Mythologeîn. Mito e forme di discorso nel mondo antico. Studi in onore di Giovanni Cerri 9788862277389, 9788862277396

Il volume raccoglie ottantacinque contributi dedicati a Giovanni Cerri, professore di filologia classica all'Univer

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Mythologeîn. Mito e forme di discorso nel mondo antico. Studi in onore di Giovanni Cerri
 9788862277389, 9788862277396

Table of contents :
SOMMARIO
PREMESSA
OMERO E POESIA EPICA
CONCORDANZE OMERICHE CON I TESTI MICENEI
TERSITE ALL’ASSEMBLEA. ORATORIA E DEMAGOGIA NELL’ILIADE
RAZIONALISMO, IPERRAZIONALISMO E STRATIGRAFIA A PROPOSITO DELLE DUE ARMATURE DI ACHILLE
LA MORTE DI PATROCLO : DECOSTRUZIONE DELL’ARISTEUS OMERICO*
PENELOPE AL SIMPOSIO.
TEOCLIMENO, IL VEGGENTE DELL’ODISSEA
ACHILLE ‘SPOSO IDEALE’ DA OMERO A EURIPIDE
CRONACA DI DUE MORTI ANNUNCIATE : DALL’ILIADE ALL’ETIOPIDE
ODISSEO
LA GEOGRAFIA SIMBOLICA DEL MITO : LEMNO NELLA TRADIZIONE POETICA GRECA DALL’EPOS OMERICO AL
DI SOFOCLE
LA FABBRICAZIONE DELLA SPOSA
MODI E FORME DEL PROCEDIMENTO GIUDIZIARIO IN ESIODO. UN’IPOTESI RICOSTRUTTIVA
LIRICA ARCAICA E TARDO-ARCAICA
SAFFO E I DISCORSI DI ALLORA
SAFFO E TITONO : DUE VECCHIAIE A CONFRONTO
TRA GRECIA E OCCIDENTE : L’ORESTEIA DI STESICORO
QUALCHE RIPENSAMENTO SUL FR. 555 P. DI SIMONIDE
TRE NOTE ALL’OLIMPICA 2 DI PINDARO
PSAMATHEIA E PYTHEAS. NOTE ALLA QUINTA
DI PINDARO
IDEOLOGIA MILITARE E IDEOLOGIA AGONISTICA NELL’ISTHM. 5 DI PINDARO
SAPIENTI E FILOSOFI
PROCEDURE INNICHE NEI VERSI DEI
COSMOLOGI. PRAGMATICA DELLA POESIA DIDASCALICA (DA ESIODO E TEOGNIDE A EMPEDOCLE E PARMENIDE)*
ANASSIMENE
ANASSIMANDRO
TRAGEDIA E COMMEDIA NELLA (DELLA) VITA UMANA NEI DIALOGHI PLATONICI
APPUNTI SULLA FUNZIONE DEL MITO NEI DIALOGHI DI PLATONE
IONE FRA LA PITTURA, LA SCULTURA E LA MUSICA : UN CATALOGO DI PLATONE
1069A 18-1069B 15 : MATERIA E LUCE
TEATRO TRAGICO E COMICO
RIFLESSIONI SULL’ORIGINE DEL DRAMMA
UNA TESTIMONIANZA SUL
IN UN ARYBALLOS DI NEARCO (570-550 A.C.)
LA PAROLA SULLA SCENA DEL DRAMMA ATTICO : IL
ANTIGONE E L’ABOLIZIONE DEL TEMPO*
EDIPO ARCHEOLOGO. LE PROFEZIE SUL PASSATO E LE ORIGINI DELLA RICERCA STORICA
SOPH. FR. 155 R.2 : UN CASO DI INTERTESTUALITÀ PROVERBIALE
COMIC EFFECTS OF
UN PULCINELLA FILOSOFO : L’ERACLE DELL’ALCESTI
TRACCE ESCHILEE NELLE
DI EURIPIDE, TRA RIPRESE E DISTANZIAZIONI
IL CANTO DELLA SFINGE TRA MITO E SCENA NELLE
EURIPIDE E IL MITO DI BELLEROFONTE
“ALL’ALBA VINCERÒ” : PROVE DI REGIA NELLE
NEL TEATRO ATTICO DI FINE V SEC. A.C. (ARISTOFANE ED EURIPIDE)
SUI TEATRI DI EFESTIA NELL’ISOLA DI LEMNO
PROSA DALL’ETÀ CLASSICA ALL’ETÀ ROMANA
LA RAPPRESENTAZIONE DEL PENSIERO DEI PERSONAGGI NELLA
ANEDDOTO E BIOGRAFIA : LA VOCE DI DEMOSTENE
“L’ATTO DI NASCITA DELL’ ELLENISMO” ? QUALCHE CONSIDERAZIONE SULLA C.D. “LETTERA DI ARISTOTELE AD ALESSANDRO SULLA POLITICA VERS
DI PLUTARCO NEL CODICE
ESIODO NELLO SCRITTOIO DI ELIO ARISTIDE
THE SCHOLAR AT PLAY OR THE ADVANTAGES OF A PROSIMETRIC
SINESIO E I
POESIA ELLENISTICA E DI ETÀ ROMANA
UN EPIGRAMMA DI MERO
LA PROFEZIA APOLLINEA SU COS NELL’INNO
DI CALLIMACO
APOLLONIUS’ JUDGEMENTAL NARRATIVE. THE CASE OF THE
DUE ATTICISMI IN TEOCRITO (14, 6)
PROVERBI E SENTENZE NELL’ANTOLOGIA
UNA CANZONCINA DA DURA-EUROPOS
LINGUISTICA
UN’IPOTESI ETIMOLOGICA PER
ANCORA SU GR.
E SUI PROBLEMI DEI ‘GRAECO-IRANICA’*
METRICA
COLOMETRIA E SINTASSI NELLA LIRICA DI SIMONIDE (CON OSSERVAZIONI SULL’USO DEL POLISINDETO E DELL’ENJAMBEMENT)
COME TERMINA IL GLICONEO ?
UN CAPITOLO DIMENTICATO DELLA METRICA DI ELIODORO : LA SILLABA
STORIA DELLE RELIGIONI, ANTROPOLOGIA, SEMIOTICA
DALLA SFINGE DI TEBE ALLA PORTA DEI LEONI DI MICENE : TESTIMONIANZE DI UN CULTO ANICONICO
IL “BARBARO” A TAVOLA : REGIMI NUTRITIVI E ALTERITÀ CULTURALE*
DIFFERENZA DEL DESIDERIO E DESIDERIO DELLA DIFFERENZA :
LE ETÀ DELL’UOMO NELLA LETTURA ALLEGORICA DELL’ENEIDE : DA FULGENZIO A DANTE
“LI DUE OCCHI DEL CIELO” (DANTE,
20, 132). GENESI E STORIA DI UNA METAFORA DOTTA
UN PROEMIO AL MEZZO IN WALAFRIDO STRABONE
I MODERNI E VIRGILIO : L’ARMONIA DI BUIO E LUCE. ECHI SPARSI DELL’ENEIDE
PINDARO/SPINTARO IN CELIO CALCAGNINI E PLUTARCO
IL PARADOSSO DI CASSANDRA
ERACLITO E L’ETERNO RITORNO : NOTA DI LETTURA AI
DI MARGUERITE YOURCENAR
NEOTTOLEMO O DELLA COSCIENZA. IL
DI SOFOCLE, LA LETTURA DI GIOVANNI CERRI, LA RISCRITTURA DI JANNIS RITSOS*
BIBLIOGRAFIA DI GIOVANNI CERRI

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A I ON A N N A L I DEL L ’ U N I V ER SI TÀ DE G LI S TUDI DI NAPOLI «L’ORIE NTALE» DI P A R T I M EN T O D I S T U D I D EL MO NDO CLASSI CO E DE L ME DI T E RRANE O ANT I CO S EZ I O N E F I LO LO G I CO - LE T T E RARI A

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QUADE RNI · 1 8 .

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M YT H O L O G EÎN MITO E FORME DI DISCORSO NEL MONDO ANTICO S TU DI IN ONO RE DI G I OVANNI C E RRI a cura di antonietta go s to l i e r o b e r to v e l a r d i

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con la c o l l a b o r a z i o ne d i ma r i a c o l a nto ni o

P I S A · ROM A FABR IZ I O SE RRA E DI T O RE MMXIV

Volume pubblicato con un contributo del Dipartimento di Studi Umanistici, Università della Calabria. * La fotografia del Prof. Giovanni Cerri a pagina 4 è di Stefania Giombini. * ANNALI DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI «L’ORIENTALE» Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo Antico Sezione filogico-letteraria AION (filol) Direttore responsabile Amneris Roselli

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Comitato scientifico Dagmar Bartonˇ k ová · Albio Cesare Cassio · Giovanni Cerri · Jacques Jouanna Comitato di redazione Giorgio Jackson · Luigi Munzi · Riccardo Palmisciano · Antonio Rollo Luigi Tartaglia · Roberto Velardi * Registrato al n. 2926 del Registro periodici del Tribunale di Napoli ai sensi del D.L. 8-2-1948 n. 47. * © 2014 by Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included offprints, etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. * Proprietà riservata · All rights reserved Fabrizio Serra editore Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] www.libraweb.net issn 1128-7209 isbn 978-88-6227-738-9 (brossura) isbn 978-88-6227-739-6 (elettronico)

SOMM A R IO 9

Antonietta Gostoli, Roberto Velardi, Premessa omero e poesia epica

Anna Sacconi, Concordanze omeriche con i testi micenei 13 Stefano Dentice di Accadia Ammone, Tersite all’assemblea. Oratoria e demagogia nell’Iliade 15 Roberto Velardi, Achille, l’eroe che canta se stesso (Il. 9, 186-191 ; Philostr. Her. 55) 23 Simonetta Nannini, Razionalismo, iperrazionalismo e stratigrafia a proposito delle due armature di Achille 34 Riccardo Di Donato, La morte di Patroclo : decostruzione dell’aristeus omerico 43 Mario Cantilena, Nota a un passo dell’Iliade (Y 99-100) 47 Franco Montanari, Penelope al simposio. Od. 1, 328-335 e Dicearco 51 Carlo Brillante, Teoclimeno, il veggente dell’Odissea 54 Eleonora Cavallini, Achille ‘sposo ideale’ da Omero a Euripide 61 Franco Ferrari, Cronaca di due morti annunciate : dall’Iliade all’Etiopide 69 Bruno d’Agostino, Odisseo ante litteram 74 Livio Sbardella, La geografia simbolica del mito : Lemno nella tradizione poetica greca dall’epos omerico al Filottete di Sofocle 78 Diego Lanza, La fabbricazione della sposa 84 Andrea Ercolani, Modi e forme del procedimento giudiziario in Esiodo. Un’ipotesi ricostruttiva 90 Bruna M. Palumbo Stracca, Le maledizioni del poeta itinerante nella Vita Homeri Herodotea 94 Massimo Di Marco, “Neppure sotto tortura” : la patria di Omero e un singolare exemplum fictum (AP 7, 5 = Alc. Mess. 22 G.-P.) 100  





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lirica arcaica e tardo-arcaica Vincenzo Di Benedetto, Saffo e i discorsi di allora Franca Perusino, Maria Colantonio, Saffo e Titono : due vecchiaie a confronto Gabriele Burzacchini, Espero e Aurora da Saffo (fr. 104a V.) a Meleagro (AP 12, 114 = HE 75) Alfonso Mele, Tra Grecia e Occidente : l’Oresteia di Stesicoro Luigi Bravi, Qualche ripensamento sul fr. 555 P. di Simonide Carmine Catenacci, Tre note all’Olimpica 2 di Pindaro Bruno Gentili, L’Olimpica 6 di Pindaro G. Aurelio Privitera, Psamatheia e Pytheas. Note alla quinta Nemea di Pindaro Paola Angeli Bernardini, Ideologia militare e ideologia agonistica nell’Isthm. 5 di Pindaro  



109 112 114 116 128 132 138 142 144

sapienti e filosofi Claude Calame, Procedure inniche nei versi dei sophoi cosmologi. Pragmatica della poesia didascalica (da Esiodo e Teo gnide a Empedocle e Parmenide) Livio Rossetti, Anassimene vs. Anassimandro Giovanni Casertano, Tragedia e commedia nella (della) vita umana nei dialoghi platonici Lidia Palumbo, Appunti sulla funzione del mito nei dialoghi di Platone Mauro Tulli, Ione fra la pittura, la scultura e la musica : un catalogo di Platone Marisa Tortorelli Ghidini, Rivivere cigno (Plat. Resp. 10, 620a-b) Romano Romani, Su Aristotele, Metaph. L 1069a 18-1069b 15 : materia e luce  



151 160 168 174 181 185 189

teatro tragico e comico Bernhard Zimmermann, Riflessioni sull’origine del dramma 195 Riccardo Palmisciano, Una testimonianza sul Satyrikon in un aryballos di Nearco (570-550 a.C.) 206 Paola Volpe Cacciatore, Il timore di Atossa : Aesch. Pers. 162 214 Vittorio Citti, Danao e le sue figlie (Aesch. Suppl. 176-220) 217 Monica Centanni, Dhvmou kratou`sa ceivr : Aesch. Suppl. 604 223 Maria Grazia Fileni, La parola sulla scena del dramma attico : il Prometeo 229 Valeria Andò, Il mostro argivo (Aesch. Ag. 824) 245 Giulio Guidorizzi, Antigone e l’abolizione del tempo 251 Roberto Nicolai, Edipo archeologo. Le profezie sul passato e le origini della ricerca storica 254 Renzo Tosi, Soph. fr. 155 R.2 : un caso di intertestualità proverbiale 264 Dasˇa Bartonˇková, Comic Effects of Hybris in Euripides’ Tragedies Alkestis, Ion, and Helen 267 Simonetta Grandolini, Poesia tevryi~ e poesia favrmakon in Euripide 270 Giuseppe Zanetto, Un pulcinella filosofo : l’Eracle dell’Alcesti 274  









8

sommario

Maria Pia Pattoni, Tracce eschilee nelle Supplici di Euripide, tra riprese e distanziazioni Ester Cerbo, Il canto della Sfinge tra mito e scena nelle Fenicie di Euripide Giuseppe Mastromarco, Euripide e il mito di Bellerofonte Donato Loscalzo, “All’alba vincerò” : prove di regia nelle Ecclesiazuse di Aristofane Michele Napolitano, Note a Eup. fr. 175 K.-A. (Kolakes) Antonietta Gostoli, L’emergere della figura del tragw/dov~ nel teatro attico di fine v sec. a.C. (Aristofane ed Euripide) Emanuele Greco, Sui teatri di Efestia nell’isola di Lemno  

280 290 300 306 309 314 316

prosa dall ’ età classica all ’ età romana Marco Dorati, La rappresentazione del pensiero dei personaggi nella Ciropedia e nelle Elleniche di Senofonte Maddalena Vallozza, Aneddoto e biografia : la voce di Demostene Mario Mazza, “L’atto di nascita dell’Ellenismo” ? Qualche considerazione sulla c.d. “Lettera di Aristotele ad Alessandro sulla politica verso le città” Settimio Lanciotti, Sen. Epist. 102, 1-2 Luigi Leurini, Il De Iside et Osiride di Plutarco nel codice Ambrosianus 448, H 113 sup. Lorenzo Miletti, Esiodo nello scrittoio di Elio Aristide Jerzy Danielewicz, The Scholar at Play or the Advantages of a Prosimetric Logodeipnon Ugo Criscuolo, Sinesio e i qrullouvmena dovgmata  

323 339



345 352 355 360 367 371

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poesia ellenistica e di età romana Carles Miralles, Un epigramma di Mero 381 Massimo Giuseppetti, La profezia apollinea su Cos nell’Inno a Delo di Callimaco 384 Krystyna Bartol, Apollonius’ Judgemental Narrative. The Case of the Argonautica 1, 917 392 Albio Cesare Cassio, Due atticismi in Teocrito (14, 6) 395 Fabrizio Conca, Proverbi e sentenze nell’Antologia Palatina 397 Gabriella Ricciardelli, Una canzoncina da Dura-Europos 403 linguistica Emanuele Dettori, Un’ipotesi etimologica per brotoloigov~ Adriano V. Rossi, Ancora su gr. paragauvdh~ e sui problemi dei ‘graeco-iranica’

411 414

metrica Liana Lomiento, Colometria e sintassi nella lirica di Simonide (con osservazioni sull’uso del polisindeto e dell’enjambe ment) 425 Andrea Tessier, Come termina il gliconeo ? 438 Pietro Giannini, Un capitolo dimenticato della metrica di Eliodoro: la sillaba koinhv 442  

storia delle religioni, antropologia, semiotica Antonio Martina, Dalla Sfinge di Tebe alla Porta dei Leoni di Micene : testimonianze di un culto aniconico Fritz Graf, Consilia : a Strange Roman Festival in Late Greek Disguise Manuela Giordano, Perché ad Atene cessarono le vendette ? Dal sistema della vendetta al sistema della pena Luigi Gallo, Il “barbaro” a tavola : regimi nutritivi e alterità culturale Giovanni Casadio, Differenza del desiderio e desiderio della differenza : eros e philia nella magia erotica greco-romana Giovanni M. D’Erme, Segni  









447 461 464 475 480 486

fra antico e moderno Amneris Roselli, Le età dell’uomo nella lettura allegorica dell’Eneide : da Fulgenzio a Dante 497 Vittorio Ferraro, “Li due occhi del cielo” (Dante, Purg. 20, 132). Genesi e storia di una metafora dotta 503 Luigi Munzi, Un proemio al mezzo in Walafrido Strabone 506 Emanuela Andreoni Fontecedro, I moderni e Virgilio : l’armonia di buio e luce. Echi sparsi dell’Eneide 512 Maria Cannatà Fera, Pindaro/Spintaro in Celio Calcagnini e Plutarco 517 Ezio Pellizer, Il paradosso di Cassandra 519 Sergio Audano, Eraclito e l’eterno ritorno : nota di lettura ai Mémoires d’Hadrien di Marguerite Yourcenar 527 Anna Beltrametti, Neottolemo o della coscienza. Il Filottete di Sofocle, la lettura di Giovanni Cerri, la riscrittura di Jannis Ritsos 533  





Bibliografia di Giovanni Cerri

537

PR EMESSA

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G

iovanni Cerri si è laureato in Lettere Classiche presso l’Università di Roma “La Sapienza” discutendo una tesi di Filosofia del Linguaggio sul tema La nozione di stile nel pensiero antico, con Tullio De Mauro e Antonino Pagliaro. Dall’insegnamento di Pagliaro provengono l’interesse per la linguistica e il gusto per l’analisi semantica che lo accompagneranno anche nelle ricerche successive. Decisivo per la sua carriera accademica e di studioso fu, nel 1967, l’incontro con Bruno Gentili, che presiedeva la commissione del concorso a cattedre per le scuole medie superiori al quale Cerri si era presentato. Gentili rimase colpito dalla personalità scientifica del giovane candidato, evidentemente non solo dalla sua preparazione, ma dall’acume critico e dalla sensibilità interpretativa, che sentì consonante con la propria. Gli suggerì di scegliere come sede d’insegnamento il Liceo Classico “Raffaello” di Urbino e lo invitò a collaborare con il gruppo di ricerca da lui creato presso l’Istituto di Filologia Classica dell’Università di Urbino, tuttora unito e operante, il cui lavoro, pur nella diversità di interessi di ognuno, è caratterizzato dalla comune attitudine a coniugare la filologia classica con le moderne scienze dell’uomo. Diventato assistente ordinario alla cattedra di Filologia Classica e professore incaricato di Storia del teatro greco e latino, dal 1969 al 1980 svolse attività di ricerca e di insegnamento presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Urbino e, in qualità di professore incaricato di Letteratura greca, presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli ; dal 1980 al 2006 è stato professore ordinario di Letteratura greca presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” ; dal 2006 al 2012 ha ricoperto lo stesso ruolo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi Roma Tre. I temi sui quali maggiormente si è concentrato il suo interesse di storico della letteratura e della cultura antica sono il rapporto tra oralità e scrittura nella composizione e nella diffusione del testo poetico in età arcaica e classica ; l’epos omerico ; l’uso del linguaggio politico nella lirica e nella tragedia ; le diverse teorie antiche sulla natura e sui fini del racconto storico e del racconto biografico ; i meccanismi narrativi ed espressivi attraverso cui il mito è costantemente riattualizzato come paradigma di situazioni individuali e sociali ; rituale, ideologia e letteratura dionisiaca ; la tecnica drammaturgica della tragedia greca ; il pensiero platonico, con speciale riguardo alla teoria della comunicazione e alla poetica ; filosofia, teologia e poesia di Senofane di Colofone, Parmenide di Elea ed Empedocle di Agrigento. È autore di tre traduzioni poeti 



















che : Omero, Iliade, “Classici Rizzoli” 1996, che ha ricevuto il primo premio “Città di Monselice”, xxvi edizione, 1996 ; Sofocle, Filottete e Sofocle, Edipo a Colono, “Fondazione Lorenzo Valla”, rispettivamente negli anni 2003 e 2008. Ha coltivato anche studi danteschi, concentrandosi soprattutto sui rapporti indiretti tra Divina Commedia ed epos omerico. Muqologei`n. Mito e forme di discorso nel mondo antico raccoglie i contributi di amici, colleghi e allievi. Nelle nostre intenzioni il titolo, pur nella sua formulazione necessariamente sintetica, doveva rispecchiare il filone privilegiato della ricerca del dedicatario. Il numero dei saggi qui raccolti, l’adesione convinta degli autori testimoniano l’ampiezza della stima e dell’affetto conquistati da Giovanni Cerri nei suoi anni di magistero e di vita accademica. I contributi, tutti attinenti all’argomento proposto, compongono un’opera che, nella diversità dei temi e degli approcci metodologici, si presenta complessivamente organica e unitaria. Il lavoro editoriale e organizzativo ha richiesto tempi piuttosto lunghi, durante i quali purtroppo sono venuti a mancare alcuni Colleghi che erano particolarmente cari a Giovanni Cerri e che avevano offerto il loro contributo con sincero entusiasmo : Giovanni D’Erme, iranista dell’Orientale di Napoli, Vincenzo Di Benedetto, grecista dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore e, da ultimo, Bruno Gentili. A loro vanno il nostro pensiero commosso e la nostra riconoscenza. A lavoro ultimato non resta che ringraziare vivamente tutti coloro che hanno partecipato a questa iniziativa e augurarci che la ricerca di Giovanni Cerri, la sua profonda intelligenza dei testi, il suo rigore metodologico, la generosità del suo infaticabile impegno continuino a essere di stimolo fecondo alla comprensione delle culture antiche nel loro rapporto dialettico con la contemporaneità. Alla realizzazione dell’opera hanno contribuito il Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria. Si ringrazia Amneris Roselli, succeduta a Giovanni Cerri nella direzione della rivista « AION Filologia e Letteratura », nella cui serie dei Quaderni questo lavoro vede la luce e, in particolare, Maria (Gabriella) Colantonio del Dipartimento Scienze della Comunicazione e Discipline Umanistiche dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, che ha voluto mettere a disposizione le sue preziose competenze editoriali. Antonietta Gostoli Roberto Velardi  









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OMERO E POESI A EPICA

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CONCOR DA NZE OMER ICHE CON I TESTI MICENEI A nna Sacconi

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Q

uando Schliemann nel 1870 iniziò i suoi scavi a Troia, e successivamente a Micene e a Tirinto, il dibattito concernente la composizione, la data e la paternità dell’Iliade e dell’Odissea era andato avanti in continuazione per molti secoli. Gli Alessandrini e gli altri critici antichi avevano trattato la questione omerica come un problema semplicemente letterario con poche implicazioni storiche. Quando nel xviii secolo cominciò la critica moderna, l’interesse degli omeristi continuò ad essere rivolto soprattutto all’aspetto letterario dei poemi e meno a quello storico ed archeologico. Praticamente quasi nessuno credeva che il mondo di Omero avesse una effettiva base di realtà. L’interpretazione di Omero era fondata su considerazioni letterarie o grammaticali, con intervento occasionale della storia o della geografia, mentre l’archeologia non era mai invocata. Schliemann, guidato da Omero e da Pausania, andò a cercare il mondo omerico dove essi dicevano che doveva essere e lo trovò. I numerosi scavi effettuati in siti dell’area egea risalenti al Bronzo Tardo a partire da Schliemann e fino ai giorni nostri sono alla base di una nuova branca degli studi omerici, la cosiddetta “archeologia omerica”. Il costante ampliamento del campo di ricerche dell’archeologia omerica negli ultimi decenni è dovuto al moltiplicarsi delle scoperte archeologiche nell’area egea e dal 1952 in poi alla decifrazione delle tavolette micenee in lineare B ad opera di Michael Ventris. In questa sede mi soffermerò in particolare sull’apporto arrecato alla filologia omerica dalla decifrazione delle tavolette micenee e cercherò di fare un bilancio, a circa 50 anni dalla decifrazione della lineare B, relativo all’apporto dei testi micenei ai vari aspetti del testo omerico. Subito dopo la decifrazione di Ventris, infatti, molti miceneisti hanno cercato di servirsi di Omero per meglio intendere i testi micenei, e viceversa molti omeristi si sono sforzati di chiarire i poemi omerici per mezzo della testimonianza delle tavolette. La decifrazione della lineare B ha certamente arrecato una prospettiva nuova allo studio dei poemi omerici. Gli omeristi non possono fare a meno di beneficiare delle rassomiglianze notevolissime così come delle differenze non meno notevoli che si osservano esaminando parallelamente i dati omerici e i dati micenei. L’apporto dei testi micenei riguarda vari aspetti del testo omerico :  

1) i dati linguistici. Per quanto riguarda l’analisi del dialetto epico l’apporto del miceneo appare fondamentale. A parte i tratti linguistici decisamente più arcaici offerti dai testi micenei soprattutto sotto l’aspetto fonetico, il dialetto omerico, in particolare sotto l’aspetto morfologico, si ricollega in maniera evidente alla lingua delle tavolette micenee. Questa constatazione rinnova il problema dell’analisi dialettale della lingua omerica ;  

2) i dati storico-religiosi. Le tavolette micenee permettono di ricostruire un pantheon di divinità attraverso la registrazione delle offerte che ad esse vengono fatte e la menzione di personaggi addetti al culto. In questo pantheon ap-

paiono quasi tutti quelli che saranno i grandi dei della religione greca classica, i cosiddetti dei “olimpii” e, accanto ad essi, anche alcune divinità “minori” che sembrano assenti nell’età aurea del pantheon greco. Viene quindi ad essere confermata la tesi di M. P. Nilsson dell’origine micenea della religione greca ed in particolare omerica ;  

3) i dati politico-sociali ed economici. Sotto tale aspetto Omero sembra lontano dal mondo miceneo. Lo stile di vita, l’organizzazione politico-sociale ed economica del mondo miceneo fanno pensare per più di un aspetto a quelli dei Palazzi del Vicino Oriente. I testi micenei ci rivelano infatti una regalità di carattere anche religioso installata nel Palazzo che è centro della vita politica, amministrativa, cultuale ed economica. La vita del Palazzo miceneo è basata su di un’organizzazione rigorosa, complessa e rigidamente regolamentata di tributi, doni, offerte agli dei, “ateliers” artigianali. La civiltà micenea nell’ambito politico-sociale ed economico si colloca naturalmente nel quadro delle civiltà vicino-orientali fiorite tra il xiv e l’xi secolo a.C. Ora, questo tipo di civiltà non è omerico ;  

4) i dati archeologici (cioè i Realien). Sotto tale aspetto i rapporti istituibili tra le descrizioni di manufatti presenti nei testi micenei e le descrizioni di manufatti presenti in Omero sono molteplici. L’istituzione di questi rapporti è agevolata dai preziosi inventari di vasi e suppellettili con ideogrammi e leggende sillabiche delle serie di tavolette di Pilo Ta, Tn. Parimenti importanti sotto questo aspetto risultano le dettagliate descrizioni di materiali militari provenienti dagli archivi di Pilo (serie S-) e di Cnosso (serie R-, S-). Se è indubbiamente utile, per il commento delle tavolette, ricorrere alla testimonianza omerica, il contrario è ugualmente valido : cioè le tavolette recano all’omerista, allo stesso titolo dei documenti archeologici, un prezioso ausilio.  

Quali sono le conseguenze letterarie che si possono trarre dalle corrispondenze che più o meno nettamente si riescono a stabilire, sotto vari aspetti, tra dati micenei e dati omerici ? È stato detto e ripetuto da tempo che i poemi omerici sono il risultato di un lungo svolgimento che risale all’età micenea : ciò è confermato brillantemente dai rapporti esistenti tra testi micenei e poemi omerici. La corrispondenza tra dati omerici e dati micenei, che è solo parziale, conferma altresì la già da lungo tempo riconosciuta stratificazione omerica : in Omero elementi diversi, sia dal punto di vista della lingua che del contenuto, si trovano ad essere inestricabilmente mescolati. Infatti, come è stato spesso sostenuto, i poemi omerici hanno preso forma definitiva nell’viii secolo (presumibilmente, come attesta la colorazione ionica molto marcata del dialetto, nel mondo ionico dell’Asia Minore, dopo la migrazione). Si può così riproporre in termini più precisi l’annosa questione omerica. È questione omerica ciò che riguarda quanto intercorso tra il mondo miceneo, di cui i poemi ci offrono in molti casi un riflesso interessante, e le epopee composte intorno alla metà dell’viii secolo. Nei poemi omerici, quali noi li abbiamo, si conserva infatti il ricordo  





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anna sacconi

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della tradizione micenea (linguistica e contenutistica), ma trasformata durante il Medioevo ellenico sotto l’impulso delle nuove tradizioni locali e storiche, che hanno dato luogo anche alla nascita di un’arte nuova, l’arte Geometrica. È quindi evidente come non si possa narrare la storia dell’epopea omerica senza avere precedentemente affrontato, dopo la storia dell’età micenea, anche la storia del Medioevo ellenico. Senonché, mentre per la storia dell’età micenea siamo relativamente bene informati, e dai ritrovamenti archeologici e dai testi in lineare B, lo stesso non si può dire per il Medioevo ellenico, per la cui epoca manchiamo di documenti scritti e gli stessi documenti archeologici rispondenti a tale età sono relativamente poveri. Se ignoriamo per il periodo del Medioevo ellenico gli aspetti della lingua e quelli politico-sociali ed economici, conosciamo però, anche se in maniera lacunosa, alcuni elementi

della cultura materiale, dei Realien di questo periodo, e solo sotto questo profilo possiamo istituire dei confronti tra mondo omerico e mondo del Medioevo ellenico. Per concludere, dobbiamo dire che i testi micenei confermano, per mezzo delle somiglianze tra lingua e mondo omerico e lingua e mondo miceneo, che la tradizione presente nei poemi omerici risale all’età micenea, e nello stesso tempo che nei poemi omerici appare una notevole stratificazione di elementi che appartengono ad epoche successive. Ma nulla ci dicono i testi micenei (e vano sarebbe forzarne il messaggio) circa l’esistenza, prima della nostra poesia omerica, di una poesia micenea. Non abbiamo nei testi micenei nessuna parola che designi il poeta o l’aedo. Quindi non possiamo dire quali forme assumesse l’ipotetica poesia micenea né quale rapporto poteva esistere tra essa e la successiva epopea greca.

TER SITE A LL’ASSEMBLEA. OR ATOR I A E DEM AGOGI A NELL’ILIADE 1  

Stefano Dentice di Accadia A mmone

N

el ii libro dell’Iliade, dopo che l’esercito acheo, accorso in massa verso le navi, è stato ricondotto in assemblea da Odisseo, Omero presenta una scena memorabile, destinata attraverso i secoli ad alimentare uno sterminato dibattito, non limitato, peraltro, all’ambito degli studi specialistici. Tutti i soldati sono finalmente seduti e composti in assemblea, uno soltanto, Tersite (2, 212-216), ... ajmetroeph;~ ejkolwv/a,

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o}~ e[pea fresi; h|/sin a[kosmav te pollav te h[/dh, mavy, ajta;r ouj kata; kovsmon, ejrizevmenai basileu`sin, ajll∆ o{ ti oiJ ei[saito geloivi>on ∆Argeivoisin e[mmenai: ai[scisto~ de; ajnh;r uJpo; “Ilion h\lqe.

Omero indugia nel descrivere la ripugnanza fisica di Tersite, che, unita all’importunità dei suoi interventi, ne fa un personaggio odioso a tutti gli Achei (Il. 2, 217-223) :  

folko;~ e[hn, cwlo;~ d∆ e{teron povda: tw; dev oiJ w[mw kurtwv, ejpi; sth`qo~ sunocwkovte: aujta;r u{perqe foxo;~ e[hn kefalhvn, yednh; d∆ ejpenhvnoqe lavcnh. e[cqisto~ d∆ ∆Acilh`i> mavlist∆ h\n h\d∆ ∆Odush`i>: tw; ga;r neikeiveske: tovt∆ ªau\t∆º ∆Agamevmnoni divw/ ojxeva keklhvgwn levg∆ ojneivdea: tw`/ d∆ a[r∆ ∆Acaioi; ejkpavglw~ kotevonto nemevsshqevn t∆ ejni; qumw`/.

Aveva le gambe storte, zoppo da un piede, le spalle ricurve, cadenti sul petto ; sopra le spalle, aveva la testa a pera, e ci crescevano radi i capelli. Odiosissimo, più d’ogni altro, era ad Achille ed Odisseo : perché spesso li svillaneggiava ; quel giorno al divino Agamennone, gracchiando acuto, diceva improperi : contro di lui gli Achei terribilmente sentivano rabbia e sdegno in cuor loro.  

… strepitava ancora, il parlatore petulante, che molti sciagurati discorsi nutriva nella sua mente, per disputare coi re a vuoto, fuor di proposito, pur che qualcosa stimasse argomento di riso per gli Argivi ; il più spregevole, fra tutti i venuti all’assedio di Troia. 2  









Già da questi versi è chiaro che ci troviamo di fronte ad un attaccabrighe, un oratore ajmetroephv~, ‘petulante’, ‘senza misura’, 3 che parla a sproposito, dicendo cose a[kosma, vale a dire ‘sconvenienti’, che risultano fastidiose e sgradite ai capi. Si dice inoltre che egli parla provocando il riso. Ma abbiamo a che fare con un oratore che calcola sapientemente gli effetti del suo discorso, che adotta, insomma, consapevolmente una ‘retorica del comico’, o soltanto con un personaggio ridicolo ? Il dilemma era già antico e si legava ad una questione sintattica : a seconda della punteggiatura dei vv. 215-216 (dopo ei[saito al v. 215 o dopo e[mmenai al v. 216, cfr. scolio A ai vv. 212-216), gli antichi davano due diverse interpretazioni, riportate da Eustazio : 4 1) ciò che Tersite intende dire seriamente risulta ridicolo per gli Argivi (o{per a]n aujtw`/ ei[saito h[goun dovxoi, ejkei`no geloi`on h\n toi`~ ∆Argeivoi~). 2) Tersite vuole deliberatamente (ejk pronoiva~ kai; eJkw;n kai; ejpithdev~) suscitare il riso. 5 Tra i moderni Spina 6 opta per la seconda interpretazione, rilevando come essa sia coerente con la descrizione assai negativa che il poeta fa del personaggio. La presentazione, in effetti, non finisce qui.

L’ambiguità del pronome dimostrativo al v. 222 (tw`,/ “contro di lui”), che potrebbe riferirsi tanto ad Agamennone quanto a Tersite, complica le cose. Nel primo caso (gli Achei sono in collera con il re) Tersite sfrutterebbe consapevolmente il malumore dell’esercito nei confronti di Agamennone ; nel secondo, invece (gli Achei odiano lui, Tersite), il suo intervento risulterebbe soltanto fastidioso. Anche per questo passo Spina propende per l’interpretazione negativa, e in effetti tutto lascia pensare che sia Tersite il soggetto tematico del discorso. 7 Il poeta sottolinea che egli è odioso ad Achille e Odisseo, bersagli abituali dei suoi insulti, e che ora però i suoi vituperi sono tutti per il re (vv. 221-222). Anche questo dato contribuisce a preparare il terreno perché il discorso di Tersite fallisca miseramente. 8 Se gli interpreti moderni propendono per un giudizio decisamente negativo di Tersite, 9 mi sembra che sussista una certa ambiguità tra comicità e ridicolaggine del personaggio, cifra che è stata colta nell’antichità da uno scoliasta al v. 212 : ... h[dh de; ouj Xenofavnei, ajll∆ ÔOmhvrw/ prwvtw/ silloi;

1  Il presente contributo fa parte del progetto di ricerca ‘Omero e i suoi oratori’ finanziato dalla Fondazione Alexander von Humboldt. 2  La traduzione italiana di questo e degli altri passi dell’Iliade è di Giovanni Cerri (Omero, Iliade, con un saggio di W. Schadewaldt. Introduzione e traduzione di G. Cerri, Commento di A. Gostoli, Milano 1996). 3  Si tratta di mancanza di misura nell’esercizio della parola (bene Jouanno 2005, 184). Non mi convince l’interpretazione di Martin 1989 (accolta da Kouklanakis 1999), secondo cui la mancanza di misura si potrebbe constatare concretamente nel discorso che di qui a poco Tersite terrà, ricco di sineresi e sinizesi che produrrebbero l’effetto di un oratore che ‘si mangia le parole’. Interessante, sebbene presentata a tratti in modo poco chiaro, l’ipotesi di Lowry 1991, secondo il quale il disordine non andrebbe riferito al modo di esprimersi, bensì all’effetto destabilizzante che provocherebbe il suo linguaggio offensivo, volto a ispirare vergogna in chi ascolta. La descrizione dei difetti oratorii ricorda quella che si legge nel Margite pseudoomerico (cfr. Rankin 1972, 44). 4  Ad Il. 205, 20-26 van der Valk. 5  Quest’ultima ipotesi era considerata più convincente dal grammatico

di età adrianea Nicanore (cfr. scolio A ai vv. 212-216). Questi versi furono commentati anche da Quintiliano, che scriveva (Inst. or. 11, 1, 37) : verba adversus Agamemnonem a Thersite habita ridentur ; la sua tesi corrisponde quindi alla prima delle due interpretazioni di Eustazio (le parole di Tersite sono ridicole e non spiritose), e a quella, mi sembra, di Porfirio, Zetemata apud scholium B 217. 6  2001, 29. 7  Così Latacz 2003. 8  Cfr. Gladstone 1858, 121. 9  Secondo Kouklanakis 1999 la reazione che provoca non è il riso, bensì la rabbia, per cui la presentazione del poeta sarebbe incoerente. Ridicolo appare secondo Courtieu 2007 chi si oppone ai valori dominanti con insolenza piuttosto che esercitando una critica moderata (come farà in più occasioni Polidamante con Ettore). Secondo Schmidt 2002, 134 Tersite non intende far ridere gli ascoltatori, bensì solo attaccare violentemente Agamennone e ciò andrebbe contro le aspettative del lettore. L’unico che, a quanto ne sappia, abbia colto l’intento umoristico di Tersite è Vodoklys 1992, 37-48. Zielin´ski 2004, 203-204 osserva l’ambivalenza del discorso, che può tanto far ridere quanto irritare.

























pepoivhntai, ejn oi|~ aujtovn te to;n Qersivthn sillaivnei kai; oJ Qersivth~ tou;~ ajrivstou~ ... b (BCE3E4) T (“non già da Se-

nofane, ma da Omero sono stati composti i primi silli, nei





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stefano dentice di accadia ammone

quali quegli schernisce Tersite e Tersite schernisce gli aristocratici”). Non è escluso che il rapsodo stesso oscilli emotivamente, producendo un’evidente tensione tra sarcasmo spiritoso e ridicolaggine di Tersite, tensione alla quale si può ricondurre la divisione ermeneutica in due fazioni della critica antica, che ora coglieva una cifra ora un’altra del personaggio. Le due interpretazioni mi sembra che coesistano senza escludersi a vicenda nell’analisi dello scoliasta, l’unico che abbia colto appieno l’ambiguità-conflitto interiore dell’epos aristocratico-popolare, e che abbia accostato il beffeggio del poeta a quello del suo personaggio. Omero ha inteso Tersite come attore e allo stesso tempo vittima dell’opera di derisione : egli, il demagogo che deride gli aristocratici e che a sua volta il poeta ‘aristocratico’ mette in ridicolo. 10  



Ora però è opportuno prendere in considerazione il discorso di Tersite (vv. 225-242) :  

∆Atrei?dh, tevo dh; au\t∆ ejpimevmfeai hjde; cativzei~ ; plei`aiv toi calkou` klisivai, pollai; de; gunai`ke~ eijsi;n ejni; klisivh/~ ejxaivretoi, a{~ toi ∆Acaioi; prwtivstw/ divdomen, eu\t∆ a]n ptoliveqron e{lwmen. h\ e[ti kai; crusou` ejpideuveai, o{n kev ti~ oi[sei 230 Trwvwn iJppodavmwn ejx ∆Ilivou ui|o~ a[poina, o{n ken ejgw; dhvsa~ ajgavgw h] a[llo~ ∆Acaiw`n, hje; gunai`ka nevhn, i{na mivsgeai ejn filovthti, h{n t∆aujto;~ ajponovsfi kativsceai; ouj me;n e[oiken ajrco;n ejovnta kakw`n ejpibaskevmen ui|a~ ∆Acaiw`n. 235 w\ pevpone~, kavk∆ ejlevgce∆, ∆Acaii?de~, oujkevt∆ ∆Acaioiv, oi[kadev per su;n nhusi; newvmeqa, tovnde d∆ ejw`men aujtou` ejni; Troivh/ gevra pessevmen, o[fra i[dhtai h[ rJav tiv oiJ chjmei`~ prosamuvnomen, h\e kai; oujkiv: o}~ kai; nu`n ∆Acilh`a, e{o mevg∆ ajmeivnona fw`ta, 240 hjtivmhsen: eJlw;n ga;r e[cei gevra~, aujto;~ ajpouvra~. ajlla; mavl∆ oujk ∆Acilh`i> covlo~ fresivn, ajlla; meqhvmwn: h\ ga;r a[n, ∆Atrei?dh, nu`n u{stata lwbhvsaio.

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Atride, di che ti lamenti ancora, che vai cercando ? Hai le tende piene di bronzo e molte donne ci stanno dentro, scelte, che a te noi Achei come a primo doniamo, quando espugniamo una rocca. Hai bisogno ancora di oro, che ti porti da Ilio 230 qualcuno dei Troiani domatori di cavalli, quale riscatto di un figlio fatto prigioniero da me o da un altro degli Achei, oppure di giovane donna, per mescolarti con lei in amore, da tenertela tu in privato ? No, non sta bene che essendo tu il capo trascini nei guai i figli degli Achei. 235 Compagni, gente da nulla, Achee, non più Achei, con le navi, almeno, facciamo ritorno a casa, e questo lasciamolo qui sotto Troia a digerire i suoi premi, in modo che veda se è vero o no che noi, un aiuto, glielo davamo ; lui che or ora Achille, uomo di molto migliore di lui, 240 ha disonorato : s’è preso e si tiene il suo premio, avendolo estorto ! Ma davvero ad Achille non bolle l’ira nel petto, lascia correre invece : se no, adesso, figlio di Atreo, era l’ultima volta che insolentivi !  













10  Qui riprendo le osservazioni già esposte nel mio contributo del 2006. 11  Un confronto puntuale è offerto già da Debenedetti 1901 (con particolare rilievo sulla comicità dell’intero episodio) e soprattutto da Freidenberg 1930, 243-244 ; più recentemente i discorsi di Tersite e Achille (come anche quello di Odisseo che qui segue e quello di Agamennone del i libro) sono stati confrontati sul piano sia strutturale sia tematico da Lohmann 1970, 174-178, che ne ha dedotto la volontà del poeta di richiamare alla memoria del suo pubblico l’assemblea del i libro. Con questa Erinnerungsfunktion L. ha creduto di poter confutare le ipotesi analitiche sulle fonti extrailiadiche  

La critica moderna ha spesso sottolineato come gli argomenti addotti da Tersite siano giusti e anzi ineccepibili : egli non farebbe altro che ripetere, del resto, le giuste rimostranze che Achille aveva fatto all’arrogante Agamennone, 11 che vuole tenere il bottino tutto per sé lasciando che siano gli altri a rischiare la vita in battaglia. Il suo discorso non è privo di una certa eujstociva, la capacità di colpire il bersaglio mettendone a nudo le colpe : Tersite stigmatizza l’avidità di Agamennone e il suo venir meno alle responsabilità di capo della spedizione, che dovrebbe innanzitutto avere a cuore la sorte dei propri uomini e invece pensa solo al proprio tornaconto. Non c’è dubbio, inoltre, che sia abile oratore e demagogo quando ripetutamente usa il ‘noi’ per presentarsi come portavoce della massa (ciò – si badi – non significa però che egli sia percepito come tale dai soldati, ma soltanto che usa una tecnica retorica). La sua invettiva è un “ingenious piece of rhetoric”, 12 “an impassioned and skilful speech”, 13 nel quale abilmente sconfessa l’autorità di Agamennone, ribaltando il legame implicito che sussiste tra obbedienza al capo e onore che ne deriva : gli Achei obbediscono al loro re, ma, poiché questi è moralmente indegno di ricoprire quel ruolo, essi non sono più Achei, ma ‘Achee’, ragazzine che hanno paura di contrariare il padrone, dal quale prendono ordini con servile e ottusa ubbidienza. A dispetto della presentazione negativa che il poeta aveva fatto dell’oratoria di Tersite, che contravverrebbe ad un principio, per così dire, di ‘gradevolezza’, il discorso è per certi versi “ein Meisterstück der Demagogie”. 14 Esso, in barba alle attese suscitate da chi narra, presenta, infatti, una struttura argomentativa ben precisa e per così dire ‘ragionata’ : 15 • Agamennone possiede già tutto (vv. 225-228), eppure vuole ancora di più, perché è di un’avidità insaziabile (vv. 229-233) ; • Agamennone è venuto meno ai suoi doveri di capo (vv. 233-234) ; • gli Achei sono delle femminucce, perché hanno già sopportato troppo a lungo senza reagire (vv. 235-238) ; • anche Achille è un debole, perché non ha reagito alle angherie di Agamennone come si conviene ad un eroe del suo calibro (vv. 239-242).  



Il discorso è ‘obliquo’, perché, pur rivolgendosi formalmente al re, chi lo pronuncia intende incitare un terzo soggetto, le truppe, a reagire fuggendo. Come per altri discorsi parenetici dell’Iliade, vi si può riconoscere una chiara struttura articolata in un appello, una critica, e infine una sezione propositiva, con la particolarità, però, che la sua cifra dominante è l’invettiva : Tersite sa bene come ridurre alle sfere più ‘basse’ del danaro e del sesso un elemento cardine dell’ideologia aristocratico-guerriera : la sottrazione al nemico del bottino di guerra. Al re interessa il bronzo perché vale e non perché è segno tangibile del valore mostrato sul campo, e vuole le schiave per portarsele a letto e soddisfare i propri appetiti sessuali. Un discorso parenetico,  



presupposte dall’episodio di Tersite, che, diversamente, sarebbe un’inventio ad hoc del poeta. Per Di Benedetto 1998, 352 n. 3, Tersite “si presenta come più achilleico di Achille stesso”. 12  Kirk 1985, 140. 13  McGlew 1989, 291. 14  Così Olshausen 1983. 15  Koster 1980, 46-48 ha osservato nella rampogna di Tersite l’assenza di vituperi rivolti direttamente ad Agamennone. Nel i libro il re era rimasto impassibile dinanzi alle offese di Achille, per cui Tersite deve muoversi ora su un piano razionale, cercando di colpire Agamennone nel suo ruolo di capo, tanto che il suo discorso è – così Koster – “ein Musterbeispiel einer … nicht affektisch motivierten Schmähung”.

oratoria e demagogia nell ’ iliade 17 e non ti spedisco piangente alle navi veloci dunque, ma alla rovescia : 16 “fuggite”, strepita Tersite dopo dall’assemblea sbattendoti fuori, con botte umilianti ! un’esposizione non priva di linearità. Un’orazione, insomma, per certi aspetti ben formulata, che sembra non avere La minaccia di botte pronunciata da Odisseo e il fatto che nulla da invidiare alle performances oratorie di altri persodi qui a poco essa sarà messa in pratica non devono far tranaggi omerici. scurare l’argomentazione dell’eroe, che risponde, seppure Eppure Tersite fallisce : Odisseo lo bastona davanti ai solin ordine inverso, ai punti dell’arringa di Tersite : prima redati, che se la ridono di gusto, plaudendo all’eroe, che, se plica all’appello a tornare in patria, facendo presente che tante belle azioni ha compiuto fino a quel momento, ora, non è detto che il ritorno sia privo di pericoli e quindi somalmenando quel “chiacchierone arrogante”, 17 ha superaluzione più vantaggiosa rispetto alla continuazione della to se stesso. 18 guerra, e poi prende posizione sull’argomento della preOdisseo è abile a indovinare il gusto della massa, che si sunta avidità di Agamennone. Tersite muoverebbe questa gode lo spettacolo dello storpio insolente messo in riga. 19 accusa perché spinto dall’invidia : quanto desidererebbe È abile nel non nominare Agamennone, che non gode il che gli Achei coprissero ‘lui’ di doni come fanno con il favore degli Achei, né Achille, che, da quando si è ritirato re ! Odisseo pronuncia un discorso magistrale, mettendo a dalla battaglia, con il suo comportamento potrebbe suggenudo la codardia e l’invidia di Tersite, pronunciando giurire ai soldati che sì, se si vuole, è possibile ammutinarsi, ramenti 24 e minacce di grande impatto emotivo, ma non lasciando il re solo con la sua guerra e il suo oro. 20 per questo rinunciando ad un’argomentazione razionale. C’è chi ha scritto che le percosse a Tersite sarebbero la Ad ogni modo l’abilità della replica di Odisseo non basta prova più evidente che i suoi argomenti sono talmente vada sola a giustificare il fallimento della retorica di Tersite. lidi da non poter essere confutati con un’argomentazione Gli errori dell’oratore sono molti : innanzitutto se Achille razionale : Odisseo ricorrerebbe alla violenza perché non aveva parlato per sé, Tersite, demagogicamente, crede di saprebbe contraddire il suo avversario. 21 D’altra parte, pepoter parlare a nome dell’intero esercito, di cui si autoderò, in qualche caso sono questi stessi interpreti a considesigna portavoce. 25 Egli ha intuito bene la vera intenzione rare la possibilità che Odisseo, nel suo orgoglio di basidi Agamennone, che, proponendo il ritiro, in realtà intenleuv~, ritenga che non valga nemmeno la pena di discutere deva saggiare l’umore della massa ed eccitarne l’orgoglio con un plebeo come Tersite. 22 In realtà, se leggiamo la reguerriero, 26 ma interviene quando è già troppo tardi. plica di Odisseo, notiamo che egli non si sottrae ad una L’esercito è stato già ricondotto in assemblea da Odisseo : demolizione degli argomenti di chi lo ha preceduto 23 (2, la sua Umstimmung, sebbene non ancora definitivamente 246-264) : compiuta, ha già cominciato un irreversibile cammino. Tersite parla ad un esercito il cui sentimento è già mutato, Tersite, consigliere scriteriato (ajkritovmuqe), anche se sei ed ecco che resta isolato, l’unico che ancora ragli di voler oratore eloquente (liguv~ per ejw;n ajgorhthv~), tornare a casa. Cerca di approfittare della situazione – la smettila e non voler da solo disputare coi re : non penso infatti che uomo peggiore di te reputazione di Agamennone non è ancora definitivamenci sia, fra quanti con gli Atridi son venuti all’assedio di Troia. te ristabilita e quella di Achille è integra – ma non sa farlo, 250 Perciò non dovresti parlare avendo i re sulla bocca, se è vero che schiamazza contro tutto e tutti. A prima vista e rivolgere loro improperi, ed agognare il ritorno. sembrerebbe che egli voglia presentarsi come avvocato di Del resto, nemmeno sappiamo come andranno le cose, Achille, difenderne le ragioni, ma poi, a ben vedere, anse bene o male faremo ritorno, noi figli degli Achei. che il Pelide è bersaglio delle sue accuse, e questo perché Per questo ora Agamennone Atride, pastore di popoli, Tersite parla per sé, dà voce alla propria codardia. Non ve255 stai ad offendere, perché moltissimi doni gli fanno do, pertanto, alcun progetto politico o rivoluzionario ad gli eroi Danai : e tu parli insultando. ispirare il suo intervento, come pure vuole un’inveterata Ma io te lo dico, e questo avrà compimento : lettura in chiave marxista dell’episodio. Incitando i Greci se mai più ad impazzare ti colga, così come or ora, a prendere atto dei propri meriti e di quanto indispensabinon stia più sulle spalle ad Odisseo la testa, le sia il loro ruolo per la guerra di Agamennone, l’orato260 non più padre di Telemaco possa essere io detto, re intende alimentare sì la loro nostalgia del ritorno, ma se non ti prendo e non ti tolgo il vestito, mantello e chitone, che le vergogne ti copre, non per questo lo si può definire “a skilled politician” : 27  

























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16  “An upside-down paraenetic speech” (McGlew 1989, 291). 17  Cfr. v. 275. 18  Cfr. vv. 270-277. Il v. 270 [oiJ de; kai; ajcnuvmenoiv per ejp∆ aujtw`/ hJdu; gevlassan (“e gli altri, pur dispiaciuti, ne risero di cuore”)] è ancora oggi oggetto di un vivo dibattito relativamente al peso e al significato da attribuire al dispiacere dei soldati. L’a[co~ che provano per Tersite indicherebbe secondo Rose 1988 che essi sono dispiaciuti che il suo intervento non sia andato a buon fine, perché consci di quanto valga quella libertà di espressione ora mortificata dalle botte di Odisseo. In termini simili si esprime Rankin 1972 (43 n. 25), che aggiunge che i soldati sarebbero delusi per essere stati frenati nella corsa alle navi. Più equilibrato Latacz 2003, 85, che esclude sia che gli Achei siano dispiaciuti per le botte inferte a Tersite sia che lo siano per il mancato ritorno in patria : essi sarebbero amareggiati per l’insieme degli ultimi avvenimenti : “die gestauten Emotionen entladen sich dann aus konkretem Anlaß in der Schadenfreude über Thersites”. Forse la spiegazione è ancora più semplice : la pena dei soldati potrebbe essere la naturale e umana reazione, naturale quanto il riso, dinanzi ad una persona che viene picchiata. Tenderei, insomma, a non caricare di significati eccessivi questo inciso. Quanto alle interpretazioni che sono state date del riso dei soldati cfr. infra, n. 63.  







19  Quella di Odisseo è con le parole di Kouklanakis 1999, 48 “streetwisdom”. 20  Cfr. Seibel 1995. 21  Cfr. Rankin 1972, 44, Kouklanakis 1999, 44, Schmidt 2002, 140-141 ; ma già nell’antichità cfr. Libanio, Encomio di Tersite. 22  Cfr. Rankin 1972. Le botte equivalgono ad un argomento retorico secondo Olshausen 1983, 232. 23  Cfr. Latacz 2003. 24  Si noti l’efficacia dei vv. 259-260. 25  Cfr. Martin 1989 e Kouklanakis 1999, 48-49. 26  Tersite ha giustamente letto nel passaggio dello scettro dal re a Odisseo (cfr. v. 186) che il vero obiettivo del primo era evitare la fuga dell’esercito (così Theiler 1954 e Katzung 1959 ; diversamente Mazon 1948, cfr. infra, n. 51). Dal canto mio aggiungo che Tersite sembra svolgere il ruolo di chi ha scoperto che il discorso di ‘prova’ di Agamennone era ‘figurato’ (ejschmatismevno~) e cerca a sua volta di ingannare colui che lo ha pronunciato (al riguardo cfr. P. ejsc. A 56, 23 ss. e P. ejsc. B 90, 26 ss. Dentice di Accadia 2010a), facendo (o, meglio, invitando a fare) proprio quello che il re non vuole, ma che finge di perseguire. 27  Cfr. Rankin 1972, 54.  



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stefano dentice di accadia ammone

è solo un codardo con qualche capacità oratoria, ma nulla di più. 28 Il giudizio più calzante sul personaggio lo dà proprio Odisseo chiamandolo al v. 246 ajkritovmuqo~ (“consigliere scriteriato”). L’attributo è così parafrasato da Eustazio (213, 23 ss. van der Valk) : “Esti de; ajkritovmuqo~ h] oJ poluvlogo~ ... h] oJ ajdieukrivnhto~ ejn tw`/ levgein kai; a[kosmo~ (“ ‘scriteriato’ significa ‘ciarliero’ … ovvero ‘confuso e disordinato nel parlare’”). Se poi si leggono le spiegazioni degli scoliasti, 29 comprendiamo che Tersite parla a ruota libera, senza discernimento, lanciando invettive oltre il limite della decenza e del ragionevole. 30 Ma se questo limite viene valicato da Tersite, significa che esso sia stato superato a maggior ragione già da Achille, che tutto sommato si era mostrato ancora più duro nei confronti del re ? Non proprio : le accuse, se provengono da Achille, non sono mai insulsi vituperi, bensì legittima espressione di orgoglio ferito. Tersite, invece, non ha ragione di essere orgoglioso : si vanta di aver compiuto imprese grandiose a Troia, osa mettersi sullo stesso piano del Pelide, ma né ha la sua statura morale né è stato protagonista di gesta eroiche di cui andar fiero. E proprio lui osa chiamare ‘femminucce’ i compagni, lui che, storpio e ributtante, è piuttosto un peso per la comunità ? Dopo aver letto il suo discorso, dovrebbe apparire chiaro perché il poeta ha presentato Tersite come un personaggio comico/ridicolo e soprattutto senza misura (ajmetroephv~) : egli è eccessivo nel biasimare, e, inoltre, ascrivendosi meriti che non ha, si rende ridicolo. Un commento pregnante è offerto a mio avviso già nell’antichità nel Peri; lovgwn ejxetavsew~ attribuito a Dionigi di Alicarnasso, 31 dove ci si interroga sullo scopo che il poeta persegue attraverso le parole e la personalità del suo personaggio. 32 L’esegeta individuava bene quanto viene oggi spesso evidenziato dalla critica, cioè che gli argomenti impiegati da Tersite sono di

per sé validi, in quanto coincidono con le ragioni di Achille, ma che il poeta ha voluto indebolire quest’ultime, facendole perorare da un personaggio ridicolo e odioso, che inevitabilmente finirà con l’attirare l’attenzione del pubblico non sui contenuti del discorso, ma sulla ridicolaggine della propria persona. 33 Se si eliminano dall’orazione di Tersite tutte quelle espressioni nelle quali l’oratore fa mostra di vanagloria (cfr. vv. 231 e 238), rendendosi ridicolo, 34 avremmo, secondo lo Pseudo-Dionigi, il discorso che Nestore 35 aveva rivolto ad Agamennone nel i libro, quando lo aveva esortato a lasciare Briseide ad Achille. All’esegeta antico sta a cuore dimostrare che da Omero si apprende la seguente lezione : l’oratore che pecchi di perittovth~, che sia, cioè, sovrabbondante nel parlare, finisce col vanificare la sua stessa abilità retorica. 36 Ci vuole misura (mevtron, cfr. 384, 19 Us.-Rad.), ammonisce lo Ps.-Dionigi, e Tersite è per eccellenza oratore smisurato, dunque è tanto antieroe quanto antioratore. 37 La sua parola, pur provvista di una certa abilità demagogica, è l’esatto opposto della retorica conciliante ed equilibrata di Nestore, che consigliava per il bene comune sulla base dell’autorità conferitagli dalle gesta compiute in gioventù. 38 Solo apparentemente difficile risulta ora spiegarsi il significato dell’epiteto ligu;~ ajgorhthv~ “oratore eloquente”, attribuito da Odisseo a Tersite, epiteto che richiama alla mente il Nestore del i libro. 39 Eustazio riporta tre interpretazioni : 40

28  Bene Lämmli 1948. 29  Interessanti le osservazioni al v. 246 : sch. Ab (BCE3E4) T ajkritovmuqe:

36  384, 1-3 Us.-Rad. w{ste h[dh mavqhma manqavnomen mevga kai; lamprovn, mh; ejn tw`/ plhvqei tw`n legomevnwn hJgei`sqai th;n ajreth;n th`~ rJhtorikh`~.













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meta; eijrwneiva~, wJ~ kai; to; liguv~. oiJ de; ajkritovmuqe ajnti; tou` ajmetroepev~, pro;~ katavgnwsin tw`n eijrhmevnwn ; sch. Ge (ex h ?) h] ejn tw`/ levgein a[kran mh; e[cwn h] oJ kovron muvqou fevrwn mhdovlw~ ; Hesych. (a 2585) polla; kai; ajdiavstola kai; ajdiacwvrista levgwn, o{ ejsti sugkecumevna kai; ajdiavtakta, h] ajdianovhta kai; a[loga: krithvrion ãga;rà tw`n fronivmwn oJ logismov~, tw`n de; ajfrovnwn to; pavqo~, a[logon kaq∆ eJautov. 30  Bene Jouanno 2005, 184 : Tersite commette peccato di u{bri~, perché agisce in barba ad ogni regola di decenza (prevpon). Di iato tra forma srego 







lata e contenuto sensato e giusto del discorso parla Courtieu 2007. 31  In part. 382, 15-384, 3 Us.-Rad. 32  Avevo già preso in considerazione questo passo nel mio precedente contributo su Tersite (Dentice di Accadia 2006), ma i punti che allora consideravo oscuri e rinunciavo a spiegare (cfr. 19 n. 24) credo di averli compresi ora ad una lettura più attenta. 33  383, 7 ss. Us.-Rad. ejpeidh; ga;r eJwvra to; stratovpedon ajganaktou`nta~ uJpe;r ∆Acillevw~ pro;~ ∆Agamevmnona, kai; dia; tou`to ouj proquvmw~ e[conta~ summacei`n, ajll∆ ajpallaktikw`~ ejpi; tw`n patrivdwn, hjqevlhsen lu`sai ta; uJpe;r ∆Acillevw~ divkaia. ajnevsthsen ou\n aujtw`/ sunhvgoron ejpivfqonon, geloi`on, i{n∆ ejn th/` tou` sunhgovrou kakiva/ ajfanisqh/` to; divkaion tou` pravgmato~.

34  Dagli scolii A ai vv. 226 e 231-234 emerge che Zenodoto atetizzava proprio quei versi che mostravano chiaramente la ridicolaggine di Tersite. Lo scolio b(BCE3) al v. 231 e quello Ab(BCE3) T al v. 235 spiegano che la ridicolaggine è prodotta dal fatto che proprio Tersite, spregevole nel corpo e nell’indole, si antepone agli altri eroi di gran lunga più valorosi di lui. L’episodio di Tersite è citato anche nel De Homero pseudo-plutarcheo (2, 214) quale esempio di scena spiritosa che testimonia il fatto che l’opera di Omero può essere a ragione considerata ajformhv del genere della Commedia. Secondo Hintenlang 1961, 130 la citazione nel De Homero basterebbe da sola a respingere l’atetesi zenodotea. 35  Interessante osservare che tra i moderni solo Schmidt 2002, 137 fa il medesimo paragone tra le critiche mosse da Tersite e quelle di Nestore. Non fa però riferimento al passo pseudo-dionisiano.





















To; dev “ligu;~ ei\nai ajgorhthv~” h] eijrwnikw`~ ei[rhtai h] wJ~ kai; ojxeva keklhgovto~ tou` Qersivtou, kaqa; proeivrhtai ... “Allw~ dev ge oujk ejpivyogon to; liguv, ei[ge kai; oJ gevrwn Nevstwr ligu;~ Pulivwn ejrrevqh ajgorhthv~.

L’espressione “essere un eloquente oratore” 1) o è detta ironicamente, 2) o perché Tersite ha gracchiato acuto, secondo quanto è detto prima… 41 3) Secondo un’altra linea interpretativa, qui il termine ‘eloquente’ non avrebbe valore spregiativo, se è vero che anche il vecchio Nestore era stato chiamato “eloquente oratore dei Pili”.  

