allora, nulla è davvero noto, proprio perché non c'è, di essa, il testimone (l’unico) davvero autorizzato a raccontarla, anzi non c'è nessun testimone se non le aquile, cioè testimoni fuori delle coordinate della cultura comune, storica,

di quella di coloro che sanno scomparsa

della vicenda

dell’aviatore sulle Alpi, testimoni

di Chavez

e della

di un’altra cultura,

di quella oracolare dei classici, che appunto alle aquile affidavano il responso

sulla fondazione

taglia, sugli eventi eroiche.

pubblici

L'evento moderno,

delle città, sulle sorti della bat-

e privati,

anzi attualissimo

sull’esito

delle

imprese

del volo umano

viene

così spostato vertiginosamente all'indietro, nel momento stesso in cui è collocato ancora al di là dello spazio, pur già eccezionale, del cielo delle Alpi in cui si è svolto, verso l’infinito cosmico, le costellazioni remote. Può così avvenire il capovolgimento delle prospettive, dal punto di vista delle aquile e nella prospettiva del cielo infinito: Chavez che cade nell’infinito, non sulla terra, ma nel cielo profondo, fra la Grande Orsa, Orione, Aldebaran,

Polluce. L'ossimoro viene a tradurre il capolgimento del punto di vista rispetto a quello logico e realistico dell'impresa aviatoria. Di qui deriva anche l’altro ossimoro, quello dell'uomo che si stacca dalla terra e vola come le aquile, più in alto delle aquile, liberandosi dai limiti della terrestrità e della morte stessa (e compiendo, « calmo ed immortale », la profezia del Monti dell'ode al signor di Mongolfier). Dall'ottica non dell’aviatore, ma

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delle profetiche e sacre aquile, discende anche il paesaggio mosso, rupestre, sconvolto, abissale dove si estende il volo delle aquile e si compie il loro tentativo di ritrovare Chavez: è il paesaggio terreno negato dal volo dell’uomo, che, fatto immortale e sereno al di sopra della terra, non ha ormai altro spazio che quello delle costellazioni, degli abissi celesti. Non c’è più racconto, di conseguenza, non c'è più aneddoto: né, in ultima analisi, c'è più l'eroe protagonista, disperso e allontanato all’infinito dalla prospettiva in cui la rappresentazione si colloca (e il Pascoli non evoca affatto la vicenda di Chavez: ciò che è dopo tale vicenda costituisce il tema

del testo, ciò che è intorno, ciò che è al di là del

volo, oltre la realtà del personaggio, della sua impresa, ciò che ne è il significato non storico, ma metastorico, cosmico, metafisico).

In Chavez, come in tanti altri testi pascoliani, si compie anche quell’altra dispersione dei punti di vista che è data dall'inserzione di ambiti di cultura e di « fonti » diverse, classiche

e contemporanee, sublimi e quotidiane, nello stesso componimento. Si pensi all'ultima sezione di Alexandros, con la rievocazione onirica del « nido » nell’« Epiro aspra e montana », vegliato dalla madre e dalle « vergini sorelle », con la duplicazione delle prospettive fra quella classica, con la ripresa di motivi e notizie desunte

da Curzio

Rufo, e il rispecchiamento,

in esse, della si-

tuazione autobiografica dell'autore, che viene così a identificarsi con l’eroe, non tanto ribaltando l'ossessione familiare sul personaggio classico quanto sublimandola nella condizione di Olimpia, che sa le voci delle querce che bisbigliano e della fonte della vita, interpreta le doppie profezie o rivelazioni del cielo (le querce di Dodona, sacre a Zeus, di cui è sacerdotessa) e gli oracoli di sottoterra, che escono dall’abisso con il suono e le parole del

fonte, e al tempo stesso riportando la ricerca e il viaggio della poesia all’esplorazione della terra e al sogno della conquista della luna che furono di Alessandro. La presenza di elementi classici ha sempre, nei testi pascoliani anche in apparenza più semplici, la funzione di mutarne la prospettiva di visione e di considerazione, di suggerirvi una profondità di tempi di composizione e una

stratificazione

di significati che va sempre

oltre la lettera,

al tempo stessa riportando a un'assoluta attualità le reminiscenze e i motivi classici e dignificando e facendo esemplari le situazioni apparentemente

quotidiane, comuni, campestri o di paese,

49

onde è davvero da escludere del tutto ogni tentativo di fare del Pascoli un poeta di cose concrete, di dati precisi di un'ornitologia e di una botanica romagnola o garfagnina, di un'esigua vita contadina, di una « democratizzazione » di oggetti poetici. Tutto questo comporterebbe l’esistenza di un codice dell'io, di una scelta del soggetto, là dove il Pascoli esclude, attraverso la proliferazione dei punti di vista, l'unicità del soggetto, e tende piuttosto a ottenere il sublime attraverso il quotidiano, e a trasferire

questo allo stesso grado di esemplarità del mito e della letteratura classica. La novità del Pascoli, per quel che si riferisce agli oggetti poetici, non è nella loro « classe », ma nella perdita, in essi, di ogni punto di riferimento di qualsiasi genere, anche di classe, nell’affidamento della prospettiva di visione a ogni singolo oggetto, indipendentemente dal decoro poetico che esso abbia, mescolando oggetti autorizzati con oggetti mai fatti termini di discorso

poetico,

e, nello

stesso

momento,

sublimando

con

la

reminiscenza e con l’allusione classica la situazione contadina o familiare, i sentimenti del « nido » e quelli di Alessandro Magno o di Achille. In questo modo

il Pascoli opera anche una

sorta

di dis-

seminazione dei riferimenti culturali, nei quali l’attualizzazione, che è sempre molto marcata, tuttavia si ribalta altrettanto decisamente su sfondi infiniti e indefiniti di mito e di antichità, e

anche in questo modo l’eroe finisce a dissolversi come personaggio definito una volta per tutte dalle storie o dai miti o dalle stesse cronache contemporanee, viene caricato di compiti e di responsabilità diverse e anche opposte, si propone non come attore ma come punto sempre sfuggente e diverso di diverse prospettive di considerazione e di giudizio e di rappresentazione. Il Pascoli si allontana, allora, in modo definitivo sia dalla fiducia del Carducci di far rivivere e agire l’eroe in mezzo alla degradazione contemporanea come riscatto ed esempio sublime, sia dalla consapevolezza che d'Annunzio ha dell’essere, l’eroe, per la morte o per la follia, non più certamente (o non ancora) per la cosrtuzione, il futuro, il mondo nuovo, recuperato delle

sue rovine.

Questa dissoluzione della positività dell'eroe (del protagonista) avviene per Chavez anche in contrapposizione alla situazione culturale contemporanea: sì, anche il d'Annunzio del ditirambo

50

e

ii

IV di Alcyone deputa a Icaro il compito di proporre miticamente l'esempio eroico per il volo umano: ma Icaro è davvero l’eroe completo, quello che unisce in sé lo slancio al di là di ogni limite nel volo e la tensione verso l’altra ribellione, quella contro le istituzioni e il padre e contro la sua stessa condizione nell'amore impossibile e supremo per Pasifae, è il personaggio che filtra in sé vita e morte, passione (anche bestiale) e sogno di arrivare fino al carro del Sole, e tutto egli proclama, descrive, dichiara,

nella prosopopea della propria vicenda e volontà suprema. Chavez, al contrario, è assente nel testo pascoliano che pure gli si intitola: non ci sono né l'impresa eroica, né la tensione che l’ha

condotto nel regno delle aquile, né la morte nella straordinaria sublimità del gesto. È l’eroe assente: al suo posto ci sono le aquile della divinazione classica, c'è il non meno classico « tuono /ch'a un tratto scoppia e lungamente muore », ci sono le montagne, le grotte, soprattutto c’è il cielo infinito. L'eroe è così ribaltato in una dimensione non più terrena, fra il mito classico

e un paesaggio irrealistico, cosmico, aspro, selvaggio, dove non sono

uomini, così come

se non i sacri cigni l'esploratore prende, del « garrulo ritorno prefazione dell'inno

Andrée

non ha intorno a sé più nessuno,

iperborei e il paesaggio di ghiaccio, nella solitudine, disgusto del mondo ». Anche Andrée è assente per tutta che gli è dedicato: Chavez è ancora

anzi alabitato, la lunga più re-

moto, si perde nel cielo, verso le costellazioni (ma anche Andrée

si perde nel nulla, nel dominio della morte che è il polo, né di lui altro si sa se non la sua scelta della morte, dopo la conquista, piuttosto che il ritorno). Del resto, a poli cronologici opposti, il Pascoli viene a dichiarare

la sua concezione

della rappresentazione

poetica come

relatività di punti di vista ne // bove e in Paulo Uccello. Si prenda Il bove : « AI rio sottile, di tra vaghe brume, / guarda il bove,

coi grandi occhi: nel piano / che fugge, a un mare sempre più lontano / migrano l’acque d’un ceruleo fiume; / ingigantisce agli occhi suoi, nel lume / pulverulento, il salice e l’ontano; / svaria su l’erbe un gregge a mano a mano, / e par la mandra dell’antico nume. / Ampie ali aprono immagini grifagne / nell'aria; vanno tacite chimere, / simili a nubi, per il ciel profondo; / il sole, immenso, dietro le montagne / cala, altissime: crescono già, nere, / l'om-

bre più grandi d’un più grande mondo ». Soltanto nell'occhio del

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bue il gregge sembra la mandria « dell’antico nume »: il mito risorge solo nel punto di vista straniato, diverso, dell'animale (così come in quello pure diverso del fanciullino), e allo stesso modo le nubi vi si trasformano in tacite chimere, quelle chimere così fortunate nell’inconografia poetica di d'Annunzio e di Campana. Tutto ciò che è normale paesaggio, con il sole che tramonta, le nuvole che si muovono

per il cielo, i monti, il fiume, gli alberi,

viene enormemente

ingrandito dal punto di vista del bove, che

è « naturale », ma

non

« naturalistico »

e non

realistico,

così

come il punto di vista del « fanciullino », anch’esso naturale ma non realistico. Ma si badi bene: nel sonetto pascoliano, che è la riproposta palese di un tema carducciano totalmente capovolto e straniato, non c’è soltanto il punto di vista del bove protagonista, ma anche quello dei vari aspetti e momenti del paesaggio, di volta in volta rimessi in gioco dall’aggrandimento straordinario dell'occhio del bove (ed è una notizia di scienze naturali, che il Pascoli utilizza in senso antiscientifico, antipositivista, antina-

turalistico, così come le ricerche sulla psicologia infantile per il discorso sul « fanciullino »: strumenti, occasioni, non di più, per osservazioni che sono al di fuori decisamente di ogni ambito di interessi scientifici, psicologici o naturalistici che siano). Il rio sottile si trasforma così in un ceruleo fiume, il mare diventa sempre più lontano, il piano « fugge », non c’è più spazio determinato e certo, ma uno spazio infinitamente dilatato e indeterminato, tanto che lo sguardo finisce a perdersi, e non soltanto quello del bove, ma anche quello del poeta che lo registra, così come, subito dopo, un uguale senso di infinito ampliamento spaziale e di perdita conseguente di ogni obiettivo punto di riferi-

mento viene reso dall’evocazione del cielo, con le indefinite « imagini grifagne » e, dopo, le chimere e il sole immenso e le montagne altissime, fino all'estrema trouvaille del Pascoli, che è quella conclusiva indicazione di «un più grande mondo », con le sue «ombre più grandi », che propone la visione del bove anche come quella che crea un mondo diverso e maggiore di quello consueto, e lo fa esistere accanto al mondo

degli uomini con le sue

dimensioni scientificamente misurabili e definibili. Il punto di vista « diverso » veramente

fa sussistere un’al-

tra realtà al di là di quella scientifico-fenomenica (e, del testo, in Alexandros, il Pascoli fa sentenziare al conquistatore dell’Asia

DA

che «il sogno è l’infinita ombra

del vero »: il sogno, appunto,

che è un altro modo di vedere, un altro punto di vista, un’altra

prospettiva di considerare e contemplare le cose). Nella descrizione dell'affresco che dipinge Paolo Uccello, nel « poema italico » che gli si intitola, il problema del punto di vista è riproposto come indicazione di poetica: « La parete verzicava tutta/ d’alberi: pini dalle ombrelle nere / e fichi e meli; ed erbe e fiori

e frutta. / E sì meraviglioso era a vedere / che biancheggiava il mandorlo di fiori, / e gialle al pero già pendean le pere. / Lustravano nel sole alti gli allori: / sur una bruna bruna acqua di polle / l'edera andava con le foglie a cuori. / Sorgeva in fondo a grado a grado un colle, / o gremito di rosse uve sui tralci / o nereggiante d’ancor fresche zolle. / Lenti lungo il ruscello erano i salci, / lunghi per la sassosa erta i cipressi. / Qua seppie in terra si vedean, la falci. / E qua tra siepi quadre erano impressi / diritti solchi nel terren già rotto, / e là fiottava un biondo mar di messi. / E

là, stupore, due bovi che sotto / il giogo aprivan grandi grandi un solco, / non eran grandi come era un leprotto / qua, che fuggiva a un urlo del bifolco ». Sì, c'è la memoria culturale (vasariana) dell’ossessivo studio della prospettiva da parte di Paolo, ma tale reminiscenza si unisce con l’occasione, che il Pascoli subito coglie,

di proporre un’altra volta la prospettiva del pittore che fa grandi le cose piccole e piccole le grandi come omologa di quella del poeta, che esattamente nello stesso modo compone la sua descrizione del paesaggio che sconvolge la disposizione e l’ordine realistico e dello sguardo dall'alto e sintetico a favore della dissoluzione dell’obiettività nella relatività del punto di vista secondo cui gli oggetti sono presentati e mostrati nel quadro. Il poema

di Paolo Uccello, allora, appare significativo an-

che per la coscienza,

che il Pascoli

vi dimostra,

del carattere

« pittorico » del punto di vista relativo, dall'interno della rappresentazione, da un angolo che non sia al di sopra della visione, ma

ne faccia

intimamente

parte,

ne costituisca

esso

stesso

un elemento che è da rappresentare insieme con il quadro, come indica, nel « poema » pascoliano, il « commento » che il poeta fa della prospettiva che ha assunto, sia attraverso

la rilevazione

del vario disporsi spaziale degli oggetti nel paesaggio (« qua... là »; « lenti... lunghi »,ecc.), sia attraverso l'ammirazione esclamativa (« E là, stupore, due bovi... »), sia attraverso l'indicazione della

Da

sincronia straordinaria delle vicende della natura, onde abbiamo i mandorli in fiore e i peri carichi di frutti, le zolle nereggianti e le uve mature, le messi e i solchi, il ruscello e l’erta. La prospettiva poetica è, di conseguenza, puramente infinta, creata

totalmente dall’artista: non è una prospettiva in nessun modo riferibile a un’oggettività di sguardo. È quella di una visione, che, non avendo preoccupazioni di fedeltà realista, può accumulare un'infinità di punti di vista, scanditi nello spazio e anche nel tempo (e qui è la novità del « poema » di Paolo Uccello). Il tempo dei fiori e il tempo dei frutti, quello della mietitura e quello dell’aratura, lo spazio dove fugge il leprotto e quello dove lavorano

i buoi, il colle sassoso

e la polla, l'alloro

e il salice,

possono coesistere in quella prospettiva visionaria e creatrice che è quella poetica (come, analogamente, quella pittorica).

È il punto estremo a cui la poetica del Pascoli è giunta: il punto di vista è quello disperso nella molteplicità degli oggetti del paesaggio, ma è anche accresciuto quantitativamente e qualitativamente dal fatto di scandirsi anche temporalmente, secondo un'alternanza di tempi che moltiplica indefinitamente la possibilità di rappresentazione del paesaggio, della natura. Il Pascoli giunge così alla suprema congiunzione di dispersività e di molteplicità degli oggetti e dei punti di vista interni a ciascun oggetto e di enciclopedicità nel tentativo di raccogliere contemporaneamente e nello stesso spazio l’esemplificazione di tutti i luoghi naturali e di tutti gli eventi che in quei luoghi si compiono via via durante il succedersi delle stagioni. È l’antico sogno edenico di una natura senza storia neppure di stagioni, perché le contemporaneità

di fiori e frutti, di arature

e di im-

biondimento delle messi, significa la cancellazione di quella tipica vicenda naturale di nascita e di morte che è pure il segno di un’intima tragicità nella natura, sia pure confortata dalla continuità del ciclo, che reintegra le perdite della morte con la rinascita della primavera. Ma è anche il sogno edenico di una completezza di oggetti naturali, che è impossibile nella realtà, ma è possibile dal punto di vista della poesia. Si prenda sempre Paulo Uccello, l'elencazione degli uccelli nel paesaggio già descritto:

« E uccelli, uccelli, uccelli, che il buon

uomo / via via

vedeva, e non potea comprare: / per terra, in acqua, presso un fiore o un pomo: / col ciuffo, con la cresta, col collare: / uccelli

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usi alla macchia, usi alla valle: / scesi dal monte, reduci dal mare: / con l’ali azzurre, rosse, verdi, gialle: / di neve, fuoco, terra,

aria, le piume: / con entro il becco pippoli o farfalle. / Stormi di gru fuggivano le brume, /schiere di cigni come bianche navi /fendeano l’acqua d’un ceruleo fiume. /Veniano sparse alle lor note travi / le rondini. E tu, bruna aquila, a piombo / dal cielo in vano sopra lor calavi. / Ella era lì, pur così lungi! E il rombo / del suo gran volo non l’udian le quaglie,/ non l’udiva la tortora e il colombo. / Sicuri sulle stipe di sodaglie, / tranquilli su’ falaschi di paduli, / stavano rosignoli, forapaglie, / cincie, verle, luì, fife, cuculi ».

Anche ciclopedica

in questo caso il Pascoli tende all’esaustività endell’ornitologia quale è concesso raggiungere sol-

tanto all’arte. Per di più, l’arte non

è azione, tanto

è vero

che

il rombo del volo dell’aquila non è neppure udito dalle quaglie, dalla tortora e dal colombo, né la minaccia che è nella presenza del rapace mai si concreterà nell’assalto e nella morte. Il punto di vista dell’arte è quello, anche,

di un

dominio

assoluto

degli

eventi. L'artista è padrone della vita e della morte, e può sospendere

questa

e vedere,

invece,

le diverse

manifestazioni,

fatte

indolori e pacifiche, di quella. Le rondini e le gru che fuggono le brume anche qui convivono perfettamente, riproponendo la concomitanza e la contemporaneità attuale per mezzo della prospettiva in cui si pone l’artista, al di fuori delle norme della realtà, sia quanto a possibilità di sguardo, sia quanto a obbedienza alla norma dei tempi e degli spazi. L'artista è al di là della regola spazio-temporale della realtà storico-fenomenica, e può, di conseguenza, ricomporre la forma della natura edenica, al tempo stesso proponendone nella sincronia le stesse vicende, ricostruendole ed evocandole l'una accanto all'altra nel tempo come nello spazio, infine indicando l’indefinito potere della parola e del punto di vista che essa attua sulla pagina nel fondare davvero un mondo alternativo rispetto a quello della logica, della ragione, della realtà documentata dalla scienza e dalla storia. Il « poema » di Paolo Uccello è soprattutto una dichiarazione

di poetica,

compiuta

attraverso

la dimostrazione

concreta

della potenza dell’arte nei confronti della realtà. L'arte è frutto di una visionarietà che può tranquillamente porre accanto, nella contemporaneità assoluta e liberatoria del testo poetico, ciò che

53

è, nella realtà, lontano, opposto, non commisurabile e non confrontabile, e, nel tempo, collocato in scansioni diverse, in situazioni cronologiche del tutto alternative l'una rispetto all'altra,

in dimensioni che sono l’una con l’altra incompatibili (ma senza determinare affatto un rifiuto della mente, quanto piuttosto lo stupore, la meraviglia, cioè un modo di adesione al di là dell’impossibilità spaziale e temporale). Si conferma in questo modo, al polo cronologico opposto rispetto alle prime Myricae, la centralità del problema della disseminazione dei punti di vista all'interno dei testi pascoliani, in conseguenza dell'abbandono della prospettiva sintetica, dall'alto (e secondo quanto il Pascoli scrive nel discorso del « fanciullino »). In questo modo l’io si disperde e dissolve nella molteplicità oggettiva, scomparendo come soggetto e oggetto del discorso poetico, così come si annulla nella sapientissima esaltazione della funzione del significante (come ha dimostrato Beccaria). È una doppia indicazione, fondamentale per la poesia del novecento.

56

GIAN LUIGI BECCARIA

POLIVALENZA

E DISSOLVENZA NEL LINGUAGGIO POETICO PASCOLIANO

Ci sono due tipi di scrittori, quelli che hanno fiducia nel segno (gli scrittori della necessità) e quelli che trattano il segno come una perifrasi intorno alle cose (gli scrittori della perplessità) ('); quelli che hanno riconosciuto

piuttosto il valore eterno

del segno poetico, come una specie di esemplare platonico, e hanno mirato alla nettezza (Alfieri o Foscolo, Carducci o Saba potrei dire); altri, soprattutto i moderni, mirato invece all’ebrezza che

tende a sfumare la nettezza. Per i primi, la parola che non dice tanto « questo », ma l’universale, e il particolare sempre depositario di una totalità, il significante che rimanda sempre ad un significato, perché il poeta non crede nell’insufficenza delle parole, e rimuove l’indicibile. Le loro poesie lasciano per lo più un'impressione di grandiosità e di assolutezza. Il linguaggio poetico dunque che ordina e non altera, scolpisce e non sfuma. La lingua si sa, perché depositata in una perentoria tradizione di esempi alti e intimativi, e che trova la sua grande forma nel già

udito. Alle soglie del Novecento Pascoli invece, sappiamo, è per la lingua « che più non si sa », che va cercata sotto quella che si sa. Quella delle istituzioni letterarie in uso è grigia e scolorita; quasi estranea, va smantellata, il suo significato profondo cercato attraverso il significante. E non mi inoltro adesso per le vie della grande stagione simbolista, tra le osservazioni, poniamo, di un Mallarmé sulle segrete direzioni confusamente indicate dai suoni e il loro labile statuto che si arresta sull’orlo dell’indistin-

(1) Cfr. G. L. BECCARIA, « Grande stile » e poesia del Novecento, 1981, pp. 28-39 [ora in « Sigma », XVI, 2-3, 1983].

in « Prometeo

», I, 3-4,

DI

to, indicate dall’« orthographe » che concorre misteriosamente a qualificare il segno, sulla S « dissolvente et dissèminante » ©:

È anche la stagione in cui Saussure prende a parlare della « sostanza fonica delle parole » (*) (e l’interesse del grande linguista

ginevrino per il Pascoli latino e gli anagrammi sottostanti non è di rilievo marginale). Le lingue moderne sono « imperfette », notava Mallarmé, hanno perduto la necessità mimetica, non contengono più l'immagine della cosa, che sta celata, sotterrata. Il linguaggio poetico è andato nel tempo regredendo. Occorre cercarvi sotto una nuova lingua. Il continente è sprofondato: emerge soltanto l’arcipelago delle emozioni e delle pulsioni. Pascoli dà una buona esemplificazione italiana di questa moderna concezione di poesia. È il primo esempio notevole di « simbolismo » nostrano. E spicca poi nelle patrie lettere per una peculiarità individuale: l’accesa ipersensibilità per i valori del significante: poeta che più di altri si è fatto trascinare dalla sostanza fonica del verso; poeta in cui il momento sensitivo tende a velare ed a prevalere sul momento enunciativo. Vorrei perciò in questa conversazione fermarmi ancora (come già feci in un mio lavoro di qualche anno fa) (‘) sui valori di senso promossi da elementi designati come non semantici (tipo allitterazione, timbro, assonanza, iterazioni, relazioni fonologiche ecc.: gli elementi insomma che compongono l’« orchestrazione » del verso), e mostrare come i valori materici influiscano sulle valenze della semanticità denotativa per rinnovarle, ri-crearle,

rifondarle, liberando un senso non che singolarmente lo promuovono.

convertibile

negli elementi

Farò perciò una serie minima di osservazioni formali sul linguaggio poetico pascoliano: osservazioni che rilevano quei valori ‘altri’ annessi al linguaggio della poesia in generale, e che rivelano l'inadeguatezza dei significati ’ nozionali’ su cui tuttavia si fonda la comunicazione poetica. Il linguaggio della (2) Cfr. Notes:

Méthodes,

in Oeuvres

(3) Rimando a P. WUNDERLI, Anagramm-studien,

in

«Zeitscrift

complètes,

Paris

1945, p. 855.

Premier cahier à lire préliminairement. für

Franzôsische

Sprache

und

Ein Basis-text seiner

Literatur BC

pp. 203-15. E a C. OSSOLA, « Attestazione » e « sottoscrittura »: gli ipogrammi « Il piccolo Hans », 22, 1979, pp. 6-43; e vedi anche il suo saggio apparso XXXV, 1979, pp. 1063-78. (4) L'autonomia del significante, Torino 1975.

58

LXXX,

1972

di Saussure, in in « Critique »,

poesia, sappiamo, è un linguaggio polivalente, stratificato, non centralizzabile come il linguaggio della ragione: ambiguo e plurale, fa franare la denotazione ed apre le porte alla polivalenza grazie alla dissolvenza della lingua, alla sua regressione simbolica che obbedisce ad una ‘logica’ diversa da quella della netta enunciazione. Dei ’ due’ Pascoli, il Pascoli dell’onomatopea, il virtuoso che cesella talvolta sonorità emergenti, effetti mimetici, minia-

ture di elegante fattura, e tramite l’allitterazione insistita, l’assonanza vistosa, rivela un orientamento verso la parola esposta, la catena disposta e assaporata per essere nel verso scandita e pronunciata, che mostra insomma volontà di dizione e intenti di gesticolazione ritmica, tra questo Pascoli dicevo, e l’altro invece

che

dissolve

e attenua,

neutralizza

l’intento

mimetico-

riproduttivo, scelgo evidentemente il maggior Pascoli, cioè quest'ultimo. Sappiamo difatti che c’è il Pascoli che sembra voler adattare la parola ai suoni della natura, e c'è il Pascoli di sorprendente

modernità,

quello

che ha saputo

indirizzare

l’accre-

scimento « eufonico » verso dei piani connessi col contenuto; quello che ha fatto diventare elementi per sé non-semantici (quali ritmi, accordi fonici) responsabili una situazione espressiva.

di uno

stato

interiore,

di

Il maggior Pascoli non è quello del vistoso marcato, ma quello della dissolvenza. Non mi riferisco alla dissolvenza sul piano del contenuto, voglio dire a quel Pascoli che, come è stato scritto, evidenzia il quadro, ma su uno sfondo di evanescenze reali (nebbie, brume), che evita il nitido del primo piano (in senso cinematografico). Ecco, per principiare, una variante minima (Novembre, in « Myricae ») verso l’indeterminatezza

la nebbia a mucchi ingombra l'orizzonte un VEL di piOggia VELa l’OrizzOnte

indeterminatezza che investe parallelamente venza:

>

due piani di dissol-

1) l'evasione in un linguaggio ove i lineamenti della enunciazione più esposta, più precisa, o corposa in questo caso (« a mucchi ingombra »), sono dissolti;

59

2) lo sfumato che si stende anche alla testura, fonicamente

« accordata ». Con questa intendo la compagine verbale che grazie alla relazione e iterazione delle affinità foniche, neutralizza, mette in sordina, sfuma ora la corposità, altra volta lo ” strepito ‘ per così dire, del reale.

Una tecnica della dissolvenza: una patina sonora uniforme è stesa sull'intera testura di componimenti brevi (o in una serie compatta di versi), in modo tale che l'evidenza fonica, anziché calcare la mano, si risolve in evasione, in fuga dal reale, non già

nell'’accompagnamento e nel rinforzo della sensazione espressa. Se leggo in « Myricae » Alba festiva

acustica

tra IL cANtico sONoro IL tuo tINtINNo squILLa, voce argENtINa - Adoro, adoro ReDIbLEaAMAILI la nota d’oro - L’ONda pENde dAL ciEL, trANquILLa.

Ma voce più profONda sottO L’AMor rIMbOMba, par che AL desio rispONda: la voce

dELLa

tOMba.

di prima evidenza è la senzazione di trovarsi di fronte più ad un'addizione che ad un intero: ad una serie voglio dire di ’impressioni’ versificate in un componimento dotato di una sua caratteristica, ingannevole innocenza, di una simulata spontaneità. Non enunciazione descrittiva, unità compositiva di tipo

progressivo, ma componimento non-progressivo (basterebbe guardare alla struttura sintattica) in cui la frase procede e si succede giustapposta scivolando attraverso una serie di sostituzioni di senso risolte soprattutto in progressive sostituzioni tra elementi adiacenti omologhi sul piano della rispondenza fonica. La poesia

è difatti una variazione timbrica di alcune « armoniche » fondamentali. Da un embrione sonoro proposto in attacco (cantico sonoro, tintinno, squilla) subito si slarga una temacità sonora diffusa (tacendo il resto, si noti l'evidenza grafica che nel testo ho dato al nesso voc. + liquida [n, m, 1] promosso appunto dai

segni vettori che lo contengono, e lo promuovono): dunque, associazione di effetti, equivalenti a certi segni vettore ({INtINNo,

60

squILLa), accordo formale, procedimento riduttivo, incatenatura in un registro omologo appunto.

Registro: una metafora musicale. Contini ha parlato in un

suo memorabile saggio pascoliano di « pedale » messo ad intere composizioni; e ha parlato di « partitura ». Il suo discorso verteva sulla riduzione delle rime ad un’assonanza continuata. In un mio lavoro ho allargato quel discorso ad un altro dei procedimenti caratteristici del linguaggio poetico pascoliano, al modo trattare certe parole-tema come suscitatrici fonica (abbiamo appena visto tintinno) ().

di una

cioè di

tematicità

Pascoli immette le parole in un ambiente fonico omogeneo; cerca la compattezza eufonica della composizione. Tra le parole del suo lessico poetico ce ne sono delle privilegiate, che Pascoli sente, più di altre, come degli eccitanti verbali che condizionano le adiacenze. Parole tematiche (Traina le ha chiamate « cellule-ono-

matopeiche ») (9) che producono sul verso e sugli immediati contorni effetti di discorso legato, « ridotto ». Ne avevo

scelto una,

tipicamente pascoliana, ma anche parola poetica di largo e logorato impiego nella poesia tra Otto e Novecento, ed a Pascoli carissima, tant'è Emilio Cecchi () denunziava lo scialo di questo aggettivo adatto a ricoprire le attribuzioni più svariate, valido per gli oggetti più disparati: il belato, il nitrito, lo squillo delle trombe, il mormorio delle onde, l’ululato, specie del vento, e altro ancora. Mi riferisco all’aggettivo tremulo, uno dei più logori appunto, e diffusi nella koinè poetica tra Otto e Novecento (sino al Montale di Meriggiare, i « tremuli scricchi/ di cicale »). Un esempio tra i tanti: Patria, in « Myricae »

QuANto scAMpANELLare TREMulo di cicale! STRIdule pel filare moveva il maeSTRale le foglie accaRTocciate.

(5) Ib., Cap. IV, pp. 136-208. (6) A. TRAINA, Il latino del 1971 (I ed., 1961). (7) La poesia

di Giovanni

Pascoli.

Pascoli,

Saggi

Napoli

sul

1912,

bilinguismo

poetico,

nuova

ed.,

Firenze

p. 30.

61

Non dico che sia soltanto tremulo (e qui c'è anche stridulo, altro eccitante fonico, a tremulo omometrico e omofonico) a condizionare la testura che lo contiene. Il vocabolo comunque è una parola-stimolo che riscopre e potenzia le proprie componenti foniche nella testura che lo attornia (da TReMuLo le allitterazioni di /t-r-m-1/;

da trEMULo

/voc. + liquida[n, m,1]/).

il nesso

E non è un caso isolato: questo modo

di condizionamento

testo indotto da tremulo è una figurazione costante

sul

in tutti i

versi che lo contengono. Perché questa stabilità di figurazione? Forse per volontà mimetico-riproduttiva del reale, effetto ” onomatopeico ‘’, trascrizione diretta, marcatura e arricchimento sonoro? O si tratta invece di predilezione (questa di comporre versi costantemente « accordati ») che nasce puramente dal mestiere: tecnica insomma, artificio? Se così fosse, il discorso già potrebbe chiudersi qui o allargarsi a qualche altra esemplificazione del procedimento, allo scopo di illustrare questa ginnastica dell’artificio, quest’abile atletica poetica. Si tratta invece di predilezione semantica (e avrei potuto, o forse dovuto, a scanso di equivoci, anche intitolare un mio

libro in cui Pascoli aveva grossa parte, piuttosto L'autonomia del significato che non del significante). Se adunassimo qui tutti gli esempi della poesia di Pascoli in cui compare l’aggettivo tremulo, se ne trarrebbe, sotto questa voce, un vero glossario della polivalenza. Tremulo non vale tanto per quello che significa, non è provvisto di una portata nozionale ben precisa: ricopre una gamma analogica estesissima sino a comportare anche, o ad invadere, il campo semico contrario: da luce, suono, movimento e suono, sino ad assenza di suono, « ombra », « silenzio ». È un vettore di dissolvenze dei contenuti (oltre che della testura sonora), un aggettivo che non definisce a priori l’oggetto, ma cambia continuamente

dimora, vagando intorno alla cosa

liberamente, «come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato » (‘). E lasciamo pure per un momento l’esempio singolo per allargarci a tutti gli esempi in cui compaiono gli aggettivi da Pascoli prediletti. Pascoli predilige aggettivi del tipo tremulo, fragile, gracile, querulo in quanto appartengono ad un nucleo semico ben deliminato, chiuso cioè entro frontiere che + Vv (8) Cfr. O. MANDEL'STAM,

La Quarta

Prosa,

della comunicazione letteraria, Milano 1976, p. 103).

62

Bari

1967,

p. 43 (cit.

in M.

CORTI,

Principi

esprimono (provo a parafrasare) : / diminuzione del vitalismo /, / tensione all’irraggiungibile espressione compiuta / (e vedi allora anche anelito, alito, palpito, fremito, ansare, soffiare, soffio: « L'aria soffiava luce di baleni / silenziosi »; « Pende un silenzio tremulo, opalino / su la radura: dondolano appena / le cavallette il lor campanellino »), l’ / espressione che non raggiunge / mai, o raggiunge a fatica, l’esplicito, o rientra nel silenzio, s’arresta al rumore fievole, alle voci che non hanno suono, che ce l'hanno

al limite della percettibilità (tremulo appunto,

e blando, fioco,

« vocìo fioco », « scampanìo fioco », tenue, sottile, lieve, basso, « bisbigli bassi », debole, muto, breve, velato, tacito, segreto, « tintinnìo

segreto », sommesso,

essi, punti semanticamente

smorto).

E intanto

notiamo

quanto

distinti, mostrino altrettanta egemo-

nia compositiva: l'incremento di quelle dissolvenze riduttive dei timbri cui accennavo, parte spesso, o si appoggia, nella variante, su uno di essi. Ecco lieve in sUsURRa Un lieve mURmURe peRenne invadere di sé la versione definitiva: gEmE con liEvE strEpito pErEnnE (Al fonte, in « Myricae »); ecco sottil in « già il suO tenue tintinnO cOme d’OrO » incrementare di più le rispondenze in « Il suO sOTTII TInTInnO cOme d'Oro » (Arano, in « Myricae »). Ma torniamo al piano semantico di prima, e stiamo a fragile, gracile, tremulo: sono aggettivi riferiti appunto a moti o voci fioche, poco intense, come di pena (tremulo belato, vagito tremulo, ombra tremula, alba tremula d'ali; gracile voce,

gracile e blando, gracile bisbiglio,

« un grido smorto e gracile »,

ecc.). È evidente che non sono aggettivi onomatopeici, aggettivi, voglio dire, di suono, di rumore, di crepitio. Lo sono, anche, ma

non intendono sottolineare ciò che fisicamente si spezzi per fragilità, o quel che tremi. Non si tratta tanto di volontà, da parte del poeta, di sottolineare un ” tremolio ” fisico emergente, di usa-

re un segno come menzione naturalistica. Pascoli non traccia col suo linguaggio dei segni netti intorno alle cose, ma delle perifrasi foniche che si rifanno ad un continuum semico soggiacente (« profondo »). Voglio dire che quella che è una incertezza, una fragilità, un gracile vitalismo che pervade la labilità delle cose, quello che è insomma per Pascoli un flusso interiore psicologico (e prelinguistico quindi) nel percepire le cose, emerge ritradotto nel suo verso (attraverso quello che impropriamente diciamo tecnica), e investito in una sensazione linguistica, in un ‘ euforiz-

zamento ” delle parole

(nella loro fonica

interna)

portatore

di

63

impulsi sotterranei;

e tanto

’ sovraccarico ‘“ è come

una corrente

che gli fa abbracciare in un rapido lampo le connessioni che ci sono tra un tremulo belato di un animale, un vagito tremulo di un bimbo, la gracile voce di una creatura e la ’gracilità”, il tremolio dell’universale. Il sintagma o il verso « accordato », « ridotto », è una catena di risonanza prolungata che trasmette conoscenza/intuizione del reale che va più a fondo: che più che sostenere l’enunciato, sonda attraverso l'enunciazione. Il simbolismo fonico, infralinguistico e sovralinguistico, più che linguistico, fa scattare associazioni che agiscono come ‘ distinte ” dal significato delle parole. Si ricordi L'assiuolo

quello svolare di rumori sente il lamento

di « Myricae »,

acuti nel silenzio della notte

dove

si

del chiù, uccello notturno, una voce che ha os-

sessionato Pascoli: lamento di un mondo misterioso, voce che proviene da una fonte invisibile, voce di ansia, di pena, di mistero, un soffio cosmico, un singulto notturno dell’universo. Il silenzio è pervaso di strida, e le cavallette, nella notte squassano

fINIssIMI sIstrI d'argENto (KINtINNI a INvISIDIII porte...

certo, le porte del mistero, della morte. La figurazione formale è identica alle già citate. Come per tremulo, anche il gruppo di tintinnare (tintinni, tintinnio, tinnire) è un eccitante che ripercuote se stesso, riduce a denomina-

tori comuni la trama del verso che lo contiene o dei versi adiacenti. Nell'esempio citato tintinni guida e coagula la scelta delle parole contigue, e le ha vincolate con allitterazioni di /t/, consonanze di /voc. + n [m] /, ripercussione di un timbro tenuto

(/i/). La parola tematica ripercuote una sonorità tematica; lega ai proprii costituenti fonici le parole dell’immediato contorno; instaura con esse un rapporto armonico; comunica ad esse e da esse riceve qualcosa della propria natura verbale. Affiora allora con intensità non certo l'intensità di un effetto mimetico, e neppure la marcatura di elementi semantici discreti ma quelli che sono in realtà i contenuti « profondi » ed effettivi della coscienza poetica: cioè nuclei, fasci di relazioni, di cui l'espansione fonico timbrica di superficie diventa depositaria. E non perché la costruzione fonica stia lì ad accompagnare una sensazione interiore, del resto non denominabile, ma soltanto esprimibile (qui una

64

paura, uno sgomento, una inquietudine, la morte si diceva). La

costruzione fonica (l'accordo) parafrasa anch'essa il nucleo oscuro dell’inesprimibile. Non rinforza la senzazione, ma diventa essa stessa portatrice e depositaria di quella sensazione.

Non mi si fraintenda. Non voglio affatto dire che una vocale per sé induca

sensazioni

di esilità, precarietà, fragilità (la

/i/ poniamo, privilegiata da Pascoli così spesso, anche nei ricorrenti frequentativi in io: tintinnìo, luccichìo, stridio ecc.). La

vocale non ha certo in sé un significato autonomo: illusione fonosimbolistica (da Grammont e seguaci, e riprese autorevoli recenti, sia pure nei dettagli di prove fornite ancora da Martinet o da Fònagy). Il suono /i/ non è, in sé, depositario di significato. Non accetto il determinismo nel rapporto suono - immagine: si pensi alle osservazioni di Baudelaire sulla immotivazione della /i/, presente proprio nella più oscura, nella più cupa delle parole: fr. nuit. Posso dire soltanto che il linguaggio poetico conferisce ad /i/ quanto gli manca nella langue (in senso saussuriano): vale a dire la motivazione. Il linguaggio poetico è difatti una contestazione continuata del linguaggio della comunicazione, una motivazione del demotivato. L'arbitrarietà del segno, indiscutibile sul piano della langue, entra in crisi sul piano della parole poetica. La poesia costruisce un linguaggio ” altro ’ che fa franare, senza per questo negarla, la rassicurante chiarezza del linguaggio - comunicazione: o meglio, lo sovraccarica di informazione, fornendo un di più di indizi comunicativi. Il suono, legato arbitrariamente a un significato, fa emergere qualità che lo alleano a tale significato e lo connotano nel senso del significato. Nell'esempio appena citato Pascoli investe in un sol colpo sia le parole con tutto il proprio nucleo di significato sia i dati materici che le compongono, di un senso personale: in quel caso, di pena, inquietudine,

ansia, turbamento,

di incubo

e di inespresso.

Se-

mantizza i suoni, nella stessa direzione significativa della parola. E questa semantizzazione noi percepiamo potenziata perché centralizzata in ripercussioni e rispondenze, in versi non eccentricamente variati, ma fonicamente ‘ridotti’. L'allargamento seman-

tico della parola in direzione dell’incerto ineffabile, della labilità e dell’indistinto, si allarga anche alla pasta che il poeta tratta, alla materia fonica, tant'è che Pascoli non mantiene la parola ’ chiusa ” in sé, ma la dissemina nel verso. E quella parola, smem-

65

MS 7

brata e diffusa, quei costituenti la parola allargati alla testura (la Ji/ di tintinni, le allitterazioni diffuse, o l’espansione di tremulo,

ecc.) ricevono il significato lessicale, acquistano una sorta di autosufficienza determinata dal legame con la semantica della parola. I suoni che compongono la parola (per sé neutri, indifferenti al significato) e che compongono il verso o serie di versi, diventano semanticamente caricati. Caricati, evidentemente, di una ineffabi-

l’allargamento / attenuazione

lità nozionale:

appoggia

l'effusio-

ne / indistinzione dell’ineffabilità, del non scandagliabile delle cose. Il linguaggio poetico (« quel linguaggio che non possiamo

dire » scriveva Musil; «lingua delle rondini », o « di gitane » dice Pascoli) riprende nuova iniziativa nel moltiplicare frange di senso tramite un’immaginativa dei suoni. Un processo dell’immaginazione è generato dai suoni. Se torno al componimento già citato, Patria, non è forse quello anche una dispersione anagrammatica, nei primi cinque versi, di tremulo,

scorporato,

dissolto,

disse-

minato in tutta la testura? Sono versi in cui ogni parola sembra non stare per la cosa, l'oggetto, il suono, il gesto, ma rinviare a : a quanto cioè compone la testura, che è tutta messa in moto da rispondenze: « tremulo » e « stridulo » che non rimangono inerti, ma dànno una rima (cicale:maestrale), parole - rima a loro volta coniugate in assonanza con altre: scampanellare:filare / accartocciate. E vedi soprattutto quel fenomeno vistoso che dicevo, di un aggettivo gruenti:

tutto

JE

\/1/

R

ie/

E

/tr/

M

U

66

scomposto

-=

quanTo,

sTridulo,

scampanellaRe, caRtocciate

=>

/D/ -———="’ {

in allitterazioni

voc. + m

sTRidule,

maesTrale,

stRidule,

maesTRale,

scaMpanellare,

e consonanze

1

O

donne

scampaneLLare, maestraLe

accarTocciaTe

filaRe, maestRale,

ac-

accaRTocciate

Moveva,

Maestrale

fn] quANto, scAMpANELLare, fILare, IL maestrALe

.

con-

cicALe, stridULe REL

cicaLe, striduLe peL fiLare, iL

stridULO, cicALE, maestrALE;

scampanELLAre,

Tremulo

trapassa da semplice epiteto a metafora sonora:

una

metafora scorporata (e rivitalizzata) nel componimento. La massa sillabica è fonicamente ridestata e risemantizzata nella testura: uno scorrimento del senso nel materico, appunto. I suoni (dato non-semantico) diventano semantici. La loro « partitura » crea una « composizione » dotata di un più denso messaggio.

breve

componimento

Patria,

da rappresentazione

Il

di voci del-

l'estate (le cicale, il maestrale ecc.) si muta in evocazione di voci del ricordo, cioè in un oggetto della coscienza, in una rappresentazione interiore di sensazioni dimenticate, ed ora insorgenti. Un

sentimento più intenso del reale è espresso formalmente, affiorante, nella motivazione e nella rivitalizzazione del significante e delle sue « intrassonanze ». Pascoli evidentemente non compie un'operazione da virtuoso. Non sostituisce la forma alla coscienza (producendo congegni artificiosamente armonizzati). E neppure segue, al modo

che solitamente

diciamo

« classico », il processo

creativo come progressione dal nucleo oscuramente informe del fascio di ricordi verso una forma che riduca all'essenziale, in unità di visione, la visione dell’estate. Si comporta esattamente al rovescio del ” grande stile’ di un classico, che delle parole si serve per delimitare, scolpire direi l'oggetto, e segue la pratica del « contorno » (per rifarmi alla definizione di Ingres) (?). Né tende a fissare la brevità della composizione in brevità orchestrata, se-

condo più severo ordinamento monotonale come austerità ritmica o laconicità lapidaria, quella che ci dà (Foscolo insegna) linea e sostanza

(la Forma),

riducendo

all’essenziale

ogni visione

(di

una sera, di un mare), sì ch’essa ci lasci impressioni di grandiosità e di assolutezza; quella impressione voglio dire di forma serenante, liberata, che razionalizza l'impulso, scopre l'organico,

la presenza

di un centro

terale, che non

sono

anche nelle frange d’apparenza

frange, ma

tondo di una circonferenza, come

tratti che rimandano

in certi esemplari

colla-

al tutto

sonetti fo-

scoliani appunto in cui l’autore investe anche nell’aggettivo, nel suo scarno attributo (« sacre sponde », « limpide nubi »), una modellizzazione del mondo, tutta una cultura ed una ideologia riconosciuta, l’unità e l’integrità di un principio ‘pubblico’, cari-

(9) Rimando

alla

p. 229

dell'articolo

di S. AGOSTI,

«Jeune Parque », in Sulle tracce degli antichi, Cinque analisi. Il testo poetico, Milano 1982).

Anagrammatismo

« Sigma », 2-3,

1980

(vedi

e anasemie

ora

nella

il saggio

in

67

cando non di dissolvenze ma di energia compositiva le singole parole. Parole anche ‘’ stantie ’, e stantio è pure tremulo, s'è detto. Ma sacre, limpide, nel loro squillo perentorio, evitano la nuance (caratteristica del classico, diceva Heidegger); fanno tacere ogni pullulare di dissolventi connotazioni, e a vantaggio dell’essenziale, lasciano cadere il collaterale. E non comunicano un'esperienza poetica individuale, un difforme punto di vista, ma una totalità riconosciuta di ‘saggezza ’, il respiro e la legge dell’universale, la ‘verità’ poetica. La loro energia compositiva collabora alla densità ‘classica’ di un prodotto ‘esemplare’. Sono aggettivi che riassumono una coralità sovraindividuale di esperienze, e di cultura, staccano colla loro sancita nozione dal fluido dell’individuale, dal dibattersi dell’indistinto, dal pullulare delle connotazioni. Tremulo al contrario (e così potremmo ripetere per i già citati aggettivi privilegiati) compendia diffonde e attrae tutto un fascio ed un brulicare di sensazioni, perché la poesia per Pascoli è punto di vista reattivo e di sondaggio, parola interiore, il nucleo muto della persona, pensiero silenzioso. Ma tremulo, mi si potrebbe obiettare, è parola-spia poco felice per la dimostrazione, visto che già per sé è ‘gelatinosa’ nel significato, ed è già immediato

veicolo di una nozione adatta

a coprire incertezze, fissioni del significato e del significante. E poi, ancora per sé, e nelle istituzioni poetiche, parola disposta all’onomatopea, usata e usurata in quel senso. Prendiamo allora vocaboli non sospetti, ‘ neutrali’. E basterà allora rifarsi alla reinvenzione pascoliana di aggettivi per sé quasi opachi, quanto a carica onomatopeica: ad esempio, grave GRAvi

GRAcchiAno

le RAne

di RANe GRAvi e falleJGRE RANfelle] il GRAve GRACIIAR delle GAlline à Oo Q Così, quando passa il carro tintinnante >: quAndo pAssA il gRAve cARRo AvAnti.

tAl,

Grave, per sé certo di maggior opacità onomatopeica rispetto a stridulo, tremulo e simili, è fonicamente caricato e semantica-

mente reinventato per il peso fonico che gli è dato per irradiazione di rana e di gracchiare nell’es. a: per irradiazione di rane, ranelle, allegre nell'es.

b. In c la iunctura

« grave

gracilar » è

tra l’altro ancor meno giustificabile quanto a mimesi del reale. Se una qualche giustificazione mimetica

68

poteva essere

invocata

nei casi a e b riferiti al canto della rana, qui l'aggettivo ha un valore maggiormente ipotetico; mimetico solo in quanto è legato a gracilare significante, e meno al verso reale della gallina. Comunque sia, grave o non grave che ci paia il verso di quel pennuto, l'aggettivo grave introdotto nella versione definitiva del v. 4 de Il Cane (es. d), è trascinato in quella testura non tanto per

il suo significato denotativo, quanto per la connotazione di ’ gravità” che induce in un verso riaccordato tutto sulla vocale tenuta /a/.

Di altrettanta neutralità l'aggettivo breve, che si carica di un di più di significato (rispetto al ‘che dura poco ’), perché in c'è un bReve gRe gRe di Ranelle x

breve è reiventato, dilatato nel suo spettro semantico, grazie alla allitterazione ricca del verso, l’assillabazione insistita, la ri-

duzione alle /e/ toniche irraggianti dall’onomatopea

stessa gre

gre e da ranelle. Anche

amaro

è neutro,

ma,

se

analizziamo

una

variante,

vediamo l'aggettivo rianimarsi fonicamente, e trascinare nella congrua riduzione l’assonante prunalbo (è un verso di Novembre): e della siepe l’odorino

amaro

> e del pRuNAIbO

l’OdORINO

AMARO.

Allegro, nel linguaggio corrente è neutrale, indifferente rispetto alla direzione verso cui è trascinato in uno

SCROsci[are]

ugulale], /un GROsso

falleJGRO

dove è impiegato come segno scorporabile,

STREpitO

di piOggia

e segmentabile, come

significante che è la testura piuttosto ad indurre a significare e non lui aggettivo, per se stesso, nel suo significato nozionale. Lo stesso si dica, nello stesso verso, di grosso, ridestato semanticamente. Allegro, grosso, breve, a livello del linguaggio-comunicazione, sono portatori di un determinato significato, quello predestinato dal vocabolario, oppure (poniamo tremulo, querulo, agro, rauco ecc.) quello indotto per tradizione dalle istituzioni letterarie.

In Pascoli

il significato,

sia quello

istituzionale,

sia

quello delle istituzioni di koiné letteraria (buona esemplificazione al riguardo ci potrebbe fornire l’agg. arguto) è rinnovato tramite una mutazione che parte dal suono. Ma non nel senso che la reinvenzione si basa sul significato obiettivo conferito per sé al suono (un fonosimbolismo di langue); non ha certo un ’senso’, per propria natura, la /r/ di grave, breve, allegro, grosso,

69

nella serie poe-

rauco, rana. Capita invece un altro fenomeno:

tica, in un verso o in una iunctura, i suoni che compongono la

parola acquistano la semantica del verso. Una parola acquista la semantica di un’altra parola dell’anello contiguo (grosso e allegro nell’ultimo es. cit.), o della catena intera; grosso e allegro diventano come delle nozioni apparentate. Le non-equivalenze lessicali sono avvicinate da equivalenze ritmico-foniche. Voglio dire che

tremulo ululo £ tremulo nuvolo, flebile suono #labile tuono, ecc costituiscono gruppi di equivalenze semantiche in quanto iuncturae omoritmiche e omofoniche, e perciò eventualmente intercambiabili nel corso delle varianti. Il poeta, tramite le corrispondenze, « crea una serie di cunicoli sotterranei che pongono in contatto elementi fra loro inaccessibili della lingua » (!9). Anche una semplice assillabazione (poniamo, il gre gre che induce bre- di breve

nell’es. cit.) diventa nucleo semantico e immagine profonda, oscuramente generativa. Allegro diventa ipersemantico rispetto ad allegro del linguaggio della comunicazione ordinaria, del linguaggio insomma nozionale. Lo stesso si ripeta per quel tremulo citato, non più epiteto, ma fascio irraggiante di significati che sul piano della nozione

non

convergerebbero

in un medesimo

punto;

ma

la sua polivalenza invece s’irradia perché questo irraggiarsi semantico è anche fonico ad un tempo. Il significato diventa appercepibile anche sul piano dei suoni disseminati e dissolti entro la testura. La parola poetica allora ha un nuovo flusso di densità: un flusso di energia irradiante sul piano del significante e del significato. Il lettore è staccato dai valori denotativi della

parola, dal valore della nozione di grave, grosso, allegro, tremulo. E rimane

velata

l’abilità

combinatoria,

mimesi del reale, che è sì per Pascoli partenza (suoni della natura, scroscio pane, canti di rane o di grilli, bisbigli partenza è spesso mimetico, di grande

l’estro,

l’artificio,

o la

molto spesso un punto di di pioggia, squilli di camdi uccelli). Se il punto di estro ed artificio appunto

e [quA]tte [quA]tte nelle [plA]cide Ac[que] {strelpono or [quA] le vecfchie] rAne, or 1À

e, in questi casi limite, Pascoli

cismo

dei suoni, perché conta

chimento

dei suoni

(10) M. CORTI,

70

che

è vittima

l’arricchimento

Principi cit. , p. 105.

di una

di più il non del

specie

dissimulato senso,

di feti-

arric-

è evidente

+#4 Var

che il maggior Pascoli è quello che sa affondare la ricerca fonica più nel senso dei suoni che nel suono dei suoni naturali. Il Pascoli insomma

di sorprendente modernità,

l’anticipatore, che ha

cercato affinità tra il mondo della sostanza e il mondo dell’espressione. Dopo le rane, prendiamo pure le campane. Quando nell'enunciato risuonano squilli di campane (e vi risuonano spesso, dalle « Myricae » ai « Poemetti » ai « Canti di Castelvecchio ») il piano dell'eufonia sembra un dato prevalente o addirittura prevaricante. Il procedimento è quello già illustrato: un accordo formale tematico disseminato in una serie di versi, con l’emergenza del solito nesso /voc. + n-m-l/. Ecco (Commiato,

in « Canti di Castelvecchio »)

Su 1A cAmp[AgnA} solit[ AriA] trem[AvA} il piAnto delle squille

e la testura ridotta anche al timbro /a/ prevalente, evidenziato da interne assonanze piane (-agna, -aria, -ava). Ma, ancora, che cosa spinge Pascoli alla orchestrazione solita? Non campana, ma

un sostituto verbale, campagna, provvisto però della stessa funzione. Tra campagna e campana non c'è accessibilità di significato, eppure da due significanti simili si diffonde lo stesso tipo di rimando interno, una effusione congruente. La riduzione qui a parentele e prossimità interfonematiche emerge non in dipendenza del referente (campagna), di cui non può essere affatto traduzione fono- o ritmico-simbolica, ma come

« risultato di uno

sforzo poetico indipendente » (Ejchenbaum). La ricerca del senso (omologatore dei significati che pur sono diversi sul piano della lingua) parte dal significante, la volontà creativa dalla parola e dal suo impulso: l’allitterazione diventa una comparazione, l’assonanza un'iniziativa semantica. Il messaggio si fa più denso. Quello promosso ad esempio da versi quali (Pace!, in «Odi e Inni») è rOMba d'ignote cAMpANe che cULLANo IL mONdo che dorme, IONtANE NELL'aria e si piANe che appENa vi lasciANo l’orme; UN IMpaziENtE Nitrito che trEMA NEL ciELo INfINito; UN urlo IMprovviso ALLe porte, la voce

tua, Morte!

71

è un messaggio di sgomento e di ignoto, di ansia e paura, di mistero ossessivo e di morte, insinuato certo attraverso la « romba » e il tremore di fronte ad apocalittici nitriti, ma grazie anche alla direzione univoca delle forme, all'accordo su un registro evidenziato che collabora non ad evidenziare suoni, ma a stendere su di essi un velo uniforme: una dissolvenza evocativa affidata appunto ad una associazione fonica che proclama una sensazione più intensa e diffusa, proprio perché tutti i simboli-parola che scaturiscono

e appartengono

ad una

stessa

sfera si trovano

reci-

procamente attratti per il suono. La chiusura sonora è indizio di una ‘chiusura’ semantica. La confusa ossessione che il poeta ha provato è fissata in versi fusi, accordati in compagine legata. L’accerchiamento sonoro porta un accrescimento-approfondimento delle possibilità semantiche. La « partitura » accordata libera, come per una sorta di ‘regressione’ freudiana, associazioni latenti, ri-stabilisce un legame supposto, un'affinità tra mondo del pensiero e mondo dei suoni. L’evidenziare echi tra tutte le parole di una composizione stacca gli enunciati dai rapporti con il significato ordinario. Ma per Pascoli, sempre, l’« orchestrazione » diventa un punto di partenza per l'esplorazione dell’informe e dell’inconoscibile. Anche il minimo dell'accordo, quello binario aggettivo-sostantivo poniamo (BriviDO BlanDO, TaciTO TumulTO, palplito] trlitol, pall[ido] tinn[ito], stREp[ERE] n[ERo], LibELL[uLE] trEm[uLE] ecc.), mi dà per un verso (oltre a sinestesie, od ossimori) un di

più di comunicazione perché nello spazio lineare del significante singolo vi è sovrapposto il significante contiguo; l’unità semantica della parola è insieme distrutta e potenziata nella dissoluzione e nel rafforzamento reciproco. Due significati diversi espressi con significanti molto simili, distinti soltanto per pochi suoni, producono contrasto tra la somiglianza fonica e la disparità semantica (nell’ossimoro brivido blando o nella sinestesia strepere nero), e la reiterazione non accompagnata da una parallela iterazione del significato (perché è contestato nell’ossimoro; o c'è scontro di campo nella sinestesia) intensifica il senso della iunctura.

Ma che gli echi interni tra parole stacchino gli enunciati dai rapporti con il significato ordinario; e che gli elementi non semantici

12

(allitterazione,

assonanza,

consonanza

ecc.)

possano

0

diventare semantici e si arricchiscano di informazione, è uno dei principi generali della funzione comunicativa del messaggio poetico in genere, che si esplica appunto non attraverso il maggior numero di differenziazioni, ma tende a neutralizzarle, a ridurle a denominatori comuni. Quanto a Pascoli, possiamo ben dire che egli è stato tra i primi in Italia a cercare la dissolvenza delle

differenziazioni; ha cercato cioè di scoprire il comune in ciò che è diverso. Per un poeta il colore dell’estate può essere benissimo identico al suono del canto d’una cicala, un rumore può essere silenzioso, un bosco uguale al mare. I poeti del « decadentismo » europeo (i poeti simbolisti; e in quest'area Pascoli va collocato) hanno cercato tutti una sorta di soppressione dei segni istituzionalizzati, come se i significanti non fossero distinguibili e non distinguessero. Hanno cioè cercato, servendosi della lingua, l’irrazionalità dell’identico. La riduzione fonica di cui ho fornito qualche esempio fa rilevare appunto questa tendenza linguistica: il tentativo di segnare l’irrazionalità dell'identico. La lingua è sentita ad un certo punto (basterebbe citare confessioni esplicite, da Baudelaire a Musil a Pascoli) come il risultato di processi statici: « grigia », dice Pascoli, scolorita, come se i parlanti fossero tutti daltonici. Il suono può ridestarla. Il suono (e i suoi accordi) è l’unico segnale che la lingua ha per esprimere il comune in ciò che sembra diverso. Uno

scrittore

moderno,

Oswald

Wiener,

nel

suo

Verbes-

serung von Mitteleuropa (1969) ci fa leggere ad un certo punto: « Il mio colore preferito è il verde, il suo il viola; ci piace lo stesso colore perché, se potessimo confrontarele nostre sensazioni, il mio verde sarebbe il suo viola. Ma per termine di confronto abbiamo solo la lingua... ». Pascoli, credo, avrebbe

sottoscritto.

13

dite css Ta ©15 { IL

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SON O

ì A

INA tI

MARINO

BOAGLIO

PASCOLI, L'ULTIMO SOGNO” DEL NULLA

E LA COSCIENZA

Il carattere onirico, esoterico e visionario del sentire pasco-

liano si spande diffusamente in modo

decisivo

anche

sulla

nella sua poesia e viene ad agire descrizione

del reale, circondan-

done la visione con la propria inquietudine e oscurità allusiva e mettendo in opera una serie di piccoli spostamenti e di “ deformazioni ” che riescono a scardinare l’oggetto analizzato e, pur non svuotandolo di concretezza, a destituirlo dei suoi sensi pacificamente acquisiti per renderlo simbolo - pudicamente, sommessamente - di un mondo che ha smarrito le salde regole ordinative di un tempo e di un individuo che in quel mondo destrutturato si trova a sopravvivere. Ma, al di là di tale diffusa sensibilità misterica e metarazionale, nell'opera del Pascoli non troviamo una ricorrenza par-

ticolarmente frequente e puntuale del sogno, inteso come modus psicologico - letterario a sé stante, come griglia autonoma e articolata di rimandi e di significazioni interne; anzi, esso tende - al

di là di alcuni esempi sparsi e non decisivi: L'eremita nei Primi Poemetti, Gli emigranti nella luna nei Nuovi Poemetti, Il sonnellino nei Canti di Castelvecchio, lo stesso Alexandros nei Poemi

Conviviali - a restringere la propria presenza alle liriche di Myricae, la raccolta per la quale pure molto si è parlato, e a ragione, di « poetica delle cose » e di stretta aderenza allo spettacolo del reale (e sia pure un reale violentato e pervaso di un'ineffabile inquietudine esistenziale).

D'altra parte, tra l'oggetto assunto a simbolo e l'arcano mondo del sogno non si dànno contrapposizioni insanabili, ed anzi non di rado le loro vie si sono venute a incontrare: si pensi

75

soltanto ai surrealisti, o, prima ancora del Pascoli, a Rimbaud, che nel suo « descendre ... dans le Poème / de la Mer » ha sal-

damente legato autobiografia e delirio onirico, realtà effettuale Per Pascoli,

e visionarietà.

però, il sogno

non

si realizza

nella

ricerca di un mondo nuovo, dell’inconnu: egli non è il « veggente » del Bateau

ivre

e neanche

ambisce

a diventarlo, perché le

sue magie evocative e la sua capacità di suggestione non passano attraverso

il dérèglement

du sens e le operazioni

alchimistiche,

ma si esplicano invece nel caricare di inquietudine, di smarrimento e di sottili turbative il dato concreto di un mondo agreste tanto celebrato e “ ruminato ” dalla tradizione letteraria. Non essendo una quête, un'esplorazione - esposizione sui terreni minati

dell'ignoto e del visionario, e tantomeno potendo aspirare a sostituirsi come valore ai logori meccanismi della realtà, come sarà poi per i surrealisti e come lo stesso Pascoli tenterà di anticipare,

con

esito

solo

apparentemente

positivo,

nel

poemetto

Alexandros (« Era miglior pensiero / ristare, non guardare oltre, sognare: // il sogno è l’infinita ombra del Vero »), il sogno si indirizza nelle Myricae verso

l'ambito

del conosciuto,

del “ finito ”,

attendendo alla verifica e all’agnizione del reale oppure inseguendo il passato nei suoi accorati emblemi di positività e di conoscenza - che sempre hanno riferimento, nella psicologia pascoliana, con il « nido » e con quanto esso sottende di affetti e di autenticità. Si veda Sogno:

Per un attimo fui nel mio villaggio, nella mia casa. Nulla era mutato. Stanco tornavo, come da un viaggio; stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.

Né la stanchezza per il viaggio e per lo scacco esistenziale, né la fugacità della visita - apparizione (« Per un attimo fui»: in cui il taglio secco del tempo verbale concorre ad assottigliare anco-

ra la brevità dell’« attimo », dando alla presenza del reduce l’apparente inconsistenza di un lampo, infinitesimale e pur bastevole a rilevare ogni cosa con la sua luce) possono impedire il riconoscimento delle realtà un tempo care: la « mia casa » e il « mio villaggio », fari sicuri nell’infuriare della tempesta e pegni di fedeltà al luogo originario. L’agnizione operata dal sogno cade

76

precisa, meridiana, e inoltre, in un allargamento

della memoria

e del desiderio, viene a coinvolgere anche i famigliari defunti in primis la tragica figura paterna, - riuniti ancora nel tepore del « nido » vivente, dal quale, uno per uno, erano stati sradicati da un cupo destino. L'unico distante da casa, nel tessuto del sogno,

è invece il poeta, colpevole di essersi allontanato « come » per un « viaggio », di aver scelto la contaminazione con il mondo e con la storia, di aver “ tradito ” la mutua bastevolezza del nucleo

familiare per un'esperienza inevitabilmente destinata al fallimento e al rimorso; fallimento e rimorso allora si ripercuotono anche sulle sue possibilità di ritorno, pregiudicate dal peccato commesso, e sul suo animo, che rimane in balìa di turbe e di oscuri

presentimenti, fino alla dura constatazione del proprio “ impedimento ” e al drastico cadere del sogno stesso:

totale

Sentivo una gran gioia, una gran pena; una dolcezza ed un’angoscia muta. — Mamma? — E’ là che ti scalda un po’ di cena. — Povera mamma! e lei, non l’ho veduta.

Il sogno non può compiere il miracolo per cui è stato convocato, perché la sua costituzionale alterità rispetto ai valori dell’esistenza diurna rimane lettera morta e non offre spazi o indicazioni utili ad alcuno: non al poeta transfuga, invano questuante il ritorno e un sereno reinserimento nel « nido », non ai famigliari defunti, muti nella loro sepolcrale separazione, e neppure, si badi bene, al « nido » stesso, il quale, lamentando la privazione dei suoi più cari e decisivi elementi (il padre, la madre), si trova costretto a difendere in modo sempre più disperato la propria esistenza dall’incalzare diffuso e violento del mondo esterno. La visione agapica tanto vagheggiata crolla in un botto, prima ancora

di realizzarsi compiutamente,

di fronte alla prova

decisiva della sua consistenza: al volto e alla voce della madre morta, che, come alta significazione di pietas umana e insieme come grembo generatore del « nido », non può permettere, neppure in sogno, l’ordito degli inganni e delle illusioni, sia pur consolatorie e sia pur centrate sulla ricostruzione di un sacro vincolo infranto dal destino mondo (il poeta).

(i defunti)

o dalla

tentazione

del

dI

La verifica tentata in Sogno fornisce dunque dei risultati chiaramente negativi: impossibile è la riedificazione del « nido » infranto, impossibile la catarsi e il rimpatrio del poeta, e impossibile - perché inerme, impotente, addirittura stroncato nel momento supremo della verità - il sogno stesso, inadeguato non soltanto a percepire l'ignoto ma anche a riproporre quello che dovrebbe costituire la “ vera "realtà e a svelarne i reconditi valori (« Povera mamma! e lei, non l'ho veduta »). Una situazione non molto diversa si ripete in un'altra breve myrica, Patria, in cui l'impossibilità - nel sogno e del sogno si fa ancora

più evidente

ed emblematica,

scoprendo

una

dolo-

rosa lacerazione nell'animo del poeta e un senso di estraneità irrimediabile nei confronti delle cose anche più care. Al riguardo, giova ricordare che in una prima edizione Pascoli aveva scelto il titolo di Estate, puramente descrittivo e, nell’ambito della lirica in questione, scontato e ripetitivo, ma che egli stesso poi ha offerto una ben più valida chiave di lettura del testo con un titolo definitivo come Patria (di ben altra intensità poetica e concettuale), il quale, nel suo riferimento a un luogo originario, rassicurante e datore di certa identità, rimanda direttamente alla questione del « nido » e alla succitata Sogno. Anche in Patria, inoltre, assistiamo a un “sogno ”, e a un sogno caratterizzato dal ritorno al paese, a casa, alle origini: Sogno d’un dì d’estate. Quanto tremulo Stridule moveva le foglie

scampanellare di cicale! pel filare il maestrale accartocciate.

Scendea tra gli olmi il sole in fascie polverose; erano in ciel due sole nuvole,

tenui, ròse:

due bianche in tutto

spennellate

il ciel turchino.

Siepi di melograno, fratte di tamerice, il palpito lontano d'una trebbiatrice, l’angelus argentino...

78

Il momento onirico, nuovamente additato senza ombra d’ambiguità nel verso d'esordio, ripercorre tutti i caratteri già noti del paesaggio d’origine; ancora una volta esso non si avventura sulla sponda incerta del mondo autre, bensì mira al pieno riconoscimento e alla praticabilità di un luogo conosciuto e familiare, delimitato anche spazialmente dal rispondersi a distanza delle cicale e di una macchina per trebbiare il grano - ma si noti il tipico procedere del linguaggio pascoliano: « Quanto scampanellare / tremulo di cicale », il sole che scende « in fascie polverose », « il palpito lontano / d’una trebbiatrice », che rifiuta radicalmente ogni versione in prosa, attento com'è a cogliere le più intime vibrazioni delle cose e insieme pronto a farsi spia di quella sospensione dei sensi e di quel misterioso turbamento che è del poeta stesso perso nel sogno prima che degli oggetti da lui incontrati nel suo andare regressivo.

Gli elementi atti a contrassegnare la “ patria” sembrano comunque tutti al loro posto, a ribadire un possibile ritorno a San Mauro:

gli olmi, il sole afoso d'estate, il cielo turchino

ap-

pena « spennellato » di due nuvole bianche, le siepi di melograno, i cespugli di tamarisco e persino il suono dell’angelus che dalla pieve invita i fedeli a farsi il segno di croce e a pregare la Madonna; ma anche in Patria un esito positivo si rileva mera illusione, dando corpo, nella parte finale della lirica, alle sottili perplessità del poeta e a quel tacito senso di incertezza che già si intravvedeva nelle oscure allusioni al tremolio delle cicale e al soffiare del maestrale sulle foglie secche: dov’ero?

Le campane

mi dissero

dov’ero,

piangendo, mentre un cane latrava al forestiero, che andava a capo chino.

Il figliol prodigo stavolta non viene riconosciuto da nessuno, neanche nella finzione del sogno, si arresta prima ancora di giungere al « nido », mentre i suoi tratti familiari si cambiano in metamorfosi con quelli del « forestiero », dell’intruso, di colui

che è solo di passaggio e non può sperare accettazione o conforto perché rappresenta “ altro” e incarna valori diversi da quelli del mondo in cui si è venuto a trovare: al poeta traditore del

79

« nido » non è dato neppure un ricovero e non rimane altro da fare che tornarsene

« forestiero » sui suoi

passi,

in silenzio

e

« a capo chino ». Come in Sogno era stata la madre a svelare l’inganno e la falsa utopia, qui a sigillare l’improponibilità del duplice riconoscimento - della “ patria” nei confronti del Pascoli, ma ormai anche del Pascoli nei confronti di ogni patria, dopo il suo definitivo ri-allontanamento - sono le campane della pieve, monito dei vivi

e memoria

dei morti, volte non a caso dal riso

« argentino » dell’angelus (per i fedeli al « nido ») al mesto pianto di compatimento (per il poeta che ha voluto sperimentare la letteratura e la storia: « Le campane / mi dissero dov’ero, / piangendo »), ed è il latrare furioso del cane, emblema rivelatore fin dall’omerico Argo di attaccamento alla casa e a chi le è rimasto fedele pur nella costretta lontananza. Ulisse aveva vagato per anni, conosciuto luoghi e persone e sentimenti diversi, combattuto

peregrinazioni desiderio

della

e amato

non

era

patria

uomini

mai

e

venuto

lontana,

dei,

ma

meno

nelle

sue

alla memoria

rinunciando,

in

cambio

lunghe

e al della

possibilità di rivedere Itaca, persino all'immortalità beata offertagli da Calypso: a lui quindi è concesso il ritorno, e insieme la vendetta sugli usurpatori, il riconoscimento da parte degli amici e la ricomposizione piena del regno (la sua pace pubblica) e della famiglia (la sua serenità privata). Ulisse ha saputo scrostarsi della contaminazione con il “ mondo ” esterno e con i suoi valori, dopo averla pagata con naufragi e dolori e disavventure, mentre invece

Pascoli, con la “ fuga” dal « nido » familiare - un « nido », per di più, già provato dal dolore e indifeso per la perdita dei suoi elementi-guida - e con l'inserimento in un altro ordine di idee e di comportamenti, si è macchiato di una colpa indelebile che nessun rimorso sarà sufficiente a scontare e nessun sogno potrà fingere mondata. Il sogno si fa quindi impossibile: le attese di Sogno e di Patria, così sostenute e così motivate al loro apparire, si compiono poi - in un misto di grottesco e di tragedia - in modo antifrastico, risolvendosi in una recisa autonegazione e in un ritorno del lutto più cocente (la riproposizione dolorosa della morte

della madre,

in Sogno)

e dell’estraneità

più assoluta

(il

poeta ridotto a « forestiero », in Patria).

Un simile meccanismo di disillusione, se ancora ci fosse bisogno di esempi, opera in Dalla spiaggia, che si presenta divisa

80

anche graficamente in due parti contrapposte tra loro: mentre nel primo movimento il poeta crede di scorgere in lontananza, in mezzo

a un mare calmo e « abbonacciato », un tempio bianco

dalle « nivee colonne movimento,

d’un candor che abbaglia », nel secondo

insieme col cadere dell'illusione visionaria, si rivela

ai suoi occhi delusi una realtà di ben diverso segno, logora e oscura,

che, per

di più, acquista

tratti

ancora

maggiormente

angoscianti e funebri in virtù di un’enigmatica metamorfosi a cui forse non è del tutto estranea la suggestione esercitata da un Poe (di cui non a caso Pascoli tradusse ‘// corvo): « Due barche stanno immobilmente nere, / due barche in panna in mezzo al-

l’infinito./

E le due barche

sembrano

due bare / smarrite

in

mezzo all'infinito mare ». Lo sgretolamento del sogno - e dell’allucinazione, sua prima compagna - ribadisce senza ombra di dubbio la netta negazione delle speranze e la loro totale appartenenza al mondo antelucano delle chimere e delle fantasmagorie, ma il momento del risveglio, nelle poesie a cui abbiamo accennato, rimane ancora un momento sostanzialmente pacifico e non corroso, non critico: esso si lascia alle spalle la lievitazione del sogno, le illusioni inconfessate, la visionarietà negata, ma tuttavia resta pur sempre saldamente ancorato alla realtà, al suo spessore e alla sua misurabile solidità. In altri termini, vogliamo dire che in Sogno e in Patria la verifica dell’inconsistenza e dell’impraticabilità del mon-

do onirico non sa uscire dall’orizzonte del proprio stretto ambito di “ pertinenza” e non può pertanto riversare la propria carica dirompente anche sul reale, sul quotidiano, sul mondo diurno. Il sogno manca la rivelazione, la passione conoscitiva perde di intensità e di vigore e il grigio spettacolo del reale non ne esce per nulla intaccato, trovando sempre la possibilità di ripararsi

sotto il tenace velo di Maia dell’estrema illusione: la sua propria consistenza, il suo significato in sé e per sé. In Dalla spiaggia, in effetti, è la realtà stessa che comincia a mostrare delle crepe,

dei punti critici, addirittura « immobilmente

dei segni funerari:

nere », in panne, che si tramutano

le due barche in due bare,

e lo smarrimento stupito, la solitudine angosciante di queste due

sole rano dere una

presenze in mezzo all’« infinito mare » dell’esistenza, misucon orrore la vastità del Nulla che si comincia a intravveal di sotto delle apparenze umane; ma anche qui, ancora volta, l'ambito della negatività assoluta viene circoscritto,

81

limitato, confinato all’immaterialità del mare (la fantasia, il luo-

go del rischio e dell’avventura, diciamo pure il sogno), e non giunge di conseguenza a coinvolgere pienamente la figura del poeta osservante « dalla spiaggia », da una postazione cioè di relativa sicurezza e di stabilità. Il passo oltre, decisivo, Pascoli lo compie in Ultimo sogno, una lirica in apparenza malinconica e tradizionale (quattro quartine di endecasillabi a rima alternata) che egli non a caso pone a conclusione delle Myricae, attingendovi un più alto grado di consapevolezza: e infatti non si tratta di una semplice chiusura “ tecnica ”, casuale o magari dettata da motivi di armonia dispositiva e di coerenza cronologica, bensì di un vero e proprio sigillo, di un approdo al di là delle titubanze precedenti, di una « guarigione » definitiva dalle illusioni del “ risveglio” non meno che da quelle del “ sogno ”. Si legga il testo: Da un immoto fragor di carriaggi ferrei, moventi verso l’infinito tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi .. un silenzio improvviso. Ero guarito. Era spirato il nembo del mio male in un alito. Un muovere di ciglia; e vidi la mia madre al capezzale: io la guardava senza meraviglia.

>

Libero! ... inerte sì, forse, quand’io le mani al petto sciogliere volessi:

ma non volevo. Udivasi un fruscìo sottile, assiduo, quasi di cipressi; quasi d’un fiume che cercasse il mare inesistente, in un immenso piano: io ne seguiva il vano sussurrare, sempre lo stesso, sempre più lontano.

L'estremo, Ultimo sogno si pone fin dall'inizio su un duplice piano: da un lato, nell'occasione ai versi, si riferisce probabilmente al risveglio da una malattia, dal delirio della febbre alta e dei suoi vaneggiamenti, ma dall'altro, in un senso più ampio e privilegiato dal poeta - sta ad indicare il risveglio da ogni residua fiducia nei riguardi della vita umana e dei suoi presunti valori - e, a conforto della nostra tesi, potremmo

citare le tetre

terzine del Giorno dei morti, che fungono da prologo e chiave

82

di lettura di Myricae, nei cui versi la sorella Margherita assume piena coscienza del vero e può mettersi a gemere sul vuoto che circonda l’esistenza umana soltanto dal momento in cui « si risvegliò dal sogno della vita ». Al « sogno della vita », vano e fuorviante, appartiene anche ogni pur generosa illusione che in una società degradata e volgare come quella italiana di fine Ottocento, impregnata di scorie positivistiche,

di mercantilismo

e di cieca fiducia nella ragione

borghese, sia possibile ancora attingere l’arte e la poesia come luoghi della Bellezza immortale, assoluta e incontaminata. I « carriaggi ferrei » sui quali si apre l’Ultimo sogno, grossi carri dalle ruote ferrate che venivano usati in Lunigiana per il trasporto del marmo, introducono infatti tra natura e rappresentazione artistica la decettiva mediazione del nuovo tempo storico, e giustamente

pertanto

portano

sulla pagina

un

marchio

di doppia negatività, riducendosi in ossimoro a un « immoto fragor » - rumore e inconsistenza, strepito assordante e sterile staticità - che per ironico contrappasso si trova a muoversi « verso l'infinito », all’interno di un quadro labirintico di cui

sono parte non secondaria anche gli « schiocchi acuti » delle fruste dei carrettieri e i « fremiti selvaggi » con cui le bestie da soma

(buoi, cavalli) cercano

disperatamente

- e inutilmente - di

rifiutarsi al traino e alle scudisciate. Per misurare in modo adeguato il senso lucido e disillusorio di questa immagine pascoliana, conviene accennare brevemente a D'Annunzio, che in quegli stessi anni, nei tre sonetti delle Città del silenzio dedicati a Carrara, veniva celebrando una situazione similare con versi ben altrimenti aulici e retorici e con una sicura fede nelle proprie capacità formalizzanti di artifex gloriosus: « Dalla Grotta dei Corvi al Ravaccione / ferve la pena e l’opera indefessa. / Scendono in fila i buoi scarni lungh'essa/ l’arsura del petroso Carrione./

S'ode ferrata baglia, / e il cina di morte rombar cupa

ruota strider forte / sotto la mole candida che abgrido del bovaro furibondo, / ed echeggiar la bùc/ come squilla che chiami alla battaglia, / e la mina nel fondo ».

D'Annunzio,

nella sua lirica laude, si sforza

di ricreare

e

ricrea quell’« arcana imagine scultoria » che a Michelangelo aveva

ispirato le divine forme dei David e dei Mosé (« Ma su quante città regnano

i belli / eroi nati dal grembo

de’ tuoi monti! »),

83

rinvenendo nelle bianche rocche apuane il sigillo dell’arte e dell'antica potenza

di Roma

(« Arce

del marmo,

in te rinvenni

i

segni / che t'impresse la forza dei Romani ») e trovando quindi modo di concludere, secondo un modus ricorrente nelle poesie di Elettra, in un’esaltante piena identificazione di Arte, Vita ed

Eroismo superomistico: « Tutta l’Alpe splendea d’eterni orgogli. /« O cuor » dissi « il tuo sangue sì l’arrossa! » / E in ogni rupe vidi una Vittoria ». Per il Pascoli, invece, il marmo deve misurarsi giorno per giorno con l’«immoto fragor » dei carriaggi,

l’arte non potendo sottrarsi alle condizioni restrittive e penalizzanti impostele dal mondo borghese ('). Inoltre, questo « fragor » di pesanti carri « ferrei » ci rimanda subito - e non solo per una precisa rispondenza lessicale - a un altro non meno decisivo « fragore » che rimbomba cupo nei versi pascoliani: quello del treno a vapore, il simbolo per eccellenza proprio del mondo “ civile” e delle sue vane certezze di progresso; si confronti infatti, sempre in Myricae, In capannello: « Cigola il lungo e tremulo cancello / e la via sbarra; ritte allo steccato / cianciano le comari in capannello /... Nero avanti a quegli occhi indifferenti / il traino con fragore di tuon passa ». Gli « occhi » di coloro che veramente “ vedovo ” - per un ennesimo polemico capovolgimento identificati qui nelle « comari », nella minima e “ insignificante” vita di paese, ancora quindi nel « nido » - rimangono « indifferenti » di fronte alle nuove scoperte scientifiche e alle loro realizzazioni, che in effetti non sono portatrici di valori significativi e anzi vengono addirittura equiparate ai più terribili e funesti eventi di natura («con fragore di tuon passa »). (?) Il treno a vapore, del resto, aveva trovato facile cittadinan-

za nella poesia italiana

di fine secolo,

e in quanto

«bello

e

(1) Anche D’Annunzio denuncia con estrema chiarezza la morte dell'Arte nella società borghese, ed anzi nella sua sterminata opera egli ricorre a una continua citazione delle più diverse tradizioni artistiche e letterarie del passato proprio al fine di preservarle dalla corruzione e dalla volgarità dei tempi nuovi. La sua però è una posizione meno radicale di quella del Pascoli, meno attenta alla quotidiana improponibilità di ogni superstite Bellezza, perché il suo sogno titanico ed eroico sovente lo svia dalla lucida analisi dell'assenza dei valori, lusingandolo con le consolazioni superomistiche e con il miraggio di una possibile eccezionale « salvezza » personale. (2) Per una puntuale disamina delle forme rivelatrici che il lampo, il tuono e più generalmente il temporale hanno assunto nella poesia pascoliana (segnatamente in Myricae), rimandiamo al saggio di Giorgio Barberi Squarotti Figure dell’apocalissi pascoliana (1971), raccolto in Gli inferi e il labirinto. Da Pascoli a Montale, Bologna, Cappelli 1974.

84

orribile /mostro » era presto assurto a mito di progresso e già aveva strappato plausi e versi celebrativi anche a un poeta indubbiamente critico e diffidente nei confronti del proprio tempo come il Carducci (basti ricordare l’inno A Satana, trionfale esaltazione della civiltà industriale e della scienza); ma per il Pascoli

simili panegirici non reggono più, e la scala dei valori va anzi decisamente Italia aveva

rovesciata: la locomotiva, che il Vate della terza elevato a « Satana » e a « forza vindice / de la ragione » in lotta nei destini umani contro l’oscuratismo del « Geova / de i sacerdoti », per il cantore delle humiles myricae si rivela un mero segno di negatività proprio in quanto emblema del « progresso », cioè della storia, della società civile estranea alla naturalità del « nido » e minacciosa nei suoi confronti.

Ma non basta: la negatività e la vanità del mondo umano travalicano anche le relazioni tra civiltà borghese e arte e tra società moderna

e « nido » e si fanno

assolute,

totali, valide per

ogni struttura sociale e chiare a ciascun uomo che voglia guardare alla realtà senza i paraocchi dell’ottimismo coatto. Il dato che infatti balza agli occhi con più evidenza nell’incipit dell’Ultimo sogno è la speculare equivalenza che si è venuta a costituire tra la fede nella consistenza e nel valore della vita umana e il

delirio della malattia:

l’insensato vaneggiare del moribondo,

le

sue immagini slegate e farneticanti, sono la medesima cosa delle illusioni deliranti di colui che pretendesse conoscere e disciplinare la Natura e la Storia (costruendo carriaggi senza « immoto fragor ») o conoscere e valutare il senso della propria esistenza (muovendo « verso l’infinito », seguendo giorno per giorno l’inganno delle prospettive umane). Vano sforzo, perché la vita dell’uomo altro non può esprimere se non inautenticità, dispersione e caos, essendo quella la sua più vera condizione. Inoltre, come

tutte le realtà babeliche, anch'essa non può esimersi

confusione

dei segni verbali, delle parole, sperimentando

biguità, l’afasia e la loquacità

linguaggio nulla. Per - dal Male mancanze improvviso nembo del

impotente,

fino al rumore

dalla

l’amdi un

che si riduce a scoria logorroica e non significa più questo il risveglio definitivo dall’« immoto fragor » dell'essere, chiuso ab aeterno nella fissità delle sue - si configura a livello auditivo come «un silenzio » e come un esile « alito » in cui « era spirato il mio male ».

85

Con il tacere

del frastuono

infernale

e la conquista

del

bianco « silenzio» interiore, siamo così a un primo disincantamento, al destarsi dalle fantasie consolatorie di colui che pure un tempo era uso chiudere gli occhi e cullarsi in aeree lusinghe,

senza prestare ascolto al freddo vento di tramontana, al « querulo aquilone / che muggia nelle forre e fra le grotte» quale possente messaggero di morte (« A mano a mano lungo lo stradale / venia fischiando un soffio di procella: / ma tu sognavi ch'era di natale; / udivi i suoni d'una cennamella », rivela ad esempio, per rimanere a Myricae, l’ultima strofa di Carrettiere). Ma proprio a questo punto, quando sono inesorabilmente scemate le illusioni sulla consistenza dei sogni e sul valore dell’esistenza, si affaccia nella poesia una nuova

estrema

speranza,

ancora più seducente perché collegata alle più intime ragioni del sentire pascoliano: l’evocazione della madre morta, che d’un tratto, come per magia (« Un muovere di ciglia; / e vidi ...»),

si posa al suo capezzale di malato - ai suoi dubbi di uomo, alle sue indecisioni - per indicargli la via della guarigione e della libertà. E l'insegnamento materno è esplicito, non passibile di fraintendimenti: libertà è vivere per la morte, perché il luogo ideale del « nido » è fuori delle vicende terrene, della storia e delle sue precarietà, in un al di là eterno, fisso da sempre,

mobile, in cui non possano

più darsi né violenze

im-

da parte del

mondo né tradimenti interni. I familiari defunti (e ci riportiamo ancora una volta al Giorno dei morti) costituiscono la vera « nidiata », « stretti tutti insieme, / insieme tutta la famiglia

morta, / sotto il cipresso non corre se non pietoso per i vivi, i quali invece rituali e materiali di chi

fumido che geme », in quanto tra loro amore reciproco e affettuosa preghiera vanno ancora soggetti alle traversie spi« vaga in mezzo alla tempesta ».

La libertà, la scelta di vivere con i defunti e di situarsi al

di là del discrimine vita-morte, viene però a coincidere con la morte stessa, con l’« inerzia » e la paralisi di cui essa è figura (« Libero! ... inerte sì, forse, quand’io / le mani al petto sciogliere volessi: /ma non volevo »), insomma con la constatazione del-

l'umana impotenza e con l'inevitabile del Nulla. E, si badi bene, qui non si sione all'indeterminato, al pre-storico, ne, una di quelle fughe dal senso e dal

86

conseguente resa al regno tratta di una dolce regresnon è una languida vertigipeso delle cose che sovente

ci

nel Pascoli

hanno assunto un carattere insieme vittimistico, malin-

conico e consolatorio, legate com'erano allo smarrimento del senso di gravità e all’ottica “ ingenua ” del « fanciullino »: al contrario:

il Nulla percepito nell’Ultimo sogno si svela condizione cosmica, assoluta e irrelata, in cui l'angoscia dell'umanità trova non baluardo o limiti, ma anzi risonanza e dolorosa moltiplicazione.

Anche la convocazione precisano

quindi

come

un

della madre e le sue indicazioni si ennesimo

« sogno

immoto »,

una

proiezione delle proprie allucinazioni consolatorie, un vano lacerante tentativo di autodifesa, perché nessun valore umano può trovare realizzazione e praticabilità, né nel sogno, né nella realtà terrena, né nella morte.

Logica conseguenza del lungo iter conoscitivo compiuto dal Pascoli è allora la disillusione

assoluta, il desengaño,

la consa-

pevolezza dell’inutilità di ogni affanno come di ogni gioia: « Udivasi un fruscìo / sottile, assiduo, quasi di cipressi; / quasi d’un fiume che cercasse il mare / inesistente, in un immenso piano: / io ne seguiva il vano sussurrare, / sempre lo stesso, sempre più lontano ». Il « mare », la mèta significante, non esiste, non si dà per l’uomo un porto che possa concedergli insieme riposo e ra-

gione del percorso compiuto. Come per il « vecchierel bianco, infermo » del Canto notturno di Leopardi, anche per l’uomo pascoliano il punto d’approdo altro non potrà essere che l’«abisso orrido, immenso, / ov’ei precipitando, il tutto oblia ». Il « mare inesistente » non può offrire uno scopo al misero « fiume » che lo va a cercare,

anzi lo nega

radicalmente,

lo annulla

nei suoi

stessi principî e nelle sue motivazioni ultime, insieme negando anche se stesso. In questa landa desolata non c’è più posto per un senso, non agiscono dèi e non sopravvivono affetti umani, ma ogni cosa deve limitarsi alla propria vanità, alla propria mancanza, al proprio « vano sussurrare, / sempre lo stesso, sempre più lontano ». Ecco allora che, finalmente, si sciolgono tutti gli enigmi e la verità si può rivelare nella sua completezza, ma è una ben tragica verità, che non concede spazio a vie di salvezza o a residue speranze: per l'umanità non possono esistere né il sogno né la realtà, né la vita né la morte, ma ogni presenza si perde nella più totale Assenza, inesprimibile, inattingibile, assurda.

87

Sono quindi numerosi i “ sogni ” a cadere in questa lirica, uno dopo l’altro, inesorabilmente: innanzitutto ogni residua. illusione relativa al valore intrinseco dell’esistenza umana e alla consistenza del momento

onirico, ma, in più, anche la fede nelle

capacità di resistenza del « nido », in quanto ricovero dalle insidie della storia e in quanto misura del mondo, fede che tanto profondamente ha agito nella psicologia e nella poesia pascoliana. E l'impossibilità del « nido », di quel pur solido viluppo di istinti e di affetti viscerali, si sposta anche nell’al di là, sul versante della morte e dell’eterno, innescando una reazione a catena

il cui sbocco è la nullificazione più completa. Il definitivo risveglio, la guarigione si riversa sì in conoscenza,

dall’« ultimo

in precisa consapevolezza

sogno », del vero,

ma tale nuovo stato non può a sua volta risolversi in salvezza né può comunque alludere a una qualsiasi via d’uscita. Raggiungere il fondo della coscienza umana non concede di per sé possibilità di intervento o di soluzioni in qualche modo salvifiche, ed anzi

è la più chiara constatazione della vanità e dell’insensatezza che stanno

a fondamento

del cosmo

intero.

Conoscere

è morire:

l'antica rivelazione secondo cui chi vede in faccia il Dio - la Verità - viene inesorabilmente segnato dalla morte è così riproposta in ambito moderno, e Pascoli la sviluppa e fa rivivere nell'Ultimo sogno, attingendo con fine sensibilità, al di là dei misteri di Natura e della stessa religione dei morti, il Nulla senza tempo, il vuoto.

88

GRAZIELLA CORSINOVI PASCOLI E PIRANDELLO

Storia di una polemica e di un ossimoro critico

La storia del rapporto - scontro tra Pascoli e Pirandello è, per certi aspetti, singolare quando si pensi alla grossa consonanza che tra i due scrittori sussiste, pur nella netta diversità di temperamento e di approdi letterari. Se c'è un’affinità tra Pascoli e Pirandello (ed è per noi che veniamo dopo agevole riscontrarlo) è in effetti la loro trasgressività, () la loro rivoluzionarietà stilistico - espressiva che, pur articolata ed esplicata in ambiti diversi, li pone all'avanguardia dei tentativi di sperimentazione letteraria che contraddistinguono il ‘900. Venendo ai termini precisi della questione - riprenderemo più avanti il discorso specificamente critico - essa si delinea attraverso due fatti fondamentali solo recentemente acquisiti alla storia letteraria: la pubblicazione di lettere del Pascoli ad Angiolo Orvieto (?) e la scoperta dell’anagramma di Luigi Pirandello in

(*) Riteniamo utile, data la scarsa notorietà del documento riportare in Appendice, dopo le note, la recensione integrale di Pirandello alle Myricae. (1) Consentiamo con G. SANTANGELO, Influenze della poesia dell’800 sulla produzione lirica pirandelliana, in Pirandello poeta - « Atti del Convegno internazionale di studi pirandelliani »,

Firenze

1981,

p.

33,

quando,

afferma:

«...

Pascoli

con

Pirandello

è

diversa

ma

altrettanto significativa voce del decadentismo italiano ». Entrambi gli scrittori infatti capovolgono il segno delle strutture tradizionali, sommovendole dall'interno e, per questo, incidono più profondamente e più rivoluzionariamente sul piano dei risultati artistici, rifuggendo però - pur nella loro trasgressività - dalle vistosità clamorose di certa avanguardia primonovecentesca, come il Futurismo. (2) Si vedano le Lettere inedite del Pascoli ad Angiolo Orvieto, in « Il Ponte », XI, 1955, e in particolare la lettera del 26 maggio 1897, che contiene uno sfogo rabbioso del Pascoli contro Ugo Ojetti e che coinvolge lo stesso Pirandello.

89

in calce ad una serie di

Giulian Dorpelli, () firma che compare

sulla

recensioni curate per la rubrica Tra libri vecchi e nuovi « Rassegna

dal Gar-

diretta

universale » di Roma,

settimanale

landa (°). sostanzialmente

evoluzione,

sua

nella

e scandita

Emersa

dalla rete privata della corrispondenza epistolare, la polemica Pascoli - Pirandello trae origine da una recensione parzialmente stroncatoria alla quarta edizione delle Myricae, pubblicata in data 14 marzo 1897. (°) In realtà fu il solo Pascoli ad alimentare la polemica avendo accusato, come dello. (6)

dolorosamente

offensiva, la recensione

di Piran-

La storia del risentimento pascoliano non ebbe forse a quei tempi una grossa risonanza pubblica. Però fu certamente risaputa all’interno del gruppo romano (Gnoli, Ojetti, Fleres, etc.) che gravitava intorno alla Rivista del Garlanda. E’ significativo

che la recensione

poco posteriore, (29 agosto Apostolo Zeno (?). L’estensore,

relativa

1897) venga

ponendosi

ai Poemetti,

di

alla firma

di

affidata

in polemica

indiretta,

nell’ambito

della stessa Rivista e della stessa rubrica, con lo scritto pirandelliano, difende energicamente la poesia pascoliana dall'accusa di oscurità, invitando

(3) Per la questione MUSTI,

1970;

Pirandello

relativa

- Dorpelli,

A. BARBINA,

di Studi

a rimeditarla

Sul

alla

decifrazione

in « Rassegna

primo

attentamente.

dell'anagramma

di Cultura

Pirandello

recensore

1973,

121-150.

pirandelliani », I, Roma

pp

e vita

si veda

M.

LO

scolastica », XXIV,

e recensito, Della

(©)

in « Quaderni

questione

si sono

VECCHIO 3, 31 marzo

dell'Istituto

successivamente

occupati: E. PROVIDENTI, I! giovane Pirandello e il poemetto Belfagor in « L'Osservatore politico letterario », gennaio 1978, pp. 45-71 e febbraio 1978, pp. 42-70; S. ZAPPULLA MU-

SCARA',

L. Pirandello

« Quaderni

- Carteggi

dell'Istituto

di Studi

inediti

(con

Ojetti - Albertini

pirandelliani », 2, Roma

ancora Pirandello poeta nella storia della critica, SANTANGELO, in « Atti » cit. p. 33 e nota 47. (4) La rivista

fu fondata

da Federico

subito, ma solo dal 29 novembre cfr. A. BARBINA cit.

- Orvieto Della

in « Atti » cit.

Garlanda

1896 incominciò

1980.

il 5 gennaio

ad usare

stessa

p. 263

1896.

- Novaro Zappulla

e nota

Pirandello

lo pseudonimo

ecc.)

in

si veda

21-22;

G.

vi collaborò

Giulian

Dorpelli,

(5) Si veda l’Appendice. (6) L'episodio è stato recentemente ricordato da G. MACCHIA, sulla terza pagina del « Corriere della sera », in data 17 Agosto, 1980, con il titolo » Pirandello (mascherato) contro Pascoli.

Ora

in La

Stanza

(7) Cfr. A. BARBINA (8) ... «Coloro bizzarro,

Pascoli

90

leggano

vuole

che

mossero

le nove

essere

della

tortura,

Milano,

1981.

cit. p. 142 n. 10 e Rassegna settimanale universale poesie

appunto de

letta attentamente

La

...

al

poeta

sementa,

».

del 29 Agosto, 1897.

di essere oscuro, ora artificioso, le leggano bene - poichè la poesia

ora del

L'intervento pirandelliano ebbe comunque una sicura, sproporzionata ripercussione sull’acuta e ombrosa sensibilità del poeta romagnolo, cui il linguaggio del recensore, scevro da ogni diplomazia

letteraria, peraltro dichiaratamente

elusa in esordio

dallo stesso Pirandello (...« ogni mestiere ha i suoi attrezzi, e la critica ... ha i suoi. Uno dei più usati è, per esempio, quella tal riserva d’alcune lievi mende nella forma di certi libri, Dio sa come e perchè lodati ... ») dovette fare l’effetto di una stilettata e arrecare

un dolore indimenticato

se, a distanza di tempo

- un anno - in una lettera alla sorella Maria del 22 novembre 1898 (°) riferendosi alla questione dirà: « ma prima voglio riprendere un antico e tremebondo discorso ». Il poeta arrivò persino ad immaginare un complotto (1) contro di lui da parte della « piccola massoneria siciliana » trapiantatasi a Roma attorno alla Rassegna. Ma una motivazione ulteriore dell’afflizione pascoliana per le nette riserve pirandelliane derivò dal fatto che il poeta di San Mauro aveva dato il suo assenso all’editore Giusti per la pubblicazione dell’Elegie Romane di Goethe tradotte da Pirandello (1. Pascoli si sentì tradito da « Pimpirindello » (?) e la stroncatura, anche se parziale, dovette ferirlo come una gravissima ingiustizia, soprattutto se contrapposta alla sua generosità di giudizio nei confronti del lavoro pirandelliano. Fu una delle tante offese ingiustamente patite che, iniziate traumaticamente con l’uccisione del padre, lo inseguiranno - o (9) M.

PASCOLI,

Lungo

la vita di G. Pascoli,

Memorie

curate

ed

integrate

da

A. Vici-

nelli, Milano 1971, p. 595. (10) Ibidem. L’ipotesi gli appare suffragata anche Nel carcere di Ginevra e dalla presenza, invece, di una

dall’assenza di una sua poesia, l’ode poesia di Pirandello nel numero della Rassegna del 20 novembre 1898, intitolata Rondine, tra l’altro, di chiara ascendenza pascoliana. Non è senza significato che riferendosi in questa lettera allo scrittore agrigentino lo definisca: «... il mio invido e imitatore critico disonesto ... e continuando nei suoi sospettosi ragionamenti dica a proposito della lirica non pubblicata » Che sia caduta nelle mani del Pirandello o d’altri redattori miei nemici nell'assenza del Garlanda? Sono cose che non sapremo mai, tanto quella canaglia è gesuitica ... dimenticavo. E’ tutta una piccola massoneria ... per la cronaca: Pirandello e Fleres sono due siciliani...» Lett. cit. del

22 novembre 1898. (11) Lett. cit. del 26 maggio 1897: ... « A quel Pimpirindello feci stampare io le Elegie romane perchè a me fu chiesto giudizio dal Giusti e lo diedi favorevole » e Lettera del 2 Aprile 1897 «... per questo ricorda tu ... che gli attacchi del Pirandello e dello Gnoli, che mirano a stabilire la mia decadenza non danneggiano il commercio dei miei libri » ... (12) Cfr. nota precedente.

91

così almeno crederà il poeta - per tutta la vita; offesa che gli fece dire, nella stessa lettera all’Orvieto con riferimento a Piran-

dello: « Sarò poeta inferiore a lui, ma uomo migliore » (*). L'accoramento per l’oltraggio subìto fu tale da precipitarlo nello sconforto più profondo: « Io sono solo, solo ... passo certe ore, o meglio certi giorni, in cui mi pare di dover morire » (*). Lo scrittore

agrigentino,

come

si sarà mai sentito di tali rovinose (5). Mancano

asserisce

il Macchia,

conseguenze

« non

responsabile »

comunque, in tal senso, documentazioni

atte a suf-

fragare sia l’indifferenza, sia il ripensamento circa gli effetti provocati dalla sua recensione. A noi rimane la sola testimonianza epistolare del Pascoli, con tutta l’eco della sua profonda amarezza

e l'evidente sintomatologia di un comportamento neurastenico. Ad osservarle bene però, eliminando lo specchio deformante di una eccessiva suscettibilità, le note pirandelliane alle Myricae, contengono circostanziate osservazioni critiche ed individuano alcuni nuclei « su cui si sarebbe fissata la critica pascoliana immediatamente futura » (1. L'ambivalenza sfuggente della poesia pascoliana, rilevata costantemente dalla critica e in qualche modo ricadente sull’ambiguità delle conclusioni della stessa analisi ermeneutica, incerta talora nel definire in termini esatti i caratteri della poetica e della produzione lirica pascoliana è già presente qui, nello scritto pirandelliano del 1897. L'iniziale stroncatura,

ammirazione

nella seconda

una tendenza

all’ossimoro

infatti, lascia il posto ad un'intensa

parte della recensione, critico, una

anticipando

sorta di odi et amo,

che

contraddistingue quasi tutta la critica pascoliana, anche quella sostanzialmente di segno positivo.

Lo scrittore siciliano rimpiange che le Myricae non siano rimaste alla terza edizione, indicando,

anche

in questo, uno

dei

« loci » critici più comuni a proposito della sovrabbondanza pro(13) Ibidem Lett. cit. ad Angiolo Orvieto del 26 maggio 1896. (14) Lo stato di depressione, conseguente con ogni probalità evidenzia

in

una

lettera

a

U.

BRILLI

solitario; Milano 1963, p. 320. (15) G. MACCHIA, cit. (16) [bidem e A. BARBINA, pascolisti sembra quasi dieci anni dopo. »

92

una

cit.

premessa

del

p.

sett.

142: (o

un

1897,

« Ebbene, abbozzo)

riportata

a in

lo scritto del

saggio

questa M.

stroncatura,

BIAGINI,

pirandelliano crociano,

/l

sfuggito scritto

si

poeta

ai

circa

duttiva del poeta, e dichiara che « le poesie aggiunte - circa una quarantina - tranne qualche rara eccezione come per l’elegia X Agosto, non

solo non hanno

arricchito il volume,

ma

hanno

ac-

cresciuto il numero di quelle che già vi rappresentavano la parte meno bella e meno vitale, i vizi del poeta: le sottigliezze troppo studiate, lo stile troppo

spezzato,

stitico, asmatico » (07).

Al di là dell’asprezza verbale, queste ultime affermazioni di Pirandello anticipano di circa un decennio i famosi giudizi crociani.

Straordinaria

è la consonanza

tra i due critici (!) sia

per le riserve che per gli apprezzamenti. Pur nella diversità dei rispettivi linguaggi, pastoso e profondamente motivato quello di Croce ('), rapido ed incisivo, senza margini di perplessità, quello di Pirandello, i rilievi sull'ambiguità del « modus scribendi » pascoliano, sono omologhi. Così, se Pirandello definisce lo stile del poeta romagnolo « spezzato, stitico asmatico », Croce

dice:

« Si avverte

qualcosa,

non

saprei se di ballato o di ansimante »; se Pirandello parla di « sottigliezza troppo studiata, acume troppo limato », Croce ribadisce: « La genialità e l’artificio, la spontaneità e l’affettazione, la sincerità e la smorfia, appaiono tutti negli stessi compo-

nimenti, nella stessa strofa, talvolta in un singolo verso ». Concorde è pure il giudizio sulla « oscurità » della poesia pascoliana: Pirandello afferma: « La poesia del Pascoli non è vena d’acqua limpida, abondante e fluente, ma rivolo tortuoso, gemente, rimbalzante a tutti i ciottoletti del greto; vuol dir troppo e in breve, si tormenta

e tormenta

... vuole apparir

nuovo

e riesce

spesso oscuro ». E il Croce: « Sotto l’acqua limpida e cheta si muove la corrente turbinosa e torbida ... ». i Analogamente gli apprezzamenti pirandelliani su alcune poesie pascoliane, sembrano riecheggiati in quelli del Croce:

(17) Cfr. Appendice più avanti. Quanto si sia risentito il Pascoli è comprovato da una lett. settembre 1897: « Ho letto nella Rassegna settimanale universale ratore del Marzocco (Luigi Pirandello Giulian Dorpello (sic!) col bene per la Myricae opera di stitico, d'uomo che si tormenta e cosa: io godo. Sciocca la seconda: io non obbligo a leggere » ...

ad Angiolo un articolo

Orvieto del 17 di un collaboquale egli mi striglia ben tormenta. Falsa la prima

(18) Si veda in proposito anche A. BARBINA cit. p. 141 - 142. (19) Per il confronto qui stabilito ci si serve, passim, delle affermazioni tratte dal B. CROCE, Letteratura della nuova Italia, vol. IV, Bari, 1946 (10 1906), pp. 72-129 e della recensione pirandelliana posta in Appendice.

93

in en

Il giorno dei morti, definito da Pirandello « dantesco », è apprezzato anche dal Croce che vi rileva, un po’ più riduttivamente, « accenti commossi »; L'ultima passeggiata è costituita, per lo scrittore agrigentino, da « finissimi quadretti », e, per il Croce,

da « quadretti perfettamente intonati ». Ma ulteriori, feconde indicazioni critiche è possibile ricavare da una rilettura attenta della recensione pirandelliana che, pur nell'economia costrittiva dello spazio giornalistico, affonda il suo strumento critico fino a cogliere nelle sue sotterranee radici il nucleo genetico della poesia pascoliana. Per esempio come quando Pirandello afferma, riferendosi alle modalità espressive del Pascoli: « Mi fa pensare ad un compositore che cerchi e combini sulla tastiera del pianoforte un intreccio di note, un

motivo;

tal’altra mi dà l’immagine

di uno

che, dopo

un lungo silenzio intento, a un tratto si metta a parlare; chi lo ascolta non riesce spesso a intendere quello che egli dica o voglia dire, poichè il soggetto del suo pensiero, il motivo del suo sentimento, sono rimasti dentro di lui, e bisogna andarci per interpretazione, scoprirli; e tante volte non è facile » (9). La prima osservazione relativa all’immagine del compositore,

mentre

definisce

metaforicamente

la

qualità

musicale

della

poesia pascoliana, enuncia anche un termine costante della dina-

mica lirica del Pascoli che tende a ritornare, con una specie di inerzia ripetitiva, sulla prima nota del tema musicale e a farla rimbalzare continuamente, come un’eco all’interno di tutta la struttura compositiva. La

seconda,

riferendosi

alla

similitudine

con

«uno

che

dopo un lungo silenzio intento si metta a parlare ... » individua una caratteristica della poesia pascoliana, riconosciuta e dichiarata dallo stesso Pascoli, tra poesia pura - che rimane dentro inespressa e poesia applicata - quella che è realizzata nel verso ma che spesso non traduce il vero sentimento rimasto chiuso dentro

e che rimanda,

senza

esprimerla,

« l'eco dell'ignoto »(2!).

Questo margine di intraducibilità dell’intuizione lirica e del sentimento poetico è acutamente penetrato da Pirandello proprio (20) Ibidem (21) Per un'ampia sintesi dei più recenti approdi critici su Pascoli si rinvia alla brillante ed esauriente introduzione di Furio Felcini alla sua Bibliografia pascoliana, Ravenna, 1982,

pp.

94

11-52;

nel rilievo conclusivo che il soggetto del pensiero, il motivo del suo sentimento

sono

rimasti

dentro

di lui ... »; rilievo che non

mancheranno di fare anche i critici più vicini e attenti alla sensibilità pascoliana (?). Riprova di una oscillazione di giudizio tipica di molta critica su Pascoli è la seconda parte della recensione, in cui lo scrittore siciliano, dopo le consistenti riserve, passa a sottolineare i pregi singolari, « innegabili e taluni veramente straordinari » di quella poesia: «il profondo sentimento della natura ... l’originalità dell’ispirazione; e sempre la finezza, sempre una vaga,

diffusa soavità malinconica e quasi costante la sincerità », fino a concludere che la poesia «intima » del Pascoli è veramente « sublime » e che la voce del poeta romagnolo « sembra, se non la più limpida e la più vigorosa, senza dubbio la più vibrante e la più originale » (#). Anche alla luce delle più mature e recenti acquisizioni della critica (*), questi giudizi pirandelliani possono sottoscriversi

pienamente. L’originalità e la sincerità, la perizia tecnica, la ricchezza di vibrazioni interne, la musicalità e l'ambiguità logico sentimentale dell’espressività pascoliana, ma anche la sua assoluta novità «in mezzo al frastuono di questa vita nostra » (*), non sono sfuggiti a Pirandello - Dorpelli e, pur nell’ambito di una recensione,

restituiscono,

netta,

la proiezione

positivo del Pascoli osservato attraverso

poeta

in negativo

e in

la lente di Pirandello.

(22) Per una storia della critica pascoliana e dei vari modi di approccio all'opera del romagnolo si rimanda a P. MAZZAMUTO, Pascoli, Palermo, 1973, e M. DEL SERRA,

Pascoli,

Firenze,

1976.

(23) Dell’apprezzamento pirandelliano alla nuova musicalità ed espressività del Pascoli è testimonianza privata, ma non per questo meno importante, anche un foglietto autografo trovato da A. BARBINA nelle pagine di un libro presente nella Biblioteca di Pirandello (PIETRO MICHELI, Letteratura che non ha senso, Livorno, Giusti, 1900) e pubblicato dal critico nella sua recente e informatissima fatica; La biblioteca di Pirandello, pubblicazioni dell'Istituto di Studi Pirandelliani, Bulzoni; Roma, 1980, p. 59. Ecco il passo riguardante il Pascoli: /... «Ma la pittura e la scultura non possono evitare la materialità e sono inferiori alla poesia, che ora in virtù della sapiente pieghevolezza acquistata dalla parola nelle mani di artefici sapienti, può rendere la momentanea illusione ed il successivo ritorno

alla realtà con l'animo ancora vibrante per la gioia del sogno fugace. Si legga questo sonetto del Pascoli: « O Vecchio bosco pieno di albatrelli / che sai di funghi e spiri la malas etc Pirandello trascrive per intero il sonetto ed il contesto elogiativo in cui il componimento pascoliano è riportato, non può che riverberare una luce positiva sulla capacità evocativa della lirica pascoliana. I corsivi sono nostri. (24) Cfr. Felcini, Mazzamuto, Del Serra, cit. (25) Vedi Appendice.

95

Giudice acuto e sgombro da vincolanti pregiudiziali, se Pirandello avesse sviluppato in un saggio complessivo le indicazioni qui rilevate, oggi, molto probabilmente la critica pascoliana dovrebbe tenerne conto né le potrebbe passare sotto silenzio, come è accaduto invece per questa recensione, d'altra parte solo di recente acquisita come documento di notevole interesse anche per i pascolisti (”).

Ma poiché la storia non si fà con i se, noi oggi possiamo dedurre

dall'opera

stessa

dello

scrittore

siciliano,

soprattutto

dalla sua produzione in versi, ma anche dalle sue prose, (?) quanto fosse precisa, pur nei limiti evidenziati, la consapevolezza che l’opera poetica del Pascoli si alimentasse di una vena lirica originalissima fondata sull’autenticità del sentimento e sulla dissoluzione programmatica della retorica letteraria tradizionale. Forse, se il poeta di San Mauro avesse riflettuto più attentamente sulla seconda parte della recensione e sul fatto che Pirandello lo aveva largamente imitato (lui stesso lo aveva definito « invido imitatore e critico disonesto ») (#) si sarebbe parzialmente consolato della stroncatura osservando come la sua stessa

lezione

di poeta

era

stata

ampiamente

messa

perciò profondamente meditata e in qualche modo stesso scrittore agrigentino.

a frutto,

e

amata, dallo

L'influsso pascoliano su Pirandello si evidenzia soprattutto nelle liriche di Zampogna (©), ne percorre un po’ tutta la produ-

(26) In quasi tutte le bibliografie e le sintesi critiche relative a Pascoli tranne nell’ultima cit. del Felcini, manca sia l'indicazione, sia l’attenzione di qualche rilievo a questo scritto pirandelliano. Per es. lo stesso Mazzamuto che ne accenna non ne dà poi ragguaglio alcuno. (27) All'epoca in cui Pirandello pubblica Zampogna e le sue più importanti opere di narrativa sono già usciti parecchi volumi pascoliani; Myricae, Poemetti e anche i Pensieri sull'arte poetica pubblicati sul Marzocco nei primi mesi del 1897.

Se, come

afferma

il Contini,

Letteratura

dell’Italia

unita;

1861-1968,

Firenze,

la prosa

pascoliana è più rivoluzionaria della sua stessa poesia, potrebbe non essere un'operazione critica impropria ricercare anche l'influsso della prosa pascoliana su quella pirandelliana. Per cenni sulla questione si rimanda a G. CORSINOVI, Pirandello e l’Espressionismo - Uno strappo nel cielo di carta, Tilgher, Genova, 1979, p. 99. (28) Lettera alla sorella Maria cit. (29) La raccolta fu pubblicata nel 1901, ora si trova in L. PIRANDELLO,Saggi, poesie e scritti vari a cura di M. LO VECCHIO MUSTI, Mondadori, Milano, 1960, pp. 584 - 612, quindi quattro anni dopo la pubblicazione delle Myricae prese in esame nella recensione del 1897.

96

zione in versi (*) sino a giungere alle prose, innervandosi al tessuto lessicale - sintattico - ritmico in maniera spesso irriconoscibile rispetto alla sua origine. Zampogna, raccolta nella quale la tematica idillica fa scattare più persuasivamente e scopertamente le reminiscenze del

registro pascoliano, consente di accertare più agevolmente l’imitazione dal Pascoli delle Myricae e dei Poemetti (*). Come osserva correttemente A. Illiano (?), nella sua agile e persuasiva analisi relativa alle ascendenze pascoliane di Zampogna, « più che di imparaticci ricalchi e di imitazioni pedisseque, sì tratta di un costante sforzo di adeguamento e superamento che riconosce implicitamente il valore paradigmatico del modello e la sua innegabile capacità d’ispirare un’intera generazione di poeti»): Ciò non toglie che precise tracce lessicali e taluni impieghi fonetici e melodici sfruttati con mano

sicura da Pirandello, siano

inequivocabilmente riferibili agli stilemi ed alle modalità espressive del poeta di San Mauro. Temporale estivo, per esempio, è diviso « in due sonetti da due tracce fonosemantiche 1) gracida 2) brontola (*), apposte a mo’ di titoli, ma in forma parentetica ... » (”). Anche ne «il burbero nuvolon brontola ancora » (*) sembra riecheggiare a distanza un bubbolio lontano del Temporale pascoliano e la ricerca ritmica e tonale di Pioggia (”). Mettiamo due passi a confronto:

come

(30) L'influenza pascoliana si avverte, anche se profondamente alterata e spesso ribaltata oggetto antitetico e polemico, sino ai versi più maturi di Fuori di chiave (1912). Si

veda per esempio la lirica Ultimo vate; e, per alcune considerazioni relative, si rinvia anche a G. CORSINOVI, La poesia controcorrente di FUORI DI CHIAVE, in Atti; cit. su Pirandello poeta, pp. 152- 179. (31) Cfr. A. ILLIANO, La poesia di Zampogna e Padron dio, in « Atti » cit. pp. 134 segg.

(32) Ibidem (33) Ibidem p. 127. (34) Ibidem (35) Ibidem Saggi poesie scritti vari

cit. p. 602. (36) Circa l'influenza esercitata dal Pascoli sulla poesia di Zampogna si veda anche G. SANTANGELO, cit. pp. 33-34: ... Alberi soli, A Gloria, Temporale estivo, Dondolio, chi resta, richiamano famose liriche pascoliane, soprattutto per la trasparenza del cromatismo paesaggistico e la melanconica musicalità del verso. Una varia musicalità che si avvale dello sperimentalismo ritmico - metrico pascoliano a quartine, terzine, sonetti strofe libere che per il giovane poeta fu certamente assai più stimolante dello sperimentalismo capuaniano. (37) Le citazioni verranno fatte da G. PASCOLI, Tutte le opere - Poesie, Mondadori, Milano,

1948, 40 pp. 86 - 87.

DI

Temporale estivo (*) e 00

0%

0 0 0 0 0000000

E saprà d’acqua il gracidìo sonoro, allor che divenuti raganelle, nel silenzio, al pio lume su questi rami be’ "= ———_re re

canteranno

delle stelle, a coro,

e le udrà grato nelle algenti sere,

tornando al borgo alpestre, il carrettiere

Pioggia di Pascoli (*). 0 0 0 0 3 0 0 00

000000

0

E gracidò nel bosco la cornacchia;

il sole si mostrava a finestrelle. Il sol dorò la nebbia della macchia, poi si nascose; e piovve a catinelle. Poi fra il cantare delle raganelle, guizzò sui campi un raggio lungo e giallo ss...

Come

rileva ancora

Illiano

(*) anche

nell’« immagine

del

carrettiere » (*) oltre la nota spuria dell’aggettivazione inconsueta (algenti) si possono individuare i tratti di una figura campagnola già felicemente ripresa in un bozzetto delle Myricae: o carattiere che dai neri monti vieni tranquillo, e fosti nella notte sotto ardue rupi, sopra aerei ponti.

non dal (4) che

Ovviamente, l'importanza (*) delle suggestioni pascoliane esclude prestiti verbali, concettuali, ritmici dal Leopardi, Carducci, da Dante, dallo stesso mal sopportato D'Annunzio e da altri autori coevi, come il Graf. In questa sede ci preme sottolineare l’influsso pascoliano non nega automaticamente presenze di altri autorevoli, mo-

(38) Saggi poesie, cit. p. 602 (39) Poesie, p. 87.

(40) Art. cit. p. 128. (41) Poesie cit. p. 50.

(42) Cfr n. 36. (43) Nell’aggettivo algenti oltre che una

di un certo preziosismo dannunziano

98

eco leopardiana

si può riconoscere

anche

l'influsso

come accade... in alcune prose dell'esordio pirandelliano.

delli, presenze che peraltro vengono a confermare anche una tecnica compositiva ad intarsio, per contaminatio, tipica del procedere pirandelliano (“). Singolari echi pascoliani si avvertono pure in Panico e in Ritorno il cui avvio, Pe’l remoto viale di campagna, (#) tra fitte macchie, in sul cader del giorno: io solo. E’ tal silenzio tutto intorno che a un ragno sentirei tesser la ragna (#)

« sembra rielaborare, con un'apertura in stile nominale di schematica densità, certe immagini raccolte nel denso e agile dettato pascoliano di Nella macchia »: (#) Errai nell’oblio della valle tra ciuffi di stipe fiorite tra querce rigonfie di galle; errai nella macchia più sola. Io siedo invisibile e solo. tra monti e foreste; la sera

non freme di un grido, d’un volo. (8)

In Ritorno viene sfruttato abilmente il ricordo de 11 libro e soprattutto « l'insistenza sulla fenomologia emozionale (sospensione dell'anima, oppressione sgomento stupore ansia e vuote inquietudine) (*) rimandano, ben più intrinsecamente al Pascoli » che non alla limpida e unitaria percezione de L'infinito leopardiano : Ritorno Ove sono? Leggevo. Ecco sul masso il libro aperto. Il vento passa: sfoglia via di furia le pagine. L'ha letto ... vanità (©)

(44) Si rinvia al già cit. art. La poesia controcorrente (45) Saggi, cit. p. 597. I corsivi sono nostri.

(46) Si noti l’uso così esplicito e marcato più immediati nell’impiego pascoliano.

di Fuori

di chiave,

dell’allitterazione che ha uno

in « Atti », cit. 5 dei suoi precedenti

(47) A. ILLIANO, cit. p. 129. (48) Poesie, cit. p. 78. (49) A. ILLIANO, cit. p. 130.

99

Il libro Sopra il leggìo di quercia è nell’altana aperto, il libro. Eccolo: aperto, sembra che ascolti il tarlo che lavora.

Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti, invisibile là come il pensiero, che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,

sotto le stelle, il libro del mistero. (51)

L'esemplificazione potrebbe continuare con dovizia di elementi e di argomentazioni, (?) mettendo in evidenza l’ossimoro da cui sono contraddistinte, nell’avvicinare i testi pascoliani, sia

la posizione critica sia l'operazione poetica di Pirandello. La lezione del poeta romagnolo, quand’anche non si appoggiasse filologicamente su precisi riscontri tematici, lessicali, stilematici etc. è ancora reperibile all’interno delle strutture e delle modalità espressive pirandelliane, per esempio, nell'impiego dell'armonia imitativa, degli accorgimenti fonici e melodici, nello sfruttamento dell’allitterazione e dell’onomatopea etc. (8). Una campionatura delle liriche, ma anche delle prose piran-

tiam

(50) Saggi, cit. p. 611. Interessante è l'avvio certe movenze della Romagna pascoliana. Casa romita in mezzo campagna, aerea qui

di questa

poesia

che

ricorda

ad

abundan-

a la natìa su l’altipiano

te sempre vedo, sempre da lontano, se penso al punto in cui la vita mia

(51)

Poesie,

cit. p. 245

(52) Per non ampliare eccessivamente il discorso degli echi e dei prestiti pascoliani, riportiamo qui, in nota alcuni riferimenti a poesie del poeta romagnolo utilizzate da Pirandello secondo una tecnica ad intarsio che gli è peculiare; per Rondine: Il nido, X Agosto, l’Aquilone;

per A Gloria:

l’Aquilone,

Il morticino,

Morto

etc.

(53) Proficua, nella direzione di ricerca proposta, potrebbe essere anche un’indagine sulla prosa pirandelliana per accertare la fruizione del materiale lessicale e delle modalità stilematiche derivate da Pascoli. Alcuni esempi, di allitterazione, oscillante, come quella pascoliana, tra un valore mimetico e uno fonosimbolico: altipiano d’aride argille azzurre; strapiombante franoso - campagna gialla - (Scialle nero); cotenna rosa rasa ridondante sulla nuca; camicia floscia celeste (L’esclusa) etc.

Come si noterà, il gusto dell’iperbole e del grottesco muta, anche in questi pochi esempi, il risultato finale dell’allitterazione e del valore onomatopeico di certi nessi.

100

delliane (*) ci porterebbe a riconoscere la presenza di nessi lessicali, moduli sintattici etc. su cui si avverte l’insistita e determinante influenza esercitata dalla frequentazione di Pascoli, sui

procedimenti interni del dettato pirandelliano. La stessa tecnica versificatoria, (*) pur offrendosi con i caratteri di una sua specifica autonomia, (*) si avvale delle riorganizzazioni ritmico - metriche già esperite dal verso pascoliano.

Le arditezze e le trasgressioni del metro pirandelliano, insomma, sarebbero difficilmente comprensibili e giustificabili senza il precedente « storico » della rivoluzionaria sperimentazione del poeta romagnolo (”). Occorre sottolineare, peraltro, che il confronto con il modello pascoliano, qualunque sia il versante esaminato, rivela un

costante spostamento di direzione rispetto ad esso. L'accezione del colloquiale e del parlato, per esempio, perde, nell’assunzione pirandelliana, la carica di « irradiazione emotiva » (*) per trasformarsi nel linguaggio del disincanto della realtà, osservata con un sentimento sì, ma che è il « sentimento del contrario

(©):

La trasposizione delle immagini sul piano lirico, anche quando più intenso e spontaneo sia l’abbandono sentimentale alle cose della vita umile e naturale, avviene sempre con « l'ausilio di sottili, ma sempre percettibili mezzi ironico - umoristici » (99).

(54) Alcuni cenni alle tecniche espressive pirandelliane, si possono trovare nel già cit. Pirandello e l’Espressionismo, p. 99. L’uso di alcuni moduli sintattici è comune ai due scrittori: per es. la coppia astratto-aggettivo: irto giallore; pinguedine ingombrante etc. in Pirandello;

azzurra

lontananza;

bianco

stupore;

tremola

similarità di impiego di molti stilemi comporta relazione all’ultimo esito in sede espressiva.

serenità

anche

dei

in

Pascoli.

precisi

Naturalmente

distinguo

soprattutto

la

in

(55) Per un’analisi accurata della versificazione pirandelliana si rimanda al diligente articolo di G. CAPPELLO, Tradizione, rinnovamento, e « mistificazione » per uno studio metrico della produzione pirandelliana; pp. 212 -257, in Atti ... cit. pp. 212 - 257. (56) Per le singolari caratteristiche La

poesia

controcorrente

...

della poesia pirandelliana

si rinvia a G. CORSINOVI,

cit.

(57) Sulla imprescindibilità del modello pascoliano si soffermano con convincente mentazione, anche F. NICOLOSI, L. Pirandello, Primo tempo: dalla poesia alla narrativa;

argoRoma

1978, p. 46 segg. e V. ZAMBON, Pirandello poeta in versi, in « Atti del Congresso di studi Pirandelliani. Firenze, 1967, pp. 623 - 634. (58) G. DEBENEDETTI Pascoli - La rivoluzione inconsapevole, Milano, 1979, p. 128. (59) E’ la nota definizione dell’Umorismo p. 134 segg. (60) A. ILLIANO, cit. p. 127.

nel

saggio

omonimo

del

1908,

in Saggi

cit.

101

Ciò si avverte anche nella trasformazione esercitata sulla musicalità del verso da una continua stonatura di registri timbrici e tonali (£).

L'armonia

della lirica pascoliana, pur densa anch'essa

di

fratture interne, riassorbite e recuperate però in un'unica onda musicale di fondo, si trasforma, nell’assunzione pirandelliana in

una serie di iati e di segmentazioni per cui il verso si disarticola in una direzione prosastica, quasi di « controcanto » (©).

Resta

il fatto che Pirandello,

acuto

e poco

diplomatico

recensore delle Myricae, ne avverte, tentando di assumerla, la capacità di rottura, antitradizionale ed antiletteraria; egli recepisce

insomma gli elementi di maggior novità dell’impostazione lirica del poeta di San Mauro e, in particolare, quel bisogno, tutto pascoliano, di far « sapere di guazza e di erba fresca » la poesia, finalmente

« liberata dall’imitazione

e dalla collezione » (‘).

Se le richieste di sincerità - anzi di « sincerismo » - e di originalità datano, per Pirandello, almeno dal saggio La menzogna nel sentimento dell’arte del 1890 (f*), non poteva non essergli evidente che nell’opera pascoliana queste trovavano una delle risposte più totali e persuasive. La consistente ed inequivocabile incidenza, soprattutto nell'iniziale attività lirica di Pirandello, della produzione pascoliana,

si legittima dunque pienamente nella riconosciuta originalità ed imprescindibilità tecnico-stilistica del paradigma - Pascoli. L'incidenza lascia, com'è ovvio, emergere anche uno stacco netto tra le due personalità, (stacco che è anche alla base delle

precise riserve di Pirandello - Dorpelli) tra una sensibilità sinuosa e risentita, per taluni aspetti, morbosa e femminea, come quella del Pascoli, e quella, non meno profonda, ma sorretta e dominata da una

componente

razionalistica,

ironica,

analitica,

chiave », come quella di Pirandello. L'impostazione umoristica, nell'approccio (61) Anche dizione,

su quest’aspetto

si veda

G. CORSINOVI,

La poesia

« fuori

conoscitivo cit.

e G. CAPPELLO,

di

alla Tra-

cit.

(62) Ibidem. (63) Anche in una

lettera a Mario

Novaro

del 27 novembre

1904 in Lettere

a La Riviera

ligure - 1900 - 1905, Roma 1980, a cura di P. BOERO, p. 138, Pascoli dichiarava: ... « E studio per semplificarmi e sletterarmi e spedantirmi. Riuscirò? Spero. Se ho vita ancora un poco, questo poco ha da essere dedicato a questo fine ».

(64) In Saggi, cit. p. 842. La battaglia contro la retorica contraddistingue gli interventi critici di Pirandello fin dall’inizio della sua attività letteraria e lo vedrà impegnato fino al termine

102

della sua

carriera

di scrittore.

realtà, è ignota al Pascoli ed è fuori dalla sua ottica gnoseologica, estetica, filosofica ed umana.

L'atteggiamento di distanza, con effetti di « straniamento » (®) tipico dei personaggi e delle composizioni pirandelliane, anche quelle più densamente passionali, non rientra nell'arco delle sue possibilità nè psicologiche nè stilistiche. Fatto questo che, mentre

genera

sul piano umano,

una

più

scoperta fragilità in Pascoli e una più avvertibile indifferenza in Pirandello, provoca però, a livello di resa lirica, la preminenza assoluta del Pascoli, la cui totale permeabilità al flusso del sentimento, innestata

su una

raffinatissima

perizia tecnica, sortisce

risultati lirici certamente non reperibili nelle poesie dello scrittore agrigentino.

L'abbandono

pascoliano

alla suggestione

sua ricettività totale nei confronti

degli stimoli

del mistero,

la

sentimentali,

in

perenne auscultazione di messaggi segreti e misteriosi, di brividi e tremori, cedono, nel tessuto compositivo

pirandelliano,

ad un

continuo intervento dell'elemento riflessivo, esplicitamente proposto in primo piano; questo dissocia, scompone, interrompe la fluida musicalità propria del verso pascoliano, dando al verso pirandelliano un andamento prosastico e disarmonico, anche dove il precedente pascoliano risulta evidentissimo (6).



Certo, sarebbe ingenuo e semplicistico concludere che le innovazioni ritmico - metriche e sintattico - stilistiche della lirica (e perchè no? anche della prosa) pirandelliana vadano in qualche modo riferite, tutte, alla trasgressiva esperienza pascoliana; tanto più che i risultati finali, come

abbiamo

visto, divergono

molto

e vanno piuttosto ascritti a quella incertezza di messaggio verbale in cui entrambi gli scrittori (9) si trovano ad operare. (65) Per questo atteggiamento straniato Pirandello è stato avvicinato più volte a Brecht, relativamente alla produzione teatrale. Ma una tecnica analoga è già reperibile nelle liriche pirandelliane, in particolare in quelle di Fuori di chiave. (66) Per questo andamento prosastico e ironico si invia ancora al nostro La poesia controcorrente ... cit. (67) L’'affinità tra la condizione storica e l'ideologia poetica di Pascoli e Pirandello potrebbe essere oggetto di una indagine comparativa, finalizzata a cogliere nell’affinità le diversità, con risultati di estremo interesse. Implicitamente ci sembra si possano ravvisare nelle illuminanti pagine di un pascolista come C. F. GOFFIS,Pascoli antico e nuovo, Brescia, 1969, Introduzione, passim, indicazioni precise per una affinità tra i due scrittori: « Pascoli non appartiene più alla nostra tradizione ottocentesca, da cui si distacca per larga frattura

. p. 20; quando

parliamo

tradizionali ... ... c'è

zione nel dominio turalità » ...

un

stesso

di strutture

ampliamento

delle

forme

pascoliane delle

non

innovazioni

logiche

e

le dobbiamo formali

sintattiche

...

sino

confondere a

in una

portare

con

quelle

la

dissolu-

irreducibile

astrut-

103

Ad entrambi il linguaggio si rivela infatti un mezzo inadeguato per esprimere l’essenza delle cose e dell'io. Se Pascoli affida alla bilanciata calibratura del segno (%) linguistico e ritmico polivalente la possibilità di suggerire il mistero e l’inconoscibile, con una

orchestrazione

che fa franare

la « logica certa

del reale », Pirandello egualmente convinto « della vana mendacità delle parole » (9), scardina la convenzione linguistica istituzionalizzata con una operazione che si risolve nella esasperazione degli strumenti logici, svuotati dal paradosso; operazione in cui si innestano, attivamente, anche i recuperi e le tecniche assimilate dal Pascoli come ulteriore apporto di una ambiguità semantica esplicitamente e lucidamente dichiarata.

(68) Si rinvia, indirettamente, a quanto detto dal Beccaria nell’ambito del Convegno Pascoliano di S. Mauro (1-4 Aprile 1982). (69) Basterebbe ricordare, per tutte, la drammatica e appassionata requisitoria contro le parole del Padre dei Sei personaggi in cerca d’Autore, in « Maschere nude », Mondadori, Milano, 1971, 50, p. 65: « Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti, dentro, un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cosel E come possiamo intenderci, signore se nelle parole che dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me ETS Crediamo d'intenderci; non ci intendiamo mail .... ».

104

p

MYRICAE

(1)

Ogni mestiere ha i suoi attrezzi, e la critica, quand'è mestiere (e lo è spesso), ha pure i suoi. Uno dei più usati è, per esempio, quella tal riserva d’alcune lievi mende nella forma di certi libri Dio sa come e perchè lodati. E ora vedrete che tutti i critici, che s’intratterranno sui giornali di questa quarta edizione delle Myricae di Giovanni Pascoli, non mancheranno di esclamar su per giù: — Oh miracolo! La quarta edizione d’un libro di versi, in Italia! Miracolo! — Tutti.

Io, invece, avrei desiderato che questo libro di versi fosse rimasto alla terza edizione. Anche le belle illustrazioni dei pittori Antoni, Pratella e Tommasi ne hanno alquanto sofferto. Un certo bimbo che, a pag. 45, dorme e sogna i rami d’oro, li alberi d’oro, le foreste d'oro; par se ne sia ammalato

di risipola.

Questa edizione è, come si legge su la copertina, notevolmente aumentata: ed ecco perchè avrei desiderato che il libro fosse rimasto alla terza edizione. Le poesie aggiunte — circa una quarantina — non solo non hanno

arricchito

il volume,

ma

hanno

(tranne

qualche

rara

eccezione,

come

per l’elegia X Agosto) accresciuto il numero di quelle che già vi rappresentavano la parte meno bella e meno vitale, i vizii del poeta: la sottigliezza troppo studiata, l'acume troppo limato, lo stile troppo spezzato, stitico, asmatico. Tutti gli esemplari della terza edizione erano esauriti? Ebbene, e allora una ristampa senza aumento. Perché — lasciatemelo dire — per quanto breve, ogni poesia del Pascoli, è una fatica per il lettore, e credo anche per l’autore: non è vena d’acqua limpida, abondante, fluente, ma rivolo tortuoso, gemente, rimbalzante a tutti i ciottoletti del greto. Il poeta non sa o non vuol rendere spontaneamente, agevolmente le proprie impressioni; vuol dir troppo, e in breve, e si tormenta e tormenta; vuol apparir nuovo, e riesce spesso oscuro. Mi fa talvolta pensare a un compositore, che cerchi e combini su la tastiera del pianoforte un intreccio di note, un motivo; tal’altra mi dà l’immagine di uno che, dopo un lungo silenzio intento, a un tratto, si metta a parlare; chi lo ascolta, non riesce spesso a intendere quel che egli dica o voglia dire, poiché il soggetto del suo pensiero, il motivo del suo sentimento son rimasti dentro di lui, e bisogna andarci per interpretazione, scoprirli; e tante volte non è facile. Dico quel che ne penso; di quello che tenuti a dire, per partito preso, o perchè rente, non mi curo. E dico anche i pregi straordinarii di questa poesia, e primo il

(1) GIOVANNI

PASCOLI,

Myricae,

quarta

edizione

altri vorranno o si crederanno così porta la momentanea corinnegabili, e taluni veramente vivissimo, profondo sentimento

- Livorno,

Raff.

Giusti,

1897.

105

della natura;

poi spesso, quando non

zione; e sempre la finezza, sempre e quasi costante la sincerità.