37  Cfr. Barck 1976, che rimanda giustamente ai vv. 201-202, dove si dice espressamente che Tersite non è tenuto in alcuna considerazione né in guerra né in assemblea. Per il binomio antieroe-antioratore cfr. TorresGuerra 1998. 38  Eustath. 900, 2 ss. van der Valk proponeva un raffronto tra Tersite e Polidamante : anche quest’ultimo appare come uno della massa (o almeno così si presenta), è critico nei confronti dell’autorità, ma, a differenza di Tersite, in Il. 12, 211 ss. nel criticare Ettore impiega lo strumento dell’adulazione e toni moderati. Così anche a 13, 725 ss. (cfr. Eustath. 956, 28 ss. van der Valk) Polidamante abilmente adula Ettore utilizzando una serie di epiteti elogiativi, e allo stesso tempo lo critica per la sua audacia, indicandola come causa del fatto che egli non presta mai ascolto a chi gli dà un buon consiglio. Eustazio scrive che Polidamante mescola qui glukuvth~ e tracuvth~ “alla maniera degli oratori” (rJhtorikw`~). Inoltre il commentatore nota l’esitazione con cui egli formula la propria proposta, esitazione causata dal riguardo che ha per il rango del capo, tanto che cerca di indorare la pillola amara spiegando, prima ancora di presentare la proposta, i vantaggi che essa comporterebbe. Eustazio riflette sull’etichetta oratoria necessaria tra due persone di rango diverso, osservando che un subordinato non dovrebbe prendersi la libertà di criticare un comandante (e cita il caso di Odisseo che bastona Tersite) ; viceversa, tra i principi achei è ammissibile che Diomede (cfr. 9, 32) o Odisseo (cfr. 14, 83) parlino in maniera franca con Agamennone. Per un raffronto moderno tra Tersite e Polidamante cfr. Courtieu 2007. 39 Cfr. Il. 1, 248. 40  213, 33 ss. van der Valk. 41  2, 222 : ojxeva keklhvgwn levg∆ ojneivdea (“gracchiando acuto, diceva improperi”). Eustazio (208, 21-26 van der Valk) commenta il verso notando, tra l’altro, che Omero ha descritto la voce di Tersite mh; barei`an ou\san kai; hJrwi>khvn, ajlla; ojxei`an, oJpoiva hJ tw`n paivdwn h] tw`n gunaikw`n (“non profonda e confacente ad un eroe, ma acuta quale quella dei ragazzini e delle donne”). Cfr. Spina 2001, 28.  





oratoria e demagogia nell ’ iliade 19 voluto dare di Tersite : sul piano morale (cui va legata quella sul piano fisico ; la bruttezza esteriore è espressioLe prime due interpretazioni sono affini : sia che si legga ne di quella interiore) e sul piano strettamente tecnicoliguv~ come “eloquente”, in senso però antifrastico, sia che oratorio. si intenda “oratore sonoro” nel senso di “rumoroso”, il giudizio è negativo. Quanto alla terza interpretazione, positiva, essa è oggi adottata da una rispettabile minoranza di Sintesi e conclusioni studiosi quali Olshausen 1983, Martin 1989, Vodoklys 1992 e L’episodio di Tersite è stato ed è tuttora oggetto di un nuStuurman 2004, che ritengono che Odisseo, suo malgrado, mero sterminato di interpretazioni, che, non senza le forsia costretto ad ammettere la bravura del suo avversario. zature proprie di ogni schematizzazione, possono riconDal canto mio propendo per l’accezione spregiativa, andursi a cinque principali approcci. che sulla base del fatto che prima nel testo si diceva che Tersite era stato più volte protagonista di interventi chias1) Una lettura per così dire ‘storica’ ha preteso di trososi in assemblea. 42 Il discorso che leggiamo nel ii libro, vare riflesse nell’episodio realtà sociali e politiche di pur presentando elementi interessanti, è smisurato e per una determinata epoca, con procedimenti e presunti così dire ‘urlato’, pieno di insulti pronunciati da chi non risultati a mio avviso arbitrari. 48 può permettersi alcuna critica. 43 2) Un approccio letterario, che, al di là di certe letture Se poi ai termini ajmetroephv~, ajkritovmuqo~ e liguv~ agimpressionistiche, 49 ha prodotto risultati interessanti. giungiamo la descrizione del ributtante aspetto esteriore Penso al lavoro di Nagy 1979, che vide rappresentacontenuta ai vv. 217-219 e le altre connotazioni negative cirta in Tersite la funzione della poesia di biasimo, che ca il suo modo di parlare, 44 il quadro appare chiaro : Tersisarebbe istituzionalmente fuori luogo in un poema te rappresenta, lo ripeto, l’antioratore per eccellenza, colui epico. 50 che fa della parola non un mezzo per conciliare come Ne3) Approccio analitico e neoanalitico, che ha condotto store, ma uno strumento di provocazione e offesa, volto ad una ricerca estenuante dei presunti modelli dai soltanto ad inasprire ulteriormente gli animi e creare diquali proverrebbe l’episodio. 51 sordine. 45 Questa lettura trova conferma in un passo tratto 4) Un fortunato approccio politico, alla luce del quale dal Comm. Rhet. Hermog. (ÔUpovmnhma eij~ th;n ÔErmogevnou~ l’episodio è stato visto alternativamente o come ritevcnhn) di Sopatro : 46 affermazione dell’ideologia aristocratica del poeta e oi\den de; th;n ajtaxivan th`~ dhmagwgiva~ kai; tou;~ ajdiakrivtw~ kai; del suo pubblico (un esempio in Atchity 1978) 52 o, ajtecnw`~ levgonta~, oJpoi`oiv potev eijsin, w{sper to;n Qersivthn: ’O~ sotto la guida delle categorie culturali del marxismo, e[pea fresi;n h|/sin a[kosmav te pollav te h[/dh. come prova della presenza nel poema di una coscien(Omero) conosce il disordine della demagogia e chi sono coloro za, seppure embrionale, del problema dello sfruttache parlano in maniera confusa e rozza, come Tersite : “che molti mento della massa ad opera dei capi. L’intervento sciagurati discorsi nutriva nella sua mente”. 47 di Tersite, si è detto, dimostrerebbe che nell’assemblea achea esiste un’incipiente libertà di dibattito, 53 Con gli avverbi ajdiakrivtw~ e ajtecnw`~ Sopatro coglie a di ijshgoriva (uguale diritto di parola in assemblea) 54 pieno la duplice connotazione negativa che Omero ha  

















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42  Bene Lohmann 1970 e Latacz 2003. 43  Vodoklys 1992, 41 ha messo in luce come Tersite non tenga conto della differenza di rango che lo separa da chi sta offendendo. L’eccesso non è allora soltanto nei contenuti, ma anche e soprattutto nella sproporzione tra invettiva e rango sociale. La critica diventa quindi nient’altro che sfacciata, insopportabile insolenza. Tersite non è in grado di pronunciare una critica velata, ‘figurata’ e quindi sicura, così Ahl 1984, 175 e nell’antichità cfr. quanto scriveva lo Ps.-Dionigi di Alicarnasso a proposito della necessità di adottare tatto (eujprevpeia) quando si biasima una persona di rango superiore (Peri; ejsc. A 54, 11-18 Dentice di Accadia 2010a). 44  L’espressione ojxeva keklhvgwn (v. 222, cfr. supra) trova un equivalente in makra; bow`n del v. 224. 45  Tersite critica non per risolvere un problema o correggere un comportamento che danneggi la comunità, bensì per il gusto di criticare. Il suo è un “non-corrective goading” (Vodoklys 1992, 43-44). 46  Rhet. Gr. v 6, 8-11 Walz. 47  Il. 2, 213. 48  Cfr. Grote 1869 e Mahaffi 1890, 13, che parla addirittura di un Tersite personaggio storico, che avrebbe saputo argomentare meglio di quanto non faccia il personaggio omerico. Altrettanto arbitraria è la ricostruzione storica tentata prima da Ebert 1969 e poi da Rankin 1972, 51 ss., che videro nell’episodio il riflesso delle tensioni tra diversi gruppi sociali in età micenea e in età arcaica. Questa lettura è giustamente respinta da Postlewaithe 1988, 84, che sottolinea come l’unica realtà di cui disponiamo sia il testo. 49  Penso a Bowra 1930. 50  Il discorso di Nagy è stato sviluppato recentemente da Zielin´ski 2004 e Jouanno 2005, che hanno ribadito come la critica ad Agamennone sia eccessiva, petulante e travalichi i limiti del biasimo accettabili nella poesia epica. Tersite sarebbe allora prototipo del poeta giambico, con il quale condividerebbe l’impiego schematico e convenzionale della retorica del biasimo, la loquacità senza freni, la bruttezza fisica e la conseguente spregevolezza. 51  Kullmann 1955 ha considerato l’episodio estraneo al contesto originario del poema, sulla base del fatto che Tersite non menziona la ‘prova’ e inoltre attacca Agamennone, che aveva proposto la fuga, anziché Odisseo,

che di fatto l’aveva sventata. In termini simili ragiona anche Mazon 1948, 167, che esclude che Tersite abbia capito la vera intenzione di Agamennone. Questa linea interpretativa è stata ripresa di recente da Zielin´ski 2004. Contro l’approccio analitico bene Olshausen 1983 (230 n. 4), che rileva la necessità di esaminare l’episodio quale parte integrante del libro ii così come ci è stato tramandato. 52  Più articolata la tesi di Schmidt 2002, secondo il quale Omero vorrebbe segnalare agli aristocratici le rovinose conseguenze del comportamento di Agamennone, che ha messo a rischio lo status quo sia oltraggiando Achille, sia mettendo alla prova i soldati, e ha prestato il fianco a un essere insignificante e ignobile quale Tersite, che stava per mandare a monte l’intera impresa a Troia. Questa lettura presuppone il fallimento dell’orazione di ‘Prova’, per la quale rinvio al mio articolo (Dentice di Accadia 2010b). 53  Per quest’ultima osservazione cfr. Gladstone 1858, 125. Per la lettura marxista cfr. soprattutto Feldman 1947 e Rose 1988. Quest’ultimo, cercando di evitare estremismi, suggerisce che la società destinataria del poema fosse più eterogenea di quanto si pensi e che il poeta non parlasse ai soli aristocratici, bensì ad un “mixed audience” (15). Tersite lancerebbe un messaggio politico ancora troppo “progressista” per la società cui esso è indirizzato. Per Olshausen 1983 egli è un sovversivo che tenta il colpo di stato, ma non per assumere personalmente il potere, bensì per spostarne l’asse da Agamennone ad Achille ; non metterebbe quindi in dubbio il potere aristocratico, ma vorrebbe che esso sia esercitato nell’interesse di tutta la comunità. Il suo sarebbe insomma un piano ben pensato, rivoluzionario (ma non troppo) : non semplice ammutinamento, ma redistribuzione del potere. Dall’analisi da me condotta è chiaro che la mia posizione è lontana da quella di Olshausen : Tersite cerca la fuga nel momento in cui la massa non la desidera più. Si tratta, insomma, di un tentativo isolato e disperato, non di sovversione, ma di semplice fuga. Non è d’accordo con Olshausen neanche Schmidt 2002, che rimanda al quadro delineato da Omero ai vv. 212-220. 54  Così Hölkeskamp 2000. Diversamente Ruzé 1997, 52-55 non crede all’ijshgoriva omerica : al contrario Tersite oserebbe superare la linea di demarcazione tracciata tra degni e indegni a parlare e viene perciò giusta 







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stefano dentice di accadia ammone o addirittura l’emergere della nozione di uguaglianza. 55 5) Un approccio che potremmo definire ‘werkimmanent’ o ‘testuale’ ha inteso mettere in risalto la funzione dell’episodio all’interno degli eventi narrati nel ii libro. Tersite fungerebbe da capro espiatorio delle tensioni accumulate dall’esercito : egli, con la sua ingombrante presenza, gli insulti e la meritata punizione che riceve, diverrebbe vittima del processo comico, esercitando un effetto catartico sui soldati, che prendono le distanze da un personaggio odioso, lasciando perdere qualsiasi velleità di defezione. 56 Questo approccio ha l’innegabile merito di considerare l’episodio in relazione al contesto in cui è narrato ; di esso si trova traccia anche nei commenti antichi, se è vero che lo Pseudo-Dionigi di Alicarnasso scriveva che il riso fiacca nei soldati la voglia di fare ritorno in patria. 57 Tuttavia parlare di un capro espiatorio mi sembra eccessivo. Più semplicemente ritengo che il poeta abbia inteso rappresentare il tipo umano del codardo, destinato nel contesto eroico del poema ad essere zittito.  







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A questi approcci principali va aggiunta la lettura, a mio avviso poco convincente, di Seibel 1995, che definirei ‘politico-psicologica’ : secondo la studiosa Tersite sarebbe l’alter ego di Odisseo ; egli direbbe, cioè, ciò che Odisseo pensa ma non osa dire ; sarebbe la sua innere Stimme. Odisseo avrebbe un ‘lato tersitico’ dal quale però non si lascerebbe dominare, restando fedele al proprio ruolo di rappresentante di Agamennone. Entrambi i personaggi sarebbero demagoghi concorrenti che cercano di accattivarsi la massa, dando a vedere che vogliono preservarla da mali incombenti. Tersite però fallisce, perché passerebbe troppo repentinamente dall’adulazione alla critica della massa, mentre Odisseo sarebbe più equilibrato e mai provocatorio. Merito della Seibel resta quello di aver confrontato tra loro due tecniche persuasive. 58  







mente picchiato. Il principio di autorità è determinante nella società omerica. Da questa considerazione R. crede con un automatismo che non mi convince di poter ricavare conferma della sua tesi che nei poemi omerici non sia possibile parlare di veri e propri dibattiti assembleari. 55  Così Stuurman 2004, 173 : “By giving a commoner a fairly good speech Homer seems to indicate that the ordinary warriors count for something too”. Addirittura il poeta trascenderebbe per un attimo il codice eroico, mostrando di conoscere la possibilità che un sistema aristocratico si incrini. Tale incrinatura sarebbe temuta dal poeta, ma non per questo egli non la rappresenterebbe, tanto che “in the end aristocratic rule emerge victorious but not unscathed” (187). Prima di Stuurman cfr. Morris 1996 e Raaflaub 1996. 56  Già Usener 1897 e Murray 1934 vedevano in lui espresso il ruolo del farmakovn rituale ; Usener suggeriva di indagare l’Hintergrund dell’episodio, per individuare un pattern rituale sacrificale. Secondo Thalmann 1988, tuttavia, la funzione di capro espiatorio è ricavabile già solo limitandosi al contesto dell’Iliade : sin dal principio il poema ha raccontato una serie di ‘violenze’ (la peste, l’arroganza di Agamennone, il ritiro di Achille). Con le percosse a Tersite il ciclo di violenze interne al campo acheo si esaurirebbe, e la violenza potrebbe finalmente indirizzarsi nuovamente contro il nemico esterno. Cfr. anche Geddes 1984, Jouanno 2005 e Courtieu 2007, 13. 57  P. lovg. ejxet. 383, 21 ss. Us.-Rad. eij mh; geloi`o~ h\n ou|to~ kai; a[xio~ miv 





sou~, h\n ijscura; ta; legovmena uJpe;r ∆Acillevw~. dia; tou`to kai; gevlw~ toi`~ ”Ellhsi givnetai, kai; ejk tou` gevlwto~ diavlusi~ th`~ spoudh`~ th`~ eij~ ta;~ patrivda~.

Cfr. anche lo scolio al v. 212. 58  Un’altra tesi della Seibel, più suggestiva, ma fondata su una lettura a mio avviso eccessivamente politica dell’episodio, è quella con cui cerca di spiegare il fallimento di Tersite, il quale pretenderebbe dai soldati che prendano l’iniziativa della rivolta, che agiscano per sé, mentre Odisseo offrirebbe loro la figura rassicurante del capo che li guida e sceglie al posto loro. 59  Sull’inopportunità di una lettura esclusivamente politica cfr. Calhoun 1934.

Dal canto mio, più che insistere sul significato politico 59 dell’episodio, pure presente, mi interessa capire se il discorso di Tersite possa essere considerato un brillante pezzo di retorica. La presentazione del personaggio e del suo modo di esprimersi da parte del poeta è solo in parte in contrasto con il discorso vero e proprio, in cui è pur vero che l’abilità argomentativa e la logica interna non mancano. Ma l’episodio, che va visto nella sua interezza, senza prescindere dalla reazione di Odisseo e dei soldati, permette di dedurre che l’oratoria eroica omerica per avere successo non può essere disgiunta dalla saggezza, dall’equilibrio e dalle buone intenzioni che nell’ottica aristocratica del poema possono essere posseduti soltanto da un basileuv~. 60 Una lettura politica è dunque possibile e anzi opportuna, ma non deve essere fine a se stessa, bensì deve servire a comprendere perché argomenti forti e ben strutturati dal punto di vista retorico falliscano. Tersite è nel testo omerico, di impianto ‘aristocratico’, il perverso e pericoloso demagogo. 61 La sua bruttezza fisica non è solo un elemento destinato a renderlo odioso al pubblico della rapsodia, ma lo caratterizza anche come plebeo : egli è un kakov~/aijscrov~, e un plebeo da nulla che parla a tu per tu con i nobili deve essere ridicolo sia agli occhi stessi dei kakoiv che lo stanno a sentire in assemblea sia dei kakoiv che ascoltano il rapsodo. Ecco che i suoi argomenti, a livello del sentire profondo della massa, portata per natura, nella prospettiva aristocratica, a seguire il proprio interesse più immediato e miope, appaiono formidabili. Tersite sta dicendo la verità ; giustamente accusa Agamennone di depredare gli altri Achei di quanto spetta loro per diritto, e le accuse sono mosse con efficacia. Il poeta rappresenta l’intervento di Tersite con oggettività epica, ma, nello stesso tempo, deve metterlo in cattiva luce in quanto antieroico e contrario quindi allo spirito e all’etica alla base del poema stesso. 62  











60  Kouklanakis 1999, 42 rileva molto bene che aspetto fisico, arroganza ed estrazione sociale sono fattori che sì contribuiscono al fallimento del discorso di Tersite, ma non comportano necessariamente mancanza di abilità retorica. Quello di Tersite sarebbe un pezzo retorico ben costruito ed elaborato. Quindi la caricatura sul piano oratorio sarebbe meno riuscita di quella fisica : nonostante il difetto di eccesso negli improperi, il suo discorso sarebbe ragionato. 61  Si pensi alle critiche sviluppate da Euripide e Platone alla figura del demagogo, per le quali riporto la traduzione dei vv. 902-906 dell’Oreste di Euripide fornita in Cerri 2000, 15, cui rimando per l’intera discussione sulla qualità oratoria del demagogo : “un uomo dalla bocca senza porta, forte della propria sfrontatezza, argivo e non argivo ad un tempo, intruso surrettiziamente nelle liste dei cittadini, fidente nella confusione assembleare e nella libertà di parola più scriteriata, davvero convincente a precipitare anche in futuro i suoi concittadini in qualche sventura”. E ancora leggiamo la parafrasi offerta dallo stesso Cerri (ibid. 23) : “a questo punto prende la parola (nell’assemblea giudiziaria di Argo) un uomo prepotente, arrogante ed esperto di tecnica assembleare, abile a sollecitare gli istinti peggiori della folla, inducendola a decisioni che in futuro si ritorceranno contro di essa (vv. 902-906). In effetti (e in generale), quando uno che pronuncia discorsi accattivanti, ma è armato di cattive intenzioni, riesce a convincere la massa, per la città è una rovina (v. 907)”. Anche se qui si tratta di un’assemblea giudiziaria, mentre nel nostro caso di un’assemblea di guerra, la figura di oratore-demagogo delineata da Euripide sembra corrispondere appieno al Tersite omerico. Non considerava Tersite un demagogo Reinhardt 1961, 115 sulla base del fatto che il suo intervento resta isolato non convincendo il resto dell’esercito. È vero che egli, anziché sedurre la massa, finisce col rafforzarne l’ardore guerriero, ma il fatto che non abbia successo non significa che non disponga di molte delle caratteristiche che ne fanno un prototipo del demagogo. 62  Quanto accade nell’Oreste euripideo è analogo all’episodio di Tersite ed è chiaro che lo cita, con la differenza però che nell’Oreste il demagogo ha la meglio e non finisce malmenato e ridicolizzato. Ritornando alla critica antica, dispiace notare che i commentatori del testo dell’Oreste non  





oratoria e demagogia nell ’ iliade 21 Geddes 1984, A. G. Geddes, Who’s Who in Homeric Society, « Class. Malmenandolo, Odisseo dimostra a Tersite e all’uditoQuart. » 34, 1984, 17-36. rio la superiorità finale del nobile sul plebeo, del guerriero Gladstone 1858, W. E. Gladstone, Studies on Homer and the Homeric sull’imbelle. Tersite può dire ciò che vuole, ma finirà semAge i-iii, Oxford 1858. pre col soccombere all’a[risto~ che ha voluto sfidare. Grote 1869, G. Grote, A History of Greece : from the Earliest Period La massa ride del suo rappresentante sfortunato 63 e, coto the Close of the Generation contemporary to Alexander the Great, me è giusto che sia nell’ottica aristocratica del poema, si London 1869. persuade che solo i nobili conoscono e fanno il suo inteHintenlang 1961, H. Hintenlang, Untersuchungen zu den Homerresse vero. Aporien des Aristoteles, Waldmichelbach i. O. 1961. È chiaro, allora, che uno studio delle tecniche persuasive Hölkeskamp 2000, K. J. Hölkeskamp, Zwischen Agon und Argumennei poemi omerici non può non passare anche attraverso la tation, in C. Neumeister - W. Raeck (edd.), Rede und Redner. Bewertung und Darstellung in den antiken Kulturen : Kolloquium lettura dell’orazione di Tersite. Questi però è un esempio (Frankfurt a. M., 14-16 Oktober 1998), Möhnsee 2000, 17-43. di oratore al rovescio, un antioratore che crede di sapere Jouanno 2005, C. Jouanno, Thersite, une Figure de la Démesure, come fare leva sulla massa, ma che mai potrà essere amato « Kentron » 21, 2005, 181-223. da essa. Katzung 1959, P. G. Katzung, Die Diapeira in der Iliashandlung. Der La sua abilità retorica è per così dire mutila e destinata Gesang von der Umstimmung des Griechenheeres, Diss. Frankfurt a spegnersi nel latrare di un uomo che ha qualche buon 1959. argomento, conosce un po’ di tecnica, ma poi esagera perKirk 1985, G. S. Kirk, The Iliad. A Commentary i (Books 1-4), Camché critica con una veemenza tale quale il suo status, la bridge 1985. storia personale, il suo aspetto fisico e morale e, non ulKoster 1980, S. Koster, Die Invektive in der griechischen und römitimo, il momento (inteso – si badi – non come momento schen Literatur, Meisenheim am Glan 1980. Kouklanakis 1999, A. Kouklanakis, Thersites, Odysseus, and the Sostorico, bensì quale situazione narrativa !) non gli consencial Order, in M. Carlisle - O. Levaniouk (edd.), Nine Essays on tono.  













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colgono l’equazione, e che purtroppo nemmeno quelli del passo iliadico si sono resi conto che la figura di Tersite e il giudizio su di lui anticipano la visione platonica (cfr. Phaedr. 268a-c e 270a-271d e Cerri 1996) ed euripidea del demagogo. Essi insistono invece nel confrontare il discorso di Tersite con quello che Achille pronuncia nel i libro. 63  Nella lettura marxista di Rose 1988 i soldati riconoscono in Tersite un



















loro portavoce, e il loro sarebbe il riso amaro nei confronti di chi non ha preso coscienza della propria impotenza non prevedendo l’esito fallimentare del proprio intervento (addirittura Rose si spinge ad indicare Odisseo, seppure solo in via ipotetica, quale oggetto latente del riso dei soldati !). Fantasiosa l’interpretazione di Postlewaithe 1988, che legge nel riso dei soldati l’espressione del sollievo che la sorte toccata a Tersite non sia capitata a loro, che pure condividerebbero le sue idee.  

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stefano dentice di accadia ammone

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ACHILLE, L’EROE CHE CA NTA SE STESSO * (IL. 9, 186 -191 ; PHILOSTR. HER. 55)  

Roberto Velar di

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Il. 9, 182-195 Tw; de; bavthn para; qi`na polufloivsboio qalavssh~ polla; mavl∆ eujcomevnw gaihovcw/ ejnnosigaivw/ rJhi>divw~ pepiqei`n megavla~ frevna~ Aijakivdao. 185 Murmidovnwn d∆ ejpiv te klisiva~ kai; nh`a~ iJkevsqhn, to;n d∆ eu|ron frevna terpovmenon fovrmiggi ligeivh/ kalh`/ daidalevh/, ejpi; d∆ ajrguvreon zugo;n h\en, th;n a[ret∆ ejx ejnavrwn povlin ∆Hetivwno~ ojlevssa~: th`/ o{ ge qumo;n e[terpen, a[eide d∆ a[ra kleva ajndrw`n. 190 Pavtroklo~ dev oiJ oi\o~ ejnantivo~ h|sto siwph`/, devgmeno~ Aijakivdhn, oJpovte lhvxeien ajeivdwn. tw; de; bavthn protevrw, hJgei`to de; di`o~ ∆Odusseuv~, sta;n de; provsq∆ aujtoi`o: tafw;n d∆ ajnovrousen ∆Acilleu;~ aujth`/ su;n fovrmiggi, lipw;n e{do~ e[nqa qavassen. 195 w}~ d∆ au[tw~ Pavtroklo~, ejpei; i[de fw`ta~, ajnevsth.

Ettore rimprovera con disprezzo il fratello dicendogli che a nulla valgono la cetra e i doni che Afrodite gli ha elargito di fronte al valore del nemico. 3 Le parole di Ettore sottolineano qui il carattere antieroico della mousikhv : la kivqari~ di Paride è il simbolo del suo disvalore. Dovremo interpretare il canto di Achille alla luce del giudizio di Ettore su Paride e ritenere che il poeta abbia voluto evidenziare in tal modo il rifiuto di Achille di ritornare a combattere e di assumere su di sé le sorti dell’impresa degli Achei contro Troia ? I commentatori antichi non esclusero questa possibilità. Se uno scolio al passo del terzo libro individua nella cetra di Paride un simbolo di lussuria e, al contrario, in quella di Achille un simbolo di ajrethv, 4 uno scolio al passo del nono libro suggerisce la possibilità che l’eroe, prevedendo l’arrivo degli ambasciatori, abbia voluto ostentare manifestamente la sua estraneità alla situazione di pericolo nella quale versano i Greci. 5 Un’interpretazione alternativa, riportata dallo stesso scolio, ritiene, al contrario, che Achille abbia inteso così celare la sua preoccupazione per la sicurezza dei Greci (h] o{ti pefrovntike me;n th`~ tw`n ÔEllhvnwn ajsfaleiva~, prospoiei`tai de; katafronei`n). 6 Il commentatore si sofferma poi sugli effetti psicologici della musica che, da un lato, lenisce il dolore di Achille per la perdita di Briseide, dall’altro, grazie alla scelta di cantare i kleva ajndrw`n, lo prepara al ritorno in battaglia. Le medesime considerazioni si ritrovano anche negli scritti di teoria musicale, che richiamano il brano omerico come esemplificazione del potere della musica. 7 L’opposizione tra i valori simbolici della cetra di Paride e quelli della cetra di Achille si riflette in un aneddoto narrato da Plutarco : quando ad Alessandro, in visita a Troia, venne offerta la cetra di Paride, egli la rifiutò in quanto già possedeva quella di Achille, “al suono della quale egli si riposava e cantava gesta d’eroi” (pro;~ h}n ejkei`no~ ajnepauveto a[eide d∆ a[ra kleva ajndrw`n) mentre Paride, con la sua, “faceva risuonare un’armonia assai molle ed effeminata adatta a canti d’amore” (pavntw~ malakhvn tina kai; qhvleian aJrmonivan ejrwtikoi`~ e[yalle mevlesi). 8 In un’orazione di Dione di Prusa, Alessandro il Macedone afferma che i poemi omerici gli appaiono particolarmente adatti a preparare gli animi alla battaglia, al punto che dovrebbero essere intonati non con l’accompagnamento della lira o della cetra, ma al suono della tromba da una falange in armi. A sostegno di questa opinione Alessandro cita il caso di Achille, il quale, benché innamorato di Briseide, non intona canti d’amore, ma le  







S’avviarono i due lungo la riva del mare sonoro, molto pregando il dio che avvolge e scuote la terra di poter facilmente convincere il cuore grande dell’Eacide. Giunsero alle tende e alle navi dei Mirmidoni, e lo trovarono intento a godere la cetra armoniosa, bella, ben lavorata, e la traversa in alto era d’argento, predata da lui nel saccheggio, quando abbatté la città d’Eetione : rallegrava con questa il suo cuore e cantava gesta d’eroi. Patroclo, solo con lui, gli sedeva in silenzio davanti, in attesa dell’Eacide, che terminasse il suo canto. I due vennero avanti, Odisseo divino era il primo, e gli si fecero incontro : stupito Achille s’alzò con tutta la cetra, lasciato il posto dove sedeva. S’alzò ad un tempo anche Patroclo, non appena vide quegli uomini. 1  













A

l terrore e allo sgomento dei Greci, che, minacciati dai Troiani incombenti sull’accampamento e sulle navi, affidano l’estrema speranza di salvezza al ritorno in battaglia del più forte dei loro eroi, il poeta contrappone la distaccata serenità del canto intonato da Achille nel suo accampamento alla presenza di Patroclo. Da un lato l’angosciosa incertezza degli ambasciatori sul risultato della missione, dall’altro lo stupore dell’eroe per l’arrivo inatteso. Questi versi non potrebbero rappresentare in modo più efficace la reciproca estraneità tra Achille e il resto degli Achei, l’incolmabile distanza tra i loro rispettivi stati d’animo. 2 Achille non è il solo eroe dell’Iliade a concedersi al piacere della musica. Nella violenta invettiva contro Paride, ritiratosi precipitosamente dinanzi alla furia di Menelao,  

*  Il titolo di questo contributo riecheggia intenzionalmente quello di Cerri 2003. 1  Le traduzioni dall’Iliade sono di Cerri 1996, quelle dall’Odissea di Privitera 1983-86. 2  Louden 2006, 166, suggerisce un confronto tra Achille che canta accompagnandosi con la cetra davanti all’ambasceria inviata da Agamennone e Davide che canta anch’egli gesta eroiche accompagnandosi con la lira alla presenza di Saul (I Sam. 16, 23 ; 18, 10). 3  Il. 3, 54 s. : oujk a[n toi craivsmh/ kivqari~ tav te dw`r∆ ∆Afrodivth~, / h{ te kovmh tov te ei\do~, o{t∆ ejn konivh/si migeivh~. 4  Schol. T ad Il. 3, 54-55. Secondo Veneri 1995, che analizza questo brano del terzo libro dell’Iliade e altri brani omerici che mettono in relazione Paride con la mousike, in particolare con la danza, l’affermazione dello scolio  





riecheggerebbe le teorie platoniche che giudicavano la musica in base a criteri di carattere etico, ma sarebbe lontana dalla mentalità omerica. 5  Questa interpretazione dello scolio è contestata da Buffière 1956, 468 s., il quale sostiene che Achille non canta per fingere disinteresse per le sorti degli Achei, ma per alleviare la rabbia. 6  Schol. bT ad Il. 9, 186 ; cfr. Porph. Quaest. Hom. ad Il. 9, 186 (MacPhail jr. 2011, 148 ss.). Vd. anche Eustath. ad Il. 9, 186-188. 7  Arist. Quint. 2, 10, 41-42 ; Ps.-Plut. De mus. 40 ; Sext. Emp. Contra mus. 6, 10, 1-12 ; sulla funzione ‘calmante’ della musica per Achille, vd. anche Athen. 14, 624 a ; Ael. VH 14, 23. Per un’analisi dei brani di Aristide Quintiliano e di Sesto Empirico relativi alla musica in Omero vd. Perceau 2007, 20 ss. ; sul passo dello Pseudo Plutarco vd. Raffa 2011. 8  Plut. De Alex. fort. 1, 331d. Una versione più concisa e leggermente diversa dell’aneddoto in Plut. Alex. 15, 9.  











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roberto velardi

imprese gloriose degli uomini, perché chi è di stirpe regale non dimentica la gloria e il valore nemmeno quando beve vino o canta, e dovrebbe essere costantemente impegnato, se non in azioni grandiose e ammirevoli, almeno nel richiamarle alla memoria. 9 Elio Aristide accenna fugacemente alla relazione tra canto di Achille e canto su Achille nel discorso di ambasceria che elabora sulla falsariga di quelli del libro nono dell’Iliade, laddove l’oratore rimprovera all’eroe di rimanere a cantare nella sua tenda mentre Ettore mette a ferro e a fuoco l’accampamento acheo e gli consiglia provocatoriamente di non cantare gesta di altri, ma di lasciare ad altri il compito di cantare le sue. 10 Secondo Imerio, Achille, che aspirava a essere valoroso, imitava le gesta gloriose degli eroi sia combattendo sia componendo canti. 11 Anche la critica moderna tende a dividersi tra chi ritiene che la scena enfatizzi l’estraneità di Achille alla guerra 12 e chi, invece, individua in essa uno stretto legame tra l’eroe guerriero e la sua pratica del canto. Vernant ha sostenuto che Achille, in quanto personaggio eroico, non vive di esistenza propria se non nello specchio del canto che gli rinvia la sua stessa immagine, che egli, a sua volta, restituisce sotto forma dei kleva ajndrw`n che formano l’oggetto del suo canto. 13 Frontisi-Ducroux rileva che la cetra, in quanto bottino di guerra, costituisce una precisa indicazione sulla natura unitaria del personaggio, raffigurato come guerriero e, insieme, cantore. 14 Nella scena di Il. 9 Nagy individua un rapporto di specularità tra Achille e il poeta, non solo nel senso che il klevo~ trasmesso dal poeta è dovuto in definitiva all’eroe stesso che è la sua fonte di ispirazione, ma anche perché Achille che canta i kleva ajndrw`n fornisce un modello di possesso del klevo~ da parte dell’eroe, al quale il poeta può conformarsi. 15 Griffin rileva che qui Achille appare consapevole di essere parte della tradizione poetica. 16 Secondo Halliwell Achille cercherebbe soddisfazione nel canto nel

momento in cui ogni altra soddisfazione gli è negata ; la scena di Achille aedo, che appare allo studioso inglese ‘puzzling’, ‘profoundly obscure’, ‘perplexing’, costituirebbe un ‘parallel universe’, una sorta di specchio nebuloso nel quale l’eroe cerca il suo riflesso e un surrogato di quella reputazione che potrebbe conquistare sul campo di battaglia. 17 I riferimenti al canto e ai suoi professionisti sono rari nell’Iliade e, a esclusione dei casi di Achille e dei cantori ai funerali di Ettore, sono incidentali ed estranei al filo principale della narrazione. 18 Diversamente, uno dei caratteri distintivi della poetica dell’Odissea è la presenza degli aedi, con le dettagliate descrizioni di Femio e Demodoco, i riferimenti alla loro condizione sociale e alla loro reputazione, alle fonti di ispirazione, alle occasioni del canto, alle modalità di esecuzione, ai contenuti e ai criteri di selezione del repertorio, alla composizione sociale del pubblico e alle reazioni di questo all’esecuzione aedica. 19 Nell’Odissea gli aedi, i professionisti del canto, sono personaggi tra i personaggi ; nell’Iliade Achille, l’eroe protagonista, si fa eccezionalmente aedo. 20 Gli elementi che consentono di sostenere, senza residuo di dubbio, che la descrizione di Achille ai vv. 186-191 del nono libro dell’Iliade ricalchi in pieno quella dell’aedo odissiaco sono quattro : 1) Achille canta accompagnandosi con la fovrmigx livgeia, lo stesso strumento, connotato dallo stesso epiteto, adoperato da Demodoco e da Femio ; 21 2) oggetto del canto sono i kleva ajndrw`n, formula che nell’Odissea designa, in termini generici, il repertorio epico di Demodoco ; 22 3) Patroclo ascolta in silenzio (siwph/)` , come i pretendenti ascoltano in silenzio il nostos degli Achei intonato da Femio, 23 e attende rispettosamente che Achille smetta di cantare, come i Feaci alla corte di Alcinoo ; 24 4) il suo canto procura tevryi~, come quello di Demodoco a Odisseo e ai Feaci. 25

  9  Dio Pr. Or. 2, 29-31. Vd. anche Himer. ap. Phot. Bibl. Cod. 243, p. 115, 21-28 H. 10  Ael. Arist. Or. 16, 28 Lenz-Behr. Cfr., infra, la promessa di Calliope al giovane Achille, nell’Eroico di Filostrato. 11  Himer. Or. 21, 1 Colonna. 12  Secondo Hainsworth 1993, 88, l’ira dell’eroe ha lasciato il posto alla noia e “Akhilleus the hero sings of the heroic deeds that he is no longer allowing himself to perform”. Dubel 1995, 256, sostiene che la scena dimostra l’assoluta incompatibilità tra l’attività dell’aedo e quella del guerriero. 13  Vernant 1982, 55. 14  Frontisi-Ducroux 1986, 12. 15  Nagy 1990, 201 s. : “when Achilles is represented as singing the klea andro¯n in the Iliad he is a model for the hero’s possession of kleos. The possession of epic … can be read as both an objective and subjective genitive construct : not only does the poet possess the kleos, but the kleos of the epic hero can possess the poet to sing it, just as the hero had once sung it”. 16  Griffin 1995, 98. 17  Halliwell 2011, 72-77. Sulle opposte reazioni di Achille, che gode del suo stesso canto, e di Odisseo, che si commuove quando Demodoco, anche su sua richiesta, canta gesta di cui egli stesso è stato protagonista, vd. ibid. 37 ss. 18  Il. 1, 602-604 : il banchetto degli dei è allietato dalla cetra di Apollo e dal canto delle Muse ; 2, 594-600 : le Muse privarono del canto e dell’arte della cetra Tamiri che aveva osato sfidarle ; 13, 730 : l’arte della danza e quella della cetra e del canto sono incluse in un elenco di doni che la divinità concede agli uomini ; 18, 569-572 : sullo scudo forgiato da Efesto per Achille è rappresentato un fanciullo che intona il canto di Lino accompagnandosi con la cetra, mentre un gruppo di giovani segue il canto e il ritornello battendo i piedi e danzando all’unisono ; 24, 62-63 : Apollo suonò la cetra alle nozze di Peleo e Teti ; 24, 720-722 : ai funerali di Ettore gli aedi intonano il qrh`no~ al quale risponde il govo~ delle donne. Il peana intonato durante la cerimonia di restituzione di Criseide al padre (1, 472-474) e quello sollecitato da Achille mentre gli Achei trascinano alle navi il cadavere di Ettore (22, 391) non prevedono l’intervento di specialisti del canto. 19  Femio : Od. 1, 150-155 ; 325-355 ; 22, 330-356. Demodoco : Od. 8, 40-47 ; 62108 ; 248-369 ; 471-543 ; 9, 2-11. Aedo anonimo alla corte di Argo : Od. 3, 267271. Aedo anonimo alla corte di Menelao a Sparta : Od. 4, 15-19. Sull’aedo in generale : Od. 17, 382-386. Tutti i brani omerici relativi al canto aedico sono

raccolti e commentati da Grandolini 1996. Sulle fonti dalle quali l’aedo trae materia per il canto vd. Velardi 2004. 20  La rappresentazione di Achille, protagonista dell’Iliade, come aedo trova un pendant nella rappresentazione del protagonista dell’Odissea come narratore. Queste due caratterizzazioni dei personaggi principali dei poemi appaiono modi diversi con i quali il poeta assegna all’eroe-personaggio la medesima funzione di fonte ultima del canto aedico. Su Odisseo narratore vd. Cerri 2003, con le ulteriori precisazioni e segnalazioni bibliografiche di Perceau 2005, 80 e nn. ; sulla consapevolezza dei personaggi iliadici di essere “materia di canto” vd. infra ; sugli ajpovlogoi di Odisseo come fonte potenziale del canto di Demodoco vd. Velardi 2004, 207 s. 21  Cfr. Od. 8, 67 ; 105 ; 254 ; 261 ; 537 (Demodoco) ; 22, 332 (Femio) ; vd. anche il verbo formivzein in Od. 4, 18 ; 8, 266. 22  Od. 8, 73. 23  Od. 1, 325 ; 339. 24  Od. 8, 87. Secondo Frontisi-Ducroux 1986, 12 s., l’immagine della coppia Achille-Patroclo delineata nel nono libro dell’Iliade sarebbe la rappresentazione ideale del rapporto tra l’aedo e il suo pubblico e attraverso essa “l’aède renforce le contact avec son auditoire, lui suggère un modèle d’écoute similaire à l’attitude de Patrocle, rapport de subordination et d’allégeance ; et, en identifiant son propre personnage au protagoniste du poème, il affiche sa présence, occultée derrière le récit nécessairement impersonnel de l’épopée”. Lo studio di Françoise Frontisi-Ducroux muove da questa interpretazione di Il. 9, 186 ss. per esaminare gli elementi di natura diversa disseminati nel poema, attraverso i quali si instaurerebbe un contatto diretto tra poeta e pubblico e che porterebbero tanto il destinatario antico della performance aedica quanto il lettore moderno a partecipare inconsapevolmente alla costruzione poetica. Su questo tema gli spunti forniti dalla studiosa francese andrebbero integrati dagli studi narratologici di Irene J. F. de Jong e dai lavori di Egbert J. Bakker, che analizzano gli indizi di oralità presenti nei poemi omerici alla luce delle teorie linguistiche sul linguaggio parlato. Poco fondata risulta la tesi più volte ribadita da Gregory Nagy, secondo il quale Patroclo sarebbe in attesa della fine dell’esecuzione di Achille per intonare a sua volta il canto, secondo l’uso attestato in epoca più tarda per i rapsodi (vd., p. es., Nagy 2002, 16-18) ; Perceau 2005, 70 ss., opportunamente ritiene più pertinente il confronto tra l’atteggiamento di Patroclo e quello del pubblico degli aedi dell’Odissea. 25  Cfr. Od. 8, 45 ; 91 ; 368 ; 542. Per un confronto dettagliato tra il brano







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achille, l ’ eroe che canta se stesso 25 Eppure, a ben vedere, da questo insieme di analogie a difesa delle navi, che Posidone teme possa oscurare quella delle mura di Troia erette da lui e da Apollo (Il. 7, 451-458), emerge una differenza : nell’Odissea non si parla mai dell’efo quella dello scudo di Nestore (Il. 8, 192) ; la ‘fama’ di chi è fetto che il canto produce sull’aedo, ma sempre di quello privo di biasimo (ajmuvmwn), di colui del quale si diffondono provocato nel pubblico. Qui invece il piacere del canto rile lodi tra tutti gli uomini, opposta al male e all’oltraggio cade solipsisticamente sull’esecutore : Achille canta per sé. che attira su di sé, da vivo e da morto, chi è perfido (ajph- L’intento di Omero è quello di rappresentare l’eroe come nhv~) (Od. 19, 329-334) ; la ‘fama’ che Odisseo invoca per Alcipubblico di se stesso. 26 noo se questi lo aiuterà a ritornare in patria (Od. 7, 331-333) ; Ci si potrebbe interrogare sul contenuto dei kleva ajndrw`n quella del valore e della ricchezza del padre di Anfinomo cantati da Achille. Imprese di antichi eroi, come quelle di udita da Odisseo (Od. 18, 125-127) ; quella che, secondo AnBellerofonte narrate da Glauco a Diomede, 27 o quelle di tinoo, si procura Penelope, eludendo le proposte dei proci Meleagro, che Fenice racconta allo stesso Achille, 28 opcon le sue astuzie (Od. 2, 125 s.), ma che, secondo la moglie pure come il racconto dei prodromi della guerra di Troia, di Odisseo, sarebbe ancora maggiore se il marito ritornasse già trasformato in canto epico da Demodoco alla corte dei a casa (Od. 18, 254 s. ; 19, 127 s.). Si può conquistare fama graFeaci, 29 o, ancora, imprese compiute da lui stesso, come zie al successo in un’impresa sportiva (Od. 8, 147) ; Telemala conquista di Tebe Ipoplacia, dalla quale aveva riportato, co la consegue muovendo alla ricerca di notizie su Odisseo come bottino di guerra, il prezioso strumento che sta suo(Od. 1, 95 ; 13, 422 s.), Oreste uccidendo Egisto e vendicando nando ? 30 In ogni caso la scena di Achille che imbraccia la così il padre (Od. 1, 298-300). fovrmigx, del personaggio che canta gesta eroiche in guisa Nell’Iliade klevo~ è soprattutto la ‘gloria’ conquistata in di aedo, senza essere un professionista del canto, induce guerra dall’eroe, il klevo~ a[fqiton che Achille, secondo il a sospettare che, al di là della sua possibile funzione nella presagio della madre Teti, acquisterà ritornando alla battrama dell’Iliade, essa abbia un carattere fortemente simtaglia, ma morendo giovane, e che invece gli sfuggirà se bolico. 31 rinuncerà a combattere in cambio di una lunga vita (Il. L’interpretazione che qui mi accingo a proporne muo9, 410-416), 37 quel klevo~ ejsqlovn che deciderà poi di cove da un’analisi del significato e dell’uso del sostantivo gliere andando incontro alla morte per vendicare Patroclo klevo~, 32 termine chiave della poetica omerica e della rap(Il. 18, 120 s.). Il klevo~ è la gloria che si procurerà Diopresentazione omerica della parola e del canto. mede grazie al mevno~ e al qavrso~ che gli ha infuso Atena Nell’Iliade e nell’Odissea il termine è attestato sessanta (Il. 5, 1-3) ; che, insieme con Stenelo, Diomede otterrebbe volte al singolare e tre al plurale. Esso ricopre un ampio arse riuscisse a catturare i cavalli di Enea (Il. 5, 273), o che co di significati, che vanno da ‘voce, notizia’ a ‘reputazione, riporterà, in aggiunta a una ricca ricompensa, chi degli fama, gloria’, fino a ‘memoria, ricordo’. Spesso il sostantiAchei si recherà in missione di intelligence nel campo nevo è accompagnato da aggettivi o espressioni che ne sotmico (Il. 10, 211-217). Il klevo~ del guerriero si materializza tolineano la valenza e la potenza : esso è ejsqlovn, 33 mevga, 34 nel possesso delle armi del nemico vinto. La battaglia per si estende nello spazio 35 e nel tempo. 36 Klevo~ è la ‘notizia’ le armi di Achille indossate da Patroclo divampa furiosa : della spedizione degli Achei contro Troia che, giunta a Cile rivendica Euforbo, per essere stato il primo a colpire pro, spinge il re Cinira a fare dono ad Agamennone di una l’eroe acheo (Il. 17, 12-17) ; Ettore se ne impadronisce e le preziosa corazza (Il. 11, 19-28) ; che induce Ifidamante Anconsegna ai compagni perché le portino al sicuro (ibid. tenoride, appena sposato, a muovere dalla Tracia per unir129-131), poi, momentaneamente lontano dalla mischia, si ai combattenti Troiani (Il. 11, 221-231), e Otrioneo a ragle indossa e incita i compagni con la promessa di donare giungere Troia da Cabeso, allo scopo di ottenere in moglie metà dell’armatura a chi riuscirà a sottrarre agli Achei il da Priamo la figlia Cassandra, in cambio della promessa di cadavere di Patroclo e, in tal modo, di condividere con lui sconfiggere gli Achei (Il. 13, 363-369). Klevo~ sono, ancora, la gloria (ibid. 229-232). le notizie su Odisseo che Telemaco cerca a Pilo (Od. 3, 83) Il klevo~ costituisce un forte vincolo tra le generazioni. e a Sparta (Od. 13, 414 s.) ; è la ‘voce che corre in città’ a Ettore combatte per fare onore al klevo~ suo e del padre proposito delle intenzioni dei pretendenti nei confronti di (Il. 6, 444-446) ; Nestore invoca Atena che conceda klevo~ a Telemaco, tornato a Itaca dal suo viaggio (Od. 16, 461-463), se stesso, ai figli e alla moglie (Od. 3, 380 s.). Strumento di e quella sull’uccisione dei proci, che Odisseo vuole ancora diffusione del klevo~ nel presente può essere o[ssa, la ‘voce’ tenere nascosta (Od. 23, 137 s.). anonima e collettiva che proviene da Zeus, “la voce che Klevo~ è, ancora, la ‘fama’ del muro costruito dagli Achei  





























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dell’Iliade e i brani dell’Odissea che descrivono la performance aedica vd. Perceau 2005.

voga tra principi e nobili, il punto che qui mi interessa è comprenderne il significato alla luce della poetica dell’Iliade. 32  Sull’etimologia di klevo~ vd. Chantraine 1999, 540 s. ; Bouvier 2002, 365 s. Per un’analisi dell’uso del termine nei poemi omerici e dei suoi rapporti con timhv e ku`do~ vd. Redfield 1975, 30-35. Sulla nozione di klevo~ nella cultura greca arcaica vd. Nagy 1979 e la bibliografia citata da de Jong 2006, 194 n. 16. 33  Il. 5, 3 ; 273 ; 9, 415 ; 17, 16 ; 143 ; 18, 121 ; 23, 280 ; Od. 1, 95 ; 3, 78 ; 380 ; 13, 422 ; 18, 126 ; 24, 94. 34  Il. 6, 446 ; 10, 212 ; 11, 21 ; 17, 131 ; Od. 1, 240 ; 14, 370 ; 16, 241 ; 24, 33. 35  eujruv : Od. 3, 204 ; 19, 333 ; 23, 137 ; eujru; kaq∆ ÔEllavda kai; mevson “Argo~ : Od. 1, 344 ; 4, 726 ; 816 ; oujrano;n ªeujru;nº i{keiÉiJkavneªiº : Il. 8, 192 ; Od. 8, 74 ; 9, 20 ; 19, 108 ; mevgiston uJpouravnion : Od. 9, 264 ; uJpouravnion... pavnta~ ejp jajn- qrwvpou~ : Il. 10, 212 s. ; e[stai o{son t j ejpikivdnatai hjwv~ : Il. 7, 451 ; 458. 36  a[fqiton : Il. 9, 413 ; a[sbeston : Od. 4, 584 ; 7, 333 ; pavnta~ ejp j ajnqrwvpou~ ... e[ssetai ejsqlovn : Od. 24, 94 ; ou[ pot j ojlei`tai : Il. 2, 325 ; 7, 91 ; Od. 24, 196. 37  Il klevo~ a[fqiton del quale parla Achille è quello che gli verrà conferito dalla stessa Iliade : vd. de Jong 2006, 204 e la bibliografia ivi discussa.  

26  Non mi pare che questa differenza sia stata rilevata. 27  Il. 6, 152-195. 28  Il. 9, 527-599. 29  Od. 8, 73-82. 30  Rocchi 1980 tenta di ricostruire le presunte origini divine dello strumento suonato da Achille. La precisazione che la cetra suonata da Achille proviene da un bottino di guerra conferirebbe, secondo Bouvier 2002, 341, ambiguità alla scena, perché, presupponendo la fuga o la morte dell’aedo che suonava lo strumento, restituirebbe tanto l’immagine di un eroe che si cimenta nella musica, quanto quella di un guerriero che ha potuto mettere a morte un aedo. 31  Bowra 1979, 685 ss. apre con Achille una rassegna di personaggi epici e storici di rango regale o socialmente elevato dediti al canto. Latacz 1998, 687, sulla base di Il. 9, 186-191, ritiene che Omero stesso sia appartenuto all’aristocrazia o comunque abbia occupato un gradino elevato nella gerarchia sociale. Contra Latacz vd. l’ampia e convincente analisi di Graziosi 2002, 132 ss. Senza escludere del tutto la possibilità che la scena dell’eroe che imbraccia la cetra sia stata suggerita da una pratica effettivamente in



































































































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roberto velardi

divulga la fama tra gli uomini”, quella nella quale confida Telemaco per avere notizie del padre. 38 Alle generazioni successive il klevo~ si trasmette invece in due modi : attraverso una degna sepoltura e attraverso il canto. Telemaco ed Eumeo, perduta la speranza del ritorno di Odisseo e convinti ormai che l’eroe sia morto insepolto per una tempesta in mare, rimpiangono che egli non sia caduto a Troia, dove gli Achei gli avrebbero eretto un tumulo grazie al quale anche il figlio avrebbe acquistato gloria (Od. 1, 234243 ; 14, 365-371 ; cfr. 5, 308-312). Menelao fa erigere un tumulo in Egitto per il fratello Agamennone, a sua “inestinguibile gloria” (Od. 4, 584). Durante l’incontro nell’Ade tra le loro due anime, Achille si rammarica che Agamennone non sia morto a Troia, dove gli Achei gli avrebbero dato sepoltura, procurando così gloria anche al figlio (Od. 24, 30-34), mentre Agamennone descrive dettagliatamente ad Achille i solenni funerali che gli sono stati tributati a Troia e che sono culminati nell’erezione del tumulo che ricopre le sue ossa, a perenne ricordo della sua gloria : “poi elevammo un grande e nobile tumulo / sopra di esse, noi forte schiera di Achei armati di lancia, / su un promontorio sporgente, sull’ampio Ellesponto, / perché da lontano fosse visibile in mare, / a quanti vivono ora e a quanti vivranno in futuro (w{~ ken thlefanh;~ ejk pontovfin ajndravsin ei[h É toi`s∆, oi} nu`n gegavasi kai; oi} metovpisqen e[sontai) … Così tu, dopo morto, non hai perduto il tuo nome, ma avrai / sempre tra tutti gli uomini nobile gloria, o Achille (w}~ su; me;n oujde; qanw;n  







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o[nom∆ w[lesa~, ajllav toi aijei; É pavnta~ ejp∆ ajnqrwvpou~ klevo~ e[ssetai ejsqlovn, ∆Acilleu`)” (Od. 24, 80-94).

Il tumulo del guerriero caduto in battaglia non attiva il

klevo~ del solo defunto, ma anche quello del nemico che

l’ha valorosamente ucciso. D’altra parte, il monumento funebre assolve il suo scopo se suscita il ricordo e il commento di chi lo osserva. Nel lanciare la sfida a quale dei nemici voglia battersi in duello con lui, Ettore propone un patto solenne, sancito da Zeus (Il. 7, 76-91) :  



w|de de; muqevomai, Zeu;~ d∆ a[mm∆ ejpimavrturo~ e[stw: eij mevn ken ejme; kei`no~ e{lh/ tanahvkei> calkw`/, teuvcea sulhvsa~ ferevtw koivla~ ejpi; nh`a~, sw`ma de; oi[kad∆ ejmo;n dovmenai pavlin, o[fra purov~ me 80 Trw`e~ kai; Trwvwn a[locoi lelavcwsi qanovnta. eij dev k∆ ejgw; to;n e{lw, dwvh/ dev moi eu\co~ ∆Apovllwn, teuvcea suvlhsa~ oi[sw proti; “Ilion iJrhvn, kai; kremovw proti; nho;n ∆Apovllwno~ eJkavtoio, to;n de; nevkun ejpi; nh`a~ eju>ssevlmou~ ajpodwvsw, 85 o[fra eJ tarcuvswsi kavrh komovwnte~ ∆Acaioiv, sh`mav tev oiJ ceuvwsin ejpi; platei` ÔEllhspovntw/. kaiv potev ti~ ei[ph/si kai; ojyigovnwn ajnqrwvpwn, nhi÷ poluklhvi>di plevwn ejpi; oi[nopa povnton: ‘ajndro;~ me;n tovde sh`ma pavlai katateqnhw`to~, 90 o{n pot∆ ajristeuvonta katevktane faivdimo~ ”Ektwr.’ w{~ potev ti~ ejrevei: to; d∆ ejmo;n klevo~ ou[ pot∆ ojlei`tai.

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Ma il principale veicolo di trasmissione del klevo~ alle generazioni future è il canto, che può del resto esso stesso godere di klevo~, come l’oi[mh cantata da Demodoco alla corte di Alcinoo, “la cui fama allora arrivava al vasto cielo”. 39 Quando Nestore riferisce a Telemaco che Oreste ha vendicato il padre, il figlio di Odisseo commenta : “gli Achei / gli daranno ampia fama e tra i posteri il canto”. 40 Ancora, nel ventiquattresimo libro dell’Odissea, l’anima di Agamennone non può esimersi dal confronto tra la virtù di Penelope e la malvagità di Clitemnestra. Di entrambe si conserverà il ricordo, ma per la moglie di Odisseo “la fama del suo valore non svanirà /… gli immortali per la saggia Penelope comporranno / un canto gradito tra gli uomini in terra” ; 41 al contrario, per Clitemnestra “un canto odioso / vi sarà tra gli uomini, e darà pessima fama / alle deboli donne, anche a colei che sia onesta”. 42 Il nesso plurale kleva ajndrw`n, 43 oltre che in Il. 9, 189, compare ancora in Il. 9, 524, dove è riferito da Fenice al racconto delle imprese di Meleagro. In Od. 8, 73, come abbiamo visto, designa il repertorio epico di Demodoco, comprendente anche la commemorazione di eventi recenti e di personaggi contemporanei, come il canto che si accinge a intonare, relativo alla lite tra Odisseo e Achille, presagio della guerra di Troia. Semanticamente equivalente è l’espressione e[rg∆ ajndrw`n te qew`n te, in Od. 1, 338, che designa i qelkthvria che costituiscono, nelle parole di Penelope, il repertorio di Femio. In Hes. Theog. 100 i kleiva protevrwn ajnqrwvpwn e gli dei beati che possiedono l’Olimpo, cantati dall’ajoido;~ Mousavwn qeravpwn, distolgono dal dolore chi è stato colpito da un recente lutto. Klevo~ è dunque la parola che, in forma di canto o meno, si diffonde divulgando un evento, celebrandolo ed enfatizzandolo ; che trasmette il ricordo di un’opera o di un uomo o una donna, vivi o defunti, associati a un’impresa grandiosa o valorosa e a un comportamento virtuoso o, al contrario, eticamente riprovevole nella sua esemplare grandezza ; che decanta la magnificenza di un trofeo di guerra o di un oggetto di prestigio. Se non fossero seguiti dal klevo~, l’evento, l’impresa e chi l’ha compiuta, l’opera e l’oggetto sarebbero muti e insignificanti, si estinguerebbero nel breve arco di tempo del loro compiersi e della loro esistenza materiale. L’invocazione alle Muse che apre il Catalogo delle navi nel secondo libro dell’Iliade sottolinea nel modo più netto la distinzione tra evento e klevo~ (Il. 2, 484-486) :  

















38  Od. 2, 214-217 : ei\mi ga;r ej~ Spavrthn te kai; ej~ Puvlon hjmaqoventa, É novston peusovmeno~ patro;~ dh;n oijcomevnoio, É h[n tiv~ moi ei[ph/si brotw`n, h] o[ssan ajkouvsw É ejk Diov~, h{ te mavlista fevrei klevo~ ajnqrwvpoisin. Per altri esempi di diffusione del klevo~ nel presente vd. Il. 8, 192 ; Od. 8, 74 ; 9, 264 e Finkelberg  



1991-92, 28 n. 17. 39  Od. 8, 73-75 : Mou`s∆ a[r∆ ajoido;n ajnh`ken ajeidevmenai kleva ajndrw`n, É oi[mh~,  

th`~ tovt∆ a[ra klevo~ oujrano;n eujru;n i{kane, É nei`ko~ ∆Odussh`o~ kai; Phlei?dew ∆Acilh`o~. 40  Od. 3, 203 s. : oiJ ∆Acaioi; É oi[sousi klevo~ eujru; kai; ejssomevnoisin ajoidhvn.  

Se poi sarò io ad uccidere lui, e Apollo mi dia la vittoria, gli toglierò le armi e le porterò ad Ilio sacra, per dedicarle nel tempio di Apollo saettatore, ma darò indietro il cadavere alle navi dai solidi banchi, perché gli diano sepoltura gli Achei dalle chiome fluenti, ed a lui alzino un tumulo sull’Ellesponto spazioso. E così un giorno dirà qualcuno anche fra i posteri, mentre con solida nave andrà sul mare spumoso : “Questa è la tomba d’un uomo che morì nel tempo antico, mentre si batteva da prode, ucciso da Ettore splendido”. Così un giorno qualcuno dirà ; e mai morirà la mia fama.



Questa è la mia proposta, e sia Zeus a noi testimone : se sarà lui ad uccidere me col bronzo affilato, mi tolga le armi e le porti alle navi ricurve, ma restituisca il corpo alla mia casa, perché con il fuoco mi onorino, quando sia morto, i Troiani e le loro donne.



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41  Od. 24, 196-198 : tw/` oiJ klevo~ ou[ pot∆ ojlei`tai É h|~ ajreth`~, teuvxousi d∆ ejpicqonivoisin ajoidh;n É ajqavnatoi carivessan ejcevfroni Phnelopeivh/. 42  Ibid. 200-202 : stugerh; dev t∆ ajoidh; É e[sset∆ ejp∆ ajnqrwvpou~, caleph;n dev te fh`min ojpavssei É qhlutevrh/si gunaixiv, kai; h{ k∆ eujergo;~ e[h/sin.  



43  Durante 1976, 50-55, individua un interessante parallelo tra l’espressione greca e il sintagma vedico naram samsa-, che designa “i canti che celebrano le imprese e gli atti liberali degli uomini illustri del presente e del passato”, coltivati nell’ambiente dei guerrieri e intonati da professionisti che avevano anche la funzione di araldi del re.

achille, l ’ eroe che canta se stesso 27 “Espete nu`n moi, Mou`sai ∆Oluvmpia dwvmat∆ e[cousai – esibire le proprie virtù atletiche, quanto l’opportunità per 485 uJmei`~ ga;r qeaiv ejste, pavrestev te, i[ste te pavnta, diffondere la fama di chi ne fa sfoggio : le gare si terranno hJmei`~ de; klevo~ oi\on ajkouvomen oujdev ti i[dmen – affinché l’ospite, tornato in patria, possa riferire e magnifi Narratemi ora, Muse, che abitate le case d’Olimpo, care la bravura dei Feaci. 47 L’aspirazione al klevo~ è ciò che 485 – voi siete infatti dee e siete presenti e sapete ogni cosa, promuove l’evento. mentre noi soltanto la fama ascoltiamo e nulla sappiamo. Se queste parole di Alcinoo possono essere interpretate come testimonianza sulla concezione della parola nella soLa conoscenza autentica dell’evento è prerogativa delcietà che ha prodotto i poemi omerici, un’ulteriore formule Muse che, grazie alla loro natura divina, ne sono state lazione del medesimo concetto da parte del re dei Feaci si testimoni oculari e dunque, in certo modo, partecipi. Le trasforma nell’individuazione dell’origine ultima del fare Muse, in quanto attori dell’evento stesso, sono abilitate a poetico. La commozione che, per la seconda volta, il canto trasmetterne il klevoç, mentre il poeta, che non sa, perché di Demodoco provoca in Odisseo spinge Alcinoo a mettere non ha partecipato all’evento, ascolta la parola delle Muse da parte il suo precedente atteggiamento di rispetto e di e la trasmette a sua volta. 44 discrezione e a chiedere all’ospite il motivo della sua reaLa medesima distinzione è implicitamente attestata anzione, cercando parole di conforto per alleviarne la pena che nell’Odissea. L’aedo dell’Iliade ricorre alle Muse per ga(Od. 8, 577-580) : rantire l’attendibilità del suo canto, mentre Odisseo, elogiando Demodoco con cognizione di causa, riconosce che eijpe; d∆ o{ ti klaivei~ kai; ojduvreai e[ndoqi qumw`/ la fedeltà e la veridicità del suo racconto sulle traversie de∆Argeivwn Danaw`n ijde; ∆Ilivou oi\ton ajkouvwn. to;n de; qeoi; me;n teu`xan, ejpeklwvsanto d∆ o[leqron gli Achei non possono che essere frutto o della sua diretta ajnqrwvpoi~, i{na h\/si kai; ejssomevnoisin ajoidhv. partecipazione agli eventi o della testimonianza raccolta da chi di quegli eventi è stato protagonista (Od. 8, 487-491) : Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi  







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quando odi la sorte dei Danai argivi e di Ilio. A volerla sono stati gli dei : filarono la rovina per gli uomini, perché avessero anche i posteri il canto.

Dhmovdok∆, e[xoca dhv se brotw`n aijnivzom∆ aJpavntwn: h] sev ge Mou`s∆ ejdivdaxe, Dio;~ pavi>~, h] sev g∆ ∆Apovllwn, livhn ga;r kata; kovsmon ∆Acaiw`n oi\ton ajeivdei~, o{ss∆ e{rxan t∆ e[paqovn te kai; o{ss∆ ejmovghsan ∆Acaioiv, w{~ tev pou h] aujto;~ parew;n h] a[llou ajkouvsa~.



Demodoco, al di sopra di tutti i mortali ti elogio ; o ti istruì la Musa, figlia di Zeus, o Apollo. In modo assai preciso canti la sorte degli Achei, quanto hanno compiuto e subito e sofferto gli Achei, come se tu stesso fossi stato presente o l’avessi udito da un altro. 45  



Nella cultura omerica tuttavia il klevo~ non è semplicemente la rievocazione e la celebrazione dell’impresa, ciò che, in un certo senso, ne garantisce e ne perpetua l’esistenza postuma ; non è, insomma, soltanto un postea, perché, se è vero che non si dà klevo~ senza evento da divulgare, è altrettanto vero che il klevo~ può costituire anche un prius rispetto all’azione, può esserne il motore, fornirne la motivazione. Nell’invitare i principi dei Feaci agli agoni che si terranno in occasione della presenza di Odisseo a Scheria, Alcinoo sottolinea che più che di un onore tributato all’ospite si tratterà di una autocelebrazione dello stesso popolo dei Feaci (Od. 8, 100-103) :  



nu`n d∆ ejxevlqwmen kai; ajevqlwn peirhqevwmen pavntwn, w{~ c∆ oJ xei`no~ ejnivsph/ oi|si fivloisin, oi[kade nosthvsa~, o{sson perigignovmeq∆ a[llwn puvx te palaismosuvnh/ te kai; a{lmasin hjde; povdessin.

andiamo ora fuori, e misuriamoci in tutte le gare, perché l’ospite, tornato a casa, possa narrare ai suoi cari quanto eccelliamo sugli altri coi pugni e a lottare e nel salto ed a correre.

Non si tratta di una semplice esortazione a rassegnarsi all’inoppugnabilità del volere divino, né solo di un sottile tentativo di giustificare Demodoco che, con il suo canto, ha causato la sofferenza di Odisseo. L’affermazione di Alcinoo è in realtà anche l’enunciazione di un principio di poetica omerica : gli dei hanno voluto la guerra di Troia perché questa fosse materia di canto da trasmettere alle generazioni successive. Ancora una volta il klevo~ è concepito come il motore della storia. Il principio enunciato da Alcinoo in forma oggettiva diventa, nelle parole di due personaggi dell’Iliade, consapevolezza della loro funzione, per così dire, letteraria. Quando si accorge che Deifobo non è più al suo fianco ad assisterlo nel duello con Achille, immediatamente prima di essere colpito a morte dal campione acheo, Ettore esprime il suo estremo auspicio (Il. 22, 297-305) :  



w] povpoi, h\ mavla dhv me qeoi; qavnatovnde kavlessan: ... nu`n de; dh; ejgguvqi moi qavnato~ kakov~, oujd∆ e[t∆ a[neuqen, oujd∆ ajlevh: ... mh; ma;n ajspoudiv ge kai; ajkleiw`~ ajpoloivmhn, ajlla; mevga rJevxa~ ti kai; ejssomevnoisi puqevsqai.

Ahimè, davvero gli dei m’hanno invitato alla morte … M’è accanto ormai la morte funesta, non è più lontana, e non c’è scampo … Che almeno non abbia a morire senza battermi e senza gloria, ma compiendo qualcosa di grande, che si sappia anche in futuro.

La parola, nella forma di canto o di racconto, ha la funzione di replicare, di riprodurre la realtà. Questa volta non si tratta della parola che si realizza nel canto dell’aedo, ma del racconto di chi riferisce avvenimenti di cui è stato testimone. 46 La presenza dell’ospite non è tanto l’occasione per

Il klevo~ del guerriero caduto combattendo eroicamente è un obiettivo quasi più importante della sua stessa salvezza ; come per Achille, anche per Ettore il valore supremo è il klevo~ a[fqiton. L’espressione più esplicita della consapevolezza che il personaggio omerico ha di sé come funzione letteraria è nelle parole che Elena rivolge a Ettore (Il. 6, 357-358) :

44  Vd. Brillante 2009, 37 s. 45  Vetta 2001, 27 : “il primo atto dell’aedo è l’ascolto di ogni possibile voce, cercato con la competenza e la curiosità di un narratore speciale”. 46  Per la distinzione tra racconto di Odisseo e canto dell’aedo, vd. Mackie 1997 ; Cerri 2003 ; Velardi 2004 ; Perceau 2005, 80 (con segnalazione della

bibliografia che non tiene conto della distinzione, nell’Odissea, tra i due generi della parola). 47  La stessa motivazione viene ribadita più avanti, quando Alcinoo prende di nuovo la parola per interrompere le gare sportive e dare inizio alle danze e al nuovo canto di Demodoco : Od. 8, 241-253.

















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roberto velardi

oi|sin ejpi; Zeu;~ qh`ke kako;n movron, wJ~ kai; ojpivssw ajnqrwvpoisi pelwvmeq∆ ajoivdimoi ejssomevnoisi.