è sforzata, la originalità dell’ispira-

una

vaga

diffusa

soavità

malinconica

Dantesco addirittura è il lungo canto I! giorno dei morti in cui il Pascoli ha la tremenda, angosciosa visione de’ suoi cari, che nel camposanto, stretti tutti insieme, insieme tutta la famiglia morta, sotto il cipresso fumido che geme, stretti così come altre sere al foco;

piangono, implorano « sotto le nere sibilanti acquate ». E’ la madre, a cui egli dedica per tre anniversari tre sonetti, nei quali il chiuso cordoglio trova espressioni di sublime efficacia, e poi quel Colloquio che strappa agli occhi più aridi lacrime vere; è il padre ucciso, che poi gl’ispira le due tragiche elegie L'anello del morto e il X Agosto, le quali dànno brividi d'orrore e di tenerezza; è Margherita, la dolce sorella che trema nella bara sola, e geme: il dolce sonno ora perdei per sempre io, senza un bacio, senza una parola. E voi, fratelli, o miei minori, nulla; voi che crescete mentre qui, per sempre, io son rimasta timida fanciulla. Venite, intanto che la pioggia tace, se vi fui madre e vergine sorella:

ditemi:

Margherita,

Sono i fratelli, di cui Giacomo,

dormi

il maggiore

in pace. dice:

Quando sola restò la nidiata Iddio lo sa, come vi crebbi insieme; se con pia legge l’umili vivande tra voi divisi e destinai de’ pani il più piccolo a me, ch’ero il più grande; se ribevvi le lagrime ribelli per non far voi pensosi del domani, se il pianto piansi in me di sei fratelli.

Ora il poeta ha raccolto intorno a sè gli ultimi avanzi della numerosa famiglia, e così lo annunzia alla madre: Sappi — e forse lo sai, nel camposanto — la bimba da le lunghe anella d’oro, e l’altra che fu l’ultimo tuo pianto, sappi ch'io le raccolsi e che le adoro. Per lor ripresi il mio coraggio affranto, e mi detersi l’anima per loro:

106

hanno un tetto, hanno un nido ora, mio vanto,

e l'amor mio le nutre e il mio lavoro. Non son felici, sappi, ma serene: il lor sorriso ha una tristezza pia: io le guardo — o mia sola erma famiglia — e sempre a li occhi sento che mi viene quella che ti bagnò ne l’agonia non terminata lagrima le ciglia. Tutta questa parte intima, che ha per soggetto la famiglia, si può dire, senza esitazione alcuna, veramente sublime. Delle altre parti non posso citare, come vorrei, molti esempi: l’originalissimo Dialogo tra gli uccelli, i finissimi quadretti de L'Ultima passeggiata e del ciclo In campagna. Tuttavia, eccone uno del ciclo: Il cane: Noi, mentre il mondo va per la sua strada, noi ci rodiamo, e in cor doppio è l’affanno, e perchè vada, e perchè lento vada. Tal, quando passa il grave carro avanti del casolare, che il rozzon normanno stampa il suolo con zoccoli sonanti, sbuca il can da la fratta, come il vento; lo precorre, rincorre; uggiola, abbaia. Il carro è dilungato lento lento; Il cane torna sternutando a l’aia.

E del ciclo Tristezze questo Nido: Dal selvaggio rosario scheletrito penzola un nido. Come, a primavera, ne prorompeva empiendo la riviera il cinguettio del garrulo convito! Or v'è sola una piuma, che a l’invito del vento esita, palpita leggiera; qual sogno antico in anima severa, fuggente sempre e non ancor fuggito: e già l’occhio dai cielo ora si toglie; dal cielo dove un ultimo concento salì raggiando e dileguò ne l’aria; e s’affigge a la terra, in cui le foglie putride stanno, mentre a onde il vento piange ne la campagna solitaria.

E detto così fuggevolmente il bene e il male, concludiamo che tra le poche voci poetiche, in mezzo al frastuono assordante di questa vita nostra, la voce del Pascoli ci sembra, se non la più limpida e la più vigorosa, senza dubbio la più vibrante e la più originale.

GIULIAN

DORPELLI.

107

PP ES

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don) rive nol © >; Pera”

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Î 1

LUIGI DAL SANTO LA GRECIA NELL’OPERA TRILINGUE DI GIOVANNI PASCOLI PREMESSA Nel 1891 Giovanni Pascoli, scrivendo all'amico e condiscepolo di anni universitarii, Raffaello Marcovigi, a proposito del primo poemetto latino che gli aveva procurato la prima delle 13 medaglie d’oro da lui vinte nell'internazionale « Certamen » di poesia latina di Amsterdam, il Veianius, si augurò : « Possa io saziare gli occhi miei delle cose belle e significarne altrui! » (1). Non c’è qui né tempo né motivazione per una dimostrazione o documentazione delle innumerevoli occasioni in cui il Poeta perseguf e, con tenace proposito, portò ad effetto questo suo fervido véto, che costitui senza alcun dubbio il suo stesso programma perenne di vita. Quanto avremo modo di accennare e sottolineare nei tratti più salienti del nostro assunto sarà bastevole a farci constatare come egli, anche percorrendo un campo remoto e singolare, volle e seppe a noi tutti significare, cioè esprimere col linguaggio parlato e scritto in versi e in prosa, pensieri, sentimenti, immaginazioni, in una parola, la sua personale visione del mondo greco. ELENCO DELLE PRINCIPALI RELATIVE AL PASCOLI LiPoe RR PoChri HR HT RU PoEpi Oe’T

= = = = = = = =

Myr

=

CanCast

=

Liber de poetis Res Romanae Poemata Christiana Hymnus in Roman Hymnus in Taurinos Ruralia Poematia et epigrammata Odi ed Inni

Myricae Canti

IN Catulloc

(1) La

=

di Castelvecchio

PARTICOLARE Catullocalvos

citazione

si legge

in M.

BIAGINI,

ABBREVIAZIONI (CARMINA)

FaVa Laur. Glad. Chel. RuCri Cent. Thall. PoGrae

= = = = = = = =

Fanum Vacunae Laurèolus Gladiatores Chelidonismos Rufius Chrispinus Centurio Thallisa Pomponia Graecina

Ag.

=

FaA Paed. Sol.

= Fanum Apollinis = Paedagogium STI

SaTheo

=

/! Poeta

solitario

Agape

Sanctus

- Giov.

Theodorus

Pascoli,

Milano2

1976.

p. 169.

109

RU fe AAA ee ST

SOMMARIO: I: TRADUZIONI da testi greci in poesia o ‘prosa - II: Echi di Grecia Dai CARMINA - III: Dalle RES ROMANAÉ - IV: Dai POEMATA CHRISTIANA - V: Dagli INNI - VI: Dai RURALIA - VII: Dai POEMATIA ET EPIGRAMMATA - VIII: COMPOSIZIONI in greco - IX: I POEMI CONVIVIALI - X: La cultura greca e classica del PASCOLI.

Prima di passare ad un esame specifico della presenza Grecia nell'opera creativa del Pascoli, conviene dare un accenno sintetico alle sue traduzioni dal Greco. Possiamo dividerle in due gruppi : 1) traduzioni da 2) da prosatori o da mettere in relazione con pagine di greca.

I:

TRADUZIONI

DA TESTI

della puro poeti, prosa

GRECI

1) Da poeti greci:

Da Omero:

figurano passi scelti dall’Iliade e Odissea.

La traduzione è sempre in versi, tanti quanti ne offre l’originale; spesso questi corrispondono al metro del testo greco, almeno nel ritmo (l’esametro è reso, raramente, anche col nostro endecasillabo sciolto).

N.B.: Quanto alla « Piccola Odissea », cioè all’Ultimo viaggio di PoConv,

si veda

in seguito:

un

Omero

minore

o pasco-

liano, pubblicato nel 1904 e diviso, significativamente, in 24 sezioni con le relative intitolazioni.

Da Esiodo: OD (= Opera et Dies) e Contrasto di Omero ed Esiodo (ivi sono riportate, ben distinte e contrapposte le due voci : parla per primo Esiodo; l’ultimo a concludere il colloquio, distico polistico ed ancora distico ed infine monostico, è Omero. Anche i passi di Esiodo sono resi in esametri di struttura pascoliana. Da Saffo: «Preghiera a Afrodîte » e « Dolor trambi sono resi in saffiche).

d’amore »

(en-

Da Archiloco: da « Pensieri d'amore » fino a « Preghiera per la vendetta » (in metri corrispondenti, caso per caso).

110

Da Callino : « Si muore » (in distici).

Da Tirtèo :

« La morte più bella » (fr. di elegia, ancora in distici).

Da Anacreonte :

«La paura della morte » (in vv. trocaici).

Da Hipponacte : « Lamento della miseria » (in versi scazonti) e « Sospiro amoroso » (in vv. trocaici). Da Teògnide : con due soli titoli: « Tristezze e sorrisi amari » (in distici) e « Le bilance di Giove » (in istrofi saffiche, però di endecasillabi con quinari e rimati).

Da Piatone : « Epigramma amoroso » (distico elegiaco). Da Apollonio Rodio : « Notte » (in esametri). In Epos, p. 180, appare un'altra traduzione di tale frammento. Da Alcmàne : « Notte » (è il famoso anche di recente, in metro vario).

« Notturno »,

musicato

Da Callimaco: « L'alba » e « Dictyna » (sic!, in esametri).

Da Teòcrito:

«Ora

gioconda » e «Il canto

di Lytierse » (in

esam. e poi in distici esametrici). N.B. Il Chelidonismo di Anonimo, citato da Atenèo, compare in Italiano per il testo rodiense e poi samiota (in « Ultimo viaggio » XIII) e in Latino,

con

distacco

e mutamento

del

rispettivo

metro

di entrambi,

nel

Chel. del 1897 (2).

Dagli Epigrammi Da Anonimo :

(di varia provenienza): « Salute,

o Roma... » (in saffiche minori).

Dalle « Favole » : « Batracomachia » (in esametri) 100 vv.).

(2) Per

questo

poemetto,

si veda

la seguente

nota

n.

(i soli primi

6.

(RS

4lo De e E pn Sl

Da Menandro : (in endec. sdruccioli, che ridanno i versi giambici trimetri dell’originale). Da Esòpo:

traduzioni

sempre

in terzine, con

rime

alternate

e

con l’endec. aggiunto in più, rimante col penultimo della terzina precedente (le favole sono quasi sempre in prosa, nell'originale). Dai « Canti popolari greci » raccolti dal Passow : « Per il mondo » (in setten. accoppiati); « La figlia del re » (item).

Dal precedente

elenco non

vasto. e valido repertorio

teatrale

risultano brani scelti dal pur attico, sia tragico

sia satiresco, come pure dal patrimonio l'età greca e bizantina.

sia comico

poetico Cristiano

del-

Il numero di codesti brani poetici greci tradotti assomma a 180 c.; il numero degli autori e dei testi presi in considerazione supera la ventina. Parecchi di questi brani va osservato che il Poeta li tradusse a scopo di esperimento, nel campo dei metri barbari. Non è comunque escluso che dalle « carte di Castelvecchio » escano brani o frammenti nuovi; soltanto di rado, inoltre, il Poeta ci offre riduzioni o redazioni diverse in veste italiana,

per lo stesso originale. Non vanno qui dimenticate dapprima la traduzione, in esametri, dall’Ulysses di Alfred Tennyson (di argomento omerico), comparsa in « Sul limitare » (titolo già esso omerico). Si tratta di un poemetto fondato sul mito cantato da Dante : Odisseo, rimpatriato, riparte ancora per il desiderio di conoscere. Questo argomento fu cantato dunque in Inglese, tradotto dal Nostro in esametri barbari, come in altri metri fece per i brani di Bacchilide («1 vecchi di Ceo ») passim e nella traduzione, contenuta in Chel., di antica poesia greca di Anonimo, già ricordata poco sopra. 2) Da prosatori:

Il Pascoli, sempre poeta nel trattare materia antica sia poetica sia di prosa poetica (*), trascurò quasi sempre di dar (3) Ma

nell'antologia

prosa,

112

la pagina

italiana

famosa

« Sul

limitare » (anno

sui cigni

di Platone

1899)

(Fedone,

inseri,

cap.

tradotta

XXV

ss.)

da

lui stesso

in

veste prosastica a pagine greche anche famose, pur tenendo, per sua stessa dichiarazione, come autori preferiti, in prosa, Platone

e il Manzoni : alla poesia di certe pagine prosastiche non osò né volle aggiungere il rivestimento poetico suo. Di ispirazione greca, ma di sviluppo e riecheggiamento personale, sono:

nella serie « Pensieri » di Myricae, n. 1 « Tre versi

dell’Ascrèo », del 1891, (lo spunto è da Esiodo) : si tratta di due tetrastici dicolari ABAB, ma il Nostro, per conto suo, per completarli con

immagine

un

invito

suo

personale

e fervido,

ricorre

ad una

di catartica bellezza: « Non di perenni fiumi passar l’onda, che tu non preghi vòlto alla corrente pura, e le mani tuffi nella monda acqua lucente » dice il poeta. E cosi guarda, o saggio, tu nel dolore, cupo fiume errante; passa, e le mani reca dal passaggio sempre più sante...

Nelle Varie, e precisamente nella sezione intitolata Miti, n. 11 «Il Ciclòpe » in 10 vv. (si tratta di due terzine più una quartina in rima alternata) il Cicldpe non è più il monòcolo mostro di Omero, bensì colui che, nell’imminenza dell'uragano, «in cuor nutre l’eterna cura, e nell'occhio fra la maligna

luce,

già ripara doglioso alla caverna; e il nembo scoppia per la notte truce ».

Come si vede, il mito ha assunto rattere umano e altresi cosmico.

pascolianamente

un ca-

113

Echi di Grecia : I!

Dai CARMINA

Dopo le traduzioni e dopo le derivazioni fatte direttamente dal Greco e sviluppate in lingua italiana è opportuno passare a quanto è stato steso dal Pascoli in lingua e in versi latini, recanti però impronta o ispirazione nettamente greche; siamo cioè

di fronte ai c. 8000 versi latini dei Carmina (tanti press’a poco, quanti ce ne lasciò Orazio), quasi tutti compresi nel venticinquennio 1885-1911 (‘). Procediamo con ordine attenendoci ai 6 gruppi in cui è stata suddivisa tale produzione poetica latina, dal LiPoe fino ai PoEpi : si tratta di versi che vanno dal 1870 c. a tutto il 1911, coprendo un arco di più di 40 anni sui 57 circa vissuti dal Pascoli. Nel gruppo che è stato intitolato Liber de poetis (LiPoe) e che consta di 2283 vv. (non sempre né tutti esametri), gli 11 diversi componimenti vanno, dal punto di vista cronologico della stesura, dal Ve(ianius) del 1891 alla satura lirica FaVa (= Fanum Vacunae) del 1910.

Nell’ordine delle edizioni vien primo il Catulloc (= Catullocalvos) (), che è del 1897; costituisce una satura polimetrica strut-

turata a nòmos, la quale ci ridà il mondo catulliano e tratta una materia molteplice, consistente in un contrasto lirico di argomento

amoroso

fra Catullo

e Calvo.

Dei

14 componimenti,

for-

(4) Precorrono i componimenti latini comparsi nel volume dei Carmina, tre altri pubblicati a parte e studiati di recente, rispettivamente dal Traina e dal Pighi, oltre che, parzialmente, da noi. Il primo è Leucòthoe di circa 75 vv. non portati a compimento, ma fattici conoscere nella corrispondente traccia manoscritta italiana; ne leggiamo 4 sezioni staccate, tutte esemplate sulle Eèe di Esiodo, come appare dall’inizio Aut qualis...; i versi sono un temptamen metrico-poetico in esametri, risalente alla fine del 1883.

Il secondo componimento è Chloe, in esametri esso pure, degli anni del primo insegnamento del Pascoli a Matera (1882-84) di derivazione molteplice, teocritèa longosofistica veneziana, in un rifacimento e adattamento felicemente pascoliani (ivi la protagonista gozziana Geffa, cioè Genoveffa, diventa la classicamente greca Cloe e il suo futuro sposo Cecco, cioè Francesco, diventa il classico Batto, non solo di Teòcrito ma già della fiabesca narrazione di Eròdoto (IV 155-162). (5) Esso ci ripresenta, in una felicemente sviluppata fusione del mondo greco alessandrineggiante dei Neòteri con quello direttamente moderno e pascoliano, una satura lirica composita, in cui sono predominanti il tema dell’amore, per la donna per la madre per la terra natia, come pure l'interesse per le più tipiche saghe omeriche o per figure divine o anche mitologiche. Per l’intero componimento, si vedano il breve commento in Latino del Mamone in Latinitas,

plesso

114

Roma

1963,

dei nostri

pp.

13-14;

il volume

studii

usciti

nella Riv.

del

Traina,

di st. class.

Pascoli,

Torino

Saturae

dal

Firenze,

1967 al 1973.

1977

e il com-

manti una settemplice coppia di canti amebèi, 7 addirittura, cioè l'esatta loro metà, ci portano in Grecia e in essi cinque personaggi principali, da Elena ad Achille, appartengono al filone omerico, recando titoli o nomi greci, quali Eidòlon Hèlenes, Priàpus, Silenus, Circe, Anticlus, Hèsperus, Nestor (ed Achilles).

Accenniamo qui, di passaggio, anche al

latina fattoci conoscere

Frammento di satira

dal Pighi (in Convivium,

Torino

1954,

pp. 711-12) : « essa è sul tipo di quella di Orazio, in cui compare l'immortale figura del seccatore (I 9)... l’incontro tra i due amici prelude a quello di Catulloc (1897) ... il frammento di satira... può darci una idea di quello che potevano essere le satire dialogate che il Pascoli scrisse e ci lascia la speranza di scoprirne qualcuna nel « Tesoro di Castelvecchio ». Ne abbiamo fatto studio e commento minuto nel XII « Quaderno della Rubicònia Accademia dei Filopàtridi », Savignano sul Rubicone,

1979-80, pp. 207-216.

Per la datazione di questo frammento, possono servirci gli estremi cronologici valevoli per l’idillio precedente : o il primo biennio di studi bolognesi (1873-74) oppure l’ultimo (1880-82): fu dunque scritto fra gli anni 19 e 27 c. della vita del Poeta. Tanto in Cloe, quanto in codesto frammento, egli appare particolarmente impegnato nello studiare gli autori alessandrini, quali Teòcrito, Teofrasto,

Menandro.

Il frammento è in esametri latini (ma reca qua e là termini e indicazioni in Greco), quali erano tipici della satira oraziana e quali avevano trovato felice impiego nel Nostro anche nell’idillio Cloe (in questo, modello gli era stato un « ritratto » di Gasparo Gozzi, mentre

nella satira, rimasta

senza

titolo e incompleta,

il

« tipo » è modellato sui Caratteri di Teofrasto). Ovviamente linguaggio immagini battute ci fanno respirare il clima sia della véa sia della Palliata sia della gustosa satira I 9 di Orazio : quello insomma

della

commedia,

o meglio

della

vita

umana,

non

..

molto mutantesi nel corso dei tempi. Nel secondo siamo

componimento,

a Sueio) e forse anche

dal titolo neoterico

virgiliano

(se pen-

(se lo riteniamo

opera

di Virgilio giovane), cioè nel Moretum che è dell’a. 1900, la conversazione dotta, che si suppone svolgersi fra i dottissimi personaggi

della

Roma

del tempo,

Mecenate

Orazio

Virgilio

ecc.,

115

spazia via via con disinvolta naturalezza da Archiloco ai Comici attici, a Lisippo per tornare poi a finire con Omero

e con Saffo

(dei Latini è qui ricordato il solo Lucilio). Nel poemetto

successivo,

n. IV, Cena

in Caudiano

Nervae

(= CeCau) che però era stato composto nel 1895, fra personaggi del medesimo Circolo di Mecenate vien fatta pure parola di opere e di poeti greci, come Eròda e Archiloco; delle fonti della mitologia greca come Castàlia ed Aganippe e Aretüsa; di Comici greci come Aristofane e Cratino (ancora nei confronti con Lucilio) e delle statue di Lisippo e anche dei poemi di Omero.

Nel componimento Senex Corycius (= SeCor), già intitolato più semplicemente Cilix, del 1902, si incontrano nomi ed accenni al mondo greco e all'Italia grecizzata, da quelli di Partènope e Taranto a quello della lontana Còrico, la città della Cilicia

celebre per la produzione e lo smercio del croco o zafferano, ed ivi tornano nomi per nulla totalmente latini come Enea, Ulisse, Achille e Titiro. Nel poemetto di vasto e dotto contenuto, Sosii fratres bibliopòlae (SoFBi), del 1899, nel corso di altre erudite disputazioni, ricorrono con

come

il mondo

Phoenice

nomi

e titoli greci prestigiosi, connessi

pre- e neoterico,

come

e si allude ancora

Dictynna,

come

perfino Glaucus,

ai Lysippi signa, v. 96; e un

vecchio poeta ipercritico vien qualificato come « Latina Cariddi », v. 107; e ricorre, in un contesto

fortemente

aspro,

il nome

del-

l'eroe Mèmnone (quello da cui prendono nome le Memnònidi pascoliane di PoConv. dell’a. 1904); e un certo unguento si chiama con parola greca,. ma di origine indiana : « malòbatro », e un certo vino viene per antonomàsia qualificato come proveniente da Chio (rispettivamente, v. 160 e v. 163). In Reditus Augusti (= ReAu), che è del 1896, non solo l’inizio è reso tipico da una espressione prettamente greca anzi teo. critèa, bensi ad essa seguono accenti e spunti omerici che risal-

gono a lunga e genuina tradizione greca, con nomi quali Glycèra stephanepòlis, cioè « La fioraia o venditrice di ghirlande » (per conviti, non per... riti funebri); ed è di scena, fra la turba festante, un Graeculus verboso e pedante, facile, come erano i Grè-

culi del tempo, agli sproloquii verso i padroni del mondo

116

e alle adulazioni

di allora.

più smaccate

‘Il:

Dalle RES ROMANAE

Nella sezione dei Carmina n. II, Res Romanae

(= RR), che

comprende 6 componimenti stesi nel quindicennio fra il 1892 e il 1906 (essi presentano un complesso di 1174 versi, quasi tutti esametri), il primo che incontriamo, Laur(èolus), del 1893, richiama il duplice personaggio mitologico-epico di Ippòlito-Virbio a proposito della vicenda dell'omonimo brigante (ma qui tutto si connette con la Diana Nemorensis,

più che con la greca Artè-

mide, e con il lucus Aricinae e con il lago di Nemi e con eventi italici e latini più che greci). Il terzo poemetto di tale serie, Gladiatores (= Glad.) anche troppo ampio con i suoi 552 esametri, composto nel 1892, pre-

senta, quale primo dei tre che vi figurano come protagonisti-narratori, non un greco, bensi un trace (il Poeta non volle, con que-

sto, contrapporre la Grecia, già da secoli incivilita e assai Tenoideuuévn, bensi un barbaro della Tracia, ai gladiatori dell'Occidente, condannati per crimini o in conseguenza di guerre perdute o perché fattisi servi fugitivi del proprio erus o padrone). Soltanto in bocca a costui ricorrono nomi collegati con l’epopea omerica (per es. i Ciconi) e altri termini assai esotici, quali risultano quelli dei Bessi, dei Traci e di Còtys e di divinità come Bèndys e Sabàzio. Inoltre, nella descrizione delle sciagurate orge notturne dei gladiatori di Capua datisi a ignobili saccheggi e a ripugnanti rivalse e rappresaglie, il vino che viene tracannato

è

quello proveniente da isole dell'Egeo, come Chio e Taso; l’azione stessa è parimenti immaginata e localizzata in una città o regione che fu da tempo abitata o incivilita da coloni e commercianti greci, alle falde del Vesuvio (Pompei ed Oplonti sono pure toponimi greci!). Nel successivo poemetto Chelidonismo (= Chel.) del 1897, gli eventi si svolgono nella città e nell’ononima isola di fiorente civiltà ed arte greca, cioè a Rodi (accanto a Tiberio, ivi forzatamente confinato, figura il matematico ed astrologo Trasillo, e sono non solo descritti, ma vengono anche interpretati sotto una

luce nuova, i gruppi famosi del cosiddetto Toro Farnese e del Laocoonte, entrambi tesori rispettivamente del Museo Nazionale di Napoli e di quello Vaticano in Roma). Dopo nomi latini come

117

Anfione e Dirce e Antiope, ecco la libera e geniale traduzione in versi giambici della famosa « Canzone della rondine » o Chelidonismo, di Anonimo che la compose in versi reiziani (°) (rimasti quasi ignoti al patrimonio poetico latino), seguita da frammenti di altra « Canzone

l’eiresione

popolare » di Samo,

(tradotta al-

trove dal Nostro in perfetta identità di metro epico, ma rimasta connessa con la Vita di Omero). Incontriamo però ivi anche accenni astrologici al Corvo (collegato con il Cratère), alla Idra e ad eventi sorprendenti come quello di Filippi e l’altro dell’ora(vv. rispettivamente 33 ss. e 26 ss.).

colo di Abano

(6) Per questo brano, si veda il ns. studio pascoliano nelle Filigrane Liriche, serie seconda, nella Riv. di st. class. Torino, fasc. 20, pp. 197-220. Da esso riportiamo quanto segue. La « Canzone della rondine » o Chelidonismo si trova nella parte penultima del poemetto ononimo, apparso nel 1897, l’anno stesso del Catulloc che apre la serie di LiPoe. Ad Amsterdam non ebbe la medaglia d’oro, ma fu classificato tra le composizioni latine che più si erano avvicinate a tal premio. E’ un episodio della vita del terzo imperatore di Roma, Tiberio (considerato terzo già da Svetonio, ovviamente a partire da Giulio Cesare); quasi nello stesso anno fu composto il più breve dei PoConv ’ Tiberio ’, in cui il futuro sovrano figura come bambino lattante sfuggito miracolosamente al divampare di un incendio. Nel poemetto latino Tiberio ci viene presentato nel giorno in cui, nella primavera dell’a. 4 d. Cr. gli giunge da Rodi, dove da anni vive in una specie di esilio, il sospirato messaggio di Au-

gusto che lo richiama

a Roma,

per associarlo

alla direzione

dell'Impero.

Poco prima che il legato di Augusto si presenti a Tiberio, una frotta di fanciulli si ferma dinanzi al palazzo di lui a cantare, secondo il costume locale, il chelidonismo, canzone diventata qui poema di serenità e speranza, di fausto augurio per il futuro imperatore. Il Poeta, per l’intera vicenda, prese le mosse da Svetonio (Tib. XIV) e da Tacito (Ann. VI 20 e 21). Il poemetto intero reca il titolo in Greco, ma la parte che ne costituisce il vero e proprio chelidonismo, riportatoci da un personaggio che figura in Atenèo (VIII 360 b-d), fu già giudicata uno dei più preziosi gioielli della poesia popolare greca antica. Esso in origine era una canzone

di natura

sacra

in quanto

era

destinato

a recare

all’oblatore,

in certo

modo,

la pro-

piziazione della divinità; poi divenne profano. Nell’originale è composto in cola reiziani, struttura che ricorre qua e là nei Lirici e nel Teatro greci e questi sono di uso quanto mai antico, variamente trattato e denominato dai metricologi greci e poi dimenticato, ma riscoperto di recente dallo Hermann che gli diede il nome dal Reiz, suo maestro, che lo aveva individuato e valorizzato in una scena plautina della Aulularia III 2. Il Pascoli non accolse la struttura troppo anisosillabica e troppo poco omogenea di tale canto greco e, uniformandone l’intero complesso, costrui una serie di versi giambici, disuguali di estensione, ma omogenei di ritmo, badando soprattutto a far si che la nenia puerilis, col suo slancio ascendente, si contrapponesse al ritmo discendente degli esametri che formano il tessuto fondamentale sia del poemetto sia del frammento di eiresione con cui viene concluso il chelidonismo vero e proprio. La genialità del Pascoli, metricista di orecchio finissimo, riusci a rendere ordinato e coerente il canto popolare, che è qua e là incerto perfino dal punto di vista testuale; elaborando codesto originale greco, egli lasciò da parte il giambico binario & il senario di Plauto (in tutti i Carmina non compaiono, per l'esattezza, né quasi mai codesti

giambici,



mai

anapesti,



cretici,



bacchèi

ecc.),

volendo

addirittura arcaica ed isosillabica di giambici dimetri (cosi frequenti tarda) e trimetri, utilizzando, ad un tempo, combinazioni giambiche

attenersi

ad

una

forma

nell’innografia Cristiana sia antiche sia recenti.

Nel canto manca il ritornello (presente invece nel lallum o ninna nanna di Thallgsa, v. 165 ss.; però la frequente iterazione di parole fondamentali come Adest, agens, est, novos e novum, adfer adferre adfers feres, das donabimur dabis, feram feremus, Iam iam, col loro tematismo, può farne, in certa guisa, le veci. Tali parole più salienti sono ripetute in modo

118

va

Nel poemetto penultimo Veterani Caligulae (= VeCal) del 1894 (il più breve e certamente il meno valido di tutti quelli dei Carmina) si legge appena qualche nome di derivazione greca come Gelòte e Chèrea, oppure preellenica come Priàpo : tutto

però qui ha luogo in Roma, dove il dialogo si svolge fra veterani dell'esercito imperiale. Nell'ultimo

componimento,

il più bello della serie e per

troppi motivi degno di ammirazione e di considerazioni molteplici, Rufiius Crispinus (= RuCri) del 1906, alla Grecia e ai suoi poeti ci riporta, per qualche particolare, il mare di Anzio definito, alla maniera omerica, aeternum, o chiamato canuto

(senior,

v. 11) : esso è proprio visto come un buon vecchio intento a narrare a ragazzi qualche spunto da collegare con la ritmata nenia

delle proprie onde, tra le quali Nerone fa, alla fine, scomparire, per proditoria gelosia di potere, il piccolo innocente protagonista omonimo, figlio di Poppea. I giuochi dei fanciulli però ivi si chiamano, grecamente,

Urània o sono il ludus Troiae, e il let-

tore della imperatrice Poppea è detto anagnostes e i maestri e custodi dei fanciulli dimoranti ad Anzio sono pedagòghi greci, naturalmente, come i consimili che figurano nei poemetti Cristiani Thallüsa, Pomponia Graecina e Paedagogium. Trattandosi di Res Romanae vere e proprie, è naturale che, come avviene per altri gruppi dei Carmina, la Grecia con le sue produzione letterarie vi sia fatta figurare o vi si intervenga in minima parte, restando anzi limitata a spunti sporadici o risultandovi inesistente del tutto (ciò si verifica nel 2° poemetto, Zugurtha,

dell’a. 1896). Almeno tre di questi sei poemetti comunque prece-

dono gli anni della migliore attività svolta dal Nostro in corrispondenza al decennio di PoConv 1895-1905; il solo RuCri appartiene al periodo ultimo di Bologna (1906-1911) ed è l’unico che ebbe il premio aureo fra i componimenti

di questa silloge.

tale da creare e mantener vivo via via il senso d’un canto che arrivi a tratti, più o meno avvertibile da parte di Tiberio, in corrispondenza ai bruschi e frequenti mutamenti del suo stato d’animo. Anche sotto questo rapporto concordiamo con le parole di D'Annunzio, in « Contemplazione della morte », Milano 1919, p. 32: « Penso che nessun artefice moderno abbia posseduto l’arte sua come Giovanni Pascoli la possedeva. - La sua esperienza era infinita, la sua destrezza era infallibile, ogni sua invenzione era un profondo rinnovamento ». Il Pascoli stesso, in « Trad. e riduz. », ed. Mondadori 1938, p. 164, a proposito del tradurre scrisse: « Si tratta di scegliere per l’antico la veste nuova; che meno lo faccia parere diverso e anche ridicolo e goffo ». Diamo qui la traduzione esatta in prosa italiana, del testo greco, nella sua forma più

119

IV:

Dai POEMATA

CHRISTIANA

Nel gruppo n. III dei Carmina, Poemetta Christriana (= PoChri), ovviamente non è il mondo greco, bensi quello del

Cristianesimo romano e latino a comparire fino allo scadere del 1° millennio (con Pallas); però greci e perfino esotici sono anzitutto alcuni titoli di tali componimenti, come Thallüsa (e, in questo, eccoci nomi come Phoenix e Labrax, v. 75, e Chrestus, v. 65); Agape; canthus, aula, Boéthius, tholus, obeliscus, plàtea (tutti

questi in Sol.); altri, come Theodorus e Gregorius ed ecclesia ed organicis

cantum

bombis

e

brachiolum,

acanthus,

scòlymus,

aulaeum, gigantes, papa, martyr, daèmones, idòla, antrum, lithostròtum,

tus (questi altri sono

Pallas è greco

tutti in SaTheo);

anzi omerico, già nel titolo, ed inoltre presenta la settemplice struttura del nòmos greco ed allinea, esso pure nella sua brevità, termini greci come asylum ().

monachus,

thesaurus,

lampas,

heros, gàlea,

Nell’ambiente storico rappresentato qua e là, nell'arco del primo millennio dopo Cristo, il Greco ha permeato di sé, sotto ogni punto di vista, la nostra cultura e le nostre forme di vita, sacra profana, singola collettiva, interiore esteriore dell’Occidente (si pensi, per un momento ai c. 400 termini greci o bizantini penetrati nel patrimonio lessicale della parlata di Venezia, ai molti termini specifici e tecnici greci rimasti del pari nella parlata del litorale nostro adriatico), e il Pascoli, facendone uso, non intendeva di dar prova di esibizionismo dottamente esotico,

bensi rimaneva nel vivo della civiltà, spesso bilingue, del tempo da lui scelto a trattare caso per caso.

recente, Melici

corretto Graeci

del

e reso Page:

metricamente « Carmina

quasi

perfetto,

popularia », Oxford

quale 1962:

leggiamo

a p. 450-51

« E’ arrivata,

dine / belle stagioni recando, / belle annate, / sul ventre bianca / sul focaccia tu fa’ rotolar qui davanti / dalla ricca (tua) casa / e un nappo

dei Poetae

si arrivata,

la rondorso nera. / Una di vino / e un ca-

nestro di formaggio. / Anche un pane d’orzo, la rondine, / anche un pane di legumi, / mica li rifiuta; dovremmo forse andarcene o prender (qualcosa)? / Se qualcosa ci darai, (allora va bene); in caso contrario, non ti lasceremo (stare) : / o la porta potremo portar via o l’architrave / o la sposa che si trova là dentro seduta; / piccola essa è, agevolmente noi potremo portarla via. / Se però effettivamente tu ci dessi qualcosa, un grosso benefizio potresti ottenere; / apri, sf, apri la porta alla rondine / ché non siamo dei vecchi noi, bensi dei ragazzini ». (7) E’ da notare, qui di passaggio, che il gruppo LiPoe si apre con Catulloc strutturato a nòmos; PoChri invece si chiude con Pallas di identica struttura; HT è l’unico dei due Inni di uguale impostazione, mentre in RU nessun poemetto presenta tale divisione in sette parti.

120

V:

Dagli INNI

Quando ai due Inni, ambedue del 1911, per complessivi 966 esametri (se intendiamo comprendervi i 100 del minore HR), è già rilevabile in entrambi il nome Hymni (termine greco, che è

comunque

di ètimo contestato e tuttora oscuro).

In HR (= Hymnus

in Romam)

è da notare, anzitutto, il nu-

mero sacralmente significativo dei vv.: 444; inoltre il componimento lirico-narrativo comprende, secondo la distribuzione alessandrina già operata per i poemi omerici, 24 sezioni. Alla duplice primigènia epopea della Grecia il Nostro pare voglia contrapporre,

in sede

lirica però

e di contenuto

ovviamente

recente,

un'analoga esaltazione di Roma e della sua plurisecolare storia (nella redazione italiana egli volle preporre, come soleva fare spesso, anche un titolo suo a ciascuna di tali sezioni). Noi ci im-

battiamo qui in nomi greci anche di alta tradizione come Pallas, aula, Thybris, Italia, Hesperus,

thermae, Sphinx, triumphus,

cy-

parissus, canthus, èlephas, asylum, pompa, tympana, labyrinthus, phiala, lychnus, daèmones, idòlum, Erebus, tholus, obeliscus, narcissus, crocus, smilax, hyacinthus (forse il nostro giglio rosso di montagna), acanthus, scòlymus, aulaeum, antra gigantum, gàlea, lampas. Nel secondo inno, HT (= Hymnus

in Taurinos) di 422 esa-

metri, che propriamente concerne la storia di una sola città appartenuta per tanto tempo ad una sola regione, e italica più che romana, non manca il lettore di rilevare nomi e termini di sempre greca risonanza, come Eridanus (il Po), Titànes (le Alpi), Itali da QrtaX6g, rhinocerôtes, èlephas od elephantus, Trinacris, Alcides, antrum, adriacus, aether, paean, àér, echidna, làbarum, herdes, tympana, bombo, hyaenae, palma ( moaAkun ), cycnus,

hydra (l’extera vis degli invasori, a partire da Annibale), Hespèria, divus

Ulixes

(che è - novità

mondi »). In codesti due di struttura di stile prodotto estremo e vicino al tramonto, rara conoscenza di

ardita - Garibaldi,

« l'eroe dei due

Inni, composti con quella ispirata elevatezza di metro che esigeva il duplice argomento, supremo dell'attività latina del Pascoli già sono tuttora riscontrabili i segni della sua tutto il mondo classico.

121

VI:

Dai RURALIA

Nella serie V® dei Carmina, denominata Ruralia (= RU), « Poemetti georgici », o meglio ancora, « campestri »), compren-

siva di 4 poemetti compiuti e del breve frammento della Zynx, per un totale di 926 versi, tutti esametri, ma distribuiti (per eccezione del tutto unica) sul tipo delle nostre ottave nel solo Castànea, intonate e quasi corrispondenti ivi agli stornelli assunti dal testo italiano, sono raccolte composizioni di soli 7 anni, dal 1893 al 1899 (degli anni fecondi cioè di Livorno e di Messina). Benché la materia dei Ruralia non si riferisca quasi per nulla al mondo antico greco, essa, per la sua stessa natura scientifica in campo zoologico o botanico e perfino ornitologico e màntico, presenta parecchi termini genuinamente

greci.

Il primo, Myrmèdon (= Myrm.) « Il formicaio », oppure «Le formiche », reca il titolo foggiato con l'abilità geniale del Nostro su forme analoghe in -ôwv e proviene dal greco

uopuné. come è di pretta origine greca il titolo del frammentario n. 5 ed ultimo, la Zynx o « Il torcicollo ». In esso, oggetto di una duplice redazione degli anni 1893-94, troviamo vocaboli come terebinthus, Myrmidones (voluti confondere, come era già nella tradizione, con i uòpynrec, cioè con le formiche), zona (v. 38), hyacinthus (v. 40), Aethiopes (v. 95), tympanum (v. 96), smaragdus (v. 99), exòmis (v. 197), gyrus (v. 201), Labyrinthus (v. 201), Numidae (v. 212), plàtea (v. 257).

Il secondo

poemetto

Pecudes

(= Pec.) cioè « Gli animali

domestici », del 1898, contiene altri nomi consimili, come Ololygon indicante un maestro di villaggio abituato appunto ad OAAUTELV, cioè a strillare, anzi a gracidare (v. 1), cypèrus (v. 55), thymum o -us (v. 78), cytisus (v. 86), chimaera (v. 161), megathè-

rion (v. 190), Bòreas

(v. 213), pètaso (v. 233, da metaowv « pro-

sciutto »). Anche

il terzo

componimento,

Canis

(=

Can.),

del

1899,

non manca di qualche termine greco, come scymnus (v. 6), calyx (v. 22: « calice dei fiori » oppure « pianta speciale », nome dunque diverso da calix, « calice » che è pure dal greco kÜAE ), bombus (v. 64), Libycus

(v. 181), cymbàlum

(v. 188). L'esiguo impie-

go di termini greci ed eruditi qui si spiega anche per il fatto che il Pascoli, oltre che ai dotti volumi del Brehm, soleva ispirarsi,

122

per il cane, al comportamento ... quotidiano del suo Guli (3). Il seguente e delizioso poemetto n. IV, Castànea (= Cast.) « Il castagno » in ottave

latine,

ovviamente

non

rimate,

che

è

del 1895 ed è totalmente collegato, con la Garfagnana e con Castelvecchio, allinea qualche grecismo come paènula (v. 1, da alvôAnc, con mutato genere), come ampulla (diminutivo di amphora, v. 14), exhèdrium (v. 29), spèusticus (« il pane della fretta » (v. 31), echinus (v. 35), calyx (v. 43), placenta (dall’acc. del greco TAakodc accostato, nell'accezione di « focaccia », … al verbo latino placere, (v. 99), pàtina (da natévn, v. 117).

Iynx, fr. del 1899, nei suoi appena 13 esametri, ci offre gli unici nomi greci del titolo e poi del phasèlus o fasèlus (che è il fasèolus di Columella e di Plinio il Vecchio : « il fagiolo », v. 6). In campo zoologico dunque ed entomologico e botanico e in genere naturalistico, il Pascoli, cultore appassionato di ogni scienza della terra e del cielo (°), conoscitore profondo degli scrittori geoponici sia greci sia latini, lettore assiduo della rivista torinese Minerva, vissuto sempre a contatto della natura fino a tal punto da avere un giorno osato asserire la nota frase :

« Piuttosto

stupire

che un

che non

letterato,

abbia

sua precisa cognizione

amo

voluto

essere

darci

un

contadino », è da

saggi più frequenti

di innumerevoli

termini

della

scientifici greci;

egli, in ogni caso, avrebbe saputo destreggiarsi, nello scrivere di tali materie in modo ammirevole, col semplice risalire a termini che gli potevano essere forniti già dal greco Esiodo e altresi per i versi in Italiano, dalla vitaa parlata garfagnina appresa e perfino sollecitata giorno per giorno dalla bocca del suo Zi Meo e del suo Mère, dei suoi Quarra e Giannotti e Fioroni. Pertanto le opere antiche scritte in versi o in prosa; le con-

versazioni a lungo sostenute con i vicini della sua « bicocca » di Castelvecchio; l'osservazione attenta di ogni minimo particolare della vita circostante permettevano al Poeta di impiegare e valorizzare termini della tradizione culturale classica quasi illuminandoli,

innovandoli,

a quelli analoghi

accostandoli

della ru-

stica parlata del luogo: la cultura, in lui cosi rara e dotta, ri-

sultava Esso

felicemente

ravvivata

dalla parlata usuale

(8) Su questo cane ci informa spesso il biografo Biagini, mori nel 1912, dopo il decesso del proprio padrone. (9) Gli

dovette

certo

sonare

sempre

carissima

la

frase

di

vol.

cit.

del tempo.

2a ed.

Aristòtele,

a pp.

maestro

809-10.

anche

questo campo : « nei fenomeni fisici c'è sempre qualcosa di stupefacente » (egli realizzò anche sotto questo rapporto, l’idea veramente genetica del suo « Fanciullino » : ut puer

in

infatti, poeta).

123

VII:

Dai POEMATIA

ET EPIGRAMMATA

L'ultima sezione dei Carmina, n. VI, Poemàtia et epigrammata (= PoEpi) è la più varia, oltreché eterogenea (già l’umanista Robortello ebbe a notare: Materies epigrammatum multiplex est) e polimetrica; proprio a questa si potrà far seguire, in appendice, l'esame di alcuni componimenti pubblicati varia-

mente altrove e fattici conoscere più di recente (da noi studiati soprattutto nei Cammei

ET NE RENE fn bidet

Pascoliani, eseguiti nel 1964).

Si tratta di c. 85 componimenti complessivi, dei quali i nn. I-LXVI figurano tutti già nelle edizioni zanichelliana e mondadoriana

dei Carmina;

in essi sta un

altro

migliaio

circa

di

versi appartenenti a composizioni per la maggior parte latine, che però spesso toccano aspetti particolari del mondo e della civiltà greca (sono invece pochi, e li tratteremo separatamente, quelli stesi in versi greci). La prima serie di tale sezione (nn. I XX

c.) contiene

archilochèe,

mimiambi,

odi

perfino un Sermone

saffiche

ed una

alcaiche

vera

asclepiadèe

elegia; nella se-

conda prevalgono i distici elegiaci, e il genere letterario è, nel complesso, quello di tipo epigrammatico, racchiuso talvolta in esametri perfino monostici (come nei nn. LXIII e LXIV); il n. LXV, in versi esametri leonini, celebra, in modo singolarissimo, la Badia di Pomposa e il famoso monaco Guido (1°).

Passiamo in succinta rassegna ora quei componimenti della presente silloge che ci interessano più da vicino, e che sono meritevoli di qualche cenno. Il I° si intitola, da un passo di Plinio il Vecchio, 36, 22 Apelles post tabulam latens; è un mimiambolo;

XXXV, l’unico

dei molti che il Poeta aveva programmati e di cui ci ha lasciato una apposita lista di svariato contenuto : schiavi - mestieri mamme « crepundia » Augurii. Consta di 44 vv. giambici trimetri scazonti, scritti dal Poeta nel 1892, per raffigurare se stesso o meglio per esprimere le proprie pene e trepidazioni, dopo che aveva partecipato al Concorso internazionale di Amsterdam per la poesia latina con il lungo poema Gladiatores. E’ una creazione perciò dei primi | nn.

124

(10) Ne abbiamo fatto oggetto II-III, 1959 pp. 121-37.

di studio

nella Rivista

« Pier Lombardo

», Novara

anno

III,

DATI

anni di attività pubblica

nella versificazione

trepida ora per le sorti future del concorso

prio come

il famoso

pittore greco

latina : il Nostro di Amsterdam,

del IV a.Cr. che viene

pro-

qui

rappresentato dopoché, terminato un quadro, lo esponeva per ascoltare, non visto, il giudizio che su esso davano le persone :

passava il calzolaio competente almeno... dai calzari in giù, ma passavano anche pittori e colleghi èmuli e valenti. Il titolo è sintetico, felicemente

tono scatti

della

vivace

e contrasti

e geniale e riprese

allusivo al contenuto

rappresentazione

mimetica,

monologate : c'è mimèsi,

e al

tutta

dramma,

indagine psicologica, realtà autobiografica direttamente vissuta, arguzia, gradazione di passioni, conclusione brusca e felice come già era di felice improvvisazione l'avvio iniziale; la claudicanza del ritmo, alla fine di ogni verso, rende bene lo spezzarsi e il ripiegarsi del pensiero e dello stato d'animo, quale appunto avviene nei coliambi già di Ipponatte, di Eròda (fattoci conoscere si badi - con la pubblicazione del famoso papiro avvenuta proprio l’anno prima della stesura del mimiambo), di Callimaco, di Catullo, di Marziale. Ne abbiamo trattato in Riv. di st. class., Torino, 1975, fasc. I pp. 100-138. Il componimento si collega, da un lato con un personaggio di Grecia realmente esistito, dall'altro con una pagina pliniana; storici sono altresi i personaggi qui evocati, Protògene, la modella Pancaste, Pèrseo, Teomnèsto, e dal loro affollarsi ed agire

prende dinamismo

lo stato stesso di sofferenza

e di ansia del

Pascoli, allora trentasettenne. Questo mimiambo, che prestigiosamente

apre la suddetta sezione, ci presenta pertanto, da un Jato un ambiente e certe persone ed eventi della Grecia del sec. IV a. Cr. nelle notizie di Plinio, enciclopedico storico intenditore anche dell’arte greca; dall'altro l’anima stessa del Pascoli proprio dopo che ha ultimato la recente sua composizione. Siamo in ambiente greco, di fronte ad un metro greco-latino non dei più consueti, ma qui rileviamo anche uno speciale linguaggio sempre scelto e controllato in grazia di un'analisi psicologica affatto moderna e personale, degna sotto ogni aspetto del Cantore di San Mauro. Il n. II, Creperèia Tryphaèna (= CreTry), una ode saffica del 1893, ci offre ibrido il nome stesso della protagonista, in quanto esso è dapprima latino e poi greco, ma per il contenuto ci porta a Roma e ci descrive, idealizzato e quasi spiritualizzato,

129

4

il corteo funebre della giovinetta omonima precocemente defunta proprio quando era già prossima alle nozze; il fidanzato suo, Filèto, ha un dolce nome

greco che significa « Amato » 0

« Amabile »; greci risultano pure, anche tamente romana, nomi come gryphus,

se la vicenda è pretmurteus, amethystos,

corymbus, Hymen, cymbia. Il Poeta rivisse ed elaborò, con arte e sensibilità affatto nuove e sue, un evento collegato con la scoperta (avvenuta in Roma il 10 maggio del 1889 durante gli scavi

per la costruzione del Palazzo di Giustizia) di un sarcofago contenente i resti della suddetta defunta che erano apparsi immersi entro l’acqua; sul teschio ella appariva tuttora coperta da folta

\

e lunga capigliatura, « a causa di una pianta acquatica i cui bulbi, penetrati col tempo nel sarcofago, avevano messo di preferenza le barbicine di color d’èbano nel cranio ». La lirica costituisce, si badi, un carme

di morte, ma

anche

di amore voluto comporre ed offrire, come poetico dono nuziale, alla figlia del Ministro della P.I. del tempo, Ferdinando Martini (!!). Il n. III, Gallus moriens (= Gallmor), è un’alcaica dello stes-

so anno 1893 (”) da collegare, parzialmente (e anche più facilmente confrontabile), con il poemetto Gladiatores;

in essa il Celta o

meglio il Gàlata morente, la cui riproduzione fotografica il Poeta amava ad un punto tale che soleva tenerla appesa ad una parete del suo studio - tutti possiamo ammirare la statua nel Museo Capitolino, denominata però erroneamente « Gladiatore morente » ci porta fuori d'Italia, al tempo in cui i Gàlati (che sono i Celti,

i Galli) si battevano per impadronirsi del tempio di Apollo a Delfi. Anche qui non restano assenti termini greci o celto-greci o comunque

esotici come sarissa, debacchatus, Theutàtes, Eurus,

larus (è il nome greco, X&pog del gabbiano, latino genuino gàvia, donde « gabbiano »), màtara, e gaesa e perfino alàuda, parola celtica resaci nota fin dalle pagine di Cesare (si pensi alla legio Alàuda) indicante « l’allodola ». Il numero V, Mons Titan, dell’anno 1894, è un'alcaica che, paesisticamente idealmente e realmente, celebra San Marino e

(11) Si vedano,

per

tale ode,

oltre

uscito nella Rivista di st. class. Torino,

il lavoro

del Ghiselli,

Bologna,

1975, fasc. III 402-62; e quello

1955,

Ricciardi », Pascoli, Opere, tomo II, Firenze 1981, pp. 31 ss. (12) Si veda il nostro specifico studio uscito nella Riv. di st. class.,

pp. 284-324.

126

il nostro

studio

del Perugi in « Collana Torino,

1977, fasc.

II

la storia della sua Repubblica; il nome stesso greco Titan si riallaccia, a ragion veduta, all'area rimasta cosi riccamente zata dell’Adriatico ().

greciz-

Il n. X, Ad externos ephemèridum scriptores (a. 1899), presenta, nella strofe sua quasi centrale, un esplicito accenno alla rotonda cupola (tholus) del tempio di Vesta in Roma, dove era

custodito l’ignis sacer con la sua inconsumabile fiamma, la quale tuttora è idealmente illuminante per chi, venendo a Roma, intenda custodire per sempre, nel proprio cuore, codesto « fuoco sacro » (1).

Il n. XI, Ad Sodales (« Ai compagni », meglio « Ai fratelli ») Melitenses, una alcaica del 1902, reca nell’aggettivo del titolo il nome

greco

di Malta, MeX{tm, Mèlita,

in cui il termine,

con

la

stessa sua radice pet, resta ovviamente e dolcemente collegato con uéA. « miele ». Nelle cinque strofi latine il Poeta si augura e vuole che le rose « melitensi » vengano a coronare il genio dell’Espèria (cioè dell’Italia), rinata nel pieno splendore di una meridionale giornata italica. Codesto miracolo, antico e nuovo, è rievocato in piena luce

nel cuore del canto; nella breve ode il Pascoli passa di impeto a farci contemplare entro un nimbo di luce, la figura stessa della nostra Patria, a cui da Siciliani e Maltesi (divisi tra loro sol-

tanto dal mare, ma non negli animi) deve essere tributato un culto simboleggiato appunto dall'offerta di rose fresche e profumate (5). Il numero

XIV, in distici, Ad Hospites, del 1899 (siamo an-

che qui nel periodo di vita e di attività messinese), comprende, dapprima

un periodo ampiamente

arcuato

quasi a descriverci

il

lunato golfo stupendo della città, e poi un duplice pensiero assai concentrato

ma

digradante

in due distici, con un altro, isolato,

che conclude l’intero carme. Dopo l’iniziale saluto agli Ospiti, giornalisti stranieri giunti da quasi tutte le nazioni; dopo l’apparizione stessa della fata Morgana che, a guisa di aereo ponte (13) Cfr. il nostro saggio « Giovanni Pascoli cantore della Romagna e di San Marino» nel quad. 5 della «Rubicònia Accademia dei Filopàtridi», Savignano sul Rubicone 1964, pp. 9-41. 1961, pp. 127-148 sotto il titolo (14) Ne abbiamo trattato in « Euphròsyne », Lisbona; « Giovanni Pascoli araldo della romanità ». (15) Ne abbiamo fatto oggetto apposito di studio nei nostri Camimei Pascoliani, Torino, 1964, pp.

22-37.

127

sospeso, par destinata a tener congiunte, con uno stesso vincolo di italianità, le contrapposte coste di Italia, la voce stessa della comune Patria suona, direttamente, dall’uno e dall'altro lido, elevando un mònito eterno : « L'amore dei figli ricompose; la concordia mantiene, con forze unite, l’Italia » (trad. del Valgimigli). E questo mònito è quasi quello stesso che il Pascoli riprese poi nel 1910, per la rinascita della Badia di Pomposa: quod fuit ZAIA(GI]

Il n. XX contiene un’elegia latina indirizzata a Luigi Michelangeli che, nel 1897, attendeva il Pascoli, collega, amico e da tempo compartecipe di una stessa profonda passione per il Greco. Si tratta di una composizione che costituisce un vero e proprio unicum, sotto molti punti di vista, nei quasi 100 nn. delle poesie contenute nei Carmina. In essa si parla di Messina, chalcidica Zancle, di Stesicoro, di Imera, di Elena Tindàride « figlia di Leda »; dei cedri, odorosi doni di (Venere) Ericina; di un « non so qual bosco elisio » den-

tro il quale vaga l'ombra del vecchio cieco cantore di Elena (Stesicoro), ridiventato veggente dopo la propria famosa Palinodia. Si parla già del giorno e del tempo, quando entrambi gli amici, consumati grecisti, in una atmosfera d'incanto, « con gli orecchi intenti », ascolteranno Stesicoro in persona cantare le parole greche stesse introduttive della sua Palinodia (« Non è vero ciò che fu detto, oùk got'étuuog A6yoc oîtoc..., ) quando

insomma il cuore dei due palpiterà nel desiderio di rivedere i giardini della greca Zancle, e il Nostro riabbraccerà Michelangeli e Cian insieme con lui: il Michelangeli, grecista, glottologo e traduttore e poeta in proprio; il Pascoli, classicista e poeta già trilingue; il Cian, italianista di vaglia, si sarebbero trovati, insieme accordati, nell’Ateneo

Peloritano, a dar lustro, in modo

impensabile e difficilmente ripetibile, nello stesso tre civiltà e letterature, greca latina italiana. Nell'intero

componimento,

comunque,

tempo,

la gemma,

alle

incastra-

ta esattamente al centro di esso, è l’apostrofe-inno ad Elena, cioè alla Ledaea, bellissima creatura celeste, rivelazione astrale, fausta ed infausta ad un tempo. L'elegia reca, in calce, la data anche

veda

128

(16) Ne abbiamo fatto particolare esame e studio ibd. 1964, pp. 83-91. Per la già citata Rivista « Pier Lombardo », Novara anno III 1959, pp. 121-37.

la Badia,

si

perché è una risposta poetica al sonetto-invito inviato di recente al Pascoli dal Michelangeli stesso: l’invito risulta qui accolto, gioiosamente e con tutta l’anima, mentre questi distici esprimono tutta la gioia che egli pregusta fin d’ora di poter giungere nell’« Isola dei Poeti ». In codesto stesso anno

1897 il Nostro, scrivendo la satura

lirica polimetrica Catullocalvos, aveva toccato più volte di Elena e del motivo di amore e di Anticlo, l'eroe omerico messo già in rapporto con la bella Tindàride (come avrebbe fatto poi ancora nei Poemi Conviviali, nell’anno 1904). Prendendo le mosse dalla « calcidica Zancle » cioè da Messina, il Pascoli poteva toccare e celebrare altri aspetti ed eventi della Sicilia, come Ìmera, Èrice, Tindari (adombrata dall’epiteto ben noto di Elena Tindàride), i

giardini profumati di aranci e limoni e un po’ tutto il notturno stellato e fantastico cielo meridionale. Messina era il pretesto per cantare la Sicilia : Stesicoro era un pretesto per cantare la opera di Michelangeli, specialmente alcuni temi della grande poesia antica, sentiti assai vicini però a quelli del Romanticismo dell'Ottocento. Era dunque più che logica e motivata la scelta di tale argomento; ma era del pari quanto mai logica e felice questa fusione armoniosa dell'Antico col moderno nella trattazione stessa del mito di Elena. Certamente il Michelangeli sarebbe stato in grado di comprendere, più di ogni altro, i modi e gli spiriti di un simile canto. Questo carme elegiaco, per il contenuto gli anèliti la maestria rievocativa, è una primizia e un anticipo di quei Poemi Conviviali in cui sarà ripreso e sviluppato tutto il lavoro di riscoperta e di illuminazione dell’antico mondo ellenico : tutto ciò spiega, fin da ora, perché dalla pit greca regione di Italia ci siano venuti i capolavori di PoConv ispirati quasi tutti all’Ellade annica): Nel n. XXIII,

che è addirittura

del 1874, e perciò

risulta

il più antico componimento dei Carmina, abbiamo il tetrastico di giambici trimetri tradotti dal Greco in Latino di tragedia euripidea, con il titolo di Hypothèce (« Consiglio ») Euripidis ad Antonomàsian (diretto cioè al discepolo Antonio Masi, rimasto (17) Di questa elegia, con l'aggiunta dei frr. di Stesfcoro tradotti e commentati, abbiamo trattato a lungo nel 1971 nel vol. miscellaneo in onore di Vittorio D'Agostino, Fons perennis, Torino 1971, pp. 125-162 e, per l'appendice stesicorèa, pp. 163-230.

129

i ali

4 rent

mr

pilo

persa

a lungo devotissimo al maestro suo). Rivolgendosi a costui, con le parole e i concetti del più filosofico e pessimistico fra i tragèdi greci, il Pascoli, ripensando ai troppi dolori suoi e dei familiari, ripete, con

tono

di sconforto,

ma

anche

di intimo sollievo, che

« per l’uomo c'è pure un piacere, in mezzo alle sventure : quello di piangere e di versar lagrime che alleviano il dolore dell'anima e lavano i travagli del cuore » (il Pascoli aveva perduto, sappiamo come, il padre appena 7 anni prima, la madre e la sorella

Margherita 6 anni prima, il fratello Luigi 3 anni prima (). Nel n. XXVII Ad Mariam sororem (de grammatica graeca) (®) il Poeta, nel 1892, come aveva fatto nel distico latino precedente n. XXVI che è però forse dell’anno successivo 1893, si ispira ad una poetica allusione omerica ed assiste, con suasiva affettuosità, la sorella impegnatasi nello studio dei Classici e soprattutto del Greco. Nel duplice distico n. XXXV, che però reca un certo distacco nel testo a stampa fra il 1° e il 2° (siamo nel 1905, in uno

degli anni dell’insegnamento impartito a Pisa), rivolgendosi all’amico G.B. Giorgini (imparentato, come è noto, con A. Manzoni), il Nostro accenna con garbo squisito ad una applicazione

da effettuare genialmente e subito alla teoria di quel « fanciullino » che sta non solo « dentro di noi», ma anche nell'animo del lettore dei versi del poeta di Centurio

Nel n. XLVII,

Gnaccarini,

distico

(?). del 1887 In nuptiis

Carducciae

et

i nomi greci Daphne e Phoebus alludono al Carduc-

ci, « poeta apollineo » e alla figlia sua Laura, cara al Carducci, da un lato in quanto ‘Apollo-poeta’ ed altresi..., nella fausta realtà del momento, al novello sposo felice (?). Nel n. LX, Convivium,

del 1892 circa, il convito

è presen-

tato, nella luce alquanto trasfigurante di un simposio greco di tipo platonico o xenofontèo, cioè come spettacolo e simbolo di moderazione e di saggezza (7). (18) Su questi ed altri minori particolari biografici riferiscono abbondantemente tutti i biografi del Pascoli. (19) A tale distico abbiamo dato adeguata illustrazione nelle suddette Gemme comparse

nella

citata

Rivista,

1960,

fasc.

I, pp.

93-96.

(20) Se ne veda lo studio che gli abbiamo dedicato nella suddetta Rivista, 1962, fasc. I, pp. 39-45. (21 Si voglia leggere le considerazioni che ne facemmo nelle Gemme Pascoliane, in Riv. di st. class. 1964, fasc. II, pp. 168-73. (22) Ne abbiamo fatto oggetto di esame nella Rivista citata, a. 1967, fasc. I, pp. 82-97.

130

VIII : COMPOSIZIONI

IN GRECO

Ora passiamo ad esaminare la penultima parte di siffatta produzione, cioè i versi composti dal Pascoli in Greco, comunque pubblicati e fattici conoscere fino a tutt'oggi. Sono 6 in tutto tali composizioni, che vanno dal 1870 c. al 1892, comprendendo poco più del ventennio che corse dagli anni del collegio urbinate a quelli di Livorno; resta perciò escluso il 2° ventennio.

La 1° di esse riguarda il distico (*) accompagnato dalla traduzione

sia latina

sia italiana,

sul Machiavelli,

tema

che

era

stato fissato e proposto nel 1870 per un trattenimento scolastico: dopo il confronto storico-letterario fra Tucidide e Machiavelli fatto in precedenza nel discorso tenuto dal padre Cei, il Pascoli

presentò due componimenti : il 1° era un epigramma greco con la duplice traduzione suddetta, recante il titolo ‘ Niccolò Machiavelli al capitolo dei Frati Minori di Carpi’; l’epigramma fu sûbito dopo donato dal giovanissimo autore al proprio maestro, cioè a codesto componeva

Geronte

versi

greci,

Cei. Dunque,

a sedici anni, il Nostro

come

fatto,

aveva

a codesta

stessa

già età,

il Leopardi con quell’Inno a Posidône con cui, spacciandolo come trovato in certe vecchie carte, aveva ingannato i dotti del tempo, quale il danese Niebuhr (1776-1831; costui era ambasciatore di Prussia

a Roma;

fu lo scopritore, in Verona nella Biblio-

teca Capitolare, del palinsesto di Gaio e di frammenti come

pure

di orazioni

storiografia

ciceroniane,

critica di Roma).

ed anche

Il Nostro,

di Livio

l’iniziatore

del resto, aveva

della preso

già un bel 10, l’anno precedente, all'esame di licenza ginnasiale anche nella prova di prosodia e metrica latina (*).

(23) Di questo non abbiamo potuto leggere sponde a verità. Su esso riferisce M. BIAGINI, (24) Degli nimento

Leucòthoe fattura

stessi

anni

in c. 75 esametri

(nell’autografo,

e contenuto).

« bella a vedersi

In

e tutta

suoi

primi

latini,

di insegnamento

aventi

però

per la precisione, esso

figurano

il triplice testo op. cit. Milano

un

titolo

ricorrono

i nomi

proprii

simile agli dèi »; l’azione

a stampa, ma 1963, p. 37.

liceale

a Matera

greco,

anzi

qua

è collocata

Crèteo

lungo

(1882-84)

addirittura

e là alcuni

greci

la notizia

è il compo-

ionico-omerico,

esametri

Cànace,

greci di varia

Leucòthoe

le rive del fiume

nella Tessaglia; vi risultano operanti, in campo mitologico, le Nereidi, i Tritoni, le sue foche, e nel giovanile poemetto pascoliano non manca ovviamente il canto lamentoso

fatta

per

degli alati, con

sempre

dea

del

la finale

conclusione,

prettamente

esiodèa,

che

ri-

presenta

stessa

Enipeo

Pròteo con dolcemente tale eroina

mare.

131

Al 1880 c., secondo il Pighi (*), ma in realtà al 1882-83 e certamente a dopo il discorso del Carducci (a. 1882) per la morte dell’Eroe, risale la traduzione greca in esametri omerici della Leggenda garibaldina del Carducci, traduzione che si trova, « ancora inedita, fra le carte di Castelvecchio ». Il Pascoli aveva

28

anni ed era al suo primo insegnamento liceale presso il Liceo « Duni » in Matera, recando con sé il ricordo vivo degli anni ultimi vissuti in Bologna, dominata dal magistero fecondo di Giosue Carducci. Del 1884, ultimo anno di insegnamento del Nostro, allora trentenne, a Matera, è il decastico contenente l'epigramma Tpèc ’AveinAov Ad Flòsculum - « A Fiorellino » (?$) Come per Oivotpioc (= PoEpi n. LXVI), abbiamo i tre diversi testi della composizione, greca latina italiana. Dall’indirizzo, che è anche titolo urbanamente reso con la grazia del diminutivo neutro ’Av@6Miov (da àv8oc « fiore »). risulta che il carme fu composto li per li e dedicato al proprio alunno

di Matera, Michele Fiore (1864-1947), rimasto

a lungo in

cordiale corrispondenza col Poeta (costui fu anche maestro, in quegli anni, di Nicola Festa, diventato poi Ordinario di letteratura greca all'Ateneo Romano). Il Pighi cita, dalla pubblicazione di Felice Greco (?), notizie veramente curiose a quest’ultimo fornite dal Fiore stesso.

Fortunatamente, continua il Pighi, non andò smarrito quest'epigramma, a cui il Fiore uni la nota riportata nelle pp. 53-54 della pubblicazione del Greco. Il carme ha il suo titolo corrispondente a quelli di analoghi epigrammi latini del Nostro, per es. a quello di Ad Mariam Sororem,

PoEpi

XXVI

e [LXVII]

(#).

Di esso sappiamo comunque esattamente l’anno (1884) col mese ed il giorno (1° aprile); il Poeta però non appose costi di sua mano la data, come soleva fare in altri casi del genere. (25) Cfr.

dello

stesso

11 libro

delle

Dediche

ecc.,

Bologna

1956,

p. 84.

cui il Pascoli da San Mauro si recava spesso a lavorare e a studiare blioteca dell’Accademia Simpemènia; cfr. BIAGINI, op. cit. p. 82. (26) G.B.

PIGHI

- Giovanni

Pascoli

al liceo

di Matera,

Erano

gli anni

a Savignano

in Convivium,

XXV

nella

in

Bi-

marzo-aprile

1956. (27) « Giovanni

Pascoli

(28) Per PoEpi XXVI, Per PoEpi

132

[LXVII],

ibd.

al Liceo

di Matera

si veda il nostro 1966

fasc.

III, pp.

e il suo

discepolo

preferito », Napoli

studio in Riv. di st. class. 379-383.

1960, fasc.

1956.

I, pp. 88-92.

Va qui ripetuto che questo componimento sa d’improvvisazione (è la risposta immediata e poetica all’invio di un pesce... cartaceo, proprio nel giorno 1° di aprile del 1884: un pesce

d'aprile, dunque!), e sa anche di scherzo (il Poeta, allora quasi trentenne, risponde ad un discepolo di 20 anni studente liceale, divenuto poi avvocato, particolarmente caro ma anche audace fino al punto di permettersi una simile scherzosa libertà col suo Maestro).

L'ultima espressione del testo greco corrisponde al latino abi in malam rem o crucem, oppure a pasce corvos (come cadavere); si giunse perfino a coniare da essa il verbo transitivo okoparxitw « mando ai corvi, disprezzo », e il sostantivo analogo okopakiouôc L'epigramma rileva, ovviamente soltanto alla fine, tutto il suo intento scherzoso e giocoso : eccoci dunque un pesce d'aprile... poeticamente interpretato, e, se si vuole anche, ricambiato, in lingua ionica antica e in versi fioriti li per li.

Del 1888 (25 marzo) è il duplice distico « Per i Caduti di Dògali » (o Dogàli, evento doloroso, già preceduto due anni prima dalla sconfitta nostra ad Adua) (*). Composto proprio “ in un

giorno che più lo tormentava la passione per il dubbio del trionfo delle nostre vanti

a sé un

armi gran

in Africa, rapidamente, mucchio

di lavori

mentre

a rivedere...;

aveva due

da-

distici

greci con la loro traduzione italiana che io (narra Maria, la sorella, in Lungo la vita ecc., pag. 233) conservai religiosamente ”.

E quest’epigramma ci fa pensare, per il contenuto e per il suo

stesso

avvio,

anzitutto

alle parole

analoghe

di Omero,

Il.

VIII 194 e IX 141 e poi ai due versi esametri del greco Solone, che risentono di severe concezioni filosofiche, annota il Diehl, l’antologista : egli invoca il dio Zeus sulla propria legislazione operosa, pluriennale (I 1 ss.): « O Zeus,... giammai di te mi scorderò... anzi sempre... ti canterò; tu però dammi ascolto e siimi propizio ».

Degli anni attorno al 1890, forse del 1889 per la precisione, (29) Diamo « Prego bensi e ma se una sola, non è semplice reca i termini « l'iniziale

qui la traduzione del Pighi: l’una cosa e l'altra, ia vittoria

e il ritorno Tu conceda: / o Dio, darai, la gloria concedi sola »: augurio, bensi preghiera di italiano e di Credente: la sua stessa traduzione Prego » e la grafia « Tu », non « tu», e rende Zeus con «Dio » scritto con

maiuscola.

133

ia

P

À D n

è la composizione in distici elegiaci, Otvotpioc (8), dedicata all’Enotrio Romano, noto pseudonimo del Carducci, già maestro in Bologna del Pascoli (sia pure saltuariamente) per gli

anni 1873-82. La data ci riporta al periodo di insegnamento

li-

vornese del Nostro, impartito nel Liceo « Niccolini-Guerrazzi » (1887-95). Essa « doveva essere incisa sopra una lapide da murarsi nella sala di una trattoria popolare livornese o di una fiaschetteria » (forse quella del Néccioli) dove il Carducci fu invitato e lesse alcune poesie (pare in numero di 3). Il Pascoli stesso ce ne forni una traduzione letterale latina prosastica. dl erre de RO RS

E’ un

epigramma

tipo omerico

ma

in distici scritto

anche

elegiaco

antico,

in dialetto con

ionico

omerismi

di

morfo-

logici o sintattici che conferiscono una solenne pàtina di arcaicità alla scena alquanto realistica del carme moderno, ovviamente collegato col motivo del vino (Enòtrio da oîvoc, secondo una certa tradizione etimologica, oggi però spiegata con la derivazione dall’aggettivo antico oîvoc denus unus, per cui Oenotria tellus varrebbe «la terra degli uomini unificati, confede-

rati »). Il Carducci appariva cioè Enòtrio per le sue... predilezioni potorie che lo facevano propendere... soprattutto verso il lambrusco. L'esastico presenta una veste greca classica, ma contiene un riferimento nuovo e una intonazione che è scherzosa ed elevata, ad un tempo. Nei Carmina, quest'epigramma occupa un posto

d’onore,

risultando

collocato

come

ultimo,

in calce

alla

serie già affidata alla stampa, dei componimenti poetici latini: il discepolo esalta, degnamente il Maestro; il poeta dotto il Poeta-Maestro dottissimo, nel linguaggio e stile e verso che rispecchiano quelli di Omero, al quale il Nostro osa riallacciarsi, direttamente, dopo c. 29 secoli di storia e di civiltà.

Nel 1° distico è rievocato il passato, nel 2° è tratteggiato il presente, nel 3° è immaginato il futuro, cioè compaiono la persona dapprima del Poeta e Maestro, poi l’incanto da costui procurato a lungo all'uditorio, infine il fascino perenne assicurato dalla magia dei versi al Cantore immortale. Nel giro di soli 6 vv.,

pp.

(30) Ne abbiamo trattato, sia nel bel Convegno 73-85), sia in un apposito minuto commento

Torino

134

1964,

pp.

183-190.

pascoliano del 1962, (vd. Atti dello stesso, contenuto nei nostri Cammei Pascoliani,

il discepolo ha tratteggiato, in un alone di quasi maestosa sacralità, la figura del Vate della nuova Italia :con i versi di una tradizione quasi trimillenaria, con l’evocazione delle Muse intese non solo ad ispirare ma anche ad inghirlandare il proprio è&odég

cioè il proprio diretto interprete (appunto accanto ad esse figura il loro cantore; accanto a Costui però stanno pure, in un silenzio

di vero rapimento, gli ascoltatori; accanto agli ascoltatori - quindi anche a noi, tardi ma fortunati lettori del Carducci e del discepolo - sta la perenne magia del canto). Cosi l'inno del poeta di San Mauro

al Poeta e Maestro

resta, anzi è destinato

a rina-

scere e a fiorire per sempre, èc &ei. Al 1892 c. risale il distico scritto dapprima in Greco (‘!), ma

come tale pubblicato nel testo dei Carmina soltanto nell’Appendice crit. a pag. 725; esso corrisponde a quello latino di PoEpi XXVII

già sopra accennato. Incoraggiando la sorella

stesso

amorosamente

e

Maria

nello

premurosamente

della lingua greca e latina, come

studio,

dal fratello

promosso

e

diretto,

avrebbe detto nell'epigramma

latino a lei dedicato (n. XXVI, l’anno dopo, ma dagli Editori premesso a questo) compose un distico greco di linguaggio e di struttura omerici fino alla evidenza, che il Pighi tradusse cosi: « Nel vestibolo lupi dai forti artigli e leoni; ma dentro Circe un bel canto canta ».

Nel 1892 il Poeta aveva cominciato da un anno appena la propria attività ufficiale di poeta bilingue e già nella sua produzione complessiva di quell’anno, quand'era 37nne, maneggiava da signore e da maestro ben 11 metri diversi dei complessivi vv. latini 716 composti, in quel solo anno e trattando per di più argomenti i più disparati per tono e contenuto.

Nel n. XXVI Ad Mariam Sororem il Poeta avrebbe diretto a costei un duplice distico latino evocando la immagine di un discente che si inoltra su un terreno nuovo e difficile, ma, quale

figlio incerto, è incoraggiato e sorretto paternalmente dal fratello; in quello presente (dedicato alla stessa ma composto sia in La-

(31) L'abbiamo

Torino

1960,

fasc.

illustrato

I, pp.

nella

serie

delle

Gemme

Pascoliane,

nella

Riv.

di

st.

class.,

93-96.

105

tino sia in Greco prima di quello or ora citato, col sottotitolo esplicito de grammatica graeca) è contenuto un pensiero unico, però di forma ed ispirazione classicamente omerica, espresso non solo con un tono scherzosamente amorevole e soccorrevole, ma accompagnato altresi da quell’arguto sorriso che noi avvertiamo più spesso nei Carmina che nelle Poesie: dopo e accan-

to alle prime difficoltà da superare nello studio del Latino, eccoci quelle nuove che può presentare ai principianti quello del Greco (*).

Anche in quest’epigramma greco tutto ci riesce immediatamente perspicuo, sia nel luogo sia negli esseri viventi esplicitamente ricordati (si tratta di veri animali soltanto, si badi, non

di Ulisse e dei compagni, trasformati in porci e poi fatti tornare esseri umani), sia infine nell’incantesimo

suscitato

e prolungato

dalla cantatrice Circe, simbolo della melodiosità stessa della lingua e dei versi greci. In tal modo, al noto episodio omerico

cosi spesso e cosi

riccamente interpretato e fatto rivivere da varii artisti, vengono

conferiti un simbolico senso nuovo e un’applicazione personale e... quasi casalinga : il Greco, che appare spesso, non sempre a ragione, òstico alla sorella come ai molti principianti, saprà rivelare in seguito allo studioso tutto il tesoro di bellezza e di musicalità che contiene in sé; Circe, la dea del cerchio magico; circus, « cerchio », cioè della magia e dell’incantesimo, ci vien fatta rifulgere non come una dea terribile (Sen) quanto come

creatura umana aùdrecca, cioè dotata soprattutto di armonioso canto spiegato. E c'è chi, come il Barchiesi (*), ha visto in que-

st'epigramma, nella sua realtà effettiva - si badi!, - anche uno scherzo affettuoso, una battuta di quell’intimo colloquio che durò tutta la vita fra i due fratelli, i quali, oltretutto, vengono qui a noi presentati nella rispettiva veste contrapposta di maestro e di discepola (#).

(32) si pensi nel 1899, (33) (34)

A proposito dei vv. Ev TpoBLporov etc. e del al titolo dato dal Pascoli alla sua antologia italiana « in prima edizione; tale titolo è esso pure di precisa Nelle sue Cruces Pascolianae apparse negli Studi ital. Il Perrotta e il Morelli, nella prefazione della loro conclusione questo distico, quale allettante invito allo studio

136

componimento Vestibulum etc. Sul limitare »; questa apparve derivazione omerica. di filol. classica. Firenze 1950. Grammatica greca, pongono a del Greco.

Non

è dunque

rilevante, né per numero

di versi né per

mole, la produzione poetica in metro epico ed elegiaco del Nostro in Greco, e forse poco altro potranno aggiungere nuove composizioni rinvenute o da rinvenire nelle carte di Castelvecchio o conservate da amici ed estimatori del Poeta (*). Ma anche

da questo poco si vede e si può apprezzare il lavoro, diligente ed accurato, che egli veniva svolgendo negli anni di studio ginnasiale e liceale e in quelli successivi dell’insegnamento superiore classico, impartito agli alunni di Matera, di Massa, di Livorno e concernente le due lingue e letterature antiche. Dopo quanto è stato detto sulle traduzioni dal Greco in Italiano e perfino in Latino, o su alcune sporadiche composizioni italiane di contenuto ellenizzante; dopo la rapida rassegna di quanto della antica Grecia è diventato creazione diretta in versi latini contenuti nelle sei sezioni dei Carmina;

dopo il breve esa-

me delle composizioni integralmente greche, conviene almeno dedicare un accenno all'entità dei componimenti italiani del Nostro, compresi nei due volumi delle Poesie, in cui si sale dai pri-

mi esperimenti spesso confinati dagli Editori nella sezione Poesie varie (pubblicate negli anni 1912-13) e più opportunamente dalle Myricae fino ai Poemi del Risorgimento (questi ultimi apparsi addirittura postumi, nel 1913). La produzione nei due volumi delle Poesie allinea ben 918 incipit per altrettanti componimenti; se si aggiungono i nn. di

quelli in Latino e i pochissimi stessi in Greco, abbiamo la stupefacente cifra complessiva di 1000 e più numeri traduzioni o rifacimenti di codesto genere.

(35) Si pensi, per es. al lavoro che già si sta facendo

pubblicare,

l'enorme

e disparato

carteggio

epistolare

per rintracciare,

di creazioni o

sistemare,

illustrare,

del Pascoli.

137

——o

IX:

I POEMI

CONVIVIALI

etes be AV

Rei >

Le ni em riti, nn

nina ta

Tralasciando

ora spunti o echeggiamenti

troppo

minuti

e

sporadici, a noi giova qui asserire che il gruppo di straordinario interesse per la nostra ricerca è quello dei Poemi Conviviali (= PoConv). Perché questo nome, datogli dal Poeta stesso? Anzitutto per il fatto che i primi componimenti, Gog e Magòg, Alèxandros, Sòlon, furono pubblicati nel 1895 nel Convito di Adolfo de Bosis, a cui l’intero volume è dedicato (nella Prefazione che è preceduta dalla dedica-offerta espressa con le parole di Alceo, in quanto cantore di simposii o conviti: Xaîpe kai n@ tévèe (*): « Sii lieto, e bevi questa » coppa, xù\xa, ovviamente simboleggiata dal volume stesso), ma anche e soprattutto perché alcuni temi sono collegati con i conviti e i simposii greci (corrispondendo, in un certo modo, ai Carmina convivalia dei Romani). Essi

erano il luogo, perfino e spesso, sacro in cui « la poesia... risuona più specialmente » e « dove l’uomo o dimentica i suoi mali o si fa più forte contro essi o si lascia da essi commuovere fino alle lagrime e al canto » (cosi il Poeta dice in Lyra, p. XVII). Si trova

la piena convalida a tale titolo nel verso di apertura del primo poema del volume, Sòlon : « Triste il convito senza canto... ». Questi 21 poemi furono pubblicati nel 1905, più che esattamente e interamente composti entro il decennio 1895-1905, comprendendo 1 Gemelli che furono aggiunti ai precedenti altri 20 usciti nel 1904; corrispondono dunque agli anni di dimora del Pascoli a Castelvecchio (casa presa dapprima in affitto nel 1895, avuta in proprietà nel 1902, finita di pagare, a rate, soltanto nel 1907) e a quelli di insegnamento impartito a Livorno, Messina e Pisa. Il volume comprende 3868 vv.; il poema più breve è Tiberio (del 1896) con

soli 40 vv.; il più lungo è L'ultimo

viaggio

(del

1903-04) con 1212 vv. Il primo uscito in ordine di tempo è il Gog e Magòg del gennaio 1895; l’ultimo è il già citato / Gemelli del 10 agosto (ma già comparso prima, dell'aprile 1905). I componimenti di contenuto e di ispirazione omerica sono 6 in tutto e (36) L'attribuzione

138

e il testo

integrato

della frase eolica è del Bergk,

fr. 54 (=

164 Lobel).

i

deep

assommano da soli a 1911 vv., cioè quindi alla metà di quelli dell'intera silloge; di ispirazione esiodèa è unicamente «Il poeta degli Iloti » con 313 vv.; ai Lirici ionici e corali appartengono Sôlon e I vecchi di Ceo con altri 378 vv.; ben 6 sono anche quelli riconducibili a Platone (dai 3 Poemi di Ate a Sileno e ai Poemi di Psyche), con 867 vv.; gli ultimi, di contenuto ed ispirazione Cristiana, « La buona Novella » I e II, aggiungono altri 166 vv. Va qui detto che, già nella prima edizione, il Poeta stesso aveva indicato parecchie delle fonti da lui tenute presenti, caso per caso.

Se vogliamo considerarle più da Sèlon, una notizia di Claudio Eliano del Bergk; per 11 cieco di Chio, l'VIII rico » Inno ad Apollo Delio; per La l’Iliade; per Le Memnònidi,

vicino, esse risultano : per e il testo dei Lirici Greci c. della Odissea e l’« omecetra di Achille, passi del-

Ovidio, Met.

XIII

600-623

e i Post-

omerici di Quinto Smirnèo, nonché altre fonti greche e latine in poesia e prosa; per Anticlo (terza redazione) il passo dell’Odissea IV 267 ss.; per Il sonno di Odisseo, ancora l'Odissea X, 28 e passim; per L'ultimo viaggio, fonti omeriche ed esiodèe ma anche tarde e perfino recenti, da Dante al Tennyson e al Graf; per Il Poeta degli Ilòti, Esiodo sia di OD (Opera et Dies) sia della

Teogonia; per I poemi di Ate, i miti oltremondani

di Platone

(per Ate), epigrammi dell’Antologia greca, ma anche una poesia dell’Aleardi (per L’etèra), e ancora Platone e La madre di Jean

Richepin (per La madre); per Sileno, un passo di Plinio il Vecchio XXXVI 4, 14; per I poemi di Psyche, Apuleio, Met. ll. IV-VI (per Psyche), e ancora Platone e spunti dei Mimiambi di Eròda (per La civetta); per I Gemelli, una singolare versione della leggenda di Narciso, riferitaci da Pausània IX 31, 6; per I vecchi

di Ceo, inni e spunti da Bacchilide; per Alèxandros, una leggenda

concernente

le gesta

di Alessandro

Magno,

allorché

fosse

giunto ai confini della terra; allo stesso personaggio si collegano le molte e disparatissime versioni della leggenda della porta e delle trombe e della fonte di vita, da cui è ispirato il singolare poemetto Gog e Magòg (in questo, le fonti vanno addirittura da passi del Pentatèuco ad altri del Corano e perfino della Cronica

del nostro Giovanni Villani). Da Sòlon e perfino da Gog e Magòg è preminente, pertanto, nel volume la presenza della Grecia con i suoi poeti e scrittori e perfino con le sue tradizioni anche leg-

139

Pet man

gendarie; per Tiberio, l'episodio di Svetonio, Tib. IV, il quale però è ambientato in una regione della Grecia, non in Roma altrove.

0

In Oriente dapprima, e poi a Roma, siamo con le due composizione intitolate « La buona Novella» e qui siamo lontani dall’Ellade e dal mondo stesso antico e pagano, a cui subentra la civiltà nuova, né greca né latina, bensi Cristiana e universale.

Considerati Sòlon

(del 1895)

da un altro punto conserva

di vista, il componimento

echi precisi

di Saffo

e di leggende

connesse con la poetessa e con Faonte o Faòne (una stella? il sole?) e va accostato, per la struttura contenente all’interno due canti lirici contrapposti, al successivo Chelidonismo (del 1897); La cetra di Achille è articolata nelle 7 sezioni del nòmo; Anticlo (del 1904), a sua volta, va confrontato con il n. VIII di Catullocalvos, Anticlus (del 1897); e con l'omonimo Anticlo in esametri « barbari » (del 1899); I! sonno di Odisseo, pur nella studiata

complessità delle sue rime e per alcuni altri particolari, è dei più immediatamente comprensibili per il lettore (nel 1902, ci permettiamo

di accennare

qui, fu rivestito di note musicali per

opera di Riccardo Zandonai il poema sinfonico 11 ritorno di Odisseo); L’ultimo viaggio è invece una « piccola Odissea », che realmente presenta 24 canti, ognuno preceduto dal suo titolo specifico (il Pascoli soleva del resto sempre intitolare i brani o frammenti da utilizzare per le sue Antologie bilingui), con passi derivati anche da Esiodo o con una ben distinta bipartizione degli eventi, i quali hanno luogo dapprima in terra e poi in mare (siamo perciò agli antipodi dell'ordine degli avvenimenti dell'Odissea che narra i fatti di terra soltanto nella 2° parte del poema) in corrispondenza di canti 12 12 resi visibilmente eloquenti anche da questo stesso numero, se considerato e letto in senso orizzontale con

12 e 12, ma

in ordine inverso fatti cor-

rispondere alle due parti dell’Odissea; il Poeta degli Ilòti (del 1904) risulta diviso esso pure in 2 parti, quasi numericamente uguali (vv. 156 e 157).

In tutti i tre Poemi di Ate l’attacco è sempre quello stesso delle Eèe di Esiodo o Pseudoesiodo, assai imitate più tardi dagli Alessandrini, attacco quale al Nostro era piaciuto di far riecheggiare già nell'incompiuto epillio Leucòtoe degli anni materani (1882-84); ma in essi c'è anche molto che risulta tolto da Platone

140

vpi

e dall'Antologia. Nella Madre «i capitoli platonici costituiscono un fondo armonico percorso da una melodia tipicamente pascoliana » (Leonelli, in « Oscar Biblioteca Mondadori », 1980, Poemi

Conviviali, p. 198); Sileno (del 1899) va confrontato con il Silenus di Catulloc, n. IV, che è di due anni prima; i due Poemi di Psyche (dell’anno 1904) sono una lirica interpretazione non solo di Apuleio, ma anche di pagine di Platone e perfino di spunti derivati dai Mimiambi di Eròda (per La civetta); I vecchi di Ceo del 1903 (”) risultano una poetica, personale, assai conseguente interpretazione di passi del Bacchilide scoperto, studiato e pubblicato in Italia per primo da N. Festa, discepolo del Nostro (*). In alcuni individuazione mo poemetto complesso ed Pascoli scritti gole.

componimenti il tema è unico e di immediata per il lettore; in altri, come in Gog e Magôg, pridella serie dei Conviviali, esso è molto ricco e eterogeneo fino ad aver fatto tener presenti al che arrivano a leggende arabe e persiane e mon-

(37) Va qui fatto presente che, in occasione della I ediz. bacchilidèa del Kenyon, il Pascoli salutando il poeta antico, uscito in certo modo redivivo da una tomba egizia, aveva pubblicato un saggio diviso in due puntate nella Tribuna, dic. 1897 e genn. 1898, presentando l’opera, purtroppo parziale, di Bacchilide riapparsa alla luce proprio da pochissimo tempo.

(38) Il poemetto è « una bella fantasia mediterranea, e come tutte le fantasie di quel mediterraneo Egeo, della più chiara e luminosa tristezza, della più serena e consapevole malinconia », dice il Valgimigli, cit. dal Biagini, a pag. 534 della sua biografia del Pascoli, II ediz.

141

LA CULTURA GRECA E CLASSICA DEL PASCOLI

X:

Tale dottrina, cosi ampia e vivida, al Pascoli veniva da stu-

dii sia remoti nel tempo, sia anche da quelli compiuti di recente; da fonti letterarie di contenuto assai noto a tutti, ma anche da altre meno note o addirittura derivantigli da appunti, notazioni, postille fatte a letture quanto mai disparate o di natura casuale e cursoria; da pagine di autori pagani ed anche sacri, su cui aveva meditato spesso anche per i suoi ponderosi studii danteschi. Del resto alla Grecia ed anche a Roma egli si era accostato,

obbedendo ad una ben nota propensione e tradizione romagnola assai

spesso

dedicata

alla classicità,

per

trovarvi

un

alimento

valevole per tutta la propria vita, già dai primi anni di studio (°) ad Urbino, a Rimini, a Firenze, a Bologna, a Savignano (ivi frequentava la fornita biblioteca della Rubicònia) e poi negli anni di insegnamento a Matera, a Massa, a Livorno, (fu a Roma nel 1894-95), a Messina, a Pisa, a Bologna per gli anni del suo alto magistero universitario. Gli era divenuto infatti quanto mai favorevole l’ambiente accademico di Messina e Pisa e Bologna, il quale gli consentiva da un lato un'assidua consuetudine di vita e di rapporti con amici e colleghi, dall’altro la cotidiana frequenza o utilizzazione di biblioteche cittadine, nazionali e universitarie (nel 1896

era

diventato

socio

della Rubicònia

di Savignano,

a

cui aveva dato lustro già il Carducci, suo maestro). Ma

fu specialmente

il contatto

con

maestri,

come

il Car-

ducci ed Edoardo Brizio ed altri, e con colleghi classicisti di chiarissima fama a provocare in lui l'emulazione, ad acuire il desiderio di non apparire inferiore ad essi. Rapporti personali

ed esempi grecisti

come

Pelliccioni

quelli fornitigli dal sanscritista e Zambaldi

e Puntoni,

Papesso,

dal filosofo

dai

Fr. Acri

traduttore di celebrati dialoghi di Platone; le conoscenze di G.B. Gandino, di G. Setti, di V. Ussani, di G. Vitelli e di padre Pistelli

e di L. Michelangeli; nonché le relazioni con poeti e scrittori come il Marradi, il Cavallotti, il Graf e D'Annunzio e Fogazzaro

(39) Sulla

classico,

142

sua

ci informa

prima

preparazione,

il Biagini,

op.

perché

potesse

cit. pp. 32-35.

giungere

al pieno

possesso

del

sapere

contribuirono ad arricchire le possibilità della sua affermazione intellettuale

in sede non

soltanto

accademica.

Non ebbe un ricco patrimonio suo di libri (*); ma sapeva dove trovarli, da chi (come già dal p. Cei) farseli prestare, come farseli recapitare a Castelvecchio, dove li compulsava prendendovi appunti, facendovi le sue postille e annotazioni e riflessioni e comparazioni, aggiungendovi di tanto in tanto le traduzioni specialmente dai Classici ma anche le traduzioni e riflessioni da poeti e scrittori moderni tier, Baudelaire, Proust,

Coleridge, Wordsworth,

come Novalis, Hugo, Heine, Poe, GauNerval, Verlaine, Mallarmé, Witman,

De Quincey,

Shelley e di quelli che il

Galletti ha rintracciato e provato essere stati oggetto di letture

e di conoscenze apprese dal Nostro nel vasto campo della letteratura europea. Soprattutto fu determinante, nella sua attività di poeta, l’arrivo nell’Zsola del Sole, che l’anno dopo fu da lui cantata nel-

l'ode saffica omonima. Il Pascoli stesso narra tale suo felice viaggio (0). La Grecia pertanto in veste e in versi italiani, rivelata a lui anche dallo splendore perenne della Magna Grecia, è presente in modo rilevantissimo soprattutto nei PoConv, che appartengono al decennio più fervido del Pascoli, ormai affermato docente

universitario,

occupandone

il periodo

rimasto

intermedio

nei trent'anni complessivi del suo alto magistero. Nelle soste consentitegli a Castelvecchio, ma anche durante la permanenza a Messina e altrove, maturarono i più che 20 componimenti entrati a far parte di tale silloge: una parentesi produttiva sorprendente accompagnata da simultanee creazioni prosastiche e

poetiche bilingui, da corsi di letteratura, da conferenze e commemorazioni, infine da logoranti e personalissimi studii su Dante. Codesta Grecia aveva sempre attratto e interessato il Poeta nel suo studio e anche nell’insegnamento liceale; ma essa non costituiva più la disciplina unica e precipua della sua attività negli Atenei di Bologna e poi di Messina e poi di Pisa ed ancora a Bologna, ove sarebbe tornato dopo il 1905.

(40) soltanto (41) cit., pp.

Sappiamo, per es., che il Pascoli riusci a procurarsi il Lessico latino del Forcellini nel 1892, mentre insegnava a Livorno. Si legga il tratto contenuto nella pagina già citata dal solerte biografo Biagini, op. 343 ss.

143

MSA Pigi, © led

ida | ci SL

I Conviviali risultarono coèvi soltanto di alcune Odi bare del Carducci; era comunque ormai lontano il tempo sue traduzioni più varie anche da autori stranieri, come ed ancor più il tempo dei suoi fermenti in campo sociale

Bardelle pure e di

quelli letterarii rivolti al Foscolo, al Carducci, ai parnassiani, ai veristi e ad altri; il Capuana, il Verga avevano pubblicato i loro

capolavori

in anni

nettamente

precedenti,

ma

il giudizio

del

Salvadori sul Nostro risaliva già al 1882, cioè all'anno della laurea, sulla « Cronaca Bizantina » : « Un giovane che non si vede

ancora bene quel che farà, ma certo farà molto », e quello del D'Annunzio,

nel 1888 sulla « Tribuna », che lo qualificava « arte-

fice di sonetti eccellentissimo ». Il Pascoli, già affermatosi non soltanto in Italia, negli anni

dei Conviviali poteva proporsi mete sempre più alte, affacciarsi a più ampi e lontani orizzonti, collocarsi su un piano di prestigio addirittura europeo, farsi maestro di umaniorità cioè di umanamento per tutti. Dopo la rivelazione delle Myricae e dei primi Carmina, ecco la nuova e sua scoperta e rivelazione ed esaltazione di aspetti perfino insospettati del mondo greco. Riviste accreditate, autorevoli, tipograficamente accurate, come il Marzocco (1896-1932), il Convito (1895-1907), La Vita Nuova (1876-77), la Flegrèa (1899-1901), la Lettura (1901-1952 con interruzioni), l’Illustrazione Italiana (1883-1962, poi dal 1981), la Nuova An-

tologia (prima Antologia, poi N.A. dal 1866 in poi) erano pronte ad accogliere e ad ospitare anche i suoi Conviviali. L'Antico si faceva con lui nuovo; la Storia diventava poesia;

un mondo lontano riemergeva in forme di linguaggio che era antico e moderno ad un tempo, espresso in caratteri di stampa che erano bensi latini, non greci, però restavano contrassegnati da cadenze, forme, immagini, sentimenti che della Grecia sapevano

rivelare l'umanità profonda e la perennità del pensiero. Nel meditare sui prodotti del genio greco il Pascoli non si soffermava né indugiava sulla mitologia, sui problemi politici o economici o militari, sulle manifestazioni della violenza e della conquista effettuata per finalità di pura conquista; non si faceva

ascoltatore o spettatore ideale del glorioso e difficilmente ripetibile teatro greco; non meditava le pagine sapientemente elucubrate di Tucidide o di Polibio o l’euritmica eloquenza di Isocrate o il dinamismo virile di Demostene : mirava agli aspetti so-

144

prattutto interiori della vita antica, che egli sentiva essere spesso molto simile a quella nostra di oggi. Lo attraevano

i poeti più che i prosatori e, già nelle sue

traduzioni, si rifaceva più volentieri ad autori di poesia greca che non latina. Poeta, anzi poeta-fanciullo, prediligeva, in codesta sua opera di traduttore, i poeti primitivi, ricchi di ingenuità oppure quelli dolorosamente pensosi, come Esiodo e Solone ed Euripide. Alla prosa si accostò, sia distesamente

sia in versi, soltanto quando

si trattò di Platone e del Vangelo greco per riportarne, sull’esempio del Tommaseo a lui tanto caro, tutto il semplice ed eletto nitore; ma non trascurò

del tutto alcuni poeti minori, come

Bà-

brio ed altri. Argomenti

a lui particolarmente cari riprese e rifece, am-

pliandoli via via, in tempi diversi, e magari in forma bilingue, proprio nei Conviviali, per es. nel caso di Anticlo e di Sileno, come pure, in altra sede, nelle pagine relative alla morte di Socrate. Nel trattare, in versi italiani come già faceva nei vv. latini dei Carmina, una materia cosî augusta ed inconsueta, il Poeta

sentiva la gioia di rivolgersi ad una amplissima cerchia di lettori célti che, partendo da cognizioni anche modeste

del mondo

classico, si sarebbero facilmente elevati al livello di comprensione richiesto da codesti canti nuovi, seppur di tradizione prestigiosa : tutti costoro avrebbero potuto partecipare, con felice immediatezza,

al ricco fluire di sentimenti,

di espressioni, di vi-

sioni proprie di quel più vivo ed eterno sentire ed operare umano, quale avrebbe saputo illuminare il Pascoli. La materia dei Conv. viene comunque trattata liricamente: situazioni e personaggi in essi non sono mai né presentati né

fatti pensare o parlare o agire con precisione di date e di dati e con determinatezza di contorni o di particolari : a completare la

creazione del cantore giovano la fantasia e la compartecipe ed immediata sensibilità di ogni lettore, rapito dal fascino di tali versi.

Già nel primo poemetto, Gog e Magòg del gennaio 1895, si ha un tema - simbolo escatologico in parte ellenizzante in parte eterogeneo e poi leggendario, di impostazione inconsueta e di svi-

145

luppo quando mai libero, condotto con vera accortezza moderna | e talvolta perfino profetica (*). Nell'ultimo,

I Gemelli del 1905, torna un motivo mitologico

antico di elaborato schema metrico, sviluppato da una notizia fornitaci da Pausània (IX 31, 8) che si collega con la leggenda di Narciso e con l’accenno al prato asfòdelo di Omero (Od. XI 539) e col galanto nivale o bucaneve e con la leggenda metamorfica ovidiana di Croco trasformato nel fiore omonimo : il volume pertanto si presenta al lettore racchiuso fra una leggenda di barbarica truculenza ed un’altra di floreale freschezza (« i due puri gemelli esili fiori... Sparvero prima della primavera », suonano i versi conclusivi). Fra codesti due estremi cronologici di Gog e Magòg e de I Gemelli entro l'arco del singolarissimo decennio, stanno dunque poemetti per la maggior parte di ispirazione omerica, esiodea, platonica, in una parola di concezione greca; essi vanno ovviamente accostati alle già accennate traduzioni poetiche e prosastiche come pure a pagine di prosa esemplare sua, contenute in « Sul limitare ». Basterebbe qui riferire la semplice pagina in cui vien presentato ivi all’alunno italiano il contenuto dell’Odissea. Seguono in tale antologia accenni varii al Manzoni, al Fogazzaro, all’Ariosto, al Foscolo, al Tennyson, a Hugo e poi l’Antologista continua cosi: « Quando il giovanetto si sarà riscosso dalla ammirazione e dalla commozione provata per questi Echi della grande e non moritura poesia eroica, si sentirà trasportato nella città madre del bello, nella città dove biancheggiò il Partenone e dove risonò il coro di Sofocle : in Atene. Si troverà in un tribunale, in cui giudice siede quasi un popolo : nell’Elièa. So-

(42) Gog e Magòg, in 12 sezioni o lasse (sulle 19 rispetto alla attuale numerazione) reca molto complesso lo schema metrico e presenta assolutamente varia e ricca la leggenda stessa trattata dal Graf (Roma nel Medioevo, vol. II app.): dalla Genesi X in cui Magòg è figlio di Giàpeto, Num., Deuter. (con Og), Ezech.: « distruggerà Israele Gog re di Magòg »; Apoc. XX 7-10. « Dalle profezie di Ezechiele e dall’Apoc. la leggenda passa nella gran corrente della letteratura patristica » (Graf). La leggenda biblica si innesta con quella fiorita sulle gesta di Alessandro Magno (la porta di bronzo fatta erigere da costui per « sbarrare il passo ai popoli selvaggi del Caucaso »), con altre provenienti dal Corano, poi con altre ancora di poeti e scrittori arabi, siriaci, persiani; riprende nel secolo XII con la irruzione dei Mongoli (questi superano la grande porta per l’astuzia di un tartaro) e poi con una versione della leggenda ricordata da Giovanni Villani, Cron. V 29, accolta dal Nostro; con essa si fonde quella narrata da Firdusi sul fonte di vita, da tener distinta dall’altra secondo cui Alessandro attinse da questa la giovinezza

eterna.

146

crate parla (si accenna ora alla platonica tetralogia della morte di Socrate)... le parole di Socrate nel vestibolo e sul limitare della morte sono tali, che nessuno venuto al mondo deve uscirne senza

averle imparate »; l'argomento con le molteplici enumerazioni successive resta concluso con l’accenno diretto a Giosue Carducci. Questo

è il modo

con

cui il Pascoli, dottissimo

anche

di

Greco, sapeva offrire ai giovinetti d’Italia la sua prima antologia italiana, nell’anno PoConv.

1899, esattamente intermedio nel decennio dei

Ma parecchi altri argomenti sul contenuto anche dell’Odissea, che sarebbero

potuti essere realmente

meritevoli

di entrare

nel volume dei Conviviali, ci sono fatti conoscere dai titoli seguenti rinvenuti nel suo archivio di Castelvecchio: Tigri ed Eufrate, Giobbe, A Troia, Ad Itaca, Lungo l'Egeo, Capri, Dii indigetes, Ai morti del Medioevo, Morte di Pan, Roma in fuoco, La morte di Adone : almeno 6 di questi si riferiscono alla Grecia. E in titoli di altri Racconti, divisati già prima del 1890, figurano ancora argomenti e nomi come Tiberio, I Tartari, Alessandro ecc., e, un poco più tardi, altri come Le trombe macedoniche, La battaglia di Cheronèa, La luna e Alessandro, e perfino I Galli che assaltano il mare e Le trombe di Tartaria e, più curiosi ancora, Gli alberi parlanti, Il ritorno di Hector, Silva myrtea (che fa pensare al noto passo dell’Eneide, VI 443). E tutti dovevan nascere nel decennio o quasi dei Poemetti, di CanCast., di OeI e di PoConv.

Per la produzione di ispirazione greca egli attinse alla « perenne polla omerica » e a Platone (cioè al più grande dei poeti e al più grande dei prosatori); ma anche quando, trattando la saga odissiaca, si trovò accanto a un Tennyson, ad un Graf,

a coloro cioè che avevano visto Ulisse nella luce della poesia di Dante, seppe svolgere l'argomento con originalità, con ricco approfondimento,

felicemente vivificando il mito stesso, scoprendo

il nuovo nel vecchio e ad esso conferendo palpiti della sua anima, piegando la materia piena di augusta e remota verità oggettiva

a trattazioni

soggettivamente

liriche.

Rivaleggiò da maestro e con epica sostenutezza, ricorrendo quasi sempre al nostro endecasillabo sciolto, con l'esametro, cioè con il versus longus di Omero di Esiodo di Ennio di Lucrezio di Virgilio, verso nato per l'epopea per la didascalica per la storia, conservandogli si la prestigiosa ampiezza ma anche

147

associandovi, metricamente e musicalmente, effetti e SUS e andature e risonanze affatto moderne e sue. Molte in tali versi la dottrina e la bravura, ma

molto

più

copiosa la poesia, che reca il noto sigillo inconfondibile di lui; che rivela una ricerca spesso minuziosa dei particolari, un modo asciutto di dipingere paesaggi e situazioni, una rara capacità di condensare e armonizzare episodii di fonti anche molto diverse, soprattutto « quel vivissimo amore e desiderio dei miti di fantasmi greci... e quel senso di tristezza tragica, che è dato dal sapere e dal pensare che tutti quei fantasmi sono immaginazioni vane » (R. Serra, il quale formulava uno dei giudizi primi su tali poemi [essi però comparvero in pubblico soltanto nel 1948] con parole di vera percezione profetica : « Io non so esempio di cosa più moderna di questa poesia », trasformando codesto che è il libro più antico del Poeta nel libro suo assolutamente più moderno). « Moderno » anche se giustamente fa rilevare il Valentin, suo traduttore

e commentatore

in Francia

nel 1925, che il

Pascoli in questo volume « prende dagli antichi colori, immagini, epite consacrati, sviluppo e tono del discorso ». Alla valida comprensione e valutazione dell’opera noi stiamo

ormai

giungendo

con altri recenti e minuti

studii, in attesa

dell'edizione critica, filologicamente documentata prestando la Piras-Rüegg (f).

che ci sta ap-

Ci si consenta ora di ricordare le tappe della carriera del Pascoli ellenista. La sua tesi di laurea aveva sviluppato un argomento greco, trattando la figura e l’opera di uno dei poeti più personali della lirica greca, Alceo. Chi, come Manara Valgimigli, ha potuto vedere raccolta in due quadernetti, codesta tesi di

laurea del Pascoli, l’ha con occhio espertissimo di filologo e di critico giudicata cosi : « il primo quadernetto una storia miticoletteraria sugli Eoli e la poesia degli Èoli; il secondo una rasse-

gna dei principali frammenti di Alceo con traduzione e riferimenti biografici. Ricerche filologiche nessuna : analisi più propriamente critiche nemmeno. Osservazioni acute qua e là, su la metrica eolica, su un frammento di Alceo in relazione con una ode di Orazio, e qualche altra » (*).

(43) Di essa è comparso e Commento Genève, 1974. (44) Cosi il Biagini, op.

148

il lavoro

su

cit., pp.

87 e 94.

Giov.

Pascoli,

L’ultimo

viaggio,

Introduzione,

testo

Pochi mesi dopo di essa il Pascoli si trovò a Matera ad in-

segnare lettere classiche. Cosi l'insegnamento del Latino, che da noi resta associato ma poi ancora nel bi i linguaggi; le fatto autorevole e

al Greco non soltanto nel Ginnasio superiore, Liceo classico, gli aveva reso familiari entramlezioni universitarie avevano poi ampliato e quanto mai proficua l’attività sua stessa di maestro e di scrittore.

A Bologna ebbe, nell'ottobre del 1895, per decreto ministeriale di Guido Baccelli, scienziato latinista e ammiratore del Pascoli, la nomina a straordinario di Grammatica greca e latina e nel 1896, proprio nella prolusione tenuta alla presenza del Maestro suo, su « L'avvenire della scuola secondaria classica » spezzò coraggiosamente una lancia per il Greco pronunciando le seguenti significative parole per contrastare la minaccia già allora sospesa su « quella lingua che fornisce il linguaggio a tutte le scienze, quella letteratura che procaccia ispirazione e dà norma e regola a tutte le arti, quello spirito che anima ancora del suo primo impulso già cosî lungo il pensiero umano ». Scendeva altresi a difendere le letterature antiche e pur sempre moderne e recenti « anche nel secolo dei raggi X (oggi diremmo dell’éra atomica) deprezzate in nome del pratico, del reale e dell'utile », proclamando la vitalità del pensiero antico, preannunciando i ginnasi dell’avvenire che egli intravedeva quali « tempio sacro della giovinezza » come già aveva definito la vera scuola Niccolò Tommaseo (*). Nel 1897 il Poeta ebbe la nomina all’università di Messina e ivi sostitui lo Stampini nelle lezioni di Letteratura latina, a lui molto più confacenti e congeniali di quelle di Grammatica. Nel 1903 ci fu il trasferimento suo a Pisa, a ricoprirvi però ancora la cattedra di Grammatica greca e latina e, finalmente, nel gennaio 1906, egli insegnò Letteratura italiana, succedendo non già ad una semplice cattedra, ma ad una autentica gloria nazionale, quale discepolo ad un Maestro, che proprio egli stesso commemorò nell'Aula Magna dell’Università col discorso « Il Maestro e il Poeta

della Terza Italia ». La sua attività di studioso, di docente, di scrittore, di poeta

comprendeva

(45) Si veda

ormai un ideale arco immenso,

ancéra

il Biagini,

op.

cit., pp.

plurisecolare, che

255-256.

149

partiva da Omero per giungere ai primi anni del secolo che tuttora viviamo: accanto a studii coltivati in altri settori, indiano, tedesco, inglese, francese,

spagnolo

di tutti i secoli, sta la sua

conoscenza e il suo geniale dominio produttivo nel campo

dei

tre mondi, cioè delle tre letterature greca, latina, italiana, coltivate con intensità e con risultati tutt'altro che uniformi, anzi

assai spesso disparati ma positivi e sorprendenti, come non era capitato di fare né ad un Carducci né ad un D'Annunzio né ad altri scrittori o dòtti nostri dell'Ottocento e del primo Novecento. Ed era tanto e tale il suo desiderio di arricchire il già glorioso patrimonio nostro letterario che, se avesse potuto, avrebbe

tradotto lui stesso in volgare il poco di Greco che già aveva riportato anche in veste latina e il molto di Latino che ci avrebbe voluto ridare in veste italiana perfino poetica, come ebbe la ventura di fare nel 1911 con i suoi due Inni a Roma e a Torino. Va detto altresi che egli progettava di pubblicare tutte le proprie composizioni latine dotandole di un opportuno commento, esso pure in Latino (“); ci fu anzi un tempo in cui avrebbe voluto fare

un simile ponderoso lavoro associandosi e collaborando addirittura, per esso, col Maestro suo. E negli anni livornesi, d'accordo con l’editore Giusti, progettò nel 1892 una Collana di « Libri di lettura classica », intitolandola, con accento chiaramente polemico, Nostrae Litterae non Litterae Nostrae : in essi voleva tenere

il giusto mezzo fra i « gravissimi e i tedeschissimi libri di qualche collezione italiana », allo scopo di rendere agevole e dilettevole nelle scuole lo studio del Latino e del Greco (*). Il suo studio dei Classici fu dunque assiduo, ininterrotto, penetrante : egli non si fermava alla lettera del testo; preferiva coglierne e illuminarne i particolari; esprimere il senso originario delle formule, sciogliere i nessi dei tipici termini composti greci anche di nomi personali (beninteso restando entro i limiti delle cognizioni, che se ne potevano avere allora) : non tanto interpretare i testi era per lui importante quanto farli gustare, fino a renderli spiritualmente assimilabili. Che il Poeta nutrisse una profonda propensione per l’Ellade non si spiega certamente, se ci rifacciamo alla sola sua

(46) Cfr. il Biagini, tradurre

composizioni

(47) Ciò riferisce

150

op. latine

cit., p. 707.

Il Poeta

non

sue.

lo stesso

Biagini,

ibd.

pp.

185-86.

gradiva,

del

resto,

che

fossero

altri a

ascendenza ravennate, cioè all’appartenenza degli avi suoi a quella zona di territorio che conobbe a lungo aspetti preziosi e validi del pensiero, dell’arte, perfino della liturgia greco-bizantina, bensi alla sua formazione classicistica di tutti gli anni di

vita; allo stretto legame di orientamento e di approfondimento bilingue, da lui vissuto e praticato nel venticinquennio 1870-95; alla consapevolezza di quel dato di fatto che pone la civiltà italiana come erede e continuatrice diretta di quella greco-latina e del noto principio, per lui indiscutibile: « colui che ignora il proprio passato non è degno di foggiarsi un avvenire ». Se ora vogliamo considerare dappresso i suoi anni di vita esclusivamente

messinese,

stati quelli di più feconda

1898-1903,

constatiamo

che essi sono

attività poetica, in quanto, nel ses-

sennio 1898-903, il Poeta compose 11 sonno di Odisseo; Sileno; Anticlo; In Oriente; stese l'antologia « Sul limitare » (tutto ciò

nell'899); In Occidente e l’antologia « Fior da fiore » (nel 1901) e infine « I vecchi di Ceo » e « La cetra di Achille » nel 1903 (#). Un sogno era stato, come abbiamo visto, il suo arrivo alla « Isola dei Poeti» e della Poesia; un sogno messo in versi fu anche, come creazione d’arte, la fioritura di questi e di altri Conviviali,

in cui l’aria che si respira è la stessa che già aveva

suggerito

canti esimii a Stesicoro, a Simònide, a Pindaro, a Bacchilide, a Tedcrito, a Bione e Mosco e, assai più di recente, all'abate Meli :

la poesia, in codesti stessi anni, era passata con la sua forza incontaminata

dalla Grecia alla Magna

Grecia, per rifiorire, an-

cora una volta rigogliosa, sul terreno nostro italico. Ora veramente il Pascoli poteva realizzare quanto aveva scritto negli anni 1877-78 (ancor prima, dunque, della laurea), quando avrebbe voluto già pensare ad una raccolta di versi da intitolare « Voci del passato ». Nel decennio di produzione dei PoConv, 1895-1905, egli espresse candidamente idee peculiari come queste : « Io astraggo dal mondo di oggi come astrae chi sogna... rintraccio in certo modo il vecchio uomo, le vecchie vestigie umane, per spiegarmi la natura umana... io non rinnego dell'umanità nemmeno i morti... ne accolgo religiosamente le ceneri per porle nel vaso cinerario

(48) Nel decennio corrispondente a PoConv uscirono ben 16 poemetti a FaA; e i molti componimenti pit eletti di Can Cast comparvero proprio

latini, dal Catulloc nel 1903.

151

scolpito da fine scalpello nel luminoso

alabastro dell’arte » ().

Ciò scriveva il Nostro a 43 anni circa: negli anni maturi, cioè in

codesti anni di Messina, il suo non era un sacro culto tributato

ad esseri defunti; era un meditato ritorno a quanto di più vitale avevano

prodotto gli antichi; ed era sempre

palpitante la

sua bramosia di imprimere nei versi il sigillo di quella immortalità, che è il privilegio unico della vita, non della morte e del

nulla. Ora, in codesti anni fortunati, egli si rivolgeva al passato anche « per cercarvi un rifugio... per lui i Greci come i Romani, gli uomini del Medioevo,

del Rinascimento...

sono tutti note del-

la coscienza vivente fuori di un tempo storico... La visione del mondo si attua attraverso il cristallo della letteratura magicamente capace di... fargli dimenticare il presente » (*). Nel trattare liricamente siffatti personaggi ed eventi egli risultava un interprete e cantore moderno di materia poetica antica, rivelando

della civiltà nostra

la serie continuata

e con-

catenata di sviluppo da Omero fino agli albori del Cristianesimo fino a ricollegarsi, alla fine, con certi i Carmina e soprattutto con

i PoChri; manifestava cioè in essi la propria sensibilità di poeta e di uomo,

sentendo

quasi se stesso

in tutti i personaggi

rappre-

sentati, interpretandoli e trasformandoli fino ad imprimere in essi l’anima propria, non senza quella nota di tristezza e di malinconia che egli sapeva trovarsi alla base, piuttosto pessimistica, di ogni creazione letteraria dell'antica Grecia. Già un articolo, comparso nella Nuova Antologia del 1° settembre

1904,

segnalava

e illustrava

cosi

il carattere

fonda-

mentale dei PoConv: « Il primo carattere che si riscontra in questi poemi è l'impronta classica greca. Il Pascoli è riuscito veramente a rivivere nel mondo greco : nessun poeta italiano, in tutta la storia della nostra letteratura, e nessun poeta straniero probabilmente è, come appare qui il Pascoli, cosi naturalmente

e integralmente greco e padrone del suo mondo, da trasformarlo come gli piace, e da piegarne le forme e le visioni secondo l’ispirazione sua, da compenetrarlo tutto nella sua complessa e profonda anima moderna... ».

(49) Pascoli, in « Oscar Biblioteca Mondadori », p. 10, nel volume dei PoConv. curato Leonelli. (50) Cosî si esprime il Goffis, Pascoli antico e nuovo, Brescia 1969, pp. 390-91.

152

dal

E Renato Serra, altra gloria della terra di Romagna, a tal proposito in Saggi critici (ediz. « La Voce », Roma 1910), rilevò

col suo talento finissimo : « Il poeta non si interessa al libro, non si ferma sui luoghi consacrati dalla ammirazione dei secoli; trova in una frase, in una figura, in una immaginazione qualche cosa che attira il suo sguardo, ed eccola nella sua fantasia rifiorir tutta nuova,

mito

e simbolo

e parte viva della sua vita stessa.

Ha letto il Fedone: d'un tratto egli s'è trovato nella piccola camera della prigione a parlare e a bere e a morire col vecchio Sileno;

ha riso e sogguardato

con

lo stormo

dei fanciulli,

ignari, tra i sassi dell’Acropoli; ha espresso dalla scena tradizionale un senso di mistero, di cui si pasce e consola non l’anima dell’antico Socrate o la nostra, ma solo la sua. Allo stesso modo

ha ripreso e rifatto per sé Omero ed Esiodo, Bacchilide e Platone e Apuleio; esaltando, in ciò che di loro accettava, solo se stesso;

ponendo e sciogliendo, nel dramma di Ulisse o in quello di Myrrhine o di Psyche, il dramma di se stesso e il simbolo della propria vita » (0). Ogni lettore si accorge subito che i PoConv sono tutti poesia, poesia che nasce e si nutre dei succhi del suolo greco; che già il Sôlon e poi Ate e Psyche ed Alèxandros recano titoli prettamente greci; che spesso rivelano le cose, è stato detto autorevolmente, conservando ad esse il loro colore sia temporale sia

locale, ma anche che sempre scoprono ed illuminano la civiltà greca, prodotto portentoso della più vasta civiltà mediterranea. Lo schema stesso del nòmos, adottato per parecchi di tali componimenti, è certamente

greco, ma forse anche preellenico e me-

diterraneo: lo sentiamo quindi come « schema sua stessa partizione fondata sul n. 7.

perfetto » nella

Certamente greco, anzi esiodèo, è altresi l'attacco dei tre « Poemi di Ate » : « Quale... », in cui è da sottintendere un pensiero, sempre ricorrente: come: « Il colpevole, il peccatore è sempre

punito,

come

avvenne

a Mecisteo,

all'etèra,

a Glauco ».

Ma non è soltanto lo schema oppure l'avvio di tali componimenti e di altri a ridarci costruzioni

architettoniche

antiche; va osser-

vato, con la Piras-Rüegg, che il disegno stesso dei PoConv (51) Si vedano, 588,

589

per

nel biografo

le rispettive

Biagini,

spesso

citato

e cosî

ricco

di notizie,

le pagine

era

579,

citazioni.

158

nato

ed era stato

suddiviso

per cicli, in quanto

essi dovevano

delineare una storia poetica dell'umanità, una nuova ed ampia Légende des siècles (©): e vi doveva figurare perciò un ciclo omerico, con i rispettivi poemi di tal genere conclusi da La Sirena; un ciclo artistico, con Atlàntide, Sileno, Lo scheletro;

ciclo prevalentemente

storico-politico,

con

I compagni

un

di Dio-

mède, Gli Arcadi prosèlenoi, Gog e Magòg, Dario d’Istaspe, Il sepolcro nel Palatino (si pensi al Pallas del 1907, in PoChri), Alèxandros; un ciclo filosofico, con Empèdocle, La vela al Sunio, La cicuta, I vecchi di Ceo.

I PoConv rientrano dunque nel vasto programma che il Poeta si era prefissato e che rimase purtroppo ineffettuato al pari di quei 400 componimenti che egli, già moribondo, si doleva (parlandone col proprio medico curante) di non poter più dotare della vita e fare splendere, come egli voleva, quasi sentendoli già vere e proprie vitali creature sue. La poesia infatti, la lingua stessa, ogni verso, ogni parola erano da lui sentiti come un es-

sere vibrante, come un vero organismo pulsante (5). Se ora

ci domandiamo,

per una

pura

curiosità

nostra,

a

quale dei tavoli che erano sistemati nello studio suo di Castelvecchio il Poeta si sedeva nel comporre i PoConv (ne aveva 3: uno gli serviva per gli scritti danteschi, uno per i versi italiani, uno per quelli latini) è facile rispondere che egli doveva assidersi al tavolo dei versi italiani, pur trattando, nel vergare questi, argomenti proprii del mondo greco: i PoConv infatti editorialmente non compaiono né entro i Carmina né allineati ad essi, in quanto appartengono alla poesia italiana e moderna, per chi voglia afferrarne l’essenza vera più che soffermarsi sulla qualità del mezzo linguistico prescelto. Se poi guardiamo gli aspetti della sua tanto discussa poetica, dobbiamo subito affermare che egli non soltanto derivò da Platone l’idea del fanciullino, ma che dal filo-

(52) In G. Pascoli, L'ultimo viaggio, Genève 1974, p. 11 n. 4. Ella ricorda, ibd., che i PoConv possono essere ravvicinati..., per la struttura ciclica, alle opere del Parnasse francese, quali i Poèmes antjques et modernes di De Vigny, problema messo in luce, di recente, fra

gli altri, da V. Lugli. (53) Notevoli documentazione.

154

i rilievi,

a tal

proposito,

del

Goffis,

op.

cit.,

pp.

375-6,

con

la

rispettiva

sofo e prosatore attico fu portato a divenire, per conto suo, altresi

« il poeta della fanciullezza » anche quando prendeva a trattare argomenti tutt'altro che fanciulleschi, (le sue stesse traduzioni da altri miravano a questi, soprattutto nelle Antologie italiane). Egli sapeva realmente presentare, e più ancora far gustare i capolavori della Grecia, ai giovinetti d’Italia già nella prima Anto-

logia italiana (a cui fece seguito, poco dopo, l’altra Fior da Fiore: i due titoli ci riportano,

l'uno

ad Omero,

l’altro a Dante,

due

sommi). Questa Antologia, che parte appunto da Omero e da Platone per concludersi con un omaggio riverente nel nome del Maestro suo, anticipa davvero quanto egli avrebbe scritto nel settembre

del 1904, facendo uscire la prima edizione dei Convi-

viali, allorché si rivolse a Mario Novaro, direttore della Riviera ligure con queste parole : « Per me non è vera poesia, se non quella accessibile ai ragazzi e al popolo... Se ho vita ancora un poco, questo poco ha da essere dedicato a questo fine ». Non era dunque del tutto fondato sulla realtà quello che egli soleva dire, a proposito dei Carmina composti in Latino, quando, anche

per una

non

richiestagli giustificazione,

asseriva

di averli scritti sibi et suis: in quel suis noi amiamo pensare vadano compresi non i soli suoi fratelli e parenti, non i soli suoi concittadini di San Mauro, « la sua piccola patria », ma tutti quelli che amavano, amano, ameranno il Poeta, che seppe donare al mondo cotanta produzione d’arte, voluta consegnare ad una,

a due, a tre e, se guardassimo meglio, a più lingue, emulando, superando, in ciò, autori antichi di espressione bilingue, quali Varrone Reatino e Petronio e Svetonio ed Ausonio, ma anche moderni, quali D'Annunzio e Gadda e Pound. Anche cosi, egli serbò fede al programma suo stesso, da noi accennato all’inizio, di quando cioè nel 1891, scrivendo al Marcovigi a proposito del Veianius, si augurava, come poeta:

« possa io saziare gli occhi miei delle cose belle e significarne altrula (9. Egli si era realmente saziato, pur fra tante angustie e prove dolorose, del Bello; aveva coltivato, come ‘’ Poeta della Bontà‘,

ogni germe utile a rendere se stesso e tutti i suoi simili degni di quegli ideali, che illuminarono ogni giornata della sua troppo (54) La

citazione

è quella

della

n.

(1):

Biagini,

op.

cit., p.

169.

155

ray SSA 2ero vate ver

presto recisa esistenza;

aveva

largamente

percorso,

non

da puro

letterato o da angusto pedante, ogni campo del più indispensabile sapere; aveva pensato, meditato, vergato pagine di poesia

e di prosa che, anche soltanto a volerle considerare dal punto di vista numerico, risultano appena concepibili; aveva soprattutto nutrito una incrollabile fiducia nei destini della nostra gente e della società umana stessa; aveva largamente fatto fruttare i tesori della sua fantasia e del suo intelletto; era vissuto umile e schivo, ma con lo sguardo fisso in alto, verso le stelle, meritando anche per questo l'appellativo di « Poeta cosmico »;

aveva raccolto l'eredità del mondo classico per ridarcela in forme di canto nuove e moderne, senza eccessi o alterazioni; aveva ridato voce alla Grecia, a Roma, alla storia stessa non soltanto

italiana fino ad apparire il Vate non dell’Italia in cui ora viviamo, bensi addirittura dell'intera Europa civile. L'opera sua, anche quella di ispirazione greca, resta un monumento che il tempo renderà sempre più augusto, purché non manchino, anzi si infittiscano gli studiosi e i lettori; purché

non venga meno il consenso operante dei concittadini suoi, sempre cosi vigili custodi e garanti della fortuna di tutte le produzioni del loro poeta; purché continui a palpitare nel cuore di tutti gli Italiani la più amorosa devozione per colui che già fu salutato dal Carducci stesso (in una lettera del 1894) « greco » e « autore di versi greci finissimi », ma

antonomàsia,

anche

fu proclamato,

da altri per

« il Poeta dell’avvenire », del nostro avvenire.

Oggi pertanto tutti, ‘i ragazzi ed il popolo ‘’, soprattutto di San Mauro

(la sua piccola patria) sanno e sentono, con legittimo

orgoglio, al pari di noi, che il loro più eletto concittadino (ora composto con la Sorella nella piccola ma sacra tomba-casa di Castelvecchio), anche e soprattutto per l’opera specifica di poeta - cosi disse un giorno del 1906, il D'Annunzio, proprio di lui - vive in luce lucidior: « sempre più splendente nella luce ».

156

FELICE DEL BECCARO PASCOLI NARRATORE

Del Pascoli prosatore non si è parlato molto anche perché non è agevole raccogliere la sua produzione dichiaratamente in prosa, a parte quella riedita nel primo dei tre volumi delle Prose curato da Augusto Vicinelli per il « tutto Pascoli » programmato da Mondadori e poi rimasto fermo appunto alla terza edizione di quel primo volume che porta la data del 1956. Il curatore nel frattempo morì quando aveva già consegnato alla stampa il secondo volume e preparato il piano del terzo, quello che a noi interessa particolarmente e che avrebbe dovuto comprendere, fra l’altro, le novelle e le narrazioni autobiografiche generalmente di limitata stesura, raccolte in gran parte da Maria nella sua antologia scolastica intitolata Limpido Rivo (1912). La prosa pascoliana, d'altra parte, è debitrice in varia misura della poesia anche se di volta in volta ha una sua precisa destinazione : dalla sua opera critica e saggistica, prevalentemente dotta, a quella più aperta e didattica delle lezioni, oppure tendente all'abbandono o alla favola nel rievocare memorie familiari o persone del suo clan di parenti e amici. C'è infine una prosa di più limitata produzione che vuole essere, almeno intenzionalmente,

propriamente

vicende più o meno

narrativa,

suggerite da una

destinata cioè a ricostruire

realtà personalmente

del

tutto o in parte vissuta magari tramite cronache contemporanee

che il poeta seguiva sui giornali, lettore attento qual era e di naturale curiosità, anche perché amante, se non proprio della solitudine, di poca compagnia e di luoghi appartati e tranquilli

dove riceveva le visite di amici selezionati ai quali lo legava un affetto sincero peraltro non esente da ombre sia pure passeggere. E’ su questa narrativa apertamente dichiarata come tale, anche

152

se « sui generis », che intendiamo soffermarci citando a testimonianza altre prose che in qualche modo possano servire da conferma di certi comportamenti o predilezioni o gusti. Il Vicinelli, che ebbe modo, vivente Mariù, di indagare nel-

le carte di Castelvecchio, esordisce nella sua diligente, ampia premessa al primo volume delle Prose con una considerazione che chiunque può far propria : « Quanto più rileggo le sue prose, tanto più sento che il Pascoli è un poeta ». Che poi si parli di « realismo mistico » come fondamento di tale prosa o di « misticismo naturalistico », così come

tivo di individuare

diversi anni prima nel tenta-

« l’unità della poesia » ebbe ad esprimersi

Achille Pellizzari in un saggio pubblicato sulla « Rassegna », si tratta a nostro parere di problemi che esigerebbero un altro diSCOrso. Nella prosa propriamente narrativa, cioè destinata a ricostruire vicende più o meno aderenti ad una realtà vissuta o direttamente

conosciuta,

le caratteristiche

oscillano

tra uno

stile,

se così può dirsi, stretto a vecchi canoni (e qui naturalmente bisognerà distinguere a seconda del lettore a cui lo scrittore si rivolge, se a fanciulli oppure a adulti) e uno stile più corrente e cronachistico che richiama il giornalismo quotidiano di cui Pascoli, comprendendone l’importante funzione, faceva gran conto, come già abbiamo accennato. Ed è infatti da quest’ultima, quotidiana attenzione che muovono i pochi racconti destinati a riprendere, più o meno fedeli alla realtà, appunto episodi di cronaca. Ed è spesso da questo settore che la poesia del Pascoli più incline al narrare trae i propri motivi e i ritmi che ne rivelano la tensione lirica, sicché il nostro breve esame

potrebbe fa-

cilmente suggerirci - in quanto a valutazioni - di dover considerare una raccolta poetica come quella dei Poemetti e, di questi, segnatamente la vicenda georgica di Rosa e Rigo, come la miglior prova del Pascoli narratore. Del resto scrivendo al fedele Gar-

gàno il 12 dicembre

1895 il poeta annunciava

«il manoscritto

d'un volume di Poemetti » come quasi pronto per la stampa (ma la raccolta fu edita nel ’97), sottolineando : « Sono di genere più

elevato delle Myricae, ma sanno in qualche parte di loro : sono più raccontativi che lirici ».

I poemetti in Pascoli nascono da una lunga meditazione, non solo, ma tendono a mano a mano a raccogliersi in un co-

158

rs

strutto più ampio e regolare che trova la sua maggiore espressione nella vicenda d'amore di due contadini, appunto Rosa e Rigo. Tracce di poemetti si trovano a partire dalle carte pascoliane del 1887 mentre il primo risultato esemplare può ben datarsi - come ha fatto il Nava - con 11 giorno dei morti inserito nella terza edizione delle Myricae

(1894).

Un insieme di condizioni, di circostanze sia favorevoli che avverse, hanno condotto il sensibilissimo Pascoli a far sì che dal

continuo turbinìo di progetti programmati non senza la spinta di un certo entusiasmo nativo a contrasto con un pessimismo di fondo, più caratteriale forse che alimentato da dolorosi eventi,

taluni di questi progetti abbiano preso corpo, stimolati da pre-

dilezioni di gusto oltre che da convinzioni maturate da ricerche e da scambi di idee con l’amico a cui si confidava : Severino Ferrari. In una lettera dell'’8 maggio dell’87 c’è appunto questa idea dei Poemetti intesi come una sorta di capitoli di una precisa vicenda, idea per la cui attuazione aveva già scelto la protagonista principale con un nome preciso : Reginella. Ne fa fede Mariù che è certa di « riconoscerla nel poema agreste che si snoda nei due volumi dei Poemetti ». E ancora a Severino, verso la fine di quel medesimo anno ’87, può scrivere : « Avanti a me

sono allineati i poemetti che ho in animo di fare : sono pi, niente meno ».

15 grup-

Quest’idea si chiarisce di tempo in tempo e diventa vicen-

da del mondo agreste e dell’uomo che vi è destinato a trarne il frutto di un faticoso lavoro. Romagna e Barghigiano finiscono per confondersi in rapporto alle vicende del poeta. Al giovane amico e allievo Antony De Witt scrive in data 28 maggio 1899 che l’idea direttiva dei Poemetti è « presso a poco questa: c’è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita

semplice e familiare, e nella contemplazione

della natura, spe-

cialmente in campagna, c'è gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall’immutabile destino ». La vicenda dei protagonisti di quella che è stata definita la Georgica pascoliana (a Vittorio Cian, il 27 settembre 1900, aveva scritto da Castelvecchio che le Georgiche erano « il [suo] poema prediletto ») si inquadra, soprattutto dopo la spartizione in Pri. mi e Nuovi Poemetti, nel Barghigiano. Questa sorta di osmosi

come determinata da un sogno consolatore è affidata alla prima 159

edizione del ’97, a quella prefazione dedicatoria destinata a Maria, una prosa pascoliana per eccellenza, sospesa fra sogno e realtà, in cui si parla di serenità che dovrebbe riallacciarsi o meglio confondersi con quella dell’infanzia, prima dei drammi, e in sostanza se ne avverte l'instabilità, come nelle vicende georgiche di Rosa e Rigo la felicità, di pari passo con la vita della natura campestre,

è sempre

in balìa di un misterioso

destino.

e iu ni a

Questa condizione precaria si riversa anche nella narrativa (se così può dirsi) del Pascoli, nata proprio in quegli anni di laboriosa attività. Ci limitiamo a tre novelle : 11 ceppo e La cunella e Pin scritte per i fanciulli.

destinata agli adulti

La prima, Il ceppo, fu pubblicata ne «La Vita italiana » (Roma) del 1° gennaio 1897; poi, col titolo Notte di Natale, nella

« Gazzetta dell'Emilia » di Bologna del 25 dicembre 1907 e nella « Gazzetta del Popolo » di Torino del 25 dicembre 1910. La vicenda è ambientata a Castelvecchio e verte su di un episodio di « cronaca nera » che contrasta deliberatamente col simbolismo di pace e di amore della notte di Natale. I personaggi

centrali

sono

tre:

un

« signore » e una « si-

gnora », giovani sposi, che hanno trascorso l'estate su quei monti. La signora è incinta per cui, data l'eccezionale clemenza della stagione, la coppia ha deciso di prolungare la vacanza fino a Natale. La loro giovane domestica, Marietta, è pure incinta ma non essendo sposata nasconde la sua condizione che risulta, per quei tempi, un reato morale incancellabile. Mentre i signori » sono alla Messa di Mezzanotte, Marietta dà alla luce un bambino proprio allo scoccare dell’ora tradizionale che rievoca la nascita del Bambino Gesù. Terrorizzata dal timore di essere scoperta, Marietta va a seppellire il suo nato (la sua « colpa ») lontano presso un torrente. Tornata in fretta a casa ha la visione-allucinazione della Madonna che sta riscaldando il suo bambino ignudo al ceppo che arde nel camino. Presa dal rimorso esce di nuovo alla ricerca del suo piccolo. Intanto i « signori » tornano dalla Messa, non vedono

Nel rattempo mino

semicoperta

160

una povera

la Marietta

la servetta e danno l’allarme ai vicini.

vecchia aveva

col bambino

morto

trovato

stretto

lungo il cam-

al petto,

dalla neve. La novella ha una conclusione

svenuta,

rapida,

simile ad una notizia di « cronaca nera ». Sono passati due mesi : siamo al processo di Maria Soldani che si presenta dinanzi ai giudici inebetita, persuasa di cullare tra le braccia il suo bambino. La battuta finale è affidata ad una suora che si immagina assistente nell'ospedale dove Marietta è stata piantonata : « Dio, - dice suor Anna - voi siete buono : fatela morire! povera madre che ha dovuto uccidere la sua creatura! ». In questa conclusione affidata alla voce di una suora e con la sottolineatura ha dovuto è più che evidente la morale della novella cui fa riscontro un'epoca di discussioni sui figli illegittimi : la colpa è della buona società che condanna senza rendersi conto, ligia al suo costume di rigido perbenismo.

La morte di un bambino e in particolare di un neonato è motivo piuttosto frequente nell’opera poetica pascoliana. Nella sezione delle Myricae intitolata Creature una delle cinque poesie che la compongono è appunto Ceppo che presenta alcuni tratti della tematica della novella, come la leggenda della Madonna che, nella notte di Natale, va in giro per le case per riscadare al fuoco del tradizionale ceppo il suo Bambino ignudo. Ma in questo caso è la madre che muore. Tale poesia venne pubblicata anche nel 1908 in una Strenna Natalizia napoletana. Sempre nelle Myricae il tema della morte dei piccoli, corrispondente in effetti ad una triste realtà dei tempi, ricorre più volte, ad esempio ne Il morticino, in Morto, in Abbandonato, in Sogno d'ombra. A proposito di Abbandonato è anche da notare che ci fu un precedente, La morte d'un abbandonato, di cui informa Mariù nella biografia del fratello, ricordando che fu lei stessa a trascrivere tale poesia sotto dettatura di Giovanni, « una poesia - sono parole di Mariù -

scorrevole e popolaresca ». Analogo motivo troviamo in varie : nei tenui versi di Mamma e bimba, immaginario quio di una madre con la sua bambina morta. Infine la del bambino di Rosa nella sezione La vendemmia della

Poesie collomorte « geor-

gica » compresa nei Nuovi Poemetti. Il tema del bambino morto lo ritroviamo anche in una lettera del poeta del 26 agosto 1895 diretta alla moglie dell'amico Pio Squadrani per la perdita, la seconda, di un figlio.

Un'importante Zaccaria

nella

edizione

rivista

della novella ha curato

«il lettore

Giuseppe

di provincia » (Ravenna),

nn.

161

29-30 del luglio/settembre 1977, pp. 5-15, compresa la premessa: Scheda per il Pascoli narratore, pp. 5-9. Lo Zaccaria ha riprodotto la prima redazione della novella indicando in nota le varianti delle ristampe. Le osservazioni stilistiche e sintattiche sono quelle di più acuto impegno, come pure l’attenzione alle « corrispondenze significanti ». Né è possibile lasciarsi ingannare da un andamento realistico della novella che ci allontanerebbe dal Pascoli. Bene a ragione lo Zaccaria si sofferma sulla « tipica struttura a isole irrelate, che rimandano,

superati

i moduli

di una

descrizione realistica e naturalistica, ad una prevalente organizzazione simbolica del discorso ». Il ceppo testimonia di quel periodo immediatamente successivo alle nozze di Ida quando, dopo il « dramma » della famiglia di nuovo frantumata per colpa della sorella « egoista », Giovanni e Maria rinsaldarono più che mai il loro impegno di non tradire quell’ultimo nucleo simbolico di un'unità ideale

scossa dai duri colpi del destino. Castelvecchio, che una sorte finalmente benigna aveva destinato a medicare le loro ferite, rappresentò subito una forse insperata via di salvezza. Si pensi alla premessa dei Poemetti (prima ed. del 1897) con quell’avvìo stupito tra sogno e realtà: « Maria, dolce sorella, c'è stato un tempo che non eravamo qui? che io non vedevo, al levarmi, la Pania e il Monte Forato? che tu non udivi, la notte, il fruscìo incessante del Rio dell'Orso? »...

Si è già compiuta una vera e propria osmosi fra l’ambiente romagnolo e quello barghigiano, ma intendiamoci : l’ambiente romagnolo dell'infanzia, della loro vita felice e spensierata. L'inizio

del Ceppo

si abbandona

infatti, con

un

dialogo

tranquillo,

a

questa ritrovata serenità : il « signore » e la « signora » conversano pacatamente preparandosi a uscire per la Messa di Mezza-

notte e citano luoghi e persone della nuova dimora dove appunto i due Pascoli avevano trovato da medicare le loro ferite. Echi di nuovi impegni, di nuovi entusiasmi affiorano dal testo che già registra modi locali piuttosto che tracce di un vero e proprio vocabolario vernacolo. Il Pascoli doveva pertanto aver già iniziato la sua raccolta, non certo metodologica, senza alcun ordine, della parlata e delle canzoncine popolari del Barghigiano (si notino le ninne-nanne a contrasto del finale duramente cronisti-

162

co de I! ceppo). E si è visto come

da un'apertura decisamente

idillica si passi per gradi (l’impazienza di Marietta) alla tragedia che conclude la novella con quel gelido, burocratico atto di sentenza. Bisogna quindi andar cauti ad assegnare un posto importante al realismo e peggio ancora al verismo nei riguardi di questi racconti dove la soluzione lirica è quella che conta. Ne 11 ceppo, a parte i tenui testi delle ninne-nanne, il lirismo sostiene soprattutto le descrizioni del paesaggio notturno e le « visioni ». Questi aspetti più facilmente appariscenti ci richiamano alla produzione teatrale pascoliana avversa a quel teatro verista che fu di quel medesimo tempo. In effetti Pascoli ebbe in progetto un teatro lirico orientato verso il simbolismo mediante il quale lo stesso testo avrebbe dovuto misurarsi e magari avere la meglio sulla musica. Da qui la liricizzazione dei testi ch’egli compose perché fossero musicati.

Ora i due racconti La cunella e Pin prospettano la poesia intesa nelle sue regole visuali come quella di tener sù il racconto che si sostiene su di una trama

verista, di semplice cronaca.

Diversa è dunque la vicenda de La cunella destinata ai piccoli lettori del « Giornalino della Domenica » ideato e diretto a Firenze da Vamba (Luigi Bertelli), dove il racconto venne pubblicato il 2 dicembre 1906 con la produzione di tre acquarelli dipinti per l'occasione da Plinio Nomellini.

Mariù definisce La cunella « una novellina ispirata dagli usi di queste montagne », cioè delle montagne del Barghigiano. E' una storia di miseria di cui sono protagoniste « due donne di monte,

una

sposa

due : la giovane

giovane,

una

vedova

è incinta, prossima

vecchia ». Povere

a partorire.

tutte

e

Si incontrano

di solito alla medesima fonte. Un giorno la giovane annuncia alla vecchia che presto darà alla luce un figlio e le chiede se ha

ancora quella cunella di faggio che conservava forse per ricordo della sua lontana maternità. La vecchia annuisce e la giovane le chiede se è disposta a vendergliela. Così viene fatto : discutono il prezzo e si accordano per un pagamento a scadenza. Ma il tempo passa e il debito non viene pagato : il marito della giovane che era andato a ritirare la cunella non tiene fede all'intesa. E

allora un giorno la vecchia decide di andare a chiedere quel poco 163

denaro. Ahimè : il bambino era morto! Alla richiesta della vecchia che non sapeva niente, la giovane fece un balzo addietro, buttò all’aria panni e cenci, paglioncello e guancialetto, e spinse con un gran picchio, in mezzo

alla stanza, la cunella vuota.

E urlava : « Prendila, strega, la tua cunella che fa morire i poveri bimbi! ».

Dal dramma nasce d’un tratto la comprensione reciproca che caccia via dalla giovane l’atavico dubbio del maleficio. Le due donne, piangendo, si abbracciano e si baciano, si scusano a vicenda. La giovane vorrebbe restituire la cunella, ma la vec-

chia si oppone : « No, no : tenetela voi, per memoria...

di lui ».

La madre singhiozzò disperatamente. E l’altra l’accarezzd, l’abbracciò, la baciò, le asciugò gli occhi col suo pannello, le disse tante paroline buone, la ninnò, la consolò. E verso sera tornò a casa a mangiar la polenta senza sale ». Mariù conclude il suo breve commento : « E’ sempre il dolore che ci rende umani; il dolore che non manca mai né ai giovani né ai vecchi ». In effetti la novellina, che riporta, nella rivelazione

finale

(la morte prematura del bambino), con più preciso richiamo, all’analoga vicenda del canto secondo de La vendemmia, già citata, sottintende una sua evidente riflessione sociale sulle condizioni della gente di quelle montagne di cui il poeta ebbe più volte occasione di occuparsi.

Da notare che La cunella contiene un notevole inserimento di vocaboli e modi della parlata barghigiana a testimonianza di una conoscenza

molto più profonda dei luoghi, della lingua, de-

gli usi e dei costumi. Da notare pure un prevalente narrare « a lasse » e le inserzioni di cinque componimenti in versi nelle sei parti in cui si divide il racconto. Uniti al manoscritto che si conserva a Castelvecchio figurano abbozzi di ninne-nanne riferite alle stagioni e sicuramente di origine popolare.

La terza novella, pure dedicata ai piccoli, si distingue dalle precedenti per varie ragioni, come vedremo. Si intitola Pin e fu pubblicata pure nel « Giornalino della Domenica » del 15 marzo 1908. Stando alle informazioni di Mariù venne elaborata tra il 1906 e il 1908. Giovanni —

164

è sempre Mariù a darne notizia —

in

quel tempo aveva in mente di scrivere un Libro uccellino (cfr. Le tre « canzoni uccelline » nate in quegli anni che figurano in testa alla seconda ed. dei Canti di Castelvecchio) destinato ai ragazzi con annesso un Calendario floreale, certamente strumenti tici.

didat-

Ideata e scritta a Bologna, la novella ha per protagonista Pin, diminutivo familiare di un bambino, di cui si conosce l’ana-

grafe : Giuseppe Scarpis, che abitava nello stesso caseggiato del Pascoli in Bologna, all’Osservanza, e che, adulto, diventato ingegnere, si stabilì ad Ancona. Ragazzo vivace che doveva aver conquistato le simpatie del poeta, Pin è rappresentato solo in casa, un giorno d'inverno, con la vecchia fantesca a mezzo servizio. Il ragazzo sta ripassando la lezione ma continuamente si distrae: è pieno di vita e non riesce a concentrarsi perché fuori nevica e

perciò interrompe continuamente lo studio per aprire la finestra che dà su di un terrazzino. La povera donna lo supplica di non aprire altrimenti la casa si raffredderà ancor più. Ma Pin getta briciole ai passeri e la vecchia gli chiede: — E perché non ai topi? E ai bambini poveri? — E ricorda di aver veduto quella mattina un povero figliolo che chiedeva l'elemosina mentre fioccava la neve. Allora Pin va in camera e torna « con due o tre soldarelli » che consegna alla vecchia per quel bambino povero. La scena è intervallata dalla ripetizione della poesia che Pin sta imparando a memoria. Ma eccoti un compagno ad annunciargli che non ci sarà lezione per via della neve. I ragazzi fanno progetti di giuoco, all'aperto, sulla neve. La vecchia fantesca contrappone all’allegria spensierata dei fanciulli l'immagine di una povera vedova madre di quattro bambini che è stata sepolta la

sera prima. Pin ne è colpito: va nella camera della mamma a prendere del denaro che dà alla vecchia per quei poveri orfani : « E’ poco... E' poco » —

esclama. Ma anche noi, dice la mamma,

non si può dar di più... ». Curiosa connotazione di una borghesia modesta che faceva i conti con prudenza (il padre di Pin era un medico condotto) e che trasposta in narrativa richiama, seppure con un più studiato abbandono sentimentale, i toni dell'umani-

tarismo languido del Cuore deamicisiano. Poi il ragazzo scende in cortile con il compagno che è venuto a dargli la notizia della vacanza imprevista. I due si uniscono ad altri coetanei e giuocano con la neve mentre la gente passa frettolosa e tra questa

165

e—_-

— -_— —-__ —

enzo

i poveri, soprattutto

i bambini.

La sera, stanco,

Pin si addor-

menta presto. Sogna che è d’aprile, che tutto intorno è uno sbocciare allegro di fiori. Confonde forse le stelline della neve? E sogna ancora strane avventure : un viaggio con negri che gli aprono la strada... (erano uomini che spalavano la neve sui tetti). Pin sta in bilico tra il sogno e la realtà finché si sente chiamare. Da chi? Sono bambini poveri che battono ai vetri della sua finestra. E qui il Pascoli colloca uno dei due inserti poetici che ha destinato alla novella. Finché Pin si desta : erano passeri e non bambini che picchiavano ai vetri. Dà loro da mangiare. La vecchia fantesca è ancora lì, per casa, che spazza. Pin torna a ripetere la lezione che il giorno prima non era riuscito ad imparare. Ora la sa alla perfezione. La poesia prima tanto difficile ora gli appare di una chiarezza lampante ed è Mariù a spiegarne il perché : « I troppi disagi, talvolta, fanno diventare acri e dispettosi [e qui si riferisce alla vecchia serva brontolona]. Ma i giovinetti

non si trovano mai in quelle condizioni. Ad essi sorride la vita. Devono essere buoni e pietosi con tutti : coi loro simili e sì, anche con gli animaletti. Al cielo non basta una stella, a maggio non basta un fiore [è il titolo della seconda poesia inserita nella novellina], all'uomo non può bastare una buona azione ». L'ambiente

non

richiede,

in questo

caso,

l’attenzione

e la

curiosità della scoperta. E' un ambiente consueto all’autore, al quale preme soprattutto la funzione che il personaggio centrale deve avere ai fini morali senza incorrere in uno scoperto pedantismo. La prima parte della novellina è infatti ritmata dal noioso apprendimento mnemonico del fanciullo e la dura realtà richiamata dagli interventi della vecchia serva. E’ la realtà che la vince sul costume perbene della buona borghesia. Anche

qui, come

ne La cunella,

inserzioni

di versi più o

meno ad arte. Ciò che non avviene ne I! ceppo il che potrebbe far pensare ad una distinzione tra la produzione per i fanciulli e quella per gli adulti. Ma non si tratta di una regola. Il Pascoli narratore o prosatore che dir si voglia annuncia piuttosto l’avvicinarsi di una stagione della prosa che ha lasciato una traccia non lieve nella nostra storia letteraria. L'inserzione di versi nelle prose pascoliane è documentata più volte a principiare dalla

singolare testimonianza Nelle nozze di Ida (1895) che comporta due poesie; così pure ne 11 fanciullino (1897-1903), e ancora nella

166

prosa Casa mia (1908), nella quale l’inserzione èx costituita da versi tradotti da una satira di Orazio, e ne Il tesoro (1908), altra celebrazione della casa-rifugio di Castelvecchio che ha inizio con una poesia e comporta pure inserzioni di versi, e infine la prosa Messina (1909) a ricordo del terremoto dell’anno precedente, prosa che comprende un dialoghetto di sei versi in dialetto messinese. A proposito del Pascoli narratore, Mariù fa menzione, nella citata biografia, di uno scritto probabilmente del 1881, quindi

anteriore alla laurea, e pubblicato con lo pseudonimo di Dioneo, scritto intitolato Un grillo di gioventù che la stessa Mariù definisce « novella » o « bozzetto sociale ». Si ha pure notizia di tre romanzi programmati e mai realizzati dal Pascoli, salvo uno, ste-

so soltanto in parte. Uno di questi progettati romanzi fu annunciato sulla copertina dei Poemetti, prima ed. (Firenze, Paggi, 1897), col titolo : L'ultimo sacerdote di Apollo. Gli altri due destinati ai bambini : uno, forse intitolato La Befana, di cui il poeta

scrisse a Ugo Brilli il 13 settembre 1897. Ne dà notizia Mariù nella citata biografia, dove annota (pp. 549 e 572): « Via via si immergeva con passione nel suo romanzetto per bimbi dal quale sperava molto profitto finanziario ». La stessa Mariù (ivi, p. 572) accenna

al terzo

romanzo

o racconto

pure

rimasto

in progetto

che avrebbe dovuto esser destinato ai bambini, col titolo 11 piccolo Don Chisciotte.

Concludendo, non crediamo che la prosa narrativa del Pascoli potesse andare oltre il limite di quei suggerimenti occasionali pubblici o privati che ne determinavano

la tensione, ma

neppure ce la sentiremmo di sottoscrivere le severe osservazioni di critici quali Renato Serra ed Emilio Cecchi, lasciando natural-

mente da parte il Croce con la sua definizione di prosa « riboccante d’intenzioni sottolineate » e pertanto non priva di suggestione. Ma

Serra, che pure

ammirava

il conterraneo

in quanto

poeta « nuovo », mostra di lasciare da parte questo aspetto del Pascoli, mentre il caso di Cecchi risulta più articolato nel tempo :

partito con deliberati intenti di pugnace severità dichiara : « La sua prosa, che tutti conoscono,

è una caricatura

della sua poesia,

167

.

PER sii

e come questa, è poco lineare e si perverte in mille complicazioni, è fatta d’un andirivieni di parole, rette da una sintassi convulsa e contraddittoria », ma si tenga ben conto che questa sua attenzione va soprattutto al Pascoli dantista, per poi affermare — sempre a proposito della prosa —, che « le sue idee più chiare e meglio fissate (in questo senso, il volume dei Pensieri di varia umanità si può dire il vademecum della prosa pascoliana) son restate senza propaggini, afone; cristallizzate nelle formule eccessive nelle quali per la prima volta il Pascoli le fermò ». Critiche che non accennano neppure al raccolto settore narrativo propriamente detto. Comunque tali affermazioni non impedirono al Cecchi, che fu tra i critici più acuti e di buon gusto del nostro

tempo,

di collocare il Pascoli, in quello stesso ben noto

saggio del 1911, tra le « figure dei precursori », per poi, in anni a noi più vicini, arrivare a comprenderlo sempre più a fondo, contribuendo in tal modo a collocarlo con maggiore stabilità nella storia letteraria dell’Otto-Novecento. Quell’ansia di produrre che assillava di continuo il poeta anche per ragioni economiche, talvolta fin troppo dichiarate,

non di rado assumeva con cupo fatalismo l’aspetto di un disperato destino. Nell'archivio

di Castelvecchio

(cartella

140) tra le

carte che vanno sotto il titolo « Pensieri e sentimenti » è un foglietto di taccuino nel quale si leggono, di mano del poeta, queste quattro brevi righe inedite : « Volete sapere chi son io? / Uno inquieto della vita, / che ha fretta, che ha paura

/ di non fare

in tempo ». Quell’ansia di produrre, dicevamo, non conosceva limiti : la fantasia era il solo dono capace di sollevare il poeta dal pessimismo di fondo in cui la natura e gli eventi tendevano a confinarlo.

168

APPENDICE

RERCEP

ED

I —

Dunque,

siamo

intesi:

zanotte. Andiamo alla messa — E bada che il ceppo

serra l’uscio e aspettaci sino dopo a meza San Nicolò. Torneremo al tocco passato. bruci. A mezzanotte la Madonna va in giro

col bambino ignudo, poverino, per riscaldarlo. bito per prima casa, e se non trova fuoco... —

L'uscio,

serralo : è paese

di buona

gente,

Potrebbe ma

non

capitar

qui su-

si sa mai. Può

ronzare qualche fuoruscito. — Aspettaci, e scaldati te intanto che vien la Madonna. — Puoi rigovernare, se credi. O dì più tosto il rosario. Questa è la notte che la Madonna fa tutte le grazie. — Noi andiamo prima dai Mere. A proposito! portami la bottiglia del rhum. Si fa il ponce questa sera a quei buoni contadini. — Senti: Mere è già sul campanile, che suona il primo doppio. — Saranno le dieci. — Dunque siamo intesi. — Aria di neve. Guarda quella nuvola nera sopra Treppignana. — Però su Barga è un fitto di stelle. — Aspetta e vedrai. Sei ben coperta? — Oh! sì. — Andiamo dunque. — Dunque... — Che il ceppo bruci, mi raccomando. — Dì il rosario. — Addio! —

Al tocco,

— —

Serra l’uscio. Andiamo.

ricordati.

Così per un pezzo erano stati avanti l’uscio aperto il signore e la signora. Marietta, la serva, si riparava dietro l’imposta e pareva sempre lì li per chiuderla; ma una parola ora di lui ora di lei la fermava prima ancora che avesse fatto il gesto. Era impaziente Marietta, ma non si voleva fare scorgere. Tanto che ritirò la mano e aspettò, nel mezzo del vano, prendendosi le folate che venivano a quando a quando e sollevavano uno strepito di carta tra le foglie secche dei castagni. Allora, quando la videro così, rassegnata ad aspettare ancora un pezzo, parve che cercassero, senza trovarla, qualche altra raccomandazione da fare: poi, come confusi di non trovar niente, se ne andarono a braccetto, stringendosi con un brivido improvviso che risonò lietamente tra lo scampanìo.

169

ne

sr =

ge are 2

a

« Questa è la notte sacra. Il grano comincia ad accestire da questa notte. Fino ad ora la pianticella è stata pipita verde e tenera, senza. coscienza dell’esser suo. Il chicco di grano mise già due o tre radichette dentro la terra, e spremé da sé un filo, una venina pallida, un germoglio, donde alla luce si è scartocciata una e poi due e poi più foglioline. La pianta è, ma non sa nulla. Questa notte comincia a sapere. E come? Il dolore rivela lei a lei, un dolore acuto e dolce, non più che un solletico, che, dai e dai, pare la scalfittura d’un dente piccolo piccolo, fine fine; di un' unghia, ma sottile, che non vorrebbe far male. Ma sì! Le radichette cominciano a indebolirsi, e la pianticella, tanto delicata, soffre per quel solletico intimo... doventa pallida, languida, stenta. In tanto dal colletto, ossia dal nodo delle foglie, scendono e si approfondano altre fibre, ma piano piano. La pianticella ha bisogno di riposo, ed ecco un bel lenzuolo candidissimo. Dormi nel calduccio sotto il bel lenzuolo di neve! Aspetta la buona stagione per tallire e granire! L’avresti immaginato, Ines, che quel campo lì, al lume delle stelle, è pieno di gemiti bisbigliati appena...? Esseri che si accorgono di essere e mettono un sospiro, non si sa se di gioia o di dolore. E’ la notte materna, questa. Questa notte, chi sa che qualcuno non senta dire da una voce di sogno... Si. — Come sì? Che cosa sì? — E’ vero. — E’ vero? — Sì, quello che sai. — Benedetto! — Dolore è vita, amato mio, e io vivo. — Chi sa, che tu non mi parli così? Ines? ». Ines non rispondeva, ma sorrideva tutta. Ora andavano lungo il rio dell'Orso, che gorgogliava laggiù in fondo. Lo scampanìo era cessato. Veniva a lunghi tratti qualche folata che portava altri scampanìi, da Gallicano, da S. Piero in Campo, da Treppignana. Cessavano a mano a mano anche quelli. Ma si sentivano voci, calpestìi, rumori d’usci che si aprivano e chiudevano. C'era lume in ogni casolare e ogni camino fumava lentamente. A un tratto si aprì una porta nel buio, poco avanti loro, e ne uscì un fascio di luce rossa e un tumulto di voci. Erano arrivati alla casa di Mere.

be tene —.

II Marietta in tanto... Essa avrebbe dato dieci anni della sua vita per ogni minuto di più che dovette star ferma all’uscio. Non fece per tutto quel tempo (quanto? a lei parve un'eternità) che cominciare tra sé l’avemaria senza terminarla mai, pregando, pregando che facessero presto. Non rispose mai una parola. Essi non si accorgevano di nulla. Avevano altro a pensare essi! Erano sottosopra dalla gioia, essi, per un principio di scoperta che avevano fatto in quei giorni, per un principio di speranza dopo quasi due anni di matrimonio... Per questo appunto, con questa speranza, erano venuti a villeggiare in montagna, l’estate scorsa; e non s’erano ancora

ranza,

mossi, perché

erano

venuti

c’era bello, ed esso

a villeggiare

era

in montagna,

uno

scrittore,

l’estate

erano ancora mossi, perché c’era bello, ed esso era uno

scorsa;

un

poeta.

e non

si

scrittore, un poeta.

Avevano preso al servizio sei mesi prima quella ragazza. Una buona ragazza, una lombarda o che so io. Buona, rispettosa, silenziosa. Pareva malata però. E lei, la signora, se n’era accorta, ma di medici Marietta

170

» pe

bi) Le. 4 4

v

n .ì

non ne voleva sapere. Non era nulla. Ma quella notte pativa proprio; l'avrebbe visto un cieco. Ma quella notte i suoi padroni non videro nulla. Avevano altro a pensare. E Marietta stette ancora all’uscio finché udì i loro passi.

Un'altra eternità stette tra le folate che venivano mugliando da quei monti bianchissimi, che sopravanzavano quegli altri neri neri: dai suoi monti. E anche dopo che non udì più quei passi, chiuse l’uscio, ma piano piano, senza

fretta. E stette, lì dietro, un altro poco, e si mordeva il labbro di sotto, che appena si sarebbe veduto, ma se lo mordeva forte, da far sangue. E poi... E poi tutte le sue membra misero un urlo disperato di spasimo. E non se ne udì niente: solo lo sgretolio dei denti e lo scricchiolìo delle ossa. Le pupille sparirono tutte e due e dentro le occhiaie larghe comparve un biancore cieco : la bocca si aprì spalancata e il petto ansimando ne spingeva fuori degli oh! oh! senza voce, involti in sospiri. Su su, tenendosi alla ringhiera della scala con la sinistra e arrovesciandovisi sopra sino a stringere coi denti la bracciaiola, andò nello sgabuzzino dove era la sua branda. Non aveva pensato al lume. Era al buio. E sola, sola, sola, come una bestia. Ma diceva sempre, con un mugolìo incessante

(oh!

no,

non

era

una

bestia),

diceva

sempre:

mamma!

mam-

ma! Sì? se mamma sapesse! Non importa : essa la chiamava, ma piano che nessuno sentisse. Infine da quel groppo di sospiri soffocati (piano! che nessuno senta!) eruppe un grido acutissimo, altissimo... Uno solo, seguito da gemiti, da pianti, da parole ancora — Mamma! mamma! — e anche da un...? una vocina fioca, un qualcosa di nuovo e di meraviglioso...? In quel mentre venne con una ventata un suono di campane. Era il doppio del mattutino.

III Dopo una mezz'ora tutto al più si aprì l’uscio della casa. Stette un poco accostato; ne usciva un filo di luce. Maria di lì dietro spiava. Si fece coraggio, aprì del tutto e riaccostò subito. Era fuori, immobile al buio.

Le nuvole

empivano il cielo sopra la a non muovere un ramo, Presto sentì il brontolìo dell’acqua. Si gni. Le fronde, che per le acque dei

Garfagnana. Scese la costa verso il a non fare scricchiolare una foglia. trovava tra grossi tronchi di castagiorni passati non avevano potuto

spazzare

Sdrucciolò

rio, badando

ancora,

coprivano

la terra.

due

o

tre

volte,

ma

si

reggeva ai castagni. Si fermò. Nell’acqua? che lo porti via? lo sbatta qua e là? oh! no. Ma come fare? non aveva il marrello. Non importa. Si chinò, spazzò le foglie, poi con furore si mise a raspare in terra e fece una buca. Vi depose qualche cosa (qualche cosa!) e poi vi rimise su la terra, la calcò,

poi vi sparse su le fronde. Sempre al buio. Il rio mugliava lì sotto. Il cielo era tutto nero. Ne venivano giù puntine gelate che foravano. La donna si levò su, a stento,

tenendosi

a un

ramo

che si spezzò.

Ricadde

in ginoc-

chio su quel posto e le foglie crosciarono. Ricadde in ginocchio, ma si rizzò puntellandosi con tutte e due le mani, su quella terra e su quelle

171

EI e

E DE pt

foglie. Pareva una bestia in quelle tenebre. Fu in piedi e risalì la costa. E’ avanti l’uscio; spinge ed entra. Oh!... Nessuno ha veduto. Che ore saranno? Sia già sonato il dopppio del Tedeum? Sia già uscita la messa? Siano già di ritorno i padroni? Non c’è tempo da perdere. Un po’ di coraggio e tutto sarà all’ordine. Essa infatti mette in ordine tutto. Sta un pezzo di sopra, poi ridiscende, disfatta, bianca come un cencio lavato, battendo i denti. Entra in cucina. Ah! il ceppo. Brucia, sì. Appena entra, da un nocco esce improvvisamente un po’ di fiamma turchina, poi rossa. Poi si fa la brace e pare un occhio. E’ un bel ceppo di quercia che brucia senza rumore e fa molto caldo. Essa si mette a sedere e si sente rinascere a quel calorino. Ma ha sete. Si leva e va a bere. Poi si rimette a sedere. Ha sete ancora, beve ancora. Si sente réòsa dentro, nelle viscere, come quel ceppo da una fiamma che arde senza rumore. Guarda il ceppo con occhi incantati. Ecco: suona un doppio. Il ceppo si mette a brontolare e sfrigolare. Ora essa è impaziente. Sarà almeno la gloria? Quanto tempo ci sarà ancora perché ritornino? Ha bisogno di essere sola, a letto. Si sente pungere e straziare da tutte le parti. Non ne può più. Sono essi? No : è il vento. Eccoli: si sentono discorrere. No : è il ceppo che brontola. Un altro doppio. Ora ci sarà più poco. Venite, venite! E poi si vorranno scaldare, far due chiacchiere, domandare, raccontare. Che punto sarà della messa? sarà nato...? Oh! spingono l’uscio. Non aveva chiuso, dunque? leggermente leggermente. Essa guarda e non si muove. entra? nudo,

L’uscio è spinto Entra... Dio! Chi

La Madonnina, con un poco di fretta. Ha il suo bambino in collo, nudo, morello dal freddo. La Madonnina si accosta al fuoco, al

vecchio ceppo che si apre e si fende per far più caldo. Essa non vede la donna seduta lì presso. Essa prende il bambino nudo sotto le braccine, e lo avvicina al calore e lo prilla, così, piano piano, con tanta grazia. Un urlo... la Madonna è sparita... — Ah! io non l'ho più! l’avevo anch'io il mio bimbettino! Lo potevo scaldare a questo fuoco! Poverino! L’ho buttato via! Non l’ho voluto! L'ho messo sotto terra! E’ venuto, e io non l’ho voluto! Aveva freddo e io l'ho seppellito! piangeva e io l’ho soffocato! invece di mettermelo al petto, vicino a questo fuoco! per lui, niente fuoco, niente caldo, niente letto! là, fuori, via, al fiume, alla neve, che se lo mangino i topi e le volpi! o mia creaturina! mia! mia! mamma tua è stata cattiva! ma non capiva nulla! ti vuole, ti vuole! ti vuol tanto bene! ti vuol dare il suo latte, scaldarti al suo petto, darti tanti baci, tenerti sempre con lei, vicino vicino! poverino, adesso vengo; credevi che non ti volessi? vengo, vengo!

IV Ed esce spingendo con un urtone la porta e via piangendo ed urlando per la costa. E le campane sonavano : Sanctus, Sanctus. E la neve veniva giù fitta fitta, come fuliggine bianca. Il rio dell'Orso mugliava, e tra il suo mugliare si sentiva un singhiozare continuo e un crosciare di

172

foglie. Era la mamma che cercava la sua creatura. Gli alberi eran tutti eguali. Era un buio da soffocare. — Dove l’ho messo; dunque? Bisogna far presto. Chi sa? E’ forse ancora vivo? Dov'è dunque, Dio...? un po’ di lume, Dio! fammelo trovare il posto. Subito, subito. — Poi il singhiozzo si fece più tremendo, più feroce, poi si ruppe in un grido, e poi cessò.

I due sposi di lì a non molto trovarono la porta aperta. E Marietta? o Marietta! dove è andata ora? Che grillo le è saltato? L’uscio spalancato... Sarà qui presso. Marietta! Marietta! Essi avevano freddo, richiusero l’uscio, si accostarono della cucina. Il ceppo bruciava silenziosamente. Ines si levava l'una dopo l’altra avvicinava le sue mani al fuoco, voltandole dole. Il marito la guardava seduto su quella seggiola... — Sai la Madonna? E il bambino dove l’hai messo?

Ella sorrise senza volgersi. Egli si alzò e venne morarle qualche cosa all’orecchio...

al camino

i guanti e e rivoltanche sembri

a baciarla ed a mor-

La mattina dopo, tutto era d’un bianco d’innocenza. Gli angeli avevano steso una grande tovaglia d’altare sui monti. La gente s’era levata tardi, e ora guardavano dagli usci dei casolari il brulichìo candido che non cessava. E si ripeteva d’uscio a uscio, da poggio a poggio, una notizia. La Chioda, la povera vecchia che va con le gruccie, veniva a far ceppo dal suo figliuolo. Nella selva aveva visto un mucchio di neve, che da lontano pareva una donna sotto un lenzuolo. Si era accostata, e con una gruccia tastando tra la neve aveva veduto l’orlo d’una gonnella. Aveva gridato; era venuto Mere. Era la Marietta di quei forestieri. — Morta. — Aspettate. La levano di lì : nel posto dove essa aveva la faccia e il petto, c'era una buca; nella buca... una creatura, appena nata, morta. Era la sua... La sua? che mi raccontate? — Capite! l’aveva fatta e seppellita; poi l’era andata

a



scavare

No...



e — Infelice,

E

lei era lei non

morta? era

morta.

V

Due

mesi

dopo.



E, dite, Maria Soldani: come vi diede il cuore di mettere la mano. su quel piccolo collo... Perché, la metteste, non è vero? La vostra creatura era nata viva e vitale, non è vero? Rispondete : il bimbo era...

Marietta che dal principio dell’interrogatorio era stata a sentire con una specie d’impazienza repressa, di curiosità dissimulata, fissando gli occhi, a quando a quando, sul giudice, poi abbassandoli subito, con un sospiro, senza rispondere mai, a quelle parole si scosse. E pianse, e pianse, e pianse. Era un bimbo dunque! non aveva avuto tempo nemmeno di guardare se la sua creatura era un bimbo o una bimba! E questi signori vogliono sapere e vogliono parlare! Oh! anch'essa ora la sa. Era un bimbo. Gli ha messo il nome: prima non poteva. Si chiama Cecchino. Siccome nel carcere non c’è il fuoco, non c’è il ceppo di quercia, per riscaldarlo,

173

Pa

Salisialaccovacehiiatintun angolo on Je CSR

bene alz e, con leel

braccia bene unite, perché non patisca il freddo, nel grembo di mamma. ac lo dondola pianamente. — Fate la nanna, coscine di pollo... — E gli insegna la devozione. — A letto, a letto me ne vado, Quattr'angeli ci ho trovato, Due da piedi e due da capo, Gesù Cristo dal mi’ lato... — Ma poi

si ricorda. Cecchino non c'è più. C'è stato un momento, un momento solo; mamma non l’ha voluto, l’ha buttato via, l’ha portato via come una bestiolina sudicia, la sua creatura... l’ha nascosta sotto terra, dove aveva tanto freddo, e nevicava, e nevicava, nevicava. E c’era il fuoco a casa,

nella casa de’ suoi padroni. Ma che cosa avrebbero detto, i padroni? Non l'avrebbe mica portato via il caldo del ceppo, per scaldarsi un po’ anche lui, poverino, nudo nudo, con un filo di voce... L'ha conosciuta mamma lui, e mamma... — Dio, — dice suor Anna — voi siete buono : fatela morire! povera madre che ha dovuto uccidere la sua creatura!

Nes

Fee

à. Le 1% b CE CS Le

174

L'AVECIUIN'BSLSTTÀ I Erano

due

donne

di monte,

una

sposa

giovane,

una

vedova

vecchia;

e questa non aveva più nessuno e quella stava per avere il suo primo. Erano, si può dire, vicine; ma dall'una casa non si vedeva l’altra: c'era di mezzo un colle. Dietro il colle alla sposa nasceva, alla vedova moriva il giorno. «| A mezza via tra le due case era una polla, e le due donne vi andavano all'acqua, e qualche volta s’incontravano. E un giorno d'estate la giovane aspettò la vecchia alla fonte. Stava in piedi e si asciugava il viso col pannello. La secchia era ai suoi piedi, già piena. E la vecchia comparve con la secchia in capo. E andò alla fonte, e pose

la secchia

sotto

il tegolo

muffito,

e si voltò

verso

la sposa.

« Salvo vi sia con l’aiuto di Maria! » disse e poi aggiunse : « Fa caldo oggi ». La sposa brontolò anche lei qualche parola. Poi, chiese: « Dite una cosa... Quella cunella... di faggio, coi crulli... l'avete sempre? ». « Di certo che la devo avere ». La sposetta aspettò un poco che la vecchia seguitasse. Alla fine disse: «La vendereste?... ». E la fonte, tra le due donne che ora pensavano e non parlavano più, si mise a cantare dolcemente dentro la secchia di rame. Tra la giovane sposa e la vecchia vedova la fonte perenne cantava cosi : Io sono come se non fossi. Tra il musco il filo mio si perde. Bevono appena i pettirossi sul coppo dalla bava verde. Ma pur di tra la ceppa d'olmo io mesco notte e di tranquilla, io mesco

sul pozzetto

colmo

a stilla a stilla. E’ colmo il io scendo e Per l’acqua tant'altra se

mio pozzetto; ebbene picchio, io picchio e scendo. che sonando viene, ne va tacendo. Dal coppo che mi fa da doccia, sul lago che trabocca intanto, a stilla a stilla, a goccia a goccia, io scendo e canto.

Io canto come due campane, un doppio che non ha mai posa, campane quanto mai lontane, un doppio non si sa per cosa; al sole, al lume della luna, eterno, e non si sa che sia; se il doppio d'una festa, o una Avemaria...

La vecchia, quasi sospirando, riprese : « Tra poveri ci s'intende sempre. Quanto mi date? « Due lire? » « Me ne darete quattro ». Il fatto è che s’intesero a questo bel modo. E tutte e due ripresero la secchia piena in capo, si voltarono le spalle, e tornarono a casa loro.

II E la vecchia, appena tornata, si mise a frugare in un canto della stanza, dove era un mucchio di cenci e legni, con un sacco, pieno a metà, in cima. Levò il sacco, e ripassò i cenci e i legni a uno a uno: tasche logore da picchiar le castagne, panieri senza fondo, coltelli senza manico, stacci senza

maglia rotte,

velo, una

bucato, mestoli,

ruspa

un

senza

denti, un

calzerotto

da

ombrello

bimbo

senza

spaiato,

tela, un

bergamine

berretto

peste,

di

fusa

ciotole...

Tutta questa roba era in una specie di cassetta senza coperchio. Quando la cassetta fu quasi scopata, ne schizzò un topo. La vecchia rovesciò a terra la cassetta, la sbatté per levarle la ròccia, la picchiò sulle parti per scoterne il tàrmolo; e poi la rimise per il suo verso, in mezzo alla stanza, la pulì e strofinò, con quel berretto che era stato del suo uomo, con quel calzerotto che era stato d’un suo figlio. E fece due passi addietro, per vedere che figura faceva. Pareva un trogoletto. Era la cunella, e per la scossa che ebbe all’ultimo, si mise a dondolare dal capo a’ piedi. Si alzò e si abbassò tre o quattro volte sui crulli che erano per il lungo, con un rumore sempre più piano. Ninna-nanna... Ninna-nanna... La vecchia capanna pareva si scotesse anche lei, e tutta quella roba vecchia si meravigliò di esserci ancora. Il bambino è della mamma... La donna si trovò con quel calzerottino in mano, tarmato, spaiato, impolverato... Nanna oh!... La cunella si fermò. Il giorno dopo, in mattinata, venne il marito della donna giovane. « Tra poveri ci s'intende sempre. .Vi do tre lire. Facciamo un taglio ».

176

« Che dite? Ci ho pensato su. Voglio cinque lire ». « Come? Così funghita... ». « Cinque lire. O prendere o lasciare ». «A voi non serve più... ». «A me non serve, ma ne faccio caso ». «Tra poveri... ». Basta : s’intesero che la vecchia avrebbe avuto tre lire subito, alla mano, e le altre due a respiro. La vecchia non potè rimangiarsi la parola, e l’uomo prese la cunella in collo, e se ne andò. Aveva E la vecchia, no.

fretta.

III Pochi giorni dopo la vedova lasciò la secchia agli angioli, e si avviò verso la casa degli sposi.

alla fonte, in guardia

Diceva tra sé e sé: «La statina è per finire e il verno per cominciare. Io vorrei quei pochi in casa. Potrebbe venire una malattia... ». E poi voleva sapere come era andata. Aveva un rodìo dentro, un astio... Era sericcia, e già scuriva. Le selve erano color di ruggine, e qualche foglia cadeva. con

Riconobbe la casa che pareva l’uscio e una finestra sola.

Si accostò bel bello, della sposa che cantava. Cantava,

e sentì

un

metato,

tanto

il treppicchìo

era piccola e scura,

della

cunella

e la voce

adagio,

«Proprio!»

ninnando a quando a quando: Il cielo ha fatto una stella! brontolò la vecchia «Quanti fichi! ». Il cielo ha fatto una stella! ninna in su, ninna in giù... La serbò tutta la notte, perché giù cantava il chiù... ninna in su... All'alba su l’erba molle lo lasciò scivolar giù... ninna in giù... Zitto! Zitto! chè la luna tra poco monterà su... ninna in su... Tra le stelle, ne vuol una, ne cerca una che ci fu... ninna in giù... Gira e cerca in tutti i canti la stella che non c’è più... ninna in su...

177

Ora scontra i tre Mercanti, addimanda ove sei tu... ninna in giù... Il cielo ha perso una stella! ninna in su, ninna in giù. «La stella non si trova bene quaggiù » mormorò la vecchia che, quando la cunella fu ferma, sentì belare il piccino. E la mamma riprese la sua ninna-nanna, e, ninna in su e ninna in giù, era già notte, e la vecchia se ne andò come era venuta. La luna s’era affacciata dal monte e andava a contar le stelle, che appena contate spariscono. Ma quella sera, appena uscita, fu presa lei da una nuvola e poi da un’altra e da un’altra. E la vecchia il più della strada la fece al buio. E soffiava un vento freddo. E la povera vecchia si sentiva carezzare la faccia dalle foglie che cadevano.

IV E venne il tempo cattivo. E i venti spogliarono i castagni e i e le pioggie tribbiarono le foglie in terra. Ogni tanto c’era una giornata di tramontano. E allora faceva ma freddo. E le foglie si asciugavano e s’inasprivano. E la gente le zava. E per la montagna si sentiva un grande fruscìo e stridio. E un giorno che era dolciura e non pioveva, la vecchia volle dere il buon momento, e uscì per riavere quei pochi. Ma vennero su le nuvole, e inviò a nevicare, di poco passato zogiorno. E la vedova si trovò sull’uscio della sposa; e buffava forte, e era tutta piena di farina bianca. E dentro l’uscio la cunella treppicava e la mamma cantava:

Dolce

sonno

Fino al canto,

vieni a cavallo! resta, del gallo...

nanna oh! Treppe treppe, viene, lo sento, soffia e sbuffa come fa il vento. Scuote i fiori per le sue strade. Non è quella neve che cade... nanna oh! Dolce sonno lusco bilusco! Il cavallo legalo all’uscio... nanna oh! Il cavallo fuori s'immolla. Trema l’uscio, quando si sgrolla. Il cavallo sgrolla la testa... i sonagli sonano a festa... nanna oh!

178

faggi,

bello spazpren-

mezl’aria

Stette

un

poco, e disse ancora: Il bambino s’addormentò!

E la vecchia, lì fuori, tra quel polverìo di neve, coi mugli che faceva ogni tanto il vento, pensò: «Non s'addorme facile. Risvegliarlo, torna male. E può pigliar freddo ». E piano piano si rivoltò, e tornava a casa sua pestando sulla neve, acciecata dai rufoli di neve. E brontolava: « Figuriamoci! Le smorfie! I complimenti! Se si svegliava, non si svegliava, non si riaddormiva? Pigliava freddo... o io cosa piglio? ».

V Tutto verno la vecchia tossì e sputò, sputò e tossi. Ma si fece corag-

gio, e vide la primavera. Un giorno di sole, ella sentì l’odor delle violette, e uscì. C'era anche e voleva goderle. I poggi erano pieni di primule che la guardavano con occhi di civetta. Le stipe a solivo erano fiorite dei loro orciolini rossi. Si trascinò sino alla fonte, e vi trovò il capelvenere e la lingua cervina che rimettevano. Un usignolo era lì presso, che imparava a gorgheggiare dal gorgoglio della fonte. « Il bimbo della mia cunella tirerà già qualche verso » pensò. « Se andassi per quei miei soldi?...». Passo passo arrivò alla casuccia degli sposi. Sentì anche questa volta dondolar la cunella, e il bimbo sgagnolava tra il cantare della mamma.

lei,

Che ti senti caro figlio! Poverino, non puoi dirlo! ninna nanna, ninna nanna. Il fiore, quando scurisce, s'accomoda le sue fogline, se le stringe intorno al cuore, si rifà il suo boccio, e dorme. Esso ha il vento, che lo picchia: tu, la mamma che ti ninna, Esso ha il vento, che lo schianta: tu, la mamma che ti canta. Dormi, o fiore, o fiore del mio dolore! La mamma

piangeva più presto che cantare.

E il bimbo

piolava.

L'uccellino,

quando imbruna, mette il capo sotto l'ala. Fa un batuffolo di piuma, e dorme sopra una rama.

179

Oh! tu, Ha hai

esso ha il vento che l'urta; la mamma che ti culla. la pioggia che lo infrange; la tua mamma che piange. Dormi, amore! amore! amore! e dolore...

La vecchia, lì fuori, strizzò le labbra,

e mormorò : « Sta male! » EASI

allontanò zitta zitta. Aveva un raspìo di tosse. Tossì quando ebbe svoltato e non poteva esser veduta. E brontolava : « Codeste giovini! Hanno una boria! una spocchia Ho piacere che imparino a loro spese! Sempre canti!? Ci sono anche i pianti! ».

VI Passarono pochi giorni. La vecchia non aveva più sale per la polenta. Anche il giorno prima aveva mangiato la polenta sciocca. Prese le gambe e camminò a casa degli sposi. «Questa volta » pensava « miagoli o strilli, addormito o malato, voglio i miei soldi! ». veva,

In verità, arrivata all’uscio non sentì nulla. La cunella la sposa non cantava, il bimbo dormiva.

o desto, sano non

si muo-

Spinse l’uscio ed entrò. Entrò e la donna che era in un canto, le si fece avanti a un tratto, con le unghie quasi al viso, e gridò : « Che volete? ». «I

miei

soldi ».

« Chi siete? ». «Quella della cunella. Dimenticate « Dimentico, io? Cosa? ». « Sicuro! Passata la festa... ». «La festa? ».

presto,

voi ».

« Già : fiori e stelle e sonagli... ». La sposa ruggì : « Ah!

vecchiaccia

del diavolo!

Va

al Prato

Fiorito!

Ora vedo che lo maldocchiasti tu! tu! ». «A questo modo pagate i debiti? ». «Che debiti? ». «La cunella ».

La sposa fece uno sbalzo addietro, buttò all'aria panni e cenci, paglioncello e guancialetto, e spinse con un gran picchio, in mezzo alla stanza, la cunella

E urlava: bimbi! ».

vuota.

« Prendila,

strega,

la tua

cunella

che fa morire

i poveri

La cunella urtata così, in mezzo delle due donne, si alzò si abbassò, tornò ad alzarsi e abbassarsi, dondolò a lungo, senza niente dentro...

180

Le due donne guardarono tutte e due la povera cunella che treppicava e treppicava senza più il suo bambino... Che colpa ci aveva lei? La giovane alzò gli occhi gonfi di lagrime sulla vecchia. Piangeva anche la vecchia. E si volevano male! « Scusate: non lo sapevo ». « Scusate voi. Se la volete riprendere... ». « No, no: tenetela voi, per memoria... di lui». La madre singhiozzò disperatamente. E l’altra l’accarezzò, l’abbracciò, la baciò, le asciugò gli occhi col suo pannello, le disse tante paroline buone, la ninnò, la consolò. E verso sera tornò a casa a mangiar la polenta senza sale.

181

IR

PIN

I — Non apra, Pin! Sia savio, Pin! Prenderà una malanno, Pin! E poi fa freddo anche a me. Così diceva, spazzando il salotto, la vecchia serva a mezzo servizio. E Pin apriva la finestra del terrazzino più di rado e più lesto; ma apriva. E ogni volta entrava una buffata con fiocchi e stracci bianchi; chè la neve veniva giù fitta sin dall'alba del giorno.

E tutta la notte era stata un’alba continua perché tutto era bianco sulla terra, e dalla terra pareva soffiare al cielo un gran bagliore di luce, e si sentiva tramestare, scalpicciare, parlottare, come sul far del giorno. Ma

era che spalavano

la neve

di notte.

— Non apra, Pin! Sia savio, Pin! Lo dirò alla mamma, bella carità cristiana! Sono vecchia, io! —

Pin! Ma

che

E Pin che sbocconcellava l’ultimo pezzo di pane della colazione, e intanto ripassava la poesia che doveva dire a scuola aprì un’altra volta, più lesto delle altre volte... — Ha visto una primula... — E rinchiuse subito. — Cosa ha visto? Neve! — E' poco... — A me pare assai! — … vuole le viole... — Cosa vuole? — La vecchia si fermò un momento, e poi strisciando più forte la scopa e facendo saltar lontano il mucchiarello della spazzatura, borbottò mezzo ridendo: — Vada, vada a cogliere, le viole... — E le stelline dell’odore. — Oh! le stelline! Quelle, sì! — Era verità: turbinavano, le stelline, si stampavano sui vetri della finestra. E Pin, perché aveva visto ridere la vecchia, aprì la finestra di nuovo. E la vecchia vide un frullare, uno svolare, un saltellare di passeri, che su tutto quel bianco parevano neri. E vide che Pin buttava sul terrazzino le bricciole di pane. La donna si appoggiò con le due mani sul manico della scopa, e disse: — Ecco! Ho capito. I signori sono tanto buoni... coi passerotti. O perché non lo sbriciano anche ai topi il pane? Ai topi, no; agli uccelli, sì. Gli uccellini sono tanto carini, hanno l’ali, fanno i versi... I poveri bimbi poveri, che non hanno nulla, che non vanno sulle finestre, che non fanno ci ci e pi pi, a loro nulla! Potesse venir qui anco lui sulla ringhiera, po-

182

vero

figliolo, come

l’ho veduto

stamani,

che batteva

i denti e bubbulava

domandando la limosina!... Ma la gente teneva le mani in tasca, ché aveva freddo. — Pin che diceva di corsa la lezione, a un tratto, s'impuntò, ripetendo: — E’ maggio... è maggio... è maggio — sempre più piano, finché si ebbe figurato quel bambino, tutto arruffato, lì fuor della finestra, che batteva trito trito il becco e buttava giù i frasconi... no :le maniche troppo lunghe e tutte sbrindellate della giacchetta. Povero uccellino anche lui!

II E Pin corse alla sua cameretta, e ritornò con due o tre soldarelli cansati, e li diede alla vecchia. — Dateli a quel bambino che non può volare. — Oh! così va bene! Dei cristiani, bisogna aver compassione! — Pin aveva sempre un boccone di pane. .Guardò verso la finestra, come avesse voglia d’aprire. Ma non aprì e il boccone lo finì lui. I passeri erano sulla ringhiera, e a quando a quando frullavano e svolavano. Parevano, così neri, anche più grandi. Ma Pin guardava nel libro, e poi alzando il viso, come un galletto quando beve, ripeteva a mente, e si impuntava subito: che aveva

Ha visto una primula... Ha visto una primula: è poco... è poco... è poco... è poco... è poco... Ed ecco un altro bambino, che stava a casigliano, picchiò forte all’uscio, e gridò: — Pin! Pin! non c'è scuola oggi! C'è troppa neve! — Oh! così va bene! E Pin buttò all’aria il libro, e battè le mani. — Che fortuna! Non sapevo la lezione. E’ tanto difficile quella poesia. E poi, non ci si capisce niente. — Faremo la fortezza! — No: una statua! — O il viaggio al Polo Sud! — O la caccia all'orso bianco! — La vecchia che intanto era uscita, ora tornava tutta spruzzolata e infarinata, con la neve sugli scarponi. Li vide tutti e due insieme allegri e felici,

e brontolò:

— Fanno allegria, loro! E la vedova di Mirasole, che aveva quattro creature, e le tirava su a stento e fatica, tutti e quattro piccolini, l'hanno portata via ier sera con quella nevicata! Lei al camposanto; e i bimbi? Con questa nevicata... Pin si guardò le scarpe, poi guardò ai vetri della finestra. I passeri che erano in fila sulla ringhiera, frullarono su, e aliavano poi torno torno. Parevano farfalloni.

183

Ma Pin non li vedeva. Vedeva invece quei quattro bambini, rimasti soli in un nido, fatto di cenci e non di borraccina, che si riscalducciavano tenendosi stretti l'uno all’altro. Si vedevano sporgere i quattro capini col ciuffetto ritto dallo spavento. E Pin andò

nella camera

della mamma,

e ritornò

— Prendete, Per quei bambini. E’ poco... dice la mamma, non si può dar di più... Il babbo —

di Pin era medico

dicendo:

E’ poco...

Ma

anche

noi,

condotto.

Oh! così va bene, disse la vecchia.

I cristiani, bisogna

aiutare. —

E i passeri che tra quei fiocchi e stracci bianchi parevano uccellacci, andavano

e venivano,

e non

avevano

nulla

da beccare.

III E Pin col suo compagno pagni, e uscirono nella strada.

scese

nel cortile, e trovarono

altri com-

Era un grande spolverìo, tra cui si vedevano cadere fiocchi più grandi, come penne d’uccelli candidi, e batuffoli anche più grandi, come fossero gli stessi uccelli, caduti da un nido lassù per aria. E

donne

soffiandosi

passavano

rabbrividendo

nei

cenci,

e passavano

bambini

nelle dita.

Pin coi suoi compagni fece la fortezza, fece la statua, viaggiò al Polo, sdrucciolò e slittò, cacciò l’orso, litigò per la pelle, ne toccò, ne rese. La sera, fresco

come

una

rosa, stette a sentire

e del babbo. Ma il capo gli cominciò

le sgridate

della mamma

a ciondolare, e fu mandato a letto.

E anche lì, viaggiò, sdrucciolò e slittò; ma nemmen lui avrebbe saputo raccontar nulla, salvo che presso al mattino si trovò in un posto, che era d’aprile. E vedeva sbocciare i fiori gli uni dopo gli altri: primule, prataiole, crochi, viole, bocche di leone, stelline...

No: erano stelline di neve. E la neve copriva tutti gli alberi, meli peschi peri, e tutti i muri, e tutti gli stagni e tutti i pruni.

Neve line, come

o fiori? Erano fiorellini,

come

stelle proprio : l'una dopo

l’altra, come

farfal-

occhiettini...

Egli diceva : E’ poco! E’ poco! E’ poco!

Ma

se il cielo era pieno...!

E Pin viaggiava. I negri si affatticavano ad aprirgli la strada... Ma erano uomini che spalavano la neve sui tetti, strisciando duramente la pala e buttando nella strada la neve con grandi tonfi.

E udì anche grugnire un orso bianco... Ma era forse la vecchia serva che brontolava nel salotto. E pur viaggiando

— Chi

184

Pin! Pin!

Pin si sentiva Pin! Pin! —

lo chiamava?

chiamare:

Erano bambini ‘alla finestra, che battevano il becco e buttavan giù le maniche troppo lunghe della giacchetta? Erano bambini tutti in un nido di cenci, che sporgevano i ciuffetti ritti? Pin pin Pin pin... chiamavano lui, o picchiavano Chiamavano lui e parlavano a lui. .

nei vetri?

— Ci desti due bricie, ieri. Si tornò; mai tu non c'eri.

Si picchiò : tu eri al gioco. E° poco, due bricie, è poco! poco, Pin! poco, Pin! Perché poi non ce le hai rese? un di, non dài un mese! Dài a gli altri, a noi non dài! Il bene non basta mai! no, mai, Pin! no, mai, Pin! Dài

Oh! le rondini portare ci volean di là del mare! Partirono al primo tuono. Noi, no: perché tu sei buono... buono, Pin! buono, Pin! T'è nata in cuore una stella. Tutte verranno con quella! T'è nato un pensier d'amore... Ma non basta a Maggio un fiore... Pin pin pin pin pin pin...

IV Questa

volta fecero

così forte, che Pin si destò, e vide i passeri che

picchierellavano ai vetri.

i

— Oh! poveri figli! povere creature! che fame! E che peccato fo a dar le bricciole ai passeri? Non le levo mica ad altri! Nemmeno a me, forse. — Si levò, corse in cucina, prese il pane e lo sbriciolò tutto sul terrazzino. E la vecchia venne, e guardava torto. E Pin, piagnucolando, diceva:

— Ma non mi hanno insegnato loro a far la carità? m'hanno insegnato, a loro non devo dar più nulla? —

E dopo

che

La vecchia non rispose e si mise a spazzare. E Pin cominciò a ripetere la lezione che il giorno avanti non sapeva. E ora s’accorse di saperla tutta filata. — E che male c’è a far due cose buone, invece d'una La vecchia non rispose nemmeno questa volta.



Due

sola? —

è più d’uno!...

185

Ha visto una primula: è poco. Vuol nel prato le prataiole.

E’ poco : vuol nel bosco il croco. E’ poco: vuole le viole: le bocche di leone vuole e le stelline dell’odore. Non basta il melo, il pesco, il pero. Se manca uno, non c’è nessuno.

E’, quando in fior è il muro

nero,

è, quand'è in fior lo stagno bruno, è, quando fa le rose il pruno,

è Maggio, quando

tutto è in fiore.

Non basta un sol pensier d'amore! una stella non basta al cielo! Ma quando una si vede in cima, tremante come una farfalla, ma quando si vede la prima nell’aria cilestrina a galla, la primula tra bianca e gialla, la primula senza lo stelo; ecco, a guardarla, due pupille, poi dieci fisse a guardar quelle, poi venti, poi cento, poi mille, poi tutte, poi tutte le stelle! Una stella: tutte le stelle! La prima: e si riempie il cielo!

Questa era la poesia difficile. Ma Pin ora la capiva.

186

GIOVANNI

FALLANI

GIOVANNI PASCOLI NEI RICORDI E NELL'INTERPRETAZIONE DI P. LUIGI PIETROBONO E' più facile, oggi, una volta attenuata l’asprezza della polemica, tornare indietro e indagare le ragioni del consenso o del dissenso sull'opera pascoliana, anche nei limiti della questione sull'esegesi di Luigi Pietrobono. L’insigne maestro delle Scuole Pie, dal dicembre del 1897, quando era vice - preside al Collegio Nazareno, entrò nel vivo della coscienza del Pascoli per la sua umanità, per la cultura, e, credo, per le qualità didattiche e la comunicazione con i giovani. «Di lei, dolce amico, la memoria

è in mezzo del cuore », dice il poeta nella sua prima lettera al padre scolopio, e l’epistolario è così intenso e aperto ai problemi di studio e della vita, che dà l'impressione di un dialogo continuato con un amico, al quale si può dire tutto, senza

perché ha tra mano

l’arte di saper riportare le cose

sottintesi,

al punto

giusto, con un filo di speranza. Il richiamo spirituale viene da sé, è appena accennato. Il Pascoli usciva da profonde inquietudini sulle ingiustizie subìte, a cominciare dal processo per la morte del padre, dalle polemiche sulla poesia e sugli studi danteschi. Non chiedeva di entrare nei problemi filosofici o della teologia, ma in una verità sincera, ch'è dentro di noi, nel sentimento comune della natura e dell'amore per l’uomo. La pietà, la morte, il mistero, la poesia sono i temi di cui si alimentarono le loro conversazioni negli scritti e negli incontri. All’inizio di questa amicizia vi è una singolare concordanza del modo

di vedere

diverse. nome

le cose, benché

le conclusioni,

più volte, siano

E poiché la sorella del poeta Mariù divideva in due il

del religioso,

Pietro

- bono,

con

il termine

affettuoso

di

Gigibono si apriva ogni lettera, come segno d’intimità. Basterebbe

187

scorrere l’epistolario per vedere, per esempio, quanto fosse attesa, con l'insistenza di persona

di casa, una lapide che Pietro-

bono elaborò a ricordo di Ruggero Pascoli, in memoria dell’amministratore « d'animo di onestà di fede intemerato », per la chiesina della tenuta dei Torlonia alla Torre di S. Mauro. Nei momenti difficili a chi confidare la disperazione di uomo? « Mi odiano i letterari, i critici, i latinisti, i grecisti, tutti! Solo ho qualche posto nel cuore dei giovani! » (Lettera del 14 giugno 1900).

Pietrobono aveva un metro di valutazione di persona esperta per ricercare la genesi, il carattere, le forme, i periodi della poesia pascoliana; l’idea e il sentimento li analizzava di volta in volta, secondo la circostanza e lo stato d’animo del

poeta. Il 6 aprile del 1901 esortava l’amico: « La tua poesia deve raccogliere voci di vita ». Temeva che il ritorno continuo su di un orizzonte di mestizia ne limitasse l’ispirazione.

Se le svalutazioni dello Scherillo o di Croce ferirono il Pascoli, Pietrobono il 2 agosto del 1906 scrisse una delle sue lettere più belle, e più lunghe, all'amico « semplice, profondo, umano,

pensoso ». « Nel tuo

volume

c'è poesie

di primordine,

liriche quali nessun poeta d’Italia aveva cantate mai, da piacere a tutti; e altre ce n'è, che forse richiedono lettori molto attenti, anime gentili, esperte del dubbio e del dolore. Solo a queste esse parleranno il loro linguaggio, simile in tutto e per tutto a quello

che i cuori nostri direbbero, se fossero di poeti e quando fossero poeti; sveleranno alla mente, che conosce le armonie del disegno, la sapienza della loro composizione; diranno agli italiani, che vanno cercando il loro poeta civile, come questi sia nato da un pezzo, e loro non se ne sono accorti ... Non ti affliggere alle cri-

tiche di tutti i Grugliaschi [pseudonimo di Francesco Pastonchi] del mondo, perché, poveretti, come farebbero loro a capire per esempio « La sfogliatura »? Quei letterati si fermano al titolo; leggono le prime strofe e, vedendo che si parla davvero di granturco,

torcono il muso e ripetono: ormai di bucolica ce n’ha ammannita abbastanza. Lasciali dire e ridi. Pensa che in Italia le tue poesie le leggono già molti, e tra questi parecchi, ai quali non rimane

nascosta la serietà e la profondità della loro ispirazione, che non si sanno risolvere ad ammirare più « La Risurrezione » del Manzoni o il tuo inno alle Studentesse

russe

sentono

respirare a un tempo

188

l’Italia antica e nuova

(Alle « kursistki »), e che

nel tuo

volume, come in quello sacro di Dante. Non ti confondere con la critica; e seguita a cantare tutti gli inni, che la natura, il dolore e l’amore ti hanno disseminato in cuore (!).

Sulla « Rassegna Contemporanea » e sulla « Roma ria » Pietrobono,

contro

corrente,

rimase

a fianco

lettera-

del Pascoli,

in polemica con Vittorio Betteloni e Michele Scherillo. A rileggere il suo articolo sul « Giornale d’Italia » del 1° aprile 1907, si rimane

sorpresi

degli « errori » di lettura

del Croce

di poesie

come

« La cavalla storna », « La voce », « I due fanciulli » e di vari passi

de «I poemi conviviali ». Più che aderire ai testi, come stralmente usava nella critica, Croce stranamente

passava

magiinvece

spesso a notare ciò che quelle liriche destavano in lui per le riflessioni filosofiche, avvertendo che quelle immagini di poesia, lontane dal suo spirito, non rientravano in una disciplina etica ed estetica. Il Pascoli, come tutti i poeti, aveva qualcosa da comunicare,

e lo comunicava

con

un

ritmo

appassionato,

con

una melodia che si adagiava spesso nelle terzine, sino a raggiungere un parlato familiare. Croce cercava una lingua e il Pascoli gli presentava, come ben vide Pasolini, « un plurilinguismo, uno sperimentalismo antitradizionalistico, prove prosaiche, tonalità sentimentali e umanitarie, al posto della casistica sensuale - religiosa petrarchesca, e cioè un tipo rivoluzionario, ma solo in senso linguistico » (0). Pietrobono si soffermava prima alla lingua; rimangono esemplari le annotazioni sul Pascoli latino (*) e sui poemetti pre-

miati ad Amsterdam e il noto commento per l'antologia delle « Poesie ». Proprio per questo introdursi nel significato della parola, nell’interpretazione che assume in poesia, in un paradigma normativo eppure libero, ricavò i valori che vanno oltre la pura astrazione, e scoprì l'autonomia poetica del Pascoli che richiedeva un attento esame per le stimolanti indicazioni che riusciva a suggerire. La vera conoscenza delle Myricae può trovare una guida esterna nella vita del poeta, ma la lettura esige (1) P. VANNUCCI,

Pascoli

e gli scolopi,

Roma

1950,

pp.

375 - 76.

(2) P. P. PASOLINI, Dal Pascoli ai neosperimentali, in Passione e ideologia, Milano 1960, pp. 263 - 71. (3) L. PIETROBONO, Orazio in due carmi latini di G. Pascoli, in « Atti dell’Accademia degli arcadi », voll. XV - XVI, 1936 -37; Ancora di Orazio nei Carmi latini del Pascoli, ivi, voll. XVII - XVIII, 1938 - 39; Ultime osservazioni su Orazio e i Carmi latini di G. Pascoli, ivi, voll. XIX - XX, 1940,

189

a

capire il risveglio destato da quell’energia interiore, che parte da un fatto controllabile da ciascuno e, nel contempo, è talora radicalmente modificata dall'immagine della natura e del mondo,

con la quale il poeta ha incorniciato il suo quadro. Pascoli sembra procedere

con

lo stabilire un’orizzonte

con

e, successivamente,

la determinazione del personaggio o delle cose rappresentate in scala ridotta, per una realtà che s’ingrandisce da quel particolare e aspira ad una universalità e solidarietà che abbraccia una profonda realtà di vita. « L’idillio », notò Steno Vazzana, i cui termini restano neces-

sari e visibili, è superato in un’angoscia metafisica. sta, spira senso religioso. Pietrobono

sa, dalla

sua

cultura

classica,

cosa

E dov'è queci può

es-

ser dietro una rievocazione storica di avvenimenti dell'antichità. Conosce gli schemi neoclassici e tutti i tentativi di rialzare le colonne e gli archi, come nella canzone « All’Italia » di Leopardi, per ritrovarsi alle Termopoli, in chiave risorgimentale. L'amor di patria può partire dall’Umbria verde e sostare « Alle fonti del Clitunno ».

Il Pascoli si trovò a combattere la dura battaglia con la storia. Il suo maestro, il Carducci, e D'Annunzio gli offrivano esempi del tutto diversi dalla linea della sua tradizione, che con-

sisteva nel riproporre, in altri termini, problemi antichi, riflessioni e forme concrete di una poesia risorta dalle macerie e avvivata, nel suo innalzamento, da un bisogno sapienzale di nuova apparizione. Dal punto di vista della critica tutti i modelli erano pronti, e ognuno di questi modelli implicava una realtà selezionata e scelta, dentro una pagina. « In nessun laboratorio d'uomo di lettere - scrisse D'Annunzio - m’era avvenuto di sentire la maestria quasi come un potere senza limiti. Penso che nessun artefice moderno abbia posseduto l’arte sua come Giovanni Pascoli la possedeva. La sua esperienza era infinita, la sua destrezza era infallibile, ogni sua invenzione era un profondo ritrovamento. Nessuno meglio di lui sapeva e dimostrava come l’arte non sia se non

Roma

190

una

magia

(4) G. D'ANNUNZIO, 1939, p. 36.

pratica » (*). Per quanto

Contemplazione

della

morte,

(1912),

intimamente

ed.

Il Vittoriale

degli

vicino

italiani,

all'amico, non

era semplice

per il Pietrobono

culturale, realizzato nell’entusiastica illusione condizioni riconoscibili ma nuove, sostenute

questo

viaggio

di un ritorno, in da elementi, che

implicano l'immediata conoscenza del soggetto e delle persone, di cui fanno parte. Il Pascoli connette

insieme,

nei valori della

storia, persona e messaggio e le sue legittime domande d'’intervento, perchè non sfugga il suo ruolo, che ha lo scopo di unificare e di mettere al sicuro l’azione della sua poesia.

A Benedetto Croce dava fastidio questa problematica pascoliana dei tempi storici, in cui non riusciva a bilanciare gli antecedenti di cultura e voleva che il centro dell’attenzione fosse nella logica delle fonti e delle tradizioni. Andate a cercare Ulisse, e provatevi a portare dentro il carattere dell’Odissea una concezione moderna dell’orizzonte greco. « Bisogna stare, per renderlo vivo, nel tema e fuori tema, come ha fatto l’Alighieri nell’Inferno, e il Pascoli nei Poemi conviviali ». Pietrobono seguendo l’evolu-

zione psicologica degli stati d'animo, più che della filosofia del Pascoli, ha inteso sino in fondo il significato delle esperienze contenute

nel conflitto

tra una

coscienza,

che non

riesce più a

rispecchiarsi nel tempo trascorso, e tenta l'ignoto per approdare, e ne ignora la causa, alla morte. Il Pascoli non poneva in questo un compito etico, cercava una giusta relazione di poesia per un individuo che non voleva dimenticare l’antichità: la chiamava assiduamente in causa, quale ricchezza smarrita da riconquistare una seconda volta. Diciamo, più propriamente, un secondo umanesimo. Interprete, di volta in volta, di queste « traduzioni » dalla

storia antica e nuova, accettiamo nei suoi limiti la polarizzazione del Pascoli, i suoi intenti umanitari etico - religiosi, la sua auto-

nomia nell’isolarsi da determinati settori di cultura per una proiezione personale, annunciata come un fatto religioso di valore di ricerca. Il punto difficile da superare per Croce e per Pietrobono era l'ideologia agnostica del Pascoli. Non aderendo alle teorie positiviste né a quelle dell’idealismo, convinto forse di non avere la forza di abbracciare, comun-

que, una fede, il suo avvicinamento a Giuseppe Ferrari e a Edoardo Hartmann ha solo un aspetto occasionale. Non dispiaceva al Pascoli un suo ideale collegamento, una continuità con il Leo-

pardi, ma al nichilismo in cui si appunta la « Ginestra » oppose la concezione

del bene, senza chiarire l'essenza del problema

filo-

191

sofico. Ponendosi nella condizione di una infanzia, mai abbandonata, il fanciullino esprime la teoria di un luminoso richiamo ai sentimenti originari d'innocenza, a un bisogno di cercare negli altri i contatti di vita. Divenire adulto significava la responsabilità di una dialettica, un cammino segnato da una verità impenetrabile, anche oltre la suprema notte. Per questo Cercò poeticamente il mito, e una protezione e un rifugio nel mistero,

nell'ombra di un mistero, che rende il principio e la fine, la materia e lo spirito, il bene e il male, voci appartenenti a un ciclo della vita tra l’essere e il non essere, voci di rassegnazione

per il loro ultimo destino. Si comprende l’ostracismo crociano a questa pseudofilosofia, e il compito del Pietrobono credente di trovare il fondamento a questi complessi itinerari dell'anima. In una conferenza sulla poesia pascoliana del 19 aprile 1904 (che cito dal suo manoscitto) il padre scolopio iniziò con un ritratto per mostrare, prima di tutto, il poeta: « Ha lieto e fiorente l'aspetto, robusta la persona, largo il gesto, nobilissimo lo sguardo; e tutti accoglie con un sorriso. Per spiegarsi come le poesie siano sue bisogna godere un poco della sua familiarità, liberamente: non accostarsi a lui per studiarlo. Se gli fate nascere questo sospetto, egli si chiude. Parlategli da uomo a uomo, senza secondi fini, e vi si darà a conoscere candidamente

.... Pare che viva in una gran solitudine;

e vive in comunione di tutto ciò che lo circonda. Conserva tutti i tratti caratteristici del fanciullo. I pedanti lo vorrebbero più dantista, più filologo, più professore, e giudicano che non è abbastanza, perché avvertono nei suoi lavori il chiacchiericcio di quel fanciullino ». E aggiungeva che il poeta, secondo la sua confessione,

riteneva

che

le silenziose

meditazioni,

l’abitudine

contemplativa e poetica le doveva al carattere della madre. Allineò i luoghi dei ricordi: i prati della Torre, le case di Castelvecchio, le campane di Barga, la Pania, monte Gragno, le elegie delle Myricae, il dolore domestico, i cimiteri, gli alberi, gli uccelli, i colori e le immagini della natura: forme, voci, costumi, una

campagna, prodiga di sorprese e di speranza. Il Pascoli quelle riflessioni e quei dolori gli appartengono in proprio. morte è diventata uno dei suoi pensieri dominanti. Da essa ve e ad essa torna quasi tutta la sua filosofia, ma non arcade, né uno sdolcinato, né un vinto chi ha cantato, come

192

è là, « La muoè un lui,

Garibaldi e Mazzini, Andrée e il Duca degli Abruzzi, e nemmeno è un romantico chi ha concepito e scritto quel divino poema, che s'intitola Psyche, degno di stare alla pari coi Sepolcri del Foscolo ». Pietrobono concluse il saggio rievocando «La pecorella smarrita, » lirica che celebra la grandezza dei valori della terra, « che ha costretto Dio a prendere forma umana e l’ha voluta solo per sé ». Natura, pietà, morte, mistero dentro il sentimento di Roma e di Grecia, delle umili cose e della storia d’Italia, e dentro l’an-

goscia cosmica Pascoli?

di una concezione

(°) A noi

sembra

che

di vita: sarà tutto questo il

Pietrobono

conferisca

alla

sua

analisi, specialmente nel suo commento

alle liriche maggiori

minori,

dell’uomo

una

mediazione

tra il dramma

Pascoli

e

e la

sua poesia. Dopo l’approfondimento odierno sull’inconscio, sulla zona delle influenze nel clima del decadentismo, dell'amore a una

pittura di carattere

impressionista,

letteratura,

e la tecnica

i canoni

vicina alle esperienze

dell'autore

delle Myricae

della non

sono fuori del processo storico del nostro tempo. Con il Pietrobono e con la critica contemporanea, il Pascoli esce da un mondo

trasognato, con quella pura melodia con cui Casella incantò le anime avviate all’espiazione.

L'incantesimo dei componimenti, l'emozione che promana dall’evidenza delle sue forme espressive richiedevano al religioso scolopio di guardare più oltre e d’isolare, come ha fatto, il nucleo di un’ideale e universale umanità. Il Pascoli ritenne di raggiungere, come

atto

di fedeltà

alla storia

e alla natura,

anche

l’aspetto

della sostanza umana del suo messaggio nel girone del dubbio. Non importa se la porzione del vero, illuminato dalla lirica, non ci fa vedere, concretamente, il senso totale delle cose. E chi può riuscirvi? Il programma del Pascoli, esposto dal Pietrobono nel commento, implica una logica, talora nascosta, che si appoggia alla cultura,

alla storia, alla spiritualità,

e rende

possibile

l’ac-

cesso alla poesia, specialmente quando essa diventa astrazione e simboli, come in Psyche e in Alexandros. Si pongano a confronto l'avvio e le spiegazioni di alcuni passi dei Canti di Castel-

(5) Cfr. : G. BARBERI - SQUAROTTI, Simboli e strutture della poesia del Pascoli, Firenze 1966; A. VALLONE, Linea della poesia pascoliana, in Capitoli pascoliani - danteschi, Ravenna

1967,

pp.

121 - 52.

193

muta) è st

vecchio, dei Primi Poemetti, dei Poemi conviviali, o le composizioni come « Nella nebbia », « Nel carcere di Ginevra », ma soprattutto Solon per vedere quanto la prestazione critica sia riu-

scita ad avvicinare alla comprensione migliore i legami del contenuto creativo delle scene. Uso la parola scena, perché tra Pascoli poeta e Pietrobono critico par d’assistere ad una religiosa rappresentazione, in cui dall'inizio all’epilogo il poeta, oltre le immagini

e i pensieri, pone i segni (cioé gli scambi, le interruzioni, le pause) che l’esaminatore

registra nel commento,

e non

tralascia

di

inseguire per la forza della tensione, che riempie di sé ogni atto del dramma.

Forse per questo non vi è distinzione tra interiorità ed esteriorità se dai temi pascoliani e dalla coscienza del padre scolopio risaliamo a una sorgente comune all’uno e all’altro: il poema dantesco. Altra volta ho descritto come il Pietrobono ha dovuto compiere uno sforzo maggiore nel seguire il Pascoli, quando da Sotto il velame a Minerva oscura, lui dantista di professione e commentatore del poema, con intuizioni nuove anche oggi verificabili in senso positivo, doveva passare alla lettura delle tesi

dell'amico poeta. Ci sono passaggi e influssi vicendevoli, percorsi simili, divergenti talvolta alla fine, impostazioni tra loro lontane. Dante è, tuttavia, il personaggio principale. Il Pascoli non gli si è avvicinato per farne il controcanto, pur suggestivo, come nelle cantiche di Vincenzo Monti, ma per la verità di una tesi terrestre e sopraterrestre, di un incontro con la natura cosmica dentro confini illimitati e infiniti; ma per una presenza di Dio, come discorso di fede, esplicito e necessario, pur se non condiviso;

ma per il bisogno all'uomo.

di un linguaggio

evocativo,

intimo

e vicino

Pascoli - Pietrobono stanno fraternamente vicini nei motivi del Natale In oriente, In Occidente de « La Porta Santa ». E Dante,

se non interviene nel campo dell’azione contenuto nella Commedia, è presente egualmente nell’azione salvifica, nella relazione di un passaggio, dalla creatura al creatore.

Leggete Paulo Ucello, il poemetto da San Dètole

(il « dilectissimus

dedicato a P. Teodosio

frater in Sancto

Francisco »),

che gl'ispird per l'ansia del mistero e dell'infinito « La pecorella smarrita ». L'Alighieri, per chiunque lo voglia comprendere, ha un suo riferimento costitutivo che si volge a Dio. Il poema si

194

apre con la reciproca presenza dell’uomo e di una fede smarrita, di un Dio da ricercare, come il cuore della nostra esistenza. La Commedia

dantesca

è effettivamente

anche

un

fatto

culturale,

ma investe qualcosa di più: un appello dell’uomo perchè ciascuno possa conoscere il nostro mondo umano e l’ultimo approdo. Pietrobono vi sentì l'amore creatore e universale di Dio, la liberazione morale e la salvezza degli uomini; il Pascoli una trascendenza, oltre il creato, uno spazio d'infinita latitudine, dove si quieta il desiderio delle creature: una mirabile visione. Tuttavia « come Dante, non trovò pace e quiete all'alta fan-

tasia. Il Pascoli non ritrovò Dio con la certezza anni,

ma

lo cercò

instancabilmente;

non

dei suoi primi

poté,

con

suo

vivo

rimpianto, riacquistare la fede nell’immortalità dell'anima, ma la invocò tutta la vita; non immaginò neppure di passare per un filosofo, ma non smise mai di agitare i massimi problemi. Non giunse insomma a una soluzione e di questo molti provano fastidio;

di questo

che è lo stato

d’animo

in cui è riposta

la

ragione della sua poesia. Al pari del suo Tolstoi seguitò a cercare fino alla fine, e la morte lo sorprese che si agitava ancora per le buie contrade dell’essere e del non essere con la sua fioca lampada in mano e gliela spense » (0). Oggi lo strutturalismo scopre la novità e la freschezza del linguaggio pascoliano, che era tanto sorprendente e in un certo senso tanto scandaloso, per chi lo misurava sulla norma della tradizione letteraria italiana: «un linguaggio che ha un potere d'urto, una risorsa di sorpresa, una genuinità originaria d'’innovazione ». Sono parole di un saggio incisivo di Gianfranco Contini (?). « In un campionario » di lingua, Pascoli ha mostrato la differenza rispetto alla norma, colta nei principali dei suoi numerosi

aspetti;

Contini

osserva

che, specialmente

nei Poemi

conviviali, per l'abbondanza del linguaggio antiquario, il Pascoli

può essere un esempio del parnassianesimo e dell’alessandrinismo. Innovatore per questo, rispetto alla cultura del suo tempo, il poeta rimane, tuttavia, anticlassico

« per il suo temperamento,

non rinchiuso entro confini di un genere, esorbitante da ogni genere ». Contini considera il classicismo una specie di catalogo (6) L. PIETROBONO, ze,

Pascoli

e il mistero,

in G. Pascoli,

a cura

di J. DE

BLASI,

Firen-

1937.

(7) G.

CONTINI,

JI! linguaggio

di Pascoli,

in

Varianti

e altra

linguistica,

Torino

1970,

195

di oggetti selezionati, un mondo aulico e illustre, che ha una sua conquistata dignità formale. Il Pascoli gli appare invece nel clima del mondo quotidiano: ha bisogno, per esprimersi, di rifarsi alle cose umili, e nel linguaggio adotta una lingua nuova, che fa parte della « democrazia poetica ». Esiste una realtà di cose familiari, non ammesse al linguaggio tecnico dei poeti. Pietrobono,

che ebbe

cultura

storica

e sensibilità

estetica,

il tempo nuovo

colse queste innovazioni, che annunziano

ac-

della

poesia contemporanea. Si scontrò con gli scritti crociani proprio a partire dal linguaggio, accettando l’afflato lirico di Zvani: il diminutivo dialettale era apparso a Croce « una stonatura gravissima ». Non

si badò, se non marginalmente,

al Serra e a Panzini,

a Cecchi e Baldini, ai quali il ritmo del sentimento pascoliano sembrò in linea alle inquietudini del nostro tempo. Croce volle, invece, tornare al Pascoli, per riconfermare la sua tesi, messa in dubbio, con sagacia, dall'analisi dello scolopio Pietrobono nel-

l'antologia, edita da Mondadori nel 1918, con cinquantasei poesie. Definì il religioso « colto e fino d’ingegno »; lo invogliava a rileggere il Pascoli, trattandosi di « una guida bene informata, esperta e affettuosa, e a dir vero per questo riguardo - commentava non mi è toccata alcuna delusione ». Aggiunse però che « forse » il compito del padre poteva essere tacciato « di sottigliezza e ingegnosità eccessive, effetti di eccessivo amore » (8). Il Pascoli per la critica

crociana

è «un

atassico »; non

sa coordinare

i

movimenti. E’ un poeta o un verseggiatore? Pietrobono, invece, dosava la stagione poetica pascoliana esaminando la lingua, la sintassi, i metri senza cedere, preoccupato, per le tracce di forme

dialettali e superando numerose difficoltà in una chiara esegesi. Non doveva discolpare nessuno, sottolineò il carattere di grazia dell'amico, divenuto eloquente, quando la natura o la storia gli garantiva, per la risonanza che otteneva

in lui, un momento

di

largo respiro e di autenticità (°). C'è voluto del tempo, come avviene per il testo dei veri poeti, per trovare con i critici odierni

le forze confluenti di una poesia che vive delle proprie « risorse », e getta luce per ulteriori ricerche. Pietrobono notò che l’arte

(8) B.

CROCE, G. Pascoli, Bari 1920, p. 106. (9) Cfr.: G. FALLANI, Ricordo di L. Pietrobono,

196

Roma

1980.

iN

pascoliana sembra disfare una immagine tradizionale, ma provò come quel disfare giovi effettivamente a ricostruire, nell’immagi-

ne finale, il compito e il destino di un poeta. Identificata la necessità di una lingua, maturata tra la cultura e i modelli del giorno, tra i letterati e il popolo, Pietrobono spiegò ch’era possibile il suo ruolo di commentatore, secondo il criterio e la norma

di una letteratura che ha i mezzi per guardare al domani. Dai crepuscolari agli ultimi, chi è entrato nella prospettiva dei moderni sa che il retaggio pascoliano non è passato inosservato. Pasolini ha citato:

Sbarbaro,

Ungaretti, Montale,

Onofri, Betoc-

chi. La comunicazione del Pietrobono ha ottenuto il risultato di fornire alla nuova generazione gli elementi utili per capire il plurisenso, l’allegoria, i valori sentimentali, la realtà così varia della sperimentazione pascoliana, passata lentamente nell’assimilazione delle forme del Novecento da Gozzano, a Corazzini, a Moretti.

Pietrobono seppe mantenere la sua vicinanza - anche in senso religioso - ai legittimi interrogativi del poeta. Con la discrezione di uno che dice la verità sapendo di non avere il diritto, come scrisse Manzoni, d’imporla; provvide all’arredo sacro per la Cappellina

di Castelvecchio,

inviando

i candelieri,

il Crocifisso,

le

cartegloria. E, naturalmente, il poeta pensò subito a Dante, alla processione Negli

mistica, anni

ai sette candelabri

universitari,

Balbino

del Paradiso Giuliano

Terrestre.

alternando

alla

filosofia le sue interpretazioni pascoliane, ci assicurava che la coscienza italiana avvertiva in quella poesia « il momento in cui lo spirito umano ha avuto il coraggio di fissare arditamente l’oscura profondità

del cielo, dove si era spentala luce di Dio,

riuscendo ancora a scorgerne un lontano chiarore » (!°). Le pagine critiche di M. Valgimigli, G. Devoto, G. Pasquali, N. Sapegno, L. Russo, F. Petrini, G. Petrocchi, S. Vazzana, confermano la tesi del Pietrobono: « Versi, strofe, immagini, stile, tutto porta

la sua impronta personale. Egli ha ottenuto l'intento ». Citando

le traduzioni dal greco, dal francese, come pure dai suoi poemi latini notò che, in questa misura profondamente

soggettiva, tut-

(10) B. GIULIANO, La poesia di G. Pascoli, Bologna 1938, p. 136. Cfr. inoltre F. PETRINI, Pascoli, Brescia 1950; L. RUSSO, La fortuna critica del Pascoli, in « Belfagor », 31 maggio 1954;

La poetica pascoliana,

del Pascoli, ivi 31 marzo Roma, 1974.

1955;

S. VAZZANA,

La

struttura

psicologica

dell'opera

197

to diveniva pascoliano. E aggiunse che la lingua il Pascoli l'ha ripresa dal popolo « Non solo lingua, arricchendola di tanti vocaboli, ma

la naturale

snodatura

del discorso.

Si ferma,

si ri-

piglia, dialoghizza, ripete, come facciamo tutti parlando. I critici dicono che l’arte è un’altra cosa; e forse diranno bene. Ma il Pascoli tentando di avvicinar la prosa alla vita, di fonderla con questa, pensava con tanti altri che l’arte è natura ». E citò, dopo

il commento a più liriche, una dedica che il Pascoli appose a un esemplare della Divina Commedia: « Ho veduto un uomo farsi più lontano, eppur più grande; tramontar nel buio e splendere nel cielo; sparire dalla vita e apparire nella immortalità. Era un poeta! » (!!). Sentiva il Pascoli di appartenere alla famiglia dei poeti? Credo non gli dispiacesse sapere che quel posto, che forse gli avrebbe attribuito la posterità, gli era stato già assegnato, in vita, oltre che da Gabriele D'Annunzio, dal felice presagio e dalla stima del suo grande amico Luigi Pietrobono (”).

(11) G. PIETROBONO, L’opera poetica di G. Pascoli, in « Rassegna contemporanea », n. 5, maggio 1912, pp. 772, 793. (12) A cura di S. Zennaro, in occasione della Mostra promossa dal Comune di Alatri (21 novembre 1980), in coll. con la « Casa di Dante in Roma », è stato pubblicato un catalogo: Mostra documentaria dedicata a L. Pietrobono, Comune di Alatri 1980, con bibl. delle

opere di lui, e sugli studi della critica.

198

FURIO FELCINI PASCOLI TRA CARDUCCI E D'ANNUNZIO 1. Il ’silenzio’ del Carducci e la disputa a distanza tra 'scolaro’ e ‘ maestro’ - 2. ’Epistola metrica’ A Giuseppe Chiarini (con un ’ apologo’ sulle’ pene del poeta). - 3. Indagini metriche e tentazioni drammaturgiche Mille e il metro

della Figlia di Iorio). - 4. - Destina-

tario e destino dell’ ’epistola metrica’ giore e minore’). 5. Ragioni metriche del Pascoli sulle Laudi dannunziane.

(il metro

di Nell’Anno

(malumori verso il ’ fratello mage teoria estetica. - 6. Un giudizio

1. Aprendo nella « Nuova Antologia » del 1° luglio 1886 l’articolo Arte e poesia, una lunga recensione di versi del Mazzoni, del Ferrari, del Marradi,

del Pascarella —

ma

in realtà motivo

centrale e persistente dell'intero articolo pare essere, di là da un'analisi dei versi di quei giovani poeti, un riproporre a sé stessi il problema del rapporto ‘arte’ - ‘poesia’, un interrogarsi sul significato di fondo di quei due concetti —, il Carducci manifestava nel seguente modo il proprio intendimento circa i presupposti necessari al critico che intenda pronunciarsi con fondatezza sui versi di poeti esordienti,

e comunque

giovani, non

senza profitto dei medesimi Tant'è:

i giovani vogliono fare ancora poesie; e delle loro mostrano volere, certo hanno caro che si parli, o se ne dia, come dicono, giudizio : e che significhi giudizio nel desiderio d’un poeta, si sa. Ahimè, giovani! La poesia è oramai più agevole scriverla che discorrerne a garbo. A ogni modo, giudicare no, che è vocabolo superbo di povera cosa; ma a chi sa modestamente il mestiere può essere lecito dire il parer suo; e forse utile — intendiamoci, comparativamente alla utilità generale della poesia —, se di quelli che scrivono egli conosca almeno un poco la natura dell'ingegno e la educazione delle facoltà; altrimenti, il giudicare è sempre rischioso, imprudente e forse impudente il consigliare, e pur lodando c'è il caso di fare torto (1). poesie, se non

(1) G.

CARDUCCI,

Bozzetti

e scherme,

Opere,

III,

Zanichelli,

1929,

pp.

419-420.

199

Scritto « contro voglia » e «in fretta » (7), l'articolo prosegue col tono e l'andamento tra di conversazione su tema ob-

bligato e di sfogo personale. Sui quattro poeti il Carducci, fe-

dele ai propositi, non esprime in effetti veri e propri giudizi; si

affida, semmai, al metodo dei raffronti, tentando delle approssimazioni critiche, e annota osservazioni e analisi descrittive, intervallate da lodi talora eccessive, subito temperate da rilievi

severi. Se giudizi e opinioni egli formula, essi mirano alle tendenze generali della ‘ moderna poesia italiana ‘, la quale « séguita a corrompersi » « alla francese », impadulandosi in « parnasserie », in « accademie di virtuosi », e facendo dell’« arte per l’arte »

il proprio ideale; o, più incisivamente, si riferiscono alle condizioni storiche dei tempi, le quali paiono rifiutare, come un anacronismo, le categorie poetiche e le forme metriche (« Il verso è nella società moderna un non vero »). A maggior ragione, poi, argomenta il critico, i tempi si dimostrano inadeguati al sorgere della poesia ” epica’ (« Senza la passione d’un’idea, d’un partito, d'una persona o di più persone che abbiano un valore storico e morale e non di macchiette, l’epos non si fa: né l’epos piccolo né l’epos grande, né l’Iliade né una romanza del Cid. Ma dunque un artista d’oggi ha da parteggiare per le passioni di seicento anni fa? No: ha da mettersi in quei piedi »). Oltre che dei noti obiettivi polemici, si tratta, com'è evidente, di questioni che assillano

lo stesso Carducci. Una delle quali, allora attualissima, quella della distinzione tra poesia e prosa (« Sta a vedere quello che si intende per poesia. La poesia, come arte e come forma, io credo non abbia ragione d’esistere se non con l’intonazione montata almeno d'un grado su la prosa, come quella che deve rappresentare una condizione speciale dell'animo onde parte ed esigere una condizione speciale dell'animo a cui viene, condizioni idonee

a produrre quel fenomeno artistico che si chiama poesia più tosto dell'altro fenomeno artistico che si chiama prosa »): che costituiva uno dei temi e nodi cruciali della letteratura secondoottocentesca. Il critico ne additava una possibile soluzione in una

operazione

che, in chi mostrava

rifiutato i ‘generi’ appariva,

(2) G. CARDUCCI,

200

Lettere,

XVI,

pur con

Zanichelli,

1960,

di non

avere

totalmente

l’esempio collaudato

p. 39.

dal

poeta latino dei ‘ Sermoni ‘, come una operazione sottobanco (« Se no facciamo de’ sermoni. Se non che nei sermoni, per esempio, d'Orazio, c'è sempre, o spesso, un tratto, un técco, uno scatto, che accusano la poesia »). ‘ Tocchi‘, ’ scatti’ che, rivelando quella condizione speciale dell” animo ‘, e sollevando di qualche ‘ grado ’ 1” intonazione’ del ’ sermone ‘, ne riscattano il destino di poesia ‘ dimessa ”. Né si può sorvolare su uno dei più noti assiomi car-

ducciani che fa immediatamente seguito all'esordio dell’articolo Arte e poesia : « Se la poesia è e ha da essere arte, ciò che dicesi forma è e ha da essere della poesia almeno tre quarti ». Non

era

del medesimo

avviso

l’amico

Giuseppe

Chiarini,

il quale, in virtù d’altri modelli ed esempi, quelli dei suoi inglesi e tedeschi (scrittori inglesi e tedeschi il Carducci ricorda nell’articolo unicamente per rilevare di passaggio che il rinnovamento delle relative letterature affonda le radici nell'antica poesia popolare delle rispettive nazioni), pensava che non solo la ‘’ poesia ‘, ma le stesse ‘forme’ e il ‘linguaggio’ di essa possono trovarsi nelle cose più umili e nella vita quotidiana. Il Chiarini lo avrebbe espressamente affermato qualche anno dopo in una ‘lettera aperta’ al Carducci che è in gran parte una tarda risposta ad Arte e poesia: Alcuni poeti inglesi, che allora, grazie agli eccitamenti e ai consigli del Nencioni, studiavo con grande ardore, mi avevan fatto

rifiorire nella mente una vecchia idea, che nella lunga consuetudine con te si era un po’ indebolita, che cioè gli argomenti della poesia, e le forme di essa e il linguaggio, si potessero e dovessero anche cercare vicino a noi, nella nostra vita di tutti i giorni, anche fra le cose e le persone

più umili

(3).

Ove il vecchio amico del Carducci fissava in termini familiari e dimessi un contrasto che si può dire emblematico di un'epoca. E aggiungeva il Chiarini: ERA À à à Il poeta ha il diritto di fare dei versi che, pur essendo versi paiano prosa. E in questo loro parere, e nella illusione che ne deriva sta, secondo me, il maggior pregio loro (*).

1902,

(3) G. CHIARINI, p. XVI. (4) Ibidem.

[/ Lettera

Sul medesimo

aperta /] A. G. Carducci,

concetto

cfr. E. MONTALE,

in G. CHIARINI, Sulla poesia,

Poesie,

Mondadori,

Zanichelli 1976, p. 58.

201

Ancora in polemica con l'illustre amico che, pur avendo preso atto dei tentativi poetici (del Chiarini stesso e del Mazzoni) di « introdurre tra noi una poesia parlata, domestica, delle cose pietose e solenni ma vere, vere di tutti i giorni, come si dicono da tutti », aveva però soggiunto: [Voi] volete mettermi in versi quello che sta benissimo in prosa per mostrare che [...] sapete camminare per le vie su’ trampoli come un altro con gli stivaletti? E così facendo voi affermate che la poesia esiste d'una vita propria? (5).

Il fatto è che il Chiarini faceva derivare l’ambivalenza ‘ poesia’ - ‘prosa’ da una concezione della poesia come « rappresentazione corretta del vero » (6). Ed era, codesto, uno dei punti di maggior discrepanza tra i due: Io ho sempre che ridire — si legge nella risposta del Carducci alla ‘lettera aperta’ dell'amico — sull’opinione tua circa la poesia del, vero : io sto sempre al grande esempio e al gran fatto del Goethe

(7).

L'antico sodale del Carducci

muoveva

l'uomo e della letteratura in certo modo

da una visione del-

opposta a quella del-

l’amico. Era la visione d’una realtà storica, per dir così, diseroicizzata. Ed era, parallelamente, una visione ‘sletterata’

(per far ricorso a un termine coniato dal Pascoli per indicare incisivamente lo spogliarsi e il liberarsi dalla letteratura) () dell'arte e della poesia, dalla quale anche nasceva Ia persuasione che non poteva ormai avere più valore la vecchia distinzione tra parole poetiche e parole prosaiche, [e] che tutte le parole registrate nel dizionario, e quelle magari non registrate, sono egualmente buone per il poeta e per il prosatore (2).

Né col Carducci l’amico conveniva circa la ‘montatura nazione’ che distinguerebbe la poesia dalla prosa: (5) G. CARDUCCI, (6) G. CHIARINI,

Bozzetti e scherme op. cit., p. XXVI.

cit., p. 440.

(7) G. CARDUCCI, Lettere, XXI, ed. cit., p. 97. La lettera è del 17.XI.02. (8) G. PASCOLI, Lettere a M. Novaro e ad altri amici, Boni, 1971, p. 96.

(9) G. CHIARINI,

202

op. cit., p. XXVII.

d’into-

Ciò che distingue veramente e formalmente la poesia dalla prosa — asserirà il Chiarini — è il metro e il ritmo, il quale non è altro che un freno che lo scrittore s'impone (19).

Codesti motivi dell'articolo carducciano meritavano un indugio non fosse altro che per l'immediata testimonianza che ce ne viene circa l'impostazione e il dibattito su problemi che, di là dai due diretti interlocutori, hanno travagliato le generazioni letterarie del secondo Ottocento. E in modo particolare per il fatto che su ciascuno di quei temi offerti dalle considerazioni carducciane ebbe motivo d’intervenire, ora privatamente, ora pubblicamente, il Pascoli. C'è da pensare all'impegno col quale per anni il poeta romagnolo indagò la questione relativa alle condizioni storiche o metastoriche idonee alla nascita dell’epos (!!), o il problema, in parte connesso con la questione precedente, del metro appropriato alla poesia epica o, anche, atto a dare « cittadinanza italiana ai poemi epici dell’antichità ». O all’assillo per il chiarimento del rapporto della poesia col « vero ». Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe in seguito alla constatazione di alcuni punti d’incontro col Chiarini, il Pascoli si dichiarava su posizioni nettamente in contrasto con quelle di lui circa il carattere distintivo tra poesia e prosa, che il poeta romagnolo indicava nel « ritmo », il quale, peraltro, lungi dall’essere un « freno », costituisce la precipua ragione di essere della poesia (!). E in ciò lo scolaro del Carducci si dimostrò non lontano dal principio carducciano della ‘ montatura d’intonazione’ e da quello della ’ condizione speciale dell'animo’, quali premesse perché il ” fenomeno della poesia ’ ‘abbia luogo ”. Distante dal Carducci, invece, e prossimo al Chiarini parrebbe il Pascoli nel concepire la poesia come esistente d’«una vità propria ». Ma in questo interveniva un composito sistema d’idee le cui componenti andavano

da un principio

sostanzialmente

(persino negli scritti del Mazzini « la Poesia è diffusa come

il Pascoli

elemento

idealistico-romantico

poteva

leggere che

per entro a tutte le cose;

è

il pensiero del mondo; è l’anima della creazione », e il ‘ pensiero ‘ mazziniano riportava in Fior da fiore) a persuasioni che trovavano (10) pp. XXVII

-

XXVIII.

(11) G. PASCOLI, Per un poeta morto, « Fanfulla della Domenica », 6-XI.92; e La poesia epica in Roma, in G. PASCOLI, Prose, I, Mondadori, 1957, p. 975. (12) G. PASCOLI, A Giuseppe Chiarini - Della metrica neoclassica, in Prose, TACIt, pp. 949-955. Il Chiarini usa il termine « freno », si direbbe sulla scia del Capuana che aveva parlato di « pastoie del ritmo » (cfr. G. Pascoli, op. cit., p. 949).

203

l'avallo scientifico in talune affermazioni

della biologia evolu-

zionistica (1°). Detto questo, c'è da osservare che nella ora tacita, ora sco-

perta polemica col maestro Carducci, accadde al Pascoli trapporre non infrequentemente all'immagine del ‘poeta sorgimento ’ l’immagine in certo modo antagonistica di rato casalingo » (!*) dell'amico di lui Giuseppe Chiarini. figura, nella biografia e negli scritti del Pascoli, almeno

sante dei rapporti col Carducci, appare un po’ come

di condel Ri« letteLa cui sul ver-

quella del

genio tutelare (‘), di colui che in una certa misura lo risarciva del ’ silenzio’ del Maestro. Un ‘silenzio’, quello del Carducci

in veste di critico nei riguardi dell’opera di poesia del suo più famoso alunno dell'ateneo bolognese, che resta consegnato alla storia della nostra letteratura. Meglio che ricordare come avanti il 1° luglio ’86 (data dell'articolo carducciano) del Pascoli poche cose fossero uscite a stampa, importa fermarsi su quella che il Carducci, dando a vedere di non trascurare una tipica esigenza dello storicismo erudito, considera quale condizione necessaria per discorrere con qualche utilità dell’arte di poeti esordienti. Nella sua doppia veste di poeta e di maestro d'una facoltà filologica, il Carducci vuole muovere da sicuri dati cognitivi circa l'ingegno e l'educazione del gusto di chi scrive versi. Ora, non si può negare che nessun altro più e meglio di lui era in grado di conoscere la « natura dell’ingegno e l'educazione delle facoltà » del Pascoli. Vien fatto allora di osservare

del codice

di comportamento

che se in taluni casi, sulle norme

del critico

sembrò

prevalere

la

coscienza della sua condizione e professione di maestro, nel caso

del Pascoli quell’alta e severa coscienza dovette farsi più inflessibile che mai. E’ vero che quella del Carducci intese essere una scuola di studi severi, e non una scuola per poeti, una scuola di poesia. Ma probabilmente tale considerazione è soltanto un tentativo di risposta, d’una parziale risposta, all’interrogativo circa le ragioni del ’ silenzio’ di cui s'è detto, e che dovette essere mo-

tivo d'una tra le più brucianti delle non poche ‘pene’ del poeta romagnolo. (13) Su ciò si veda F. FELCINI, verta’ degli archetipi, (14) G. PASCOLI,

(15) ivi,

204

p.

497.

Ragioni metriche

« Letture pascoliane », Barga, op. cit., pp. 503-505.

e teoresi pascoliana: 1984.

il poeta alla ' disco-

Con accenti aspri (particolarmente nei confronti dell'amico Severino), nel maggio del 1902 (era quello il tempo della clamorosa rottura col D'Annunzio),

il Pascoli se ne doleva in una let-

tera a Luigi Valli: L'insistere di tanti sulla mia scolaraggine rispetto al Carducci finisce col dispiacere pur non tanto perché io stesso ne ho testimoniato.

Ma

dispiace

alla lunga non

vedere,

non

aver

visto

mai

un cenno da parte di lui di ricordarla e gradirla. Tutti credono di sapere in Italia che l'uomo che reputa più degno di sé è il D’Annunzio: e che l’alunno prediletto di lui é il Ferrari (Severino); tutti e due non discepoli di lui, sebbene, più o meno, seguaci e clienti (16).

Due, com'è evidente, sono i bersagli verso cui si appunta qui il risentimento del Pascoli: da un lato il silenzio del Carducci, dal quale si sente talora ignorato quale diretto scolaro; dall'altro la diffusa opinione circa soprattutto chi, tra coloro che a torto sono ritenuti discepoli del maestro

bolognese, abbia

titoli di successione, e sia nelle intenzioni di lui in predicato per essere suo legittimo erede. Basti per ora l’accenno all’argomento su cui si tornerà più avanti. C'è piuttosto da chiedersi se dinanzi all'opera del Pascoli poeta italiano, il Carducci non

sia stato

costantemente

trattenuto

dal

pronunciarsi

su

di

essa come da una sensazione di rischio. Sappiamo sì da testimonianze ineccepibili che il Carducci lesse ammirò declamò nel lontanissimo ’77 alcuni sonetti pascoliani appena pubblicati su « Pagine sparse ». Ed è indubbio che lodò l'Ultima passeggiata dell’86. E che espresse un incondizionato elogio per la lirica Novembre pubblicata sul « Resto del Carlino ». Ma tutto ciò ha l’aria d'essere l’affettuoso plauso dell'esperto del mestiere per l'esordiente, plauso manifestato sempre in un ristretto ambito privato (epistolare o conviviale). Non meno occasionali e generici

i pareri del Carducci sul poeta latino. Calorosi ma non privi di significative riserve anche quelli sull’antologista e sul commentatore

di classici.

(16) La lettera è in F. M. MARTINI, Nell’intimità d'un grande poeta. Confidenze epistolari di G. Pascoli, « Corriere della sera », 8 novembre 1930. L’irritazione, in quel particolare momento, pare dovuta al compiacimento manifestato dal Carducci al D'Annunzio per la

sua

Francesca

da

Rimini

(« pensata

e

scritta

con

intelligenza

del

tempo

e

dell’arte »,

G. CARDUCCI, Lettere, XXI, ed. cit., p. 68). Non un segno di gradimento da parte del Carducci per la copia di Myricae inviatagli dal Pascoli (cfr. M. PASCOLI, Lungo la vita di G. Pascoli, Mondadori, 1961, p. 321: «appena fu pronta la nuova edizione [la terza] gliela

mandò »).

205

Ma persino l’unico fugace confronto

di lui con le poesie

italiane del Pascoli, verificatosi quando era ormai per uscire la terza edizione di Myricae, confronto di cui resta una testimonianza stampata, ebbe un'origine casuale, e rimase pubblicamente

anonimo. Interpellato da Ugo Pesci, direttore della « Gazzetta dell'Emilia », la quale aveva dato notizia della recente vittoria con-

seguita dal Pascoli nella gara di poesia latina di Amsterdam, la cui Accademia aveva qualificato di Liburnensis il poeta romagnolo, il Carducci rettificava l'informazione ragguagliando il direttore del giornale su alcuni episodi e notizie biografiche riguardanti il passato e il presente del proprio antico alunno, non senza manifestare fuggevolmente la propria opinione sul poeta italiano. Si ritiene opportuno riportare qui il testo autentico della lettera (!), della quale sarà il caso di tentare di soppesare le parole, magari fino alla pedanteria. Di casa, 1 aprile 1894 Caro cav. Pesci, Giovanni Pascoli di cui è parola nella Gazzetta di questa mattina, non è livornese; è romagnolo, di San Mauro; al Liceo di Livorno è professore di greco e latino. E’ il secondo [la sottolineatura è del Carducci] premio che riporta per poesia latina dalla R. Accademia d'Olanda. Fu alunno di questa nostra Facoltà filologica; e a’ suoi bei giorni, o cattivi, fu anche socialista e in prigione. Il prof. Gandino e io lo confortammo e richiamammo agli studi. Scrive anche versi greci; ed è autore di poesie italiane finissime, forse troppo, ed eleganti e animose. Non dia a stampa questa mia lettera come sta, ma ne cavi tutto quello che vuole. La saluto. Suo Giosue Carducci.

(17) Si tratta del testo che il possessore dell’autografo della lettera, avuto da lui in dono dal Pesci, pubblicò nel « Giornale d’Italia » del 15.IV.1912. Mi assicurò d’aver trascritto il testo dall’autografo Goffredo Bellonci, allora redattore del quotidiano romano. Il volume XVIII delle Lettere (Zanichelli, 1955, p. 291) si attiene a una lezione che viene detto (ivi, p. 330) essere stata tratta dal « Giornale del Mattino » di Bologna del 15-IV.1912. Quale detta lezione? Delle « poesie italiane » vi si dice : « autore di poesie italiane finissime, forse troppo

eleganti ». L'aggettivo « animose » viene tralasciato. E l’inciso « forse troppo » è attribuito a « eleganti ». In favore dell’autenticità del testo qui dato pare deporre il trafiletto apparso

nella « Gazzetta dell’Emilia » del 2.1V.1894 dal titolo I! Pascoli è romagnolo, stilato come pare evidente, sulla falsariga del manoscritto carducciano. Eccone l’ultimo capoverso: « Giosue Carducci e il prof. Gandino lo confortarono e lo richiamarono all'amore degli studi classici, nei quali ora primeggia. Scrive anche versi greci; ed è autore di poesie italiane finissime, forse venti

206

troppo, ed eleganti del Pesci.

e animose ».

I ritocchi

sono

frutto

evidente

degli

autorizzati

inter-

Quasi schematica nella distribuzione delle parti che la compongono, la lettera rivela una studiata gradazione degli elementi che l’informatore intende proporre all'attenzione del destinatario. Tenuto conto, certo, del fatto che lo scritto vuole essere anzitutto una rettifica (romagnolo, non livornese; profes-

sore di greco e latino, e non d'italiano; il secondo in ordine di tempo, e non il primo premio), è indubbio che al Carducci preme tracciare un profilo esauriente dell’antico discepolo, fermare talune essenziali vicende della vita di lui, nonchè dichiarare

le qualità del suo ingegno. Ora, ciò che salta subito all'occhio è che la poesia italiana è menzionata per ultimo. Vuole in tal modo il Carducci dare maggiore risalto a quella componente dell’immagine dello scolaro, oppure mostrare di considerarla come la meno significativa? Sta di fatto che dei cinque capoversi in cui la lettera si articola, quello centrale sembra voler mettere in evidenza due dati che fissano i tratti incisivi dell'immagine ‘ storica ‘’, per dir così, del Pascoli. L’essere stato egli diretto alunno della facoltà filologica bolognese (e dunque merito e vanto di quella se era riuscito insigne latinista), e l'essere stato ai suoi bei giorni o cattivi in prigione per motivi politici (*). Ma per quello che più importa qui: vale a dire tentare di stabilire quale in sostanza sia stata l’intima disposizione del Carducci verso la poesia italiana del Pascoli — almeno alla data della lettera —,

quest’ultima

offre un

tamente

sintomatico.

La valutazione

(« poesie italiane finissime

elemento

se non

risolutivo,

cer-

è affidata a tre aggettivi

[...], eleganti e animose »). Il primo

aggettivo può riferirsi sia alla delicatezza, tenuità, raffinatezza del sentimento, sia a qualità formali. Può valere: ‘ lavorate con molta

cura’,

con

arte raffinata, e, anche,

concepite

con

squisi-

tezza di sentimento, con sottigliezza. E già con codesta ultima accezione (con l'aggravante del « forse troppo ») si sconfina in un significato che facilmente richiama la preziosità e l’arzigogolo. Il secondo aggettivo (« eleganti ») parrebbe correggere quell’ultimo significato e riportare l'attenzione quasi esclusivamente sulle forme. L’’ eleganza ” vale leggiadria, grazia, e anche

(18) E’ arduo tentar di capire l’insistenza di quel ricordo nell'animo del Carducci, con quella menzione così precisa del fatto. Quando è risaputo ch'egli si pronunziò in favore della piena innocenza dello studente di San Mauro. Per le reazioni del Pascoli si veda G. PASCOLI, Lettere a M. Novaro e ad altri amici cit., p. 44 e p. 45.

207

una

possesso del senso dell'armonia e dell'ordine. Decisamente

qualità che non dispiaceva al Carducci. L'aggettivo « animose » pare inteso a chiarire che ci si trova dinanzi a forme non inerti, a una vena ideativa non priva di passione poetica. Le glosse ai tre epiteti potrebbero continuare (!). Dall'insieme peraltro si ritrae l'impressione d’un parlare come in bilico, di chi abbia timore di dire troppo. Non v'è dubbio, d’altro canto, che l'esplicita riserva (« forse troppo ») rifletteva la persuasione del Carducci circa una mancanza di misura nell'impiego da parte del Pascoli delle sue pur eccellenti doti. Parere del resto confortato dal giudizio carducciano sull’antologia latina Lyra (lavoro [...], pur con gli eccessi dei suoi pregi e le solite preziosità e soverchie finezze, veramente bello e originale) (2).

Sulla « Gazzetta dell'Emilia » il testo della lettera carducciana, pur adattato dal Pesci ad anonima ‘’ notizia’, restò nella

sostanza immutato. Secondo Mariù la ragione del profondo turbamento da cui fu colto il fratello alla lettura del giornale bolognese sarebbe stato l’accenno ai tempi del socialismo e della prigionia. E’ vero che soltanto qualche mese dopo il Pascoli seppe da Giulio Gnaccarini, genero

del Carducci, che la notizia era

stata dettata dallo stesso Carducci. Ma non può essere che il turbamento

fosse cagionato, oltre che da quel ricordo, anche

dalle

parole di chiusa della ‘rettifica’, che parevano consentire un accostamento della poesia italiana del Pascoli a quella dell’elegante e prezioso D'Annunzio? L’anno successivo il poeta romagnolo ebbe un altro motivo d'irritazione nei riguardi del Carducci, che, dimentico, a parere dello scolaro, della proclamata identificazione ’ arte” - ’ poesia’ (e il fatto sta a indicare come l'articolo carducciano dell’86 fosse restato

ben vivo nella memoria

altro libro del Pascarella,

del Pascoli), nel presentare

sembrava

capovolgere

un

quella prima

teoria :

(19) « artista rigori e vede, il quel che (20)

208

Nel dar notizia al Chiarini d’averne acquistata l’opera omnia il Carducci definiva finissimo » Baudelaire. Subito aggiungendo : « padrone nell'uso de’ suoi strani ghidelle profonde incisioni » (G. CARDUCCI, Lettere, VII, cit., pp. 128-129). Come si Carducci ricorre alla medesima definizione usata per il Pascoli, ma integrata da segue. G. CARDUCCI, Lettere, XIX, ed. cit. p. 247.

Mi gode l'animo — così il Carducci — di presentarvi qui sana semplice forte la persona di Cesare Pascarella. Sano, semplice, forte; che per me e per i migliori è l'ideale dell’uomo vero nella vita e nell’arte. E tale essendo egli poté salvarsi dall’influenza, per così dire, della morbosità poetica che affligge la generazione odierna. Morbosità la quale si manifesta nella concentrazione di mughetteria che è l’essenza dell’arcadia rinnovata, e che nei più nuovi distilla la sua preziosità decadente e simbolistica (21).

Il Pascoli, toccato sul vivo, manifestava il proprio animo all'amico De Bosis: A chi allude, a che cosa accenna

con le seguenti parole

il Carducci nel presentare il

buon Pascarella, solo ora « sano semplice e forte »? [...] Il rispon-

dere sarebbe pur piacevole e facile, con nient'altro che con accozzare i suoi giudizi e le sue teoriche manifestati a proposito ora di Severino Ferrari, ora del Mazzoni, ora della Vivanti, ora del Pascarella (2).

Come a continuare un segreto dialogo a distanza anche nel tempo col maestro, il Pascoli se ne ricorderà alcuni anni più tardi, e risponderà a lui nella Prefazione ai Conviviali, replicando punto per punto, a quelle che allo scolaro erano sembrate censure riferibili alla sua arte, e contrapponendo all’accusa di ‘arcade’ la coscienza della propria ‘ forza ’, ‘ semplicità ‘’, ’ semplificazione ’ : Sono dunque sincero quando parlo della delizia che c'è, a vivere in una casa pulita, sebben povera, ad assidersi avanti una tovaglia di bucato, sebben grossa, a coltivare qualche fiore, a sentir cantare gli uccelli... Ma questa sincerità si chiama, dai malati di storia letteraria, Arcadia. Io sono (...) un arcade. La mia, oltre che finzione sarebbe anche sdolcinatura e smascolinatura [...]. Io non credo troppo all'efficacia della poesia, e poco spero in quella della mia; ma se un'efficacia ha da essere, sarà [...] di forza; perché forza ci ho messo, non avendo nel mio essere semplificato dalla sventura, se non forza da mettere (23).

Alle ‘incertezze’

teoriche

del maestro,

inoltre, nel dialogo

del Fanciullino, il Pascoli opporrà una stringente analisi dei fatti della letteratura. Egli giungerà alla sostanza del problema, risolto in un assioma che capovolge ogni costruzione storiografica, riallanciandosi ad una mitica riscoperta dell’uomo interiore, (21) G. CARDUCCI, Ceneri e faville, Opere, XI, Zanichelli, (22) M. PASCOLI, Lungo la vita di G. Pascoli, Mondadori, (23) G. PASCOLI, Poemi conviviali, Poesie, VI, Zanichelli,

1902, p. 378. 1961, p. 415. 1905, pp. IX-X.

209

dell'umano « primordiale e perenne (« La poesia è tal meraviglia che se voi fate ora una vera poesia, ella sarà della stessa qualità che una vera poesia di quattromila L'uomo

[...] comincia

a far gli stessi

anni or sono

vagiti

e guaiti

[...].

in tutti

i tempi e luoghi. La sostanza psichica è uguale nei fanciulli di tutti i popoli »). Ciò che differenzia i due poeti è in sostanza un diverso atteggiamento verso le ‘lettere umane’. La storia letteraria sa di compendi e cataloghi, il culto di essa è morbo e malsanie per la poesia : noi, dichiara il Pascoli, « siamo malati di storia letteraria ». La riflessione estetica pascoliana giunge a travalicare ogni astrazione o categoria storicistica. La « poesia elementare e spontanea » è da lui identificata tout court con la poesia in assoluto, originata e vivente fuori del tempo e della storia. Essenza pura d’un’entità considerata di là da ogni parola storica, di là dalla ‘letteratura’. Non v'è successione, accrescimento, perfezionamento entro la sfera propria della poesia, della poesia ‘pura’ (la quale né « progredisce », né « decade », né « muore », né «risorge »). E nel mondo dell’uomo interiore non vi sono stacchi o distanze tra l'originario e il presente, l’antico e l’oggi. Il Pascoli, sostenuto nei suoi convincimenti dai risultati della biologia evoluzionistica ch'egli rielabora e concilia con le propensioni del suo spirito vocato alla riflessione sulle operazioni della psiche, giunge alla persuasione che l’’umano’ nella sua essenza ultima è cosciente manifestazione del ” sentimento ‘ allo stato puro, scevro d’ogni passione ed affanno, agevolmente identificato con l’’infanzia’, intesa quale fondamentale categoria dell’’umano‘. Mediante la quale il Pascoli intende offrire una idea della poesia che non è adeguazione a un assoluto, ma è essa stessa a porsi come assoluto, come via alla ‘ verità’, anzi ’ verità’ essa

medesima.

Poeta

primitivo,

originario,

Omero,

in quanto

voce fedele del ” fanciullo’ che a lui parla nel cuore. Padre della poesia è l'antico poeta per il Carducci, ma in quanto egli è all’origine della ‘storia’ della poesia, della poesia come tradizione, in quanto è all'origine della civiltà dell’Ellade. Egli è difatti l’« Omero

ellenico ». Omero,

anzi, « è » l’« Ellade ». Poeta

e vate

d'un popolo da cui trae origine la tradizione classica, la religione delle lettere. Nella caratterizzazione delle polarità delle due distanti concezioni della poesia il Pascoli, che ha la persuasione d’aver svelato una verità che sconvolge le tavole della retorica, non

210

si perita d'additare, quale esemplare della polarità opposta alla propria, l’opera del ‘ maestro ’, dando principio alla dissoluzione del ritratto del ’ poeta della terza Italia”: Il:poeta, se e quando è veramente poeta [...], riesce perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d'amor patrio e familiare e umano [...]. Ma [...] non deve farlo apposta. Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno, sia con pace del Maestro, un artiere che foggi spade e scudi e vomeri [...]. Gl'italiani abbarbagliati per lo più dallo sfolgorìo dell’elmo di Scipio, non sogliono seguire i tremolii cangianti delle libellule [...]. Come vuoi che ascoltino lo stormire delle foglie e il gorgoglio del ruscello o il canto dell’usignolo [...} se lì presso la banda del villaggio assorda la campagna coi tromboni e i colpi di gran cassa? (2).

La parodistica utilizzazione d’un linguaggio che per un verso si direbbe il ricalco di certa imagerie del Carducci polemico, e per altro verso la deformazione

pause

paesistiche

carducciane,

di traslati retorici o di

consente

al Pascoli passaggi

di

demolitrice ironia, la quale accentua fortemente la distanza tra due contrapposti concetti di poesia. Da un lato la poesia come ‘voce dei secoli’, dall'altro la poesia che registra la voce delle “cose da nulla’, che sorprende la vita dell’efimero e del mutevole. Nelle non poche pagine dettate per onorare il Carducci in realtà il Pascoli non tanto tende ad esaltare il ‘ poeta’, quanto il ‘“prosatore’, il risolutore dell'eterna questione della lingua, l’inauguratore dell’« eloquenza » nella nostra letteratura, di quell’« eloquenza » che l’« Italia non ebbe mai se non quando parlava latino » : Carducci ha dato all'Italia nuova la sua nuova lingua, portentosa, né aulica né volgare, e l’uno e l’altro [...]. Ci fu chi osservò come oggi anche i giornali {...}] siano scritti molto meglio [...] in confronto di quelli d'una ventina d’anni fa. Ebbene, questo è avvenuto principalmente per l’efficacia della prosa carducciana [...]. L’Italia finalmente in lui e per lui parlò una lingua che ella poté chiamare propria. Ed ebbe l’eloquenza. Noi abbiamo presente il giudizio di Giacomo Leopardi. Mancava con molte altre cose, l’eloquenza (25).

(24) G. PASCOLI, Prose, (25) ivi, pp. 412-413.

I cit., p. 30, p. 31, p. 43, pp.

alla

nostra

letteratura,

47-48.

211

Che era forse anche un modo per deviare il discorso, salvando il tono e l'intento celebrativo, su di un terreno nel quale le persuasioni teoriche pascoliane potevano sfuggire a compromessi contrastanti con le dichiarate premesse.

Precisando, c'è da osservare che talora il Pascoli indugia nell'individuare alcuni ‘ momenti’ di ‘poesia’ del Carducci, 0, più esattamente, forse, nel nominare ed evocare le ‘cose’ poetiche o la ’poeticità’ delle cose scoperte dal maestro, mediante un'operazione di ritaglio di particolari còlti, parrebbe, con la disposizione di chi si lascia trascinare da una sensitività e percettività acuite da un gusto che non è più quello carducciano, di chi ‘vede’ e ‘ sente’ la poesia carducciana diffusa e come sospesa nell'aria, nel paesaggio bolognese, come per un fenomeno d’impregnazione (*). Poesia ormai disindividualizzata, destoriciz-

zata. Una operazione dunque che si direbbe la riprova o il riscontro in concreto del canone estetico formulato nelle ultime pagine del Fanciullino : Il poeta non

deve

avere,

non

ha, altro

chezza, non

di gloriola o di gloria)

nella natura

donde

uscì, lasciando

fine

(non

dico

di ric-

che quello di riconfondersi

in essa un accento,

un raggio,

un palpito nuovo, eterno, suo [...]. Quando fioriva la vera poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s’inventa;

si badava alla poesia e non si guardava al poeta; o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto (2).

se era vecchio

E vale anche quale apertura polemica contro quel « male » che, sostiene il Pascoli, « ingrossa sempre più »: quello di « richiamare sopra di sé l’attenzione e l'ammirazione che è dovuta soltanto alla poesia », se è vero che «i poeti dei nostri tempi », prosegue l’autore del Fanciullino,

« sembrano cercare invece delle

gemme che ho detto, e trovare, quella vanità che è la loro persona » (?*). Un « male » del quale non pare essere stato immune il maestro ” (Tutti abbiamo veduto anche dopo che egli aveva detto alcune delle più mirabili creazioni, lui ansioso aspettare l'approvazione; e quando trovava, e trovava spesso, credete, non che l’approvazione, l'applauso, il grido, il delirio, essere felice, il divino fanciul-

(26) ivi, p. 459.

(27) ivi, p. 55. (28) ivi, p. 56.

lo, per un quarto schirsi) (29).

d’ora; e poi ridubitare

e riaccigliarsi e rinfo-

Avverta chi vuole ironico-polemiche venature persino nel richiamo al « divino fanciullo », e, prima, al « poeta vecchio o giovane », « calvo o capelluto » (si tratterebbe, ancora, sin nella chiusa delle pagine teoriche del Pascoli, sostanzialmente tutte volte a ricostruire un'estetica e una poetica sui ruderi e sui frantumi d’un

codice letterario che il Carducci aveva fatto proprio, d’un polemico additamento del binomio Carducci-D’Annunzio, già avviato del resto con inequivocabili riferimenti nel corso della prosa medesima) (*). Sta di fatto, per concludere un tentativo di bilancio dei rapporti ” maestro ” - ‘ scolaro ’ - dal quale non si può non argomentare che la critica più sottilmente demolitrice del-

l’arte carducciana è stata proprio quella dello scolaro romagnolo - sta di fatto che dal complesso delle pagine che il Pascoli, anche per dovere, certo, oltre che per schietti sentimenti di gratitudine e d’affetto, ha dettato

per celebrare

il Carducci,

di là

dalla riscoperta delle cose poetiche di lui e oltre all’elogio della nuova ‘lingua’ della sua ‘prosa’, è agevole dedurre il quadro d'una prevalente tensione mitizzatrice in cui si ’ sublima’, per così dire, l'immagine vulgata del poeta acclamato dai contemporanei : quello del ’ poeta di Roma eterna’, del ‘poeta della storia’. Si tratta ovviamente d’un assenso o consonanza solo apparente con l'opinione vulgata dei contemporanei, se si pensa che anche quella che parrebbe la prosecuzione da parte del Pascoli del filone epico-italico avviato dal Carducci con la Canzone

di Legnano, non sarà se non una netta deviazione di quel motivo in un clima di dissoluzione metastorica. L'” epica” patriottica pascoliana (dalle Canzoni di Re Enzio agli inni a Roma e a Torino e ai Poemi del Risorgimento) vuole o vorrebbe essere un tentativo di riscoperta del medesimo puro lume di poesia che splende nei versi di Omero

e di Turoldo, nella storia italiana dal Medio-

evo al recente ’ eroico’ passato. Ma la stessa immagine del Carducci poeta di Roma e della storia il Pascoli tende a ricondurre entro quello che a lui sem-

(29) ivi, (30) « Il un artiere » che altri gli

p. 439. poeta è poeta, non oratore» etc., «e nemmeno, sia con pace del maestro, etc., « e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro porga » (ivi, pp. 29-30).

213

bra il limite e insieme il merito maggiore dell'esperienza poetica del maestro. Il quale, a parere del Pascoli, scopre sé stesso soltanto quando scopre i « canti antichi » e li « rivive nella lingua nostra » (*), quando la « bellezza antica, che non vanamente

ave-

va desiderata, gli versa il nepente », « farmaco contro il dolore e l'ira » (©). E’ il momento della poesia che coincide con l’esperienza ‘ barbara’, poesia che secondo il Pascoli vive soprattutto

per quelle risonanze ed echi dell’antico : quello che nella lettera metrica al Chiarini il Pascoli definisce « ritmo riflesso ». 2.

Attraverso

la citata lettera del Pascoli a Luigi Valli, nella

quale pure il D'Annunzio non entra propriamente quale ‘’ soggetto attivo ’, si ha modo

di intuire, qualora anche ignorassimo

to-

talmente l'andamento dei rapporti tra il Pascoli e il D'Annunzio, in quale ruolo il pescarese abbia potuto contribuire a inacerbire le già acute ’ pene’ del poeta romagnolo, nei momenti in cui veniva in qualche modo a inserirsi nell’intricata trama delle relazioni tra ’ scolaro ” e ’ maestro’. Ma è risaputo del resto che all'origine dei non

malumore

rari episodi di risentimento,

che non

cancellarono

titudine

che fondamentalmente

l'animo

di corruccio,

di

da parte del Pascoli verso i due poeti coevi, episodi però mai l’affetto, la venerazione,

per il ‘ maestro’,

il poeta

né, salvo

romagnolo

alcuni

incidenti

la gra-

nutrì che

nelinter-

ruppero per qualche anno i loro rapporti, l'ammirazione e la riconoscenza per l’’emulo’ amico (*), vi furono il timore o il sospetto, se non talora la constatazione di vedersi ignorato o po-

sposto ad altri, di vedere non adeguatamente considerata la propria opera, riconosciuto il proprio ingegno, o altra volta magari

il disappunto nel sorprendere nelle pagine altrui fruizioni non sempre abilmente mascherate di proprie invenzioni, immagini, ‘intonazioni ‘,

‘impasti’

verbali.

I contraccolpi di quelle intime tribolazioni sono frequentissimi nei documenti privati del Pascoli, ma non mancano

nelle

(31) ivi, p. 433. (32) ivi, p. 383. (33) Per l’amplissima

documentazione sui rapporti D’Annunzio-Pascoli si veda G. FATINI, Il Pascoli e suo fratello minore e maggiore, in Il D'Annunzio e il Pascoli e altri amici, Nistri-

Lischi, 1963, pp. 7-131. E, tra i più recenti e notevoli sull'argomento, lo scritto del Traina: I fratelli nemici (Allusioni antidannunziane nel Pascoli) in A. TRAINA, Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, II, Patron, 1981, pp. 221-250.

214

pagine di lui più letterariamente impegnate, aperta’ A Giuseppe Chiarini sulla « metrica

come la ‘lettera neoclassica ». La

quale, di là dall’argomento per sé stesso, che obbligava in certo modo il Pascoli a non poter prescindere da un sia pur passeggero confronto con le posizioni in materia prosodica e metrica proprie del Carducci e del D'Annunzio, per le vicende cui si richiama la stessa tormentata storia compositiva del documento metrico, oltre che per qualche singolare tratto della parte proemiale di esso, si offre quale utile documento per registrare un'importante sezione del diagramma turbatissimo delle relazioni del Pascoli coi due più famosi poeti suoi contemporanei, nei loro riflessi di natura piuttosto letteraria che puramente umana (se pure è sempre possibile considerare selettivamente i due aspetti). E’ indubbio che, come anche s'è ripetuto, i timori e i sospetti che turbarono i rapporti del Pascoli con gli altri erano generati ed esasperati da quella sua indole apprensiva e sensitiva, ch'era poi la sua debolezza e l’origine delle sue debolezze, e che anche lo poneva talora in condizione di apparire non generoso. Nella la ‘pena’,

‘lettera’ per un

sulla « metrica verso

neoclassica » gli echi

del-

celati, quasi, tra le righe dell’esordio

del documento metrico — esordio aperto a toni intensamente evocativi, eppure percorso, come si vedrà, da sottintesi intenti rivendicativi —, per un altro verso, si direbbe, esibiti attraverso

citazioni nel testo originale del King Lear, paiono voler suggerire il canovaccio d’un patetico ‘ apologo ’, per il quale il Pascoli si avvale d’un pastiche d’inserti shakespeariani, che a prima vista possono sorprendere. Peraltro l’indubbia chiave dell’’apologo’ il Pascoli consegna in più luoghi del suo epistolario.

Già l’avvio della ’ lettera metrica ‘, sotto il segno dell'impresa barbara carducciana (« Ricorda [...] l'apparizione delle Odi barbare? » — chiede il Pascoli al destinatario —), consente all'autore

d’inserire sé stesso tra il protagonista dell'impresa e chi (il Chiarini) era sceso in campo « ad appoggiare e difendere » [le Odi Barbare

], « quando prima urtarono

nelle inerte e dura moltitu-

dine degli odiatori del nuovo » (« anch'io — dichiara il Pascoli — fui di quelli che ascoltarono dalla bocca del poeta a mano a mano le singole odi prima che uscissero in globo »), e gli offre

altresì l'opportunità di ricordare al Chiarini (ma la rievocazione

215

del passato era in effetti, nelle intenzioni del Pascoli, destinata al Carducci) l’affezione e l'ammirazione nutrite per il ‘ maestro ‘ in quegli anni lontani, quando allo ‘scolaro’ pareva d'essere « benedetto » dal « good master della poesia italica » « sopra ogni altro » (8). Bene — prosegue il Pascoli —: ma certo era my love more richer than my tongue (8), e io non riusciva sempre a heave my heart into my mouth (%), e ammiravo, per quanto sentivo e intendevo, nor more, nor less (37). E questo dico non tanto perché mi auguri che il good master della poesia italica (88), quando sarà giunto, come io auguro all’Italia, all'estrema candidissima vecchiezza (8), esclami con pietà di reminiscenza su me: his voice was ever soft gentle and low... (49) ma perché si intenda che la mia impressione d’allora può essere conosciuta anche ora senza sospetto : è fresca infatti e sincera. Ebbene, io percepiva in quelle odi due ritmi: uno proprio, uno per così dire, riflesso. Era ciò che il poeta voleva (4).

(34) « Benedetto io sopra ogni altro, quando egli diceva col tremito nella voce: ’Ell'è un’altra madonna, ell’è un'idea’... ». Versi che rammentò d’aver udito primamente dalle labbra del maestro anche nei Ricordi d'un vecchio scolaro. E, nelle parole dette per la morte di Andrea Costa agli studenti dell’Università bolognese, identificando sé stesso con l’amico degli anni giovanili, ripeterà per lui quanto aveva scritto per sé («Il Maestro pensava sempre con affetto e rispetto al suo uditore (’uditore ‘ alle lezioni del Carducci era stato il Costa) cercato, bandito, incatenato, imprigionato, esiliato, diffamato. E a lui pensando, proprio a lui, ad Andrea Costa, pronunziava quelle alte parole che è bene ripetere sul suo sepolcro: ' Ell’è un’altra Madonna, ell’è un'idea / Fulgente di giustizia e di pietà » etc. (35) Cfr.

King Lear,

I, i, (v. 76 circa)

(è Cordelia

che

parla):

« Since

I am

sure

my

love

's/ More ponderous than my tongue » [« Poiché ne sono sicura, il mio cuore ha più peso della mia lingua »]. La lezione citata dal Pascoli (mi avverte il collega William N. Dodd, che ringrazio per questa e per altre informazioni relative al testo della tragedia) è quella degli in quarto. La lezione richer è, infatti, nel variorum (I, i, 77). (36) ibid., (v. 89 circa) E’ ancora Cordelia a parlare: «I cannot heave / My heart into my mouth. I love You Majesty / According to my bond; no mor nor less» [« Non so far

salire il mio cuore fino alle labbra : io voglio bene dovere; né più né meno »].

(37) (38) in King (39) (40) del

Cfr. la nota L'espressione Lear si trova L'espressione La citazione

proprio

cuore

a Vostra

Maestà

quanto

comporta

il mio

precedente. Anche la variante « nor more » si trova negli in folio. è rintracciabile in più d’un testo shakespeariano. Più che « good master » « good my lord » e « good my liege ». o meglio l’immagine è dato incontrare in più d’un luogo del King Lear. rinvia all'atto quinto, al punto in cui Lear, tardi pentito della sordità

verso

l’unica

fedele

delle

sue

figlie,

con

Cordelia

appena

morta

tra

le

braccia, rammemora la voce sempre soave sommessa carezzevole di lei. Cfr. King Lear, V, iii (v. 272 circa): « Her voice was ever soft, / Gentle, and low - am excellent thing in woman » [« La sua voce fu sempre soave, carezzevole e sommessa, qualità eletta in una donna »]. Evidente la mutazione di femminile in maschile del pronome (his per her). (41) Che in un documento dedicato al Chiarini sia citato Shakespeare, e di Shakespeare dei passi

in cui

si esaltano

le virtù

della

pia Cordelia,

non

desta

meraviglia,

se

si ricorda,

tra l’altro, che del Chiarini era di recente apparso un volume di Studi shakespeariani (tra i quali un saggio dedicato a Le donne nei drammi dello Shakespeare e nella « Commedia » di Dante),

216

volume

per la cui pubblicazione

presso

un

editore

livornese

s'era

adoperato

il Pascoli.

La carica allusiva dei passi shakespeariani (*) offre un raggio di riferimenti che oltrepassano lo specifico argomento, vale a dire la volontà del discepolo di far conoscere la propria ammirazione e intelligenza della metrica barbara carducciana e della nuova poesia nata con quella. Dietro il pretesto di richiamare l’attenzione e d’invocare la riconoscenza del maestro su di sé, unico scolaro che prima e meglio d’ogni altro aveva còlto il vero significato dell'impresa ‘barbara’, additandone per primo quella che a suo dire era l’autentica base scientifica e storica dell'esperimento del ’ maestro’, nelle parole del Pascoli è da vedere un ulteriore tentativo di sollecitare il Carducci a rompere il ’ silenzio ‘, l'intento di vedersi in qualche modo

crescere

nella considerazione di lui. I luoghi della tragedia cui il pastiche fa riferimento lasciano agevolmente trasparire il significato cui il Pascoli vuole rinviare il destinatario della ‘lettera metrica’. Dietro l’immagine di Lear, vecchio e malato, che si accinge a dividere i territori del regno e la propria sovranità fra le sue tre figlie, e giunge a diseredare Cordelia, perché schietta di sentimenti e di parole, per premiare le due profittatrici Regana e Gonerilla, abili in frasi false ed untuose,

e da ultimo,

troppo

tardi pentito dell’errore,

piange la figlia fedele ormai morta, ricordandone l’amore schivo e silenzioso,

non

è difficile

ravvisare

il vecchio

sovrano

della

poesia italiana, il Carducci, che, per quel che al Pascoli pareva di capire, propendeva a premiare ed esaltare due che non erano suoi veri discepoli (lo stesso Pascoli li nomina nella ricordata lettera al Valli : Tutti credono di sapere in Italia che l’uomo che [il Carducci] reputa più degno di sé è il D'Annunzio : e che l’alunno prediletto di lui è il Ferrari (Severino) : tutti e due non discepoli di lui (#3),

e che per più segni dava prova di voler considerare suoi eredi, mentre ignorava l’unico autentico scolaro che silenziosamente lo amava e ammirava da sempre. Alla singolare psicologia pa-

(42) Cfr.

le note

(43) Ovviamente sue

tre

da 35 a 40.

nell’’ apologo ” (il cui

figlie /) Severino

Ferrari

non

entra,

titolo per

così

potrebbe dire,

suonare:

in virtù

‘Del

d’una

re

Lear

personale

bensì per i riflessi che su di lui fanno ricadere gli altri. Al poeta dell’Alberino la parte di Gonerilla o di Regana.

non

e

delle

iniziativa,

si addiceva

214

scoliana appariva non

sconveniente

e non

incongrua

l'identifi-

cazione con la vittima shakespeariana dell’ingiustizia e del male. Chissà peraltro se già dal primo fermarsi dell'attenzione su quella tragedia di Shakespeare non era già implicita nel ‘vecchio scolaro ’ la velata denuncia d’una situazione per la quale il Carducci veniva ad assumere il medesimo ruolo del colpevole Lear del primo atto della tragedia. Pure il Pascoli osava sperare che anche il ‘ maestro’ nella sua « estrema candidissima vecchiezza » avrebbe riconosciuto con « pietà di reminiscenza » la silenziosa ammirazione e la schiva affezione del ‘ vecchio scolaro ‘. Tra i documenti nei quali si legge a chiare lettere l'intento del Pascoli d’inserire nella vicenda sé stesso col Carducci e il D'Annunzio, i più eloquenti ed espliciti sono offerti da due lettere, delle quali una inviata al Chiarini nell’aprile dell’01, ove tra l’altro è detto: Io mi dichiaravo più d’un anno fa — lo voglio far apparire per atto notarile — la Cordelia del Carducci, ma per tutt’altre ragioni che quelle che possono apparire ora (#).

e l’altra, quasi degli stessi giorni, al Caselli, nella quale il Pascoli rileva con asprezza l'attitudine passiva [...] del Carducci a farsi spossessare, vivente, del suo scettro poetico, {da} un altro poeta laureato e coronato [...], e imposto con la suggestione delle mille trombe e dei mille tamburi della fama, che tolgono il senno alla gente (4).

Aperto, nella lettera al Chiarini, il riferimento alle citazioni dal King Lear. Agevole avvertirlo nella lettera al Caselli. Il vecchio scolaro del Carducci fa presente all'antico compagno di lui che le parti sono al presente mutate : non sono più le virtù della pia Cordelia a dover essere poste in vista ora, bensì l’ingratitu-

dine del vecchio Lear. Quali le ragioni del mutamento, grazie al quale l’’apologo’

amplia l’apertura

dei significati

sino ad ab-

(44) Il brano di Jettera al Chiarini si legge in F. ANTONICELLI, Lettere del Pascoli a Giuseppe Chiarini, Studi per il centenario della nascita di G. Pascoli, I, Bologna, 1962, p. 297. (45) G. PASCOLI, Lettere ad Alfredo Caselli, a c. di F. DEL BECCARO, Mondadori, 1963, pp. 118-119. Ma i sospetti e i risentimenti del Pascoli travalicano la diretta responsabilità del Carducci per indirizzarsi verso coloro che approfittano della cedevolezza del vecchio poeta (ibid).