A noi Zeus assegnò sorte maligna, perché fossimo anche in futuro, per la gente di là da venire, materia di canto. 48  

Elena si incarica di procurare klevo~ alle gesta degli Achei e dei Troiani utilizzando anche un medium diverso dalla parola : “quella tesseva un gran manto, / doppio, tinto di porpora, e molte avventure ci ricamava / che i Troiani, provetti cavalieri, e gli Achei vestiti di bronzo / affrontarono a causa di lei sotto i colpi di Ares”. 49  

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Le parole di Ettore, e soprattutto quelle di Elena, se lette dal punto di vista soggettivo dei personaggi che le pronunciano, esprimono la consapevolezza del fatto che la loro esistenza come persone che vivono, soffrono e combattono non vale di per sé, ma ha la sua reale motivazione nel fornire materia al poeta per comporre il suo canto. Se le esaminiamo invece dal punto di vista del poeta che compone, esse appaiono come una sorta di riconoscimento del debito contratto nei confronti degli eroi dei quali canta le gesta e i travagli, perché sa che senza gli eroi che hanno compiuto quelle gesta e sofferto quei travagli non ci sarebbe materia per riprenderne e perpetuarne il klevo~. Il principio di poetica formulato da Alcinoo si realizza così in un rispecchiamento reciproco tra poeta e personaggi : il poeta canta le gesta di quei personaggi che, a loro volta, sanno di essere oggetto di canto. In questa prospettiva la scena di Achille-aedo, che canta i kleva ajndrw`n accompagnandosi con la fovrmigx, non può non apparire come l’espressione più esplicita di questo gioco di specchi, e il tentativo di individuare il contenuto specifico del suo canto 50 diventa un esercizio privo di senso. Elena ammette di essere nient’altro che materia di canto, Achille assume in prima persona la funzione di cantore. Se Achille non fosse stato colpito dalla sua terribile ira e non si fosse ritirato dalla guerra per il folle desiderio di vendicarsi di Agamennone, e se poi non fosse ritornato in campo dopo la morte del suo amico Patroclo, e non avesse ucciso Ettore, l’Iliade non ci sarebbe. Il ‘cammeo’ di Achille aedo è l’omaggio che Omero rende al protagonista del poema sull’ira di Achille, l’atto di umiltà del poeta che cede al protagonista il suo stesso ruolo di aedo, la manifestazione più elevata, nei modi che la forma narrativa gli consente, dell’autoconsapevolezza del poeta. Omero rappresenta Achille come l’eroe che canta se stesso, perché riconosce in lui il legittimo titolare del klevo~ che sta cantando. 51 Achille riprenderà il suo canto circa dieci secoli dopo, grazie a Flavio Filostrato. 52 L’Eroico 53 riporta il dialogo tra un anonimo Vignaiolo e un anonimo Mercante fenicio. Il Vignaiolo, in seguito a rovesci economici, ha abbandona 









48  Sulle parole di Ettore e di Elena come indizi, tra gli altri presenti nei poemi omerici, di autoconsapevolezza del poeta, vd. l’importante contributo di de Jong 2006. Finkelberg 1991-92, 31 non coglie il significato metapoetico dell’affermazione di Elena quando sostiene che essa è dovuta alla consapevolezza dell’eroina di essere causa della guerra di Troia. 49  Il. 3, 125-128. Su questi versi vd. anche Frontisi-Ducroux 1986, 49. 50  È la domanda che ponevo sopra. 51  Al rapporto speciale che lega Achille alle doti poetiche di Omero fa riferimento la leggenda riportata da Vita Hom. 6, 45-51 Allen. Recatosi sulla tomba di Achille, Omero pregò l’eroe di lasciarsi ammirare nello splendore delle armi fabbricate per lui da Efesto. Fu esaudito, ma la visione lo rese cieco, e Teti e le Muse, mosse a compassione, gli fecero dono dell’arte poetica. 52  Sulla ‘questione filostratea’, sulle opere attribuibili all’autore dell’Eroi-

to la città, dove viveva grazie alle rendite dei suoi possedimenti agricoli e dove aveva frequentato in gioventù retori e filosofi, per ritirarsi nell’unico podere fortunosamente rimasto in suo possesso. Qui, nei pressi di Eleunte, nel Chersoneso tracico, conduce la modesta ma serena esistenza del contadino, che si sostenta con i prodotti della terra e sopperisce alle piccole necessità con il baratto, confortato e guidato da Protesilao. Con l’eroe, che fu il primo dei Greci a morire, appena sbarcato a Troia, il Vignaiolo intrattiene un rapporto diretto e quasi quotidiano : Protesilao gli appare, gli fornisce consigli pratici e gli rivela, a proposito dei protagonisti della guerra di Troia, verità che non trovano riscontro né in Omero, né nei racconti di altri poeti. 54 Il Fenicio proviene dall’Egitto, passando dalla Fenicia ha risalito le coste dell’Asia Minore e ha intenzione di affrontare la difficile traversata dell’Egeo in mare aperto. Costretto dalla bonaccia a fermarsi a Eleunte, ha fatto un sogno : gli sono tornati alla mente i versi omerici del Catalogo delle navi e ha invitato uno a uno gli eroi achei a salire sulla sua nave. Ora che il Vignaiolo, incontrato per caso, gli ha parlato del suo rapporto speciale con Protesilao e gli ha promesso di riferirgli tutto ciò che Protesilao racconta, gli sembra che il sogno si stia in qualche modo avverando. Mentre si rifiuta di credere che gli eroi omerici appaiano tuttora nella pianura di Troia, armati di tutto punto come allora, il Fenicio è invece ansioso di apprendere il racconto di Protesilao sul raduno degli Achei ad Aulide e di sapere se gli eroi erano effettivamente valorosi e saggi, come li descrive Omero. Cos’altro infatti potrebbe narrare Protesilao sulla guerra di Troia, dal momento che cadde prima ancora di imbracciare le armi ? Allo scetticismo del Fenicio il Vignaiolo oppone la fede incondizionata nella sapienza del suo protettore : l’anima di Protesilao, divenuta pura, è in contatto diretto con gli dei, dai quali attinge il suo sapere. Egli conosce a fondo il testo di Omero, che è in grado di interpretare meglio di chiunque altro, compresi gli episodi successivi alla sua morte, e tutta la vera storia della guerra di Troia. 55 Filostrato descrive magistralmente l’atteggiamento del Fenicio, caratterizzato, in questa fase del dialogo, da un misto di curiosità e diffidenza, di attrazione e incredulità : al desiderio di sapere, acuito dalla rinnovata promessa dell’interlocutore di riferirgli tutto quello che ha appreso, fa da contrappunto la professione di scetticismo nei confronti dei miti, ai quali ha smesso di credere fin da ragazzo : non ha mai incontrato nessuno che abbia assistito di persona agli avvenimenti narrati dai miti ; prova particolarmente eloquente del loro carattere incredibile gli appare ciò che si dice sulla statura eccezionalmente alta degli eroi (capp. 1-7). Ma se il suo desiderio di ascoltare finisce con l’avere ragione del più fermo convincimento razionale, il Vignaiolo, adepto militante del culto eroico, non si accontenta di una pur illimitata disponibilità all’ascolto e  

















co e sulla sua biografia, vd., rispettivamente, De Lannoy 1997, Elsner 2009, Bowie 2009. 53  Il testo del dialogo qui utilizzato è quello edito da De Lannoy 1977. Commenti : Beschorner 1999 ; Grossardt 2006, ii. Traduzioni : Rossi 1997 ; Maclean-Aitken 2001 ; Grossardt 2006, i. Studi generali : Mantero 1966 ; Nagy 1987 ; Jones 2001 ; Nagy 2001 ; Grossardt 2004 ; Aitken-Berenson Maclean 2004 ; Pache 2004 ; Rusten 2004 ; Whitmarsh 2004 ; Whitmarsh 2009. Per un confronto tra l’Eroico e il Fedro di Platone, vd. Hodkinson 2011 (edizione ampliata di Hodkinson 2007). 54  Vd. Philostr. Her. 23, 1 ; 28, 4 ; 31, 4. 55  Ibid. 7, 6 : ajll∆ o{mw~ oi\den oJ Prwtesivlew~ ta; ÔOmhvrou pavnta, kai; polla;  





























me;n a[/dei Trwika; meq∆ eJauto;n genovmena.







achille, l ’ eroe che canta se stesso 29 pretende dall’ospite un’ammissione di fede nella presenza Il giudizio complessivo di Protesilao su Omero si artiviva degli eroi nel mondo degli uomini, che otterrà dopo cola in due brani particolarmente ampi, che costituiscono avergli illustrato una nutrita serie di apparizioni e di prodialtrettante cesure nella struttura del testo. Il primo (24-25) gi operati da eroi giganteschi (capp. 8-22). 56 A questo punè inserito al termine del racconto della spedizione in Misia to il Vignaiolo passa finalmente a riferire le integrazioni e e prima del catalogo dei singoli eroi ; il secondo precede il le correzioni che Protesilao apporta al racconto omerico, ritratto finale di Achille ed Elena (43-44). Al Fenicio che gli dilungandosi dapprima sulla spedizione vittoriosa degli chiede se Omero abbia tralasciato intenzionalmente o meAchei in Misia, precedente alla caduta di Troia (cap. 23), no il racconto della spedizione in Misia, condotta vittorioper illustrare poi le gesta dei singoli partecipanti all’impresamente da Achille con molti altri eroi, tra i quali Palamede sa troiana. Nell’Eroico, dunque, è l’eroe stesso che prende e lo stesso Protesilao, il Vignaiolo risponde che, a suo parela parola per celebrare gli altri eroi, affidando al suo adepto re, l’omissione fu voluta dal poeta per non essere costretto il compito di divulgarla. a parlare né degli eroi che in quella occasione si mostraroLa ricostruzione di Protesilao è perciò costellata da conno valorosi almeno quanto Achille, né di Iera, la bellissima tinui riferimenti critici a Omero e al suo modo di presenmoglie di Telefo, capo dei Misi, essa stessa ardimentosa cotare il resoconto della guerra di Troia. L’eroe ne denuncia mandante di un contingente di cavalleria costituito da sole le invenzioni che, a suo dire, non corrispondono alla verità donne, perché la sua bellezza avrebbe offuscato quella di dei fatti, come il muro eretto dagli Achei (27, 7) o le armi Elena. Quanto a Protesilao, il suo giudizio su Omero è altafabbricate da Efesto per Achille (47) o la natura divina dei mente positivo, perché, adottando gli avvenimenti di Troia suoi cavalli (50) ; sottolinea che, a differenza degli altri Grecome fondamento del suo poema, è riuscito a descrivere ci che avevano seguito Agamennone per Elena, Aiace era magistralmente ogni tipo di battaglia e ogni attività umaandato a Troia per affermare la superiorità dell’Europa sui na in tempo di pace ; 62 perché corregge implicitamente gli barbari ; 57 disapprova il trattamento riservato ad Asteropeo altri poeti, pur senza polemizzare apertamente con loro : da Omero, che non ne metterebbe sufficientemente in luce fu superiore a Esiodo per bravura poetica, a Orfeo nella il valore nel duello con Achille (48, 14-16) ; avanza dubbi sulteologia, a Museo nei canti oracolari, a Pamfo per il mola paternità omerica del ventiquattresimo libro dell’Odissea do di inneggiare a Zeus. Alle espressioni di elogio Protesie descrive straordinari prodigi che si sarebbero verificati allao aggiunge però una serie di critiche puntuali. Omero ha la morte di Achille, ma nega che le Muse abbiano intonato parlato bene degli uomini, ma si è espresso in modo sconil canto funebre per lui e sostiene che ciò che fu interpreveniente sugli dei. Ha rappresentato Elena sulle mura di tato come lamento delle Nereidi altro non era che lo sciaTroia, pur sapendo che invece si trovava in Egitto. La verità bordio delle onde del mare (51, 7-10). In altri casi espressioni è che i Greci combatterono contro Troia non per Elena, ma di elogio o di approvazione sono controbilanciate da giuper impadronirsi delle ricchezze della città. Inoltre, Omero dizi negativi : loda i versi pronunciati da Odisseo nell’Ade ha interrotto bruscamente il racconto della guerra, dopo la al cospetto di Aiace, ma afferma che Odisseo li formulò in morte di Ettore, per dedicarsi a Odisseo, affidando al canuna circostanza diversa, perché, in realtà, non discese mai to di Demodoco l’episodio del cavallo di legno e della cada vivo nell’Ade (35, 10-11) ; ammette che Omero descrive duta della città. La condanna dell’Odissea è senza appello : correttamente le qualità di combattente e di comandante Odisseo è definito da Protesilao ‘giocattolo’ di Omero ; 63 i di Ettore, ma sostiene che lo calunnia quando dice che moCiclopi, i Lestrigoni, Polifemo, sono pure invenzioni ; non rì mentre fuggiva o si arrendeva (37, 1-5) ; giudica pregevoè plausibile che Nausicaa e le altre dee si siano innamorate le, dal punto di vista poetico, la descrizione della battaglia di Odisseo, che era ormai un vecchio ; è ridicolo che in più sullo Scamandro, ma la critica in quanto caratterizzata da occasioni si sia addormentato in mare e abbia fatto nauesagerazioni ed eccessi, e riporta una versione dell’episofragio ; Posidone non scatenò la sua ira contro di lui per dio che al Vignaiolo appare più plausibile. 58 Altrove, infivendicare Polifemo, ma Palamede, che era suo nipote. Del ne, il giudizio è positivo senza riserve : Omero dice il vero resto, la vicenda di Palamede, ingiustamente accusato di nel trattamento riservato allo stesso Protesilao ; 59 quando tradimento da Odisseo e giustiziato, e non la sottrazione di descrive il modo di combattere dei Greci ; 60 a proposito di Briseide, fu la vera causa dell’ira di Achille (25, 16). Nestore ; 61 dell’età di Sarpedone al momento della morte Il rapporto tra Odisseo e Palamede, eroe sul quale Pro(39, 4) ; del comportamento di Patroclo in combattimento tesilao si sofferma più volte esaltandone il valore in guerra (48, 10). e la figura di inventore di tecniche e benefattore dell’uma 







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56  Per un confronto tra l’Eroico e le credenze coeve sugli eroi, vd. Jones 2001, 146 ss. 57  Philostr. Her. 31, 2 : kai; tou;~ me;n a[llou~ e[fasken, o{soi prosei`con tw`/  

∆Agamevmnoni, uJpe;r th`~ ÔElevnh~ h{kein, eJauto;n d j uJpe;r th`~ Eujrwvph~: dei`n ga;r dh; ”Ellhna~ o[nta~ kratei`n barbavrwn. 58  Ibid. 48, 11-13 : ta;~ me;n dh; uJperbola;~ ai|~ kevcrhtai ”Omhro~ periv te tou;~ ajpollumevnou~ aujtoi`~ a{rmasin oJpovte ∆Acilleu;~ ejfavnh, periv te tou;~ ejn potamw`/ sfattomevnou~, thvn te tou` potamou` kivnhsin o{t∆ ejpanivsth tw`/ ∆Acillei` to; eJautou` ku`ma, ejpainei` me;n kai; oJ Prwtesivlew~ wJ~ poihtikav, diagravfei de; wJ~ kecarismevna ... piqanwvtera de; touvtwn ejkei`na, oi\mai, diveisi ªscil. oJ Prwtesivlew~º. 59  Ibid. 12, 3 : kai; ta; e[ph ta; ej~ aujto;n ÔOmhvrw/ eijrhmevna ejpainei` ªscil. oJ Prwtesivlew~º, kaivtoi mh; pavnta ejpainw`n ta; ÔOmhvrou, wJ~ ajmfivdrufon me;n aujtw`/ th;n gunai`ka ei\pen, hJmitelh` de; th;n oijkivan, perimavchton de; th;n nau`n ejf∆ h|~ e[pleuse, polemikovn te aujto;n kalei`. 60  Ibid. 23, 18 : ojrqw`~ ga;r tou`to to;n ”Omhron peri; aujtw`n eijrhkevnai fhsi;n ejpainou`nta to; th`~ ÔEllhnikh`~ mavch~ h\qo~, h|~ xuvmboulon genevsqai Ai[anta to;n Telamw`no~ levgei.  





61  Ibid. 26, 2 : kai; oJpovsa ÔOmhvrw/ peri; aujtou` ei[rhtai, xu;n ajlhqeiva/ fhsi;n  

eijrh`sqai.

62  Ibid. 25, 2-4 : To;n ”Omhron fhsiv, xevne, kaqavper ejn aJrmoniva/ mousikh`/ pavnta~ yh`lai tou;~ poihtikou;~ tw`n trovpwn, kai; tou;~ poihta;~ ejf∆ oi|~ ejgevneto uJperbeblh`sqai pavnta~ ejn o{tw/ e{kasto~ h\n aujtw`n kravtisto~: megalorrhmosuvnhn te ga;r uJpe;r to;n ∆Orfeva ajskh`sai, hJdonh`/ te uJperbalevsqai to;n ÔHsivodon kai; a[llw/ a[llon: kai; lovgon me;n uJpoqevsqai Trwikovn, ej~ o}n hJ tuvch ta;~ pavntwn ÔEllhvnwn te kai; barbavrwn ajreta;~ xunhvnegken, ejsagagevsqai de; ej~ aujto;n polevmou~ tou;~ me;n pro;~ a[ndra~, tou;~ de; pro;~ i{ppou~ kai; teivch, tou;~ de; pro;~ potamouv~, tou;~ de; pro;~ qeou;~ kai; qeav~, kai; oJpovsa kat∆ eijrhvnhn eijsi; kai; corou;~ kai; wj/da;~ kai; e[rwta~ kai; dai`ta~, e[rga te w|n gewrgiva a{ptetai, kai; w{ra~, ai} shmaivnousin oJpovsa crh; ej~ th;n gh`n pravttein, kai; nautiliva~ kai; oJplopoiivan th;n ejn ÔHfaivstw/, ei[dh te ajndrw`n kai; h[qh poikivla. pavnta tau`ta to;n ”Omhron daimonivw~ ejxeirgavsqai fhsi; kai; tou;~ mh; ejrw`nta~ aujtou` maivnesqai. 63  Ibid. 25, 14 : oJ Prwtesivlew~ paivgnion to;n ∆Odusseva kalei` tou` ÔOmhvrou.  



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nità, 64 è al centro del giudizio su Omero anche nel brano che segna il passaggio alla sezione finale del dialogo e che muove, ancora una volta, da una considerazione del Fenicio. Questi dichiara la sua incondizionata ammirazione non solo per la grandezza poetica di Omero, ma anche per la ricchezza e la precisione dei dati storici. Dell’attendibilità delle conoscenze di Omero sarebbe testimone, secondo il Fenicio, lo stesso Protesilao, che conferma quasi interamente il racconto del poeta, tranne nei pochi casi nei quali Omero ha operato dei cambiamenti, giustificati, a suo modo di vedere, dall’intento di rendere più piacevole la narrazione. La sapienza di Omero è tale da far apparire la sua poesia opera più di un dio che di un mortale e da avvalorare il giudizio di quanti sostengono che i poemi furono in realtà composti da Apollo, e dal dio successivamente attribuiti a Omero. Il Vignaiolo contesta questa affermazione : se è senz’altro vero che anche la poesia omerica, al pari di quella di altri, è stata composta con l’aiuto delle Muse e di Apollo, come gli stessi poeti sostengono, è altrettanto vero che i poemi sono opera di Omero. 65 La sua esistenza storica è certa, anche se le opinioni sulla sua cronologia e sugli anni che lo separarono dai fatti di Troia sono discordanti, 66 come è certo che gareggiò con Esiodo a Calcide. Sulla patria di Omero, invece, il Vignaiolo non ha appreso nulla da Protesilao, non perché l’eroe ne sia all’oscuro, ma perché Omero stesso non ha voluto parlarne, ben sapendo che il suo prestigio sarebbe aumentato se molte città ne avessero rivendicato i natali, e per non fare torto alle Muse e alle Moire, alle quali risale probabilmente la decisione ultima di non attribuire al poeta nessuna patria in particolare (cap. 44). Fuori discussione è anche l’attendibilità degli eventi che narra, perché Omero conosceva tutti gli eroi partecipanti all’impresa e si documentò con puntualità raccogliendo notizie su ciascuno di loro in tutta la Grecia, in un’epoca in cui il ricordo degli eventi era ancora vivo. Omero utilizzò anche un’altra testimonianza, particolarmente preziosa perché proveniente direttamente da un protagonista di quegli avvenimenti, ma anche causa delle mistificazioni più gravi della verità storica. Recatosi a Itaca, evocò l’anima di Odisseo, che promise di riferirgli dettagliatamente lo svolgimento dei fatti, che conosceva e ricordava con precisione. La veridicità del suo resoconto era garantita dallo stesso rituale di evocazione, che rendeva impossibile alle anime mentire, ma Odisseo vincolò le sue rivelazioni a due condizioni : che Omero celebrasse la sua saggezza e il suo valore e che tacesse su Palamede. Se infatti il poeta avesse omesso qualsiasi riferimento a Palamede, e se i mortali, ritenendo più autorevole il silenzio di Omero, non avessero dato credito ai racconti di altri poeti su quell’eroe, Odisseo, consapevole di dover pagare nell’aldilà le colpe commesse nei confronti del rivale, avrebbe potuto confidare in una punizione meno grave. In sintesi, Omero, nell’Iliade, è stato il più grande poeta di tutti i tempi ; si è documentato con il rigore dello storico sugli avvenimenti che ha narrato e si è attenuto con

scrupolo alla verità dei fatti, tranne quando si è lasciato prendere la mano dalla sua stessa arte, finendo con il privilegiare il piacere del pubblico, ma ha commesso anche l’errore di trascurare eroi che avrebbero meritato ben altro trattamento, allo scopo di metterne in risalto altri, soprattutto Achille, Elena e Odisseo. Ciò lo ha portato a limitare la sua narrazione al decimo anno della guerra, omettendo sia il racconto delle imprese precedenti sia quello della conquista di Troia, giacché ha preferito riferire l’atto finale della guerra nell’Odissea. Omero fu costretto a comporre questo poema per omaggiare l’eroe che fu la sua principale fonte di informazione e che lo costrinse, e questo appare a Filostrato la colpa più grave, alla damnatio memoriae del suo rivale. L’Eroico è un’opera complessa, in bilico tra gioco neosofistico e manifesto del rinnovamento del culto eroico in età imperiale, saggio di esegesi omerica e parodia letteraria, la cui difficoltà di interpretazione è stata più volte sottolineata dalla critica, spesso indecisa tra una chiave di lettura storico-religiosa e un punto di vista storico-letterario. 67 Non è questa la sede per affrontare il tema del rapporto con la cospicua letteratura dedicata alla rielaborazione del racconto della guerra di Troia e con la critica omerica antica. 68 Ho cercato di ricostruire per sommi capi il giudizio su Omero che emerge dal dialogo al solo scopo di delineare il contesto nel quale si inserisce il canto di Achille. Le pur numerose critiche, integrazioni e correzioni alla narrazione omerica della guerra di Troia non scalfiscono la valutazione complessivamente positiva. La stessa scelta di dedicare la più ampia e la più completa delle biografie eroiche che il Vignaiolo riferisce all’ospite, e la celebrazione più solenne, ad Achille, definito qeiovtato~ dal Fenicio fin dall’inizio del dialogo (21, 9), è già un omaggio indiretto al poeta che ne fece il protagonista dell’Iliade.

64  Palamede è l’eroe sul quale, dopo Achille, la ricostruzione di Protesilao si sofferma più a lungo : vd. capp. 20-21 ; 23, 20-23 ; 24 ; 31, 6 ; 33-34 ; 43, 15 ; 48, 7-8 ; 48, 19. 65  Philostr. Her. 43, 10 : gevgone me;n dhv, xevne, poihth;~ ”Omhro~ kai; ta; poihv-

rica in cui operò l’autore, vd. Mestre 2004 ; sui rapporti dell’Eroico con la critica omerica precedente e con la letteratura di età imperiale sulla guerra di Troia, vd. Mantero 1966, 145-224 ; Grossardt 2004 ; Kim 2010, 175-215. 69  L’osservazione è già in Avezzù-Ciani 1994, 237 70  Per l’elenco delle testimonianze su Chirone maestro di musica di Achille, vd. Grossardt 2006, ii 670. 71  Philostr. Her. 45, 6 : ejpei; de; qumou` h{ttwn ejfaivneto, mousikh;n aujto;n oJ





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mata ajnqrwvpou tau`ta.

66  Sulla cronologia di Omero vd. anche ibid. cap. 7, 5. 67  Si vedano in proposito, a titolo di esempio, Whittmarsh 2004, 249 e Kim 2010, 177. 68  Sul trattamento riservato a Omero nell’Eroico e sui possibili intenti della revisione filostratea del racconto omerico, in relazione all’epoca sto-





Se nell’Iliade, cioè nel corso del decimo anno di guerra, la scena di Achille che canta accompagnandosi con la cetra caratterizza e sottolinea la momentanea astensione dall’attività bellica, nell’arco più ampio della biografia narrata da Filostrato la musica e il canto si rivelano come un interesse e un’occupazione centrali dell’eroe sia nell’età giovanile sia durante la sua esistenza post mortem, mentre le imprese di guerra compiute nell’età adulta si inseriscono come una parentesi tra queste due fasi della sua vita. 69 L’Achille omerico è l’eroe guerriero per eccellenza che, in un momento di autoesclusione dalla battaglia, si intrattiene con la musica ; nel ritratto filostrateo quell’attività che in Omero appariva del tutto secondaria e incidentale acquista invece un peso e un valore almeno pari, se non superiori, all’impegno bellico. Introdotto alla musica da Chirone 70 per lenire gli eccessi passionali del suo temperamento, 71 Achille in gioventù intonava, accompagnandosi con la lira, canti che celebravano giovani morti prematuramente, appartenuti tanto a generazioni precedenti, come Giacinto, Narciso, Adone,  















Ceivrwn ejdidavxato: mousikh; ga;r iJkanh; prau?vnein to; e{toimovn te kai; ajnesthko;~ th`~ gnwvmh~. Filostrato riprende qui la stessa dottrina degli effetti psicologici

della musica illustrata dai teorici citati supra (n. 7).

achille, l ’ eroe che canta se stesso 31 quanto a un passato più recente, come Ila e Abdero. 72 Il Probabilmente l’anno scorso – riferisce il Vignaiolo – Achilriferimento dettagliato di Filostrato al repertorio di Achille ha composto, in modo divino e da consumato poeta (qeivw~ le, interamente dedicato a personaggi ai quali sarà legato ... kai; poihtikw`~), il canto in onore di Omero, che ora è in dal medesimo fato di morte prematura, non è casuale, ma grado di far ascoltare al suo ospite, per averlo, a sua volta, lascia intravedere una consapevolezza quasi già acquisita appreso da Protesilao (54, 13-55, 2) : della sorte che lo attende. Sembra quasi che Achille, in gio∆Acwv, peri; murivon u{dwr ventù, si sia esercitato a cantare se stesso. Fece sacrifici a megavlou naivoisa pevra Povntou, Calliope per diventare abile nella musica e nel canto, e la yavllei se luvra dia; ceiro;~ ejma`~: Musa, apparsagli in sogno, gli promise il dono di rendere su; de; qei`on ”Omhron a[eidev moi, piacevoli i banchetti e di alleviare il dolore, ma gli ingiunse klevo~ ajnevrwn, di prepararsi al suo destino di guerriero, impegnandosi ella klevo~ aJmetevrwn povnwn, di∆ o}n ouj qavnon, stessa a ispirare Omero affinché cantasse le sue imprese. 73 di∆ o}n ejstiv moi La celebrazione della gloria di Achille si conferma così, nel Pavtroklo~, di∆ o}n ajqanavtoi~ i[so~ giudizio di Filostrato, come il principale obiettivo del poeAi[a~ ejmov~, ma di Omero. di∆ o}n aJ dorivlhpto~ ajeidomevna sofoi`~ Passando agli eventi immediatamente precedenti l’imklevo~ h[rato kouj pevse Troiva. presa troiana, il Vignaiolo racconta che Achille non fu naEco, che lungo l’infinita distesa d’acqua scosto tra le fanciulle a Sciro per sottrarlo alla guerra, ma al di là del grande Ponto dimori, fu inviato nell’isola dal padre per vendicare il re dell’isola, ti fa risuonare la lira per mezzo della mia mano ; Teso, alleato di Peleo, che era stato ucciso da Licomede ; cantami il divino Omero narra che successivamente Achille sposò la figlia di Teso, fama di eroi, Deidamia, dalla quale ebbe Neottolemo ; ritorna poi sulle fama delle nostre imprese, gesta compiute dall’eroe nella Troade nel periodo precegrazie a lui non perii, dente a quello narrato da Omero ; ricostruisce dettagliatagrazie a lui con me è Patroclo, grazie a lui agli immortali è pari mente il suo comportamento al ritorno in battaglia dopo il mio Aiace, la morte di Patroclo, criticando i versi dell’Iliade dedicati grazie a lui, cantata dai sapienti, al duello con Ettore ; esalta il grande valore guerriero di fama ottenne Troia, presa con le armi, e non cadde. 75 Achille, sottolinea la sua completa mancanza di vanagloria ed elogia la profonda lealtà nei confronti di coloro che Achille non invoca la Musa, pur utilizzando, come è stato erano stati al suo fianco. Ammette che il racconto omerico osservato, formule che riecheggiano i versi iniziali di endella morte di Achille è veritiero ; aggiunge il racconto di trambi i poemi omerici. Si rivolge a Eco, figlia di una Ninfa Polissena, la figlia di Priamo che, innamoratasi dell’eroe, si e di un mortale, che dalle Muse fu allevata e istruita a suosuicidò sulla sua tomba ; descrive dettagliatamente i diversi nare la suvrigx e l’aujlov~ e a intonare ogni genere di canrituali celebrati nel corso del tempo dai Tessali in onore di to con l’accompagnamento della luvra e della kiqavra, che Achille e la sua attuale ira contro di loro per averli trascudanzava con le Ninfe e cantava con le Muse. Ma un giorno rati (capp. 45, 8-53). Pan, come racconta Dafni a Cloe nel romanzo di Longo, Dopo la morte Achille trascorre la sua esistenza oltrerespinto da lei, la fece uccidere e fare a pezzi da pecorai e mondana a Leukè, l’isola che Posidone fece sorgere nel caprai. La Terra, che ricoprì le sue membra, emette ora, Ponto, su richiesta di Teti, per destinarla espressamente a per volere delle Muse, voci di uomini e di dei, gridi di belve dimora ultraterrena di Achille e di Elena. 74 Fu qui che i due e suoni di ogni sorta di strumenti, come un tempo facesi incontrarono per la prima volta, giacché quando Achille va la fanciulla. 76 Tra le possibilità offertegli da Eco, Achille era a Troia Elena si trovava in Egitto (cap. 54, 4), si innamosceglie il canto lirico, 77 che aveva praticato in gioventù, e rarono, e Posidone celebrò le loro nozze. Qui, nel tempio a il componimento breve, in ossequio ai dettami della poetiloro dedicato, si ergono le statue che li raffigurano insieme ca alessandrina, implicitamente richiamati dal Fenicio e dal con le Moire. Ai naviganti e a coloro che abitano sulle rive Vignaiolo nel commentare il canto (55, 4-5). 78 Non si espridel Ponto, Greci o barbari che siano, è consentito sbarcare me dunque, come nella sua tenda a Troia, con gli esametri sull’isola per fare i sacrifici, ma non è permesso trattenersi epici dei kleva ajndrw`n, ma canta il klevo~ di un solo uomo, dopo il tramonto. A quest’ora del giorno, quando sono oril poeta che ha effettivamente cantato il klevo~ degli eroi, il mai soli, Achille ed Elena si intrattengono insieme bevendo klevo~ di Achille stesso, il klevo~ di Troia, rendendo eterna e cantando. Finalmente libero dagli impegni della guerra, la città. Achille ed Elena, gli eroi che trascorrono la loro esistenAchille può dedicarsi al dono che gli fece Calliope. Cantano za eterna e beata nell’amore e nel canto, sono, oltre a Odisil loro amore, il poema di Omero su Troia e Omero stesso.  







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72  Philostr. Her. 45, 6. Successivamente, adirato per la sorte subita da Palamede, Achille aveva composto anche un canto lirico per l’amico, celebrandolo come gli eroi del passato : wj/dhvn te ga;r th`~ luvra~ to;n Palamhvdhn ejpepoivhto kai; h\/den aujtovn, o{sa tou;~ protevrou~ tw`n hJrwvwn (33, 36). 73  Il Vignaiolo riporta testualmente le parole rivolte da Calliope ad Achille (45, 7) : poihth;~ de; e[stai crovnoi~ u{steron o}n ejgw; ajnhvsw ta; sa; uJmnei`n e[rga e aggiunge : tauti; me;n aujtw`/ peri; ÔOmhvrou ejcrhvsqh. 74  Dell’isola di Leukè, localizzata nel Ponto Eusino, alle foci dell’Istro, residenza ultramondana di Achille ed Elena sposi, parla anche Pausania 3, 19, 11-13. 75  Philostr. Her. 55, 3. Per l’analisi metrica del componimento, vd. De Lannoy 1981, 171 ss. 76  Long. 3, 23. 77  Non convince la tesi di Miles 2004, secondo il quale la scelta di Filo 





strato di attribuire ad Achille un canto lirico e non epico non dipenderebbe dalla pratica poetica acquisita dall’eroe in età giovanile né dalla preferenza per il componimento breve elogiata dal Fenicio e dal Vignaiolo, ma dalle caratteristiche stilistiche del linguaggio di Achille nell’Iliade, che risulterebbe più vicino alla poesia del linguaggio di altri personaggi del poema, come è stato sostenuto da P. Friederich - J. Redfeld (Speech as Personality Symbol : the Case of Achilles, « Language » 54, 1978, 263-288) e da R. P. Martin (The Language of Heroes, Speech and Performance in the Iliad, Ithaca N.Y. 1989). 78  Philostr. Her. 55, 4 : Daimonivw~ ge oJ ∆Acilleuv~, ajmpelourgev, kai; ejpaxivw~  







eJautou` te kai; tou` ÔOmhvrou. kai; a[llw~ sofo;n ejn toi`~ lurikoi`~ a[/smasi to; mh; ajpoteivnein aujtav, mhde; scoinotenh` ejrgavzesqai. kai; ejk palaiou` a[ra eujdovkimovn te kai; sofo;n h\n hJ poivhsi~.

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seo, che costrinse il poeta a dedicargli un intero poema, gli stessi ai quali Omero, secondo Protesilao, riserva il trattamento migliore. Nell’Iliade Achille canta i kleva ajndrw`n, Elena tesse il manto sul quale ricama la guerra di Troia. Nell’Eroico il protagonista dell’Iliade ricambia l’omaggio che gli aveva tributato il poeta e Filostrato, facendo cantare ad Achille le lodi di Omero, riconosce la funzione essenziale avuta dalla poesia omerica nel rendere immortale la figura dell’eroe. Il rapporto di reciprocità instaurato nell’Eroico tra Achille e Omero appare la risposta speculare di Filostrato al rapporto di reciprocità che abbiamo individuato tra Omero e Achille nell’Iliade. Filostrato ci consegna così l’interpretazione più convincente della scena del nono libro del poema. 79

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79  A giudizio di Miles 2004 il rapporto di reciprocità tra Achille e Omero instaurato da Filostrato sarebbe invece tutto interno al testo stesso dell’Eroico : come Calliope profetizzò in sogno ad Achille che Omero avrebbe cantato le sue gesta, così Achille canta Omero ; tale rapporto di recipro-

cità sarebbe coerente con la generale prassi creativa di Filostrato, secondo la quale “the writing of the past (the Homeric and Cyclic epics) shapes that of the present (the Heroicus), which is in turn concerned with remaking, even reanimating that past” (71 s.).



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R A ZIONA LISMO, IPER R A ZIONA LISMO E STR ATIGR A FI A A PROPOSITO DELLE DUE A R M ATUR E DI ACHILLE Simonetta Nannini Infatti con ciò che è vero tutti i dati concordano, mentre con ciò che è falso la verità è subito in disaccordo Aristot. EN 1098b 11 s.

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umerosi, e molto importanti, gli spunti teorici offerti dal recente lavoro di Cerri sul libro 18 dell’Iliade, 1 spunti enunciati rapidamente e trattati quasi con una forma di understatement che presuppone in realtà, nascondendola, una faticosa elaborazione di anni, a partire da un fondamentale articolo del 1986 che sanciva la novità del libro 24, sino al complesso studio del 2002 sulla formazione di un poema tradizionale, passando per la traduzione dell’Iliade risalente al 1996. 2 L’Introduzione a quest’ultimo volume, particolarmente innovativa per quanto concerne l’esegesi dello Scudo, mi offre l’occasione di collegare due elementi in essa contenuti, al fine di avvalorare dal punto di vista metodologico l’indagine di Cerri, adottando tuttavia un diverso centro di ‘svolta’ per il poema. Mi riferisco a un’asserzione ritenuta evidente dallo studioso al punto da non dover essere argomentata, e a un’ipotesi, viceversa, estremamente complessa e aperta, avanzata sul finire del lavoro. L’asserzione riguarda il fatto che entrambe le armature di Achille sono divine (p. 19), senza che vengano discusse l’occasione in cui l’eroe entra in possesso della prima armatura e soprattutto l’identità del genitore, Peleo o Teti, che gliela fornisce ; quanto all’ipotesi – in perfetta linea con gli altri lavori teorici citati, dei quali costituisce anzi un avanzamento –, Cerri propone una duplice difesa dell’elaborazione tardo-arcaica dello Scudo : o dopo l’aggiunta dello Scudo “potrebbe essere intervenuta un’opera di rifacimento attento dei libri dal 16 al 22, inteso ad integrarla poeticamente, con allusioni in avanti e indietro, in un testo sostanzialmente nuovo” ; o “si può pensare [...] che una scena di ricostruzione delle armi presente nel testo in elaborazione [...] sia stata soppiantata dall’attuale, che sorvola sulle altre armi e si concentra sulla decorazione dello Scudo, con la sua poetica della mimesi” (p. 50). Il processo di formazione dell’epica individuato da Cerri, in particolare quello degli ampliamenti episodici, mi sembra del tutto condivisibile (così come la molteplicità degli aedi e la recenziorità relativa, senza che sia possibile stabilire una datazione certa, degli ultimi libri, per l’Iliade e anche per l’Odissea), ma è a proposito delle armi di Achille che mi discosto dalle sue conclusioni. Adottando la metodologia di Cerri (che si serve con grande attenzione dei commenti scoliastici, alla ricerca di  

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1  G. Cerri, Omero. Iliade. Libro xviii. Lo Scudo di Achille, intr. trad. e commento a cura di G. C., Roma 2010. 2  G. Cerri, Lo statuto del guerriero morto nel diritto della guerra omerica e la novità del libro xxiv dell’Iliade. Teoria dell’oralità e storia del testo, in G. Cerri (ed.), Scrivere e recitare. Modelli di trasmissione del testo poetico nell’antichità e nel medioevo, Roma 1986 ; Omero. Iliade. Introduzione e traduzione di G. C., commento di A. Gostoli, con un saggio di W. Schadewaldt, testo greco a fronte, Milano 1996 ; Teoria dell’oralità e analisi stratigrafica del testo omerico. Il concetto di ‘poema tradizionale’, « Quad. Urb. » n.s. 70 (99), 2002, 7-34. 3  Là dove Menelao rileva come, benché abbia mandato ad avverti 







tracce che, in modo anche ingenuo, possano avvalorare la sua tesi), risulta immediatamente evidente che molti sono stati in epoca antica i tentativi di ‘razionalizzare’ l’esistenza di due armature di Achille, non foss’altro per l’incongrua competizione fra Odisseo e Aiace al fine di ottenere le armi dell’eroe, che a questo punto sarebbero doppie. Problema vecchio e nuovo a un tempo, e che lo studioso, non a caso, avverte l’esigenza di risolvere, a sua volta razionalizzando, come dimostra nel commento ai vv. 334 s., a proposito della promessa al defunto Patroclo (“non voglio farti le esequie, se prima qui non porto/ le armi e la testa di Ettore, il tuo valoroso uccisore”) : “le armi di Ettore, cui allude Achille, sono in realtà le sue [...]. Ecco allora perché, della prima armatura di Achille, l’Iliade e più in generale il mito non ne faranno più menzione [...] : la prima armatura fu sepolta come offerta funebre a Patroclo” (p. 144). I commenti antichi, insieme con la “paradossale, scioccante”, e pur tuttavia “rilevante” atetesi dell’intero Scudo di Achille da parte di Zenodoto (con le parole di Cerri), sembrano invece concorrere ad avvalorare un processo di innovazione tale da coinvolgere tutti gli episodi relativi all’armatura di Achille, che sostituisce quella da lui affidata a Patroclo e sottratta da Ettore, e potrebbero anche rendere più salda la seconda ipotesi ricostruttiva avanzata da Cerri, con la preminenza data allo Scudo rispetto alle altre armi, la cui confezione già in sé, a mio avviso, costituisce la fondamentale ‘correzione’, o meglio il collegamento vitale della trama iliadica. Diversa è l’individuazione del punto di svolta del poema (l’aggiunta dello Scudo per Cerri, tale da modificare in più punti l’opera, in senso prospettico e retroattivo, oppure da rifletterne i mutamenti ; la concessione stessa delle armi a Patroclo, per alcuni antichi omeristi e per molti moderni, con i quali concordo), e di conseguenza diverso il giudizio sulla necessità della nuova armatura. Nel commento ai vv. 130-137 risulta evidente perché Cerri si limiti ad asserire che le due armature sono divine (semplicemente aggiungendo, “è implicito, è dato per ovvio, che questo eroe fatale, l’eroe fra gli eroi, non possa, non debba combattere con armi qualsiasi, ma solo con armi divine”), dal momento che viene citata una nota di Antonietta Gostoli, relativa a 17, 708-711, 3 già apparsa nella traduzione : “Da un punto di vista razionalistico, Achille potrebbe prendere un’altra armatura qualsiasi, magari farsela prestare da un altro compagno, 4 ma Menelao [qui Teti] ragiona come se Achille, senza la sua armatura, non possa combattere. Non si tratta di una forzatura narrativa, tendente  











re Achille, l’eroe non potrà intervenire subito, “privo com’è di armatura (gymnos)” (v. 711). 4  Non molto diversa la logica di Janko, che cita Paton (« Class. Rev. » 26, 1912, 1-4), secondo il quale i tre doni magici a Peleo costituirebbero un motivo del folk-tale : armatura impenetrabile, lancia, cavalli divini : “This is why [...] Akhilleus must have it [scil. the armour] replaced (Patroklos’own suit would clearly fit him !)” (R. Janko, The Iliad. A Commentary iv (Books 13-16), Cambridge 1992, 334). In questa ottica sarebbe dunque l’impenetrabilità a rendere necessaria la nuova armatura.  









a proposito delle due armature di achille a giustificare (in maniera per la verità alquanto speciosa) l’episodio centrale del libro xviii, la lavorazione delle nuove armi a opera di Efesto, ma di una convenzione, quasi di una struttura di pensiero, comune a molte tradizioni epiche : l’eroe, soprattutto l’eroe protagonista, può combattere solo con le sue armi, che sono armi straordinarie, di origine divina” (p. 119). In queste parole è contenuta la più forte sconfessione della Neoanalisi originaria di Kakridis, rappresentata dal famoso articolo Achilleus Rüstung, 5 e il rifiuto di una ipotetica obiezione razionalistica moderna in nome di una convenzione epica : l’armatura divina si impone perché Achille è un eroe protagonista (Gostoli, Cerri) vs il duello fra Achille ed Ettore si deve svolgere con due eroi rivestiti di un’armatura divina, per influsso di una diversa epica e di un diverso duello, quello fra Achille e Memnone, entrambi forniti dalle madri, divine, di un’armatura divina (Kakridis). È vero che l’eroe protagonista pare debba avere un’armatura di origine divina (e questo giustificherebbe il ricorso a Efesto), ma il problema più serio è che Achille non ha più la propria. Le Ire e le Vendette sono numerose nell’epica, la congiunzione dei due temi è ciò che ci consegna l’Iliade, e la congiunzione avviene nel momento in cui Patroclo è mandato a combattere, ma in modo complesso, fornendogli un’armatura che dovrebbe farlo passare per Achille. D’altro canto non è nemmeno primaria, a mio avviso, l’intenzione dell’aedo di ripetere l’episodio di Achille e Memnone, o altro episodio consimile, per approdare a un duello con due protagonisti armati di armi divine. Che Ettore spogli Patroclo dell’armatura non pare funzionale a questo scopo, così tortuosamente raggiunto : 6 è il duello fra Achille ed Ettore ad essere ‘tradizionale’, e in quanto tale inevitabile, dunque richiede necessariamente le nuove armi per Achille, non che anche Ettore abbia armi divine : le armi di cui l’eroe si riveste sono il segno visibile che ha ucciso Patroclo (come Virgilio comprenderà perfettamente, adottando la soluzione del balteo di Pallante nel duello di Enea e Turno). Convenzionali insomma si possono ritenere il fatto che un eroe protagonista combatta con armi divine, ma anche che un eroe spogli delle armi il nemico ucciso ; niente affatto convenzionale si direbbe piuttosto che l’eroe perda un’armatura divina in seguito alla consegna della stessa all’amico, un atto troppo debolmente motivato e non ben integrato nel testo, e che infatti cederà prestissimo : Nestore suggerisce a Patroclo di indossare le armi di Achille, sperando che i Troiani lo scambino per lui (11, 799) ; la finzione regge ed ottiene l’effetto sperato, come il testo dichiara (16, 278 ss.), ma crolla al v. 543, dove Glauco sa che è Patroclo ad avere ucciso Sarpedone. E non meno debolmente motivata, in quanto invocata per eccesso, pur nell’evidenza, è la necessità da parte dell’eroe, al fine della vendetta, di ottenere nuove armi : Menelao chiede ad Antiloco di avvisare Achille che Patroclo è morto ed Ettore si è già impadronito delle armi, quindi comincia a ‘ricucire’, con elementi razionalizzanti, lo scambio delle armi, lo avvalora, asserendo rivolto agli Aiaci : “Non credo davvero/ che ora costui possa venire [...] /non potrebbe combattere con i Troiani, privo com’è d’armatura” (17, 709 ss.). La madre gli ricorderà a 18, 130 ss. che non ha le armi, che non de-

ve entrare in battaglia prima che lei gliene porti di nuove ; Achille stesso, rivolto a Iris, ribadirà : “Come posso affrontare la mischia ? Le mie armi ce l’hanno quelli !” (v. 188) ; da ultima così Iris : “anche noi sappiamo bene che le tue belle armi son prese” (v. 197). Ricca di ‘zeppe’ razionalizzanti, d’altra parte, è anche la scena in cui Ettore indossa le armi di Achille : dopo avere spogliato delle armi Patroclo si appresta a trascinarne il corpo, ma appena vede Aiace, balza sul carro e consegna le armi ai Troiani affinché le portino in città e siano motivo per lui di “grande gloria” (17, 125-131) ; cinquanta versi dopo incita i Troiani a ritrovare “la furia di guerra/ finch’io non indossi le splendide armi di Achille perfetto,/ che ho tolto a Patroclo, dopo averlo ammazzato” (v. 185 ss.), quindi lascia la mischia e raggiunge i compagni, “in poco tempo, non ancora lontani”, per recuperarle (v. 190). L’aedo deve fargli raggiungere quelle armi ‘incautamente’ consegnate, com’è evidente, ma secondo una prassi tradizionale o un parallelismo interno (dal momento che Patroclo ha consegnato ai compagni le armi di Sarpedone), ed è costretto ad aggiungere quel “non ancora lontani”. C’era una forma di razionalizzazione anche negli aedi (e non solo per quanto concerne il depotenziamento dell’elemento magico, fenomeno spesso sottolineato), esegeti di se stessi nell’uso di formule ormai desuete (così già Pfeiffer), ma altresì accorti esegeti delle proprie scelte narrative, delle proprie ricuciture. Zeus, che qui dichiara l’inadeguatezza di armi immortali (e si tratta della prima armatura di Achille) a un mortale, concede a Ettore di indossarle (v. 201 ss.), come già lo aveva concesso a Patroclo, ma in quel caso l’armatura, per esigenze narrative più che per aposiopesi o per banale svista, non era stata dichiarata divina. Non a caso proprio lo scambio delle armi e le due armature, sino all’episodio-culmine del duello in cui entrambe sembrano ricoprire un ruolo importante, sono stati oggetto sin dall’antichità di condanne e spiegazioni che tendono, le une e le altre, a una razionalizzazione accanita, più o meno ingenua, ma che svela un disagio, una difficoltà. Ancora una volta è l’aedo stesso del libro 22 a sembrare consapevole delle critiche che il duello potrebbe sollevare (e che di fatto solleverà), le anticipa, adottando i tre tipi di strategia riconosciuti per ovviare a problemi di ‘credibilità’ : da un lato si serve di una ‘zeppa’ che fa funzionare il testo contando sulla disattenzione del ricevente (il famoso cenno di Achille all’esercito perché si fermi, dopo che da ben tre giri lui sta rincorrendo Ettore attorno alle mura della città), poi introduce un’‘apologia’ aperta (una vera difesa preventiva : benché velocissimo, Achille non riesce a raggiungere Ettore perché è Apollo ad aggiungere forza all’eroe troiano), quindi ricorre a una ‘tematizzazione’ (proiettando l’evento incredibile nella esperienza comune a tutti, quella dell’incubo). 7 La critica razionalista è stata in qualche modo il contraltare della interpretazione allegorica dei poemi omerici, attaccati e difesi molto presto nella storia della cultura (almeno a partire da Teagene di Reggio e da Senofane). Ma le critiche più feroci, in ambito razionalista, sono state avanzate notoriamente da Zoilo, non a caso soprannominato l’Homeromastix, e dal meno famoso Megaclide, 8 impegnati, a quanto è dato capire, a denunciare non tanto aspetti mo-

5  « Hermes » 89, 1961, 288-297. 6  Fra l’altro apprendiamo che Patroclo è stato spogliato dell’armatura da una brevissima frase di Menelao, rivolta ad Aiace : “le armi le ha prese Ettore dall’elmo ondeggiante” (17, 122). 7  Adotto la terminologia impiegata da R. Scodel, Credible Impossibilities : Conventions and Strategies of Verisimilitude in Homer and Greek Tragedy, Stuttgart-Leipzig 1999.

8  Contemporaneo di Aristotele, “who attached himself to his school”, ma ben più vicino a Zoilo che ad Aristotele, il quale difendeva “the poet against such captious critics” (R. Janko, Philodemus : On Poems. Book i, Oxford 2000, 143). Normalmente viene ritenuto di poco successivo ad Aristotele e appartenente agli inizi del iii secolo.







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rali e incongruenze interne (come Platone nella Repubblica e nello Ione), quanto il ‘falso’ evidenziato dalle incoerenze, un consapevole ‘falso’ del testo rispetto alla realtà fattuale. Tale corrente di studiosi ha aspramente criticato il libro 22, il libro del duello, dai moderni giudicato come uno dei più elaborati del poema, culmine artistico, da un lato, di un crescendo accuratamente preparato, dall’altro picco emotivo di un’attesa sollecitata e portata al parossismo. Anche a loro avviso il libro costituiva un culmine, ma in senso negativo : l’episodio del duello non sarebbe stato che il punto in cui si stringono, di necessità, tutte le deviazioni consapevoli dal ‘vero’, o tutti gli ‘errori’ strutturali del poeta (denominazione non casuale, visto che ‘consapevolezza’, ‘intenzione’ ed ‘errore’ presuppongono, come è ovvio, l’autore unico). L’illogicità del duello, infatti, lungi dall’apparire limitata ad alcune sequenze, e dunque lungi dal poter essere affrontata con l’esclusione poco costosa di brevi sezioni di versi, 9 affondava per i razionalisti le radici proprio nell’episodio dell’intervento di Patroclo al posto di Achille, “the vital link between Achilles’ wrath and Hektor’s death”, un compromesso al quale si riallaccia lo scambio delle armi, “an innovation that the poet has not fully armonized with the tradition” ( Janko, Iliad, cit. 310). Che per i razionalisti i problemi più rilevanti partissero appunto dalla sostituzione in campo di Patroclo, risulta evidente se colleghiamo fra loro i commenti di Megaclide ai canti 16 e 22. Seguiamo gli avvenimenti connessi allo scambio. Patroclo, che è stato mandato da Achille alla tenda di Nestore ad informarsi se il ferito che ha visto trasportare fuori dal campo di battaglia sia Macaone, ritorna presso Achille e lo prega di mandarlo a combattere al suo posto, con le sue armi, come Nestore gli ha consigliato : il libro 11 e il libro 16 condividono, oltre al consiglio di Nestore, ripetuto ad Achille, l’enunciazione da parte di Nestore, anch’essa ripetuta, della altrove irrelata predizione di Teti, sulla base della quale il figlio sarebbe lontano dal campo di battaglia per timore di morire subito dopo l’uccisione di Ettore. La predizione viene ovviamente negata nell’Iliade (poema nel quale è l’Ira a tenere lontano l’eroe), ma era il motore dell’Etiopide. Ciò non significa che, come hanno ritenuto i Neoanalisti, ci troviamo davanti a una vera citazione del poema del Ciclo (scritto o non scritto che fosse, orale e fissato successivamente al nostro poema), la cui trama trasparirebbe (per scelta o per inaccuratezza) sino al duello finale, modellato appunto, a loro avviso, su quello fra Memnone e Achille : basterebbe che il motivo fosse noto all’aedo dall’ampio materiale epico in circolazione, e che lo utilizzasse, integrandolo e giustificandolo all’interno di un diverso poema, ma non a caso, bensì proprio nel momento

in cui la connessione fra i temi dell’Ira e della Vendetta, che comporta l’inevitabile rientro di Achille, richiede l’adozione di un elemento che a quel rientro conduca. Si individua dunque un filo teso fra il libro 11, il 16, il 18 sino al 22. Con le parole di Aristotele : “non è possibile alterare i miti tramandati, e intendo dire, ad esempio, Clitemestra uccisa da Oreste [...] ma il poeta stesso deve trovare il modo di usare bene anche le storie tramandate” (Poet. 14, 1453b), facendo agire i personaggi in piena consapevolezza o ignoranza, facendo loro commettere errori. In altri termini, e pur tenendo conto della distanza temporale fra Aristotele e i poemi, Achille deve uccidere Ettore per vendicare l’uccisione di un amico, ma a tale conclusione, inalterabile, l’aedo può giungere tramite una concatenazione di eventi più o meno motivata, più o meno compresa dagli agenti, ma ovviamente comprensibile, e tollerabile, per i riceventi aurali. Achille è ancora irato per il gesto di Agamennone, ma si rende conto che non si può conservare “un’ira furiosa nel cuore” (16, 60 s.). Memore, si direbbe, del fatto che nel canto 11 ha affermato che non avrebbe desistito dall’ira prima che l’incendio avesse toccato le navi, 10 non interviene di persona, ma esorta Patroclo ad armarsi, e aggiunge anche che se i Troiani bruciassero le navi renderebbero impossibile il ritorno (v. 80 ss. ; lo schol. T bada a sottolineare che l’ira contro Agamennone fa sì che egli desideri ancora soltanto salvare le navi, non gli Achei : mantenere la coerenza del personaggio è indispensabile, e richiede, come è evidente, continue giustificazioni). 11 Achille non solo concede all’amico di entrare in battaglia, ma di entrarvi con le proprie armi. Ed ecco che assistiamo alla vestizione dell’eroe, che indossa l’intera armatura, tranne la lancia (16, 140 ss. = 19, 389-391), donata a Peleo da Chirone, e tale che nessun altro, se non Achille, poteva portarla, mentre Automedonte aggioga per lui due cavalli immortali, Xanto e Balio, ma anche il cavallo mortale Pedaso, frutto del sacco di Eetione da parte di Achille (così come la cetra che l’eroe suona davanti alla sua tenda, nel libro 9, 186 ss.). Ora, che la prima armatura fosse un dono di nozze a Peleo, che la avrebbe a sua volta donata al figlio, emerge da 17, 194 ss. (“e indossava le armi immortali/ di Achille Pelide, date a suo padre/ dagli dei celesti ; il padre ne fece dono al figlio,/ quando fu vecchio ; ma il figlio non invecchiò nelle armi del padre”) e 18, 84 s. (“gli dei la dettero a Peleo, dono stupendo,/ il giorno in cui ti spinsero nel letto di un mortale”). Dunque è dato ben inserito nel poema. Tuttavia già questo elemento è apparso innovativo, sostitutivo di un più arcaico e originario dono dell’armatura da parte di Teti ad Achille, a Ftia, prima della partenza per Troia : 12 a conforto di tale ‘adattamento’ deporrebbero prove iconografiche inconfutabili, per alcuni, 13 ma da altri contestate, 14 nonché

9  Atteggiamento anche di Cerri, che non trova utile soffermarsi sulle numerose atetesi proposte dai critici analisti per rendere coerente e compatto il testo del libro 18, pena il dissolversi del canto stesso e del poema nelle sue singole parti. E credo che abbia ragione, così come l’aveva Marzullo, da lui citato, nelle pagine conclusive della riedizione del suo lavoro (B. Marzullo, Il problema omerico, Milano 1970). I poemi andranno dunque affrontati in un’ottica diversa, che tenga conto degli episodi. 10  Così lo schol. T ad 16, 62 s. ; lo schol. A tuttavia, di ascendenza aristarchea, a 61d spiega che ephen non si riferisce precisamente a ciò che ha detto, bensì a ciò che intendeva (dienoethen) : quello che aveva dunque, da sempre, in animo. 11  La divergenza fra la risposta fornita a Odisseo nel libro 9 (nessun cedimento), e quella fornita ad Aiace (la promessa di intervenire personalmente nel momento in cui Ettore fosse giunto alle tende e alle navi dei Mirmidoni), non passò inosservata a Platone, che su di essa costruì l’opposizione fra Achille e Odisseo nell’Ippia Minore. Si vedano F. M. Giuliano, Platone

e la poesia. Teoria della composizione e prassi della ricezione, Sankt Augustin 2005, e F. Pontani, Sguardi su Ulisse. La tradizione esegetica greca, Roma 2005, 29 s. 12  Edwards (M. W. Edwards, The Iliad. A Commentary iv (Books 13-16), Cambridge 1992, 156) rimanda, come possibile modello, alla panoplia divina donata da Eos al figlio Memnone che, nell’Etiopide, partì per Troia con ‘la panoplia hephaistoteukton’ (come attesta Proclo : cfr. Bernabé, PEG 68, Davies, EGF 47). Janko ritiene probabile che l’armatura come dono di nozze a Peleo sia invenzione omerica, mentre “originally, Thetis brought it to Akhilleus when he left for Troy”. 13  A partire da K. Friis Johansen, secondo il quale i più antichi vasi a figure nere rappresenterebbero la scena del dono delle armi a Ftia (The Iliad in Early Greek Art, Copenhagen 1967), seguito dalla maggior parte dei critici moderni, e da A. Kossatz-Diessmann (LIMC i 1, 71-72 e 122). 14  Così S. Lowenstam, The Arming of Achilleus on Early Greek Vases, « Class. Ant. » 12, 1993, 199-218, che avanza una critica metodologica più am-



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a proposito delle due armature di achille due brani di Euripide, El. 442-451 e IA 1068-1075 (spesso citati a tale scopo, ma la cui evidenza non è conclusiva). 15 La novità del dono da parte di Peleo potrebbe evitare la ripetizione della scena con identico dono e sempre da parte di Teti (“without complaining of a repeat performance” : Edwards, op. cit. 156), costituirebbe dunque una modificazione compatibile con il racconto delle nuove armi (rispondendo in questa ottica a ragioni formali, per così dire, e di coerenza insieme), e sarebbe comunque giustificata dal motivo tradizionale del padre che passa le proprie armi al figlio (così Licurgo, ormai vecchio, consegna le proprie armi, già dono di Ares ad Areitoo, allo scudiero Ereutalione, campione degli Arcadi, in 7, 148 s.). Non basta : molto si è anche discusso a proposito dell’impenetrabilità, nell’Iliade, della prima armatura di Achille, che tale caratteristica dovrebbe appunto avere dal punto di vista mitologico, come dimostra anche il fatto che Patroclo viene spogliato delle armi da Apollo perché Ettore lo possa uccidere. Il fondo magico e popolare dal quale appare verisimile che emerga la prima armatura, sarebbe depotenziato, insieme con tanti altri elementi appartenenti alla medesima cultura, secondo un atteggiamento costante nell’Iliade, da quello che viene definito un “rationalizing genius”. 16 Ma l’argomento è stato a lungo dibattuto anche dagli antichi, che sono approdati a soluzioni diverse, addirittura per la nuova armatura, ben lungi in questo caso dal sottolineare le differenze con poemi artisticamente inferiori, e ricchi di elementi magici, come quelli del Ciclo, ma solo turbati dalle incongruenze : si veda la costellazione di scolii ai vv. 265 ss. del canto 20, in cui Achille, intimorito, tiene lontano, davanti a sé lo scudo, senza comprendere che i doni degli dei “non sono facili a piegarsi e a cedere” : le armi fabbricate da Efesto sono giudicate dagli scoliasti ora trota (vulnerabili), ora atrota (invulnerabili) – e a tal fine vengono portati gli esempi di Ettore ferito da Idomeneo e di Ares stesso –, ora si risolve salomonicamente il problema asserendo che sono sì vulnerabili, ma non facilmente (appunto !), oppure si ricorre all’atetesi dei vv. 269-272 (nei quali la lancia di Enea trapassa due dei cinque strati dello scudo). Procediamo esaminando i tanti sforzi prodotti al fine di elucidare e rendere coerente il testo. La sezione che riguarda la singolarità degli elementi sottratti (la lancia) o aggiunti (il cavallo mortale) alle armi consegnate a Patroclo non è ovviamente sfuggita all’attenzione degli studiosi, che l’hanno spiegata facendo ricorso all’inferiorità di Patroclo e alla sua morte prossima e inevitabile. Così non era per Megaclide che, al quesito sul perché Patroclo non può portare la lancia, nel secondo libro della sua opera su Omero rispondeva che il poeta intende predisporre la scena della fabbricazione delle armi da parte di Efesto, e aggiunge-

va che anche i materiali con cui Efesto produce la nuova armatura, oro e argento, è credibile che potessero esserci in cielo, mentre parlare di un albero in cielo sarebbe stato estremamente “ridicolo”, per cui Patroclo, che perde tutte le armi, non deve perdere questa che il dio mai avrebbe potuto rifare in seguito per Achille (schol. A ad 16, 140 = fr. 5 J.). Logica stringente, benché estranea ai nostri metodi esegetici, e certo per noi pedante, a parte l’idea dell’accurata strutturazione del poema : le nuove armi di Achille sarebbero già preordinate dall’autore che deve trovare il modo di fare perdere ad Achille le precedenti, ad esclusione della lancia, che non gli si può ragionevolmente fabbricare una seconda volta. Logica rovesciata rispetto a quella moderna, o meglio a quella di chi, non credendo nell’autore unico, dotato di perfetto controllo sulla propria opera, preordinata con cura nel suo svolgimento, semplicemente ritiene che le nuove armi siano di necessità dovute proprio all’introduzione dell’episodio di Patroclo, e alla perdita delle precedenti. Ma questo è un problema di opposti, e mai del tutto cassati, punti di vista, che prescindono entrambi dall’oralità o dalla multiautorialità : dall’oralità tout court la prima formulazione, dall’oralità in senso stretto la seconda, un’oralità che procede per accrescimenti ‘lineari’, senza possibilità di correzioni retroattive, o che comunque si limita se mai a riconoscere la dilatazione in performance di particolari vicende, e finisce per approdare all’autore unico che ‘ristruttura’. Sta di fatto che la nuova armatura di Achille rimane un pezzo singolare, che sia preventivamente o retroattivamente giustificato, nel processo di formazione, nella pianificazione, nell’unificazione del poema, per non trascurare alcuna ipotesi. E sin qui Megaclide sembrerebbe soltanto preso dal problema delle nuove armi (così come sappiamo che si è occupato delle armi di Eracle), 17 mentre i suoi commenti si estendono in realtà sino al canto 22. Persuaso che la prima armatura fosse impenetrabile, ne deduce che il duello fra Achille ed Ettore non sia che un plasma (schol. T ad 22, 205-207a1 = fr. 6a), probabilmente pensando che mai Achille avrebbe potuto uccidere l’avversario armato di tale armatura (così Janko) ; lo schol. b al medesimo verso aggiunge che il duello, ancora per Megaclide, è un plasma per via del cenno di Achille che ferma tutti gli Achei (fr. 6c) ; inoltre già al v. 36, là dove lo scoliasta si pone la domanda sul perché nessuno si avanzi a combattere contro Ettore, fermo davanti alle porte della città, in assenza di Achille (e avanza l’ipotesi che gli altri grandi guerrieri greci si accompagnassero a lui nel precedente inseguimento di Apollo), sappiamo che Megaclide, invece di spiegare il ‘vuoto’, di giustificarlo proponendo una lysis o di condannarlo definitivamente, riteneva che tauta plasmata einai, che fossero tutte ‘invenzioni’ (fr. 6b) : il problema

pia in Talking Vases : The Relationship between the Homeric Poems and Archaic Representations of Epic Myth, « Trans. Am. Philol. Ass. » 127, 1997, 21-76.

Janko (Philodemus, cit. 142, opera nella quale lo studioso ne propone una nuova edizione), e almeno tre dei frammenti conservati (frr. 7, 8 e 9 J.) sono dedicati alle armi di Eracle e alla sua spedizione a Troia : nel primo (Hyp. 1 in Hes. Scutum) egli ritiene genuino (gnesion) il poema ma critica Esiodo per l’illogicità (alogon) con la quale asserisce che Efesto fabbricherebbe armi per i nemici della madre, Eracle e Iolao ; nel secondo (schol. bT ad Il. 5, 640) nega (in quanto epseusthai) la spedizione di Eracle a Troia (il nome di Megaclide è stato restituito da C. F. Russo al posto del tradito Menecle, emendato in Megacle da Müller), dal terzo (Athen. 12, 512e-513c) apprendiamo che Megaclide rimproverava ai poeti successivi a Omero e a Esiodo (probabilmente a Pisandro) di “avere riferito che l’eroe guidava eserciti e conquistava città”, mentre in realtà passò la vita fra i piaceri, raffigurandolo inoltre con clava, pelle di leone e arco, come Stesicoro, mentre il precedente poeta Xanto lo aveva rappresentato in veste ‘omerica’ (dunque da guerriero ; ma in Od. 11, 607 si dice che aveva un arco, mentre nello Scutum ha per l’appunto una panoplia completa).