218

bracciare ora per intero, si può dire, il ventaglio delle corrispondenze coi motivi umani della tragedia? Le ragioni sono indicate nella citata lettera al Caselli. Non va dimenticato che a un dipresso in quei giorni il D'Annunzio — l’« altro poeta laureato e coronato e ufficiale » — mieteva applausi con pubbliche letture della Canzone di Garibaldi, nei cui versi il Pascoli

avvertiva gli echi dei propri inni garibaldini (Ad Antonio Fratti e Manlio), e il ricalco dei ritmi epici da lui ritrovati e impiegati nella versione metrica della Chanson de Roland, alcuni episodi della quale aveva inserito in Sul limitare. E, anche, in quel torno di tempo, il Carducci plaudiva, con un telegramma che fu pubblicato da tutti i maggiori giornali, alla dannunziana ode In morte di Giuseppe Verdi, al cui autore augurava « gloria italiana pura » (#). Ma, lasciate da parte le considerazioni

sul curioso ‘apologo‘; il quale pure offre altri utili spiragli — se ve ne fosse ancora bisogno — sui pascoliani modi di ‘lettura’ della realtà e della vita, sulla propensione innata del poeta romagnolo a trasmutare

o traslatare (nel senso

del ricorso alla metafora,

al tra-

slato) la realtà della propria esperienza interiore, i rapporti del proprio spirito, con i fatti dell’esistenza, mediante il ricorso a mediazioni letterarie, a filtri culturali, i quali, più che a velare o

celare le emozioni

e reazioni, ne esaltavano

portata (come nel caso

della mediazione

ed esasperavano

shakespeariana,

la

ove la

utilizzazione d’un testo di tanto alto livello poetico rasenta non sai se l’ingenuità o l’involontaria parodia), importa tornare alla lettera metrica’: ai suoi richiami e connessioni con le esperienze dei due massimi

poeti coevi del suo autore, e, insieme, al

suo significato nelle intenzioni e nell'opera del Pascoli. C'è anzitutto da ricordare che fin da quello che non è da escludere sia stato il momento della sua ideazione, il documento pascoliano sulla « metrica neoclassica » era destinato al D'Annunzio e non al Chiarini. In effetti, la spinta esterna e immediata che sollecitò il Pascoli a fermare in una ‘lettera aperta’ una sua teoria metrica parrebbe essere stata la richiesta di consigli riguardanti la versione ritmica italiana di passi lirici dell’Antigone di Sofocle rivoltagli, nel settembre del "96, da « Francavilla al Mare negli Abruzzi », dal D'Annunzio: (46) G. CARDUCCI,

Lettere,

XXI,

ed. cit., p. 9.

219

Mio caro Giovanni, credi tu che sarebbe possibile una versione ritmica italiana d'una tragedia di Sofocle? Quali sarebbero i tuoi modi nel tradurre, per esempio, il coro

dell’Antigone :

esempio,

Boc, due

«

nel tradurre

"Epoc

&VIKATE

la lamentazione

Uéx av... »?

E

che incomincia

per

quali,

« ra TÜL-

‘ 4 © vupgpetov, O KOTAOxaphñc…. »? Ti sarei infinitamente grato se tu volessi mandarmi questi saggi: il coro e le seguenti parole di Antigone fino a

«GA Ayépovir

vuupevocwo »; la lamentazione

più precisamente fino a « £00°

ëc Bavéviwv

intera, o quasi,

Épxouat

Kkata-

AKAPCA ». Mi perdoni questo fastidio che ti reco in mezzo al tuo grande lavoro? Io e Adolfo avevamo in animo di venire a udirti [il Pascoli, '

il 27 settembre,

avrebbe

commemorato

in Barga

Pietro

Angelio,

Il Bargeo]. Ma Adolfo d'improvviso fu colto dalla febbre [...]. Qui, lungo il mare, tu venivi spesso con noi spiritualmente, circonfuso dalla tua poesia. Hai trovato, in quest’ultimo tempo, suoni profondi e indimenticabili : suoni di dolore e di terrore. Ma io vorrei vederti salire verso la Gioia! Addio per oggi, caro fratello. Da gran tempo io voleva mandarti un saluto. Per buona ventura, questa volta mi conduce di te la divina vergine tebana [...] (4).

Che il Pascoli aderisse

immediatamente

verso

all'invito è testi-

moniato da una lettera di lui al suo editore livornese, al quale scriveva d'aver « bisogno subito di Sofocle, edizione Teubner, o

dell’Antigone di Sofocle, commentata, nell'edizione Teubner, con note tedesche » (*). Al D'Annunzio il Pascoli rispose con qualche

mese di ritardo. Cercando anzi d’indagare le intenzioni di lui e di giungere a indovinare a che cosa egli stesse attendendo, nel timore, forse, d'essere preceduto nell'impiego di nuove strutture metriche

e di nuove

forme

d'ispirazione

(l’’ ode’,

la forma

co-

rale triadica?) - d'altro canto qualche anno addietro il D’Annunzio aveva sperimentato il componimento eroico-celebrativo con le Odi navali -, il Pascoli il 1° gennaio del ’97 ne scriveva al comune

amico

De Bosis:

(47) Omaggio a G. Pascoli, Mondadori, 1961, pp. 386-387. Com'è noto, il D'Annunzio, proprio nel settembre del ’96, avviava la composizione de La città morta, nel cui testo inserì alcune parti tradotte di / cori‘? dell’Antigone sofoclea. (48) L. PESCETTI, « Epos » e « Lyra» di G. Pascoli (Con un saggio di lettere inedite), « Giorn. stor. della letterat. italiana », fasc. 399, 30 trim. 1955, p. 420.

220

I... di Gabriele indovino che cosa sono. Io sento echi lontani. E’ un'idea che era anche in me e che godo intanto che realizzi l'insuperabile Stesichoros. I... sono cori o inni. E’ vero? E io che devo ancora scrivergli? (4).

E subito dopo, stimolato dal desiderio di venire in chiaro sul tipo di poesia corale che il fraterno antagonista aveva in animo d’impiegare (in versione dorica o in versione attica? Stesicoro o Bacchilide?), insisteva: E Bacchilide? cavilla...

Torna

a noi dall’Egitto, torna a noi da... Fran-

(50).

Ma la curiosità non dava tregua al Pascoli che al De Bosis, il quale lo lasciava ancora nell’incertezza (No — difatti rispondeva quello al Pascoli — no: i... di Gabriele non sono inni. Per questa volta sei molto lontano. Sarà bene lasciarti ancora nella curiosità) (51),

ribatteva

con

insinuante

ostinazione:

I... sono versi francesi. Meglio se inni. Inni voglio fare anch'io e cori. Oh!

se durasse per un anno

Le congetture

del Pascoli erano

o due questo

mio fervore

lontane dal vero, ma

(°).

forse

solo in parte, nel senso ch'egli riteneva che il D'Annunzio volesse muovere dallo studio e dalla suggestione dei modelli offerti dalla tragedia greca (il cammino inverso aveva tenuto taluno degli antichi

tragici greci nel trarre

nutrimento

per la propria

arte

dall'intensa interpretazione dei miti offerta dalla poesia corale triadica di Stesicoro) per giungere a forme della poesia corale greca classica. O gli era giunta la voce che il poeta abruzzese stava preparando la sua prima tragedia? Ma quel che gli premeva era che si sapesse (e parlare al De Bosis era come parlare al D'Annunzio) che anch'egli era in procinto di attuare forme di poesia sull'esempio dell’innografia pindarica. Una lettera del Pascoli al De Bosis di appena un mese innanzi (7 dicembre 96)

(49) (50) (51) (52)

M. PASCOLI, op. cit., p. 509. ibidem. M. PASCOLI, op. cit., p. 510. ivi, pp. 910-911.

prova che i problemi metrici erano in quei mesi nel laboratorio pascoliano tra quelli che polarizzavano le ricerche del poeta. Alalla traduzione

l’amico, che stava attendendo

del III libro del-

l’Iliade, chiedeva ragguagli sul metro ch'egli intendeva impiegare come d’un elemento fondamentale del

(La mia aspettazione per Omero si fa impaziente. metro, perché è capitale. O come dirà Priamo

piAov tékoc? E i vecchioni

Domando a Elena:

tettiyeootv tométeg? (0°).

Nell’annunciare poi al medesimo De Bosis che Epos era pronto, indugiava sul metro delle proprie traduzioni omeriche Nell'introduzione

vedrai

dei passi

d’Omero

metri, o esametroidi. Da ciò capisci che io non per quel verso italiano) (5),

tradotti in... esaho tanto orrore

si soffermava sulla sorte dell’esametro tra i contemporanei (Certo,

alcuni saggi anche del Mazzoni, ma specialmente di letterari, indispongono : certo il pentametro secca per la sua mancanza sistematica degli ictus principali e caratteristici del verso) (5), feti o aborti

e dava notizia d'una nuova poesia : Sotto il sicomoro (che in Odi e inni diverrà Convito d'ombre), per la quale, precisava, aveva impiegato il metro

forse saffico autentico, con rime come

Crisantemi

(5).

Di lì a poco offriva il primo esempio (il primo in ordine di tempo che si conosca nel Pascoli) di poesia a sistema triadico, nell’Inno a Giorgio Navarco Ellenico, esempio di lì a qualche

mese seguito dall’inno Ad Antonio Fratti, il cui testo era accompagnato dalla pubblica dichiarazione di avere da sempre meditato di offrire se non

dare

all’Italia la lirica pindarica

o corale

(37),

dalla promessa di dare prossimamente (53) ivi, p. 503. (54) ivi, p. 506. (55) ibidem.

(56) ibidem. (57) L'Inno funebre la nota

che

Antologia », lo giugno

222

ad Antonio

accompagna

l’’ inno?

1925, p. 224.

Fratti cfr.

G.

apparve LESCA,

ne La

« La Reg.

Tribuna » del 6 giugno Margherita

e G.

Pascoli,

1897.

Per

« Nuova

con una lettera a Gabriele D'Annunzio, regole e saggi originali sì di metrica lirica senza rime, più propriamente classica, sì rimata, più nostra e più chiara (5).

Ma nella prassi organatrice, i componimenti in metri ’ neoclassici‘, costruiti sull'esempio della lirica corale greca con sistemi strofici ternari, i quali avrebbero

dovuto, secondo un pro-

getto originario, costituire dei saggi originali di metrica lirica, sia classica, sia rimata, han finito con l’essere dislocati non soltanto in una raccolta di poesia ‘civile’, celebrativo-esortativa, come Odi e inni, ma anche nel volume dei Canti di Castelvecchio,

i quali si aprono con una lirica congegnata con strutture strofiche triadiche, come La Poesia (apparsa dapprima nel « Marzoc-

co » del 1° maggio 1898). E con La Poesia, nella medesima raccolta, con fisionomia

ternaria

(con strofe, antistrofe, epodo)

si

presentano Notte d’inverno, La canzone della granata, La canzone dell’ulivo, Il mendico. Il fatto nel suo complesso segna, nei confronti

del sistema

strofico-metrico

di Myricae,

già così

in-

quieto per la varietà della sperimentazione strofica e metrica, un'evoluzione che, si badi, risponde a un impegno e a un disegno che non negano le esperienze myriciane, né rappresentano un estemporaneo

mutamento

di rotta per sopraggiunte

e impreve-

dute ragioni di emulazione o di eredità civili e celebrative: un impegno e un disegno già iscritti entro le progettate prospettive di lavoro poetico d’un artista la cui dimestichezza con la varia

gamma di modelli della poesia greca e latina era dovuta anche alla quotidiana frequentazione professionale del Pascoli (per fare un esempio, nel gennaio del ’92 — usciva allora la seconda edizione di Myricae —, con Lyra Romana, il poeta disegnava un'antologia di lirici greci :Giambica e melica greca) (”).

Circa l'eredità carducciana si deve ancora osservare che il Pascoli non aspirava a una meccanica successione: alla continuazione d’un compito che il ’ maestro’ pareva avere ereditato a sua volta dai ‘vati’ del passato. Il poeta romagnolo era consapevole del radicale mutamento d'indirizzo poetico da lui operato. Una concezione estetica, la sua, opposta a quella del Maestro. La sua stessa poesia ‘civile ‘ solamente ad occhi superficiali poteva apparire una continuazio(58) ibid. (59) M. PASCOLI, op. cit., p. 322.

D D LU)

ne di quella carducciana. Che peraltro un assai acceso spirito d’emulazione vi sia stato nel Pascoli nei confronti della multiforme attività artistica del D'Annunzio è innegabile. Come pure è innegabile, d'altronde, che tra le prove dei due ’ poetae novi’ si stabilì un non

infrequente

mutuo

controcanto,

attuato talvolta in chiave parodica, e sempre eseguita su registri profondamente personalizzati (9). Dopo non pochi pensamenti, in un esaltante tumultuare

di

disegni e di propositi nuovi, di iniziative e riprese di lavori già avviati, il Pascoli, nel gennaio del ’97, comunicava

al D'Annunzio

il proposito di scrivere « una specie di trattato » in « forma di lettera » da indirizzare a lui, nella quale esporre le proprie « idee sulla metrica classica in italiano, a differenza della metrica barbara », con l’aggiunta di « saggi dell’esametro katà otiyov sino al coro », definendo la questione metrica una « questione ardente ». Della lettera di risposta del Pascoli alla richiesta del D'Annunzio ecco il testo: Caro

Gabriele,

Mi sono messo con tutta la testa [sic!] a rispondere a quella tua lettera, che fu, a suo tempo, una delle più grandi consolazioni che io abbia avute : tanto ti amo e ti ammiro. Pensa e ripensa... io vorrei scrivere un magno articolo, una specie di trattato, dove direi le mie idee sulla metrica classica in italiano, a differenza della metrica barbara, e darei saggi dall’esametro Kat otiyov sino al coro. E’ questione ardente ora più che mai questa, e per i tuoi lavori e per la traduzione di Omero che prepara

Adolfo.

Ora

io darei,

al mio

articolo

(da

stampare

sulla

Nuova Antologia) la forma di lettera a te, se non ti dispiacesse, ossia se tu vedessi in ciò non un pravo mio desiderio d’inalzarmi appendendomi alle tue grandi ale, ma un desiderio giusto e buono di mostrarti il mio affetto e la mia ammirazione e anche quello di dare un esempio (che mi pare necessario) di fratellanza letteraria tra un fratello maggiore e uno molto minore). Acconsenti?

E acconsentiresti anche che in testa invito, se non tutto, in estratti? Di indirizzarti la mia pistola lo voglio E rispondimi subito o quanto prima

alla lettera stampassi il tuo questo fa tu, ma l’assenso a dalla tua somma gentilezza. puoi. Tuo devoto e aff.mo

Giovanni Barga

(60) Non altrui ».

fu soltanto

(Lucca)

il D'Annunzio,

come

un

tempo

si credette,

a « spiare » i « quaderni

(61) Il testo della lettera è quello trascritto da CLAUDIO SCARPATI, pascoliani, « Lettere italiane », N. 4, Ottobre-Dicembre 1978, p. 541.

224

Pascoli

26 1897 (61).

Due

recuperi

Di là dall’'argomento che occupa l'animo del Pascoli (il lavoro metrico), la lettera lascia trasparire impulsi e sentimenti in conflitto tra loro: gratitudine e compiacimento per il gesto del D'Annunzio

che gli si rivolge come

a maestro,

ma

anche ti-

more che il desiderio che egli esprime di render pubblico quel gesto (« acconsentiresti anche che in testa alla lettera stampassi il tuo invito »?) sia male interpretato (« tu vedessi » « un pravo mio desiderio d’inalzarmi appendendomi alle tue grandi ale »); intenzione

che

sia

conosciuto

il loro

sodalizio

(e

letterario

umano) (prende corpo ora la nota formula del ’ fratello maggiore e minore‘, per la quale il Pascoli crede d’essere incoraggiato dalle parole dello stesso D'Annunzio che lo aveva chiamato « caro fratello »), e implicita manifestazione di quell’istintivo bisogno di protezione che lo spirito incerto del Pascoli pareva invocare ogniqualvolta avvertiva un animo schietto e affettuoso. Non ultimo l'impulso a proteggere la propria dignità a salvaguardare l’indipendenza della propria figura mortale di scrittore (£). Un atteggiamento simile tornerà nella Prefazione ai Conviviali (1904). Ivi il conflitto che l'animo del Pascoli esprime è da un lato il desiderio di disobbligarsi pubblicamente dal debito di riconoscenza ch'egli deve verso chi lo « aveva segnalato » « con parole di gran lode » quando era « ancora nell'oscurità » e quando gli altri tacevano », e in seguito

lo aveva

chiamato,

col De

Bosis,

a collaborare al « Convito », e dall'altro lato la fierezza di riaffermare la propria autonomia di scrittore che aveva scelto liberamente di ‘’coltivare la tristezza’ per un «utile dei suoi simili, asserendo di non essere mai stato « nemmeno allora » (nel momento d’essere chiamato a far parte d’un « vivo fascio d’ener-

gie militanti ») « chiuso in un giardino solitario » «a coltivare la propria tristezza » (4). E impronterà la parte centrale della Prefazione a toni che potevano sapere di polemica antidannunziana, là dove venendo a parlare della propria poesia rilevava la « forza » che vi aveva messo, « forza » « di poca vista » e « di poco

suono, perché senza gale e senza fanfare ». Alla metà del febbraio ’97 il D'Annunzio scoli della promessa dedica: (62) In conclusione, volere che quello gliela

(63) Per

le citazioni

l’alta stima che nutriva per ricambiasse pubblicamente.

si veda,

oltre

alla Prefazione

ringraziava il Pa-

il D'Annunzio

ai Conviviali,

spingeva

l'Omaggio

il Pascoli

a

a G. Pascoli

cit., p. 401 e p. 403.

225

Tu mi farai veramente un onor grande indirizzandomi la tua epistola. E vorrei anche consentire che in testa alla tua prosa tu stampassi il mio invito; ma temo che quella mia lettera — scritta in fretta — non sia degna di comparire in pubblico. Non sarebbe bene che io la rivedessi? (61).

Non sappiamo se a codesta seconda lettera del D'Annunzio il Pascoli

abbia

risposto

(ma è noto

che nella

corrispondenza

pascoliana col D'Annunzio c'è un largo vuoto). E’ probabile nondimeno che la richiesta del D'Annunzio abbia contribuito a stimo-

larlo nell’intrapeso

cammino

delle ricerche

sollecitarne le iniziative nella direzione e teatrali, anche.

teorico-metriche,

a

delle scelte lirico-corali

Ai problemi metrici il Pascoli si dedicava almeno da quando aveva avviato la preparazione di Lyra Romana (già pronta nell'autunno del ’94 e uscita nella primavera del ’95), nella cui introduzione offriva traduzioni da Omero, Esiodo, Callino, Archiloco, Tirteo, Ipponatte, Anacreonte, Saffo (di questa traduceva

le due « odi superstiti » nel « metro forse saffico autentico », del quale del resto offriva esempi in proprio nello stesso ’95 in Solon; degli altri poeti rifaceva in italiano il metro originale) (9). Alle esperienze drammatiche il Pascoli si era accinto almeno

dagli anni ‘94-95 (#). Né va dimenticato zione di Omero (), in distanza, fungevano per preparatorio per il metro che misura soccorrevano

che i saggi di tradu-

una foltissima prospettiva di lavoro a il Pascoli, oltretutto, anche da studio ‘’ epico ” (per l’epos ‘ italico ”), e in qualalle sue intenzioni lirico-corali, nel sen-

so per cui il Pascoli medesimo

nelle pagine introduttive a Lyra

(La poesia lirica in Roma) aveva additato la culla della poesia

(64) Omaggio

cit., p. 388.

(65) G. PASCOLI,

Lyra,

Livorno,

Giusti,

1911, pp.

XII-XXVII,

e Prose,

I cit., pp.

645-666.

Se all'invito del D'Annunzio è giusto riconoscere un significato di stimolo ai fini del proseguimento e dell’intensificazione delle ricerche metriche del Pascoli, occorre altresì non esagerarne l’importanza. Oltre ai progetti del ’92 c'è da ricordare che nel ’95 il Pascoli ideava un « manuale di litterae graecae in sei volumi [...] contenenti Etica, Lirica, Drammatica, Storia, Filosofia, Oratoria [...] con sussidi {...} di metrica ». Così il poeta al Martinozzi (cfr. G. PASCOLI, Lettere a Mario Novaro e ad altri amici cit., pp. 54-55).

(66) G. PASCOLI,

del ginnasio Editore,

si veda

226

in

Mille, Zanichelli,

PASCOLI,

Testi

teatrali

1923, p. 44. Per i tentativi

inediti,

a c. di A.

DE

teatrali

dei tempi

LORENZI,

Longo

1979).

(67) I quali [ma

Nell’Anno

G.

entrarono

realtà : ottobre

tutti

1899].

o

quasi

tutti

nell’antologia

Sul

limitare,

Sandron,

1900

lirica nella poesia epica (4). E dallo stesso esametro nascevano

3.

alcuni metri

Quanto

‘neoclassici’

pascoliani

alle aspirazioni drammaturgiche

omerico

(9).

con le congiunte

esigenze metriche, occorre precisare che sin dal loro primo manifestarsi esse si differenziano da quelle del D'Annunzio, il quale

guarda sostanzialmente ai modelli della tragedia greca. Già con gli abbozzi di Nell'Anno Mille (°), il Pascoli mira sì alle forme

tragiche, ma a testi poetici che valgano di ispirazione alla musica : Vedrai — dichiara all’Orvieto nel marzo del ?97 — che io mi dedicherò, più che ad ogni altra cosa, al melodramma che io concepisco

come

una

tragedia

(71).

E scrivendo al medesimo nell’aprile dello stesso anno aggiunge : Io mi sono ficcato in testa di sollevare il dramma musicale nella sua parte letteraria alle altezze in cui si trova in altri paesi e dar mezzo perciò ai musicisti di sollevarsi ad altezze enormi, non più viste. L'Itala Camena e la Moisa Ligeia mi aiutino (72).

Non sarà fuor di luogo, a tale proposito, rammentare che se nella intervista rilasciata all’Ojetti dal D'Annunzio questi tace sui problemi teatrali del momento, il Pascoli vi si intrattiene

con

teatro

vivo

interessamento,

naturalista

sottolineando

(che definisce

« forma

il fallimento

d’arte

povera

del

e infe-

(68) G. PASCOLI, Prose, I cit., p. 646. Circa i vantaggi della. ininterrotta familiarità con Omero del Pascoli traduttore e interprete c’è da ricordare, ad esempio, che gli stessi futuri inni a Roma e a Torino saranno da lui considerati «inni omerici » (M. PASCOLI, op.icit.,-p, 974). (69) Già il Valgimigli ha osservato che dall’esametro omerico è nato il metro ”liriconarrativo / pascoliano (M. VALGIMIGLI, Uomini e scrittori del mio tempo, Sansoni, 1965, p. 158). Non v'è dubbio che per quanto concerne l’inno Ad Antonio Fratti, se le misure di strofe, antistrofe, epodo rispondono a precisi metri italiani (strofe e antistrofe : ottonario+ ottonario + ottonario + novenario + endecasillabo + senario; epodo : endecasillabo + senario + endecasillabo + senario + ottonario + novenario + ottonario + novenario),

ogni coppia di versi delle singole unità strofiche dà adito a una scansione per misure quantitative, venendo ad equivalere a un esametro dattilico (il primo esametro di ciascuna strofe e di ciascuna antistrofe ha il terzo piede spondeo: es.: I. « Era sui culmini, o forte, era l'aurora sul monte ». II. Chi discendeva a quell'ora per le boscaglie di querci ». Ove è anche da notare la costante coincidenza di arsi, di accento ritmico e di accento grammaticale).

(70) G.

PASCOLI,

Nell’Anno

(71) G.

PASCOLI,

Lettere

Mille

inedite

cit., ad

A.

pp.

61-62.

Orvieto,

«Il

Ponte»,

Novembre

1955,

p.

1880.

(72) ivi, pp. 1877-1878.

227

riore ») e auspicando un teatro penetrato dal « pensiero », un teatro d'idee, che tenda a una forma di « poesia drammatica » sul modello di Shakespeare. Toccando gli aspetti storici del teatro europeo e trattando in particolare del rinnovamento degli strumenti tecnici, il poeta addita nell’uso dell’endecasillabo il primo momento della riforma teatrale: Il primo passaggio — dice egli all'Ojetti — potrebbe essere l’endecasillabo nostro, che ha forme così varie e così belle, ma lo si dovrebbe disporre in forma prosastica, un verso dopo l’altro, così da dare un periodo musicalissimo : questo fa in Belgio Maeterlinck nelle sue fiabe, con il verso alessandrino (%).

L'endecasillabo come base di partenza, dunque, come miniera di

possibilità metriche cui attingere per il ritrovamento del giusto ‘ritmo’ della poesia drammatica. Il verso lungo italiano veduto e trattato alla stregua dell’esametro classico («un verso dopo l’altro ») sì da dar luogo a un « periodo musicalissimo ». Che la richiesta rivoltagli dal D'Annunzio e la stessa fervida operosità teatrale avviata dal pescarese nel ‘97 possano avere suscitato nel Pascoli una forte volontà di competizione anche fuori del campo strettamente lirico e della sperimentazione prosodico-metrica lo si può dedurre, tra l'altro, dal fatto che lungo

il 97 il poeta di San Mauro riprende a lavorare il dramma l’anno Mille: Caro Angelello — ti scrivo

unicamente

così all’Orvieto per

dirti che

sul finire del marzo sto lavorando

e presto

Nel‘97 —, avrò

pronto un libretto - L’Anno Mille - in un prologo e tre stazioni o atti (7),

e ne invia il canovaccio al musicista Marco Enrico Bossi, al quale propone anche un oratorio d’argomento biblico in versi latini, oltre che un dramma ispirato all’Alcesti euripideo (”). Per il tramite del Bossi l’abbozzo di Nell’Anno Mille era giunto nelle mani del D'Annunzio (‘°), il quale, anche, poté leggere il Prologo del dramma

medioevale pascoliano nel ‘ numero unico ’ Gaetano Donizetti (1), (73) U. (74) G.

VIETO,

Prose,

(75) G. (76) ivi,

(77) G.

come

a c. di C. PELLEGRINI,

PASCOLI, p.

Testi

teatrali

Olschki,

inediti

cit.,

A.

OR-

1979, p. 142. pp.

20-21.

18.

PASCOLI,

fu pubblicato

1797-1897,

228

OJETTI, Alla ricerca dei letterati, Le Monnier, 1946, pp. 196-197. PASCOLI, Testi teatrali inediti cit., pp. 20-21. Per la lettera all’Orvieto,

Bergamo,

Nell’Anno nel / numero 1897.

Mille cit., p. 50. Quivi Maria riporta il testo del Prologo unico / Gaetano Donizetti nel primo centenario della nascita

cui il Pascoli era stato invitato a collaborare. Ciò si ricorda per

il fatto che il D'Annunzio di lì a qualche anno avrebbe adottato nella Figlia di Jorio formule

e misure

metriche

aventi una ri-

marchevole affinità con quelle pascoliane di Nell’Anno Mille. Tra le carte del Pascoli (lettere, appunti) indirizzate dal poeta a Renzo Bossi, figlio di Marco Enrico, vi è una nota sulle

forme prosodico-metriche adattate nel dramma, che obbediscono alle intenzioni di intonare il testo al color temporale (o metatemporale) dell’azione di Nell’Anno Mille, con l’impiego, come si legge nel documento, d’un « metro embrionale ». Si crede utile dare qui il testo della nota metrica, il cui significato oltrepassa ovviamente la sfera delle aspirazioni teatrali del Pascoli. Basti tener presente nella sua globalità l'ampio e organico insieme della sperimentazione metrica pascoliana che in quegli anni si intensifica nel senso d’una razionale sistemazione che comincia

‘odi’,

a dare i primi frutti, come

‘inni’,

s'è accennato,

nelle prime

‘canti’, composti e pubblicati lungo il ’97.

Metro. In generale ho adoperato il novenario corrispondente all’ottasillabo francese, con molta varietà d’accentazione. La sua

forma

principale è questa:

Il sôle vd domdni forma

giambica.

Altra

térna

forma:

E le stélle

dall’infinito.

Questa forma io me la spiego così: come mancasse una sillaba (anacrusi) a principio, e a mezzo il verso ci fosse un piede di tre sillabe (anapesto) invece che uno di due (giambo). Insomma le dall’inf, invece che dall’inf. Così certi versi hanno sillabe in più come O fibr d'amore! fior di viorna E il ciél s'è chiuso come si chiude I ré fuggirono nélle spelbnche 4

é si nascosero

nélle

tombe.

Tutto

ciò per ottenere una grande snellezza a pro’ del mugrande facilità di mutamento. La ragine filosofica (direbbe il Cellini) pertinente all'arte mia, in questo metro quasi embrionale, è questa: che nell’« anno mille » suppongo i versi ancora in formazione. Codesti versi s’avviano a essere endecasillabi senza essere ancora tali. Manca quache sillaba o a principio o in fine, o e a principio e in fine. sicista,

e.. una

229

Il sole va domani torna... torna E son... come ficuccioli dal fico Or... e le stelle giù dall’infinito. All'ultimo l’endecassillabo trionfa nel canto dell’alba. Così ho adoperato l’assonanza (spada amava, infinito fico etc.) con quest’avvertenza che dove è l’assonanza, c'è dialogo e recitativo; dove è rima si fa strada l’impeto lirico e siamo in piena mes’intende

lodia poetica

(?8).

Ora, si vuole far osservare che i criteri fissati nella nota, che il Pascoli fonda sull'idea di « versi ancora in formazione » che « s'avviano a essere endecasillabi », e ai quali per essere tali manca « qualche sillaba o a principio o in fine, o e a principio e in fine», e sull'uso del « novenario » impiegato con « molta

varietà

d’accentazione », anch’esso

ora

mancante

ora

sovrabbondante d’una sillaba, paiono essere in linea di massima quelli medesimi seguìti poi dal D'Annunzio nella sua « tragedia pastorale ». E anche, occorre aggiungere nella contemporanea Laus Vitae (1904) (”). E anche più importa notare

che ci

troviamo messi a parte di qualche segreto del laboratorio liricometrico ove, come

s'è accennato,

il Pascoli è venuto

altresì pre-

parando metri e combinazioni strofiche per i Canti di Castelvecchio e per Odi e inni (e si sa quale significato assuma il

(78) ivi, pp. 61-62. Ci si vorrebbe soffermare un istante su un punto della nota metrica per l'Anno Mille, vale a dire sulla scelta del « novenario corrispondente all’ottasillabo francese », quale base per il metro del dramma medievale. Appunto, novenari ora giambici ora trocaici, ora del tipo denominabile dal peone quarto sono nella clausola delle lasse de La Canzone del paradiso e de La Canzone dell’Olifante. E’ poi ovvio che, ad esempio, nel / Canto di Flor d'Uliva / il metro sia imitato o modellato sul novenario antico. E’ il poeta stesso a rinviare al Barzaz Breiz di Hersart de la Villemarqué. (79) Che la metrica adempia in Nell’Anno Mille e nella Figlia di Jorio un ruolo non proprio secondario ai fini dell’instaurazione, nell’un dramma, d’una atmosfera metatemporale (il Pascoli parla di « ambiente metastorico », di « qualcosa che abbia senso profondo e universale e moderno ») (ivi, p. 59), nell'altro dramma, d'uno spazio temporale che sia « quasi fuor del tempo » (così il D'Annunzio in una lettera al Michetti, nella quale aggiunge, precisando, che le sue figure, la cui sostanza è l’« eterna sostanza umana: quella di oggi, quella di duemila anni fa », sono retrocesse in una lontananza leggendaria »), è fuor di dubbio. Nella Figlia di Jorio è dunque dato constatare l’uso frequente del ‘novenario / variamente accentato, e alternato a misure ritmiche varie risultanti da novenari o mancanti o eccedenti per una e talora per più d’una sillaba. Vale a dire che anche il D'Annunzio ricorre

a

un

metro

primo,

scena

prima

«quasi

della

per la triplice iterazione

embrionale

Figlia

di Jorio

del primo

»,

a

un

è dato

verso

«ancora

incontrarsi

verso : « Silenzio!

in

in un

formazione ».

distico

Silenzio! Silenzio!

che,

/ Di

Nell’Atto

soprattutto

dentro

qual-

cuno risponde », fa pensare ai distici iniziali della strofe e dell’antistrofe del terzo momento del Prologo di Nell’Anno Mille (pubblicato come s'è detto in G. Donizetti, 1897): « Morrete! Morrete! Morrete! / O lettera, o segno tremendo »; e: « Morrete! Morrete! Morrete! | ché

230

‘novenario ” nell’esperienza ’ monodico ’ - ‘ corale’ pascoliana sui due versanti dei Canti di Castelvecchio e di Odi e inni), e anche

realizzando le singolari soluzioni metriche modellate sull’antico verso epico francese: i metri delle lasse de La Canzone del Paradiso e de La Canzone dell'Olifante, con le loro tipiche clausole che paiono richiamarsi ai criteri della or or citata ’ nota’ metrica. 4. Ma per riprendere il filo delle vicende relative alla destinazione dell’’epistola metrica‘, la testimonianza dalla quale è dato desumere che ormai il Pascoli non doveva pensare più al D'Annunzio quale dedicatario della medesima è in una missiva al Gargano del 25 ottobre ’98: Per la metrica voglio fare un librettino di poesie classiche preceduto da una grossa prefazione metrica con innumerevoli traduzioni dal greco e dal latino. La questione sarà risoluta. E poi, sai una cosa? Io voglio continuare i Pensieri sull’arte poetica. Il meglio è contenuto in libro (89).

.

Si vedrà più avanti il significato

dell’associazione

dell’ar-

gomento metrico ai Pensieri sull’arte poetica, usciti, com'è noto,

lungo i primi mesi del 97 nel « Marzocco », e dunque nel tempo del pieno fervore delle ricerche metriche. Ma quali le ragioni del dirottamento della dedica della ‘prefazione metrica’ dal D'Annunzio al Chiarini? Non sarà da supporre che il progettato abbinamento del proprio nome con quello di un artista abile e più fortunato possa, ad un certo punto, essere apparso al Pascoli una mortificante mediazione? Vien fatto inoltre di pensare a un altro dei punti dolenti dei rapporti del Pascoli col D'Annunzio, vale a dire quello dei sospetti o ravvisamenti da parte del poeta

romagnolo

di abili furtive fruizioni perpetrate

dallo scrittore

passa una subita romba ». Forma d’iterazione non nuova del resto nel Pascoli. Con lo stesso tipo di novenario si trova in Scalpitìo (col titolo La Morte in « Convito », Marzo 1896) : « La Morte! La Morte! La Morte! ». Inoltre nella scena quarta dell'Atto secondo pare di poter avvertire un ricordo pascoliano del « discorsino » della rana di Nozze (Myricae) « imitato dal Boccaccio » (« O voglia... o voglia... o ciò che voglia »). Dice Mila: « Dimmi che vuoi [...]. Una conocchia nuova col fuso / Vuoi? Vuoi mortaio o pestello? ». Ove col modo del verbo ci riconducono alla novella della Belcolore il « mortaio » e il « pestello ». Ma ciò è avvenuto non senza la mediazione pascoliana. (80) Carteggio Pascoli - Gargano, in G. OLIVA, I nobili spiriti, Minerva Italica, 1979,

p. 300.

231

abruzzese a spese dell’opera pascoliana. Sta di fatto che il silenzio del Pascoli nella corrispondenza

tra i due, silenzio

durato,

salvo errore, fino all’estate del ‘03, ha inizio dopo la pubblicazione, nel « Marzocco » del 18 settembre ’98, de Il Mito del Melograno (anticipazione d'una parte del Fuoco), ove il Pascoli dovette forse scoprire più d’una ingegnosa utilizzazione o echeggiamento di temi e immagini presenti in qualcuna delle sue cose più recenti come La grande aspirazione, Il vischio, e, forse, i Pensieri sull'arte poetica (*). Un segno del non improbabile risentimento può essere indicato appunto nel fatto che nella citata missiva al Gargano, che è di appena un mese successiva alla data di pubblicazione delle pagine dannunziane nel « Marzocco », nella quale torna il tema della ’ metrica’ (ora il Pascoli parla di « grossa prefazione metrica »), è taciuto gnato destinatario (©).

(81) E dunque quello dell'autunno episodio di malumore che avrebbe dato

il nome

del già desi-

’98 sarebbe stato un primo sia pur non manifesto il via all’interruzione d’una amicizia, cui poi avrebbe

posto il suggello l'episodio del gennaio ’900. Determinato questo dal fatto di avere il D’Annunzio ignorato, nell’esporre l'VIII dell’Inferno, nel gennaio ’900, in Orsanmichele, le pagine dantesche pubblicate dal Pascoli sull'argomento nel « Convito ». Ma, oltre quella dimenticanza, tanto più grave e provocatrice dovette apparire al ’dantista‘’ Pascoli l’investitura del D'Annunzio quale inauguratore, in luogo del Carducci infermo, delle ‘letture dantesche / in Orsanmichele. La lettura dell’VIII dell’Inferno era stata preceduta da un discorso del D'Annunzio dal titolo altisonante Per la dedicazione dell’antica loggia fiorentina del grano al novo culto di Dante, che si apriva con le parole: « Per celebrar con più alta parola la rinnovata dedicazione di questa sala, che vediamo restituita finalmente alla libertà e all’austerità della sua antica pietra, doveva oggi da questa tribuna levarsi un’altra voce, cui non senza fremito la patria ha udito ricordatrice di virtù e di grandezza in ore solenni » etc. All’Orvieto nel gennaio di quell’anno il Pascoli scriveva : « A proposito di Dante, se vedete Gabriele D'Annunzio, ditegli che io sono in aspettazione d’una sua risposta, che credo sarà gentile e riparatrice » (cfr.. A. ORVIETO, Prose cit., p. 156). Seguirono i noti / fatti personali ” nel « Marzocco », indi, soltanto di lì a due anni e mezzo, la riappacificazione ad opera del Gargano. Al quale subito il poeta romagnolo dichiarava : « Ti sono grato dal profondo del cuore, non d’avermi assicurato della stima che Gabriele ha delle mie cose,

quanto d’aver fatto in me rinascere senza più ombra di nuvole l'affetto che io sentivo per lui quando mi pareva e mi par di nuovo, così buono come grande » (G. OLIVA, I nobili spiriti cit., pp. 308-309). Ma, per riprendere quel primo episodio di malumore, rifacendoci ad esso, si comprenderebbe meglio l’aspra polemica antidannunziana aperta con risentite parole nella commemorazione del Cavallotti del marzo ’99 cfr. G. PASCOLI, Prose, I cit., pp. 391-392). Ove il dannunziano mito del superuomo pare venir ricondotto alle proporzioni di mero fenomeno letterario, di esteriore / maniera” chiamata a drappeggiare un’insensata e disumana concezione della vita. Quanto al motivo dei ‘furti, di quelli che il Pascoli chiamava « brigantaggio artistico » (cfr. F. ANTONICELLI, op. cit., p. 297), non mancano variazioni nelle pagine del Fanciullino (« Quando sei preso da questo morbo [della « gloriola »]

[...] vegli inquieto

spiando

i quaderni

altrui, magari

leggendo

di sulle

spalle dello

scrittore

ciò che egli scrive ») (G. PASCOLI, op. cit., p. 44). (82) Destinatario. cui fino a quel momento era stato costantemente associato il lavoro metrico. Il fatto è che a due anni dalla data del primo progetto il destinatario della teoria metrica sarà un letterato che non aveva mai « cercato l'approvazione e gli applausi della folla », e la cui divisa era: « Home, sweet home ».

232

Della pubblicazione d’un brano del Fuoco il Pascoli stato preavvisato sin dall'agosto ‘98 dal Gargano:

era

In uno dei prossimi numeri, forse nel prossimo, Gabriele ci darà un brano del suo Fuoco. Sarebbe per noi una grande felicità unire i vostri due nomi nello stesso numero. tare questo nostro ardente desiderio? (83).

Vuoi

tu acconten-

Dalle lettere che ci rimangono non risulta che il Pascoli sia tornato su tale argomnto. Ma le ripercussioni di quel prospettato pubblico appaiamento sono evidenti in più d’una lettera, anche

a distanza d'un anno, se nell’agosto ’99 (*) egli faceva le sue rimostranze all'Orvieto perché, dato l'indirizzo impresso al periodico — dal momento che, precisava il Pascoli, « il pubblico non sa ormai,

pensando

a me,

prescindere

dal « Marzocco » —

la

sua figura di scrittore appariva « al pubblico » « stranamente indecisa e ingarbugliata. E’ un d’Annunziano? Un decadente? Un vecchio» etc (©). I’ marzoccheschi’, intesi alla fortuna della loro rivista, non

si davano pensiero di evitare quella che per il Pascoli era in realtà, una situazione incresciosa. Pure, quasi contemporaneamente

alla

promessa di pubblicare nelle edizioni del « Marzacco » la lettera sulla ‘metrica classica’ da indirizzare a Gabriele, vale a dire sin dal febbraio

‘97, il Pascoli

aveva

messo

sull’avviso

l’Orvieto

circa

la soverchiante impronta dannunziana del « Marzocco », non tanto manifestando il timore di restare oscurato dalla popolarità del rivale, quanto denunziando il facile travisamento delle proprie più personali doti presso il pubblico dei lettori: travisamento derivante dall’inganno di considerare i collaboratori della rivista, nessuno

escluso,

‘ celebrità’ prepotente

o nell'ombra

o nel riverbero

d'una

ed esorbitante

(Voi avete dato al « Marzocco



diceva il Pascoli all'Orvieto —

un carattere di clientela a un grande artista, una nota di Gabriellismo così spiccata, che è impossibile a chi ci scrive, senza pur fare parte dell’ordinaria redazione, sottrarsi alla suggestione del

(83) G. OLIVA op. cit., p. 334. (84) Ma già nel giugno di quell'anno aveva rimproverato al « Marzocco » d'essere organo « eccessivamente dannunziniano » (G. PASCOLI, Lettere inedite ad A, Orvieto p.

un cit.

1886). (85) ivi, p. 1889.

aa

pubblico che vede in lui un d’annunziano. Quanto io ami e ammiri il D'Annunzio è noto; ma nego assolutamente che l’arte sua grande abbia influito per una linea, per una dramma, cola arte mia. Io son poca cosa, ma sono io) (89).

pic-

nella

La scelta del nuovo destinatario della ’ lettera metrica’ cadendo sul Chiarini, autore di studi e di esperimenti metrici strettamente connessi con la clamorosa e fortunata impresa metrica carducciana, della quale il letterato aretino era stato tra i più strenui difensori (*), si presentava in fondo come la più appropriata e, si può dire, ovvia. Inoltre la scelta del Chiarini veniva a inserirsi nella strategia del Pascoli a noi nota : quella intesa a interessare il Carducci al proprio lavoro, a spingerlo a interrompere il noto ‘’ silenzio’ (*). E nessun altro meglio del nuovo destinatario avrebbe potuto mediare l’avveramento del piano pascoliano. E’ del febbraio ’99 la lettera del Pascoli al Chiarini nella quale, oltre all’eco dei febbrili impegni metrici volti a ridare voce italiana ai classici greci, primo fra tutti, Omero, è testimoniato il momento della decisione di dirottare la dedica: Sono — diceva al Chiarini — in una grande impresa, alla quale ho consacrata la mia anima : la traduzione dei « poemi d’Omero », in esametri. Intorno a quest'opera, tra l’altro, sorgeranno lavori,

dirò così, di sostegno : prossimo uno studio metrico che apre una serie d’esperimenti. Questo studio metrico, che non so ancora come intitolerò, ma che racchiude teoriche e saggi, vorrei dedicarlo a lei, perché da lei prende le mosse (8°).

(86) A.

ORVIETO,

Prose

cit.,

pp.

140-141.

(87) Cfr. G. CHIARINI, La nuova metrica barbara italiana, « Nuova Antologia », lo aprile 1878, indi, col titolo / critici italiani e la metrica delle « Odi barbare», in G. CARDUCCI, Odi barbare, II edizione, Zanichelli, 1878, pp. III - CLXXI; e G. CHIARINI e G. MAZZONI, Esperimenti metrici. Con Prefazione Al lettore [di G. Chiarini], Zanichelli, 1882, pp. I - XXXIV. Infine, G. CHIARINI, Giosue Carducci. Impressioni e ricordi, Zanichelli,

1901,

pp.

56-207.

(88) Forse D'Annunzio,

la prima

al fine

manifestazione

di guadagnarsi

mossa

da

la benevolenza

intenti del

di competizione

Maestro,

è la dedica

nei

confronti

di Epos,

del

dedica

per la quale il Pascoli chiedeva e otteneva il consenso di lui nell'autunno del ’96. Nell'estate di quell’anno, nel Libro VIII del « Convito », il D'Annunzio aveva premesso al testo della Canzone di Legnano, ivi ripubblicata (era l'anno dei festeggiamenti per il trentacinquesimo d'insegnamento

universitario

del

Carducci),

altissime

A quelle parole sembra rispondere il Pascoli erano usciti i Ricordi di un vecchio scolaro. (89) F.

234

ANTONICELLI,

Lettere

del

Pascoli

nella a

G.

parole

dedica Chiarini

di

lode

ricordata. cit.,

Pi

dell’arte

Nel 293,

carducciana.

febbraio

del

’96

Subito dopo, in un’altra lettera al medesimo, lo studio metrico torna ad assumere nella mente del Pascoli la forma promessa

nel primitivo disegno: Quasi quasi gli darei forma di lettera (se non di dialogo) a lei (9).

5. Ora, la « grande impresa » sembra accentrarsi interamente sulla traduzione, in esametri, di Omero, e su uno studio metrico

con « teoriche e saggi » a sostegno di quella. Col mutamento del destinatario viene modificato l'originario progetto, almeno quanto ad ampiezza e sviluppo della materia, se quello prevedeva la trattazione della metrica classica dall'esametro ai cori e agli inni, con una antologia di traduzioni dal greco e di poesie originali. Mutamento peraltro più d’apparenza che di sostanza se i risultati dell’esaltante e tormentosa stagione delle ricerche metriche

(”) il Pascoli

convogliava

via via verso

in-

le proprie

venzioni, e se l'originario disegno con i suoi tre momenti

(idee

sulla metrica o ‘teoria metrica’ da dare in forma di ‘lettera’; regole metriche; saggi di traduzione) trovava una sua attuazione,

anche

se non

nel corpo

d’un’autonoma

e organica pubblicazio-

ne (7). Semmai, come dato mutevole della storia delle fatiche metriche si presenta il proposito del Pascoli di giustapporre (se

non proprio di fondere), in un unico volume, lavoro metrico

e

(90) ivi, p. 294. (91) Ancora alla fine d’agosto dell’01, al Caselli il poeta scriveva di dover « finire tre libri » tra cui « Metrica » (G. PASCOLI, Lettere ad A. Caselli, ed. cit., p. 153). Gli ultimi due anni di lavorazione della ‘lettera metrica / ci è dato di poter seguire attraverso i frammenti delle lettere del Pascoli al Chiarini pubblicati dall’Antonicelli (vedi il saggio citato). ove date e notizie segnano il cammino del lavoro.

(92) La ‘lettera’ A Giuseppe Chiarini. Sulla metrica neoclassica venne pubblicata per la prima volta da Maria Pascoli nel volume pascoliano Antico sempre nuovo (Bologna, Zanichelli, 1925, pp. 339-416). In una ‘nota’ Maria avverte: « Da un volumetto cominciato nel 1900 col titolo ” Regole e saggi di metrica neoclassica /, rimasto incompiuto e inedito presso l’editore Sandron di Palermo ». Del volumetto erano state tirate « una ventina di copie provvisorie » con copertina e frontespizio (cfr. G. RESTA, Pascoli a Messina, Messina, 1955, p. 70 n.). In G. PASCOLI, Prose, I, Mondadori, 1946, con la ‘lettera’ A Giuseppe Chiarini venivano pubblicate le Regole di metrica neoclassica (pp. 985-1007), che costituivano appunto la seconda parte del volumetto. Quanto ai ’Saggi/ erano solamente annunciati dal poeta col seguente occhiello : « Ecco alcune prove di traduzione dal greco e dal latino. Le presento ai miei giovani colleghi delle scuole classiche, non come modelli da imitare, ma come tentativi da migliorare. Si leggano le Note metriche in fondo al volume. G.P. ». Quei / saggi” si leggono nel volume postumo Traduzioni e riduzioni. Un precedente vicino della ‘lettera metrica” può essere indicato nella accennata traduzione di poeti greci inserita nel discorso introduttivo di Lyra e nelle note di Metrica della lirica romana che ivi seguono il discorso introduttivo.

235

pensieri di arte poetica. Proposito manifestato nell'aprile del ’97, quando nelle intenzioni del Pascoli il dedicatario era ancora’ il D'Annunzio, in una lettera all’Orvieto : Fermo bligherei

l’obbligo di dare il Sacerdote [...] (9), mi obcosì composto : sulla metrica classica, nella D'Annunzio Gabriele leggi più severe e giuste la così detta metrica dall’esametro sino ai cori e agli inni, esempi di greco (un’antologia squisita) e in poesie origi-

restando

a dare un altro volume,

a) lettera a quale riduco a barbara, dando, traduzione dal nali (®);

b) i Pensieri interessanti),

che

sull’arte

le linee principali.

e di poesiette

poetica

(che vedrai

de’ quali i capitoletti del

Sarà

anch'esso

diventano

che ora

« Marzocco » non

pieno

segnano

d’esemplificazioni

(95).

Ora, non tanto importa il fatto della giustapposizione o meno, in uno stesso volume, di principî di arte poetica e di ricerche prosodico-metriche, quanto la loro contemporanea presenza nella mente del Pascoli, la concomitanza

dell’elaborazione

dell'una e degli altri. E’ un fatto che i tentativi intesi a stabilire una normativa per la prassi metrica (per la poesia ‘’ neoclassica ‘, ma in sostanza anche per quella ’ volgare’, cioè per la poesia senz'altro) nascevano accanto ai pensieri sull’arte poetica. A tener conto in particolare delle conclusioni che precedono il con-

(93) L'ultimo Sacerdote di Apollo, in modo improprio annunciato dall’editore del « Marzocco » come ‘romanzo /. Del lavoro all’Orvieto il poeta aveva detto: «più dialogo platonico che romanzo » (A. ORVIETO, Prose cit., p. 139). Non dunque tentativo del Pascoli di provarsi anche nel romanzo. Altro segno nondimeno della straordinaria operosità creativa di quegli anni. Il tema non fu lasciato cadere. Ripreso nel Fanum Apollinis fu svolto nella misura concisa del poemetto, ove trovava in qualche maniera attuazione il proposito del « dialogo platonico ». prove

(94) Di poesie originali in metro ‘neoclassico 7 fino a quel momento con l'inno A Giorgio Navarco Ellenico, e con l’ode Crisantemi.

aveva

offerto

(95) A. ORVIETO, Prose cit., p. 145. Non va dimenticato che i progetti di lavoro del Pascoli potevano talvolta anche essere dettati, per dir così, dalle necessità materiali della vita (ne sono testimonianza i non rari riferimenti all'argomento nelle lettere del poeta all'editore Giusti e ad alcuni amici). Né sarà da tacere che gli anni delle più intense ricerche metriche (tra la fine del ’96 e il 1901) sono anche gli anni, oltre che degli scritti di cui s'è avuto modo di far cenno, della IV edizione di Myricae, della prima edizione di Poemetti, di Minerva Oscura, di Epos, nonché della seconda edizione di Lyra, di Sul limitare, dei Conviviali : Tiberio, Ate, Il cieco di Chio, Il sonno di Odisseo, Sileno, dei Carmina : Catullocalvos, Chelidonismos, Sosii fratres bibliopolae, Canis, di prose come La ginestra, Eco d'una notte mitica, L’èra nuova, per non dire d’altro.

236

gedo dal dedicatario dell’’epistola metrica’, nelle quali il Pascoli, a proposito dei « tentativi » intesi a stabilire norme sodiche, fonetiche, metriche, scrive che essi

pro-

sono diretti al fine di dare cittadinanza italiana specialmente ai poemi epici dell'antichità che non l'hanno, checché si dica, non l'hanno! (9),

può parere che i lunghi anni impiegati con impegno instancabile

in quegli studi si siano conclusi nel mero esercizio del tradurre i « poemi epici dell’antichità ». Ora, a parte la molteplicità e complessità dei piani su cui si sviluppa, con implicazioni a volta a volta di natura erudita o polemica o memorialistica, la ‘ lettera ’ racchiude le motivazioni interne, in fondamenti estetico-tecnici e teorici, dell'intero sistema prosodico-metrico della poesia pascoliana, e ci consente di penetrare nell’officina segreta da cui sono uscite alcune scoperte stilistico-formali più personali e nuove del poeta romagnolo (”). Dacché la vistosa e quantitativamente prevalente presenza dell'indagine e della riflessione su prosodia, fonetica e metrica delle lingue classiche, non esclude costanti riferimenti, ora sottintesi ora palesi, ad una estensibilità

e applicabilità di principî prosodico-metrici, proprî delle lingue classiche, alla poesia italiana

(indifferentemente ‘’neoclassica’

‘volgare ”): principî la cui validità deriva da considerazioni

o

di

natura prosodico-glottologica di senso universale, per dir così (tale l’asserzione del basilare valore, per la poesia, della ‘ radicale’ della parola; o dell'importanza del rispetto della sillaba metatonica

che

che la sillaba a essere

racchiude

l’anima

della

la quale fu radicale

atona,

etc.), principî

parola;

o tonica

che toccano

non

o l'avvertenza

non

si rassegna

meccanici

fatti

prosodici, ma l'efficacia stessa e i valori della parola nel verso. Quando

non

vengono

poste

in primo

piano

questioni

ca-

pitali quali quella del ’ ritmo’, del ‘ritmo nativo ‘, in pagine che costituiscono uno dei tentativi più alti da parte del Pascoli di fermare nella sua essenza ultima, sia pure in termini di metafora lirica, le proprie idee estetiche:

(96) G. PASCOLI, Prose, I cit., p. 975. (97) Si vedano in particolare della ‘lettera 7 la p. 912, e le pp. 927-930, 933-937, 938-939, 963, 970, 972, in Prose, I cit.

915-916,

918-919,

925,-926,

237

La poesia elementare ed essenziale è ritmo solo! E il suono del cembalo al cui busso danza il selvaggio, è il moto della culla al cui dondolo chiude gli occhi il bambino! (#) [...] il ritmo è ciò che soffiando nel nostro cuore solleva a un tratto la nostra persona e alleggerisce le nostre braccia dando loro non so che piume per remeggiare nell’aria d’accordo con l’intimo movimento del pensiero (?).

O, con l’assioma dell’inscidibilità di impulso creativo e di disciplina, di idea e di « fren dell’arte » (®), la basilare

distinzione

tra poesia voce della natura e poesia d’imitazione che è come dire poesia ‘letteraria’, la quale s’appoggia ad echi della voce

altrui, s’affida alla suggestione che viene dal ricordo di quella: Meglio è la cosa che l’ombra, e meglio il ritmo proprio che il riflesso : e contar sul senso e sul suono di ciò che si dice, che non sull’effetto di ciò che non si dice. Chi si affida alla suggestione, prende all'opera sua un collaboratore : un collaboratore che poi, allo spartire del merito e del premio, vuol tutto per sé (101).

Parole che suonano giudizio tutt'altro che laudativo nei confronti delle esperienze ’neoclassiche’ del Carducci e del D'Annunzio (©). La poesia ‘barbara’ del Carducci, è vero, dichiara il Pascoli, ha « la sua base razionale e storica, perché i suoi versi corrispondono alla pronunzia grammaticale dei versi

antichi » (!*), pronunzia per la quale i « poeti antichi affinavano e regolavano i loro schemi » e sulla quale « fondavano la metrica loro » (!*). Ma anche il Carducci « conta » sul ritmo riflesso (1%).

(ma

(98) ivi, pp. 951-952. Per identici concetti presenti nel Fanciullino l’asserto era già nei Pensieri sull’arte poetica) e p. 32.

si

veda

ivi,

p.

17

(99) ivi, p. 949. (100) ivi, p. 954.

La

medesima

affermazione

è nel

Fanciullino

(ivi, pp.

40-41).

(101) ivi, p. 957. « Perché il sogno ci sia», aveva detto prima, « occorre che ci sia la realtà : perché ci sia l’eco, bisogna che ci sia la voce; perché ci sia l'ombra ci vuol la cosa. Altrimenti si avrà il Pindarico ‘sogno d’ombra’ o l'ombra del sogno, che su per giù è la medesima vanità di vanità » (ivi, p. 947). (102) Oltre che nei confronti della poesia di Walt Whitman. L'articolo di G. Ragusa

Moleti cui fa riferimento il Pascoli nella ‘lettera / era apparso nella « Flegrea » del 5 ottobre 1899. Altra data che può essere orientativa per la datazione d’un momento dell’elaborazione del documento metrico. (103) G. PASCOLI, (104) ivi, p. 957

bare;

poiché

la lettura

(105) ivi, p.

238

944.

Prose,

nota.

ad

Ove

I cit., p. 942. il Pascoli

accento

ripete : « Una

grammaticale

base

esisteva

scientifica

nell’antichità

l’hanno

le Odi

classica ».

Bar-

Dal momento che i suoi versi, « pur composti di serie e d’emistichi nostrani, hanno la virtù di suggerire al nostro animo il ricordo

degli antichi » (!*). E’ vero

che il Carducci

« non

pre-

tende troppo da noi : facile nel caso di lui, per la ginativa è il passaggio dal ritmo proprio al ritmo ritmo proprio è nostrano e facilmente percettibile flesso non è punto indeterminato, come quello

nostra immariflesso. E il [...], e il riche cerca il

Whitman

[...]. E poi il

traverso

i versetti della Bibbia

tradotta

poeta [...] è veramente un ‘ grande artiere ’ e foggia sull’incudine il suo pensamento » ('). Ma resta pur sempre il fatto di quel sostegno che al verso ‘barbaro’ carducciano viene da quell’eco dotta, da quel riverbero

6.

o rifrazione

culta

Sulla scia del Carducci e del Whitman

della poesia

antica.

(%), il quale, scrive il

Pascoli, « rigetta » il « ritmo preciso dei giambi e dei dattili » « ma non ne fa mica a meno: incarica gli antichi esuli di Gerusalemme di fornirlo alla sua semipoesia » (!), Gabriele D'Annunzio, facendo leva sul « ritmo riflesso », riesce « più o meno » « a rappresentare il presente e farci apparire in lontananza il passa-

to» (!). E, per esemplificare quella fase della poesia dannunziana e per indicarne il tipo di « ritmo riflesso », il Pascoli pronunzia un giudizio sulla primizia d’un’opera di poesia del « fratello minore

(106) ivi, p.

e maggiore » (1), riferendosi,

come

pare indubbio,

956.

(107) ibidem. (108) I nomi del Carducci, del Whitman e del D'Annunzio vengono accomunati sotto un unico giudizio che, considerato il livello che nella scala dei valori del codice estetico pascoliano occupa il « ritmo riflesso », risulta limitativo. Circa l’accostamento D'AnnunzioWhitman non sarà da dimenticare che per il gruppo di componimenti Per la morte dell'ammiraglio Saint-Bon (Odi navali) il D'Annunzio si è ispirato a Memories of President Lincoln

quell’ode ad

del

poeta

americano,

anzi,

In

memoriam

ha

inserito,

traducendoli,

strofe

e versi

(109) Il termine « semipoesia » è riferito all'esperienza whitmaniana, o meglio, una equivoca dichiarazione polemica del poeta americano contro le forme della

della

di

whitmaniana.

vecchia (110) G.

forse, poesia

Europa. PASCOLI,

op.

cit., p. 957.

(111) Giudizio che sarebbe potuto apparire in pubblico: cosa rarissima o unica nel Pascoli nei confronti d’un poeta contemporaneo vivente. Ma fu il Chiarini, a quanto pare, a non volere che quella parte che riguardava il D'Annunzio fosse resa pubblica. Mi riferisco a quanto detto più avanti, alla nota 120, circa la pubblicazione di due brani della ‘lettera metrica /, ’ a lui dedicata, da parte del Chiarini, nella « Rivista d’Italia », che l'anziano amico del

Carducci

allora

dirigeva.

239

del

alle Laudi, al loro primissimo nucleo uscito nel novembre

i

Antologia » (1?) :

99 nella « Nuova

Il nostro mirabile D'Annunzio ci vuol suggerire, nel tempo stesso, la poesia primitiva erompente dal cuore di San Francesco e la poesia artifiziosa di Stesicoro e di Pindaro. Da una parte vuole che ci apparisca il Santo ardente di amore sui sassi della Verna, circondato dal tubar delle tortore e dai voli delle rondini; dall'altra egli ci mostra il coro olimpico che si muove e si atteggia, sotto le odorose ghirlande, in cospetto d’un bianco pronao dorico, assecondando il festoso strepito de’ flauti di giuggiolo (119).

Il Pascoli

denuncia

la duplice contaminazione,

sul piano

metrico e su quello del tono e della situazione morale, rilevando

per un verso l'ambiguità derivante dal ‘ricordo’ d'un metro ancora in formazione’ e di aggruppamenti di ritmi nelle libere lasse delle Laudes creaturarum di Francesco d'Assisi, e del ricalco degli ’artifiziosi’ versi e sistemi di derivazione stesicorea e pindarica (si veda in particolare L’Annunzio), per altro verso

la discorde commistione di suggestioni attinte ad aree di civiltà tanto differenti e lontane. Non c'è compatibilità tra i sassi della Verna (simbolo del sommo amore e della somma sofferenza) e i marmi dei templi greci spettatori d'una umanità raffinata ed esultante per una ’ felicità’ tanto remota da quella di Francesco.

Quel che al Pascoli preme sottolineare è il giudizio limitativo nei confronti del valore poetico della suggestione d’origine letteraria : la quale, questa volta, viene ricercata non in una ma in due fonti, per di più tra loro discordanti, da cui, oltre tutto, derivava un errore d’intonazione.

(112) Sotto

la comune

intitolazione

Laudi

della

Terra

del

Cielo

etc.

comparivano

sette

liriche, nell'ordine : L'Annunzio e Canto augurale per la Nazione eletta (l'una e l’altra senza titolo); i Silenzii di Ferrara, Pisa, Ravenna; Bocca d'Arno; e, altresì senza titolo, Sera, ma

con line.

sottotitoli

in margine

I tre Silenzii

alle strofe : La natività

e il Canto

augurale

furono

della

Luna,

poi collocati

La pioggia

in Elettra,

di giugno,

L'Annunzio

Le

col-

in Maia,

Bocca d'Arno e Sera in Alcyone. Quanto al titolo Laudi c'è da ricordare che nel frontespizio d'un codicetto in cui con Sera sono raccolte Tenzone, Ditirambo III e Lungo l’Affrico si leggono scritte di mano del D'Annunzio le parole Incipiunt laudes creaturarum etc.

(113) G.

PASCOLI,

op.

cit.,

pp.

955-956.

(114) Ma il Pascoli avrà avvertito Pindaro anche ne L’Annunzio e nel Canto augurale. In un passo del Libro segreto il D'Annunzio avrebbe scritto - e l’accenno all’« occhio esperto » parrebbe potersi riferire al Pascoli -: « Nelle grandi strofe di Laus Vitae, l'occhio esperto scopre i disegni metrici dell'Ode e del Coro come le filigrane nella carta nobile. Potrei dire, per farmi intendere, che ogni strofa è filigranata di prosodia greca » (Il Vittoriale

degli

240

Italiani,

1938, p. 57).

Quel

che

occorre

fare, allora,

è « sostituire » il « ritmo

proprio al ritmo riflesso » (*5), raggiungere quel ritmo unico che poggia, per così dire, su sé medesimo, come avviene nella poesia ‘ primitiva ’, nella poesia di Omero. Fare ciò che fece Ennio, che

seppe animare il suo « versus longus », congegnato sul modello o meglio sul ritmo del verso greco delle origini, d’un « calore » « proprio e nativo » ("). Si tratta di trar profitto, di là dai « gineprai delle teoriche e dei sistemi e delle scuole » (7), dalle « intraducibili » « virtù di suono e di ritmo più segrete e più inviolabili » (#) della lingua italiana, le cui risorse prosodico-metriche non sono da meno di quelle del latino che Ennio aveva ereditato, né da meno delle risorse della lingua tedesca. Verrebbe fatto di dire che di là dal profitto derivato alla poesia in proprio del Pascoli, le tante fatiche da lui durate per anni attorno alle questioni metriche si siano concluse in un fallimento, se dagli stessi esperimenti di traduzione in esametri italiani dei poemi omerici il Pascoli uscì insoddisfatto e quasi vinto (!), al punto di rinunziare a raccogliere i brani dei ’ poemi d'Omero tradotti’, e di bloccare l’uscita del volume Regole e

saggi di metrica neoclassica. Con una lettera a Giuseppe Chiarini, già stampato dal Sandron, e restato inedito fino al 1925 (). Di (115) G. PASCOLI, op. cit., p. 957. « Specialmente », aggiunge il Pascoli, « nel tradurre lingue classiche ». Ma il principio vale per ognuno che si accinga a poetare. (116) ivi, p. 788 nota. Ma si vedano anche le pagine dedicate a Ennio ne La poesia epica in Roma (Prose, I cit., pp. 818-834), ove il Pascoli trova modo di sottolineare taluni aspetti di somiglianza di Ennio con Omero. La volontà d’identificazione del poeta latino col più antico poeta greco (« sommo leni placidoque revinctus / visus Homerus adesse poeta » etc., Ennius, Annales, I, II-III, per cui cfr. G. PASCOLI, Epos, p. 13) è ravvisabile a codalle

minciare

dalla

(117) G.

1897,

p. 846.

nascita

di G.

scelta

metrica

PASCOLI,

(L'articolo Pascoli

enniana.

Letteratura

è stato cit.,

italiana

ripubblicato

I, pp.

i o

italo-europea?,

dal

Petrocchi

« La

vita

in Studi

italiana »,

per

lo

il centenario

maggio

della

49-54).

(118) ivi, p. 849. (119) «A me, caro maestro », esclama il Pascoli rivolto al Chiarini nel bel mezzo della ' lettera metrica 7, « preme d’uscire da questo ginepraio » (G. PASCOLI, Prose, I cit., p. 927). Ma i primi segni d’insoddisfazione sono avvertibili già agli inizi dell'esperimento, addirittura nel novembre del ’96, al momento d’inviare al Carducci la dedica e la prefazione di Epos: « Gli esametri poi vanno rifusi », scrive riferendosi alle traduzioni inserite appunto in La poesia epica in Roma. « Se me li rifondesse lei, però », dice al Carducci, « sarebbe molto meglio » (cfr. Omaggio cit., p. 371). Ma si veda anche la Nota per gli insegnanti (Sul limitare,

Sandron,

1901,

p.

XXXI),

datata

« Novembre

1901 »;

e

F.

ANTONICELLI,

Lettere

del Pascoli cit., p. 295. Lo scontento e le difficoltà incontrati dal Pascoli nella realizzazione dell’’ esametro ” italiano sono ragionati e per dir così razionalizzati dal Devoto (Problemi delle traduzioni pascoliane, in Studi per la nascita cit., II, pp. 57-67). (120) Ma 1’ epistola metrica / non rimase interamente inedita. E' il caso di ripercorrere le vicende che hanno portato alla pubblicazione di due brani della medesima nella « Rivista l’amico d’Italia » del 1901. Per i quarant'anni d'insegnamento universitario del Carducci

241

fatto peraltro del duplice lavoro del metricologo e del traduttore si avvantaggiarono, non solo la poesia, ma anche le riflessioni estetiche del poeta teorizzatore. O più esattamente si dovrebbe dire che l'operazione del tradurre e la riflessione estetica furono momenti governati da un unico intento. L’insistenza nella ricerca d’una normativa

per l’esametro,

l’attenzione

riservata

in misura maggiore a quel metro in confronto ad altri metri classici, testimoniate dall’’epistola metrica’ e dalle traduzioni omeriche, dimostrano la volontà dello scrittore romagnolo di ritrovare lo strumento che meglio rispondesse alle caratteristiche del metro epico delle origini, come dire il corrispettivo di quello nella lingua italiana, « buono se non ottimo » « per fare nostri i magnifici carmi degli antichi » (!). In realtà la spinta prima che aveva indirizzato il Pascoli verso l'individuazione dei principî che governano il più antico verso della poesia greca nasceva non dalla volontà d’un semplice tradurre, d’un tradurre

fine a se stesso, ma dal tentativo di scoprire i segreti della poesia ‘originaria’, della prima ’ parola’ (epos) di quei poeti antichissimi : i quali « pensavano e tacevano » « prima che enunziassero con lente e misurate parole l’idea loro che sembra nata a un

Chiarini dedicò a lui l’intero fascicolo di maggio del periodico alla cui direzione era succeduto allo Gnoli sul finire del ’99. Sin d’allora aveva invitato il Pascoli a collaborare, anzi nel primo fascicolo dell'01, nel tracciare il bilancio d’un anno della propria direzione, dichiarava : « Ebbi la fortuna che, nel doloroso silenzio del nostro maggiore poeta, potei più volte offrire ai lettori della Rivista le poesie di Giovanni Pascoli » (ivi). L'anno precedente, nel presentare una delle poesie pascoliane, affermava : « Il Pascoli [è] il primo poeta tra quelli succeduti al Carducci » (ivi). Parole che suonavano vera e propria proclamazione del

successore

del

Carducci.

Invitato

dunque

a onorare

il maestro

con

dei

versi,

il Pascoli

rispondeva : « S'è inaridita la vena; e sento che nel momento presente è meglio astenersi dall’indirizzar versi al grande Maestro seduto, il quale m’ostino a sperare che ancora si levi in piedi e canti il suo canto più bello in faccia agli inverecondi artificiatori del falso e insudiciatori del vero. Non già per risentimento, ma perché il popolo crederebbe che io sollecitassi i suoi favori a gara col D'Annunzio » (la lettera è del 26 aprile 1901. Parte del brano qui citato fu pubblicata dal Chiarini nella nota introduttiva del fascicolo carducciano). Erano quelli, come sappiamo, i giorni nei quali il « fratello minore e maggiore » leggeva la sua Canzone di Garibaldi nei teatri delle principali città d’Italia. Non versi, dunque, ma al Chiarini il Pascoli spedì i fogli stampati della / lettera metrica /, precisando : « senza intenzione ch’ella ne stralci nulla » (cfr. F. ANTONICELLI, Lettere cit., p. 296) Pure, come ha osservato l’Antonicelli, non faceva che mettere sotto gli occhi del Chiarini quelle pagine iniziali dell’ epistola metrica’ che facevano proprio al caso della festa carducciana, e che il Chiarini pubblicava nella ricordata nota introduttiva del numero carducciano. Come articolo a sé stante, inoltre, pubblicava il brano polemico sui Semiritmi del Capuana e sulle dichiarazioni del Whitman contro le forme metriche della poesia tradizionale d'origine

classica, riato

pagine

(cfr.

F.

che

il Chiarini

ANTONICELLI,

(121) G. PASCOLI, confermare la propria

242

intitolava Lettere

cit.,

11 ritmo. p.

Il Pascoli

ne

fu tutt'altro

che

contra-

296).

Prose, I cit., p. 960. Nella prolusione pisana il poeta non farà persuasione sul significato del tradurre i classici greci e latini.

che

parto col suo suono e col suo ritmo, e che rimase fissa per sempre » ('). Nel loro spirito, a un « fervore » dapprima « caotico » seguiva «a poco a poco l'ordine, e soltanto allora sonava dalla loro bocca non loquace il verso che pareva congegnato dalla natura » (#). Ecco dunque l’obiettivo del Pascoli : un verso che paia congegnato dalla natura. Non dunque lavoro di umanista-filologo, ma di ricercatore

e di scopritore di poesia e dei segreti della poesia. Tradurre gli antichi

è, dichiara

il Pascoli,

« evocarli

nella

nostra

lingua »,

senza « menomarli e imbruttirli », « correggerli e imbellezzirli » (come sarebbe « togliere a Omero gli aggiunti oziosi ») (*#). E’ sorprendere la poesia nel suo primo divenire ‘parola’ e farsi ritmo e misura. E’ risentire la voce del ‘fanciullo intimo’ che parlava a Omero. Di ciò gli dette atto il D'Annunzio dopo aver ricevuto Epos: Mai bellezze di poesia antica — gli scrisse in una lettera del 797 — furono illuminate da un rivelatore più alto (12).

Indi più volte sia nelle lettere allo stesso Pascoli (!*), sia nelle

pagine a lui dedicate nella Contemplazione

della morte, tornò

sul potere che il poeta di San Mauro ebbe di compenetrarsi con la parola degli antichi. A tale potere,

dichiarava

il D'Annunzio,

si deve se le sue evocazioni dell’antico si avvicinano ai limiti della magia (17).

Forse soltanto quando razione

delle

assimilazioni,

sarà compiuta una capillare esploriscritture,

riproposte,

mimesi,

va-

riazioni, casuali o consapevoli, di luoghi pascoliani riscontrabili sia nell'opera di poesia che in quella di prosa del D'Annunzio, ci si potrà rendere pienamente conto del significato dell'alta e nobile confessione che affiora dalle pagine della Contemplazione della morte : aver egli ritrovato il suo più segreto sé stesso a contatto con la poesia del poeta di San Mauro.

(122) IGAPASCOLI

op:

cit. p.953:

(123) ibidem.

(124) ivi, p. 250. (125) Omaggio cit., p. 388. (126) Cfr. Omaggio cit. (127) G. D'ANNUNZIO,

La

contemplazione

della

morte,

Il

Vittoriale

degli

Italiani,

1939, p. 23.

243

& + i as Trio a

LS

ANTONIO GIRARDI IL POEMA PASCOLIANO GOG E MAGOG Il poema Gog e Magog, per la complessità dei riferimenti leggendari e delle ardite contaminazioni di questi elementi, può senz'altro essere considerato, ad una prima lettura, oscuro. Luigi Valli, in merito, affermò che esso è «...così sintetico e denso che non tutti riescono a comprenderne prontamente il significato » (!).

Accanto a tali complessità si deve aggiungere, però, quella della particolare personalizzazione pascoliana delle fonti, personalizzazione che obbedisce, oltre che all’elementare esigenza di organizzare in una trama logica e compiuta le numerose vicende

leggendarie,

all'esigenza di riprodurre,

mediante

svariati effetti

di luce, di suono, di contrappunto, onomatopeici, fonosimbolici, un'atmosfera di primitivo, di meraviglioso, coerentemente con

lo spirito della tradizione

leggendaria.

Gli elementi leggendari si trasfigurano nell’evocazione del Pascoli assecondando molteplici esigenze del gusto pascoliano: la voce di Gog e Magog roso dalla fame, ad esempio, che in Firdusi è voce «... tenue come di colomba », nel Pascoli diviene

« umile abbaiar che.

di iene » caricandosi

di risonanze onomatopei-

In questo senso, benché quasi tutti gli elementi, fin nei minimi particolari, siano ripresi dalle fonti leggendarie, essi si vestono di nuova luce nel poemetto pascoliano. In senso più generale, deve essere sottolineato l’intento del poeta di dare unità e compostezza classica alla materia : lo stesso procedere narra-

(1) L. VALLI,

Gog

e Magog,

in « Studi

Pascoliani », I, 1927.

245

tivo dell’endecassillabo, caratteristico dei Poemi Conviviali, testi-

monia tale intento. i La cruda narrazione delle fonti leggendarie riguardo alle caratteristiche ferine di Gog e Magog, viene notevolmente temperata : dalla descrizione dello Scha Nahmè (« di sangue / son pieni gli occhi e nere son le lingue / e neri i volti e quali d’un agreste / verro le zanne... e le persone di foschi villi son coperte, e il petto / e il casso ancora con gli orecchi aperti / son d'elefanti. Ei dormono, e guanciale / d’un degli orecchi e coltrice dell'altro / che li avvolge, si fanno... ogni lor femmina / mille figli partorisce ») (2), si passa alla descrizione pascoliana (« E i figli lor, giganti / dagli occhi fiammei, dalle lingue nere, / o nani irsuti dai mobili orecchi,

/ ...e d’ognun

d’essi, i mille

/ erano

nati, quante le faville / da un tizzo... ») più classicamente

pro-

porzionata.

Nota il Cozzani a questo proposito : « Della notizia che ogni femmina partorisce mille figli, che è smisuratezza di fantasia ubriaca di paura, egli fa una leggenda di più proporzio-

nata grandezza : da ogni uomo, che può avere infinite donne, nascono i mille; e allora diventa anche più bella l’immagine del tizzo, che è la potenza virile da cui sprizza il seme razioni » (°).

delle gene-

Se non sempre il Pascoli riesce a mantenersi in tale compostezza narrativa (« e lor fu in odio ogni altra vita, e il frutto /

d'ogni altro ventre, e il rosso sangue munto / bevvero alle bisonti, alle zebù ») si scosta, comunque, sempre notevolmente dalla « smisuratezza di fantasia ubriaca » che predomina nelle fonti leggendarie. Si noti, a proposito dei versi sopra citati, la ben più crudamente realistica descrizione dei caratteri di Gog e Magog in Metodio : « gentes namque quae exient ab Aquilone (cfr. Ezechiele XXXVIII) comedent carnes hominum et bibent sanguinem bestiarum sicut aquam; et comedent immunda, serpentes, scorpiones et universa abhominabilia et horribilia bestiarum; et reptilia quae reptant super terram; iumentorum autem et cor-

(2) I caratteri ferini di Gog e Magog sono desunti Bologna, 1872, p. CIII, in cui è sunteggiata la leggenda (3) E. COZZANI,

246

Pascoli,

Vol.

III,

(Il poeta

dei

dal Grion, / nobili fatti di A. Magno dello Sha Nahmè. miti),

Milano,

« L'Eroica »,

1937

pora mortuorum, et abortiva mulierum; et necabunt pueros et largiuntur eos matribus suis ut comedant eos » (5).

Unitamente

allo sforzo di dare classica compostezza

alla

narrazione, è evidente l'intento di sintesi degli elementi (che nel-

le numerose varianti della leggenda si presentano confusamente) in modo da realizzare una unità narrativa dell'insieme, a cui si è già accennato. Tale unità viene curata anche nei riguardi di ciascuna parte del poema, in modo che essa rappresenti di per sé, un episodio autonomo e completo, che a sua volta ben s'inserisce nella trama generale (5). I molti particolari della leggenda che sono accolti nel poema, mostrano una chiara predilezione del poeta ad arricchire la trama, come un mosaico, di variopinti elementi, dai quali trarre molte possibilità di effetti di colore e di luce. Tutti questi elementi sono con molta cura fusi nell'insieme di ogni quadro narrativo tanto da non dare un'impressione di frammentarietà

ma,

al contrario,

un

effetto

di unità.

L'abbon-

danza di tutti questi particolari è frutto di un’attenta aderenza

(4) METODIO, Revelationes, cura Wolfangi Aytinger, Basileae, 1504. A proposito dei versi pascoliani in questione il Cozzani, che fa sua

l’idea della « compostezza classica » di questo poema, nota: « Gog e Magog non han più voglia d'altra vita che la vita immonda di prima (e lor fu in odio ogni altra vita), non han più desiderio di donne conquistate: hanno cioè in odio il frutto di ogni altro ventre ». (Cit. p. 349.) Come si è visto dalla fonte citata di Metodio, il vero significato dei versi in questione è ben più sinistro; nei primi abbozzi manoscritti del poema si legge in proposito: « ... gli uomini... si disputavano ... le viscere dei morti (....) e strapparono i feti (....) e bevvero Istrico , dice che carnes,

sangue ». (Archivio Pascoli, Castelvecchio, Cart. LIV, busta 16, ms. 6). Anche Etico in un sunto latino del padre Girolamo del V secolo, riportato dal Grion (cit. p. LXX) Gog e Magog » ... comedent (....) universa abominabilia et abortiva hominum, invenum iumentorumque et ursorum, vultorum, item, charadrium ac milvorum, bubonum

atque visontium, canum et simiarum ». Il passo riportato è la più probabile fonte pascoliana, anche per la presenza di bisonti (visontium). (5) Tale intento si può rilevare osservando come nei manoscritti il poeta si sia preoccupato di tracciare, prima della stesura, uno schema che suddivideva le varie parti secondo i vari episodi: I la porta II le trombe III l’addensarsi IV Cavalli e cani V Bacchanale VI Dicono le donne VII Partito ... non torna VIII Ritorno IX Tramonto X Partenza XI Le trombe - terzine XII Le porte - terzine

247

alle fonti leggendarie anche se, come è stato notato, il poeta si è sbarazzato della confusione e contraddittorietà delle varie fonti. L'apporto inventivo del Pascoli si esplica invece, special mente, nell’introdurre nel poema una serie di effetti che nei modi più vari riproducano un'atmosfera voluta. L'effetto di chiaroscuro, ad esempio, mediante il quale si pongono in risalto costantemente Alessandro e il popolo rinchiuso per mezzo di efficaci contrasti di luce. L'orda, infatti, « nera s'addossava al Kane », « andava l’orda nera / formicolando sotto la tormenta »; dall’ombra delle sue orgie ferine nell’oscurità, l’orda contempla quelle luci e quei canti che circondano l’eroe solare. Gog e Magog, secondo l’Andreucci, « si accampa come una notte popolata d'ombre mostruose a cui si contrappone Alessandro, l’eroe luminoso » (9). Numerosi e complessi gli effetti di suono : le stesse trombe suonano, oltre che squilli di guerra (v. 17), canti di festa, gemiti marini, tintinni di cetre, a seconda della forza e della direzione del vento

(7).

A volte il loro suono somiglia ad un «ronzio di guerra » (ms 5): le trombe essendo fatte di « terra concava », quindi più o meno imperfette, non manderebbero, in questo caso, un

(6) D. ANDREUCCI,

Tre

poeti:

Carducci,

Pascoli,

D'Annunzio,

Bologna,

Zanichelli,

1964,

p. 263. (7) Le variazioni del suono delle trombe sono reali e non illusione di Gog e Mogog, come ritengono il Valli e il Gozzani; quando Gog e Magog sente il baccanale, con tutti i suoni e canti, sente realmente certi suoni che provengono dalle trombe di terra concava e non semplicemente, come afferma il Valli, il « crepitìo dei pini ». L'esistenza delle stesse trombe è poi confermata dalla scoperta del nano. D'altra parte non

sempre

le trombe

suonano,

nonostante

il vento

(«e il vento

soffiava

invano»).

Al contrario, il Valli e l’Andreucci ritengono che l'illusione del fonte della vita, suggerita dal nano, abbia distolto le preoccupazioni di Gog e Magog il quale non si sarebbe più spaventato dei fischi del vento nelle gole (« e il vento soffiava invano »), che prima aveva scambiato per squilli di trombe.

In questo caso

si tratta invece di un'effettiva

interruzione

del suono,

nonostante

che il vento

continui a soffiare; altrimenti non si spiegherebbe che poi l'orda risenta di nuovo « uno squil lo (che) correa da monte a monte ». Un frammento manoscritto (« soffiava sì, ma senza squilli il vento ») fa intendere che le trombe non sempre squillavano al vento ma solo, ovviamente, quando questo spirava nella giusta direzione. Altrove, nei manoscritti, a mostrare che Gog e Magog, in questo caso, non ode alcun rumore: «un dì silenzio. La montagna è muta / sotto la neve »; e poi, all’alba, prima che si senta il muglio del bisonte, « ventò sui monti, squillarono le trombe ».

248

« chiaro strepere » ma un cupo ronzio, più somigliante al suono di un grande corno, di cui si parla nel ms 1: « il noto suon del corno eccheggiò roco ». Tutto ciò denota l'estrema cura del poeta per effetti fonoespressivi. I vari effetti onomatopeici,

più complessi

ed elaborati

di

quelli consueti in Myricae e nei Canti di Castelvecchio, sono rea-

lizzati, oltre che in quell’« umile abbaiar di iene » di cui si è detto, a proposito del mugliare del bisonte, al v. 96 (« mugliò lugubre un bisonte ») dove, con quella insistenza sulla vocale « u »

si tende a riprodurre il verso dell'animale terrorizzato. Così nel poema di Psyche, quattro versi consecutivi costruiti

con

effetto

onomatopeico

senza

apparenti

sono

forzature

della struttura semantica: « tremuli belati / e cupi mugli, il gorgheggiar d’uccelli / tra foglie verdi, e sotto gravi mandre / lo scroscio vasto delle foglie secche ». Nel poemetto Pietole, sempre a proposito del mugliare: « Risuona tutta la campagna intorno / d’allegri ringhi e cupi mugli lunghi ». Negli ultimi versi del poema Gog e Magog è espressa, in una nuova elaborata successione onomatopeica, la forzatura della porta di bronzo : « La spranga si piegò dopo un martoro / lungo : la porta a lungo stridé dura- / -mente, e s'apri con chiaro clangor d’oro »; tali versi appaiono fin dalle prime redazioni manoscritte quasi invariati,

a mostrare

che il poeta ha dato molta importanza,

fin

dall'inizio, alla realizzazione di effetti evocativi. Fin dalle prime redazioni è evidente la preoccupazione

di

produrre rime e assonanze : il poeta traccia numerosi

schemi di

strofe partendo dall’ultima parola di ogni verso, cercando cioè prima di tutto di realizzare le assonanze, sulle quali poi svol gere il resto : nel ms. 4, righe 31-41, leggiamo: « Ché dura immensa ... tra (due monti) era una porta ponente granito

duro

(2?) oscuro geme bisonte

249

-

cavalli paura

-

ponente

un suon di trombe discende dai monti ». Alle righe da 66 a 78, dello stesso manoscritto: « granito - ane - ere ere piano suono - arginano - nono - ito - nono notte grotte

frotte rotte ».

Ma, in maniera più complessa, il poeta si serve di effetti « fonosimbolici »; come

nell’enumerazione

dei nomi

delle varie

tribù : Alan, Aneg, Ages, Assur, Thubal, Cephar, Mong-U, (8) che, oltre che avere un’« efficacia coloristica », come nota l’Andreucci (°), serve a produrre evocazioni ben precise al di là del comune significato delle parole. In questo caso l’effetto è completato da un altro accorgi-

mento : quello di usare la vocale « u » per tutte le toniche del-

l’ultima parola di ogni verso, in modo

da produrre assonanze

con particolari capacità evocative : ... tumulto..., chiuse,... unghie,... urlo,... tutto,... Assùr,... lunghe,... yurte,... Mong-U. (Cfr.

anche la parte XIII : « E gli uomini ulularono... »).

Oltre a cupazione di vità, e a tale aspetti delle

questi molteplici effetti singoli v'è inoltre la preocricreare, più in generale, un'atmosfera di primitiscopo, ovviamente,

non vengono

tralasciati quegli

fonti leggendarie che più possano rivelare, in Gog

(8) Nelle Revelationes si trovano i seguenti nomi: Gog, Magog, Mosach, Thubal, Anog (che in Pascoli diventa Aneg), Ageg, Athenal, Cephar, Pothim; si fanno i nomi di Mosach e Thubal

anche

in Genesi

X,2;

Alan

si trova

in una

sequenza

di nomi,

simile

a quella

di Me-

todio, presente nello Pseudo-Callistene (Alanes). Di Alani parla anche Giuseppe Flavio (Guerra Giudaica, VII, 42). Il nome Assur, assente dallo Pseudo-Callisten(e), dalle Revelationes e dalle altre versioni della leggenda, si trova in Genesi, ed è il nome di uno dei figli di Sem, probabile capostipite degli Assiri. (9) D. ANDREUCCI, op. cit. p. 263.

250

e Magog, il « primitivo », esprimentesi in accesa immaginazione, in oscura superstizione, nella celebrazione di riti sanguinari. La leggenda di Ammone, ad esempio, serve a mostrare come la superstizione dell’orda, similmente alla superstizione dei primitivi, immagini un essere a lei superiore come so idolo a forma di montone (1).

un mostruo-

Anche da piccole sfumature si rileva il gusto pascoliano di ricreare un'atmosfera di primitivo : i Tartari rimangono « pensosi » (ms. 2, riga 50), primitivamente stupefatti dinanzi allo spettacolo del Baccanale di Alessandro; le donne, in un altro passo manoscritto, sono chiamate « femmine feconde »; con particolare abilità il poeta ricrea scene notturne : « Più, nelle notti lunghe, / s'udiva, quando concepian, nel Yurte / le loro donne i figli di Mong-U ». Sono versi, come è stato notato, carichi di assonanze, evocative di una atmosfera di notturno primitivo.

L'orda immagina che il Bicorne banchetti e festeggi in un Baccanale (i riti dionisiaci sono i più primitivi), eppure trema di terrore, di quel terrore superstizioso che è l’atteggiamento tipico del rapporto religioso primitivo. Il Pascoli gioca, inoltre, sul contrasto tra il carattere sanguinario dell’orda, da una parte, e la sua fervida e stupita immaginazione, dall’altra (!!).

(10) E’ nota leggenda quella che fa di Alessandro il figlio di Giove Ammone. Nella Prefazione del Grion a I Nobili Fatti di Alessandro Magno, a cui il Pascoli dichiara di fare riferimento, si parla della leggenda di Ammone che, trasformatosi in drago, si unisce

ad Olimpiade, madre di Alessandro. Il primo nucleo della leggenda può essere individuato negli stessi biografi antichi di Alessandro che narrano come l’eroe si dicesse convinto di discendere da Achille per parte di madre (Olimpia regnava sull’Epiro) e da Ercole per parte di Filippo, fino a risalire a Giove. Gli

stessi

nel deserto

biografi

narrano

egiziano,

che

Alessandro,

fu chiamato

dal gran

in occasione

sacerdote

della

visita

al tempio

di Amon-Ra,

« Figlio di Amon-Ra ».

Alessandro è Bicorne similmente ad Amon-Ra, raffigurato come un ariete. Nel Corano, (Sura XVIII) Alessandro vien detto Zul-Karnein (dalle due corna)

e nel Milione

(cap. XLVII) si accenna ad un regno ereditario in Medio Oriente, le cui origini risalirebbero al matrimonio di Alessandro e Rossana, figlia di Dario III, e, si aggiunge, tutti i re di quella dinastia portano l'appellativo di Çulcarnein. Un passo da /1 Milione che contiene, fra l’altro, la leggenda del rinserramento dei Tartari da parte di Alessandro, è riportato in Grion (cit. p. CXLVI). E’ riportato, inoltre, sempre a proposito del rinserramento, un brano poetico dal Dittamondo di Fazio degli Uberti che dice, fra l’altro: « Gog e Magog che Alessandro racchiuse / col suon, che poi più tempo stette fresco ». (11) In questo il poeta sfrutta due aspetti delle leggende intorno ad Alessandro: uno che riguarda il rinserramento di Gog e Magog, e che è solo un episodio delle gesta leggendarie del Macedone, l’altro che riguarda tutti gli altri viaggi favolosi, narrati ne 11 Libro dei Re e in altre versioni orientali.

251

Gli uomini di Gog e Magog si divorano fra loro, divorano gli stessi feti abortivi, come a voler negare e distruggere le generazioni che seguiranno e che dovranno

imbestialirsi come

loro,

bevono sangue alle bisonti e alle zebù; d'altra parte, basta il fuoco d'un vespro, con tutti i suoi colori, a destare la loro fan-

tasia e far loro immaginare che Alessandro si allontani su un cocchio d’oro, circonfuso di luci e suoni. Basta che le trombe si interrompano per un poco per far immaginare a Gog e Magog che Alessandro si rechi al fonte della vita; basta che le stesse trombe ricomincino a suonare perché

gli uomini ricomincino a divorarsi fra di loro, riacquistando di colpo la primitiva ferocia. Le donne si distinguono però dagli uomini, e realizzano la loro primitività nell’opporre all’oscura potenza del Bicorne, la forza della loro fecondità : il fatto di avere numerosa progenie le rende sicure e spavalde; esse ironizzano sull’eroe dicendogli che, forse, le fanciulle « hanno a sdegno lui, così bicorne! », chiamandolo « uomo da nulla » ('). Il gioco sui due caratteri di cui si è parlato, diventa occasione, a sua volta, per esercitare il gusto pascoliano per il raro e il fantastico, attraverso il carattere immaginoso dell’orda. (E’ come se il poeta si ponesse dallo stesso

punto di vista psicologico dell’orda). L'episodio del fonte della vita (*), pur essendo ivi temperata la mirabolante fantasia della tradizione orientale (Firdusi, Nizâmi), denota uno spiccato gusto per immagini fantastiche, inconsuete

(« al fonte va, di stelle liquide, azzurro »).

(12) Interpretando i versi relativi alla sfida delle donne, il Valli afferma: «... le donne hanno quasi uno scherno per Zul Karnein che non è rimasto dalle sue mogli ... l'eroe è ritornato e le sue trombe squillano ancora e le donne si lamentano che, quando a notte quelle trombe squillano, il loro uomo si desti dalla paura e non possa più prender sonno ». (L. Valli, op. cit, p. 25-26). Nel testo, però, si legge un’esortazione a far suonare le trombe («or fa, divino ariete, sonare le trombe! »). Il significato non può essere, quindi, quello rilevato dal Valli; le donne di

Gog e Magog vogliono che il loro uomo si desti, tanto che esortano Alessandro a far suonare le trombe. Il Cozzani spiega che le donne desiderano la guerra contro l'eroe e lo sfidano ad attaccare, perchè ritengono che i loro uomini, nell’attesa, si siano « inviliti » e infrolliti (Op. cit. p. 349). Più chiaramente appare il vero significato della sfida delle donne alla luce di una redazione manoscritta del poema: « O Bicorne, o Montone, ora dà il vento / alle tue trombe ... Noi faremo altri figli / al suono delle tue trombe d’argento / noi figlieremo altre tribù ».

(13) Il poeta, anche in questo episodio del fonte della vita, non fa che organizzare degli elementi che, anche nei particolari, erano già presenti nella tradizione leggendaria. La leggenda del fonte della vita è appena accennata nel Corano, dove si narra che Alessandro

257

Lo stesso esordio del poema, in qualche parte dei primi manoscritti, voleva annunciare qualcosa di favoloso e lontano: il ms. 8, riga 1, inizia: « Sapete voi del popolo lontano? » Cui segue la favolosa descrizione dei caratteri ferini di Gog e Magog. Il viaggio verso i paesi delle tenebre, al confine del mondo,

le invisibili dita che reggono lampade d’argento (Cfr. ms. 8 e 9),

tutte le altre cose mirabili che circondano la figura dell’eroe macedone nelle leggende orientali sono prescelte dal Pascoli in modo da poter intessere sulle vicende un complesso gioco di ombre e di luci. Il contrasto stesso fra il nano e i giganti, oltre che essere contrasto fra caratteri opposti, si presenta, nel testo, come effetto di contrappunto stilistico : il nano che, salito in cima ad una roccia, si proclama capo e guida dell’orda che ancora attende

incerta,

con

un’arringa

in cui

scandisce,

uno

per

uno,

i

nomi delle varie tribù come a dominarle già con la stessa voce di riscossa, occupa un posto di preminente centralità risaltando su tutta la scena e investendo di luce i volti attoniti di quella gente selvaggia (). Il nano appare, dunque, come il liberatore che accoglie in sé la coscienza e la forza dei popoli rinchiusi.

seguì una « Via » finchè giunse al luogo dove tramonta il sole (Occidente, Rum) e trovò che esso tramontava in una « fonte limacciosa » (Sura XVIII). « Rum » corrisponde a « Roma », e, nella tradizione dei popoli mediorientali, all'Occidente ove appunto tramonta il sole.

Secondo le descrizioni dello Sha Nahmè, il sole si getta in un lago ombroso e tetro al d: là del quale la terra si perde nelle tenebre, sfuma nel nulla. Nei pressi del lago trovasi il fonte della vita, che apre le porte del Paradiso in quanto le sue acque mondano dai peccati (Sia Firdusi che Nizàmi affermano che il fonte si trova nell'ombra). Di buon mattino (Cfr. « parte col sole ») Iskender si reca al fonte « di cilestre colore », munito di due gemme donategli dal saggio veggente Kusr, che dovranno servire per illuminare

il cammino. Secondo Nizàmil cammino era illuminato da creature invisibili che reggevano lampade d’argento. Il fonte è descritto da Nizàmi come «un rio di chiaror argentino, anzi, un rio di luce, come brillar di stelle presso l’alba », da cui il pascoliano quide ... » Il citato passo di Nizàmi, riportato dal Grion nella Prefazione Alessandro Magno, si trova sottolineato nel testo stesso di propietà del

« fonte di stelle lia / Nobili Fatti di Pascoli, conservato

nella biblioteca di Castelvecchio. (14) Il Pascoli segue la versione della leggenda delle trombe come è narrata dal Villani (Ist. Fior. V, 29): « Negli anni di Cristo MCCII, la gente che si chiamano Tartari uscirono dalle montagne di Gog e Magog ... i quali si dice che furono stratti di quelle tribù d'Israele i quali

il Grande

Alessandro,

re di Grecia,

che

conquistò

tutto

il mondo,

per

loro

brutta

vi-

ta li rinchiuse in quelle montagne acciocchè non si mischiassono con altre nazioni e quivi, per loro viltà e vano intendimento, stettero rinchiusi da Alessandro fino in questo tempo credendosi che quivi fosse sempre l’oste d’Alessandro, imperciocchè egli, per maestrevole artificio, sopra i monti ordinò trombe grandissime sì edificate che ad ogni vento suonavano e trombavano con grande suono.

253

Sia il Valli che l’Andreucci hanno ritenuto per questo di vedere, nell’invasione ultima di Gog e Magog, la riscossa del proletariato, la redenzione delle masse attraverso la presa di coscienza della loro forza. Nota il Valli, a proposito dell'ultimo verso del poema:

« l’ultimo verso chiude esso solo lo spettacolo immane dell'invasione e nello stesso tempo ne vela l'orrore e fa sentire il vago senso di giustizia che è in quel selvaggio irrompere di coloro che furono per tanto tempo esclusi dalla vita » (5). E l’Andreucci : « Si noti che Gog e Magog... non è abietto. C'è in lui un seme umano impedito di germinare. Quell’eroe lo avvilisce con la sua forza... e fa si che egli voglia esser bestia perché non può essere uomo » (!9). « Ma uomo diventa non appena è liberato dall’incubo;

uomo,

anche

se barbaro

e crudele,

e dilaga in tutta la terra a stancarvi la bestia per liberarsene. Probabilmente il Pascoli adombrò in esso il proletariato del suo tempo e simboleggiò una redenzione delle masse nella vittoria finale di Gog e Magog » (”). Anche

l’Andreucci

dunque,

sulle orme

del Valli, ritiene

di

poter interpretare il poema in chiave sociologica. Anche qui si tende a minimizzare la terribilità dell’ultimo verso del poema non senza forzarne il significato.

« E il mondo le fu pane » è così commentato

dall’Andreuc-

ci: « la sfamò, la saziò. Ma si noti la complessità

di valori che

assume la parola « pane », posta a chiusa del poemetto e dopo tanta orgia di sangue. Pane, non più sangue di bisonti e di zebù :

Ma

poi si dice che per li gufi che nelle

i detti artifici per modo

che rimase

bocche

il detto

di quelle trombe

suono;

per la qual

fecero

cosa

nido,

il detto

si stopparono

popolo,

il quale

a guisa di bestie vivevano ed erano innumerabile numero, si cominciarono ad assicurare e certi di loro a passare i detti monti, e trovando come sopra le montagne non avea gente ... discesero al piano nel paese d’India che era fruttifero e ubertoso e dolce ». Firdusi afferma che Alessandro andò verso oriente ed ivi trovò un popolo, una magnifica città, un'amena campagna; i dignitari del luogo vennero incontro al re, a cavallo di elefanti, pregandolo di liberarli dalle scorrerie di Gog e Magog. Le altre tradizioni della leggenda fanno intendere che la pianura si trovi nella Georgia, a sud

delle

cosidette

Porte

Caspie.

Che la pianura in cui « sbocca » Gog e Magog sia fertile afferma, oltre che Firdusi e il Villani, lo stesso Ezechiele (Cap. XXXVIII), dicendo che Magog assalirà la Terra Santa mentre tutti vi abiteranno in sicurezza, come un nembo che avvolgerà la terra; che assalirà genti

tranquillamente dedite alla pastura e città senza (15) L. VALLI, Op. Cit. p. 29. (16) D. ANDREUCCI, Op. Cit. p. 267. (17) IBIDEM, p. 287.

254

mura.

(Cfr. vv.

169-171

del poema).

pane prima depredato, poi coltivato, prodotto. Il pane è la terra arata, è una casa, è la civiltà. Ma nella parola che suggella un poemetto col quale certamente la pietà pascoliana alluse alle plebi povere e affamate del suo tempo, c'è anche un grido: la voce degli umili e diseredati » (9). Dunque, secondo l’Andreucci, « le fu pane » è da leggere come « le diè pane, le diè il giusto pane per tanti secoli negatole ». E' chiaro come proprio nell’ultimo verso, nella sua terribile sinteticità, appaia l'orrore di quella invasione. Nello « sboccò bramendo » non si fa certo sentire quel « vago senso di giustizia » di cui parla il Valli. Ne « il mondo le fu pane » non pare affatto velato l'orrore, ma

solo sintetizzato,

riassunto.

Secondo il Cozzani, che propone un'interpretazione storica del poema (l'invasione barbarica d’Occidente), « cinquecento anni di devastazione,

di stragi... sono

riassunti

in un verso

che

ha tutta la pienezza di suoni, di immagini e di senso dell’Apocalisse » (”). Conclusione questa tanto più giusta se pensiamo che Gog e Magog è il grande invasore apocalittico, numeroso come la rena del mare, che devasterà le nazioni ai quattro angoli della terra. In un precedente abbozzo manoscritto si diceva di Gog e Magog : «e non sanno la gialla spiga del grano / ma tutto il mondo

è per lor genti pane / da sgretolare » (2).

Tale espressione che, con lievi modifiche, appare spesso nei manoscritti, è tratta da un sunto latino della Cosmographia di Etico Istrico riportato in Grion (cit. p. LXX), in cui si affer-

ma, fra l’altro, che Alessandro ruant

in universam

chiuse Gog e Magog... « ... ne in-

superficiem

terrae

et quasi

panem

cuncta

decerpant ac degluttiant ». Tutto

questo

induce

a pensare

a ben altro che alle con-

clusioni del Valli e dell’Andreucci. D'altra parte si dovrà esaminare il pensiero politico-sociale-religioso del poeta e in questo si individueranno chiaramente i motivi per cui il Pascoli, in chiusa a questo poema, non una rivoluzione proletaria.

(18) IBIDEM, p. 288. (19) E. COZZANI, Op. Cit. p. 353. (20) Archivio Pascoli, Op. Cit. ms.

poteva

4, righe

pensare

positivamente

ad

17-18

255

I Poemi Conviviali, secondo il Cozzani e il Froldi, devono

essere interpretati secondo un loro sviluppo ideale che termina con l'annuncio della Buona Novella. Il Froldi afferma : « Nel mondo greco e in quello romano è avvertito dal Pascoli il presentimento di una diversa società, quasi l'aspirazione al cristianesimo (Cfr. La mia scuola di grammatica in Pensieri e discorsi). Essi (I Conviviali) colgono davvero

i presentimenti

di una

nuova

società,

sono

come

il prelu-

dio all’affermarsi di una nuova idea non religiosa soltanto. In fondo alla raccolta il Pascoli ha messo il poema La Buona Novella. La Buona Novella annunziata in Oriente e in Occidente è quella del Cristianesimo e si sintetizza in una parola: Pace! Questa parola vale un mondo nuovo; i Conviviali convergono idealmente verso questa meta » (?).

Che dire però della collocazione del poema di Gog e Magog in questa prospettiva ideale? Il Froldi sostiene, a proposito, un’interpretazione « storica », simile a quella del Cozzani: Gog e Magog rappresenterebbe i barbari, che diedero l’ultimo colpo alla civiltà pagana preparando il trionfo della Buona Novella Cristiana. La Buona Novella, ovviamente, non si pone come termine « cronologico », ma come termine ideale, astorico, perenne.

Molte obbiezioni si possono fare a tale interpretazione del

Cozzani e del Froldi: intanto, il poema parla di due leggende sui Tartari, e pare molto improbabile che il poeta abbia voluto adombrare nella vicenda dell'invasione mongola un’altra invasione barbarica

molto precedente.

Il Cozzani e il Froldi trascurano, inoltre, un elemento fondamentale : chiaramente, l'invenzione di Gog e Magog è proiettata nel futuro, coerentemente con la tradizione biblica della leggenda.

Nel verso « sboccò bramendo e il mondo le fu pane », che anche il Cozzani ritiene abbia un'intensità di senso e di suono apocalittici, si segue coerentemente lo sviluppo della leggenda, che doveva

concludersi

con

la visione

ultima

di Ezechiele

Giovanni.

(21) R. FROLDI,

256

/ Poemi

Conviviali

di G.

Pascoli,

Pisa,

Nistri

Lischi,

1960.

e di

Se consideriamo, nel poema, il contesto del nano che, sorto

fra Gog e Magog, dopo tanti secoli di schiavitù lo conduce alla riscossa, rendendolo conscio della sua potenza e facendo che egli, d’un urto solo, unito, si scrolli di dosso il giogo della schiavitù, rappresentato dalla porta, facilmente ci avviene di pensare

a quella riscossa proletaria di cui parla il Valli nella sua interpretazione.

Egli afferma : « Il popolo di Gog e Magog non è più strumento della vendetta divina, né il poeta ne parla soltanto con l'odio e con il ribrezzo col quale ne parlava il Medio Evo. Il Pascoli, senza esporre il suo pensiero, ma lasciandolo limpidamente trasparire, sente in questa moltitudine di misere genti rinchiuse, moltiplicantisi all'infinito nella lor fame, la moltitudine dei diseredati della terra esclusi dalla gioia della vita, privati del pane. Chi tiene indietro questa moltitudine? Chi la chiude nella sua sofferenza e nella sua fame? Null’altro che una paura vana. Essa, nella sua forza immensa,

è paralizzata da un vano terrore.

Trombe che suonano al vento. Che essa si accorga soltanto dell'inganno e nulla le potrà resistere... che un piccolo nano astuto sorto tra loro riveli agli stolti giganti che Alessandro non è più sui monti, e l’orda irresistibile sfonderà in un urto solo la porta che per secoli l’ha esclusa dalla vita e si rovescerà sul mondo e avrà il suo pane » (©). Ma, osserva giustamente il Goffis, «i due popoli che s’aggirano a mandre come gli asini selvaggi, che bramiscono come umile abbaiar

di iene, che sono

giudicati immondi;

e di essi il

Pascoli, in un'aggiunta, si sofferma a rappresentare la mostruosa bruttezza (occhi fiammei, lingue nere, nani irsuti dai mobili orec-

chi) e in un’altra aggiunta

possono

essere

simbolo

ricorda

lo spirito sanguinario,

non

del popolo che attende giustizia » (©).

L'ultimo verso, in particolare, dove il Pascoli afferma che all’or-

da che « sboccò bramendo » il mondo sere

interpretato

« fu pane », non può es-

ottimisticamente.

Il poeta stesso, in una lettera al De Bosis del 1 gennaio 1895, mostrava l’intenzione pessimistica del poema : « Carissimo

(22) L. VALLI, Op. Cit. p. 47. (23) C. F. GOFFIS, Un capolavoro dello stile Liberty: Studi Pascoliani, Faenza, Lega, 1958, p. 166.

I Poemi

conviviali

di G.

Pascoli,

in

201

e nobile convitator nostro, il poemetto non è finito oggi: sarà finito, forse, domani

sera o doman

l’altro.

Un mio libro scolastico (che a giorni le manderò per mostrarle la mia pazienza) mi ha fatto ritardare. Ma il poemetto ci sarà, non dubiti.

Solo mi duole che non venga come avrei voluto e quasi quasi riconosco d'aver sciupata l’idea del metro, che però metterò in opera meglio per il secondo numero, se non le parrà di non cestinare intanto il primo saggio. Il titolo è Gog e Magog : il soggetto, due leggende sui Tartari fuse insieme; l'intenzione, venire dell'umanità » (*).

un

triste

presentimento

sull’av-

Un triste presentimento sull’avvenire dell'umanità. Ma chi simboleggia, dunque, Gog e Magog che in modo cosi violento e disastroso, con tale bestialità, realizza la sua riscossa?

Il Pascoli rimproverava aspramente al socialismo marxista del suo tempo di essere una scuola e non una religione, di parlare troppo di « plusvalore », di « classi », di « lotta », e troppo poco di « amore », di « sacrificio », di « umanità ». In nome di un socialismo di cuore, invece che di un sociali-

smo di merito e di potere, vato l’assetto ottimo della guerra, della conquista, sola, sta per chiudersi. La pietà ha indotto stemi di salute e felicità

egli affermava che il cuore avrebbe trosocietà: « Il regno della schiavitù, della dello sfruttamento, cioè della ragion la ragione a escogitare strumenti e sinon più per le città, non più per le

nazioni, non più per le razze, ma per tutti, ma per la società, ma

per tutto il genere umano.

Il socialismo! Senz'altri argomenti e fatti, basterebbe questo, del sorgere del socialismo, a dimostrare che il regno della pietà è già inoltrato. Esso è un fenomeno

d’altruismo;

quali ne furono

i messia

e gli apostoli? Quali ne sono i predicatori e i confessori?

Tutti (poiché di classi si è costretti ancora a parlare) tutti, o nobili o borghesi o, se operai, tali però che per l'ingegno e per (24) In M. Pascoli,

258

Lungo

la vita

di G. Pascoli,

Milano,

Mondadori,

1961,

p. 404,

l'abilità o sono

usciti o potrebbero

uscire

dalla classe

degli

operai propriamente detti. Si avvera anche per il socialismo il fatto storico che l’elevamento delle singole classi è per opera della classe superiore. E' un fatto dunque di carità e d'amore. Sono

uomini,

codesti

predicatori

ziano già volontariamente ai beni della è bene quello che coincide col male degli non vogliono pietà, vogliono giustizia, e rinnegano la carità, promuovendo l’odio Il materialismo

e confessori,

che rinun-

loro classe, perché non altri » (#). Ma i proletari in nome di quest’ultima di classe.

storico, che, secondo il Pascoli, non è solo

proprio del socialismo scientifico ma è una malattia di tutto il pensiero del suo tempo, sta riportando l’homo sapiens all’homo brutus : « La storia non è mossa solo dall’aspirazione di star bene o di star meglio, non

è solo rissa per l’esistenza;

vi sono

anche

gli

uomini che vogliono gettare dal cuore ogni acre fermento di contesa, che vogliono disarmare i rapaci ed aiutare gli oppressi stando nella lotta contro la lotta. Essi non hanno altro fine che di promuovere l'umanità del genere umano » (*). L'homo sapiens diverrà homo humanus non solo rigettando la primitiva « lotta per l’esistenza » ma rigettando « l’egoistica, fredda ragione » : « Chi ha portata la pietà in terra? Quando l’-homo., così -sapiens-, ha potuto, non in virtù della sua sapienza, ma contro

contro contro la sua sapienza stessa, tanto superiore a quella degli altri animali terreni; quando l’-homo sapiens- ha potuto divenire -homo humanus-? Per qual miracolo è avvenuto in que-

(25) G. PASCOLI, (26) G. PASCOLI,

L’Avvento, in Pensieri e Discorsi, Zanichelli, Bologna, 1907, p. 285. L'Era Nuova, in Pensieri e Discorsi, Cit. p. 148; Cfr. anche La Messa

d’oro in Pensieri e discorsi, cit. p. 347-348: « L'uomo è dunque ora così come era mordi? Eppure quasi tre millenni fa un poeta greco diceva: E tu dà retta alla mentica al tutto la Bie, che questa è la legge ordinata agli uomini dal creatore. In vece ai pesci e alle fiere e agli uccelli volanti, legge è mangiar l’un l’altro; è Dike in essi. » Il poeta è Esiodo. Sempre ne La Messa d'oro, p.350: « E persino le classi dei popoli i quali soso

ai suoi priDike, e dipoiché

non

più lontani

dal tesoro, che lo intravedono appena nella lontananza dell’avvenire, rissano ferocemente tra loro per contendersi quello che non è ancor loro, che non si sa se sarà mai loro. Più ferocemente degli altri, rissano, mettendo così ancor più in dubbio la sorte di giun-

gere cuor

a quel fine! Guerra e lotta! Come dell’altro ogni sentimento che non

se ognuno, giudicando da sé, credesse sia del più lupigno egoismo! Lotta! »

sparito

nel

259

sto selvaggio pianeta, dopo il fiero regno della ragione, il dolce regno del sentimento? Ecco l'avvento (7). Con questo, si possono

intuire i motivi di preoccupazione

del Pascoli per il tempo futuro. si verificherà

Se non

il nuovo

l’Avvento,

subirà

secolo

fa-

talmente « la lotta delle classi e la guerra dei popoli » (#), a causa del rigetto della pietà per il materialismo e l'egoismo. Parlando di un’'immaginaria Apocalisse il poeta manifestava tali timori: « Ecco, io mi provo a leggere nel libro del futuro nascosto : leggo nell’Apocalissi. E i proletari del mondo ripeterono : Noi non vogliamo pietà, vogliamo giustizia! E primamente cacciarono da sé i loro maestri e apostoli... E presto non vi furono altri proletari che i proletari, e il genere umano

era diviso in due generi... non umani, che si guar-

davano male... Dalle due grandi classi si elevavano continuamente le vecchie querele: somigliavano a quelle che in tempi già remoti erano poste, come

si diceva, sul tappeto

da due nazioni che vo-

lessero venire alla prova delle armi. Querele che erano poi sopraffatte dal fragore delle battaglie e dai gemiti dei feriti... Cosi per un pezzo stettero l’un contro l’altro, i due generi inumani : i bambini piangevano dall'una parte e dall’altra; dall'una parte e dall’altra i giovani si nutrivano d'odio... l'odio aveva avvelenato tutti i cuori... E un

giorno

cessò

ogni fragor

di macchine,

ogni grido

d’aratore, ogni strepito di martello. Tutto era chiuso e tacito. La

pietà era da un pezzo estinta : s’estinse il lavoro. E allora venne la guerra : i due generi disumani si avanzarono l’uno contro l’altro con tutte le armi dell’odio... O tetra Apocalissi,

io non

credo

in te perché

la base del mio socialismo;...

Non

credo

nella carità!

Ecco

sarà un -dies irae- il gran

giorno (©); sarà il giorno della pietà! » (99).

(27) G. PASCOLI, L’Avvento, Op. Cit. p. 283 (28) G. PASCOLI, L'era Nuova, Op. Cit. p. 154. (29) Scrivendo, nel luglio 1907, a Giacomo Ferri, deputato to

la casa

di Castelvecchio,

il poeta

diceva

scherzosamente:

tuo compagno, più la sua ... villa ... E' una bicocca ... sicchè gran giorno - per morirvi in pace! ». (30) G. PASCOLI, L’Avvento, Op. Cit. pp. 289-294.

260

socialista, « Ed

spero

dopo

eccoti,

che

caro

mi

aver

acquista-

compagno,

si lascierà

nel

il

Il «gran giorno » della rivoluzione socalista sarà dunque veramente un gran giorno se non sarà sotto il segno della violenza, dell'odio di classe, ma reciproca.

sotto il segno della comprensione

Pure la visione materialistica della storia, quella che farebbe dell'interesse egoistico la molla dello sviuppo storico, secondo il punto di vista del Pascoli, gli fece presentire la catastrofe: « Si affaccia ai nostri tempi l’orrenda battaglia universale, che sarà la catastrofe di quello che si chiama il materialismo, e potrebbe chiamarsi il bestialismo storico » (#). E’ chiarito così quel «triste presentimento sull’avvenire dell'umanità », adombrato nel poema Gog e Magog.

(31) G. PASCOLI,

La Messa

d’oro,

Op. Cit. p. 349.

261

OTTAVIANO

GIANNANGELI

L'ALTRA POETICA PASCOLIANA Una forma di nevrosi, non ignota al Pascoli (che per lui si identifica in un processo di nullificazione, di risucchio nel vuoto: « il vertiginoso sprofondamento in un gorgo infinito, senza più peso, senza più alito, senza più essere », dice nelle pagine de L'èra nuova), ha ostato

al mio

trasferirmi

« fuori di casa »,

lontano dal « nido », dal « grembo materno », ecc., e mi ha privato del piacere di trovarmi tra i pascolisti gentilmente invitati a San Mauro per il settantesimo anniversario della morte del poeta. Sicché mi vedo costretto a far partecipare solo questo scritto al convegno, ma in maniera ... postuma, allorché gli atti saranno pubblicati: c'é la soddisfazione che scripta manent e coinvolgono (dovrebbero) un numero maggiore di ascoltatori e di curiosi. Mi si consenta,

tuttavia, di salvare di questo intervento

la forma conversativa, senza la fitta siepe di note più o meno pungenti con cui si suole in genere difendere la propria originalità, fatti salvi i riferimenti ineliminabili che saranno sistemati

intratestualmente. : Mi sono interessato di Pascoli a più riprese dal 1971 al 1975: prima come « fontaniere » (ricercando le fonti ...) della sua « spazialità » (precedentemente da altri designata come « cosmicità » o « astralità »), poi dandomi anima e corpo a rintracciare lo svolgimento della sua meditazione poetica, quindi occupandomi di metrica e finalmente ricomponendo il tutto in un libro, Pascoli e lo spazio, uscito a Bologna nel ‘75. Se la « spazialità », studiata, per dir così, categorialmente, può lasciar perplessi, e il discorso metrico si lascia assorbire senza eccessive riluttanze (se ne veda la citazione in La metrica di Cremante - Pazzaglia, 2° ed.), come

era avvenuto del resto per la ricerca metrica su Montale (che, mi si permetta il narcisismo e l'insolenza della dichiarazione, mi

263

pe

aveva stranamente procurato l'avallo del poeta saggiato), il tentativo di razionalizzazione cronologica della poetica pascoliana da una parte è stato benevolmente

schedato

(Pier Luigi Cerisola,

che ha curato una pubblicazione milanese di Saggi di critica e di estetica di G. P. nel 1980, mi dice un

« volenteroso » per avere

io intrapreso, insieme con un altro esploratore, il Fici, una « puntuale ricognizione all’interno dell’itinerario speculativo estetico » del P.), anche se non condiviso negli ultimi esiti, mentre da un'altra sembrerebbe essere stato stroncato alla radice. E mi spiego. Il Perugi, nel suo ruolo di alto responsabile delle cose pascoliane come curatore dell’antologia ricciardiana recentemente pubblicata, non concede ospitalità al saggio L’èra nuova, su cui si basava prevalentemente la mia ricerca come decisivo punto di fuga di una seconda poetica che si divarichi dal Fanciullino. Dovrei auspicare che il Perugi non abbia saputo mai nulla del mio libro, anziché pensare, certo con mortificazione, che egli abbia voluto obliterare me, in absentia, come scopritore o « vo-

lenteroso » sistematore di una seconda poetica, espungendo le pagine che a questa scoperta o sistemazione parevano soprattutto autorizzarmi. Poco male se ha depennato me che — dico senza ombra di ironia — sono un parvenu della critica pascoliana: ma non mi pare che abbia tenuto conto (il Perugi così rigoroso e armato di acribia nell’aggressione del testo, nonché rubricatore di interpretazioni, anche se sovente sine nomine) della ricerca del Getto (G. P. poeta astrale in Studi per il Centenario della nascita di G. P., Bologna, 1962, III), nella cui economia

L’èra nuova

oc-

cupa un posto di rilievo come lo scritto in cui il P. « pone il problema del rapporto fra poesia e scienza (un problema che — e sia pure in termini diversi: di tecnica e di umanesimo — ancora oggi ritorna a inquietare la nostra coscienza, come tanti altri problemi, del resto, che il Pascoli avvertiva e dibatteva nelle sue

prose, le quali perciò si leggono con singolare partecipazione...) » e « Di qui la distinzione fra poesia del morente Ottocento e quella del secolo che sta per sorgere (L’èra nuova è del 1899) ». Di qui:

cioè (ho saltato il trapasso, nel ragionamento

del Getto che a

questo punto citava il P., per metterlo ora a fuoco): « la poesia è ciò che della scienza fa coscienza ».

Ho dimostrato nel mio libro (p. 134) che tale frase non era una formulazione pascoliana, ma quasi una traduzione dal

264

Che cosa è l’Arte? del Tolstoi, saggio che dovette avere una ben maggiore importanza ed esercitare maggior forza di suggestione sullo scorcio dell’ ’800 che il sartriano Che cos'è la letteratura? alla metà del nostro secolo, stando alle traduzioni e alle polemiche che stimolò nell’Occidente. Tolstoi scriveva: « La vera scienza insegna agli uomini le cognizioni che debbono avere per essi la maggiore importanza e dirigere la loro vita. L’arte trasporta codeste cognizioni dal dominio della ragione in quello del sentimento. (...) La vera scienza deve dunque insegnarci le diverse applicazioni di questo concetto [la fratellanza universale] alla vita; e l’arte deve trasportare questo concetto nel dominio dei nostri sentimenti ».

Per la verità, la versione inglese (che io ho riportata e che Tolstoi preferiva all'edizione originale russa del suo scritto, che non aveva potuto sfuggire in tutto alla censura: ma non ho studiato filologicamente questo aspetto del problema) parlava non di « concetto », ma di « consciousness », proprio come si trova in P.: « True science should indicate the various methods of ap-

plying this consciousness to life. Art should transform this perception into feeling ». Ora per il Pascoli, che ha cominciato tardi a poetare, anzi a stamparsi; che ha avuto tanti dolori e guai e noie per attendere a una meditazione la più concentrata possibile sul « mestiere » del poeta, sulla sua funzione, sulla sua eticità; l'anno 1900 cade

come il giusto mezzo della carriera poetica, che presuppone sempre una consapevolezza, anche se questa non dovesse consegnarsi a specifiche pagine di poetica, o a una poetica che soglia apparire « propria », cioè « logica » anziché « mitica » (P. ha saputo dividere molto bene le sfere nel Fanciullino). Insistere nel ritenere che la poetica pascoliana del Fanciullino motivi le sue composizioni novecentesche, applicare solo le prime postulazioni per leggere e decodificare i molti sensi della scrittura che si sviluppa nel nuovo secolo, è come leggere il Dante trecentesco sulla scorta delle idee di poetica che possano emergere, in re, dal racconto della Vita nuova o dai carteggi giovanili su Amore; o leggere il Leopardi degli anni napoletani servendoci, come di grimaldello per diserrare i testi, esclusivamente della poetica messa sù negli anni degli « idilli », che è, giusto, chiave sensoria più che ideologica. Ora, si citano Dante e Leopardi che sono i poeti - guida del

265

Pascoli, quelli attorno ai quali ha speso più parole. Può darsi che tali poeti non gli abbiano insegnato nulla circa una « commutazione » di poetica che scatta puntualmente, e quasi (o del tutto per Dante che si appoggia ad Aristotile) naturalisticamente, nel trapasso dall'età che reclama un comportamento fervido e passionato a quella che ne chiede uno temperato e virile? E cosa desidera questo mutamento di impostazione del lavoro poetico, questa nuova

pianificazione,

se non

una

maggiore

adeguatezza

al proprio ruolo di scrittore che non evada dall'uomo e che il P. designa (si dica pure, retoricamente, di una retorica mutuata dall’Ottocento, per un ruolo che dovrebbe fondamentalmente rinnovarsi per il secolo che è all'orizzonte) come « sacerdote »? C'è una individuazione, sicura, di una marcia e di una progressione leopardiana dalla cura che il P. porta al Sabato, stendendo la relativa prosa, a quella che vuole invece centrare i significati della Ginestra. E in mezzo c'è il Fanciullino, che io ho ritenuto di interpretare piuttosto una poetica volta all’indietro, quasi riassuntiva e giustificatrice del P. delle Myricae e (se vogliamo,

col Sanguineti) centesco.

dei primi Poemetti,

che proiettata sul P. nove-

Certo, saremmo ingenui nel ritenere che questa poetica parli chiaro. Anche nei suoi saggi il P. secerne l’umor nero, per eclissarsi, per difendersi dall’aggressore (il quale è il critico che vuol capirne di più), come il calamaro, 0, come il riccio, si appallottola presentando gli aculei della insocievolezza. Ma, nello stesso Fanciullino, m'è sembrato che, superata l’altezza della pri-

ma parte pubblicata sul « Marzocco », sul sismografo che registra le vibrazioni, brividi e stupori, del poeta ut puer, incomincino a disegnarsi forti sussulti; che, anzi, la parte in cui si imprende a parlare di « poesia applicata », più che a limitare, venga a cor-

rodere la poetica della « meraviglia »: che il fanciullo cresca e pertanto si neghi. Che significa questa « poesia applicata » se non « poesia di durata », poesia anti - brivido e anti - stupore, poesia che conosce (per servirmi di un sintagma di Sergio Solmi riferito a Montale) la « combustione razionalistica » e che per sussistere deve aprire le porte al « pensiero pensato » e non immaginato, simulato, finto? Se proprio non si vuol dire che la poesia applicata neghi stupori e brividi, si dovrà dire almeno che essa abbia a farsi « storica di stupori e brividi » (sto quasi rubando un altro

266

sintagma, stavolta direttamente a Montale di Caffè a Rapallo): storica, ossia cucitrice, ossia coordinatrice. Insomma

il logos sen-

za il quale la poesia non può sussistere si chiamerà, d'ora in poi,

per P. la « sintassi ». Se il Croce, prescindendo

dai duri sforzi

(quasi contro natura) che il P. compie in questo periodo per uscir fuori dalla « atassia », persisterà nel chiamarlo un « atassico », il poeta dimostra almeno la buona intenzione di tirarsi fuori dalla sacca della poesia come pura impressione e frammento. E' in questa luce che va guardata L’èra nuova, prima che come ricerca di materiale per allargare il registro delle cose poetabili. Tutta la poesia pascoliana del Novecento non sarebbe concepibile senza il mutamento di rotta di poetica segnata dalle pagine del ’99. E d'altra parte, se non si trattasse di volontà di mutamento

di rotta,

non

sapremmo

che

senso

dare

a queste

parole di autocontestazione che gridano dal capitoletto X dell'Era nuova: «il poeta, cioè il fanciullo che d'or innanzi veda, con la sua profonda stupefazione, non più la parvenza, ma l’essenza ». Il P. parla della scoperta dovrebbe

scientifica

filtrare, tolstoianamente,

della

« morte » che

nel « feeling » dei poeti, che

solo per questa operazione assurgerebbero al ruolo di sacerdoti funzionanti per l’Umanità. Il poeta parla anche di « spazio », ma ciò potrebbe essere secondario ai fini dell’intelligenza ultima e della « destinazione » del brano

che

stiamo

analizzando

(e se lo dico

io, che, sullo

spazio di P., ci ho scritto un intero libro, potete credermi!). L'illuminazione, nel brano, scaturisce da un’interrogazione che viene

subito dopo: « Chi sa immaginare le parole per le quali noi sentiremo di essere mortali? » Credo che occorra sottolineare non lo spazio e la morte

come

inflazione,

dicevo,

del poetabile,

ma

le

parole come sua « macchina »: le parole nuove, quelle che non possono essere tenute insieme se non dall’amalgama costituito dalla « sintassi », che deve farsi ritratto del pensiero e non

l’immagine:

del-

« essenza » e non « parvenza ».

E anche

ritratto

metrico.

Se altro

passo

innanzi

non

si

troverà compiuto dal P. (ma questa sarebbe una eresia) sul terreno della poesia nei primi anni del Novecento rispetto all'Ottocento, basterebbe guardare alle sue impaginazioni metriche per essere costretti a pensare il contrario. Tra i grandi poemetti

267

« calcolati » è Il ciocco. Non mi domando qui se sia un poemetto totalmente riuscito o non: importante è che si trattidi una verifica del progetto messo a punto nell’Era nuova, con la lingua (lessico e sintassi), la metrica, i motivi, che si affrontano dai due canti in maniera simmetrica e contrastiva, per la prima volta nel Pascoli così studiatamente, quasi a dimostrare un teorema. L'impianto, il « pensiero », è tutto pascoliano, e non ha precedenti né nella nostra letteratura né in quelle degli altri paesi. Se si tratta di un fallimento, è un fallimento « eroico » (e questo aggettivo potrebbe richiamare ancora l’ultimo Leopardi, la cui suggestione il P. si è disposto a ricevere). Vi si cova un proposito ambiziosissimo: quello di far sentire il suo sradicamento dalla terra: la strutturazione poetica di un personale vizio nevrotico (« il vertiginoso sprofondamento » ecc.), assurta però a tentativo emblematico di come si volta in parole (e in coordinazione sintattica) un sentimento individualissimo dell’esistenza.

268

GIOVANNI PASCOLI

COME

GIUDICI

OCCASIONE

POETICA

dal "Ristorante dei Morti”

Anzitutto bisogna precisare che « IL RISTORANTE DEI MORTI », libro di cui sono autore e da cui leggerò è uscito meno di un anno fa, mentre sarebbe stato più giusto poter leggere delle poesie inedite. Ma non è colpa mia se il 70° Anniversario della morte di Pascoli cade nel 1982 e queste poesie io le ho scritte invece nel 1970-80. Una sequenza, una delle quattro o cinque parti in cui il libro è diviso, si intitola « PASCOLI » : Pascoli, semplicemente

e senza

nessuna

intenzione

celebrativa,

ma

solo per ri-

ferimento all’occasione in cui quasi tutte le poesie della sequenza sono

nate.

La rievocherò brevemente; si tratta di un'occasione che appartiene al mio lavoro quotidiano che è di giornalista. Mi dissero, appunto,

mi sembra

verso

la fine di settembre

del 1979:

« Sta per uscire nei Classici Ricciardi un'edizione delle poesie di Pascoli curata da Maurizio Perugi [il cui nome allora io ignoravo, non essendo né studioso né tanto meno uno specialista di letteratura italiana o di alcuna altra letteratura]. Va un po’ a vedere, senti un pò cosa succede ». Così mi misi in viaggio e dopo aver già visto le bozze di questa edizione, ebbi un incontro con Maurizio Perugi e accompagnato da lui andai a visitare la casa di Pascoli a Castelvecchio. Devo dire la verità, fu una giornata di emozioni abbastanza intense perché la quasi totalità degli Italiani, nonostante gli sforzi, direi anche fecondi, di tanti illustri studiosi degli ultimi decenni, a cominciare da un Maestro come

Gianfranco Contini, molti Italiani comuni, uomini della strada (come anch'io in gran parte sono o continuo a cercare di essere), avevano del Pascoli un'immagine alquanto filistea, stantìa e for-

269

di

se un po’ noiosa, alla quale a suo tempo le scuole del Regno, ma poi anche quelle della Repubblica, ci avevano abituato. Certamente oggi qualcosa sta cambiando, comunque in quel giorno... (beh, non vorrei esagerare, qualcosa avevo anche capito coi miei propri sforzi, con la mia propria riflessione), ma certamente in

quel giorno mi trovai di fronte ad un'immagine interiore del Pascoli abbastanza

inedita,

ebbi

immediatamente

la prescrizione,

anche dalle parole di Perugi, da quello che mi diceva e che poi è documentato dalle risultanze del suo lavoro, l’idea del poeta forse più moderno della nostra letteratura, forse anche il più

« europeo » e quello in cui tanti temi della poetica contemporanea si erano già delineati e direi che avevano già trovato delle soluzioni. Ma tutto questo riguarderebbe una riflessione critica che in questa sede non è mio compito. L'impatto emotivo fu il vedere, lo scorrere, grazie alla cortesia del custode e all’autorità acquista presso di lui da Maurizio Perugi, i volumi della biblioteca del Pascoli con quelle sue annotazioni a matita, annotazioni direi preziose dal punto di vista filologico e non soltanto filologico; soprattutto per quel quasi sparire dei segni della matita dopo 50, 60, 70 anni sono diventate quasi invisibili. E quei

segni mi riportarono immediatamente alla fisicità della persona che li aveva

tracciati... Quando

si legge un poeta o un

autore,

soprattutto dei tempi passati ma anche dei tempi presenti, siamo un po’ abituati, forse anche per pigrizia, a rimanere fermi alla sua immagine cartacea, al testo stampato. Mentre, se ripercorriamo a ritroso il cammino che dal corpo attraverso la scrittura arriva alla pagina, quindi se dalla pagina ripassiamo alla scrittura e risaliamo al corpo, abbiamo quasi la percezione, quasi una

rievocazione,

direi in termini

addirittura

medianici,

della persona che scriveva queste cose. E non per fare del facile biografismo : perché,

in effetti, da questo

Pascoli,

colto

attra-

verso questi segni non indelebili ma delebilissimi e in parte deleti, veniva avanti una immagine prescinde dai dati della biografia.

piuttosto

trascendentale,

che

Questo tipo di riflessione mi era accaduto in passato di farlo a un livello forse meno cosciente sulle pagine di altri autori; e forse uno di questi è Kafka. Ma cosa c'entra Kafka con

Pascoli? Entrambi

sono fra le poche divinità del mio olimpo,

più libresco che letterario; e non è poi nemmeno libresco... Poi non è che avessi pensato : adesso faccio delle poesie... No, si

270

scatenava

una

reazione

emotiva

per cui io scrissi un certo nu-

mero di poesie, alcune delle quali si riferivano, sì, anche a questo Pascoli... C'è magari un tentativo di identificazione; ma soprattutto una serie di sentimenti e di stati d'animo già presenti in me che si sono qui cristalizzati. Quella visita e quel contatto agirono insomma

da catalizzatori.

Non vorrei, come

dicevo, fare

delle riflessioni critiche sull'opera di Giovanni Pascoli, prima di tutto perché non sono preparato e poi perché ci sono in questa sala (o verranno o ci sono già stati) oratori e relatori con molta più competenza e rigore di me. Devo dire in particolare che ho ascoltato con intensa partecipazione, direi anche con commozione, la relazione, ieri, di Gianluigi Beccaria che mi ha fatto riflettere anche su un'altro aspetto del Pascoli: quel suo puntare sull’indistinto, sul vago ecc., ma un « vago », un « indistinto » rappresentati con estrema precisione qual è d’altra parte poi l'ufficio del poeta, tanto è vero che in una poesia che un

poeta ha scritto recentemente c'è un verso che conclude: « essendo nostra scienza l’esatto del press’a poco »... Credo che nessun

poeta come il Pascoli, nei suoi momenti più alti, abbia saputo rappresentare poco.

Dopo

e rendere con tanta efficacia l’esatto del press’a questo

preambolo

sono

costretto,

per

puro

omag-

gio, per puro debito di presenza perché gli Organizzatori del Convegno mi hanno invitato a parlare, a leggere queste poesie in cui il Pascoli c'entra e non c'entra. Sono undici, alcune sono

brevi, per le altre avrete la pazienza di ascoltarmi; spero di non leggerle tanto male; non tutte sono riuscite come speravo, non tutte continuano

a piacermi.

SEI POESIE DALLA SEQUENZA « PASCOLI », NEL VOLUME IL RISTORANTE DEI MORTI, MONDADORI, MILANO 1981. Il titolo di questa sezione non ha intenzioni celebrative (Pascoli, insomma, c'entra appena in parte), ma si riiferisce principalmente a una circostanza di ispirazione : una visita alla casa del Poeta a Castelvecchio Pascoli il 6 ottobre 1979, in compagnia di Maurizio Perugi, mio periegeta in quell'occasione alla poesia pascoliana. Le emozioni della giornata agirono in me come catalizzatori di temi poetici anche preesistenti, sicché fra il 17 ottobre e il 15 dicembre successivi potei scrivere la maggior parte delle poesie qui raccolte. Soltanto « Eh sì» e « Oggetti » appartengono a periodi precedenti.

I

Contrappunto

Non volano le tue poesie Ultime - vi prevale l’intento? Contavi e ricordavi i versi? Tentavi la maestà dell'argomento? Si guasta la maschera d’innocenza Quante sere svuotato il fiasco Piangevi la tua impotenza? Io sì - nella città cui devo tutto Spaccacuore e verità Meno l’esserci nato, meno Fin qui la morte - ago Che dal domani del pagliaio ci pungerà Invivibile ormai quasi foresta Al nostro quotidiano posare la testa Altre città le tue di un altro tempo Matera nei sassi dell'Ottocento Massa e Livorno donde passasti a Messina A Pisa - per riapprodare A una Bologna non più Di rossa gioventù e di prigione nera A una precoce sera, o Giovanni

Supplicavano i familiari Al sommo di tutti i luminari - Maestro Dica che c'è speranza siamo nelle sue mani In un altra stanza di un’altra casa Ho toccato il tuo letto tale e quale Così stretto per uno come te E la foto da estinto in toga ed ermellino No - per la strada qui non vanno carrozze Ferri di ruote sui selci Non stridono alcuna agonìa Né alcuna mesta gelosia si affaccia giù A un mefitico fiato di lamiere Motori affannosi al dovere In ressa al raggiro Invertissimo i ruoli! I punti d'osservazione! Guardami nella via Dove i negozianti mi conoscono per nome Mi danno credito a vista - e anche questa (io blàtero) E’ civica decenza - mia Parola ...