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15  M. W. Edwards, « Class. Ant. » 9, 1990, 311-325. 16  Janko, Iliad, cit. 334 (cfr. anche p. 1), sulla base di J. Griffin, The Epic Cycle and the Uniqueness of Homer, « Journ. Hell. Stud. » 97, 1977, 39-53. Lo studioso ritiene tuttavia che l’elemento magico sia lasciato intravvedere. Francamente non so quanto l’operazione sia consapevole : per Janko è evidente che l’armatura sulla quale tanto si lotterà alla morte di Patroclo ha un’importanza del tutto particolare, così come è evidente che Achille deve scegliere un punto non protetto per uccidere Ettore. Mi sembra che recuperare l’armatura (con la quale l’eroe nell’epica quasi si identifica) trovi una spiegazione proprio all’interno del ‘genere’, e ritengo ovvio che si colpisca in un punto non protetto (in questo caso il ferimento è anche funzionale alla possibilità di Ettore di pronunciare le ultime parole). 17  Megaclide riservava particolare attenzione alle armi, come sottolinea  













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riguarda evidentemente l’intero episodio, a partire almeno dalla solitudine nella quale si muovono i due eroi, il vuoto che si crea fra le file dei Greci, mentre i Troiani sono chiusi, ben più plausibilmente, a seguire il testo, nella rocca. Inseguimento, duello e ferimento finale sarebbero dunque un plasma, vuoi per lo strano vuoto sulla scena, giustificato inoltre dal cenno di Achille, vuoi per le armi strappate a Patroclo (invincibili). Ma cosa significa esattamente plasma per Megaclide ? Con questo termine egli si limita a segnalare, in modo neutro, l’invenzione poetica, in quanto caratteristica della poesia, o condanna la sequenza degli eventi ? In primo luogo mi sembra indubbio che plasma venga impiegato in senso negativo. Rimane da stabilire se il termine abbia valenza negativa perché Megaclide ritiene che nel testo si alteri in modo non plausibile una sequenza già tradizionale o perché l’alterazione non è plausibile all’interno dell’opera stessa così come è concepita, oppure se come plasma egli bolli un’invenzione falsa rispetto alla realtà fattuale (non possiamo infatti dimenticare che la guerra di Troia per un Greco è come sospesa fra storia, mito e rielaborazione mitico-letteraria, il che complica il nostro giudizio). Se per lui Omero fosse intervenuto sulla tradizione letteraria, allora ai suoi occhi avremmo a che fare con una innovazione (che va dalle modalità dell’intervento di Patroclo sino a quelle secondo le quali si svolge il duello) non plausibile in quanto poco abilmente rifusa nella sequenza canonica degli avvenimenti. In questo caso plasma celerebbe un giudizio negativo dal punto di vista tecnico e della credibilità. Ma se la prima armatura apparteneva per lui alla realtà della guerra di Troia (e in effetti pare che egli contesti soltanto la seconda armatura, fatta di oro e di argento per salvare una parvenza di verisimiglianza), allora la sua opinione era che Omero, laddove innovava rispetto a una sequenza degli avvenimenti, non era semplicemente implausibile, e privo di abilità, ma si macchiava, ancor più gravemente, di falsità. Un’accusa non estranea al metodo esegetico di Megaclide, almeno a stare al citato schol. ad Il. 5, 64, dove la spedizione di Eracle a Troia viene esplicitamente definita una falsità (epseusthai). 18 Da Ateneo apprendiamo che, a proposito di tale spedizione, egli criticava i poeti postomerici e postesiodei, non Omero. Riteneva allora che l’Iliade contenesse un’interpolazione ? Se consideriamo che a proposito dello Scutum pseudoesiodeo egli asseriva che l’opera è ‘autentica’ (gnesion) – sempre che non si tratti di un argumentum e silentio – ne dovremmo dedurre che si occupasse anche di problemi di attribuzione. Dunque Megaclide anche per quanto concerne il duello potrebbe ritenere, in via ipotetica, che l’invenzione è non solo palesemente falsa ma anche successiva, dunque spuria (tuttavia nulla vieta che lo scolio iliadico sia sintetico e gravemente decurtato). Continuiamo ad esaminare l’ampia sezione che dall’intervento di Patroclo giunge sino al duello. Già nella cosiddetta lotta contro il fiume Scamandro troviamo la confutazione di un commento che ci ricorda Megaclide (ed è stato attribuito a Zoilo), al quale si oppone una sensibilità diversa da parte dello scoliasta (schol. ad 21, 269a) : la piana è stata inondata dal fiume, al punto che l’acqua arriva alle spalle di Achille : “in rapporto alla verità (aletheia) queste cose sono

incredibili (apithana) : che ne è degli altri guerrieri ? È incredibile infatti che il solo Achille subisca queste sofferenze inflittegli dal fiume. Ma le vicende sono da accogliere in quanto facenti parte di una composizione poetica. E la situazione è corretta con successo grazie all’esposizione, in modo tale che l’ascoltatore non si angusti a considerare ogni singolo particolare, se sia vero oppure no”. Qui la verità è fattuale, non si parla di coerenza interna del poema, di inconsistenza rispetto ad altri punti dell’Iliade, se mai di ‘errore’ rispetto alla techne bellica (con terminologia e concetto aristotelici) : il poeta copre con l’artificio tecnico ciò che è inverosimile, in qualche modo impedendo un rovello doloroso al ricevente. In poesia si può accogliere anche il falso, dunque, in nome dell’autonomia dell’opera poetica (espressione per la verità di Imerio, Or. 1, 1, ma concetto evidentemente sotteso a quel “facenti parte di un’opera poetica”) e grazie all’abilità, in questo caso tenendo ben presente l’attitudine di un ricevente sommamente critico, non certo empaticamente coinvolto nella narrazione. D’altro canto il plasma poetico, anche nel senso di falso in rapporto alla realtà, era accolto dallo stesso Aristotele, fatta salva però una certa attenzione da parte del poeta a non essere ‘scoperto’, a occultare dunque il falso, nonché uno sforzo da parte del ricevente (o meglio del critico letterario con passioni storiche e antiquarie), 19 il quale appunto ‘scopre’ la falsità, e insieme si avvede di singolari procedimenti testuali di copertura. Mi riferisco ad un interessante frammento aristotelico (fr. 162 R.) – conservato da Strabone (2, 3, 6 e 13, 1, 36) e riecheggiato da schol. ad Il. 12, 3 ss.) –, da cui apprendiamo che Aristotele giudicava il muro degli Achei (sul quale a lungo altri, fra i quali Tucidide, avevano discusso) una invenzione, un plasma appunto (sempre che il termine non sia di Strabone ; ma certo questo è il senso), come dimostrerebbe il fatto che il poeta deve distruggerlo in quanto costruzione poetica, perché le tracce di tale muro nessuno potrebbe ritrovarle sul terreno. In queste parole c’è tutto il senso della realtà riconosciuta alla guerra di Troia, la distanza nel tempo della stessa, la consapevolezza di una Troia della quale sarebbero ancora visibili i resti, ma c’è anche la passione antiquaria di Aristotele, la sua ricostruzione del passato sulla base di prove affioranti (una diversa forma di razionalizzazione, insomma). Sopra ogni cosa ne ricaviamo l’idea che per Aristotele Omero conservava sostanzialmente la storia, e conosceva bene il sito di Troia, e per motivi inerenti la sua arte si consentiva invenzioni (‘necessarie’ per ottenere certi effetti, per stupire e suscitare il piacere), mai tali però da contraddire quanto è ancora attingibile della lontana realtà. L’atteggiamento di Aristotele sui realia che trovano posto nei poemi non è dissimile da quello con cui affronta non l’intero duello del libro 22, ma almeno l’inseguimento, 20 rispondendo alle critiche degli studiosi antecedenti e contemporanei, e reimpiegando il concetto platonico di ekplexis. Sull’inseguimento di Achille ed Ettore egli ritorna per l’esattezza in ben due punti della Poetica, entrambi di non semplice soluzione. In 1460a 12 asserisce che il meraviglioso (to thaumaston) si deve rappresentare nelle tragedie, e che “l’irrazionale (to alogon), da cui soprattutto discende il meraviglioso, è più adatto all’epica, per via del fatto che qui

18  Sul concetto di plasma si veda in particolare Th. Papadopoulou, Literary Theory and Terminology in the Greek Tragic Scholia : the Case of Plasma, « Bull. Inst. Class. Stud. London » 43, 1999, 203-210. 19  Cfr. G. Huxley, Aristotle as Antiquary, « Gr. Rom. Byz. Stud. » 14, 1973, 271-286.

20  Episodio considerato da Platone, nello Ione (535bc), fra i brani che producono ekplexis, sbalordiscono, spossessano di sé gli spettatori, così come gli esecutori, in particolare quando il rapsodo canta lo ‘slancio’ di Achille contro Ettore (v. 312 ss.). Ciò che preoccupa Platone è evidentemente l’eccesso di paura e di pietà che poeta e rapsodo mirano a produrre.



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a proposito delle due armature di achille non si assiste all’azione scenica. I particolari che hanno a che vedere con l’inseguimento di Ettore se fossero rappresentati sarebbero ridicoli. Gli uni fermi e senza dar segno di inseguire mentre l’altro fa cenno di no con la testa, ma nel racconto sfugge” (non è certo casuale la consonanza con Megaclide nel riconoscere il punto in cui il testo cede). Poco oltre, a proposito dei criteri utili a risolvere i problemi esegetici, nel famigerato capitolo 25 (1460b 27), inserisce ancora l’inseguimento fra le cose impossibili (adynata), che sono pur sempre un hamartema, un errore, ma da giustificarsi in quanto rendono più stupefacente (ekplektikoteron) una parte o l’altra (non sarebbero da giustificare se lo stesso scopo si fosse potuto raggiungere senza commettere errori). Nessun accenno alle armi, se non accogliendo un emendamento di Gallavotti a 1454b 1 : a proposito dello scioglimento dei racconti, Aristotele asserisce che devono avvenire in conseguenza del racconto stesso, “non, come nella Medea, per intervento della macchina e, nell’Iliade, circa le vicende riguardanti la partenza per mare”. Al posto del tradito haploun, e dell’apoploun (recc.) accolto dagli editori, lo studioso ha infatti proposto aoplon, riferendo l’aggettivo, da tradursi con ‘privo di armi’ all’“Achille disarmato”, quindi rimandando all’intervento di Atena che, come deus ex machina, restituisce la lancia, scagliata contro Ettore, ad Achille. Se ‘senza armi’ fosse invece riferito all’Achille che ha perso la prima armatura, l’intervento divino ex machina potrebbe riguardare Teti che gli procura le armi di Efesto, e anche in questo caso il giudizio di Aristotele ricalcherebbe, pur dando esito a una soluzione diversa, quello di Megaclide. L’intervento è tuttavia piuttosto costoso. In conclusione, Aristotele è prossimo alle obiezioni del critico razionalista, nel senso che ne comprende i motivi, ma salva il testo, e i suoi giudizi ricordano anche l’anonimo scoliasta che difendeva l’episodio dello Scamandro. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, egli tiene conto sia del ricevente critico nei confronti del testo (alla ricerca della verità), sia di quello detto ‘narrativo’, che ascolta rapito, che si lascia coinvolgere e garantisce, con la propria disattenzione (sulla quale il poeta conta), il successo del brano. Al di là della critica razionalizzante sin qui citata, esiste una forma di razionalizzazione che consiste semplicemente nell’impiego di una diversa sequenza logica degli eventi, delineata a partire da una differente versione, nota oppure ricostruita, più lineare e senza asperità. Forse del duello circolavano infatti più versioni, o semplicemente la sequenza della seconda parte del poema veniva da alcuni autori resa più congrua, spogliata di tutti gli elementi difficili da spiegare (avvertiti in primis dagli aedi stessi). Come già per le due armature, anche in questo caso esiste un’attestazione iconografica (altrettanto contestata). In un’anfora a figure nere della seconda metà del vi secolo (Luckenbach 539) sono rappresentati due guerrieri, che le iscrizioni identificano come Achille ed Ettore, i quali lottano sul corpo di un guerriero defunto (episodio non attestato nell’Iliade). Poiché sull’altro lato è rappresentato il duello fra Achille e Memnone, si è pensato che il guerriero morto sia Antiloco e che entrambi gli episodi si riferiscano all’Etiopide. Dato però che in un cratere del British Museum (Luckenbach 515), opera del Pittore di Berlino, sono rappresentati i due duelli più famosi, quello iliadico con Ettore e quello ciclico con Memnone, non si vede perché anche in questo caso la situazione non debba essere identica. Se co-

sì fosse, non è necessario asserire che i nomi con cui sono identificati gli eroi nella nostra anfora siano apposti “without considering the discrepancy between this representation and the homeric account of the fight” (Friis Johansen, op. cit. 214) ; basterebbe ammettere che ancora nel vi secolo si cantava una versione della guerra di Troia in cui Achille ed Ettore combattevano sul corpo di Patroclo morto, il che, prevedendo il rientro in battaglia di Achille dopo l’uccisione dell’amico, escluderebbe come è evidente l’intero episodio delle nuove armi. Oltre al reperto iconografico, si possono citare anche alcuni autori che depongono a favore di questa tesi : Platone ed Eschine, nonché i citati brani di Euripide, e i tardi Dione Crisostomo e Filostrato. Platone fornisce una ben singolare ricostruzione degli avvenimenti : nel Simposio, infatti, Achille “sebbene informato dalla madre che, se avesse ucciso Ettore, sarebbe morto, mentre se non l’avesse fatto sarebbe tornato a casa e avrebbe terminato la vita in vecchiaia, ardì preferire, soccorrendo e vendicando il suo amante Patroclo, non solo di morire al suo posto [come Alcesti per il marito, nell’esempio precedente], ma anche di aggiungere la propria morte a quella di lui già morto” (Symp. 180a). Non siamo forse vicini a una trama prossima a quella che pare di poter ricostruire per l’Etiopide ? Se Achille si astiene dal combattere per la profezia rivelatagli dalla madre (e l’accenno, come abbiamo visto, è anche in Il. 11, 794 ss., nelle parole di Nestore, ripetute da Patroclo in 16, 36 ss.), allora non solo lo scambio delle armi (per non dire dell’inseguimento attorno alle mura), ma addirittura l’Ira, il primo movimento del poema, perde di senso ; però forse, proprio per questo, Platone potrebbe riferirsi a una delle storie di Troia circolanti, non precisamente all’Iliade, tanto più che la destinazione ultima dell’eroe sarà l’Isola dei Beati. Ma non si può dimenticare la ben strana versione del piano di Zeus fornita all’interno del poema, in 8, 470 ss., versione che sembra aprire uno squarcio su una trama ‘altra’ rispetto a quella che viene poi sviluppata (vale a dire un combattimento di Achille e di Ettore presso le navi, non lo splendido duello alle mura di Troia, ma soprattutto un combattimento al fine di impossessarsi del corpo di Patroclo) : “All’alba ancora di più lo strapotente Cronide, / se ne avrai voglia, vedrai, Era veneranda dall’occhio bovino, / ammazzare gran massa di Argivi armati di lancia : / non certo prima il possente Ettore desisterà dall’attacco / prima che presso le navi si risvegli il Pelide veloce / il giorno in cui tutti loro combatteranno vicino alle poppe / in una stretta tremenda, intorno a Patroclo morto”. Gli ultimi due versi, atetizzati da Aristarco, e ritenuti spuri da Ameis-Hentze, sembrano presentare a Kirk solo una difficoltà, in quanto Patroclo morirà nella pianura e non presso le navi. 21 A me già altrove 22 è invece sembrato evidente che il piano di Zeus vada perfezionandosi e arricchendosi di particolari, in parallelo con la trama iliadica. La progressione del piano, tuttavia, quindi della trama, ad un’analisi minuta del testo scritto viene meno, si rivela illusoria, cosa che non doveva essere percepibile da parte di un uditorio. Le successive menzioni del piano di Zeus conservano, infatti, come trascinandoli con sé, particolari che denunciano la persistenza di almeno due piani epici diversi : uno semplice, lineare, nel quale Achille, in disparte dalla battaglia per paura della morte predettagli dalla madre, uccide Ettore perché questi ha ucciso Patroclo (e lo fa sul

21  G. Kirk, The Iliad. A Commentary i (Books 1-4), Cambridge 1985, 334.

22  S. Nannini, Il duello in sogno. Nuclei tematici dell’Iliade, Firenze 1995.



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corpo dell’amico) ; l’altro in cui l’Ira ha già trovato posto (ma non lo scambio delle armi, quindi la nuova armatura e il duello del nostro libro 22), e l’eroe rientra in battaglia per intercessione di Patroclo quando l’incendio ha toccato le navi, secondo il paradigma di Meleagro nel libro 9. A proposito del brano platonico, non si possono però escludere soluzioni diverse : non condivido l’ipotesi di Labarbe che lo inserisce fra i passaggi in cui Platone utilizzerebbe una parafrasi di tipo condensé (gli elementi appaiono estranei al poema, non condensati), 23 ma trovo ancora molto interessante quella di Stallbaum : “Oratoriam hanc esse locorum Homericorum interpretationem, qui ipsum Homerum inspexerint, facillime intelligent”, a conforto della quale egli cita la Contra Timarchum 145 di Eschine : “egli pianse tanto l’amico che, di fronte all’alternativa postagli da Teti, sua madre – rinunciare a punire i nemici, lasciare invendicata la morte di Patroclo, ritornare nella propria terra e morire in età avanzata, o vendicare la morte dell’amico Patroclo, etc.”. In questo testo, tuttavia, manca proprio il boethesas, dunque la nozione di ‘correre in aiuto di’, oltre al timoresas, il ‘vendicare’, particolare che non mi sembra affatto privo di significato, 24 e manca anche la menzione dell’Isola dei Beati, ciclica e lirica. Pur nella somiglianza, il testo di Eschine sottolinea in particolare il momento della vendetta e sembra adattare con maggiore aderenza al tema amante-amato la versione platonica, dunque si tratta forse di una banalizzazione di Platone, di un “orecchiare” motivi circolanti, mentre Platone, per quanto l’ipotesi sia indimostrabile, potrebbe ragionevolmente servirsi di una versione per così dire ‘ciclica’, meno sofisticata, certo utile al suo assunto, scegliendola proprio per la evidente linearità, o magari ricostruendola ad hoc. In fondo, anche negli ultimi anni abbiamo assistito a un’operazione che non si discosta dalle letture antiche : nel film Troy (diretto da Wolfgang Petersen nel 2004) non c’è alcuno scambio di armi, Patroclo va a combattere di nascosto con l’armatura di Achille, non viene affatto spogliato di tale armatura ; manca dunque tutta la storia delle nuove armi, e anche il ‘vuoto’ dei guerrieri è risolto con una sortita improvvisa di Achille, non c’è alcun inseguimento, quindi nessuna frustrazione della velocità dell’eroe greco, rimane soltanto la brutale uccisione del nemico. Addirittura i dubbi espressi da Platone nel Simposio, a proposito dell’età di Patroclo e dei suoi rapporti con Achille (gli stessi degli Alessandrini) vengono risolti facendo di Patroclo il cugino e il più giovane dei due. Poiché i personaggi e le vicende di ogni racconto non sono reali, ogni ‘testo’ fa sorgere degli interrogativi per i quali spesso non si sa, o non si può, fornire una risposta : il problema “is to decide what questions are appropriate in particular periods, genres, and works”. 25 Cambiano i tempi e le motivazioni, nonché la sottigliezza, ma la banale, nuda sequenza logica, viene restituita negli stessi modi. E anche questo non può essere privo di significato. Tutte le obiezioni, ora semplificanti, ora razionali o iperrazionali, sfoceranno nel discorso 11 di Dione Crisostomo, Il Troiano. È vero che l’orazione appare più come un trattato su come si debba scrivere la storia, ricostruendone i punti oscuri con un uso stringente della logica, che un commento ai poemi, ma Dione si dimostra consapevole

che il compito del poeta è diverso dal compito dello storico, e la differenza qui consiste nello scopo, che non è quello di stabilire la verità, bensì di infondere coraggio fornendo esempi rasserenanti (giustifica infatti Omero che ha tolto ai Greci la paura di un conflitto, che ci si aspettava, fra Grecia e Asia, 147). Quello che per noi è più interessante in questa sede è che ricordando le obiezioni dei predecessori, senza citarne l’autorità, ma tutto fondendo nella sua argomentazione (muro degli Achei, prima e seconda armatura di Achille, ‘vuoti in scena’, duelli ineffettivi), egli riscontra nell’incendio delle navi l’ultimo momento in cui vero e falso si equilibrano con maestria. Di lì in poi il poeta ha rovesciato nell’opposto ogni cosa “per disprezzo dell’uditorio che si lasciava persuadere su tutto [...], e d’altro canto non c’erano altri poeti o scrittori presso i quali si trovasse la verità, ma era il primo che si fosse applicato a scrivere queste cose” (92). Da questo punto, dunque, tutto si complica : è Achille, non Patroclo, a morire per mano di Ettore, e inevitabilmente tutto quello che concerne Patroclo, sino alla sua morte, e le altre battaglie di Achille, per vari motivi assurde (quella contro il fiume, introdotta per mancanza di racconti meravigliosi, quella contro Agenore, illogica, essendo Achille il più veloce per antonomasia), sino all’incredibile duello finale con Ettore (ancora Achille non è veloce come dovrebbe essere, e nessuno lo aiuta), sembrano il contenuto di un sogno. È evidente che Dione è documentato sulle dispute antiche, così come è evidente che coglie i punti esatti in cui è articolata la struttura, attento sempre alle motivazioni, o ‘giustificazioni’ fornite dal poeta (al di là della sua valutazione del fenomeno). Ciò che mi sembra importante è che nel suo caso non si tratta di rilievi isolati, e che tutte le critiche si tengono, per così dire, tutte diventano coerenti alla luce di una consapevole distorsione e rovesciamento. Assistiamo, mutatis mutandis (soprattutto per quanto concerne la ricerca di verità nei poemi, e più in generale la valutazione del vero e del falso in un’opera d’arte), a una stupefacente anticipazione della scuola neoanalitica che proprio in questa sequenza riconosce una mano innovatrice che procede da una storia più antica e lineare, che si avvale della morte di Achille per raccontare quella di Patroclo. Orazione e scuola neoanalitica sono accomunate dallo stesso concetto di autore e di intenzione di autore, nonché dall’idea di una ‘fonte’ più antica, e riconoscibile, alla base del nuovo testo. Né si può trascurare l’individuazione da parte di Dione della capacità persuasiva del poeta, e soprattutto della ‘disattenzione’ del ricevente. Anche Filostrato nell’Heroicus, infine, parla delle armi procurate da Teti ad Achille, il quale con tali armi giunse ad Aulide per unirsi all’esercito in partenza per Troia : la lancia di frassino era soltanto lunga, dritta, e con la punta di diamante, e anche lo scudo era diverso da quello ‘inventato’ (exeuresthai) da Omero. Achille non ebbe mai altre armature “se non quella che portò a Troia, né le perse, né Patroclo le indossò quando lui era adirato” (42, 3). In questo caso è possibile che il riferimento sia filtrato tramite Euripide, visto che poi si parla del finto matrimonio con Ifigenia, ma il giudizio è certo lapidario (47, 4). Ed eccoci, con quest’ultima testimonianza, allo Scudo, un brano sul quale molti hanno scritto, filologi, critici lette-

23  J. Labarbe, L’Homère de Platon, Paris 1949. 24  Proprio questo brano A. Hug segnalò a riprova del fatto che Eschine conosceva il Simposio di Platone (« Rh. Mus. » 29, 1874, 434-444), e l’idea fu ripresa da M. R. Weil, « Rev. ét. gr. » 68, 1955, xii (che ipotizzò una probabile

lettura rapida di una epitome da parte di Eschine, o l’orecchiare di idee nell’aria poco dopo la morte di Platone). 25  Scodel, op. cit. 1.











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a proposito delle due armature di achille rari, studiosi di iconografia, e del quale sono state fornite le esegesi più lontane fra loro, da quelle sul vero o falso archeologico a quelle socio-politiche a quelle allegoriche, infine a quelle psicologiche (tutti filoni rappresentati dall’antichità ad oggi). E l’indubbio pregio artistico della lunga descrizione ha come trascinato con sé una letteratura altrettanto affascinante. Trascurando però le numerose e diverse proposte esegetiche, mi è sempre sembrata più convincente la linea che nel brano ha rintracciato caratteristiche metapoetiche, la riflessione cioè di un aedo sulla propria arte, 26 una riflessione che denuncia il movimento del suo pensiero (pare quasi di sentirne il ‘rumore’) quanto, o forse di più degli interventi con cui di volta in volta egli tenta di rendere plausibile la trama. In tal senso, di particolare evidenza è stato a mio parere il lavoro di Marg, il quale ha letto in Efesto la figura del poeta e nelle immagini raffigurate ha identificato l’intenzione di proporre un microcosmo, 27 ma che soprattutto ha individuato nelle parole del dio, che prevedono la ‘meraviglia’ (thauma) di chiunque vedrà lo Scudo, 28 una vera intrusione d’autore : 29 il thauma costituirebbe l’effetto che l’aedo stesso, assimilando la propria arte a quella del rappresentare per immagini, si ripromette di suscitare. Del tutto indipendentemente, Cerri ed io abbiamo ravvisato una forte comunanza fra similitudini e descrizione dello Scudo, 30 e le similitudini, fra le molteplici funzioni che assolvono, per loro stessa natura costituiscono il primo ‘commento continuo’ ai poemi, dunque lo Scudo, anche sotto questo punto di vista, non può non avere elementi ‘intrusivi’, non appartenere a quella stessa sorta di contrappunto al poema. 31 Se restiamo sul piano delle similitudini, possiamo però al più dire che esse appaiono risalire quasi a fonti diverse, liriche, essere tratte da un probabile repertorio ampiamente adattabile e adattato, ma è indubbio che si evolvono in parallelo con il poema, trascinando con sé strutture arcaiche e via via più sperimentali, innovative, e questo non ci consente di ipotizzare una seriorità dei versi dedicati allo scudo in rapporto ad altre parti del poema. Cerri fa un passo avanti, individuando il fondamentale elemento metapoetico nell’estetica della mimesi, nozione particolarmente evidente in Il. 18, 539 e 548 s., e che, come è esplicito per l’arte figurativa, implicitamente non può non riferirsi “al dettato poetico che sta gareggiando con l’arte figurativa nell’imitare lei, e attraverso lei, la natura”. 32 In questa visione di gara interna fra le due arti, egli intravvede

l’anticipazione di Simonide di Ceo e di quel rapporto fra pittura e poesia che si ritroverà in Platone e in Aristotele, e dunque il riflesso di “un’estetica e una poetica decisamente tardo-arcaiche” (p. 49). Se a questo si aggiunge il thauma, sottolineato da Marg, e si rammenta che gli effetti prodotti dallo scudo sui referenti interni vanno dalla paura al terrore, nei Mirmidoni e in Ettore, all’apprezzamento estetico e all’aumento della furia, soltanto in Achille, mentre nessun personaggio interno viene colto dallo stupore (effetto che ci si attende evidentemente dal ricevente esterno), a mio avviso il quadro che porterà ad Aristotele diviene ancora più ricco di spunti e quasi completo. In conclusione, lo scambio delle armi è determinante per la nostra Iliade, ne è anzi quasi l’atto di nascita, mentre a monte e parallelamente si muovono diverse trame, come credo si possa legittimamente sospettare dagli indizi di vario tipo disseminati nel poema e ricavabili dalle testimonianze esterne, nessuno risolutivo in sé, ma ciascuno di essi importante all’interno della costellazione individuata, e tale scambio è profondamente radicato, al di là degli snodi irrisolti. Se questo è vero, allora lo Scudo potrebbe più facilmente appartenere a un ulteriore ampliamento, o meglio sovrapposizione, rispetto ad una precedente nuova armatura, proprio per la singolare consapevolezza della propria arte che l’aedo dimostra. Egli non entra in gara con altri cantori che lo hanno preceduto o suoi contemporanei (una gara che si può intravvedere nei poemi anche altrove, come negli ultimi anni gli studiosi hanno sottolineato), e l’artista rappresentato non è un aedo interno all’epica stessa (nell’Odissea gli aedi cantano temi epici legati al mondo eroico o divino e Achille nell’Iliade intona sulla cetra i klea andron, le imprese famose, il tema eroico puro insomma). In questo caso l’aedo entra in gara con un artefice divino rappresentandolo mentre è all’opera. Anche Elena ricama sulla sua tela (3, 125 ss.), la sua attività è dunque figurativa, ma come Achille intona un canto eroico, il suo soggetto sono gli aethla di Troiani e Achei, le loro imprese e le sofferenze che comportano : Elena usa le immagini al posto delle parole, ma rimane all’interno della tradizione eroica, ‘fissa’ addirittura la materia che si sta facendo poema. 33 La raffigurazione dello scudo, invece, si differenzia fortemente, per le consonanze con la linea delle similitudini, ma soprattutto per l’assenza del mito eroico (assenza molto acutamente rilevata da Cerri), propone un mondo altro

26  Teoria a ben vedere documentata in primis dallo scolio che anche Cerri cita : “Splendidamente il poeta ha scolpito lo scultore, quasi portandolo sulla scena con la piattaforma girevole e mostrando l’officina a cielo aperto” (schol. BT ad Il. 18, 476 s.). 27  W. Marg, Homer über die Dichtung. Der Schild des Achilleus, Münster 19712, 23-41. 28  18, 466 s. Lo scudo è tale “che chiunque lo veda ne resterà stupito”, e due versi prima il dio ha dichiarato che, bellissime come sono, le armi non allontaneranno tuttavia da Achille la morte. 29  Sugli effetti prodotti dalle armi, cfr. S. Scully, Reading the Shield of Achilles : Terror, Anger, Delight, « Harv. Stud. Class. Philol. » 101, 2003, 29-47, che tuttavia omette proprio lo stupore. 30  “Lo Scudo assolve per certi versi la stessa funzione delle similitudini : non tanto quella di allontanare la visione dal campo di battaglia, introducendo elementi di variatio e tematiche della lirica, quanto di stabilire [...] un parallelo fra ciò che avviene in altri ambiti, e in natura soprattutto, e quanto avviene in guerra” (S. Nannini, Omero : l’Autore necessario, Napoli 2010, 204) ; “Sullo scudo di Achille, tutto questo repertorio di vita vissuta, respinto altrove e relegato (almeno apparentemente) al ruolo secondario del termine di paragone, conquista l’onore della ribalta [...]. Non può allora far meraviglia che moltissimi dei quadri impressi nello scudo siano proprio gli stessi che in altri luoghi compaiono appunto come similitudini” (Cerri, Lo Scudo, cit. 33).

31  Grazie a tale rapporto, Cerri avvalora la tesi di Schadewaldt secondo la quale è nell’introduzione del fatto umano il vero senso dell’Iliade, che parla di eroi ma non è un poema eroico : la vita di tutti i giorni, lungi dall’essere confinata alle similitudini, è in realtà “il vero oggetto del racconto [...] e proprio per questo emerge [...] come protagonista diretta nelle figurazioni dello scudo di Achille” (Lo Scudo, cit. 44). 32  È recente la pubblicazione degli atti di un convegno tenuto a Napoli nel 2008 (Lo Scudo di Achille nell’Iliade. Esperienze ermeneutiche a confronto, a cura di M. D’Acunto e R. Palmisciano, Pisa-Roma 2010), nel quale ben due lavori rientrano in questa linea : Palmisciano argomenta la superiorità dell’aedo, che sfida le altre arti, capace come è di entrare nel laboratorio di artigiani diversi (Il primato della poesia sulle altre arti nello Scudo di Achille, 47-64) ; per L. Sbardella l’artista può rappresentare tutto il mondo che vede, “ma non può dare corpo attraverso l’immagine ai contenuti di memoria mitica legati alla parola poetica” (Erga charienta : il cantore e l’artigiano nello Scudo di Achille, 65-81 [80]). Entrambi i lavori favoriscono dunque la parola sull’immagine. 33  Come scriveva uno scoliasta (schol. bT), appartenente in fondo alla stessa corrente esegetica alla quale apparterrà Marg, “il poeta ha immaginato un notevole modello esemplare (archetypon) della propria poesia”.









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simonetta nannini

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rispetto a quello epico e i due mondi insieme racchiudono passato eroico, mito già letterario e realtà (non tanto pace e guerra, presenti, in differenti proporzioni, in entrambi), rappresentati selezionando i motivi e i temi, e pretendendo di raggiungere la completezza e l’universalità tramite la

scelta (come avveniva già nei cataloghi di arcaica memoria e come sarà caratteristico della teoria della mimesi). L’Iliade esce così da se stessa come racconto della guerra di Troia, e, grazie allo Scudo, il poema unisce due microcosmi, e diviene la mimesi del cosmo.

LA MORTE DI PATROCLO : DECOSTRUZIONE DELL’AR ISTEUS OMER ICO *  

R iccar do Di Donato

L

’epica arcaica, la poesia narrativa dei Greci, pone con intensità e frequenza il problema esistenziale dell’uomo al centro della propria attenzione. Nel caso dell’epica eroica, di quella parte della poesia narrativa ellenica che vede come protagonisti dei guerrieri armati di bronzo, che pure già conoscono il ferro, in una situazione narrativa che si caratterizza come apparentemente astorica e tuttavia non integralmente né volontariamente irreale, 1 la morte appare non soltanto motivo costante e centrale, ma può a buon diritto definirsi fattore dominante piuttosto che incombente e tale da determinare – con quello delle vicende degli eroi – il corso stesso della narrazione. Una intera corrente di studi ha ben mostrato come la riflessione sulle forme della morte eroica costituisca una strada importante per la comprensione della concezione della vita che è presente nei poemi. 2 L’Iliade è il racconto della fase finale di una guerra combattuta da uomini che procedono secondo una logica lenta e implacabile di eliminazione dell’avversario. Il dovere individuale che sostiene l’identità sociale del guerriero consiste nella ineluttabilità della prova costante del proprio valore a prezzo o comunque a rischio della vita. Salvo rare eccezioni, che costituiscono in ogni caso un mero rinvio dell’esito finale, uno dei due guerrieri che si affrontano nel duello o nella mischia, viene colpito e perde la vita : il numero di morti, il numero di androktasiai, di uccisioni descritte individualmente o elencate nei vari momenti collettivi, è straordinario e terribile. 3 Si tratta di un dato che caratterizza tutto l’insieme della poesia eroica, ma questo non impedisce affatto, come subito vedremo, l’autonoma assunzione di rilievo di alcune vicende rispetto ad altre. Nell’epica greca arcaica non tutte le morti e non tutti i morti sono eguali : vogliamo capire perché. Nella complessa architettura del poema monumentale, 4 la morte di Patroclo è un evento centrale, per la funzione che svolge di elemento di finale definizione della crisi dell’identità eroica di Achille e per quella di immediato determinatore della sequenza di azioni che portano il figlio di Peleo, soddisfatto l’obbligo rituale dell’onore funerario – in questo caso esteso al massimo grado – al recupero pieno della propria identità sociale e quindi al ritorno alla funzione guerriera fino al compimento della conclusiva aristeia che culminerà nella uccisione di Ettore. La costruzione narrativa – sempre rispettosa dei tecnicismi stilisticamente obbliganti della iterazione epica – ap-

pare molto attenta nel seguire un accurato meccanismo di sollecitazione dell’interesse di chi ascolta e viene costantemente attratto dalla continua moltiplicazione degli eventi che la tecnica espressiva dell’epos, quando si applica alle strutture narrative, inanella consarcinando l’uno all’altro incessantemente. Il canto di Patroclo, o meglio delle sue gesta eroiche finalmente autonome – Patrokleia è il nome antico del xvi libro –, è un canto di guerra e quindi di lotte, di uccisioni e di morti e di morte. 5 Il dialogo iniziale dell’eroe eponimo con Achille (16, 1-100) è bagnato dalle lacrime del figlio di Menezio che soffre alla vista dei lutti e delle ferite che lo scatenamento guerriero di Ettore ha portato nel campo degli Achei. Non entro qui nella questione di questo specifico pianto, né in quella da molti studiata del generale pianto degli eroi epici. 6 Mi limito a suggerire, tra le molte ipotesi esplicative che sono state avanzate per un fenomeno avvertito come singolare e che io penso vadano tutte ritenute come valide per una certa parte, la possibilità di una sorta di costante espediente narrativo che vale ad enfatizzare la valutata banale esigenza di una forte espressione del sentimento del dolore, comunque motivato. Si tratterebbe di una conferma della necessità che l’epica afferma di una descrizione di concreti per l’impossibilità di valersi dell’espressione di astratti. L’effetto paralizzante che l’ira ha prodotto nell’attività guerriera di Achille coinvolge naturalmente tutti i suoi compagni, i Mirmidoni che dalla Tessaglia lo hanno seguito nella Troade per rispettare un duplice vincolo, quello che lega i singoli guerrieri al proprio capo e quello che unisce quest’ultimo al capo della spedizione, Agamennone, che esercita – e costantemente rivendica – una funzione suprema di decisione nell’impresa comune. L’assenza di Achille dal campo lascia l’iniziativa ai Troiani e mette a rischio la vita degli Achei tutti e perfino l’incolumità delle navi che Ettore arriva a cominciare a bruciare, fino quasi ad eliminare, con l’estrema via di fuga, ogni speranza di sopravvivenza per i nemici di Troia. La prossimità di Patroclo ad Achille supera, nella definizione epica, ogni aspetto proprio della consuetudine che governa la eteria guerriera per attingere la sfera che noi diciamo familiare, se pure in una forma del tutto particolare, su cui altrove (11, 765 ss.) la narrazione si dilunga. Così non si deve spiegare oltre misura la richiesta che ad Achille Patroclo rivolge di indossare proprio le sue armi (16, 40

*  Questa nota di mera lettura presuppone l'argomentazione svolta e le scelte terminologiche operate nel mio volume Aristeuein. Premesse antropologiche ad Omero, Pisa 2006.

3  Sull’ideologia della violenza guerriera : H. van Wees, Status Warriors. War, Violence and Society in Homer and History, Amsterdam 1992, segnatamente alle pp. 61-153. 4  Per questa nozione : G. S. Kirk, The Iliad. A Commentary i (Books 1-4), Cambridge 1985, 1-16. 5  Il meglio della cultura analitica : W. Leaf, The Iliad ii, ed. with Apparatus Criticus, Prolegomena, Notes and Appendices, London 1902, 153 ss. (= Leaf ). Per la cultura post-oralistica : R. Janko, The Iliad. A Commentary iv, gen. ed. G. S. Kirk, Cambridge 1992, 309 ss. (= Janko). 6  H. Monsacré, Les larmes d’Achille. Le héros, la femme et la souffrance dans la poésie d’Homère, Paris 1984 ; L. Faranda, Le lacrime degli eroi. Pianto e identità nella Grecia antica, Vibo Valenza 1992.

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1  Sulla storicità del narrato dei poemi : K. Rafflaub, Historical Approaches to Homer, in S. Deger-Jalkotzy - I. S. Lemos (edd.), Ancient Greece : from the Mycenaean Palaces to the Age of Homer, Edimburgh 2006, 449-462. 2  Mi riferisco ovviamente agli studi francesi realizzati intorno alle idee di Jean-Pierre Vernant e culminati nel volume collettivo La mort, les morts dans les sociétés antiques, Cambridge-Paris 1982. Per le posizioni del caposcuola : J.-P. Vernant, L’individu, la mort, l’amour. Soi-même et l’autre en Grèce ancienne, Paris 1989.  











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riccardo di donato

ss.). Le armi sono il primo elemento materiale dell’identità guerriera quando questa si deve esplicare in azione. Come tutti gli oggetti che pertengono agli eroi le armi hanno una storia che può essere narrata e sono strettamente connesse alla persona che le possiede e le usa. 7 Tanto spiega l’effetto primo che Patroclo ipotizza a motivare la propria richiesta : la paura che i Troiani proveranno al solo cospetto delle armi di Achille, nel dubbio che sotto di esse ci possa essere effettivamente il sovrano dei Mirmidoni (16, 41-45). Al sospetto di Patroclo, secondo cui l’assenza di Achille dal campo di battaglia possa dipendere da una prescienza del destino di morte, risponde immediata la riproposizione del motivo dell’ira e della rottura del vincolo, del vero e proprio patto sociale che il Pelide aveva contratto con il capo della spedizione. E anzi è lo stesso Achille ad auspicare che l’impresa dell’amico possa valere a lui il ripristino della condizione di eguaglianza senza parità all’interno della comunità più estesa dei guerrieri greci, con la restituzione di quanto gli è stato sottratto e l’aggiunta di splendidi doni. Il limite posto all’amico è quello di evitare il compimento dell’impresa escludendone Achille. Questo potrebbe impedire la finale ricomposizione tra l’eroe e la comunità tutta che richiede la prova diretta dell’aristeuein. L’importanza della successiva descrizione dell’estremo compimento dello sforzo aggressivo di Ettore e dei suoi contro le navi dei Greci è confermata da una spia stilistica di ordine letterario. La descrizione è aperta cioè da una nuova invocazione alle Muse (16, 112-114) cui viene richiesto di cantare gli eventi. Si tratta del più elevato richiamo possibile alla solennità della funzione poetica nella forma narrativa. 8 Mentre è ancora in corso il duello tra Ettore e Aiace, estrema difesa degli Achei, Patroclo è quasi spinto da Achille sul campo alla testa dei Mirmidoni (16, 125 ss.). Per quanto rapida debba essere l’entrata in azione dell’eroe, che si avvia al compimento della propria personale aristeia, la successione degli atti segue tuttavia lo schema quasi rituale della vestizione – secondo l’ordine tradizionale che è garantito, al livello espressivo, dai distinti ma intrecciati fenomeni di formularità e tipicità (16, 131-139 = 3, 330-338 = 11, 17-19, 29-30, 41-43 = 19, 369-373), cui segue, in questo caso e nel successivo relativo ad Achille, la preparazione del carro e dei cavalli, che dei Tessali Mirmidoni sono una peculiarità aggiuntiva. 9 Il racconto appare di una ricchezza straordinaria e tale da utilizzare, nella piccola dimensione, tutti gli artifici e le ricchezze dello stile espressivo. In forma narrativa è proposto una sorta di catalogo del contingente di cui Achille è capo, e dei principali guerrieri è narrata una sostanziale scheda genealogica, che ci conserva particolari, antropologicamente rilevanti anche rispetto ai costumi e ai sistemi matrimoniali, che vengono evocati in filigrana (16, 168197). 10 Il dato essenziale è costituito – nell’ottica della ricezione – dalla necessità che il racconto sia costantemente autosufficiente e contenga in sé ogni elemento esplicativo che permetta all’uditorio di comprendere e apprezzare lo

svolgimento dell’azione. La preghiera e la libagione a Zeus – dopo l’esortazione all’esercito – esauriscono il ruolo di Achille nella trasmissione della propria funzione guerriera all’amico cui la voce del narratore, una voce che diremmo modernamente simpatetica, e che già ha apostrofato Patroclo in seconda persona (16, 20), nega ogni speranza di ritorno (16, 198-256). La successiva battaglia e lo scatenamento della furia guerriera del figlio di Menezio costituiscono uno dei momenti più elevati e più sostenuti della narrazione bellica nell’intero epos. La forma narrativa esalta, con l’iterazione e quasi la moltiplicazione delle singole azioni di guerra – che si presentano scomposte come in fotogrammi – l’effetto degli atti sugli uomini e la loro vita. Con la sola interruzione delle similitudini, molto frequenti, di diverso sviluppo ma tutte particolarmente grandiose (16, 259-267 ; 297-302 ; 352-357 ; 364-367 ; 384-393 ; 428-430 ; 482-486 e senza soluzione di continuità 487-491 ; 582-584 ; 633-637 ; 641-644), è un continuo affrontarsi e darsi reciprocamente la morte che induce chi ascolta il racconto a un effetto quasi di stordimento. Da molti si è osservato come l’impossibilità di rendere in forma narrativa la simultaneità degli scontri individuali finisca per ingigantire, nell’epica arcaica, le dimensioni della battaglia in cui non tutti possono combattere con tutti, ma le imprese dei singoli si incrociano come in una scacchiera narrativa. 11 Non tutte le storie hanno tuttavia lo stesso rilievo. L’epos è profondamente selettivo fino al limite della arbitrarietà. Non tutti gli eroi hanno, per status e per genealogia, la stessa importanza. La morte di Sarpedone, figlio di Zeus, per mano di Patroclo è evento di primo rilievo e induce a un nuovo contatto tra mondo degli dei e mondo degli uomini che comporta una delle più sconsolate conclusioni sulla immodificabilità – anche da parte dei celesti – del destino dei mortali. La sequenza relativa a Sarpedone è, almeno a mio giudizio, quella che porta a meglio comprendere la concezione generale omerica relativa alla morte che riguarda gli uomini tutti, almeno come espressa da Era nel suo colloquio con Zeus (16, 431-457). Differire il destino di morte è cosa inutile e vana. La mortalità è il tratto che caratterizza l’umano : meglio che la soluzione arrivi in modo onorevole e tale da permettere con la sepoltura e i riti funebri la definitiva reintegrazione del morto. Questo, conclude Era, è il geras dei morti. L’espressione geras thanonton, la parte, l’onore che spetta ai morti, ha fatto molto riflettere. 12 Come sappiamo, il sostantivo geras appare con forte frequenza nel i canto dell’Iliade ove serve ad indicare, con riferimento immediato alla condizione di Achille, la parte che viene attribuita a ciascuno degli eroi dopo l’acquisizione e nella spartizione della preda di guerra. C’è quindi un senso di obbligazione e di proporzionalità che evidentemente pertiene al sostantivo e lo accompagna anche quando – come nel caso dei morti – esso appare evidentemente rifunzionalizzato. 13 Con l’uccisione di Sarpedone, Patroclo pone le premesse per la propria morte.

7  R. S. Shannon, The Arms of Achilles and Homeric Compositional Technique, Leiden 1975. 8  Sterminata la letteratura sull’argomento. La mia personale posizione in Esperienza di Omero. Antropologia della narrazione epica, Pisa 1996, in particolare 139 ss. 9  Utile il commento di Janko, ad locc. (334 ss.) 10  Leaf, ad locc. (168 ss.) ; Janko, ad locc. (340 ss.) e la nota di A. Gostoli a 16, 182-3 in Omero. Iliade, a cura di G. Cerri, Milano 1996.

11  Sulle costruzioni formali resta decisivo B. Fenik, Typical Battle-Scenes in the Iliad : Studies in the Narrative Techniques of Homeric Battle Description, Wiesbaden 1968. 12  L. Cerchiai, Geras thanonton. Note sul concetto di belle mort, « AION (ArchStAnt) » 1984, 36-69 dopo R. Garland, Geras thanonton. An Investigation into the Claims of Homeric Dead, London 1982, 69-80. 13  Sia qui consentito il rinvio al nostro Aristeuein, cit. 53-64.



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decostruzione dell ’ aristeus omerico 45 La battaglia intorno al cadavere del licio giustifica una e l’importanza della propria impresa e di affermare la facile forte espansione narrativa, tutta realizzata nel senso della profezia : quella stessa morte toccherà al suo uccisore (16, estensione degli scontri e delle uccisioni. Apollo interviene 843-854). La replica di Ettore non nega il destino ineluttabisul terreno per realizzare il desiderio di Zeus e affidare il le ma solo introduce il dubbio, velleitario ma crudelmente cadavere del figlio del sovrano degli dei a Thanatos e Hyefficace rispetto al destinatario morente, su chi – tra Achille pnos, a Morte e Sonno, che lo riportino in Licia perché vi e lui – cadrà per primo (16, 859-861). La fine del libro, con sia sepolto (16, 507-684). I Troiani sono in fuga dinanzi alla l’immagine tremenda di Ettore che estrae la lancia monfuria di Patroclo che nessun uomo riesce a contenere. Solo tando con il piede sul corpo dell’ucciso prima di tentare Apollo può allontanarlo dalle mura contro cui per quattro di colpire l’auriga Automedonte che fugge verso una esivolte si scaglia. Ed è sempre il dio a convincere Ettore a genza – quella di informare Achille – che gli vale la vita, tornare in battaglia e affrontare l’uomo che indossa l’armaobbliga l’interprete a una pausa narrativa che permetta di tura di Achille ma non è Achille (16, 721-725). svolgere qualche considerazione. Appare narrativamente matura, in questo senso quasi Il primo dato che ho inteso affermare è la costante prenecessaria, la morte di Patroclo. 14 senza della morte, sotto la specie terribile della uccisione La sequenza conclusiva appare costruita secondo un orviolenta ottenuta nello scontro, nell’intero xvi libro. dine molto rigoroso, che pone in primo rilievo la determiCome appare evidente, sul piano della forma della narnazione temporale nella forma estesa della indicazione del razione, si presenta alternanza di descrizioni diffuse con volgere del sole in direzione del tramonto (16, 777-780). particolari caratterizzanti, secondo i tratti generali della L’uccisione avviene secondo un macabro rituale carico tecnica narrativa epica, e forme più contratte e quasi riasdi significato. Dopo avere guidato i suoi ad impadronirsi suntive. Ci vogliono molti versi, ad esempio, perché due del cadavere del cocchiere di Ettore che ha appena ucciso, combattenti siano descritti e lo scontro tra loro sia narrato dopo aver compiuto cioè l’ennesima azione di deprivaziofino all’esito finale, oppure in un verso solo si può parlare ne della vita dell’avversario e di negazione, con lo scemdi decine di morti come esito di una azione guerriera nepio del cadavere, di ogni possibile futura reintegrazione del anche descritta. morto e di sollievo rituale per quanti gli erano vicini, PaI due momenti che abbiamo isolato, la morte di Sarpetroclo compie l’ultima impresa vittoriosa con tre assalti, in done e quella di Patroclo, appaiono importanti e sono, per ciascuno dei quali fa strage di nove nemici. Ma quando per l’analisi, decisivi, per distinte ragioni. 15 Il primo, l’uccisione la quarta volta arriva a scagliarsi ed è, secondo la formula del figlio di Zeus per mano di Patroclo, serve ad affermare narrativa, simile ad un dio, ecco che improvvisamente egli l’assoluta generalità della soluzione violenta per la vita del perde, per intervento di un vero dio, ad uno ad uno gli eleguerriero. L’unica variabile consentita è quella temporale menti materiali della sua falsa identità garantita dalle armi ma il destino della morte violenta appare inevitabile. Il racdi Achille (16, 786 ss.). conto tuttavia non si limita a questo ma, nella corrisponCon un gesto che poco ha di guerriero, un terribile coldenza tra le parole di Era al suo sposo e la successiva aziopo sferrato con il palmo della mano nella schiena, Apollo ne, risolve assai rapidamente quella che è la questione di gli fa cadere per primo dal capo l’elmo chiomato che mai fondo. Al morto spettano un funerale e una tomba : tutto aveva conosciuto la polvere. L’effetto fisico sul corpo, lo tende a questo. Tutto si risolve – per gli unici che contano, stravolgimento degli occhi, appare sintomo di una perdita che sono ovviamente quelli che continuano a vivere – in di piena coscienza nell’eroe (16, 788-800). questa azione finalizzata alla propria reintegrazione colletPoi – ancora effetto del primo terribile colpo – gli si frantiva e ad una sorta di processo liberatorio del morto nella dituma nelle mani l’asta dalla punta di bronzo e gli cade lo rezione dell’Ade. Il lutto risponde a un bisogno dei vivi : è la scudo con la cinghia che lo legava a protezione delle spalle loro risposta collettiva all’orrore e al terrore della morte. 16 (16, 801-803). Infine è di nuovo Apollo che gli scioglie la coIl secondo racconto, quello relativo all’uccisione di Parazza e lo lascia inerme, privo di ogni protezione come una troclo, offre in positivo un diverso elemento. Per essere preda offerta ai colpi del nemico (16, 804). Gli effetti sulucciso, Patroclo deve perdere preventivamente gli elemenla condizione dell’eroe del colpo e delle successive azioni ti materiali della identità che ha assunto. Deve in qualche del dio fanno sì che ate gli prenda le phrenes : l’immagine si modo procedere a una svestizione rituale di quello che rimantiene così a livello corporeo. Si deve sottolineare come tualmente ha assunto e che noi sappiamo non essere suo, le Patroclo che ha indossato nell’ordine (16, 130 ss.) gambiere, armi di Achille. La sua morte, nel modo in cui avviene, non corazza, spada, scudo, elmo e due lance perda nell’ordine conclude nulla ma apre una doppia questione. La perdita (16, 793 ss.) elmo, lancia, scudo e corazza prima che la landell’armatura apre una esigenza di reintegrazione materiacia gli si frantumi nelle mani. L’elemento identitario che ha le che giustificherà poi, sul piano narrativo, la cosiddetta rivestito ritualmente con la vestizione si decostruisce sotto Hoplopoiia, la costruzione delle armi e dello scudo ad opera i colpi divini. di Efesto, senza di che Achille mai potrebbe tornare in batEuforbo, uno dei Troiani, bravo nella lancia, lo ferisce taglia a compiere il proprio destino. per primo, ma spetta a Ettore di finirlo tenendo ferma la Ma prima di questo, nel rispetto di una reciprocità solancia nel ventre mentre lo insulta e lo schernisce (16, 806 ciale, il suo corpo privato delle armi, che giace in preda ss.). A Patroclo resta solo di poter vantare il proprio valore al nemico uccisore, obbliga ad uno svolgimento narrativo,  

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14  Sulla sequenza, oltre Leaf e Janko, merita ricordare : H. Mühlstein, Euphorbos und der Tod des Patroklos, « Studi mic. eg.-anatol. » 1982, 79-90 ; S. Lowenstam, The Death of Patroclos. A Study in Typology, Königstein 1982 ; W. Allan, Arms and the Man : Euphorbus, Hector and the Death of Patroclus, « Class. Quart. » 2005, 1-16. 15  Una analisi dei funerali di Sarpedone in Esperienza di Omero, cit. 8183.  















16  G. Cerri, Lo statuto del guerriero morto nel diritto della guerra omerica e la novità del libro xxiv dell’Iliade, in G. Cerri (ed.), Scrivere e recitare. Modelli di trasmissione del testo poetico nell’antichità e nel medioevo, Napoli 1986, 1-53. Per il funerale di Patroclo rinvio ancora ad Esperienza di Omero, cit. 83 ss.

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riccardo di donato

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l’aristeia di Menelao, perché il cadavere possa essere riconquistato e restituito all’eteria di appartenenza, all’amico che attende presso le navi, perché il rito possa infine compiersi – nella narrazione – molto più in là, nella forma estrema dei funerali grandiosi e insieme selvaggi che Achille realizza per l’amico morto, con la espansione, nel xxiii libro, anche questa grandiosa dei giochi funebri cui partecipano tutti i migliori degli Achei. I miti, i racconti eroici, svolgono in tal modo la loro funzione eziologica. Servono, ciascuno per proprio conto, sequenza dopo sequenza, segmento dopo segmento, per dare una ragione umana e quindi antropologica della ori-

gine di riti, di azioni individuali e collettive, che si ripetono, come è loro funzione, nella realtà storica dei Greci. La morte di Patroclo, in questo secondo, più limitato ma non poco importante senso, servirà a spiegare come nascono i giuochi atletici e perché anche essi – come tutti i momenti della vita sociale dei Greci – fanno parte della grande dimensione del sacro. La bellezza maestosa dei racconti di Omero non deve distogliere il lettore critico dal proprio compito che è quello di cercare di capire, pur entro le forme della comunicazione poetica e anche grazie a quelle, le forme del pensiero degli antichi.

NOTA A UN PASSO DELL’ILIADE ( Y 99-100) 1  

Mar io Cantilena 0.



L

a toccante scena in cui Patroklos compare ad Achilleus nel penultimo canto dell’Iliade si conclude con il vano tentativo di un abbraccio ; ma la yuchv di Patroklos sparisce squittendo sotto terra.  

’W~ a[ra fwnhvsa~ wjrevxato cersi; fivlh/sin, oujd∆ e[labe: yuch; de; kata; cqono;;~ hjuvte kapnov~ w/[ceto tetrigui`a (Hom. Y 99-101).





Gli ultimi due versi pongono qualche problema esegetico : la similitudine col fumo, infatti, ossia con qualcosa che per natura tende a salire, sembra poco adeguata per indicare il dileguo di qualcosa che finisce sotto terra ; e, del resto, perché finisce sotto terra ? I commentatori che ho consultato (van Leeuwen, AmeisHentze-Cauer, Leaf, Chantraine, Richardson) non notano la difficoltà, che aveva colpito invece Zoilo, come ricorda lo scolio T ad loc. 2 Tuttavia le similitudini omeriche hanno di solito un’evidenza descrittiva realistica e molto perspicua, e, per indicare che qualcosa scende sotto terra, il fumo sembra il termine di paragone meno appropriato. A questo problema sembra potersi trovare una facile soluzione : hjuvte kapnov~ non va riferito al predicato (w/[ceto kata; cqonov~), ma soltanto al soggetto dell’azione, la yuchv dell’eroe, che ha appunto la consistenza del fumo. Quindi la traduzione non sarebbe “la yuchv di Patroklos scese sotto terra come [scende] il fumo”, bensì “la yuchv di Patroklos, nell’aspetto di fumo, scese sotto terra”. Questa è effettivamente l’unica spiegazione possibile : ma si deve notare che essa è linguisticamente tutt’altro che ovvia.  





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320) : 3 ed è perciò questo l’unico caso che ci interessa. La dea Athene, dopo aver concluso il colloquio con Telemachos, durante il quale aveva assunto l’aspetto di Mentes, va via (ajpevbh), ed il poeta aggiunge o[rni~ d jw}~ ajnovpaia diev- ptato. L’interpretazione di questo passo è incerta, e dipende dal misterioso anopaia del testo. Se questo termine va inteso come un aggettivo, ajnovpaia o ajnopai`a, l’interpretazione naturale sembra essere quella sostenuta da Stephanie West nel suo commento del 1981 : 4 “la partenza fu rapida come il volo di un uccello … Il poeta non vuol dire che Atena-Mente si trasformò in un uccello … e wJ~ non è usato per esprimere l’identità di una persona con qualcos’altro”, come conferma il rinvio ad W 572 e m 433, in cui Achilleus non ha l’aspetto di un leone né, rispettivamente, Odysseus quello di un pipistrello. 5 Se si intende invece ajn jojpai`a, “su per la feritoia”, come la medesima West sembra preferire nella successiva edizione inglese del suo commento, 6 l’implicazione più naturale è quella della metamorfosi. In ogni caso, il problema posto dal passo di Y (riferire la comparazione hjuvte kapnov~ al verbo o al soggetto) non ne viene illuminato. Poiché, se per a 320 fosse giusta la prima interpretazione della West, l’analogia ci porterebbe a pensare che in Y 100 la similitudine col fumo è riferita al verbo, con la difficoltà ricordata all’inizio. Se fosse giusta la sua interpretazione più recente, se cioè in a 320 wJ~ fosse da riferire al sostantivo (o[rni~), l’azione espressa dal verbo (dievptato ajn jojpai`a) sarebbe comunque congruente con la natura di un uccello, che vola in alto verso la feritoia : mentre in Y 100 s. l’azione di scendere sotto terra (kata; cqono;~ w/[ceto) non sarebbe congruente con la natura del fumo. Passiamo brevemente in rassegna gli altri casi in cui una comparazione è introdotta da una congiunzione, e nei quali sussista un’incertezza interpretativa anche piccola. 7 Li dispongo in ordine crescente di difficoltà.







1.











Esistono, com’è noto, diversi casi in Omero nei quali, in presenza di un sintagma introdotto da una congiunzione come wJ~ (te), hjuvte, fhv, è incerto se si debba pensare ad una vera e propria frase comparativa, con ellissi del verbo (come in dedavkrusai hjuvte kouvrh [scil. dakruvei], P 7), o si debba riconoscere un semplice complemento di paragone, riferendo il sintagma al suo primo termine. Vediamo quali sono i casi problematici, e se in Omero si può riconoscere un uso regolare o prevalente, tale comunque da agevolare l’interpretazione di Y 100. I più famosi sono quelli in cui è possibile l’apparizione ornitomorfa di una divinità ; in questi casi, la comparazione è introdotta a volte da un aggettivo (come ei[kelo~, ejnalivg- kio~), a volte da un participio (come eijdovmeno~, ejoikwv~), e una sola volta da una semplice congiunzione (wJ~, in a  

1  Il problema qui esaminato è stato discusso con gli amici del seminario omerico. A loro va il mio ringraziamento. 2  P. 385, 84 s. Erbse (= fr. 36 Friedländer = FGrHist 71, 16) : ajll joJ kapno;~ a[nw fevretai. 3 Il dossier quasi completo è riesaminato da G. S. Kirk, The Iliad. A Commentary ii, Cambridge 1993, 239 s. Ai luoghi da lui elencati è appena il caso di aggiungere S 616 (in cui di Thetis che scende dall’Olimpo è detto i[rhx w}~ a\lto : la dea reca con sé l’armatura di Achilleus, quindi la metamorfosi è esclusa). Più incerto è il caso di e 51 : Hermes si slancia sull’onda lavrw/ o[rniqi ejoikwv~. Sull’argomento, particolarmente sui suoi aspetti archeologici, vd. J. B. Carter, Ancestor Cult and the Occasion of Homeric Performance, in J.  





a) Comparazioni introdotte da wJ~, wJ~ o{te, fhv : k 283 : e{taroi dev toi oi{d∆ ejni; Kivrkh~ || e[rcatai, w{~ te suve~. Qui la frase è perfettamente riferibile sia al soggetto (i compagni di Odysseus sono ‘in forma di porci’) sia al verbo (‘sono rinchiusi come si rinchiudono i porci’). l 368 : mu`qon d∆wJ~ o{t∆ ajoido;~ ejpistamevnw~ katevlexa~. Anche qui la comparazione si adatta perfettamente a soggetto e predicato. G 230 : ∆Idomeneu;~ ... ejni; Krhvtessi qeo;~ w{~ || e[sthk j. Anche qui verbo e sostantivo si accordano bene : Idomeneus è simile a un dio, oppure come un dio si erge in mezzo ai capi dei Cretesi che si raccolgono intorno a lui. Il confronto con R 133 8 farebbe pensare che la comparazione si riferisca  











B. Carter - S. P. Morris (edd.), The Ages of Homer. A Tribute to Emily Townsend Vermeule, Austin 1998, 285-312. 4  Omero. Odissea i, Milano 1981, 230. 5  In entrambi i casi la comparazione è introdotta da un semplice wJ~ : levwn w}~ a\lto quvraze (W 572) ; tw/` prosfu;~ ejcovmhn wJ~ nukteriv~ (m 433). 6  A Commentary on Homer’s Odyssey i, Oxford 1988, 115 s. 7  Non sono ovviamente problematici i luoghi in cui un aggettivo esprime il tertium comparationis, come Y 455 perivtrocon hjuvte mhvnh ; q 280 hjvuvt∆ ajravcnia leptav ; etc. Né si ha incertezza in casi come T 374, sevla~ gevnet jhjuvte mhvnh~ ; e 281 ei[sato d jwJ~ o{te rJinovn, etc. 8 [Ai[a~] eJsthvkei w{~ tiv~ te levwn peri; oi|si tevkessi.  









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al verbo, ma forse il parallelo più pertinente è quello con S 518 : 9 Idomeneus è ajrivzhlo~, spicca come un dio. 10 N 564 : kai; to; me;n aujtou` mei`n j, w{~ te skw`lo~ purivkausto~. Qui, come nel caso precedente, la comparazione può riferirsi al nome o al verbo : la lancia di Adamas (simile a uno skw`lo~) resta infissa nello scudo di Antilochos come lo skw`lo~ resta piantato a terra. X 499 : oJ de; fh; kwvdeian ajnascwvn … La testa di Ilioneus è alzata sulla lancia in segno di vittoria. La comparazione può riferirsi altrettanto bene all’oggetto (la testa sanguinante in cima all’asta paragonata al rosso papavero con il suo gambo), sia al gesto di levarla in alto come si leva in alto un fiore. z 309 : tw`/ o{ ge oijnopotavzei ejfhvmeno~ ajqavnato~ w{~. Qui la comparazione sembra riferita al soggetto, Alkinoos, 11 e non al predicato all’indicativo oijnopotavzei (gli dèi non sono particolarmente noti per il loro modo di bere). Ma potrebbe ben riferirsi al participio (tw`/ ejfhvmeno~) : Alkinoos siede in trono con la maestà di un dio : vd. sopra a G 230.  





















1) z 20 : hJ d∆ ajnevmou wJ~ pnoih; ejpevssuto devmnia kouvrh~, dove la comparazione va preferibilmente riferita al soggetto (Athene) : la sua consistenza aeriforme sarà stata richiamata per spiegare come la dea (che comparendo in sogno a Nausikaa assume le sembianze della figlia di Dymas) abbia potuto penetrare nel talamo nonostante la porta chiusa e le ancelle di guardia. Anche qui, tuttavia, la comparazione è adeguata al verbo, che esprime la volatilità del moto della dea.  



2) l 222 : nelle parole di Antiklea, dopo la morte  

yuch; d∆hjuvt j o[neiro~ ajpoptamevnh pepovthtai.

Qui è egualmente possibile l’una e l’altra interpretazione, ma è preferibile riferire la similitudine al verbo. E si noti che la yuchv vola via, non scende.

b) Comparazioni introdotte da hjuvte : q 518 : (Demodokos cantava di come Odysseus) proti; dwvmata Dhifovboio || bhvmenai hjuvt∆ “Arha. La comparazione è riferibile al soggetto (“simile ad Ares”), ma potrebbe accordarsi anche col predicato : Odysseus e Menelaos vanno con intenzioni bellicose alla casa di Deiphobos. x 476 s. : ciw;n gevnet∆ hjuvte pavcnh, || yucrhv. La similitudine è efficace, ma non è chiarissimo il tertium comparationis, che certo non può essere costituito dall’aggettivo. 12 In ogni caso non c’è incompatibilità tra nome e predicato, e la comparazione può applicarsi ad entrambi (“cadde la neve come [cade] la brina”, o “cadde neve della consistenza della brina”). A 359 : karpalivmw~ d∆ajnevdu polih`~ aJlo;~ hjuvt jojmivclh. Il senso è incerto. Thetis emerge ‘in forma di nebbia’, o ‘sale dall’acqua come sale la nebbia’ ? Kirk, ad loc. ritiene probabile la prima interpretazione (Thetis acquisterebbe forma umana solo nel colloquio col figlio), il che a me pare inverosimile, anche se Thetis è certamente divinità capace di metamorfosi, come mostra il mito della sua unione con Peleus. Non so che cosa possa suffragare l’affermazione di Kirk per cui “mist is a natural form for the manifestation of a sea-goddess”. 13 In ogni caso, anche accettandola, la comparazione si accorderebbe bene col verbo. H 219 = L 485 = R 128 : fevrwn savko~ hjuvte puvrgon. Probabilmente è il caso più incerto. D. Page 14 dice che la frase “is an adverbial simile describing not the appearance of the shield but the manner of its carrying (fevrwn savko~ hjuvte puvrgon = “carrying his shield as if it were a sort of defensive tower erected in front of him”)” : in tal modo, secondo Page, si evita che savko~ hjuvte puvrgon sia equivalente a sav- ko~ eJptaboveion. Avremmo quindi un’espressione compendiosa : “portare lo scudo [per usarlo] come un baluardo”. Dubito però che il mantenimento dell’economia formulare sia, da sola, ragione sufficiente per sostenere quest’interpretazione.

3) S 110, in cui, parlando del covlo~, si dice

  9  Qui Ares e Athene guidano gli eserciti vestiti d’oro e armati w{~ te qewv per || ajmfi;~ ajrizhvlw. Si intende ‘in quanto dèi, ben ravvisabili’, in opposizione ai soldati, di cui si dice infatti laoi; d∆ uJpolivzone~ h\san. Qui comunque il predicato h\rce si addice perfettamente al soggetto ! 10  Cfr. anche g 246, dove di Nestor si dice che regna da tre generazioni, e w{~ tev moi ajqavnato~ [v. l. ajqanavtoi~] ijndavlletai eijsoravasqai.

13 Latacz, ad loc. è deciso in senso opposto : “hjuvte … bezeichnet einen Vergleich (‘wie’ : Schw. 2.564) nicht eine Gleichnisse (‘als’, Kirk)”, anche se resta incerto il tertium comparationis. 14  History and the Homeric Iliad, Berkeley-Los Angeles-London 1959, 271. 15  Che oltretutto appare inverosimile a priori, essendo covlo~ nient’altro che una variante di colhv. Vd. anche R. B. Onians, The Origins of European Thought about the Body, the Mind, the Soul, the World, Time and fate, Cambridge 1951 (rist. 1994), 84-87.





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Ho lasciato per ultimo i tre paralleli più stretti con Y 100 sul piano del contenuto e/o della forma :











ajndrw`n ejn sthvqessin ajevxetai hjuvte kapnov~.

Qui hjuvte kapnov~ sarà da riferire non ad una consistenza aeriforme del covlo~, 15 bensì ad ajevxetai : ciò sia perché, ovviamente, il fumo sale, all’opposto di quanto sembra accadere in Y 100, sia perché nel verso precedente un’altra similitudine ha già qualificato l’ira (polu; glukivwn mevlito~ kataleibomevnoio).  

In definitiva, i sintagmi introdotti da wJ~ e hjuvte o 1) si riferiscono al verbo e costituiscono una frase comparativa, oppure 2) costituiscono un semplice complemento di paragone, e si riferiscono al suo primo termine : e in questi casi il verbo è o perfettamente adeguato a questo primo termine, o è forse abbastanza compatibile con esso (è il caso di fevrwn savko~ hjuvte puvrgon, vd. infra). In ogni caso 3) non si riferiscono mai a un termine che sia completamente inadeguato all’azione espressa dal verbo ! E, in questo, il caso di Y 100 è unico.  



2.













11  Traduce bene M. G. Ciani, “ed è simile a un dio”. 12 Stanford, ad loc. chiarisce meglio di altri (“implies crisp and hard snow, i. e. not in soft, melting flakes”), e ricorda diversi tentativi di emendazione.



Se non si vuole addebitare a Omero una similitudine infelice, quella che vorrebbe l’ombra di Patroklos ‘scendere come scende il fumo’, è necessario dunque ‘staccare’ hjuv- te kapnov~ dal verbo w[/ceto. Ma ciò, come si è visto, non è scontato, perché in Omero la comparazione, quando non sia correlata al verbo, è sempre riferibile insieme al verbo ed al sostantivo, e comunque non si trovano esempi in cui tale separazione si attui in presenza di un verbo semanticamente del tutto incompatibile con il sostantivo. Per interpretare in questo modo Y 100 s., separando la comparazione dal verbo, com’è pure necessario, esiste una sola via, e la troviamo percorsa con grande autorità da Ruijgh. Nel  



nota a un passo dell ’ iliade ( y 99-100) 49 corso di un’ampia trattazione della sintassi di queste frasi, a[llh~ ajrch`~ ajnagnwstevon ‘hjuvte pivssa’, i{na h\/ “tw`/ aijpovlw/ che contiene un regesto e una classificazione attenta di tutpovrrw diatelou`nti melavnteron aujtw`/ katafaivnetai to; nevte le comparative presenti in Omero, 16 Ruijgh ricorda che fo~, kai; o{moion pivssh/”. 22 Quest’interpretazione è probabiil valore originario di hjuvte (< h] [*hj¸∆] + ujtev, in cui *ujtev = le, ma possiamo lasciare da parte questo esempio. Non tan‘anche’, cfr. aid. utá) era quello di esprimere una disgiunto perché avremmo qui un arcaismo sintattico nel contesto tiva coordinante : h] kaiv = ‘o anche’. Il valore di particella di una similitudine (anche se queste ultime sono generalcomparativa che poi hjuvte viene ad assumere (‘come’), è mente caratterizzate da una facies linguistica recenziore, la frutto di un’evoluzione che Ruijgh illustra proprio a partire compresenza di elementi anche molto distanti diacronicada Y 100. Qui, più chiaramente che negli altri casi, data l’asmente non meraviglia in Omero). 23 Bensì perché, comunsoluta impossibilità di legare la comparazione al verbo, si que la si interpreti, qui la comparazione si applica ugualimpone l’interpretazione di hjuvte nel suo valore originario : mente bene sia al soggetto (nevfo~) sia al verbo (faivnetai), “le coordinant disjonctif signale que pour désigner la chose e ciò rende molto diverso questo dal caso di Y 100 s. en question, on a le choix entre le terme propre yuchv et le terme métaphorique kapnov~”. 17 Dunque, parafrasando, “ 3. ‘L’ombre, où bien la vapeur, avait disparu sous la terre …’ Se prescindiamo da D 277 s., restano solo due esempi in ou : ‘L’ombre – où bien était-ce une vapeur ? – avait disparu cui l’interpretazione di Ruijgh si imponga, in un caso come sous la terre’”. Dunque, il senso di Y 100 s. è certamente, quella di gran lunga più probabile (savko~ hjuvte puvrgon), e come si è detto all’inizio, “l’ombra di Patroklos, dalla connell’altro (Y 100) come l’unica possibile. Ebbene, non è cersistenza del fumo, scese squittendo sotto terra”. Ma, per to un caso che questi due esempi si trovino entrambi situati intendere correttamente la frase, era necessario recuperare in contesto culturale di alta antichità. il valore originario di hjuvte. Il caso dello scudo a torre non ha bisogno di molte paQuesto è il valore da riconoscere anche in H 219 = L 485 role. Troviamo qui una delle combinazioni più significative = R 128, un esempio altrettanto evidente, dove hjuvte puvrgon fra dato di cultura materiale e dizione epica. 24 Dal punto equivale a puvrgw/ ejoikov~ : 18 non è quindi necessaria l’interdi vista archeologico, lo scudo a torre è notoriamente dopretazione di Page sopra riferita. Aggiungo che, a rigore, cumentato soprattutto nel Miceneo i e ii ; da quello linguil’economia formulare non è compromessa dall’equivalenstico, si osserva non soltanto la presenza di hjvuvte, già di per za di hjuvte puvrgon con eJptaboveion, in quanto la formula sé un tratto arcaico, ma addirittura il valore originario della non è hjuvte puvrgon, bensì fevrwn savko~ hjuvte puvrgon, che congiunzione. Se si aggiunge il fatto che si tratta di una non ha doppioni. formula, è evidente che siamo in presenza di uno dei tratti C’è un solo altro caso in Omero in cui hjuvte conserva più antichi della tradizione. Ma anche il dileguo della yuchv questo valore primario ed è, secondo Ruijgh, 19 quello di D di Patroklos deve avere un’ascendenza molto antica. 277 s. : tw`/ dev t ja[neuqen ejovnti melavnteron hjuvte pivssa / faivLe somiglianze e le connessioni fra l’Iliade ed il Gilgameš net j ijovn (scil. nevfo~), la cui interpretazione è controversa sono troppe perché si possano considerare accidentali, e fin dall’antichità. La questione è se interpretare melavntetroppo note perché debbano essere richiamate. Tra queron hjuvte pivssa come un comparativo di maggioranza, e ste, evidentemente, il rapporto Gilgameš-Enkidu e quello in tal caso si deve intendere hjuvte come equivalente a un Achilleus-Patroklos costituiscono il parallelo più famoso, semplice h[. Questa strada, già seguita da Bekker e da altri, che va oltre la somiglianza generica constatabile in altre e ben difesa da Leaf, 20 è ritenuta possibile anche da Ruijgh, storie eroiche di amicizie virili, come quella di David e che tuttavia propende per un’altra interpretazione, quella già seguita da Ameis, che separa sintatticamente hjuvte pivs- Jonatan. Particolarmente interessante, e più volte sottolineata dagli studiosi, è la somiglianza tra le reazioni dei sa : secondo la sua parafrasi, “le nuage lui apparaît encodue protagonisti alla morte dell’amico. Ricordo soltanto re plus noir parce qu’il s’en trouve éloigné, comme de la quei particolari che, all’interno di quest’ambito tematico, poix”. 21 Anche se Ruijgh non lo dice, quest’interpretaziosegnalano, a mio avviso inequivocabilmente, un rapporto ne è antica, e la ritroviamo identica in uno scolio, risalente fra i due poemi. 1) Durante la lamentazione per la morte evidentemente a Nicanore, secondo il quale era necessario di Enkidu (Tavola viii 57) 25 Gilgameš pone le mani sul interpungere : stiktevon meta; to; melavnteron, e[peita ajpo;  











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16  C. J. Ruijgh, Autour du te épique. Études sur la syntaxe grecque, Amsterdam 1971, 846-876. 17  Ibid. 851. 18  “Dans la construction originale … savko~ hjuvte puvrgon était un groupe de deux membres coordonnés dont l’ensemble servait de complément direct à fevrwn” (ibid. 852). 19  A p. 853. A parte va considerato B 469-472, di struttura complessa, e dove la congiunzione è eccezionalmente collocata a inizio di periodo : hjuvte muiavwn aJdinavwn e[qnea pollav … tovssoi … jAcaioiv / ejn pedivw/ i{stanto ; su questa similitudine vd. Ruijgh, ibid. 20  Egli tra l’altro ricorda l’uso del ted. wie ; cfr. Schwyzer-Debrunner ii 667 che richiama il passaggio idiomatico “so groß wie” > “größer wie”. Vd. anche G. P. Shipp, Studies in the Language of Homer, Cambridge 19722, 136. 21  Ancora diversa la traduzione di Cerri : “e a lui, lì da lontano, sembra nerissima come la pece”. 22  Schol. A, i p. 498 Erbse ; lo stesso commento è incluso negli scolii D (D 277 ZS, p. 181 van Thiel). In realtà, da notizie come queste emerge probabilmente quella che doveva essere la dottrina aristarchea sul valore del comparativo e del superlativo. Vd. le incertezze a proposito di p 216, aJdi- nwvteron h[ t j oijwnoiv, che uno scolio commenta ajnti; tou` plevon tw`n oijwnw`n (ii p. 628 Dindorf, e cfr. Ruijgh, op. cit. 818). Il caso di melavnteron hjuvte pivssa  









era famoso, ed è richiamato anche in uno scolio D a proposito di dikaiov- tato~ Kentauvrwn (L 832b, iii p. 289 Erbse) ; anche in questo caso Aristonico sostiene che il superlativo ha valore di positivo : to; uJperqetiko;n kei`tai ajnti; ajpoluvtou. Vd. S. Matthaios, Untersuchungen zur Grammatik Aristarchs : Texte und Interpretation zur Wortartenlehre, Göttingen 1999, 271 e n. 324. Devo la segnalazione ad Andrea Filoni, che ha in preparazione uno studio su quest’argomento. 23  Shipp (loc. cit. a n. 20) che è restio ad ammettere elementi arcaici nelle similitudini, e che rifiuta l’interpretazione di Chantraine, GH ii 150, “ ‘noir comme de la poix’ (‘de la categorie des choses noires comme la poix’)”, vede qui una confusione tra uso del comparativo di maggioranza e quello di uguaglianza. Questa interpretazione ricorda, senza coincidervi, quella di Aristonico : cfr. Schol. A, i p. 498 Erbse, kevcrhtai de; tw/` sugkritikw/` ajnti; aJplou`. 24  Oltre a Page, cit. a n. 14, 218-296, vd. per es. C. O. Pavese, Le origini micenee della tradizione epica rapsodica, « Studi mic. eg.-anatol. » 21, 1980, 341352. 25  Cito dalla traduzione contenuta in La saga di Gilgameš, a cura di G. Pettinato, Milano 2004. Quando non diversamente precisato mi riferisco all’epopea classica.  











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cuore dell’amico, e lo fa per sentire se è ancora vivo. In S 317 = Y 18 Achilleus pone le mani sul petto di Patroklos morto, ma il gesto non è motivato. M. West 26 ha sospettato giustamente che questo dettaglio, che in Omero non è direttamente funzionale (è naturalmente possibile vedervi un gesto di affetto, quantunque non codificato), sia un motivo risalente al poema babilonese. 2) La similitudine con il leone (o la leonessa) che segue immediatamente (Tav. viii 60 s.) torna in S 318-322, dove tuttavia il motivo dell’animale che va avanti e indietro attorno ai cuccioli presi in trappola prende, in Omero, uno sviluppo indipendente. 27 3) La posposizione della sepoltura associata al motivo dei parassiti : un verme nel caso di Enkidu (Tav. x 53 s. dell’epopea paleobabilonese), 28 le mosche nel caso di Patroklos (T 24-27). L’ultimo parallelo che dev’essere richiamato è anche il più famoso. L’incontro del protagonista con l’ombra dell’amico defunto, che ha luogo in quella che è la Tavola xii del Gilgameš. Gli studiosi concordano nel ritenere che questa tavola non fosse parte originaria del poema, risalendo piuttosto ad un originale sumerico. Tuttavia, proprio il fatto che questo parallelo sia constatabile in Y conferma che l’Iliade va messa in relazione non genericamente con la saga di Gilgameš, o con i precedenti sumerici o paleobabilonesi, ma precisamente con la cosiddetta epopea classica, rinvenuta a Ninive e attribuita a Sinleqiunnini, che consta appunto di 12 tavole. Qui si legge che Enkidu era rimasto prigioniero negli Inferi, dove s’era recato volontariamente per recuperare il tamburo di Gilgameš. 29 Addolorato per la perdita dell’amico, l’eroe di Uruk ottiene dal dio Ea che Nergal, signore degli Inferi, consenta allo spirito di Enkidu di tornare sulla terra, per informarlo delle cose dell’oltretomba. Così avviene, e “allora essi fecero per abbracciarsi, ma non vi riuscirono” (Tav. xii 85), e l’abbraccio mancato ricorda quello di Achilleus in Y 99 s. (oltre che, naturalmente, quello fra Antiklea e Odysseus in l 204-224). Non è dunque un caso che un uso particolarmente antico della congiunzione hjuvte si trovi proprio in un passo che trova un parallelo stringente nel poema babilonese ! E qui possiamo suggerire un ultimo confronto. La yuchv di

Patroklos, simile a fumo, scende sotto terra. Mai altrove in Omero le yucaiv sono paragonate al fumo ; e anche se questa similitudine è documentata almeno una volta nell’epica ugaritica, nel vicino Oriente antico sono più frequenti altri termini che corrispondono a ‘soffio’, ‘vento’ o simili. 30 Ma un altro particolare ci interessa. Certamente, la yuchv di Patroklos, anche se il suo corpo non ha ancora ricevuto gli onori funebri, ha sede nei pressi dell’Ade, ed è quindi giusto, di per sé, che se ne dica kata; cqono;~ w[/ceto. Eppure, questo dettaglio ha qui forse un’origine precisa. Non penso al fatto che i sogni siano figli della Terra e abbiano dimora sotto terra, come risulta da Eur. IT 1259-1282 ; questa tradizione compare ancora, che io sappia, solo in Eur. Hec. 70 s., e comunque non in Omero. 31 Però l’apparizione di un defunto è normalmente ottenuta mediante un rituale necromantico, del tipo che vediamo descritto in l 23-36. Tale rituale prevede lo scavo di una fossa, e questo particolare è attestato anche nel rituale ittita di cui parla West. 32 Si può a questo punto richiamare il rituale romano dell’apertura del mundus, 33 e probabilmente molte altre tradizioni in cui l’apparizione degli spiriti è immaginata avvenire attraverso l’apertura di un passaggio nella terra. Troviamo un particolare analogo in Luciano (Luct. 16), dove si immagina che un figlio morto desideri tornare sulla terra per parlare col padre e rimproverarlo per l’insensatezza del suo dolore, e preghi per questo Aiakos e Aidoneus pro;~ ojlivgon uJpe;r tou` stomivou uJperkuvyai. 34 Dunque, la yuchv di Patroklos probabilmente è immaginata ritornare sotto terra attraverso un pertugio. Certamente questo particolare non è deducibile dal testo, ma è reso probabile dalle considerazioni sopra accennate, e da un ultimo parallelo tratto dalla Tavola xii del Gilgameš. Qui si legge infatti che a Nergal viene appunto richiesto da Ea di aprire una fessura negli inferi, ed egli obbedisce :

26  The East Face of Helicon. West Asiatic Elements in Greek Poetry and Myth, Oxford 1997, 342. 27 West, ibid. Il parallelismo era stato già notato da molti altri studiosi. 28  P. 268 della trad. cit. a n. 25. Anche su questo motivo, già notato da J. R. Wilson, The Gilgamesh Epic and the Iliad (« Echos monde class. » 1986, 2541 ; qui a p. 33 s.), vd. West, op. cit. 343. 29  Si può notare che, come Patroklos non segue i consigli alla prudenza che gli dà Achilleus in P, ugualmente Enkidu contraddice tutti i consigli ricevuti da Gilgameš (Tav. xii 31-45), e ciò fa sì che si trovi irreversibilmente negli inferi. 30 West, op. cit. 151. Sul fumo, vd. C. Brillante, Studi sulla rappresentazione del sogno nella Grecia antica, Palermo 1991, 21 s.

31  Sull’argomento, vd. Brillante, op. cit. 40-42. 32 West, op. cit. 426. 33  Vd. H. H. Scullard, Festival and Ceremonies of the Roman Republic, Ithaca 1981, 180 s. 34 Sullo stovmion vd. la nota di V. Andò, Luciano. Il lutto, Palermo 1984, 140. 35 Il particolare non è sfuggito a G. Scheibner, Klassische Dichtung im Alten Orient und in der Antike. Gilgamesch-Epos und Homer, in Das Problem der Klassik im Alten Orient und in der Antike, Berlin 1967, 124-140, qui a p. 131.







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E non appena egli ebbe aperto una fessura negli Inferi Lo spirito di Enkidu, come una folata di vento, uscì fuori dagli Inferi (Tav. xii 83 s.).

Sembra dunque verosimile che anche la discesa kata; cqonov~ della yuchv di Patroklos sia un residuo della analoga scena del poema babilonese. 35  

PENELOPE A L SIMPOSIO. OD. 1, 328-335 E DICEA RCO Fr anco Montanar i

L

’entrata in scena di Penelope nell’Odissea è degna della regina di Itaca. Nel i canto, mentre è in corso il banchetto dei pretendenti nel palazzo di Odisseo, dalle sue stanze ai piani alti Penelope sente il canto dell’aedo Femio e decide di scendere nella sala, accompagnata da due ancelle.

E quando dai pretendenti ecc.] Sulla base di queste parole Dicearco rimprovera la Penelope di Omero : “E quando giunse dai pretendenti, chiara fra le donne, / si fermò vicino a un pilastro del solido tetto, / tenendo davanti alle guance” e quel che segue. Egli dice infatti che Penelope non si comporta affatto bene, in primo luogo perché ella arriva alla presenza di giovani uomini ubriachi, poi perché con il velo copre le parti più belle del suo viso e lascia vedere soltanto gli occhi. Un simile modo di comportarsi è eccessivo e affettato, e inoltre la presenza delle ancelle da ciascun lato allo scopo di apparire bella per eccellenza mostra che tutto ciò era fatto intenzionalmente. Diciamo che in realtà Dicearco sembra non conoscere il costume nel suo complesso. Presso gli antichi infatti era consueto che le donne libere andassero ai banchetti degli uomini. Ne sono la prova ecc.

All’osservazione critica di Dicearco sul comportamento di Penelope viene ribattuto che egli non ha tenuto conto degli usi e costumi specifici dell’epoca e del contesto, e in particolare del fatto che fra gli antichi era usuale che le donne libere prendessero parte ai banchetti degli uomini. Nel seguito del lungo scolio si adducono come prove (marturiva de; ...) i paralleli odissiaci di Arete e di Elena, donne libere e altrettanto regali, che sono presenti ai banchetti rispettivamente nel palazzo di Alcinoo presso i Feaci (Od. 7 e 8) e nella reggia di Menelao a Sparta (Od. 4). Poi, citando parole di Nausicaa in Od. 6, 286-288, si fa notare come frequentare compagnie e riunioni maschili sia sconveniente per le fanciulle nubili, ma non per le donne sposate. 3 Penelope dunque non ha fatto nulla di sconveniente a intervenire personalmente durante il banchetto per interrompere il canto di Femio sul doloroso ritorno dei Greci da Troia, tanto più che gli antichi ritenevano proprio di una donna libera, anche figlia di re, dedicarsi personalmente a diversi lavori e attività della vita quotidiana. Dunque, la sua presenza non è fuori luogo, ma anzi mostra saggezza e avvedutezza (sophrosyne), ricordando ai pretendenti l’odiosità del loro corteggiamento mentre il ricordo dello sposo è per lei indelebile. 4 Seguono ancora nello scolio osservazioni sul comportamento dei pretendenti e poi una lunga disquisizione sul kredemnon e sul gesto di coprirsi il viso da parte di vari personaggi omerici, soprattutto in occasioni di pianto. Chiudono due notazioni a proposito delle ancelle che accompagnano Penelope : in primo luogo, anche questo è un uso normale per gli antichi, dunque non una esibizione maliziosa ; inoltre si tratta di ancelle fedeli e sagge, e non di due fra quelle traditrici e impudenti menzionate in Od. 22, 424, cosa che contribuisce a far luce sull’atteggiamento e il comportamento di Penelope stessa. 5 Abbiamo dunque un lungo excerptum, 6 nel quale si discute a proposito del passo in cui Penelope fa la sua comparsa nel poema e, partendo da un’osservazione di Dicearco su questa apparizione in scena, lo si commenta discettando variamente di “costumi degli antichi” (archaioi, palaioi) a proposito di comportamenti sociali delle donne. Il tema è trattato con un carattere ampiamente etico sul piano storico, basandosi sull’osservazione dei comportamenti sociali convenienti e sconvenienti, ma la “documentazione”, per così dire, addotta nel discorso è tutta ricavata da Omero (Odissea e Iliade), con la citazione di diversi passi a sostegno dell’argomentare avviato a proposito dei versi del libro i e in collegamento con la scena della comparsa della sposa di Odisseo sulla scena del poema. Un passo evidentemente stimolante, intorno al quale Dicearco aveva svolto quanto meno due considerazioni : Penelope non si comporta bene recandosi fra uomini ubriachi nel bel mezzo di un simpo-

1  Dicaearchus, fr. 95 Mirhady 2001 (= 92 Wehrli). 2  P. 171, 61-73 Pontani 2007. 3  Dice Nausicaa parlando a Odisseo : “Biasimerei anch’io un’altra che facesse così, / una che senza il consenso di suo padre e sua madre / si in-

contrasse con uomini prima di andare a pubbliche nozze” (Od. 6, 286-288, trad. G. A. Privitera). 4  P. 172, 87-90 Pontani 2007. 5  P. 173, 22-27 Pontani 2007. 6  Occupa quasi tre pagine a stampa : pp. 171, 61-173, 27 Pontani 2007.

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Tou` d∆ uJperwi>ovqen fresi; suvnqeto qevspin ajoidh;n 328 kouvrh ∆Ikarivoio, perivfrwn Phnelovpeia: klivmaka d∆ uJyhlh;n katebhvseto oi|o dovmoio 330 oujk oi[h, a{ma th`/ ge kai; ajmfivpoloi duv∆ e{ponto. hJ d∆ o{te dh; mnhsth`ra~ ajfivketo di`a gunaikw`n, sth` rJa para; staqmo;n tevgeo~ puvka poihtoi`o a[nta pareiavwn scomevnh lipara; krhvdemna: ajmfivpolo~ d∆ a[ra oiJ kednh; eJkavterqe parevsth. 335

Dalle stanze di sopra ne intese il canto ispirato 328 la figlia di Icario, la saggia Penelope : l’alta scala discese dalla sua camera, 330 non sola, con lei andavano anche due ancelle. E quando giunse dai pretendenti, chiara fra le donne, si fermò vicino a un pilastro del solido tetto, tenendo davanti alle guance il lucido scialle : da ciascun lato le era accanto un’ancella fedele. 335 (Trad. G. A. Privitera)  



Lo schol. Od. 1, 332 ci conserva, con ogni probabilità attraverso un excerptum derivato da Porfirio, un intrigante discorso di Dicearco a proposito di questo passo dell’Odissea. 1  

Schol. Od. a 332 hJ d∆ o{te dh; mnhsth`ra~ ktl.] aijtia`tai ejk tw`n ejpw`n touvtwn Dikaivarco~ th;n par∆ ÔOmhvrw/ Phnelovphn: “hJ d∆ o{te dh; mnhsth`ra~ ajfivketo di`a gunaikw`n, / sth` rJa para; staqmo;n tev- geo~ puvka poihtoi`o, / a[nta pareiavwn” kai; ta; eJxh`~. oujdamw`~ ga;r

eu[takton ei\naiv fhsi th;n Phnelovphn, prw`ton me;n o{ti pro;~ mequv- onta~ au{th paragivnetai neanivskou~, e[peita o{ti tw`/ krhdevmnw/ ta; kavllista mevrh tou` proswvpou kaluvyasa tou;~ ojfqalmou;~ movnou~ ajpolevloipe qewrei`sqai. perivergo~ ga;r hJ toiauvth schmatopoii?a kai; prospoivhto~, h{ te paravstasi~ tw`n qerapainivdwn eJkavterqen eij~ to; kat∆ ejxoch;n faivnesqai kalh;n oujk ajnepithvdeuton ejpideivknusi. fame;n ou\n o{ti to; kaqovlou e[qo~ ajgnoei`n e[oiken oJ Dikaivarco~. suvnhqe~ ga;r para; toi`~ ajrcaivoi~ ta;~ ejleuqevra~ gunai`ka~ eij~ ta; tw`n ajndrw`n eijsievnai sumpovsia. marturiva de; touvtwn ktl. 2  





















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franco montanari

sio ; il gesto di coprirsi col velo una parte del volto lasciando scoperti gli occhi e il fatto di avere due ancelle ai lati denotano un comportamento volutamente ricercato e affettato, volto a far risaltare se stessa. Viene naturale pensare che l’attenzione sia stata attirata dalla teatralità un po’ particolare di questa entrata in scena, che “presenta” un personaggio di primo piano come la sposa di Odisseo : probabilmente la discussione verteva proprio sul modo in cui il poeta aveva realizzato questo importante passaggio narrativo e ne traeva spunto per disquisizioni di carattere etico su usi e costumi dell’epoca omerica. Non sorprende trovare questa tematica in Dicearco, che dedicò ricerche importanti alla storia culturale della Grecia e scrisse un Bivo~ ÔEllavdo~. Il frammento è tramandato senza titolo di opera, ma sembra evidente che, essendo le opere poetiche, soprattutto arcaiche, una fonte importante ed essenziale per la storia culturale e antropologica, il confine fra questo tipo di indagine e l’esegesi della poesia dovesse essere spesso e volentieri piuttosto labile, e comunque non costituire affatto un vero e proprio steccato. 7 Mi pare tuttavia essenziale notare come alle osservazioni critiche di Dicearco siano rivolte obiezioni che si fondano in modo preciso e concreto su quanto si trova all’interno dei poemi omerici. In parole povere, si argomenta contro Dicearco che il comportamento di Penelope non è criticabile sul piano etico perché esso corrisponde alle usanze del tempo, come si dimostra bene analizzando situazioni analoghe nei poemi omerici. Dicearco insomma sbaglia perché non tiene conto del fatto che la scena è del tutto coerente con lo specifico omerico, to; ÔOmhrikovn, come insegnava il metodo alessandrino-aristarcheo, e insiste sul fatto che quanto osservato riguarda gli antichi, introducendo una nozione di storicità dei concetti morali in discussione che va nella stessa direzione. Ci sono tutti gli elementi per pensare a un’osservazione nata in ambiente peripatetico e sviluppata da Dicearco, intorno alla quale la discussione è continuata in ambito alessandrino, quando gli interpreti di Omero applicavano con attenzione il metodo secondo cui Omero va spiegato in primo luogo con Omero e applicavano le affinate armi di un’agguerrita filologia omerica anche nel caso di precedenti osservazioni che si rivelavano deboli proprio per ragioni di metodo. Alcuni anni fa mi sono occupato del caso di Il. 2, 409, un verso criticato per il suo contenuto dal peripatetico Demetrio Falereo, 8 che lo riteneva inopportuno (la questione concerneva le regole degli inviti al simposio, anche qui dunque un problema di etica pubblica), e in seguito oggetto di discussione da parte dei filologi alessandrini, alcuni dei quali proponevano di espungerlo, mentre Aristarco lo conservava : evito di ripetere l’argomentazione esposta altrove. 9 Probabile anche qui che uno zetema peripatetico di contenuto etico abbia avuto continuazione in una discussione di carattere genuinamente filologico sotto i cieli grammaticali di Alessandria. Accostando i due casi, certo colpisce che più tarde fonti interessate all’esegesi omerica abbiano conservato osservazioni di due intellettuali del primo Peripato (Demetrio Falereo e Dicearco) tematicamente consonanti, non solo e non tanto per il tema degli usi e costumi legati al simposio,

ma più in generale a proposito dell’etica comportamentale della società arcaica testimoniata nei poemi omerici. Dal nostro punto di vista, tuttavia, ancor più interessante è notare come tali considerazioni non furono certo lasciate da parte e trascurate in seguito, ma chiaramente stimolarono sviluppi e discussioni nell’ambito dell’esegesi omerica posteriore, anche di segno prettamente filologico. Un discorso analogo può essere fatto in un altro caso, di cui ho trattato più di recente : la celebre scena del serpente pietrificato in Il. 2, 319, che appartiene al ricordo, da parte di Odisseo, della profezia dell’indovino Calcante alla partenza della flotta da Aulide. Il portentoso apparire di un serpente dal dorso scarlatto, che divorò una covata di otto piccoli passeri più la madre, per poi essere trasformato in pietra, era stato interpretato sulla base del numero delle vittime : nove anni di guerra dovranno passare prima che al decimo gli Achei abbiano ragione di Troia assediata. Un duplice e delicato problema filologico riguardava già per i filologi antichi una variante al v. 318, connessa alla presenza o meno nel testo del seguente v. 319, dunque a una questione di atetesi : anche in questo caso evito di ripetere qui l’argomentazione esposta altrove. 10 Un excerptum di Porfirio 11 ci informa che Aristotele si era occupato dell’interpretazione di questo passo iliadico, discutendone con dovizia vari aspetti problematici legati al carattere del prodigio e al significato della profezia di Calcante : si tratta del fr. 145 Rose = 369 Gigon, evidentemente dagli Aporemata Homerika. 12 Abbiamo un interessante caso in cui una documentata aporia aristotelica focalizzava l’attenzione sulle difficoltà di un passo, per il quale un’altrettanto documentata discussione filologica dei grammatici alessandrini mostra una tipica divergenza fra Zenodoto e Aristarco non solo sulla scelta di una lezione, ma anche sulla conservazione o l’atetesi di un verso “incriminato”. Per tirare le somme, possiamo constatare come, se pure in forma frammentaria, ci sia pervenuta documentazione sul fatto che Aristotele stesso oppure suoi scolari peripatetici avevano discusso passi omerici significativi, dedicando ad essi zetemata su svariati argomenti, e che per questi stessi passi le fonti mostrano con evidenza come le puntuali questioni sollevate nei loro commenti siano state oggetto in seguito di ulteriori discussioni e approfondimenti da parte dei grammatici alessandrini, talvolta con riconoscibili sviluppi filologico-esegetici anche di carattere specificamente testuale. L’analisi di questi casi, dei passi rilevanti e delle tematiche coinvolte, porta alla luce una modalità ben chiara in cui si è concretato, proprio sull’interpretazione e lo studio dei testi poetici, il rapporto profondo tra Aristotele e scuola peripatetica e la filologia di età ellenistica. Quello di cui ci siamo occupati qui è un esempio, altri sono stati evidenziati e studiati, 13 in vista di una raccolta ampia e attenta, che ricomponga il quadro, almeno per gli elementi rivelatori che si sono conservati.

  7  Mirhady 2001 lo colloca nella sezione “Contests, Literary Criticism” (fr. 95).   8  Fr. 143 SOD (= 190 Wehrli ; omittit Jacoby, FGrHist 228).   9  Montanari 2000 ; Montanari 2001. 10  Montanari 2008. 11  Trasmesso dal codice Ven. Marc. 821 = *B : cfr. Erbse, Sch. Iliad. i, p.

xvii ; testo in : Dindorf, Sch. Gr. iii, 1877, pp. 115-117 ; Schrader, Porph. Il. i, pp. xxx. 12  Hintenlang 1961, 137-141. 13  Oltre ai già citati Montanari 2000, 2001, 2008, cfr. anche Schironi 2009 ; sintesi in Montanari 2012.





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Bibliografia Dindorf, Sch. Gr. iii, Scholia Graeca in Homeri Iliadem ex codicibus aucta et emendata iii, ed. G. Dindorfius, Oxford 1877. Erbse, Sch. Iliad., Scholia Graeca in Homeri Iliadem (Scholia Vetera) i-vii, rec. H. Erbse, Berlin-New York 1969-88.  







penelope al simposio Fortenbaugh-Schütrumpf 2000, Demetrius of Phalerum. Text, Translation and Discussion, ed. by W. W. Fortenbaugh - E. Schütrumpf, New Brunswich-London 2000. Fortenbaugh-Schütrumpf 2001, Dicaearchus of Messana. Text, Translation, and Discussion, edd. W. W. Fortenbaugh - E. Schütrumpf, New Brunswich-London 2001. Hintenlang 2001, H. Hintenlang, Untersuchungen zu den HomerAporien des Aristoteles, Diss. Heidelberg 1961. Mirhady 2001, D. C. Mirhady, Dicaearchus of Messana : The Sources, Text and Translation, in Fortenbaugh-Schütrumpf 2001, 1-142. Montanari 2000, F. Montanari, Demetrius of Phalerum on Literature, in Fortenbaugh-Schütrumpf 2000, 391-411. Montanari 2001, F. Montanari, Gli studi omerici di Demetrio Falereo, « Sem. Rom. » 4, 2001, 143-157. Montanari 2008, F. Montanari, Aristotele, Zenodoto, Aristarco e il serpente pietrificato di Iliade ii 319, in Studi offerti ad Alessandro Perutelli ii, Roma 2008, 237-244.  

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Montanari 2012, F. Montanari, The Peripatos on Literature : Interpretation, Use and Abuse, in A. Martano - E. Matelli - D. Mirhady (edd.), Praxiphanes of Mytilene and Chamaeleon of Heraclea. Text, Translation, and Discussion, New Brunswick-London 2012, 339-358. Pontani 2007, Scholia Graeca in Odysseam i. Scholia ad libros a-b, ed. F. Pontani, Roma 2007. Schironi 2009, F. Schironi, Theory into Practice : Aristotelian Principles in Aristarchean Philology, « Class. Philol. » 104, 2009, 279-316. Schrader, Porph. Il., Porphyrii Quaestionum Homericarum ad Iliadem pertinentium reliquias ii, collegit, disposuit, ed. H. Schrader, Lipsiae, 1880-90. SOD, P. Stork - J. M. von Ophuijsen - T. Dorandi, Demetrius of Phalerum : The Sources, Text and Translation, in FortenbaughSchütrumpf 2000, 1-310.  









TEOCLIMENO, IL VEGGENTE DELL’ODISSEA Car lo Br illante

I

l personaggio di Teoclimeno non svolge un ruolo rilevante nell’Odissea. Interviene in tre occasioni nella seconda parte del poema distinguendosi ogni volta per le sue qualità di mavnti~. L’episodio più notevole è narrato nel canto 20 (vv. 345-383), ma il personaggio offre chiare prove delle sue capacità già nella prima menzione del canto 15, allorché si fa incontro a Telemaco che si accinge a lasciare Pilo per tornare a Itaca (vv. 222-286 ; 508-546), e successivamente nelle parole che rivolge a Penelope, incerta sulla sorte dello sposo (17, 151-165). La marginalità del ruolo in rapporto all’elaborata introduzione che precede l’incontro con Telemaco, alcune incongruenze della narrazione e la presenza di forme linguistiche recenti, soprattutto nell’episodio del canto 20, hanno comprensibilmente suscitato le riserve degli analitici. Vari studiosi hanno ritenuto, quindi, che l’ingresso dell’eroe nell’Odissea fosse recente e sono giunti talora a considerare la sua presenza nel poema come uno dei casi più evidenti di inclusione di un personaggio nuovo, avvenuto nella fase più recente di costituzione dei poemi. 1 In questa sede non riesamineremo questi problemi, peraltro lungamente discussi, anche se l’ingresso recente del personaggio nell’Odissea può contribuire a spiegare alcune singolarità delle sue attitudini. Ci limiteremo a osservare preliminarmente che non sempre le spiegazioni addotte per spiegare le aporie segnalate dagli analitici sono soddisfacenti. In ogni caso l’ipotesi di un ingresso recente dell’eroe nell’Odissea può trovare conferma nelle particolari qualità esibite dal personaggio nell’esercizio delle funzioni di mavnti~. L’incontro con Telemaco avviene casualmente, quando l’eroe, congedatosi da Pisistrato, si accinge a lasciare Pilo. Teoclimeno si rivolge al giovane con una vera e propria supplica : egli aveva commesso un omicidio nella città da cui proveniva, Argo, ed era inseguito dai parenti della vittima che intendevano vendicarsi ; è per questa ragione che chiede di essere accolto da Telemaco nella sua nave. 2 Il giovane accoglie prontamente la richiesta e l’indovino seguirà il nuovo compagno nel viaggio di ritorno. Può darsi che l’episodio sia da intendere come un semplice motivo tradizionale ; in ogni caso esso è preparato con cura e narra-

to con notevole ampiezza. Teoclimeno apparteneva all’illustre famiglia di indovini discendenti da Melampo, l’eroe che in virtù delle sue qualità aveva assicurato l’accesso alla regalità ai suoi discendenti e a quelli del fratello Bias. 3 È notevole che le figure eroiche menzionate in questo passo non soltanto appartengano alla medesima famiglia, ma siano ogni volta scelte da Apollo, quasi ricevessero singolarmente il dono della divinazione per intervento diretto del dio. Essa è così trasferita dal capostipite Melampo al nipote Amphiaraos, l’eroe che si distinse nella prima spedizione tebana, per poi passare nel lato collaterale rappresentato da Polypheides, figlio di Mantios e padre dello stesso Teoclimeno. Così aveva deciso Apollo, dopo la morte di Amphiaraos : aujta;r uJpevrqumon Polufeivdea mavntin ∆Apovllwn / qh`ke brotw`n ojc∆ a[riston, ejpei; qavnen ∆Amfiavrho~: / … tou` me;n a[r∆ uiJo;~ ejph`lqe, Qeokluvmeno~ d∆ o[nom∆ h\en, / o}~ tovte Thlemavcou pevla~ i{stato. 4 Il cantore celebrava in tal modo le qualità di Teoclimeno, ma l’incontro casuale offriva anche lo spunto per ricordare una stirpe famosa di indovini. Al tempo stesso la pronta accoglienza della supplica esaltava la generosità e l’ospitalità di Telemaco. Dopo lo sbarco a Itaca Teoclimeno ricambiava il favore ricevuto interpretando un presagio inviato dagli dei : la comparsa dello sparviero che, volando da destra, serrava tra gli artigli un colombo versandone a terra le penne era correttamente intesa come un segno divino che annunciava un avvenire propizio per la famiglia di Telemaco, destinata a rimanere anche in futuro la più potente di Itaca (vv. 525-534). Questa interpretazione è stata talvolta considerata ovvia : ispirata a un simbolismo elementare, non sembra di fatto richiedere un grande impegno esegetico. 5 Essa inoltre non chiarisce il significato letterale del presagio, ma propone un’interpretazione generale che sembra avere il solo fine di riassicurare Telemaco sul futuro della famiglia. 6 Va notato peraltro che in questa occasione Teoclimeno rivela le sue capacità mantiche non tanto nell’interpretazione, pure corretta, ma nel fatto che nell’apparizione occasionale dello sparviero riconosca la manifestazione di un segno divino. Non tutti gli eventi naturali sono infatti attribuibili a un intervento della divinità, soprattutto se si tratta di fatti

1  La presenza di Teoclimeno era ricondotta da Kirchhoff alle aggiunte del Bearbeiter (1879, 527). Successivamente fu considerato un personaggio della Telemachia o attribuito all’ultimo redattore del poema : vd. Bethe 1922, 40-43 ; cf. Merkelbach 1951, 68-71. Le incongruenze rilevate nei diversi interventi del personaggio nell’Odissea sono state illustrate da Page, lucidamente ma non sempre con argomenti decisivi (1955, 83-91) ; cf. anche Kirk 1962, 240-242 ; Erbse 1972, 42-54 ; Hoekstra 2004, ad Od. 15, 223-281. A un’origine recente del personaggio e dei passi relativi dell’Odissea pensa anche van der Valk (1986, 79 s., 89 s.). Danek ha sottoposto a un’attenta critica l’ingresso dell’eroe e l’incontro con Telemaco nel canto 15 ; ma l’idea che nella nostra Odissea Teoclimeno ricalchi un ruolo che precedentemente era di Odisseo, con il quale Telemaco faceva ritorno a Itaca, resta molto ipotetica (1999, 293-298). Fenik ha tentato una spiegazione delle aporie presenti nell’episodio richiamandosi alle forme della composizione epica (1974, 233-244) ; su questa linea vd. anche Levine (1983), Race (1993, 98 s.), Cantilena (2004, 339-341). Sugli elementi di lingua recenti vd. Shipp 1972, 342, 343 s., 350 s. Lord ricavava per Teoclimeno il ruolo di accompagnatore del giovane Telemaco, secondo un modello tradizionale rappresentato dalla coppia di Oreste e Pilade (1960, 161). Nella versione attribuita a Ferecide Teoclimeno è coetaneo di Telemaco (FGrHist 3 F 116 = schol. Od. 15, 223),

ma i dati dello scolio vanno considerati con cautela, in quanto potrebbero derivare da una contaminazione della versione omerica con quella di Ferecide (vd. Jacoby, ad loc.). 2  Od. 15, 272-278. Le forme della richiesta e le espressioni usate (vv. 261 s. : livssom∆ uJpe;r quevwn kai; daivmono~, aujta;r e[peita / sh`~ t∆ aujtou` kefalh`~ kai; eJtaivrwn, oi{ toi e{pontai ... 277 s. : ajllav me nho;~ e[fessai, ejpeiv se fugw;n iJkevteusa, / mhv me katakteivnwsi) non lasciano dubbi sul fatto che Teoclimeno sia un supplice. 3  Od. 15, 225-257. Cf. [Apollod.], Bibl. 1, 9, 12 ; 2, 1, 2 ; Huxley 1969, 54 s. ; Vermeule 1974, 116 s. ; Flower 2008, 42 s. 4  Od. 15, 252-257. È possibile che questa genealogia, che collega Teoclimeno a un’illustre stirpe di indovini, sia secondaria, come suggerisce il confronto con quella tramandata da Pausania (6, 17, 6), ovvero sia riconducibile a una fase recente nella composizione del poema : vd. rispettivamente Danek 1999, ad Od. 15, 223-256 (p. 295 s.) ; Harrauer 1999, 139-142. Avremmo, in questo caso, un elemento ulteriore a sostegno della tesi che considera recente l’ingresso di Teoclimeno nell’Odissea. 5  Page 1955, 85. 6  Vd. in tal senso Erbse 1972, 46, seguito da Hoekstra 2004, ad Od. 15 531-534.

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teoclimeno, il veggente dell ’ odissea 55 comuni come il volo degli uccelli. Quando il vecchio indoIn questo primo episodio Teoclimeno esercita l’arte nelle forme consuete della poesia epica : riconosce i segni invino Halitherses interpreta il volo di due aquile spiegando viati dalla divinità e li interpreta correttamente. Nell’Iliade che esse annunciano la prossima fine dei pretendenti, Euryil modello generale è fornito da Calcante per lo schieramachos gli risponde brutalmente e afferma di considerare mento greco, da Eleno e Polidamante per quello troiano ; infondate le sue parole in quanto non tutti gli uccelli sono nell’Odissea dal vecchio Halitherses e da Elena. Nel canto augurali (o[rniqe~ dev te polloi; uJp∆ aujga;~ hjelivoio / foitw`s∆ 20 dell’Odissea Teoclimeno dà prova di attitudini ben diveroujdev te pavnte~ ejnaivsimoi). 7 Ma Eurymachos si sbagliava se nell’esercizio della divinazione. Qui è narrato un episoperché, inesperto nell’arte divinatoria, non sapeva distindio singolare, che vede dapprima l’intervento di Athena sui guere i segni augurali dagli eventi accidentali. Nell’episopretendenti seduti a banchetto nella sala, poi la profezia dio in esame Teoclimeno rivela quindi le sue capacità nel spontanea di Teoclimeno, che annuncia la prossima fine distinguere ciò che è rilevante da ciò che non lo è, nel ricodegli stessi pretendenti. È opportuno considerare separatanoscere cioè nel volo dello sparviero un segno, chiaro nel mente i due momenti, anche se non è da escludere, come suo elementare simbolismo, inviato dalla divinità. È quanvedremo, che essi siano in rapporto fra loro. to in fondo afferma egli stesso : “Telemaco, non senza un Quando nella sala i pretendenti discutono animatamendio l’uccello giunse da destra ; vedendolo venire di fronte te con Telemaco della sorte di Penelope si assiste a un inatriconobbi che era un presagio” : Thlevmac∆ ou[ toi a[neu qeou` teso intervento di Athena che sconvolge la loro mente. Essi h[luqe dexio;~ o[rni~: / e[gnwn gavr min ejsavnta ijdw;n oijwno;n ridono scompostamente senza misura, le forme del volto ejovnta (v. 531 s.). 8 Se la provenienza da destra annuncia un sono sfigurate, le carni che portano alla bocca sono piene messaggio favorevole, il fatto che lo sparviero si presendi sangue, gli occhi lacrimano, mentre al riso incontenibiti frontalmente manifesta l’intenzione di comunicare un le si sovrappone una crisi di pianto altrettanto immotivato messaggio significativo, quasi che Teoclimeno, l’indovino (20, 345-349) : “scelto” da Apollo, fosse il destinatario naturale. A questo presagio prontamente interpretato si fa riferimento anche ’W~ favto Thlevmaco~: mnhsth`rsi de; Palla;~ ∆Aqhvnh più avanti, quando Telemaco e Teoclimeno sono alla prea[sbeston gevlw w\rse, parevplagxen de; novhma. oiJ d∆ h[dh gnaqmoi`si gelwvwn ajllotrivoisin, senza di Penelope. Di fronte alla commozione della donna aiJmofovrukta de; dh; kreva h[sqion: o[sse d∆ a[ra sfevwn che segue con apprensione il racconto del figlio, Teoclimedakruovfin pivmplanto, govon d∆ wji?eto qumov~. no interviene con parole rassicuranti (17, 151-161) : Telemaco aveva riportato alla madre le notizie raccolte a Sparta, dove Lo spettacolo descritto è quello di una crisi collettiva, al era stato ospite di Menelao, ma non conosce con chiarezza tempo stesso improvvisa e incontrollata. Tutto appare lo stato reale dei fatti. In questo caso Teoclimeno decide qui fuori misura, né si intendono chiaramente i proposidi intervenire spontaneamente. Egli afferma di sapere con ti della divinità che è all’origine del temporaneo disordicertezza (v. 154 : ajtrekevw~ gavr toi manteuvsomai oujd∆ ejpine : Athena. Di essa si afferma che sconvolge la mente dei keuvsw) che Odisseo si trova già ad Itaca, fermo in un luogo pretendenti (v. 346 : parevplagxen de; novhma). Il verbo usato, o in giro nell’isola ; a suo dire l’eroe conosce già le azioni paraplavzw, denota l’abbandono della retta via, psicologisconsiderate dei pretendenti e prepara la loro fine. Segue camente la perdita di una corretta percezione del mondo a questo punto, a conferma di quanto detto, il richiamo al esterno e il conseguente instaurarsi di una confusione e di precedente episodio del volo degli uccelli, che Teoclimeno uno smarrimento mentali. 10 Vista dall’esterno, la persona aveva già interpretato, ma in senso più generico. Dovremo assume tratti che denotano l’isolamento dal mondo che la intendere che l’indovino riveli solo ora l’intero significato circonda, quasi fosse letteralmente “uscita di senno”. Essa del presagio : esso annunciava il primato che la famiglia di ha reazioni multiple e contraddittorie : il riso scomposto (v. Odisseo avrebbe continuato ad esercitare in Itaca, ma an346 s. : a[sbeston gevlw ... gnaqmoi`si gelwvwn ajllotrivoisin) che il prossimo ritorno dell’eroe. 9 Teoclimeno rivela quinsi confonde con il pianto, anch’esso senza misura (v. 348 : di il significato del presagio in relazione a quanto richiesto o[sse d∆ a[ra sfevwn / dakruovfin pivmplanto). In tale condizione di marcata alienazione persiste ancora un residuo di dalle circostanze : dapprima annuncia a Telemaco un futucoordinamento interiore capace di manifestare debolmenro di prosperità ; successivamente conforta Penelope, incerte gli orientamenti e forse i presentimenti del soggetto (v. ta sul futuro dello sposo, rassicurandola con la conoscenza 349 : govon d∆ wji?eto qumov~) ; 11 ma la condizione di estraniache gli deriva dal sicuro possesso dell’arte divinatoria.  













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7  Od. 2, 181 s. 8  In Omero oijwnov~ designa lo sparviero, ma anche, metonimicamente, il messaggio significativo affidato al volo degli uccelli : vd. Capelle 1889, s.v. oijwnov~ (“Weissagevogel”). Bene intende Privitera : “ho capito, a vedermelo in faccia, che è augurale” (ap. Hoekstra 2004, 119). 9  Dell’autenticità dei vv. 150-165 si dubitava già in età antica : vd. schol. Od. 17, 160. L’intero discorso di Teoclimeno era atetizzato nelle edizioni comuni, mentre i carievstera escludevano soltanto i vv. 160 s. Qui ricorre una contraddizione minore rispetto a quanto detto precedentemente. Mentre in 15, 499 il presagio ha luogo dopo lo sbarco a Itaca, nella ripresa alla presenza di Penelope Teoclimeno afferma di averlo ricevuto quando era ancora sulla nave (17, 160 s. : eju>ssevlmou ejpi; nhov~ / h{meno~). Page (1955, 86) segue il giudizio dello scolio e considera interpolati i vv. 150-165, mentre Erbse (1972, 49) ne difende l’autenticità ritenendo che Teoclimeno si riferisca alle profezie di Halitherses (Od. 2, 163-166) e di Elena (15, 177 s.). Le parole di Teoclimeno, tuttavia, fanno esplicito riferimento al precedente incontro con Telemaco (v. 160 s.). Con maggior fondamento Russo giustifica la contraddizione richiamando le incongruenze minori proprie della composizione orale (2004, al v. 160 s.). Tuttavia il richiamo puntuale a un episodio precedente non permette di escludere la possibilità di un inter 











vento posteriore. Lo stesso Telemaco aveva precedentemente riferito a Penelope della necessità di andare a riprendere l’ospite affidato a Peiraios (17, 52-56), dato giustamente valorizzato da Bethe (1922, 41 e n. 2). In ogni caso, anche se reca segni di un’origine recente, l’episodio è da considerare parte integrante della nostra Odissea. In questi versi ricorrono vari elementi di lingua recenti (Shipp 1972, 343 s.). 10  LSJ, s.v. Cf. Pind. Ol. 7, 31 : aiJ de; frenw`n taracai; / parevplagxan kai; sofovn ; Mazzoldi 2001, 289 ; Guidorizzi 2010, 155. Penelope subisce un intervento analogo da parte di Athena, anche se di minore impatto. Quando la dea le ispira il proposito di presentarsi nella sala e chiedere ai pretendenti i doni nuziali, la donna è colta da un riso immotivato che ne denuncia lo smarrimento momentaneo (18, 163 : ajcrei`on d∆ ejgevlassen). Il turbamento di Penelope emerge anche dalle parole che rivolge all’ancella (vv. 164-168). Nell’Iliade il nesso ajcrei`on ijdwvn descrive il turbamento di Tersite causato dall’umiliazione inflittagli da Odisseo. Cf. van Bennekom 1979, s.v. ; Kolakis 1986, 140. 11  La medesima espressione ricorre in Od. 10, 248, allorché Eurylochos, di ritorno alle navi dopo la triste avventura toccata ai compagni catturati da Circe, piange copiosamente senza riuscire in un primo momento a esprimersi con parole. Anche in questo caso il nesso formulare va inteso in  









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mento non consente un’esternazione efficace. Si assiste così a una divaricazione tra componenti diverse della persona, le cui forme esteriori finiscono con l’apparire ambigue o contraddittorie. Tutto ciò ha naturalmente conseguenze negative sull’esercizio del pensiero (novhma), che non è in grado di esprimere un contenuto sensato. Tale condizione appare decisamente nuova all’interno dei poemi, anche se sono possibili confronti, in verità solo parziali, con altri momenti di crisi che accompagnano i momenti culminanti dell’azione e che assumono il significato di presagi. 12 L’interpretazione dello scolio (al v. 348), condizionata dal successivo intervento di Teoclimeno, implica che la scena rappresenti non un fatto reale, ma quanto appariva a Teoclimeno presente nella sala : ouj toi`~  



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mnhsth`rsi dev, ajlla; tw/` Qeoklumevnw/ tau`ta ejfaivneto tw`/ mavn- tei tw`/ para; tw/` Thlemavcw/ ajcqevnti ajpo; th`~ Puvlou. Il testo,

tuttavia, non offre elementi a sostegno di questa interpretazione e si dovrà ritenere che il giudizio rifletta una congettura dello scoliasta, chiamato a interpretare un episodio che non aveva paralleli nella poesia epica. È da intendere quindi che siano i pretendenti, sconvolti nella mente da Athena, a non rendersi conto di quanto accada loro, e che successivamente, cessati gli effetti dell’intervento divino, non abbiano ricordo dell’accaduto. 13 In ogni caso il loro comportamento va considerato separatamente dal successivo intervento di Teoclimeno. Dovremo quindi ritenere che l’inattesa presenza della divinità provochi una crisi collettiva, peraltro di breve durata : dopo la profezia dell’indovino i pretendenti hanno già ripreso la condizione abituale e possono a loro volta imputare all’ospite di aver pronunciato parole folli (v. 360 : ajfraivnei xei`no~ nevon a[lloqen eijlh- louqwv~). Evidentemente a questo punto la crisi è rientrata ed essi riprendono l’abituale tracotanza sia verso Teoclimeno, che vorrebbero allontanare sbrigativamente dalla casa (v. 361 s.), sia verso lo stesso Telemaco, invitato a sbarazzarsi di ospiti accattoni e vagabondi caricandoli sulle navi per venderli in terre lontane (vv. 376-383). La crisi è stata quindi di breve durata e sembra che i pretendenti non abbiano consapevolezza dei loro comportamenti. In questo episodio si è vista la manifestazione di un delirio collettivo ; i pretendenti andrebbero incontro a un’esperienza simile a quella dei partecipanti a un rituale estatico. 14 Questa tesi valorizza un dato rilevante in rapporto alla condizione mentale indotta dalla divinità, che coinvolge un gruppo nel suo insieme e non un singolo individuo. Al tempo stesso va rilevato che l’episodio non presuppone il riferimento a un quadro istituzionale definito. L’immagine delle carni sanguinanti di cui i pretendenti si cibano (v. 348) potrebbe richiamare la pratica rituale del 









rapporto a un presentimento luttuoso circa la sorte dei compagni (AmeisHentze-Cauer, ad loc.). 12  Tali possono essere considerati la rugiada di sangue che annuncia la caduta dei guerrieri nella battaglia imminente (Il. 11, 53-55) e la pioggia di sangue inviata da Zeus per onorare la morte di Sarpedon (Il. 16, 459-461). Nell’Odissea sono memorabili le pelli e le carni mugghianti delle vacche di Helios, uccise dai compagni di Odisseo (12, 394-396). Cf. Stanford 1959, ad Od. 20, 345 ss. (p. 354) ; Levine 1983, 6 e n. 17 ; Rutherford 1992, ad Od. 20, 345-386. Motivi affini ricorrono nel folclore (Thompson 1955 : D 1812. 5.1.1.5 [“Droops of blood presage slaughter”]), e in altre tradizioni poetiche : Stanford, Rutherford, locc. citt. Trattasi, in questi casi, di tevrata obiettivi, che si manifestano nel mondo reale, mentre l’episodio odissiaco si distingue per il fatto che la divinità interviene sulla mente dei pretendenti, anche se le conseguenze si manifestano nel mondo reale. Danek valorizza giustamente il carattere innovativo dell’episodio : ad Od. 20, 345-372.  









l’wjmofagiva, 15 ma più probabilmente preannuncia l’episodio della strage nella sala del banchetto : di Antinoos, ad esempio, si afferma che cade colpito alla gola dalla freccia di Odisseo mentre il pane e le carni arrostite si imbrattano di sangue : si`tov~ te kreva t∆ ojpta; foruvneto (22, 21). D’altra parte la divinità che qui scatena la crisi è Athena e non Dioniso, e il comportamento dei pretendenti andrà considerato in rapporto agli effetti indotti dalla presenza di questa divinità. Ugualmente poco soddisfacente è la tesi che interpreta la crisi dei pretendenti come dovuta a una possessione divina. 16 Su questo punto è opportuno aggiungere alcune considerazioni che ci consentiranno di comprendere meglio le modalità di intervento di Athena. Anche in un’altra occasione la dea interviene provocando smarrimento fra i pretendenti : quando Odisseo e Telemaco danno inizio alla strage nella sala del banchetto essa ostacola una reazione efficace sollevando l’egida dal tetto e provocando un panico generale : tw`n de; frevne~ ejptoivhqen. / oiJ d∆ ejfevbonto kata; mevgaron bove~ w}~ ajgelai`ai (22, 298 s.). La condizione dei pretendenti è paragonata a quella di vacche impaurite che fuggono punte dall’oi\stro~ (v. 300 s.). Nell’Iliade Athena interviene a sostegno di Achille, dopo la morte di Patroclo, quando l’eroe è privo delle armi cadute nelle mani di Ettore : essa getta l’egida sulle spalle del suo protetto e ne cinge il capo con una nuvola d’oro ; più tardi interviene personalmente accanto all’eroe lanciando un urlo che provoca un grande tumulto tra le file troiane (18, 203-218). La divinità dispone quindi di vari mezzi capaci di provocare gli effetti desiderati : terrore, fuga, smarrimento improvviso (anche se per lo più momentaneo). Accanto all’egida e alla voce uno strumento decisamente potente è rappresentato dalla vista, secondo quanto suggeriscono vari contesti, soprattutto cultuali. 17 La forza esercitata dalla vista divina è rintracciabile anche nell’Iliade. Quando nel primo canto si presenta ad Achille, irato per la contesa con Agamennone, i suoi occhi “scintillano tremendamente” (1, 200 : deinw; dev oiJ o[sse favanqen), ed è subito riconosciuta dall’eroe. Nell’episodio odissiaco in esame non si fa menzione della voce e neppure dell’egida, che poco si adatterebbero al contesto : basta la sua presenza a produrre l’effetto desiderato. In tutti questi casi Athena non prende possesso della persona, ma interviene con forza dall’esterno stravolgendo il pensiero. La sua azione è puramente disgregante ; la possessione implica invece non soltanto la perdita di controllo della persona, ma anche una presenza divina che si sostituisce ad essa e si esprime direttamente attraverso il corpo del posseduto. Ciò implica che a un ordine se ne sostituisce un  

























13  Vd. in tal senso Hershkowitz 1998, 159 n. 118 ; cf. Guidorizzi 1997, 3, che pure non accoglie l’interpretazione dello scolio. 14  Guidorizzi 1997. 15  Il richiamo all’wjmofagiva e ai rituali dionisiaci è stato proposto da Laser (1983, 75) e sviluppato da Guidorizzi, che valorizza l’orizzonte di attesa dell’uditorio cui il cantore faceva appello (1997, 6 ; 2010, 155-157). 16  Incline a questa interpretazione è Russo 2004, ad Od. 20, 345-383 ; vd. anche Guidorizzi 2010, 155 s. Precedentemente Hershkowitz aveva notato come, nonostante alcune espressioni (a[sbeston gevlw w\rse, ... gnaqmoi`si gelwvwn ajllotrivoisin) suggeriscano quest’idea, la divinità intervenga senza prendere possesso dei pretendenti (1998, 150 : “she does not enter them”). Le modalità di intervento di Athena sono in effetti abbastanza diverse (vd. infra nel testo). 17  Per questi aspetti non secondari della figura di Athena vd. Mattes 1970, 48 ; Detienne-Vernant 1974, 167-175 ; Brillante 2009, 278-280.  











teoclimeno, il veggente dell ’ odissea 57 altro, sia pure di natura diversa, sul quale il soggetto non vittima di una novso~ che colpisce al tempo stesso la perceesercita alcun controllo. Non è questo, tuttavia, il tipo di zione e il pensiero. intervento posto in atto da Athena nell’episodio in esame : Non sappiamo in qual misura la presentazione dell’Aiala divinità sconvolge l’equilibrio della persona sfigurandoce sofocleo dipenda da modelli epici. Certo l’episodio della ne l’aspetto esteriore non meno che la mente, ma non si follia ricorreva nei poemi del Ciclo. Nella Piccola Iliade Athesostituisce a essa. Un ruolo importante sembra svolgere na aveva un ruolo rilevante, anche se, per quanto riguarda piuttosto la vista, sia in rapporto alle modalità di intervenAiace, non conosciamo le modalità del suo intervento. 20 to sia in rapporto agli esiti provocati sul soggetto, che si Nell’episodio dell’Odissea basta la sua presenza a provovede provvisoriamente privo delle normali capacità di percare lo sconvolgimento momentaneo dei pretendenti. La cezione e di pensiero. Sotto questo aspetto le condizioni divinità sembra intervenire in forme simili a quelle della dei pretendenti possono essere confrontate con quelle di tragedia sofoclea, anche se tra i due episodi si ravvisano Aiace nella tragedia sofoclea. Qui l’organo corporeo che, differenze : nel primo lo smarrimento è solo momentaneo colpito da uno stravolgimento momentaneo per l’intere non ha conseguenze durevoli, nel secondo conduce alla vento di Athena, dà origine alla crisi, è proprio la vista. Aiafine prematura dell’eroe. ce ritiene di colpire Odisseo e gli Atridi mentre volge la sua Nell’Odissea l’intervento di Athena è seguito da un altro forza distruttiva sugli animali. Quella dell’eroe è una vera fatto straordinario : la profezia di Teoclimeno. Il personage propria novso~, come si afferma a più riprese nel dramma, gio, presente nella sala, descrive una serie di visioni che anné può essere casuale che a produrre tale effetto sia la divinunciano la prossima fine dei pretendenti (20, 351-357) : nità fornita di una vista potente. È Athena stessa a descria\ deiloiv, tiv kako;n tovde pavscete… nukti; me;n uJmevwn vere a Odisseo il suo intervento su Aiace : ejgwv sf∆ ajpeivrgw, eijluvatai kefalaiv te provswpav te nevrqe te gou`na, dusfovrou~ ejp∆ o[mmasi / gnwvma~ balou`sa, th`~ ajnhkevstou oijmwgh; de; devdhe, dedavkruntai de; pareiaiv, cara`~ (v. 51 s.) ; ejgw; de; foitw`nt∆ a[ndra maniavsin novsoi~ / ai{mati d∆ ejrravdatai toi`coi kalaiv te mesovdmai: w[trunon, eijsevballon eij~ e{rkh kakav (v. 59 s.). 18 Nel primo eijdwvlwn de; plevon provquron, pleivh de; kai; aujlhv, passo Athena afferma di aver contrastato la gioia funesta iJemevnwn “Erebovsde uJpo; zovfon: hjevlio~ dev oujranou` ejxapovlwle, kakh; d∆ ejpidevdromen ajcluv~. dell’eroe gettando sui suoi occhi “travianti visioni” (dusfov- rou~ gnwvma~). Qui il termine gnw`mai designa al tempo stesIn passato si è ritenuto che i due eventi fossero in relazione so le visioni (ingannatrici) e il giudizio fondato su di esse. 19 fra loro. Nel commento di Ameis-Hentze-Cauer si afferma Il pensiero appare sconvolto in quanto male indirizzato da che Teoclimeno riconosce i segni provocati da Athena sui una vista che, non cogliendo correttamente le immagini pretendenti e li rappresenta attraverso una serie di immadel mondo esterno, compromette il funzionamento della gini che richiamano il linguaggio oracolare. 21 Più recenmente. Più avanti lo stesso Aiace descrive efficacemente i temente Erbse ha visto, nella profezia di Teoclimeno, una risultati dell’intervento divino (vv. 447-453) : spiegazione di quanto l’azione di Athena aveva provocato  











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keij mh; tovd∆ o[mma kai; frevne~ diavstrofoi gnwvmh~ t∆ ajph`/xan th`~ ejmh`~, oujk a[n pote divkhn kat∆ a[llou fwto;~ w|d∆ ejyhvfisan. Nu`n d∆ hJ Dio;~ gorgw`pi~ ajdavmato~ qeav h[dh m∆ ejp∆ aujtoi`~ cei`r∆ ejpeuquvnont∆ ejmhvn e[sfhlen ejmbalou`sa lusswvdh novson w{st∆ ejn toioi`sde cei`ra~ aiJmavxai botoi`~.

sui pretendenti, così che l’indovino verrebbe a svolgere la funzione dell’ammonitore (inascoltato). 22 Se è comprensibile che tra due episodi eccezionali che si succedono senza interruzione si ricerchi una continuità, resta arduo ricavare da questa presentazione una sovrapposizione totale. Le immagini, entrambe a loro modo profetiche, variano notevolmente : la sola ricorrente in entrambi i casi è quella delle guance bagnate da un pianto abbondante (vv. 348 s. ; 354). Per il resto le visioni di Teoclimeno si ispirano a una simbologia che richiama più direttamente gli eventi luttuosi che si sarebbero svolti nella sala : l’oscurità della notte che avvolge i pretendenti (v. 351 s.), il lamento (v. 353), le pareti e le architravi intrise di sangue (v. 354), gli eidola che si affollano nel portico e nella corte (v. 355), la scomparsa del sole e un’oscurità funesta che invade la sala (v. 356 s.). 23 Nulla di tutto questo ricorre nei versi precedenti. Se tra i due eventi esiste una relazione, essa è solo indiretta :  



Le condizioni della vista (tovd∆ o[mma) influiscono sugli organi deputati all’esercizio del pensiero (frevne~ diavstrofoi) provocando un’alterazione debilitante (gnwvmh~ ajph`/xan th`~ ejmh`~). Athena, la divinità che ha determinato tale esito, è qui la dea gorgw`pi~ (v. 450), che induce nell’eroe una lusswvdh~ novso~. In questa riflessione di Aiace la vista della divinità, l’alterazione indotta su quella dell’eroe e lo stravolgimento del pensiero sono fra loro solidali e contribuiscono a determinare un unico esito. Ricalcando un orientamento generale del pensiero arcaico Sofocle presenta Aiace come 18  Vd. anche vv. 66 ; 69 s. Lo scolio (al v. 52) intende correttamente che Aiace è vittima di un turbamento del pensiero prima che della vista. 19  Cf. Ellendt-Genthe 1872, s.v. gnwvmh : “ludibria oculorum ad mentem alio flectendam fallendamque” ; Suda g 341, s.v. L’aggettivo dusfovrou~ è da intendere con valore attivo : vd. Kamerbeek 1963, ad vv. 51-52 (“misleading”). 20  La follia e la morte di Aiace erano narrate nell’Aithiopis (fr. 5 B.) e nella Piccola Iliade (p. 74, 4 s. ; fr. 2 B.). Cf. [Apollod.], Ep. 5, 6 s. Per un richiamo generale alla follia di Aiace in rapporto all’intervento di Athena nell’Odissea vd. Laser (1983, 75 s.), che segnala un passo riferibile all’Iliupersis nel quale si fa menzione della malattia dell’eroe : Podaleirios fu il primo nel campo greco ad accorgersi dell’ira e fors’anche del male che aveva colpito Aiace, presentato come o[mmata d∆ ajstravptonta barunovmenovn te novhma (schol. Il. 11, 515e = fr. 4, 7 s. B.). Anche qui è chiara l’associazione tra la qualità dello sguardo e l’indebolimento del pensiero. 21  Ameis-Hentze-Cauer 1928, ad Od. 20, 350. Così anche Höfer 1916-24, col. 629. Stockinger pensava a un’originaria autonomia dei due interven 



















ti – il secondo dei quali risalente alla Telemachia – e a una conseguente “Motivdoppelung” (1959, 81). Osserverei che, se gli interventi di Athena e di Teoclimeno presentano una loro autonomia, non sono tuttavia sovrapponibili, come si cercherà di mostrare. Il cantore ha qui introdotto di seguito, forse con una certa goffaggine, due segni premonitori che peraltro rispettano le attribuzioni tradizionali della divinità (Athena) e del veggente (Teoclimeno). 22  Erbse 1972, 52 s. Su questa linea anche Rutherford, secondo il quale le parole di Teoclimeno sarebbero introdotte dalla precedente descrizione dei pretendenti (1992, 68), e de Jong, che pensa a un’unica profezia ripartita tra il narratore e il personaggio (2001, 501 s.). 23  Motivi affini ricorrono nel folclore : Thompson 1955 : D 474 (“Transformation : object becomes bloody”) ; D 1812.5.1.4 (“Eclipse as evil omen”) ; cf. Russo 2004, ad Od. 20, 351-357. Un’interpretazione della visione di Teoclimeno quale effetto di un’eclissi di sole ricorreva già nell’erudizione antica : vd. Broggiato 2003.  