Fap

II

Barga

A chi danno fastidio - due brave persone Fratello e sorella - lui Ha il cane non stanno qui sempre Ma anche l’inverno ci restano A volte per settimane Non sono di queste parti - di preciso Non saprei ma devono Aver passate le sue - professore Perchè non prende moglie? - l’ha scherzato uno E lui gli ha detto che ormai non è più l’ora Però quando si chiude di sopra Nessuno può bussare perchè lui scrive Chissà in tanti libri Cosa ci legge tutti segnati col lapis L'hanno sentito che parla con gli spiriti Poi sta in ascolto degli uccelli e gli fa il verso La notte il lume resta acceso fino a tardi Ma all’osteria se c'è da bere ci va Domanda il nome delle cose è democratico Hanno tutte le loro comodità

TIR

msi

Eh si tu te la fai a suon di chiacchiere À suon di poesie e altre Bischerate che poi Vorresti anche metterle sui giornali - ma

guarda

me

Guarda lui a questa ora della sera dopo un'intera Giornata che tu arrivi tutto pimpante Guarda un po’ noi se ancora ne abbiamo Voglia o piuttosto se

IV.

Presto illeggibili

In questa casa vagante In questa casa senza muri Casa-farfalla che si posa Nello spazio di una rosa

né stanze

273

va

Voliamo io e te nella voliera Da un posto all’altro nella città Via a un cric di serratura spaventati Dai tipi coi piedi sulla terra

Su bordi di grondaie rondini intirizzite Su fili di alta tensione Nel caldo gelo della finzione abbi coraggio Io sono amico del direttore del teatro Casa di attimi e ariapersa Dove l’incontro è già il distacco Senza respiro dentro il guscio del raggiro Nel buio della meninge alberga il non finito Nera calotta che su noi cala Talpe del nuovo inverno Dove impariamo un parlare di ectoplasmi Senza suono senza suono Golosi insieme mangiando la luna Al primo freddo serale del mare E commentando l’odore del bosco Abbiamo abitato luoghi lontani E di ciò niente - passeremo senza Cenere all’acqua e al vento Dal corpo anticipata carogna Al tempospazio mutamento

storia

KS

Grande è il nostro desiderio di ordine Ma il fosso che ci annega sta già crescendo Mentre qui a dimostrarti insisto Il mio quasi perfetto crawl Presto illeggibili E noi una i col Vaghiamo nella Casa-farfalla che

V

i segni del lapis suo punto nel folto del dizionario casa di rosa non si posa

Vent'anni

Corporeità immaginata! Cammino a ritroso e sei lì Poeta che appena mi sporgo Arrivo al punto che tu proprio sull'orlo Mi acchiappi: Me tuo futuro, tuo sapere finalmente Cosa ‘c'è dopo =

274

Io che ti parlo e ti scuoto Io che rifaccio come parlava Un vecchio quasi della tua età Era stato per mare, rammentava In greco 100 si dice ekatòn Storpiandolo Catò - la nostra grassa vicina Al secolo Caterina La giubba è lisa, unta al bavero I pantaloni di rigatino grigio e nero Non cerca abiti nuovi chi se ne va Quando si toglie la camicia ha le spalle Di un latte da far senso: Due volte per settimana si rade In camera ha il bricco d’acqua bollente ... Lui come Orologio

te - faticato al panciotto,

decoro catena

Di similoro! Solo che tu sparisti dal mondo già prima Tu fossi in me sarebbe già la mia ora Ma cosa contano poco più di due decenni! Giocavo con le sue cose, ci provo... Il raschietto a due lame, la tabaccheria Dov’è finita la vàterman? E la scatola di legno a scomparti In cui pensoso suddivideva la paga Affitto, vitto, legna per la cucina Medicine, candele ... Avesti mai niente di simile? Ecco: arretrare - e ancora Non sei lontanissimo -

indietro

vent'anni...

Come da adesso a quando in auto da San Donato Un quattordici luglio io sbarco in questa città Pago un caffè e un giornale: Miramilano miracolosa Tutto cambiato e uguale! Eh no, altro ci vuole! - ma lui Se guardo il suo mio letto che chiamo di Procuste Corto, ci batto i piedi E’ là disteso bianco e oro da morto Coi due rossetti arguti sulle guance: Alla sua cera misuro le nostre distanze Vent'anni dopo di me

Perdonare le offese ricevute E non fare soffrire i superiori, Giovannino Làvati bene il collo e le orecchie E basta con le dita su per il naso Ogni sabato cambia camicia e braghette Ogni quindici giorni maglietta a pelle e calzoni Ah quelle mele ai calzini ai calcagni Se qui ci fosse la tua povera mamma Quando viene la festa va’ a salutare i parenti Piega con cura i vestiti sulla scranna Prega per i tuoi benefattori, Giovannino Tieni lontani i cattivi pensieri Buttala giù brutta minestra verde Fave malcotte per tanti è una mamma Luce diana vuol dire la luce del giorno E non importa che non c'è il sole Ringrazia la fortuna se è stata avara Ti andrà meglio, da vecchio sarai felice in amore Ordnung! Ordnung! Prima di chiudere spara

276

CESARE

FEDERICO GOFFIS

IL TEMPO PERDUTO

Per quanto

sia incerta

la cronologia

di gran

parte

delle

poesie di Giovanni Pascoli, credo si possa dire che il tema

della

morte, inteso come profondo impegno interpretativo dell’esistenza umana, venga trattato per la prima volta dal poeta in quello che io chiamai il ciclo dei gladiatori, Veianius, Gladiatores, Gallus moriens, composti fra il 1891 ed il 1893, ai quali sono da ag-

giungere Crepereia Tryphaena e Mater degli stessi anni. Fino a questo momento le Myricae non hanno avuto ambizione di cantare drammi personali o umani: movendo da un mondo di campagna, hanno creato trasparenze liete o malinconiche con la consapevolezza di una semplice poetica: Io prendo un po’ di silice lo fondo; aspiro; e soffio ve’ la fiala, come un dì di azzurra e grigia, torbida e

e di quarzo: poi di lena: marzo, serena!

Il grigio e il torbido sono ancora ben lontani dalla luttuosa tristezza

che verrà via via calando

sulle Myricae,

e ne altererà

l’immagine. Ma con il ciclo dei gladiatori, con Veianius, si impone il grande tema dell'inconscio e del subconscio, certo da tempo filtrato nell'animo del Pascoli, tuttavia estraneo all’ispirazione delle Myricae, e richiedente più vaste strutture espressive, in corrispondenza del nuovo concetto della poesia come esplorazione dell’ignoto, vibrazione dell'animo stupito alle ombre dell'infinito metalogico e metempirico che si oggettiva nell'impersonalità, ci assorbe nella morte.

277

Da questo momento qualificano

come

esempio

le disgrazie della famiglia Pascoli si del dolore

e del male universale,

si

cingono di un alone di sgomento, in direzione gnoseologica decadente.

Nei giorni in cui fu scritto

Veianius

venne

composta

la lirica Le monache di Sogliano con l'organo che geme da « invisibile cortina » ed il « silenzio della tomba ». Nella quiete della campagna Veianio /atet abditus, atterrito dall’incubo del caldo sangue versato, che lo ammorba.

Si tratta di una scelta autono-

ma rispetto all'impostazione oraziana e alla cronaca familiare, scelta cui il poeta intendeva dare grande risalto, progettando un libro di dediche latine ad illustri personaggi, brevi composizioni, legate in qualche modo alle Myricae, che contengono precisi ri-

ferimenti alla tragedia di S. Mauro, e di cui quella che doveva aprire la serie (Ad G. Finalium) stabilisce un rapporto fra il vecchio gladiatore ed il poeta, non perché questi abbia ucciso qualcuno, ma perché un tenace odore di polvere cruenta opprime i suoi sogni, né quando si desta più lo conforta la vita diffusa nella serenità della natura. Il progetto ha immediato inizio di svolgimento in altra dedica che il Gandiglio intitolò Mater, dove la perdita della madre si confonde nella consapevolezza adulta con la perdita della fede, rimpianta

nelle sue

forme

mitiche

care

alla fanciullezza:

Ibi velo caput atram per opacum undique murmur misere nostra viderem redimentem mala blanda redivivam prece matrem.

Il Pascoli ha conquistato per un'intensa nuova situazione esistenziale un suo libero movimento di immagini ed impressioni in serie ricchissima, culminante con la parola attesa per dodici versi: matrem.

Da questo momento il senso della morte dilaga per le Myricae. Se in particolare consideriamo la produzione databile degli anni che più ci interessano, il 1896 e ’97, troviamo che le composizioni permeate dal motivo della morte sono tra le Myricae otto su dodici; di cinque poemetti, lasciando da parte Il libro che svolge in forme decadenti il tema del mistero, e 11 vischio di cui riparleremo, particolare interesse desta Conte Ugolino che offre,

in polemica con Dante, la prima traccia della serie di composizioni sull’agonia, spazio di dominio del subconscio come preludio

278

alla morte. Jugurtha rappresenta in questo 1896 lo strazio della morte fisiologica, in contrapposto alla morte, tutta spirituale e dominata dalla volontà, dell’Ugolino dantesco. Dei due Poemi Conviviali uno è la trilogia funebre di Ate. Unica e prima delle Odi è Crisantemi. Come si vede si tratta di un’esplosione, che continua nel 1897 con dieci Myricae per i cari morti (su diciannove), due Poemetti con precisi riferimenti ad essi, e poi Il ritorno a San Mauro.

Era

necessario

tracciare

il diagramma

di sviluppo

della

tematica della morte, in quanto la morte è segno decisivo della relatività dell’uomo, ne suggerisce con la fragilità la relatività gnoseologica, circoscrive la luce del nostro spirito con le tenebre

dell'ignoto. L'inconoscibile sovrarazionale ha nel Pascoli perso forma religiosa, si adombra in miti per suggestionare con la concretezza degli oggetti insistentemente evocati, e approda ad un inevitabile simbolismo, dove immagini e significati sono involuti in travolgimenti onirici. Le vicende storiche della famiglia Pascoli hanno per lungo tempo distolto l’attenzione di lettori e critici dal costituirsi nel poeta

di una

senso

tragico dell’esistenza

coscienza

utilizzare, accarezzare,

decadente,

e dal maturare

universale,

accentuare

in lui di un

che doveva

i personali

dolori.

portarlo

ad

Certo

egli

avvertì poi, in un tempo che possiamo collocare attorno al 1896, quanto di limitativo alla funzione alta del poeta vi fosse nell'ancoraggio alle pene personali e all'odio verso l'umanità. E sentì l'esigenza di trasfigurare pene e odio in poesia attingendo ad una sensibilità più pura, perché più distaccata. Scrisse nella prosa Il fanciullino: « Nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell’invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere coi morti » (!). Appunto nel 1896 scrisse Il vischio, che ritengo sia da considerare prolusione al gruppo di liriche intitolato Ritorno a San

Mauro, sconfinante dall’autobiografia verso l’asserzione di poetica, cui era portato l’autore appunto in quegli anni, mentre gli si chiariva sempre meglio la funzione della poesia come ricerca

(1) Prose,

Milano,

1946,

p. 39 nota.

214

e nelle ére. Il vischio

dell'umano e del primordiale nell'animo

fu collocato fra i Primi Poemetti, dopo Il bordone che raccoglie

l’idea dell’ispirazione fiorente dal cimitero di San Mauro; esso è un monologo con « un'anima sorella » che tra i veli del pianto ammirò «i mattini meravigliosi », le nuvole fiorite degli alberi da frutta, speranze non senza illusioni: la vita procede e dà frutti, ma lascia a terra i petali, memorie vane. Distogliendosi dall’anima sorella, che, se ha fondamento biografico, nella poesia è diventata il « tu » latino che rende l’impersonale, il monologo si rivolge all'albero che non fiorisce, cui « vento d’odio » inserì un seme nella scorza, e il seme crebbe e solcò il legno « con sue verdi vene », alterandone le energie vitali. A causa del vischio dell'odio l'albero ha due anime; ma una si è inaridita, ha perso

coscienza e rinnega la propria natura « fuggendo immobilmente » da sé. Il motivo dell’odio troverà svolgimento narrativo, questa volta in forme drammatiche, nel poemetto // negro di Saint Pierre, ove l’odio, nella dimensione

sociale, scava una solitudine

tremenda attorno all'uomo, quella che configura liricamente il proprio significato universale nel poemetto 11 cieco, l’uomo che vede solo il nulla, che si sente «il solo dei viventi, / lontano tutti ed anche a sé lontano » (2.

a

L’anno dopo la composizione di I! vischio il Pascoli andava a San Mauro per un distacco risolutivo dal passato, un gesto necessario alla sua poesia umanissima,

che cercava

nel perdono

offerto la verginità di sentire dell'infanzia (« Non li ricordi più, dunque,

i mattini

/ meravigliosi? »), l'innocenza

di un

tempo.

Così i Canti di Castelvecchio si chiudevano con il Ritorno a San Mauro, a segnare la pacificazione definitiva col mondo romagnolo; e veniva adesso rifatta e completata la notissima Romagna, lirica giovanile già riveduta per le Myricae del 1892. Ma prima dell'ultima raccoltina, quasi a chiarimento

delle

composizioni che stava per presentare, il Pascoli collocò La cavalla storna, racconto di un sogno. Vi si immagina il monologo notturno della madre del poeta con l’animale che riportò a casa (2) Sono d'accordo con chi ritiene che nel Vischio il « ria: certo nell'immagine si esaurisce l’idea senza residui; che identifica il poeta con l'albero solcato dalle altrui vene non ha origine in una scoperta fatta nell'orto. E’ suo lo

280

sovrasenso » non scada nell’allegoma il moto dialettico, la tensione e distillante « il glutine sdoppiamento d’anima.

di morte »

Ruggero Pascoli morto. E’ atto di accusa contro persona nota, elaborato per esser collocato verso la fine dei Canti di Castelvecchio, quando la poesia del Ritorno a San Mauro aveva ormai assunto struttura di narrazione completa, tratteggiando una vicenda psicologica che va dall'odio di 11 vischio al perdono di Tra San Mauro e Savignano, rispondendo alle esigenze di liberazione dell'animo e quindi del mondo poetico.

La cavalla storna nasce da un’evoluta capacità lirica sovrapposta ad un intento di composizione letteraria, non rilevabile nel carattere melodrammatico del finale che vi si volle vedere, e che non esiste, se vogliamo considerare che si tratta di un sogno in cui i rapporti tra i fatti sono svincolati da qualsiasi impegno di verosimiglianza, mentre l'esplosione magica del nitrito rientra negli assurdi guidati del risveglio. La cavalla storna è la premessa alla rappacificazione: i sospetti diventano certezza per consentire il perdono.

Ma prima di giungere al Ritorno a San Mauro il Pascoli ha inserito una lirica di alto simbolismo, meno descrittiva del seguito, meno ottimistica, non sulla linea memoriale, né su quella

etica del perdono e della rappacificazione (le due linee che si intrecciano nel Ritorno), ma una lirica che raccoglie la tematica essenziale, del dolore per il tempo irremissibilmente perduto: In ritardo.

In ritardo non racconta né fa riferimento diretto a vicende personali: lascia trasparire un senso di disperazione sopra una remota frustrazione. Si accavallano sensazioni e immagini della « morta estate », dello scrosciante temporale, e delle tenebre del

giorno che muore in un « grigio autunno », il « nereggiar di piume », le due « ombre » volanti delle rondini sperdute, l’insistente

scroscio

dell’acqua

dei due torrenti

di pioggia, il brontolio

e del fiume

in piena, l’urlo

dei tuoni, il ruglio delle ventate,

che

ritornano con cadenza ripetitiva a coprire altre immagini di sere d'arrivo delle rondini in primavera, altri suoni, « grida d'amore e gioventù », di cui sopravvive il ricordo «in mezzo alla tempesta », immagini e nomi evocativi di terre lontane dove le altre rondini sognano il ritorno. Sono consonanze di atmosfera, cui la voce narrante ne aggiunge altre più allusive alla situazione del poeta. Le rondini ebbero il nido distrutto, «son padre e madre », ed hanno

costruito un secondo

nido con

« sei rondini-

281

ni », ma questo secondo nido « ch'è due nidi al cuore; / ha fame in mezzo a tante cose morte ». Il valore affettivo del nuovo nido di Giovanni e Maria in cui si alimentano i ricordi della casa di Romagna, stravolge nel riferimento la realtà: i fratelli superstiti diventano « padre e madre », che si ritrovano, però, anche per via di uno

sdoppiamento,

fra i sei rondinini,

mentre

il vecchio

nido si proietta nel nuovo. L’identificazione del passato col presente porta alla cancellazione di ciò che fu distrutto, del passato perduto, da cui si ricupera soltanto la « fame in mezzo a tante cose morte ». Il finale, paratattico, con settemplice polisindeto in e, punta sull’ultimo verso

conclusivo

e desolato:

e quello ch'era non sarà mai più; ma si badi: a questa conclusione portava la prospettiva musicale di tutta la lirica, dove, per otto volte, ogni sesto verso è tronco un u. Il dramma della famiglia Pascoli esce dal suo tempo reale, la maledizione del passato diventa presente, e ciò che non poté essere non sarà più mai.

Con questa premessa di un tempo perduto e irricuperabile il Pascoli si accingeva a presentare i sogni (*) di un tempo impossibilmente recuperato, nella raccoltina Il Ritorno a San Mauro, che sarà anche per ciò cara a Guido Gozzano. La prima immagine di sogno è paesistica: Le rane. Il poeta si trova in un paese « lontano », è « altrove »: un paesaggio di simboli attraversato da una « via senza fine » (dove lo spazio illimite è immagine del tempo), segnata da « lunghe ombre di croci », per un ritorno che la voce delle campagne oggettivamente interpreta con tre verbi : « Ritorna! Rimane! Riposa! ». O, forse meglio, i tre verbi illustrano la morte a San Mauro, raggiunta alla ricerca di « ciò che non è mai, ciò che sempre / sarà... », x

appunto

della morte,

che è il non

essere,

visto nella proiezione

di tutto il tempo futuro. La prima immagine è di questo paese lontano, irreale; è visione della terra « inondata di rosso », attraversata da una «via senza fine». Casa mia sarà più esplicita: « Vidi nel mio cammino / al sangue del trifoglio / presso il celeste lino ». Volendo accogliere soltanto i simboli necessari, costatiamo che la (3) Il sogno è sostanza delle speranze e memorie all'incirca del 1896: «o speranze,

282

e delle memorie appunto nella lirica Speranze ale di sogni ... o memorie, ombre di sogni ».

suggestione del colore del trifoglio come simbolo di morte ci viene dall'autore. L'altro simbolo della fine » ci suggerisce l’immagine di qualcosa che si finitamente, ed è la strada del « mondo, così larga

di sangue e « via senza svolge indevia » (Com-

miato), ma pure la « silenziosa strada » bianca dove si trova il poeta, solo, dopo il commiato; ritorna la sua immagine nel « lungo mio cammino » di Giovannino, nella « via » che lento lento

egli percorre nel Bolide, quella su cui lo vediamo « piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella ». In questa atmosfera di irrealtà simbolistica il trifoglio fiorito non indica una stagione. Il poeta che rimproverò il Leopardi per aver fatto un mazzetto di rose e di viole, che non fiorirebbero in una stessa stagione, nel Ritorno a San Mauro vede simultaneamente fiorito il trifoglio, il fiengreco dai fiori gialli, che fanno il maggengo, la mimosa marzolina, in piena fioritura le « rose rampicanti », le « peonie rosse » ed i « giaggioli azzurri », « il celeste lino », i « lilla » profumati, e gli autunnali crisantemi. Non si ricreano i colori di una stagione,

ma

si evocano

momenti,

visioni,

fuori

del

tempo,

immerse nell'atmosfera del sogno. Le due sestine di Le rane trasfigurano il gracchiare dei batraci, « cantonieri » del Rio Salto (11 bolide), nello « strepere nero d’un treno / che va... », « che non s’allontana, e che va / cercando, cercando mai sempre / ciò che non è mai, ciò che sempre / sarà... ». La sinestesia « strepere nero », dove l’atro funereo colore è fonica essenza del « treno », ha intensa forza simbolistica. Circa un anno addietro il Pascoli ha scritto La morte, che

diventerà poi Scalpitìo, chiave per l’intellezione esatta degli ultimi versi citati: anche là « nel piano » si sente « un galoppo lontano » che

corre

«con

tremula

rapidità », come

qui

« nel-

l’umida serenità», mentre si corrispondono i due bisillabi reticenti sulla morte:

« (è /a...?) », « che va... ». Dunque

il Pascoli

stesso,

nella prima lirica del Ritorno, in una poetica visione di sogno, ci suggerisce l’immagine di una via illimite che, attraverso San

Mauro, lo porta alla morte. La seconda lirica, La messa, enuncia l’altro tema essenziale, della fede o della sopravvivenza, riportata all’età mitica, all’infanzia, consolata dalla madre: religio fatta pietas. E’ tema che

verrà

ripreso

con

visione materna,

maggior

intensità

in Giovannino,

con

dopo

la scomparsa

la nostalgia

della

della religione

dissolta, della porta in cui il poeta non può entrare più.

283

La Messa è raccontata all’imperfetto (« La squilla sonava... diceva... »), segno del distacco della coscienza dal momento in cui il sogno avvenne; ma mentre nella precedente Le rane, dopo l'annuncio del sogno (« Ho visto inondata di rosso / la terra... »),

c'è la rievocazione di esso al tempo presente, adesso tutto il sogno si riduce al richiamo della campana, ed a presagi di consolazione, dove sul discrimine tra passato e futuro il presente si riduce ad un invito senza risposta enunciata. Il presente, invece, predomina nella terza lirica, La tessitrice,

che ostenta i caratteri del sogno drammatico, in cui il vivo parla e la morta piange, e ne rivelano la condizione di defunta la muta azione ed il silenzio dell’« arguto pettine » e della spola. La coscienza dello scrittore interviene soltanto nell’esplicazione del fiabesco « una volta... », con la domanda

« quanti anni fa? ». Le

risposte della tessitrice sono nei cenni muti, eco delle parole del vivo, e nell’interpretazione del pianto. Di questa morte nulla sapeva il protagonista del sogno, che soltanto dal silenzio ha la rivelazione;

ma l’autore del sogno, desto, sapeva? Si deve inten-

dere scompaginata nel sogno la realtà storica, come è sconvolta la sua proiezione al futuro nell’onirico suggerimento: « Se tesso, tesso / per te soltanto;

cipresso, / accanto

come,

non so; / in questa tela, sotto il

alfine ti dormirò ». Tesse

suo poeta, nell’inconsapevolezza,

ma

il sudario

per il

in quella tela (sudario, len-

zuolo di nozze) dormirà anche lei, che pure è già stata sepolta: ogni riferimento di spazio e tempo è inverosimile, onirico. Siamo alla paratassi più assoluta: manca qualsiasi subordinazione logica o sintattica, sfilano fotogrammi in successione coordinata.

Soltanto un'ipotetica breve: « Se tesso ». E’ la forma scelta questa volta per caratterizzare il sogno. Il finale di La tessitrice è stato considerato «un canto a due »; è invece il grido della coscienza

del poeta

ridesto,

che fornisce

alla ragazza

muta

le

parole della morte e della dedizione.

La parte centrale di Ritorno a San Mauro nella struttura definitiva comprende tre liriche di colloqui con la madre morta, e un incontro del poeta con se stesso fanciullo, ove il tema dominante è ancora quello del ritorno alla madre per rivivere con lei tanto la vita perduta, quanto la perduta fede. 11 ritorno esprime così apertamente il proprio significato simbolico, di fuga nel passato per vivere ciò che non è stato ed è essenza della vita.

284

Tema che ha precedenti nel Poema pascoliani, sarà caro ai crepuscolari.

paradisiaco,

vive nei testi

La prima delle liriche accennate è Casa mia, in cui G. Trom-

batore, che ha scritto un saggio intelligente su Ritorno a San Mauro (*), vide, soprattutto nella chiusa, una « indebita intrusione di un elemento della vita pratica », ossia il rancore verso il proprietario della casa, che non gliel'aveva voluta rivendere a buone condizioni, e nel possessivo del titolo « un’intenzione astio-

sa e ironica ». E’ necessario risalire al significato autentico di questa lirica per vedervi, invece, una delle migliori espressioni della poesia pascoliana. Nel possessivo del titolo non c'è alcuna polemica con un personaggio inesistente; ma il senso del focolare sperato (non una casa di pietra e mattoni) in cui l’autore avrebbe voluto vivere « presso la madre mesta, / tra le sorelle pure! ». E’ casa che si trova « presso » il cuore (si veda la triplice insistenza sulla preposizione nelle strofe centrali). Del resto l'esame della lirica ci mostra una struttura di preliminare significato. Le prime sei strofe alternano la presenza e il discorso della madre con tre visioni della sera e della notte, composte in simbolistici paesaggi che sollecitano il senso del rapido passare del tempo (°). Poi abbiamo nove strofe centrali col dialogo tra madre e figlio. Riappaiono a questo punto le stesse visioni paesistiche e temporali di prima in ordine inverso: tre identiche strofe dedicate via via alla notte, alla prima ora notturna, al vespro (°). Ossia il tempo

viene ripercorso

a rovescio,

la visione

si sta disfacendo

e ritorna al punto di partenza. L'ultima determinazione

che ri-

guarda la madre, è data dalla parola « cancello » con cui si è cominciato. L'ultima strofe è puramente paesistica, ripresa della seconda, dissolvenza della visione di sogno.

La struttura è determinata dall’apparire subito e dallo sparire della madre morta;

ci dà il senso dell’irrealtà, in una

(4) Edito in Riflessi letterari del Risorgimento cento, Palermo, 1960, poi in Studi per il Centenario

scan-

in Sicilia e altri studi sul secondo Ottodella nascita di G.P., ecc., Bologna, 1962,

III, pp. 141-58. (5) « M’era la casa avanti / tacita al vespro puro / tutta fiorita al muro / di rose rampicanti. / Una lieve ombra d’ale / annunziò la notte / lungo le bergamotte /e i cedri del viale., S'udivano sussurri / cupi di macroglosse / su le peonie rosse /e sui giaggioli azzurri ». (6) L'osservazione è di A.JENNI, Pascoli tecnico, in « Giorn. stor. della Letter. ital. », 1960, p. 379; poi in Studi per il centenario della nascita di G.P., ecc., cit. II, pp. 9-28.

285

sione temporale rapidissima. Lo stile, succinto, paratattico, evita qualsiasi presunzione di ragionamento o discorso logico: immagini e visioni si accostano; il dialogo è spezzato, interrotto, meccanicamente dalle rappresentazioni paesistiche, per cui ad una strofe narrativa, che ha come soggetto la madre, segue una strofe descrittiva, fatta di immagini sfocate, simbolistiche;

inter-

rotto interiormente per il senso del tempo mutato, reso dai fiori della seconda strofe, ispiranti fiducia, speranza, dai profumi dei cedri e delle bergamotte preannuncianti le tenebre nella quarta, dal misterioso sussurrare della vita notturna fra gli intensi colori della strofe sesta, chiusi anch'essi nella notte invisibile. Le nove strofe del colloquio sono, come si è detto, paratattiche; il discorso è continuamente interrotto, anche ora, da immagini di vita futura che passano labili, da un senso dell'esi-

stenza reso ancora con simbolistici elementi di paesaggio (« Vidi nel mio cammino / al sangue del trifoglio / presso il celeste lino »).

Carattere essenziale di questa lirica è lo sconvolgimento di ogni legge temporale, che crea l’irrealtà dell'apparizione sognata. E' preannunciato un colloquio che dura molte ore; ma il tema si svolge, come già abbiamo visto, rapidissimo, viene notte fonda mentre la madre pronunzia i primi sei versi. Quasi ciò non bastasse, la prima

realtà offertaci

è quella della madre

al

cancello della casa. Essa pare ancora viva, se narra al poeta della sua vita di strettezze con le figlie; ma indicandole come « le tue bimbe » usa una espressione non adeguata al Pascoli giovanissimo, bensì riferita ad un tempo più avanzato, quando egli ebbe riconosciuto la «casa sua » nella convivenza con Ida e Maria. Questa ulteriore età è sentita nel colloquio attraverso

una forma di previsione (« Io vidi allor la mia / vita passar soave... »), e il protagonista usa i tempi futuri per accennare alla sua vera casa (« casa mia »), dove egli vivrà con le sorelle, e anche con la madre. Non c'è dunque ancora il senso della morte di lei, fino a che il pianto « più forte » che gocciola « per le sue guance smorte » non introduce l'equivocità del sogno. Siamo alle ultime cinque strofe, con la ripresa delle tre visioni staccate: tempo che ritorna dalla notte indietro col « vespro puro », e apre alla coscienza che riaffiora l'equivoco di vita e morte. Quando il poeta dice che vuole lavorare « presso » la madre, ella riprendendone le porole, sembra richiamare alla real-

286

tà del cimitero, dove « ci nevica e ci piove! ». La « lieve ombra d'ale » della quarta strofe simbolisticamente annunzia una notte mortale. La madre insiste per tre volte sul « qui » dove sarebbe bello vivere, ma dove altri nacque, crebbe ed evidentemente morì. E’il « qui » che ritorna insistentemente in Commiato (« . Tu venir qui? Viene chi muore... / E tu vuoi dunque venir qui »). Il cancello, pertanto, presso cui sta adesso la madre non è più sentito come il cancello della casa, anche se proprio con l’immagine della casa si dissolve la visione. E’ ormai un cancello di cimitero. Questo

dà la conclusione,

l'esatta misura

della lirica.

A Casa mia fa seguito Mia madre: sviluppo di un momento del precedente dialogo, apparizione che nella precedente s’inserisce, ed ha come tema essenziale lo stesso del tempo perduto che si contrae in un attimo, e non è nulla. Non direi che si tratti molto della madre, quasi assente, se non come ombra che ac-

compagna, piena di sgomento. Il vero soggetto è il passato visto dall’oggi, il mutare delle cose osservate in una diversa prospettiva: accenni, nella solita sintassi paratattica, con rapide visioni e brevissimi spunti di dialogo, inseriti fra le strofe. Relitti, sulle acque fonde del sogno, di un commento che il Pascoli indirizza alla madre, senza ottenere risposta. Ci rendiamo conto che madre

e figlio percorrono il cammino che va dal cancello della casa al luogo dove fu ucciso il padre. Si riconosce la siepe fiorita di biancospino, la massa scura della tuia, i noti alberi. Il poeta risente la voce sua di fanciullo, il fruscio delle gonne nella chie-

setta della Madonna associato

dell'Acqua, che introduce il tema religioso,

strettamente

a quello

dalla quasi contemporanea Il commento

della

madre,

come

sappiamo

lirica latina Mater già richiamata. costituito

da due versetti,

insiste sul tempo (« come fa presto sera »), mattutino del luì, al suono della campana che mentre si dissolve il ricordo della preghiera, altro che la sera di un solo giorno in tutta la

ad ogni quartina,

accenna al canto invita alla messa, né più si avverte vita.

L'ultima strofe è più ampio distaccato commento, in cui il poeta con tenerezza guarda la propria madre, così giovane ed esile (« una sorella »), come era « quando da noi partì ». Estremamente poetica, essa raccoglie la musica di tutti gl'interludi

colloquiali inframessi alle strofe narrative. I monosillabi

tonici

287

in à sono ripresi ora all’interno del secondo e terzo verso dai due « sì », e da « così » del penultimo, e la strofe si consolida con l’appoggiatura nel finale doloroso (« partì »). Questo si dice non per una ricerca di mere strutture ritmiche, ma per enucleare nell’esile strofe finale, prolungata dagli ultimi due versetti, il suo senso umano. E’ la strofe in cui protagonista è, più che la madre, il senso materno del poeta per lei, rivista dal figlio cresciuto,

donna

tanto

questo termine suppone come figlie (7).

giovane,

« una

sorella »,

con

che

ciò

nel Pascoli che le due sorelle

sentiva

Interessante il rovesciamento di situazione per cui la madre è diventata figlia: il poeta, non più bambino ma adulto di fronte ad essa, ha nella trasfigurazione psicologica vissuto il proprio tempo; per la madre il tempo non è trascorso: si è perduto, come nella myrica I due cugini. Il figlio sembra per la prima volta riconoscere una realtà che non poté oggettivamente vedere finché non si fu dilungata nella prospettiva del tempo, resa irraggiungibile. Si sommano i differenti momenti, le percezioni si confondono, la memoria è funzione del presente che la sconvolge, lasciando uno smarrimento angoscioso. Tale il significato delle parole in apparenza ermetiche: « ... Come non è che sera, / madre, d’un solo dì? ». Strettamente associata alle precedenti, e variata in un ambito

di analogie,

è la terza

lirica,

Commiato,

non

gradita

al

Trombatore, che rimprovera al poeta di non essersi accorto che il vero commiato era già nella precedente « soavissima immagine della madre sorella apparente e disparente nel miraggio della memoria ». Davvero quella soave immagine era il commiato cui il Trombatore si riferisce; ma adesso si tratta di un diverso distacco, più radicale: non tanto separazione dalla giovane madre, ma da quella madre senza età che rappresenta un mondo di credenze,

un passato

di infanzia,

irrimediabilmente

nel quale sembra, chiuso in un cristallo, trasparire della fiducia nell’avvenire, in Dio, sperata felicità.

perduto,

il tempo

Pertanto il tema di Commiato è religioso. Approfitta il poeta del dialogo con la madre per rivolgere la domanda che a (7) « Me rella! / bionda

288

la miravo così

accanto / esile sì, ma bella: / pallida com'era / quando da noi partì ».

sì, ma

tanto / giovane!

una

so-

lui suona più pungente, quella della realtà di Dio a lei dinanzi. E la lirica dà la sua risposta simbolistica: Non c’era avanti a me, che il bianco della silenziosa strada.

E’ scomparsa la madre, ed il figlio pare intendere soltanto ora le parole di rassegnata disperazione: « ... Tu venir qui? Viene chi muore... ». Anche in Commiato abbiamo una struttura che inserisce visioni paesistiche e temporali nel dialogo. Il dialogo è costituito da due battute:

la prima, di tre sestine, pronunziata

dalla

madre, presuppone le risposte taciute del figlio; la seconda, pure di tre sestine, contiene gli interrogativi del figlio, l’invocazione di una risposta che non viene. All’inizio, a metà, al termine del dialogo, con la solita precisione di contrappunto, una musica che permea le strutture, vi sono due quartine corrispondenti alle sestine private della rima baciata. Esse sono collegate e fissano un tramonto

trascendentale,

percorso

da tremiti

di pianto, con

le ombre che si allungano, i colori che impallidiscono, finché resta solo « il bianco della silenziosa strada »: in cielo, con l’apparizione di una stella e il pianto delle campane nella prima quartina;

ombre

in terra, dove si chiudono

delle cose;

i casolari e si allungano

le

fra cielo e terra nella terza col crepuscolo

che sfiorisce, mentre

cade la rugiada sulla strada

illimite.

Ancora è da notare in questa rigorosa partitura musicale che le tre quartine del crepuscolo sono costituite ciascuna di tre periodi: i primi due di un verso, il terzo di due. Esse vogliono rendere il senso del trascorrere del tempo, ma un tempo trascendentale, il quale anche ora « non è che sera... d'un solo

dì » (5). La prima quartina apre la lirica con due passati remoti; il resto di Commiato E’ un attacco

si regge su una narrazione

all'improvviso,

dunque,

all’imperfetto.

l’inizio di una

storia che

non ha antefatto: se c'è un legame logico e di successione fra le tre liriche che costituiscono il colloquio del poeta con la madre, il mutamento

metrico che imposta cadenze e toni diversi,

le pause da cui muove in descrizione, segnano

il nuovo discorso, indicate dall'attacco profondi divari. Il trittico è costituito

(8) Mia madre.

289

da tre sogni diversi: nel primo il tempo procede avanti e poi a ritroso, nel secondo è fermo; eppure nel terzo veniamo a sapere

che il crepuscolo è durato « lunghe ore »: nella brevità del commiato passiamo dall’apparire della prima stella alle tenebre. Gli elementi lessicali che nelle quartine indicano l'evoluzione temporale si tramutano per giunta in fatti sentimentali per la suggestione delle immagini e l’euritmia delle battute, abbracciate le prime due dall’ampia voluta della terza, con sempre nuova varietà di ritmi che vanno dalla proiezione in avanti dell’accento di sesta nel primo verso (« Una stella sbocciò nell’aria »), ribattuta dalla tronca in quarta sede del successivo, al

rallentamento dell’accento di sesta in sdrucciolo del primo verso dell'ultima quartina, seguito da un novenario tutto legato, per concludere con l’arcatura che congiunge gli ultimi due versi di ogni quartina, e la dieresi, ultimo rallentamento, sul lessema più significativo, « solitaria » (0). Era necessario ristare su questo contrappunto per indicare

nei modi tecnici della critica il tradursi in sviluppi musicali delle immagini e, a sfondo di tutto, del tema poetico. Infatti il tema in questi sogni si svolge prima di tutto per immagini. Basti l'esame della prima splendida quartina di Commiato: Una stella sbocciò nell’aria,

Le risplendé nelle pupille. Su la campagna solitaria Tremava il pianto delle squille.

(9) L'insistenza prese

tematiche

e ricchezza

e armoniche,

della rima insistenti

nei versi

nella

lirica

brevi, Le

rane,

,

le assonanze, intense

e soprattutto

in Casa

mia,

le ri-

sia quella

maggiore delle tre quartine paesistiche in progressione speculare, sia quella minore nella parte centrale, dove ancora in chiasmo si specchiano i settenari « tra le sorelle brave / presso la madre pia », e « presso la madre mesta, / tra le sorelle pure! », fra i quali si intercalano, sempre nella seconda parte della strofa, i versi « al sangue del trifoglio / presso il celeste lino », simbolisticamente accostanti il dramma alla consolazione, la morte al sudario tramite il colore del cielo che contrasta nel « vespro puro » con le «rose rampicanti », nei « giaggioli azzurri » con le « peonie rosse »; questa ricchezza di moduli melodici non mi pare si accordi, come è stato detto (G. BARBERI SQUAROTTI, Simboli e strutture della poesia del Pascoli, Messina - Firenze, 1966, p. 434) con una presunta riduzione di evidenza semantica. A dimostrarlo basti citare la quartina più ricca di suoni: « S’udivano sussurri /cupi di macroglosse / su le peonie rosse /e sui giaggioli azzurri ». Ogni lessema introduce una sensazione, né la sfocatura, l’indeterminatezza dell'immagine, riduce l’evidenza, che da visiva si ja psicologica. Pure nelle altre liriche (si veda Commiato) le strofe più musicali, anche per struttura sintattica, sono appunto le pause contemplative. Ma c'è un altro tipo di evidenza semantica; quella del discorso, patetico o meno, e del dialogo commosso, cui corrisponde una misura più distesa, o al contrario rotta per cesure, sottolineate dalla ripresa di parola tronca, o per il prevalere balbettante di monosillabi: « se di là è, se teco è Dio! ».

290

4ME a D

7

La stella sboccia in una fioritura, risplende lacrima sulle pupille della madre, si diffonde tremito di pianto nello scampanìo dell'Angelus. Il poeta non ci parla dei « rai di che son pie le stel-

le », ma la serie delle immagini è legata da un rapporto inevitabile tra lo « sboccio » della prima quartina e lo « sfioriva » dell’ ultima, fra il pianto dell’inizio e la « rugiada » del finale.

Percezione ottica e fonica si integrano. E la realtà del dolore umano non è detta, ma simboleggiata senza residui noetici nelle immagini. Pure il crepuscolo è simbolico: la sera « d’un solo dì », il « tramonto del suo giorno », in cui il Pascoli potrebbe sentire la necessità di prepararsi per un ritorno: di ritornare alla fede

cristiana, di credere in un Dio che rende giustizia agli oppressi. La madre che insegnava « con gesti e segni soavi » le preghiere potrebbe indurlo a ritornare a sperare, a credere «in ciò ch'è amore, in ciò ch'è luce ». Ma la madre, che pur è in presenza di Dio, non risponde più: si è conclusa la misura ritmica dissolvendosi il senso del dialogo. Resta l’immagine del « crepuscolo stanco », il silenzio solitario della strada. Credo, pertanto, che anche

questa volta il Pascoli abbia detto poeticamente qualcosa che davvero gli stava a cuore, e che è importante per ciascuno, relegando nella lontana infanzia e nella fragilità filiale la soluzione del dramma di uomo in cerca di speranza: solus et expes. Del resto maggiori chiarimenti troviamo nella quarta lirica, Giovannino, collocata qui a perfezionare il concetto della precedente, in tempo diverso; e pertanto, a mio parere, strettamente collegata

alle prime

tre, e poi alle successive.

Come

7 due

cugini, come Mia madre, ha origine dall'ipotesi che il tempo non sia passato per il morto, fissatosi in un'immagine e su un invariabile livello evolutivo, mentre il vivo è fiume eracliteo, sem-

pre eguale, sempre diverso. Giovannino è «un mucchiarello d'alga presso il mare», Giovanni lo « stanco pellegrino » camminante

su una

strada smarrita.

Questa volta, però, trattandosi

di un unico personaggio, abbiamo uno sdoppiamento di personalità, dov'è impossibile stabilir quale sia la verità dell’uomo, ovvero quale delle due condizioni meriti maggior pietà: se quella dell’uomo semplice, intuitivo, che nel passato ritrova « quello che smarrimmo qui », o la condizione dell'uomo che ha capito che «non

c'è, fuor

che

il silenzio,

altro,

di là».

Alla

porta

s'apre alza le mani », ma non può « entrarvi più ». Meno

«che

di due

291

anni più tardi questo tema avrà famoso svolgimento nell’Aquilone. Il camposanto è, con altro senso umano, nell’inconscio del poeta un limbo simile alla Luna di Astolfo, dove si ricostituisco-

no le famiglie distrutte e gli affetti. La deviazione del Pascoli da esso è cominciata « su l’alba del suo dì », la stessa evocata nella lirica Mia madre per lo stesso significato: «... sonava a messa, ed era / l’alba del nostro di ». Ci avviamo così alla conclusione di questo Ritorno a San Mauro con due sogni: di identificazione questa volta tra figlio e padre, il primo; di un dialogo il secondo tra il padre e il suo uccisore. Per ragioni diverse entrambi si richiamano a La cavalla storna, fornendo il seguito della vicenda là appena accennata. Il bolide si rileva sogno per il racconto assurdo dello scoppio della meteora nell'istante preciso in cui il Pascoli rivive la scena dell’assassinio del padre, sostituendosi a lui; per i particolari onirici di quei morti che verranno « con esili gridi » a medicare il morente, rivelando nel fondo l'immaginazione da incubo di L’etera, quando Myrrhine scorge esili le ombre dei figli, e ode il loro « grido ...smorto e gracile ». Una stessa sinestesia,

associante

percezione

fonica

e

spaziale,

apparenta

gli

« esili gridi » al « grido ... gracile » degli « esili » figli. Ma 11 bolide si rivela sogno anche per l’abile gioco dei tempi verbali, che mostra la volontà di costruire il racconto appunto di un sogno: « Tutto

annerò

... Ricordavo

... solo, a notte

alta, venivo

/ per

questa via ...». L'imperfetto dopo il passato remoto è sentito come il tempo dei sogni o delle favole, tempo comunque di irrealtà. Del resto il racconto è presto sospeso, sostituito da un monologo interiore: « Ma colui non vedrebbe il mio spavento ... lento lento passavo ... Uno schianto; / e su la strada rantolerei, solo... ». L'associazione dell’imperfetto e del condizionale è caratteristica dell’onirismo, condizione che si perfeziona poi con l'introduzione del futuro, conferente certezza a quanto pensato nel monologo: « Accorrerebbe la mia madre in pianto. / Mi sfiorerebbe appena ...; / le sue lagrime... sentirei su la ferita. / Verranno gli altri, e me... porteranno... ». Il racconto è cominciato con

un

« Ricordavo », ora

prosegue

con

i futuri:

siamo

alla

memoria di ciò che avverrà. Il distacco fra il presente che ricorda e il passato ricordato scompare nella drammatizzazione del sogno, così attuale da soverchiare il discrimine della coscienza;

202

ar

rolla PIALA

L

n 1 Fa)

si prosegue poi con il perfetto che dà il senso del reale al sogno (1). Persa la coscienza dell’io, è totale l’identificazione di Ruggiero col figlio; questi sostituisce il padre come vittima dell’agguato; ma l'agguato perde contingenza, e diventa un fatto astrale, illuminante di pallore siepi, fiumane, foreste, « città lontane ». L'aggredito, fuori di sé, grida: « Vedeste? », cerca testimonianze umane contro l'attentatore. Ma nessuno compare: « non v’era che il cielo alto e sereno ». Cielo e non altro: il cupo cielo, pieno di grandi stelle; il cielo, in cui sommerso mi parve quanto mi parea terreno.

La distinzione esatta dei tempi (« mi parve quanto mi parea ») implica la consapevolezza della realtà presente rispetto al sogno dileguato, sommerso con il suo dramma nella terrestrità, limitata dalla coscienza, tutta moderna,

dell'umanità cosmica:

E la Terra sentii nell’Universo. Sentii, fremendo, ch'è del cielo anch'ella.

E mi vidi quaggiù piccolo e sperso errare

fra le stelle, in una

stella.

(10) Il confronto con l’abbozzo pubblicato e studiato da M. BIAGINI (Le prime redazioni di alcune poesie celebri del Pascoli, in « Studi per il centenario della nascita di G.P., ecc., cit., III, pp. 121-30) ci chiarisce la situazione: il poeta è di notte sulla strada di Savignano, e si ricorda di quando ventenne sperava di essere ucciso. Una notte appunto implorava Ja morte, «...e poi sognavo ». Sognava che sarebbero venuti i suoi defunti ad accompagnarlo « nel mondo di là ». Coincidenza perfetta: durante questa meditazione onirica un bolide scese « con grande lentezza » e s’immerse nella campagna, «in silenzio molle ... vidi in sogno scender le stelle luminose, e le vedo sempre ... ». L’abbozzo accenna dapprima ad un sogno, cre potrebbe essere interpretato come immaginazione; ma in fine allude ad un ripetersi di sogni in

cui

viene

elaborata

la

situazione

reale

della

giovinezza.

11 bolide .sintetizza;

sembra

ora

abbracci in un sogno l’esperienza lontana: è, infatti, invariata la situazione nei primi e negli ultimi versi: « Tutto annerò. Brillava, in alto in alto, / il cielo azzurro. In via con me non c'eri, / in lontananza, se non tu, Rio Salto »; « Ma non v'era che il cielo alto e sereno. ombra d'uomo, non rumor di péste ». Tutto avviene, dunque, in un istante; ma poiché

/ Non il bo-

lide esplode una sola volta « mentre pensava », e il poeta pensava attraverso il monologo interiore (« Ma colui non vedrebbe il mio spavento, ecc. », che comprende anche lo spunto narrativo « lento lento passavo », ripresa del precedente « Io lento lento / passava »), si deve

riportare anche questa narrazione dalla realtà storica di un'abitudine al ricordo di un sogno in una precisa notte. Il poeta, insomma, ha sintetizzato e ridotto la consuetudine indicata nell'abbozzo nell'evento di una notte; ha fatto esplodere il bolide in corrispondenza dell'immhginario « schianto » del fucile, e lo ha poi tuffato « muto nelle campagne ». Ha trasfigurato, reso inverosimile, per eccesso di coincidenze, il racconto: ne ha fatto un sogno di ricordi

giovanili,

di

sgomento

della

morte,

di

rievocazione.

Il finale,

come

l’inizio,

ha

tutto

l'aspetto della realtà: avanzare nella notte, smarrimento astrale; sì che si crea appunto quella condizione di ambiguità che è essenziale all’arte del Pascoli. Si avverta ancora che, mentre nell’abbozzo il giovane implora la morte, nella lirica teme « tramata... la morte / nel sangue », come un destino; è atterrito, trema allo svolo d'una lucciola. Il che rifiuta la consuetudine di certe passeggiate, e ci riporta ad un incubo.

293

Abbiamo negli ultimi dieci mirabili endecasillabi il capovolgimento del punto di vista: prima in terra (« Ma non v'era che il cielo alto e sereno. / Non ombra d'uomo, non rumòr di peste », dopo un’ascensione vertiginosa (« Cielo e non altro ») ecco la

messa a fuoco sulla Terra remota.

Sono impressioni

che, fuori

del miracolo dantesco, hanno esperienza soltanto nel sogno (). Come nella Cavalla storna, la struttura onirica qui richiede

simultaneità sarebbe

di fatti che sul piano logico della nostra

assurda,

melodrammatica.

Questa

sostanziale

realtà affinità

stabilisce fra le due liriche una continuità che chiarisce l’intendimento del poeta: ridimensionare l’atto di accusa, terribile su un piano di istintività, con un richiamo distensivo all'imponderabilità dei minimi fatti umani. Saliamo ad un livello di valutazioni cosmiche per recepire la ragione del perdono dove il dolore non ha più né significato né giustificazione. La scena del perdono è conclusiva del Ritorno a San Mauro: siamo ancora ad un incubo, il cui significato onirico è evidente

nell’assurdità

del racconto,

che ha bisogno

chiarificatrice, e nella sua impostazione sato

e presente

(«Una

voce

di attenta

lettura

stessa, associando

ora

udìi

nel

madre

nella

Cavalla

pas-

camposanto ») nella

sincronia sovratemporale. Come

la voce

della

storna,

la voce

della campana in La Messa, ora la voce del padre nelle terzine di Tra San Mauro e Savignano riempie la lirica: solo i due ultimi endecasillabi ricollocano fra gli astri, in paragone riduttivo, i nostri

fatti sociali

del male,

della morte,

della poesia

e del-

l'immortalità, contrapponendo in certo modo al grido del padre la pacata contemplazione del figlio. Il finale cosmico non ha la grandiosità della chiusa di // bolide, pare un richiamo alla modestia; e Vega, Aquila, Arturo, una citazione.

Il processo onirico di identificazione di un vivo con un morto prosegue e si complica. Non più il figlio rivive l’avventura del padre, ma costui visita al camposanto la salma del proprio uccisore (accompagnata in pieno giorno dal solenne funerale) scambiata per quella del figlio ora tornato finalmente a lui. Ha udito il padre squillare trombe funeree un soave inno, « di (11) Si veda anche G. GETTO, cit., III, pp. 62-63.

294

G. PASCOLI

poeta astrale,

in Studi

per il centenario,

ecc.,

pianto e di gloria », scalpicciare il passo d'una gran folla: «il popolo suo » che «in un giorno d’amore » ha riportato a San Mauro il suo poeta? Ha avvertito odor di ghirlande; adesso di notte

lo guidano

i profumi

dei fiori alla tomba

d’uno venuto

«in pia soavità di rose alla sua pace », e con un sussulto dell'intero suo sepolcro, mentre le altre tombe rimangono immobili, va

per

« rimirar...

calma », nonostante

le tracce

di tormentosi

pensieri, la fronte di colui che dorme sulle fronde d'alloro. Invece, nel sogno del poeta, il morto giunto al cimitero è « colui

che uccide e che poi muore ». Il fatto si è perduto nel tempo reale, che è nulla

(« Oh!

son

anni, son

anni

anni...

Fu ieri »).

Quel tempo è perduto tanto da avvicinare due morti lontane fra loro: quella di Ruggiero Pascoli e quella del suo assassino; infatti l'omicida ha preparato la propria fossa quando la irrorava col sangue altrui. Ora giunge tra i fiori: non viene al riposo,

ma alla morte perenne inflitta dalla coscienza vigile. E morto è davvero

nell’impersonale mutismo.

Che pena sia mai questa, non chiediamoci. Sarebbe come chiederci che conforto si possa provare nel posare accanto ai propri morti, nel giungervi «in un giorno d'amor » tra « soavi inni ». Notiamo anzi che i «soavi inni» accompagnano sia l'omicida (v.7) sia il poeta immortale (v.61), e la ripetizione non è casuale, essendo l'identità delle onoranze a fondamento del-

l'equivoco sulla salma. Il bene ed il male si alternano, si sostituiscono nella natura e fra gli uomini. Se i figli di Ruggiero Pascoli abbandonati « fanno il male », li redime il sangue paterno; se « vollero esser buoni » nonostante tutto, li benedice; ma se uno

di loro fosse un poeta, un consolatore, si compirebbe giustizia auspicata dalla madre in Commiato:

allora la

se ciò che qualcuno ci prende, v'è qualch’altro che ce lo rende!

Il padre sarà col figlio sepolto: To là sarò, col figlio mio sepolto, che mi ridona ciò che gli donai, che m’ha ridato ciò che tu mi hai tolto!

Senza offese né violenza è pagato ogni debito: non possono più aver luogo rancori, l'omicida è ridiventato soprattutto una vit-

295

tima della morte comune,

della notte che ai vivi apre l’anima. Il .

>

+

,

.

sogno si conclude col ritorno del poeta a San Mauro, riportatovi morto perché riposi accanto ai cari « umili e proni ».

Chiusura idillica, rilevata dalla citazione di Vega, Aquila, Arturo? No. Anche questo è un sogno: sono del padre le conclusioni sognate. Resta definitiva la domanda di Commiato: ... dimmi, o madre, dimmi almeno, se nel tramonto del suo giorno tuo figlio si deve sereno preparare per un ritorno!

Al ritorno a San Mauro il Pascoli era preparato; « sereno ». Lo dice la « silenziosa

ma certo non

strada » nella stessa

lirica, e

più chiari nella successiva i versi: — Misero me, (non sereno) che fuori ne rimango, così lontano come i più lontani! Alla porta che s’apre alzo le mani,

ma tu sai ch'io ... non posso entrarvi più.

Il Ritorno a San Mauro non è cronaca di viaggio, ma una serie di sogni in cui il motivo memoriale si arricchisce e si fonde col presagio della prossima morte, e con la mestizia del non saper più sperare. Il tempo perduto è quello dell’infanzia pura, di uno stato di grazia dell'anima che vive e ancora sogna il futuro: è San Mauro. Dal senso della vita come diuturno smarrimento (« Io persi quello che non più si trova ») e dalla sua meta che è San Mauro deriva la strutturazione complessa della raccolta, una specie di satura, per temi e metrica, priva di un preciso tessuto narrativo che non manca in altre, né in molti poemetti pascoliani, tanto meno nei Carmina. Richiami continui, però, legano l'una all’altra lirica, sì che già nel « ronzio di cam-

pane » della prima è enunciato il tema dell’ultima: « Ritorna! Rimane! Riposa! ». Ma la forza di coesione maggiore è nel senso amaro del tempo perduto che nelle prime tre composizioni (Le rane, La Messa, La tessitrice) è il sognato presente del poeta

rievocante un luogo indefinito, « un dolce paese lontano » in cui va « cercando mai sempre / ciò che non è mai, ciò che sempre /

296

sarà... » (‘); un invito alla fede dell’infanzia; un ricordo d’amore chiuso in auspicio di morte. Nelle tre liriche successive (Casa mia, Mia madre, Commiato) al presente del poeta corrisponde

il passato della madre: potremmo dire un passato ritrovato (ma tutto straziato) da un «io» profondamente diverso. Nelle tre ultime composizioni i sogni portano allo smarrimento dell’identità del poeta, con riferimento al passato da cui si è sempre venuto allontanando (Giovannino), ad un remoto avvenimento che si rinnova confondendo padre e figlio, il particolare e l’infinito (11 bolide), alla perdita di realtà di tutto il passato (il male e il bene, colpevolezza ed innocenza, esistenza concreta e simbolica) in una anticipazione del futuro, che cancella con la morte del poeta l’immagine della lunga « silenziosa strada » tracciata

sul margine dell'inconscio.

(12) Un paesaggio che coltina, perchè sognato.

non

ha

connotazioni

precise,

come

riscontriamo

in tutta

la rac-

291

sii

METEO

Cat

x

dee

tree

+

ry

ii

GIUSEPPE

LEONELLI

PASCOLI ESTETA Itinerari del ’’Fanciullino’” I - Esiste una « visività» nella poesia del Pascoli, una vena paesistica e figurativa degna d’un pittore. Si può immaginare il poeta di Castelvecchio come un maestro tardo - ottocentesco, privo di tavolozza, fornito di parole invece che di colori, costret-

io a traslare da una tecnica all'altra originali « visti », sospesi nella mente e poi riprodotti e come soffiati nelle fiale del linguaggio. Ma è possibile rintracciare nella sua vocazione pittorica

qualcosa di meno generico d'una suggestione impressionistica o di più problematico, in termini culturali, d’una capricciosa caratteristica

individuale?

Il 1886, l’anno che vede Pascoli

uscire

dalla semi - clandestinità con la plaquette dell'Ultima passeggiata, un titolo d’esordio che ha il suono e la malinconia d’un congedo, è anche l’anno dell’Zsaotta dannunziana, l’opera, come scriveva Enrico Nencioni, che rivaleggiava « con la pittura, con la scultura e con la musica » (!).

Erano anni di fervori estetistici e wagneriani: si sognava la Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale. Soffermiamoci sul primo termine del confronto proposto dal Nencioni. Si diffondeva in Italia la conoscenza del Preraffaellismo inglese e, insieme, s'andava

formando

un

modulo

critico,

particolarmente

caro

al

recensore dell’/saotta, che assimilava poesia e pittura, riattualizzando il famoso emistichio oraziano ut pictura poesis. L'ultima passeggiata, collana di vedute georgiche, poteva apparire, più dell’Isaotta, un piccolo prodigio « visivo »: l’opera d’un paesista meticoloso nel cogliere i particolari d'una scena, in una nitidezza

percettiva che non aveva

(1) Isaotta

Guttadauro

in

nulla a che fare con la macchia

« Fanfulla

della

Domenica

»,

6

febbraio

o il

1887.

299

M

point. Vedute en plein air, dal vero, ricche di particolari lenticolari, colti quasi in istantanea, che non richiedevano però una retina su cui ricomporsi. L'occhio d’un tardo preraffaellita addolcito da un lume mediterraneo, impreziosito dal filtro d'una lievissima ironia. Fra i poeti - pittori che usavano la penna come un pennello il Nencioni avrebbe dunque potuto mettere anche Pascoli accostandolo, come

D'Annunzio,

a Shelley, Tennyson,

Keats.

Shel-

ley, in particolare, è definito un « gran pittore di paesaggi celesti: l’unico che gli si possa paragonare in questa rarissima facoltà è un gran prosatore inglese, John Ruskin » (). Aleggia sulla poesia - pittura dell'Ultima passeggiata un fantasma ruskiniano? Si trattava solo della suggestione di un’atmosfera, un colorito d’epoca, 0 si può ipotizzare un rapporto più diretto?

L'equivalenza di poesia e pittura, tradizionale, affascinava ancora Wordsworth nella prefazione del 1800 alle Lyrical Ballads: « Ci piace immensamente tracciare paralleli di somiglianza fra la poesia e la pittura, tant'è vero che le chiamiamo arti sorelle » (0). Ma per il Ruskin, l'oracolo citato dal Nencioni, la somiglianza

diventa identificazione. Il pittore e il poeta possono scambiarsi i nomi, pittura e poesia altro non sono che aspetti dello stesso linguaggio, il linguaggio della natura. In Ruskin il concetto di poesia, poetry, viene a inglobare naturalmente

quello di pittura,

painting. L’identificazione è possibile perchè quel che conta davvero è quel che è « visto », non il linguaggio che traduce la visione. « Per Ruskin, come per Carlyle » scrive Proust nel saggio premesso nel 1904 alla propria traduzione della Bibbia d'Amiens « il poeta è una specie di scriba che scrive quasi sotto la dettatura della natura una parte più o meno importante del suo segreto » sicché « il primo dovere dell’artista è di non aggiungere nulla di suo a questo messaggio divino » (‘). Quindi, l'artista non inventa, ma

scopre quel che c'è già e

non si vedeva. Non è propriamente un creatore, ma un traduttore del soffio divino che vivifica le cose (5). Un soffio che Pla-

ze

(2) Nel primo 1897, p. 259.

centenario

(3) WORDSWORTH

(4) Citiamo 19793, p. 80.

da

di P. B. Shelley,

- COLERIDGE,

Giornate

di

in Saggi

critici di letteratura

Ballate liriche, trad. di F. Marucci,

lettura,

antologia

proustiana

a

c.

di

inglese,

Milano,

P.

Firen-

1979 D: 273:

Serini,

Milano,

(5) Su Proust «traduttore » cfr. C. GARBOLI, Longhi lettore in AA. VV. L'arte di scrivere sull'arte. Roberto Longhi nella cultura del nostro tempo, ac. di G. Previtali, Roma 1982

300

tone, riattualizzato da Schopenauer in polemica con il criticismo aristotelico di Kant, definiva con un'espressione che sarebbe stata la prediletta di Walter Pater, lo « splendore

del vero ».

« Se la realtà è una » scrive Proust « se l’uomo di genio è colui che la vede, che cosa importa la materia nella quale la rappresenta: siano quadri, statue, sinfonie, leggi e azioni? » (0). E’ un metodo, quello ruskiniano, cui Proust non si sente di con-

sentire, ma tema

che descrive precisamente:

sta, a causa

dell’unità

della

« L’esagerazione

realtà

tradotta,

del sis-

nel non

dif-

ferenziare abbastanza profondamente i diversi modi di traduzione. Carlyle diceva che era inevitabile che Boccaccio e Petrarca fossero buoni diplomatici, dacché erano buoni poeti. Ruskin commette lo stesso errore quando dice che « una pittura è bella nella misura in cui le idee che traduce in immagini sono indipendenti dal linguaggio delle immagini » (7). Ovvero, possiamo tradurre in termini pascoliani, per Ruskin «la poesia è nelle cose ». Ma fino a che punto? Sappiamo come per il fanciullino pascoliano non occorre « cercare lontano »: « pur nelle cose vicine era quello che cercavano, e non avercelo trovato fu difetto, non di poesia nelle cose, ma di vista negli occhi », perché la poesia si nasconde non solo nelle « agavi americane », ma anche

e soprattutto nelle « minime nappine, color gridellino, della pimpinella » (5). La

stessa

cosa

anche

per

Ruskin.

Troviamo

nel

saggio Ruskin et la religion de la beauté di Robert de La Sizeranne, una delle bibbie del decadentismo europeo, in un pensiero

ruskiniano citato in traduzione francese le fonti della predilezione pascoliana per le « nappine » piuttosto che per le « agavi » americane: « Ces caractères de Beauté que Dieu a mis dans notre nature d'aimer, il les a imprimés sur les formes qui, dans le monde de chaque jour, sont les plus familières aux yeux des hommes Oui, seulement

un

coteau

et

un

enfoncement

d’eau

calme.

et

une

exhalaison de brume et un rayon de soleil. Les plus simples des choses, les plus banales, les plus chères que vous pouvez voir chaque soir d’été le long de mille milliers de cours d'eau parmi les collines basses de vos vieilles contrées familiales. Aimez-les et voyez-les avec droiture! L’Amazone et l’Indus, les Andes et le Caucase ne peuvent en nous donner de plus » (9). (6) Giornate

cit. p. 81.

(7) Ibidem. (8) Il fanciullino in Prose. I, Milano 19714 pp. 22 - 23. (9) R. DE LA SIZERANNE, Ruskin et la religion de la Beauté,

Paris,

1894 pp. 216 - 217.

301

ANS

II - Oggetto dell’arte deve essere, per Ruskin, il « vero »; l'artista deve tradurre nella sua opera tutta la meraviglia, lo charme

del mondo,

tutto

quel che

il suo

occhio,

non

che

è,

esattamente come quello del fanciullino pascoliano, l’occhio della ragione, vede. Un occhio ingenuo, incantato

che si

e adoratore,

sofferma a contemplare ogni minimo frammento d'essere, dalla statuetta quasi invisibile della cattedrale d'Amiens colta in una sua lievissima espressione entrata nella pietra alla nervatura esile d'una foglia, dal particolare d’un quadro di Turner all’epifania della luce sull’orlo d'una nuvola o lungo il ramo d'un albero. E’ l'occhio di Ruskin, che inventa solo per scoprire, come

il fanciullino pascoliano che fa mithous e non logous, e trova nelle cose il loro sorriso e la loro lacrima. « De méme en glori-

fiant l'invention » scrive il Milsand di Ruskin «il n’a voulu glorifier que la é litterale, « puisque inventer (le jeu de mots est de lui), c'est littèralement invenire dans le sens du mot latin, ou, d’autres termes, découvrir ce qui est » (1°). E Pascoli, nel Fanciullino: « Il nuovo non s’inventa: si sco-

pre » (5). Nel Sabato, discorso leopardiano del 1896, leggiamo: dere e udire:

altro non

« Ve-

deve il poeta » (7). che nel Fanciullino

suona: « Tu hai detto quel che vedi e senti. E dicendo questo, hai forse espresso quale è il fine proprio della poesia ». (5). Si confronti con quanto scrive Ruskin nelle Stones of Venice: «Nothing must come between Nature and the artist’s sight; nothing between God and the artist’'s soul. Neither calculation nor hearsay, - be it the most

subtle of calculations,

or the wisest

of saying, - may be allowed to come between the universe, and the witness wich art bears to its visible nature. The whole genuineness. acceptableness, and dominion of it depend on the personal assurance of the man who utters it. All its victory depends on the veracity of the one preceding word, “Vidi” ». The whole function of the artist in the world is to be a seeing and feeling creature; to be an instrument of such tenderness and sensitiveness; that no shadow, no hue, no line, no instantaneous

and evanescent

(10) (11) (12) (13)

expression of the visible things around

J. MILSAND, L'esthétique Prose cit. p. 18. Prose cit. p. 58. Prose cit. p. 22.

anglaise.

Etude

sur

M.

John

Ruskin,

Paris

him, nor

1864,

p.

143.

any of the emotions, wich they are capable of conveying

to the

spirit which they are has been given him, shall either be left unrecorded, or fade from the book of record. It is not his business either to think, to judge, to argue, or to know. His place is neither in the closet, nor on the bench, nor at the

bar, nor in the library. They are for other men, and other work. He

may think, in a by way; reason, now and the then, when he has nothing better to do; know, such fragments of knowledge as he can gather without stooping, or reache without pains; but none two-fold only; to see, to feel» (14).

Si ha l'impressione, di fronte al passo, di trovarsi a leggere un centone di frammenti pascoliani. Dunque Ruskin ha letto Pascoli? Non sappiamo neppure se è vero il contrario; non possiamo

evitare

che per un

istante

questo

sospetto,

proiettato

sul

filo d'una logica tutta borgesiana, ci attraversi la mente. Basta rileggere i capitoli del Fanciullino in cui si polemizza contro la « pseudopoesia »: « Il poeta

è poeta, non

istorico, non

maestro,

oratore

non

o predicatore,

tribuno

o demagogo,

non

filosofo

non

uomo

non

di sta-

to e di corte...A costruire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l’altro ... Qualunque soggetto può essere contemplato dagli occhi profondi del fanciullo interiore: qualunque tenue cosa può a quelli occhi parere grandissima ... Il poeta non deve avere, non ha altro fine che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno suo » (15).

Ma soprattutto l’ultima frase del Ruskin, The work of his life is to be two- fold only; to see, to feel risuona perentoriamenute, emblematicamente pascoliana e nella sua versione letterale, « vedere e sentire », e sonorizzata, arricchita dell’accezione acustica, « vedere e udire », che il verbo to feel non ha in inglese.

Troviamo il concetto ancora ribadito nel Sizeranne: « Ce qu'on voit, non ce qu'on sait, ce qu'on ressent, non ce qu'on comprendtelle est la vérité esthétique opposée à la verité scientifique et telle est la vérité que l’art doit, du plus prés possible, rendre et, pour la rendre, pénétrer » (19).

(14) .RUSKIN,

The

Stones

of Venice,

London,

1905,

vol.

LITNpo

87;

(15) Prose cit. pp. 31 - 32; 37; 55. (16) LA SIZERANNE, Ruskin cit. pp. 232 - 233.

303

e sentire ». « vedere

« Vedere

anche

e udire », tutto,

gli

atomi dell'essere. Nel 1853 Ruskin aveva definito i preraffaelliti con queste parole: « Il preraffaellismo non ha che un principio: la verità assoluta, intransigente di tutte le sue opere. E l’ottiene lavorando, sino all'ultimo particolare, sulla natura, e soltanto

sulla natura. Ogni sfondo di paese preraffaellita è dipinto all’aria aperta, sino all'ultimo tocco, davanti a un paesaggio reale » (?). Un principio che potremmo traslare a molti dei paesaggi del Pascoli. Quanto alla traduzione dell'originale figurativo, la poesia che sta nelle cose, in parole, nessuno avrebbe potuto ispirare meglio del Ruskin la poesia europea fin de siécle: che è, come testimonia Adolfo Faggi in un articolo del 1890 essenzialmente « poesia di paesaggio ». Genere, scrive il Faggi, « che ha oggi una fortuna speciale », grazie al « sentimento della Natura molto più vivo oggi che nei tempi passati », a causa dell’« intuizione del nostro tempo... concepire la Natura come la sorgente feconda e inesauribile d’ogni bello e buono » (%). Il Ruskin offriva a quella poesia di paesaggio un modello teorico, ma

anche

un

paradigma

tecnico.

Oltre

che

al critico,

traduce

quadri in parole, creando quella « critica figurativa » che avrà il suo più grande interprete novecentesco in Roberto Longhi, esiste lo scrittore, che dà voce a un più personale estro. Spesso Ruskin descrive quadri inesistenti traducendo direttamente dalla Natura, trasformando in parole, invece che in colori, le proprie « visioni ». E talora fa sogni, soprattutto nelle sue ultime opere, costruendo grandi utopie, futuri di luce che sembrano irradiare anche la poesia del Pascoli.

Il 28 gennaio 1900 Angelo Conti in un commosso articolo marzocchesco commemora il grande santone inglese con parole che ci offrono l'opportunità di approfondire il probabile rapporto Ruskin - Pascoli: « Egli si lusingava di poter far rinascere l’antica vita patriarcale, di veder tornare gli uomini alla antica semplicità di rimettere in uso

gli antichi e belli e sacri arnesi di lavoro, l’antica falce, l’antico telaio; ed è certamente morto sperando che l’uomo in un

17) In Lecture Il gusto

dei

(18) FAGGI,

304

on architecture

primitivi,

Poesia

Torino

1972,

and p.

di paesaggio,

painting.

Il passo

è citato

tradotto

in L. VENTURI,

146..

sulla

« Vita

Nuova» del

gennaio

1890.

giorno non lontano si liberasse dalle macchine e riacquistasse la serenità, la semplicità e la libertà delle antiche età felici (....) I libri di John Ruskin hanno ... diffuso per il mondo la religione dell'amore. Mai, da quando San Francesco cantò le lodi delle creature, da quando Pisanello dipinse e disegnò i suoi animali, da quando Leonardo disegnò i suoi alberi e i suoi fiori, si erano amate le cose umili d’un amore paragonabile a quello di Ruskin; mai da quando San Francesco esaltò le creature della terra e dell’aria, nessuno aveva celebrato i più ignorati aspetti della natura con uno scopo più alto e più puro; nessuno nella nostra età aveva mai saputo con tanta semplicità e chiarezza di linguaggio mostrare agli uomini in un filo d’erba, in un fiorellino, in una conchiglia la luce della bellezza e l’eternità della vita ».

Esiste indubbiamente una « religione dell'amore » in Pascoli in cui filtrano tematiche ruskiniane. Esemplari in questo senso gli idilli dei Poemetti e soprattutto il romanzo georgico di « Reginella », il più luminoso e tenace mito pascoliano, un grande rmatyviov ellenistico, che contiene anche una precisa valenza sociale. Il poema non è solo una raffinata modulazione di motivi

esiodei, virgiliani e oraziani: l'impasto filologico s’accende d’un elemento onirico, un bagliore di sogno che non supera lo schermo della scrittura, incendia la fantasia senza riflettersi sulla realtà. E’ un riverbero ruskiniano: l'utopia d'una vita semplice, preindustriale, che non alteri l'armonia del rapporto uomo - natura, distesa in cicli rassicuranti, sostenuta tecnologicamente da pochi, elementari e soprattutto artigianali oggetti. E’ l’epos garfagnino, il ciclo georgico come appare delineato fin dal 1891 in un appunto pascoliano: (!) « Reginella - Una famiglia tra il borghese e il contadino - Funzioni della figlia più grande, detta Reginella - Sfogli - Bucati etc. Una Nausicaa moderna - L'amore Le altre persone di famiglia - La madre - Il bagno - La notte prima delle nozze - Con la sera conclude. Non dorme alcuno. E l’assiuolo. Fine precipuo - Rappresentare che nella mediocrità e nel lavoro è la famiglia bella e felice: pittura dell'avvenire

con colori del presente ». E’ l’avvenire che Ruskin sognava per l'umanità, sottratta all’apocalittico futuro industriale, ricondotta alle origini serene del lavoro artigianale, che sono le stesse

(19) L'appunto è contenuto nel quaderno « Adversaria », conservato a Castelvecchio (LXXIV, 4). Lo si legge in Myricae, ed. crit. a c. di G. Nava, Firenze 1974, vol. I, p. CCII.

305

dell’arte rettamente intesa. Pascoli trovava una cellula di quell'avvenire nel presente del microcosmo barghigiano: i campi lavorati a forza di braccia, con l’aratro di foggia omerica; le attività domestiche scandite dal ciclo della luce; l'antica saggezza contadina, espressa dai proverbi;

gli strumenti

dal fabbro, le « armi » dell’agricoltore;

agricoli costruiti

i sentimenti

cordati con il ciclo naturale, per cui con il grano

semina l’amore nei cuori; sue radici medioevali.

« Pittura

il linguaggio

dell'avvenire

con

colori

umani

nei campi

montanino,

si

alle

fermo

del presente »:

ac-

anche

questa definizione è di indubbio gusto ruskiniano e richiama il mito dell’ut pictura poesis. Che è anche, simmetricamente, il mito dell’ut poesis pictura, che consente ad Angelo Conti di recensire così i quadri del pittore Morani: « Tutte le composizioni, tutti gli studi di questo giovine artista sono piccoli poemi nei quali la natura veste le più splendide forme della bellezzaten( 2) III

-

rico

di estetica

Angelo Conti: il nome richiama

di questo semi - dimenticato

il « Marzocco », la rivista

teo-

fiorentina

sulla quale apparvero tante poesie del Pascoli e, col titolo Pensieri sull'arte poetica, il primo nucleo del Fanciullino nel 1897. Il « Marzocco » era nato l’anno prima, avendo per numi

tutelari

i grandi « eroi » europei: Schopenauer, Carlyle, Ruskin, Wagner, Pater. Un esame delle prime annate della rivista ci permette di approfondire il rapporto di Pascoli con l’estetismo, di estenderlo oltre Ruskin e articolarlo anche sui possibili mediatori italiani. Notiamo che fra erbe e motivi floreali Art Nouveau funziona la fucina in cui gli « eroi » vengano scomposti e rifusi nell’immagine aurorale e crepuscolare del « fanciullino », che nulla crea e tutto vede con meraviglia, la wonderfullness sparsa come miele sulle pagine dei libri di Ruskin. « E’ necessario » scrive il Conti il 13 settembre 1896 in Georgica dello spirito « che la natura superi se stessa. La qual cosa le è possibile per mezzo dell’artista, cui è dato contemplarla con gli occhi limpidi e profondi dell'infanzia, cioè a dire con

lo sguardo ancora velato dai tormenti e dalle vanità dell’esisten(20) DOCTOR 4 ottobre 1885.

306

MYSTICUS

(pseudonimo

del

Conti),

Novissimum

agmen,

«La

Tribuna»

za ». Conclude con una frase che ci è già nota: « Nell'opera sua l'artista segna un ricordo vivo di ciò che ha veduto e di ciò che ha udito nei suoi colloqui con la natura ». Quella dell'artista fanciullo è immagine cara al troduzione ad uno studio su cinque anni alla pubblicazione pascoliano: « L'uomo di genio della realtà, ma gli sfuggono stenza. Egli è ingenuo e sacro si proclama

esteta,

cultore

Conti. La troviamo anche nell’InFrancesco Petrarca, anteriore di del primo nucleo del Fanciullino spesso s’illude. Egli ha la visione le particolari condizioni dell’esicome un fanciullo » (?). Il Conti di filosofia

platonica

e orientale,

seguace di Schopenauer e di Wagner; fra i suoi auctores erano Ruskin e Pater. L'ectoplasma del fanciullino è proiezione in lui d'un tema estetistico; crediamo sia sotto questa forma che il Pascoli lo riceva, assimilandolo

a se stesso, al timbro della pro-

pria poesia. L'archetipo è ancora Ruskin: « They look back to the days of children as of greatest happiness because those were the days of greatest wonder, greatest simplicity, and most vigorous immagination. And the whole difference between a man of genius and other men, it has been said a thou sand time and most truly, is that the first remains in great part a child, seeing with the large eyes of children, in perpetual wonder, not conscious, rather of infinite ignorance, and yet infinite power; a fountain of eternal admiration, and creative force within him, meeting the ocean of visible and governable things around him » (2).

Ma il « fanciullino » s'era affacciato sin dal 1840 dalla caverna platonica (il Platone scandito con naturale familiarità all’esordio della prosa pascoliana: « E’ dentro noi un fanciullino, che non

solo ha brividi come

credeva

Cebes

tebano... »; e si veda

anche l’inizio del Giorgione di Conti: « E' dentro di noi l’uomo vivente... ») in un passo degli Eroi di Carlyle che citiamo da un'edizione italiana del 1896 con introduzione di Enrico Nencioni: « Rammentate la fantasia di Platone. di quell'uomo cresciuto sino sino alla maturità in non se quale tenebrosa profondità e portato improvvisamente all’aria aperta, a veder bene il sole. Quale non sarebbe la sua meraviglia, il suo estatico stupore allo spettacolo cui noi assistiamo quotidianamente con indifferenza! Col

(21) CONTI, Introduzione ad (22) Stones cit. pp. 52 - 53.

uno

studio

su

Frncesco

Petrarca,

Roma

1892,

p.

40.

307

libero e aperto senso del bambino, e pure con la matura facoltà dell’uomo, tutto il suo cuore s’infiammerebbe in adorazione innanzi ad essa. Ora appunto una tale infantile grandezza era nelle prime

genti » (2).

Un passo di sapore vichiano, che sembra però, più del Vico

al quale s'è fatto spesso riferimento, alla radice di quanto si legge nel capitolo V del Fanciullino: «I primi uomini

non

sapevano

niente;

sapevano

quello che sai

tu, fanciullo.

Certo ti assomigliavano, perchè in loro i! fanciullo intimo si fondeva, per così dire, con tutto l’uomo quanto egli era. Maravigliavano essi, con tutto il loro essere indistinto. di tutto; ché era veramente allora nuovo tutto, né solo per il fanciullo, ma per l’uomo. Meravigliavano con sentimento misto ora di gioia ora di tristezza ora di speranza ora di timore » (24)

Carlyle era maesto riconosciuto di Ruskin e quindi c'era un pre-

ciso legame fra i due « fanciullini ». Il poeta è un fanciullino cui, scriveva Carlyle, « diciamo prima di tutto vedi... Che cos'è infatti anche la creazione poetica se non il vedere la cosa sufficientemente? La parola, che descriverà la cosa, segue spontanea questa chiara intensa veduta » (©). Senza il « fanciullino » che è in noi,

scrive Pascoli, « non solo non vedremmo badiamo per solito, ma non potremmo ridirle, perchè egli è l’Adamo

che mette

tante cose a cui non nemmeno pensarle e il nome

a tutto ciò che

vede e sente », è simile ai primi uomini che « pronunziavano... con lentezza uniforme, con misurata gravità la difficile parola che stupivano volasse e splendesse e sonasse » ().

Meraviglia, potere incantato della parola, primitivismo, poesia nelle cose: sono i miracoli dell’artista annunciati nelle pagine del « Marzocco ». « Bisogna che l’artista dia la sua anima alle cose » scrive TH. Neal, pseudonimo di Angelo Cecconi, sulla rivista il 3 gennaio 1897 « dalle quali deve tirar fuori il carattere che è in esse nascosto e ch'egli rende visibile e percettibile coi prestigi dell’arte sua. Egli è un inventore [nel senso già incontrato

(23) CARLYLE Gli eroi, trad. stereotipa, p. 9. (24) Prose cit. pp. 16 - 17. (25) Gli eroi cit. pp. 133 - 134. (26) Prose cit. p. 17.

308

e

note

di

M.

Pezzé

Pascolato,

Firenze

1912,

edizione

in Ruskin dell’invenire latino] di tesori nascosti nel più profondo del sole e alla vista di tutti. Per far ciò è necessario ch'egli sappia levar via la materia superflua che nasconde agli occhi dei profani la gemma incantata della bellezza ». Anche il fanciullino pascoliano, nella redazione definitiva del discorso, nel capitolo XIV non campreso nelle quattro puntate uscite sul « Marzocco », « deve operare, facendo ogni momento qualche rinunzia d’amor proprio. Perché l’arte del poeta è sempre una rinunzia. Ho detto che deve togliere, non aggiungere: e ciò è rinunzia » (7). IV - Fra gli «eroi » del « Marzocco » incontriamo anche Wagner. Nel 1896, allorché la. rivista comincia ad uscire, il wagnerismo permea da anni la cultura europea. Filtrato dall’interpretazione di Mallarmé ha riflessi condizionanti sulla poesia simbolistica e con la Recherche ancora in incubazione nelle pagine del Jean Santeuil, matura la sua splendida applicazione al romanzo.

Si può ipotizzare un rapporto Pascoli - Wagner?

La pos-

sibilità è fatta balenare dal Contini nel momento stesso che se ne esclude lo svolgimento in una vera e propria ricerca. Un sospetto, più che un indizio: « Né si conosce abbastanza la cultura

musicale,

probabilmente

scarsa,

del Pascoli

per

poter

valutare se, fuori dai metri più cantabili (che in complesso dominano

Myricae

e Castelvecchio)

la dilatazione,

orecchiata

dal

Serra, dell’endecasillabo foscoliano e leopardiano fino a quel suo recitativo sciolto possa avere un rapporto, altro che metaforico, con la battaglia per Wagner combattuta in Bologna proprio negli anni in cui Pascoli vi era studente » (#).

Noi vorremmo proporre l'istruttoria, più che su un diretto rapporto con Wagner, per il quale, allo stato attuale delle conoscenze, sembra permanere il non luogo a procedere del Contini, su un tema di derivazione wagneriana, su una suggestione che assurge a poetica. Wagner aveva teorizzato la Gesamkunstwerk,

l’opera d’arte totale, la sintesi

di Wort

- Ton

- Drama.

I simbolisti, sotto la sua influenza, coltivano un progetto meno coreografico, ma più orgoglioso: attingere all'unità delle arti servendosi dei mezzi di una sola, del Wort, la parola. Dopo la poesia come pittura, l'Europa conosce la poesia come musica. (27) Prose

cit. p. 43.

(28) G. Contini, dori),

vol.

profilo

di G.

Pascoli

in Pascoli,

Poesie,

Milano

19692

(ed.

Oscar

Monda-

I, p. LVIII.

309

Nel clima sincretistico della cultura italiana di fine secolo,

Ruskin, Wagner, i simbolisti, i preraffaelliti, Pater giungono insieme, vengono assimilati contemporaneamente. Il concetto d'opera d’arte totale, affidato alla magìa evocativa della parola, fonde Ruskin con Wagner: la parola come pittura e come mucritico - artistica fiorisce l’Isaotta dansica. In questa ko nunziana e la lettura del Nencioni, cui abbiamo già accennato e che è ora tempo di svolgere in tutte le sue valenze, non solo nell’assimilazione della poesia alla pittura. Nencioni aveva scritto che D'Annunzio faceva parte dei poeti «che riproducono belle forme, colori, luci, suoni, adoratori della bellezza plastica, trovatori di parole e di note che evocano belle Trial e dilettosi fantasmi » (?). Dieci anni dopo, sulle pagine del neonato « Marzocco », Carlo Placci in un articolo del 16 agosto 1896 dal significativo titolo A proposito del paesaggio avrebbe sublimato il wagnerismo della cultura estetistica italiana nell’auspicio d’un messìa poetico, che però forse esisteva già, senza che l’avessero riconosciuto: « Ma quando, come e dove sorgerà il genio che saprà così mirabilmente estrarre ed accentuare tutte le suggestioni latenti di suono,

e d’aria, e di profumo,

inerenti

a una

veduta

rurale, da farci ricevere un’impressione quasi wagneriana di piacere centuplicato? ». Quel poeta, non s'era presentato l’anno stesso dell’Isaotta, non era il Pascoli dell'Ultima passeggiata? Ne abbiamo parlato come d’un piccolo prodigio « visivo », sviluppando il rapporto col Ruskin. Ma il « poemetto » è anche il frutto d’un orecchio che sente le parole come note musicali, un problema di timbri, toni, registri, sfumature armoniche. Poesia come pittura e come musica, un capolavoro wagneriano. I qua-

dretti rurali sono tradotti in un linguaggio di finissima orchestrazione: le visioni pascoliane, attraverso un tecnica che riscopre, alla radice della parola, il concerto

delle varie arti, riposano

in

se stesse come degli assoluti, colgono quel che Carlyle definiva un’ « apocalissi », una rivelazione. Siamo vicini al mondo di Walter Pater, che sotto molti aspetti può essere interpretato come un’assolutizzazione platoni-

ca e musicale (29) Isaotta

310

dell’« impressionismo » ruskiniano.

Guttadauro

cit.

La

scoperta

della bellezza del vero, la religione della natura appaiono sublimati in splendore di archetipi, intuizioni essenziali. Spesso basterebbe decontestualizzare certe « visioni » ruskiniane, orchestrarle su un fondo di malinconia, pronunciarle con un'intonazione insieme raccolta, morbida e rapita per avere le epifanìe di Pater. E' una musica che sembra avere armoniche in comune con quella del Pascoli: « E’ falso supporre che il senso che un fanciullo ha della bellezza dipenda da alcunché di squisito o di specialmente fine negli oggetti che gli si presentano, sebbene questa in verità divenga la regola per i più di noi l’andar degli anni; prima, in una certa misura, noi vediamo interiormente: e il fanciullo scopre da sé, e con illimitato gaudio, una differenza pel senso, in quei bianchi e quei rossi attraverso il fumo su edifici modestissimi, e nell’oro della radicchiella al margine della strada, proprio dietro le case, Si . dove non un palmo di terra è vergine o incontaminato » (4).

L'« oro dello radicchiella »: un « miracolo » familiare al fanciullino pascoliano, così come l’epifania del profumo d’una violetta descritta da Angelo Conti in un passo scopertamente influenzato da Pater: « I poeti ci parlano delle cose più lontane a noi, come se fossero presenti, sono la voce della nostra coscienza risorgente dalla notte del passato, sono la luce che ci illumina e che ci guida. Per essi le nostre impressioni più fuggevoli si traducono in sentimenti e in sogni, per essi nel profumo d’una sola violetta respiriamo il profumo e sentiamo la felicità di tutte le primavere della vita, per essi ritorna in noi la antica anima del mondo, e ci appare giovine ed eterna. Forse questa improvvisa apparizione è ciò che Platone chiama lo splendore del Vero » (31).

Anche la violetta, il profumo

che riattiva un mondo,

è un

« miracolo » pascoliano: si pensi all’incipit dell’Aquilone, la poesia più vicina al gusto del Pater, a quella dolcezza pervasa da un sentore di morte. Ed è un miracolo proteso su vertiginose prospettive europee. Esiste certamente nell’affascinante crogiolo

1980,

(30) PATER,

I! fanciullo

nella

p. 187. (31) CONTI,

casa,

Introduzione

cit. p.

in Ritratti

immaginari,

a

c.

di

M.

Praz,

Milano

11.

311

del fanciullino un'ombra, se non un valore proustiano. Nel cuore della Recherche, vigilato dalla splendida trinità Ruskin - Wagner Pater, si cela un piccolo iperuranio platonico, un luogo ove le cose, anche le più semplici, soprattutto le più semplici, sono eterne ed immutabili nella pienezza radiosa, cristallina del loro essere, in cui la verità è splendore. Un luogo fuori dal tempo che appartiene contemporaneamente all’arte e alla vita, ove sono depositate anche le visioni del poeta di Myricae (”.

(32) Sul rapporto Pascoli - Proust si veda una luminosa « prospettiva » di CESARE GARBOLI in Poesie Famigliari. Schede pascoliane in « Paragone », febbraio 1981, n. 372, pp. 26 - 27: « C'è in Casa mia un'eco culturalmente misteriosa, che va sottolineata perchè non è il solo ramo di una parentela, e anche perché proviene da una fonte più tarda. L'eco si sente più pura nella redazione del ’97, diversa dall’attuale. E’ il suono di voce immateriale, senza luogo e senza tempo, voce udita dentro, la cuffia, che proviene dallo scambio di battute fra il Narratore della Recherche e il padre nei sogni di Sodome e Gomorrhe, quando la grand’mère appare «absente d'elle - même», senza che si possa

indovinare « le secret de affaiblie, docile, presque Ma si pensa soprattutto « cette contradiction si alla forza dei sogni, «à du

dehors»,

che

rifrangono

devenue translucide mia meglio di così; sia arrivato

312

per

son indifférence »: si pensa anche alla voce della defunta: « réponse un simple écho de mes paroles... le reflet de ma propre pensée ». alla contrazione dolorosa, alla sofferenza di Marcel stupefatto da étrange de la survivance et du néant entre - croisès en moi », e cette heure, plus véridique, où mes yeux se fermérent aux choses questa

sintesi

dolorosa

«dans

la

des viscères mystérieusement eclirés ». Non e non importa se nella comune intonazione

primo

a questo

spaventoso

traguardo ».

profondeur

organique

et

si può commentare Casa quasi dantesca, il Pascoli

CLAUDIO MARABINI PASCOLI

Può

E LA LETTERATURA

sembrare

arbitrario,

oltre

ROMAGNOLA

che rischioso,

lo spirito di una poesia nelle generazioni sa non sia fortemente vincolata a forme essere petrarchisti anche nel Novecento come uno splendido fiore di serra, una diari di Delfini inediti sino a ieri.

rintracciare

successive, quando ese a contenuti. Si può ed è lecito raccogliere, pagina stilnovista nei

E’ però vero che la « myrica » ha una sua forma e un suo contenuto, viaggia nelle pagine dialettali di Aldo Spallicci e si ritrova deforme, rotta, putrefatta ma riconoscibile al margine del sentiero battuto da Tonino Guerra. Siamo in Romagna, naturalmente, che della « myrica » è l’humus, la sua base, il suo quadro geografico e naturale. Vogliamo ricordare una delle più belle pagine di Serra, proprio nel saggio sul Pascoli?

Ma dove mi volgerò? qual punto potrà fermare l’analisi inquieta? quale, fra tante pagine che mi stanno aperte e fredde dinanzi, avrà virtù di svelarmi il segreto del poeta? E vien voglia di uscire da quella selva trita di segni così minuti e così infidi, di gettare i libri e aprir la finestra e guardare... Come beatamente l’occhio si riposa su questa dolce terra di Romagna! Ella è ancora intorno a me tutta bruna e nuda in una chiara aria d’inverno; ma l'orizzonte è spazzato fino agli ultimi confini dal vento aspro di marzo e nella pianura pulita le case paiono più bianche, gli alberi e le siepi più nere; la striscia del mare turchino ride al sole nuovo.

Il colore

di queste

cose

nuove

parla al mio

cuore.

315

Dalla poesia, dunque, alla terra e al paesaggio. E il critico di Cesena indugia con lo sguardo sui colli e sulla pianura, tra città e strade maestre e di campagna, tra fiumi e cortine d'alberi. … Ma da ogni sasso e da ogni siepe lungo quel cammino pare che le canzoni del poeta debbano volar via con frullo rapido e vario, come uccelli dal nido. Dalle punte di San Marino fino al mar di Bellaria e alla pineta di Ravenna, dal Rubicone alla Marecchia, in ogni angolo di questa terra e in ogni aspetto e in ogni forma, dove ch’io mi volga e riguardi, ivi io vedo presente il poeta : in tutte le cose sento le sue memorie cantare.

Poi, con una movenza sua tipica, con un vigoroso e soffice scarto, mentre si sta avvicinando al nocciolo; con uno di quei

moti di libertà che svincolano il procedimento mentale dalla prigione dello schema, Serra fa piazza pulita di tutto quello che ha detto, cancella il colore steso sulla pagina, getta la chiave naturalistica. « Qualcuno mi consiglia che basterà volgere quietamente

gli occhi intorno

sulle cose, per trovare

la via facile e

piana della sua anima poetica? Bene : io a questo non credo ». E conclude, dopo avere sfiorato l’uso del dialetto : «Il Romagnolo è l’accidente; ma l’essenziale è l'intenzione ». Che è verissimo, com'è vero che l’« accidente », fissato con

parole magistrali, non scomparirà mai più, tornerà nel tratto fisico del Pascoli, quella sua figura tozza dal collo corto e dal passo dondolante, e in altre pagine pascoliane, pur se talora dettate da occasioni celebrative. E’ rischioso, quindi, e arbitrario, muovere dall’« accidente» regionale per un'esplorazione (forzatamente veloce e condotta piuttosto per appunti e impressioni) diretta alle generazioni successive, quasi esse stesse dovessero sentire della natura della campagna e del paesaggio, della terra stessa, atta a produrre certi frutti e non altri, e questi frutti con particolari caratteri e sapori.

Ma vale la pena di rischiare, affidarsi per un momento a queste corrispondenze sotterranee, a questi umori nascosti nella terra e

nelle fibre della carne, e magari chiedere un veniale concorso di colpa al dolce stordimento della stagione, che è la stessa di quanto scriveva

il critico

di Cesena,

stratore di stordimenti simili.

314

peraltro

molto

attento

ammini-

Uno apre « I bu » di Tonino Guerra nell’edizione che porta a corona il saggio di Gianfranco Contini e legge la prima pagina, la prima brevissima lirica :un epigramma parlato, secco, informativo, rigorosamente concepito a dittico : un’epigrafe anzi, sul frontone di questo edificio, che edificio è, costruito nelle sue parti, messo su con ordine, con una logica voluta. a,

La mi ma la è stè a Burdouncia, San Véid e d’ là de fiém. E’ mi ba l'è stè in Amèrica, a New York.

(Mia mamma è stata a Bordonchio, a San Vito e di là dal fiume. Mio babbo è stato in America, a New York). Nulla di pascoliano, non certo una « myrica ». Ma come non

porre qualche attenzione, mettersi in qualche allarme per questo grande tema, ad apertura di libro, dell’emigrante? Che è un tema, diciamolo subito, costante nella poesia del Guerra, e vivo anche nella sua narrativa, benché già solidificato nell’acquisizione di una nuova

dimensione

Sovietica).

E come non cogliere questa prima presenza viva, que-

esterna

(in America

prima, ora in Unione

sti personaggi elevati a valore proprio sulla soglia del libro: il padre e la madre, la madre radicata nel luogo e il padre in viaggio, e quindi la famiglia? Pochi passi ancora nella lettura ed ecco la vecchietta senza casa, che ha in mano una chiave gettatale da un angelo di latta con l'augurio di trovare il Paradiso. LA CEVA Stasaira l’è passè par la cuntrèda la vècia ch’la n’à chèsa d’andè stè, e la maséva un quèll sòta faldèda: l'era una cèva antéiga ch’l’à truvè. ’D fura l’è un frèdd ch'u n’ dà un minéut ad pèsa mo li cunténta avdésvi com ch’la va! La i à una cèva e u i pèr d’avai la chèsa: u i mènca péc e pu l’arivarà. La cèva u gli à butéda l’anzal ’d lata ch’l'è sdura e’ Campanoun, purètt piò ’d li. — Va in Paradéis, o péra vècia, ciapa — e ui à buté la cèva dri mi pi.

215

(La traduzione di Roberto

Roversi:

LA CHIAVE Stasera è passata per la contrada la vecchia che non ha casa dove stare e teneva nascosto qualcosa sotto la sottana: era una chiave antica che aveva trovato. Fuori c'è un freddo che non dà un momento di pace ma dovevate vederla come andava via contenta; ha una chiave e le pare d'avere la casa, ancora un poco poi ci arriverà. La chiave gliela ha buttata l’angelo di latta che sta sopra al campanone, povero più di lei — Va in paradiso, povera vecchia, piglia — e le ha buttata la chiave in mezzo ai piedi).

E’ lecito avvertire alcuni temi pascoliani tipici : la povertà, la casa, la vecchiaia, il cielo come pace e premio? E cogliere nell’arcaicità paesana della figura fisica della donna, e nella cor-

nice del paese (la contrada, il campanone, l'angelo di latta), certi tratti pittorici del poeta di San Mauro e della folla dei suoi personaggi? S’aggiunga poi, perduta nella traduzione di Roversi, la musica dell’endecasillabo, rigorosamente rispettato in un sospetto di poemetto incipiente, e la rima delle rigorose quartine (nelle quali però, come ne « La tradòta », trapela la cantilena delle strofe popolari, quali nel Pascoli, sempre colto e sempre umanista, raramente è dato rintracciare e non a caso, proprio in « Romagna »). Ancora poche pagine e ne « La strèda mòrta » la metafora

di una vita distrutta dopo le illusioni della fanciullezza, e di nuovo la musica dell’endecasillabo, addirittura calcata sulla rima conclusiva della parola « vita » giuocata col suo contrario grafico (véita-svéita in dialetto) con significato di svuotato-vuoto, che diviene implicitamente vita-non vita. LA STREDA

MORTA

AI strèdi agl’î era grandi e sénza féin par néun burdéll ch’a s’vlémi divértéi; e raganèli e giarulin chi béll e sass che ’d nòta e’ dvénta tèsti ’d mért e pèli ’d béssa e ròba d’'ògni sért,

316

mo l’éra e' séid apòsta pri burdéll. U i è una strèda mérta tla mi véita pina ’d pantén e u n°i passa niséun. L'è rest ’na télaragna sòura i spiéun e dréinta e’ fòss una luméga svéifa.

(la traduzione

di Roversi:

LA STRADA

MORTA

Le strade erano strade grandi senza fine per noi ragazzi che volevamo divertirci, raganelle ghiaia lucida sassi che a notte sembrano teste di morti e pelle di biscia roba d'ogni genere, era un luogo adatto per ragazzi. C'è nella mia vita questa strada morta fangosa, una strada dove nessuno ci passa; lì è rimasta una tela di ragno sopra gli spini nel fosso sono rimasti due gusci di lumaca).

Piacciono questi bambini in frotta, come

altri bambini del

Pascoli, felicemente appoggiati all'eco pascoliana di raganelle e ghiaiolini, che nel lessico dialettale risuonano

di sonore

dentali

tipiche del poeta di San Mauro, a cui s’affianca, con lo stesso effetto, il romagnolissimo « burdéll ». La musica dell’endecasillabo sta questa volta in bilico tra echi popolari e pascoliani; mentre il capovolgimento leopardiano-pascoliano del valore della vita tuffa l'approdo in un dolore e in un paesaggio senza speranza. Anche l’immagine della strada nasce felicemente dal gruzzolo delle immagini fedeli al Pascoli, e non c’è bisogno di sottolineare come dal Guerra poeta, prosatore e cineasta essa ci rimandi dritto a un altro poeta e narratore di queste terre, ma per immagini in movimento, e cioè a Federico Fellini. Sono rimandi appena esterni, naturalmente, suggestioni magari remote, ma lasciano il segno e sono difficilmente sottovalutabili.

Non si legge di Schiuma, il pescivendolo di Bellaria addormentato sulla carretta tirata da un asino, nell’« Asino » dei « Primi Poemetti », senza

pensare

a Guerra

e senza

riesumare,

o inven-

tare in appoggio, qualche scena di « Amarcord »; e già si sa della struttura narrativa del Pascoli, analizzata dal Varese, e di certe sue velleità di romanziere.

317

Ma non vorremmo divagare. In « La strèda mòrta » c'è però dell’altro, che col Pascoli non ha niente a che fare e che ci introduce nel vero mondo del poeta di Santarcangelo. Dopo le ra-

ganelle e i ghiaiolini vengono i sassi che diventano teste di morto (e fin qui potremmo anche compiacerci di rientrare nell'universo dei fantasmi funebri pascoliani, eternamente incombenti); ma poi arrivano le pelli delle biscie, altra robaccia d'ogni tipo,

e il pantano;

e quindi spini, tele di ragno

e lumache

vuote:

gusci vuoti e macabri, ficcati in un fosso. E' qui che incomincia il mondo di Guerra e basta voltare poche pagine per toccare con mano

una « myrica » autentica ma ferita, distrutta, rat-

trappita : tramortita si vorrebbe dire, eppure ancora con tutto il suo incanto di luce, aria libera, paesaggio aperto. Si intitola al fiume : « E’ mi fiom ». E’ MI FIOM Eulta e’ mi fiém u i è tôtt un mònd ch’l’è fatt ad cani, ad fraschi e bagar6zz chi dérma te su bòzal, chi sduna se t’a i scroll; mo sa girai? E u i è dal còunchi ’d réina da stè cucléd dri l’aqua in zirca d’òr s'éna ad cal sdazi vèci da faréina. Te zil una culomba a un téir da s-ciòp.

(Nella traduzione

di Roversi:

IL MIO

FIUME

Lungo il fiume si muove un mondo di canne di frasche di bacherozzi che dormono nel bozzolo e suonano se li sbatti; chissà che cosa diranno. Ci sono avallamenti di sabbia da star chinati nell'acqua per cercare l’oro con un vecchio setaccio da farina. Nel cielo c’è una colomba a un colpo di fucile).

318

Il fiume, dunque, che è verosimilmente

la Marecchia.

Nel

Pascoli, nello stesso poemetto di Schiuma citato, è « la Marecchia argentina »! Qui, distrutto l’endecasillabo, saltato il nome, saltato il fiume stesso, c'è solo una sodaglia di canne e frasche; ma questo è ancora nulla; conta invece chi popola questa sodaglia, cioè il bacherozzo, lo scarafaggio immondo, che è uno dei personaggi più importanti del Guerra. Qualche polla d’acqua, d'accordo, in cui forse pescare dell’oro, e in alto fotografata, crocefissa, una colomba in una immagine « illuminata » e lirica

che prima di approdare al Guerra può benissimo avere sostato, muovendo da una qualsiasi pagina di « Myricae », sulla punta sottile della penna del primo Ungaretti. Ma è lo scarafaggio a indicare il livello naturale di questo mondo, il varco apertosi da quello « nobile » seppure popolare del Pascoli, lo stesso scarafaggio che poco più avanti nel libro darà vita a una sadica pantomima di morte : due scarafaggi che si incontrano, si fiutano, si toccano, si grattano, si feriscono, si uccidono; e un terzo che

passa e gode delle loro carogne; i quali in altra occasione ci fecero pensare vertiginosamente ai due fanciulli pascoliani, alla loro - diciamolo con termine kafkiano - metamorfosi. E qui nasce nel poeta un sospetto di linguaggio segreto (« che cosa diranno » chiusi nel loro bozzolo?), un linguaggio da sottospecie naturale, sconosciuto, misterioso, forse di quelli che il Pascoli inseguiva con l'orecchio e con la fantasia, e su cui lavorò magistralmente l’intuito lirico-critico di Contini. Del resto non si chiedeva il Pascoli quale fosse il linguaggio perduto delle rondini? Potremmo continuare sfogliando «I bu» e troveremmo casoni per i poveri, zingari in viaggio, ancora poveri che si lavano nel fiume, gatti guerci, caffè nei quali s’accendono i fiam-

miferi sul muro, un orto con ossicini di gatti morti; e quindi un muratore senza casa, gli emigrati, la loro miseria, la miseria di tanti italiani, un uomo

che possiede solo una pianta di limoni,

un altro che ucciderebbe sua madre pur di andare sui giornali... E passare

al recente

« Il miele », che reca

la storia di due vec-

chietti sperduti in un paese abbandonato, tra rifiuti e muri screpolati e cadenti, in un'atmosfera da imminente fine del mondo (e in proposito si potrebbe tentare di varare un'indagine sull'evoluzione dalla « myrica » sfigurata e folgorata de «I bu » al

319

poemetto in ampie lasse, o al romanzo in poesia, come « Il miele » vorrebbe essere, magari proprio seguendo la stessa traccia di Claudio Varese).

Per chiudere valga il sigillo della fine del mondo, da « I bu », a cui potremmo associare il canto trentacinquesimo de «Il miele », benchè ampiamente rivestito di simbolismo biblico. LA FÉIN DE’ MOND Al rédi mi carétt a ’l s'è farme, a "1 pépi ad tèra còta a ’l s'è brusé la saira a fè la vègia tra i paier; i méur i è vécc

al crépi al vén d'in zò com'è di félmin. E’ ciéd dla méridièna l'è caschè.

(E la traduzione

di Roversi:

LA FINE

DEL MONDO

Le ruote dei carri si sono fermate, alla sera le pipe di cotto si sono spente durante la veglia nei pagliai, i muri sono vecchi le crepe scendono come fulmini. Il chiodo della meridiana è cascato).

Contini nella prefazione non fa il nome

invece il suo ricco discorso ungarettiana, esattamente

del Pascoli; muove

linguistico sull’orlo della contrada

su quello di sinistra, toccando l’inopia

e l'assenza di storia del linguaggio

del Guerra,

ricondotto

alla

metafora dell'inglese « basico ». Però nella scheda della « Letteratura dell’Italia unita - 1861-1968 » l'illustre studioso

nelle po-

che righe ha modo di allineare, alla maniera di segmenti critici, la « sua esperienza di un'Italia minore, proletaria e dialettale », ripresa da Pasolini, e quella « tra crepuscolare-intimista e po-

320

pulista » da ricondurre anche al fatto che « siamo nella terra di

Pascoli e di Moretti » e in « una delle regioni rosse d’Italia ». Se la nostra esplorazione non è stata troppo frettolosa, rarissimi

sono gli agganci pascoliani nell’area critica ungarettiana, ivi compresi gli interventi del congresso del 1979 appena usciti negli atti. Pascoli sta con Carducci e D'Annunzio semplicemente a guardia del Novecento. Bisogna saltare al saggio pascoliano di Pier Paolo Pasolini del 1955 per trovare un diretto riferimento ad « alcuni embrioni d’invenzione analogica tipica di Ungaretti », pur invocando cautela, seguito da alcuni esempi di « tono ungarettiano » ricavati sfogliando « Myricae ». Siano o non siano riconducibili questi embrioni da Pascoli a Ungaretti, resta che la zona marginale ed emarginata dal Guerra, sprofondata nel linguaggio barbarico delle Madri, tiene della « myrica » come dell’illuminazione lirica, e ne serba in seno la filigrana tenue quanto si voglia ma resistente, e protesa a estendersi in filastrocca, favola e poemetto. Va ricordato che la narrativa del Guerra, in lingua, tende per sua natura a stringersi nel cerchio breve di una situazione esistenziale, a sintetiz-

zarsi nell’icasticità di un'immagine, sumere

e a congelare

l’evoluzione

nella quale si viene a riasdei fatti; e basterebbero i ti-

toli dei libri a darne sufficiente indicazione. Ma cessiamo dal Guerra e dall’embrione pascoliano defor-

mato in lui come un feto abortito. La presenza dell’eredità pascoliana può avere paradossale conferma « ex contrario » anche dai due conterranei che Dante Isella chiama, nella prefazione alla edizione

einaudiana

de « La nàiva » di Raffaello

Baldini, a

formare una triade istitutiva in questo angolo della regione: lo stesso Baldini e Nino Pedretti. Fondati sulla stessa lingua, fasciati dalla musica della stessa eccezionale dittongazione, distesi sulla stessa mappa, con le stesse

strade,

terre, piazze, fiumi, torrenti,

e con

alcuni

perso-

naggi analoghi, Pedretti e Baldini, di pochi anni più giovani del Guerra, la « myrica » la ignorano. Pedretti è fortemente attaccato a un suo doloroso risentimento sociale (quello stesso che in Pascoli cantava sublimato in puro dolore e in Guerra già alza una consapevole voce di protesta) e Baldini coltiva molto sottilmente,

e con

sostanziosa

vena

narrativa,

una

condizione

di so-

litudine che tende a volgere il dramma in nevrosi (quella nevrosi che nel Guerra narratore si apre a sbocchi comici).

321

Bisogna allora tornare allo Spallicci, alla « Romagna solatia », al « dolce paese », alla sua campagna, in cui c'è il Pascoli delle pennellate di Serra, il Pascoli che fa tutt'uno con le cose;

e da qui esplorare tutta la selva dialettale, oggi ricchissima e difficilmente controllabile. Ricordiamo l’antologia di Gianni Quondamatteo e Giuseppe Bellosi, « Cento anni di poesia dialettale romagnola » (Imola 1976), folta e ordinata con rigore, nella quale il Pascoli ha labi-

lissimo luogo, il realismo e il neorealismo tracciano grandi solchi (il realismo dello Stecchetti e il neorealismo di Guerra) mentre Spallicci viene collocato in orbita decadente e crepuscolare. Ma basterebbe leggere qualcosa della finissima « La cumetta » di Cino

Pedrelli,

del

1949, per trovare

atmosfere

e sentimenti

pascoliani (la madre, per esempio, e — ancora — certe stradine). Nella sua vaghezza e arbitrarietà può essere legittima un'altra domanda : se il « fanciullino » abbia fede anagrafica romagnola. Pensiamoci con qualche ironia e pronti a sorridere. Nulla di più remoto se a padre dell'anima dialettale romagnola si pone lo Stecchetti, che ha molti diritti per vestirsi di questa paternità; ma se il « fanciullino » nasce come lontano ancoraggio al candore di quel forte senso della vita cui fa cenno Serra parlando di Panzini, allora si può trovargli qualche radice locale, e proprio di questo angolo, dove le macchiette del Guerra possono reggere il sospetto d’essere state bloccate nella crescenza dalla malattia, invecchiate prima di maturare,

come

certi frutti

aspri e gibbosi, incantevoli « myricae » colpite da un male misterioso, dalla tempesta, da un inverno fuori del tempo. Di nuovo il Serra, nel saggio sul Ferrero, il Ferrero delle cronache criminali, discepolo del Lombroso,

suscita una

remini-

scenza pascoliana opponendo a quella « semiselvaggia » e « brutale » dello studioso della « Grandezza e decadenza di Roma » una Romagna cabile.

delle mezze

La sua Romagna

tinte, del chiaroscuro

semiselvaggia,

del coltello e della pistola, ma

adoratrice

e dell’inespli-

della forza brutale,

franca e fiera, piena di forze pri-

mitive ed esuberanti, di grandi risate sonore, di scherzi enormi, di pasti pantagruelici, per quanto composta con materiali tratti dal vero, ma esagerati, caricati nelle tinte e alterati nelle proporzioni, assomigliava alla Romagna reale come una caricatura vistosa può assomigliare al suo originale.

Egli ignorava fin d’allora l’esattezza di visione, la calma e gli scupoli di fedeltà che permettono, e nemmeno sempre, a un osservatore di ritrarre tutte le facce del suo soggetto con sufficiente approssimazione : ignorava anche più l’uso delle mezze tinte, dei chiaroscuri, quel savio scetticismo che ai più sottili conoscitori della natura umana consiglia sempre di non fidarsi in tutto al proprio giudizio, per quanto acuto, di non voler spiegar tutto, di far sempre la debita parte nelle loro analisi all'oscuro, all'inesplicabile, all’impreveduto.

A noi piace vedere, in questa pagina, una coincidenza tra la reminiscenza pascoliana e un implicito e inconsapevole lineamento d’autoritratto. Ma lasciamo da parte queste compiacenze

e facciamo

brevemente

un

salto indietro,

direttamente hanno raccolto il Pascoli,

tra coloro

che

o poco dopo la sua morte.

E’ un momento a tutti noto, su cui c'è poco da aggiungere. Ba-

sterà ricordare, Panzini,

scopre

con

le pagine

di Valgimigli,

anche

di Serra, di Antonio

« Myricae » in funzione

pitoli più belli di uno

quelle di Moretti, Baldini.

antidannunziana

Moretti

in uno

di che

dei ca-

dei suoi libri più riusciti, « Via Laura »;

che al Pascoli resterà sempre attaccato e da cui seppe trarre con abilità e autonomia, come mostra il minuziosissimo saggio di Giuseppe Nava. Un altro dei libri belli di Marino, « Il libro dei miei amici », reca addirittura una sezione pascoliana. Un discor-

so più intimo

dovrebbe

scavare

nell’anima,

nella radice della

bontà e della purezza del cuore, sino alla soglia di quell’oscuro a cui Marino s'è affacciato qualche volta, e segnatamente con l’infelice Anna cosiddetta « degli elefanti ». Panzini,

viandante

in cerca

d'uomini,

trovò. intorno

al ci-

mitero di San Mauro accenti felicissimi; e fu proprio Valgimigli a raccogliere sue cose pascoliane in un libro da lui costruito, « Per amore di Biancofiore » : Valgimigli che dedicò al Pascoli, non meno che al Carducci, tanto studio. Sono note le pagine biografiche panziniane e pascoliane di Pancrazi; e ci troviamo di nuovo in un’orbita che non è soltanto letteraria ma di umana amicizia. Un mondo, si deve dire, un gruppo d’uomini, con un loro gusto, uno stile di vita. Si può arrivare sino a Serantini, che si affacciò alla narrativa negli anni Cinquanta, per trovare il Pascoli nel paesaggio; non certo nelle sanguigne storie d'amore o in certe vicende avventurose, fatta eccezione per il Passatore, personaggio centrale in Serantini, anche se non del tutto « cor-

323

tese » come il Pascoli voleva. S'era spento quello spirito crepuscolare che anche da « Myricae » era penetrato nella nuova generazione e che Moretti impersonava così bene. Non bisogna dimenticare che un altro narratore di questa terra, Beltramelli,

prendeva a modello il D'Annunzio delle « Novelle della Pescara », come precisò a se stesso Serra in una nota posteriore al saggio

maggiore

dedicato al novelliere di « Anna

Perenna ». I due fili

che solcano la pagina morettiana di « Via Laura » solcano anche la narrativa di questa terra : da un lato San Mauro e la Marecchia, dall'altro la Pescara; e non è necessario insistere su quale dei due fosse più produttivo. Di stretta derivazione pascoliana sono le madri e i fanciulli morettiani; poi, si capisce, anche Moretti trovò fuori da questo solco fonti positive, e vennero i

cosiddetti romanzi forti; così come venne l’ultima stagione della poesia, di questi ultimi anni, così lontana da quella fonte naturale. Quanto a Beltramelli, vogliamo rammentare che Serra ne ricondusse l’opera a « una nostalgia di sogno infantile »? « Le montagne e le lande e il grande bosco misterioso di cui egli ci narra, dovettero alcuna volta apparire all’occhio meravigliato di un fanciullo ». Ed è, nella felice intuizione critica, eco pascoliana. Panzini si portava dentro un suo Pascoli, sincero, affettuo-

so e combattuto. « Ho un debito con lui », scriveva nel « Viaggio di un povero

letterato », uscito nel 1919.

Povero Pascoli! Io volevo — come ho detto — andare in peregrinaggio a San Mauro per compiere un’opera di riparazione verso lui, morto, di certi pensieri che di lui ebbi quando era vivo. Negli ultimi tempi che egli fu in vita, la sua voce lamentosa di fraternità e di pace non la potevo più sentire. Mi pareva un mendicante che domandasse agli uomini quello che essi non possono dare : l'amore e la pietà. Anche quella sua religione per gli umili non mi piaceva : « Sì, Pascoli, regala il pane bianco e gratuito! Dopo lo butteranno via e domanderanno le tartine ». E’ sconfortante, lo so; ma è così. E anche non mi piaceva nel Pascoli quel portare i fiori del sentimento al socialismo. « Il socialismo » io diceva « è quello che è; e se è, è perché oggi ci deve essere; ma dei tuoi fiori devoti non sa che farsene ».

Che è, nel dissenso, nella polemica che investe Pascoli e il socialismo, un modo di dichiararglisi fedele, affettuosamente

memore.

324

Manara Valgimigli nel 1946 volle seppellire il chiasso della Romagna fascista col ricordo di quella « gentile » impersonata naturalmente da Serra e Pascoli, ai quali aggiungeva Moretti e Severino Ferrari; e proclamò che quella Romagna

beltra-

i libri di Alfredo

Oriani

non

melliana

è « nostra » così come

«non sono Romagna, né storia né fantasia né poesia ». Il perentorio e risentito Manara esagerava, ma è pur vero che, sfogliando la non esigua opera orianesca, in particolare nella parte storica e politica, che ebbe larga ospitalità nelle pagine dei gior-

nali, si cercherebbe invano il nome del conterraneo e coetaneo Pascoli, mentre più d’una volta si affaccia il D'Annunzio politicocivile. Serra, in collaborazione con Ambrosini

e da solo, dedicò

molta attenzione all'opera di Oriani, si soffermò particolarmente sulla « Bicicletta », annotò che non aveva la minima parentela, per esempio, con Panzini e sottolineò sul piano psicologico la sua, chiamiamola così, « romagnolità », efficace, palese e tutta

volta al pratico. Per concludere, c’è stato un Pascoli dei compagni di viaggio e degli eredi più o meno diretti; e c'è stato un Pascoli delle generazioni successive, stravolto quanto si vuole ma riconoscibile. Nei limiti di una psicologia collettiva e dei caratteri di una certa contrada, pur vaghi e arbitrari, esso ha affidato al futuro una sua eredità. Occorre distruggere un tipo d'uomo e di civiltà per cancellarla. Se poi volessimo conservare, come privilegiato contenitore d'immagini, la memoria poetica, esattamente quella che poi venne chiamata proustiana, profondamente operante in Pascoli, il passo

verso

il mondo

lirico di Fellini verrebbe

natu-

rale. In altre parole, per cancellare il Pascoli occorre che Moretti si dissolva nel balenio ironico dell’età ottuagenaria, e che la nevrosi,

insieme

con

nei dialettali l’ultimo

un

aspro

risentimento

sociale, cancelli

polline della « myrica ». Occorre

più di

mezzo secolo e quel terremoto storico che Panzini sentiva arrivare ancora prima dell’altra guerra. Qualcuno si potrà chiedere che senso abbia una certa battaglia fra ecologica e politica, di-

retta al paesaggio locale, ai caratteri della campagna e delle case, soprattutto coloniche, combattuta oggi da Tonino Guerra persino con manifesti pubblici. L'amico Tonino forse non lo sa; ma lui difende ancora il mondo della « myrica » pascoliana, quel fiore che ha raccolto al bordo della sua strada polverosa e dissestata,

tra ranocchi

morti

d’arsura

e bacherozzi.

323

bal=

os

GIUSEPPE

NAVA.

I CANTI DI CASTELVECCHIO

simbolo o allegoria? I Canti di Castelvecchio escono in volume nella primavera del 1903, l’Alcyone dannunziano nel dicembre: una contiguità di pubblicazione, che invita il lettore a riflettere, e che fa di quell’anno una data memorabile nella storia della nostra poesia: le due raccolte infatti erano destinate a restare tra i testi più importanti

di Pascoli

e D'Annunzio

e ad influire durevolmente,

più di altre opere di quei poeti, sulla prassi artistica del Novecento. Molte poesie dei Canti e dell’Alcyone erano già apparse in riviste o opuscoli tra gli ultimi anni del secolo morente e i primi del nuovo; ma la raccolta in volume implica per i due poeti un progetto d’ordinamento, che corrisponde, almeno in apparenza, a uno schema naturalistico comune, modellato sul trascorrere delle stagioni. L'’Alcyone dispone le sue liriche nell'arco d'una sola stagione,

l'estate,

i Canti ambiscono

con

un

presentimento

finale

invece a coprire l’intero corso

d’autunno;

dell’anno, se-

condo un piano delineato dal Pascoli in una lettera al Caselli del 7 agosto 1902: « C'è, vedrai, nei Canti, un ordine latente, che non devi rivelare : prima emozioni, sensazioni, affetti d'inverno,

poi di primavera, poi d'estate, poi d'autunno, poi ancora un po’ d'inverno mistico, poi un po’ di primavera triste, e finis » (5). In realtà la raccolta nella sua veste definitiva trascorre da autunno ad autunno, dalla Partenza del boscaiolo, aggiunta nella terza edizione del 1905, a In ritardo, se è vero che Il ritorno a San Mauro, in cui pure s'è voluto ravvisare la primavera triste (0),

(1) G. PASCOLI, Lettere dadori, 1968, pp. 370-371.

(2) Cfr.

C.

GARBOLI,

ad

Alfredo

Restauri

Caselli,

pascoliani,

a

cura

di

F.

« Paragone », 354,

Del

Beccaro,

agosto

1979,

Milano,

p.

Mon-

32.

32.0

sembra piuttosto far parte per se stesso, mentre Diario autunnale, aggiunto solo nella quinta edizione del 1910, è collocato esplicitamente in appendice. L'ordine di successione delle poesie

rispecchia quindi deliberatamente il tempo circolare dell’anno agricolo, caro al Pascoli perché figura dell'eterno rinnovarsi della natura,

in cui vita e morte

si succedono

ininterrottamente,

contrapposte nel loro eterno ritorno alla sorte delle esistenze individuali, di cui il poeta avverte con angoscia la precarietà e la finitezza. Sintomatico appare sotto questo aspetto In ritardo, con la simbologia dei due nidi, l’attuale e quello che fu, tra loro non coincidenti né sovrapponibili, a connotare l’irreversibilità del tempo nel suo apparente ritorno, se traguardato dal punto di vista della soggettività : « e l’anno è morto, ed anche il giorno muore, / e il tuono muglia, e il vento urla più forte, // e l’acqua fruscia, ed è già notte oscura, / e quello ch'era non sarà mai più ». Si potrebbe dire anzi che qui, sul ritmo del ritorno ciclico, prevale decisamente il senso doloroso d’una entropia irrecuperabile, e il termine fisico non è davvero fuori luogo, se figura annotato in una traccia del Ciocco, recentemente pubblicata dal-

la Ebani (°). Del resto proprio la seconda parte del poemetto, con i suoi incubi apocalittici d'una possibile fine dell’universo, sembra estendere all'intero cosmo l’ansia della fine, anche se poi

l'accento torna a battere soprattutto sulla lacerazione inflitta all’esistenza individuale, mentre non esclude una possibile rinascita dell'universo per un ripetersi del suo processo genetico: « Questa la morte! questa sol, la tomba... / se già l'ignoto Spirito non piova / con un gran tuono, con una gran romba; // e forse le macerie anco sommuova ». Già da questi accenni si può capire come il piano della raccolta, anche se concepito posteriormente a molte singole poesie, non costituisca un semplice espediente

di comodo per conferire una provvisoria unità a liriche occasionali ed eterogenee, ma risulti profondamente radicato nella visione del mondo pascoliana, e soprattutto nel suo incupirsi di tinte catastrofiche verso la fine del secolo, come attestano le prose coeve, dall’Era nuova del 1899 all’Avvento del 1901. La cornice

fornita dall’indice della raccolta assume notativo, offre un indicatore

(3) N. EBANI,

328

Per una

lettura

quindi un valore con-

di lettura, che la critica ha spesso

del « Ciocco », canto

secondo,

SFI, XXXIX,

1981,

p.

186.

trascurato in favore d’una lettura frammentistica, che estende arbitrariamente ai Canti talune caratteristiche di Myricae e finisce per sottovalutare la tensione simbolica dei raggruppamenti per sezioni e dei relativi titoli nella stessa opera prima, il suo complesso strutturarsi d’edizione in edizione. Con l'ordinamento apparentemente naturalistico ma in realtà intrinsecamente simbolico della successione delle stagioni s'intreccia un secondo ordine strutturale, relativo al « romanzo familiare » del poeta, che tanta parte occupa nei Canti. Le terzine incatenate a coppie dalla rima centrale di Tra San Mauro e Savignano, che conclude il Ritorno a San Mauro, si ricollegano per il genere della visione notturna e sepolcrale e per il contenuto tematico, oltre che per metro e clausole, al Giorno dei morti,

che apre le giovanili Myricae. Alla preghiera del padre morente per l’incerto futuro dei figli, che si colloca al centro del Giorno dei morti, corrisponde qui la speranza nell’immortalità poetica di uno di loro, che suonerebbe riparazione per la morte invendicata : « io là sarò, col figlio mio sepolto, / che mi ridona ciò che gli donai, / che m'ha ridato ciò che tu m'hai tolto! » : il figlio ridona al padre attraverso la poesia ciò che l'assassino impunito gli ha tolto, la vita, quella stessa vita che il padre nel Giorno dei morti aveva pregato fosse aggiunta ai figli. Sotto questo aspetto i Canti si configurano di Myricae, suggellano

come la continuazione e il compimento con una sorta di autorisarcimento il la-

mento dell’ingiustizia invendicata, che s'era levato in Myricae. Il ritorno dei morti trova un esorcismo efficace nella missione riparatrice assegnata alla propria poesia, missione che giustifica la sopravvivenza del superstite e placa le continue richieste dei defunti nei riguardi dei vivi. Il Pascoli amava

definire nei suoi progetti di lavoro e nel-

le sue lettere i futuri Canti come la « seconda serie » di Myricae, ma questa definizione va intesa soprattutto come un'indicazione di « genere », un « genere » più propriamente lirico rispetto ai

Poemetti e ai Conviviali, piuttosto che come una dichiarazione di continuità. I Canti segnano uno sviluppo, un salto di qualità rispetto alla prima raccolta, di cui non

sempre

la critica s'è ac-

corta, forse sviata dal giudizio crociano sull'opera pascoliana come semplice dilatazione del nucleo originale di Myricae. Il titolo stesso, Canti, indica un'ambizione di poesia più complessa

325

e distesa delle giovanili « tamerici », di cui pure riprende il motto virgiliano : se in queste s’avvertiva spesso il gusto della lirica breve, sica, come

d’origine la singola

apparentemente strofa

popolare secondo

saffica,

clas-

o anche poetica

una

del

« frammento » (‘) esplicitamente dichiarata nella lettera al Gargano del gennaio 1891, nei Canti la misura strofica si amplia, quando addirittura non si distende in un vero e proprio poemetto, come il Ciocco. Contemporaneamente più ardue e raffinate si fanno le strutture formali, soprattutto quelle metriche,

con un’estrema varietà di soluzioni prosodiche e ritmiche, che culminano

nei virtuosismi

nosimbolismo

delle rime

ipermetre,

mentre

il fo-

si distacca definitivamente dall’armonia imitativa

per accentuare

la sua valenza allusiva a una realtà « autre », ri-

cercata nei segreti della vita e del cosmo o interiorizzata nel momento notturno del sogno e della visione, nella vita aurorale della coscienza. Soprattutto il termine Canti istituisce un rapporto privilegiato con un poeta, il Leopardi, che il Pascoli andava interpretando in conferenze e saggi negli anni di fine secolo, dal Sabato

del 1896 alla Ginestra

del 1898, parallelamente

agli studi danteschi. Del poeta recanatese, già fruito in alcune « myricae » (Campane a sera, Festa lontana, Il passato), ma in chiave idillico-riduttiva o genericamente gnomica, il Pascoli dei Canti recupera

con ben altro respiro i temi fondamentali della « ricordanza » e del rapporto uomo-natura. Del leopardiano « rimembrar » il Pascoli discorre nel Sabato, laddove scrive : « Il più dolce e il più bello della sua poesia sta nel rimpianto di quello stato soave, di quella stagion lieta » (), anche se la memoria pascoliana non è distesa e meditativa, come quella leopardiana, ma piuttosto associativa e traumatica, come è della cultura di fine secolo, in cui affonda le sue radici lo stesso Proust. Il tema del ricordo si dispiega con accenti leopardiani in Campane a sera (« Odi, sorella, come note al core / quelle nel vespro tinnule campane / empiono l’aria quasi di sonore / grida lontane? »), e ancor più nell'Ora di Barga, tutta intessuta di reminiscenze dell’Infinito,

(4) Cfr.

OLIVA,

(5) G.

330

P.

I nobili

PANCRAZI,

spiriti,

PASCOLI,

Scrittori d'oggi, serie III, Bari, Laterza, Bergamo, Minerva Italica, 1979, D. 282:

I! sabato,

in Prose,

I, Milano,

Mondadori,

1971,

1946,

p.

p. 70.

269;

e ora

G.

della Vita solitaria, delle Ricordanze, o si sviluppa indirettamente nelle prose, come suggestione di situazioni leopardiane: « E nessuno sentì meglio la poesia d’un risvegliarsi in campa-

gna al picchierellare sui vetri della pioggia mattutina; e nessuno espresse meglio il riprendere della vita dopo un temporale : lo schiamazzar di galline, il grido dell’erbaiuolo, che s’era messo al coperto, il rumoroso spalancarsi delle finestre, che erano state

chiuse, e in ultimo il tintinnìo dei sonagli e lo stridere delle ruote d'un viaggiatore che riprende il suo viaggio; e nessuno dirà meglio mai la sensazione d’un canto di donna, udito di notte, in una passeggiata, dentro una casa serrata, a cui ci si sof-

fermò per caso; o di giorno, nel maggio odoroso, misto al cadenzato rumore

delle calcole e del pettine » (7! sabato) (€). Que-

sto catalogo di « particolari » leopardiani, in cui consiste per il Pascoli l’« effluvio poetico delle cose », è un esempio di memoria letteraria, che alimenta nuova poesia: vi si trovano le cellule poetiche di parecchi « canti », da Temporale alla Guazza alla Tessitrice. Si potrebbe dire quasi che nel Pascoli vi è il fascino della « ricordanza » leopardiana più che il suo concreto attuarsi : la memoria

autobiografica

pascoliana,

quale si rivela

nell’ultima parte dei Canti, sembra di qualità diversa, ossessiva e involontaria, quasi un ritorno, a distanza di tempo, di zone ed

eventi rimossi della propria sensibilità, del proprio io profondo. D'altra parte la stessa memoria letteraria si fonda nel Pascoli sull’identificazione dell'io poetante con situazioni d’una poesia, che è avvertita

anche

come

una

condizione

esistenziale,

in cui

è possibile riconoscersi : si leggano in proposito i passi del Sabato sulla solitudine di Leopardi nell’infanzia e sulla più profonda infelicità, che gli sarebbe potuta derivare, con giovamento della poesia, da un soggiorno in collegio (7). Così il modello dei

Grandi Idilli, come

La quiete dopo la tempesta o Il sabato del

villaggio, s’infiltra dietro componimenti apparentemente impressionistici, ad arricchire di valenze simboliche quelle che a prima vista sembrano solo scene di vita dei campi. Il « piccolo boaro » è fratello in poesia della « donzelletta », così come

La mia sera

riprende dissimulato il tema leopardiano del « piacer figlio d'af-

(6) ivi, pp.

61-62.

(7) ivi, p. 66.

331

fanno », o Valentino il motivo della « greggia beata » del Canto notturno. Silvia e Nerina s’intravvedono in filigrana nelle figure di donna della Tessitrice, di Notte d'inverno, di Maria, immateriali anch'esse, o vive solo nel ricordo e coincidenti con la gio-

vinezza non vissuta. La « piccola dama », che viaggia sull'immaginario treno in arrivo di Notte d'inverno, non è già un'improbabile Beatrice medievale, chiarisce

ma

l’invocazione : « Mia

un sostituto giovinezza,

di Silvia, come

ben

t’attendo! ».

Spesso il rapporto pascoliano con Leopardi è antifrastico, com'è naturale in poeti provenienti da culture e tradizioni diverse, se non addirittura contrapposte, dal materialismo classico-illuministico l’uno, dal romanticismo spiritualistico e visionario l’altro. Lo si può vedere già, a livello puramente letterario, nel breve giro d’un idillio, in Temporale (« Un tuon sgretola l’aria. / Sembra venuto sera. / Picchia ogni anta su l’anta. // Serrano »), ma risalta soprattutto nelle liriche, in cui domina il grande tema del rapporto uomo-natura. Passeri a sera, per esempio, risente della tecnica ironica delle Operette morali e

della critica leopardiana al teleologismo provvidenzialistico : attraverso i discorsi degli uccelli emergono le contraddizioni tra l’esperienza del male fisico e morale e l’ipotesi d’una divinità ordinatrice del mondo. Tuttavia il poeta non esclude, a differenza di Leopardi, che un'Intelligenza superiore possa dal male ricavare il bene (« Dal male il bene : / bene che nasce, male che fu - »), e conclude con un mesto umorismo, che nella sua rassegnazione si contrappone radicalmente al lucido pessimismo

leopardiano («Ma da te viene ciò che ci piace: / forse anche questo ci piacerà - »). Del resto già nella Prefazione a Myricae la natura veniva scagionata da ogni responsabilità e l’uomo era invitato a lasciar « fare a lei, che sa quello che fa, e ci vuol bene ». Nel Ciocco la similitudine di fondo tra l’uomo e le formiche,

entrambi

minacciati

da cataclismi

naturali

o provocati,

è d'origine leopardiana e rimanda alla Ginestra; a differenza di Leopardi però, il Pascoli cerca compensazioni cosmiche alla fine dell’esistenza individuale e trascura completamente il motivo dell'umano operare come risposta all’ostilità della natura. L’appello all'umana solidarietà, che risuona spesso in poesie e prose pascoliane di fine secolo, è più un riconoscimento della comune infelicità e un invito alla pietà, che un’esortazione a fare: il

332

modello leopardiano è passato attraverso il filtro del pessimismo romantico

- decadente,

da Schopenhauer

in poi, e si è tinto di

suggestioni mutuate dall'Oriente, da testi indiani, come la Bagavadgita, un cui esemplare, tradotto e commentato dal glotto-

logo e indianista Michele Kerbaker, figura nella biblioteca di Castelvecchio : ne consegue un anelito all'estinzione della volontà e dell’esistenza individuale, che è insieme temuta e desiderata, con atteggiamento ambivalente. Un esempio dell’inclinazione pascoliana al rifiuto della realtà e della vita più che a un'esplorazione della sua negatività si ha nella chiusa del Sonnellino (« O subito tuono! // ch'hai fatto succedere a un’alba /

piaciuta tra il sonno, passata / nel sonno, una stridula e scialba / giornata! »), dove il Pascoli utilizza antifrasticamente una

fonte leopardiana, l’Anti-Lucretius del cardinale di Polignac (8), rovesciando l’esortazione iniziale del Cantico del gallo silvestre (« Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce; torna la verità in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero »). Lo stesso « mendico » del canto omonimo s’apparenta strettamente con

il « vecchierel bianco, infermo » del Canto notturno : la tragica amarezza del simbolo leopardiano si risolve però in una voluttà di dissoluzione (« Di dolce sol ebbi la morte; / ma tutto è quest'una! »), che è anch'essa tipicamente fin de siècle. Le citazioni leopardiane nei Canti si potrebbero moltiplicare; anche le Operette morali forniscono più d’uno spunto, in particolare il Cantico del gallo silvestre, dove ritroviamo non solo lo schema della Mia sera

(« La sera

rio, il principio

è comparabile

del mattino

per lo contra-

alla vecchiaia;

somiglia

alla giovanezza ») (°), ma

una vera e propria anticipazione dell'incubo della fine dell’universo nel Ciocco

(« Tempo

verrà, che esso universo,

e la natura

medesima, sarà spenta (...) un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso ») (!). Nell'Elogio degli uccelli infine è la prima matrice della similitudine conclusiva di Valentino, che paragona il « contadinello » all’uccello « venuto

(8) La

fonte

tuito un rapporto (9) G. bini,

è segnalata

LEOPARDI,

Torino,

e discussa

nel

Sabato,

tra alcuni versi dell’Anti-Lucretius

Loescher,

Cantico

del

gallo

silvestre,

cit.,

pp.

78-82,

dove,

e l’inizio del Cantico in Operette

morali,

tra

l'altro,

è isti-

del gallo silvestre.

commento

di

M.

Fu-

1966, p. 230.

(10) ivi, p. 231.

LG(05)U

dal mare » : per il Leopardi infatti gli uccelli sono dotati d'ime fanciullesca », di

instabile

leggera,

« ricca, varia,

maginativa

modo che, come « l’uccello quanto alla vispezza e alla mobilità di fuori, ha col fanciullo una

manifesta

similitudine;

così nelle

qualità dell'animo dentro, ragionevolmente è da credere che lo somigli » ("). Come s'è visto, si tratta per lo più di citazioni cri-

tiche, ma non mancano neppure le citazioni integrative (‘), che arricchiscono la nuova poesia con il richiamo a un modello autorevole. La frequenza e la sintomaticità del rapporto col Leopardi (*) nei Canti induce a riflettere su quanto del cosiddetto allegorismo pascoliano, che nel suo commento il Perugi (*) ha voluto dedurre interamente dall’ermeneutica dantesca, non risalga in-

vece a un tipico modello leopardiano, che alla situazione idillica fa seguire il commento

gnomico.

Nella Canzone

della granata,

per esempio, la rappresentazione quasi antropomorfica dell’oggetto, del suo passato e del suo presente, è conclusa dall’insegnamento

che esso offre sul piano morale, così come

nella Quiete

dopo la tempesta o nel Sabato del villaggio la situazione idillica acquista un secondo senso alla luce della riflessione finale, che ne estrae il significato morale. Questo schema può essere esteso a parecchi componimenti dei Canti, dalla Canzone dell’ulivo alla Vite, al Croco, alla Bicicletta, alla Canzone del girarrosto. Perché si possa parlare d’allegoria vera e propria, manca la condizione prima : l’esistenza d'un codice concettuale comune a poeta e pubblico, che stabilisca legami univoci tra significati sensibili e significati figurati, permettendo l’istituzione d’una serie di metafore continuate, tra loro coerenti sul piano intellettuale prima e più che sul piano poetico. Questo codice esiste nella cultura medievale, in cui autore e pubblico partecipano d’una concezione del mondo comune di carattere religioso e d’una serie di testichiave, forniti per lo più dalle Sacre Scritture;

(11) G. LEOPARDI, (12) Cfr., rino, Einaudi,

Elogio

degli

per la distinzione, 1974.

uccelli,

G.B.

in Operette

CONTE,

Memoria

morali, dei

è assente

invece

cit., p. 224.

poeti

e

sistema

letterario,

To-

(13) Per i rapporti Pascoli-Leopardi, cfr. C. VARESE, Pascoli e Leopardi, in Leopardi e Atti del III convegno internazionale di studi leopardiani (1972), Firenze, Ol-

il Novecento. schki,

1974;

e

N.