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si potrebbe ritenere, ad esempio, che la condizione di marcato estraniamento provocato da Athena abbia sollecitato le visioni dell’indovino che, affidate alla parola, avrebbero la funzione di annunciare i prossimi eventi. La continuità opera semmai sul piano narrativo. È da notare che nella descrizione della visione è regolarmente usato il perfetto, a esprimere un’azione che dura nel tempo e che lascia al soggetto la possibilità di esprimere verbalmente quanto di volta in volta si presenta alla vista : eijluvatai kefalaiv … (v. 352), oijmwgh; de; devdhe, dedavkruntai de; pareiaiv (v. 353), ai{mati d∆ ejrravdatai toi`coi … (v. 354), kakh; d∆ ejpidevdromen ajcluv~ (v. 357). Nei versi precedenti, invece, per gli effetti provocati dall’intervento di Athena sui pretendenti è usato l’aoristo. Lo svolgimento dell’episodio suggerisce quindi di intendere quella di Teoclimeno come una profezia spontanea : l’indovino descrive l’oggetto delle sue visioni, ispirate a una simbologia trasparente, che non lascia dubbi sul suo significato. Sul piano narrativo l’intervento ha la funzione di preannunciare il corso degli eventi, come in fondo accade per le facce stravolte dei pretendenti per l’intervento di Athena ; ma se consideriamo il tipo di intervento profetico che il cantore ha inteso introdurre è inevitabile pensare a una forma di divinazione spontanea, per nulla sconosciuta al mondo greco anche se fondamentalmente estranea alle forme di divinazione proprie dell’epos. 24 Ci imbattiamo qui, per la prima e l’unica volta in Omero, in un tipo di profezia “naturale” o “intuitiva”, che non ha bisogno di un’arte particolare per interpretare i segni inviati dalla divinità, che si tratti dell’ispezione delle viscere degli animali o dell’interpretazione del volo di uccelli considerati “augurali”. 25 Il mavnti~, che ha piena competenza in questo campo, poteva praticare forme diverse di divinazione, come mostra ancora il caso di Teoclimeno, che precedentemente aveva interpretato il volo dello sparviero ; ma la poesia epica tende ad adottare un unico modello : accanto alle forme già menzionate possiamo ricordare ancora la divinazione nel sogno (e qui interviene la figura dell’ojneiropovlo~), e la singolare profezia di Eleno narrata nell’Iliade. 26 La divinazione naturale, proprio perché diretta, non esclude una certa esaltazione. Il termine mavnti~, della medesima radice di maivnomai, richiama la condizione di alienazione almeno parziale nella quale il soggetto si trova a operare, secondo quanto si osserva in vari personaggi mitici e storici. 27 Egli possiede una capacità visiva potenziata, che abolisce la dimensione temporale. Le immagi 



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24  Per questa interpretazione sostenuta da Dodds in polemica con Rohde (che negava la presenza in Grecia di una follia profetica prima dell’avvento di Dioniso), vd. Dodds 1951, 68-71, passim ; cf. Rohde 1898, II 56-61. Brelich riconosceva l’eccezionalità della profezia di Teoclimeno nei poemi omerici (1958, 110). Questa interpretazione è oggi generalmente accolta : vd. ad esempio Parke 1967, 15 s. ; Suárez de la Torre 1994, 187 s. ; Guidorizzi 1997, 3 ; Mazzoldi 2001, 96 e n. 8 ; 116 e nn. 69-70 ; 2002, 123 n. 46 ; Brillante 2004, 26-28. 25  Entrambi i tipi di divinazione rientrano nelle competenze del mavnti~, anche se la poesia epica utilizza solo il primo. Questa classificazione aveva già ricevuto una sua teorizzazione nel mondo antico : Cic. De div. 1, 6, 11 ; 18, 34 ; 2, 11, 26, che si rifaceva a classificazioni anteriori : vd. Nilsson 1967, 164 ; Timpanaro 1988, 29-35 ; Mazzoldi 2001, 94-97 ; cf. Suárez de la Torre 1994, 182-190. 26  Per la figura dell’ojneiropovlo~ vd. Il. 1, 62 s. ; 5, 148-150 ; Brillante 2009a. Per la profezia di Eleno vd. Il. 7, 44 s. L’affermazione del personaggio va considerata in rapporto allo svolgimento dell’intero episodio : vd. da ultimo Mazzoldi 2002, 123-125 ; Brillante 2009, 132 s. (con altri rinvii). 27  La connessione dei due termini è generalmente accolta : vd. ad esempio Dodds 1951, che giustamente connette la follia profetica con  







































ni si succedono nella mente senza apparente rapporto e prescindono interamente da quanto avviene nel mondo circostante. Quello che l’indovino comunica agli astanti è quanto sperimenta in uno stato di esaltazione momentanea sulla quale non esercita alcun controllo. Il personaggio che con maggior forza presenta questi tratti, anche in virtù dell’elaborata presentazione drammatica, è la Cassandra dell’Agamennone di Eschilo. Ma tratti simili, almeno in rapporto al modello culturale di riferimento, ricorrono in altre figure, quali la Pizia delfica, le sibille, la sacerdotessa di Argo che afferma di vedere la città piena di morti e di uccisioni. 28 Per quanto riguarda le manifestazioni esteriori con le quali la figura dell’indovino ispirato doveva apparire agli astanti, la testimonianza più notevole è fornita da Plutarco. Egli ci presenta il famoso indovino e kaqarthv~ Epimenide di Creta allorché a Munichia annuncia solennemente quanto sarebbe accaduto in quel luogo :  



levgetai de; th;n Mounicivan ijdw;n kai; katamaqw;n polu;n crovnon, eijpei`n pro;~ tou;~ parovnta~ wJ~ tuflovn ejsti tou` mevllonto~ a[nqrwpo~. 29 Gli Ateniesi ignoravano di quanti mali  

sarebbe stato causa per essi quel luogo, perché altrimenti l’avrebbero divorato con i loro denti. Alla cecità degli Ateniesi, ignari del loro futuro, si oppone la forza visiva del mavnti~, capace letteralmente di “vedere” quanto sarebbe accaduto nel medesimo luogo. È da notare come qui alla visione si accompagni una riflessione prolungata (ijdw;n kai; katamaqw;n polu;n crovnon), quindi una concentrazione che isola il mavnti~ dal mondo circostante. Anche il doppio responso reso agli Ateniesi dall’oracolo delfico in occasione dell’invasione persiana presenta alcuni tratti che richiamano la divinazione naturale. 30 La Pizia annuncia in termini insolitamente chiari la prossima rovina della città senza neppure attendere la domanda degli inviati ateniesi. I templi della città diventano quasi esseri animati : la furia di Ares ne provocherà la distruzione ; ormai prossimi alla rovina, essi appaiono scossi dal timore e grondano sudore (pollou;~ d∆ ajqanavtwn nhou;~ malerw`~ puri; dwvsei, / oi{ pou nu`n iJdrw`ti rJeouvmenoi eJsthvkasi, / deivmati pallovmenoi). In una forma che richiama la visione di Teoclimeno (20, 354), la Pizia vede nero sangue venire giù dai tetti (ai|ma mevlan kevcutai), segno di una rovina imminente. Non resta che l’invito ad abbandonare il tempio e rassegnarsi alla rovina. Posti di fronte a una profezia che non lascia scampo, gli inviati ateniesi si ripresentano supplici e chiedono un altro oracolo ; e questa seconda profezia, pure sfavorevole, lascia almeno intravedere una possibilità di salvezza. An 







Apollo ; Chantraine 1968-80, s.v. mavnti~. Non sono peraltro mancate riserve su questa etimologia : vd. Rohde 1898, ii 56 n. 3, che proponeva un’improbabile connessione con il verbo manuvw, più recentemente ripresa da Casevitz (1992, 14 s.) e da Bremmer (1996, 99) ; cf. Mazzoldi 2001, 94 n. 2 ; 2002, 115 s. 28  Dodds 1951, 70-72 e le note relative. Per l’elaborata profezia di Cassandra nella tragedia di Eschilo (vv. 1072-1330) vd. Mazzoldi 2001, 180-218. Per la sacerdotessa di Argo vd. Plut. Pyrrh. 31, 3. Per le visioni di Cassandra in un’anonima tragedia ellenistica vd. POxy 2746 = fr. adesp. 649 K.-Sn. Il personaggio manifesta le medesime capacità in Quinto Smirneo, allorché profetizza la prossima rovina di Troia (12, 540-551). Il carattere visivo della profezia di Teoclimeno era implicitamente riconosciuto nei Placita Philosophorum attribuiti a Plutarco (4, 12 [901a]) sulla base del confronto con l’Oreste di Euripide (vv. 255-259), pur nell’ambito di un’interpretazione razionalistica. Date queste premesse, le visioni di Teoclimeno nell’Odissea non possono essere intese come una semplice “visione poetica” (Nilsson 1967, 166 : “dichterisches Schauen”). 29  Plut. Sol. 12, 5 (= 3 B 10 D.-K.). L’episodio è ricordato anche da Diogene Laerzio (1, 114). 30  Her. 7, 140 s. (= 94, 95 P.-W.)  









teoclimeno, il veggente dell ’ odissea 59 che questi versi sembrano richiamare le visioni della Pizia : la presenza di Athena : essi possono accusare Teoclimeno non tanto il famoso “muro di legno” (tei`co~ ... xuvlinon), di follia solo se hanno riacquistato il pieno controllo della che poi fu variamente interpretato, ma soprattutto le papersona. Teoclimeno, a sua volta, può respingere le accurole con le quali la Pizia congeda gli inviati ateniesi : se e affermare di avere una mente salda nel petto solo se ha già superato la crisi che accompagna normalmente la w\ qeivh Salamiv~, ajpolei`~ de; su; tevkna gunaikw`n profezia spontanea. Ciò permette di concludere che i due h[ pou skidnamevnh~ Dhmhvtero~ h] suniouvsh~. eventi sono successivi e che entrambi si esauriscono in un Pronunciate in un momento nel quale non era prevedibile breve arco di tempo. Quando i pretendenti accolgono con il ruolo che Salamina avrebbe avuto nel conflitto, queste risa le parole dell’indovino (v. 358) i due eventi straordinari parole sembrano implicare una conoscenza dei fatti cosono conclusi e può iniziare un confronto “razionale” tra me si svolsero realmente. Potrebbe trattarsi quindi di un le parti. oracolo post eventum, anche se questo punto rimane incerLa contenuta irruzione di un mondo estraneo nell’atto. 31 Prescindendo da questo problema, non decisivo per mosfera apparentemente distesa del banchetto ha una il nostro tema, le parole della Pizia suggeriscono che essa sua finalità narrativa : pone fine alle tracotanti parole dei “vedesse” quanto in futuro sarebbe avvenuto in prossimità pretendenti e annuncia la prossima rovina. Per raggiungedell’isola ; essa dispone, in fondo, di una conoscenza non re questo fine il cantore attinge a modelli culturali diffudiversa da quella di Epimenide, capace di annunciare con si e familiari all’uditorio : sia lo smarrimento provocato da grande anticipo i mali che Munichia avrebbe provocato agli Athena sia la profezia spontanea di Teoclimeno trovano riAteniesi. La differenza più notevole è data dal fatto che la spondenze puntuali nel mito e nelle credenze religiose. La profezia di Epimenide era data nella stessa Munichia mennovità dell’episodio è da ravvisare quindi non nel tipo di tre la Pizia era lontana dal luogo degli eventi. esperienza descritta, ma nel fatto che un cantore, in una faQuesta forma di divinazione spontanea è stata spesso inse avanzata della tradizione (come indicano i caratteri deltesa come una “seconda vista”. 32 È un’interpretazione che la lingua, della dizione e talune aporie della narrazione), può essere accolta, purché sia chiaro che essa non implica abbia deciso, attingendo all’esperienza di un mondo a lui una duplicità della visione : il personaggio ispirato non è familiare, di introdurre un episodio che presentava caratpartecipe contemporaneamente di due esperienze diverse. teri propri, estranei al genere epico. Esso è stato associato La sua vista resta quindi unica, ma in condizioni eccezioa un altro intervento, anch’esso piuttosto singolare, quelnali può isolarsi dal mondo circostante e avere visioni che lo di Athena, che tuttavia trova confronti, almeno parziali, anticipano in forma simbolica il futuro. Il mavnti~, che norall’interno dei poemi. Non sappiamo quali furono gli efmalmente condivide l’esperienza degli altri uomini, accede fetti sull’uditorio, ma possiamo immaginare che l’introduin tal modo a una condizione che gli consente di gettare zione di un personaggio nuovo, forse estraneo al racconto uno sguardo sul futuro attraverso un indebolimento o un più antico e che si distingueva per le sue capacità straordiannullamento della dimensione temporale. Egli acquisisce narie, avesse il fine di arricchire la narrazione, ampliandola e comunica una conoscenza su fatti lontani nel tempo (tale rendendola più attraente, e di stimolare quindi l’interesse volta anche passati), inaccessibili agli altri uomini e che si dell’ascoltatore. presentano a lui (e a lui soltanto) nelle forme simboliche del messaggio profetico. Bibliografia Il ruolo della vista nell’episodio di Teoclimeno, oltre che Ameis-Hentze-Cauer 1928, K. F. Ameis - C. Hentze - P. Cauer, attraverso le vive immagini del suo discorso, emerge dalHomers Odyssee ii 2, Leipzig-Berlin 192810. la risposta data ai pretendenti, che ritengono folli le sue (van) Bennekom 1979, R. van Bennekom, in Lexikon des frühgrieparole proprio perché prescindono dall’esperienza reale chischen Epos i, Göttingen 1979, s.v. ajcrei`o~, ajcrhvi>o~. (v. 360). Dopo aver ribadito con decisione di conservare Bethe 1922, E. Bethe, Homer. Dichtung und Sage ii. Odyssee, Kyklos, membra e mente ben salde (v. 365 s.), egli esprime l’intenZeitbestimmung, Leipzig-Berlin 1922. zione di allontanarsi perché vede la rovina incombere su Brelich 1958, A. Brelich, Gli eroi greci, Roma 1958. di loro (v. 367 s. : ejpei; noevw kako;n u[mmin / ejrcovmenon). Il Bremmer 1996, J. N. Bremmer, The Status and Symbolic Capital of the Seer, in R. Hägg (ed.), The Role of Religion in the Early Greek verbo qui usato a descrivere l’esperienza trascorsa, noevw, Polis, Stockholm 1996, 97-109. non ha ancora assunto il significato di “pensare”, ma conBrillante 2004, C. Brillante, Il sogno di Epimenide, « Quad. Urb. » n.s. serva quello più antico di “percepire, comprendere” e rin77 (106), 2004, 11-39. via all’esperienza sensibile della visione. 33 Quello di TeoBrillante 2009, C. Brillante, Il cantore e la Musa. Poesia e modelli culclimeno è un percepire che produce conoscenza ; questa a turali nella Grecia arcaica, Pisa 2009. sua volta è legata al mondo sensibile e all’efficacia di una Brillante 2009a, C. Brillante, ∆Oneiropovlo~ in Omero, « Medicina vista straordinaria. nei secoli » n.s. 21, 2009, 693-719. Dall’episodio emerge ancora un dato non secondario. Broggiato 2003, M. Broggiato, Interpretazioni antiche e moderne Sia nel caso della “follia” dei pretendenti sia nelle parole della visione di Teoclimeno nell’ Odissea, in R. Nicolai (ed.), RUSprofetiche di Teoclimeno la fase di crisi appare breve e moMOS. Studi di poesia, metrica e musica greca offerti dagli allievi a mentanea. Quando questi profetizza i pretendenti hanno Luigi Enrico Rossi per i suoi settant’anni, Roma 2003, 63-72. Cantilena 2004, M. Cantilena, in A. Hoekstra (ed.), Omero. Odisgià superato gli effetti dello smarrimento prodotto dal 











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31  Il passo erodoteo potrebbe riferire l’autentica risposta dell’oracolo. Che con il riferimento finale a Salamina si intendesse sostenere la posizione di Temistocle non può essere escluso (così Parke-Wormell 1956, i 171), ma appare dubbio soprattutto se si ritiene che la consultazione dell’oracolo avvenne prima delle Termopili (Parke-Wormell 1956, i 169). 32  Vd. ad esempio Stockinger 1959, 81 ; Huxley 1969, 55 s. ; Parke 1967, 16 ; Vermeule 1974, 117 ; Rutherford 1992, ad Od. 20, 345-386.  







33  Vd. von Fritz 1943, 88 s. ; Snell 1978, 41, il quale mette bene in luce come il verbo sia legato alla sfera del vedere, al pari di eijdevnai e gnw`nai, e come da tale nozione si sia sviluppata quella di “pensare”. Un giudizio analogo aveva espresso Capelle (1889, s.v. noevw) sulla base dell’uso omerico : cf. Il. 15, 422 ; 24, 294 ; Hymn. Ven. 179.  







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carlo brillante

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ACHILLE ‘SPOSO IDEA LE’ DA OMERO A EUR IPIDE Eleonor a Cavallini 1. ella tradizione mitica greca, e nelle sue espressioni letterarie, il tema dell’omosessualità inizia ad affiorare non prima della seconda metà del vii secolo. 1 Nell’Iliade e nell’Odissea, in effetti, mai si parla di omosessualità, e tutti gli eroi (ad esclusione di Menelao, ma per altre ragioni), 2 dormono con concubine scelte dal bottino di guerra. Achille e Patroclo non fanno eccezione : nel nono libro dell’Iliade, congedati Aiace e Odisseo, i due eroi fanno preparare un letto per Fenice, quindi si ritirano a loro volta in fondo alla tenda, ciascuno in compagnia di una donna. In mancanza di Briseide, Achille prende per sé una schiava di Lesbo, di nome Diomede, mentre Patroclo si stende accanto ad Ifi, donatagli da Achille in seguito alla conquista di Sciro (vv. 663-668) : 3

N







Achille invece dormiva nel fondo della tenda ben costruita ; e accanto a lui si stese Briseide dalle belle guance (trad. G. Cerri). 5  



Achille tornerà a dormire con Briseide in Il. 24, 675 s., quan-

Poco prima del decisivo incontro con il re di Troia, Teti, inviata da Zeus alla tenda di Achille per riferirgli il volere degli dèi riguardo ad Ettore, aveva esortato il figlio a riprendersi dal proprio irriducibile dolore e a ritrovare interesse per la vita : “Figlio mio, fino a quando ti mangerai il cuore/ piangendo e gemendo, senza pensare né al cibo/ né al letto ? È pur bello con una donna/ mescolarsi in amore” (24, 128131, trad. G. Cerri). 6 Sarebbe certo fuor di luogo attribuire all’Achille omerico un’anacronistica, precocemente ‘romantica’ passione d’amore per Briseide (o per qualsiasi altra donna), 7 come pure una devozione paragonabile a quella di Odisseo nei confronti di Penelope : è tuttavia interessante rilevare come nell’Iliade vi siano ripetuti accenni alla natura ‘matrimoniale’ del rapporto fra l’eroe e la sua schiava/ concubina, che se da un lato si distingue fra le altre per la bellezza 8 e per il rango elevato della famiglia di origine, 9

1  Non è questa la sede per indagare quali siano, sul piano storico-antropologico, le origini della pederastia greca e i suoi legami con l’atletismo. In proposito, rinvio alla trattazione di Th. F. Scanlon, Eros and Greek Athletics, New York 2002. Sulla pederastia in Grecia, e sulla sua funzione paideutica, si vedano inoltre H. I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, trad. it. Roma 1966 ; A. Brelich, Paides e parthenoi, Roma 1969 ; F. Buffière, Éros adolescent : la pédérastie dans la Grèce antique, Paris 1980 ; J. Bremmer, An Enigmatic Indo-european Rite : Pederasty, « Arethusa » 13, 1980, 279-298 ; H. Patzer. Die Griechische Knabenliebe, Wiesbaden 1982 ; K. J. Dover, L’omosessualità nella Grecia antica, trad. it. Torino 1985 ; M. Sartre, L’omosessualità nell’antica Grecia, in G. Duby (ed.), L’amore e la sessualità, Milano 1986 ; E. Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Milano 1995 ; W. A. Percy, Pederasty and Pedagogy in Archaic Greece, Urbana-Chicago 1996 ; C. Calame, L’Éros dans la Grèce antique, Paris 2000 ; F. Boni, La pederastia nell’antica Grecia, Roma 2002. 2  Come rilevava Aristotele (fr. 42 Gigon = Athen. 556d), sebbene nell’Iliade tutti gli eroi, compresi gli anziani come Nestore, abbiano almeno una concubina, è da ritenere che Menelao “abbia avuto riguardo nei confronti di Elena che era sua sposa, e per la quale aveva anche organizzato la spedizione ; per questo si guarda dall’unirsi con un’altra donna” (trad. E. Cavallini, Ateneo. Il Banchetto dei Sapienti. Libro xiii : sulle donne, Bologna 2001, 29-31). Evidente riprova dell’importanza politica e strategica che il possesso di Elena, figlia di Zeus e simbolo di Regalità, ricopriva per entrambi gli schieramenti : sull’argomento, cfr. da ultimo E. Cavallini, Patroclo ‘capro espiatorio’ : osservazioni sul libro xvi dell’Iliade, « Mythos » n.s. 3, 2009, 120 n. 18. 3  La versione di Omero, secondo cui Achille avrebbe conquistato Sciro con le armi, contrasta con l’altra, più diffusa, tradizione secondo la quale l’eroe, all’età di nove anni, sarebbe stato trasferito dalla madre a Sciro presso il re Licomede e ivi avrebbe subito un travestimento in abiti femminili (cfr. [Bion] Epithal. Achill. 5-9, 22-31 ; Schol. Il. 1, 417 ; 9, 668b ; 19, 326 ; [Apollod.] 3, 13, 8 ; Hor. Od. 1, 8, 13 ss. ; Ov. Met. 13, 162 ss. ; Stat. Achill. 1, 262 ss. ; Hyg. 96, 1). Come rileva il Brelich, op. cit. (a n. 1), 72 n. 60, sul piano rituale questo racconto costituisce una drammatizzazione del passaggio all’età adulta : ma all’epoca di Omero, essendosi persa la consapevolezza dell’originaria implicazione iniziatica, l’episodio della permanenza di Achille a Sciro tra le figlie di Licomede avrebbe rischiato di far fare all’eroe la figura del disertore imboscato. Di qui, probabilmente, la diversa scelta di Omero, che molti secoli più tardi sarà esplicitamente approvata da Pausania, 1, 22, 6 : “Mi sembra che Omero abbia fatto bene a raccontare che Sciro fu espugnata da Achille, narrando la storia in modo molto diverso da quelli che dicono che Achille visse a Sciro insieme con le fanciulle”. Che Achille e Patroclo accettino spontaneamente di partire per Troia, è ribadito in Il. 11,

780-782, dove Nestore, rivolto a Patroclo, rievoca il giorno in cui egli stesso, insieme con Odisseo, era sbarcato a Ftia per esortare i due giovani eroi a partecipare alla guerra ed essi avevano accolto l’invito senza esitazione. 4  Omero, Iliade, trad. di G. Cerri, commento di A. Gostoli, con un saggio di W. Schadewaldt, Milano 1996, 541. 5  Op. cit. (a n. 4) 1263. La struttura di 24, 675 s. è molto simile a quella di 9, 663-665 (addirittura un intero verso, 24, 675, è identico a 9, 663) : la dizione formulare sottolinea in qualche modo il ritorno di Achille ad una rassicurante consuetudine, interrotta non dall’assenza di Briseide (sostituita con un’altra concubina), bensì dall’implacabile dolore per la morte di Patroclo. Si noti che secondo ‘Dict. Cret.’, Bell. Tr. 2, 19, al momento della spartizione del bottino Achille avrebbe tenuto per sé sia Ippodamia/Briseide che Diomede di Lesbo, in quanto le due donne erano divenute amiche inseparabili : in tal modo, l’autore dello pseudepigrafo di età imperiale sembra voler giustificare la compresenza di Briseide e di Diomede, quest’ultima di fatto sostituto/duplicato della prima. 6  Op. cit. (a n. 4) 1223. 7  Ignorata (intenzionalmente ?) dall’Iliade, Deidamia era ricordata nelle Ciprie, dove, stando al riassunto di Proclo (Chrest. 86 Severyns), Achille sarebbe approdato a Sciro successivamente alla partenza da Aulide e ivi avrebbe regolarmente sposato la figlia di Licomede (gamei` th;n Lukomhvdou qugatevra Dhi>davmeian). Di un matrimonio legittimo fra Achille e Deidamia parleranno, secoli più tardi, Properzio (2, 9, 16 Scyria nec viduo Deidamia toro), nonché il retore Filostrato (Her. 46), anch’egli peraltro molto fermo nel rifiutare – in quanto indegna dell’eroe – la leggenda di Achille nascosto a Sciro per evitare i pericoli della guerra. 8  Cfr. Il. 19, 282, ove Briseide è paragonata all’“aurea Afrodite”. 9  Cfr. Il. 2, 688-694, ove sono rievocate la presa di Lirnesso, espugnata da Achille, nonché l’uccisione, da parte dell’eroe, del marito e dei fratelli di Briseide. Che Minete, sovrano di Lirnesso, ucciso da Achille e ricordato in Il. 2, 692, sia da identificarsi con lo sposo di Briseide, è ipotesi possibile ma difficilmente dimostrabile (cfr. C. Dué, Homeric Variations on a Lament by Briseis, Oxford 2002, 13 e n. 36, con bibliografia). Dallo scolio A ad Il. 1, 392, inoltre, apprendiamo che Omero forma i nomi di Briseide e Criseide patronimicamente, ma il vero nome, evidentemente aristocratico, di Briseide era Ippodamia (cfr. ‘Dict. Cret.’, Bell. Tr. 2, 17 ; sull’argomento, si veda Dué, op. cit. 56-58). Sulle origini di Briseide, cfr. inoltre Ov. Her. 3, 45-50 : diruta Marte tuo Lyrnesia moenia vidi – et fueram patriae pars ego magna meae ; vidi consortes pariter generisque necisque tres cecidisse, quibus, quae mihi, mater erat ; vidi, quantus erat, fusum tellure cruenta pectora iactantem sanguinolenta virum.





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do, dopo la restituzione del corpo di Ettore a Priamo, l’angoscia devastante dell’eroe cederà il posto ad uno stato di consolante apaisement :



Achille invece dormiva nel fondo della tenda ben costruita ; accanto a lui era stesa una donna, che s’era portata da Lesbo, la figlia di Forbante, Diomede dalle belle gote. Sull’altro lato giaceva Patroclo ; e accanto a lui egualmente Ifi dalla bella cintura, che gli aveva donato Achille divino, quando prese Sciro dirupata, la città di Enieo (trad. G. Cerri). 4  





























































































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dall’altro non può accampare pretese in quanto prigioniera di guerra. 10 Nel nono libro dell’Iliade, è Achille stesso a istituire un provocatorio confronto fra la propria situazione e quella di Menelao, per la cui sposa Elena combattono tutti gli Achei (vv. 336-343) :  



Mi s’è presa la compagna amata : dormendo con lei, se la spassi ! Perché gli Argivi debbono battersi contro i Troiani ? Perché l’Atride ha raccolto un esercito e l’ha portato fin qui ? Non l’ha fatto per Elena dalla bella chioma ? Amano forse le loro compagne soltanto gli Atridi fra tutti gli uomini ? Al contrario, chiunque sia buono e retto ama la propria e le vuol bene, come appunto anche io amavo quella di cuore, benché fosse schiava di guerra (trad. G. Cerri). 11  













L’affronto subìto da Menelao è di tale gravità da comportare la mobilitazione di un formidabile esercito contro Troia ; eppure, insinua malignamente Achille, proprio il fratello dell’offeso non ha esitato ad arrecare la stessa ingiuria a lui, il più valoroso dei guerrieri impegnati nel conflitto. Significativo l’uso del termine a[loco~ : in genere impiegato per indicare la ‘sposa legittima’ (cfr. Il. 1, 114, ove Agamennone definisce kouridivh a[loco~ Clitennestra, contrapponendola alla concubina Criseide), qui designa sia le ‘spose’ degli Atridi (v. 340) sia Briseide (v. 336), che il Pelide, con intento polemico, colloca sullo stesso piano di Clitennestra ed Elena. Della serietà delle intenzioni di Achille nei confronti di Briseide si può legittimamente dubitare : poco oltre, infatti, egli rifiuta sdegnosamente la proposta di sposare una delle figlie di Agamennone, 12 ma in compenso si dichiara intenzionato a prendere in moglie, in caso di felice ritorno in patria, 13 una fanciulla scelta dal padre Peleo (vv. 393-400). Le parole di Achille non fanno che confermare la sostanziale impossibilità, per un greco, di sposare una straniera, essendo il ‘barbaro’ 14 considerato dai Greci intellettualmente e

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moralmente inferiore ‘per natura’, e quindi destinato per forza di cose ad essere schiavo. 15 Inequivocabili aspirazioni matrimoniali sono, viceversa, manifestate proprio da Briseide, nell’unico discorso che Omero le fa pronunciare, e che costituisce un improvvisato compianto sul corpo di Patroclo (Il. 19, 287-300). 16 Dopo aver rievocato la distruzione della propria città nonché la morte dei tre fratelli e del marito, la giovane donna si rivolge al defunto con queste parole (295-300) :  





Nemmeno allora, quando Achille veloce aveva ammazzato il mio sposo e distrutta la città del divino Minete, volevi che io piangessi, ma dicevi che m’avresti fatta sposa legittima (kouridivhn a[locon) di Achille divino, che m’avresti portato sulle navi a Ftia, per celebrare le nozze tra i Mirmidoni. Perciò ti piango senza fine da morto, te sempre dolce (trad. G. Cerri). 17  

Che nella circostanza qui ricordata Patroclo, in quanto più vecchio di Achille, si fosse assunto nei confronti dell’amico un compito tipicamente ‘paterno’ come quello di trovargli moglie, è ipotesi alquanto forzata. 18 Sembra più verosimile che l’eroe, caratterizzato nell’Iliade come gentile, disponibile e sempre pronto ad avere per tutti parole di conforto, 19 si sforzasse di consolare il dolore di Briseide con una promessa irrealizzabile. Una sorta di pietosa bugia, che comunque connota ulteriormente l’umanità di Patroclo e la sua rilevanza come elemento equilibratore nei rapporti interpersonali fra i personaggi del poema. L’accorato appello di Briseide, pronunciato in presenza di Achille, resterà, prevedibilmente, senza risposta.  





2.





Che Ovidio, avvezzo ad annoverare fra il suo pubblico anche una prestigiosa élite di doctae puellae, trasformi l’austero racconto omerico in romanzo sentimentale, non stupisce di certo ; che la Briseide ovidiana, pur dichiarandosi schiava e sottomessa, di fatto rivendichi i diritti di una moglie, e si dichiari gelosa di Diomede di Lesbo, stupisce ancor meno.  

10  Secondo una norma di ‘diritto delle genti’, condivisa in generale da tutti i popoli antichi, il prigioniero o la prigioniera di guerra diventano proprietà del vincitore e, anche se di nobile famiglia, decadono dall’originaria condizione di liberi (cfr. Marc. Inst. 1 = D. 1, 5, 5). Ma se nella legislazione romana, così come in quella ebraica, è prevista per gli schiavi la possibilità di acquisire, tramite la manomissione, diritti molto simili a quelli degli ingenui (tra cui appunto, per una schiava/concubina, il diritto/dovere di sposare il padrone che l’abbia affrancata a scopo di matrimonio), nella Grecia dell’età della polis la manomissione, oltre a essere meno frequente, comporta diritti più limitati e soprattutto esclude quello di cittadinanza. Non a caso, già in Omero il prigioniero/schiavo di ambo i sessi può riacquistare la libertà dietro corresponsione, da parte dei familiari, di un adeguato riscatto, ma alla condizione di ritornare nel luogo di origine : cfr. ad esempio Il. 1, 13 ss., ove Crise si reca da Agamennone portando con sé ajpereivsi∆ a[poina per liberare la figlia e riportarla a casa. In Omero non sono invece presenti casi di matrimonio legittimo fra una schiava/concubina e il suo padrone. Con un matrimonio regolare si conclude l’Andromaca euripidea : senonché la vedova di Ettore, divenuta concubina di Neottolemo e fatta oggetto di ogni sorta di angherie da parte della rivale Ermione, viene sì salvata da Peleo e destinata da quest’ultimo a un matrimonio onorevole, ma lo sposo non sarà Neottolemo (nel frattempo ucciso in un agguato a Delfi ), bensì un fratello di Ettore, Eleno signore dell’Epiro. 11  Op. cit. (a n. 4), 517. 12  Cfr. Il. 9, 144-147 ; 286. Che la risposta di Achille a Odisseo contenga studiati accorgimenti retorici, è evidenziato già dai commentatori antichi : sull’argomento, cfr. M. Fantuzzi, Achilles in Love : Intertextual Studies, Oxford 2013, 107-115. Sulla presenza di Ifianassa /Ifigenia accanto a Crisotemi e a Laodice/Elettra, cfr. E. Cavallini (ed.), Introduzione, in Omero mediatico.  









Al matrimonio ‘morganatico’ di Achille con Briseide si contrappone quello, non meno irrealizzabile ma per ragioni diverse, con Elena. Stando al riassunto di Proclo (Chrest. 80 Aspetti della ricezione omerica nella civiltà contemporanea, Bologna 20102, 4 e n. 8. 13  Cfr. v. 393, nonché 410-416, in cui Achille riferisce una profezia di Teti secondo la quale egli può scegliere fra rimanere a Troia e andare incontro a una morte gloriosa, ovvero tornare in patria e vivere una vita lunga ma priva di gloria. Stando allo scolio a Il. 19, 326, era destino che Achille, qualora fosse partito per Troia, andasse comunque incontro alla morte. Che Omero gli lasci fino all’ultimo una possibilità di scelta, è essenziale al fine di rendere più avvincente la narrazione e più incisiva la caratterizzazione del personaggio. 14  Il concetto di ‘barbaro’, nel senso di ‘colui che parla una lingua straniera’, è presente già in Il. 2, 867, ove i Cari, alleati dei Troiani, sono definiti barbarovfwnoi. Non è questa la sede per indagare le ragioni per cui, nel poema, i Troiani parlano greco esattamente come i loro avversari. 15  Il barbaros si contrappone “in maniera simmetrica e completa alla duplice identità dell’uomo greco” (così M. Moggi, Greci e barbari : uomini e no, in L. De Finis (ed.) Civiltà classica e mondo dei barbari. Due modelli a confronto, Trento 1991, 34). Sulla natura servile dei ‘barbari’ e sulla loro facilità a lasciarsi assoggettare, emblematico Aristot. Pol. 1285a 20 ss. Sul diverso valore giuridico dell’istituto della manomissione in Grecia e Roma, e sulle ragioni ideologiche di tale diversità, si veda G. Bonabello, La “fabbricazione” dello schiavo nell’antica Roma : un’antropo-poiesi a rovescio, in F. Remotti (ed.), Forme di umanità, Milano 2002, 56 s. 16  In questa circostanza, Briseide appare meno ‘passiva’ di quanto comunemente si creda (su Briseide come “shadowy figure”, cfr. ad es. S. Blundell, Women in Ancient Greece, Harvard 1995, 48). 17  Op. cit. (a n. 4), 1017. 18  Cfr. in questo senso Dué, op. cit. (a n. 9), 76. 19  Sul carattere di Patroclo, cfr. soprattutto Il. 11, 605-848, dove l’eroe si spende senza risparmio per soccorrere e confortare i guerrieri achei in difficoltà. Patroclo continuerà a prendersi cura del ferito Euripilo, rallegrandolo con discorsi e spargendogli farmaci sulla piaga (15, 390-394), fino al momento in cui udrà le grida di giubilo dei Troiani, giunti ormai in prossimità delle navi (15, 395-404) : solo allora correrà verso la tenda di Achille, per cercare di commuoverlo e di convincerlo a cedergli le armi (16, 1 ss.).  





achille ‘sposo ideale’ da omero a euripide Severyns = Cypr. Arg. p. 42 Bernabé), 20 nelle Ciprie Achille, dopo aver conseguito i primi successi militari a Troia, esprimeva il desiderio di vedere Elena, da lui mai precedentemente incontrata : la sua richiesta era esaudita dalla madre Teti e da Afrodite, secondo modalità che non è possibile evincere dalle stringate parole del testimone (sunhvgagen aujtou;~ eij~ to; aujto; ∆Afrodivth kai; Qevti~), ma che sembrano comunque importanti per gli sviluppi successivi del mito. 21 Che Achille fosse troppo giovane per partecipare alla contesa per la mano di Elena, è sottolineato già nel Catalogo delle donne, che omette l’eroe dalla lista dei pretendenti e significativamente aggiunge (fr. 204, 84-93 M.-W.) :  







mondana. Soluzione paradossale, ma destinata ad essere accolta con favore presso numerosi autori di età ellenisticoromana. Fra questi, particolarmente interessante appare Pausania, che se da un lato nega recisamente la presenza di Achille fra i pretendenti di Elena, corroborando la versione prospettata nel Catalogo delle donne, dall’altro riporta con interesse un racconto relativo al matrimonio di Achille ed Elena nell’“Isola Bianca”. In 3, 24, 10-11, respingendo una leggenda locale laconica, secondo la quale Achille avrebbe ucciso un certo Las mentre si recava da Tindaro per chiedere la mano di Elena, il Periegeta afferma :  

ed essi subito obbedirono sperando tutti di compiere le nozze : ma tutti quanti batté l’Atride Menelao caro ad Ares, avendo offerto più doni. Intanto Chirone sul Pelio selvoso allevava Achille dai piedi veloci, eccellente fra gli eroi, che era ancora bambino (pai`d∆ e[t∆ ejovnta) ; non lo avrebbe infatti battuto Menelao caro ad Ares, né chiunque altro degli uomini mortali nel corteggiare Elena, se vergine l’avesse incontrata tornando a casa dal Pelio il veloce Achille. Ma prima di lui l’ebbe Menelao caro ad Ares. 22

A dire il vero, fu Patroclo a uccidere Las, perché era lui il pretendente di Elena. Non è certo da considerare come una prova che Achille non chiese la mano di Elena, il fatto che egli non figuri nel Catalogo delle donne come uno dei pretendenti ; ma è da considerare che all’inizio del suo poema Omero dice che Achille venne a Troia per compiacenza verso i figli di Atreo, 24 e non perché fosse legato dai giuramenti che Tindareo aveva imposto ; e nei Giochi fa dire ad Antiloco che Odisseo è più vecchio di lui di una generazione, 25 mentre Odisseo, narrando ad Alcinoo della sua discesa all’Ade, dice fra l’altro di aver voluto vedere Teseo e Piritoo, uomini di un’età precedente alla sua. 26 Sappiamo però che Teseo rapì Elena, e così è del tutto impossibile che Achille sia stato un suo pretendente. 27

Le considerazioni prospettate nel Catalogo pongono in evidenza un problema destinato ad ulteriori sviluppi : l’inadeguatezza di qualsiasi pretendente ‘umano’ nei confronti della (semi ?)divina 23 Elena, per la quale unico sposo degno (ancorché impossibile) sembra essere Achille, eccellente fra tutti per bellezza e valore, nonché figlio di una dea immortale. Non essendo realizzabile un’unione fra i due personaggi nel corso della loro vita terrena, questo ‘matrimonio ideale’ non potrà che compiersi nella sfera oltre-

Incline, qui come altrove, 28 a dare credito a Omero più che ad altre fonti, Pausania non prende tuttavia in sufficiente considerazione i gravi problemi cronologici posti dal mito del rapimento di Elena da parte di Teseo : un racconto di cui lo stesso Omero conserva anacronistiche tracce, 29 e che lo storico Ellanico avrebbe tentato di razionalizzare ricorrendo a forzature talmente imbarazzanti da suscitare l’irritazione di Plutarco. 30 Più che l’aleatoria cronologia, gioca a favore della tesi di Pausania l’unanime convergenza

20  Sul testo di Proclo, cfr. A. Severyns, Le cycle épique dans l’école d’Aristarque, Liège-Paris 1928, 303 s. 21  Di una tormentosa, onirica passione di Achille per Elena parlerà Licofrone (Alex. 171-179), che interessatamente esclude la possibilità di una relazione tra la figlia di Zeus e il Pelide, dipinto nell’Alessandra come feroce e perverso : in compenso, Licofrone gli riserva come sposa l’altrettanto crudele, e per giunta barbara, Medea (vv. 174-176 nonché schol. ad loc. ; cfr. inoltre Ap. Rh. 4, 811 s., ove Hera predice a Teti il matrimonio del figlio con Medea nei Campi Elisi, e schol. ai vv. 814-815, secondo cui il tema delle nozze fra Achille e Medea sarebbe stato trattato già da Ibico [fr. 291 Dav.] e Simonide [fr. 558 P.]). Più diffusa un’altra versione, su cui ritorneremo, secondo cui Achille avrebbe sposato non Medea, bensì proprio Elena nell’Isola dei Beati. 22  La traduzione è mia. Altre liste dei pretendenti di Elena, non coincidenti con quella esiodea ma comunque concordi nell’escludere Achille, sono registrate da Hyg. Fab. 81, nonché da [Apollod.] 3, 10, 8 (che inseriscono fra i pretendenti anche Antiloco figlio di Nestore e Patroclo). Per la lista esiodea, cfr. M. L. West, The Hesiodic Catalogue of Women, Oxford 1985, 114119 ; sulla struttura della sezione dedicata ai pretendenti di Elena, cfr. inoltre E. Cingano, A Catalogue within a Catalogue : Helen’s Suitors in the Hesiodic Catalogue of Women (frr. 196-204), in R. Hunter (ed.), The Hesiodic Catalogue of Women : Constructions and Reconstructions, Cambridge 2005, 118-152. 23  Nonostante le riserve di alcuni studiosi (cfr. C. Brillante in M. Bettini C. B., Il mito di Elena. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino 2002, 226 s. e bibliografia ivi citata), appare difficile negare ad Elena, quanto meno in certi contesti, uno statuto divino (sul culto di Elena a Terapne, presso Sparta, cfr. Hdt. 6, 61, 3, nonché Paus. 3, 19, 9-10, il quale peraltro accenna anche a un tempio di Elena “dea degli alberi” a Rodi [ma sempre a Sparta Elena era venerata sotto forma di platano, come si deduce da Theocr. 18, 43 ss.] ; sul carattere divino del personaggio nella tradizione spartana e poi ellenistico-romana, si vedano inoltre F. Chapoutier, Les Dioscures au service d’une déesse, Paris 1935, nonché M. L. West, Immortal Helen, London 1975). In quanto figlia di Zeus, d’altra parte, Elena rappresenta la ‘Regalità’, analogamente a quanto avviene in alcuni miti orientali, in cui un mortale consegue il riconoscimento della sovranità grazie al fatto di essere paredros della dea Ishtar/Astarte (cfr. E. A. Speiser, The Sargon Legend, in J. B. Pritchard [ed.], Ancient Near Eastern Texts, Princeton 19552, 119). Si noti, in particolare, che nella Piccola Iliade, successivamente alla morte di Paride, Elena veniva affidata a un altro principe troiano, Deifobo, che dopo Ettore

era il più valoroso dei Priamidi, e che si sarebbe “accompagnato ad Elena non come marito, ma, in quanto responsabile del governo, per proteggerla mentre gli viveva accanto” (scolio a Il. 16, 142b = Parva Il. fr. 1 Bernabé : traduzione mia). Il fatto di essere “accompagnatore”(e cioè, ancora una volta, paredros) di Elena, costituisce dunque, per Deifobo, il suggello dell’autorità che i Troiani gli riconoscono dopo la scomparsa di Ettore e Paride (cfr. già Od. 4, 276, ove Menelao, rivolgendosi a Elena, ricorda : “mentre venivi ti era compagno Deifobo simile ai numi”). Sull’argomento, cfr. da ultimo E. Cavallini, A proposito di Troy, « Quad. scienza conservazione » 4, 2004, 316 s. e nn. 51-53 (con bibliografia). 24  Cfr. Il. 1, 158 s., ove Achille afferma di essersi unito alla spedizione contro Troia solo per dare soddisfazione ad Agamennone e Menelao. 25  Il. 23, 790 “ma questo (Odisseo) appartiene ad un’epoca, ad uomini antichi” (trad. G. Cerri, op. cit. [a n. 4], 1203), ove tuttavia le parole di Antiloco, battuto da Odisseo nella corsa, suonano piuttosto scherzose. Cfr. il commento di A. Gostoli, ad loc. : “Antiloco, come tutti i giovanissimi, considera già “vecchio” chi è soltanto un uomo maturo”. 26  Od. 11, 630 s. Cfr. Il. 1, 265, ove Nestore ricorda Teseo come uno di quegli eroi ‘di una volta’ con i quali nessuno fra i guerrieri sbarcati a Troia potrebbe misurarsi. 27  Traduzione di D. Musti, Pausania. Guida della Grecia iii. La Laconia, a cura di D. M. e M. Torelli, Milano 19973, 153. Dello stesso Musti si veda anche il penetrante commento al passo citato (p. 278), in cui la leggenda dell’ uccisione di Las è interpretata come uno dei molti casi di ‘lievitazione’ di dati epici nella cultura locale laconica. 28  Cfr. ad es. 1, 22, 6 (cit. a n. 3). 29  In Il. 3, 143 s. (dunque nel decimo anno di guerra) Elena ha come ancella Etra, madre di Teseo. Del mito di Elena e Teseo esiste una rappresentazione già in un vaso tardo-geometrico risalente agli inizi del settimo secolo (cfr. C. Ampolo, Plutarco. Le Vite di Teseo e Romolo, Milano 1988, 250). Che Atene rivendichi al proprio eroe più famoso il possesso, quanto meno temporaneo, della bellissima eroina di Sparta, sembra confermare l’interpretazione della figura di Elena quale mediatrice e garante del potere regale. 30  Stando a Hellan. FGrHist 323a F 18 (= Plut. Vita Thes. 31, 1), il cinquantenne Teseo avrebbe rapito Elena ancora bambina (di soli sette anni secondo lo stesso Hellan. F 19, di dieci secondo Diod. Sic. 4, 63, 2, ovvero di dodici in [Apollod.] Epit. 1,23). Si può ragionevolmente supporre che Ellanico, studioso di cronologia, abbia tentato di rendere i dati dell’epica compatibili con quelli di altre tradizioni mitiche (cfr. Ampolo, op. cit. [a n. 29], 251).





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delle fonti nell’escludere Achille dalla lista dei pretendenti di Elena, che pure, secondo una parte della tradizione, include Patroclo e perfino Antiloco, 31 coetaneo del Pelide o addirittura più giovane di quest’ultimo. 32 È proprio Pausania, d’altra parte, a confermare che non solo poeti arcaici come l’autore del Catalogo delle donne consideravano in qualche modo ‘insoddisfacente’ la scelta di Menelao quale sposo di Elena, vagheggiando un ‘amore impossibile’ tra la figlia di Zeus e Achille. In 3, 19, 13, il Periegeta narra che, secondo una tradizione crotoniate, un condottiero di nome Leonimo si sarebbe recato nell’Isola Bianca (identificabile con la pindarica ‘Isola dei Beati’) 33 per incontrare Aiace d’Oileo, ed ivi avrebbe visto Patroclo, Antiloco e Achille sposato con Elena :

Ma sul tema di Achille come ‘sposo ideale’, ancora più

significativa, perfino paradigmatica, è Saffo. Nonostante una lunga e consolidata tradizione che, fin dall’antichità, ha fatto della poetessa l’icona dell’omosessualità femminile 36 (tanto da dar vita alla definizione antonomastica di ‘eros saffico’), 37 tuttavia né dai frammenti superstiti, né dalle testimonianze relative a carmi perduti, trapela alcun intento di piegare il mito in senso omoerotico, o comunque di alterare i dati tradizionali in funzione del modello etico/estetico proposto dalla poetessa. Nel carme che, più di ogni altro, rappresenta la saffica Weltanschauung, vale a dire il fr. 16 Voigt, la poetessa pone al vertice della propria scala di valori non sontuose parate militari, 38 bensì “ciò che uno ama” (vv. 3-4 o[t-/tw ti~ e[ratai). 39 Ad illustrare il proprio assunto, ella cita l’esempio di Elena, che non esitò ad abbandonare il marito e la patria per seguire l’uomo amato, ottemperando così all’inflessibile volere di Afrodite (v. 11 s., in cui la lacuna nasconde quasi sicuramente il nome della dea). 40 Di seguito, Saffo paragona al destino di Elena la propria stessa condizione, ma il parallelo è asimmetrico : la mitica eroina era infatti innamorata di un uomo, mentre Saffo rivolge il proprio nostalgico pensiero ad Anattoria, l’aristocratica milesia che ha lasciato la cerchia della poetessa (v. 16 ouj] pareoivsa~). 41 In realtà, nei carmi superstiti di Saffo la presenza di personaggi mitici è piuttosto rara, quanto meno in quei carmi dal carattere ufficioso (per non dire ‘esoterico’), destinati a un uditorio privilegiato di donne appartenenti alla cerchia più esclusiva di amiche della poetessa, e tuttavia non necessariamente facenti parte di un’associazione istituzionalizzata, né tanto meno di una ‘scuola’ ; 42 un più consi-

31  Cfr. Hyg. Fab. 81, nonché [Apollod.] 3, 10, 8. Patroclo, citato contestualmente ad Antiloco in entrambe le fonti, non sembra un aspirante ‘adeguato’ alle nozze di Elena, né per età, né soprattutto per ricchezza e rango : a meno che non lo si voglia intendere come una sorta di ‘sostituto’ di Achille, attribuendo anticipatamente all’eroe quello che sarà il suo ruolo essenziale nell’Iliade. 32  Cfr. Philostr. Her. 26, 6-10, secondo cui Antiloco sarebbe partito per Troia quando la guerra era già a metà, poiché non aveva ancora l’età per combattere quando gli eroi si riunirono in Aulide. A Troia sarebbe divenuto amico carissimo del Pelide, cui fra l’altro annuncia tra le lacrime la morte di Patroclo (Il. 18, 15-34). 33  Cfr. Ol. 2, 71-80, in cui Teti ottiene da Zeus il privilegio di sottrarre il figlio alla pira e trasportarlo nella makavrwn nh`so~, ove l’eroe ritroverà il padre Peleo (v. 78). In età ellenistico-romana, l’isola diviene più affollata : cfr. in particolare Philostr. Her. 55, 3, dove è riportato un canto, attribuito allo stesso Achille, in cui l’eroe si compiace di avere con sé gli amici Patroclo e Aiace Telamonio. Viceversa la presenza, nel mito crotoniate riportato da Pausania, di Aiace figlio di Oileo sembra meno pertinente, trattandosi dell’empio violentatore di Cassandra (e quindi indegno di un premio oltremondano quale la permanenza nell’Isola dei Beati) : il racconto costituisce comunque una significativa traccia della presenza del culto di Elena in area magnogreca, dunque nella terra di Stesicoro (cfr. Musti, op. cit. [a n. 27], 250). Sull’isola di Leuke, tradizionalmente situata nel Ponto (e ovviamente mai localizzata), cfr. E. Rhode, Psiche, trad. it. Bari 1989, 71-90, nonché 705 n. 1. 34  Cfr. Stesich. TA40 Davies. La traduzione è di Musti, op. cit. (a n. 27), 123. 35  Sul tema degli innamorati che provano attrazione reciproca solo per aver sentito parlare l’uno dell’altra, cfr. la novella di Odati e Zariadre, riportata da Athen. 575af (= Char. Myt. FGrHist 125 F 5). 36  Già l’interessato Platone (Phaedr. 235c) chiama in causa Saffo e Anacreonte quali ‘maîtres à penser’ riguardo al tema dell’amore. In età ellenistico-romana i carmi di Saffo, a causa della loro intonazione omoerotica, diverranno oggetto di moralistico biasimo, soprattutto (ma non solo) da parte di autori cristiani : si veda la documentazione riportata da E. M. Voigt, Sappho et Alcaeus. Fragmenta, Amsterdam 1971, 171 ss. 37  Un approccio revisionistico alla questione è stato proposto, più di venti anni fa, da F. Lasserre, Sappho. Une autre lecture, Padova 1989, il quale tendeva a negare o comunque a ridimensionare le implicazioni erotiche dei carmi di Saffo, identificando nel peculiare linguaggio della poetessa intenti essenzialmente eulogistici. Le posizioni del Lasserre, per quanto

eccessive e in più punti forzate (cfr. la mia recensione in « Gnomon » 63, 1991, 673-680), costituirono comunque un salutare antidoto contro la tendenza, molto diffusa soprattutto negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, a individuare ‘segnali erotici’ o addirittura maliziosi doppi sensi, in qualsiasi passo di lirica greca (ma già in alcuni castissimi versi dell’Iliade). Pochi anni dopo l’uscita del libro di Lasserre, ma indipendentemente da esso, il provocatorio articolo di Holt N. Parker Sappho Schoolmistress (« Trans. Am. Philol. Ass. » 123, 1993, 309 ss.) ha negato ogni attendibilità non solo alle moderne ricostruzioni degli studiosi riguardanti la natura e i codici di comportamento della cerchia di Saffo, ma perfino alle fonti antiche, ritenute dallo studioso troppo tarde e viziate dalla tendenza, tipica dell’età ellenistico-romana, a desumere autoschediasticamente notizie biografiche dagli stessi versi dei poeti, e quindi a trasformare “poetry into biography”. Per una messa a punto della questione, e sull’opportunità di individuare, nei carmi di Saffo, non solo sospiri d’amore ma anche un più concreto e pragmatico intento di creare una solida rete di amicizie con l’aristocrazia microasiatica e lidia, cfr. E. Cavallini, Saffo, Mileto, la Lida : Sapph. frr. 16 e 96 Voigt, in M. Vetta - C. Catenacci (edd.), I luoghi e la poesia nella Grecia antica. Atti del Convegno (Chieti-Pescara, 20-22 aprile 2004), Alessandria 2006, 144158, e bibliografia ivi citata. 38  A proposito dei “carri dei Lidi” (Luvdwn a[rmata) citati al v. 19, è opportuno rilevare che al tempo di Saffo, in seguito all’introduzione della tattica oplitica, il ‘carro da guerra’ di omerica memoria non era più impiegato dai Greci in battaglia, ma conservava tuttavia un ruolo di pura rappresentanza : cfr. Cavallini, op. cit. (a n. 37), 153 s. 39  Come è stato rilevato da diversi studiosi, a differenza di una tradizione per lo più avversa o quanto meno ambigua nei confronti di Elena, Saffo riserva un trattamento di grande riguardo e perfino di ammirazione all’eroina, in quanto paradigma di un comportamento che privilegia l’eros e quindi la divina volontà di Afrodite : cfr. in particolare G. A. Privitera, La rete di Afrodite. Studi su Saffo, Palermo 1974, 131-136 ; P. duBois, Sappho and Helen, « Arethusa » 11, 1978, 89-99 ; A. Aloni, Eteria e tiaso : i gruppi aristocratici di Lesbo tra economia e ideologia, « Dial. archeol. » s. iii 1, 1983, 21-35 ; J. J. Winkler, The Constraints of Desire. The Anthropology of Sex and Gender in Ancient Greece, New York-London 1990, 176-178. 40  Cfr. Lobel-Page, ad loc. : “Veneris in lac. ut videtur latet mentio”. 41  Sulle motivazioni, probabilmente matrimoniali, di tale assenza, cfr. Cavallini, op. cit. (a n. 37), 152 e n. 27. 42  Interpretata, di volta in volta, come anacronistico precedente di un germanico Mädchenpensionat, ovvero come associazione religiosa, la cerchia









Col tempo, guarito e tornato dall’Isola Bianca, diceva d’aver visto Achille, come anche l’Aiace figlio d’Oileo e l’Aiace figlio di Telamone. Con loro, diceva, erano Patroclo e Antiloco, ed Elena era sposata ad Achille : questa gli aveva ordinato di navigare fino a Imera e andare da Stesicoro, per annunciargli che la perdita della sua vista era dovuta all’ira di Elena verso di lui. Perciò Stesicoro compose la sua Palinodia. 34  

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Il racconto riportato da Pausania diverrà, nell’Eroico di Filostrato (54, 2-8), un piccolo ‘romanzo’ sentimentale, con Elena e Achille che si innamorano senza essersi mai visti, solo perché suggestionati l’uno dalla fama dell’altra, 35 e celebrano nozze solenni sull’Isola Bianca, a ideale compimento di una vicenda i cui presupposti erano già nell’epica arcaica.  

3.



























































achille ‘sposo ideale’ da omero a euripide stente utilizzo della tradizione mitica è invece ravvisabile nell’ambito dei carmi epitalamici, in cui dèi, eroi ed eroine del mito vengono assunti come prestigiosi termini di paragone con gli sposi. 43 Oltre all’ ‘esemplare’ coppia formata da Ettore e Andromaca, e celebrata nel fr. 44 V. (il cui rapporto con una concreta occasione nuziale sembra difficilmente contestabile), 44 la poetessa chiama in causa il dio Ares (fr. 111 V.) 45 e probabilmente, con riferimento alla bellezza della sposa, la solita Elena (fr. 23, 4 s. V. faivnetaiv m∆ oud∆] ∆Ermiovna teauv[ta / e[mmenai.] xavnqai d∆ ∆Elevnai s∆ ejivskhn). 46 Che anche Achille venga ricordato da Saffo quale termine di confronto con uno sposo, è quanto assicura Imerio (Or. 9, 16). Dopo essersi soffermato sul caratteristico paragone fra una kovrh e una mela che deve essere raccolta solo a tempo debito (allusione, abbastanza esplicita, a Sapph. fr. 105a V.), 47 il retore prosegue :

equiparato all’eroe quanto ad azioni (tai`~ pravxesi). La rievocazione di sanguinosi successi bellici sembra un tema poco consono a un carme nuziale, e men che meno alla poetica di Saffo, la quale altrove programmaticamente dichiara di preferire la luminosa bellezza della persona amata al sia pur maestoso splendore di una parata militare (fr. 16 V.). 50 C’è da chiedersi fino a che punto la testimonianza di Imerio possa considerarsi attendibile. Sono tuttavia dell’opinione che almeno un verso del perduto carme saffico possa essere recuperato, e dare un’idea sia pure parziale di come fosse in origine strutturato il paragone dello sposo con Achille. Si tratta di un frammento eolico di incerta attribuzione, tramandato sine nomine auctoris da Efestione 14, 5, p. 45 C. (codd. ACHIM), 51 e per molti aspetti riconducibile alla parafrasi di Imerio (Aeol. inc. auct. fr. 21, 1 V.) :

Sapfou`~ h\n ... to;n numfivon te ∆Acillei` paromoiw`sai kai; eij~ taujto;n ajgagei`n tw`/ h{rw/ to;n neanivskon tai`~ pravxesi.

teou`to~ A, toiou`to~ IH : Diehl eij~ codd. : Wilamowitz ap. Diehl Qhvba~ codd. : Blomfield aJrmavtessi ojchvmeno~ M2, -essi chvmeno~ AIH, M1, -essi ceivmeno~ C : Bentley













Fu Saffo … a paragonare lo sposo ad Achille e a porre il ragazzo sullo stesso piano dell’eroe quanto ad azioni. 48  

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Di solito scarsamente considerata dagli studiosi di Saffo per la presunta mancanza di corrispondenti dati testuali, la testimonianza di Imerio si presta in realtà a qualche più attenta riflessione. Partendo dall’ovvio presupposto che le comparazioni fra gli sposi e gli eroi del mito abbiano carattere iperbolico, non stupisce che il destinatario degli elogi di Saffo venga paragonato ad Achille per bellezza, forza o anche per nobiltà di origini ; 49 riesce invece difficile comprendere come il giovane sposo (neanivsko~) possa essere  



di Saffo tende oggi ad essere vista, “più che come una comunità istituzionalizzata, come l’auditorio privilegiato della parte più esclusiva dell’opera della poetessa, per il resto destinata ad occasioni pubbliche ed in particolare a cerimonie nuziali” (così Cavallini, op. cit. [a n. 37], 145, con bibliografia). 43  Cfr. R. Hague, Ancient Greek Wedding Songs : The Tradition of Praise, « Journ. Folkl. Research » 20, 1983, 134s. ; André Lardinois, Keening Sappho. Female Speech Genres in Sappho’s Poetry, in A. Lardinois - L. McClure (edd.), Making Silence Speak. Women’s Voices in Greek Literature and Society, Princeton 2001, 89-91. 44  Cfr. in proposito W. Rösler, Ein Gedicht und sein Publikum, « Hermes » 103, 1975, 275-285 (ma già D. Page, Sappho and Alcaeus. An Introduction to the Study of Ancient Lesbian Poetry, Oxford 1955, 71). Sull’occasione epitalamica del carme si sofferma ulteriormente, e con validi argomenti, il Lasserre, op. cit. (a n. 37), 85-106 (anche se la complessa ricostruzione proposta dallo studioso elvetico non sembra sempre condivisibile : cfr. Cavallini, art. cit. [a n. 37], 675). Diversamente, J. Th. Kakridis, Zu Sappho 44 LP, « Wien. Stud. » 79, 1966, 21-26, interpretava il carme come un mero esercizio di stile, dunque non riconducibile a una concreta occasione nuziale. 45  Si è molto discusso (a partire da Demetr. De eloc. 148), sull’iperbolica presenza nel carme di un dio gigantesco come Ares, per giunta rappresentato, nella tradizione epica, come grossolano e brutale. Sull’argomento, cfr. da ultimo le equilibrate argomentazioni di H. Zellner, Sappho’s supraSuperlatives, « Class. Quart. » 56, 2006, 293, nonché F. Ferrari, Una mitra per Kleis. Saffo e il suo pubblico, Pisa 2007, 119 s. 46  “Nemmeno Ermione mi sembra così bella. Paragonarti alla bionda Elena (conviene ?)” (traduzione mia). L’ipotesi che si tratti di un carme composto per una festa di nozze è avvalorata dalla presenza della caratteristica pannuciv~ (v. 13), ossia della veglia notturna che era solita accompagnare le cerimonie nuziali : cfr. Hague, op. cit. (a n. 43), 133 ; L. Rissman, Love as War : Homeric Allusion in the Poetry of Sappho, Königstein/Ts. 1983, 93 ; A. Aloni, Saffo. Frammenti, Firenze 1997, 46 ; Ferrari, op. cit. (a n. 45), 108. Nella tradizione Elena, oltre ad essere la più bella di tutte le donne, è anche oggetto di contesa fra gli uomini più nobili, valorosi e potenti (cfr. supra). Che Saffo non consideri di cattivo augurio paragonare la sposa ad Elena, nonostante la ben nota infedeltà di quest’ultima, è un dato che meriterebbe ulteriore approfondimento. 47  Cfr. Page, op. cit. (a n. 44), 121 e n. 3 ; G. Burzacchini, Lirici greci, a cura di E. Degani e G. B., Firenze 1977, 174 s. ; A. Aloni, op. cit. (a n. 46), 188. Immagini ispirate al mondo della natura ricorrono con una certa frequenza  











































tevouto~ ej~ Qhvbai~ pavi~ ajrmavtess∆ ojchvmeno~ 52  









Considerato opera di un “poeta Lesbiacus” già dall’Ahrens, 53 a causa di alcuni sonanti eolismi come il dativo plurale in -essi nonché il participio atematico ojchvmeno~, il verso era attribuito a Saffo dal Wilamowitz, 54 il quale peraltro opportunamente osservava che la Tebe del frammento può essere tanto quella di Cadmo quanto quella omerica. A ciò si potrebbe aggiungere che la Tebe dell’Iliade, originariamente situata nella zona costiera prospiciente le isole di Lesbo e Tenedo, e facente parte dell’area in seguito interessata dalla colonizzazione eolica, 55 era destinata, molto  





nella poesia epitalamica di Saffo : cfr. frr. 104 (ove Espero riporta la pecora e la capra, ma strappa la figlia alla madre), 105b (in cui il giacinto calpestato sembrerebbe rappresentare la verginità perduta) e 115 V. (ove lo sposo è paragonato a un o[rpax bravdino~). 48  La traduzione è mia. Il passo è registrato dalla Voigt, op. cit. (a n. 36), 167, fra le testimonianze “ad poetriae carmina pertinentia” (fr. 218 V. = 105b L.-P.). 49  Su Achille ‘sposo ideale’ per genealogia ed educazione nell’Ifigenia in Aulide euripidea, cfr. infra. 50  Si noti tuttavia che in Saffo i ‘carri da guerra’, ancora in uso alla sua epoca in ambiente lidio, ma ormai da tempo caduti in desuetudine nel mondo greco, rappresentano, più che una vera e propria arma di guerra, uno status symbol della classe aristocratica, che ancora per secoli avrebbe continuato a farne sfoggio, per fini di prestigio sociale, in occasione dei grandi giochi panellenici. Essendo vestigia di un passato ‘eroico’, i carri e i guerrieri armati nello stile della tradizione epica appaiono dotati di fascino e bellezza, in quanto espressione dell’antica classe aristocratica e del suo sistema di valori etico-estetici (cfr. Cavallini, op. cit. [a n. 37], 153 s.). 51  Il metricologo riporta il verso come esempio di tetrametro catalettico ejpiwnikovn (si tratta in realtà di un verso composto comprendente un gliconeo, metro molto frequente in Saffo : cfr. Voigt, op. cit. [a n. 36], 25 e 365 ; B. Gentili, La metrica dei Greci, Messina-Firenze 1952, 42). Di seguito, il metricologo riporta un altro verso (Aeol. inc. auct. fr. 21, 2 V.), che non sembrerebbe appartenere allo stesso carme (sull’argomento, si veda la cauta posizione della Voigt, op. cit. [a n. 36], 365). 52  “Un tale ragazzo muovendo verso Tebe sul carro” (traduzione mia). 53  De dialectis Aeolicis, Gottingae 1839, 547. Del tutto improbabile l’attribuzione a Corinna, tuttavia proposta dai primi editori, in particolare da F. G. Schneidewin, Delectus poetarum elegiacorum, iambicorum, melicorum Graecorum iii, Gottingae 1839, 436. Non vi sono infatti forme beotiche nel verso citato, salvo voler prendere in considerazione la variante ceivmeno~ (C), che più probabilmente sarà dovuta a confusione (facilitata dall’itacismo) con una forma del verbo kei`mai. 54  Griechische Verskunst, Berlin 1921, 233 n. 1. 55  Cfr. Strab. 13, 1, 7 “Achille inoltre saccheggiò l’area situata di fronte a Lesbo, nei pressi di Tebe, Lirnesso e Pedaso”. Sulla colonizzazione eolica e sulla figura di Pentilo, figlio illegittimo di Oreste nonché capostipite della nobilissima famiglia lesbia dei Pentilidi, cfr. inoltre lo stesso Strab. 9, 2, 5 (sulla presenza di frange beotiche nel processo di colonizzazione), 13, 1, 3 (passaggio di consegne da Oreste a Pentilo, da questi ad Archelao e infine  





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eleonora cavallini

più della città di Cadmo, ad attirare l’attenzione dei poeti di Lesbo nonché del loro pubblico. 56 L’intonazione del frammento è spiccatamente ‘epica’, con la baldanzosa avanzata del pavi~ sul ‘carro da guerra’, designato – secondo il caratteristico uso omerico – mediante il pl. pro sing. a[rmata. 57 Già al tempo di Omero, la cavalleria micenea era in disuso da secoli, 58 ma nella dimensione ‘eroica’ dell’epos il carro permane quale tratto distintivo del guerriero, come contrassegno insostituibile del suo prestigio personale. 59 Che il ‘giovinetto’ ricordato nel frammento sia un eroe di eccezionale valore e fama, è suggerito dalla presenza del peculiare tevouto~, enfaticamente collocato in incipit a designare un paragone di eccellenza con altro personaggio, presumibilmente il destinatario del carme. Che proprio Saffo impieghi tevouto~ /teauvta in ambito epitalamico, per sottolineare le straordinarie qualità di uno degli sposi, costituisce un ulteriore indizio, su cui ritorneremo. Il nocciolo del problema rimane, comunque, la menzione di Tebe. Se davvero si tratta, come sembra probabile, di Tebe Ipoplacia, il riferimento non può essere che ad Achille, noto alla tradizione per avere espugnato la città e di lì rapito Criseide. Cfr. Il. 1, 366-369, ove lo stesso Pelide rievoca la conquista :  





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Andammo a Tebe (wj/covmeq∆ ej~ Qhvbhn), la città santa d’Eetione, la saccheggiammo e portammo qui tutto ; equamente tra loro divisero il bottino i figli degli Achei e all’Atride assegnarono Criseide dalla bella guancia (trad. G. Cerri). 60  



Fra le città espugnate da Achille, Tebe è una delle più importanti, in quanto capitale di un regno che si estendeva su gran parte dei Cilici della Troade (cfr. Il. 6, 415), 61 spartendo il controllo dell’area con un’altra dinastia filotroiana, quella di Minete re di Lirnesso (cfr. Strab. 13, 1, 7) ; 62 non a caso,  





da Archelao a Gras, colonizzatore di Lesbo), nonché Paus. 3, 2, 1, da cui apprendiamo che Gras, con la cooperazione degli Spartani, “sarebbe poi arrivato nella regione compresa tra la Ionia e la Misia, che ancora oggi si chiama Eolide : ma il suo antenato Pentilo già prima aveva preso Lesbo, un’isola che fronteggia questo continente” (trad. di Musti, op. cit [a n. 27], 15 ; cfr. il commento dello stesso autore alle pagine 170 s., anche a proposito della divergenza fra Strabone e Pausania). Sulle fonti mitistoriche relative alla colonizzazione eolica, e in particolare sugli epici minori, si veda A. Debiasi, L’epica perduta : Eumelo, il Ciclo, l’Occidente, Roma 2004, 188-190 e nn.  