EBANI,

Pascoli

e

la presenza

Barga », « Italianistica », maggio-agosto (14) G. PASCOLI,

334

Opere,

a cura

leopardiana

nell’elaborazione

di

«L'ora

1974. di M.

Perugi,

I, Milano-Napoli,

Ricciardi,

1980.

di

ENO

À

nella cultura di fine secolo, dove il sovrasenso

non è una realtà

concettuale ma una incognita, che il poeta persegue per via ana-

logica, attraverso una rete di corrispondenze, senza arrivare a fissarlo in un significato tendenzialmente universale. Dei quattro sensi dell'esposizione, teorizzati da Dante nel secondo libro del Convivio, il supremo e ultimo, quello anagogico, è andato irri-

mediabilmente perduto con la crisi dell’ordine religioso del mondo e del relativo patrimonio per via privata

ed erudita,

dottrinale, né appare recuperabile mentre

il terzo,

quello morale,

ha

subito una drastica riduzione in termini soggettivi ed esistenziali. Quanto al secondo, quello allegorico propriamente detto, è stato fortemente compromesso dallo smarrimento d’un criterio di distinzione oggettiva tra vero e falso. Per la cultura di fine secolo quindi appare più produttivo parlare di simbolismo, perché la plurivocità di significati, propria della sfera della soggettività poetica, è costitutiva del simbolo in quanto

tale. Simbolista è il

Pascoli dell’Assiuolo in Myricae, così come quello del Gelsomino notturno, del Brivido, della Guazza nei Canti : tutti componimen-

ti che sarebbe disperante o intellettualistico ricondurre a una rigorosa corrispondenza di littera e sententia e concepire come prodotti d'una operazione razionale, quale è per definizione l’allegoria, mentre a loro ben s’applica la definizione di simbolo data da Paul Zumthor : « Il simbolo comporta una parte di indecifrabile, che sfugge alle glosse che se ne fanno : non c’è infatti propriamente parlando nessun codice simbolico » (5), e il simbolizzato va sempre oltre il simbolizzante. Quanto agli esempi, già citati, delle varie Canzoni (dell’ulivo, della granata, del girarrosto, della bicicletta), si può parlare, oltre che d'un possibile influsso del modello leopardiano, d’un procedimento emblema-

tico più che allegorico, che tende a conferire a determinati oggetti un significato morale, ma partendo sempre dal sensibile anziché dall'intelligibile. Due soli componimenti dei Canti presentano una struttura che si può definire allegorizzante, per la

tensione a rappresentare in modo figurato delle verità di portata universale, Passeri a sera e Il fringuello cieco, che si muovono nell’ambito di questioni metafisiche, come l'esistenza o meno

d'una provvidenzialità in seno alla natura o le diverse posizioni

(15) P. ZUMTHOR,

Semiologia

e poetica

medievale,

Milano,

Feltrinelli,

1973,

p.

125.

sa

del trascendente,

nei confronti

dell'umanità

caso

sole (ma in quest’ultimo

simboleggiato

l’interpretazione

dal

che è tutt'altro

certa, come pareva al Biagini (‘), da quando la Ebani (7) ha ricondotto l’origine della poesia nell’ambito del dramma apocalittico Anno Mille). Indubbiamente nella letteratura e nelle arti figurative di fine secolo esiste la tendenza al recupero della dimensione allegorica, ma in chiave di stilizzazione ornamentale, di gusto

dell’emblema,

di imitazione

manieristica;

bisogna

ar-

rivare alla cultura novecentesca degli Eliot e dei Pound per una operazione culturale di recupero del mondo medioevale, contrapposto in una sua mitica organicità al caos del mondo moderno. La presenza di spunti dei Canti negli abbozzi di saggi danteschi non basta di per sé ad avallare l'ipotesi della costruzione da parte del Pascoli d’un codice coerente di matrice dantesca, alla cui luce il lettore possa decodificare le poesie dei Canti, svelandone sensi riposti fino ad oggi preclusi ai lettori; in ogni caso la misura di soggettività d’un simile procedimento critico sarebbe altissima. La nostra esperienza di commento

ci induce a ritenere più

probabile il richiamo ai modelli leopardiani o, in altri casi, l'orientamento simbolista, con la sua tensione a suggerire l’ineffabile, a evocare

l’invisibile,

secondo

una

tradizione

romantica,

da Novalis a Hugo, ripresa e potenziata dai decadenti, tensione che nel Pascoli è tanto

più originale in quanto

s’orienta verso

la rappresentazione di zone del subconscio, verso la produzione di simboli come figure di desideri e conflitti inconsci. E’ il mondo notturno dell'uomo, che trova espressione in una parte dei Canti, in liriche come /1 sogno della vergine o Il sonnellino. Quest'ultimo rappresenta una esperienza onirica, che ha luogo tra veglia e sonno, alle prime luci dell’alba, e in cui i dati fonici e visivi sono sottoposti a un processo d’interiorizzazione, che li rende ambigui e indefiniti, sospesi tra sogno e realtà. Quel canto silenzioso d’uccelli, quel cirro di rosa che si dilata a colore del

sonno, sono possibili solo in quanto sono accolti e trasvalutati nella coscienza profonda del soggetto che vive il sogno. Nel Sogno della vergine la dinamica stessa del sogno è rappresentata

(16) Cfr. (17) N.

336

M.

BIAGINI,

EBANI,

Per

una

Il poeta lettura

solitario, del

Milano,

Mursia,

« Ciocco », cit.,

pp.

19632, 197-198.

p. 492.

con precisione di particolari, che rinvia alla lettura pascoliana di testi psicologici positivisti : vi è applicata la teoria del doppio stimolo, esterno (la fiamma della lampada), e interno (un’alterazione del flusso sanguigno). D'altra parte, con un’ambiguità che è caratteristica del Pascoli, la rappresentazione del sogno oscilla in lui tra la realizzazione del desiderio, come in Casa mia e nel Sogno della vergine, in un precorrimento della teoria freudiana, e lo stato di grazia, che consente di raggiungere una realtà più profonda di quella visibile, secondo la concezione romantica, ricostruita con profonda finezza da Albert Beguin (5): «il sogno è l’infinita ombra del vero », dirà il Pascoli in Alexandros,

compendiando una tradizione esoterica. In questa direzione, che attribuisce al sogno un valore di comunicazione

con il mistero,

con l'ignoto, il Pascoli utilizza la lezione dei poeti anglosassoni, presenti nei Canti in misura superiore a tutte le altre raccolte. In quegli anni Adolfo De Bosis veniva traducendo le liriche di Shelley (e ai suoi figli è dedicato The hammerless gun), mentre era ancora vivo e operante l'insegnamento di Enrico Nencioni, che per un trentennio sulla « Nuova Antologia » si era adoperato a far conoscere Byron, Shelley, Tennyson, i Preraffaelliti, Swinburne,

Robert

e Elizabeth

Browning,

gran parte presenti, insieme con low, Keats

Poe, Whitman,

Shakespeare,

e Carlyle, nella biblioteca

autori

in

Milton, Longfel-

di Castelvecchio,

tradotti

o in lingua originale (il Pascoli possedeva anche le Traduzioni di E. Teza, glottologo e comparatista valente). Nelle antologie scolastiche e in Traduzioni e riduzioni i poeti inglesi sono accolti dal Pascoli accanto agli italiani e allo Hugo. Non sorprende quindi che in The hammerless gun il Pascoli riprenda da Shelley l'analogia tra l’allodola e il poeta, o che nel Sonnellino i « sogni che cantano forte e non fanno rumore » ricordino i « dreams without a sound » di Shelley e le « unheard melodies » di Keats. Nel Ciocco poi, le visioni apocalittiche di catastrofi stellari e il motivo dell’esistenza di altri mondi, di altri universi, che muoio-

no e si rinnovano incessantemente, comporta, tra l’altro, la cono-

scenza di Eureka di Poe, come la metafora del bimbo piangente nella notte rimanda a Tennyson e al suo « infant crying in the night ». Accanto

(18) A. BEGUIN,

ai poeti inglesi, il Pascoli continua

L'anima

romantica

e il sogno,

Milano,

Il Saggiatore,

a risentire

1967.

022

dell’influenza di V. Hugo, che nelle Contemplations aveva fornito esempi importanti di poesia cosmica, con Magnitudo parvi e nell’Imbrunire.

soprattutto, la cui eco risuona nel Ciocco

Al mondo dei sogni è strettamente legato nei Canti quello dei presagi,

delle

generalmente

premonizioni,

che

luttuose,

si

esprimono attraverso la natura. Qui il Pascoli recupera un pa-

trimonio di credenze popolari, come riconosce egli stesso nelle Note ai Canti, filtrandolo però attraverso illustri precedenti classici, che vanno dai poemi omerici alle arti divinatorie latine. E’ il caso anzitutto del Brivido, interpretato in Romagna come il passaggio della morte e ricorrente nel Pascoli in situazioni infauste, come la chiusa di Digitale purpurea,

ma già presente nel-

l’Iliade, quando Ettore vede Achille prima del duello mortale, come ha ben mostrato il Perugi. Anche nella Tovaglia il Pascoli, sulla scorta delle tradizioni popolari della sua terra, si riallaccia a lontani archetipi culturali, come i banchetti funebri, le sepol-

ture rituali con offerte votive di cibi e bevande, e soprattutto la discesa di Ulisse nell’Ade, con la folla di ombre

che s’accalcano

per bere il sangue delle vittime e l'apparizione della madre. Persino nella Squilletta di Caprona il nome del vecchio, cui risale la consuetudine di far girare verso sera un ragazzo col campanello per invitare i fedeli a pregare per le anime del Purgatorio, Nimo,

corrisponde

nel vernacolo

lucchese

a quello assunto

da

Ulisse in presenza del ciclope Polifemo : Nessuno. Presagi e premonizioni, con relativi rimandi

omerici,

nei canti,

s’infittiscono

che ricostruiscono il « romanzo familiare » del poeta : il Pascoli nobilita infatti la cronaca dei lutti della sua gente con continue allusioni

a situazioni

omeriche,

quasi

gnolo, parallelo all’epos garfagnino Ciocco.

In Un ricordo,

a creare

un

epos

roma-

di cui parla Contini per il

sotto i toni apparentemente

umili e di-

messi della partenza del padre, si legge in filigrana il modello omerico dell'addio di Ettore ad Andromaca e Astianatte nel libro VI dell'Iliade;

mentre

nella Cavalla

storna,

come

già notò

Serra ("), si risentono i passi omerici del pianto dei cavalli d'Achille e della profezia di morte del cavallo Xanto. Anche Un ritratto, con la concomitanza quasi parapsicologica tra la morte

litici,

(19) R. SERRA, Commemorazione di Giovanni Pascoli, in Scritti letterari, morali e poa cura di M. Isnenghi, Torino, Einaudi, 1974, p. 314: «i cavalli di Achille piangono e

parlano

338

con

la voce

misteriosa

della

cavallina

storna ».

del padre e l'interruzione del ritratto, richiama analoghe situazioni di matrice letteraria. Il Pascoli ritrova quindi una sorta di continuità tra miti greci e credenze folcloriche, di cui andrebbe approfondita la genesi nella cultura del tempo. Si tratta solo di suggestioni letterarie o non piuttosto d’un orientamento comparativistico, proprio della cultura del secondo Ottocento e acutamente richiamato per il Pascoli dal Debenedetti? (2?) In ogni caso la definizione di « miseria psicologica », applicata dal Bonfiglioli (”) alle credenze folcloriche dei Canti, appare fortemente riduttiva, perché ne postula una mutuazione quasi natu-

ralistica dal contesto popolare, e prescinde dal dato importantissimo della mediazione delle ricerche sul folclore e dei miti classici. Così pure il rimpianto del Garboli (?) che il Pascoli ab-

bia sacrificato nei Canti lo sviluppo coerente dell’elemento folclorico in favore del « romanzo familiare » non tiene abbastanza conto del nesso che lega i due momenti. Sarebbe poi interessante accertare se l’importanza accordata dal Pascoli al momento istintivo, e quindi anche alla sfera dei presentimenti, non risenta d’una conoscenza di Hartmann, la cui Philosophie des Unbewussten era disponibile in traduzione francese fin dal 1877. Il Barberi Squarotti (*) ha giustamente richiamato l’attenzione sul valore oracolare delle presenze ornitologiche nella poesia pascoliana, e anche i Canti ne offrono

parecchi

esempi,

dalla

Capinera,

che

preannuncia

la

pioggia, all’Usignolo del freddo e al Fringuello cieco. Le reminiscenze classiche dell’arte divinatoria contano indubbiamente in proposito, ma

anche

in Hartmann

si citano la partenza e il

ritorno degli uccelli migratori, e il loro rapporto con eventi me-

(20) Cfr. G. DEBENEDETTI, Pascoli: la rivoluzione inconsapevole, Milano, Garzanti, 1979, p. 210: «l’ultima parte del secolo XIX (...) vede nascere in grande stile la storia delle religioni, vede svilupparsi una filologia attentissima alla critica e alle filiazioni dei grandi miti, vede spingersi fino all’utopia tutte le forme di storia, di ricerca letteraria e di linguistica comparata. (...). Si rifletta che in quel periodo (...) si fonda l'etnologia, la quale doveva poi essere chiamata a rispondere sul foggiarsi degli archetipi (...) Si rifletta che, in quello stesso periodo, maturano i germi della psicologia di Freud (...). Ora l’inconscio sta al cosciente, come il primordio sta alla storia ». (21) Cfr. P. BONFIGLIOLI, Pascoli e il Novecento, « Palatina », 7, 1958, p. 25. Va dato atto però al Bonfiglioli di aver avvertito tra i primi l’importanza d’uno studio del materiale folclorico nella poesia pascoliana in termini non puramente eruditi. (22) Cfr.

C. GARBOLI,

(23) G. BARBERI renze,

D'Anna,

Restauri

SQUAROTTI,

1966, pp.

pascoliani,

Simboli

cit., pp.

e strutture

36-37.

della poesia

del Pascoli,

Messina-Fi-

29-33.

DAS

ai Lv ar PSI enna ON

tereologici, come

esempi di intuizione istintiva, che il filosofo

ritrova nell'uomo sotto forma di presentimenti. Hartmann, che polemizza con la concezione meccanicistica dell'istinto in favore d’una sua interpretazione come effetto d'una attività spirituale inconscia, si diffonde in particolare sul presentimento di morte : «On n’a pas seulement des pressentiments de sa propre mort, mais encore de celle de personnes que l’on cherit, auxquelles on est étroitement attaché. Cela est prouvé par de nombreux récits : on y voit un mourant, à l’heure de la mort, apparaître à son ami ou à sa femme dans un songe ou dans une vision. Ces

récits sont répandus chez tous les peuples et dans tous les temps, et ils contiennent certainement en partie des faits véritables » (”). E Hartmann consciente

aggiunge : « Les pressentiments

se révèle

incompréhensibles,

à la conscience,

sont,

symboliques » (*). Lo

où l'intuition

d’ordinaire,

stesso

in-

obscurs,

Hartmann

si

sofferma a lungo sulla funzione dell’istinto presso le api nella loro organizzazione

sociale, con

accenti

che non

possono

non

ricordare l'interesse pascoliano per la vita associata delle formiche nel Ciocco, e per l’attività nidificatoria degli uccelli in diverse poesie dei Canti, da Addio! a In ritardo. Più in generale la concezione dell'evoluzione come sviluppo progressivo della co-

scienza, propria dell’ Hartmann, sembra avere dei punti di contatto con l’evoluzionismo d’impronta spiritualistica del Pascoli, anche se nel poeta l’inclinazione regressiva tende piuttosto a ripercorrere a ritroso le fasi evolutive, verso un ritorno all’istinto

e all'intuizione. La possibilità per il poeta di rispecchiare emblematicamente le proprie vicende in quelle del mondo uccellino, come avveniva già con la rondine di X agosto in Myricae, e quelle dell'umanità nella vita delle formiche, poggia proprio su una interpretazione a ritroso della legge generale dell’evoluzione, per cui il poeta riconosce se stesso e i propri simili nella preistoria della coscienza, e dell'ultima fase di sviluppo valorizza piuttosto i dati primari comuni con le altre specie, che i dati logico-razionali propri della specie umana. Si è parlato d’una impronta spiritualistica dell'evoluzionismo pascoliano, perché la cosmologia

(24) E. HARTMANN, et Cie, 1877, p. 120:

(25) ivi, p. 121.

340

Philosophie

de

l’inconscient,

I, Paris,

Librairie

Germer,

Baillière

del Ciocco, con il suo postulato d’una incessante rinascita dei mondi dalle loro ceneri, sembra presupporre l’« ignoto Spirito », che dall’apocalisse riuscirà a trarre un nuovo universo. Nel Pascoli infatti le fonti scientifiche positivistiche, da quelle naturalistiche del Brehm e del Pokorny per il mondo animale e vegetale,

a quelle astronomiche del Flammarion e del Meyer per i mondi celesti, sono fruite come miniere di spunti per sensi morali e simbolici,

naturale.

il dato

che oltrepassano

Giustamente

l’An-

ceschi (*°) ha insistito sul rapporto di derivazione del « mistero » pascoliano dal concetto spenceriano di « Inconoscibile », che apriva un varco alla rinascita di quella metafisica, che i positivisti si erano proposti di bandire dal campo del pensiero. Così

il Pascoli nell’Era nuova (1899) si pone come programma di fare della poesia la coscienza della scienza, che è una netta inversione di marcia rispetto al programma naturalistico di fare della scienza la base della poesia e dell’arte in genere : « Il poeta è quello e la poesia è ciò che DELLA SCIENZA FA COSCIENZA » (7). Nella stessa conferenza il compito assegnato alla poesia si precisa in termini chiaramente antitetici allo scientismo positivistico e al concetto moderno di scienza come ricerca sperimentale autonoma : « Chi di noi, pur sapendo di astronomia molto più di me che non ne so nulla, sente di roteare, insieme col pic-

colo globo opaco, negli spazi silenziosi, nella infinita ombra constellata? Ebbene : è il poeta, è la poesia, che deve saper dare alla coscienza

umana

questa

sensazione,

oscura

che le manca,

anche quando la scienza gliene abbonda. E non dico che la poesia non ci si sia provata; ma in parte ed ancora in modo imperfetto. Ricordo un punto sul quale si esercita la poesia : la infi-

nita piccolezza nostra a confronto litudine degli astri. Ricordo

dare molti

altri. Tuttavia

dell'infinita grandezza e so-

il Leopardi e il Poe, e potrei ricor-

nelle nostre

anime

quella spavente-

vole sproporzione, non ostante che i poeti nuovi fossero aiutati,

nel segnalarla allo spirito, dai poeti della prima era, quella spaventevole sproporzione non è ancora entrata nella nostra coscienza » (#). In effetti il canto secondo del Ciocco si fonda sul-

(26) L. ANCESCHI, (27) G.

PASCOLI,

(28) ivi, p.

Le poetiche L'èra

nuova,

del Novecento in Prose,

in Italia,

I, cit., p.

Milano,

Marzorati,

1961,

passim.

111.

119.

341

l'antitesi tra la vita perenne, seppur catastrofica, dell'universo e la finitezza della vita individuale. In questa posizione, che è espressione d'una soggettività angosciata dall’incubo della morte, non c'è nulla di specificamente religioso in senso positivo, ma non c'è neppure l'accettazione leopardiana dei limiti della esistenza umana come affer-

mazione della ragione sulla natura. C'è un’ansia metafisica negativa, che in forme meno eloquenti o meno patetiche non è estranea neanche al simbolismo francese, che si colloca al di qua del nietzschiano « Dio è morto ». La stessa invocazione conclusiva del Viatico (« portatelo anche a me quel pane, / sul vostro mezzodì ») non va intesa come

entro limiti

un atto di fede, ma

di ordine emotivo e genericamente esistenziale, e altrettanto si può dire di Giovannino e della Messa, dove s’avverte soprattutto il nesso regressivo tra sentimento religioso e figura materna. Siamo al di fuori d’ogni identificazione con una religiosità confessionale, e lo prova, tra l’altro, la prefazione di Odi e inni, dove il Pascoli rivendica il proprio diritto di non scegliere tra scienza e fede, tra dogmatismo confessionale e negazione asso-

luta, con accenti che risentono forse della contemporanea mica modernistica, ma solo in superficie, estranei come

la passione che anima caso

mio:

quelli

questi moderni

di cui ho

cantata

pole-

sono al-

riformatori : « Vedete il la comunione,

mi

scomu-

nicano; quelli per cui ho gridato Pace! mi chiamano chierico. Ebbene? dicevo a principio, Homo sum, con le parole d’un pagano : dirò in fine, con le parole del vangelo, Ecce homo! Lo so, lo so, questo è il modo non di piacere a tutti, ma di non piacere a nessuno! ».

La dimensione ordine estetico,

spiritualistica del Pascoli è soprattutto

di

e come tale si realizza nel vivo della sua poesia,

come ripresa della tradizione di linguaggio, che va dal Dante del Paradiso al Tommaseo e allo Zanella, passando per il Manzoni degli Inni sacri. Dante costituisce per i Canti una matrice di metafore e simboli in misura superiore a Myricae, che pure ne era già profondamente segnata. Da Dante è ricavata la metafora della lampada, che conferisce alla poesia un carattere ispirato, un'aureola

di sacralità, anche se di tono dimesso

e intimistico;

da Dante è ripresa la metafora del pellegrino, e quella ad essa associata del viaggio; Dante è pur sempre il primo modello della

342

poesia

cosmica,

benchè

l’universo

pascoliano,

privo

di centro

nella molteplicità di mondi, che esso postula secondo i risultati della scienza moderna, si contrapponga radicalmente all’universo finito, geocentrico e teocentrico, di Dante. Dantesca, e forse ancor prima classica, è la metafora della farfalla come emble-

ma dell'anima, che riappare indirettamente nelle farfalle crepuscolari del Gelsomino notturno, associate ai cari defunti del poeta, come la guazza dell'omonima lirica ricorda la rugiada dell'alba con cui Virgilio bagna a scopo lustrale le guance di Dante sulla spiaggia del Purgatorio. Dante s’infiltra persino nel folklore barghigiano, come era già avvenuto per Omero : nella Squilletta di Caprona il segno di croce che i contadini si fanno al suono del campanello vespertino richiama una ben nota situazione del c. VIII del Purgatorio, la tentazione nell'ora del crepuscolo, quando gli angeli mettono in fuga il serpente, che insidia la valletta dei principi. E all'origine della Servetta di monte si colloca con ogni probabilità la famosa similitudine dantesca del c. XXVI montanaro inurbato.

del Purgatorio, che ritrae il turbamento del Per finire, la sorta di estasi, di « excessus

mentis », che coglie il poeta di fronte allo spettacolo cosmico nel Bolide, richiama il passo in cui Dante vede dall’alto la terra, anche se, diversamente da Dante, il Pascoli non si sente collocato in un osservatorio privilegiato, ma si vede « piccolo e sperso » su un corpo celeste, coerentemente con la sua concezione del-

l'universo infinito e decentrato e con il suo sentimento

trauma-

tico della piccolezza dell’uomo di fronte al cosmo, che egli condivide con il Pirandello (©) di fine secolo (in una traccia, relativa

contemporaneamente cata dalla Ebani

al Ciocco e alla Mirabile Visione, pubbli-

(®), si legge:

« La terra non

è più in centro.

Tutto si è spostato l’infinito si è allargato per così dire, dopo Galileo. Tanti mondi »).

Se a livello di contenuto i Canti rappresentano indubbiamente un importante sviluppo della poesia pascoliana per il ri-

(29) Cfr. L. PIRANDELLO, Arte e coscienza d'oggi (1893), in Saggi, poesie, scritti vari, Milano, Mondadori, 1973, p. 896 : « Sappiamo tutti, purtroppo, a che mai essi han ridotto ora la terra, questa povera nostra terra! Un atomo astrale incommensurabilmente piccolo, una trottoletta volgarissima lanciata un bel giorno dal sole e aggirantesi intorno a lui, così, per lo spazio, su immutabili orme. Che è divenuto l’uomo? Che è divenuto questo microcosmo,

questo

re dell’universo?

(30) N.

EBANI,

Per

Ahi

povero

rel ».

una

lettura

del « Ciocco », cit., p. 191, n.

1.

343

lievo che vi assume la dimensione simbolica, sul piano formale essi costituiscono il momento più alto dello sperimentalismo pascoliano : forme metriche complesse, spesso di derivazione classica, come

lo schema

strofe-antistrofe-epodo;

frequente

uso

del novenario nelle sue diverse varietà; alternanze virtuosistiche di versi imparisillabi e parisillabi, o di versi di ugual misura ma di differente accentazione; recupero dei versi doppi, con libero avvicendamento

di ritmi diversi nei due emistichi;

ritorno

agli

endecasillabi assonanzati delle lasse medievali e ai distici d’endecasillabi a rima baciata dei canti popolari bretoni; largo ricorso a rime ipermetre; e infine, come già in Myricae, ma in modo più vario e articolato, riprese a distanza, ritornelli, a volte di intere in rima

strofe, rime e non,

equivoche

e identiche,

di rime

intrecci

gradazioni

e assonanze : una

vocaliche ricca

stru-

mentazione prosodica e metrica, che presupppone una profonda conoscenza della poesia classica e romanza. E benché la raccolta si caratterizzi per il tono lirico, di contro

alla dimensione

nar-

rativa di poemetti e conviviali, è possibile trovare anche nei Canti qualche saggio di quel « farsi prosa, senza essere prosa », di cui parla lo Schiaffini, soprattutto nelle poesie del ciclo familiare,

come

11 ritratto

incipit si ricorderanno

e ancor

più La mia

malattia,

i crepuscolari, e in particolare

del cui

Moretti.

Sul piano linguistico i Canti rappresentano l'esempio più felice di commistione di « sublime d’en haut » e di « sublime d'en bas », nella direzione di quella « lingua che più non si sa », di quello scarto sistematico dalla norma, che nel Pascoli risponde, oltre che a una posizione di soggettivismo critico verso il mondo contemporaneo, anche a un bisogno di espressionismo magico-regressivo, e talvolta di vero e proprio ermetismo. Si pensi, per esempio, agli inserti di garfagnino nel primo canto del Ciocco, in rapporto con un lessico di arti e mestieri, che si caratterizza per contrasto con il lessico astronomico dotto del canto secondo : questi inserti non rispondono certo a un fine documentaristico,

a una volontà mimetica

di pastori, artigiani e contadini

del reale, del mondo

barghigiani,

ma

si connotano

piuttosto come macchie vernacolari, parallele all’ottica microscopica del canto primo e oppositive allo stile alto e all’ottica in grande del canto secondo. Lo stesso effetto si ha nella Partenza del boscaiolo, con la netta cesura tra la prima parte, fitta di voci

344

garfagnine, e la seconda, in cui prendono il sopravvento termini arcaici e letterari, in correlazione con il processo di trasfigura-

zione dei boscaioli nei loro mitici progenitori. In The hammerless gun poi si assiste a un vero e proprio simbolismo dei linguaggi, che utilizza indifferentemente e termini

in prevalenza

inglesi,

onomatopee

esclamazioni,

ornitologiche

giocando

consa-

pevolmente sull’equivalenza fonoimitativa dei due gruppi. Anche il momento pregrammaticale è presente nei Canti, forse in maniera meno vistosa e dirompente che in Myricae, ma in compenso con una più sottile orchestrazione, che sperimenta arditi passaggi dall’onomatopeico al semantico nel Fringuello cieco e che si ricollega, con i frequenti ritornelli ornitologici, alla fase magica del linguaggio, e quindi alla componente folcloristica della raccolta, in cui rientrano

anche i proverbi. Tipica del fol-

clore è l’attribuzione d’un senso premonitore al linguaggio degli uccelli, come pure il rimando a una saggezza cristallizzata nei proverbi. Qui l'esigenza pascoliana appare non tanto di natura espressiva, quanto piuttosto di connotazione simbolica, di animazione del mondo naturale e d'una donazione di voce, che ne

riporti alla luce i significati occulti. Sull’altro registro, quello del « sublime

d'en

haut », si collocano

latinismi

e termini

aulici,

che s’infittiscono nei canti, dove più accentuata è la dimensione spiritualistica, come // sogno della vergine, o il sovrasenso morale, come La mia sera, o dove si celebra la funzione della poesia.

Il glossario aggiunto alla seconda edizione non solo testimonia della cultura linguistica e filologica del Pascoli, ma fornisce anche la chiave dell’uso del garfagnino. Il Pascoli dichiara infatti di rimettere in circolazione le parole arcaiche ancora vive sui monti, oltre che per « amor di verità », pedaggio pagato a un naturalismo

residuo,

per « istudio

di brevità », e quindi, in ul-

tima analisi, per ragioni espressive. Quanto all'affermazione che le parole brevi e accentate sulla sillaba radicale s'intendono meglio, anche a distanza, va ricordato che lo Spitzer, in appendice al suo studio sulle innovazioni sintattiche del simbolismo francese, che potrebbe con adeguate variazioni essere applicato al linguaggio pascoliano, osserva che « la scuola poetica simbolista ha specialmente avvertito il valore sonoro delle parole brevi » (”).

(31) L. SPITZER,

altri saggi,

Torino,

Le

innovazioni

Einaudi,

sintattiche

del simbolismo

francese,

in Marcel

Proust

1959, p. 70.

345

e

;

L'accoglienza riservata ai Canti dai critici del tempo appare oggi inadeguata all'importanza della raccolta. Dino Mantovani (5) accennò all’erudizione e alla finezza letteraria del Pascoli e ne sottolineò i rapporti con la poesia popolare antica e moderna, ma diede troppo peso alle finalità etiche dell’opera e ne censurò la novità del linguaggio, tacciandolo

di oscurità.

Il Gargano

(*)

definì il libro « profondo » e « bello » e ripose la sua novità nel cantare « tutto ciò che si muove

di più tenue e di più inafferra-

bile nell'anima umana e nell'anima delle cose », ma ricadde poi nella formula romantica della « comunione con la natura » e trascurò

deliberatamente

il momento

stilistico.

(*), più

Borgese

acutamente degli altri, vide i debiti dei Canti con Leopardi e Manzoni (« Egli ha tolto Dio al Manzoni e la disperazione, il brutto potere al Leopardi. La sua ispirazione è tutta in questi due, ma egli li ha tutti e due decapitati »); ma ne trasse un giudizio limitativo

e preferì loro, nella sua

lettura

contenutistica,

i Poemetti, nella convinzione che questi meglio assolvessero al compito della poesia di « rendere ricca e profonda la nostra vita interiore ». Solo il D'Annunzio, nel Commiato dell’Alcyone, salutò nel Pascoli l’« ultimo figlio di Virgilio », il « custode delle

più pure forme », ma si trattava d’un omaggio retorico, e sia pure d’una retorica alta. Benché l’attenzione di critici e poeti si fosse poi concentrata su Myricae, che meglio sembrava corrispondere al gusto primo-novecentesco del frammento lirico, come attesta, tra l’altro, il commento

di Onofri, i Canti non

man-

carono di agire sulla poesia contemporanea. La loro influenza si svolse soprattutto in due direzioni, sui poeti crepuscolari, come Moretti, che accolsero la tematica apparentemente familiare e domestica di componimenti, come La canzone della granata, e sul filone pascoliano della poesia dialettale, che si ricollegò alla componente folclorica, sviluppandola in sede regionale. Ma oggi, a distanza di tempo, il loro merito più alto ci appare quello d'aver anticipato l’uso simbolico degli oggetti, che troverà poi in Montale la sua attuazione più piena.

(32) D. Letteratura

MANTOVANI, contemporanea,

(33) G.S. in G. OLIVA,

(34) G.A.

346

Canti di Castelvecchio, « La Stampa », Torino, Roux e Viarengo, 1906.

19 maggio

1903,

GARGANO, I « Canti di Castelvecchio », « Il Marzocco », 3 maggio I nobili spiriti, cit., pp. 521-526.

BORGESE,

J1 Pascoli

minore,

« Il Leonardo », 10 maggio

1903.

e

1903,

poi

in

e ora

ANTHONY LETTURA

OLDCORN

DI "NOVEMBRE" per Gianfranco Contini

Ciò che segue rappresenta

un tentativo

di analizzare

e di

descrivere alcuni degli effetti poetici ottenuti dal Pascoli nella stringata myrica « Novembre ». Non ha, non poteva avere, la pretesa di rilevare in modo esauriente tutte le strutture poetiche che sono funzionali nel sistema di questo pur breve testo. Dietro una ingannevole apparenza di semplicità, Pascoli è un poeta estremamente

complesso,

sia dal punto

di vista dei suoi conte-

nuti psicologici sia da quello della tecnica letteraria. Per cominciare, mi sia permessa una parola sulla questione delle intenzioni. Queste pagine sono intanto il risultato di un compromesso tra

una lettura narrativa diacronica ed una sincronica descrittiva. Alcune delle mie osservazioni potranno sembrare esagerate. Mi auguro che non lo siano, ma la mia tesi generale si reggerà se si può dimostrare che i fenomeni indicati sono effettivamente presenti e che contribuiscono all’impressione lasciata nel lettore dal testo. Chiederci se nell'atto di stendere l’idillio il poeta ne fosse o no consapevole sarebbe una domanda oziosa. Parlerò di questa brevissima saffica — non più di dodici versi in tutto — come di un esempio della pastorale moderna; la narrazione di un incontro, anzi di uno scontro, con la natura.

Cercherò di precisare le sue successive fasi, affronterò il problema della sua risoluzione. Il genere pastorale è un genere molto

antico

(anche

se non

dei più antichi),

e la conoscenza

intima che il Pascoli aveva della letteratura classica è troppo nota per richiedere illustrazioni. Nella pastorale tradizionale, agli inizi del genere almeno, in poeti come Teocrito, l’incontro

con

la natura

vero

questo

era

solito

produrre

in qualche modo

anche

un

effetto

ristoratore.

E'

per « Novembre »? Poesia

347

che a prima vista sembra lasciare nel lettore un'impressione tetra, desolata e estremamente negativa, sebbene il suo significato ultimo sia, penso che sarete d’accordo in questo, alquanto sfuggente ed elusivo. Il componimento blicato

per la prima

che ora s'intitola « Novembre » fu pubvolta

nel febbraio

del

1891,

sulla

rivista

fiorentina Vita nuova, insieme ad altre cinque poesie, in un gruppo dal titolo complessivo di « Frammenti ». Tutti i testi del gruppo, con l’eccezione dei « Tre versi dell’Ascreo », un epigramma gnomico di derivazione esiodea che doveva trovare la sua eventuale sistemazione nella sezione myriciana dei « Pensieri », rimangono insieme nella raccolta definitiva, entrando a far parte

di una rubrica più nutrita, comprendente ora diciotto brevi liriche, e intitolata « In campagna ». Secondo la struttura ciclica così tipica del Pascoli, questi diciotto componimenti sono disposti in modo da seguire le stagioni e i mesi, i giorni e le opere dell’anno rustico -- le stazioni, se volete, del progresso - regresso del contadino (e del poeta), lungo la sua via crucis. Tanto risulta

già dai titoli calendariali di parecchie delle poesie, che vanno dalla « Domenica dell’ulivo » (l’ultima domenica di marzo), alla « Canzone d'aprile », alla « Sera d’ottobre », per approdare finalmente a « Novembre ». Nelle prime quattro edizioni di Myricae (fino cioè al 1897),

« Novembre » precede « Il piccolo bucato » e costituisce il penultimo componimento di questo ciclo. Nella quinta edizione (1900), la posizione dei due componimenti viene invertita, e « Novembre » diventa così l’ultimo del gruppo « In campagna ». Si sa che il Pascoli fu un insistente e ossessivo sistematore delle sue puntuali intuizioni in strutture (e pseudostrutture) sempre più ampie e comprensive. La desolata visione di « Novembre » chiude il movimento del ciclo in modo tempo, gli avvenimenti di questo testo

definitivo; allo stesso particolare forniscono

una breve epitome o compendio della fuga dell’anno pastorale dalla promessa illusoria di una idillica primavera alla fredda realtà della morte dell’inverno. Un po’ alla stessa funzione, sia detto per inciso, assolve la prima poesia del gruppo « Il vecchio dei campi » (« Al sole, al fuoco, sue novelle ha pronte »), dove il

sole e il focolare sono metonimie stagionali, alludendo anch'essi alla ruota ineluttabile dell’anno.

348

Non sorprenderà nessuno il fatto che la sezione che succede a « In campagna », e che incontriamo subito dopo « Novembre », s’intitoli « Primavera » -- un nuovo gruppo di cinque sonetti -- seguita a sua volta dalla magnifica andatura roteante del pezzo da antologia « Germoglio » (« La scabra vite che il lichene ingromma »), in cui la natura a tutti gli effetti morde la propria coda, in un gesto verbale che il poeta trova moralmente inquietante, ma anche in qualche strano modo rassicurante. Possiamo notare qui che, sia al livello intertestuale che a quello del

singolo testo, c'è in Pascoli un sistematico progetto di sovversione del tempo lineare, e un tentativo di sostituire ad esso un tempo

per così dire « curvo », un tempo «rivoluzionario », il tempo della natura e del mondo disumano, un tempo vegetale. Nel mondo della natura vegetale, rivoluzioni e nuovi esordi innocenti (vite nuove) non solo sono possibili, sono la legge.

Prima di andare più avanti, non sarà forse inutile richiamare alla vostra memoria, anche se si tratta quentatissimo, il testo in questione:

di un

luogo

fre-

Novembre Gemmea l’aria, il sole così chiaro che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, e del prunalbo l’odorino amaro senti nel cuore... Ma secco è il pruno, e le stecchite piante di nere trame segnano il sereno, e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante sembra il terreno. Silenzio, intorno: solo, alle ventate,

5

odi lontano, da giardini ed orti,

di foglie un cader fragile. È l’estate, fredda,

Questa

breve performance

fanica. Si muove,

dei morti.

pastorale ha una

quasi manieristicamente,

verso

struttura

epi-

la sua chiusura

in una pointe concettosa. L’epifania verso cui si muove è una epifania apparentemente chiusa, uno gnomo sterile, non produttivo,

una

ennesima

formulazione,

sembra,

di

quella

assenza

che sta al cuore di una illusoria presenza, della vanità intima dell’apparente pienezza, che il poeta è ossessivamente costretto a riscoprire e a riannunciare volta per volta.

349

Non occorre studiare gli abbozzi delle Myricae -- finalmente offerti allo scrutinio del critico degli scartafacci nella esemplare

edizione curata dal collega Giuseppe Nava -- non occorre, dico, un discorso a quella testimonianza extra o pre-testuale per capire che quel punto di arrivo fu in verità per il poeta il punto di partenza (anche se è una ipotesi questa che la storia delle varie stesure del testo conferma in modo inequivocabile e concludente). La prima stesura riportata dal Nava nella sua edizione critica degli appunti - il foglio da lui segnato CP 98 - contiene, dopo una sequenza di annotazioni prosastiche in cui la scena viene evocata nei suoi particolari, un primo tentato abbozzo della stanza conclusiva, in cui l’ultimo paradossale enjambement (« È l’estate, / fredda, dei morti ») è già presente, perfettamente

nucleo

articolato,

originario

a

cavalcioni

sugli

di « wit » metafisico

ultimi

due

versi,

che ha generato

il

tutto

il resto. La parola « estate » è, come avrete notato, l’unica parola

di questo testo che suggerisca calore e conseguentemente conforto. Viene però immediatamente spogliata di questa qualità che la contraddistingue -- ma non necessariamente, vorrei suggerire, della sua connotazione positiva -- dall’aggettivo « fredda » all’inizio

del verso

seguente.

La

« e » tonica

di « fredda », con

il prolungamento delle consonanti doppie, fanno per così dire rima, sulla soglia del verso conclusivo, con il frigido « gemmea » collocato in apertura prima parola del primo verso, all’inizio del componimento. Per via della virgola e dello spazio vuoto che separa « estate » da « fredda », preferisco parlare di paradosso piuttosto che di ossimoro. Attraverso « fredda » anche l’allitterante « fragile » comunica retrospettivamente le sue connotazioni nega-

tive di evanescenza al trionfante « gemmea » iniziale, scoprendo la precarietà e la vulnerabilità che facevano parte integrante della ricca visione sin dall'inizio. Adesso vediamo ciò che il paradosso ha generato. Per evitare che la mia tesi vada perduta di vista nei particolari, vorrei dire sin da ora che una parte importante di essa è che il testo non si muove inesorabilmente verso una pura negazione, come a me pare abbiano concluso, sia pur ammirativamente, quasi tutti i commentatori precedenti. Io invece trovo nella poesia, oltre ad una pars destruens diabolicamente

orchestrata, una ancora più sottile pars construens, in cui il poeta mi sembra suggerire una via d'uscita da questa sua

350

impasse, una via peculiare forse, ma una via che si addice alla peculiare psicologia del poeta, una via d'uscita che permette a questo incontro con la natura di offrire, in un certo senso, qualcosa di quel potere ristoratore che abbiamo visto associato tradizionalmente con il genere pastorale. La mia lettura, dunque, terrà conto dei diversi momenti, che corrispondono alle tre stanze in cui il testo è diviso, separate l’una dall’altra dalla punteggiatura. La prima stanza finisce con quei punti di sos-

pensione che sono praticamente lo hallmark o la firma d’autore del Pascoli, che attirano la nostra attenzione sul non detto, sul silenzio che intercorre tra la prima e la seconda stanza. La seconda finisce con un punto fermo. È abitudine dei critici-lettori di trascurare questa seconda interruzione -- abitudine a mio avviso sbagliata -- e di leggere il testo come se fosse diviso in due parti: la prima stanza e il resto. Io invece ne distinguerei tre.

Potreste

chiamare,

volendo,

questi

tre

momenti

« tesi »,

« antitesi », e « sintesi ». Io li ho chiamati « anticipazione », « perturbazione », e « risoluzione ». L'unico attore umano nel testo (o se preferite « attante ») è un non altrimenti specificato « tu » (« mon semblable, mon frère »), le cui azioni, o meglio reazioni -- guardare, fiutare, ascol-

tare -- sono dettate dal poeta (« tu ricerchi », « senti », « odi »). Lui è (io sono?) presente nella prima strofa e nell'ultima, anche se lo statuto della sua presenza-assenza è, come cercherò di suggerire più avanti, radicalmente diverso nei due casi. La strofa intermedia è completamente occupata dalla fenomenologia « obiettiva » di una natura « terribile ». La caratterizzazione che Roland Barthes dà dello statuto degli oggetti del mondo naturale nella poesia moderna si applica perfettamente al paesaggio pascoliano: Le discontinu interrompue

du nouveau qui

ne

se

langage

révèle

que

poétique par

blocs.

institue AU

une

moment

Nature même

où le retrait des fonctions fait la nuit sur les liaisons du monde, l'objet prend dans le discours une place exhaussée: la poésie moderne est un poésie objective. La Nature y devient un discontinu d'objets solitaires et terribles, parce qu'ils n’ont que des liaisons virtuelles; personne ne choisit pour eux un sens privilégié ou un emploi ou un service, personne ne leur impose une hiérarchie, personne ne les réduit à la signification d’un comportement mental ou d’une intention, c'est - à - dire finalement d’une

351

tendresse... la Nature devient une succession de verticalités, l’objet se dresse tout d’un coup, empli de tous ses possibles: il ne peut que jalonner un monde non comblé et par lui-même terrible. (Roland Barthes, Le degré zéro de l'écriture, Paris, Editions du Seuil, 1953, pp. 72-73).

Il « Novembre » pascoliano emerge ex abrupto dal silenzio con la prolungata accentata esclamativa prima sillaba della parola « gemmea ». L'attacco dattilico, il soffermarsi sulla « m » geminata, insieme alla soppressione del verbo copulativo, danno un tono esultante, interiettivo a questa apertura -- come

se chi

parla avesse cercato a lungo il mot juste capace di chiudere in sé la straordinaria qualità dell'atmosfera. Questa impressione di una ricerca protratta, a cui segue la commozione eccitata di di una subitanea illuminazione è, tra l’altro, pienamente confermata, ancora una volta, dalla testimonianza degli abbozzi, dove si può notare -- anche se può essere arbitrario isolare questo

singolo aggettivo dal contesto dell'intero verso, considerare la scelta di una parola particolare prescindendo dai cambiamenti ugualmente importanti nell'ordine delle parole, quando questi cambiamenti incidono ovviamente anche loro sull’intero contesto -- si può notare, dicevo, una evoluzione, che va dalla frase

di partenza « il cielo azzurreggia » a « l’aria cristallina » a « azzurro è il cielo » a « l’aria è gemmante, » prima di approdare alla definitiva convinzione di « gemmea ». Ci sarebbe molto da csservare

a proposito

di questo

aggettivo, ma

è mia

intenzione

in questa sede risparmiarvi molto di quel molto. La glossa del Grande Dizionario di Battaglia lo definisce « simile a gemma, che splende come gemma; terso, trasparente ». Basterà qui la costatazione che si tratta di un aggettivo peregrino squisitamente

letterario e che non compare con frequenza prima dell’inoltrato Ottocento, quando sembra sia stato rimesso in circolazione dal Carducci. La sua preziosità letteraria -- e anche letterale: non dobbiamo dimenticare la innegabile preferenza presso i simbolisti europei, tra gli altri accessori della decadenza, per le pietre preziose e le gemme - questa preziosità non poteva non esercitare il suo fascino su quella coppia più o meno fraterna che furono il Pascoli e Gabriele D'Annunzio. Non è il caso di insistere troppo qui sul fatto che le connotazioni di « gemmea »

includono bensì quelle di luce e di luminosità, ma hanno poco o niente da offrire in fatto di calore.

352

Uno dei modi in cui la prima stanza si oppone alla seconda è precisamente attraverso questo paradigma di luce, luminosità, lucentezza, bianchezza. Il paradigma include l’aggettivo in questione, ma anche « chiaro », l’allusione agli « albicocchi in fiore » (i fiori dell’albicocco sono bianchi o bianco - rosa), e poi « pru-

nalbo »

(in italiano

« hawthorn »,

ma

normalmente anche

« biancospino »;

« whitethorn »). Policarpo

in

inglese

Petrocchi

mette la parola « prunalbo » a piè di pagina tra le parole « fuori d'uso » nel suo Nòvo Dizionario Universale (Milano, 1912), dandone una definizione singolarmente antipascoliana -- se pensiamo alle osservazioni del Pascoli sulle rose e viole leopardiane - lo definisce « sorta di pianta »! « Prunalbo » è parola composta di due elementi, « pruno » e « albo » (dal latino albus, bianco). Una

variante ligure attestata vicino al confine francese è « albispino », più vicino al francese « aubépine », che, se dovessimo inseguirlo molto più oltre, ci porterebbe forse a Proust e ai biancospini di Combray,

alla memoria

involontaria, e aux intermittences

du

coeur... e così di nuovo al Pascoli, visto che questo è il tema anche di questa poesia, o almeno di questa parte della poesia. Per ora, permettetemi

di attirare la vostra

attenzione

su come

l'albo (=albus) di « prunalbo », etimologicamente corretto, ci inviti ad interpretare anche l’a/bi- di « albicocchi » come un simile indice verbale di bianchezza. Per essere precisi, « albicocco » è acquisito all’italiano dall'arabo al-barquq, dove al rappresenta l'articolo, mentre il secondo elemento era originariamente il latino praecoquus (= precoce). Una volta, però, che la parola è stata così divisa, che cosa ci impedisce di fare, con le nostre etimologie poetiche, qualche passo più in là, leggendo anche nel secondo

elemento

di « albicocchi » (cioè, -cocchi)

lo stesso

paradigma di bianchezza, sia che lo interpretiamo come il bianco interno della « noce di cocco », sia, in maniera per me più convincente, come il bianco del guscio dell'uovo (« Ecco un cocco, un cocco per te! » dice la gallina di un’altra poesia). Ma non voglio insistere su questo punto. Voglio soltanto sottolineare un’altra volta un concetto ormai pacifico, che la lingua poetica, o la funzione poetica della lingua, crea dei significati, e che

dobbiamo considerare le parole di un testo poetico nel loro contesto, nel particolare sistema di cui fanno parte. Nella prima stanza l'atmosfera è di anticipazione positiva. Nel corso della poesia quest’anticipazione si rivela come illu-

353

da soria, come contenente i semi della propria dissoluzione. Ma già il ricordo del prunalbo è un ricordo dolce amaro. Se il paradigma di bianchezza (cioè, di affermazione, di promessa, di presenza, di pienezza) viene sostituito nella seconda stanza dal paradigma di nerezza (di negazione, cioè, di rifiuto, di assenza,

di vacuità), i segni erano già invertibili, uno implica sempre l’altro, come succede in qualsiasi sistema che si fondi su una opposizione binaria. Il bianco, e non il nero, è in molte culture, il colore della morte e del lutto. La seconda stanza dunque introduce quello che io chiamo il momento della perturbazione. Si apre con una congiunzione avversativa, quel « ma » che Arturo Onofri in una sua lettura della poesia indicò come «un ma sinfonico, che trasforma la sensazione precedente, illusoria, in un’altra contraria, nettissima,

reale ». La sintassi del periodo, senza ipotassi, non potrebbe essere più piana e diretta. Quattro membri, più o meno brevi, s'inseguono, ognuno (a parte il terzo, «e vuoto il cielo », che non contiene un verbo) capace di stare da solo come una frase completa. Il « ma » ci invita a ricapitolare, a guardare indietro verso la prima stanza, e a notare le identità e le differenze. Nel chiastico primo verso

del testo --

« Gemmea

l’aria, il sole così

chiaro » -- i verbi copulativi venivano omessi; qui sono intenzionalmente espliciti, rallentando sinistramente il movimento del verso. Contribuiscono

all’effetto di un lento, angoscioso, ma

inesorabile spoglio dei fenomeni anche le congiunzioni scrupolosamente ripetute prima di ognuna delle frasi costituenti (« Ma... e... e... e... »). Gli aggettivi, predicativi o attributivi, sono costantemente

(con l'eccezione

di « sonante ») anteposti,

cadono

sempre sotto l'accento metrico. La loro equivalenza semantica, in un contesto di patterns allitterativi quanto mai complessi, viene sottolineata mediante la ripetizione di sillabe che si riecheggiano (secco - stecchite, vuoto -- cavo). Tutto questo contribuisce a creare una

devastante

accusa, una

gelida litania del-

l'assenza. « Secco pruno » -- « stecchite piante » -- « nere trame » - «vuoto cielo » - « cavo terreno » -— « piè sonante ». Non c’è sostantivo (e ce ne sono sette in questi tre versi e mezzo) che

si sottragga al suo epiteto corrosivo e annientatore. E « il sereno »? forse chiederete. Il caso è particolarmente interessante, perché invece di appiccicare anche a quest’aggettivo sostantivato, che potrebbe perfino sembrare un ritorno alla confidente attesa della prima stanza, un suo succubo nella specie di un aggettivo

354

che lo vuotasse di ogni immanenza di promessa, il testo gli fa confessare da sé il proprio carattere illusorio, svelando il fatto che sereno contiene già dentro di sé la propria negazione, mettendolo cioè in parallelo, all’inizio del verso, con la parola nere,

fortemente accentata. Le lettere di nere, come chiunque di voi sappia leggere l'ebraico avrà già notato, si presentano invertite nell’identica positura metrica all’interno della parola « sereno »,

se compitiamo da destra a sinistra invece che da sinistra a destra,

come

normalmente

facciamo.

È ancora «sereno » a fornire una spia dell’ambiguità semantica della sua parola-rima « terreno ». È difficile escludere in modo categorico la possibilità di leggere « terreno », non solo come derivato del sostantivo neutro latino terrenum (e dunque indicante qui «il suolo »), ma anche come aggettivo sostantivato, a somiglianza di « sereno ». « Il terreno » verrebbe allora a significare « le cose di questa terra », « le cose terrestri », con

tutte le ormai proverbiali connotazioni negative accumulate da una tradizione plurisecolare di atteggiamenti stoici e cristiani. In questo modo il risuonare del suolo gelato sotto il piede si fa emblematico

del vuoto

delle cose

terrestri,

dell’infinita

vanità

del tutto. Inoltre, la scoperta di questa dimensione normale nel fisico « terreno » non può non proiettarsi all'indietro su quell'altro sostantivo con cui è stato messo in parallelo, cioè « cielo ». Le allusioni esplicite ad uccelli e a canti d’uccelli nei primi abbozzi (« Tu aspetti nelle vigne la voce del cucco », « Non c’è nel campo né stornello né gorgheggio », « qualche tintinno di pettirosso; un rombo di stormi fuggenti ») ci porta a

concludere che originariamente « vuoto il cielo » doveva esprimere, per così dire, un rimpianto ornitologico. Con l'accoppiamento biblico, però, di « cielo e terra », il rimpianto diventa teologico. Se « terreno » vuol dire « suolo » ma anche « le cose di questo

mondo », il significato

secondario

di « cielo » viene anch’esso

potenziato. Il cielo divino, dunque: « heaven » e non semplicemente « sky ». Siamo lontanissimi ormai dall’apparente ottimismo di un Browning (l’altro poeta di Montale!) che disse « God's in his heaven, / All’s right wlth the world.» (« Dio sta nel suo cielo,/ Tutto è bene nel mondo »). Qui abbiamo, meno drammatica forse, più terra terra, ma non meno desolante, la rivelazione de Il lampo: « E cielo e terra si mostrò qual era: / la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto... » Il

359

significato della poesia Il lampo, come ha dimostrato Giuseppe Nava, acquista ben altro rilievo se messo accanto a un passo che appartiene ad una stesura scartata della prefazione alla seconda edizione di Myricae. Il passo rievoca gli ultimi istanti di vita del padre assassinato. La mano va istintivamente alla fronte fracassata. Il sangue sgorga dalla ferita macchiando il simbolo del suo essere marito e padre, il suo anello

(più tardi

oggetto di una venerazione feticista tra i figli superstiti, la cui perdita nell'Adriatico è lamentata dal poeta nella poesia L'anello): I pensieri che tu, o mio padre benedetto facesti in quel momento, in quel batter d’ala - Il momento fu rapido... ma i pensieri non furono brevi o pochi. Quale intensità di passioni! Come un lampo in una notte buia buia; dura un attimo e ti rivela tutto un cielo pezzato,

lastricato,

squarciato,

affannato,

tragico;

una

terra

irta,

piena d’alberi neri che si inchinano e si svincolano, e case e croci -

« E cielo e terra si mostrò qual era »! Sul punto di morire, nel momento della verità, ogni mito consolatorio esplode, e l’univer-

so (« cielo e terra » - che qui regge un verbo al singolare -- è una locuzione che, secondo i vocabolari, significa « L'universo intero »), l'universo si rivela in tutta la sua tragica assurdità. « E

vuoto il cielo, e cavo al piè sonante / sembra il terreno ». Ci viene in mente l'amaro epigramma di Valéry: « Dieu a tout fait de rien, mais le rien perce ». La transizione al terzo momento,

il momento

della risolu-

zione, si effettua, credo, in parte tramite il « piè sonante » del verso 7, quel piede reificato, unico campione superstite delle disjecta membra di un corpo fatto a pezzi (« le corps morcelé »), il piede che riecheggia proclamando la vanità delle cose della terra, l'assoluta inadeguatezza del mondo fenomenologico a ripagare il desiderio umano. Il cielo è vuoto e la terra vanità.

Una scena che sembrava nella prima stanza offrire pienezza e presenza frutta ormai solo assenza e disperazione. Ma di chi è questo piede? e in che rapporto sta col «tu» che subisce quest'esperienza? Lo statuto del piede è vago, e dalla seconda stanza il «tu » è rigorosamente escluso. Gli echi della seconda stanza si spengono, e la terza ed ultima stanza si apre con il... « silenzio ». Un silenzio così totale che richiede per la sua affermazione un mero sostantivo nudo. Può fare a meno della cerimonia di un verbo. Il resto è infatti silenzio; e il rumore fragile delle foglie che cadono con le lievi raffiche di vento

356

(« Come le generazioni delle foglie, così sono quelle degli uomini » disse il bene amato Omero) ci viene da molto ma molto lontano -- « lontano » è qui la parola chiave - da giardini ed orti la cui distanza da noi non è più orizzontale ma verticale. E spero che qui mi seguirete, perché il passo è cruciale alla mia tesi, al modo in cui il poeta riesce a derivare una certa -- perversa, se volete -- consolazione dalla sua spedizione pastorale verso la natura. Nella stanza finale, siamo invitati ad unirci al « tu » attante in una dimensione dove la morte di Dio e la nostra angosciosa alienazione dal mondo della natura non può più toccarci. Questa è la nostra fredda estate. Siamo, se la mia lettura della strategia del testo è corretta, con i morti, i morti disumani (i morti del Pascoli sono sempre disumani) nel loro regno ctonio, una dimensione di potenzialità, « la nature naturante », dove si

genera la natura fenomenologica e impenetrabile. Essere con i morti dunque vuol dire far parte della natura, far parte integrante del suo processo che non conosce fine, parte del suo elementare caos sotterraneo, essere perciò paradossalmente in qualche modo fissi, duraturi, non più vulnerabili e perituri. Gli uomini hanno le loro stagioni, il loro breve intervallo di vita. I morti sono sicuri, perché non cambiano più. Per il « tu » iniziale, ingannato da un ricordo scattato accidentalmente, e che

costruisce su quella base la fantastica ricreazione di una stagione passata e effimera, questa estate novembrina è una illusione che ci vuol poco a mandare in frantumi. Per il «tu» finale, che ode da lontano gli smorzati rumori del mondo, per lui che ha scelto di condividere il destino dei morti, è una vera estate. E'

abituato al freddo. Ci sono dei versi di una poesia di Wallace Stevens (un poeta i cui giocattoli sono notoriamente più metafisici di quelli del Pascoli) il cui attacco colpisce a prima vista come stranamente vicino a quello della poesia che abbiamo terminato di leggere: Today the air is clear of everything. It has no knowledge except of nothingness And it flows over us without meanings, As if none of us had ever been here before And are not now:

in this shallow

spectacle,

This invisible activity, this sense.

354,

[Oggi l’aria è chiara, sgombra di tutto. Non ha conoscenza se non del nulla e fluisce sopra noi senza significati, come se nessuno di noi ci fosse mai stato prima e non ci fosse ora: in questo spettacolo a fior di pelle, questa attività invisibile, questo senso].

La poesia di Stevens può essere di grande utilità euristica, perché, se l'occasione può sembrare simile, le conclusioni sono totalmente diverse da quelle del Pascoli. Anche Stevens osserva l'indifferenza della natura, il suo recalcitrare davanti ai significati che noi vorremmo attribuirle, il suo rifiuto di venirci incontro sul nostro terreno. Ma il poeta americano è capace di trascendere il suo senso di esclusione, di andare al di là della

protesta e della fuga e verso l’umile accettazione del dato. La sua poesia registra un raro momento di armonia e di comprensione, ma, più di questo, scopre ed afferma la condizione di quella comprensione. Stevens raggiunge questa sua intuizione perché per una volta si avvicina alla natura con la mente tran-

quilla e senza paraocchi petrarcheschi, senza insistere, cioè, che la natura condivida i suoi rapimenti e gli offra delle consolazione. Ho barato un poco citando la seconda metà della poesia di Stevens senza citare la prima. La lirica è intitolata « A Clear Day and No Memories » (« Una giornata chiara senza ricordi »), titolo che contiene già in sé tutto un programma. I primi sette

versi, che prima avevo saltati, dicono così : No soldiers in the scenery, No thoughts of people now dead, As they were fifty years ago, Young and living in a live air, Young and walking in the sunshine, Bending in blue dresses to touch something. Today the mind is not part of the weather. [Nessun soldato nel paesaggio, nessun pensiero di gente ora morta, come

erano cinquant’anni fa, giovani e viventi in un'aria viva, giovani camminando nel sole, chinandosi in vestiti azzurri a toccare qualcosa. Oggi la mente non fa parte del tempo].

358

« Oggi la mente pon fa parte del tempo. » Perché è la mente che ci crea problemi. Se solo la mente non volesse sempre interferire inframettendosi con i suoi ricordi importuni e i suoi desideri irragionevoli. Se solo potessimo avvicinare la natura senza storpiare i suoi significati, cercando di tagliarli sulle misure

delle nostre attese, facendo di lei uno specchio benevolo o ostile. La natura potrebbe bastare. Se noi volessimo accettare la natura per quello che è -- la cosa in sé -- allora lei ci potrebbe comunicare «un

senso ». Le puntate

pascoliane

verso

la natura

sono

appro-

priative, le sue esigenze forse eccessive, i suoi sentimenti di tradimento e di esclusione tanto più forti quanto più assoluto (e ingiustificato) il suo abbandonarsi a lei madre. « Oh lasciamo fare a lei (« alla natura madre dolcissima »), che sa quello che fa e ci

vuol bene ». Per il Pascoli, in altre parole, la mente fa sempre e inevitabilmente parte del tempo.

539

ETTORE

PARATORE

LA CRONOLOGIA DEI CARMINA PASCOLIANI E IL SUO SIGNIFICATO

Chiedo scusa agli ascoltatori se anche stavolta, come

venti

anni fa, mi restringo a considerare solo le tre fondamentali sezioni del Carmina, il Liber de poetis, le Res Romanae, e i Poemata Christiana, tralasciando sia i Ruralia sia i Poematia et epigrammata, circa la cui composizione non v'è stato mai dubbio ch'essa rimonti ai primi anni d'attività poetica del Pascoli, e per alcuni di essi precorra di non poco la stesura di versi italiani. Le tre maggiori sezioni che, a parte le pubblicazioni avvenute ad Amsterdam di singoli carmi premiati, videro la luce in volume parecchio tempo dopo i volumi contenenti le sezioni della poesia pascoliana in italiano, hanno dovuto subire a lungo il pregiudizio dei critici che si son fondati sulle date di pubblicazione dei singoli volumi per postulare un’arbitraria e cervellotica evoluzione della poesia pascoliana dalle Myricae ai Carmina latini come progressivo snaturamento dell'originale tendenza epigrammatica, alessandrina del Pascoli a cogliere un brivido, un palpito passeggero ricco di singolare significato fino a trascendere verso le mal digeste ambizioni del carme lungo, che nel caso dei Carmina latini avevano pure l'aggravante d’essere composti in una lingua morta. Credo d’avere avuto il merito, sulle orme del Petrocchi (!), d'aver definitivamente sfatato quest'insostenibile criterio di giudizio, mostrando, sia ne La poesia latina del Pascoli (), sia in Una nuova analisi della poesia latina del Pascoli (*), che la poesia latina dei Carmina

nacque

contempora-

(1) Poesia e gusto del Pascoli latino, in Letteratura, settembre-dicembre GIOVANNI PASCOLI poeta di Roma, in Studi romani, 1962, p. 269 sgg. (2) In

Antico

(3) In Moderni

e nuovo,

Caltanissetta,1965,

e contemporanei,

Firenze

p.357

1955,

p.

52;

sgg.

1975, p. 129 sgg.

361

neamente a quella di Myricae, ma, essendo stata ricavata più direttamente dai modelli classici su cui si temprò la vena poetica del Pascoli, rappresentò costantemente il telaio formativo di ogni sua conquista artistica. Ho anche teso a mostrare che il Pascoli era tanto più legato alla tradizione latina classica a quella poetica italiana, da considerare

che non

più che altro

lingua morta la lingua della tradizione poetica volgare (*), mentre le prime conquiste del suo linguaggio rigeneratore egli le raggiungeva elaborando spunti e suggestioni dei poeti latini a lui più familiari perché più ricchi di moderni atteggiamenti e contenuti. Fondandoci pertanto sulla cronologia notiamo che il primo poemetto

di cui dobbiamo

tener conto è Veianius, composto

nel

1891 e già premiato con medaglia d’oro e pubblicato ad Amsterdam nel successivo 1892. Fu cioè questo guadagno, insieme con quello delle medaglie d’oro conquistate con Phidyle, con Cena in Caudiano Nervae, con Reditus Augusti e con Sosii fratres bibliopolae, a consentire al Pascoli di comprarsi la casa di Castelvecchio. Veianius appartiene al Liber de poetis, mentre il succes-

sivo Gladiatores (1892) appartiene alle Res Romanae.

I Poemata

Christiana - che non per niente rappresentano la più alta conquista della poesia pascoliana, e sviluppano quanto nei carmi precedenti è sottinteso e presupposto - non cominciarono dere la luce se non nel nuovo secolo; e ora che abbiamo

a vescar-

dinato e rovesciato il pregiudizio che la poesia pascoliana decada dagli istantanei sospiri di Myricae alla faticosa stesura del carme lungo, possiamo aver la soddisfazione di additarne il vertice

all’ultimo,

nei carmi

latini

d'ispirazione

cristiana,

con-

clusione di un orientamento ch'era cominciato a un parto con le Myricae. Notiamo subito una singolarità: Veianius è composto di soli 100 versi, rappresenta il secondo in lunghezza dei carmi delle tre sezioni, dopo i 78 versi di Veterani Caligulae del 1894, mentre il successivo Gladiatores coi suoi 551 versi è il più prolisso dei Carmina, a meno che non vogliamo prendere in considerazione i due inni celebrativi del cinquantenario del 1911, i 669 versi dell’Hymnus in Romam e i 615 versi dell’Hymnus in Taurinos, che del resto noi tralasceremo, come produzione questa, sì, occasionale e di maniera, tanto che l’autore, per facilitarne la (4) Nota quanto osservo in Antico Pascoli: il lessico, Padova 1961, p. 16.

362

e nuovo,

p. 397, da

A. TRAINA,

Saggio

sul

latino

del

diffusione, provvide egli stesso a fare una versione italiana dell'Hymnus in Romam e compose quello in Taurinos contemporaneamente

in latino

l'indole di carme

e in italiano.

di circostanza

come

resto,

a caratterizzare

scritto per un concorso

nale patriottico, che ha l’Hymnus

tolineare occasum Per riuscì a

Del

in Romam,

nazio-

è sufficiente

sot-

che buona parte dei suoi versi è trascrizione di Post Urbis (). tornare ai Gladiatores, esso con la sua prolissità non replicare il successo di Veianius, ma non fu escluso,

è stato

arbitrariamente

nel 1893 la magna

ripetuto

laus ad Amsterdam:

da molti,

bensì

ottenne

dei carmi pascoliani gli

unici a non aver ottenuto menzione nel Certamen Hoeufftianum furono Veterani Caligulae nel 1895 e Chelidonismos nel 1898. Veianius rappresentava all’inizio la forma più elementare, più casuale di collegamento coi poeti ispiratori dell'età augustea: due versi della prima epistola oraziana, i vv. 4-5, Veianius armis /

Herculis ad postem fixis latet abditus agro, suggeriscono il tema del componimento. Il Pascoli, secondo la sua tecnica preferita, fa rivivere al gladiatore in ritiro le turbinose, agghiaccianti vicende della sua esistenza sotto forma di sogno. Quando si sveglia, si trova di fronte proprio Orazio che scherza sul suo profondo russare.

Il Pascoli,

sulla

base

dello

spunto

delle

Epistole,

ha

immaginato che il campicello di Veianio fosse attiguo a quello di Orazio. Tutto qui il ricollegamento col mondo prediletto dalla fantasia e dalla cultura del Pascoli, anche se sembra che il poeta volesse aggiungere al carme Dedicationes, alcune delle quali poi composte a parte. Con Gladiatores vediamo il poeta insistere sul mondo ove più si esercitava la crudeltà, l'aspetto meno cristiano delle res Romanae: il mondo dei gladiatori. Egli ha voluto sviscerarne tutta la durezza, facendo narrare ai tre protagonisti, e specie al terzo, tutto l'orrore della loro tetra esistenza. Uno solo dei

sentimenti connaturati al mondo poetico e ideologico del Pascoli, la maternità, viene in luce con palpitante effusione. Ma la chiusa

riconduce brutalmente alla situazione di spietato servaggio sotto cui gemono i popoli oppressi. Il presagio di Cristo, che sarà tanta parte nei poemi successivi, vi traluce kat'&vtippaow dal (5) Cfr. nell’edizione mondadoriana, Pallas di Post occasum Urbis (p. 654).

Milano

1962,

le note

del

traduttore

O. TESCARI

363

a

fatto che tre, come sopra una rupe:

sul Golgota, sono i crocifissi che agonizzano

Nuda fuit rupes; nudae tria rupis in ipso vertice ligna rigent : illinc tria corpora pendent cruribus effractis vi distentisque lacertis.

« Nuda è la rupe; proprio sul vertice della rupe nuda tre

legni si ergono

immobili:

da quelli pendono

tre corpi con

le

gambe spezzate, con le braccia violentemente distese » (*). E’ la conclusione della rivolta di Spartaco, cui i tre gladiatori han preso parte. Ancora poco familiarizzato con la tecnica del poemetto (e ciò conferma quanta della miglior parte di sé il Pascoli dedicò in un assiduo perfezionamento a quest’aspetto fondamentale della sua poesia, aspetto capitale con buona pace dei fanatici delle Myricae), il poeta s'è voluto dilungare nella descrizione di tutti i prodromi e gli avvii della situazione conclusiva, dipingendo per esteso tutta la vicenda terrena dei tre sciagurati protagonisti. In Veianius ha fatto grandeggiare isolato il momento paurosamente onirico della situazione umana del personaggio, riuscendo, in un contesto molto più breve, a dare un sunto anche di quella vita. I due inizi, pur in tanta diversità d'estensione, sono quindi analoghi e puntano entrambi sulla durezza del dominio romano, visto in tutte e due i casi solo come fonte di male, nient’affatto provvisto di quelle nascoste propensioni a una sacrale palingenesi, almeno negli spiriti su-

periori, quale il Liber de poetis, a cominciare da Reditus Augusti, ci farà intravvedere. In Veianius l'intervento di Orazio, almeno nelle confidenziali, amichevoli parole che il poeta rivolge all’ex gladiatore,

divenuto

suo

vicino

nelle

cure

agresti,

è ciò

che

soltanto addolcisce la truce pesantezza del ricordo; e forse ciò che dispose i giudici di Amsterdam a dare il primo premio al carme,

fu questo tocco

serenatore

finale, ricco

di un

futuro

che allora nessuno poteva prevedere, dato che i grandi Carmina di tono

naturaliter

cristiano

non

erano

stati ancora

composti.

Per fortuna il poeta non ricadde più nella torrenziale mania descrittiva dei Gladiatores, che invece torna spesso nelle liriche e nei poemetti in lingua italiana e dimostra perciò come proprio la sapienza strutturale, la bilanciata calibratura dei mi(6) Versione

364

di ALESSANDRO

PEROSA.

gliori Carmina latini ci dia l’espressione più lucida, più sobria e più incisiva della grande arte pascoliana. L'estensione dei Carmina si fissò dai 140 ai 190 versi per ciascuno di essi; capolavori come

(cito sempre

nell'ordine

cronologico)

Centurio,

Se-

nex Corycius, Paedagogium, Ultima linea, Rufius Crispinus, Ecloga XI, Thallusa conservano rigorosamente questa norma di classica concisione e nitidezza d'impianto. Dopo d'allora solo Veterani Caligulae si restrinse a una durata molto inferiore, consona al suo pizzicare nervosamente alcuni particolari distintivi, sino a far balenare alla fine la figura dell’uccisore dell’imperatore, Cassio Cherea. Più in là si spinsero Fanum Apollinis, coi suoi 233 versi, che infatti indulge un po’ troppo a quel gusto delle cose che è essenziale della poesia pascoliana (), Pomponia Graecina, coi suoi 302 versi, che, sia pure sopra un piano d'’infinita maggior commozione poetica, ripercorre tutta una lunga storia d'anime, Moretum (242 versi), che indugia con delizia sulla

sodalitas fra Mecenate e i poeti e su tocchi letterari come quello del componimento dell’Appendix che dà il titolo al carme, e da ultimo Post occasum Urbis, che vuol essere anch'esso un grosso (319 versi) quadro storico, diviso in tre parti, che dipinge come i Gladiatores una vicenda di rovina (*). Rimangono due componimenti, Catullocalvos (328 versi) e Fanum Vacunae, il più vicino in lunghezza a Gladiatores (421 versi), che son dedicati alla tecni-

ca poetica di due artisti classici prediletti dal Pascoli, Catullo e Orazio. Saturae li chiama il Traina nel commento che ne ha fatto (°); ed essi vogliono essere una specie d'inventario metrico

dei carmi dei poeti protagonisti ed una serie suggeriscono al poeta moderno sottoponendosi sottilissima smaterializzazione simbolica con atti a esprimere i più moderni palpiti: basti di Circe e di Anticlo in Catullocalvos;

quanto

acutamente

dice il Traina

dido suggello » della tematica

dei temi ch'essi naturalmente alla cui egli li rende pensare ai carmi

e di Fanum

Vacunae

('), definendolo

« uno

basta

splen-

familiare al Pascoli, sì

oraziana

che il poemetto, pur essendo « cronologicamente sfasato rispetto

(7) Cfr.

(8) linea e la terza (9) (10)

A.

SCHIAFFINI,

Cento

E si badi che, dopo due Rufius Crispinus), questo parte e la magna laus al Firenze 19772. Reditus Augusti, a cura

anni

di lingua

italiana,

Milano

1962,

p. 47.

carmi premiati ad Amsterdam con medaglia d'oro (Ultima ebbe solo la magna laus al secondo posto per la prima e terzo posto per la seconda. di

A. TRAINA,

Firenze

1978,

pp.

XII-XIII.

365

all'ordine intrinseco dei poemetti oraziani, in quanto è posteriore ad Ultima linea, che tratta della morte di Orazio », « è ormai solo una trasparente maschera del Pascoli, che scrive in latino la summa

dei

testamento

il suo

temi,

suoi

poetico:

in

tanti

metri lirici quanti sono quelli di Orazio ». Pertanto il critico conclude: « Non vorremmo dare al Pascoli troppi padri, ma l’ultimo figlio di Virgilio ci appare piuttosto l’ultimo figlio di Orazio (!) ». Coi due carmi ora considerati si trattava quindi di un largo e complesso profilo di personalità poetiche congeniali, che esigevano uno svolgimento molto più esteso. Questo indugio sull’estensione, sul numero di versi dei singoli Carmina si mostrerà non inutile per raggiungere le conclusioni che tenteremo di trarre dall'ordine cronologico, e che abbiamo già accennate. Il Goffis, fisso nell’incomparabile novità

da poeta decadente che il Pascoli avrebbe magistralmente affermata sin dagl’inizi, non ha esitato a puntare (©) sui primi poemetti, su Veianius, su Laureolus, persino sul pletorico Gladiatores per notare in essi già fondamentalmente costituite la poe-

tica e l’arte del Pascoli. Ma di Veianius e di Gladiatores abbiamo già notato come essi palesino, anche attraverso gli opposti difetti di una ammiccante brevità e di una turgida prolissità, gli sforzi di un talento che si va ancora cercando. Con Phidyle, che non per niente fu premiata anch'essa con medaglia d’oro ad Amsterdam come Veianius, siamo già a ben altro livello. Lo spunto

è sempre

quello

di un

carme

oraziano,

Carm.

III, 23,

caelo supinas si tuleris manus / nascente luna, rustica Phidyle. E il Pascoli in chiusa non manca di ripresentarlo: AA

1: Albentis

summo

Illa manus

(11) E con

questo

prezioso

Lucretile

intenta

lunae

tenet, tenet ora sub auris

riconoscimento

il TRAINA



pur

sottolineando

la singolarità

(op. cit., pp. VII-VIII) di « un’unione così duratura fra il più morboso dei decadenti italiani » e il più sorvegliato rappresentante del classicismo augusteo » — finisce per dare piena ragione alla nostra tesi dell’origine delle più squisite sottigliezze della poesia pascoliana dai luoghi più gravidi di futuro dei poeti latini. E va da sé che noi non possiamo accettare affatto la definizione data del « più morboso dei decadenti italiani » per un poeta che con la teoria del fanciullino poneva le più ingenue, le più pure e soavi sensazioni e impressioni d’infanzia a base della della visione (12) Pascoli

antico

del mondo

e nuovo,

Brescia

rivissuta 1969.

in età matura.

« Le corna della nitida luna brillano d’oro sulla sommità del Lucrétile...

Ella sta immota,

con

le mani

e la fronte levate

al cielo » (!). Ma la resa linguistica è già di una maturità abbagliante: vi spunta una delle quattro parole di nuovo conio create in latino dal Pascoli - germanulus al v. 63, - come le ha isolate il Traina (“); ma soprattutto è da notare la felicità con cui termini tecnici, immagini, nomi designanti oggetti caratteristici, sin-

golarità lessicali s’insertano in un tessuto linguistico ove antico e moderno si rispondono armonicamente in una studiata danza: Exuvias frustra contritas anguis et herbas vase dari, serpylla simul, simul ulpica, ligneo. Post uncta vestem misere deplorat in arca dilapsam, tineas quae paverit inscia caecas. Quid, quod furcillas hiberno in tecta reductas tempore, reppererit sudo modo vere labantis?

« Invano le ho dato da mangiare le spoglie di una biscia, tritata insieme con erbe, e il sermollino e l’upiglio, dentro la conca di legno. Anche si duole e piange della veste andata a male, mangiata dalle invisibili tarme: e sì che la cassa l’aveva pur unta a dovere. E che dire delle forcole di sostegno alle viti, riportate al coperto per l’inverno e ritrovate ora, al tornar del tempo asciutto, marce e disfatte? » (!). E potremmo continuare per un bel pezzo. Proprio dal linguaggio che adopera, da questa realistica minuzia nel dipingere le faccende di casa, le gioie e i disagi io ho desunto l’ardito paragone della contadinella pascoliana con la Jeanne di Francis Jammes (9). Ma in realtà, a ben esaminare la struttura del poemetto, si scorge ch’esso sviluppa, con la nettezza di tre cicli ciascuno ben conchiuso in sè, tre temi congiunti: la giornata campagnola di Orazio; le occupazioni piacevoli di Fidile; le sue angustie. Quello che domina è sempre quel « tour de force sin troppo abile, al limite dell’artificio » (!) per far dominare

la coccolante

poesia

delle cose nelle sue suasive e vellicanti suggestioni. Come giusta-

(13) (14) (15) (16) (17)

Versione di DIEGO VALERI. In Convivium, 1955, pp. 682-88. Cfn-4nw13: Cfr. Antico e nuovo, p. 403. TRAINA, Reditus Augusti, p. XVIII.

367

mente abbiamo visto notato dal Traina, è Orazio ancora una volta a permanere al centro della sua ispirazione; lo spunto da

cui il carme è tratto è ripetuto ancora più da vicino che non quello da cui è tratto Veianius; per giunta, dato che il nome della ragazza è tratto da una delle odi, il poeta le dà il valore simbolico che di solito nella lirica oraziana hanno i nomi di donne. ©eidvAn! in greco egli esclama al v. 104 per lodare la sua parsimonia, ascoltando la descrizione che la giovinetta fa delle sue assidue cure casalinghe; ma il nome non ricomparirà mai nel corso del poemetto, perchè il vero nome della ragazza è Primilla o Fircellia, come

sembra

doversi

ricavare

dal v. 45,

ma come allusivo al casato della fanciulla. Nulla è trascurato di ciò che costituisce il tributo poetico reso da Orazio alla sua campagna: il fons Bandusiae con cui il carme si apre, i rapporti con Mecenate e con Arellio, il sacrificio di un capretto, l'ora del

risveglio e quella del sonno, persino l'episodio dell'albero che gli era caduto addosso, il cui ricordo è posto in bocca alla giovinetta. Le stesse occupazioni giornaliere di Primilla - Fidile sono tramate su tutto quello che in ogni sua raccolta Orazio accenna dei lavori campestri o su luoghi dei rerum rusticarum auctores il cui linguaggio arricchisce la corposità rimpolpante il latino del poemetto. Vediamo insomma che il poeta ha abbandonato le ossessioni della romana protervia incubanti sui due poemetti composti prima e ha cominciato ad accostarsi con profonda consuonanza umana ad uno dei suoi poeti classici prediletti. Questa è la capitale importanza di Phidyle, la funzione di tappa ch'essa ha nella storia della poesia latina del Pascoli. Ma chi lo confronti con Ultima linea o con Fanum Vacunae s'accorge quanto il Pascoli sia ancora lontano dall'aver scorto nei suoi poeti animas naturaliter Christianas, secondo la sua intuizione più profonda. In Phidyle c'è ancora e soltanto l’Orazio scherzoso, tollerante, paziente che dà il tono consueto alla sua poesia,

senza che da essa siano estratti i baleni che illuminino recessi più profondi; e in accordo a ciò v'è, forse più che in ogni altro dei Carmina, il gusto del linguaggio ricercato per dare una superficie increspata e segmentata al mucchio di oggetti curiosi o comunque allettanti da cui la fantasia del poeta si sente titillata. D'altro canto i 170 versi che formano il carme ci danno già la misura classica del componimento latino pascoliano.

368

Nel medesimo anno, come egli si comportò anche nel 1896, nel 1897 e nel 1906, il Pascoli inviò un altro poemetto: Laureolus.

Se Phidyle aveva vinto la medaglia d’oro, questo ottenne

solo

la magna laus al terzo posto, ma fu pubblicato. Anche qui spunti ispiratori di poeti classici, anzi una vera copia. I temi sono due che s'intrecciano: il brigante Laureolo (cfr. Suet. Cal., 57; Mart., Lib. de spec., 7; Iuv. VIII, 187), di cui gli autori classici ci ri-

cordano i misfatti, il supplizio e lo spettacolo che se ne ricavò, e che si rifugia in una capanna di contadini; e il dio Virbio, l’Ippolito laziale che i due vecchietti credono di riconoscere nell’ospite ammirandone /atos....... umeros oculosque flagrantes. E qui le fonti sono Virgilio (Aen., VII, 761 sgg.) e Ovidio (Met., XV, 497 - 543). Ma il luogo classico cui il Pascoli s'è particolarmente rivolto è un altro passo d’Ovidio, l'episodio di Filemone e Bauci (Met., VIII, 618 sgg.). Lo riconosce anche il Traina (#). I due vecchietti che ospitano il bandito sembrano aver letto l'episodio ovidiano, riconoscono in sè la funzione di Filemone e Bauci, sacrificano al dio ch'essi hanno creduto di ospitare, dopo ch'egli s'è allontanato rapidamente, udendo lo scalpitio dei

cavalli. La solidità della tecnica raffigurativa è confermata dalla capacità di racchiudere il contenuto in 121 versi. Ma non parleremmo con Anna Fumagalli di capolavoro (”). Il mondo poetico dei Carmina pascoliani è ancora lontano: brilla nell’ospitalità dei nuovi Filemone e Bauci la fattiva bonomia della poesia classica più aperta e più consona al nostro sentire. Ma l’idea stessa di sostituire a un dio grato e benefico la truce figura di un brigante, il cui ricordo ci riporta ai macabri spettacoli del Circo già evocati in Veianius e in Gladiatores ci denuncia nel poeta ancora la persistenza di una fantasia percossa dal fosco quadro di Roma tiranna dei popoli, di questa singolare eredità ch'egli, con una persistenza non notata finora da altri, si recava

dal Manzoni. Pur essendo Phidyle altrettanto lontana, ma in altro senso, dalla conclusione cristiana del Pascoli latino, il diverso trattamento riserbato dai giudici di Amsterdam ai due

poemetti ci pare pienamente giustificato, anche se riteniamo che la preferenza concessa a Phidyle fosse dettata dal suo tono bonario e ottimistico. (18) Saggio sul latino, ecc., p. 151. (19) Un capolavoro ignorato, il « Laureolo » di G. Pascoli, bre

in « La Nuova

Italia », novem-

1938.

369

Lo stanco e statico schizzo di Veterani Caligulae ci mostra un Pascoli ancora fermamente avvinto agli orrori della Roma dominante. Questo è il tema, il cui progressivo abbandono, coincidente - si badi bene! - con la cronologia dei Carmina, segna l'evoluzione e il progresso del loro mondo poetico. In tanti successivi capolavori tornerà il motivo della crudeltà, specie sotto il profilo della persecuzione anticristiana, così come In Occidente nei Poemi conviviali fa ricomparire il gladiatore nelle atrocità della Roma

persecutrice

nel Circo;

ma

dato

che

siamo

giunti

alla fase del Pascoli più maturo egli riceverà la benedizione dell'angelo, ben diversamente dalla sorte di Veianio e dei Gladiatores. Centurio ci farà riapparire la Passione, Senex Corycius

ed Ecloga XI ci squaderneranno la miseria dei diseredati, in Paedagogium Careio si associa al martirio di Alessameno, in Agape ci sono gli orrori dell'incendio di Roma, Post occasum Urbis ci descrive la rovina della città, Rufius Crispinus, il figlioletto di Poppea vittima della ragion di stato, s’apparenta ai fanciulli cristiani martirizzati, Thallusa ci palesa lo strazio intimo della vita servile, Pomponia Graecina è una vera e propria storia di un procedimento persecutorio. Ma in ognuno di questi Carmina il motivo idealmente trasfiguratore, l’idea predominante del bene trascende la cupezza del particolare crudele. Esso nella poesia latina del Pascoli riemergerà solo due anni dopo in Jugurtha. Cena in Caudiano Nervae del 1895 ci rappresenta un ulteriore sviluppo di un motivo precedentemente accennato. Finora in Veianius e soprattutto in Phidyle il Pascoli aveva isolato un solo poeta augusteo, quello che il Traina ritiene suo prediletto (°). Con questo carme, anche se il tema ispiratore parte al solito da Orazio, dalla quinta satira, il quadro si allarga, abbracciando il circolo poetico mecenaziano. Dopo, l’isolata prevalenza di

Orazio tornerà nell'immediatamente

successivo Reditus Augusti

(), in Ultima linea e in Fanum Vacunae. Ma Moretum ed Ecloga XI svilupperanno più originalmente il tema della societas dei

volge

(20) La forte presenza di Ovidio in Laureolus è solo un influsso letterario e non coinla figura del poeta. (21) E anche in questo caso la cronologia ci conforta: Reditus Augusti, che idealmente

è ancora a livello di Phidyle, solo con qualche più pronunciata venatura malinconico senso della vita, non ha la profondità umana e presaga dei linea e Fanum Vacunae.

370

di nostalgia e di più tardi Ultima

poeti affrontato qui per la prima volta. Il complesso strutturale del poemetto

è gravido,

ma

allo

stato

nascente,

di temi

che

saranno i più fecondi del Pascoli latino più maturo. L'autore immagina che la conversazione fra gli amici, durante l’allegra cena nella villa di Nerva, volga ad argomenti letterari, si soffermi sull'attività poetica dei presenti. Indubbiamente al primo posto nell'interesse degl’interlocutori e nell'esposizione delle idee è ancora

Orazio.

Mecenate,

Vario,

Virgilio

si rivolgono

a lui,

s'informano dei suoi progetti poetici e delle sue preferenze. Prevale la cura dei problemi letterari, quasi che il Pascoli non sentisse nella sua esperienza ideale se non l’eredità poetica trasmessagli dai classici. Dall’iniziale repugnanza contro la poesia dei mimi si giunge al tocco finale del russare di Sarmento e di Cicirro, tracce della più acre materia dell’ispiratrice satira quinta. Vi ottiene la sua rivalsa il gusto delle cose concrete che fa da telaio alla poesia pascoliana. Ma l’insieme centrale scantona verso la considerazione della poesia, e non solo sotto il profilo tecnico, ma anche come

suaditrice di posizioni spirituali.

E qui avviene il colpo di sonda che solleva il poemetto a preludio di situazioni ideali molto più complesse. Si discorre a lungo dei temi, dei modi, delle ispirazioni, della durata e dello svolgimento

della poesia

di Orazio;

sembra

talvolta

che

il so-

stegno dell'insieme sia costituito dalla decima satira del I. I. Ma a un certo punto balbo prope Publius ore Vergilius, dichiarando d'esser sul punto di comporre l’ultima ecloga, fa erompere, in ciò che ha di più sacrale, la concezione delle Georgiche, tamquam numine tactus: (« En» ait « arva nitent, en undique culmina Tu nobis epulas potes instaurare deorum,

tu Pacem, memor o nimis armorum

fumant!

antiquae pietatis et auri, patiens Saturnia tellus!

« Ecco » dice « che i campi splendono di messi e fumano i comignoli da ogni parte! Tu puoi ridarci i banchetti degli dei, tu, memore dell’antica pietà, e del secolo d’oro, puoi ridarci la Pace, o troppo paziente di armi terra Saturnia.» (7), sì che Orazio non può fare a meno di rievocare quanto l’amico aveva

(22) Versione

di FRANCESCO

ARNALDI.

371

u

già cantato nell’ecloga quarta. S'affacciano i motivi fondamentali che saranno tanta parte della più matura poesia pascoliana, riportandola specialmente al contatto con Virgilio. Perciò il componimento rappresenta anch’esso una tappa capitale nel cammino dei Carmina. Lo squisito Reditus Augusti ritorna al gusto per le piccole

cose debordanti

d'ogni parte e al contatto

più diretto con lo

spirito d’Orazio. Ma il finale, inatteso arrivo di Neera introduce quel senso del confidentemente umano che si va affermando sempre più nella poesia pascoliana. Il senso di vuoto comunicato dalla folla festante è come dissipato dall'atto d’amore dell’etera, che riporta in primo piano la grazia, la gentilezza e l'abbandono ai moti del cuore: comincia a trapelare, anche se appena accennato, l’Orazio di Ultima linea e di Fanum Vacunae (cfr. n. 21). Questa movenza favorì l’effusione di un nuovo ultimo

slancio di pietà per le vittime nel coevo /ugurtha. Con esso si chiudeva la serie dei carmi ispirati fondamentalmente dalla romana prepotenza. E si chiudeva al meglio, con conciso nitore

di tocchi aspri e dolenti. Ma nulla più del genere uscirà dalla Musa pascoliana. Da

allora,

per

ben

cinque

anni

e tre

carmi,

il poeta

si

volse al tema che già due volte di seguito Cena in Caudiano Nervae e Reditus Augusti gli avevano da poco proposto: la vita dei poeti a lui cari. E fu dapprima quella specie di scommessa virtuosistica che fu il lungo e complesso Catullocalvos, poi quel mirabile scorcio storico - letterario di Sosii fratres bibliopolae, che poneva il poeta della generazione cadente, Furio Bibaculo, a contatto con lo spirito e la tecnica della poesia nuova, di quella poesia cioè che avrebbe surrogato proprio i poetae novi ai quali egli era orgoglioso di appartenere; da ultimo Moretum, che riprendeva, in una situazione più liberamente schizzata, la scena e la condizione di Cena in Caudiano. In Sosii fratres quel che di nuovo era già balenato nella Cena, il richiamo alla santità della terra,

al miracolo

che

da essa

si attende,

torna

a pren-

der voce: Iamque ubi clamor erat gemitusque et sanguis et imber ferreus atque equitum tantus peditumque tumultus, mirantur lentis incedere bubus aratrum et galea

372

rastrum

leviter

tinnire

repulsum,

« E già dov'erano grida e gemiti e sangue e pioggia di ferro e tanto tumultuare di cavalli e di fanti, scorgono stupiti avanzare l’aratro tratto dai lenti buoi, e odono tinnire lievemente la vanga che ha urtato contro un elmo » (*) esclama quasi piangendo Orazio col parafrasare il 1. I delle Georgiche, che stanno scrivendo nella libreria. Così in Moretum il richiamo alla focaccia

cantata con

indubbio

spirito virgiliano

nel poemetto

dell’Ap-

pendix, anche se fa venire il mal di stomaco ad Orazio, reca nella spensierata accolta di amici letterati il profumo purificante della terra, della natura. E in Catullocalvos abbiamo già notato quante volte, nel riprodurre la metrica e le tonalità espressive di Catullo, il poeta, che solo qui (salvo poi la figura di Bibaculo nei Sosti) indugia sopra un'esperienza storico - letteraria che non è quella del cenacolo mecenaziano, cerchi di porre se stesso al posto del poeta veronese, estragga anche da lui (ed era facile, e tutta la critica catulliana ce lo conferma) quanto di moderno, di tormentato, di ambiguamente sottile e ambivalente era possibile rinvenire in lui.

A partire dalla Cena - salvo la conclusiva parentesi di Jugurtha - troviamo il poeta sempre a stretto contatto con le figure dei poeti a lui cari, quasi teso nello sforzo di chiarire a se stesso e agli altri perchè essi possono tuttora fungere da guida, che cosa da loro possa ricavare l'umanità. La cronologia ci conferma dunque con sicurezza l'indirizzo verso il quale il Pascoli si dirige e insieme ciò che ancora manca o è appena accennato perchè il movimento giunga alla meta. Ed ecco che nel pieno del ciclo dedicato ai poeti, fra Catullocalvos e Sosii fratres, spunta un carme, Chelidonismos (#), in cui affiorano motivi nuovi destinati a profonda maturazione nei carmi successivi. Diversamente dal Traina avrei fatto capo a questo poemetto anzichè a Reditus Augusti per concludere le mie indagini sul più significativo Pascoli latino in via di emersione. La figura del successore di Augusto, di colui sotto il quale Cristo sarebbe stato crocifisso e che, secondo alcune voci, ne avrebbe biasimato la condanna, di colui la cui vita sarebbe stata sempre un doloroso enigma, che prima di giungere ai fastigi del potere, pur dopo (23) Versione di GIORGIO PASQUALI. (24) Si pensi che il termine è creazione

del Pascoli.

373

si

essersi

vittoriosamente

battuto,

avrebbe

dovuto

l’umi-

subire

liante relegazione a Rodi e soprattutto lo strazio di dover rinunciare all’amatissima Vipsania Agrippina per impalmare la lussuriosa Giulia, era, ai tempi del Pascoli, irrimediabilmente

gra-

vato dall'accusa d'aver mutato in tirannide il principato augusteo e d’aver inaugurato la serie dei despoti sanguinari. Si può dire che, dopo un articolo di Giovanni Papini (©), io sia stato il primo a rendere giustizia, nel mio Tacito (*), alle ragioni umane, ai motivi intimi della figura e della condotta di Tiberio, ponendo in rilievo (?) l’episodio tacitiano delle predizioni di

Trasillo a Tiberio su cui è fondato il carme pascoliano. Quasi contemporaneamente nei Poemi conviviali il Pascoli stava compiendo un altro componimento su Tiberio, ma visto ancora bambino. Sembra che anche su lui avesse esercitato una specie di fascino la figura del Cesare

della Crocifissione,

disponendolo

a

valutare ciò che allora la critica storica poneva in ombra. Egli infatti lo scorge nella relegazione di Rodi, nel fastidio, nel distacco dalla vita ch'era divenuto la sua seconda natura. Per giunta, nel momento in cui giunge il lieto annuncio della sua restaurazione agli onori di Roma, or ora predettogli da Trasillo, ecco che giunge dinanzi alla sua dimora il coro dei giovinetti che - quasi a confermargli la ritornata felicità - intona le lodi della primavera risorta, il canto che dà il titolo al poemetto. I motivi che avrebbero costituito l'intreccio sostanziale del Pascoli latino più maturo cominciano a delinearsi proprio in Chelidonismos,

sì che credo

che i giudici di Amsterdam

siano

rimasti

perplessi, in quanto, riconoscendo l’autore, ne constatavano il distacco dal mondo la cui raffigurazione essi avevano già più volte premiata con compiacimento. I motivi nuovi erano la sia pur ancora indiretta e lontana inserzione delle res Christianae nel mondo poetico del Pascoli e l'ingresso della poetica del fanciullino. A quattro anni da Chelidonismos - dopo i ritorni serenanti di Moretum e dei Sosti fratres - ecco Centurio riproporre in pieno, e con ben altra evidenza, i due motivi raggiungendo già una delle vette della

(25) Il Cesare

(26) Roma

della

(27) Op. cit., p. 581.

374

Crocifissione,

19622, pp. 573-582.

in « Nuova

Antologia »,

1934.

atte

poesia pascoliana (e non è neppure il caso di specificare che si tratta di quella latina). Persino nel singolare tocco finale v'è la riprova del maturo sviluppo che la poesia latina pascoliana ha compiuto: quando i fanciulli, nell'ora tarda, dopo il racconto del centurione fissante la parola « Pace » come essenza e monito

della Passione stanno per andare a dormire, il figlio dell'esattore Albino insiste insoddisfatto: «c'è un angolo al mondo in cui noi non

siamo

penetrati? ». « Anche in questo esemplare poema

- ho già notato

(#) - il Pascoli ha voluto

concludere

con una

nota di stridulo realismo, che riaddensa, come nella chiusa di Cena in Caudiano Nervae, le ombre dell’umana malizia sulla

chiarità delle più spirituali epifanie. La già illustrata tecnica della maggioranza dei Carmina si esprime regolarmente anche qui. Però mai come qui essa ha una sottile funzione rivelatrice: il

piccolo Albino ci mostra l'esempio del fanciullo su cui l’influsso dell'ambiente familiare... ha già cominciato a stendere la gromma dei pregiudizi che nell'età matura finiranno per snaturare la vergine freschezza e penetrazione dell'anima fanciullesca. La poetica del fanciullino si esempla dunque con chiarezza e originalità singolari ». Se in Cena il russare di Messio e Cicirro fa brutalmente da contrasto alle penetranti conversazioni dei poeti, qui la battuta stonata del piccolo Albino incide sul meccanismo spirituale del contatto del fanciullino con la realtà: la poetica e la temperie spirituale del Pascoli hanno camminato. Che siamo giunti al culmine dell'evoluzione spirituale del poeta ce lo rivela il poemetto che tien dietro immediatamente a Centurio: Senex Corycius. Come sei anni dopo Ecloga XI, esso segna un pessimistico ritocco alle serenatrici conclusioni della poesia virgiliana. Neppure Ultima linea segna per Orazio un ripiegamento così dolente. E credo che i giudici di Amsterdam si siano limitati al terzo posto nella magna laus sia per Senex Corycius sia per Ecloga XI perchè risentiti da questo apparente tradimento alla consolatrice Weltanschauung virgiliana. Ma esso mostra come ormai Virgilio sia divenuto proprio il poeta su cui, come punto focale del suo mondo poetico, il Pascoli concentra i suoi palpiti riflessivi più intensi. Il senso cristiano, che in entrambi

(28) Antico

i carmi

e nuovo,

non

è espresso

direttamente,

lavora

in

pp. 459-60.

375

profondo facendo constatare al poeta che la vita non arrisa dalla Provvidenza non può garbatamente agghindarsi nel senso dolcemente atarassico che Virgilio le prestava: il vecchio pirata cilicio è rimasto inconsolabile di non poter più battere i mari; il lavoro campestre o pastorale non si esaurisce nei bona che gli agricolae dovrebbero nosse, ma comporta la sfibrante fatica dello schiavo. Ed entrambe le critiche soluzioni toccano le due opere che per il Pascoli erano le più costitutive del vero Virgilio: la prima le Georgiche e la seconda le Bucoliche (”). E se in Ecloga XI il poeta mantovano si sente spinto ad aggiungere una nuova ecloga alle dieci già scritte e poi a comporre il poema georgico, in Senex Corycius spiega proprio con la delusione infertagli dall'ultima confessione del vecchio il suo proposito di non completare più il poema georgico con l’orticultura e la sua dichiarazione Tentanda via est, che si riannoda al luogo del proemio del I. III delle Georgiche, in cui si preannuncia la composizione di un poema epico. Ciò conferma che in fondo per il Pascoli l’Eneide era un campo allotrio, alieno dalla sua vera sensibilità, in cui Virgilio aveva voluto avventurarsi. Ma intanto in entrambi i carmi che stiamo considerando trapela anche la poetica del fanciullino, nel senso che le certezze che si ritengono

raggiunte

in età matura

sono

sempre

sottoposte

alla revisione operata dalle ferme, decisive impressioni scolpite entro il cuore dalla prima età. In Senex Corycius il poeta, trascinato dall’esempio fascinatore dell’ape, s’era illuso che il poco,

in un luogo tranquillo e riposto, potesse assicurare la felicità; ma

aveva

dimenticato

sato le espropriazioni,

quello che in gioventù gli avevano cioè il dolore

di dover

pale-

abbandonare

la

vita originaria nella sua sede abituale. Parimenti il vecchio non ha potuto mai dimenticare la vita da corsa sul mare, cui era stato strappato con la forza. Il mondo etico - poetico del Pascoli s'è profondamente allargato. Non altrimenti in Ecloga XI, se il

vivacissimo inizio ci riporta in pieno al caldo realismo descrittivo della Cena e del Moretum e, come in essi, ricompare più pacato alla fine (*), il motivo della libertà, bene goduto e poi (29) Su quello che il Pascoli in Epos giudicava come critico che si dovesse tenere principalmente presente di Virgilio cfr. quanto ho notato, sulle orme di PIERO TREVES, in Virgilio cantore dell'Impero romano o delle umane sorti?, in « Virgilio e noi», Genova 1982. (30) In Antico e nuovo, pp. 437-454 ho analizzato questa tecnica che fa del particolare descrittivo il Leitmotiv d'inizio e di chiusura dei Carmina.

376

perduto, condiziona l'animo del vecchio pastore schiavo fuggitivo, e Virgilio, dopo aver giustificato con l’invocazione a Dea Libera, quae fruges educit, il proposito di passar a cantare i campi coltivati dai sui iuris cultores, in sogno si vede apparire le omonime Vergiliae che, appellandosi proprio all'esperienza agricola

ch'egli ha fatta sin da bambino,

lo consolano

con

la

prospettiva dell’ozio ristoratore e gliela comunicano come un caeleste da referre, facendo quindi del poema georgico un qualcosa d’intimamente precristiano come l’ecloga quarta. Non vorrei indugiare troppo sui capolavori dell’ultimo periodo, anche per non abusare della pazienza degli ascoltatori. Possiamo

dire

che, fatta

eccezione

per Ecloga

XI,

il giudizio

di Amsterdam confermò l’altezza dei carmina allora composti, conferendo ad essi la medaglia d’oro. Solo Agape e Post occasum Urbis non raggiunsero il traguardo; e si tratta proprio degli unici due carmina che non si elevano alla medesima incisività e complessità di significato. Al cristiano Centurio era succeduto Senex

Corycius,

di cui abbiamo

già scorto

la profondità

del

significato, tanto più suasiva quanto più mascherati sono i motivi ideali fondamentali che vi si insinuano. Indi era prorotto con Paedagogium un altro capolavoro dei Poemata Christiana,

il cui inizio sembrava l’eco tematica del finale di Chelidonismos. E a misurare,

con

inconsueta

altezza

di pensiero

e di sentire,

la rispettabilità di ogni culto sinceramente vissuto, ecco seguire, a opporre alla brutale persecuzione anticristiana quella più sottile ma più efficace ancora del Cristianesimo trionfatore, Fanum Apollinis, in cui naturalmente le cose, come più inchiavardate entro il mondo religioso pagano, richiedono maggiore attenzione, sì da comportare,

come

abbiamo

già visto, un

maggior

nu-

mero di versi. Arrivato a questo duplice vertice, il poeta sembra

ondeggiare di fronte alle tre vie che ormai il suo mondo poetico gli lascia aperte: o l’episodio apertamente cristiano, o quello di un paganesimo che nell’intimo si adegua alla nuova esperienza religiosa, o ancora la rappresentazione di un momento della vita di uno dei poeti cari. Nell’ordine Agape, Ultima linea e Rufius Crispinus (‘) si riferiscono rispettivamente al primo, al terzo e al secondo motivo. Ma in Agape, salvo il verecondo

(31) E non si dimentichi

che Ultima linea e Rufius Crispinus

sono del medesimo

tocco

anno

1906.

YI!

finale di Antusa che ricopre con la propria veste la meretrice Licisca ignuda, non v'è che il solito indugio nella descrizione della santa cena, con lussuosa e sovrabbondante

copia di tocchi e di

riflessioni, che naturalmente si convelle al momento in cui scoppia l’incendio. Così Post occasum Urbis è un ambizioso tema

storico - descrittivo in cui ritornano le velleità raffigurative di

Gladiatores,

quasi

spostando

la visione

di un

Cristianesimo

vessato dai barbari ariani al livello del paganesimo di Fanum Apollinis (*).

agonizzante

Se il ritorno al puro tema cristiano con Agape era stato poco felice, la ribattuta della strada che al tema portava indirettamente fu invece eccezionalmente felice con Ultima linea e Rufius Crispinus. Dopo la crisi segnata dal contatto con Virgi-

lio in Senex Corycius, ecco di nuovo l'accostamento al secondo dei poeti prediletti, meno perentorio e radicale nei suoi paradigmi etici, più aperto a confidenti ammissioni di debolezza. E la nona satira, mediante l’incontro fra Orazio e Aristio Fusco con l’allusione agli Ebrei, ispirava un nuovo dialogo fra i due, in cui il Credat Iudaeus Apella diveniva motivo di speranza messianica, inconscia profezia del Cristo venturo,

come

il Medioevo

aveva interpretato la quarta ecloga di Virgilio. Veniva quindi a confluire nel poemetto tutto l'insieme dei motivi più cari, da quelli dei migliori fra i primi poemetti a quelli che ora urgevano alla sensibilità del Pascoli. Il compianto Marino Barchiesi ha notato

(*) che il poeta, nei vv. 35 - 37, riprendeva

addirittura

il

nome di Veianio e l’immagine finale di Phidyle, « a costo di esporsi, dinanzi ai giudici del certamen hoeufftiano, alla taccia di illecito espediente per farsi riconoscere (*) ». Tutto doveva concorrere a convogliare nell’impegnativo poemetto l’insieme delle attese, delle speranze, dei fremiti, dei palpiti del Pascoli ormai

innervato

nel

suo

Orazio,

come

in Fanum

Vacunae.

Il

Barchiesi aveva ragione di notare (*) che ai vv. 84 sgg. Orazio ricorda la morte di Virgilio. Ma - aggiungo io - la ricorda proprio sottolineando i motivi più essenzialmente formativi della

sensibilità virgiliana, proprio ricordando solo le Bucoliche e le

(32) (33) (34) (35)

378

Cfr. Antico e nuovo, p.391. Edizione Milano 1966, p. 607. Cfr. Antico e nuovo, p. 454. Edizione Milano 1966, p. 615.

Georgiche (*), anticipando addirittura motivi di Ecloga XI, come il ricordo delle Vergilie (v. 101), sì che il carmen diventa l’epicedio solenne e commosso non solo di Orazio, ma anche di Virgilio, a conferma di quanto abbiamo detto relativamente al peso dei due poeti sul Pascoli. Quanto a ciò che il Barchiesi

afferma che il brano della profezia di Aristio segna «in certo modo il trapasso dal Liber... ai Poemata Christiana. E’ così possibile intravedere la struttura dell’edificio poetico che il Pascoli progettava di realizzare », c'è da osservare che la cronologia, che stiamo studiando, vieta di enunciare così nettamente siffatta

conclusione:

se mai

Chelidonismos

precorreva

nascostamente

il passaggio, che Senex Corycius, subito dopo Centurio, fa intendere nei suoi motivi più reconditi e Fanum Apollinis tratteggia nelle più larghe linee di un evento collettivo. Dopo Centurio e Paedagogium non si può parlare di passaggio, ma di chiara trasfusione dal Liber de poetis entro una tematica ch’esso fin allora aveva solo timidamente preannunciata e che s’era già nitidamente espressa in tutta la sua potenza. Non è il caso, a mio parere, di accennare alla possibilità d’intravvedere un progetto compositivo; esso è già tutto pieno e fermo, come proprio la cronologia ci ha dimostrato, facendoci ruotare i motivi nella loro progressiva evoluzione. Per concludere su Ultima linea, mi sia concesso ricordare che la confidenza di Aristio che amici giudei gli preannunciano l'avvento del Messia fa il paio con la tesi di Eduard Norden, da me ripresa nel Virgilio (”), che l’ecloga quarta sia stata influenzata da ciò che il poeta deve aver inteso da dotti ebrei in casa di Pollione. Rufius

Crispinus,

come

ho

già accennato,

imparenta

la

piccola vittima ch'è il figlioletto di Poppea coi fanciulli martiri di Paedagogium e specie di Pomponia Graecina. La poetica del fanciullino si è progressivamente elevata fino a promuovere una radicale sensazione iniziale del puer a motivo anche di decisione, di scelta pratica, e quindi anche a rischio mortale. I due poemetti del 1906 quindi, pur non facendo grandeggiare in prima linea (specie il secondo) un tema cristiano, pur non ap-

(36) Non

era

(37) Firenze,

stato 19613,

del resto Orazio

a scorgere

adnuentes

rure

Camenae

a Virgilio?

pp. 164-65.

274

partenendo ai Poemata Christiana, revocano alla più decisa espressione i due temi fondamentali, su cui poggiava l'estrema temperie etico - poetica del Pascoli latino: l’intima, naturale cristianità di ogni retto sentire e la rivendicazione dei sentimenti essenziali alla personalità del fanciullino. Post occasum Urbis, su cui non è più il caso di insistere, denunciò il medesimo inizio di stasi e di disorientamento che, sia pure in forma più ridotta, aveva denunciato Agape. Ma subito dopo con Ecloga XI l’assiduo, quasi affannoso scuoiamento di tutte le intime fibre che facevano umanamente palpitare le più alte coscienze dei poeti latini riprese la sua quasi implacabile vivisezione, facendo apparire solo come promessa provvidenziale la speranza di bene ch'era illusoriamente balenata attraverso le esperienze poetiche e sentimentali. I tempi erano ormai maturi perchè si giungesse al più imponente carme epico della Cristianità sofferente, ma prossima al trionfo: Pomponia Graecina. Colla grandiosità del suo sviluppo, con la sconvolgente felicità di taluni tocchi espressivi rivelanti la perfezione conquistata dalla tecnica poetica del Pascoli (si pensi al v. 12, stans caedebat equos salientis verbere cordis; o ai versi finali molle suo caput ipsum pondere nutat. / Ille oculis ambit matrem quam saepe vocabat), con la fermezza con cui sono descritte la scena dell’inchiesta persecutoria e quella della catacomba, esso si aderge a culmine dei Poemata christiana, nella più precisa loro finalità etica e poetica. Qui non v'è più solo l’inizio del sacrificio dei bimbi di Paedagogium o la semplice presenza dei fanciulli al racconto della Passione, come in Centurio (all'incirca come nei Poemi conviviali La civetta ci presentava fanciulli testimoni della morte di Socrate). Qui c'è una matrona che, obbedendo proprio alla voce della maternità, cade nella colpa dei lapsi, accetta di bruciare

il granello

dimostrando

d’incenso,

evidentemente

mentre

al contrario

un

fanciullo,

la verità che il poeta predicava, af-

fronta animosamente il martirio, si lascia azzannare da una belva.

Nelle ampie volute del carmen giungono alla più poetica maturazione tutti i temi di fondo che il Pascoli aveva ormai maturati. Ma ora che i Poemata tica del fanciullino, erano andare, il poeta volle dare sione altrettanto vigorosa

380

christiana, coinvolgendo anche la poegiunti là dove più oltre non si poteva anche al Liber de poetis una conclued espansa. E sorse Fanum Vacunae,

in cui, quasi a opporre

alla tragicità della prima vicenda

cri-

stiana il fascino della serenità che, insieme con la preghiera a Cristo, era stata grazie ai poeti la prima sua esperienza forma-

tiva, il Pascoli si appuntò di nuovo su Orazio, si valse di tutti i suoi metri per esprimere al più alto grado di maturità ciò che, indipendentemente dal Cristianesimo, quei poeti, e il Venosino specialmente, gli avevano infuso nello spirito. E furono carmi di sofferta e profondissima sensibilità cosmica come Fanum putre, Finis rerum, Vacuna, Bellum civile, Diluculum. Sembrava che, una volta fusi praticamente

il Liber e i Poemata

in

Ultima linea, il poeta a conclusione volesse far grandeggiare il primo nel complesso dei suoi significati dopo aver fatto grandeggiare i secondi con Pomponia Graecina. Thallusa sotto un certo aspetto rappresenta la definitiva conciliazione delle spinte decisive rappresentate dai poemetti immediatamente precedenti. Sicuramente il Pascoli, se fosse rimasto in vita, avrebbe scritto altri poemetti in latino e avrebbe imbroccato

vie che non

possiamo

prevedere

o intuire.

Ma, allo

stato attuale delle cose, questo poemetto, di cui la medaglia d’oro che lo premiava non potè giungere in tempo al poeta, di cui l'edizione pubblicata nel 1912 ad Amsterdam uscì listata a lutto, rappresenta un singolarissimo caso di perfetta conciliazione definitiva dei motivi affermatisi come principali nella produzione più recente e divenuti nei due ultimi esempio di posizioni contrapposte. Il motivo del fanciullino riacquista tutta la sua bonomia carezzevole, sì che torniamo anche ad autentiche esibizioni di terminologia descrittiva mai giunta.a così perfetta maestria di disegno (*). Che Tallusa sia cristiana lo si ricava dal fatto che il carmen è incluso nei Poemata Christiana, dal

sospetto che il padrone esprime ai vv. 65 - 67 (Quid si servilem Chresti proba serva sequatur / sectam? Scis pueros quibus illecebris, quibus escis / decipiant) e dal ricordo che la schiava stessa fa ai vv. 119 - 20 del suo buon Dio (ut Bonus aegrae / ille mihi; e cfr. al v. 137 Nil contra Deus ipse potest). Come per

l'ideale virgiliano della vita agreste s'era dovuto attendere Ecloga XI per vedere innestato sul tema il particolare perturbatore del lavoro servile, così è solo qui in Thallusa che, nel medesimo (38) Cfr.

Antico

e nuovo,

pp. 450-51.

381

progresso di coscienza sociale nella considerazione dei temi tradizionali, si configura il posto dello schiavo nell’ambito della rivoluzione cristiana. Ed è un posto tutt'altro che comodo e confortevole. Tallusa inaugura anzi l'abitudine degl’infelici che, benchè credenti, fanno colpa a Dio delle loro sciagure. E il poemetto sviluppa ancora più severamente il tema del lavoro servile perchè, mentre in Ecloga XI il sogno delle Vergilie ridà al poeta la forza di sperare, qui il carmen si chiude bruscamente col verso che consacra la nuova sciagura di Tallusa, il suo passaggio a un nuovo compratore, il suo distacco dai bimbi cui s'era affezionata come fossero suoi: Primo

mane

domo

servam

novus

emptor

abegit.

Ma il culmine del poemetto è indubbiamente [S

nel momento

in cui Tallusa è fuori di sè nello scorgere il bimbo della padrona che le sorride. A quel punto i motivi conduttori del Pascoli più maturo tornano a fondersi più armonicamente, dando quindi al poemetto, per noi se non per il Pascoli che avrebbe continuato a scrivere, un singolare valore di punto d'arrivo. La cristianità della schiava, che potenzia il suo senso di maternità, e lo slancio del fanciullo nel cogliere anche inconsapevolmente ciò che dà alla vita un

senso

positivo

s’incrociano,

s'intrecciano

indissolu-

bilmente. E la voce - a conclusione di ciò che il Liber de poetis aveva continuato a offrire sino al vertice di Fanum Vacunae la presta ancora una volta uno dei poeti latini diletti, ma non più Orazio, bensì Virgilio col v. 60 dell’ecloga quarta. È ozioso e sciocco (e lo dico pensando proprio a una mia eventuale velleità di discussione) stabilire se sia Virgilio oppure Orazio a costituire la più frequente matrice delle ispirazioni pascoliane. Dietro le sue spalle v'è tutto il miglior mondo di Augusto. Ma qui, dove cogliamo quella che per noi fatis iubentibus è la conclusione definitiva, la voce che dà suono a questa positiva saldatura dei motivi dominanti è quella di Virgilio: forse perché dei poeti cari (e Senex Corycius ed Ecloga XI son lì a darne la prova) egli era, sia come preannunciatore del Cristianesimo sia come agitatore di tutti i problemi morali e religiosi più scottanti, il più congeniale, il più aperto al colloquio, il più ricco di spunti e di suggestioni.

382

MAURIZIO PERUGI FRA DANTE

E SULLY: ELEMENTI PASCOLIANA

DI ESTETICA |

Più di cinque anni intercorrono fra la pubblicazione delle quattro puntate marzocchesche, intitolate Pensieri sull'Arte poetica (17 gennaio, 7 e 21 marzo, 11 aprile 1897) e la redazione pressoché definitiva del Fanciullino (in Miei Pensieri di varia Umanità, usciti nel 1903 ma con Prefazione datata « 31 dicembre

del 1902 »). In questo quinquennio, corrispondente al periodo dell'insegnamento messinese, Pascoli compie la scoperta forse più rilevante in vista della formazione di un'estetica propria: s'imbatte, cioè, negli (') Etudes sur l’enfance dello psicologo associazionista James Sully (nato il 3 marzo 1842 a Bridgwater, nel Somerset;

morto il 31 ottobre

1923 a Richmond, nel Surrey).

La copia custodita a Castelvecchio è la traduzione francese a cura di A. Monod, con prefazione del Compayré (edita da Félix Alcan a Parigi e datata 1898), degli Studies of Childhood pubblicati tre anni prima. Il volume, che si cela fra le opere di let-

teratura straniera, appare slegato per il frequente uso, e farcito di annotazioni autografe a lapis e a matita rossa e blu. Non basta: il plico n° 5 del fasc. LXXV dell'Archivio, recante l’approssimata intestazione « Studi sulla psicologia infantile (Accenni di poesie e citazioni di Kipling e della Sand) ed altre cose » (?), con-

tiene 28 fogli autografi vergati di glosse che puntualmente rinviano alle pagine del Sully. Il termine post quem per situare

l’arrivo del volume 1899, quando

(1) Così,

anche

(2) Tanto ricavati

dal

se

il sostantivo

gli accenni

testo

sulla scrivania del Pascoli è il 28 febbraio

fu letto a Messina

del

quanto

il discorso L’Èra nuova,

è in francese

le citazioni

non

di genere

sono,

carat-

femminile.

ovviamente,

di prima

mano,

ma

tutti

Sully.

383

terizzato da allusioni puntuali e inequivoche agli Etudes (fra le quali la più rilevante concerne la teoria — successivamente ripresa in PC Le Memnonidi — dell'ombra o anima come « double ») ().

L'opera del Sully, che sostanzialmente funziona come un prezioso repertorio di dati psicolinguistici e di metafore infan-

tili, la cui utilizzazione è agevolmente documentabile nelle poesie scritte a partire da quell’anno (*), chiarisce per gran parte quel distillato ad altissima densità che è Il Fanciullino (); ma soprattutto fornisce l'impulso decisivo a un processo di elaborazione

che, passando

attraverso

il Corso

pedagogico

tenuto

a

Bologna a partire dal 1906, e la silenziosa quanto feconda polemica col Croce, sarebbe dovuto sboccare nel mai compiuto manuale degli Elementi di letteratura. Su questa fase ulteriore dell'estetica pascoliana illuminano, oltre agli appunti dattiloscritti delle lezioni bolognesi, anche gli autografi del fasc. LKXVI, plico n° 6, dove

i manoscritti

del Fanciullino

sono

mescolati

a

note, appunto, di estetica (da utilizzare in parte per il Corso) e ad altre dedicate alla polemica anticrociana (°). Non sorprende perciò che anche i maggiori scritti danteschi, compiuti non a caso tra il 1899 e il 1902 (nel 1899-1900 Intorno alla Minerva oscura = IMO; nel 1900 Sotto il velame =

(3) Cfr.

Giovanni

il Saggiatore,

(4) Cfr. dai Canti

(5) Per ciente dare primi

otto

Pascoli,

dai Canti

1982 (n. 6 della collana

di Castelvecchio,

a cura

di Maurizio

Perugi,

Milano,

«i Paralleli ») pp. 55-6.

cit., p. 16, nota 7.

farsi un'idea del salto di qualità rispetto alle puntate marzocchesche, è suffiun'occhiata alle aggiunte che caratterizzano la parte comune, corrispondente ai capitoli

della

redazione

definitiva

(1907).

Qui

mi

limito

a

indicare,

nel

cap.I,

il

ritratto ideale di Omero, evidente pendant a Sully 93 (dove è il ritratto-tipo del fanciullino: « Si nous étions appelés à dessiner le portrait type du petit garçon, nous le représenterions debout, les yeux tout grands ouverts, contemplant quelque nouvelle merveille ou écoutant les explications de sa mère sur les choses qui l'entourent »); nel cap. II, aggiunto per intero, le allusioni a Sully I v Imagination et pays bleu e il binomio « nuovo e strano », che negli Études spesseggia; nel cap.V, infine, il quinto capoverso, ricavato di peso da Sully IV i Babillages prélinguistiques combinando le osservazioni sul « gazouillement » infantile (che Pascoli traduce col romagnolismo « boschereccia ») e questo brano di p.193: «Les premiers redoublements et les répétitions a a, ma ma, etc., sont peut-être dus à une certaine inertie physiologique ».

(6) Le lezioni del Corso pedagogico che ci interessano si riferiscono agli anni accademici 1905-6 (compilate a cura degli allievi M. Vivarelli ed A. Mingarelli), 1906-7 (a cura del Vivarelli e di Pia Maggi) e 1909-10 (a cura del Vivarelli); si trovano rispettivamente nei plichi n. 2 e 3 del fasc. XI e nel plico n. 3 del fasc. IX. Quanto agli autografi, indico con fS. quelli del fasc. LXXV e con f. quelli del fasc. LXXVI.

384

SV (); nel 1902 La mirabile visione

=

MV

e Il Canto secondo

del Purgatorio = CSD II), rechino tracce cospicue dell’esperienza maturata sul Sully. È un nuovo filone che di forza s’innesta sulla inesausta e sfibrante analisi delle categorie morali che stanno a fondamento della Commedia: Pascoli l'aveva inaugurata con Minerva oscura (1898), che per la prima volta definisce l’ambivalenza del termine-chiave « ira ». Altro non è, questa ira, se non il corrispettivo dantesco del binomio amore-odio proprio al fanciullino, e riflesso nella correlazione tra Francesca e Ugolino nella quale Pascoli (a partire dall’Appendice II) riconosce la spina dorsale dell'Inferno. La sostanza autobiografica dell’ equazione fra ira e accidia è del resto visibile già in Gloria, prima delle otto myricae pubblicate su « Vita Nuova » del 10 agosto 1890 e prima, a guisa di manifesto programmatico, nelle prime due edizioni della raccolta; del ’96 (1 novembre, su «Il Marzocco ») è PP Conte Ugolino; dal giugno ’95 al giugno ’96 esce, su « Il Convito », il primo

abbozzo

di Minerva

oscura,

che nel

contesto fortemente autobiografico del cap. I pone la similitudine — destinata a tornare più volte negli scritti danteschi successivi — fra Dante e un fanciullo (8). La prima categoria estetica rilevante che è dato cogliere nel Pascoli dantista si riallaccia alle « meteore spirituali » di cui è parola nel cap. III di PD La Ginestra (1898) (°). La meteora

spirituale o psichica mica con

l'opuscolo

sarà più compiutamente Contro

la Stilistica

definita in pole-

(Firenze

1906) del cro-

ciano Mario Rossi : questi ribadisce l'impossibilità di analizzare quel « flusso confuso

e continuo

d’impressioni,

materia

informe

e neutra, della quale non sappiamo nulla », che precede l'espressione; Pascoli gli oppone le testimonianze del Leopardi (i « cani che abbaiavano in lontananza » di una celebre lettera al Giordani (7) Per i capitoli di SV impiego queste sigle: so = La selva oscura; pa = Il passaggio dell’Acheronte; tf = Le tre fiere; rv = Le rovine e il gran veglio; av = L'altro viaggio; fp = La fonte prima; mv = La mirabile visione.

(8)

«E il viaggio

pare

uno

di quelli

che

possiamo

ricordare

d'aver

fatti

da

fanciulli

(Dante è come un fanciullo vicino a Virgilio), un poco a piedi, poi portati di peso in carrozza, poi discesi senza averne coscienza intera, balzati di qua e di là, tra cigolii e schiocchi e scricchiolii e tonfi, con qualche carezzevole parola mormorata all'orecchio in mezzo a un rotolare continuamente e sordamente fragoroso ». Automatico il riscontro con CC Il nido di « farlotti » ed anche col sogno di Molly, la notte che cade la neve, in PP Italy.

(9) L'etichetta dalla lettura glia, Torino,

terminologica,

memore

del

Carducci,

di M.L. Patrizi, Saggio psico-antropologico Bocca, 1896: come ho mostrato altrove.

è tuttavia su

Giacomo

essenzialmente Leopardi

propulsa

e la sua

fami-

385

del 6 marzo 1820) e sue proprie : « l’odor di viole dell’Aquilone », «una vista di donna fuggente », « un ricordo d'infanzia », « una rovina maestosa » (ff. 11, 19, 55). Su questa base Pascoli contesta l’identificazione crociana fra intuizione ed espressione, affermando che l’autore giunge « all'espressione sua totale mediante molte espressioni parziali » (f. 55) : donde « L'espressione impropria, dura, stentata, la rima ("); ma sotto c'è il pensiero limpido e l'emozione profonda » (f. 11, che definisce anche le categorie di « inespresso » e « sottinteso »). Perciò un giudizio critico non può prescindere dalla dimensione storica e stilistica (« Storici, studiate

in pace.

Stilisti, analizzate

avec

tranquillité.

Egli non ha distrutto la vostra ragion d’essere » : f. 58) : « Bisogna in sé riprodurre la vera genesi dell’opera d’arte, genesi che è psicologica, un'emozione, una meteora spirituale » (f. 19; e cfr. f. 20, dove è detta « meteora psichica »), e per far ciò è necessario « vagliare, entrare nella mente, nelle abitudini dello studioso, nell’istituzione, nella dottrina, nella psiche dell’autore, e sì, tener conto di ciò che voleva esprimere e non poté, di ciò che

prima gli sorrise, e poi rifiutò, di ciò ch'egli vedeva e non fece vedere, di ciò che non vide e noi vediamo... ».

Flagrante è la corrispondenza di questo f. 31 con SV mv III: «lo studio di uno scrittore non si può né deve scompagnare dall'esame delle sue probabili fonti e dall'indagine de’ pensamenti probabilmente suoi e della sua educazione e cultura ». In MV V si ribadisce la necessità di studiare « quali erano i concetti e le imagini che passavano a quel tempo per la sua anima » ('). E all’individuazione della percentuale di meteora chica rimasta inespressa si riferiscono anche esclamazioni

psiche

taluno potrebbe incautamente attribuire a una fantomatica vocazione spiristica: « Oh! se fosse lecito penetrare, nella mente del poeta, in quella mente, e cercarvi le parole che non disse e le imagini che non espresse, e che egli portò con sé nell’eterno

(10) Per il condizionamento esercitato dalla rima in Dante cfr. IMO I ii: « Oh! io vi concedo che a priori non si possa affermare che Dante è un divino fabbro della parola, ia quale egli foggi sull’incudine come a lui piace; ma voi dovete concedermi che non si possa affermare se non a ragion veduta, che egli dalla rima si lascia condurre e trascinare, come pastorello da una gran bestia! ». (11) Cfr. IMO I i: « Noi, per la medesima cosa, adopreremmo forse imagini meno tenebrose e parole meno forti; ma noi siamo noi e viviamo e pensiamo ora; Dante è Dante e viveva nel trecento, e il suo pensiero e il suo stile si colorivano di religione e di scolastica »,

386

silenzio, come Michelangelo le statue che vide nelle rupi e non vi scoperse! (?) Se fosse lecito! » (SV pa IV); « Oh! potessi evocare Dante! Ché questo ci vorrebbe, solo questo basterebbe, per

certi increduli o pervicaci o ciechi! » (SV rv VIII). Quando avviene di forare qua e là la crosta, l’inespresso e il sottinteso scaturisce limpido e profondo, strappando gridi di emozione, di meraviglia : « oh! sublime gioia, pensare il pensier di Dante » (MV

XXXI);

« Noi profondiamo

nel miro

gurge;

e sentiamo

il

freddo e la vertigine dell’abisso. Noi scendiamo nel cupo del pensiero Dantesco, per la prima volta dopo sei secoli » (SV pa I). Ricomponendo il mosaico con le tessere a mano a mano ricuperate in questo lavoro di scandaglio, vien fuori uno studio come

MV

che reca, non

a caso, per sottotitolo

Abbozzo

d'una

storia della Divina Comedia ed è centrato sulla più possente e terribile meteora psichica dantesca: l’Alpigiana; cfr. MV XXII: Dopo il lampo, nel quale egli vide quanto ella era bella, grande, sublime, seguì il tuono che atterrisce. Oh! quanto cammino da percorrere! quanti ostacoli da vincere! quanti drammi da raccontare! quante questioni da risolvere! quanti cuori da scrutare! quanti veri da approfondire! quante ire! quante lagrime! quante glorie! cielo e terra! tutto l'universo! Ed egli non pensa più ad altro : egli è prigioniero della sua idea; non ha più libero arbitrio.

Per lo spazio di un attimo il lampo illumina la mirabile visione (5); ma il poeta che voglia riprodurla sulla carta si accinge a un'impresa immane e mai completamente attingibile. Fra l'emozione poetica e l’atto espressivo deputato a comunicarla si interpone il diaframma della lingua, che «è fuori di noi » (f. 72) e ci condiziona in termini di inadeguatezza strumentale e di durata. Esistono « due modi di conoscere, e di esprimere » (f. 24), uno convenzionale e l’altro estetico (f. 19), uno proprio e l’altro figurato (f. 68). Soltanto nell’Adamo nomenclatore, la cui « parola era naturalmente poetica » (f. 23; e cfr. f. 56 : « che

cosa è la poesia? Il primo linguaggio necessario degli uomini »), i due modi coincidono. Ma questa condizione di poeta primitivo

è irripetibile : qualsiasi poeta, nei momenti

di emozione psichi-

(12) Dal che si deduce che il Sileno tanto latino quanto conviviale è, fra l’altro, gettivazione della meteora psichica. (13) E si pensi al famoso dittico myriceo costituito da /l lampo e Il tuono.

un’og-

387

ca, quando ritorna bambino o selvaggio, deve venire a patti con un codice precostituito, sclerotizzato, rigido; è perciò un poeta necessariamente

« riflesso » (f. 23), che « Crea, come

può, le pa-

role » (f. 19; e cfr. f. 31: « ci aiutiamo con le parole che sappiamo, e le applichiamo in modo non comune. Ci formiamo una lingua propria ») e « dà un'impronta personale alla lingua per mezzo dei così detti tropi » (f. 72). In questa operazione il suo modello — come dimostrano l’ontogenesi (Ernesto Haeckel, Storia della creazione naturale, Torino 1890-1), la psicologia ed anche i miti coniati dai poeti antichi — non può che essere la condizione del selvaggio e del fanciullo, che tutto vede con meraviglia, come per la prima volta, e a tutto vuol dare un nome (« Tendenza

a mutare,

nel bambino,

il senso

delle

parole,

ad

avere una propria lingua » : così il f. 19, rimpolpato nella lezione VI del 1909-10 con le teorie di Jespersen e Hale). Il fanciullo « vede le cose concretamente, come i popoli primitivi. Descrive ciò che vedono e odono per analogia a ciò che sanno già. Questa è l’apercezione. — Assimila ciò che gli par nuovo e strano a cose a lui familiari » (fS. 16). Egli « Vede

solo a metà, non

osserva

che uno o due particolari che per lui sono tutto... E la fantasia assimilatrice nascondendo l’imagine visuale sotto quella della cosa simile compie il miracolo (“). È la questione della fede! »

(£S. 10).

Alla radice così della poesia come della religione (%) si trova dunque il linguaggio tropico, che ricade sotto la « teorica generale della novità, della meraviglia, e perciò dell’iperbole » (fS. 19). Pascoli rintraccia questa teorica in Dante attraverso

una

delle più memorabili

abbia mai perpetrato; finito in MV

e geniali mistificazioni

alludo al concetto

che dantista

di stil nuovo,

così de-

VII:

Ho già osservato che non si tratta di poveri rimatori «la terra ride » cioè facendo una metafora; o «la un’angiola » cioè facendo un'iperbole; o « Amore cioè facendo una personificazione; non sapessero poi

che dicendo mia donna è m'ha detto », spiegare che

la terra non ride, ma fiorisce, e che la donna non è un’angiola, ma

una

(14) Ancora

femina

il titolo

bella

di una

e pura,

e che

non

c’è una

persona

myrica.

(15) Cfr. fS. 25: «La differenza è forse che i bimbi credono e gli uomini

388

di nome

dicono dei tropi?».

Amore, che abbia parlato, sì un sentimento chiamato amore, che ha commosso. Si tratta di rimatori stolti, che adoperano tal veste di figura o di colore rettorico, per coprire un bel nulla; ché i dicitori per rima sono pur poeti, sebben volgari, e devono avere, come quelli hanno, un verace intendimento sotto la loro veste poetica. Or dunque che cosa non hanno questi che così rimano stoltamente, che Dante e il suo primo amico hanno? L'’intendimento che è altro dalla vesta, la quale sebbene assomigli, in alcuna figura e colore retorico, a quella dei letterati poeti, deve tuttavia essere di una sola foggia sempre, poiché non è lecito rimare sopra altra materia che amorosa: un intendimento, insomma, filosofico. L'intendimento che il Poeta teme d’avere a troppi comunicato, della prima canzone, chi crederà sia non altro che il senso letterale? (VN. 19).

Dunque lo stil nuovo si distingue dall’altra poesia amorosa per un differente impiego del linguaggio tropico : qui esso codifica semplicemente un messaggio di contenuto amoroso, là invece un messaggio che solo letteralmente è amoroso, ma sotto il velame è filosofico (!9). « E diciamo dunque che il dolce stil nuovo

di che udiva Bonagiunta, consiste nel fatto che le penne andavano strette diretro a un dettatore che si chiama studio; studio dell’arte. E lo studio dell’arte per Dante consisteva nell’intento d’imitare il più da presso possibile i poeti grandi cioè regolari. E tale studio gli diede la potenza, riconosciutagli subito dal buon lucchese, di significare a quel modo che l'Amore dettava » (MV

VII) €).

Nel cap. XIII del Fanciullino Pascoli esprime questo concetto con la formula paradossale « Lo studio deve rifarci ingenui ». Al di là dell'amore convenzionale dei rimatori stolti, mera

etichetta vuota di contenuto, per ricuperare l’amore vero, che coincide col fanciullino e l'autentica poesia, è necessario lo studio pur che sia ben diretto : sicché, quando Dante parla d’imita-

zione, non si riferisce a quella riproduzione pedissequa e passiva (16) Cfr. ancora da MV VI: « Dante dice che tali personificazioni non si adoperano che in poemi i quali hanno ben altro intendimento di quel che paia, e così non si debbano adoperare in rime (d'amore, per forza) se non « Questo era l'argomento delie rime nuove, le avevano in sé “ alcuno ragionamento ”. E alle dovuto essere, Dante e sì anche il suo primo

per coprire di tal veste un altro senso »; e: quali pur essendo necessariamente d'amore, personificazioni che in esse sono e avrebbero amico, avrebbero potuto togliere la vesta. E in ciò consisteva la novità di tali rime, e questo era lo stil nuovo ». (17) Non sorprende che al celebre luogo di Purg. XXIV 49 sgg. alluda anche il cap. V

del Fanciullino («né stimo un perditempo l’ascoltarti quando detti cap. VI « dire o dittare » e XI «ciò che il fanciullo detta dentro »).

dentro »:

cfr.

ancora

389

che genera la poesioide (il termine compare nei manoscritti del Fanciullino), bensì alla penetrazione e allo smontaggio di un modello congruo — nella fattispecie virgiliano — che gli permetta di estrarre, dal linguaggio comune, gli elementi pertinenti a comunicare la maggior percentuale possibile di emozione, di meraviglia. Così stil nuovo designa il rinnovamento — che in un poeta riflesso è necessariamente artificiale — della lingua letteraria, tale da assicurare a questa il grado di « malleabilità » (15) indispensabile a cifrare la meteora psichica contemplata con l'occhio stupito del fanciullino. In MV VIII il termine impiegato è « ingegno » (quello che, nell’interpretazione del Pascoli, mancò a Guido Cavalcanti); ed è superfluo ripetere come, nella Commedia, i binomi studio e amore (il nome mistico di Virgilio), ingegno e arte — che solo presso Matelda si compongono in

unità — siglano il necessario rapporto tra l’ingenuità «di ritorno » (così dice Pascoli nelle lezioni bolognesi) del poeta riflesso e la rigidità del codice nel quale egli è costretto a esprimersi.

Ma vediamo più da vicino i tre gradi di metafora, iperbole, personificazione in cui lo stil nuovo si articola. Nella lezione IX del 1909-10, pp. 508-10, Pascoli abbozza una rilevante distinzione

fra « linguaggio tropico o traslato » e linguaggio delle « figure rettoriche o di fantasia ». Il primo è fondato sulla metafora come banda di oscillazione fra i gradi estremi dell'iperbole e della litote (« Mi sembrerebbe che il lavorìo fantastico del fanciullo o del poeta si aggirasse più tosto nel più o nel meno : o ingrandisca o diminuisca. Cercando questa parola, cerca il fanciullo qualche cosa di simile, ma su un’altra scala: o più grande, o più piccola »); il secondo, invece, s'impernia sulla « prosopopea » o personificazione e figure consimili. La fenomenologia della metafora corrisponde a quella descritta nel cap. II del Fanciullino; d'altra parte quando Pascoli puntualizza la natura riflessa, e dunque in certa misura impoetica, della similitudine (che alla metafora è finitima) ('’), non fa altro che implicitamente

richia-

(18) È glossa del Pascoli sul margine di una pagina di Max Müller, Letture sopra la scienza del linguaggio, Milano, Daelli, 1864. (19) «La comparazione differisce dalla metafora solo in quanto la similitudine rivela anche il procedimento del pensiero, il procedimento nello spirito [...]. Perciò la similitudine è meno fanciullesca della metafora, meno ingenua; e non viene se non dopo una evoluzione; non è propria dei popoli primitivi, quindi nemmeno dei fanciulli. Noi diciamo non che la metafora è una similitudine abbreviata, ma che la similitudine è una metafora allargata ».

390

marsi alla distinzione, operata nel cap. XII del Fanciullino in margine a un verso dantesco, fra poesia pura e poesia applicata,

riconoscibile quest'ultima dal metalinguistico « par » (0). Avverto

subito che negli scritti danteschi la problematica

relativa al linguaggio tropico va molto più a fondo, rispetto ai cenni distillati nel Fanciullino, dove Pascoli si limita a illustrare

il meccanismo metaforico al suo livello, diremmo, più basso. Confrontando la gradazione tracciata in MV VII con questo passo della lezione IX già citata: Tra le figure rettoriche o di fantasia, le più osservabili sono: l’apostrofe,

con la conseguente prosopopea ed esclamazione, e preghiera e deprecazione e ripetizione e altre ancelle. Tutte poi si riducono a una vivificazione di ciò che non è vivo, ad un colorimento di ciò che è smorto; parlare agli assenti, ai morti, agli esseri inanimati. A questa divina proprietà dello spirito forse, si riduce tutta la attività estetica.

osserviamo che in MV VII metafora, iperbole e personificazione sono

ordinate nel senso

della vivificazione crescente;

e che vivi-

ficazione e personificazione sono sinonimi e riconducibili ambedue all’apercezione infantile, come anche si ricava dal fS. 17: « Questo studio di concretare lo conduce a tutto animare e personificare ». Sulla vivificazione « che viene dalla tendenza di realizzare un’idea sotto forma concreta » (così nella lezione, traducendo il Sully), centro dell’estetica e della poesia pascoliana, ho già avuto occasione di trattare altrove (”): qui intendo soltanto illustrarne la fenomenologia sulla base degli scritti danteschi. Leggiamo anzitutto un brano di MV XIII: Ora la filosofia Dante sa bene, e a lungo dichiara nel Convivio, essere amor di sapienza e di sapere (Co. 3, 11 segg.). E in esso trattato e nelle canzoni che vi si comentano, è distinta sovente filosofia ne’ suoi elementi, ma non sì da farne due persone. O meglio l’un d’essi, l’amore «ch'è parte di Filosofia» (ib. 14) è personificato talvolta, ma in guisa, dirò, meglio metaforica che allegorica; anzi meglio filosofica che poetica [...]. C'è, sì, nella prima delle canzoni conviviali «uno spiritel d'amor gentile », e

(20) Cfr. anche f. 28: « Due linguaggi. Sono due modi di conoscere? Il fatto è che non c'è luogo in questa conoscenza al credere o non credere. È perché è sottinteso che è = pare? ». (21) Da ultimo

rivista « L'altro

in un

articolo

(La « vivificazione » nell’estetica

versante »: che si pubblica

a Rimini,

pascoliana)

a due passi da San

consegnato

alla

Mauro.

321

nella seconda

« l'amor

che... ragiona », e « move

cose », e ha par-

lare che « dolcemente sona »; ma, pur menando esso all’abito dell’ arte e della scienzia, non perde mai, se non per un po’ di tropo quasi necessario anche a noi, la sua natura d’accidente in sustanzia e di forma di ciò di cui sapienza è materia.

Dunque metafora sta a filosofia come allegoria a poesia. Ma il rapporto tra filosofia e poesia equivale a quello posto da Platone tra logos e mythos e da Pascoli tra prosa e poesia, cioè tra

linguaggio comune e proprio. Poiché nel poeta riflesso i due linguaggi sono necessariamente mescolati (?), anche la metafora dantesca non cessa di contenere in sé una forte percentuale di

vischiosità

proveniente

dal linguaggio

convenzionale,

che

nel

caso di Dante coincide con quello, specializzato, della filosofia e della teologia (*). L’allegoria, al contrario, è una figura poeticamente più congrua. Possiamo affermare che essa corrisponde

all’iperbole di MV

VII in quanto

metafora

potenziata

e conti-

nuata: non incide soltanto su un « accidente in sustanzia », ossia

su un attributo inerente al soggetto (« la terra ride »), bensì sul soggetto tutto intero («la mia donna è un’angiola »), raddoppiandone il significato. L'allegoria è opposta al linguaggio proprio, ossia al linguaggio comune pur se tropicamente personalizzato (cfr. ad esempio MV V « è la traduzione di quella frase propria in allegorica »), e consiste nel trasformare il messaggio da univoco a multivoco (cfr. IMO I 11 « Ma il fatto è che i due sensi si fondono

in uno, quando il Poeta parla allegorizzando »); d’al-

tra parte, trasferendo sul piano del discorso continuato il paradigma di valori che va dal più al meno, è al tempo stesso metafora e metonimia, secondo la prassi pascoliana più schietta. Il discorso allegorico, fondendo due sensi in uno, è il primo passo verso ciò che Pascoli chiama il polisenso. L'Epistola a Cangrande distingue «i quattro sensi, letterale, allegorico, morale, anagogico. Precipuo e fondamentale nella Comedia è quest’ ultimo, il quale riflettendo “le superne cose dell’eternale glo(22) Cfr. f. 28: «La poesia ora è nec. mescolata, i due linguaggi sono tutti e due nella stessa bocca. Le due maniere di conoscere si intrecciano e si confondono. Poesia è quella in cui più domina l’uno, prosa è quella in cui più domina l’altro. Una vera limitaz. non c'è. Aiuta il ritmo e la musica, che ricorda l’origine ».

(23) Cfr. f. 19, che dà esempi

di linguaggio

comune:

ziato si trascinano dietro la parola il suo significato: non sanno che cosa ci sia dentro, o a dir meglio non

essere ».

592

« Il contadino

e il filosofo o scien-

tirano la carretta, in certo modo, e ci guardano: sanno quel che ci deve

ria” si trova coincidere col senso letterale di tal poema che descrive appunto il mondo di là e le cose superne, oltre le inferne » (CSD II). In questo ritorno circolare del sovrasenso su sé stesso, allegoria e anagogia rappresentano la stadio intermedio del processo di metaforizzazione a carico del dettato lettein questa direzione, Dante la

rale. La prova più impressionante,

compie nelle canzoni per la donna Pietra (MV XIV): Se Dante avesse comentate allegoricamente e anagogicamente queste poesie, certo in parole e imagini, che a noi sembrano insignificanti e comuni, avrebbe rivelato a noi intenzioni non sospettate. Ma come avrebbe dichiarate certe eruzioni di passione così carnale e accesa, quali troviamo qua e là in tutte? Anagogicamente, io dico, non le avrebbe dichiarate. In fatti nelle tre che comenta, dopo aver detto che il senso anagogico c’è, lo tace però quasi del tutto, appagandosi dell’allegorico, oltre il letterale. Non avrebbe aperto il senso anagogico; ma questo pur c’è, non ostante la crudezza di certe parole e di certi pensieri (4).

Com'è

possibile, si chiederà

il lettore, che la donna

Pietra

figuri la Vergine? È a questo punto che il Pascoli circoscrive il limite poetico dell’allegoria : « E dovrebbe anche ognuno convenire che tali composizioni polisense è malagevole condurre sì che tutti i sensi riescano al pari congruenti e condecenti »; per poi concludere : « E ripeto che il senso anagogico è più là o più su dell’allegorico. Non maraviglia perciò che nell’ardente figurazione del litterale, si perdesse di udita quell’eco, che ne aveva

a risonare tanto lungi, senza arrivar mai alle orecchie del volgo » (ibid.). L'anagogia, in realtà, non costituisce qualcosa di allotrio e di superposito all’allegoria : già vedemmo che la fede, la religione è una dimensione connaturale alla conoscenza intuitiva che si esprime nel linguaggio tropico, in quanto ambedue sono produzione diretta della fantasia assimilatrice che presiede, appunto, al processo di allegorizzazione. Ma ciò non toglie che la lettera sia talora sorda a recepire il sovrasenso. Parlando in SV so VIII della notte di plenilunio che illumina la selva oscura, Pascoli

osserva : « Questo

(24) Ancora compenetrazione

un

brano

allegorica

illuminante sono

legate

il senso,

rispetto da

alla

rapporti

che via via si chiarirà

poesia sovente

pascoliana, complessi

dove

me-

iconografia

e insospettabili.

393

e

glio, della selva: senso allegorico e anagogico. Ed è mirabile considerare, come le necessarie imperfezioni (*) in tale figurazione unica di concetto

molteplice,

siano dal poeta dissimulate

e sanate ». La nota marginale a Sully 94 (dove « partialité d’observation » corrisponde a meraviglia alla formula pascoliana « espressioni parziali ») parla di « metafore imperfette e contraddittorie », riferendosi al processo di apercezione analogica attraverso il quale la fantasia assimilatrice opera la selezione dei particolari. Tutto dipende dalla possibilità oggettiva d’intersezione che si dà fra i due termini

assimilati, ossia dal grado

di

pertinenza reale (non soggettiva : essa sussiste per definizione) che compete al particolare scelto. Insomma la cosa simile presenta un grado maggiore o minore di assimilabilità, paragonabile allo spazio che intercorre fra sinonimia e allonimia. In quest'ambito il caso più felice è (sorprendentemente ma non troppo, anche da un punto di vista logico) quello dell’antonimo, dal quale scaturisce la scintilla dell’oxymoron; come nella formula esemplare La speranza de’ beati, che fa da titolo a MV

III:

Ma Dante, pur teologizzando, è poeta, e intrecciando miti e ragioni, riesce con apparente assurdità a quell’effetto della poesia che è la maraviglia. Qui egli ha nel pensiero due dati: uno, teologico : in cielo non è la virtù di speranza, ma solo ardor di carità per il quale (e non per la virtù di speranza) i beati sperano la beatitudine ai viatori di questo mondo; l’altro, poetico: Dante e la sua donna sono due viatori (come sovente il Poeta si raffigura in cammino!) di questo mondo, e Dante in quella donna che ama, vede (cosa assurda, e pur vera!) vede, sì, la speranza. Co’ due dati, che cosa nasce? Gli angeli e i santi, nel loro ardor di carità, sperano la beatitudine della gentile viatrice; ma essa viatrice è la speranza della contemplazione di Dio per alcuno; e se è la speranza, deve rimanere col viatore; anzi coi viatori; che se è la speranza d’alcuno, è la speranza, dunque è la speranza di tutti; e deve rimanere in terra appunto per effetto di quell’ardor di carità o pietà, per il quale gli angeli e i santi sperano che venga in cielo. Come donna, è aspettata in cielo, come speranza, deve rimanere in terra; e l’una cosa e l’altra sono parimenti ragionevoli. Onde la maraviglia del lettore, se intende. Ma intendere è difficile. Sicuro : non lo dice il Poeta? ,

(25) Necessarie allo stesso titolo di linguaggio proprio e comune.

394

della

« poesia

applicata » e, in genere,

della

mescolanza

Occhio al linguaggio, quanto

mai sintomatico : si tratta di un

esempio di iperbole (sul tipo di MV VII « la mia donna è un’ angiola ») che, per quanto

confezionata

in un tessuto

necessaria-

mente misto, « intrecciando » (*) prosa e poesia, raggiunge della poesia l’effetto supremo, cioè la « maraviglia », attraverso un oxymoron, scintilla sprigionata dalla frizione tra due linguaggi opposti, quello della filosofia e quello dell’emozione. Ma l'oxymoron, che è il sigillo più caratteristico della poesia dantesca (?) e della poesia autentica in genere, nel rapporto tra filosofia e poesia individua una condizione privilegiata, eccezionale,

essendo

l’antinomia

l'equivalente

tata, per una sorta di calcolo algebrico, È piuttosto la somiglianza, con le sue a proporre alla fantasia assimilatrice schiosità, in forza del quale la filosofia

dell'identità

proiet-

su una duplicità di piani. innumerevoli gradazioni, il maggior indice di viriesce in parte a sottrarsi

al fall out dell’allegoresi. In MV VIII si osserva che « nell’allegoria Dantesca il verace intendimento è nascosto sotto una vesta di figura; non è a parte a parte e del tutto impersonato in tante

figure. Scoprendo via via tal vesta o tal velame, voi vedete il verace intendimento che si svolge sovente con parole sue proprie », appartenenti cioè al linguaggio filosofico, pur se Dante vi abbia impresso il proprio sigillo tropico. È pur vero che «in tali visioni è necessaria, oltre la verosimiglianza sulla quale conta ogni poeta, anche, e precipuamente, la verità delle dottrine che il filosofo vuole insegnare » (MV VI); è pur vero che « sotto il velame io vedo a mano a mano che si nasconde tanto di bellezza quanto di verità. Onde ogni volta che scopriamo il verace intendimento del filosofo, il poeta ci splende di luce nuova » (SV av VII). Né può dirsi che la filosofia non sia stata tutta ripensata e reintuita con l'occhio stupito del fanciullino; è che il linguaggio della meraviglia, nella fattispecie l’allegoria, è

necessariamente

mescolato,

discontinuo,

spesso

incongruo:

(26) Il f. 24 contiene una scaletta per gli Elementi di letteratura; questo il primo argomento del Proemio: « Poesia e prosa ... (proemio - I due linguaggi, i due modi di conoscere,

e di esprimere

- Loro

intreccio

e mistura

».

(27) Come polemicamente ribadisce CSD Prefazione III alla Prolusione al Paradiso: si diverte il critico dell’esegesi d’un poema mistico, con la morte che non è morte, selva

mento morte

che

non

è selva,

col

lume

che

non

è lume,

con

l'adolescente

che

non

« Come con ia

è adolescente!

del Proemio: « Poesia e prosa ..... (proemio - I due linguaggi, i due modi di conosceche è vita? Che vuol dire mortificazione dei peccati? Se la prenda con Dante, 1l

Fraccaroli,

e

se

vuol

risparmiar

lui,

si rivolga

contro

Paolo

di

Tarso ».

395

l’espressione totale è un passaggio al limite verso cui tendono per approssimazione (*) le serie di espressioni parziali, senza mai riuscire a raggiungerla. Tuttavia, se nello svolgimento della « concezione generale » l'emozione, la meteora psichica, in origine immediata come un

lampo, è necessariamente graduata, la Commedia è un « grande oceano perlifero » (cfr. il cap. XII del Fanciullino) in cui poesia applicata e pura si alternano e si distribuiscono in una proporzione che è compito del critico focalizzare. Ora, in base agli scritti danteschi, la poesia pura corrisponde al colmo della personificazione, cui è attribuito carattere distintivo nella definizione dello stil nuovo. La personificazione dantesca per eccellenza è quel-

la che si fa a carico

di amore;

il meccanismo

è descritto

in

CSDEIL: Dante ha sempre, e nella Vita Nuova e nel Convivio, distinto l'Amore dall'amante e dall’amata, inspirato in ciò da una somiglianza della Trinità. Egli ha, per così dire, estratto dall’unità dell’unico e trino Dio, il nesso, il medio, lo spirito, l'Amore! Nella Vita Nuova egli figura questo nesso ora in un pellegrino malvestito, ora in un giovane vestito di bianchissime vestimenta; nel Convivio, in qualcuno (come si vede qui) che ragiona, come ragionava sempre quel pellegrino e quel giovane; nella Comedia in Virgilio, peregrino, sì, anch'esso, e forse vestito di bianco, e che ragiona

sempre

Insomma : nella frase

di Beatrice!

« Dante

ama

(29).

la sapienza », personificare

quest'ultima in una Beatrice è il primo intervento, che ricade nella fenomenologia dell’iperbole, dunque dell’allegoria. Ma resta sempre un residuo concettuale : « il nesso, il medio », il rap-

porto verbale che lega queste due persone. Ebbene, il colmo della concretezza e della vivificazione consiste proprio nell’estrarre questo nesso dal rapporto logico in cui opera, e dargli corpo e autonomia: non per nulla la codificazione dantesca procede nel senso

della individuazione

crescente

(prima

un

pellegrino,

(28) Cfr. la lezione III del 1905-6, p. 29: « In certo modo metafora è approssimazione e non, come altri - parola per un’altra - definizione molto buffa »; e soprattutto il f. 31: « Approssimazione. Tormento nel poeta di dover adoperare le parole vecchie per le cose nuove / sua disperazione ». (29) Sulle allegorie medievali di Amore esiste a Castelvecchio, con tracce di lettura, l’articolo La teorica dell'amore e un antico poema francese inedito, in Fra Drammi e Poemi. Saggi e ricerche di Egidio Gorra, Milano, Hoepli, 1900, pp. 199-257.

396

poi qualcuno

che ragiona,

tratta di un meccanismo

infine Virgilio in carne

proprio dell’apercezione

e ossa). Si

infantile;

la

lezione VII del 1909-10 lo illustra con una serie di esempi tratti

dal Sully : « Il vento è vivo — diceva un ragazzo — l’ho udito fischiare questa notte. Ecco che egli immagina il vento separandolo in due : una persona, che è il vento, che emette un fischio; una cosa, che è il fischio stesso, la raffica. Più chiaramen-

te ha questo concetto un altro ragazzo, con qualche aggiunta poetica di immaginazione : — Questa notte era il giorno natalizio di Dio e il vento aveva avuto in regalo dal vecchio nonno una tromba e lui ci soffiava dentro. — Qui c’è un vento persona che ha la trombetta, la quale poi è il vento fenomeno » (pp. 498-9); « Queste bambine considerano il sogno come estraneo alla loro anima, e come venuto di fuori » (pp. 499-500); « Pensino a questa immagine di un fanciullo: “ La luna fa la ronda, quando la gente si dimentica di accendere il lume ”. Qui tutto è complicato. Un tempo, e forse anche ora, avviene che quando c'è la luna, certi

lumi non li accendono. E pel fanciullo, la luna si prende la briga di andare attorno a far luce. La luna porta una lampada che è essa stessa, ma è speranza come nel vento » (p. 501) (*).

La personificazione

di amore

regge

l’intera affabulazione

della Commedia. Riguardo all'essenza simbolica di Beatrice, è det-

to in CSD JI! Canto trentesimoterzo del Purgatorio : per quanto persino Dante, chiamato a dichiarare il suo poema, potesse, come nel Convivio in simile caso, adoperare consimili parole, Teologia, Scienza divina, Filosofia divina e anche Verità rivelata, Documenta fidei, Sacra scrittura, e vai dicendo; avvertirebbe però, come nel Convivio, una volta per sempre, che il concetto di filosofia, divina o no, ha due parti componenti: Amore e Sapienza (Conv. III, 15). E poiché Virgilio è chiaramente colui «che congiugne e unisce l'amante colla persona amata » (Conv. IV, 1), egli è indubbiamente Amore. E poiché l'Amore, cioè studio (Conv. III, 12), «mena l’uomo all'abito dell’arte e della sapienza » (ib.), non solo Beatrice è sapienza, ma anche Matelda è arte, perché Virgilio mena l’uomo prima all'una e poi all’altra. [..] E così Matelda viene a essere una specie d'ancella, e di figlia di Beatrice, come l’arte è l’operare, il magistero, dell’intelletto.

con

(30) Pascoli confronta queste metafore Il canto notturno del Leopardi.

infantili

con

episodi

dell’/liade

e

dell’Odissea

e

397

Gli atti del congiungere, del condurre, dell'essere ancella, traducono in immagini altrettanti rapporti logici. A questo punto si capisce perché Pascoli dice che la Commedia è un « dramma al legorico » (IMO I 11), «il dramma della vita attiva e contempla-

tiva » (SV fp II) secondo « la finzione del poema, la quale singolarizza drammaticamente un fatto comune » (CSD Prolusione al Paradiso XXVIII) (0). Osserviamo di passaggio che, nella teoria pascoliana dei generi letterari, dramma ha una connotazione peggiorativa in quanto, a partire dalla nota al cap. II del Fanciullino, (?) si riferisce

alla dimensione erotica, per definizione estranea alla poesia fanciullesca. Ma ricordiamo anche che la novità del dolce stile consiste nell’adattare la personificazione di amore a una poesia piuttosto filosofica che amorosa. È così : l'operazione personificante ha anche, e soprattutto, la funzione di rinnovare e sublimare l’amore, restituendolo alla sua essenza originaria. In CSD Prolusione al Paradiso VII Virgilio è un’« ombra », un’« anima irre-

denta », della quale si parla — per prosopopea continuata — femminile. Ora, quando Dante incontra Virgilio,

al

L’anima che ha acquistato la speranza, si trova avanti quella che vive in desio. L'anima che si era data altrui, che aveva perduto, o meglio smarrito, l’amore del vero bene, si trova con quella che vive senza speme (Inf. 4, 42). L'una si integra con l’altra.

L'una

è quella che spera, e l’altra è il suo amore.

In questa scissione del predicato, dal soggetto cui inerisce, consiste il proprio meccanismo della personificazione dantesca; e la loro reintegrazione finale è la soluzione di un dramma che è prima di tutto linguistico e conoscitivo : la vivificazione, lo stru-

buto vero

(31) « È giunto Dante a Beatrice, cioè alla sapienza, cioè alla personificazione dell’attridi Cristo: si è fatto quindi nel tempo stesso filosofo, cioè amico della sapienza, e cristiano, cioè fedele veramente di Cristo che è sapienza (ibid.).

(32) « Non anche epica,

solo i poeti moderni,

così assolutamente

fissati sull'amore

e sulla donna,

ma

gli antichi poeti tragici e persino i poeti corali immediatamente successi alla poesia si diedero a colorire l'elemento femminile ed erotico dei poemi omerici. E le donne

designate

e mentovate

in essi poemi,

non

bastarono,

e se ne

crearono

di nuove.

Ciò

accrebbe

l'interesse drammatico del ciclo, ma segna in esso la diminuzione di essenza poetica. Così Orlando innamorato e furioso per amore è più drammatico ma meno poetico di Rolando nella Canzone ». Cfr. anche la lezione V del 1906-7, p.158: «la prima specie di poesia è la poesia senza specie, la poesia che li comprende tutti i generi, che è un po’ epica, un po’ lirica, un po’ drammatica, che darà col tempo origine a tutte queste specie, e posso aggiungere, come corollario, che la sola poesia è questa senza specie. Nel resto si vede sempre un po’ di degenerazione ».

398

mento più efficace e sublime del linguaggio poetico, è diretta al ricupero

dell’unità

originaria,

della concretezza

che, una

volta

riconquistata, è più concreta e reale di quel che era in partenza (quand’era offuscata dal diaframma della conoscenza razionale, del linguaggio convenzionale). Così Dante al termine di questo processo

realizza veramente

il reale (#), veramente

dà alla cosa

vecchia il nome nuovo, restituendola così, attraverso l’espressione esteticamente adeguata, alla sua corretta e autentica essenza e gerarchia. E come l’amore era il soggetto obbligato per i rimatori volgari, così il dramma, il genere letterario più degenerato, era però il più congruo a concretare, a vivificare ciò che v’ha di più immateriale e concettuale e filosofico : il pensiero umano

().

Dopo di che, l'amore non è più lui: è meno reale, dunque più reale di prima, perché nella sua materialità ha inglobato il proprio concetto; è l’« amor vero per la donna che è l’uomo rimasto giovinetto », (*) è l’amore come studium e sintesi di emozione poetica e filosofia, è il fanciullino, l’anima semplicetta, è l’inno-

cenza originale, l’arte come misura e libertà. Da MV non

XIII

sappiamo

completamente

resa

che la personificazione

autonoma

e drammatizzata,

imperfetta, è « meglio

filosofica che poetica », tiene ancora più della metafora che dell’allegoria. Altrove Pascoli è più preciso. In MV V, sempre a proposito di Amore, dice che « questa persona, non è un di noi; è un simbolo; non è un uomo ma uno accidente in sustanzia, una passione, l’amore », in quanto « il fatto narrato “ sotto vesta di figura o di colore retorico ”, è pur un fatto psichico, di quell’accidente in sustanzia che è Amore ». Se ne ricava prima di tutto che estrar-

re l’accidente dalla sostanza, il predicato dal soggetto equivale a personificare una « passione », un « fatto psichico » : dunque la vivificazione dantesca investe non soltanto i concetti e i rapporti filosofici, ma anche i fatti più elementari della psiche; in altre

parole, giusta la definizione data nel cap. VIII del Fanciullino,

(33) Cfr. realizzare

ciò

la glossa che

del

Pascoli

è reale .... un

a p. 68 degli

albero,

un

fiore,

Études: un

« Pittore,

sentimento

scultore,

poeta

giocano

a

».

(34) « Ma Dante è sempre solo. Il suo dramma, più vertiginosamente sublime di qualunque più alta tragedia di Eschilo e di Shakespeare, ha un personaggio solo. È il dramma immateriale del pensiero umano, del pensiero puro, che varca gli abissi e vola ai cieli, senza

che

un

bestemmie,

nulla

si muova,

gli osanna,

(35) Così

che

ha

tutti

i sospiri,

senza che s'oda un zitto » (CSD

l’importantissima

nota

a

Lyra

(p. 64)

gli aneliti,

Il Canto Cat[ullo].

i pianti,

i gridi,

trentesimoterzo LXXII

i ruggiti,

le

del Purgatorio).

4.

399

questa ansia di concretare si esercita non solo nel campo della fantasia, ma anche in quello, assai più prossimo, del sentimento. Così Dante non spera : ma lo soccorre la speranza dell'eterna contemplazione, personificata in Beatrice; non agogna, invano, di possedere la sapienza : ma essa sapienza è una donna Pietra; non

cade in estasi: ma la sua mente si diparte, egli seppellisce Miseno (il proprio corpo), egli va a Beatrice (*). Ora la personificazione, sia di un sentimento elementare sia di un concetto filosofico o teologico, Pascoli la chiama simbolo (”).

In CSD Prefazione III alla Prolusione al Paradiso distingue addirittura tra simbolo e metafora: E dovrò dire io che la selva di spiriti è proprio una selva? Dice il Fraccaroli: è una metafora. Sì: una metafora; ma i raffronti con la selva oscura, con la selva semovente degli sciaurati punti da vespe e mosconi, con la dolorosa selva punta da arpie, con la trista selva dove sono i lupi fiorentini, e finalmente con l’anima che è vegetante, prima che sensitiva e razionale, persuadono che la metafora è di quelle che si chiamano simboli (88).

Il simbolo, dunque, è più di un campo metaforico, di un prodotto logico la cui interna coerenza sia maggiore o minore a seconda della resistenza opposta dalla lettera. Ed è più di un’allegoria, cioè di una metafora continuata che, per quanto coerente

in ogni sua parte, proponga tra senso e sovrasenso una correlazione di tipo biunivoco, meccanico. Il simbolo è anche tutto questo : ma, di più, è un'immagine autonoma che vive di vita propria, e il suo contenuto non è mai completamente esauribile,

ma tale che si rinnova e riproduce nello spazio e nel tempo. Il simbolo,

insomma,

indica

sé stesso

e l'altro da sé, ma

in un rapporto multivoco e riscattato da qualsiasi dimensione di automatismo. Il linguaggio di Dante « splende di luce riflessa, ricevendo i raggi del simbolo che è sotto l’orizzonte »; le sue

(36) Cfr.

MV

IV-VI,

XIV,

XXXV.

(37) Cfr. MV V: « Dante si innamorò, cioè concepì amore, cioè l’amore gli entrò dentro, e perciò e’ non poteva più esser fuori di lui in figura estrasoggettiva di peregrino. Così parla coi simboli Dante! »; CSD II: « È che Virgilio, interpretato simbolicamente, è l’amore stesso che conduce Dante a Beatrice! ».

(38) Cfr. “ selva,

ibid.

la selva,

X:

anche

dico ”

non

se «tanto sono

la selva come simbolo complessivo non viri, di piante sterili ».

400

che

queste richiami

figuri

quel

imagini del

genere

quanto

pensiero

umano

quell’insistente filosofico », ciò

che

appellativo non

è « di parvoli

toglie

d'animo,

di che

di

« Sono parole illuminate dalla pallida luce del simbolo ». Così in IMO I x, dove è forse la più precisa descrizione del meccanismo in base al quale opera la fantasia assimilatrice: In questo, miraggio per cui un’azione terrestre si stampa, per così dire, nel cielo, trasfigurandosi, sì che alcuni tratti si conser-

vano (piangere, rovinare etc.) e altri scompaiono (le tre fiere), in questo miraggio il pensiero di Dante, che assomigliò la selva a un pelago dall’onda perigliosa e sé a un naufrago ansante, ha come un'ombra, come un'eco (3°) nel cielo, sì che la selva diviene fiumana.

Questo brano, che è il commento più congruo alla similitudine pascoliana e sullyana (*) del f. 72 (« Che cosa è la poesia rispetto alla cosa poetica? La paranzella in nero nella vostra retina, ma voi la vedete nel cielo, nel da per tutto »), mostra

con chiarezza

come, in seguito alla selezione di tratti pertinenti dettata dalla meraviglia, si consumi la successione da allegoria iperbolica (selva = pelago) a simbolo (fiumana). In CSD II Pascoli approfondisce il meccanismo : « per la virtù del Poeta vero che dà liberamente due idee per ogni parola e due rappresentazioni per ogni imagine (*#) — una presso e avanti gli occhi, l’altra più lontana, come la ripetizione nera d’un disegno candido che abbiamo fissato a lungo ». Quella che dà due idee per ogni parola è l’allegoria, il cui il significante è portatore di almeno due significati (il letterale e l’allegorico). Ma ora è il significante stesso che, dopo averne surrogato un altro, si sdoppia : la paranzella, fissata a lungo dall'occhio smagato, si proietta in negativo nel cielo, nel « da per tutto ». Il significato trasferisce nel significante la propria multivocità. Il polisenso si riunifica e si risolve in una iperconcretizzazione dell’oggetto, che irradia da sé un surplus di realtà (©), traccia scintillante e palpabile della superiore ricchezza di significato che, conseguente all'operazione di nomenclatura, prende forma e contorno, e si fa autonoma,

inesauribile.

(39) Nel Pascoli poeta «eco » è, sappiamo, il senhal della donna gentile; e già lo trovammo menzionato a proposito della donna Pietra. (40) Cfr. Sully 145: «Les spectres brillants qui restent comme fixés sur la rétine aprés qu'on a contemplé le soleil sont rendus objectifs, c'est-à-dire considérés comme des choses absolument étrangères au soleil même ». (41) Come il fanciullino: « Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola » (cap. III). (42) Conferito dal sogno: «I bimbi sono, nel tempo stesso, osservatori (di precisione grande) e sognatori » (fS. 2).

401

Nel passaggio dall’allegoria al simbolo, l'enigma assurge a mistero. In CSD Prefazione V alla Prolusione al Paradiso Pascoli polemizza coi dantisti contemporanei: Voi facevate e fate alla più gran mente, che abbia avuto il mondo, questa accusa, di aver parlato o a vanvera o così oscuro che mille e mille e mille volumi di illustrazioni non siano riusciti che a far buio! [...} O che credete ingiurioso per la memoria di Dante che ci siano voluti tre volumi a spiegare il suo enigma, come dite voi, o il suo mistero, come dico io?

A livello di mistero si compie il senso anagogico e la conoscenza intuitiva diventa fede: vale l'equazione « è = pare ». Perciò «il poeta, sempre coerente, non spiega il mistero, che, con la spiegazione, non sarebbe mistero » (SV pa IV), e si esprime « con sue

potenti abbreviazioni, fatte apposta per mettere fuori di via l’interprete » (SV rv V). Se la Commedia

è un mistero, mistico è il

suo linguaggio (#). Si veda in MV XIII l’analisi logico-simbolica del saluto di Beatrice: L'anima è salutata dall’angelo o dall’angiola; e in ciò l’anima stessa è una specie di Maria; ma chi saluta l’anima è pure una specie di Maria, e l'Amore è lo spirito (uno spirito d’Amore, o spiritel d'Amore) che sopravviene. Sapiente invero (per chiarire sì fatto intreccio mistico), sapiente, cioè come Maria, divien l’anima per il sopravvenire dell’amor della sapienza, la quale sapienza è una specie di Maria. Maria rende Maria, la sapienza rende sapiente.

Tale è il « linguaggio mistico di Dante, linguaggio conforme a quello dei libri sacri, pieno d’idee e imagini che dai trivii talora metton l’ali e s’inalzano ai cieli » (MV XXXIV).

E tale è la sua

autonomia che in certi casi, come per il « più lieve legno » di Inf. III 91 sgg., « meglio noi comprendiamo qui il senso mistico che il reale e il poetico » (SV pa IV) (*).

(43) Rientra in quest'ambito l'equivalenza fra « essenza simbolica » - termine usitato dal Pascoli a indicare la percentuale, la meteora, il lampo di « essenza poetica » (così nel f. 49) che il simbolo convoglia e riporta alla luce - e « nome mistico » (ad esempio, studio-amore rispetto a Virgilio). (44) Una frizione simile (e parallela, sul piano inferiore dell’allegoria, all'oxymoron) tra « senso plastico » e « mistico » si verifica a proposito del « pie’ fermo » (Inf. I 30), quando l'esegeta è costretto, veramente ad arrampicarsi sugli specchi (cfr. MV XXVII).

402

Così, grazie alla luce del simbolo che irradia da sotto l’orizzonte, le metafore irrigidite, accattate ed eterogenee che fornisce il linguaggio filosofico, appianano i contrasti reciproci e si compongono nell'unità di un messaggio polisenso e nuovo; come è detto in MV XXXIV : Gli ammiratori d’un Dante astratto da’ suoi tempi e della sua scolastica, che cosa hanno a dire a codesto passo del paradiso in cui dopo le onde della cupidigia vengono i bozzacchioni dei susini, e poi la pelle bianca che si fa nera della luna, e poi la classe che vira di bordo, e poi il fiore che dà frutto vero? Hanno a dir male, per certo, essi che in Dante non vogliono considerare se non la parte formale. Ebbene io spero che ne penseranno meno peggio per quello che, con l’aiuto della scolastica, io ho mostrato e sono per mostrare intorno al legame di codeste imagini svariate e disformi, tenute insieme però dall’unica idea della rigenerazione del volere, prodotta dalla grazia del battesimo rinnovellata dall’autorità imperiale.

Con non dissimile tecnica metonimica e centonaria Pascoli legava in serie precise le sue poesie, e componeva le sue antologie asservendo a un messaggio proprio lacerti di provenienza e qualità la più eterogenea. Ed è emozionante cogliere l’assertore della poesia pura nell'atto di rivalutare, ancora una volta, la gabbia filosofica entro cui la meteora psichica si esprime. La parte formale non ha rilevanza critica se non è illuminata dalla luce del sovrasenso : « Così si fa la pelle bianca nera... Oh! non poteva dire (domando io a quelli che in Dante non vogliono mirare se non il poeta bello), non poteva dire : Così la pelle bianca si fa nera? Perché Dante volle far cozzare insieme quelle due parole nemiche? ». Eppure: « come è bella questa bruttezza, quando s’intenda! ». La giuntura di allegoria e dramma, unite nella perfetta autonomia del simbolo, costituisce quello che Pascoli chiama

mito (#). In SV mv (45) Cfr. un

dramma

di loro

MV

III:

in cielo ».

S. Agostino,

« Ma Dai

hanno

I, analizzando traduciamo

testi

biblici,

tratti molti

in nostro

la preghiera umile

e in particolare

profondi

concetti,

linguaggio da

san

di Virgilio a

il mito

Paolo,

i quali Dante

«i

teologico mistici,

[...]. È e a capo

ha atteggiati

e dra-

matizzati per sempre. In lui e per lui l’astrazione palpita e il mistero cammina e si vede » (SV pa II); «il grande mitografo del misticismo e della scolastica, Dante, ci pone sotto l'occhio, come è suo costume, questo concetto che pure i libri sacri esprimono con un’imagine » (ibid. III); « Egli significa e dipinge e scolpisce, anzi fa viva e palpitante la conseguenza di quel principio filosofico » (SV tf V).

403

Beatrice (« questa preghiera in cui è tutto l’artifizio dell’oratoria ingenua (‘) con quelle interrogazioni, con quelle anafore »), Pascoli conclude: Ma il bello e il grande di Dante non è nell'aver fatto qui un discorsino ben concinnato, secondo e le regole dell’oratoria e i dettami dell’amor che spira; sì è in tale sublime etopeia dell’astratto, in tale precisa significazione d’un mito spirituale: la Grazia che rende grato. Né meno mirabile è la traduzione in imagine dell'altro concetto teologico: la Grazia data gratis.

Qualche rigo più sopra si legge questa precisa formulazione critica : Dante è il primo poeta, nel mondo, dopo quei primigenii che non hanno nome, dopo quei nuovi della terra e del sole e delle stelle e degli alberi e degli animali, che agli altri scopersero queste cose belle, significandole con parole e imagini. Essi mettevano il nome delle cose piccole alle grandi e delle vicine alle lontane e delle reali alle sognate. E Dante fu come essi un mitologo primitivo; il mitologo del mondo spirituale cristiano.

Superfluo è il rinvio alle categorie impiegate nei capp. I-III del Fanciullino. Dante è assimilato a un Adamo nomenclatore in quanto è il primo a battezzare il mondo : non, ovviamente, delle cose

sensibili, bensì

logia cristiana —

dei concetti

elaborati

dalla filosofia e teo-

cfr. SV mv I: «in questa mitologia (sia detto

senza alcuna irriverenza) cristiana e Dantesca » —

Egli ha fatto,

insomma, quel che un giorno dovrebbe fare il Dante del nostro secolo : colui che per la prima volta — com'è auspicato in PD L'Era nuova (#) — darà il nuovo nome, e dunque la cittadinanza poetica, alle scoperte scientifiche, concependo intuitivamente ciò che è stato prodotto da una conoscenza di tipo razionale, e

(46) È, a mia conoscenza, l'unica attestazione di questo termine, che ben definisce l'ingenuità come marca di correlazione fra linguaggio della meraviglia e retorica tradizionale

(cfr. il cap.

IV del Fanciullino):

anche

se in questa

sede

Pascoli

si riferisce più in partico-

lare alla sintassi emozionale che, pur valorizzata sul piano dell’ingenuità attraverso Spencer e Sully, con tutto ciò presenta essa pure tratti comuni con la retorica propriamente detta (cfr. f. 33: « con la ripetizione delle stesse parole e stesse idee/col mettere in luce una cosa e oscurare l’altra », che allude proprio ad anafora e mise en relief). (47) I poeti moderni « devono far penetrare nelle nostre coscienze il mondo quale è veramente, quale la scienza l'ha scoperto, diverso, in tante cose, da quel che appariva e appare. [...] Io dico che l'emanazione poetica della scienza, il giorno che l'avrà, è destinata a render buono il genere umano ».

404

Le

per conseguenza voco tecnicismo

trasformando in parola poetica il rigido e unidello scienziato (operazione, dunque, se altra

mai, metalinguistica). La Commedia è redatta secondo l’artificio della narrazione, che prolunga il lampo della meteora psichica e, in quanto « gradazione d'emozione » (*), è media fra epos e lirica. D'altra parte

l'ispirazione

didascalica,

da enigma sublimata

ste il « senso plastico » di una dimensione

a mistero,

inve-

metafisica (*). Infine

il dramma, tra i generi il più degenerato, si riscatta a livello allegorico e logico-simbolico e approda a quella che il Pascoli chiama « catarsi » (*). In questa immane proiezione di una vicenda puramente interiore e individuale, tutti quanti i generi ritrovano la loro originaria unità. In tal senso il mito dantesco è il ricupero più perfetto e organico della poesia senza generi, la poesia del mérops, nella misura in cui questa operazione sia concessa a un poeta riflesso che agisce su un universo spirituale, concettuale : perché il mito è la forma più elevata e compiuta di conoscenza intuitiva; la forma impiegata da Omero, Platone, Väinämôinen per trasmettere loro verità misteriose, che si trovano coincidere con le intermittenti schegge di verità comunicate dai poeti moderni.

(48) Cfr. la scaletta del f. 11: « che cosa non è racconto? ..... la descrizione è il racconto nello spazio » (a proposito della correlazione « racconto/memoria ») e: « Poesia epica/gradazione di emozione. Meno nell’epica più nella lirica? soggettivo e oggettivo? ». Il concetto è sviluppato nel f. 54: la « ragione filosofica » dei generi letterari consiste nel graduare l’emozione,

nel renderla « più o meno forte ». Per mettere a fuoco questa gradazione bisogna distinguere fra poeta e personaggio: « Uno racconta, un altro figura d’esser lui a patire [...] Oh! pativa veramente? Oh! nelle passioni altrui rappresentava le proprie? ». Un caso tipico è il rapporto fra Enea e Virgilio: « Enea racconta. Ecco le esclamazioni, il patire... Ma le escl. anche quando racconta Virgilio! ». Per il problema in Dante cfr. SV pa V: « con un processo tanto solito in Dante quanto inavvertito dagli interpreti, il poeta compie a mano a mano il suo pensiero e a grande distanza, sì che la parola ultima di quello che, se noi non attendiamo, resterebbe un enigma forte, è pronunziata molto tempo dopo la prima »; SV rv I: « E si veda, come, raccogliendo i frammenti che il poeta ha sparso del suo pensiero, questo pensiero si mostri forte ed esatto [...], per quell’intenzione del suo stile di spiegar le cose a poco a poco »; ibid. VI: « per chi creda alla virtù dello stile Dantesco, di compiere a poco a poco

il suo concetto ». La gradazione in Dante, com'è ovvio, da emozionale si fa didascalica, metalinguistica. (49) « Anche la metafisica è poesia e enfantillage! » (glossa del Pascoli a Sully 126 « l’avide curiosité des enfants au sujet des moeurs des animaux et des autres choses de la nature faisant place à la curiosité théologique »). (50) La poesia « è l'emozione che ha il suo sfogo - il suo appaciamento - la sua catarsi » (ff. 11 e 14); « È ciò, forse, che Aristotile chiama catarsi, e che è il fine della tragedia » (lezione II del 1906-7, p. 129). L’effetto catartico è esemplificato attraverso un passo del Kalevala

e la formula

la dantesca

demussetiana

Alpigiana

« faire

e la leopardiana

une

perle

Quiete

d’une

dopo

larme »; si aggiungono,

nella

lezione,

la tempesta.

405

Nel mito che, in quanto opposto al logos, costituisce il massimo vertice di concretezza vivificata, si realizza l'accordo fra l’espressione di una verità concettuale e il prerazionale

(1), me-

diante una scrittura in cui l’ideografia sostituisce l'ideologia (”). Nel corso del suo processo apercettivo Dante opera sul doppio asse della selezione e della combinazione, intervenendo sugli attributi della sostanza (metafora) e sulla sostanza stessa (iperbole), e d'altra parte, sul piano sintagmatico, conferendo personificazione e autonomia drammatica e simbolica ai nessi logici del discorso. Così ogni residuo astratto e concettuale è bruciato in

questa codificazione poetica di tipo circolare : all’inizio c'è un dato reale solo in apparenza, mera e vuota etichetta il cui rapporto con la lingua è puramente

indiretto, mediato;

al termine

c'è la realtà realizzata, che ha risolto compiutamente in sé il concetto trasformandolo in sogno : e questo sogno rivitalizza il reale, lo potenzia, lo rende iperreale. La Commedia è una gigantesca

paranzella. Scrive Pascoli nel f. 49: « Il poeta vuole che altri abbia l'impressione stessa che ha avuto esso. Ora egli può esporre come un narratore prima la cosa poetica e poi dichiarare la sua impressione invitando il lettore a fare che la sua impressione risulti dalla cosa stessa ». Ebbene, la perfezione del mito dantesco, là dove è raggiunta, sta proprio nell’aver vivificato anche

l’atto

riflesso,

metalinguistico,

del

« dichiarare », in modo

che è la « cosa poetica » a dichiarare sé stessa, risolvendo l’emozione in una dimensione intuitiva, concreta. La paranzella è bianca e nera ad un tempo : come la mistica luna che splende sulla selva oscura. In questa realizzazione del reale si compone fra arte e natura:

i due termini,

come

presso

l'opposizione

Matelda,

coinci-

dono, approdando alla classica perfezione della « misura. Métron ariston. E la misura è il meglio. E Dante qui ci richiama al pensiero tutto il simmetrico

e l’euritmico

del suo

sublime

(51) Cfr. f. 56: « Il bello che cosa è dunque? L'espressione riuscita court? Inafferrabile dunque. No: è l'accordo d’una espressione col fondo e ingenuo della nostra psiche. È il prerazionale ... ».

tempio,

o l'espressione tout primitivo e ingenito

(52) « Per parlare con linguaggio usuale, dico che Dante, per negare di essere un eroe, afferma d'essere un vile e d’aver paura. È un linguaggio il suo più tosto ideografico che ideologico, in somma; è un linguaggio che incide e scolpisce figure, non scrive o dice soltanto parole. E questa è nota certa del suo stile poetico e allegorico, e merita, con altre consimili note, uno studio a parte. Non dispiaccia udire che lo sto preparando » (IMO I ii).

406

delle tre cantiche e dei cento canti » (CSD 11 Canto

trentesimo-

terzo del Purgatorio). Il fanciullino, che percepisce la realtà attraverso categorie dicotomiche (quante se ne trovano nell’estetica pascoliana! linguaggio comune e proprio, prosa e poesia, poesia pura e applicata, oggettività e soggettività, epos e lirica, ingenua e retorica, conoscenza

oratoria

razionale e intuitiva, ra-

gione e ingenuità, filosofia e religione, metafora e simbolo, enigma e mistero, senso plastico e mistico, realtà e sogno, libertà e moralità), non fa in realtà che giocare (#): ma il suo giuoco consiste nell’ordinare matematicamente il caos dell'universo.

Del pensiero saussuriano (ma sì, diciamolo il nome che abbiamo da un pezzo sulla punta della lingua!) Pascoli anticipa le correlazioni essenziali fra langue e parole, fra sintagma e para-

digma. Prima di Saussure nessuno

più di lui avvertì la consi-

stenza del codice in quanto sistema immanente di convenzioni sociali col quale ciascuno deve confrontarsi nell'atto di produzione del messaggio : e l’avverti in forma francamente dolorosa, come una maschera dalla quale la voce, originariamente limpida e pura, fuoriesca in suoni chiocci, striduli, al limite dell’intelligibilità; o come una sorgente impetuosa che, imprigionata in un canale a mano a mano più angusto, sgorghi alfine a fatica da un tubicino, mandando un gorgoglio penoso. Tale è il suo concetto dello stile come scarto intermittente e strappato a viva forza.

E tale è il suo concetto di poesia. Nella produzione pascoliana la cristallina, ma ingannevole trasparenza della lettera non è che la facciata di un poderoso edificio sovrasensoriale. Ma perché questo poetare, programmaticamente, per enigmi, questo mascherarsi e rivolgersi letteralmente ai tanti, ma allegorica-

mente agli happy few? Soltanto per smania di adeguarsi al modello dantesco? In realtà la Commedia non è che il paradigma, sia pure il più eccelso, di una verità generale : la poesia, quella vera, è necessariamente polisensa; la parola poetica è necessariamente simbolica. Il ricupero espressivo della fanciullezza, dell’ ingenuità, non può che avvenire attraverso la mediazione del codice; l’amore deve fare i conti con lo studio : di qui l'esigenza di costruire un modello, un canale di comunicazione messo a

(53) Sul

le attività articolo

per

giuoco

estetiche, « L'altro

come

ho

categoria

già avuto

onnicomprensiva,

occasione

di

per

trattare

il Pascoli,

altrove:

da

e unificatrice

ultimo

nel

di

tutte

già citato

versante ».

407

punto

progressive,

per approssimazioni

che, per quanto

perfe-

zionato, non deroga mai alla propria connaturale inadeguatezza. La poesia, che fu spontanea e immediata nel mérops, nel poeta riflesso è frutto di una operazione metà anamnestica e metà intellettuale;

di un ricupero o « ritorno » distillato attraverso

un

filtro dalle maglie più o meno strette. « Lo studio deve rifarci ingenui » è una formula paradossale perché l’ingenuità, una volta riacquistata, non

può non

serbare

le tracce, le scorie che la

inadeguatezza del filtro non è riuscita a purificare del tutto. Dal grado di integrazione di tale deposito, o residuo, intellettuale dipende la qualità della poesia, cioè la sua maggiore o minore autenticità e congruenza al modello ideale. Nell'impoesia o poesioide l’integrazione è zero; nella poesia applicata essa è parziale. Allo stadio più elevato il residuo si colloca, o meglio si struttura, ai livelli superiori, sovrasensoriali : metafora, allegoria, simbolo corrispondono ad altrettanti stadi di integrazione dell’astratto

nel concreto,

dell’allotrio

nel formalizzato,

dell’ir-

reale nel reale. È un passaggio al limite, un'approssimazione progressiva verso l’irraggiungibile compattezza e unicità della lettera che abbia risolto in sé tutti i suoi attributi, da esterni che erano, reintegrandoseli. Sarebbe come poter distinguere, nel bianco splendore di un fascio di luce, tutti i colori dell’iride, senza bisogno di ricorrere al prisma che li diffrange. Ma del prisma l’uomo non può fare a meno. E poiché la vocazione all’allegoria, alla cifra, all'enigma forte è determinata da una necessità ontologica, poesia (per usare termini crociani) non può esistere senza struttura. Il loro rapporto non è dialettico, ma si pone nel senso della progressiva reintegrazione della seconda nella prima. La struttura rende la poesia oggetto di giudizio, quindi di comprensione; è quella che permette di risolvere nell’ espressione l’inespresso e il sottinteso; è il sigillo dello stile come messaggio poetico individuale. Ripeto che alla base di questo processo sta un paradosso sostanziale : si parte da una realtà e si opera

attraverso

percezione un

mediata,

meccanismo,

riflessa, della

linguistico

e cono-

scitivo, pure artificialmente costruito : il punto d’approdo non può essere la realtà in sé, ma soltanto un modello conoscitivo della realtà, sia pure più congruo rispetto a quello di partenza. Dunque, e per definizione, il messaggio poetico non solo è simbolico ma è anche metalinguistico: non esprime il referente, ma

408

sé stesso.

L'uomo,

il fanciullo

invecchiato,

il tallo avvizzito

è

costituzionalmente incapace di conoscere immediatamente la realtà : egli percepisce l’universo riproducendolo in un modello i cui rapporti

logico-matematici

del proprio microcosmo

mento

non

sono

se non

la proiezione

interiore.

Così la vera realtà linguistica e psichica, sempre in movi(*), quel flusso inarrestabile che si chiama prerazionale,

diventa l'oggetto di un processo conoscitivo sempre progrediente e mai compiuto (se non nel paradiso terrestre di Matelda). La più comprensiva delle dicotomie pascoliane è quella che, in

base al mito di Psyche, oppone la bestia all'amore. C'è una bestia, dentro e fuori di noi, contro la quale nulla possono le gabbie costruite dalla ragione. Dante la chiamava ira, e non a caso il suo esegeta ha speso pagine e pagine per individuarla sotto il velame. Contro di essa la ragione deve farsi intuizione, studio diretto da amore. Solo allora quello che pareva un conflitto insanabile si risolve in un'operazione di riscatto, tesa a conoscere l’altra faccia del mostro, la sola autentica. E questa faccia si

chiama amore. Così la progressiva razionalizzazione del mondo non può andare disgiunta da una continua verifica dell’irrazionale, non per reprimerlo ma per riconoscerne mano a mano l'essenza autentica. Al termine di questo processo di reintegrazione del predicato col soggetto, cioè dell’uomo con sé stesso,

il conflitto fra irrazionale e razionale si comporrà un prerazionale

un nuovo

riscattato

e al tempo

e finale paradosso,

stesso

l’uomo

ma non potrà volere che il bene. che procedono in senso opposto, e e a coincidere : a mano a mano che l’irrazionale viene conosciuto come

nell’unità di

scongiurato: e, per

sarà finalmente

libero, sì,

Si tratta di due movimenti sono destinati a incontrarsi la ragione ritorna intuizione, libero impulso verso il bene.

Questa dottrina, che da linguistico-conoscitiva diventa filosofico-morale, parte dal postulato che una parte di noi stessi è fuori di noi. Ma

in tanto ci è esterna,

in quanto

non

è cono-

(54) Anche la lingua letteraria come lingua in certa misura morta e artificiale (il programma, mutuato dal glottologo Miller, è esposto nella lettera A Giuseppe Chiarini) è un congruo esempio di modello deputato a intervenire sul pénta reî: da una parte, con la teoria del radicale e il ricupero della rigenerazione dialettale, restituisce all’idioma un certo grado di « malleabilità »; d'altra parte, con la teoria delle metatoniche (che sta a fondamento della metrica ’ neoclassica ’), costituisce un argine opposto all’oscuramento fonetico che, lasciato a sé

stesso,

condurrebbe

all’incomprensibilità.

Ma

di

ciò

altrove.

409

sciuta : in quanto, cioè, i nostri strumenti

restano

gnoseologici

incongrui. A misura che il modello conoscitivo si perfeziona, approssimandosi all'oggetto della conoscenza, l’uomo si appropria dell’irrazionale, ricollocandolo nella sua funzione originaria di attributo inerente alla propria spiritualità, allo stesso titolo della ragione : anzi, conoscenza

e volontà

diventano

una

funzione

sola dell'essere. Liberando, anziché reprimendo, questo fattore potenziale di distruzione che ci dorme dentro, liberiamo noi stessi, potenziamo il nostro essere, ricuperiamo all'organismo una cellula essenziale, vitale, che era impazzita. Il ruggito dell’ira si cambia nel tinnulo « Sì » del fanciullino. Questo è l’umanesimo pascoliano, questa la sua interpretazione del comandamento socratico e delfico : conosci te stesso. Così gli scritti danteschi, quando siano opportunamente intesi, si rivelano per una tappa essenziale nell’elaborazione del pensiero estetico (e, automaticamente, morale) pascoliano, mostrando la dimensione sorprendentemente moderna e attuale che

fermenta dai succhi di un positivismo tardo e defilato. E in questo senso quei volumi faticosi, trascurati, irrisi dalla critica ufficiale dichiarano finalmente la loro ambiguità di fondo. Per un uomo

in cui la genialità si coniuga a una

formazione

cultu-

rale tutto sommato periferica, Dante non poteva esimersi dal costituire l'ideale banco di prova per una teoria estetica che si veniva da un pezzo prepotentemente maturando. E tuttavia Dante continua in parte a restare quello che all’inizio, a partire dagli anni bui di Matera: ricettacolo umbratile e tormentato di

uno scavo alla ricerca di sé stesso, di un aiuto a risolvere le proprie angosce e contraddizioni più intime e profonde. Così, nel tempo stesso che metteva a punto e verificava categorie estetiche di sorprendente modernità, Pascoli si trascinava dietro pur

sempre una pesante, vischiosa eredità di allegorie e di allusioni, che ormai erano divenute carne della sua carne, e ne compenetravano inevitabilmente la produzione poetica. Una palla al piede? Direi piuttosto l'ennesima conferma di un’originalità, un fascino che non hanno eguali nella letteratura del nostro novecento.

Il tempio bizantino, cui Pascoli assimila

la Commedia,

è

a cielo aperto, e vi si respira l’aria balsamica e frizzante della pineta di Chiassi. Ma Pascoli lo contemplava, in spirito, da un angolo buio del suo studio, tra quattro pareti in cui continua a stagnare un sentore come di morto incenso.

410

PIERO E. PIERETTI ECDOTICA ANECDOTICA La storia familiare del Pascoli è al centro della sua mitologia poetica, almeno di quella più divulgata : il padre, la madre, i fratelli e sorelle morti, il nido dei farlotti, Ida e Maria, e infine questa ultima, la sorella, che condivise con lui la solitudine, sono

i punti cardinali tra i quali, sin dal suo primo volume, si aggirò il poeta in un « andirivieni dell'anima » di cui egli stesso ripercorse la traccia nella Nota bibliografica apposta nell'agosto del 99 alla V ed. di MY

fece altre ossessionanti

(!). Dopc

quella Nota,

apparizioni

e dediche, tanto che la fisionomia

la storia familiare

nei CC, in prefazioni, note del poeta, che il P. volle con

gli anni trasformare in quella di vate di una Italia nuova, rimase nell'animo dei lettori circoscritta nella figura dell’orfano : di un'orfanezza tanto drammatica e lacrimosa quanto — si sospettò — anche romanzata. Ma mi è capitato, rimettendo in ordine alcuni testi mss, di ritrovare un sottofondo nella personalità del P., costituito da

vicende segrete, intime, coperte dal pudore, un fiume sotterraneo (come egli lo chiama ne La madre dei PC), nel quale affondano le radici molte altre composizioni che apparentemente rievoca-

(1) Tralascio di dare le indicazioni bibliografiche dei volumi fondamentali, comunemente noti. Le opere del Pascoli sono citate con la sigla delle iniziali: MY, ecc. (mentre M è «il Marzocco »); anche il libro di Mariù è solo LV; la biografia del Biagini col solo nome

dell’autore;

i voll. delle

lettere al Caselli,

alla ‘gentile

ignota”, e quello

del Vannucci

sul

P. e gli Scolopi, solo con Caselli, Alla gentile e Scolopi; l'edizione critica delle MY con MY Nava ed.; le edizioni commentate con la sigla dell’opera pascoliana e col nome del commentatore: MY Nava, ecc, Le indicazioni complete si trovano nelle bibliografie pascoliane, a cominciare da quella del Felcini. I mss qui sono indicati con le sigle già assegnate dal Nava (CP : Carte Pascoli). Infine non ho fatto riferimento alle pp quando si possono trovare negli indici dei voll. citati.

411

opno il dolore dell’orfano, oppure fonti e immagini letterarie, pure fantasie georgiche e arcadiche, oppure, nei personaggi dell’antichità greca e romana, un « mondo di cartone ». E’ avvenuto che, scomponendo

le raccolte canoniche e met-

tendo le varie composizioni coi loro appunti mss in ordine cronologico, i significati, che parevano oscuri, misteriosi, oppure da ricondursi a semplici impressioni di paesaggio o a suggestioni letterarie, e ciò poteva apparire quando i versi erano allontanati dalle occasioni che ne avevano offerto lo spunto, ora si schiarivano, e i profili delle figure letterarie hanno preso a definirsi collimando con vicende biografiche che l’autore ha tenuto in ombra, e alle quali i biografi e i critici non hanno dato peso. Ritrovare questa fonte autobiografica sotto le figure di fiori, di alberi, o di uccelli, o sotte quelle di Ulisse, o di Glauco, o di Anticlo, o di Catullo, dà ai testi un significato tutto nuovo e il-

lumina la personalità del poeta, più complessa di quanto non sia apparsa e di quanto egli stesso volesse far apparire. Ne ho dedotto che la operazione preliminare nella ermeneutica del testo è una filologia collegata alla biografia anche più minuta e ignorata, poiché i fatti che ispirarono i versi furono a volte minimi e spesso nascosti, ma furono rilevanti nella sensibilità

del poeta e lo sono oggi a voler intendere

il senso

di quella

poesia.

Mi sono ritrovato a fare ciò che lo stesso P. aveva fatto per la Lyra, come egli racconta nella prefazione del settembre del ‘94 : « ho disposto i carmi sì di Catullo e sì di Orazio in ordine più che potei cronologico, in modo che si potesse seguire, alla meglio, lo svolgimento dell’ingegno loro e assistere ai fatti, interni o esterni, che ispirano le loro poesie » (?).

La ricostruzione delle storie parallele della vita e della poesia avrà bisogno di uno studio e di una esposizione sistematici. Ora, qui, farò qualche accenno

illustrando

un testo del-

le MY, quello di Sorella, che, pur essendo semplice e senza sottintesi, ci introduce in un periodo cruciale della vita del Pascoli,

al centro dei fatti più importanti della sua ispirazione nascosta. Scrive il Nava che di Sorella non si conservano mss; ma già il Vicinelli aveva annotato nel libro di Mariù di averne visto uno, QLL

412

ne aveva riportate alcune varianti e una frase che accompagnava i versi (°). Da quel biglietto di accompagnamento si acquisiscono vari elementi sul tempo della composizione, che va fatta risalire al ‘95; ma non dopo il matrimonio di Ida, bensì alla fine di giugno e ai primi di luglio : quella elegia fu infatti pubblicata, prima che in MY', sulla « Roma letteraria » del 25 luglio di quell’anno (‘), mentre il matrimonio cadde il 30 di settembre, come è noto. Correzione minuscola di data, ma tale che pone Sorella tra

quelle composizioni che descrivono uno stato di vita vissuta solo in apparenza, nate nell’aspettativa dell'evento, nel timore, o in un lungo sogno premonitore. Come l’anno successivo egli riprese Tiberio da un vecchio abbozzo, e ci fantasticò nell’imminenza (catastrofica, per i due « vergini » di Barga) del primo parto dell’Ida (°); e come due anni dopo scrisse Le rane, La tessitrice e La messa un mese prima del suo vero ritorno a San Mauro (°), non solo sogni, ma sogni in un sogno; così in Sorella egli paventa la lunga vita di « trappa » che lo aspetta dopo la partenza di Ida, trovando un simulacro di sollievo nelle virtù domestiche di Mariù. Anni dopo così descriveva in atto la vita prevista nella elegia : « Sento lo stridere dell'ago nella tela, di Mariù che cuce a due passi da me che scrivo. E’ una dolce vita, in fin dei conti, sebbene così solinga, d’un grosso figliolone con la sua cerea mammina,

o d’un buon babbo che è solo con la cara

figlia che è voluta rimanere nella casa paterna, a far compagnia al vecchio » (7). Il luogo dove Sorella comparve la prima volta non fu per il Pascoli solo una minima occasione di guadagno; la stessa redazione della rivista gli offrì qualche spunto e lo indirizzò su

quel tema. Quel periodico è quasi ignoto agli studiosi del Pascoli, e sono

ancora

da rilevare

i numerosi

motivi

di suggestione che

(3) LV, 469-70. Ma il Vicinelli riporta: «non avevo simpatia », che va corretto con avevi simpatia ». Il P. si preoccupa della delusione della sorella, non della sua. (4) Cfr. F. FELCINI, Indagini e proposte per una storia delle « Myricae », La Goliardica, Roma 1976; 55. (5) Tiberio dei PC fu pubblicato sul « Marzocco » del 5 luglio '96 (datato 24 Giugno, che fu il giorno delle nozze del suo editore Paggi, al quale per l'occasione fu dedicato come dono, in risarcimento per i poemetti che l’editore aveva pagato e che non erano pronti); il primo parto dell’Ida è del 23 luglio: per le loro connessioni si veda qui avanti la n. 30. (6) Pubblicate sul « Marzocco » del 18 aprile 97 e in opuscolo nello stesso mese (poi «non

in CCI, marzo (7) Caselli

’03). 196. E’

in una

lettera

del

7 novembre

1901.

413

Ce

ocvi si trovano e che poterono agire sul poeta nelle frequenti quei con tenne egli che dialogo sottaciuto e lungo un di casioni redattori,

suoi imitatori

i

e critici.

Con Sorella egli fece la prima comparsa su quella rivista, e non fu l’ultima; e, sebbene questa quasi ignota effemeride abbia goduto, allora e poi, di scarso credito, e di conseguenza

non

gli abbia procurato la fama che egli ebbe dal « Convito » e dal « Marzocco », tuttavia quei rapporti furono molto significativi quanto

sconosciuti,

e dovranno

essere

illustrati nei particolari;

ora qui anticiperò qualche cenno. Partitosene per Roma il 3 di giugno, giorno successivo alla Pasqua di rose —

ultima Pasqua con

Ida —,

il Pascoli scriveva

tre giorni dopo alle sorelle rimaste a Livorno che intendeva fare « qualche poesia da guadagnare con la Nuova Antologia e col Boccafurni » (8). Vincenzo Boccafurni era appunto il direttore della « Roma letteraria », allora quindicinale, « giornale per i giovani » fondato nel febbraio del ‘93, indirizzato soprattutto alle scuole per eccitare la gioventù al culto dei valori cristiani e patriottici attraverso lo strumento dell’arte. Era una rivista scopertamente cattolica, ma non ideologica, né confessionale. Accanto

a spiritualisti come

Augusto

Conti, Fogazzaro

e Giulio

Salvadori, troviamo gli agnostici Panzacchi, Gnoli, Marradi e la Contessa Lara, che dette consigli di decenza nella Pagina delle signorine fino al suo ultimo respiro, troncato alla fine del ’96 in un epilogo meno edificante. Lo stesso direttore ebbe una carriera poco ortodossa : sebbene

avesse

esordito

da sacerdote

con

un libretto di versi pubblicatigli nel ’'90 dal suo maestro A. Conti nella tipografia dei frati di Siena, aveva sentito mutarsi in breve la vocazione e si era poi esposto solamente come aspirante poeta e critico; non era passato un anno dalla fondazione della rivista quando trovò opportuno deporre in silenzio la to-

naca per darsi a sentimenti e a versi di onesto amor coniugale e paterno, senza con questo alienarsi l'animo dei collaboratori cattolici, essi stessi più o meno inquieti. Ma né loro né lui misero mai in mostra sulla rivista queste personali inquietudini. Tutti

insieme si proponevano nutrita

di buoni

(8) LV, 428.

414

di fare della sana e onesta letteratura,

sentimenti

casalinghi

e patriottici,

vestita

di

ta Lista

irreprensibili costumi, da potersi mettere nelle mani alle giovani, alle maestre e alle dame, a rappresentare i probi sensi dei cultori d’arte della nuova Italia. Perciò tra i modelli fu presto radiato il D'Annunzio

« degenerati » e per

per i suoi superuomini

il suo « ridicolo » sfarzo linguistico; rimase invece costante l’ammirazione per l’arte e le virtù civili del Carducci (mai però potuto accostare per il suo irriducibile anticlericalismo massonico).

Ma infine erano innumerevoli le strade battute dalla falange degli esordienti,

contesse

vere e sedicenti, professori

di liceo che

si procacciavano qualche titolo per i concorsi, i quali sfogavano nei metri più inusitati, secondo la moda, una autentica vocazione alla malinconia, col solo vincolo di non uscire dalla coltura dei

sentimenti delicati. Tra questi esordienti e dilettanti vi erano alcuni che poi raggiunsero la notorietà e anche la fama, come la Aganoor, il Cesareo, la Deledda e Pirandello. Tra questi fece qualche timida apparizione anche la Gentile Ignota, che metteva in versi alcune patetiche fantasie pascoliane (°). Era il tempo in cui le signore tenevano un libro di versi sul tavolo accanto alla bergère, e un album su cui scrivevano i versi più suggestivi e quelli che nascevano in loro da passioni sopite (‘°). La poesia era la droga della piccola borghesia, si è detto; era il paravento liberty dietro il quale si nascondevano gli « orrori » di quella classe : la voracità e l'istinto di sopraffazione. Quando quel ceto fu spazzato via dalle guerre nate dalle sue stesse colpe, anche la poesia sparì dall'uso. Come poteva essere, la poesia — aveva detto Goethe Così i costumi mutarono.

—,

se non

borghese?

(!).

La società che subentrò si nutrì di « droghe » proletarie, e gli intellettuali borghesi che le produssero, divenuti ora « quadri » delle « masse », si diedero in frotte a studi di « critica filo-

(9) La « Gentile » è ben nota ai pascoliani, ma sono ignoti i suoi versi. Anche i saggi e i versi che Pirandello pubblicò su quella rivista rimasero ignorati ed esclusi dai Saggi poesie scritti vari, Mondadori, Milano 1960, curati dal Lo Vecchio-Musti. L'ambiente della « Roma letteraria » - visto intorno alla figura della giovane Deledda - fu preso di mira da Pirandello con sarcasmo agli inizi del nuovo secolo in Suo marito, divenuto poi Giustino Roncella nato Boggiòlo. (10) « Roma 1.» 10/25 nov. ’02, ALIDAH, La pagina delle Signorine: «L'ho ricopiata X Agosto, questa deliziosa poesia del nostro Pascoli non certo pensando che le mie lettrici avessero a ricopiarla a lor volta nel solito albo. Il volume del Pascoli figura sul ta-

volino di ogni signora o signorina colta... ». (11) E’ citato da TH. MANN nelle Considerazioni cap.

sullo

Spirito

della

borghesia.

Goethe

parla

di un

impolitico,

complessivamente

di

come

epigrafe

al

« cultura ».

415

sofica derivata dai fatti » (come un secolo prima fu già nei propositi di un Emiliani-Giudici) (7), e in migliaia di volumi proposero un sistema correttivo della vita, con cui intendevano liquidare gli antichi « orrori » e fondare una civiltà più umana. Ma vollero fare dell’odio una virtù, e non si avvidero che era l’odio il motore della storia che si nutre solo di sangue. Cosicché, mentre qualche novello Oepoirnc si faceva una fama spargendo lo scherno sulla piccola « droga » borghese ('*), in nome delle nuove « droghe » il sangue e le sopraffazioni avevano ripreso a correre. Ignara di questo pasto di macerie che si stava apprestando per la Storia, la signora Emma se ne stava nel suo « cantuccio » a coltivare la piccola « droga » in segreto, fino a che, scoperta dal suo amico e maestro, se ne trattenne per pudore : per nessun altro senso di colpa che quello di non riuscire a piacergli (!*). Un'altra di quelle futili vite, che furono trascinate dalla corrente nefasta della Storia e vi scomparvero dimenticate dopo avervi versato un loro penoso tributo, fu quella di Carlo Villani, romagnolo, che aveva studiato a Roma, e lì, appena laureato, era divenuto un collaboratore dei più attivi della « Roma letteraria » fin dalla fondazione (*). Il Villani, che era un pascoliano della

vigilia, e si stava assimilando al suo modello anche nel corredo di sventure familiari rimanendo alfine anche lui solo con l’unica

con

(12) Cfr. Storia della letteratura italiana, Le Monnier, quel principio, era riuscito a liquidare il Manzoni

Firenze 18552, p. III (Anche l'E. -G., in qualche riga senza neppure no-

minarlo).

(13) Come e la immonda

cercato del

nella

poesia

P. a A.G.

(14) La temeva

il Pascoli aveva previsto, « l’infame canaglia letterata [...] approveranno

qualche

Bianchi

signora

il giudizio,

del

Corcos e non

conforto

26-9-06,

in

riteneva

avrebbe

della

sua

« Aevum

che

voluto

masnada borghese che fa il socialismo, l'assassinio {lo scherno} di lui che ha

vita in tutti

» 3, Set-Dic.

i suoi

perderne

Note, 204, « la Donna gentile Emma Corcos [...] tardi contemplare e perciò poetare ». Da questa suoi versi, forse anche quelli pubblicati sulla « che gli aveva mandato per posta; e ritenne che

versi

i modi

1979;

rimanessero

la stima.

Invece

straziata » : cfr.

lettera

465.

ignoti

al

P.,

il P. li conosceva

del

quale

: cfr CCI,

non è mai troppo il P. aveva letto i a Giovanni Pascoli incoraggiante come si aspettava. Ebbe conferma di questo sospetto quando il Pietrobono inviò al P., neppure un mese dopo l'uscita dei CC, un sonetto, che lei aveva scritto in prosecuzione della Cavallina storna, e il P. fu molto parco di complimenti. Allora la signora, molto avvilita, non volle più

esporsi

a

delusioni

sotto

gli occhi

del

suo

consente con me [...] che nota la signora capì che Roma », non solo l'Inno il giudizio non fosse così

poeta.

A proposito

di

quest’ultimo

sonetto,

che è il solo conosciuto, si veda Alla gentile, 150-151. (15) Alcune notizie su di lui si trovano nelle note di Eurialo De Michelis a commento delle lettere della Deledda a Epaminonda Provaglio, in G. DELEDDA, Opere scelte, I, Mondadori, Milano 1964, 1100-3 e 1105 (ma il De Michelis dice che era romano). Il penoso tributo fu

una relazione di un viaggio Nella terra del Duce e un articolo sullo Stile di Mussolini, scrisse dopo vari libri di versi e d’altro genere. Il P. ricorda il V'llani una sola volta, a quanto maggio ‘02, dove ne parla con benevolenza.

416

mi

consta,

in una

lettera

al Caselli

che egli del

12

sorella, aveva scritto nell'ottobre del ’93, recensendo il Poema paradisiaco, che « l’Italia credeva e sperava nei nomi del Pascoli, di D'Annunzio e di Salvadori, del Ferrari del Mazzoni e del Marradi ». Il Salvadori era stato il suo insegnante; D'Annunzio per la prima e ultima volta visto con simpatia, per quelle rare figure

dimesse, quale era la madre nella Consolazione, e quale era stata la sorella andata sposa lasciando il poeta in solitudine nel secondo e terzo sonetto dei Nuziali de La Chimera (non, certo, per le « sorelle » avvinte nottetempo nei rosai, o insonni o dormienti nel suo letto) ('°) : veniva apprezzato, in conclusione, solo per la

poesia « domestica », prediletta dai redattori e dai lettori della rivista, e di cui gli altri nomi sullodati erano i più acclamati esponenti, con il Pascoli al primo posto (”). Il Pascoli, che aveva bisogno di quegli appelli, prese contatto con la rivista un anno dopo, alla fine del ’94, quando un altro redattore, Giuseppe Mantica, calabrese, professore e aspirante poeta anche lui, colse l'occasione di un terremoto in Calabria per farsi conoscere dagli artisti più noti d’Italia, invitandoli a collaborare con un loro contributo d’arte a un numero unico che intendeva pubblicare in soccorso dei sinistrati (!*). Tra i tanti che risposero, da Verdi a Verga, da Cantù al Fogazzaro, dal D'Annunzio al Nencioni (ma non il Carducci, né Severino, irriducibile come il maestro), anche il Pascoli, ai primi di febbraio del ’95, mandò Sermo, nel quale appariva costernato

anche

lui per un

suo

terremoto

familiare : gli era crollata la

« casa », mortigli il padre e la madre e ora anche la « moglie ». L'aveva cominciato a scrivere in dicembre (’’) sotto la minaccia che gli veniva da Ida, che era andata a Sogliano a fine settem-

bre del ’94, tornandosene dopo i Morti con la notizia che il cugino, se aveva dissipato tutti i loro beni nella passione per i cavalli,

in compenso le aveva forse trovato un marito : anche quel carme iniziava

e nasceva

(16) La Chimera

uscì

dunque alla fine

da un

dell’89

con

sogno

data

’90; ma

premonitore, i sonetti

da una

per le nozze

della

so-

rella erano già stati pubblicati in opuscolo nell'aprile ’88. Poi altre « sorelle » comparvero nel Poema paradisiaco del ’93 - insieme alla sorella dei due Messaggi e alla madre di Con-

solazione -: le « sorelle » di Universo

e di Suspiria de profundis,

mari

erano

del mito

dannunziano;

ma

(17) Fu la poetica prevalente

non

di un

affatto

decennio.

di segno

che divennero

domestico,

elementi pri-

è ovvio.

Della poesia e della critica che ne nacque-

ro riferisco in un altro cap. sul P.e la « Roma letteraria ». (18) Uscì col titolo di « Fata Morgana » alla metà di febbraio

’95.

(19) Scritto (o iniziato a scrivere) verso la metà di dicembre. Cfr. lettera a G. Martinozzi, in G.P., Lettere a M. Novaro e ad altri amici, a c. di E. Serra; M. Boni, Bologna 1971, p. 52.

417

Me

mA sr ZA

lunga angoscia, dalla paura che il nido crollasse di nuovo, ora, alla partenza e « morte » della « moglie », dopo che vi erano già da lungo dare

tempo

sepolti il padre

solo un'informazione

sommaria,

e la madre. rinviando

Qui

posso

il discorso

di

spiegazione con le prove ad altri studi; qui non c'è spazio: ma Sermo, nei suoi primi tre versi, con una frase del Pascoli che li raccomandava alla sorella (partita di nuovo per Sogliano ai primi di marzo del ’95 per un'ultima ricognizione, per dare una soluzione definitiva al suo destino), sono punti chiave per entrare dentro alla mente segreta del poeta; dove si vede come egli « eclissa » in versi « impersonali » qui e altrove la sua storia vera e cosa c'è effettivamente nel fondo della sua psiche, dietro ai paraventi del « nido » e della cosiddetta « regressione infantile ». E° uno dei punti (tantissimi, del resto, e non tutti bene celati) in cui anche nei versi, sebbene egli si adoperi per « velarli », si vede in scorcio, come da uno strappo, il mondo di sentimenti alterati che sono esposti nelle lettere del maggio e giugno di questo anno « terribile ». Ma

di ciò, altrove.

Oltre Sermo, dunque, mandò alla redazione della « Roma letteraria » le MY illustrate e la Lyra, che si ebbe presto una recensione dettagliata e piena di elogi (?). Il Villani aveva poi replicato il 10 aprile con una dichiarazione di poetica eleggendo il Pascoli a modello dell’artista « che ci voleva » per rappresentare la vita mite e modesta di « creature ignorate e sofferenti » nascoste tra pareti « borghesi »: « la vita borghese di tante ignorate martiri gentili, che piegano la bella testa sofferente, ben conscie del loro grigio avvenire [...] sono

fonte viva

dell’arte

[...] ma

ci vuole

l’artista

nobile

e franco. Ed è così » - per queste attitudini - « che i versi di Giovanni Pascoli, fatti di cose umili che hanno una vita profonda, mi sembrano fra i più belli della nostra letteratura contemporanea ». Nel

giugno

cuore a pezzi e la mento di sollievo Villani gli dedicò luglio. Giovannino mese, nonostante (20) F. CASA,

418

successivo,

che

il Pascoli

passò

a Roma

col

« tempesta nel cranio », egli trovò qualche moconversando con questi giovani affezionati. Il due sonetti, poi pubblicati sulla rivista il 10 invece non riuscì a scrivere nulla in tutto il il proposito e nonostante la necessità di rag-

Per un libro eccellente,

G. P. Lyra romana,

« Roma

letteraria » 25 maggio

‘95.

i: PONTE



granellare un cinquantino

per pagare l’alloggio. Poi il 23 alle

11 di mattina, mentre era a conversare con alcuni di quei giovani a un tavolino davanti al caffè di S. Chiara, si fermò una carrozza

lì accanto

e ne

scese

Maria;

era

partita

da Livorno

col

treno prima dell'alba, era venuta per fargli passare meno tristemente il giorno della sua festa e « per cercare di calmarlo ». Quella ragazza di trent'anni, divenuta troppo scarna e ane-

mica, con gli occhi dolci ma pesti e i capelli sbiaditi, non avvezza agli abiti di società perché era sempre vestita da campagna o da cucina, è ciò che gli rimane della famiglia. La « moglie » se ne va, gli resta questa « figlia » e «madre ». « Non sono io forse il piccolo Giovanni che sua mamma accompagna alla stazione? » (?). Ella è la « piccola madre », « vedova », « muta, pensosa », « le lab-

bra bianche con la triste piega », quella che condividerà con lui il destino degli « scartati dalla vita » (2). Mariù non ha niente da

spartire con la sorella - compagna dell'anima dell’età romantica, (2) che aveva ora una reviviscenza letteraria in D'Annunzio come compagna di letto. Ella è una delle vere sorelle, che non trovano

una collocazione sociale col matrimonio e rimangono a carico della famiglia; è una delle creature ignorate e sofferenti - come ha scritto il Villani - conscie del loro grigio avvenire.

Il più proprio e prossimo antecedente letterario di questa

figura era della primavera del ’93, nel sonetto XVII del Maggio di Severino, (*) intitolato appunto Sorella: che era forse la sorella nubile di sua moglie Ida, « Ancora », « Corina », alla quale

il Pascoli aveva insegnato a fumare come alle sue sorelle i garin fatti in casa; la quale - aveva scritto Severino - stava a « cullare i figli d'altri; a le sorelle / ricamare il corredo; a i grami vecchi / offrir l'appoggio; non per sé di belle / cose additare; chiudere gli orecchi // al mondo lieto; poi sentir le snelle / membra legarsi adagio: e - tu c’'invecchi / in casa - udirsi dire, e bersi

quelle / lagrime che il cuor dà pria che si secchi ». (21) A Maria che l’accompagnò alla stazione, PV2. (22) Lettera alle sorelle, del 5 giugno ’95; LV 427.

E' dell'agosto

E dopo una

‘92.

23) Ricordo La Sorella di L. CARRER, all’inizio delle Ballate, Lampato, Venezia 1834. Poi le « sorelle » di A. Maffei e di G. Revere che si trovano alle pp. 463, 479 e 481 nei Poeti minori

dell'Ottocento,

I, a c. di L. Baldacci;

Ricciardi,

Milano-Napoli

1958.

Questo

tipo

di « so-

rella » si diffuse anche nel costume, oltre che nei versi. Ricordo che il Pellico chiamava così la Quirina Maggiotti del Foscolo; Cfr. S. PELLICO, Lettere alla « Donna Gentile », a c. di L. Capineri-Cipriani; Dante Alighieri, Roma 1901. (24) S. FERRARI, Maggio - Sonetti; Angelo Namias, Modena ‘93.

419

terzina di pedestre riflessione su « un tal tristo destino », Seve-

rino concludeva con la immagine più peregrina del « dolce riso »

di lei, in una visione di rassegnazione universale: « così la vaga faccia de la terra / splende tranquilla in lucido mattino / e dentro il pianto sconsolato

Carlo Reynaudi

serra » (©).

- antologia La poesia della fanel saggio

miglia in Italia pubblicato ai primi del ’95 aveva ricordato tra i maggiori poeti di quel genere il Pascoli e Severino; ma del primo non aveva potuto riprodurre niente per l'opposizione del Giusti, geloso della proprietà letteraria; mentre di Severino riportava appunto Sorella (*). E questo era il dagherrotipo a cui il Villani si riferiva - senza nominarlo - nell'aprile del ’95, aspettandosi un ritratto più nitido dal Pascoli; il quale peraltro aveva già abbozzato un ritratto di /da e Maria ai primi di agosto del1’89, divulgato nelle prime pagine della prima edizione di MY. Ma aveva poi certamente tenuto d'occhio la Sorella di Severino nel rappresentare le sue sorelle intente - come quella - a ricamare l’altrui corredo nelle terzine finali del Giorno dei morti, concluse

presumibilmente nelle « vacanzine » tra il ’93 e il "94 (7). Il Pascoli non aveva ricevuto lo « Maggio » dall'amico, ma il 9 febbraio del ’94, riprendendo una corrispondenza interrotta, gli chiedeva : che scrivi? che scrivi?, « le orecchie, ve’, le tengo », ci-

tando il motto del Genga che era nel sonetto XXXI

di quel li-

bretto dell'amico; con ciò mostrando che, se Severino taceva, lui era ugualmente al corrente (*). Così bene attento ai lavori

dell'amico che dopo l'uscita del Maggio egli scriveva nei suoi appunti il titolo di Sorella in un elenco di elegie da fare (©). Poi alla (25) Cfr. ora in Tutte le poesie, ac. di F. Felcini; Cappelli, Bologna ‘66. (26) E’ nella sezione dell’Amor fraterno; il volume è stmpato da Roux Frassati e C., Torino - Roma. (27) Vv 194-197: « Le tue due figlie [.....] Forse un corredo cuciono, che preme: per altri ». (28) Lv, 365. (29) Il titolo compare in vari elenchi: in CP 251 (1893), in un gruppo di Elegie; in 245, 2r (fine ’93 - inizio ’94), ancora in Elegie; in 245, 7v (estate ’95) in un gruppo che ha ul titolo victorughiano di Canzoni delle aie e delle strade; in 245, 8r (ancora dell’estate ’95), in Piccoli canti; infine nel 255 (primavera del ’96), in un progetto di riordinamento generale, nella sezione Da l'alba al tramonto. Ho seguito la numerazione che ai mss dà il Nava nella sua edizione, ma non la sua datazione, da cui a volte mi scosto un po’. Il fatto è che una

volta tanto bisogna guardare alla qualità dell’inchiostro

e della penna,

onde ci si accorge

che

una data, che si trova, non può datare tutta una pagina, e che le pagine dei quaderni non procedono in ordine cronologico. Se ne deduce che il Pascoli usava i suoi quadernetti come l’« uomo » de 11 libro in P: « avanti e indietro, indietro e avanti », per far dannare gli « operai filologi ». E allora bisognerà adottare numerosi sistemi incrociati per costituire l'albero genealogico di tutti i titoli. Farò un tentativo in altri capitoli.

420

fine dell’anno vennero le terzine del Giorno dei morti, che ho ricordato; ora, nel ’95, a risvegliare l'emulazione è venuta l’anto-

logia del Reynaudi, spedita in omaggio con dedica agli autori citati; poi il 10 aprile sulla « Roma letteraria » la sollecitazione del Villani, il quale lì a Roma in giugno glielo può dire anche a voce, condolendosi entrambi delle stesse pene familiari. Ma — sia detto col debito rilievo per tutti i « crenologi » — prese mai il Pascoli una parola o un'immagine che non fosse già nata tra le sue pareti domestiche, o che non fosse richiesta dallo stimolo precipuo di fare sempre e solo un’ossessiva autobiografia? Fece mai della semplice letteratura di riporto? (*). Del resto, la sorella nubile non era una creatura letteraria,

bensì

una

istituzione

sociale

primaria,

essendo

disdicevole

il

matrimonio alle fanciulle « senza un soldo di dote », secondo le raccomandazioni che venivano anche dai pulpiti, che avevano

aggiornato le tesi dei moralisti classici, come Tommaseo, che alla metà del secolo su questo tema si era ancora appellato alle

ragioni dell'anima e del cuore, riluttante a che «il vincolo dell'anime s’avesse a trattare come società mercantile » : ma ormai (30) Sono tanti i luoghi pascoliani riportati dai commentatori a svariate fonti letterarie, distorcendo così il senso, mentre la fonte era nei suoi fatti quotidiani. Si veda un punto, a caso, in Tiberio, che pare un quadro di fantasia erudita. Ma basta dire Svetonio? Basta « l'orecchio esercitato ai classici » di cui si avvale il Leonelli nel suo peraltro utilissimo commento

ciano

ai PC

(Mondadori,

disdegno

degli

non

basta.

Se i « crenologi

« aneddotti » capirebbero

Milano

’80)? No,

molte

cose

che

sono

» non

avessero

tuttora

un

cro-

incomprensibili.

Qui, dunque, abbiamo negli ultimi versi Livia che « ne’ suoi due cuori [...] nutre Tiberio con le sue mammelle ». Se si fossero messi questi versi in rapporto alle vicende pascoliane del tempo di (ri)elaborazione si sarebbe visto che il componimento non è una rievocazione di miti classici, bensì l’aspettazione di un evento -il parto di Ida- che fu nella fantasia a lungo contrastato, fin da prima del matrimonio, ed ora si mostrava pauroso, minaccioso; ma insieme accendeva grandi speranze di paternità trasferita. E quindi Livia più che a Svetonio era parente a Ida, « tranquilla, indomita, ribelle », che nell’incendio che distruggeva la foresta/famiglia Pascoli portava in salvo un nuovo virgulto a cui il poeta fratello auspicava un grande destino; e allora i suoi « due cuori » non sarebbero apparsi « un probabile accenno

all’indole

della dice

madre

forte

ma

e il cuore

il Pascoli

non

impulsiva,

ecc. ».

(Leonelli

del figlio, che nella maternità

prevedendo

questo

stato

di Ida

249),

sono

nell’opuscolo

bensì

uniti Per

quelli

nella

che

stessa

le nozze

sono:

il cuore

persona,

di lei.

Cfr.

come anche

Mariù, che lo sottolinea allusivamente, come elemento del gergo familiare, in LV 473. Ida stessa scrive loro il 20 dicembre ’95: «Io non posso ancora dire di aver due cuori » (CP XVII, 2). Si può obiettare che i due cuori nel Tiberio non sono entrambi nel seno di Livia. Ma questo è il punto: egli fa una rappresentazione allegorica di fatti sempre personali, e questi fatti gli premono più che la rappresentazione letteraria, cosicché si hanno questi « strappi », da dove si vede ciò che lo ispira veramente: qui Livia ha il figlioletto in braccio, mentre Ida, quando egli scrive ha ancora i due cuori in seno, ed è a questa condizione di Ida, che egli pensa, non a Svetonio. Altri casi si troveranno più avanti. Come suppone il Mengaldo nella prefazione alle MY, BUR, Milano '81, le Myricae sono un libro autobiografico. Ma non solo le Myricae: quasi tutto ciò che il P. ha scritto è autobiografico, e l'autobiografia è la fonte principale anche dove l'erudizione sembra prevalente.

421

la borghesia aveva consolidato una sua filosofia della felicità, che era affidata alla disponibilità dei beni; e i beni o si producono, o si hanno per accumulo, col risparmio l’eredità o in dote; e chi ne è sprovvisto, o soccombe nella lotta per la vita — dice Darwin —, o quantomeno è infelice — dice Mantegazza, che educava i giovani a questi principi con l'Arte di prender moglie (”). A queste prescrizioni, a cui il Pascoli attribuì più volte la

sfortuna di Mariù, egli, il fratello-padre, si ribellava come a una pessima e deplorevole servitù borghese, a cui sfuggivano invece le donne della classe popolare. Ma egli protestava inutilmente e in segreto (la condizione della sorella doveva apparire come una « libera elezione », per attenuare l'amarezza di Mariù)

(?).

Fatto sta che la figura della sorella nubile era frequentissima, e trovava

una

sistemazione

col celibato volontario

nei mo-

nasteri, negli educandati, asili e ospedali, oppure con quello involontario e riluttante o rassegnato nelle famiglie. Ogni famiglia ne aveva qualcuna, che veniva « sballottata » tra i parenti, secondo il termine inverecondo di Falino, che, con quella parola, si

aliend per sempre l'animo ferito di Mariù (#°). Un tale ritratto l'aveva scritto nella prima pagina di un quaderno anche l'impiegato Ettore Schmitz, il quale dal ’92 tirava avanti in segreto una nuova storia nella speranza — vana — di sfuggire alla « disaggradevole » vita di scritturale di banca. In quella sua storia aveva fatto il ritratto della sorella di un amico redattore di provincia, poeta schivo e solitario. Anche quella sorella ignorata era « piccola e pallida » e viveva per il fratello «come una madre dimentica di se stessa », mentre il fratello, che sentiva sulle sue spalle quel destino sacrificato, « traversava la vita [...] lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità » (*). Così era Mariù : la madre che proteggeva (31) Cfr.: G. FRASSINETTI, Lettera sul Celibato, che accompagnava il Compendio della Teologia morale di S. Alfonso M. de’ Liguori. Leggo nella ed. VIII, Tipografia Arcivescovile, Genova 1890, p 225. Il Compendio era della metà del secolo, manuale che in numerose edizioni era libro di testo nei seminari e libro da comodino pei confessori in tutta la seconda metà dell’800. N. TOMMASEO, Dei sussidi dotali, Firenze, 1845; poi in La donna, Scritti vari, Milano (1868) 18722, p. 113. C. DARWIN, L'origine dell’uomo, 1845; I, v: La selezione naturale operante

nelle

nazioni

incivilite.

P. MANTEGAZZA,

L'arte

di prender

moglie,

Treves,

Milano,

1892; 138 sgg. (32) LV 601 e 667. (33) LV 289. (34) E’ il personaggio di Amalia in Senilità. Il libro uscì nel novembre del ’98 (Vram, Trieste), ma Svevo aveva cominciato a scriverlo nel ‘92, dopo la stampa di Una vita. Per i riferimenti biografici cfr. E. GHIDETTI, Italo Svevo, Editori Riuniti, Roma 1980; 318 (n 53).

422

il fratello, ma anche la figlia, che con le sue pene segrete e la sua sfortuna avrebbe vincolato il fratello-padre ad una vita infelice. Anni dopo, quando ella poteva ormai farci sopra anche dell’ironia, e si proponeva scherzando di scrivere il vademecum della zitella (*), Mariù dettò una iscrizione, che anche Giovannino ricopiò con tenerezza : « Maria — che riversò nel suo fratello Giovan-

ni — tutto il suo amore (e qui, nella trascrizione, il fratello aveva aggiunto « inappagato ») — di figlia e di madre — il quale non poté bambina non poté donna — far pago mai altro che in lui » (5).

Si capisce che anche lei, come Ida e «come ogni ragazza comune » (”), avrebbe voluto riversare l'affetto, così come sui veri genitori — che ella non poteva neppure ricordare —, su un vero coniuge e su veri figli. La sua storia le fu penosa e cercò di nasconderla — e vi è riuscita con tutti — ma non la poteva na-

scondere al fratello (« non sai? » gli dice in Sorella, confidando pene segrete), il quale fratello ne soffriva quanto lei, poiché, non volendola lasciare sola, subì le tristissime conseguenze della volontaria quanto forzata rinuncia alle gioie coniugali, che, prima

e dopo, ebbe per due volte l'occasione prossima di sperare

(5).

Se questa è la minaccia che pende sul futuro, e che gli viene da Mariù, la desolazione del presente procuratagli da Ida è tale che le qualità domestiche e materne di Mariù possono essere una risorsa e una consolazione. Perciò ne vuol fare un elenco, per ancorarsi al bene che gli resta, mentre l’amore se ne va; e vuol dare anche una prova di affetto a questa poverina, la quale più di una volta gli ha protestato tra le lacrime che lei non ne ha avute, di prove, come

invece ne ha avute l’altra.

Da quando egli le ha prese con sé, considerandole la sua unica famiglia e il suo cuore trino, ha donato loro versi ogni anno, all’una e all’altra, per pareggiare l’amore e per non suscitare gelosie (”). Ma per Ida i versi erano stati sempre d'amore; era lei il modello della « gaia giovinetta » che egli aveva sperato

(35) LV, 683. Il Vicinelli riporta « Bene, buono, stupendo! », come approvazione del fratello a ciò che ha detto Mariù; ma bisogna correggere in « Bene, brava, stupendo! ». L’episodio, che sul ms porta la data del 26 nov ‘01, è riferito anche in Caselli 201. (36) Mss in Carte P., LXXV, 7,56 (scritto da Mari), e LXXV, 7,76 (trascritto

(37) LV,

da

G.).

287.

(38) Su ciò tornerò nel cap. La sorella. (39) Sono composizioni sparse tra le PV, le MY prima, e ne accenno qui avanti.

e in luoghi

vari.

Ne

parlo

ne

La fonte

423

gli dormisse

accanto

d’un lenzuolo » (*) salvo che, con

« sotto

Ida, doveva interrompere anche il sogno se, sognando, gli veniva fatto di accostarsi troppo alla « più riposta stanza » (#). Per la più piccola invece i versi erano sempre di compianto o di commiserazione;

e Mariù

lo sentiva, ma

aveva

taciuto per anni;

fin-

ché ora glielo ha detto : « non ho le prove che ha avuto lei » (*). Ma si, egli ama anche Mariù, sebbene di un amore diverso : ella è la « figlia » ed è l’incarnazione della madre (#). In questi giorni ha tentato anche di farle assumere le funzioni di Ida, le ha scritto mentre era in attesa di lei : « come ti abbraccerei... quanti baci

ti darei... preparo le braccia e le labbra a un amplesso » (“). Ma no, ella può essere solo l'incarnazione della madre e il suo angelo custode, non altro. Finché egli ha sentito le pianelle di Ida scalpicciare nelle stanze e sulla ghiaia del giardino non gli è mancato altro (*); riusciva anche ad appagare — in modo certa(40) Nell’Epistola a Ridiverde, dell'83. Severino stampò questi primi versi come epigrafe al Secondo libro dei Bordatini, Ademollo, Firenze ’86. Poi Mariù la pubblicò intera in PV2. La identificazione che qui do scontata troverà le sue prove via via, qui e altrove. Qui anticipo conclusioni a cui sono giunto con documenti numerosi e inoppugnabili, che esporrò nei dettagli altrove. (41) Il sogno che si interrompeva era quello di O vano sogno, dell’Ultima passeggiata, scritto nell'estate dell’86 e pubblicato subito da Severino per le sue nozze (25 set.), entrato infine in MY2. Come il sogno cominciava lo si vede in Sera, dell’anno precedente, (e ora in PV): c'è « Ida la bionda », col suo

« aureo

nimbo » intorno

alla fronte;

c’è « Maria

solitaria »

e un po’ triste; c’è infine da una parte Giovannino che le sta guardando e fuma un garin fatto da loro, e sta sognando; fa un « castello » in aria; e in quel « castello» lui le conduce « nella riposata stanza ». Questo quadretto passò dalle mani candide dei tre « vergini» a quelle maliziose di Severino, e da lui a quelle del « solerte » Solerti, il quale lo pubblicò sulla « Farfalla » il 9 settembre ’86 dopo aver cambiato « riposata » in « più riposta ». Ciò fece rimanere allibito Giovannino: « quello che mi si fa dire! Nella più riposta stanza!!! », « strafalcione enorme e vergognoso » (LV 253-4); tanto più che lui, da innocente, ebbe sempre la coda di paglia: basti ricordare lo spavento che prese quando si sparse la voce che lui

conviveva con due ragazze fuggite di casa; o, peggio ancora, quando il fratello Giuseppe lo aspettò al varco a Bologna, dove dava un'’esca troppo tangibile al sospetto infamante sui Pascoli, dei quali uno « aveva ingravidato » la figlia, o figliastra che fosse! e un altro conviveva con la sorella. Sospetto che circolò tra la plebe di allora, come tra quella di oggi, di laureati e docenti. Situazione tremenda; c’era davvero di che invocare il suicidio, anzi un doppio suicidio, per sé e per Mariù! (LV 520). Il povero Giovanni aveva cominciato il sogno con diletto, ed ecco che la vita gli avrebbe mostrato l'orrore del rovescio. (42) LV 420. Poi a 438: a lei toccano solo le « cicche » del cuore di Giovannino; a 444: « voglimi un po’ di bene anche a me »; a 445: « tu senti solo per una ». (43) Sulla identificazione, anche fisionomica, di Mariù con la madre, si ha un cenno in una lettera a Pirozz del 3 nov. ’99 (LV 655): « Mariù, che rassomiglia tanto alla mamma.. ». Su quella rassomiglianza si confronti l’unica foto che essi avevano della madre - LV 44 con quella di Mariù fatta a S. Mauro il 2 maggio 97 - in LV 429 (dove al centro del gruppo c'è lei, non Ida come è scritto nella didascalia). Sulla « reincarnazione » della madre in Mariù si veda

La madre

nei PC.

(44) LV 445 e 447. un

(45) LV 382 (« Scrivo dallo studiolo certo scroscio mangereccio »).

424

fresco... Ida fa stridere

le ghiaie del giardinetto,

con

mente singolare e pericoloso — i desideri dei sensi. « Chi dice che non si può amare castamente una sorella? C'è qualcosa di irregolare? » (*). Era una sensualità forzatamente dimidiata, che traeva soddisfazione solo col senso della vista; ma quello che mancava di appagamento « sessuale » gli veniva largamente compensato dalla ispirazione felice. La poesia come surrogato della vita. Non fu sempre così? Non fu sempre un tentativo di procacciarsi nel sogno ciò che era inaccessibile nella realtà? Non era anzi più soddisfacente il sogno che non la realtà? « L'ombra del sogno » che non « l'ombra della cosa »? (f). Era questo, che credeva, e non abbisognava d'altro che di vedere ciò che amava: « le bianche braccia », la « rosea cervice », la nuvoletta dorata di capelli intorno alla « cara occhi d'uccello » (#). Quell’« amore amaro » (*) (« amaro » perché destinato a finir male, ovviamente)

divenne la sua « fonte prima » e gli ispirò gran parte delle rime, nascondendolo sotto le spoglie di fiori, di uccelli, di paesaggi; cosicché poi nessuno lo riconobbe e tutti pensarono solo all’amore della natura, oppure al romanzo di un Orfano, perché anche su questa storia egli aveva tanto insistito, magari per deviare le piste.

(46) Nel dicembre dell’01 egli scrive ne L'avvento che gli antropologi sbagliano a ritenere « anormale » o « degenerato » chi « - genio o delinquente - aveva tenerezza per la sorella e per la madre » (ed è evidente che egli pensa a sé). « Ma non sanno essi che l’uomo è colui che ama la femmina anche all’infuori della spinta sessuale? » (Prose I, 219). Mariù, letta quella frase sull’ « amore non sessuale » di Giovannino, si insospettisce, e chiede di leggere anche che

è nella

lei il Lombroso

biblioteca

di

(Nuovi

Castelvecchio).

studi Ed

sul genio,

ecco

I, Sandron,

Milano - Palermo,

il 27

febbraio

del

1901,

che,

poco

dopo,

’02, il

Pascoli scrive al Caselli che Mariù dalla lettura di un che sono un gran degenerato anch'io » (Caselli 278).

libro

del « Lumboso » (sic) « arguisce

(47) A Severino scrive 1’8. V. 87 «io credevo che, presa moglie, avresti lasciato di fare bordatini. [...] Io facevo il dilemma: o seguita a far bordatini e non può prender moglie, o prende moglie e non bordatini » (LV 270). In Alexandros PC poi afferma: « Montagne [....] dopo varcate, / si grande spazio di su voi non pare, /che maggior prima non lo invidiate. [...] Era miglior pensiero / restare, non guardare oltre, sognare ». « L'ombra del sogno » è

in L'eremita

PP, v 18.

(48) Le «bianche braccia » furono sempre quelle di Ida, non di fanciulle greche, né di contadine. Ricordo queile della Reginella, nella saffica dell’opuscolo Per le nozze di Ida, dove è Ida che ha esplecitamente le « bianche braccia », che sono poi « le carni bianche di velluto » che

compaiono

ne

/1 chiù

la notte

delle

nozze,

nei

NP.

La

«rosea

cervice » è nell’Zda,

comincia « Al suo passare le scarabattole », in PV. La nuvoletta dorata mentre la « cara occhi d’uccello » è in A Ida, datata 24 agosto 1890, e che biondo

che

è nella Sera cit; comincia « O capo

», in PV.

(49) In PI, Rossini, III, v 30. Ai vv 48-50 si dà la spiegazione dell'amore amaro: « l’amore senza amore », « l'aurora senza giorno », « la felicità senza ritorno », ovvero l’amore che non è l’amore intero; l’amore che nasce ma non può svilupparsi; infine il voler bene che non viene corrisposto.

425

Sulla teoria debenedettiana dell’orfanezza romanzata è tornato a portare suffragi ora il Mengaldo in una introduzione alle MY (©), dove, parlando de La siepe e del Nido, le riallaccia alla

uccisione del padre narrata nella prefazione inedita delle MY3, con argomentazioni filologiche che appaiono stringenti e suggestive; e con ciò mostra come la strumentazione più sofisticata dei metodi critici correnti, stilistici, strutturalistici, possa per-

venire a risultati solo speciosi quando si sottrae all'esercizio più elementare ma necessario del raccordo cronologicamente ordinato con le vicende della vita del poeta che furono le occasioni primarie della sua poesia. Il vilipeso filologo che nell'ottobre ’94 scrisse di aver « disposto i carmi » dei poeti « in ordine più che poté cronologico, in modo che si potesse seguire, alla meglio, lo svolgimento dell'ingegno loro e assistere ai fatti, interni o esterni, che ispirano le loro poesie », come ho già riferito all’inizio, ha forse qualcosa ancora da insegnare agli « specialisti » col suo pedestre metodo storico. « Credo [...] non facciano assai quei commentatori, i quali presentino gli scrittori [...] come complessi problemi grammaticali 0, concediamo, filologici » (Epos, pp VII-VIII). Occorre vedere anche la vita e le passioni; e della vita del Pascoli non basta riferire quanto se ne sa fin dalle scuole elementari: non c’è solo l’orfano, il nido non è solo quello dei farlotti, e la siepe non è sempre la borghese protezione della proprietà; e meno male che il Mengaldo si trattiene dall’« appulcrare ulteriori pezze » a quanto hanno già scritto su questo tema Sanguineti e Asor Rosa, poiché non gli avrebbe evitato di vaneggiare il fatto di trovarsi in tale numerosa compagnia. A quella scuola di sociologia per le masse, qualunque minus habens addottrinato tra i quadri di partito impara a distinguere a occhi chiusi i progressisti dai reazionari, gli uni volti verso il proletariato urbano, gli altri che si attardano retroversi nel mondo

contadino, come

il Pascoli e, puta caso, Tolstoi. Ma così

non si fa cultura, non si fa scienza, è così che si produce solo « droga ». La siepe di MY non ha niente a che fare con La siepe di P2, né con la tragedia familiare rievocata nella « narrazione

fosca » della prefazione inedita Il nido coi loro abbozzi

(50) MY

426

Mengaldo

- Melotti,

a MY3. Mettendo La siepe MY e

in ordine cronologico,

BUR,

Milano

1981;

57 sgg.

insieme

ai com-

ponimenti

contigui, e collegandoli

agli avvenimenti

quotidiani

della vita del poeta, si ricava con facilità questo racconto, che poi è stato messo come sempre e per più di un motivo tutto in co-

dice. La « siepe » è la famiglia; « sui rami spogli di quella famiglia di morti è nato qualche sogno e desiderio d’amore, mentre nel cammino della vita il passo è sfinito e i loro morti si fanno sentire a ogni piè sospinto. Quei sogni nutrono la vita del piccolo re degli uccellini, il reattino », che è lui stesso, come dirà poi ne La cincia P, dove mostra come sia avvenuta la trasfigurazione di quella famiglia in uccellini e di quella loro casa in bosco ad opera della « fata » poesia (le « polledre » divennero « cinciarelle », e « polledra » era già Ida nell’Zda delle « scarabattole » PV2). « I sogni di amore nutrono anche gli altri uccellini della famiglia,

e attraggono

i ’monelli’,

i rivali’,

i cor-

teggiatori. Agli uccellini della siepe resta qualche breve gioia domestica, poi, all'arrivo dei ’ monelli’, le sorelle se ne vanno, fuggono via dalla siepe. Anche il poeta — che interviene in uno sdoppiamento consueto nel P. — desiderò (ma il tempo delle

speranze è passato) le gioie che gli ’uccellini’ possono

avere:

essere liberi, l'amore, una famiglia propria, la poesia, e una casa degli avi, da cui con solo un muto

rimpianto si stacca una figlia

che si innamora ». Tra gli abbozzi primitivi e la redazione finale c'è un incupimento progressivo, corrispondente al deteriorarsi della situazione familiare, che ha ne // nido il culmine

doloroso

di un anno « meteorico ». Il « nido » è quello della nuova famigliola che si prevede distrutta. « Sul ceppo di una famiglia di fiori campagnoli, di ’rose’ ormai morte, non resta che un nido’,

anch'esso

ora

deserto.

Quel

nido, costruito

dalla

soler-

zia amorosa di una fanciulla, come si riempiva, nei primi tempi, di festose gioie familiari! Ora nel nido resta solo la traccia della fanciulla che un soffio di amore, qual forza naturale, ha sospinto

a palpitare e a volar via. Ora la vista del poeta si toglie dal cielo di amore;

l’amore è vuoto, non vi è più il ’ sole’ della ’ giornata

amorosa ’, dopo che anche qualche tarda affettuosità corrisposta si è dileguata. Il poeta resta confitto a terra tra ricordi di morti fratelli e sorelle, mentre il suo amore piange in solitudine ». Queste erano, per le sorelle, delle « sciarade » come quelle che esse chiedevano al fratello fino dal luglio 82, quando le andò a ritrovare a Sogliano dopo la laurea. Da allora egli gliene scris-

427

se parecchie, ed esse si divertivano a decifrarle. Ora egli ha fatto ricopiare 11 nido a Ida per indurla a decifrare e a capire; è un piccolo ricatto sentimentale come poi fece anche con Sermo e con Scalpitìo. Di tutta questa storia, dei simboli, delle corrispondenze, delle date, mostrerò ne La fonte prima la sequenza con la chiave del codice per la decrittazione, peraltro facile ed ovvia (per chi procede nel senso giusto : dalla vita alla poesia; non certo per chi procede dalle fonti, dalle tecniche letterarie, alla poesia). Da questa lettura si vede come la morte del padre e la catastrofe della famiglia paterna sono bensì sullo sfondo ma non sono il tema della poesia né della sua tristezza; e questo, volendo, si legge anche in quei primi tre versi di Sermo : se ci fosse quella desiderata corrispondenza di amorosi sensi con Ida la nuova famigliola sarebbe sempre un garrulo convito, come è rappresentato nella saffica che è nelle Nozze di Ida; è solo la frattura con Ida che fa precipitare la necrofilia di Giovannino, il quale da ora in poi andrà a ricercare nella tragedia di tanti anni prima la causa origignaria del presente « naufragio ». Ma fino al dicembre ’91 nei suoi versi non c’è traccia del cosiddetto romanzo dell’orfano;

la immissione

massiccia

del tema

della tragedia

do-

mestica avviene con gli Anniversari del 31 dicembre di quell’an-

no e con vari altri numerosi testi della prima metà del ’92, tra i quali è la prefazione inedita a MY3, tutti ruotanti intorno al Boléro tragico del Giorno dei morti. Trovare affinità tra questa prefazione e La siepe e Il nido risulta del tutto improprio. E’ un tema diverso. Per avere un altro punto di riferimento con La siepe e con quel modo di comporre si veda il Canto dell’usignuolo di PV, dell’estate dell’87, dunque contemporaneo de La siepe (ma forse questa fu cominciata l’anno prima: l’abbozzo in CP 215 porta sul v un abbozzo de L'asino che è dell'autunno ’86; inoltre negli appunti su La siepe entra in quel ms « il marmo degli avelli », lo stesso che viene posto come lapide in quei giorni a due quartine di PV scritte per il compleanno di Mariù, che ha la « fronte così bianca, così bianca! come il marmo degli avelli »; e anche questo primo sintomo che « i morti chiamano » nasce dalle stesse preoccupazioni e angosce, costanti per anni e che anda-

rono crescendo di intensità dall’86 in poi fino allo « sfacelo »). L'usignolo è quindi un uccellino di quella siepe, che ne La siepe è il capofamiglia, il reattino, il redimacchia « che si contenta al

poco ». Qui egli è il « vecchio usignuolo affiochito » (come il Pa-

428

scoli scrisse di sé al Mazzoni, inviandogli questi versi il primo agosto di quell’anno (#), che « non più chiama Iti Iti» (non solo richiamo mitologico, ma familiare, che sta per « Ida Ida ») poi-

ché «il vago tempo » è « andato! »; e così, in solitudine, parla « ornato » (e non si riferisce solo a un « rispetto popolare », co-

me crede il Mazzoni ignaro, ma alla sua situazione familiare) e dice: «se Ida non avesse i germogli che vogliono spuntare a tutti i costi; se lui non avesse il ’ vilucchio’ (forse) il pensiero che nasce sulle tombe; e se infine l’altra, la ’ formica’, non avesse... — che cosa? il suo ’malino ’?, che non era forse un male alla testa — allora sarebbe senza guai ». Si vedano nel Sogno di Rosetta, di quattordici anni dopo, questi stessi simboli/ personaggi; ma là manca la « vite », non è più con loro, ormai ha « germogliato » a San Mauro. Il modo di scrivere « ornato » gli era usuale, dopo 11 mago di Severino e le raccolte di canti di antica tradizione popolare e colta, dove i carducciani

attingevano

a piene mani. Tra « Bian-

co » e « Fiore » correvano siffatti dialoghi (mentre si aspettava che l’amico « rampollasse ») : « La verga di S. Giuseppe non rifiorirà? La rosa di Sion non sboccerà? » (maggio ’88) (*). Poi c'era il culto di Dante — e non quello di Mallarmé — indirizzato verso le « chiavi ». Tutto gli fu congeniale verso quel modo di fantasticare. Ma anche di ciò, che richiede un discorso lungo, scriverò altrove. Fatto sta che fin dall’82 vi è traccia di allegorie e di simboli, tra i quali, anche qui, si va « avanti e indietro, indietro e avanti »; non c'è quindi la « marcia » dal simbolo all’allegoria, come pensano il Baldacci e il Mengaldo (*). Molto pre-

sto il Pascoli adottò una maniera di comporre che sta tra l'« ar-

zigogolo » intenzionale,

che gli fu imputato

da molti, e la visionarietà modo

enigmatica

dal D'Annunzio

e

« metafisica ». Di questo

di scrivere, La siepe è un archetipo, e La cincia è una sua

spiegazione, scritta anni dopo, non nell’ambito dei Poemetti, do-

ve poi confluì, ma nell’album di foto familiari messe in codice, come

I! nido, Nella macchia, Nel giardino, Rosa

di macchia,

Lo

stornello, A nanna e tante altre. Ne La cincia, dopo aver mostrato la mutazione di quella famiglia in fauna e flora, il « cacciatore », (51) Livorno a G. Pascoli, (52) LV 284. (53) MY

Mengaldo,

cit.;

VI Luglio 69-70.

1924; 25.

x

che ormai ha catturato la « polledra/cinciarella », narra di come quella cinciarella fosse sfuggita a un altro cacciatore appena in tempo, « prima dello sparo ». E qui si parla ovviamente del fante romagnolo che era di stanza a Livorno e che fu sul punto di impalmare Ida, senonché fu cacciato come lestofante dalla gelosia di Giovannino. Ma altre figure potevano essere intese solo dalle sorelle, a cui le « sciarade » erano indirizzate : come

quella

dell’« aio » mutato in corvo nero, forse il vecchio Targioni, preside del liceo, che lo veniva

a tormentare

anche

a casa

perché

gli facesse qualche ora di lezione in più. Per ultimo esempio — che doveva essere il primo, perché esplicito — si veda // vecchio castagno di PP1, dove il modo di costruire le immagini ritagliate addosso alla sua biografia è scoperto (lo dichiara la stessa Mariù in una lettera al Pietrobono (*), sebbene i commentatori non se ne siano accorti e citino quella lettera invano). Questa rappre-

sentazione non è una semplce allegoria, è un quadro barocco dell’Arcimboldi o, se preferiamo, metafisico o surreale, dove la fac-

cia e il corpo cadente del « vecchio » Giovannino erompono

dalla

scorza di un decrepito castagno, nato al di là del rio dell'Orso e

quivi trapiantato, potato di genitori e fratelli, reciso di anni di vita, con

innestate

sul tronco

due

sorelle,

manso » : sono le sue braccia, i suoi due de albero » che porta sul suo fusto : una anche lì ai suoi piedi, che ascolta la sua piamento che è frequente nei « racconti »

che

lo resero

« più

rami, il « doppio grandelle quali peraltro è storia — in uno sdop— e aspetta gli ultimi

« frutti » (che in altri sono i figli, in lui la poesia), che egli mette da parte per lei, per quanto lui non sarà più, e starà a far maturare meglio gli altri poeti nel « metato ». Innumerevoli sono le allusioni. La sua storia e quella della natura sono una sola

storia e il fanciullino ne vede tutte le relazioni impensate (5). Egli, che trova difficile accordarsi con gli uomini, trova identità

e corrispondenza

di destino con gli altri esseri viventi : uccelli,

piante, fiori, ape e torello, croco, rospo e reattino. Era questo il vero romanzo, cui appartengono La siepe e Il nido, ed era un

«romanzo » centrato su una storia di amore infelice; non quello dell’orfano. E a « romanzo » do ovviamente un significato diverso da quello che ha in Debenedetti: non è letteratura co(54) « Il Ponte », Nov.

(55) G. P., Prose

430

1955;

p. 1844.

I, 13: « Egli scopre

nelle cose le somiglianze

e relazioni più ingegnose ».

struita in studio, so quante lacrime ci sono dietro, e lo dovreb-

bero ricordare i « fontanieri » : « tu bibis, ipse gemo » : «tu, o critico da tavolino, che ti trastulli con le fonti letterarie, e credi

che io sia come te, sappi che le mie parole sono state lacrime, e di quelle lacrime e di quelle passioni io ci sono morto ». Ora, alla metà del ‘95, quella passione insana, « amore » diventato « amarissimo », si scopre, è un amore gridato nelle lettere (sebbene anche qui, come nelle Nozze di Ida, voglia apparire dinanzi agli occhi pudichi come amore « paterno »), e non dà respiro alla poesia. « La vena poetica deriva dal dolore », ma

quando il dolore è troppo vivo «le pene » la « comprimono e seccano » e « la mente non vuol tornare alla poesia ». Perdendo la vista di ciò che ama, egli diventa « cieco »; scomparsa la « luce » della Amorosa giornata, il fringuello divenuto cieco sente ora tutto il bruciore della ferita, e per ora non può cantare il « suo solo unico sole » andato via, che va via. Come egli perdendo Ida perse la vista della « luce » della Amorosa giornata di PV lo rievocò prima in favola classica mitologica ne // vecchio di Chio nella primavera del ’97 (poi I/ cieco di Chio dei PC); quindi lo descrisse nella « sciarada » e pantomima musicale, destinata « a sé più che agli altri », che è Il fringuello cieco della primavera del ‘02, passando per il frammento intitolato In assenza di Ida di PV, datato Livorno 1895 (che è del marzo). Un preannuncio di questa « cecità », collegata alla sua causa, era già ne Il nido, dove il « cielo » è « vuoto » di quel « sole ». Poi la previsione si consolidò nel titolo de Il cieco, nel ‘94 (5), quando de / due fiori / uno andava a Sogliano per essere colto. Poi venne Il morticino che è « cieco »alla fine del ’95 (pubblicato nel primo numero del « Marzocco » il 2 febbraio '96 con la data di Capo d'anno 1896, che era quella del suo « anniversario »!, ed era quindi, per chi doveva capire, un autoritratto) : « nenia » scritta nelle feste vuote di gioia, trascorse per la prima volta in solitudine, nelle quali l'assenza di lei risaltava dolorosamente, mentre la povera « mamma », la « cerea mammina », filava maglie e calzette per rinnovargli il guardaroba. Infine alla metà del ‘96 Il cieco è ormai in una disperazione « nera » (venne pubblicato in un altro « anniversario », il 10 agosto su « La vita ita-

liana ») : su di lui sono sospese come un incubo « due aquile » (56) CP 245, 4r.

431

che hanno celebrato da poco il loro fosco » coniugio (« fosche » per lui, perché gli hanno oscurato il « cielo », gli hanno tolto la

« luce » del suo « sole »). Egli è a terra, la sua « guida » è per lui «morta », la « guida » della sua vita sognata, di quando « s’addormì » e « sognò »; ora è sveglio, la realtà lo priva del sogno, ed egli « non vede » più niente; mentre « la lunga ombra », cioè il desiderio (« che non mai dilegua ») che rinasca il « sole », l’amore,

« che di là brilla », che altri hanno, e che egli « aspetterà » ormai invano, lo dilania. Alla fine del ’96 poi progettò di fare una raccolta di Canti della maestrina e del cieco (”), ovvero suoi e di Mariù. Canti, che finirono poi in vari volumi, e tra i quali è Il cieco di Chio, dove la « maestrina » non è Deliàs, ovviamente,

ma solo « la donna che fila nel chiaror del focolare » presso la quale egli riposa nel suo « errare ». Ora alla fine di giugno del 95 il « cieco » sta errando per Roma; ed ecco la « maestrina » che lo accompagna sull’Appia Antica e al Foro e lo consola e lo induce a scrivere : solo il lavoro lo può distrarre e lo può ristorare affinché si risollevi da quella prostrazione : lei glielo sta dicendo da un mese. Quindi qualcosa dovrà scrivere. Per Mariù egli ha in progetto già da due anni un « monumentino » tra i titoli di Elegie, che comprendono ritratti di tutti i suoi morti, e (tra quelle « serene ») i ritratti di queste sorelle

che gli stanno nel cuore. Un ritratto singolo per Mariù : Sorella; un ritratto in gruppo con Du : i due fiori - uno colto; il fiore appassito e il fiore reciso; il fioraliso e il rosolaccio (*). Diversi destini, temi ricorrenti di meditazione e di fantasia poetica, che compaiono da Nel giardino a Rosa di macchia, alla Finestra illuminata, e a tante altre.

Nel giardino mostrava l’una come la « gaggia » che di notte

« si stringe nelle verdi trine e dorme tutta in sé romita »; l’altra come

il « gelsomino » che, invece, « si appoggia al muro » e nel-

la notte « dischiude i fiori, candide stelline, alitando » (9). (57) CP 245, 24r. (58) Per il titolo di Sorella

tra le Elegie cfr. qui la n. 29. Gli altri titoli compaiono in CP 246, 29v (del ’92 o ’93), in 82 (dell'autunno ’93), dove 11 fioraliso e il rosolaccio dà spunto a La rosa di macchia (di quei giorni), che non esaurisce il tema, perchè ritorna in 251 (della fine del ’93), poi in 245, 4r (del ’94) e in 254 (della fine del ’95). (59) MY Nava ed., 529 sgg. (« Cuore » e « Cielo » erano le ragioni di vita delle due sorelle: il « cuore » prevaleva in Ida, l’« anima », il « cielo », in Mariù. Sulla sovrapposizione intellettualistica, « metafisica », che il Pascoli costruì in questa appendice di Nel giardino si leggono cose pertinenti in MY Nava ed., LX).

432

Furono

sempre

così, ai suoi occhi.

In questa

ottica, ora

per il « fior di spina » decide di scrivere Sorella, mentre per il « fior d'angelo » segna tra gli appunti una Canzone di nozze, con le varianti Sì sì e Hymen (£): per lei è arrivato il momento in cui « il fiore che odora di notte » viene « colto », viene « reciso ». Ma chi può dire ora : « E’ vero che non s'è più soli? Sì, sì, diranno » (*)? ma chi? Non il vecchio « muro » abbandonato, che per le nozze del « gelsomino », che se ne va, si ritrova nella solitudine più nera. Tutti gli epitalami quindi li potrà scrivere solo anni dopo, per nozze a lui meno infauste. Cosicché il « gelso-

mino » che « alitava » di notte nel giardino di Livorno, e che « s'aprì » nella notte delle nozze di Ida — poiché era lei il « gelsomino » — non poté effettivamente nascere in quella occasione; rimase in boccio solo come altrove, come si sa (£).

un titolo, finché andò

poi a fiorire

La Ebani, che ha studiato il Gelsomino (&), ne fa risalire gli abbozzi alla fine del ’97. Ma il Nava, trovata tra i titoli una frase « S’aprì il fiore che odora

solo nell'ombra », dice che « è

forse un'anticipazione de 11 gelsomino notturno » (4), e ha ragione. E’ senza dubbio un'anticipazione, ed è della fine del ‘95. Gli altri titoli di quel ms 245, 25r sono La notte nuziale, Le caval-

lette « mi parevano rane », Il chiù, e sono tutti nati dalle nozze di Ida. Oltre al Gelsomino, nasce L'assiuolo, Il chiù, che col suo

singulto dava la voce al tormento e alla solitudine dei due esclusi: prima coi « campanellini d’oro » in 245, 7v (del luglio ’95); poi ai « campanellini » si aggiungono le « cavallette » (245, 19r, fine 95), che marciano di conserva a // chiù ripreso ora da una quartina dell’agosto

‘94 (245, 15r), richiamato

in vita da una

scam-

panellata al cuore che veniva dagli amici Angiolo Orvieto e il « Masetto », che nel ‘95 hanno pubblicato la loro Maggiolata, (60) Sono in CP 245, 7v (a metà ’95); 245, 8r (a metà '95): in entrambi gli elenchi si trovano insieme i titoli di Sorella e della Canzone di nozze, con le varianti indicate. Poi, scritta Sorella, la Canzone di nozze, rimasta esclusivamente nel titolo Sì sì, ritornò sola nell’autun-

no

'95 in 245, 13v; e poi a fine anno o all’inizio

generale,

in

previsione

di

MY

4, nella

sezione

del ’96 in 257; finché, Dell'alba

al

tramonto,

in una

ricapitolazione

ritornarono

insieme

Sorella e Sì sì in 255, a metà del ’96. (61) Cfr. Canzone di nozze, di MY5 (vv 10-11), scritta poi per nozze Bemporad nel luglio "99. (62) I pochi appunti stesi via via negli anni successivi furono utilizzati all'ultimo momento per le nozze Briganti alla metà di luglio 1901. (63) N. EBANI, /! « Gelsomino notturno » nelle carte nisotti, Ricciardi, Milano-Napoli 1973; 453-501.

(64) MY

Nava

pascoliane

in Studi

offerti a C. Dio-

ed., p. CC.

433

dove verso la fine c'è un componimento col lamento del « chiù »: [...] quand’ecco [...] nell'alto sisingulto un lamento? Qualcosa ’ Mai più!’ [...]. Il fiume che lento fluiva... Oh sogno

« Taceva ogni fronda del bosco lenzio dell'ora levarsi [...] un

che parve: d'un mare lontano [...]. Tu chiami, io ti seguo : laggiù. Ma v'era una coppia d’amanti [...]. Si sciolse a quel mesto richiamo. La incolse un presagio di pianti: l'autunno, l'immenso squallore, le foglie cadenti, la fin dell'amore

dissero :

[...]. Le labbra ancor

T'amo. Qualcosa piangeva : Mai più! » (©). Orvieto, gran signore, qui non faceva « abnegazione », raccontava tutto al lettore, e al Pascoli, oltre che denaro e fama, dava qui anche un accento,

uno spunto, ma non ne fece mai parola, facendo abnegazione di sé. Tuttavia

Giovannino

aveva

già annotato

anni

prima,

forse

nel ‘91 (in 246, 3v) in uno schema dei poemetti sulla Reginella — poemetti che si dovevano « concludere con la sera » delle nozze —, che in quella sera « non dorme

alcuno », e si sente « l’as-

siuolo ». Quell’assiuolo, quel « chiù », nel trigesimo delle nozze di Ida sta ancora a « singhiozzare da non so qual torre », dalla torre bicocca di Caprona, si può dire: nella Mezzanotte della Finestra illuminata; e le « cavallette » e i « campanellini » gli sono ancora vicini, ma distinti in un ms della fine dell’anno, insieme al Gelsomino, nel ricordo della recente Notte nuziale (in 245, 25r); poi all’inizio dell’anno nuovo di tutti loro vanno avanti nella composizione i « campanellini » e le « cavallette », (in 257); fin-

ché il 29 marzo sul « Marzocco » l’amico De Bosis pubblica la sua traduzione di L’Assiola di Shelley (« Non odi tu l’assiola che geme? / Io penso ella è qui presso » / fece Maria, mentre nel buio insieme / noi sedevam, prima che accesa in cielo / fosse una stella o ne le stanze un lume... »). A quel punto il suo chiù riprende il nome di assiuolo, si unisce alle « cavallette » (in 94)

e lancia il suo gemito, il « singulto », che nella redazione finale sarà un « pianto di morte », e che era l’« eco » del « grido » che straziava il poeta nel suo intimo: « mai più, mai più ». (Cfr. anche SL, X). Quel funesto

messaggero

della sua sventura

si chiamò

quindi Assiuolo nelle nozze della reginella vera; quando poi il P. nei Poemetti volle fare un racconto con minore « abnegazione », cioè più esplicito, di ciò che accadde agli esclusi in quella

(65) A. ORVIETO

434

e P. MASTRI,

La Maggiolata,

Civelli,

Firenze

1895;

21-22.

notte, l’assiuolo riprese il suo nome di chiù, che diceva « mai più » fin dal titolo. Ma allora, quell’estate, Giovannino fece o no la « compagna » di Sorella, come aveva promesso in quel biglietto di accompagnamento? (6). Quando è tornato a casa da Roma ha pensato di riordinare le MY, che erano esaurite, e tra i titoli nuovi, oltre a Sorella, ai

canti di nozze e ai « campanellini », ha messo anche I! tempo lontano (poi divenuto Allora) (©), scrivendone qualche frase. Un tempo

è stato felice, un anno, un giorno, un punto. Ma ora non

è tempo di nostalgie, ma di pianti, e lascia da parte il ricordo; rovescia questa frase in dolore nella prosa delle Nozze di Ida di questi giorni (il tempo del « dolore », « quell’anno, quel giorno, quell'attimo è venuto... »). Il tempo ora nella sua testa piega molto al peggio. Non lascia passare tuttavia la festa di Ida, l’ultima che ella passava nella casa « paterna » prima delle nozze; prepara anche per lei un « dono », come Sorella per Mariù. Senza preavviso di titoli sparsi qua e là, si mette a scrivere per ispirazione subitanea di risentimento non potuto reprimere, di umor tetro, di malinconia catastrofica, e ci mette la data della

sua festa, il 23 agosto, perché non ci siano dubbi : è per lei; nel giorno che in passato fu sempre occasione di versi affettuosi e amorevoli (*). Li su quel foglio ha scritto che il cuore gli martella come un galoppo, come una mandria, e gli scoppierà come alla loro madre;

mentre

esse, le sorelle, « uccelli smarriti », fug-

gono ancora via dall’antico « sfacelo » della famiglia, a lui questo viene dalle nozze di lei : « la Morte, la Morte, la Morte! » (9). In mezzo al foglio, in alto, prima del titolo La Morte e della data

« 23 Ag 1895 », c'è scritto quattro cinque volte, grosso e piccolo, stilizzato o stampatello, in greco, « Surìe », che rivela l’antefatto

(66) LV 469-470: « Sorella è quasi terminata. (67) Sono insieme in CP 245, 7v e 8r.

Domani

avrà

la sua

compagna

».

(68) Che quel giorno fosse festa di Ida lo si legge chiaramente in LV 969; inoltre numerosi doni di versi a Ida in PV portano quella data o quella di giorni adiacenti. Ma che festa era non sono riuscito a scoprirlo. (69) E’ Scalpitio nel ms CP 45, dove è intitolata prima Cantilene e poi La Morte, su un ritaglio di carta robusta e ruvida da disegno per qualità e per dimensioni uguale a quello di Sorella. La Morte fu inviata con questo titolo al De Bosis per il VII libro del « Convito » (Luglio '95 - Marzo '96), ma poiché tardava molto ad uscire, il P. ne inviò una redazione «an po’ modificata al « Marzocco », dove fu pubblicata il 15 marzo ’96 insieme a La cucitrice,

sotto il titolo complessivo

di Cantilene,

rispettivamente

IV e III. Poi divene Scalpitio

in MY4.

435

di La Morte. Quella Siria non è altro che l’isola di cui si legge in Odissea XV 403 sgg.: « Avrai sentito parlare dell’isola Siria, dove il sole tramonta [e si rammenti che il sole occidente e l’au-

rora sono nel P. sempre la rappresentazione di fasi dell’amore]; ivi Apollo ed Artemide raggiungono i vecchi con tacite frecce che uccidono. Vi sono due città, due borghi; e vi era re uno

si-

mile agli dei immortali [e se fosse lui un poeta? un immortale? il reattino, il piccolo re a Massa e a Livorno? Poiché « quegli eroi antichi di tre millenni sono somiglianti al suo essere inti-

mo — dice del suo fanciullino in SL?, XVII — : egli vede se stesso in loro »]. Un giorno dunque arrivarono lì dei Fenici, famosi marinai, trafficoni e furfanti. Ora, in casa di quel re c’era una donna, romagnola come quei marinai, bella, alta, maestra in tutti

i lavori di casa. Uno di quei romagnoli fenici, mentre lei lavava, la sedusse con l’amore : non c’è altro come l’amore che seduca i cuori femminili, anche quelli di donne oneste e irreprensibili. Avendogli costui chiesto da dove veniva, lei rispose che la sua patria era Sidone al Rubicone, e poi parlò del re del quale ella era schiava, pagata — bisogna dirlo onestamente — il giusto prezzo. Allora quel tristo e furtivo amatore le propose : perché non torni al tuo paese, alla terra dei tuoi genitori? Ed ella non

se lo fece ripetere due volte, e concertò seduta stante il piano di fuga : non fatene parola, disse loro, perché se il vecchio venisse a saperlo o anche se sospettasse qualcosa mi legherebbe con più duri ceppi ». Ecco come sono andate le cose, pensa il Pascoli [« l'orecchio ai classici », se non serve a questo, a che serve? Il resto sono chiacchiere, il resto passerà. E facendo ciò,

non trae ispirazione da Omero, col sedere, ma

vede casualmente

o critico appreso narrata

da Omero

alla cattedra la sua vita,

come altre volte la trova nel modo di vivere degli uccelli o nel mondo vegetale, o in una qualunque frase di giornale], ecco come sono andate le cose, pensa, mentre Ida, di là, nella sua stanza, prepara i pacchi della sua roba per la « fuga » [e dopo qualche mese egli scriverà nei suoi appunti « le rondini che prendono

le piume per il nido » (CP 245, 6v)]. Questi

erano

i fatti

che gli martellavano nella testa, perciò scriveva « Surìe Surìe Surìe SYIRIE »; e mentre ella « fuggiva » egli sentiva il suo cuore « decrepito, finito », che Apollo e Artemide facevano a gara a colpire. A quel punto egli avrebbe voluto mettere un ultimo

436

« ceppo » al cuore di lei dicendole : « tu te ne vai, e io muoio », tenendo per sovrappiù una pistola in vista. E questo è quanto

voleva regalare alla povera Du in quell’estate, prima delle sue nozze. Quanto a enfasi, il Leopardi non aveva fatto di meglio in A se stesso, in simile circostanza. Ma, si è detto, sotto la sfer-

za del dolore « si secca la vena poetica » (*°). Enfasi o no, il grido era quello di Pierre Bezukov che, strappando la lastra di marmo dal tavolo e scagliandola a terra, gridò alla moglie fedifraga « ti uccido », e l'urlo rintronò in tutte le stanze della casa (*). Qui egli gridava: Tu mi uccidi! Lo aveva scritto ripetutamente anche in lettere di giugno (?). Come scrisse poi anche al Brilli: « mi pare di dover morire [...] perché il cuore mi si frange [...]. Batte, batte... » (*); e come tutti i figli dei morti di mal di cuore,

credeva di fare anche lui quella fine, e ora ne dava la colpa a Ida. Ordunque, la morte che ne L'assiuolo viene annunciata dai « campanellini d’oro », poi divenuti « sistri d’argento » che « tintinnano » davanti alle « porte che forse non s’apriranno più » alla resurrezione, è quindi collegata, come si vede, — e se ne è accorto anche il Mengaldo (”) — alla « morte motorizzata » di

Scalpitio « metricamente omologa all’Assiuolo » (ma mi permetta di dire che il metro è del tutto irrilevante); ed è collegata non

a distanza,

come

lui crede,

stessi foglietti nascono

ma

gli spunti

« il brivido improvviso —

nello

dell’Assiuolo

nel

e del Brivido,

La Morte / Scalpitìo; a fine d’anno e all'iniconviene ribadire che — come credono lui e sono stati per l’autore romanzo dell’orfano »;

169.

(71) E’ alla fine del VI cap. in Italia

tempo: negli

è la morte che passa », in CP 245, 7v;

come negli stessi giorni viene composta poi i loro titoli tutti insieme ricompaiono zio dell’anno nuovo (7). Ma soprattutto queste liriche necrofile non « rimandano altri — a quell'esperienza di morte che i lutti familiari » (6), cioè ancora al «

(70) Caselli

stesso

’91; ma

non

ha

della parte IV di Guerra

alcun

legame

con

Scalpitio,

e pace. se

(72) LV 442: «se ne va strappandomi il cuore »; e 445: temo o spero? non so) di morirne ».

non

Il romanzo

venne

nella

mente

del

« facilito

la via

all’Ida

tradotto

lettore.

a patto

(ahimè

(73) Biagini

320.

(74) MY

Mengaldo

68.

(75) Nei

mss

13v e 15r (di fine

(76) MY

Mengaldo,

245,

’95); e 257

(inizio

’96).

68-69.

437

bensì rimandano alla morte sentita incombente e agognata nella lunga crisi dell’« amore amaro »; appartengono a tutt'altro «romanzo ». E’ una riprova di ciò che ho dovuto rilevare : che la intelligenza e la finezza del critico non sovvengono sempre alla cecità della critica « grammaticale » (7). Tornando al Gelsomino che nella notte delle nozze ebbe « i petali un poco gualciti », di cui « l'odore passava col vento » (come ne Il chiù « recava odor di fiori pésti il vento »), la Ebani, con sottili argomentazioni stilistiche, si riporta da quell’epitalamio a Nel giardino (”). Se anche lei avesse seguito l’itinerario naturale, ovvero le ragioni intrinseche della poesia pascoliana, che non sono nelle parole, nei suoni,

e men

che meno

nelle sillabe, vi si sarebbe

potuta riallacciare più agevolmente e compiutamente. Ma almeno questa volta la critica « grammaticale » è caduta in piedi, e anzi offre una conferma indispensabile. Dove invece ha mancato « per sempre » l'occasione di entrare nel cuore della verità pascoliana, che ha avuto a portata di mano,

è stato a proposito

del più esplicito poema che il Pascoli abbia scritto intorno al suo amore folle e infelice, poema che illumina tutto il resto e che è rimasto finora ignoto. Ma anche di ciò, altrove. Come dunque poteva fiorirgli nella testa nell'autunno del 95 quel « gelsomino »? Era appena spuntato che rimase « seccato» dal « cupio dissolvi »; peggio ancora: mentre Giovannino aspettava la morte per sé, cominciò nei suoi sogni a uccidere anche lei, come Dante aveva « ucciso » Beatrice andata sposa di un

altro. Come

ciò poteva

(77) F. Felcini (in Epistolario di « fittizio

romanzo

concepirsi,

« chi amò

invano,

e poesia del P., « Studium », 3-4, 1967) esclude

dell’orfano », ma

riconduce

tutti

i presentimenti

di morte

lo

che si tratti alla « nativa

propensione elegiaca » che trovava nutrimento nella « psicologia dell’orfano » (p. 224): « ingorghi del sentimento elegiaco » (227), « inorridita sospensione di fronte al franare del cosmo » (228: sarebbe il « remoto sfacelo » di Scalpitio, che è precisamente la uccisione del padre); « madre e padre i termini » del « pathos elegiaco pascoliano » (229); « presagi di morte, vita depredata » (231); « linea elegiaca che piega verso il ritorno al nido materno, al nido dei morti » (313), « sentimento del franare della vita e delle cose verso la morte, ... di smarrimento e di solitudine che suscita nell'anima l'aspirazione al - ritorno - al - nido- » (312); «se in X Agosto la spinta elegiaca è insoluta per l’ingorgo del sentimento, ne L'assiuolo il sentimento elegiaco si risolve tutto nella direzione del sogno portato su piani di allucinata percezione delle segrete voci dell'anima, turbata da oscure minacce, dei cupi sentori notturni che esalano dalla misteriosa natura ... » (327). Così per 30 pagine. E’ un motore che sale vorticosamente di giri, ma a vuoto; e in questo caso non può essere imputata di insipienza la critica « gram-

maticale ». (A prescindere

dalla consistenza

del giudizio,

« colui che potendo dire una cosa in dieci parole la dice A. VIVANTI, Zingaresca, Quintieri, Milano 1918; 271).