56  Non a caso, la Tebe iliaca è ricordata da Saffo anche nel fr. 44, 6 V. (Qhvba~ ejx ijevra~ Plakiva~), in quanto patria di Andromaca, figlia di Eezione signore della città. L’elogio di Ettore e Andromaca da parte di Saffo si inserisce coerentemente in quella logica di conciliazione fra Greci e Troiani che, al tempo della poetessa, non solo si prestava a favorire le relazioni dei Lesbii con il mondo eolico circostante, ma risultava anche funzionale agli interessi dell’ellenica Lesbo verso le aree non grecizzate della terraferma : cfr. A. M. Biraschi, Tradizioni epiche e storiografia. Studi su Erodoto e Tucidide, Napoli 1989, 36. 57  Cfr. Il. 2, 775 par∆ a{rmasin oi|sin e{kasto~, etc. 58  Dell’originaria tattica bellica dei Micenei, consistente nello schierare in prima linea la divisione di cavalleria e i fanti a retroguardia, rimane traccia in Il. 4, 297-309, in cui l’anziano Nestore dispone le truppe appunto in quest’ordine, precisando però trattarsi di un uso antico (v. 308). Nel resto del poema, questa tattica appare per lo più abbandonata, e il ‘carro’ permane non più in funzione di vera e propria arma (come nell’età micenea, quando i guerrieri combattevano dal carro con piena libertà di movimenti, essendo la guida affidata all’auriga), bensì di mezzo di trasporto, utilizzato per portare i guerrieri sul campo di battaglia e quindi ricondurli via (a tal proposito J. Chadwick, The Decipherment of Linear B, Cambridge 1959, 109, usa l’espressione “taxicab”). L’uso del carro descritto da Omero non sembra corrispondere a nessuna tattica di guerra storica, e nasce probabilmente dal fatto che all’epoca della composizione dell’Iliade il carro da guerra era divenuto uno strumento antiquato e non se ne conosceva più la vera funzione. Sugli a[rmata dei Lidi in Sapph. fr. 16, 19 V., cfr. supra, n. 38. 59  In qualche caso particolare, tentare di impossessarsi di un carro altrui  

proprio da Tebe proviene Andromaca, sposa del principe ereditario di Troia. La rievocazione della conquista di Tebe era, presumibilmente, in grado di esercitare una forte suggestione sul pubblico aristocratico dei poeti di Lesbo, rafforzando l’orgoglio per la vittoria riportata dai Greci in territorio microasiatico, ma senza d’altra parte sminuire il rango e il valore degli eroi di stirpe troiana. 63 Qualche ulteriore considerazione merita la peculiare abusio del termine pavi~. Nell’epica, il vocabolo designa il ‘figlio’ (indipendentemente dall’età), 64 oppure un ‘fanciullo’ inesperto di guerra, ancorché armato di tutto punto : come i fratelli Molioni che, in Il. 11, 709-752, sebbene pai`d∆ e[t∆ ejovnt(e), partecipano al combattimento fra Pili ed Epei, sia pure con risultati non particolarmente esaltanti. 65 Omero evita di definire pai`~ Achille, nonostante che l’eroe, almeno agli inizi del conflitto troiano, non dovesse essere di età molto diversa da quella dei Molioni : nell’Iliade, d’altra parte, Achille conserva sempre “i tratti post-adolescenziali di un ragazzo che non ha ancora varcato il limen della maturità”, 66 come la lunga chioma, che, destinata ad essere recisa al ritorno in patria in onore del fiume Spercheo, 67 viene invece deposta fra le mani del morto Patroclo, dando così corso a una lugubre trasformazione dell’offerta efebica in offerta funeraria. 68 A partire dal Ciclo epico, la tradizione relativa alla giovanissima età di Achille si consolida ulteriormente, trasmettendo l’immagine del Pelide che si accinge a partire per la guerra ancora adolescente, secondo alcune fonti addirittura quindicenne. 69 Nonostante le cautele di Omero, ben attento a non confondere Achille con gli imbelli Molioni, esistono dunque i presupposti perché l’eroe, soprattutto al tempo delle sue prime imprese, possa essere definito pai`~. 70 In un frammento epitalamico di Saffo (fr. 115, 2 V.), lo sposo è paragonato a un giovane e flessuoso virgulto (o[rpaki bradivnw/), e un’immagine del tutto analoga è probabilmente da re 



















può costare molto caro. Cfr. Il. 17, 448 s., ove Zeus in persona, rivolgendosi ai cavalli di Achille, dichiara solennemente : “Tuttavia su di voi e sul vostro bel carro (a{rmasi daidalevoisin) / Ettore, figlio di Priamo, non salirà (ouj ... ejpochvsetai) : non voglio permetterlo” (trad. Cerri. op. cit. [a n. 4], 927). Che la rara, peculiare espressione a{rmasi ... ejpochvsetai venga ripresa proprio nel nostro frammento, potrebbe non essere casuale. 60  Op. cit. (a n. 4), 147. La conquista di Tebe Ipoplacia da parte di Achille è ricordata anche in Il. 2, 691 ; 6, 414-416 ; cfr. inoltre lo scolio a Il. 1, 366c (1, 109 Erbse) = Cypr. fr. 28 Bernabé ; Strab. 13, 1, 7 (cit. a n. 55) ; [Apollod.], Epit. 3, 33. 61  Cfr. inoltre lo scolio a Il. 1, 366 (= Cypr. fr. 28 Bernabé), secondo cui Criseide, nativa della piccola e non fortificata cittadina di Crise, si sarebbe rifugiata nella più grande e sicura Tebe e ivi sarebbe stata catturata da Achille. 62  Cfr. supra e n. 9, anche a proposito dell’ipotesi – suggestiva ma non dimostrabile – che Minete fosse marito di Briseide. 63  Cfr. n. 56. 64 Cfr. Il. 2, 205, etc. 65  Stando al racconto di Nestore, che rievoca l’episodio, Posidone avrebbe salvato i due fratelli avvolgendoli in una fitta nebbia. 66  Così P. Scarpi, Apollodoro. I miti greci, a cura di P. S., traduzione di M. G. Ciani, Milano 1996, 595. 67  Sull’usanza, rispettata per secoli dai ragazzi di molte città greche, di tagliarsi la chioma al raggiungimento dell’età adulta e di dedicarla al fiume del luogo, cfr. Paus. 1, 37, 3 ; 8, 20, 3 ; 41, 3. 68  Cfr. Gostoli, op. cit. [a n. 4], 1157. 69  Cfr. [Apollod.], Epit. 3, 17 ; inoltre ‘Dict. Cret.’, Bell. Tr. 14 in primis adulescentiae annis, nonché Paus. 10, 26, 4 (= Cypr. fr. 21 Bernabé), secondo cui nelle Ciprie sarebbe stato Fenice a cambiare il nome del figlio di Achille da Pirro in Neottolemo, perché il padre aveva iniziato a combattere quando era ancora molto giovane (o{ti ∆Acilleu;~ hJlikiva/ e[ti nevo~ polemei`n h[rxato). A questa tradizione si collega probabilmente Stat. Achill. 1, 1302 trux puer et nullo temeratus pectora motu. 70  La precocità di Achille sarà ribadita da Pind. Nem. 3, 44 pai`~ ejw;n a[qure megavla e[rga (ove tuttavia il poeta si riferisce ai combattimenti con le fiere ingaggiati dal Pelide sotto la guida di Chirone).  

















achille ‘sposo ideale’ da omero a euripide cuperare in un altro brano della poetessa (fr. 102, 2 V.), in cui una fanciulla, rivolta alla madre, lamenta di non poter più lavorare al telaio, perché vinta dal desiderio di un pavi~ agile e snello come un virgulto (povqw/ davmeisa pai`do~ bradivnw). 71 Già Omero, del resto, paragonava Achille a un ‘germoglio’ (Il. 18, 56 oJ d∆ ajnevdramen e[rnei i\so~), teneramente allevato dalla madre come pianta in una vigna. 72 Nel mondo di Saffo, che colloca la bellezza della persona amata all’apice della propria scala di valori etico-estetici, lo splendore magnetico di un giovane eroe in procinto di conquistare città ha comunque fascino e attrattiva : 73 di qui il paragone dello sposo con Achille, di cui la poetessa avrà rievocato qualche impresa paradigmatica, e, soprattutto, idonea a destare impressione nel suo uditorio. Che il citato frammento incerti auctoris sia da collegare con la testimonianza di Imerio, parrebbe confermato anche dalla presenza del caratteristico tevouto~, con cui Saffo evidenzia e sottolinea le eccezionali doti del destinatario (o della destinataria) delle sue lodi : cfr. soprattutto Sapph. fr. 113 V. ouj ga;r / ajtevra nu`n pavi~, w\ gavmbre, teauvta. 74 Un’ultima considerazione. Se veramente Aeol. inc. auct. fr. 21, 1 V. appartiene al carme epitalamico ricordato da Imerio, andrà sottolineato che il paragone fra il destinatario dell’elogio e l’eroe è generico (tevouto~ ... pavi~), e che le gloriose pravxei~ sono riconducibili esclusivamente al personaggio mitico.

Con il vi secolo, nella letteratura e nell’arte figurativa si

diffonde la tendenza ad inserire nel mito l’elemento omoerotico. 75 Come osserva K. J. Dover, 76 la testimonianza più antica dell’attrazione pederastica di Zeus per Ganimede è costituita dal fr. 289 di Ibico ; 77 quest’ultimo inoltre fa diventare ejrwvmeno~ di Talao l’eroe Radamanti, che invece secondo un’altra tradizione ne è discendente (cfr. Paus. 8, 53, 5). 78 Lo stesso Ibico (fr. S 224 Davies) trasforma in pai`~ kalov~, potenzialmente oggetto di ammirazione erotica, anche Troilo, che nell’Iliade (24, 255) era invece descritto come un combattente valoroso (iJppiocavrmh~) e dunque come un uomo adulto. 79 Il rapporto fra Achille e Patroclo diventa esplicitamente omoerotico con la tragedia I Mirmidoni di Eschilo, 80 che, a detta di Ateneo (601ab), sarebbe stata accolta con favore dal pubblico ateniese, come pure la Niobe di Sofocle, anch’essa contenente implicazioni pederastiche : 81 al punto che per definire la tragedia sarebbe stato coniato il bizzarro vocabolo paideravstria (cfr. Athen. 601b). 82 Scarsamente sensibile alle lusinghe dell’amore pederastico, anzi propenso a prendere le distanze da esso nella perduta tragedia Crisippo, 83 Euripide non solo non raccoglie il provocatorio messaggio lanciato da Eschilo nei Mirmidoni, ma anzi ritorna, con l’Ifigenia in Aulide, all’antica idea di Achille come ‘sposo ideale’. Si tratta, ancora una volta, di nozze ‘impossibili’, in questo caso non per incompatibilità di status sociale o di età, bensì per altre, funeste ragioni : è comunque significativo che Agamennone riesca a riesca a far cadere moglie e figlia nel proprio esecrabile tranello adducendo come pretesto le nozze di Ifigenia con il giovane Pelide. 84 Dell’efferata vicenda, abilmente ‘azzerata’ da

71  Tràdito è, in realtà, bradivnan di∆ ∆Afrodivtan : non si comprende tuttavia quale significato possa avere l’epiteto in riferimento alla dea (‘molle’ ? ‘delicata’ ?). Credo pertanto si debba accogliere la correzione bradivnw (Bergk) : cfr. B. Marzullo, Frammenti della lirica greca, Firenze 19672, 84. 72  Nel luogo omerico, tuttavia, l’affettuoso paragone si carica di funesti presagi e le parole di Teti assumono il carattere di un compianto. Nell’Iliade, l’intera vicenda di Achille si configura come il dramma di una giovinezza incompiuta : dal taglio della chioma, che da rito di transizione all’età adulta diviene offerta funebre per Patroclo, al paragone col germoglio, che anziché giungere alla maturità (e quindi al matrimonio) è destinato a perire prima del tempo. 73  Sul fatto che in Saffo anche gli schieramenti militari appaiano dotati di splendore e bellezza, in quanto espressione dell’antica classe aristocratica, cfr. n. 50. 74  “Non c’è oggi, o sposo, un’altra ragazza come questa” (trad. di E. Cavallini, Saffo. Frammenti, Parma 1986, 103). Il preciso riferimento al presente (nu`n) fa sospettare che anche in questo caso l’elogio della sposa prenda spunto da qualche rievocazione mitica (cfr. Aloni, op. cit. [a n. 46], 200). 75  L’introduzione dell’elemento omosessuale nel mito dà luogo, in alcuni casi, alla coesistenza di versioni divergenti e fra loro incompatibili di una stessa vicenda mitica : così secondo alcune fonti il principe argivo Crisippo si sarebbe ucciso per la vergogna di essere stato rapito da Laio, a sua volta destinato ad attirare la sventura su di sé e sulla propria famiglia (Pisandr. FGrHist 16 F 10), mentre secondo altre il giovane sarebbe stato assassinato dai fratellastri Atreo e Tieste per ragioni dinastiche (Thuc. 1, 9, 2 ; Paus. 6, 10, 7 ; Hell. FGrHist 485 F 10). 76  Greek Homosexuality, London 1978, 197-199. 77  A proposito di questo frammento, cfr. E. Cavallini, Ibico. Nel giardino delle Vergini, Lecce 1997, 147-149, e bibliografia ivi citata. Il più castigato Omero racconta che Ganimede, figlio di Troo, a causa della sua bellezza “fu rapito dagli dèi” (to;n kai; ajnhreivyanto qeoi;) per fare da coppiere a Zeus (Il. 20, 232-235) ; l’interpretazione di Ibico è ribadita da Theogn. 1345-1348. 78  Cfr. Dover, op. cit. (a n. 76), 199. 79  La differenza tra la rappresentazione omerica e quella proposta dagli autori successivi era rilevata già dallo scolio al luogo dell’Iliade : “gli autori più recenti … lo rappresentano come un ragazzo ; Omero invece, per mezzo dell’epiteto, lo presenta come un uomo adulto ; diversamente, infatti, uno non viene definito ‘combattente a cavallo’”. Cfr. in proposito Cavallini, op. cit. (a n. 77), 128 s., e documentazione ivi citata. 80  Non è questa la sede per ritornare sulla vexata quaestio relativa alla difficoltà di rendere il rapporto fra Achille e Patroclo compatibile con i canoni della ‘coppia asimmetrica’, stabiliti dalla concezione greca dell’amore pe-

derastico. Il problema era avvertito già da Platone (Symp. 180ab), che pur ribadendo l’interpretazione in chiave omoerotica dell’amicizia fra i due eroi, tuttavia ‘correggeva’ la posizione di Eschilo assegnando ad Achille il ruolo di ejrwvmeno~ anziché di ejrasthv~ : “Eschilo scherza quando dice che l’amante era Achille e non Patroclo, egli che era più bello, non solo di Patroclo, ma di tutti gli eroi, e ancora imberbe, senza dire che, come dice Omero, era più giovane di molto ... più grande tuttavia è la lode, l’ammirazione e il premio quando è l’amato che dimostra il suo affetto all’amante” (trad. di C. Diano in Platone, Il Simposio, traduzione di C. D., introduzione e commento di D. Susanetti, Venezia 1992, 79). 81  Fr. 448 Radt. Dello stesso Sofocle è il caso di ricordare anche il dramma satiresco Gli innamorati di Achille (’Acillevw~ ejrastaiv), in cui a quanto pare i satiri del Coro esprimevano la propria ammirazione erotica per il giovane e bellissimo eroe (per le testimonianze relative al dramma e per i pochi frammenti superstiti, si veda S. Radt, Tragicorum Graecorum Fragmenta iv, Göttingen 1977, 165-170). 82  Letteralmente, paideravstria è un inedito (quanto paradossale) femminile di paiderasthv~ : il vocabolo è tuttavia recuperato congetturalmente (Schweighaüser) dall’incongruo paiderastavn di A. Che si tratti di un sottotitolo della Niobe di Sofocle, come per lo più si ritiene, si potrebbe mettere in dubbio. 83  Cfr. E. Degani, Democrazia ateniese e sviluppo del dramma attico. La tragedia, in R. Bianchi Bandinelli (ed.), Storia e civiltà dei Greci iii, Milano 1979, 308. Un atteggiamento sfavorevole alla pederastia si può indirettamente evincere anche dall’esaltazione che della stessa fa il mostruoso Ciclope nell’omonimo dramma satiresco (vv. 581-584). 84  C’è da chiedersi perché, in nessuna delle testimonianze a noi pervenute, Agamennone, prima della partenza per la guerra, offra veramente come sposa ad Achille una delle proprie figlie, assicurandosi così per il futuro lealtà e devozione da parte del riottoso eroe. In effetti, l’eccezionale valentia di Achille, ancorché prevedibile in base a una serie di segni premonitori e vaticini (cfr. soprattutto [Apollod.] 3, 13, 8, che allude a una profezia di Calcante secondo cui Troia non si sarebbe potuta conquistare senza Achille), all’epoca della partenza da Aulide non si è ancora apertamente manifestata. Solo nel decimo anno di guerra, in seguito alla fatale contesa per Briseide, Agamennone si renderà conto del ruolo essenziale di Achille nel conflitto, e pur di riconciliarsi con lui gli offrirà come sposa una delle proprie tre figlie, dichiarandosi così disponibile a condividere il potere con il Pelide (cfr. supra e n. 12). Che una delle tre fanciulle menzionate in Omero, Il. 9, 144-147 nonché 286-289, sia proprio Ifigenia, è da ritenersi un esempio dell’abilità con cui Omero adatta il materiale mitico alle esigenze del canto e alle aspettative dell’uditorio (cfr. supra).













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4.























































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eleonora cavallini

Omero, 85 Euripide propone una (ri)lettura fortemente critica, a tratti perfino beffarda, in cui i capi della spedizione decadono dalla statura di eroi al meschino livello di uomini comuni che non riescono ad affrontare né controllare il corso degli eventi : dal titubante Agamennone al gradasso Menelao, fino allo stesso Achille, che si offre di proteggere Ifigenia non per autentica compassione, ma per orgoglio ferito, 86 salvo dover retrocedere di fronte alla folla inferocita che minaccia di lapidarlo, e di cui fanno parte, incredibilmente, gli stessi Mirmidoni (v. 1352 s.) :  

sostanzialmente privo di carisma e autorità, addirittura incapace di tenere sotto controllo gli umori irrazionali dei suoi stessi soldati. 5.









KL. Strato;~ de; Murmidw;n ou[ soi parh`n ; AC. Prw`to~ h\n ejkei`no~ ejcqrov~. 87  



In questo contesto anti-eroico, non desta meraviglia che, prima di conoscere la triste verità, la stessa Clitennestra, come una qualsiasi brava madre di famiglia, valuti e soppesi con cura le doti del presunto futuro genero, informandosi sulla sua genealogia (v. 695 s.) e sulla sua educazione (vv. 708-712, in cui Agamennone tenta ipocritamente di illudere la consorte decantandole le lodi di Achille in quanto allievo del saggio Chirone). Sull’argomento si è soffermato P. Michelakis, 88 che pone a confronto la rappresentazione euripidea di Achille con quella proposta dai poeti arcaici e in particolare da Saffo. Con riferimento alla citata testimonianza di Imerio (Or. 9, 16 = Sapph. fr. 218 V.), lo studioso osserva che “Sappho’s praise of the bridegroom for his achievements is aligned with the world of the epics, where a man is ultimately identified by means of his deeds. This is in sharp contrast with the world of IA, where the bridegroom Achilles is praised on the basis of genealogy and education, not achievements”. Converrà sottolineare che nel momento in cui si svolge l’azione dell’Ifigenia in Aulide, vale a dire prima della partenza della spedizione per Troia, Achille non può essere elogiato per le sue imprese per la semplice ragione che non le ha ancora compiute. 89 Tuttavia, proprio il fatto che il Pelide non si sia ancora coperto di gloria sotto le mura di Troia, facilita Euripide nel suo intento di ridimensionare la figura dell’eroe : “Sappho elevates one of her contemporary neanivskoi to the level of a mythological figure, whereas Euripides does quite the opposite, bringing a mythological figure down to the level of the neanivskoi of his time”. 90 Lo ‘sposo ideale’, che Esiodo considerava superiore a tutti i pretendenti di Elena, diventa in Euripide un giovanotto orgoglioso, ma

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85  Ma ricordata nelle Ciprie (cfr. Procl. Chrest. 80 Severyns = Cypr. Arg. p. 41 Bernabé, nonché fr. 23 Bernabé). 86  Cfr. vv. 965-967, in cui Achille dichiara che, qualora Agamennone si fosse comportato lealmente nei suoi confronti, lui stesso avrebbe cooperato al compimento del sacrificio per il bene dell’Ellade. 87  (Clitennestra) : “E l’esercito dei Mirmidoni non ti era accanto ?” (Achille) : “Quello era il primo ad essermi nemico”. Che i Mirmidoni, fedeli ad Achille più di qualsiasi altro esercito omerico al proprio condottiero, e pronti ad accorrere con entusiasmo ai suoi ordini (cfr. Il. 16, 155-211), possano anche solo pensare di partire per la guerra senza di lui, è quanto meno sconcertante. Dal punto di vista drammaturgico, si tratta di una debolezza di fondo della tragedia : se infatti Achille, spalleggiato dai 2500 formidabili Mirmidoni, volesse veramente salvare la vita di Ifigenia, con ogni probabilità ci riuscirebbe, vanificando i complotti di Agamennone e la collera della marmaglia. Di qui la necessità di escogitare un’improbabile ribellione dei Mirmidoni nei confronti del loro condottiero.  







Inaugurato dai Mirmidoni di Eschilo, il dibattito sulla natura del rapporto fra Achille e Patroclo prosegue nel quinto secolo con Ellanico, FGrHist 4 F 145, che parla di una semplice amicizia fra i due eroi, e addiviene a ulteriori sviluppi nel quarto secolo con Platone (179e-180a : cfr. supra) e con l’ancor più interessato Eschine della Contro Timarco (345 a.C.), dove tuttavia viene fatto riferimento solo all’‘eufemistico’ Omero e non ad Eschilo, a quanto pare considerato troppo esplicito. 91 La presenza di implicazioni erotiche nel racconto omerico è invece negata da Senofonte, secondo cui Achille avrebbe vendicato il proprio compagno d’armi e non un ejrwvmeno~ (Symp. 8, 31). In età ellenistico-romana, prevale la tendenza a rappresentare un Achille coinvolto in amorose liaisons con fanciulle, 92 in particolare con Briseide (Ov. Heroid. 3), Deidamia (Stat. Achill. 1, 296-306), e soprattutto con la figlia di Priamo Polissena, per amore della quale l’eroe sarebbe caduto vittima del fatale agguato di Paride (cfr. Sen. Tro. 11171161 ; Hyg. Fab. 110 ; ‘Dict. Cret.’, Bell. Tr. 4, 10 s., in cui l’eroina risulta a vario titolo coinvolta nell’uccisione del Pelide ; inoltre Philostr. Her. 51, 1-6, in cui Polissena contraccambia l’amore di Achille). La vicenda, precocemente ‘romantica’ e sentimentale, di Achille e Polissena piacerà al Medioevo cristiano, dal Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure, scritto dopo il 1165 e significativamente dedicato ad Eleonora d’Aquitania, fino alla Commedia dantesca (Inferno v 6466 : “Elena vedi, per cui tanto reo/ tempo si volse, e vedi il grande Achille/ che con Amore al fine combatteo”). 93 La tradizione relativa agli amori di Achille appare dunque tutt’altro che univoca e costantemente subordinata al sistema di valori etico-estetici del contesto di riferimento nonché all’orizzonte di attese di committenza e pubblico. Le ragioni per cui, nel mondo contemporaneo, Achille e Patroclo vengono sempre più spesso assunti come ‘icona’ gay, esulano dai propositi del presente lavoro : dal quale tuttavia auspico possano nascere ulteriori discussioni su quello che, a tutt’oggi, risulta essere uno dei temi più controversi e intriganti della mitologia greca.  















88  Achilles in Greek Tragedy, Cambridge 2002, 95-113. 89  Prima della guerra di Troia, Achille risulta essere avvezzo solo a combattimenti con fiere nelle selve (cfr. Pind. Nem. 3, 44). Ai vv. 930 s. della tragedia, comunque, il Pelide si ripromette di mostrare la propria valentia e di onorare Ares con le armi (“Arh to; kat∆ ejme; kosmhvsw doriv). 90  Così Michelakis, op. cit. ( a n. 88), 100. Sulla presenza di elementi parodistici e comici nella tragedia euripidea, cfr. B. M. W. Knox, Word and Action, Baltimore 1979, 250-274. 91  Cfr. Aeschin. C. Tim. 142, secondo cui Omero eviterebbe di dare un nome preciso (ejpwnumivan) alla relazione fra i due eroi, ritenendo che la natura dell’ ‘eccesso di affetto’ fra i due (th`~ eujnoiva~ uJperbolav~) risulti di per sé chiara “agli ascoltatori istruiti” (toi`~ pepaideumevnoi~ tw`n ajkroatw`n). 92  Di una relazione omoerotica fra Achille e Patroclo si parla ancora in [Apollod.] 3, 13, 8 nonché in [Luc.], Am. 54. 93  Sull’argomento, cfr. Cavallini, op. cit. (a n. 23), 318 e nn.

CRONACA DI DUE MORTI A NN UNCI ATE : DA LL’ILIADE A LL’ETIOPIDE  

Fr anco Fer r ar i 1. Etiopide e Memnonide

G

ià nel 1849 F. G. Welcker evidenziava alcuni parallelismi fra Iliade ed Etiopide 1 quali la pesatura delle anime di Achille e Memnone da un lato e di Achille ed Ettore dall’altro (Hom. Il. 22, 209-213) e la traslazione del corpo di Memnone ad opera di sua madre rispetto a quella del corpo di Sarpedone in Licia ad opera di Hypnos e Thanatos nel canto xvi dell’Iliade. Ma Welcker riconduceva simili analogie all’influsso esercitato da Omero su Arctino (definito ÔOmhvrou maqhthv~ nella voce della Suda a lui dedicata). 2 Per circa un secolo si continuò a considerare l’Iliade modello dell’Etiopide oppure furono ritenuti recenziori alcuni passi dell’Iliade che sembrassero ispirati al poema di Arctino. L’idea che l’Etiopide (in quanto poema di Arctino di Mileto o anche come sua fonte orale) fosse invece il prototipo su cui furono modellati non solo alcuni episodi ma le stesse nervature essenziali dell’ultima parte dell’Iliade si afferma verso la metà del ventesimo secolo e diventa uno dei pilastri della cosiddetta ‘teoria’ o ‘scuola’ neo-analitica. Pur con alcune anche significative differenziazioni, studiosi come J. Th. Kakridis (1949), H. Pestalozzi (1945), W. Schadewaldt (1966), W. Kullmann (1960 e 2005), M. Willcock (1973) hanno infatti progressivamente costruito una sorta di ‘vulgata’ neo-analitica (con un suo circostanziato Faktenkanon) nel cui ambito Omero, o almeno il poeta dell’Iliade, conosceva un poema che raccontava l’arrivo di Memnone a Troia, l’uccisione di Antiloco, l’intervento di Achille nella lotta a dispetto dei tentativi di dissuasione di Thetis, la pesatura dei destini dei due contendenti, la morte di Memnone, l’assalto di Achille a Troia e la sua morte presso le porte Scee, la battaglia intorno al suo corpo (recuperato da Aiace), i funerali del Pelide, i giochi funebri in suo onore, la traslazione dei corpi di Memnone e di Achille rispettivamente in Etiopia e nell’isola di Leuke. 3 Questo poema a cui Schadewaldt diede il nome di Memnonide sarebbe stato il modello dell’Iliade a partire dal canto xvi, con l’attacco di Patroclo contro i Troiani e la sua morte ad opera di Apollo ed Euforbo ricalcati sull’irruzione di  

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1  Secondo il sunto schizzato da Proclo e tramandato prima del testo dell’Iliade nel codice Venetus A, integrabile con altre fonti (per un’espansione dell’argumentum di Proclo utilizzando materiale proveniente dall’Epitome di Ps.-Apollodoro vd. West 2003b, 110-113), l’Etiopide, attribuita ad Arctino di Mileto, comprendeva : - L’arrivo in aiuto dei Troiani dell’Amazzone Pentesilea, figlia di Ares, che viene purificata da Priamo per l’involontaria uccisione di Ipsipile. Dopo una serie di successi Pentesilea viene uccisa da Achille e sepolta dai Troiani, mentre Achille elimina Tersite, che gli aveva rinfacciato una presunta passione per Pentesilea. Dopo una disputa fra i capi achei in merito all’uccisione di Tersite Achille salpa alla volta di Lesbo e dopo aver sacrificato ad Apollo, Artemide e Latona, è purificato da Odisseo. - L’arrivo di Memnone, figlio di Eos, armato con le armi fabbricate da Efesto, in aiuto dei Troiani. Thetis profetizza al figlio le vicende che conseguiranno all’arrivo del campione etiope. Dopo che Ermes ha pesato le loro vite (l’episodio sarà messo in scena da Eschilo nella Psicostasia), Memnone in battaglia uccide Antiloco, accorso in aiuto del padre Nestore, ed è ucciso a sua volta da Achille. Eos conferisce immortalità al figlio intercedendo presso Zeus. - Achille mette in fuga i Troiani e fa irruzione nella città, ma presso le porte Scee è ucciso con una freccia da Alessandro/Paride assistito da Apol 

Achille a Troia e sulla sua uccisione ad opera di Paride e di Apollo, e con gli episodi di Sarpedone trasportato in Licia come Memnone nella sua terra e del lamento di Thetis e delle Nereidi a principio del canto xviii ispirati ai funerali di Achille (ma Patroclo sarebbe l’alter ego non solo di Achille ma in qualche misura anche di Antiloco, la cui morte nell’Etiopide spingeva il Pelide ad affrontare Memnone). 2. L’anello debole della teoria neo-analitica Varie obiezioni sono state sollevate nei confronti delle ricostruzioni neo-analitiche 4 a partire da quella per cui un’Etiopide orale pre-omerica dovrebbe essere congetturata sulla base del sommario di una più recente Etiopide scritta, ma vorremmo occuparci solo della morte e dei funerali di Achille. Come si sa, la morte di Achille è ripetutamente presagita nell’Iliade con soluzioni espressive specificamente elaborate in relazione a questo personaggio : 5 è una lunga attesa improvvisamente frustrata dal nuovo corso che assume il poema dopo l’uccisione di Ettore allorché Achille, invece di attaccare Troia, riporta i suoi compagni al campo acheo per dare sepoltura a Patroclo. Già nel primo canto Achille invoca la madre ricordandole, con un aggettivo (minunqavdio~) che viene riferito altrove nel poema solo a Licaone (21, 84) e a Ettore (15, 612), di essere destinato a breve esistenza (1, 352) :  







mh`ter ejpeiv m∆ e[tekev~ ge minunqavdiovn per ejovnta.

Madre, poiché mi partoristi a vita breve ...

Thetis replica al v. 416 sottolineando, proprio per mezzo dell’avverbio mivnunqa, la brevità dell’esistenza toccata al figlio (ejpeiv nuv toi ai\sa mivnunqav per ou[ ti mavla dhvn), mentre più oltre, a 1, 417 s., nu`n d∆ a{ma t∆ wjkuvmoro~ kai; oji>zuro;~ peri; pavntwn e[pleo.

... e invece ecco che a un tempo di breve vita e sventurato su tutti sei stato. lo. Con l’ausilio di Odisseo Aiace riesce a sottrarre il cadavere di Achille dalla mischia che si è accesa per il suo possesso e a trasportarlo fino alle navi achee. Antiloco è sepolto e il corpo di Achille viene esposto. Thetis giunge con le Muse e le proprie sorelle a prelevare il corpo del figlio e a trasportarlo all’Isola Bianca. Elevato il tumulo, gli Achei organizzano agoni. Sorge una contesa fra Odisseo e Aiace per il possesso delle armi di Achille (cfr. Hom. Od. 11, 544-560). Aiace si suicida (cfr. Schol. Pind. Isthm. 4, 58b ; l’episodio non appare in Proclo). 2  Welcker 1849, 189-191 e 200-222. 3  Per una sintesi concisa dei motivi comuni ai due poemi vd. Kullmann 2005, 10. 4  Vd. ad es. Dihle 1970, 9-44 e Di Benedetto 1998, 60 n. 7, 235 n. 18, 255 s. e 309 n. 25. Per parte sua Burgess 1997, che pure condivide alcuni tratti dell’orientamento neo-analitico (e vd. anche Burgess 2006), ha mostrato come l’ipotesi che nella Memnonide le profezie di Thetis provocassero un ritiro dalla battaglia di Achille non ha fondamento : non solo Proclo tace di un aspetto (il presunto ritiro di Achille) che sarebbe stato essenziale nella trama del poema, ma talora le raffigurazioni vascolari mostrano la presenza del cadavere di Antiloco disteso al suolo fra Achille e Memnone che combattono. 5  Vd. Slatkin 1991, 34-40 e Di Benedetto 1998, 298-309.  



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franco ferrari

riferisce per la prima volta al figlio un aggettivo, wjkuvmoro~, che poi viene ripetuto più volte sempre e solo in relazione ad Achille (cfr. 1, 505 s. tivmhsovn moi uiJo;n o}~ wjkumorwvtato~ a[llwn ⁄ e[plet∆, 18, 95 wjkuvmoro~ dhv moi tevko~ e[sseai, oi|∆ ajgoreuvei~ e 457 s. ai[ k∆ ejqevlh/sqa ⁄ uiJei` ejmw`/ wjkumovrw/ dovmen ajspivda), e con una significativa modificazione semantica rispetto a una valenza di base, “che porta rapida morte”, che troviamo nella formula ‘flessibile’ ijoi; ⁄ wjkuvmoroi “dardi che uccidono rapidamente” di Il. 15, 440 s. (cfr. Od. 22, 75 ijw`n wjkumovrwn). Indubbiamente questi preannunci di una fine imminente e, per altro verso, il ‘sunto’ retrospettivo proposto da Agamennone dei funerali di Achille nel canto xxiv dell’Odissea implicano che il narratore conosceva, e forse eventualmente aveva egli stesso interpretato in passato, una sequenza narrativa che comprendeva la morte di Achille presso le porte Scee, il recupero della sua salma, i funerali, gli agoni, l’arrivo di Thetis e delle Nereidi. Senonché, come ha osservato West 2003, 6, il punto debole della teoria neo-analitica in merito al rapporto fra Memnonide e Iliade è proprio la figura di Memnone : nell’Iliade non c’è il minimo accenno a questo personaggio, neppure in relazione alla fine di Achille di cui pure non vengono taciuti gli agenti (Paride e Apollo, cfr. 22, 359) o in relazione a suo padre Titono, ricordato da Enea nell’ambito della genealogia dei principi troiani (20, 237), e per altro gli Etiopi, un popolo virtuoso stanziato presso l’Oceano (Il. 1, 423 e 23, 205-207) dove gli dèi si recano occasionalmente a banchettare, restano al di fuori della cerchia di popolazioni che nel cosmo iliadico intrattengono relazioni reciproche ; 6 e infine la sequenza dell’Etiopide contrasta con la versione della morte di Achille presupposta dalla profezia di Thetis in Il. 18, 95 s. :

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wjkuvmoro~ dhv moi tevko~ e[sseai, oi|∆ ajgoreuvei~: aujtivka gavr toi e[peita meq∆ ”Ektora povtmo~ eJtoi`mo~.

Di vita breve mi sarai, figlio, per come parli : la morte per te è subito pronta in futuro dopo quella di Ettore.  

lità perché Il. 18, 96 non comporta che Achille morisse nella stessa giornata di scontri, bensì che la sua morte avvenisse in un futuro prossimo ma indeterminato (e[peita) subito dopo quella di Ettore, 9 proprio come mostra di intendere lo stesso Achille quando, accettando i termini della profezia della madre, replica così (18, 114 ss.) :  





115

nu`n d∆ ei\m∆ o[fra fivlh~ kefalh`~ ojleth`ra kiceivw ”Ektora: kh`ra d∆ ejgw; tovte devxomai oJppovte ken dh; Zeu;~ ejqevlh/ televsai hjd∆ ajqavnatoi qeoi; a[lloi.

115

Ora andrò a raggiungere l’assassino del mio amico diletto, Ettore, e la morte io la accoglierò quando vorranno portarla a compimento Zeus e gli altri immortali.

E ancor più esplicitamente fanno riferimento a un giorno indeterminato le parole di Ettore morente (22, 358-360) :  



fravzeo nu`n, mhv toiv ti qew`n mhvnima gevnwmai h[mati tw`/ o{te kevn se Pavri~ kai; Foi`bo~ ∆Apovllwn 360 ejsqlo;n ejovnt∆ ojlevswsin ejni; Skaih`/si puvlh/sin.

Bada ora che io non diventi per te ragione di collera divina nel giorno in cui Paride e Febo Apollo 360 ti uccideranno, anche se sei un prode, alle porte Scee.

Né vi è altro indizio che il narratore modificasse il suo piano in corso d’opera. L’attesa della morte di Achille obbedisce a un’economia narrativa che pone progressivamente in primo piano il motivo della morte (morte di Ettore, imminente morte di Achille, rito funebre per Patroclo, rito funebre per Ettore) in una prospettiva fortemente innovativa rispetto alla tradizione 10 perché non è la morte in quanto evento ma la consapevolezza di una fine imminente che appare sfruttata per approfondire il senso della guerra e del kleos e, anche, per guarire Achille da un cholos smisurato e irrefrenabile, intrecciato a un dolore altrettanto smisurato, che lo ha portato ai limiti della follia, della disumanità, dell’emarginazione dal contesto dei compagni d’arme, fino al punto di non poter neppure mangiare e lavarsi. 11  



Questo non comporta d’altra parte, come suppone West, 7 che il poeta dell’Iliade cominciasse il suo poema con uno schema secondo il quale Achille, dopo aver ucciso Ettore, spingeva il resto dei Troiani dentro la città attraverso le porte Scee e qui, colpito dalla freccia di Paride, incontrava la morte (West ipotizza una scansione originariamente inversa rispetto a quella realizzata nel canto xxii dell’Iliade, con l’uccisione di Ettore anteriore alla fuga dei Troiani dentro le mura), 8 ma poi lo modificasse rinviando la morte di Achille a un momento indeterminato dopo la fine del poema e dedicando a Patroclo gli agoni funebri che sarebbero spettati ad Achille. La profezia di Thetis è perfettamente compatibile con la fine di Achille dopo la ripresa delle osti-

Benché Memnone risulti estraneo al mondo dell’Iliade e sia certamente un parvenu della mitologia greca (di lui null’altro viene ricordato se non ciò che doveva essere raccontato nell’Etiopide), la sua presenza nella poesia arcaica, e dunque l’‘ombra’ dell’Etiopide (o della versione orale che ne era alla base), è tuttavia ben riconoscibile a partire dall’Odissea. Memnone viene ricordato per nome da Odisseo, in Od. 11, 522, come l’eroe più bello che mai egli avesse visto, mentre il ricordo della morte di Antiloco ad opera del guerriero etiope sollecita le lacrime di un altro figlio di Nestore (Pisistrato) in Od. 4, 186-188 :

6  Già Monro 1884, 16 sottolineava che “the Amazons and the Ethiopians are nations of a fabulous type that we do not meet in the Iliad at all”. 7  West 2003, 7 s. e 2003b, 14. 8  West 2003, 8 sostiene infatti che “the influence of the earlier version may be seen in 22.376ff.” quando, dopo aver spogliato delle armi il corpo di Ettore, Achille esorta gli Achei a seguirlo verso la città, ma poi cambia idea all’improvviso al v. 385 ricordando che Patroclo giace tuttora insepolto presso le navi (vd. già Schadewaldt 1966, 168 s., Richardson 1993, 145, Seaford 1994, 157). Ma che il poeta (se di singolo autore si trattava) cambiasse in corso d’opera il suo piano – un piano che concerne l’asse portante del racconto – o che inavvertitamente seguisse la versione originaria sarebbe cosa davvero strana. Come ho sostenuto altrove (vd. Ferrari 2007, 19-33), ‘Omero’ è tutt’altro che immune da incidenti (in genere seguiti da autocorrezioni), ma la loro tipologia è ben diversa : riguarda tratti circoscritti e marginali del racconto, non certo linee strategicamente significative del

racconto. Se Achille accenna alla possibilità di andare in esplorazione attorno alle mura per verificare le intenzioni immediate dei Troiani dopo la morte di Ettore si può certo trattare di una misdirection, ma di un depistaggio consapevole che, sottolineando la presa di distanza del narratore rispetto a una precedente versione, ne sfrutta la potenziale tensione nel quadro più generale dell’attesa della caduta di Troia.   9  È dunque cosa ben diversa che Achille muoia subito dopo eventi non bellici come i giochi per Patroclo e il riscatto del corpo di Ettore o invece dopo una serie di nuovi scontri marziali come quelli narrati nell’Etiopide, e questo invalida una replica a West nei termini usati da Kullmann 2005, 17 : “Auch in der Ilias stirbt Achill nicht sofort nach Hektor. Es folgen die Leichenspiele und die Auslösung Hektors. Man kann also nicht sagen, dass der Zeitrahmen der Ilias die Ereignisse der Aithiopis mit Sicherhait ausschliesst”. 10  Vd. Di Benedetto 1998, 298-311. 11  È l’“excessive liminality” oggetto dell’analisi di Seaford 1994, 166-172.

3. Echi dell ’ Etiopide











cronaca di due morti annunciate: dall ’ iliade all ’ etiopide 71 al ritorno in patria l’Atride risponde ricordando la deposizione del cadavere sul feretro, i lavacri, l’arrivo dal mare di oujd∆ a[ra Nevstoro~ uiJo;~ ajdakruvtw e[cen o[sse: mnhvsato ga;r kata; qumo;n ajmuvmono~ ∆Antilovcoio, Thetis e delle Nereidi, il lamento intonato dalle nove Muse, tovn rJ∆ ∆Hou`~ e[kteine faeinh`~ ajglao;~ uiJov~. la cremazione del corpo, la raccolta delle ossa (frammiste a quelle di Patroclo) in un’anfora d’oro offerta da Thetis, Né asciutti serbava gli occhi il figlio di Nestore, ché si sovvenne nella mente di Antiloco irreprensibile, l’erezione di un grande tumulo sull’Ellesponto (Od. 24, 36colui che il figlio splendido di Eos luminosa aveva ucciso. 12 92). Nel suo commento Heubeck sostiene, nel solco neoNel vii secolo Alcmane (PMGF 68) ricorda Memnone acanalitico, 17 che per questa scena il poeta aveva davanti “una canto ad Aiace (protagonista nell’Etiopide del recupero del Aithiopis o una Achilleis preomerica”, ma che “oltre alla pocorpo di Achille) : esia preiliadica il nostro poeta conosce anche la sua trasfordouri; de; xustw`/ mevmanen Ai\a~ aiJmath`/ te Mevmnwn mazione, quella operata dal poeta dell’Iliade”. 18 Dal momento che nell’Iliade non si racconta dei funerali e Aiace infuria con l’asta levigata e Memnone è assetato di sangue. di Achille è presumibile che il narratore, tanto più nell’ambito di uno scorcio sommario e non di una narrazione diE se il figlio di Eos diventa nel sesto secolo un soggetto stesa, si basasse su uno o più racconti orali anteriori, ma prediletto delle arti figurative (lo scontro fra Memnone e che fra questi racconti ci fosse l’Etiopide (o il suo modello) Achille compariva nell’arca di Cipselo e nel trono di Apollo sembra da escludere. ad Amicle, cfr. Paus. 5, 19, 1 e 3, 18, 12), lo schema iconoInfatti nel racconto odissiaco, diversamente che nell’Etiografico attestato da Pausania appunto per l’arca di Cipselo, pide, il corpo di Achille non viene prelevato dalla madre e con Achille e Memnone disposti l’uno contro l’altro e le trasportato nell’isola di Leuke : dopo la cremazione, le ossa rispettive madri dietro ciascuno di essi, appare già in due dell’eroe sono raccolte insieme con quelle di Patroclo in raffigurazioni vascolari di stile geometrico : un vaso di fabun’anfora d’oro, dono di Dioniso a Thetis e opera di Efesto, bricazione attica databile al 700/675 a.C. (München, Antiche viene interrata in un grande tumulo su un promontokensammlungen inv. 8936) e un’anfora cicladica da Melo rio dell’Ellesponto perché nel presente come nel futuro sia poco più recente (Atene, Mus. Naz. 3961), che si carattevisibile ai marinai. rizza anche per il fatto che i due guerrieri indossano due Il racconto si propone molto chiaramente come la mesdiversi tipi di elmo. 13 sa in atto della preghiera fatta da Patroclo nel xxiii canto Analogamente, è della prima metà del settimo secolo lo dell’Iliade, quando, apparso in sogno ad Achille, lo supplica scudo votivo in terracotta da Tirinto, conservato al Museo di non lasciare per sempre le sue ossa separate da quelle Archeologico di Nauplia (nr. 4509), che raffigura al suo indel compagno, ma di confonderle insieme, come insieme terno l’uccisione di Pentesilea ad opera di Achille. essi erano cresciuti nella casa di Peleo (v. 83 s. : mh; ejma; sw`n Infine, l’invocazione ad Achille in Alc. fr. 354 V.  







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ajpavneuqe tiqhvmenai ojstev∆ ∆Acilleu`, ⁄ ajll∆ oJmou` wJ~ ejtrav- fhmen ejn uJmetevroisi dovmoisin). E sulla stessa linea sono le

∆Acivlleu~ oj ga`~ 14 Skuqivka~ mevdei~  

Achille, tu che proteggi la terra scitica ...

comporta un riferimento agli onori tributati all’eroe in quella zona scitica a nord del Mar Nero e dell’isola di Leuke esplorata da naviganti greci a partire dalla metà dell’viii secolo a.C. (Drews 1976), dove Thetis aveva trasportato il suo corpo e il Pelide era venerato con l’epiteto di pontavr- ch~. 15 La fissazione dell’Etiopide, datata da West 16 al 630/620 a.C., va dunque retrodatata alla seconda metà dell’ottavo secolo, e comunque prima della fissazione della nostra Odissea.  



4. I funerali di Achille nella seconda Nekyia Eppure, per una sorta di regia dissociata, l’Odissea, pur mostrando di conoscere la ‘storia di Memnone’, ci propone una rievocazione dei funerali di Achille subalterna al racconto iliadico e pertanto dissonante rispetto alla versione dell’Etiopide. Si tratta del passo della seconda Nekyia in cui ad Achille che compiange la triste sorte che Agamennone ha subìto 12  Non certo a caso Aiace, Achille, Patroclo e Antiloco vengono ricordati in gruppo sia da Nestore in Od. 3, 109-111 che da Odisseo in Od. 11, 467470 e dal narratore in Od. 24, 15-18. Analogamente, appare molto stretto il parallelismo fra il racconto della presa di Troia nel resoconto di Proclo relativo all’altro poema attribuito ad Arctino, la Presa di Ilio, e nel terzo canto di Demodoco (Od. 8, 500-520). 13  Vd. Langdon 1998, 269 s. 14  Ta`~ codd. : corr. Giese (cfr. fr. 308, 1 V. cai`re, Kullavna~ oj mevdei~). 15  Sono da tener presenti in particolare le iscrizioni nrr. 48b-49 IGDOP (vd. Dubois 1996, 95-100). Sul culto di Achille in tutta la zona  

istruzioni impartite da Achille più oltre nel medesimo canto, quando raccomanda di raccogliere con cura le ossa di Patroclo (v. 239) e di riporle in un vaso d’oro in attesa della sua stessa morte (v. 243 s.). Anche il grande tumulo di Od. 24, 80 replica il tumulo “vasto e alto” che in Il. 23, 247 Achille chiedeva che gli Achei superstiti erigessero in futuro in sostituzione della tomba “non molto grande” (tuvmbon ... ouj mavla pollovn) da innalzare provvisoriamente per Patroclo. 19 L’erezione di questo tumulo su un capo dell’Ellesponto appare in sintonia sia con quello che doveva già essere, e tanto più sarebbe stato in futuro, un sito di culto eroico di Achille, sia con uno spunto che nell’Iliade era sviluppato da Ettore quando, prima del duello con Aiace, aveva promesso, in caso di vittoria, di restituire il suo corpo agli Achei perché costoro potessero dargli sepoltura e alzargli un tumulo sul vasto Ellesponto (Il. 7, 81-90). Infine, la rievocazione di un momento della fine di Achille – il suo giacere disteso a terra – in Od. 24, 39 s.  

su; d∆ ejn strofavliggi konivh~ kei`so mevga~ megalwstiv, lelasmevno~ iJpposunavwn

del Mar Nero e sul ritrovamento a Beikush, a Olbia, a Berezan e in altri siti vicini di numerosi dischi di argilla recanti l’iscrizione ‘Achille’ vd. Hedreen 1991. 16  Per West 2003, 12 “evidently a Memnonis established itself not too long after the Iliad, perhaps around 630 or 620 ; the Iliad poet might still have been alive”. 17  Vd. in particolare Kullmann 1960, 29-50. 18  Heubeck 1986, 337. 19  Sulle tradizioni legate ai tumuli visibili nella zona dell’Ellesponto e sul culto eroico di Achille vd. Burgess 2007.  

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e in un turbine di polvere

grande per gran tratto giacevi, immemore dell’arte equestre.

ripete alla lettera, a parte il passaggio dalla terza alla seconda persona, Il. 16, 775 s. (Cebrione, l’auriga di Ettore, abbattuto da Patroclo) e richiama anche l’immagine di Achille straziato dal dolore in Il. 18, 26 s. :  

aujto;~ d∆ ejn konivh/si mevga~ megalwsti; tanusqei;~ kei`to, fivlh/si de; cersi; kovmhn h[/scune dai?zwn.

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Grande per gran tratto disteso nella polvere egli stesso giaceva, e con le mani deturpava la chioma strappandosi i capelli.

Anche se il confronto fra questi tre passi ha suggerito a Danek 1998, 467-470 l’ipotesi che in essi sia percepibile l’eco di una composizione orale pre-omerica, fonte dell’Etiopide, relativa all’uccisione di Achille da parte di Paride, si è osservato giustamente che lelasmevno~ iJpposunavwn è tanto appropriato a un auriga come Cebrione quanto riesce singolare per Achille (Heubeck 1986, 338). Sembra pertanto corretta la conclusione di Heubeck secondo cui si tratta “di un’espressione creata per una situazione particolare e più volte ripresa : un’espressione formata anzitutto per Cebrione, che a partire dal libro viii dell’Iliade appare come l’auriga di Ettore, al quale si adatta perfettamente lelasmevno~ iJpposunavwn, che invece è meno pregnante, anche se non inadatto, per Achille”. Anche queste corrispondenze a distanza ci riportano dunque non all’Etiopide (o a una fonte pre-omerica), ma proprio all’Iliade.  

5. Un ’ interpolazione ateniese? Ma se complessivamente la rievocazione dei funerali di Achille nell’ultimo canto dell’Odissea è in perfetto accordo con il testo della nostra Iliade mentre, per ciò che l’Iliade non racconta, allude a un tipo di narrazione che l’Iliade presuppone al di là di sé, come una traccia extra-poematica che si annida fra le pieghe del testo senza mai realizzarsi in racconto effettivo, c’è tuttavia un breve tratto di soli due versi (24, 78 s.) che nel passo dell’Odissea rimanda, a quanto pare, al racconto dell’Etiopide. Lì, dopo aver ricordato ad Achille che nell’anfora d’oro donata da Thetis giacciono le sue ossa frammiste a quelle di Patroclo, Agamennone precisa :  

cwri;~ d∆ ∆Antilovcoio, to;n e[xoca ti`e~ aJpavntwn tw`n a[llwn eJtavrwn meta; Pavtroklovn ge qanovnta.

... ma distinte da quelle di Antiloco, che tu onoravi al di sopra di tutti gli altri compagni dopo che Patroclo era morto.

Questa precisazione allude infatti all’uccisione di Antiloco da parte di Memnone nell’Etiopide e così contraddice (anzi, consapevolmente corregge) ciò che si dice in Il. 24, 574 ss., quando Achille usciva dalla sua baracca :  

oujk oi\o~, a{ma tw`/ ge duvw qeravponte~ e{ponto h{rw~ Aujtomevdwn hjd∆ “Alkimo~, ou{~ rJa mavlista ti`∆ ∆Acileu;~ eJtavrwn meta; Pavtroklovn ge qanovnta.

... non da solo, ché due scudieri lo accompagnavano, l’eroe Automedonte ed Alcimo, che Achille onorava più degli altri compagni dopo che Patroclo era morto. 20  Cfr. Dieuchid. FGrHist 485 F 6, Strab. 9, 1, 10, D.L. 1, 57, Plut. Sol. 10. Come sappiamo da Schol. A ad Il. 2, 230 e 4, 273, il verso fu atetizzato da Aristarco. Una conferma del carattere recenziore del riferimento a Salamina come subordinata ad Atene sembra venire anche dal confronto con la

Una tale sfasatura non può certo essere eliminata, con Kullmann 2005, 19 s., richiamando il ruolo giocato da Antiloco in relazione ad Achille nei canti xviii (dove, dopo avergli annunciato la morte di Patroclo, gli trattiene le mani per evitare che si tagli la gola) e xxiii dell’Iliade (dove viene apostrofato con simpatia dal Pelide ai vv. 558-562 e 795 s.) : in realtà, i vv. 78 s. dell’ultimo canto dell’Odissea ci trasferiscono al di fuori del racconto dell’Iliade e anche del racconto che della morte di Achille è presupposto nell’Iliade. Forse la spiegazione di questa distonia interna non va cercata nel testo dell’Odissea, ma nella sua trasmissione : Od. 24, 78 s. potrebbe essere un’interpolazione. Goffa precisazione di secondo grado (con cwri;~ d∆ in principio di v. 78 in parallelo con mivgda dev a principio di v. 77), il distico non compare nell’unico testimone antico esistente per questa zona di testo, e cioè P. Ryl. 53 (iiip), che conserva resti, oltre che di altri canti, di Od. 24, 1-548. Occorre tener conto, sul versante storico-politico, che nel corso del vii secolo all’insediamento lesbio al Sigeo gli Ateniesi replicarono fortificando il sito di Achilleion, dove un tumulo segnava la tomba dell’eroe (Strab. 13, 1, 38), e pertanto, come ha scritto Aloni 2006, 91, “le ceneri e le ossa di Antiloco, inopinatamente collocate a Achilleion nel canto finale dell’Odissea, segnalano una precisa volontà di sottrarre anche questa località alla tradizione lesbia, e di collocarla fra i legittimi possessi degli Ateniesi che si fregiano della discendenza Neleide” (in particolare, il genos ateniese dei Peonidi poneva come proprio capostipite un figlio di Antiloco). I vv. 78 s. del canto xxiv dell’Odissea potrebbero dunque essere il risultato di un’inserzione campanilistica di matrice ateniese sulla linea della pur controversa interpolazione ateniese, nel Catalogo delle navi, di 2, 558 (sth`se d∆ a[gwn i{n∆ ∆Aqhnaivwn i{stanto favlagge~), 20 ma pure, secondo Erea di Megara (FGrHist 486 F 1), della menzione di Teseo e Piritoo in Od. 11, 631 (vd. Heubeck 1983, 308 s.). E si può anche ricordare che Il. 1, 265 (un verso contenente un riferimento a Teseo) è attestato solo in una parte minoritaria della tradizione manoscritta ed è considerato da Kirk come un ‘ricamo’ (embroidery) di probabile origine ateniese realizzato nel sesto secolo, “when Theseus-propaganda was at its height” (Kirk 1985, 81). Altrimenti, dovremmo ripiegare sull’ipotesi che ‘Omero’ stesso interponesse en passant in un contesto di nostalgie iliadiche un particolare ad esse del tutto estraneo come richiamo a uno sviluppo recente e alternativo della storia di Achille. 21 Comunque sia, l’Etiopide sembra emergere d’improvviso, nei decenni intercorrenti tra la fissazione della nostra Iliade e della nostra Odissea, come invenzione che intendeva colmare anche con nuovi personaggi legati in buona parte a favolosi scenari orientali (Pentesilea e le Amazzoni, Memnone e i suoi uomini) la zona grigia lasciata dall’Iliade dopo i funerali di Ettore. Del resto, che sia mai esistita una Etiopide (o una Memnonide) pre-ciclica e pre-iliadica è tutt’altro che dimostrato seppur non impossibile (purché si convenga che essa rimase ignota all’‘Omero’ dell’Iliade) : è in effetti più verosimile,  









presentazione di Aiace nel Catalogo esiodeo (cfr. fr. 204, 44-51 M.-W. e vd. Finkelberg 1988). 21  Una contaminazione fra le due versioni è appunto presupposta da Willcock 1973.

cronaca di due morti annunciate: dall ’ iliade all ’ etiopide 73 sulla base degli elementi a nostra disposizione, che l’Etiopide fosse composta nella seconda metà dell’viii secolo ad kai; tovte Qermwvdonto~ ajp∆ eujrupovroio rJeevqrwn h[luqe Penqesivleia qew`n ejpieimevnh ei\do~. opera di un poeta (o di una cerchia rapsodica) di Mileto come intenzionale continuazione di un’Iliade sostanzialE allora dalle correnti del vasto Termodonte mente fissata. 22 giunse Pentesilea, fasciata di divina bellezza. Il rapido successo di questo poema in cinque libri, precocemente rispecchiato nell’Odissea, nelle arti figurative, in Bibliografia Alcmane e più tardi in Pindaro e in Eschilo, dovette rapidaAloni 2006, A. Aloni, Da Pilo a Sigeo. Poemi cantori e scrivani al temmente oscurare le versioni orali che circolavano sulla morpo dei Tiranni, Alessandria 2006. te e i funerali di Achille, tanto che Od. 24, 36-92 ci appare Burgess 1997, J. Burgess, Beyond Neo-analysis : Problems with the come l’ultima espressione di una versione solidale con la Vengeance Theory, « Am. Journ. Philol. » 118, 1997, 1-19. struttura e l’orientamento dell’Iliade. Burgess 2006, J. Burgess, Neonalysis, Orality, and Intertextuality : In questa prospettiva non stupisce l’articolazione del fr. 1 An Examination of Homeric Motif Transference, « Oral Trad. » 21, W. del poema di Arctino : 2006, 148-189.  















w}~ oi{ g∆ ajmfivepon tavfon ”Ektoro~: h\lqe d∆ ∆Amazwvn, “Arho~ qugavthr megalhvtoro~ ajndrofovnoio.



Così essi attendevano alla sepoltura di Ettore, e arrivò l’Amazzone, la figlia di Ares tracotante, massacratore di uomini.

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Burgess 2007, J. Burgess, Tumuli of Achilles, in http ://chs.harvard. edu/publications.sec/classics.ssp. Danek 1998, G. Danek, Epos und Zitat. Studien zu den Quellen der Odyssee, Wien 1998. Di Benedetto 1998, V. Di Benedetto, Nel laboratorio di Omero, Torino 19982 (1994). Dihle 1970, A. Dihle, Homerprobleme, Opladen 1970. Drews 1976, R. Drews, The Earliest Greek Settlements on the Black Sea, « Journ. Hell. Stud. » 96, 1976, 18-31. Dubois 1996, L. Dubois (ed.), Inscriptions grecques dialectales d’Olbia du Pont, Genève 1996. Ferrari 2007, F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall’Odissea alle lamine misteriche, Torino 2007. Finkelberg 1988, M. Finkelberg, Ajax’ Entry in the Hesiodic Catalogue of Women, « Class. Quart. » 38, 1988, 1-41. Hedreen 1991, G. Hedreen, The Cult of Achilles in the Euxine, « Hesperia » 60, 1991, 313-330. Heubeck 1983, A. Heubeck (ed.), Omero. Odissea iii (libri ix-xii), Milano 1983. Heubeck 1986, A. Heubeck (ed.), Omero. Odissea vi (libri xxi-xxiv), Milano 1986 (in collaborazione con M. Fernández-Galiano). Kirk 1985, G. S. Kirk, The Iliad. A Commentary ii (Books 5-8), Cambridge 1985. Kullmann 1960, W. Kullmann, Die Quellen der Ilias, Wiesbaden 1960. Kullmann 2005, W. Kullmann, Ilias und Aithiopis, « Hermes » 133, 2005, 9-28. Langdon 1998, S. Langdon, Significant Others : The Male-Female Pair in Greek Geometric Art, « Am. Journ. Archaeol. » 102, 1998, 251-70. Monro 1884, D. B. Monro, The Poems of the Epic Cycle, « Journ. Hell. Stud. » 5, 1884, 1-41. Richardson 1993, N. Richardson (ed.), The Iliad. A Commentary vi (Books 21-24), Cambridge 1993. Schadewaldt 1966, W. Schadewaldt, Von Homers Welt und Werk, Stuttgart 19964. Seaford 1994, R. Seaford, Reciprocity and Ritual : Homer and Tragedy in the Developing City-State, Oxford 1994. Slatkin 1991, L. Slatkin, The Power of Thetis. Allusion and Interpretation in the ‘Iliad’, Berkeley 1991. Welcker 1849, F. G. Welcker, Der epische Cyclus ii, Bonn 1849. West 2003, M. L. West, Iliad and Aethiopis, « Class. Quart. » 53, 2003, 1-14. West 2003b, M. L. West (ed.), Greek Epic Fragments from the Seventh to the Fifth Centuries BC, Cambridge MA-London 2003. Willcock 1973, M. M. Willcock, The Funeral Games of Patroclus, « Bull. Inst. Class. Stud. London » 10, 1973, 1-11.

Trasmesso dallo scolio T a Il. 24, 804a come variante dell’ultimo verso dell’Iliade (w}~ oi{ g∆ ajmfivepon tavfon ”Ektoro~ iJppodavmoio), questo distico dovette essere sfruttato da ultimo come ‘raccordo editoriale’ fra Iliade ed Etiopide nel quadro di una tarda ‘edizione ciclica’ dell’epica greca arcaica, ma non c’è ragione di pensare che già all’origine esso fosse concepito per creare un ponte fra i due poemi. La versione alternativa del v. 2, registrata all’interno di un sommario in prosa da P. Lit. Lond. 1, 6, e cioè ∆Otrhvrªhº~ qugavthr eujeidh;~ Penqesiv≥leia, suggerisce che il passo attraversò una fase di trasmissione rapsodica, come mostra anche il fatto che ∆Otrhvrh è una variante al femminile dell’Otreo che, secondo il racconto fatto da Priamo sulle proprie gesta di un tempo, aveva guidato insieme con Migdone i Frigi lungo le rive del fiume Sangario contro le Amazzoni (Il. 3, 184-186) :  

h[dh kai; Frugivhn eijshvluqon ajmpelovessan, e[nqa i[don pleivstou~ Fruvga~ ajnevra~ aijolopwvlou~ laou;~ ∆Otrh`o~ kai; Mugdovno~ ajntiqevoio.



















Sono stato una volta anche in Frigia ricca di vigne, dove vidi moltissimi Frigi dagli agili cavalli, gli eserciti di Otreo e di Migdone simile a un dio.







È presumibile pertanto che questo ‘raccordo editoriale’ fosse costruito riutilizzando un passo della parte iniziale dell’Etiopide collocato nello snodo fra il richiamo retrospettivo ai funerali di Ettore (con riuso da parte di Arctino del segmento iliadico w}~ oi{ g∆ ajmfivepon tavfon ”Ektoro~) e l’avvio del nuovo racconto. In questo modo cominciano in effetti i Posthomerica di Quinto Smirneo, dove il rimando alle esequie tributate a Ettore (1, 1 s.)







Eu\q∆ uJpo; Phleivwni davmh qeoeivkelo~ ”Ektwr kaiv eJ purh; katevdaye kai; ojsteva gai`a kekeuvqei ...

Quando Ettore pari agli dèi fu vinto da Achille e il fuoco del rogo lo divorò e la terra coprì le sue ossa ...

è seguito già a 1, 18 s. da un annuncio dell’arrivo di Pentesilea che si prospetta come intenzionale variazione del fr. 1 dell’Etiopide proprio nella lezione del papiro londinese :









22  Il floruit di Arctino era fissato da Eusebio al 775/774 o al 760/759, da Artemone di Clazomene (FGrHist 443 F 2) al 744/741 (se si intende nel senso dell’akmé e non della nascita il gegonwv~ della Suda) ; e il peripatetico Fania  

(fr. 33 Wehrli) riferiva di una gara fra Arctino e Lesche di Pirra (vinta da Lesche) ponendo genericamente quest’ultimo “prima di Terpandro” (Eusebio pone il floruit di Lesche e di Alcmane nel 658/657).