(78) N. EBANI,

438

cit., 472 sgg.

ricordo

come

il Carducci

in venti... », con

quel che

giudicasse segue

in

sa » (”). In attesa della morte « esso convertiva sé in un piccolo

monaco,

e prendeva

il suo bordone

avviandosi

per quella via,

in cui non avrebbe mai trovata lei viva, ma lei morta, sì, avrebbe trovata quando che sia »; e poi: « ella andò a nozze [....] ed

egli, in quel giorno se quella via del mondo, un letto nuziale; ma di Dante, ma in tutto ciò

in altri mai, per la quale aspetterla in che scriveva

propose di non seguirla in ella andava a riposare in quell’altra » (8). Parlava di parlava di sé. Si rammenti

che /a tessitrice, che tesse la tela « per lui soltanto » come

Pene-

lope in attesa del suo ritorno, gli dice che « sotto il cipresso, / accanto alfine ti dormirò ». Allora, solo allora... « io spero che Dio ci sia e che ci riveli l’un all’altro spogli della nostra mortalità e delle convenzioni

e finzioni sociali. Allora, solo allora, ve-

dremo chiaramente quale abisso d'amore c’era e c’è... Ora come allora! Io sono fedele! come Gulì. Cerco di farmi una ragione, di trovar modo di vivere (non altro che di vivere...) e non l’ho

trovata ancora » (*). Così le scriveva nell’« anniversario » del loro 2 maggio, nel primo anno della loro separazione.

Avvenne allora una metamorfosi. Se Pinocchio era morto da burattino e aveva preso a vivere in carne e ossa, la Reginella reale « moriva » e iniziava a vivere una Reginella sognata, quale egli avrebbe voluto che fosse stata e non fu. E’ in novembre e dicembre che prendono forma in qualche abbozzo i primi poemetti della Sementa progettati anni prima (©). Di quegli antichi progetti riportati a galla nel trasloco restavano alcune colonnine di parole, qualche rima, qualche frase con cui egli aveva fissato nella sua testa la sceneggiatura. Fino allora, scrivendo della Reginella, aveva fatto foto e sogni di lei viva e dei suoi atti veri, come è nei quadretti di alcune myricae e delle poesie domestiche, tra le quali spicca la saffica utilizzata in questi giorni

che

(79) G. P. Prose Il, 816. Lui « lo sa» perchè Dante ha avuto questa fantasia, perchè anlui come Dante « amò ivano », e per gli stessi motivi di Dante: perché l’« amata » era

andata

sposa

di un

(80) G. P. Prose

altro:

questo,

vuol

dire!

II, 909.

(81) LV 482. Ecco o qualche altra fonte

qua il « letteratissimo » Pascoli. letteraria?

Avrà

voluto

imitare

anche

qui Catullo

(82) E’ di diverso parere M. S. PETERLIN, che nel Contributo al testo dei Poemetti pascoliani (« Filologia e letteratura » 1971, III, 282-312) suppone i poemetti de La sementa composti, col titolo di Reginella, nella seconda metà del ’94 e prima metà del '95, mentre gli appunti e gli abbozzi sarebbero ancora precedenti, scritti dall’87 in poi, stando a ciò che scrive il Pascoli in varie lettere, e a caratteristiche grammaticali che ella ha rilevato. Ma l'ipotesi è da rivedere.

439

di pianto nelle Nozze di Ida (®*). gelo, fiore di gelsomino, con la alitanti, ora nel mese dei morti « suo giardino, « fiori » dell'amore

Ma la vera Reginella, fior d’ansua rosea cervice e le stelline moriva » con tutti i « fiori » del nati a ogni stagione da quando

« vènnevi Una » sulla « pendice » di Massa, e nell’« orto chiuso tutto ronzìi la sera » a Livorno, morti tutti ora « in un empito di

pianto », mentre « fuggono stormi » : ancora i fratelli che vanno « esuli », raminghi, chi qua, chi là. Ora quei « fiori », divenuti pensieri di morte, « crisantemi », si volgeranno tutti a San Mauro,

nel camposanto bello da quando vènnevi lei « sulla tomba di sua madre », « sulla sua tomba », ella stessa non

più « viva », forse

« morta », dopo aver colti al « sole » tutti i suoi pensieri lieti e mesti (che andranno

ora, pensieri di morte, a ornare le sue tom-

be, una per una, a cominciare dal X Agosto) (*). Ma questa « mor(83) Vi si celebra una Pasqua dell’agnello, che non può essere del ’95 per più ragioni. In quell’ultimo anno di vita in comune Ida passò la Pasqua a Sogliano; inoltre nella prosa che accompagnava i versi egli dice che, del pericolo di perderla, c'era solo « un presentimento, ma di cosa lontana, così lontana da non dare se non un eco di dolore ». Infatti non vi è, nei versi, il clima di lacrime e di funesti presagi che invece sono costanti nel ’95. Vi si parla del vino di Rivalto, sulle colline dell’entroterra livornese, dunque è verosimilmente posteriore all’estate ’87. Dice che quello «è l’ultimo anno che le sue mani imbandiranno la loro mensa »; ma dall’88 in poi egli ha sempre temuto che fosse l’ultimo anno: ad ogni anno che passava la minaccia diveniva sempre più snervante e dolorosa, a misura degli strepiti di lei, che non si rassegnava a quella vita « sterile ». La saffica ha molto in comune con O reginella e Ti chiama, di fine ’91; e qualcosa di Nostalgia di Severino (ora in S.F. cit., 261). Al v 6 di Nostalgia: il vino splende »; Nelle nozze: l’« agnello gira al focolare [....] rosse [...] coppe di vino »; in Nostalgia, al v 18: « Piano a me sono? - »; Nelle nozze: « O Reginella, e questo è l’ultimo anno sione comparve in « Rassegna Italiana di Storia, Letteratura ed

« al fuoco la salsiccia odora e e pingue odora [....] brillano Reginella chiede - Più tua non

... ». Nostalgia in questa verArte » di Modena nel dic. ’88,

e tale quale fu riportata nell’Antologia della poesia italiana del Targioni, VI ristampa, Giusti, Livorno ’91. Ma è probabile che il P. l'abbia conosciuta direttamente da Severino che passò l'agosto dell’89 e del ’90 in casa sua, facendo versi d’omaggio a gara: sull'album di Mariù Severino scrisse un sonetto di addio il pomeriggio del 24 agosto del ’90 (MY Nava ed., CLXXXIX, ms 240); su un’altra pagina Giovannino aveva trascritto il suo Canto dell’usignuolo, dell'estate ’87, e sulla pagina di fronte Severino aveva replicato con un suo Canto dell’usignuolo, (e questo, sì, pieno di « rispetti » e di vagheggiamenti trobadorici tra colti e popolari: cfr. ora in S. F., cit., 313-315). Severino raccolse questi suoi due componimenti, Nostalgia e l'Usignuolo, nei Versi raccolti e ordinati, Sarasino, Modena ’92, ma tolse a Nostalgia la « Reginella », non volendo appropriarsi di una creatura dell'amico, e la sostituì con la sua « sposa ». Se anche il P. prese da Severino l'arrosto al fuoco e il vino brillante, fu forse un riprendersi qualcosa che aveva già dato « limando » i bordatini. Ma qualunque sia la partita del dare e dell’avere tra i due, quegli elementi comuni mi inducono a pensare che «il sacro agnello » appartenga agli anni 89-91. (84) I crisantemi fu scritta improvvisamente, in quel mese dei morti, e spedita poi al De Bosis che gli aveva chiesto qualcosa per commemorre i caduti dell’Amba Alagi con un numero unico del « Convito », che uscì nel febbraio successivo. Le « rose » e le « viole » di questa ode non possono essere un vero mazzo di fiori. Proprio allora il P. comincia a stendere gli appunti per Il sabato, dove pone la questione della imprecisione nomenclativa nella letteratura classica, proprio a proposito delle « rose » e delle « viole », come si sa, che non possono trovarsi insieme nella stessa stagione. Pertanto si do-

440

te » era venuta precoce sul capo di entrambi. Già alla fine del ’93 egli si chiede nel Bacio del morto se ella sia viva ancora o morta: morta in quel loro « nido », perché oramai è Lontana, e se ne vuole andare; e subito dopo è morta in Crepereia, la piccola sposa pro-

messa che non arriva alle nozze, morta anche lei « con l’aurora », mentre il fidanzato la piange e la madre lo chiama : « Filetus! » ovvero « Zvanì », lui stesso morente nel Gallus moriens (mi sento

un Gallo trascinato al trionfo di qualcuno, scrive nel ’95, l’8 maggio, appena è andato a Sogliano a stringere i patti di fidanzamento per la sorella) (®). Infine era morta ne La tessitrice nel ’97 scritta in attesa di andarla a visitare nell’« anniversario » del 2 maggio, in risposta a lettere piangenti di lei che di là scriveva: come ho potuto abbandonarvi, come ho potuto! « Non dovevo venir qua [...], urlo sempre che voglio tornare con voi [...], non

dovevo venir via dal mio paradiso in terra » (9.12.95 : così per mesi, prima e dopo) (*). Ormai era una « morta » che sopravvive

vrebbe vero;

pensare senonché

a « fiori » colti in vari tempi, questa

è solo

la « parvenza

in tutte

le stagioni

della

», il « velo », e quell’ode

memoria:

ed è anche

è visibilmente

tutta

« ve-

lata », tanto è contorta e sibillina: perchè le immagini che il poeta ha utilizzato come « velo », come metafora, sono state piegate troppo a seguire il pensiero nascosto del poeta, che gli premeva maggiormente, e così facendo trascurava la « razionalità » del discorso « esteriore ». Insomma i due occhi del poeta allegorico non sempre sono entrambi a fuoco; a fuoco ci va, nella mente del poeta, solo quello che gli preme di più, come abbiamo visto anche in Tiberio; e qui era il pensiero nascosto (come sempre, del resto). L'immagine apparente era che quell’« Una » aveva colto al « sole » i fiori dei giardini di Massa e di Livorno («nel mondo mio di Massa e di Livorno » scriveva ella a Barga il 20 dicembre ‘95, con rimpianto:« tempo indimenticabile,

felicissimo »), luoghi

dove

stava

sempre

« cantarellando

»;

quell’« Una » che

era

nel cimitero di San Mauro, « bello così da quando » c’è lei: e questa era già una confessione eccessiva per il suo « pudore » e per la giusta gelosia di Mariù. Ma sotto, dove aveva messo « meglio » se stesso, c'era di peggio; fuor di metafora, diceva che quell’« Una » (che aveva « colti al sole » tutti i suoi fiori) si era presa al sole dell'amore tutti i pensieri amorosi di lui, quei pensieri che ora si convertivano in pensieri di morte; perchè egli, come l'albero del Vischio, « checché gemmò allora (fiori, amore), ora distillata il glutine di morte ». Che l'albero del Vischio rappresentasse lui stesso lo conferma Mariù (cfr. « Ponte », Nov. ’55, p 1844), se ce ne fosse bisogno. Prima « gemmava rose e viole », ora « crisantemi » e « glutine di morte ». (« Aspetto con ansia il fiore settimanale » gli scriveva Gaio il 26-6-07, ripetendo una metafora

che

il Pascoli

(85 G. P.,Lettere diverso,

da turista

estranei

- come

con

aveva

usato

a Barnabei, svagato;

i lettori

ma

tante

volte

nelle

sue

in « Pegaso », Maggio la data

- dicendo

è importante:

ciò che

promesse

1933;

ciò mostra

gli preme

con

di versi).

p 556:

il tono

come

finte

che

vi si trova

egli dissimuli

frasi

con

è gli

letterarie.

(86) Se questa era la fonte vera, ecco ora una probabile fonte letteraria de La tessitrice. Viene da Heine, ed anche lì è una reginella: Ed io sognai!, « sognai d’un re la figlia; / Sotto un tiglio verde sedevamo; / Smunte le guance, umide avea le ciglia; / Palpitando d'amor ci abbracciavamo. / - Del padre tuo non vo’ superbo il soglio, / ..... / Te solo io bramo, te, dolce tesoro.// - Impossibil; - diss'ella a me rivolta; /- Sai ben che un freddo avello è il letto mio; E se la notte a te vengo talvolta, / E' perchè t'amo tanto, e tanto, anch'io! ». Traduzione pubblicata sulla « Roma letteraria » il 10 settembre "95. La retardatio della rivelazione (che lei è morta ») era anche in una Contemplation di Hugo (IV, XIV), dove però l'amata era fin

441

solo nel suo pensiero, come dice nella Tessitrice e in A una morta; della quale egli rievoca continuamente la immagine « come se odor d’incenso fosse il pino che fu », l'immagine ossessiva della Gemella « morta », che egli « rumina » come « bove paziente » nella moviola della memoria (°). In una di quelle immagini egli la rappresentava non morta ancora,

ma

nel terrore

della morte,

nella Digitale,

mentre

ella

confessava a Mariù, in stile allegorico come il fratello, per pu-

dore, la causa del suo « male ». Aveva abbandonato lui, fratello, « padre », « vecchio », « nonno », venendo meno al patto che i

tre, fratello e sorelle, avevano stretto il 2 maggio '85 partendo di notte da Bologna e giurandosi di stare uniti « per sempre » (*),

dall'inizio assente; e in Heine l’evento è già immerso nel sogno fir dall’inizio, e nel sogno tutto é possibile, e la sorpresa risulta attenuata. Del resto quell’espediente può riuscire anche grottesco, come all’inizio del Mastro di Verga, dove tutta la rivoluzione all'alba dell'universo di Vizzini ha origine - si viene a sapere dopo (e il libro ci casca dalle mani)- dal focherello di carte in un camino, Nella Tessitrice invece l’esito è perfetto: dopo il colloquio sottovoce di amoroso rimpianto, quel suo doppio colpo che è « morta » e che è un sogno. E ora noi sappiamo che quella « morta » è una ulteriore finzione del cuore. Da Heine, da Hugo, da due Canti del popolo greco del Tommaseo, da altre innumerevoli letture possono essere nati gli spunti che hanno indirizzato la fantasia del poeta e suggerito quel gioco di immagini e di parole verso quegli esiti che suggestionano il lettore. Ma il disegno, la storia, il bisogno di confidare una pena e di trasformarla in un nepente, le figure che agivano in quei sogni e che lo ossessionavano,

nascevano

da

una

ferita

che

egli

aveva

nel

cuore

e che

non

può

essere

ritrovata nelle fonti letterarie. Quella ferita era nata dalla vicenda privata e segreta cui ho accennato via via, e che fu centrale nella sua vita di uomo votato « all'amore ». Mi pare che la conoscenza dei retrosena familiari che entrano dissimulati in gran parte di tutte le raccolte pascoliane dia un senso più ricco e pertinente alle poesie. Ma nessuno qui vuol dire che le vicende di quelle figure che circondavano il poeta, e le sue passioni, siano la sua poesia, sebbene egli lo credesse e lo ripetesse più volte. Queste erano solo le « occasioni », sinopie, su cui poi interveniva una maestria più o meno geniale, consapevole e insieme istintiva, che ricopriva il disegno di innumerevoli velature di immagini e di suoni. E’ indispensabile scomporre con gli strumenti della retorica quella rete di parole. Ma più ancora indispensabile e preliminare è ciò che mi sono industriato di fare, cercando di ripulire il quadro da tutte

le velature,

dai chiaroscuri

che i commentatori

e restauratori

vi hanno

depositato,

oltre

a quelli che lo stesso poeta vi aveva collocato, sotto i quali strati non si è più in grado di riconoscere il disegno originario. Quindi, accennando a queste varie liriche, non presumo di descrivere la poesia del P., ma di scoprire la matrice primaria di quella poesia. Il labirinto delle sue forme acquista un senso se prima di tutto si scoprono i veri « andirivieni della sua anima ». Ora io qui ne do un'immagine a grande scala, e rinvio per i dettagli a successivi capitoli. (87) A una morta di OI; la « gemella » nei Gemelli dei PC; il verso è del Cieco di Chio PC. (88) Questa « infedeltà » al giuramento egli ricordava alla sorella in Per sempre! dei CC, facendo pagare alla povera Nannina - immaginata lì a parlare anzitempo - un risentimento da cui la bambina non avrebbe dovuto essere neppure adombrata. Né poi nella vita reale egli dava corpo a queste impressioni momentanee di repulsione. Nello stesso tempo che scriveva quei versi egli era affettuoso verso la sorella lontana e anche lei sfortunata, e affettuosissimo verso la nipotina della quale teneva una foto in ogni stanza. Ma nei versi registrava le ombre, le «larve » della notte, ingigantite dalla solitudine « forzata ».

442

4

attratta e vinta dal profumo del « fiore » amore (®), « per quel gusto! » (*) come lui diceva : « pel disio de’ fiori vani » (*). Il disinganno le era venuto presto; il vano « sogno che notturno arse, s'era all'alba, nell’ignara anima, spento » (?). Caduto il « fiore », ora anche il « frutto » era per lei mortale. Come a lui, ormai Cieco, la morte diceva spesso : « vieni! », così chiamava lei : « vieni! », ora « avvinta nella folta erba di molli terrapieni» (*) (come quelli dove partorì Latona) (*), presa dal terrore

del parto, che uccise l’antica Rachele per il suo eccessivo amor di prole.

Il suo « male » fu di aver voluto forzare la natura. C'è del buono nella vita, e anche nella morte — diceva lui — basta sapersi accontentare; ecco come sono liete la vecchietta dell'Alpe

e Suor Virginia, che si apparecchiano alla morte, presentita dall'una, solo immaginata dall’altra, come alla più semplice delle opre quotidiane, come a fare il pane. Esse avevano preso dalla vita con letizia ciò che la vita dava loro, anche l’avvertimento della morte. Mentre lei, che era stata — diciamolo — anch'essa una « scartata », si era voluta sposare a tutti i costi a trentadue

anni, mancando per di più al « giuramento » (fatto a lui, che detesta più di ogni altra cosa «il tradimento »!) (*) togliendo alla vita degli altri il « sole » che ad essi abbisognava. Oh, come diverso era l’amore benefico, quello che va col passo dei cicli naturali della Sementa, dell’Accestire, della Fiorita, della Mietitura. Quello era l’amore buono, il suo era « colpevole » e le dava

il terrore della morte. In quella rappresentazione che egli nella Digitale si faceva di lei erano confluite due storie separate: una narratagli dalle sorelle, sul fiore misterioso nel giardino del convento (LV 133134); l’altra era progettata fin dall’87 per un virgiliano Bosco dei mirti, dove le eroine morte per amore

(89) Catullocalvos,

Digitale. (90) LV

XIII,

Amor

I, in G.P.,

Carmina,

24-25.

raccontavano

Fu

scritto

poco

la loro

prima

della

448.

(91) Cfr. ms

CP 149, vv 28-31, e nota, in MY Nava ed., 504. (92) Digitale purpurea, III, i5. Di questa delusione parla anche nel brano di Catullocalvos sopra citato. Ma parlano sopratutto le lettere di Ida, che sono a Castelvecchio. (93) Digitale, III, 19-20. (94) Lyra, 86, n ai vv 7-8. E’ una importante osservazione del Perugi, nel commento a G. P., Opere I; 823. (95) LV 866.

443

storia (disegno che rimase bruciato da quello analogo de Le adul-

tere che apparvero nel 93 e poi nella seconda edizione dell’Intermezzo di D'Annunzio). Tra quelle eroine c'era anche « Rachele » (in CP LXXVIII, 3, 52), sebbene Mariù l’abbia poi omessa con cura dal suo elenco (LV 269). La reticenza apotropaica di Mariù a proposito di « Rachele » doveva servire a recidere (cfr. anche LV 134) nella mente di lettori di poco garbo ogni legame tra quel personaggio e le vicende familiari che il personaggio rie-

vocava : legame che per lei era ovviamente scontato. Era chiaro che il « fiore » era « l’amore di Rosa e Rigo », come dice il P. stesso in un suo indice ms (LV 704), amore buono e lieto nella

Sementa mentre aveva in « Rachele » un alone peccaminoso; che alludeva a colpe che era assurdo addebitare a Ida all'infuori che nella fantasia poetica e paranoica di Giovannino, il quale, peraltro, al di fuori di quella « meteora psichica » che lo aveva ispirato, non aveva altro da rimproverare alla sorella se non la colpa di averlo lasciato solo e infelice « per quel gusto », ma che in definitiva era tutt'altro che da biasimare, era anzi da invidiare (cfr. Scolopi 253). La « Rachele » della Digitale non aveva ancora alcun legame con Dante e con la sua teologia. La « Rachele » del Bosco dei mirti veniva direttamente dalla Bibbia, dove essa era la moglie di Giacobbe, il quale col suo piede guasto aveva fondato una famiglia dopo grandi traversie, e aveva sposato due sorelle, delle quali Rachele, la molto amata,

moriva

di

parto, per aver troppo desiderato un figlio. Queste due storie si riunirono dopo il primo parto dell’Ida, che fu drammatico e la condusse in punto di morte, con le mani del medico tutte coperte di sangue (come i « vergini » di Barga leggevano nelle lettere, inorriditi). Al secondo parto, nel ’97, ella si preparò come alla morte, e Mariù andò ad assisterla, per raccogliere l’ultimo respiro — come scrisse Giovannino al Brilli (Biagini 320) —, « per trattenerne la vita se volesse fuggire ». (Un anno e mezzo dopo che era nata la « Rachele » della Digitale, essa stessa fece da tramite tra la Bibbia e Dante, quando il P. la ritrovò in S.

Agostino come « fonte prima » della Commedia, nell’ottobre ’99. Rimando per i dettagli al cap. su La digitale purpurea). Se in questa immagine mortuaria dell’« amata » egli metteva risentimento e pietà, nelle altre c'era sempre rimpianto e amore, a lei erano indirizzati i suoi « fiori », « rose » « viole » o

444

« crisantemi » che fossero, che seguitavano a « fiorire » di nascosto, ancora sempre nei Crisantemi. Questo partenza

dietro innumerevoli « velature », come primo « fiore » che gli nacque dopo la

di lei, fece soffrire Mariù

poiché Giovannino

vi aveva

scritto una confessione crudele : che quell’« Una » rendeva bello ora il cimitero di San Mauro dopo che aveva reso belli i giardini nei quali aveva colto « cantarellando » tutte le « rose » e le « viole ». Aveva un bel dire Giovannino che quell’« una » era lei. Egli ha cercato di mescolare le carte anche negli abbozzi dei poemetti che ha messo giù ora, e vi ha scritto in cima « Dedica a Maria dolce sorella » e poi sotto ha trascritto una quartina a O reginella, dove dice: « felici i tuoi fratelli; e più, quando a te piaccia / chi sua ti porti nella sua dimora, / o reginella dalle bianche braccia », dove per lei c'era solo l'augurio che si sposasse, non certo l'appellativo, che era tutto dell’altra. Chi voleva ingannare, Giovannino?

I lettori, forse; ma

non

lei. Come

se lei non

avesse saputo chi era colei che « cantarellava » nel giardino di Massa nell’Amorosa giornata o « a mezzogiorno » nell'ultimo Colloquio, e in altri numerosi

luoghi. Quanti

« pianti interni », per

Mariù! Cosicché Giovannino non ha più ristampato quei Crisantemi, « per non far soffrire », sebbene nei suoi appunti li collocasse nell'indice di Odi e Inni. Fu poi Mariù, eroica, che dopo la morte di lui mise l’ode (nella III ed. di OI, 1913) dove lui la

voleva (*), dopo i ritratti floreali che il fratello aveva fatto di sé e di lei « scartata » dalla vita. Quello che era stato, era stato; e di lui conservò tutto, religiosamente, anche ciò che l’aveva ferita crudamente. [Tutta la questione non è oziosa. Questi fatti nascosti, gli anecdota, non sono aneddoti; sono le « res » della poesia del Pascoli, delle quali già il Contini riconosceva l’importanza. Se non si scoprono quelle « res », canti come Priapus e

Sileno e Antìclo e cento altri restano come sono ora: impenetrabili]. La giustificazione maldestra che il Pascoli trovò come « dittamo » per Mariù, e che non riuscì per i Crisantemi, riuscì poi sempre, per la maggiore accortezza che egli impiegò dissi-

mulando dietro varie maschere la vera fisionomia dei personaggi del « romanzo » : così egli, che era ormai il « bimbo morto » (96) Mariù in circolazione

ha pubblicato l'ode in OI poco dopo (un mese circa) che da uno dei tre Gigi, L. Siciliani, su « l’Eroica », Apr.-Mag.

era stata 1913; 108.

rimessa

445

mentre « la piccola sposa cresceva, col fiore che già lega », ne I due cugini del maggio ’96, trovò nel nipotino Ruggero e nella di lui cuginetta Olga un facile « schermo »; mentre a « schermo » de La tessitrice fu fatto il nome

di una

Jole, nome

che Mariù

«non sentì mai pronunziare da lui », il quale anzi rassicurò la sorella che lui « non aveva in mente di preciso nessuna » (LV 538). Ma non aveva « la fanciulla dai capelli d’oro » una ben definita identità fin dai primi appunti sulla Reginella — poi entrati a far parte di Per casa dei P —? Là era quella che « al telaio tessea cantando » con « la spola a volo », mentre « strepitava » ai bei tempi «il pettine sonoro ». Ora, qui, nella Tessitrice, « perché non suona dunque l’arguto pettine più? ». Ora ella tira « il muto pettine a sé », « muta la spola passa e ripassa », muta nel sogno

dove ella vive « morta » e nascosta e senza nome. Egli, che continua a vivere « col cuore ridondante d’amore », deve mettere a tacere anche gli accenni, nonché la voce. « Non sono gli amori, non sono le donne per belle e dee che siano, che premono ai fanciulli » (?”) ha scritto negli stessi giorni in pubblico questo fanciullo simulatore, che in segreto continua a rimuginare l’immagine di lei che fu « bellissima come una dea », e in segreto nello stesso tempo scrive versi di amore disperato. Dietro a tutto

si nascondeva; anche a queste bugie. La scelta dello stile allusivo e allegorico non

fu solo una

scelta estetica;

la prima

cosa

che

scrisse quando le sorelle vennero ad abitare da lui furono versi in francese con questa postilla : « ces vers français sont comme un voile pour les yeux qui sauve la pudeur et laisse voir tout mieux » (*) : salvando il pudore poteva mettervi « meglio » dentro tutto se stesso; che si vedesse « meglio » non si può dire, poiché finora tutto ciò che avveniva nel suo profondo non si è visto, da quanto lo ha nascosto. Finché « donna dello schermo » divenne Mariù stessa, e tutti ne furono persuasi. Nel passo citato de L'avvento, dove si parla dell’« amore non sessuale per la sorella e per la madre », scavando si è trovato quella « sorella » era l’altra, ma tutti pensarono

facilmente che a Mariù come

egli voleva che credessero. Ma, infine, a beneficiare del suo amore « non sessuale » in quel gioco delle parti c'era finalmente

(97) Nel Fanciullino, Prose I, p. 8. (98) In C. PELLEGRINI, Esercizi poetici di I. Siciliano,

446

Olschki,

Firenze

1966,

II; 967.

in lingua

francese

di G.P.

in Studi

anche

in onore

TA

lei, nei panni della adorata « madre », come egli racconterà qualche anno dopo ne La madre dei PC, reincarnata, tornata «in terra a soffrire » con lui. Intreccio di vite che ebbe nella primavera del ’05 una documentazione impressionante della capacità di scavo, di fantasia psicanalitica, del P., ne / Gemelli dei PC. Anche lì la sorella gemella

non

invitati a credere e credettero.

Mariù

mesto

viso », che lo tratteneva

è Mariù,

tutti erano

come

« era la madre

in vita, tratteneva

col suo

l’ansia di lui

di andare dove era la « morta » gemella : « Sì : tu ci andrai... Sì: la vedrai... Tra giorni... Resta con me! s’ora ci vai, non torni! ». Mentre

la « gemella » era

l’altra,

« sparita », « morta ».

ormai

E che amore era stato quello, che lo trascinava ancora verso l'immagine, verso il ricordo della sorella? L'amore per la gemella

« fu quello prima

dell'amore » coniugale,

e « non

fioriva

ancora » quando « sparve prima della primavera ». Dietro le apparenti « mughetterie », dietro gli « schermi » culturali, di Ovidio, di Pausania, offerti di proposito alla perspicacia di chi ha l'orecchio solo ai classici, il P. si nascondeva per pudore e toccava, forse inconsapevolmente, certo con intuito e fantasia geniali, il nocciolo

della sua storia, che è anche

quello di una

vi-

cenda eterna : « si innamorò » di quella fanciulla « appena la vide » (nel luglio ’82) per la ferrea ragione biologica che induce ciascuno

a cercare

nell’altra, come

in uno

specchio,

l’immagine

gentile e ideale migliore e perfetta che ognuno ha di sé; per quel narcisismo universale che la psicanalisi tralascia di indagare nei suoi esiti comuni e innocui, e che invece prende in esame

quan-

do produce effetti di paranoia, e ne attribuisce i motivi a un eccesso di stima di sé, a egocentrismo e chiusura verso il mondo sentito in opposizione. La diagnosi, che qui si tralascia, dovrà essere riesaminata, perché è ben più attendibile delle ipotesi del bambino castrato dalla disgrazia paterna, o del blocco e regressione della personalità, che sono state avanzate su un personaggio immaginario, che era solo quello apparente, non reale; quale egli volle apparire, non quale egli era. Basti dire qui che questo « narcisismo » gli è valso a fare non l’apologia di sé, oggetto da palcoscenico, ma a dilatare enormemente la sua vita psichica; a fare dei versi gli strumenti di introspezione nel chiuso universo che conosceva meglio; e a dare, con ciò che ha scritto, la poesia del profondo più intensa e ricca che abbiamo

tra Leopardi

e Montale.

Ma queste cose si am-

447

mettono facilmente solo se vediamo ciò che c'è, e non, poniamo, nei Gemelli, solo una « piccola metamorfosi floreale »; e così per tutte le altre scene e poesie di miti e di « mughetterie » di tutte le raccolte. Detto questo, che relazione può esservi tra i Conviviali e la Laus vitae? A fronte della fantasia pascoliana, anche nei Convi-

viali onirica e visionaria, che nasce agli albori della psicanalisi, la poesia

dannunziana

è solo una

scenografia

di cartapesta,

e

anche l’arte metafisica, che nacque dopo un decennio, sembra una réclame di balocchi. Il fatto era che in Pascoli, dietro i suoi specchi, c'era un « nero fiume che correa sotterra [...] ed era tutto un pianto »; cosicché, se anche andava tra i marmi del

Foro o all'Appia Antica, a « Chio » o nella «città della Tindaride », non era né un turista, né antiquario, né un decoratore. Si vedrà quando sarà spiegato Anticlo o Sileno e il resto come si deve.

Ma torniamo indietro a rivedere Sorella, dove egli per un momento esce fuori dai sogni segreti che ora lo hanno sconvolto. Lì, alla metà del ’95, il sogno gli brucia, il sogno fa male; e allora le virtù della sorella, per quanto siano un pallido conforto,

sono l’unico bene che gli resta; cosicché, prima di arrivare alla necrofilia, prima dell’avvenimento

per lui tanto funesto, in quel

momento di distrazione che Mariù gli procurò accompagnandolo all'Appia antica e ai Fori, egli di quelle virtù si fece un promemoria nelle quartine di un'’elegia. Le varianti tra testo ms pervenuto già in bella copia e quello poi messo a stampa sono apprezzabili solo in due punti (?). Il poeta è intervenuto due volte, tutte e due le volte sulla terza (99) Queste le varianti dell’autografo che è a Castelvecchio in Carte di Maria XLV, 8. Il ms è un foglio di carta ruvida e robusta, di mm. 135x190. Sul foglio sono riportati in bella copia i versi in fase di avanzata elaborazione; manca però la strofe finale, e la terza strofe ms passerà nella fase successiva I 1 non so, 2 sorella, 3 dolce,

II 2 gli dice:

che hai?

III [E' la V strofe

1 Ella

tacita

del

le varianti

testo

agucchia,

IV CE’ la III definitiva] V TE’ la IV definitiva] VI [Manca]

Queste

3A

lui

al quinto grave,

4 gli dice:

non

conforta,

sai?

definitivo]

ella è sola: 2 ne li 1 odora

del testo

posto: 4 corregge,

3 ella tace,

ma

l’ago,

che

vola,

4 ripete:

stia

4la lagrima 2 buona,

pubblicato

sulla « Roma »: [Manca

la dedica

«a

Maria »]

2 sorella, 3 dolce, grave, 4 corregge, conforta, 6 gli dice: che hai? 7A lui 8 gli dice: non sai? 10 ne li occhi 12 la lagrima 17 ne l’ombra 19 tra le agili 20 ripete: stia caldo, 22 lene: 23 prega, 24 ripete: sia buono, [In nota:] Dalla 4a prossima edizione «di

448

strofe. Della triplicata osservazione del silenzio del quadro, « ella tacita », « non

s’ode », « ella tace », ha lasciato

la seconda

con-

notazione, da cui il silenzio risulta accentuato per il brusio dell'ago (ago che verrà usato anche in futuro, e, cadendo, produrrà un silenzio assai più acuto in Suor Virginia, nell'autunno del ’02). Anche « ella è sola » si perde, ma l’immagine viene ripresa e dilatata nell'« ombra romita », che introduce la figura dell’eremitaggio, dove la solitudine è prolungata e consueta. « Romita » ha una

vasta

nell’area

diffusione

ha una

romantica,

fio-

nuova

ritura con la generazione del Pascoli e scompare con essa ai primi del ‘900. Nel Pascoli, come tutte le parole che egli prende qua e là simili a rottami, ha una carica propria. Nel romitaggio pascoliano vi è un ricordo del « chiostro grigio » come « tomba umana », dove si vive «in sepoltura », come scrisse nei sonetti A Suor... del ‘77, « prigioniere » come Le monache di Sogliano e come sarà poi la monaca del Passero

solitario : segregate in « quella vita solitaria che al più degli uomini si presenta come paurosa » (!*), e che diventerà, per l’eremita forzato, la « trappa » (1%). « Romita », prima di diventare «l'ombra del cantuccio » dove vorrà stare tristemente a meditare e a fantasticare alla fine del ‘900 ne L’ora di Barga, sarà la casa degli orfani abbandonati, orbati del padre ucciso, nel X Agosto del ’96, come lo sono ora, alla metà del ’95, lui e Mariù, abbandonati dalla « capinera » o

« capobionda » che se ne va. « Romita » infine era la « gaggia » nei mss di Nel giardino ('°), dell'autunno del ’90; la quale si ritrae a sera e non conosce il profumo della notte, non conosce l’amore, e quindi, come la « bacca », non conosce ancora la vita: come Mariù, che non la conobbe né allora né mai, povero « fiore

di spina » negletto e messo

da parte.

Ma romitaggio vuol dire anche preghiera. E invece in questa stesura ha dimenticato le preghiere. Come ha potuto dimenticare le preghiere di Mariù? Lei ne ha riempito anche un fo-

Myricae.

[Da ora

sua tore,

raccolta, ma

che a giugno

anche

(100) LV (101) LV (102) MY

in poi tutte

suoi:

cfr.

‘95 era MY

che uscirono

le myricae

quella nota. Sebbene

zo "97 portarono

esaurita,

Nava

su

rivista

prima

dell’edizione

il P. volesse far uscire presto una muova ed.,

il volume

CCLX

uscì due

anni

di mar-

edizione

dopo per ritardi

della

dell'edi-

- CCLXII].

202. 641. Nava

ed.,

529

sgg.

449

glietto, e glielo ha messo nel taschino, perché quando è solo non ne dimentichi nessuna. Ma ora « non ha la testa a segno ». Non gli è venuto neppure un lampo di fantasia, di quelli che altre volte nacquero dalla figura di Maria, e pure nasceranno per « quegli occhi sì grandi, sì buoni... due poveri a cena del ricco, ignorati dai più, due umili in fondo alla mensa, due ospiti... », come in Maria dei CC. Ora è sopraffatto dal dolore, e, come lui spesso ha sperimentato, « le pene », quando sono urgenti, immediate, « comprimono e seccano la vena poetica » : in tale stret-

ta «la mente non vuole tornare alla poesia » ('). Cosicché ora non gli nasce né un ricordo particolare né intenso, e, pur facendo un semplice elenco di gesti, neppure rammenta la più angelica delle cure quotidiane di Mariù. Ella cuce e prega, studia e prega, mentre l’altra sfaccenda in camera e in cucina (%. Quando nell'ultimo Colloquio con la madre, alla fine del ’93, egli

aveva ricercato le ragioni per non maledire la vita, aveva annotato nei mss che « a mezzogiorno canta la capinera », ed « è l’Ida che sfaccenda »; più là e « la passera solitaria » : «è Maria

che cuce. Non altro », non ha altre consolazioni; poi in un foglietto successivo aggiunge : « Maria prega per me » ("). Infatti quando lui è stanco di tutte le lezioni, e non fa « le lunghe studiate di notte », viene Maria e si mette in ginocchio al suo letto e dice piano le orazioni mentre lui le tiene « un braccio intorno al collo proprio come un figliolo » ('*), poi le chiede: « Mariù, dammi un pensiero per la notte », e allora « la madre

dice al piccoletto figlio » : « Intorno al tuo lettino c’è rose e gigli, tutto un bel giardino », cosicché « nel bel giardino il bimbo si addormenta », « il bimbo dorme e sogna i rami d’oro » (mentre poi nella vita, egli è pur sempre il « cipresso » che si scaglia contro il vento e urla alla bufera) (7). Era questo che faceva Mariù. E allora il Pascoli, avvedutosi della dimenticanza, inter-

viene più radicalmente

su quell’abbozzo.

(103) Caselli 169 e 183. (104) Così furono in realtà. Ma

c’è chi scrive

che

«il

P. considerava

le sorelle

simbolismo un po’ ovvio: Ida la vita attiva, Maria la vita contemplativa ». E’ un loro che pensano che il P. si ispirasse a figure letterarie. (105) MY Nava ed., 542 e 548.

con

450

(106) LV 443. (107) Ho intrecciato versi gli stessi personaggi.

di Fides

e di Orfano,

che

sono

varianti

dello

altro

stesso

con

un

di co-

tema

e

aevi

Prende quella terza strofe, dove il bisbiglio dell’ago e dell'anello sono già un auspicio di madre per la salute del figlio, la pone in fondo e la riproduce simmetricamente in una strofe successiva e finale, dove la figura della sorella si spiritualizza e diviene l'angelo custode che prega per alleviargli le pene del cuore. La fantasia gli è rimasta a terra, perché in questo tempo è fuori di senno, e la poesia non gli viene, « non ci riesce più » (!%). Ma di lì a qualche mese, quando riprenderà un po’ animo, e si rimetterà a riflettere su sé, su questa sorella, sull’« altra » e sul

loro diverso destino, nasceranno, da quelle due quartine, due quadri della Finestra illuminata: Dopo? e Mistero, dove in uno ella cuce, e nell'altro prega fino alla morte, senza aver potuto sciogliere il mistero della vita. La Finestra è un altro esempio di come la strumentazione corrente sia inadeguata alla comprensione — non dirò della poesia, ma — di questo modo di comporre. Dall’Onofri agli ultimi commenti la serie dei nove madrigali è parsa di volta in volta « fredda e manierata enumerazione » che « poteva proseguire all'infinito » (Onofri); « una serie di liriche relativamente autonome », dove passa in « rassegna attraverso una successione di ipo-

tesi gli aspetti diversi e spesso contrastanti della vita, del genere Ultima passeggiata » (Nava); « esperimenti di tranches de vie, scene di vita cittadina notturna, immaginate, nelle case ancora illuminate a mezzanotte

[...], in ciascuna delle quali è racchiusa,

per dir così, un'immagine di vita in un interno » (Leonelli) (!°). I commenti più ragionevoli riescono attraverso le fonti e i richiami letterari a lumeggiare, come sempre, molte sfumature, ma il disegno sfugge; e il disegno è invece nitido e — credo — fondamentale. Composta nei giorni dei morti, un mese dopo le nozze, mostra che il Pascoli col trasloco ha recuperato le forze e affronta un discorso di largo respiro. La datazione è facile: in alto a destra del foglio su cui sono abbozzati e portati a buon punto tutti

i madrigali c'è scritto « Card./ De Bos.» ed è la lista delle persone alle quali in giornata il P. si proponeva di scrivere una lettera, come si rileva da altri foglietti che portano una colonnina (108) LV 443. (109) A. ONOFRI, MY

Nava

AA.VV.

ed.,

Letture poetiche del pLXXXIV; e G. LEONELLI,

Lucarini,

Roma

1979;

P., ed. de «L'Albero »; (Lucugnano) 1953; 103. G. P., in Letteratura italiana contemporanea, di

197.

451

di nomi in quell’angolo. Quel giorno doveva scrivere al Carducci e al De Bosis. Egli conobbe il De Bosis alla fine del 94; da allora alla metà di novembre del ’95 (quando la Finestra fu stampata come dono per le nozze Bemporad), che sono i termini che ci interessano, gli scrisse molte volte, ma inviò due sole lettere al

Carducci, a cui non scriveva da tempo; riprese la corrispondenza col maestro solo quando egli ebbe l’incarico di grammatico a Bologna, e gli scrisse per chiedere un rinvio delle lezioni e per ringraziarlo : il 31 ottobre e il 4 novembre. Quindi la Finestra venne tutta composta in uno di quei due giorni, vicini al compleanno di Mariù, nei giorni dei morti. Il 14 novembre scrisse poi al Barnabei, dopo aver spedito Per le nozze di Ida, che « a giorni, invierà copie d’un’altra pubblicazione nuziale in versi, impersonale questa volta » (11°). Questa teoria dell’« impersonalità », associata a quella dell’« abnegazione », costituisce la sua poetica centrale, importante quanto e più di quella vulgata del fanciullino, e bisognerà ritornarci

sopra con comodo. Basti qui dire che quando vuol parlare del sé ostensibile (del padre, della madre, della sorella buona e laboriosa ecc.) egli scrive in stile « mariuccevole », nel realismo pic-

colo borghese della poesia domestica, o effusivo, e anche fantasioso e metaforico,

ma

tardoromantico,

dove

tutto

è espresso,

e non c'è niente sottinteso. Ma quando vuol parlare « meglio » di sé, dei suoi

« andirivieni » segreti,

nel suo

diario

continuo,

nel suo « giornaletto » che sono tutte le sue raccolte, come egli scrisse (delle MY) al Gargano (1), allora è sempre» « impersonale », e fa dell’« abnegazione » furiosa, toglie via tutti i connotati riconoscibili, si traveste in fogge impensate, cosicché poi

i lettori dicono : questo è Pausania, quest'altro è Heine, oppure il Giannandrea, oppure un paesaggio impressionistico. Si tratta allora di vedere cosa c'é sotto le maschere. In un

«autoritratto » scritto alla fine del ’97, in cui egli

si dichiara Morto, dice che nelle sue mani « chiuse » stringe qualcosa, che è il « dono » « portato » dall’« Angelo », da sua madre, e che egli stringe nel « sonno », in sogno.

A quel sogno

non poteva esserci un seguito, al « mattino », al risveglio; ma nel sogno quel « dono » gli potrà restare; perciò egli continuerà « morto » a « dormire », a sognare. Dice anche : « cosa ci hai! (110) G. P., Lettere a Barnabei, « Pegaso » Mag. 1933; 559. (111) In G. OLIVA, I nobili spiriti, Minerva italica, Bergamo

452

1979;

282.

Cosa ci ha? cosa ci ha? Vane domande: quello che stringe, niuno saprà mai ». Ma ora abbiamo visto da uno spiraglio quello che c'era. Tu, o Giovannino, quelle mani le devi aprire, perché i lettori continuano a fraintendere, e deridono o non ti conoscono; apriamole quelle mani, Giovannino : ormai è l’ora. Ecco dunque nella Mezzanotte, come a dire nel mezzo del cammino della vita (« un’ora tristissima tra tutte : la mezzanot-

te », scrive all’inizio della MO, nella prima versione inviata il 20 settembre al De Bosis e pubblicata nel VI « Convito » datato Giugno

‘’95), nel punto

più nero

della « notte », «un

chiù sin-

ghiozza da non so qual torre ». Poiché questo è un cruciverba, io aspetto a riempire la colonna con la risposta giusta quando avrò qualche altra conferma in altre colonne contigue e incrociate. Ma intanto io quel « chiù » l’ho già sentito, e qui, nel trigesimo delle nozze di Ida, lo troviamo che sta ancora a « singhiozzare » come il giorno che lei partì senza voltarsi. Poi vado avanti e trovo un « grand’uomo, che veglia » (leggo sui suoi appunti, ovviamente), che cerca il « vero », nel mare, o marasma, del suo pensiero, e quel vero è, a volte, una « perla ». Ma la

« perla » è la « gemma » leopardiana che cerca anche il fanciullino, è la poesia (*?). Dunque il grand'uomo cerca di ricavare dalla vita qualche succo di poesia. Poi però quest'uomo «ai primi languidi scirocchi », al primo vento carico di pioggia lacrimosa, diventa un « vecchio », « bianco » nella barba, decrepito: sembra di leggere nelle sue lettere di giugno : « grasso, goffo, grigio,

stanco

e malato,

troppo

vecchio

e brutto,

mi

ha

fi-

nito! » (!‘°). Poi c'è « una fanciulla povera, che cuce », e sembra Mariù che non ha i soldi per sposarsi. Quando mette giù gli appunti, il Pascoli si lascia scappare quello che pensa, poi sulle foto vere ci fa i ghirigori per renderle irriconoscibili, soprattutto per pudore, ma anche, come qui, per rendere universale la vicenda privata : lo aveva detto il Carducci che la poesia domestica e privata non aveva avvenire. Ma di ciò bisognerà parlare altrove, qui non c'è posto. Osserverò che questa tecnica dell’« abnegazione » di parole, togliendo le quali egli rende irriconoscibile

il discorso piano e familiare che c’era sotto, ricorda molto quella

sono

(112) G. P., Prose I, 37-38: le perle ». (113) LV 429 e 430.

« Immaginate

che

siano

un

gran

mare

[i poemi].

Nel

mare

453

praticata in questo secolo da Dylan Thomas che, a detta di un suo amico, scriveva un discorso sensato e poi ci toglieva qua una riga, là un sintagma o un verbo chiave, e ne risultava ciò che si legge ora. Molta della poesia del ’900 ha battuto la via dell’« abnegazione ». Ma il Pascoli, non si contenta di togliere; quello che resta lo trasfigura. Quella « fanciulla » diventa subito « una ve-

dova »; ma anche così uno la può riconoscere perché ne ha già parlato, di Mariù, come « madre vedova che lo accompagna alla stazione ». Nella versione definitiva è più difficile, è solo « una buona

vedova », che ha un

suo bimbo

che chiede

la novella,

e

nella novella c'è un Mago e un Topo. Poi vedremo. Ora andiamo avanti; se una casella del cruciverba è difficile si salta e ci si ri-

tornerà quando

avremo

Poi viene un’altra

dato qualche altra risposta incrociata.

fanciulla,

che scrive, in lacrime,

la penna

è

arguta, la lampada sussulta; e un quadro simile già lo hanno riconosciuto tutti, già visto nella Sera delle Varie. Qui in più c'è una mamma

che dorme, e sogna che la fanciulla va sposa; il poeta

questo lo dice dopo che c’è stato uno scricchiolio di una porta. Ma lo « stridio leggero » è quello che fanno le ombre, come dice ancora il fanciullino (*); quindi quella mamma che « dorme » è un'ombra, è la mamma morta. Dunque Crepereia, la Tessitrice, la Gemella,

sono

tutte una

fanciulla viva che è « morta », mentre

la mamma morta qui « dorme e sogna » : è giusto; in questo sovvertimento generale dei codici, la procedura è ordinaria. Poi, nel Povero dono, l’autoritratto non è nemmeno coperto. Egli ha una arma in un cassetto da qualche mese; il giorno delle nozze, mentre giù ferveva il festino, lui su di sopra teneva questa pistola sul tavolo, davanti a sé, e così lo vide Ida andata a salutarlo prima di partire, e la stessa Ida, rimasta impressionata non più

di tanto, lo riferì anni dopo al Biagini, che lo ricorda nella prima edizione della sua biografia, poi molto attenuato

nella seconda,

per non macchiare la memoria; mentre Mariù lo tace del tutto, come è comprensibile. Meglio tacere. Con quell’arma egli si voleva togliere il « dono » che la sua mamma gli aveva fatto. L'aveva già detto nel Colloquio della fine del ’92, che egli non amava quel « dono »; meno

che meno

ora.

La mamma,

l’« Angelo », aveva

« fatto » a lui questo « dono » della vita, e in più gli aveva « portato » con la cicogna l’altro « dono » della sorella, come si legge nel Morto già ricordato; e ora che l’altro « dono » se ne va, egli (114) G. P., Prose I, 52.

454

vorrebbe gettare anche il « dono » fatto a lui (!5). Ma via, Giovannino! C’« è ben altro »! I tuoi sono solo piagnistei; ci sono in giro ben altre sventure. Così pensa lui, iniziando a scrivere Un rondinotto : « E’ ben altro »; cosicché il lettore pensa che dopo un aspirante al suicidio ora si veda per lo meno un morto, una tragedia vera. Invece il quadretto che si vede è quello malinconico di un fanciullo che stenta a fare il suo « penso » di latino,

alle prese col suo avvenire, e che ha nostalgia della mamma.

E’

forse lui stesso da bambino? E allora in che cosa starebbe la tragedia che ci dobbiamo aspettare? Che quel bambino poi, ora, da grande, da « vecchio », si uccide? Ma allora non sarebbe « altro »;

sarebbe la stessa storia del « vecchio » che vuol gettare la sua vita nel Povero

chio », divenuto fanciullo,

dono.

Inoltre,

nel quadro

« nonno », «avo,

è distinto

da

lui, ed

successivo,

il « vec-

parente

di quel

insomma

entrambi

« rantolano », « ago-

nizzano », e morendo lasciano una vita che non ha avuto significato per nessuno dei due. Allora quel rondinotto non è lui, è un altro fanciullo, che forse ha fatto una brutta fine, anche se nel quadro non si vede, e non si nota alcun legame col quadro

successivo dove il bimbo che muore è «un infante ». Lo si pensa, che anche il rondinotto abbia fatto una brutta fine, perché il poeta ha scritto : c'é ben altro che la mia voglia di morire : c'è una

morte

vera,

crudele,

senza

motivo,

dopo

quelle rosee

spe-

ranze di fanciullo. Così agisce il poeta allegorico : con un occhio segue la favola letteraria, e con l’altro segue la storia vera; e mentre nella favola si vede solo un fanciullo che fa i compiti, con

l’altro occhio sta pensando al ragazzo che è morto veramente : a Placido, morto un anno prima di cancro a una spalla, del quale dopo qualche mese mostrerà la fresca sepoltura in Placido, piccolo aratore e piccolo mietitore alle prese con la morte, falciato anzi tempo (!). E come l’« uomo » diviene « vecchio » e « avo » di

(115) Non il dono della poesia, caro Perugi. Ci voleva la pistola per togliersi il dono della poesia? Il fatto è che le chiavi dantesche traggono in inganno, non aprono il cuore segreto del P., da cui nascono le sue « meteore ». (116) Anche nel Piccolo aratore c'è il segnale della minaccia incombente: appena sta per « fiorire » ciò

balzo

». No,

che il bimbo ha appreso, ecco un «tuono rotola in aria, e il serpe esce dal il P. non è un rapsodo popolare, né un raccoglitore di proverbi. Queste due

sciarade sono due allegorie di vita domestica come il resto; ma qui il Pascoli gioca scoperto, come ne I due vicini e negli apologhi sulia sua figura di poeta e tutte le volte che non ha alcun « pudore » da « salvare ». (Ma l’uso che egli fa dell’Indovinello Veronese suscita una curiosità: come sarà giunto ai suoi occhi quell’Indovinello, che fu noto solo quasi una trentina di anni dopo?).

455

"4

quadro in quadro, così anche il « ragazzo » rondinotto

l'« infante » di pochi giorni, a un altro estremo

diventa

della parabola

della vita anche lui, che rantola nel quadro successivo, dove è nipote dell’avo, insomma cuginetto. Allora se ne deduce che non

sono quadri staccati, non c'è solo quel noto legamento stilistico tra la Mezzanotte e il Gatto nero, ma c'è un legame intrinseco fra tutti i madrigali, che sono le stazioni di un morality play. A questo punto, chi non « ha orecchio » solo « ai classici », ma conosce

ormai il Pascoli nelle sue pieghe, risolve il cruciverba anche senza farsi le altre domande, e il disegno che se ne ricava è questo: che la Finestra è un poemetto unico e compatto, composto tutto

in un solo foglio e in un sol giorno, dove la storia è come sempre solo la vita del poeta associata a quella degli altri abitanti del chiuso universo delle loro quattro mura. Dietro quei vetri di via Micali a Livorno quattro creature furono « alle prese col destino », alla ricerca dell’ubi consistam, per dare un senso alla loro vita. Nel I quadro, nella mezzanotte della vita, come si è già visto, c'è il « chiù » che singhiozza dalla « torre » di Caprona, a

un mese da quelle nozze, e pensa a ciò che è stato di loro e a cosa avverrà. Nel II quadro il « vecchio » fa le sue « lunghe studiate di notte » e cerca una ragione di vivere in qualche « perla » di poesia. Ma il « primo » vento caldo e « languido », (insomma un amore lacrimoso : « vento » era l’amore che spingeva via la « piuma » dal Nido; come è l’amore «il mite soffio che reca il polline » alla pianta/Pascoli, che non se ne cura perché è morta, nel Vischio), lo imbianca, lo invecchia, lo distrugge. Nel III c'è

poi una «povera fanciulla », una «buona vedova », come la « madre che lo accompagnò alla stazione », che cuce e narra la Storia, la Geografia e le novelle

a un bambino

che fa le scuole

medie, e al quale ella fa da madre. Il bimbo chiede : « e dopo? », cosa

avverrà

di noi?

Allora

Mariù,

la « nonna

novelliera », gli

racconta che, « dopo, il Mago si è smarrito nella selva » e che « il povero Topo è morto ». Chi al Guastalla e ai Racconti di fate e alle fonti letterarie chiede una spiegazione delle « novelle » del Pascoli, qui rimane all'oscuro. Chi fu mai il Mago in quella casa? Il « Mago » è il poeta che cerca le « perle », è il nostro Giovannino, che ora ha appena finito di scrivere il secondo capitolo dei prolegomeni alla Minerva oscura (7), e, avendo ormai (117) Dovrei

456

ricopiare

pagine

intere

di quei

Prolegomeni,

non

per

mostrare

come

ha

per il suo amore un senso angoscioso di colpa, si trova e si descrive « smarrito nella selva » dantesca del peccato; e il « povero Topo » è Placido (''), al quale Mariù racconta, in uno sdoppiamento, in un gioco di specchi, come avviene ne Il vecchio castagno (come ne La siepe e A nanna) che, « dopo », il Topo è morto.

IV: In un'altra stanza c'è Ida che scrive una lettera d'amore, mentre un tarlo della porta avvisa che i morti sentono e « stridono ». V : e « stride » anche il « vecchio » a quella scena, ma per l'opposta ragione : a lui non fa piacere. Il « vecchio » ha un’arma, con cui vorrebbe farla finita, ancora per quel « languido scirocco »; la poesia non gli basta più. Ma forse gli incubi della « notte » passeranno, la madre gli dirà ancora : Zvanì; lo preghe-

rà di conservarsi in vita; un’altra ragione di vivere forse dopo si troverà.

Guardati

VI:

attorno,

Giovannino;

ben

ci sono

altre

tragedie : il povero bimbo alle prese col destino, lontano dalla sua

mamma : « appare » e subito

la sua pistola, con

chio », con

rantola,

della morte,

come

« scompare ». VII:

la sua

il ragazzo;

disperazione, l’uno

Il « vec-

è sull’orlo

« vecchio », decre-

pito, l’altro che ha appena aperto gli occhi; la vita dell'uno vuota, come quella dell’altro. VIII : E per le due fanciulle la vita avrà un senso? La « buona vedova », che rimarrà « vergine » affidata alle preghiere e a Dio fino all'ultimo respiro, non lo scoprirà. IX: E l’altra», che partorirà, lo potrà scoprire? Qui finisce il poemetto. Anni dopo troverà che solo dalla vita di questa sorella, dalla vita invidiata di « Rachele » (cfr. Scolopi 253), viene una

risposta

plausibile,

darwiniana : «il mondo

vuole

[...] grandi

elaborato anche lui una sua « teologia » dantesca dentro ai suoi versi - come fa il Perugi, più che bene - ma per mostrare come egli imbastisce le allegorie: onde togliere i « veli» per vedere cosa c'è sotto e cosa gli « arde ». Perchè, quelli danteschi, sono altri « veli», altre

servo

maschere

il compito

dietro

ad

cui

altre

si nasconde,

come

dietro

a Omero

e alle

altre

fonti

varie.

Mi

ri-

pagine.

(118) « Topo », appellativo comune domestico, già usato dal P. per Severino (LV 409). Così fa il Pascoli: prende una novella e ci si nasconde dietro, come fa con ogni altra figura letteraria e con ogni aspetto della natura, convocati lì per adombrare e spiegare a se stesso la sua vita, trovando nell’accostamento inusitato lo stupore, la « meraviglia » - cioè la poesia unico « miele », sola consolazione a quello stesso dolore da cui è partito. Dunque, come valutare il diapason di quello « stupore », come valutare quella poesia, se si ignora il primo termine di quel confronto, che è la sua vita?

457

aquile nuove! » (!‘). E anche il « Mago » troverà uno scopo: di vate,

di educatore,

di consolatore.

scopo

E uno

ci sarà

anche

per Mariù. Ma qui fermiamoci. Osserverò solo che gli ultimi due quadri delle due sorelle, l'una morta senza aver conosciuto l’amore, l’altra, viva, che l’ha conosciuto e ne ha recato il frutto,

si proietteranno sempre appaiati, come avviene dei loro destini nella mente del fratello, in altri due quadri analoghi scritti insieme tra la fine del ’97 e l’inizio del ‘98 : nel Sogno della vergine e nella Digitale. Là esse sono ancora sul loro letto di Procuste, ma in un momento antecedente alle scene rappresentate nella Finestra : Mariù, prima di morire nella preghiera, è ancora in quel letto a far sogni vani di figli; « l’altra », prima di partorire e di trovarvi

« quel dolor pago

e quel sorriso

stanco », è

colta su quello stesso letto dal terrore d’essere punita con la morte « pel disìo del fiore vano ». A questo punto non ci fermeremmo più, perché è tutta una catena : la vita che è dentro a quella poesia non ha soluzioni di continuità; e un giorno dovrà essere raccontata tutta per filo e per segno. Tuttavia, ora che è scoperta quest’altra faccia nascosta della luna, ciascuno potrà orientarsi per suo conto, magari « mettendo nel carniere » qualcuna di queste « lepri », per dirla col Pascoli.

(119) Le due aquile, NP. [Postilla. Una parte di questi appunti fu letta il I aprile '82 a San Mauro; ed ebbero in quella occasione l’intero fascicolo (in una versione che aveva qualche « notizia » più sommaria) il Felcini, Del Beccaro e Oldcorn. Il Felcini peraltro era a conoscenza dei miei rinvenimenti fin da quando

cominciai

la ricerca,

nel marzo

dell’80;

e non

ne

fu entusiasta,

se venti

giorui

dopo San Mauro, in una lettura che egli tenne a Barga, li qualificò « un castello traballante di carte », sostenendo che il Pascoli è « letteratissimo » e « ogniqualvolta siede ad uno dei materiali e ideali tavoli del suo studio sbruffa via tutto quanto lo soffoca della sua vita presente » e « imbeve ogni termine di letteratura »: è infatti di Ipponatte il motivo ispiratore dell’Epistola a Ridiverde, come di Ipponatte il ritratto del « vecchio goffo grigio stanco antipatico »; non suo: anche quelle confessioni epistolari, « considerati documenti di autoabiezione, rivelano un preciso presupposto letterario ». Così il Felcini; e ci è voluto «un quarto di secolo di studi » per andare nella direzione contraria alla verità alla velocità della luce. Quel giorno a Barga gli teneva bordone uno studioso che si scagliò contro chi va « intessendo poco puliti romanzi », dopo che in un suo commento pubblicato poco prima aveva affermato che la biografia «ne fait rien à l'affaire, cioè alla poesia e all’interpretazione della poesia» Viceversa, Del Beccaro, più indulgente, mi invitò al convegno di Barga dell’anno successivo. A ciascuno il suo. Ma in fondo anch'io scrivo solo « per qualche anima mite e mesta ». Perciò ringrazio Nazario Ghinelli, figlio di Nannina, Edmondo Perazzini e Angelo Signorotti, che mi hanno consolato, e Mino Giovagnoli, che ho fatto penare; le signore Gina e Giuseppina David, moglie e figlia del secondo Placido, nel quale Giovanni e le sorelle videro rivivere il loro « rondinotto »: da esse ho avuto in dono un libro pascoliano con la dedica di Ida; infine la signora Redenta Bacchilega, che mi procura quelle cose amate. Ricordo sopratutto Elvira e Gali, per i quali ho scritto questi appunti, da loro attesi a lungo e invano]. Marzo 1980 - Dicembre 1983.

458

ve

ANTONIO

PIROMALLI

IL RITORNO

A SAN MAURO

Tra coloro che ci hanno preceduto nella lettura del Ritorno a San Mauro ricordiamo tre studiosi della generazione idealistica (o che nell’idealismo affondano la lorro formazione) : Raffaello Viola, Siro A. Chimenz e Gaetano Trombatore, tre studiosi i

quali sono stati molto attenti alla poesia lirica anche se con motivazioni e finalità alquanto diverse (!). Il Viola (*) vede il Pascoli comporre e scomporre, nel suo itinerario poetico, le sue potenze caratteristiche, la sensitiva e la morale affettiva, muovendo il poeta, data la sua costituzione interiore, dagli elementi sensibili

per giungere alla rappresentazione fantastica. Per Viola la poetica di Pascoli ha le basi nella concezione positivistica la quale non consente di elevarsi sui dati dei sensi che sono esaltati in quanto tali e non filtrati attraverso l’intelletto. I dati dei sensi sono inquadrati nell’istinto sentimentale che non è moralità e l'arte

nasce

esteticamente

alle

radici,

come

mezzo

sostitutivo

della conoscenza intellettuale che non può aver luogo. Il Viola rimprovera al Pascoli di concepire in termini di rapporto di immagini e di raffinamento del rapporto, sotto il segno dell’ambiguità psicologica. Ma al di là dell’individuazione delle radici positivistiche del Pascoli e dei processi poetici originariamente estetizzati o moralizzati (ma il desiderio di obiettività del Viola non era limitato dal timore idealistico del positivismo e del decadentismo?) il Viola avvertiva che il Pascoli gli apriva un nuo-

(1) Non Savignano, (2) R.

critico Pascucci VIOLA,

è l'opuscolo

di

A.

SCARPELLINI,

7 canti

di

S.

Mauro

di

G.

Pascoli,

1924. La

poesia

di G.

Pascoli,

Salamanca

1946;

II ed.

Padova,

ed. Roma, Babuino 1967. Sul Viola cfr. A. PIROMALLI, Un critico vigilante in Nuova Antologia, gennaio 1952 (poi in Dal ’400 al ’900, Firenze, Olschki

Liviana

1950;

III

e romantico: R.V. 1964, pp. 149-159).

459

vo mondo vivo e cangiante, lo portava verso una modernità in cui il critico si appagava ritrovandovi i tratti di un assoluto. Il trittico Casa mia, Mia madre, Commiato appare al Viola « la più alta espressione dell’arte pascoliana » per il modo in cui gli elementi sono dissolti nel sogno. Per il Chimenz

() —

seguace di Vittorio Rossi maturo

nel-

l'interpretare l’opera d’arte in relazione all’« atteggiamento dell’anima » — il temperamento del Pascoli non è capace di approfondimenti sentimentali o drammatici bensì di esprimere ciò che è labile come il sogno. Lo studioso enuncia la sua nota tesi del Pascoli che entra, dopo decenni

dagli avvenimenti

nella sua tragedia familiare proclamandosi

accaduti,

vittima dell’odio e

della malvagità degli uomini, per concludere che il Pascoli poeta non poteva reggere le imponenti sovrastrutture che si era auto-

create. La tesi del Chimenz è psicologicamente aprioristica e dalla sua macchinosità il critico fa derivare — sulla base del rapporto tra momento spirituale ed espressione estetica — le stravaganze del drammaturgismo pascoliano. Nel ciclo del Ritorno il Chimenz vede il difetto di costruzione di Tra San Mauro e Savignano ma non lo vede sul piano delle ragioni del poeta. Questi nel 1903 è celebre, ha un pubblico di fedeli, toccati e interessati

alle vicende tragiche e romanzesche

della biografia del poeta:

La voce, L'ora di Barga, La cavalla storna, i componimenti

di an-

niversario funebre, quelli per la sorella, per i morti sono momenti di una biografia per il pubblico più largo, già formatosi in tutte le regioni d’Italia, per il quale il Pascoli insiste — diffe-

renziandosi dal D'Annunzio cosmopolita —

sull'amore della fa-

miglia, del paese natìo, della casa. Prima di essere il maestro della nuova ars dictandi del Novecento Pascoli è, per il largo pubblico, il poeta della bontà, delle piccole cose, della semplicità, della solidarietà umana, del bozzetto paesano o sociale ma anche

della teatralità romanzesca della Cavalla storna, delle leggende popolari dei morti che tornano la notte « col loro anelito lieve », riposando intorno alla mensa, « cercando fatti lontani — col capo tra le due mani » (La tovaglia). Il Chimenz non tiene conto

di questi elementi concreti : egli sta attento

Roma

460

(3) S.A. 1942.

CHIMENZ,

Nuovi

studi

su

G.

Pascoli.

L'amore,

se gli elementi

il dramma

della

sua

di

famiglia,

un componimento « nel mistero del processo creativo » si fondono col « fuoco della visione poetica » che è certamente importante ma che può avvenire per diverse vie : e ognuna

di queste

vie, anche la melodrammatica, può dare un contributo alla spiegazione della poesia. Per Chimenz in Casa mia e Mia madre « la melodia è tutto », « pura musicalità ». Il critico ha il merito di avere spiegato ciò che nel testo è criptico, di avere indicato nel primo componimento, nel colloquio tra madre e figlio, un momento « con una slavatura romantico-borghese alla De Amicis » e, soprattutto, di avere definito la purezza di espressione di Mia madre come « un sogno velato di lagrime ». In Commiato gli incantati commenti musicali (« Si chiudevano i casolari. - Cresceva

l'ombra delle cose. - Ancor tra i lontani filari - traspariva color di rose ») hanno una funzione esteriore e la struttura della poesia è in contrasto con le grandi domande. In definitiva nel Chimenz la tesi della discronia psicologica e artistica dell’ingiustizia subita dal poeta e della sua rivalsa morale ci pare sovrapposta e ci pare che troppo vago sia il coordinamento del Ritorno sub specie genericamente

musicale.

L'esame critico più ampio del Ritorno a San Mauro è quello di Gaetano Trombatore che lo lesse nel 1958 al Convegno pascoliano di Bologna e lo pubblicò nel 1960 (*. La situazione poetica del Ritorno comprende i primi sei canti, compreso il Commiato. Se per Viola il simbolismo nel Pascoli era un elemento dell’ambiguità psicologica conseguente all’agnosticismo positivistico,

per

Trombatore

il simbolismo,

poetica dell'oggetto al quale è dato un in «una vaghissima trama di analogie Simbolo

è, per Trombatore,

anche

che

deriva

dalla

sovrasenso, si dispone e di corrispondenze ».

vita memoriale

e il « ritor-

no » è un «rifugio della memoria », « pura parvenza anch'essa e come sospesa su un’invisibile soglia che divide e anche unisce,

che distingue e insieme confonde, la realtà e la fantasia, il di qua e il di là, l'essere e il niente ». I motivi di accordo col critico possono essere : la sua interpretazione di La tessitrice; il

« sentore

(4) G.

1960, pp. vecento,

di melodramma » con

TROMBATORE,

145-172. Firenze,

Su

Riflessi

Trombatore

Olschki

1969, pp.

letterari

del

una

« sua

Risorgimento

cfr. A. PIROMALLI,

Gaetano

interna

in

Sicilia,

Trombatore

misura

Palermo,

in Studi

ele-

Manfredi

sul No-

191-208.

461

giaca »; il ritorno al villaggio inteso come ricerca della presenza della madre e dell’illusione di una vita in comune col superstite nucleo familiare. Per quanto riguarda l’interpretazione delle situazioni il critico risente del Chimenz ma restando su un piano

psicologico ed estetico più generico, più soggettivo, sicché la conclusione che nel « ritorno » intuisce il simbolo « squallido e spettrale di quell’unico essere che è il niente » ci sembra parziale oltre che, nella sua suggestione, alquanto romanzesca. Le dichiarazioni stesse del poeta sono dichiarazioni sulla genesi dei versi. Nella Prefazione ai Canti di Castelvecchio (1903) è detto chiaramente che : i nuovi versi sono nati in campagna per la tomba della giovane madre; che alla madre « umile, e pur così forte » egli deve la sua « abitudine contemplativa » (« Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno lungo di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppo : io appoggiava la testa sulle sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a veder soffiare i lampi di caldo all'orizzonte. io non so più a che cosa pensassi

allora : essa

piangeva.

Pianse

poco

più di un

anno,

e

poi morì »); che egli deve ricordare l’uccisione del padre e la morte della madre perché ne derivi un « più acuto ribrezzo del male ». Due volte il poeta si rivolge al lettore per inquadrare le motivazioni etiche della sua poetica, per ricordare il delitto rimasto impunito e che i fatti contenuti in alcune poesie sono non solo veri ma esatti. Poi nelle poesie del volume c’è un richiamo

continuo,

essenziale, prezioso

alla tragedia del 1867 ma

anche ai sentimenti dell'infanzia sammaurese. Tutta la trama della disgrazia e delle sue conseguenze (la morte del padre in

Un ricordo, Il ritratto, Il nido dei « farlotti » anche con fitti particolari di cronaca e — con alta teatralità — in La cavalla storna, il carcere, la fame di Giovanni in La voce, Maria lontana —

« con

di mezzo il mare! » — accanto al fratello ammalato) è narrata minuziosamente, sono ricordati gli stati d'animo di sofferenza e, soprattutto, la presenza dei morti :

Morti

che amate,

morti

che piangete,

morti che udivo camminar pian piano nella mia, nella sua stanza a parete... (La mia malattia);

462

aa

c'è la cronaca della tragedia in Un ricordo: Andavano e tornavano le rondini intorno alle grondaie della Torre, ai rondinotti nuovi. Era d’agosto. Avanti la rimessa era già pronto il calessino La cavalla storna calava giù...;

ma c'e anche il ricordo musicale

della madre

in La mia sera:

Mi sembrano canti di culla, che fanno ch’io torni com'era... sentivo mia madre... poi nulla... sul far della sera.

La trama delle disgrazie nel suo cronachismo pratico costituisce il piano sensibile dei Canti di Castelvecchio e dell’ideologia morale di Pascoli poeta; è il piano della narrazione fino ai minini particolari i quali sono utili per l’impalcatura morale; ciò che il poeta ha narrato è vero ed esatto, le circostanze apparentemente romanzesche sono reali e quelle reali per la loro drammaticità sembrano romanzesche : il poeta ha ormai un grande pubblico e si viene prefigurando negli episodi più commoventi

(se stesso

in carcere,

malato

a Messina

con la sorella

accanto, il nido di « farlotti »: « Noi si tornava per una sagra — senza più padre, senza più pane ») i problemi della veridicità dei termini della tragedia («i miei cari martiri » scrive nella prefazione ai Canti), della giustizia che non gli è stata resa, della sua opposizione alla morte dei genitori (« Non voglio che sian morti »). In questo primo piano sono, dunque, i termini della tragedia e delle

sue

conseguenze,

e melodrammatica

con

l’inevitabile

scenografia

romanzesca

anche del gusto artistico romagnolo

di quel

tempo (che andrebbe ricercato nel racconto e nel teatro). C'è un

altro piano, quello dei morti

della religione popolare rurale di

S. Mauro (i morti demiurghi che aiutano i vivi, parlano loro come in un soffia, danno consigli, si affliggono con essi) o anche

della tradizione popolare di S. Mauro: lo stesso Pascoli nelle note alla seconda edizione dei Canti informa che « il brivido che qualche volta ci scuote all'improvviso, è interpretato (in Romagna, che io sappia) come il passaggio della morte » e che «in

463

Romagna si raccomanda veramente di sparecchiare dopo cena, perché se si lascia la tovaglia sul tavolo, vengono i morti ». Anche in queste note il Pascoli

insiste, più volte, con

le lettrici, sulla

verità delle tradizioni e leggende. Nei due piani indicati (la cronaca della disgrazia, la presenba dei morti) per i Canti sono prefigurati motivi del Ritorno a San Mauro. Ma anche i dislivelli da componimento a componimento (dal realismo melodrammatico o funerario a quello che a noi pare ineffabile sprofondamento nel cuore dell'infanzia del poeta : la madre, la casa, il paese) sono da vedere nella struttura insistente alla composizione pri-

ma che nelle misure estetiche come fanno il Trombatore e il Chimenz i quali giungono all'analisi estetica prima che all’analisi compositiva e pretermettono, quindi, Giovannino, Il bolide, Tra San Mauro e Savignano. Ci avvicineremo al Ritorno, cioè, da un punto di vista stilistico, osservando che il ciclo è una testata plurilinguistica che riproduce, senza le iperboli del sistema, il sistema dei Canti. Dalla discussione coi critici precedenti ci pare di potere giungere ad alcuni punti fermi generali : il positivismo

di Pascoli come agnosticismo che finisce nella sfiducia nella scienza, nella ragione e che chiede ciò che la scienza non può dare : la vittoria sulla morte;

positivismo

ambivalente

che per-

corre la storia della tragedia familiare in quanto l’esito è l’abbandono di esso in favore di una speranza che ha il corrispettivo artistico nella lievitazione verso l’ineffabile e le vaghezze ideative supreme

di visioni e incontri

puscolare-subliminare falle che sussurrano,

ultraterreni,

in un paesaggio

cre-

in cui le cose sono in quanto limbo (faressenze che esalano, peso funerario che de-

cade in realtà simboliche

funzionali all’incertezza

della speran-

za); il motivo del ricordo come felicità perduta ma intensamente

vissuta e caricata di emozioni sentimentali, di forza visionaria sì da creare nei lettori una complice partecipazione, elemento comune del pascolismo affettivo sentimentale, strumento di base per trasmettere i temi tragici del mondo privato a una cerchia più larga di fedeli e di lettori ma anche mezzo, attraverso la comunicazione per ricomporre la scissione tra la vita privata e la società che aveva offeso il poeta; la tecnica di comunicazione della propria carica emotiva attraverso le scenografiche visioni dei morti, l'intensità visionaria che giunge alla vaghezza ideativa, elemento

464

formale

da individuare

stilisticamente,

linguisticamen-

te, fonosemanticamente nei suoi elementi musical-lessicali « artisticamente quanto mai precisi » (cioè non mistici), come indicava il Contini fin dal 1955 (}). Abbiamo visto convergere, così, nei diversi livelli e nel plurilinguismo alcune operazioni del poeta: rendere oggetti e vi-

sioni vibranti di emotività perché chi legge li veda e ne colga la purezza;

ritrovarsi dalle convenzioni

e ritrovarsi fanciullo.

Il

ritorno a San Mauro vuole essere abbandono alla purezza delle cose dell'infanzia, sentito, però, dopo perdite e ingiustizie subite. Il ritorno è congruente a questo stato d'animo che non è più quello delle prime Myricae bensì quello della necessità sentimentale di trovare il mondo di un tempo felice : da qui le composizioni a modo di visione, con quel tanto di popolar-melodrammatico che è nel dialogo tra vivo e morta che si svolge in un limbo di appagamento-sofferenza rappresentato con perfetta fusione di strumenti musicali sicché non sussistono più né il popolaresco inquadrato nel prezioso di certi versi umanistici né il peso del familiar-provinciale né la luce idillica del bozzetto sentimentale. Il ritorno a San Mauro è anche una rimmersione nelle inesauribili tradizioni popolari, il primum originario dell'infanzia, un assoluto psicologico e ontologico che entra a far parte della purezza del fanciullino. Avvicinandosi a quelle tradizioni il poeta si avvicinava alla verità come quando componeva le poesie sui fatti veramente accaduti : « certe cose non s’inventano (...). In quelle e altre tutto è vero. Quindi quelle poesie non le ho fatte io : io ho fatto (e non sempre bene) i versi ». Le tradizioni di San Mauro fanno parte della realtà del fanciullino e il poeta le accoglie (oltre che come coincidenze con la propria biografia) come zona psicologica del sentimento che è immune dai mali della società e rende liberi dal mondo degli affanni, delle invi-

die. Nella raccolta di Luciano De Nardis (Livio Carloni) presentata prima col titolo «i brisul d'la piè », poi con l’altro «a la garboja » (9) troviamo alcune tradizioni connesse intimamente con i motivi pascoliani del Ritorno : 1) La voce dei morti che chiama

DD.

per « premunirci

contro

l’insidia

della mala

(5) G. CONTINI, 11 linguaggio di Pascoli in AA.VV., Studi pascoliani, 27152: (6) In P. TOSCHI, Romagna tradizionale, Bologna, Cappelli 1952.

sorte

Faenza,

Lega

(...). 1958,

465

L'amoroso cuore si tormenta, come ancora nella vita, di ogni danno che possa travagliarci : e l’aiuto che allora ci dona, trema

nella voce invocante, a null’altro percettibile che al silenzio della nostra anima spaurita » (si veda La voce); 2) Quando la campana suona l’ora di notte i morti « guardano nel mondo. Ognu-

no di noi può cercar ridischiusi allora gli occhi dei suoi morti nel mondo

dell’anima sua (...). Ognuno rivive quando la campa-

na di quella che fu la sua chiesa parrocchiale si scioglie; la stessa per cui, lui in vita, cercava gli occhi dei morti suoi pregando

il requiem nella tenerezza spasimata della divina comunione » (si veda La messa); 3) Quando un brivido trascorre il corpo si dice u m'è passé la mòrta ad sovra e si aggiunge s’la m'passa a d'sotta la m'pürta vi « perché allora la Morte ci insidia il cammino e nella terra cieca scava, per la nostra spoglia, la fossa accogliente »; 4) Per ogni creatura che muore una stella nuova si accende; si crede che «i morti vedano i vivi ogni sera, dal fuoco illuminante delle stelle; che la stella che cade, sia un

morto che ritorna a soccorrere di grazia una persona che l’invoca in affanno » (si vedano X Agosto e Commiato); 5) La briciole di pane sparse sulla tovaglia e non raccolte si dovrà tornare dopo morti a cercarle a una a una « camminando a ginocchi sulla terra, per raccoglierle col mignolo acceso come una candeletta e per riporle dentro un cestello privo di fondo ». Il mondo dei morti è prediletto perché consente di restare tra il reale e l’irreale, di esprimere gli affetti ma velandoli di ineffabile. La visione, il quadro dei morti che appaiono o si fanno avvertire (con segni di presenza che derivano dalla tradizione popolare) corrisponde ai bisogni del cuore, all’indistinto affettivo che è il dato di partenza ma il mondo dei morti è, anche nelle

tradizioni popolari, il mondo del larvale, dell'apparenza che sembra consistere ma rimane ombra, simile alle apparenze albari, crepuscolari, notturne. C'è, nella predilezione per il mondo dei morti,

un

profondo

motivo,

quindi,

più oltre, a radici psicologiche del vivere, la pena

ma

occorre,

che facciano

di essere morti

forse, andare

intendere

la pena

(una ingiustizia cosmica,

un

inconoscibile positivistico), la consolazione di ricercare il sovra-

sensibile come mondo misterioso ma demiurgico, nel quale i morti si prendono cura dei vivi tenendoli nel loro cuore, apparendo talvolta ai vivi ma da essi eternamente

466

separati.

Alla luce delle tradizioni popolari locali —

che costitui-

scono un primum sensoriale del fanciullino — il cielo del Ritorno a San Mauro costituisce antropologicamente un’esorcizzazione della precarietà esistenziale del poeta e del suo nucleo familiare, un elemento del ciclo dell’uomo che ritorna alle origini della casa, della culla della protezione affettiva ma con un significato che vorrebbe essere universale, un archetipo psicologico e poetico. Già presente in Colloquio di Myricae e in altri compo-

nimenti

la madre

morta

(« lieve come

sospiro », dal « sorriso

blando ») appartiene allo schema simbolico, dotato di un suo realismo, della cultura popolare. La preghiera che chiede protezione, elemento del simbolismo supplice e orante, è connessa anche qui con l'apparizione dei morti (in La messa, nella promessa del figlio in Commiato : « Ricorderò quella preghiera —

con quei gesti e segni soavi (...) — s’abbraccerà tutto all’altare »). Alla preghiera concorre ritualmente l’affetto dei familiari, motivo che spiega l'insistenza del poeta sulla sua cura verso le sorelle. La visione sembra avere una sua teatralità che è connaturata, però, con la struttura psicologica e gnoseologica del mondo dei morti secondo la tradizione popolare dei morti nella quale parole, gesti, atteggiamenti, avvicinamenti, distanze, lacrime hanno un preciso significato ricorrente e rituale. Nessun tono è forzato, la visione si svolge come nei racconti di generazioni e generazioni

di contadini, nel racconto

della visione sono

il rispetto, il pudore del rapporto con l’ultraterreno ma anche più profonde relazioni espresse nella particolarità delle emozioni. Il poeta, nella forza che la visione esprime, salta i « gradini del pensiero » e il fanciullino scopre la doppia pena della madre, di non potere accogliere il figlio con sé e di non potere restare tra i vivi. Il ritorno è preparato dal paesaggio della campagna di S. Mauro vagheggiato da lontano e disciolto in Le rane in cui le ripetizioni musicali

dei versi, le riprese creano

l’unità attra-

verso un sistema di colori (il rosso trifoglio, il penero verde dei

pioppi, il giallo fiengreco, i gomitoli d'oro, il piano che albeggia, la via bianca, il cielo di rosa) e suoni (il tremulo d’ali, i gemiti delle canapine, lo squillo del fringuello, il gracchiare delle rane,

lo strepere nero del treno, il suono del sufolo, il ronzio di campane) che sono da cogliere semanticamente come sostituzione del contenuto

e al di là di ogni esplicitazione

logico-sintattica.

467

Le graduate orchestrazioni di colori e suoni su cui si levano le iterazioni foniche che entrano nelle parole sfaldano qualsiasi itinerario o dislocazione logica o geografica, San Mauro è quella connotazione ritmica assunta dalla campagna, lo stato interiore è in quel ritmo di percezioni, in quei significanti ritmici che costituiscono la prima visione del poeta. La valutazione estetica non può nascere prima dell'esame materico delle parole, delle loro orchestrazioni, dei valori consonantici, dei vocaboli di evi-

denza espressiva, compiuto

oggi dal Beccaria

(?). In La messa

(« C’è un rito con fiori, con ceri, - con fiocchi d’incenso leggieri ») le riprese di c'è, udrai, vedrai trascinano i contenuti e li dissol-

vono nell’aereiformità della visione in cui le cose ferme hanno un suono fermo perché circoncluse nella scansione più vaga del prevalente significante ritmico e in cui la parola ferma è, più che vocabolo,

scenario : la panca,

la mamma,

inevitabili, ma

la

mamma è soprattutto essenza di lagrime, piangere che si sciolgono in rintocchi leggeri e in bimbi non visti più. E’ questa l’introduzione,

rallentata

da soste

e incisi, al paese

dei morti,

al

nido perduto che ha nella poesia pascoliana un’ossessività limitatrice in quanto regressione (*) verso lo stato prenatale il cui ciclo di evoluzione è stato interrotto dalla tragedia della morte del padre e della madre. Ma qui l'introduzione è alla Tessitrice dove la vicenda si disintegra nelle metafore del sorriso tutto pietà, del cenno muto, del sospiro (emblemi trasfigurati degli affetti della tradizione popolare), in una esalazione di apparenza che sembra un'eco e si manifesta in escursioni vocaliche che non hanno nulla del linguaggio-comunicazione ma, con l'inclusione monosillabica nell'ultima quartina, rallentano la musicalità meccanica e rendono evidente la condizione di ignoto e di non relazione in cui vivono i morti.

Un esame ritmico del significante consente di cogliere in Casa mia, nella regressione alla pena dell’aldilà, la forma interiore della visione, le soste sui suoi elementi e, soprattutto,

l’ar-

chitettura aerea in cui le cose sfumano in un’atmosfera storica, precedente il tempo. Per l’evidenza dell'ideologia della

(7) G.L.

BECCARIA,

(8) G. BARBERI D'Anna 1966, p. 23.

468

L'autonomia

SQUAROTTI,

del significante,

Simboli

e stutture

Torino,

della

Einaudi

poesia

1975.

di G.

Pascoli,

Messina,

morte

come

realtà in cui l’esistere ha toni più lenti, risucchiati

perché più veri che nella vita mortale e per la fedelissima interpretazione ritmica questo componimento è tra i più celebrati

dalla critica che vi vede la sublimazione della sovrarealtà priva di contrasti e di impulsi e sfioccata in richiami alleggerenti. Infatti qui domina il ritmo quasi parlato, con locuzioni divise, spezzate, i richiami, le allitterazioni, le assonanze, le affinità fo-

niche che creano

le risonanze

di vaghezze ignote indicate dai

linguisti : S’udivano sussurri cupi di macroglosse sulle peonie rosse e sui giaggioli azzurri.

L'effetto d'insieme delle strofe ripetute, conseguenti ai momenti

di pathos,

fanno

trasvolare

i contenuti

e rafforzano

la

realtà della condizione dei morti che sopravvivono e partecipano di un’esistenza che ha continuazione ma conservano il rimpianto del ciclo vitale spezzato con la violenza che da esso li ha esclusi.

Così in Mia madre l’ombra materna è sospiro e immagine bella e bionda che si rammarica della preghiera uscita di mente al figlio ritornato fanciullo il quale riascolta la propria voce e rivede la Madonna dell'Acqua. Il ritorno dell'immagine materna avviene anche in Commiato in un crepuscolo stanco il cui ritmo è simbolico della morte come liberazione e ritorno a un mondo primordiale di vita, superiore alla violenza, ai distacchi, ritorno

a uno

stato prenatale, riflesso di credenze

della cultura conta-

dina ma anche richiamo verso un limbo eterno, di ombra, privo

di sangue. Le iterazioni ritmiche dislocano in altro campo i contenuti e il problema di giustizia ontologica proposto dal figlio è eluso nella metafora

sonora,

nella musica gran

della parola:

Sfioriva il crepuscolo stanco. Cadeva dal cielo rugiada. Non c’era avanti me, che il bianco della silenziosa strada.

Questa riduzione dei contenuti ai ritmi irradianti non ha nulla di magico né di mimetico, è — nel caso di questo Pascoli — una tensione verso il suggestivo fondato su una particolarissima, individua tecnica di parole tematiche e suoni che mira a

469

modificare la sostanza

e l’espressione

per rendere

l'inconscio.

Questa è grande novità nel Pascoli. Se, infatti, leggiamo Giovannino vediamo che il linguaggio è comunicazione sentimentale, meccanismo per cui il dolore dell’adulto è trasferito nel fanciullo

sventurato

che

diventa,

con

la sua

pena,

mezzo

di

compassione, di liberazione dall’'angoscia. In Tra San Mauro e Savignano il poeta — rivolto in questi canti al recupero del nido-casa, del pese-nido, della madre-infanzia — indica, contro la rottura del ciclo vitale (« Non voglio che sian morti »), un

recupero in virtù diventato « ch'egli

di gloria epifanica per tutto il gruppo familiare unito di un forte, lui, il poeta, già « orfano digiuno » e ora immortale che ritorna nel nido per opera del popolo amò tanto ».

In sostanza la linea lungo la quale si compie il ritorno a San Mauro è quella del nido (che altre volte è la Romagna o l’Italia povera e lavorante), centro degli affetti familiari chiusi, gelosi, ossessivi, è quella dei morti, nido e morti tra i quali si compie l'ideologia della condizione solitaria dell'uomo. In questa congiunzione il poeta partecipa alla continuazione dell’esistenza con una delle sue caratteristiche anfibologie che include sia la fisica sopravvivenza sia la negazione definitiva delle figure « della vita che prosegue e si ripete » ma anche delle « manifestazioni estreme cimento » (°).

di angoscia,

di orrore,

di impotenza,

di disfa-

Nel Ritorno il discorso poetico si svolge su diversi piani interni tra i quali si possono notare : il superamento del linguaggio contemporaneo con la tensione e l’espansione verso il suggestivo, contribuendo a fissare gli elementi della lirica nuova del Novecento attraverso la metrica e la sintassi poetica; la precisazione degli oggetti su uno sfondo indeterminato; la perdita di conoscibilità del reale, dei rapporti dell’uomo con le cose e i sentimenti e conseguente « turbamento dell'ordine metrico e sintattico » ('°); corrosione della musicalità definita dei versi, della strofe, della rima in strutture verbali funzionali sia all’elusione

della realtà che della tendenza al prosaico e al quotidiano.

(9) G. BARBERI SQUAROTTI, op. cit., p. 167. (10) G.L. BECCARIA, op. cit., p. 284.

470

EDOARDO

SANGUINETI

LA TRAGEDIA FAMILIARE NELLA POESIA DI GIOVANNI PASCOLI (1)

Ricordate le perplessità di Serra, se non la sua indignazione, di fronte a certi aspetti della poetica pascoliana. Costruiva le sue riserve più severe sopra questo tema: « sente solo le cose poetiche ». Il mondo

del Pascoli,

egli affermava,

« si trova,

se

così si può dire, al di fuori della letteratura, e consiste tutto di cose, o esterne o interne »; si colloca, e sono

sempre

parole del

grande critico, « fuori dei versi presi a uno a uno »: « è di cose insisteva - è nel cuore stesso delle cose ». Ricordate, insieme, le parole del Pascoli, nella nota alla prima edizione (1903) dei Canti

di Castelvecchio: « quelle poesie non le ho fatte io: io ho fatto (e non sempre bene) i versi ». E Serra, allora, pronto a esclamare,

con qualche scandalo: « Proprio come se una cosa fosse la poesia, e un’altra i versi; di cui egli poi meno

si cura! »

Le parole del Pascoli sono scritte « per alcune poesie », in particolare, in cui - egli proclamava - « tutto è vero ». E siamo già in tema, se il poeta, per fare qualche titolo, menzionava, come sapete, Un ricordo, Il ritratto, La cavalla storna. E si veda subito come Serra, a rigore di discorso, abbia manifestamente frainteso il suo poeta. Perché il Pascoli non intendeva davvero distinguere, e tanto meno opporre, in simili componimenti, la poesia e i versi, ma stabilire appena due distinti versanti: il « tutto è vero » degli accadimenti narrati, e l’arbitrio inevitabile, per dirla adesso con Dante, che procede dal « mettere in versi ». Lo conferma, se occorre, una nota ulteriore per la medesima rac-

(1) Discorso tenuto a San Mauro nel settembre del 1967, a cent'anni dall’assassinio del padre del Poeta - Fra il pubblico erano presenti Pietro Nenni, in rappresentanza del Governo, e Marino Moretti.

471

colta dei Canti, e scritta per la seconda edizione (ma siamo al 1903, ancora), dove, in tutt'altro proposito, egli dichiarava: « Non

credano le mie soavi lettrici che io inventi! Non son da tanto. E poi, non mi pare che si debba e che... si possa ». Ma dove Serra può essere smentito senza difficoltà a livello scrupolosamente letterale, ecco che egli non cessa di guadagnare la propria partita nel complesso giuoco interpretativo, e pertanto a un livello assai più profondo e sottile. E non sarà certamente il solo caso,

questo,

in cui un

errore,

un

equivoco

mortificabile

dalla più elementare cura filologica, anzi da un semplice impegno di disinteressata attenzione, nella lettura, si fa poi esegeticamente fecondo, e ci rivela qualcosa di autentico, di essenziale.

Perché per il Pascoli, che fu poeta comunque di cose, quel « tutto è vero », proclamato proprio, privilegiatamente, in relazione al motivo della sua tragedia familiare, e poi subito esteso, quale canone di poetica, a ogni condizione del suo fare letterario, sino alla negazione, secondo che abbiamo veduto, della possibilità

stessa di inventare, nelle regioni della poesia - quel « tutto è vero » sta a garantire, da ultimo, la sostanza stessa della poesia, che non è tanto da collocarsi nei versi, i quali si confessano, con

discrezione, fatti non sempre bene, ma nella evidenza patetica, nella intensità dolorosa degli eventi concreti che vi sono narrati: insomma,

precisamente,

nelle cose medesime.

Lo spazio letterario che la tragedia familiare - o, come fu detto anche, alquanto crudamente, il « romanzo dell’orfano » occupa nei testi pascoliani, sino a regolare, in patetica regia,

tutta la sistemazione definitiva delle Myricae e dei Canti di Castelvecchio, già sulla soglia delle due celebri prefazioni (1894, e 1903), non si spiega, e proprio dal punto di vista della letteratura, senza questa sconfinata fiducia dell'autore - una fiducia che è poi, più veramente, una sorta di ardimentosissima scommessa - nella poeticità intrinseca, e tutta degna di rivelazione e di canto (di versificazione, direbbe modestamente il Pascoli), nella quan-

tità e nella densità di poesia di cui quelle cose, quei lutti e quel dolore e quel pianto, sono naturalmente capaci. E siamo subito alla formulazione del primo teorema del nostro discorso: le poesie

che il Pascoli

consacra

al suo

dramma

domestico,

i

canti nati per rimanere sopra le tombe del padre e della madre, secondo le note parole, giocate in avveduto parallelismo, nelle ricordate due prefazioni, mirano proprio a persuaderci, in primo

472

luogo, che il « tutto è vero » significa, nel caso, che tutto è poesia, o ancora, per esprimerci sempre in modi pascolianamente autorizzati, che siamo di fronte a fatti, di fronte a cose, che l'occhio del fanciullino, e quello soltanto, è immediatamente de-

putato a scoprire, a penetrare, infatti, secondo che possiamo celebre prosa programmatica, esseri amati esce a dire quel gliere in lacrime, e ci salva ». per il Pascoli, questo nostro noi lettori, e prima ancora di

a rivelare per noi. E il fanciullino, leggere nel paragrafo III di quella « è quello che nella morte degli particolare puerile che ci fa scioPerché infine, piaccia o dispiaccia, comune scioglierci in lacrime, di lui poeta, fa corpo, in siffatta do-

lente materia, con il meccanismo stesso della sua arte, e con la sua missione redentrice e consolatrice. Ma, affinché la verità

funebre e pietosa del poeta che narra di sé e delle sue disgrazie possa diventare davvero pianto partecipabile e corale, affinché la tragedia della famiglia Pascoli possa risolversi in una verità di dolore universale, e dal registro dei faits divers, dal caso del padre assassinato, che poteva anche rimanere un semplice dettaglio biografico, in una vita di artista che del resto non fu ricca di eventi avventurosi, e che un semplice dettaglio biografico rimase in effetti alquanto tempo, anche per il poeta, come non si cessa di rimproverargli periodicamente, da parte di molta critica — affinché dunque, da tale accadimento, si trapassi convincentemente

a una

visione

della

nostra

terra

come

« atomo

opaco del Male », e le stelle che cadono nella notte di San Lorenzo siano convocate, come cosmico tributo, intorno alla sepoltura paterna, occorre che risulti stabilita, in qualche modo, tra il poeta che parla e il lettore che presta orecchio alla sua voce, una

inaudita dose di complicità. O cerchiamo di dire meglio : occorre, per un risultato di quest'ordine, una violenza quasi magica di gesti letterari propiziatori, un

cerimoniale

di musiche

e di rime, una

fascinazione

metrica e verbale, quali deve esigere, per forza di situazione, una scommessa tanto perigliosa, e quale in effetti la storia della nostra poesia non conosceva più da parecchio tempo. Singolare contrapasso, vedete, è questo : che per un poeta delle cose si imponga una simile, fatale coazione a coltivarle e ammini. strarle, onde renderle persuasive, o anche appena (e qui le parole delle note suonano come una confessione indiretta) — appena credibili, con il massimo

di avvedutezza,

di astuzia, e insomma,

473

come fu detto tante volte, e tante volte ancora si dice, di artificio. Tale coltivazione, tale amministrazione si rende indispensabile, affinché quelle medesime cose, così immediatamente patetiche,

o almeno

così immediatamente

cariche

di una

assoluta

pretesa di patetico, che è pretesa, come sappiamo, tout court, di poesia, giungano al loro specifico, e per il Pascoli sempre specificamente poetico, effetto di lacrime, risultato di pianto. Quel vero è poesia, quelle cose sono lacrimae rerum (« cose che fanno piangere », traduce il Pascoli in Epos), in forza del « particolare puerile » che l’autore riuscirà a isolare e a portare innanzi : e perché l'identità che sta a principio, quella della cosapoesia,

si verifichi

concretamente

nei testi, occorre

sollecitare,

da parte dello scrittore, quasi senza ritegno, onde provocare la più indifesa partecipazione presso l'utente dei suoi versi, una connivenza in certo senso sconfinata. Occorre che il lettore, nel-

l'atto in cui si volge alle parole del poeta, si disponga a una resa totale, con una confidenza tutta irriflessa, con una docilità tutta disarmata.

Ma a spiegare la potente efficacia dei risultati conseguiti dal Pascoli, la pienezza di complicità conseguita nell'animo di tanti lettori, non

basta

considerare

l’eccellenza

degli strumenti

di seduzione che egli seppe mettere in campo. E torna valido il consiglio di Serra : che questa poesia non deve essere ricercata nei « versi presi a uno a uno ». Non dico, come

sembra insinuare

il critico, che in tale maniera rimarremmo delusi: dico però che il segreto di questa poesia ci sfuggirebbe ancora. E allora si impone,

se non

in esclusiva, almeno

addizionalmente,

un ab-

bozzo di chiarimento sociologico : occorre un minimo di appello alle ragioni della storia. Ed è cosa singolare, e degna di qualche stupore e di qualche riflessione, che, con tanto ricorrere che si è fatto e si fa agli strumenti stilistici e psicologici, con tanto indagare intorno alle parole, e quasi dietro le parole, intorno ai sentimenti, e quasi dietro i sentimenti, si sia poi trascurata, al paragone, la via più lucidamente documentabile, e dunque la meno contestabile : l'inchiesta intorno al concreto spazio umano e sociale in cui la voce poetica del Pascoli si trovò a risuonare, incontrandovi, come era fatale, durezza di resistenze e entusiasmo di consensi. Qui saremo per necessità compendiosi, e vi

chiediamo di aprirci qualche credito di fiducia : siamo costretti

474

a tentare di scoprire, nel poco tempo a disposizione, una nostra scorciatoia critica, e a percorrerla a rapidi passi. Voglio citarvi, per incominciare, alcune parole di un critico, tacendone tuttavia, per il momento, il nome. Voglio leggervi

queste poche proposizioni : « Come altre volte nella storia delle fortune

letterarie,

le necessità

di Pascoli

artista coincisero

con

quelle pubbliche, fu anch'egli, in un certo senso, il pubblico di sé stesso. Stante la verità di codeste assonanze fra invenzione ed ascoltazione, il linguaggio lirico pascoliano ci appare, nell’era naturalistica,

risultato arditissimo,

nuovo,

espressivamente

com-

piuto ». Ebbene, noi aggiungeremo ora, uscendo di citazione, che se ogni poesia nasce sopra la scommessa di un assenso, sopra un'ipotesi di partecipazione, questa pascoliana, che germogliò in un'era di rischio affatto paradossale, doveva avere dalla sua, ed è cosa che si può dimostrare, un cospicuo numero di simili « assonanze » prestabilite : essere l’offerta di una merce d’arte, per usare un'immagine molto solida, la cui domanda inconscia era, sopra ogni altra, impalpabilmente diffusa. Si pensi che occorreva, al lettore da sedurre, estorcere preliminarmente la confessione che un dramma tutto privato, chiuso nei suoi minuziosi particolari e accidenti, dolenti e pietosi, era motivo fertile, e addirittura privilegiato, di poesia, era tema capace di ottenere la più larga adesione di lacrime : era, per ripetere le parole già trascritte, una vera necessità pubblica. Ma ora vi posso anche confidare che il passo critico che vi ho letto, dove si discorre così bene di « assonanze » e di « neces-

sità », dove si introduce con tanta penetrazione l’idea di un bisogno collettivo, di un'attesa generale — che fu bisogno e attesa, nel caso, di un largo bagno di lacrime liriche, da versarsi in co-

mune, ma come proiezione di un dolore tutto privato, di una angoscia tutta domestica, così che la lampada della poesia pascoliana potesse illuminare dolcemente le case di tutti, con una azione condotta, quasi indiscriminatamente, presso i bambini delle scuole elementari durante l’ora di recitazione, non meno

che presso una società di adulti, tutta intesa a cementare i suoi miti familiari con una ossessiva evocazione dei morti, a placare i propri defunti con un perpetuo onore di inconsolabile pianto, — il passo che vi ho appena letto non è opera di un critico letterario, ma di un critico musicale, come è il Gavazzeni, e non concerne veramente Pascoli, poiché noi abbiamo operato una

475

sistematica come

avrete

e coerente

sostituzione

già indovinato,

di nomi

a questo

e di vocaboli,

punto,

per conto

ma,

vostro,

riguarda Giacomo Puccini. Ma considerate come la trasposizione che noi abbiamo sperimentato riesca agevole, e quanto sia legittima : meditatela sul versante

del pubblico,

per intanto,

guardando

alla simmetrica

diffidenza di fronte a tanta facilità e abbondanza di patetico, che parve impura e sospetta, e alla simmetrica adesione, insaziata e infrenabile, di fronte a tanta onda di sentimento, che parve così vera, e così veramente commossa. Fu una frattura, quella

che si aprì subito, dinanzi a Pascoli e a Puccini, presso i consumatori della loro arte, che ancora oggi, a dispetto di tanta distanza,

e di tante

mediazioni

ingegnosamente

tentate,

a dispet-

to di tanta buona volontà impiegata da entrambe le parti, cora non si è completamente saldata. E poi il passo citato ci insegna, meglio che ogni altro, che adesso proprio ci abbisogna : che il tipo di arte, tutta vesciata nel pathos, che investe il mondo piccolo-borghese

anciò rodel-

l’Italia, tra estremo Ottocento e primo Novecento, è un tipo d’arte, in ciò che ha di essenziale, e di storicamente e sociolo-

gicamente profondo, che porta di colpo, sopra la scena pubblica, le disperate sventure occulte dell’intérieur, il dramma privato degli affetti più discreti e più gelosi, disponendo tutta una società,

o almeno

così larghi strati di questa, ad accogliere come

poetiche, perché appunto incontestabilmente

così vere, così incontestabili,

atte a esigere lacrime, quelle medesime

e così cose,

quelle « cose che fanno piangere », che il ritegno di altre generazioni (e in sostanza di altri strati sociali, di altre classi, cui prima toccava una più diretta, autorevole, incontrastata egemonia), con tragico decoro, soffocava nella chiusa camera del

cuore, come nelle segrete stanze dei propri appartamenti, con attento pudore, con rigida cautela, reprimendo comunque, per virile sobrietà, quella che sino a un dato istante fu pure giudicata una troppo sentimentale scompostezza, quello che era apparso come un troppo confidente abbandono. Basta, al riguardo, un giro brevissimo

di anni —

che sono,

grosso modo, gli anni ‘90 del secolo scorso —, e la situazione è già rovesciata : ci troviamo trascinati di fronte a una società (ma si tratterà sempre, più esattamente, come abbiamo avvertito, della classe piccolo-borghese, che ora prende le redini del

476

comune sentire, e aspira, non senza successo, a parlare in nome di tutti) —

una

sue sventure

società che dei suoi affetti più dolorosi,

più disperate, farà quasi impudicamente

delle

(o così

sembrerà, naturalmente, a chiunque abbia nostalgia di tempi più asciutti e severi), gettata via d’un tratto ogni lunga inibizio-

ne, la più provocante e sottolineata esibizione, il suo patetico e clamoroso vanto. La forza di un simile rovesciamento sarà tanto impetuosa,

che la stessa parola romanticismo,

che ancora

la vigilia indicava un'energia indomita e fatale di passione, un condensarsi di maschili e robuste energie nella coscienza dell'uomo, passerà di colpo a designare, voltata pagina, quanto di più languidamente ripiegato, di più flebilmente sconsolato si ritrovi nel registro delle nostre emozioni: con un effetto, sopra il nostro

lessico, che non

fu soltanto

irreversibile,

che vi

tanto

persiste ancora oggi, ma addirittura retrospettivo : perché condusse a rileggere, in nuova chiave, di poesia patetica, di patetiche lacrime, anche i modi d’arte, tanto diversi, di tutta la cultura del nostro Ottocento (per non dire, adesso, di contraccolpi re-

trospettivi tanto più allargati, sino al Virgilio pascoliano, appunto): e basterà rammentare, per fare un esempio celebre, tutto l'imbarazzo del Croce dinanzi alla parola romantico, e tutta quella sua fatica di un falso distinguere. Ci soccorre, a questo punto, una buona battuta di Debenedetti, che del Pascoli fu, pur in scarse pagine, uno dei più sottili interpreti.

Non

prestate

mente,

adesso,

alla tonalità

ostile

della

sua pronuncia, ma guardate soltanto alla verità obiettiva della sentenza, quando egli dice, a proposito del nostro poeta, che « soffrire,

mostrarsi

in flagrante

dolorismo,

era

per

lui la ma

niera più semplice di darsi riconoscibili connotati d’uomo ». Spostate un poco l'intonazione, e facilmente ammetterete che la specie d'uomo piccolo-borghese, quella che ha dettato, in essenza, la cultura dei nostri padri, e anzi la nostra cultura stessa,

sino a ieri, all’altrieri, si riconosce e si definisce proprio in questo: nella capacità di un dolore eloquente, quando non addirittura in una

masochistica

voluttà del soffrire, intorno

a cui si

organizza, tra libri di lettura e buoni sentimenti, un'intiera pedagogia, anzi un intiero controllo sociale. E' la nuova nobiltà spirituale, codesta, di cui il Pascoli venne, in qualche modo, a disegnare il blasone letterario, a dettare l'impresa, con un lavoro

477

affatto complementare a quello svolto da Puccini nell’area della nostra musica : la nobiltà delle lacrime. E per dire ora tutto in fretta, il momento

in cui, sopra il

palcoscenico della nostra opera in musica, a morirci, non c'è più la traviata

Violetta

verdiana,

ma

ormai

la pucciniana

civetta

Mimì — e siamo esattamente al ’96, e il conto delle date torna con ogni perfezione — e l'identità del morbo delle due grandi eroine, che sarà cosa fortuita, rafforza di certo la comparazione, e ce la rende più stretta, — il momento in cui non scatta più, alla ribalta dei nostri teatri, una critica tragedia di passione,

tale da sconvolgere come una vera tempesta tutti i canoni l'etica erotica e familiare della grande borghesia, nel cuore nostro Ottocento, e proprio scoprendo la reale dialettica di do, in quella grande borghesia, dell’ambiziosa dignità delle

deldel fonsue precarie forme civili, — ma scatta, come all'opposto, con patente abbandono di gesti sentimentali gratuiti, l’'aneddoto pietoso e acritico, in un'aura di spietata quotidianità, del flirt in soffitta a lume spento, ma con la luna vicina — onde amore e morte non

trovano

più catarsi,

e nemmeno

la cercano,

ma

producono

caldi effetti di irredimibile pianto, perché non sono più tragedia, appunto, ma proprio già melodramma, nell'accezione per noi corrente, al di là dello specifico tecnico (le prime accezioni negative dell’attributo melodrammatico sono precisamente carducciane), —

è il momento

medesimo

in cui, a distanza

tanto

più

ravvicinata, ma quindi anche con più folgorante effetto di contrasti, a Funere mersit acerbo, X Agosto e La cavalla storna.

a Pianto

antico,

subentrano

il

Aiutandoci un po’ con le formule dei manuali, diremo insomma, molto schematicamente, che la poesia accompagna con grande fedeltà, e con grande concordia di disposizioni interne ed esterne, il trapasso dal realismo della grande opera romantica, in senso proprio, al verismo, tanto più improbabile quanto più naturalisticamente paziente e scrupoloso, con quel suo passo melodico e ritmico, che, « arditissimo, nuovo, espressivamen-

te compiuto » quanto

si voglia, testimone

il Gavazzeni

ancora,

dovrà pure esaurirsi, qualche decennio più tardi, per fatale coe-

renza, nelle musiche da film più tipiche e più vulgate : quelle, infine, per cui la poesia non è tanto nelle note, quanto nelle cose, e hanno l'ufficio di esprimere e sottolineare l'atmosfera patetica che le cose, precisamente, emanano naturalmente da sé: di

478

esprimere e sottolineare quell’essenza delle cose, che è ormai, come per sottile equivoco, il loro delicato, trascinante, impal-

pabile profumo. Pianto

contrasto.

antico,

dunque,

e X Agosto,

stanno

in dittico

e in

E poiché ogni proposta critica finisce sempre, in un

modo o in un altro, in allegoria, non trascurate l’indizio macroscopico che qui si rivela, e sul quale torneremo più tardi, in-

dizio non meno fertile per il sociologo che per lo psicoanalista, quando

quale figlio, di un della ziaria.

vedano

che l’accidente

biografico

stimola

a sussumere,

argomento di poesia, non più la morte immatura di un che è ancora tragedia di destino, ma l'assassinio impunito padre, che è già materia, e dolorosissima, e disperata, cronaca nera, con supplemento di insoddisfazione giudi-

Vediamo più da vicino, allora, e osserviamo, prolungando con qualche algebrica durezza la proporzione storiografica che abbiamo appena abbozzato, che la ‘funzione’ (nel senso oggi caro agli strutturalisti) — la ‘funzione’ che il melograno assolve in Pianto

antico, è pur sempre,

su scala diversa, quella me-

desima ‘’funzione’ che è invocata a svolgere, in X Agosto, la rondine del Pascoli. Si potrà dire, pertanto (prestando sempre attenzione alla struttura, ché qui non capite bene, una

questione,

è certamente

così impertinente

lori d’arte giocati a raffronto),

come

in causa, lo vana,

di va-

si potrà dire che la ‘funzione ‘

natura, introdotta in rapporto alla morte umana in entrambe le liriche, la carducciana e la pascoliana, significa ancora, nel caso del melograno, in modi che non per nulla si pretendono

classici —

così come il « pianto », in corrispondenza, si preten-

de « antico » —

un tramontare e un risorgere, un occidere e un

redire, e precisamente, alla vicenda dell’uomo,

alla lettera, un ‘rifiorire”, che è negato alla sua notte eterna, nox una perpetua

dormienda. La via del Carducci è una via di negazione : la terra « fredda » e « negra », in cui è sepolto il bambino, significa privazione della « luce » e del « calore » vitali (« né il sol più ti ral-

legra, / né ti risveglia amor »). Ma la via del Pascoli è direttamente contraria : poeta dell'analogia, e non in un senso meramente tecnico e formale, ma schiettamente ideologico, l’autore di X Agosto mette subito in causa un sistema di simpatie, di partecipazioni, per cui la rondine uccisa e l'uomo ucciso non stanno già in opposizione, ma

479

in parallelo, secondo una legge di studiate corrispondenze, capaci di investire,

con

pazienza

quasi pedantesca

di simmetrie,

come sapete perfettamente, anche il più minuto e delicato dettaglio. La natura diviene così lo specchio in cui si riflette e si verifica, ordine geometrico,

come

in una

solenne

nanza, la tragedia dell’uomo, con un montaggio manifesta

tendenziosità

patetica, invocate

cassa

di riso-

di immagini di

a spegnere

ogni pos-

sibile dialettica tra il destino umano e la scena del mondo : al trionfo del Male, con la iniziale maiuscola, non potrà opporsi, magicamente e misticamente, se non quel « pianto di stelle » versato da un Cielo, che ha del pari l’iniziale maiuscola, e introdotto a inondare, in apertura come in conclusione, quella notte morale in cui viene a immergersi il pianeta terra. L’enfatizzazione cosmica non ha niente di arbitrario o di accidentale : è l’ultimo anello di quel meccanismo analogico di cui abbiamo detto. La poesia del Pascoli è caratteristicamente proiettiva : quell’« anche » che fa da cerniera al X Agosto (« Anche un uomo tornava al suo nido... ») è la parola-simbolo, se vogliamo, di tutta questa zona della poetica pascoliana, autobiografica e dolorosa, che sta tra le Myricae e i Canti. E qui si torna, di necessità,

ancora

una

volta, a principio :

a quel Pascoli secondo Serra, al Pascoli che è poeta di cose: e si torna a quel contrapasso che egli fu destinato a patire, secondo che prima anche si accennava. Perché la poesia dell’analogia, la poetica

dell’« anche », non

può

mai

essere

veramente

una poesia delle cose, se non a prezzo di agire sopra le parole come

se quelle, immediatamente,

fossero le cose

stesse. La poe-

sia dell’« anche » è la poesia, non a caso, che nega la parola « pare », che rifiuta la distanza tra il mondo e la sua rappresentazione verbale, onde potersi davvero risolvere nella meraviglia sbigottita del fanciullino

dolente : è la poesia della comparazio-

ne colta come identità, delle corrispondenze giocate direttamente come equazioni, delle metafore elementari del linguaggio, sviluppate con arte, per essere trattate come cosa salda: è una poesia che in sostanza rimprovera a Dante, come ricorderete — e sono proprio parole famose del Pascoli — che la campana che suona all’inizio del canto VII del Purgatorio, la « squilla » che si ode « di lontano », « paia il giorno pianger che si muore », con l'argomento, non meno famoso, e non meno rivelatore, che « anche però il giorno par che muoia, e non muore » veramente.

480

Tutta

l'efficacia

del X Agosto

riposerà

così, in un

certo

senso, sopra questo argomento : che il pianto delle stelle cadenti, nella notte di San Lorenzo, che pare pianto, e pianto veramente non è, sia assunto dalla poesia, quale è nel linguaggio comune, come cosa poetica già inconsciamente espressa dagli uomini, come reale sostanza di lacrime. Riposa insomma sopra una metafora, o finalmente, per chi voglia proprio venire incon-

tro a un diffuso sospetto degli interpreti più diffidenti, sopra un ‘ concetto ‘. | Ma il concettismo pascoliano, poiché ci importa distinguere subito la nostra lettura da quella dei tanti che inclinano, discorrendo senza esitazione, per il Pascoli, di barocchismo, a ope-

rare con leggerezza, vedete un po’, di affrettate metafore, anche sopra quel sobrio terreno che dovrebbe essere proprio della critica, — il concettismo pascoliano è sempre di ordine squisitamente patetico : e così dicendo teniamo sempre dinanzi agli occhi, in maniera privilegiata, il Pascoli poeta della sua tragedia familiare, come ora dobbiamo, il Pascoli del « romanzo dell’orfano ». E’ il Pascoli, per intenderci subito, che, nel Giorno dei morti, quel Giorno che sta infine a inaugurare tutto il suo corpus poetico, vede nel suo cuore che a ora a ora in pianto sciogliesi l’infinita nuvolaglia;

vede che a ogni croce roggia pende come

abbracciata

una ghirlanda

donde gocciano lagrime di pioggia;

vede che il cielo si riversa in pianto oscuramente

Che le due metafore

sopra

appena

il camposanto.

ricordate,

allora, la dantesca

e la

pascoliana, del pianto illusorio della squilla e del pianto verace del cielo, abbiano

entrambe

un empirico

contenuto

di lacrime,

non sarà un semplice accidente fortuito. E’ sempre all'orizzonte

481

del pensiero del poeta, in circostanze come queste, quale capitale preoccupazione lirica, quel « particolare puerile », quel jeu

de mots commovente, che deve rivelare la sostanza patetica, il segreto strazio di fondo delle cose stesse: deve decidere l’analogia ultima che ci faccia complici di tutti i suoi « anche » di poeta, di tutti i suoi sistemi

di analogie.

Il che si risolve, per

concedere al nostro discorso almeno una clausola un po’ arguta, in forza di un calembour che ci faccia lacrimare. E questo sarà il momento propizio per evitare un pericoloso inganno, e non poco diffuso : che è quello di credere che il puntare, da parte del Pascoli, sopra l'evidenza poetica e patetica delle cose stesse, sia stato oggetto, in Myricae o nei Canti, di una

specie di cinica speculazione letteraria, uno sfruttamento inerte e pacifico di sentimenti già tutti disegnati e sperimentati. E’ vero l'opposto : che fu proprio il Pascoli, con la seduzione irresistibile del pianto, a insegnare a non poche generazioni, puntando sempre, si capisce,

sopra

quella storica

« assonanza

fra invenzione

e ascoltazione » che già abbiamo rilevato, per lui come per Puccini, che non soltanto il piangere dinanzi alla finzione artistica non è vergogna, ma che anzi le lacrime sono la misura definitiva, e quasi un inappellabile tribunale del gusto, in materia di poesia. Clamorosa e ardita invenzione, e sociologicamente gravida di innumerevoli conseguenze, a verificarne gli effetti sopra la nostra storia nazionale, e non solamente sopra il nostro costume letterario fin de siècle e début du siècle, ma

sopra il nostro

co-

stume civile, pubblico e privato, e persino politico, chi pensi alla piega tutta patetica, e di conseguenza tutta controrivoluzionaria, che il Pascoli

contribuì

non

poco

a dare, ai suoi

giorni,

a

certo socialismo italiano della belle époque —

chi pensi poi che

questa

un'estetica,

invenzione

pascoliana

implicava,

con

un’in-

tiera etica, proponendosi infatti, sopra un tutto nuovo fondamento patetico, niente di meno che il recupero della più antica

equazione metafisica del nostro occidente, l'identità del vero, del bello e del buono. Ma che il Pascoli sia stato un po’ il teologo profano nell’Italia piccolo-borghese dei suoi tempi, con strascichi tanto potenti che durano tuttavia, tanto istituzionali che non c'è alunno delle nostre scuole che possa uscirne totalmente in-

denne, è cosa che dovrebbe essere ormai pacifica, e che qui, ad ogni modo, non può arrestarci più oltre.

482

Ritorniamo a Puccini, e ancora e sempre con la mediazione di Gavazzeni.

Ci gioverà, adesso,

non

il Gavazzeni

di I nemici

della musica, da cui siamo prima partiti, ma quello delle notazioni diaristiche di Le campane di Bergamo, che ci restituisce al vivo un Toscanini pronto a ribadire « il suo punto antipucciniano », pronto a accusare «le ‘’polchette’, i ’valzer’, le ‘ canzonette ‘... La morte di Mimì, composta appunto su un tema

di ” polchetta ” rallentatissima... ». E vedete come il quadro si disegni a perfezione, allora, se come arma in mano, per un Toscanini antipucciniano immaginate ovviamente la musica di Verdi, e se al Croce antipascoliano fate impugnare, in buon parallelo, l'ombra della poesia carducciana. Ma non crediate che chi vi parla sia il primo a gettare questo ponte ideale tra Pascoli e Puccini: qualche pilastro era già stato innalzato. E penso in particolare a Seroni, il quale, studiando, proprio per un convegno qui tenuto alcuni anni or sono, i « temi del Ritorno a San Mauro », avvertiva tra l’altro che « la vera conquista del Pascoli, la sua vera modernità sta qui, nel linguaggio sceso in terra, divenuto

borghese, così vicino al melodramma

pucciniano »; e di-

scorreva sì di « barocchismo », ma con la correzione importante di un attributo, di « barocchismo melodrammatico »; e parlava di un clima lirico, che è il « clima della ‘ romanza ’ ». Per essere più puntuali, sappiamo già di alcune correzioni che si possono

proporre : noi non parleremmo tanto, s'intende, di un « linguaggio sceso in terra, divenuto borghese », ma piuttosto, come certo immaginate, di un linguaggio sceso di un gradino nella scala della nostra società e del suo sentire, di un linguaggio divenuto

piccolo-borghese. Ma soprattutto, se non vi scandalizzate, piuttosto che di un « clima di ‘romanza ’ », parleremmo

addirittura,

spericolatamente, di un « clima » di ‘ polchette ‘, di ‘valzer’, di ’ canzonette ‘, trasfigurate a livello di grande poesia, come né Toscanini né Croce ammetterebbero volentieri, ognuno secondo la sua sfera di competenze, ma come noi, a equa distanza di storia, non esitiamo per nulla a riconoscere. E ci servono allora le parole di Baldini, nel suo Avvertimento all'edizione di tutte le poesie pascoliane : « il dramma diventa cantabile, il singulto si articola in versi melodiosi, la disperazione si effonde in dolcissime cantilene ». Ricollochiamo Pascoli dinanzi a Dante : ritorniamo al pa-

ragrafo XII del Fanciullino : riascoltiamolo

mentre

ci avverte

483

che la Divina Commedia, che pure è un plicata » (che è la poesia dei « poemi, quali di rado compare « pura », come perle »), è tuttavia « nella sua concezione

esempio di poesia « apdrammi, romanzi », nei rare « nel mare sono le generale il più ’ poetico ‘ dei poemi che al mondo sono e saranno ». Perché, ci spiega il Pascoli, « nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell’invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere coi

morti ».

Ora, vedete, è precisamente questa nota collocata a piede di pagina che ci insegna che cosa sia mai ciò che trasfigura a livello di grande poesia le ” polchette ‘, i’ valzer’, le ’ canzonette ’ del migliore Pascoli lirico, e segnatamente, per quel che adesso ci importa, del Pascoli del Ritorno

a San Mauro.

Egli, infatti, è

il poeta di una tragedia familiare, non nel momento in cui ci evoca frontalmente gli accadimenti luttuosi che la determinarono, non quando costruisce il proprio doloroso romanzo cimiteriale, volgendosi tutto, senza mediazione,

alle radici prime del

proprio lutto, ma quando, poeta del pianto, egli ritorna, in certe sue elegie così sottilmente cantate, a « sdegnarsi e godere », ma soprattutto, s'intende, a « conversare e piangere » con i morti, con i suoi morti.

Si fa così riprova, sopra un dettaglio che è capitale, di una regola più vasta, e che vale come norma generalissima, per tutta la poesia pascoliana : che la sua grandezza di artista è sempre

congiunta a un'aura stupefatta e sgomenta di brividi, a situazioni di sospesa allucinazione, a un fascino dolorosamente onirico di incanti, sciolti nei modi sionario.

di un

patetico

arditamente

vi-

Un critico americano, il Fiedler, se adesso non ricordiamo male, ha spiegato una volta la nascita e la fortuna del romanzo nero, popolato da spettri paurosi e da agghiaccianti fantasmi, con l'angoscia della borghesia rivoluzionaria, che aveva distrutto i vecchi castelli degli avi, che aveva

esautorato,

e volentieri

ghigliottinato, all'occorrenza, e in verità non poche volte, le antiche aristocrazie : che aveva insomma — freudianamente almeno — ucciso i propri padri. Ne doveva ricavare, di conseguenza, per lungo spazio di tempo, e risentire con spavento, per generazioni e generazioni, nei propri incubi, stridore di denti e

484

clamore di catene. Alla grande borghesia il passato lasciava come eredità, al minimo, e come proiezione dei propri sentimenti di colpa, il terrore dei morti, lo sgomento

di fronte ai defunti che

si aggirano implacati e insanguinati, intorno alle loro dimore abbandonate, nelle notti senza luna. Ma alla piccola borghesia, che non possedeva radici autonome di cultura funeraria, che era incerta circa la maniera di atteggiarsi di fronte alle ombre dei trapassati, fu appunto il Pascoli che apportò qualcosa che, sino a quel momento, era appartenuto in proprio, e in esclusiva, alla nostra civiltà rurale : e fu un insegnamento opposto, di confidenza, di pena, di affetti che non hanno fine, di memorie pietose e strazianti, che i viventi e i defunti devono continuamente riportare in comune, onde ricavarne insieme conforto, ritentando ogni

volta la possibilità di una reciproca consolazione. segnò un colloquio fondato sopra il pianto.

Il Pascoli in-

Ora, se voi pensate all’etica piccolo-borghese,

tutta costrui-

ta — per parlare sempre in termini freudiani, e applicarli impavidamente al terreno della sociologia — sopra la potente interiorizzazione di un implacabile Super-Ego, tanto più severo quanto

più teneramente

affettuoso,

se pensate

a un'etica

fami-

liare tutta naturalmente dominata dalla figura paterna, unica figura portatrice di ogni norma morale, capite anche bene e subito perché la tragedia di un padre assassinato e invendicato dovesse apparire a tutti, nella maniera più persuasiva, materia privilegiatissima di patetico, occasione suprema di dramma, radice inesauribile di poesia : la scommessa ardimentosa del Pascoli non poteva non uscire trionfante, da una siffatta situazione

umana. Ed ecco, presenze domestiche

che il tempo

non

può cor-

rompere, al modo in cui le sembianze non possono invecchiare nei ritratti, tanto che una madre può ritornare « esile », ma

« bella », « pallida », ma « tanto / giovane! una sorella! », e può ripresentarsi ai figli, dunque, bionda così com’era quando da noi partì!

questi morti familiari si prestano senza resistenza a una nékyia dal cerimoniale semplicissimo, docili come appaiono, nel tempo, al richiamo degli anniversari, e nello spazio, alle visite ai cam-

485

posanti. Ma, in verità, nello spazio, non è tanto il sepolcro che acquista rilievo e significato : il vero luogo dei morti è ancora la casa dove vissero, e alla quale essi tornano a imporre, incorruttibili e fragili, insaziabilmente,

la loro delicata

presenza.

E'

sufficiente dimenticare sopra un tavolo, come sapete benissimo, terminata la cena, « la tovaglia bianca », perché i defunti accorrano, notturni, e « tristi », e « pallidi », ma insieme affabili e dolci, perché essi sono i « buoni », i « poveri », i « cari » morti

che stanno

fissi, a fronte china, su qualche bricia di pane, e volendo ricordare, bevono lagrime amare.

Il Pascoli del Ritorno

a San Mauro

è dunque, in essenza,

questo Pascoli visionario, che instaura, in modi strazianti di canto, in un’aura di quieta e immobile allucinazione, il suo col-

loquio con i poveri, i cari morti : è il Pascoli poeta dell’onirismo funerario, segnato da una perpetua cadenza di lacrime. Il mondo pagano,

ci hanno

insegnato una volta, è il mondo

di coloro

che pregano i morti. La novità inaudita del mondo cristiano è che si tratta di un mondo che prega per i morti. Ebbene, se ci è concesso continuare per un momento in questa chiave, e naturalmente in minore, noi potremmo dire così: il mondo che precede Pascoli è il mondo di coloro che piangono per i morti, ma

il mondo

pascoliano —

ma il mondo

e non

soltanto il suo mondo

di noi tutti, che in una maniera

poetico,

o in un’altra, con

attiva e vigile, e anche diffidente coscienza, o con sofferta e disarmata suggestione, siamo gli eredi già tardi del suo contegno dinanzi ai sepolcri, della sua profana religione ctonia —

il mon-

do pascoliano è un mondo di uomini che piangono con i morti. E' anzi, in primo luogo, un mondo di morti che piangono.

Ora pensate, da questo punto di vista, al Pascoli di Casa mia : Mia

madre era al cancello. Che pianto fu! Quante ore! Lì, sotto il verde ombrello della mimosa in fiore!

486

Pensate a quella madre che parla « non anche sazia / di lagrime », e che ascolta parlare il figlio, e in tanto ella piangea più forte, e gocciolava il pianto per le sue guancie smorte.

E pensate, insieme, allo stupefatto incanto visionario della scena,

che ha tutta la sospesa puntualità delle cose che si contemplano in sogno, più nitide del vero, e tuttavia come avvolte da un’inquietante aura di incantesimo. E non possiamo non rileggere, e vorrei dire sommessamente ricantare, questi versi che tutti conosciamo a memoria: M'era la casa avanti, tacita al vespro puro, tutta fiorita al muro di rose rampicanti.

E vedete come sia ancora tutto di sogno quel mondo vegetale, in cui si articola l’intiera magia memoriale dell'incontro : accanto

alla « mimosa

in fiore », accanto

alle « rose

rampicanti »,

ecco il « sangue del trifoglio », ecco il « celeste lino ». E ancora: bs,

Una lieve ombra d’ale annunziò la notte

lungo

le bergamotte del viale...

e 1 cedri

S'udivano sussurri cupi di macroglosse su le peonie rosse e sui giaggioli azzurri.

O pensate, per tornare al grande motivo

delle lacrime, al pasco-

liano piangere con i morti, alla conclusione di Mia madre, quando ella sospira « piena / di non so che sgomento » : io me le volsi: appena vidi il tremor del mento.

E pensate sempre, insieme, a quella sorta di tranquillo delirio che emana da quella flora pascoliana : da quel puro nominare, in una sillabazione lenta, e di così contenuta e trattenuta musica, queste presenze incantate:

487

Vidi una massa buia, di là del biancospino: vi ravvisai la thuia, l’ippocastano, il pino...

mentre

il lui manda

il suo mattiniero

richiamo,

e il poeta può

agevolmente risentire la propria remota voce di fanciullo. Perché i morti non ci riportano soltanto il loro immobile passato,

ma

restaurano,

con

le loro

apparizioni,

tutte

le cose

perdute. Il temps retrouvé del Pascoli è il tempo dei morti, che ci riporta come presenti le stagioni consumate, e ci concede di rivivere tutto ciò che è trascorso, tutta la realtà consumata, e

dileguata, e spenta.

Così, non

vi è vera

memoria,

morte : non c'è, per gli uomini, un autentico

che per la

ricordare, un rivi-

vere, come in concreto possesso, tutto quello che è stato, se non per i morti, con i morti. E solamente chi sa piangere con i propri defunti può volgersi indietro, e quasi penetrare, con tutto sé

stesso, oltre la soglia che ci separa dalla verità vissuta del passato, aggirarsi

ancora

nelle stagioni

dileguate,

e ritrovarle,

re-

cuperarle, riconoscersi in quelle, davvero, con la propria voce di un tempo. Può ancora vedere il passato, e vedere è proprio la grande parola del Pascoli visionario : vederlo con il cuore, nel cuore. Pensiamo al Pascoli più dolorosamente cimiteriale, allora, al Pascoli ancora del Giorno dei morti, che viene ad affacciarsi,

quasi in patetico delirio, sopra la tomba dei suoi cari morti : Io vedo (come è questo giorno, oscuro!), vedo nel cuore, vedo un camposanto con un fosco cipresso alto sul muro...

o camposanto che sì crudi inverni hai per mia madre gracile e sparuta, oggi ti vedo tutti sempiterni

e crisantemi... Sibila tra la festa lagrimosa una folata, e tutto agita e sbanda. Sazio ogni morto, di memorie, posa. Non i miei morti. Stretti tutti insieme, insieme tutta la famiglia morta, sotto il cipresso fumido che geme,

stretti così come piangono.

488

altre sere al foco...

Sino al punto in cui il discorso poetico giunge al suo vertice di visionaria congestione : Io vedo, vedo, vedo un

camposanto,

oscura

oscura:

cosa

nella

notte

odo quel pianto della tomba... Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno in cerchio, avvolti dall’assidua romba.

Abbiamo detto prima di un vero bagno di lacrime che la società italiana attendeva, negli anni ‘90 del secolo scorso, per quelle tali « assonanze » e « necessità » che abbiamo prima descritte, nel momento in cui apparve in Italia la poesia del Pascoli. Abbiamo anche detto che il Pascoli ci ha insegnato a piangere con i morti, e che i morti piangono. Ora io voglio dirvi, da ultimo, che il Pascoli, per questa via, fu colui che diede alla classe piccolo-borghese,

e, attraverso

questa,

a tutta

la nostra

nazione,

proprio per una simile via di pianto, il suo tratto più decente, più umano,

più civile, ai suoi giorni, e forse anche ai nostri. Un

giovane critico, il Bonfiglioli, nello stesso convegno, Mauro,

in cui

qualche

anno

genza,

ma

Seroni

evocò

fa, rimproverò

anche

con

estrema

acutamente

con

la musica

argomenti

durezza,

qui a San pucciniana,

di grande

al Pascoli,

di non

intelliaver

saputo virilmente seppellire i propri morti. Ora io voglio dirvi che questo rimprovero mi pare ingiusto. Perché il pianto rituale di cui il Pascoli ci ha insegnato la tecnica e l’efficacia, non fu il prodotto — come tante volte si è proclamato — di una particolare debolezza psicologica, di una singolare carenza soggettiva, e quasi di una insuperabile tara individuale : in lui parlava, come all'opposto, per questa sua patetica religione delle tombe, tutta la tradizione più arcaica e più vera dell’Italia contadina. Io non posso giudicare, adesso, se ne sia derivata una forma di culto nobile e feconda;

o se piuttosto,

simile religione, non

contenes-

se ormai, per dura fatalità, qualcosa di intrinsecamente meschino e limitante. Ma questa liturgia del pianto fu pure la sola forma di percezione del sacro e di sentimento del tempo, sinceramente interiorizzata e autenticamente partecipabile, che i nostri padri abbiano saputo trasmetterci, e che noi, a un secolo di distanza dalla morte di Ruggero Pascoli, siamo ancora in grado di risentire e di comprendere, come suole accadere nella storia, per la forza della poesia.

489

INDICE

GENERALE

&

Din

È

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x

bei

SD

2

4.

LI

si

Ale 2. se & a

LAP y

INDICE GENERALE

Presentazione

Comitato

d'onore

.

Manifesto commemorativo

Edoardo Sanguineti : Omaggio a Pascoli . Giorgio Barberi Squarotti : Il fanciullino e la poetica pascoliana .

Gian Luigi Beccaria: Polivalenza e dissolvenza linguaggio poetico pascoliano . :

nel

Graziella Corsinovi : Pascoli e Pirandello Luigi Dal Santo: La Grecia Giovanni Pascoli

nell'opera

trilingue

di 109 157

Felice Del Beccaro : Pascoli narratore Giovanni

Fallani : Giovanni

Pascoli nei ricordi e nel-

l’interpretazione di P. Luigi Pietrobono

187

Furio Felcini : Pascoli tra Carducci e D'Annunzio

109

Antonio Girardi : Il poema pascoliano Gog e Magog .

245

Ottaviano Giannangeli : L'altra poetica pascoliana

263

Giovanni Giudici : Pascoli come occasione poetica

269

Cesare Federico Goffis : Il tempo perduto

277

Giuseppe Leonelli : Pascoli esteta

299

Claudio Marabini : Pascoli e la letteratura romagnola

313

Giuseppe Nava : / canti di Castelvecchio .

327

Anthoni

347

Oldcorn : Lettura di « Novembre » .

Ettore Paratore: La cronologia dei Carmina pascoliani elilisuotsignipcato RG i.

361

Maurizio Perugi: Fra estetica pascoliana

383

Piero

Dante

E. Pieretti : Ecdotica

e Sully:

elementi

di

411

anecdotica

459

Antonio Piromalli : Il ritorno a S. Mauro.

Edoardo

Sanguineti:

La

tragedia

poesia di Giovanni Pascoli

familiare

nella 471

pia

ra

i

i DUOISULS Yper

e

.

.

Finito di stampare mese di giugno 1984 dalla Modulgrafica Maggioli di Santarcangelo di Romagna per conto di Maggioli Editore - Rimini

nel

is DA —

è

i

REFERENCE

LANG DEPT: STACKS

La pubblicazione degli Atti del Convegno Nazionale di studi pascoliani, svoltosi a S. Mauro nella primavera del 1982 in occasione del settantesimo anniversario della morte del Poeta, segue in ordine temporale altre celebrazioni che la cittadina pascoliana ha realizzato in anni più o meno recenti: quella relativa al Centenario della nascita (1955) e quella in occasione del cinquantenario della morte (1962). Questo terzo volume si innesta dunque in una consolidata tradizione di studi e costituisce un contributo valido e prezioso per gli appassionati e per gli studiosi dell’affascinante arte pascoliana. i Gli autori indagano sottilmente e in profondità i vari aspetti della poesia e della poetica pascoliana, nonché la complessa personalità del poeta. Gli esiti sono estremamente nuovi e sorprendenti. La figura e l’arte del Poeta di S. Mauro appaiono al centro dell’attenzione più capillare e più modernamente adeguata della nuova critica e Pascoli é colto sotto sfaccettature e illuminazioni inattese e in stretta connessione coi grandi movimenti letterari europei. Il volume contiene contributi di Sanguineti, Barberi Squarotti, Beccaria, Boaglio, Corsinovi, Dal Santo, Del Beccaro, Fallani, Felcini, Girardi, Giannangeli, Giudici, Goffis, Leonelli, Marabini, Nava, Oldcorn, Paratore, Perugi, Pieretti, Piromalli.

- Toronto

37131

_ codice 559651

©

024

Ubu

Reference

20

ict

Library

8

L. 28.000