ODISSEO ANTE LITTER A M Bruno d’Agostino

D

i Giovanni Cerri ho ammirato gli studi penetranti sugli autori e i problemi che mi sono più cari, 1 e la vibrante empatia della sua traduzione dell’Iliade. Ma il legame di affettuosa amicizia nasce dall’aver condiviso l’impegno di antichisti e di uomini nell’Istituto Orientale, in un periodo in cui sembrava possibile che la cultura potesse avere un ruolo importante per formare i giovani e per incidere sulla opaca realtà del nostro paese. Ci accomuna peraltro anche l’amore per l’opera di G. B. Vico, e almeno io confido che una simile stagione possa tornare ; intanto non possiamo far altro che condividere le nostre curiosità intellettuali. Le vicende qui considerate sono state già di recente oggetto di un mio breve articolo. Mi si perdonerà se qui ritorno su quel testo, per tenere conto di alcuni elementi nuovi, e di altri che ho riconsiderato solo in seguito. Il punto di partenza era costituito da un quesito che Plutarco pone nelle Quaestiones Graecae : “Per quale motivo la città degli Itacesi fu chiamata Alalcomene ?”. 2 La risposta che egli fornisce non ha ricevuto a mio avviso l’attenzione che merita, e mi è sembrato opportuno riesaminarla. Innanzitutto va chiarito che la città nota con questo nome è proprio quella sull’istmo che unisce il nord e il sud di Itaca, nel sito di Aetos, 3 indagato dagli archeologi britannici nel secondo quarto del secolo scorso. 4 La spiegazione che Plutarco riporta è molto intrigante : “Perché Anticlea, violentata nella sua verginità da Sisifo, concepì Odisseo, come si evince da molte testimonianze. Ma Istro di Alessandria, nei suoi Commentari, aggiunge inoltre che la donna, concessa come sposa a Laerte e da lui condotta presso il tempio di Alalcomene, generò Odisseo e per questo motivo Istro, come per richiamare alla mente il nome della madrepatria, sostiene che sia stata così denominata la città di Itaca”. Plutarco distingue, nella sua trattazione, diverse testimonianze, di cui non cita gli autori, che riferivano il concepimento di Odisseo da parte di Anticlea a seguito della violenza subita da Sisifo, dalla testimonianza di Istro, figura del dotto ambiente alessandrino del iii sec. a.C. Solo a proposito di Istro è menzionato esplicitamente il parto di Odisseo, e si dice che esso è la conseguenza dell’incidente alalcomenio, ma nemmeno Istro in realtà dice che il parto sia avvenuto ad Alalcomene. Sembra quindi del tutto plausibile l’ipotesi avanzata per primo dall’Holzinger (1896) e ripresa acuta-

mente dal Ciaceri, che il santuario di Alalcomene fosse indicato come il luogo della violenza, quello in cui Odisseo venne concepito, come già suggeriva lo scolio al v. 190 dell’Aiace di Sofocle ; questa soluzione consentiva di preservare la tradizione che poneva la nascita di Odisseo nell’isola. 5 Le fonti non ci dicono perché, lungo la strada che doveva condurla a Itaca per convolare a nozze con Laerte, Anticlea avesse scelto un percorso che toccava il celebre santuario di Atena in considerazione del prossimo abbandono del suo statuto di vergine per quello di sposa. Lo stupro compiuto da Sisifo è reso particolarmente odioso dalla natura del luogo sacro. Il quadro nel quale si colloca la violenza inferta da Sisifo ad Anticlea “nella sua verginità”, come risulta tuttavia più chiaramente da una fabula di Igino, 6 è quello dei furti delle mandrie, e non si può dimenticare chi fosse Autolico, padre di Anticlea ; come osserva G. Guidorizzi, è un nome parlante : “il lupo in se stesso” ; figlio di Mercurio, come racconta Igino, era “il ladro più abile” capace di “mascherare nella forma che desiderava qualunque cosa avesse rubato”. Una gustosa illustrazione della storia è evocata con chiarezza su di un vaso a rilievo, un tempo conservato a Berlino. 7 L’immagine è molto esplicita : Anticlea stringe in mano la conocchia e sembra quasi farsene scudo, mentre Sisifo la trascina su un letto ; l’azione è accostata al furto della mandria di Sisifo ad opera di Autolico, avvenuto sull’Acrocorinto : 8 Sisifo ne ottiene con la forza la restituzione, e alla scena assiste un innocente Laerte, che – in una immagine “sinottica” – sembra prefigurare il matrimonio riparatore. Il ritrovamento della mandria da parte di Sisifo presso Autolico è rappresentato in un’altra scena del medesimo fregio. Il carattere ‘teatrale’ delle scene e dei gesti aiuta a farsi un’idea della fonte che qui, come per la fabula di Igino, possono essere i drammi satireschi, 9 dal momento che spesso Igino attinge al repertorio teatrale. 10 Ma la tradizione relativa a un Odisseo sisifide, ben nota ai tragici e a Licofrone, 11 è molto più antica : essa era già recepita da Stesicoro, come dimostra un frammento a lui attribuito, edito solo di recente, nel quale si evoca la scena del rito funebre compiuto per Miseno, che qui compare come compagno di Odisseo. L’eroe è definito come “cugino di Eolo figlio di Hippotes”. Questa relazione ha senso solo se Odisseo è per l’appunto figlio di Sisifo, e dal frammento si evince, come

1  Mi limito a citare l’articolo che più ha contribuito alla mia conoscenza del mondo di Odisseo : Cerri 2002. 2  Plut. Quaest. Gr. 43d, a cura di A. Carrano, Napoli 2007, di cui si riporta la traduzione. 3  Steph. Byz. s.v. ∆Alkomenaiv ; altrove il nome è sempre ∆Alalkomenaiv : cfr. Strab. 10, 2, 16 (456c) che precisa la collocazione della città sull’istmo, riportando Apollodoro. In Stephani Byzantii Ethnica i, a cura di M. Billerbeck, Berlin-New York 2006, 136 n. 191 sono raccolte le notizie sul nome e le etimologie proposte dalla tradizione. 4  Un bilancio delle ricerche britanniche e dei rapporti tra i risultati e la tradizione omerica in Waterhouse 1996 ; Morgan 2006 ; sugli scavi recenti cfr. Civitillo 2008-09. 5  Schol. in Sophoclis Tragoedias vetera, ed. P. N. Papageorgius, Lipsiae 1888, 19 s. Sulle origini corinzie di Odisseo cfr. Malkin 1998, 134 n. 75, che elenca una serie di fonti dimenticando proprio Plutarco.

  6  G. Guidorizzi (ed.), Igino. Miti, Milano 2000, 133 s. n. 201, 484 n. 939, con un efficace “ritratto” di Autolico.   7  LIMC s.v. ‘Antikleia’, p. 829 nr. 2 (O. Touchefou-Meynier), databile al ii-i sec. a.C. Vd. fig. 1.   8  Cfr. Polyaen. 6, 52, ricordato da Gostoli 2012.   9  Cfr. i due drammi satireschi di Euripide intitolati Autolico (frr. 282-284 Sn.) e quelli intitolati Sisyphos dei tre grandi tragici e di Crizia. 10  Igino, cit. Introduzione xxiv. 11  Le citazioni sono raccolte nel commento di V. Gigante Lanzara alla Alessandra, Milano 2000, 332 s., ad vv. 786-788, a cui occorre aggiungere gli Schol. Soph. Aj. 190 e a Soph. Phil. 417, 1311 fr. 142. Fondamentale resta sempre l’edizione di E. Ciaceri, La Alessandra di Licofrone, Catania 1901 (rist. con appendice di testimonianze e frammenti a cura di M. Gigante, Napoli 1982) : il commento al v. 786 è a p. 248 s.



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odisseo ante litteram rileva lo Haslam, che Stesicoro dava per scontata una localizzazione delle vagazioni di Odisseo in Occidente. 12 Per cercare di chiarire il senso di questa vicenda occorre partire dalla localizzazione della storia. Autolico ha sede sul Parnaso “nell’ambiente pastorale della razzia, in un ambiente di furto e rapina”. 13 L’Alalkomenion, o Alalkomeneion 14 viene concordemente identificato con il santuario di Athena Alalkomene, la dea che vigila sulle sorti degli Achei a Troia : 15 come dice Pausania, 16 esso si trovava ai piedi della collina sulla quale sorgeva la kome chiamata Alalkomenai, non lontano da Coronea. Le uniche notizie sul santuario, e sulla antica statua di avorio trafugata da Silla, forse un palladio, 17 vengono da Pausania. L’esatta ubicazione del sito e del santuario non è nota : l’identificazione più probabile è quella proposta già nel 1835 dal Leake, e accolta, tra gli altri, dal Fossey e, più recentemente, da Knoepfler, presso il paese di Solinari. 18 Oltre al dato topografico, depone a favore di questa tesi la presenza di un’area sacra coincidente con la chiesa di S. Giovanni Teologo. Meno probabile sembra l’identificazione accolta da Schachter 19 con la collina di Deketes, alla estremità sud dell’attuale villaggio di Aya Paraskevi : purtroppo gli scavi ivi condotti dal Pappadakis, che propose per primo quest’identificazione, sono rimasti inediti. 20 L’epiteto di Athena si faceva derivare da Alalkomeneus, definito autochthon (Paus. loc. cit.), o protos anthropon, 21 nato dalla terra dopo il primo diluvio, quello dopo il quale si insediò il più antico dei re di Tebe, Ogygios, 22 di cui si avrà modo di parlare in seguito. Alalkomeneus aveva allevato Athena presso il torrente Triton, dal quale prese il nome di Tritogeneia. 23 La tradizione che lega Alalcomene al livello più antico della Eolide beotica dimostra la sua antichità : all’ipotesi della derivazione da Alalkomeneus un’altra possibile alternativa alla etimologia del nome è ricordata sempre da Pausania ; ∆Alalkomeniva era figlia di Ogygios, che con Thelxinoia e Aulis componeva il gruppo delle Praxidikai, le terribili divinità consistenti di sole teste, che garantivano l’inviolabilità dei sacramenti e il giuramento contratto davanti a loro aveva lo stesso valore di quello sulle acque dello Stige (Theog. 775-819), l’Ogygion hydor (Theog. 805-806), sulle quali giuravano gli dei. Esse avevano il loro santuario sul Monte Tilphusios, non lontano da Alalcomene. 24 Il triangolo formato dalle tre figlie di Ogygios include l’epiclesi con cui Athena guida gli Achei a Troia, nonché il santuario ed il porto (Aulis) dal quale la spedizione partì.

Dove trovare un punto di convergenza tra Sisifo e Alalcomene se non nella tradizione eolica ? Si vuole radicare l’episodio in un momento in cui Sisifo re di Corinto è ancora immerso nella più antica patria eolica. 25 Quanto è antica la tradizione che vuole Odisseo figlio di Sisifo ? Essa è ben anteriore a Istro, e – come si è detto – sembra già accolta da Stesicoro ; essa è “estranea a Omero e al ciclo epico” 26 e gode di una notevole popolarità fra i Tragici, a partire da Eschilo. La genealogia di Sisifo è riaffermata con orgoglio nella presentazione che Glauco fa della propria stirpe a Diomede : 27 “alle spalle di Argo ricca di cavalli sorge la città di Efira / dove Sisifo aveva dimora, lui che fu il più scaltro degli uomini,/ Sisifo, figlio di Eolo (Sisyphos Aiolides)”. 28 Alla luce di queste osservazioni, e della ricca tradizione di ricerca su questi temi sviluppata da A. Mele e dagli studiosi del suo gruppo, la localizzazione dell’avventura di Anticlea nel santuario di Athena Alalkomene in Beozia sembra serbare il ricordo di un Sisifo prima di Corinto. Come figlio di Eolo egli è a suo agio nella Beozia orcomenia ; 29 come osserva la Brancaccio, 30 è probabile che nel Catalogo pseudo-esiodeo si trattasse “delle vicende relative alla famiglia di Sisyphos” subito dopo quelle relative al fratello Deione, e – attraverso la discendenza di questi – si creava il collegamento con Autolykos ; i fratelli di Sisifo hanno le loro radici nella Beozia orcomenia e le tradizioni che li riguardano si inquadrano in un orizzonte molto antico. Il rapporto tra Sisifo e Odisseo era del resto suggerito da alcuni tratti essenziali, comuni alla personalità dei due eroi, evocati in maniera mirabile da Ovidio, che scolpisce in maniera lapidaria il lato oscuro dell’eroe omerico : sanguine cretus / sisyphio, furtisque et fraude simillimus illi. 31 E d’altra parte è chiaro che, se Sisifo viene tirato in ballo come padre naturale di Odisseo, ciò è comprensibile solo alla luce del fatto che egli diventerà signore di Corinto. Per quel che sappiamo dell’opera di Eumelo, Sisifo appare ex nihilo, quando Medea, lasciando Corinto, gli trasmette il potere. 32 Si può immaginare che Eumelo introducesse l’evento ricordando i suoi trascorsi in terra beotica ? L’ipotesi non trova purtroppo al momento alcun supporto. Non si può non osservare che la tradizione relativa alla discendenza di Odisseo da Sisifo trova una giustificazione solo in una cornice cronologica molto antica. Intorno alla metà dell’viii sec. si può dire che Itaca diventi una emanazione corinzia ; i suoi legami con la cultura materiale della Grecia occidentale si interrompono, e la ceramica corinzia si im-

12  POxy 3876 fr. 62 edito da M. W. Haslam, cfr. Lloyd-Jones 1991a ; Haslam 1991 ; Lloyd-Jones 1991b. Ho appreso dell’esistenza del frammento e della discussione ad esso relativa in una conferenza dell’amico A. C. Cassio. 13  Guidorizzi, in Igino, cit. 484 n. 939. Forse questa ambientazione spiega l’errore in cui cade l’ignoto scoliasta al v. 190 dell’Aiace di Sofocle, che fa venire Anticlea dall’Arcadia nel periglioso viaggio che la vede soccombere a Sisifo. 14  Sul culto, cfr. da ultima Deacy 1995. 15  Il. 4, 8 ; 5, 908 ; cito dall’edizione di G. Cerri, Milano 1999, con il commento di A. Gostoli al primo dei due passi. 16  9, 33, 5-7, cfr. Strab. 9, 2, 36. 17  Bearzot 1982. 18  Cfr. Fossey 1988 ; Knoepfler 2008 ; localizzazione accolta anche da M. Osanna, Pausania. Guida della Grecia ix. La Beozia, Milano 2010, ad 9, 34-40, p. 406. 19  Schachter 1981, 111 ss. ; Papachatzi 2004, 212 ss. 20  N. G. Pappadakis, « Archaiol. Delt. » 2, 1916, 257, 268. 21  Cfr. un fr., forse di Pindaro, fr. adesp. 83, 3 Bgk.2, citato in Roscher i 1, col. 221 s., dove si ricorda che, secondo Plut. De Daed. Plat. 6 egli era al centro dell’aition dei Daidala. 22  Schachter 1981, 114. 23  Cfr. Schachter 1981, 112 ; Paus. 9, 33, 7, cfr. schol. Ap. Rh. 4, 1311 ; Schol. Lyk. Alex. 519 ; Strab. 9, 2, 18 (407c). Per l’epiteto di Tritogeneia (Trigennetos in Lyk. 519) lo scoliasta (a Il. 4, 515) lo spiega perché nata dalla testa di Zeus, detta, con nome beotico, trito.

24  Paus. 9, 33, 3. Roscher i 1, col. 222 ; Schachter 1994, 5 ss. ; Vernant 1990, 109. 25  Cfr. Brancaccio 2005 e, da ultimo, Giangiulio 2011, 35 s., che riconosce nella mitistoria corinzia “una discendenza regale sisifide che si riporta a Eolo” come “fatto culturale e identitario, non il riflesso di una affiliazione etnica”. Infatti, secondo l’A., la creazione di una Corinto eolica, prima che dorica, sostenuta da Tucidide (4, 42, 2) “non appartiene alla cultura arcaica”. 26 Roscher iii 1, col. 613 s. 27  Il. 6, 153-155 ed. G. Cerri (i p. 385). 28  Sul rapporto tra Efira, denominazione della città nella prospettiva “eroica”, e Corinto, nome della città di epoca storica, cfr. Gostoli 2012, che cita il commento di Aristarco a Il. 6, 152. 29  Sull’argomento si confronti la vasta produzione di A. Mele (da ultimo, Mele 2009.). 30  Brancaccio 2005, 32 ss., 39 nn. 129-131. 31  Ov. Met. 13, 31. Su questi aspetti comuni alla personalità dei due eroi cfr. Gostoli 2012. 32  Sul radicamento di Sisifo a Corinto cfr. Gostoli 2012 ; Giangiulio 2011, 33 ss., che si sofferma anche sulla funzione di Medea, “forte raccordo con un orizzonte culturale tessalico”.























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bruno d ’ agostino una tradizione, in A. Mele et al. (edd.), Eoli ed Eolide tra madrepapone come il modello dominante, sia per quanto riguarda tria e colonie, Napoli 2005, 25-54. le importazioni, sia per l’impronta che essa imprime sulla Cerri 2002, G. Cerri, L’Odissea epicorica di Itaca, « Mediterraneo produzione locale. La creazione di una genealogia sisifide Antico » 5, 2002, 149-184. accrediterebbe, per la comunità politica locale, l’immagine Civitillo 2008-09, M. Civitillo, Sulle presunte ‘iscrizioni’ in lineare A e di una dignità pari a quella della dominante Corinto, proB da Itaca, « AION ArchStAnt » 15-16, 2008-09, 71-88. iettando l’origine di Odisseo in quella prospettiva eolica Clark 2005, J. Clark, The Gamos of Hera : Myth and Ritual, in S. precedente all’avvento dei Bacchiadi. La storia delle coloBlundel - M. Williamson (edd.), The Sacred and the Feminine in nie corinzie insegna, con il caso di Corcyra, come il rapporAncient Greece, London 2005, 12-23. to tra colonia e madrepatria possa essere carico di tensioni Deacy 1995, S. Deacy, Athena in Boiotia : Local Tradition and Culnon risolte. Attraverso l’origine da Sisifo l’aristocrazia itatural Identity, in J. M. Fossey (ed.), Boeotia Antiqua v. Studies cese si fornisce di un passato che le permette di competere on Boiotian Topography, Cults and Terracottas, Amsterdam 1995, 91-104. da pari a pari con la grande Corinto. Fossey 1988, J. M. Fossey, Topography and Population of Ancient BoPer converso, si potrebbe anche supporre che la genealoiotia i, Chicago 1988, 332-335. gia di Odisseo legata a Sisifo sia stata concepita dai Corinzi Giangiulio 2011, M. Giangiulio, L’orgoglio di Corinto. Identità e traper legittimare la imposizione della loro presenza nell’isodizioni locali tra Oriente e Occidente da Omero a Pindaro, in L. la. Breglia - A. Moleti - M. L. Napolitano (edd.), Ethne, identità e Mi rendo conto che si tratta di ipotesi ardite e difficili da tradizioni : la “terza” Grecia e l’Occidente, Pisa 2011, 29-51. dimostrare : tuttavia, fuori da questa temperie, l’avventura Gostoli 1999, Commento a Omero. Iliade (trad. di G. Cerri), Midi Anticlea dovrebbe considerarsi come semplice frutto di lano 1999. fantasia, ispirato alla pessima fama di Sisifo, che aveva vioGostoli 2012, A. Gostoli, Sisifo nei poemi omerici e nel culto corinzio, lentato anche la figlia di suo fratello Salmoneo, Tiro, che in G. Cerri - A.-T. Cozzoli - M. Giuseppetti (edd.), Tradizioni mitiche locali nell’epica greca. Convegno Internazionale di Studi uccise i figli avuti da lui per obbedire all’oracolo di Apollo. 33 in onore di Antonio Martina per i suoi 75 anni (Univ. Roma Che cosa mi colpisce dunque nella tradizione “alalcoTre - Am. Acad. Rome, 22-23 ottobre 2009), Roma 2012, 83-92. menia” ? Come è ben noto, l’unica presenza che guida coHaslam 1991, M. W. Haslam, Aiolos’ Cousin, « Zeitschr. Pap. stantemente il cammino di Odisseo è Athena, e questo Epigr. » 88, 1991, 297-299. dato è forse il vero elemento fondante della tradizione Kern 1900, O. Kern, Inschriften von Magnesia am Maeander, Berlin sul concepimento dell’eroe ad Alalcomene : Hera teleia e 1900. Athena polias sono le due divinità che sovrintendono alKnoepfler 2008, D. Knoepfler, Annuaire du Collège de France. Résula polis itacese 34 e Atena vi aveva un tempio dove veniva més de Cours 2006-2007, 107, 2008, 651. conservata memoria degli Odysseia. 35 ”Hrh ∆Argeivh kai; Lloyd-Jones 1991a, H. Lloyd-Jones, The Cousin of Aiolos Hippotades ∆Alalkomenhi÷~ ∆Aqhvnh sono le divinità protettrici degli (Stesichorus ( ?), P. OXY. 3876. Fr. 62), « Zeitschr. Pap. Epigr. » 87, Achei, che lasciano il campo di battaglia, dopo che Athena 1991, 297-300. Lloyd-Jones 1991b, H. Lloyd-Jones, Odysseus’ Cousin : a Reply to ha permesso a Diomede di ferire Ares in battaglia. Ricorda Professor Haslam (ZPE 88, 1991, 297 ff.), « Zeitschr. Pap. Epigr. » sarcastico Zeus aprendo il consesso degli dei 36 doiai; me;n  















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Menelavw/ ajrhgovne~ eijsi; qeavwn ”Hrh t∆ ∆Argeivh kai; ∆Alalkomenhi÷~ ∆Aqhvnh. Eponima della città di Itaca, è troppo

audace supporre che proprio lei sia la protettrice dell’eroe, perchè questi era stato concepito sotto il suo sguardo ? Io non credo, e non mi sembra impossibile che la localizzazione del concepimento dell’eroe in quel santuario della Beozia sia stata determinata proprio dalla epiclesi della dea protettrice degli Achei. Non bisogna dimenticare che uno dei più smaliziati esegeti dell’Iliade, Aristarco, suggeriva una etimologia dell’epiclesi che non aveva nulla a che fare con una determinazione locale del culto. 37  



Bibliografia Bearzot 1982, C. Bearzot, Atena Itonia, Atena Tritonia e Atena Iliaca, in Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l’Oriente, Milano 1982, 43-60. Brancaccio 2005, I. Brancaccio, Aioleis, Aiolos, Aiolidai : ampiezza di  

33  Igino, cit. nr. 60 p. 44 n. 358, 297 ss. 34  L. H. Jeffery, Local Scripts of Archaic Greece, Oxford 1961, 234, ‘Ithake’ nr. 4 e il commento a p. 231. 35  Come risulta da un’iscrizione di Magnesia al Meandro : Kern 1900, nr. 36.  



89, 1991, 37. Malkin 1998, I. Malkin, The Returns of Odysseus. Colonization and Ethnicity, Berkeley-Los Angeles-London 1998. Mele 2009, A. Mele, Achaiis, Achaia e Achaia Ftiotide, « Ostraka » 18/2, 2009, 451-481. Morgan 2006, C. Morgan, From Odysseus to Augustus. Ithaka from the Early Iron Age to Roman times, « Pallas » 73, 2007, 71-86 (Identités ethniques dans le monde Grec Antique. Actes Colloque Toulouse 2006). Papachatzi 2004, N. D. Papachatzi, Boiwtika; kai Fwkika;, Athens 2004. Schachter 1981, A. Schachter, Cults of Boiotia i. Acheloos to Hera, London 1981. Schachter 1994, A. Schachter, Cults of Boiotia iii. Potnia to Zeus, London 1994. Vernant 1990, J.-P. Vernant, Figures, idoles, masques, Paris 1990. Waterhouse 1996, H. Waterhouse, From Ithaca to the Odyssey, « Ann. Brit. School Athens. » 91, 1996, 301-317. Will 1955, E. Will, Korinthiaka, Paris 1955.  











36  Il. 4, 7 s. 37  Cfr. Gostoli 1999, ad Hom. Il. 4, 8 : Aristarco propone una derivazione dell’epiclesi da alalkein = “allontanare”, “difendere”.  

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odisseo ante litteram

Fig. 1. Oinochoe a rilievo ellenistica con Sisifo e Antikleia (già Berlino Antiquarium 361a, da LIMC s.v. ‘Antikleia’).

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LA GEOGR A FI A SIMBOLICA DEL MITO : LEMNO NELLA TR A DIZIONE POETICA GR ECA DA LL’EPOS OMER ICO A L FILOTTETE DI SOFOCLE  

Liv io Sbar della

a presenza di Lemno nella tradizione poetica greca, sebbene non si possa dire centrale, non è tuttavia neppure trascurabile : a parte il rilievo datole già nell’epos arcaico per quanto attiene alla vicenda mitica legata all’eroe Filottete, di cui tratteremo più avanti, l’isola ha un’evidente importanza nella geografia del mondo omerico e più di una linea di rapporto con il mito della guerra troiana. Inoltre sia la letteratura post-omerica di età arcaica, in modo particolare la quarta Pitica di Pindaro, sia la letteratura alessandrina della prima età ellenistica, segnatamente nell’opera di Apollonio Rodio e Callimaco, testimoniano il suo collegamento con una tradizione sicuramente molto antica sul mito argonautico, la cui fase poetica orale, come certifica almeno un riferimento allusivo a questa saga presente nell’Odissea, è quantomeno parallela nelle sue origini a quella dei poemi omerici. 1 E proprio dall’epica omerica è bene cominciare questa sommaria analisi sulla presenza di Lemno nel mito e nella tradizione poetica dei Greci, per capire quale sia il ruolo che, fin dalle origini di tale tradizione, l’isola riveste nell’orizzonte reale e immaginario della cultura ellenica. Tre sono essenzialmente gli aspetti che connotano l’identità storico-geografica e insieme mitica dell’isola già nell’ambito dell’epos iliadico e odissiaco. Il primo affonda le sue radici nella geografia commerciale dell’età micenea, di cui i poemi omerici, ricchi di memoria stratificata che parte dal periodo più antico della storia greca e attraversa la Dark Age, conservano evidenti tracce. 2 In una tavoletta in Lineare B della serie di Pilo (PY Ab 186), infatti, nell’ambito di una registrazione concernente l’acquisizione di schiave da parte del centro palaziale peloponnesiaco, compare, tra altri aggettivi etnici indicanti la provenienza delle donne

schiavizzate, 3 anche la forma femminile plurale ra – mi – ni – ja, che, con un buon margine di sicurezza, dovrebbe corrispondere a Lamniai (= Lhvmniai). Se questa lettura è corretta, è facile dedurne, come fanno Ventris e Chadwick, che già in età micenea le navi di Pilo si recavano a Lemno per commerciare schiave. 4 La collocazione geografica di Lemno non lontano dalla costa egea della Tracia e la presenza sull’isola – come si vedrà meglio più avanti – di una forte componente etnica tracia, che in età micenea doveva essere persino dominante, rendono estremamente probabile l’ipotesi che l’isola, già nel secondo millennio, fosse un ponte commerciale importante di schiavi provenienti dalla Tracia sia verso le rotte della vicina Asia Minore sia verso quelle della Grecia continentale micenea. 5 E di questo l’epos omerico sembra conservare un preciso ricordo, dal momento che in Il. 14, 230 Lemno viene menzionata come “città del divino Toante” e in Il. 7, 467-475 il nipote di Toante, Euneo, figlio di Issipile e Giasone, viene detto recarsi in Troade da Lemno con le navi per offrire agli Achei vino in cambio di bronzo e di schiave ; 6 nella stessa Iliade, ai versi 34-48 e 54-79 del ventunesimo libro, si insiste sul particolare del commercio schiavile tra gli Achei combattenti a Troia e l’acquirente lemnio Euneo, là dove si dice, a proposito del priamide Licaone, che Achille lo aveva catturato a Troia e venduto per cento buoi a Lemno, 7 e qui era stato poi acquistato dall’imbrio Eezione. D’altronde, proprio per la genealogia di Euneo e per l’interesse dei Lemnî al commercio schiavile, questi passi iliadici, in particolare quello del settimo libro, sembrano anche allusivamente collegati al mito, giunto per lunga tradizione fino al poema ellenistico di Apollonio Rodio (1, 609 ss.), secondo cui lo sterminio della componente maschile della popolazione di Lemno a opera di quella femminile, con l’unica eccezione del re Toante, padre di Issipile, sterminio al quale aveva fatto seguito il ripopolamento grazie

1  Si tratta del verso Od. 12, 70 nel quale la definizione allusiva della nave Argo come pa`si mevlousa, “celebrata da tutti”, non sembra lasciare dubbi sul fatto che la tradizione epica omerica conoscesse una parallela tradizione epica sul mito argonautico già evoluta e ampiamente diffusa – secondo K. Meuli, Odyssee und Argonautika, Berlin 1921, 52 ss. e D. L. Page, Homeric Odyssey, Oxford 1955, 2, la tematica odissiaca, almeno in parte, deriverebbe addirittura strutturalmente da quella del ciclo epico argonautico. 2  Sul ricco corredo di sopravvivenze micenee che contribuiscono a costituire l’incoerente stratificazione di elementi socio-politici, di realia e di tratti espressivi linguistico-formulari riscontrabile nell’epos omerico si vedano in particolare D. L. Page, History and the Homeric Iliad, Berkeley-Los Angeles 1959 ; A. M. Snodgrass, An Historical Homeric Society ?, « Journ. Hell. Stud. » 94, 1974, 114-125 e M. Durante, Eredità micenee in Omero, in G. Maddoli (ed.), La civiltà micenea. Guida storica e critica (nuova edizione riveduta e ampiamente aggiornata), Roma-Bari 1992, 159-177 (con appendice di aggiornamento a cura di L. Sbardella). 3  Sulle presumibili mansioni svolte dalle schiave nell’economia dei palazzi micenei, e sui riflessi dell’economia schiavile nelle registrazioni delle tavolette in Lineare B, si veda J. Chadwick, Burocrazia di uno stato miceneo, in G. Maddoli, La civiltà micenea, cit. 47-67 (= « Riv. filol. class. » n.s. 40, 1962, 337-358), il quale specifica che nelle tavolette micenee “le donne si designano in uno dei seguenti modi, e qualche volta in ambedue : o si descrivono con un aggettivo etnico, indicandone il luogo di provenienza – in alcuni

casi un luogo a levante dell’Egeo, se possiamo fidarci delle più ovvie identificazioni ; oppure si descrivono per mezzo del mestiere o del lavoro a cui sono addette” (pp. 52-53). 4  Vd. M. Ventris - J. Chadwick, Documents in Mycenaean Greek, Cambridge 19732, 410. A donne profughe, più che a schiave, almeno per quanto attiene al caso specifico di Pilo, pensa invece A. Sacconi, La fine dei palazzi micenei continentali : aspetti filologici, in D. Musti (ed.), Le origini dei Greci. Dori e mondo egeo, Roma-Bari 19862, 117-134, in particolare 126-129, anche se il suo argumentum ex silentio per cui nelle registrazioni queste donne non sono mai designate come do-e-ra, cioè doulai (“schiave”), non mi sembra essere cogente. 5  Del resto anche altri aggettivi di provenienza che si riscontrano nelle tavolette in Lineare B di Pilo in riferimento a gruppi di donne presumibilmente schiave, come mi-ra-ti-ja (“donne di Mileto”), ki-ni-di-ja (“donne di Cnido”) ed altri ancora, contribuiscono a individuare nella costa egea dell’Asia Minore e nelle isole ad essa antistanti la fascia geografica più interessata da movimenti di commercio schiavile in età micenea. 6  Sullo stretto rapporto tra i due luoghi iliadici vd. R. Janko, The Iliad. A Commentary iv (Books 13-16), Cambridge 1992, 187-188 ad 14, 229-230. 7  La stessa vicenda della vendita di Licaone a Lemno viene rievocata anche in Il. 23, 740-747, dove però la merce di scambio per lo schiavo è identificata in un cratere d’argento dato da Euneo a Patroclo e messo poi in palio da Achille come premio nei giochi funebri in onore dell’amico morto.

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1. Dalla storia micenea al mito epico: l ’ antica ‘Zanzibar’ egea

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la geografia simbolica del mito all’arrivo degli Argonauti e al loro accoppiamento con le donne locali, 8 era avvenuto per la devianza adulterina degli uomini lemnî a fare sesso con le schiave predate in Tracia anziché con le loro mogli. Anche Erodoto (6, 138-140), per giunta, dà una versione tutta filoateniese del mito della mescolanza etnica a Lemno, tra una componente barbarica e una componente ellenica, che ne fa risalire l’origine a un atto di razzia piratesca di schiave compiuto dai Lemnî a Brauron, sulla costa attica. E se è vero, secondo una denominazione attestata da varie fonti storiografiche (Thuc. 4, 109 ; Philoch. FGrHist 328 F 100 ; Diod. 10, 19, 6), che i Tirreni menzionati nel settimo Inno omerico come pirati rapitori del dio Dioniso sono da identificare con i Pelasgi del citato passo erodoteo, ossia con le popolazioni bilingui tracio-elleniche delle isole dell’Egeo settentrionale, Lemno e Imbro in particolare, si ricostruisce perfettamente un quadro storico in cui commercio schiavile e pirateria costiera erano associati nella fama egea dei Lemnî ; 9 questo quadro, del resto, è lo stesso perfettamente riassunto, sul piano del mito, ai vv. 798-802 del primo libro del poema di Apollonio Rodio, per bocca della regina lemnia Issipile che si rivolge a Giasone : “quando Toante, mio padre, regnava sulla città, / i nostri soldati andavano spesso su navi / a predare le terre di Tracia che stanno di fronte / e di là riportavano immenso bottino / e molte fanciulle” (trad. G. Paduano). Il ciclo epico troiano e quello argonautico, a partire dalla sua fase orale più antica, sembrano dunque conservare memoria storica dell’importanza che l’isola di Lemno ebbe per la Grecia micenea come emporio del commercio schiavile e rifletterla nei loro interrelati sistemi mitici.

Il secondo aspetto che connota Lemno nell’orizzonte mitistorico dell’epica omerica è la sacralità dell’isola in rapporto a una ben delineata dimensione cultuale. 10 In Il. 2, 721 s., nell’ambito del cosiddetto Catalogo delle navi, proprio in riferimento a Filottete assente dal novero degli eroi giunti a combattere a Troia, lo si dice “giacere … a Lemno divina”, Lhvmnw/ ejn hjgaqevh,/ con un epiteto impiegato in riferimento all’isola che, data la sua ricorrenza anche in Il. 21, 58 e 79, ha sì un valore formulare, ma non privo di significato. La natura vulcanica dell’isola, infatti, come hanno sottolineato vari studiosi, la rendeva particolarmente adatta all’esistenza in loco, probabilmente già da tempi molto antichi, 11 di riti del fuoco collegati sia al sacrificio animale sia alla lavorazione dei metalli, 12 complice anche la presenza sull’isola di

una forte componente etnica barbarica di origine tracia ; le popolazioni tracio-cimmeriche, come si sa, erano ben note per la loro abilità nella lavorazione dei metalli e famigerate, sul piano leggendario, per la loro selvaggia propensione al sacrificio cruento, finanche umano – si pensi in tal senso al mito rappresentato nell’euripidea Ifigenia in Tauride. Non stupisce, dunque, il fatto che nel sopradiscusso passo del settimo libro dell’Iliade (vv. 467-475) il lemnio Euneo vada in Troade interessato a commerciare con gli Achei non solo schiave, ma anche metallo (bronzo), né che nel mito epicorico collegato dalla tradizione a quello della saga argonautica Lemno sia teatro di un’efferata ‘ecatombe’ di uomini da parte delle donne (Pindaro, Apollonio Rodio) ; non stupisce soprattutto la presenza sull’isola di un culto di un dio vulcanico del fuoco e della lavorazione del metallo, Efesto, e il suo collegamento con la locale componente etnica tracia. In Il. 1, 590-594 Efesto, intervenendo in una lite tra Zeus ed Era, nel tentativo di mettere in guardia la madre dalla terribile ira del suo consorte, ricorda come egli stesso ne avesse fatto triste esperienza quando Zeus lo scagliò giù dall’Olimpo precipitandolo sull’isola di Lemno, dove fu raccolto e curato dai Sinti : gli stessi Sinti, nominati in questo episodio del mito divino che contiene in sé l’implicita giustificazione della presenza a Lemno di un antico culto del fuoco poi connesso con Efesto, sono definiti ajgriovfwnoi, “selvaggi, barbari nel modo di parlare”, in Od. 8, 293 s., 13 altro luogo omerico dove si ribadisce il collegamento sacrale del dio Efesto con Lemno (Sinthivda Lh`mnon per Apollonio Rodio 1, 608 = 4, 1759), nonché identificati come dei semitraci, ibridati con i Greci, da Ellanico di Lesbo (schol. ad loc. = FGrHist 4 F 71) – il loro nome (Sivntie~) richiama, del resto, quello attestato da Tucidide (2, 98) per una tribù stanziata nella regione del monte Cercine, tra Macedonia e Tracia (Sintoiv). Lo stesso culto dei Cabiri, divinità legate alla mitologia epicorica dell’Egeo settentrionale (Lemno, Imbro, Samotracia), che ebbe a Lemno uno dei suoi luoghi più importanti, con risvolti mitico-rituali coinvolgenti persino misteri antropogonici, sembra da mettere in relazione con l’esistenza, su questa e su altre isole vicine, di antichissime corporazioni di fabbri e lavoratori di metalli che si ponevano in relazione genealogica con l’Efesto lemnio, 14 relazione genealogica che viene testimoniata anche da Erodoto (3, 37), là dove riporta la credenza secondo cui i Cabiri erano figli del dio del fuoco e condividevano con questo un culto comune. 15 C’è da chiedersi per di più –

8  Al mito della rinascita di una componente etnica maschile sull’isola di Lemno a seguito dell’arrivo degli Argonauti si riferiscono sia Pindaro in Pyth. 4, 251 ss., con particolare attenzione al genos degli Eufemidi, sia Erodoto in 4, 145 ss., che attribuisce ai Pelasgi la responsabilità della cacciata dall’isola di questi discendenti degli Argonauti – lo stesso mito viene ripreso poi da Apollonio Rodio (4, 1755-1764) : si tratta dei cosiddetti Minii, che, nati a Lemno dal seme degli eroi giunti con Giasone, emigrarono dall’isola a Sparta, dove furono accolti benevolmente, quindi, da qui, parteciparono alla fondazione di Tera e poi della sottocolonia Cirene (su questa tradizione mitica si vedano per il passo pindarico il commento di P. Giannini, in B. Gentili et al., Pindaro. Le Pitiche, Milano 20064, 497-500 ad v. 252 ss., per il racconto erodoteo P. Vannicelli, Erodoto e la storia dell’alto e medio arcaismo (Sparta – Tessaglia – Cirene), Roma 1993, 32-33 e 128-129, per il rapporto tra le fonti R. Pretagostini, Cirene nella poesia greca fino al primo ellenismo (e in Erodoto), « Sem. Rom. » 7/1, 2004, 51-64). 9  Si veda in tal senso anche C. Ferone, Lesteia. Forme di predazione nell’Egeo in età classica, Napoli 1997, 75. La stessa identificazione tra i Pelasgi dell’Egeo settentrionale (Lemno, Imbro) e gli Etruschi sotto la comune denominazione di Tirreni, operata da varie fonti greche, potrebbe essere stata favorita, oltre che da un insieme di altri elementi mitistorici (per cui vd. M. Pallottino, Etruscologia, Milano 19847, 91-93), anche dal

fatto che entrambe le popolazioni erano dedite a un’intensa attività di pirateria. 10  Per un quadro d’insieme sui culti lemnî si veda L. R. Farnell, The Cults of the Greek States v, Oxford 1909, 374-395. 11  Si tenga presente l’elevato livello di sviluppo raggiunto dal sito lemnio di Poliochni già tra iii e ii millennio a.C., cioè nell’alta età del bronzo (per cui vedi, in generale, L. Bernabò Brea, Poliochni. Città preistorica nell’isola di Lemno i-ii, Roma 1964-76). 12  Si vedano soprattutto P. Y. Forsyth, Lemnos Reconsidered, « Echos monde class. » 28, 1974, 3-14 e W. Burkert, Homo Necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, trad. it. Torino 1981 (Berlin-New York 1972), 144148. I particolari del rito lemnio della purificazione dell’isola attraverso il ‘ritorno del fuoco’ sono riportati da Filostrato di Lemno (Her. p. 325 Kayser), che esplicita, tra l’altro, il senso di questo rito in rapporto a una nuova civilizzazione dell’isola indotta dai lavori artigianali connessi col fuoco. 13  L’epiteto ajgriovfwnoi si presenta come un equivalente semantico, con uguale funzionalità metrica ma differente funzionalità prosodica, del barbarovfwnoi impiegato in Il. 2, 867 in riferimento ai Cari. 14  Così Burkert, op. cit. 147. 15  Per la relazione genealogica tra Efesto e i Cabiri cfr. anche Acusilao, FGrHist 2 F 20, e Ferecide, FGrHist 3 F 48.













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2. Una terra sacra: culti epicorici lemnî





























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livio sbardella

quantunque in via di pura ipotesi non comprovabile sulla base delle fonti di cui disponiamo – se gli omerici Sinti, che nell’accogliere ed accudire sull’isola il dio in pericolo svolgono nei confronti di Efesto una funzione analoga a quella che nel mito epicorico cretese i Dattili Idei svolgono nei confronti di Zeus fanciullo, oltre a rappresentare un riflesso nel mito epico del legame tra Lemno e l’orizzonte etnico tracio, non abbiano anche una valenza religiosa legata al culto locale dei Cabiri : data la continuità di questo culto sin dal periodo pregreco che è emersa dagli scavi archeologici nel Kabeirion lemnio, dati i suoi risvolti antropogonici, sia a Lemno sia a Samotracia, per cui con il nome di Cabiro vi si indicava il primo uomo, 16 dato ancora il mito secondo cui i Cabiri, fuggiti da Lemno a seguito dell’eccidio degli uomini da parte delle donne, vi sarebbero poi tornati riportando il fuoco, e con esso la civiltà, 17 potrebbero i Cabiri rappresentare il riflesso, nella religione ormai grecizzata dell’isola, di quei protoabitanti di Lemno, abili nella lavorazione dei metalli e perciò collegati ad Efesto, che l’epos omerico conosce sotto il nome di Sinti ? Dell’esistenza sull’isola di un culto della Terra madre, di cui dà esplicita notizia Stefano di Bisanzio (s.v. Lh`mno~), 18 non vi è traccia nei riferimenti a Lemno presenti nell’epos omerico, ma vi è forse un riflesso proprio in quel mito della violenta ginecocrazia lemnia che, ben attestato nella tradizione poetica post-omerica e intrecciato da alcune fonti con quello argonautico, potrebbe contenere richiami a un contesto molto antico di matriarcato quantomeno rituale. Sebbene infatti poco si lasci argomentare in tal senso sulla base dell’ermetica allusività del riferimento pindarico contenuto in Pyth. 4, 251 ss., dove si dice semplicemente che Giasone e compagni, sulla via di ritorno dalla Colchide, 19 mivgen... / Lamnia`n t j e[qnei gunaikw`n ajndrofovnwn, “si mescolarono … al popolo delle donne di Lemno che uccisero gli uomini”, ben più è possibile arguire dalla ricchezza di particolari con cui Apollonio Rodio narra la tappa lemnia della nave Argo, collocata dal poeta alessandrino nel viaggio di andata verso la terra di Eeta. 20 In sede di anamnesi della peculiare assenza sull’isola di popolazione maschile, il racconto apolloniano non solo riferisce dell’atroce eccidio perpetrato per gelosia dalle donne ai danni dei loro mariti, padri e figli (1, 609-626), ma aggiunge anche che, a seguito di questo gesto estremo, le donne avevano cominciato a svolgere le attività produttive e militari tipiche degli uomini : quando la nave Argo si avvicina alle coste dell’isola, le donne di Lemno si presentano ad attenderla armate come

Amazzoni (1, 627-638). Mi pare non sia insensato, dunque, vedere in tutto ciò l’eco mitica di situazioni rituali connesse a un originario culto matriarcale della Terra ; tanto più che il dato della ginecocrazia omicida messa in atto dalle donne di Lemno viene recepito, implicitamente o esplicitamente, non solo dalla tradizione poetica, 21 ma anche da quella proverbiale sul cosiddetto Lemnion kakon, il “misfatto lemnio”, come esempio tanto esecrando quanto emblematico di un ordine sociale del tutto estraneo, nella sua ‘mostruosità’, al buon kosmos patriarcale ellenico di chiara ascendenza indoeuropea (cfr. Aesch. Choeph. 631 ss. e Herodot. 6, 138). 22 Ancora in età ellenistica Callimaco, in un componimento lirico di cui viene tramandato solo il primo verso (fr. 226 Pf.), l’endecasillabo falecio ÔH Lh`mno~ to; palaiovn, ei[ ti~ a[llh, evocava lo ‘spettro’ mitico del Lemnion kakon per mettere in guardia dei ragazzi di sesso maschile, giunti alla maturità sessuale (Dieg. x 1 pro;~ tou;~ wJraivou~ fhsivn), rispetto a una situazione che purtroppo non è dato definire con precisione. 23

16  Cfr. PMG 985 Page = Hippolyt. Refut. omn. haeres. 5, 17 gh` dev, fasi;n oiJ ”Ellhne~, a[nqrwpon ajnevdwke prwvth kalo;n ejnegkamevnh gevra~ ... h] Lh`mno~ kallivpaida Kavbiron ajrrhvtwn ejtevknwsen ojrgiasmw`n.

darico vd. ora L. Sbardella, Eroi senza veste. L’episodio lemnio della saga argonautica in Apollonio Rodio e in Pindaro, « Sem. Rom. » 11/2, 2008, 289-298. 21  L. Bettarini, Lh`mno~ ajmicqalovessa (Il. 24, 753), « Quad. Urb. » n.s. 74 (103), 2003, 70-88, propone ora anche per l’espressione omerica Lh`mno~ ajmicqalovessa (Il. 24, 753) un’etimologia da a[mikto~, “inospitale”, con riferimento al mito delle Lemniadi che uccidono i loro uomini e all’assenza di uomini sull’isola prima dell’arrivo degli Argonauti (pp. 83-85). 22  Come sottolinea Burkert, op. cit. 145, inoltre, il rito lemnio del ‘fuoco nuovo’ era concepito come attualizzazione del mito per cui, dopo lo stato anomalo e momentaneo della ginecocrazia, l’isola veniva purificata e ricondotta alla normalità attraverso il ritorno della componente maschile e di tutte le attività ad essa collegate, tra le quali anche quelle artigianali legate all’utilizzo del fuoco, come se si trattasse di una nuova civilizzazione dell’isola stessa. 23  “Historia Lemnia pueris formosis vel nihil aliud nisi tristem fortunae vicem vel iram feminarum (neglectarum ?) timendam ostendere potest” ; così R. Pfeiffer, Callimachus i, Oxford 1949, 216 ad loc. 24  Sulla più ovvia collocazione originaria della tappa lemnia nel viaggio di andata dell’impresa argonautica, sebbene così non sia in tutte le fonti letterarie e iconografiche che attestano questo episodio della saga, si veda quanto accennato sopra alla n. 19.

















3. Un limite simbolico

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17  Per l’interpretazione di questo mito vd. Burkert, op. cit. 147. 18  Lh`mno~: nh`so~ pro;~ th/` Qra/vkh/, duvo povlei~ e[cousa, ÔHfaistivan kai; Muv-

rinan, wJ~ ÔEkatai`o~ Eujrwvph/. ajpo; th`~ megavlh~ legomevnh~ (legomevnh dub. Meineke) qeou`, h}n Lh`mnovn fasi. tauvth/ de; kai; parqevnou~ quvesqai ;  

il culto sembra indirettamente confermato anche dal rituale epicorico dell’estrazione della “terra di Lemno” (cfr. Dioscur. 5, 97 e Galen. 12, 169 ss. Kühn). 19  La strana inversione temporale dell’episodio lemnio della saga argonautica rispetto a quello che sembra essere il suo più logico posizionamento sulla rotta da Iolco verso la Colchide, e non il contrario (vd. Giannini, in Gentili et al., op. cit. 497-498 ad Pind. Pyth. 4, 252), non è isolata, ma trova un riscontro cronologico molto alto nella testimonianza iconografica di un vaso etrusco da Cerveteri (vd. Gentili, in Gentili et al., op. cit. 107, nell’Introduzione alla quarta Pitica) : potrebbe giustificarsi con la volontà di mettere in qualche modo in rapporto diretto, nello sviluppo del mito, le feroci donne lemnie e la maga barbara Medea (per questo rapporto, d’altronde, cfr. Mirsilo di Lesbo, FGrHist 477 F 1). 20  Sul rapporto tra il luogo poetico apolloniano e il suo precedente pin 

Il terzo e ultimo aspetto della caratterizzazione di Lemno nella tradizione poetica greca, che emerge già dall’epos arcaico, è quello che identifica nell’isola una sorta di orizzonte geografico di demarcazione tra il mondo ellenizzato e la barbarie, il punto di confine sul mare tra l’area egea civilizzata e l’est/nord-est anatolico, pontico e tracio sentito nel ii millennio a.C., ossia nella fase micenea della storia greca, e ancora durante i successivi secoli bui, come un universo lontano, ostile e, in larga misura, selvaggio. Sia nel ciclo epico troiano, infatti, sia in quello argonautico, Lemno, con quanto delle vicende di queste due saghe aveva luogo sull’isola, assumeva un’ideale funzione di punto di non ritorno rispetto all’impresa che gli eroi greci si accingevano a compiere nella nemica Troade o nella remota Colchide. 24 Questo ruolo geografico-culturale di Lemno è piuttosto evidente nel mito argonautico così come viene narrato da Apollonio Rodio : la benevola accoglienza riservata a Giasone e compagni dalle donne lemnie, prive ormai da tempo di compagnia maschile, rischia di far esaurire lì l’impeto degli eroi al compimento della loro impresa e si connota come una pericolosa linea di discrimine tra la prosecuzione del viaggio e il fallimento della spedizione ; tanto che il virtuoso Eracle, rimasto alieno dalla malìa sessuale di gruppo che ha irretito gli altri Argonauti, redarguisce così i  

















la geografia simbolica del mito suoi compagni (1, 865-874) : “sciagurati, è forse sangue congiunto che ci allontana / dalla patria, o siamo venuti qui per bisogno di femmine, / trascurando le donne greche ? Si è forse deciso / di rimanere ad arare i bei terreni di Lemno ? / Non ci sarà per noi gloria davvero, se resteremo / qui rinchiusi con donne straniere … / Torniamo ciascuno alla patria, / e lui (Giasone) lasciamolo tutto il giorno nel letto di Issipile, / che popoli Lemno di figli e ne abbia gran fama” (trad. Paduano). 25 Lemno, dunque, è implicitamente figurata come pericoloso confine tra la patria greca e il mondo culturalmente altro, attrattivo e nello stesso tempo pieno di minacce, dove l’incontro e la promiscuità sessuale con le donne che hanno selvaggiamente ucciso i loro uomini funzionano quale banco di prova delle reali intenzioni degli Argonauti di proseguire nella loro impresa. Non dissimile, sebbene più sfuggente alla ricostruzione, si dimostra il ruolo di Lemno nel quadro mitico della saga troiana, tenendo conto soprattutto di un passo di Il. 8, 228-235, nel quale Agamennone, in un momento sfavorevole della battaglia, rampogna gli Achei ricordando i vanti di gloria e le promesse da loro pronunciate in occasione di un’ecatombe e del relativo banchetto che si erano tenuti a Lemno, prima di raggiungere Troia. Si tratta evidentemente di quella stessa eujwciva a cui fa riferimento anche il riassunto tematico dei Canti ciprii come ultimo episodio del viaggio di avvicinamento degli Achei a Troia (argumentum p. 41, 50-52 Bernabé) : 26 era l’occasione rituale durante la quale Filottete veniva morso da un serpente e a seguito della quale si decideva di abbandonare a Lemno l’eroe ferito. Il fatto che, secondo la tradizione iliadica, gli Achei sulla rotta per la Troade, pur avendo già compiuto ad Aulide, luogo del loro raduno e della partenza, i sacrifici con i quali avevano intrapreso la spedizione, rinnovassero proprio a Lemno, o nella vicina Tenedo, questa circostanza rituale e pronunciassero lì le promesse e i giuramenti con cui si impegnavano reciprocamente per l’ormai imminente conflitto non è privo di un preciso valore. Anche nella saga troiana, come in quella argonautica, Lemno costituiva il punto ideale di non ritorno, il limite superato il quale si entrava in una dimensione geografica, etnica e culturale diversa, ormai non più greca, in cui si doveva compiere l’impresa guerriera : Lemno era il luogo dove gli Argonauti mettevano a rischio e poi riaffermavano la loro volontà di proseguire verso la Colchide, Lemno era il luogo dove gli Achei rinnovavano i sacrifici rituali e i solenni giuramenti d’impegno nello sforzo bellico prima dello sbarco in Troade. Lo stesso abbandono di Filottete sull’isola, nella saga troiana, significava chiaramente l’identità di questo luogo come confine che poteva essere varcato solo da chi fosse in grado di prendere parte all’impresa di guerra : 27 l’eroe reietto dai suoi compagni viveva a Lemno una segregazione che lo collocava ai margini del 

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lo spazio mito-geografico del conflitto troiano, per esservi poi reintegrato in un secondo momento.





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25  Pindaro allude all’‘impresa sessuale’ collettiva degli Argonauti a Lemno nei termini di una vera e propria rifecondazione dell’isola, Pyth. 4, 254-257 : “e giacquero con quelle. / Fu allora che un giorno fatale, / o una notte, accolse in campi stranieri / i vostri (scil. degli Eufemidi, discendenti dei Minii) raggi di prosperità” (trad. B. Gentili), il che sposta per così dire geneticamente il confine della civilizzazione ellenica includendovi questo luogo in precedenza barbarico. 26  Dalle parole di Proclo, e[peita kataplevousin eij~ Tevnedon. kai; eujw 

coumevnwn aujtw`n Filokthvth~ uJf∆ u{drou plhgei;~ dia; th;n dusosmivan ejn Lhvmnw/ kateleivfqh, sembra potersi arguire che nel racconto dei Canti ciprii l’euj- wciva e il ferimento di Filottete avessero luogo a Tenedo (cfr. Ps. Apollod.

Epit. 3, 27) e il conseguente abbandono dell’eroe a Lemno (cfr. schol. ad Il. 2, 721). G. Avezzù, Il ferimento e il rito. La storia di Filottete sulla scena attica, Bari 1988, 38-41 ricostruisce le diverse varianti del mito attestate dalle fonti, tra le quali quella secondo cui l’eujwciva aveva luogo a Tenedo potrebbe essere

4. L’isola e il suo eroe: traslazione dei valori simbolici A favorire questa immagine di Lemno come luogo di confine non era soltanto la sua posizione geografica, punto di intersezione quasi perfetto tra le rotte che dalla Grecia continentale e dall’Egeo andavano verso la Tracia, la Troade e le terre pontiche, ma anche la sua storia etnicoculturale ambigua tra l’ellenico e l’anellenico, alla quale si è accennato in precedenza : a Lemno greco e non greco si incontrarono e si confusero probabilmente già dal ii millennio, facendo tradizionalmente di quest’isola una sorta di soglia marittima condivisa con l’alterità barbarica. Da qui si spiega anche, a mio parere, la scelta operata da Sofocle nel Filottete, non solo per motivi di tecnica drammaturgica, 28 di fare di Lemno il luogo in cui il civile e il selvaggio, il greco e il non greco, non si incontrano, ma si annullano, quindi l’isola deserta, non popolata : quella che nella consapevolezza mitistorica ellenica era una terra di molti popoli, Traci, Greci e certamente anche genti microasiatiche, dove si parlavano più lingue o persino idiomi ibridi, diventa per converso, nel dramma del tragediografo attico, la terra di nessuno, il deserto senza persone (vv. 1-2 ∆Akth; me;n h{de th`~ perirruvtou cqonov~ / Lhvmnou, brotoi`~ a[stipto~ oujd∆ oijkoumevnh). La stessa attività commerciale che caratterizzava Lemno fin dall’età micenea viene azzerata per contrasto nell’immagine dell’isola offerta dal dramma sofocleo, giacché ai versi 301-303 si dice che non vi è approdo, luogo dove fare scalo per chi vada per mare, e quindi la possibilità del commercio e dei conseguenti scambi umani (tauvth/ pelavzei naubavth~ oujdei;~ eJkwvn: / ouj gavr ti~ o{rmo~ ejstivn, oujd∆ o{poi plevwn / ejxempolhvsei kevrdo~, h] xenwvsetai). In questa prospettiva estrema l’immagine di Lemno come luogo di confine si esalta fino a farne il punto di demarcazione, simbolico più che geografico, tra la condizione di natura e quella storica dell’uomo, una dimensione liminale in cui umanità e ambiente naturale non si distinguono, ma si confondono. Nel dramma sofocleo, infatti, si assiste a una sorta di traslazione metaforica sulla figura e la vicenda di Filottete di parte almeno di quelle valenze connotanti che nella tradizione poetica anteriore erano legate all’isola, come se le caratteristiche del luogo che vengono dal profilo ambientale, dalla storia e dal mito fossero trasposte, in una ricercata simbiosi ideale tra uomo e ambiente, sul protagonista eroico della tragedia : Lemno è come svuotata dell’identità che le conferiscono la natura, il passato e la leggenda, ma questa identità non si perde, per essere invece assunta, se non  







tra le più antiche : nel qual caso, il fatto che l’Iliade sposti invece a Lemno la scena di questi eventi, cioè del rito collettivo degli Achei e del ferimento di Filottete, sarebbe ancor più ricco di implicazioni simboliche. 27  Secondo Avezzù, op. cit. 61 ss. Lemno nel quadro del mito troiano è anche il luogo del ‘sacrificio ostacolato e differito’ dal quale scampa Achille e Filottete ne diviene la vittima predestinata onde permettere all’armata achea di non perdere il suo eroe più importante : il che caricava ancora di più il ruolo dell’isola di un forte valore simbolico. 28  “La solitudine del protagonista era tratto comune ai drammi precedenti, ai quali si può al massimo rimproverare… una certa goffaggine. Da questo punto di vista, Sofocle non inventa, semplicemente rende verosimile ciò che Eschilo ha lasciato… irrisolto e che Euripide ha potuto fare credibile solo a prezzo di allentamenti della tensione drammatica”, così Avezzù, op. cit. 54.  



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livio sbardella

in tutti quantomeno in alcuni suoi elementi di maggior rilievo, dal profilo umano dell’eroe abbandonato che la abita. Ed è proprio questa traslazione di connotati che va dal piano dell’ambiente a quello dell’uomo, possibile solo nella misura in cui lo spazio geografico del mito si carica di valori simbolici adatti a essere manipolati in tal senso, a costituire, a mio giudizio, uno degli aspetti di maggiore innovazione nel modo in cui Sofocle ha riproposto sulla scena teatrale la fabula dell’eroe acheo reietto dai suoi compagni d’arme. Innanzi tutto, come si è già accennato, l’eroe sofocleo attrae su di sé, e riassume in sé, il senso di quell’ibridazione tra grecità civilizzata e selvatichezza barbarica che da sempre aveva connotato l’immagine di Lemno nella cultura ellenica, come se il tragediografo ateniese avesse voluto sintetizzare nel protagonista della tragedia le caratteristiche antropiche tradizionalmente riconosciute al luogo in cui si svolge la sua vicenda, facendo di lui un greco inselvatichito, relegato ai margini del mondo civile, in una sorta di limbo tra due identità. Molto significativa, in questo senso, è la reazione di sofferta nostalgia con cui nel dramma Filottete ritrova il contatto uditivo con la lingua greca (vv. 234-235 w\ fivltaton fwvnhma: feu` to; kai; labei`n / provsfqegma toiou`- d∆ ajndro;~ ejn crovnw/ makrw/)` : perché non semplicemente con la lingua in generale, dato che l’eroe non ascolta più da anni alcun suono articolato da voce umana ? Perché credo che nella memoria letteraria agente dietro la rappresentazione sofoclea di Lemno ci sia l’immagine dell’isola come terra di uomini ajgriovfwnoi risalente fino all’epica omerica, ragion per cui Filottete viene fatto comportare non esattamente come chi per lungo tempo non ha goduto di alcun contatto umano, ma piuttosto come chi ha vissuto in un luogo di ‘barbarie’ linguistica ; elemento, quello del contesto di barbarie linguistica, che con ogni probabilità doveva emergere invece in modo esplicito nella rappresentazione dello stesso mito da parte di Eschilo ed Euripide, i quali misero entrambi in scena, insieme al protagonista Filottete, un coro di indigeni Lemnî. 29 D’altra parte, la stessa inventio dell’assoluta solitudine di Filottete sull’isola, che costituiva appunto uno dei tratti di più forte differenziazione nel modo sofocleo di riproporre il mito rispetto agli altri due tragediografi, non sembra essere destituita da ogni possibile rapporto con specifici aspetti della mitologia epicorica lemnia ricostruibili dalle fonti, 30 in particolare con quella leggenda antropogonica della genesi del primo essere umano dalla Terra a cui si è accennato sopra. A pesare in tal senso c’è non solo la considerazione generale che la condizione estrema di Filottete, quale descritta nel dramma, mostra evidenti caratteri dell’iconografia dell’uomo primigenio così come rappresentata nell’immaginario di molte culture, ma anche, sul piano più specificamente testuale, l’inattesa e altrimenti poco spiegabile invocazione del coro rivolta proprio alla Madre Terra dalla quale tutto trae origine, 31 sincreticamente identificata con Rea e con la fri-

gia Cibele (vv. 391-402, ojrestevra pambw`ti Ga`, ma`ter aujtou` Diov~), nel momento in cui Neottolemo e il coro vogliono fare breccia nell’animo di Filottete ispirandolo alla massima fiducia nei loro confronti, come se Ge fosse una divinità con cui egli ha un legame particolare : sembra esserci in questo la suggestione di un mito sulla genesi a Lemno del primo uomo, nato dalla Terra. Inoltre, la stessa immagine di Filottete che fa brillare sull’isola la prima scintilla del fuoco, ai vv. 295-299 (ei\ta pu`r a]n ouj parh`n, / ajll∆ ejn pevtroisi pevtron ejktrivbwn movli~ / e[fhn j a[fanton fw`~, o} kai; sw/vzei m∆ ajeiv), contiene in sé un forte valore evocativo di una figura mitica come quella di Cabiro, l’uomo primigenio della tradizione epicorica lemnia, e dei riti locali del fuoco a essa collegati. Persino la natura vulcanica dell’isola trova un riflesso metaforico nell’ulcera mai rimarginata e sempre ‘eruttante’ di Filottete : ai vv. 782-784 la recrudescenza del dolore e lo ‘scoppio’ emorragico provocati dalla ferita vengono descritti nei termini di una imprevedibilità subitanea e devastante, come un evento di tipo sismico (devdoika , w\ pai`, mh; ajtelh;~ eujch; : / stavzei ga;r au\ moi foivnion tovd∆ ejk buqou` / khki`on ai|ma, kaiv ti prosdokw` nevon), e poco dopo, non a caso, compare l’unico esplicito riferimento presente nel testo della tragedia al fuoco vulcanico di Lemno (vv. 799-801 w\ tevknon, w\ gennai`on, ajlla; sullabwvn / tw/` Lhmnivw/ tw/`d j ajnakaloumevnw/ puriv / e[mprhson, w\ gennai`e ...). E in questa sovrapposizione metaforica la dusosmiva della ferita dell’eroe, su cui si insiste in più luoghi del testo (nel modo più esplicito ai vv. 876 e 890 s., ma anche ai vv. 7 e 39), finisce per essere anch’essa un richiamo a un aspetto specifico della geografia lemnia come rappresentata nel mito : le esalazioni maleodoranti tipiche di molte terre vulcaniche, che nel caso di Lemno hanno dato anche luogo alla variante leggendaria relativa alla tradizione del Lemnion kakon secondo cui le donne indigene sarebbero state punite da Afrodite con la dusosmiva e per questo rifiutate sessualmente dai loro uomini, sono appunto un altro aspetto dell’identità mitico-geografica dell’isola che si riflette in questo caso sulla persona fisica di Filottete. 32 Tuttavia c’è un aspetto della memoria storica e mitica legata all’isola di Lemno che più profondamente di altri si ritrova introiettato nella vicenda eroica di Filottete, in tal caso non soltanto come essa viene trattata nel dramma di Sofocle, ma più in generale in una parte della tradizione poetica di età arcaica e classica : è la fama dell’isola, sorta come si è visto fin dall’età micenea, quale luogo del commercio di schiavi. L’isola infatti doveva essere uno dei più antichi empori egei da cui uomini e donne ridotti in schiavitù erano acquistati, forse in alcuni casi persino catturati in loco, e deportati altrove. Quella del recupero di Filottete da Lemno a opera dei capi achei della spedizione troiana si presentava infatti, se non già a partire dal Ciclo epico 33 quantomeno nei tre grandi tragici di v secolo, con i

29  Sulla ricostruzione per grandi linee delle trame delle due tragedie di Eschilo ed Euripide vd. Avezzù, op. cit. 99 ss. 30  Un’intuizione questa che è già in parte in Avezzù, op. cit. 55, là dove lo studioso afferma che “l’assenza dei Lemnî in Sofocle non faceva che rendere verosimile la solitudine (di Filottete) ; ma, allo stesso tempo, apriva la scena su uno squarcio di esistenza primordiale, sollecitando il parallelo col tempo mitico che vide Lemno già una volta deserta di uomini e di riti, tra il crimine delle donne di Lemno e l’arrivo degli Argonauti”. 31  “Invece del pezzo lirico atteso, lo ‘stasimo’, il Coro canta e danza un breve brano giambo-docmiaco… per dichiararsi testimone della scandalosa consegna delle armi (di Achille) ad Odisseo. Questa testimonianza e soprattutto l’appello a una divinità sono assolutamente inattesi”, così Puc-

ci, in P. Pucci - G. Avezzù (edd.), Sofocle. Filottete, trad. di G. Cerri, Milano 2003, 205 ad vv. 391-402. 32  In generale, secondo Avezzù, op. cit. 59-60, “lo schema originale della storia di Filottete presenta impressionanti simmetrie col mito relativo alle donne di Lemno”, e tra queste anche il tema comune della dysosmia. 33  Nell’argumentum della Piccola Iliade (p. 74 s., 5-7 Bernabé) si dice soltanto Diomhvdh~ ejk Lhvmnou Filokthvthn ajnavgei, ma l’Epitome dello pseudoApollodoro (5, 8), non è chiaro in che misura dipendente dalla versione epico-ciclica, menzionando Odisseo, oltre Diomede, come partecipante alla spedizione per il recupero di Filottete, parla vagamente di un convincimento di Filottete da parte sua (∆Odusseu;~ ... peivqei plei`n aujto;n ejpi; Troivan).



























la geografia simbolica del mito connotati di una ‘caccia’ all’uomo, il cui intento era quello di condurre via dall’isola l’eroe, insieme al suo arco, a forza o con l’inganno, quindi più come uno schiavo che come un uomo libero : complice lo stato di abbrutimento ferino della sua condizione di reietto, che ne veniva addotto a parziale ‘giustificazione’ forse non solo nella tragedia di Sofocle, ma anche in quelle omonime di Eschilo ed Euripide, il protagonista eroico era fatto oggetto in tutte queste rappresentazioni del mito di una forma di

tentata cattura o di doloso raggiro. 34 Anche l’insistenza su questo particolare aspetto della vicenda mitica, nel Filottete sofocleo (vv. 101-102 e soprattutto 617 s. oi[oito me;n mavlisq∆ eJkouvsion labwvn, / eij mh; qevloi d∆, a[konta) come del resto in quelli perduti degli altri due tragediografi, sembra dunque rientrare nel complesso quadro sin qui delineato di sovrapposizioni ideali tra l’identità mitistorica dell’isola di Lemno e la figura o la vicenda dell’eroe abbandonatovi.

34  Sul fatto che questo elemento strutturale fosse comune alla trama di tutte e tre le tragedie relative al mito di Filottete messe in scena dai tre maggiori tragediografi attici dà certezza la fondamentale testimonianza di Dione di Prusa, che alla fine del i secolo d.C. poteva ancora leggere tutti

e tre i drammi nella loro interezza e metterli a confronto tra loro nell’Or. 52 : nel secondo capitolo si parla della “persuasione costrittiva” esercitata ai danni di Filottete come un tema condiviso dai tre drammi.



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LA FA BBR ICA ZIONE DELLA SPOSA Diego Lanza

L

a storia di Pandora ci è giunta in due versioni molto simili l’una all’altra, sì che spesso sono state considerate una sola e come tale esaminata. In entrambi i casi a introdurla c’è un fuggevole cenno al prometeico furto del fuoco, peraltro non sviluppato in nessuno dei testi a noi noti. In risposta alla sottrazione fraudolenta, Zeus a propria volta progetta e attua un inganno donando agli uomini, sotto l’apparenza più seducente, un male dal quale non potranno mai più liberarsi :  

E subito, come risposta al fuoco, fabbricò un male per gli umani. Secondo il volere del Cronide, l’Ambidestro modellò dalla terra un essere simile a una pudica vergine ; la dea dall’occhio splendente Atena la cinse, la agghindò con un abito argenteo e le dispose con le sue mani sul capo un velo lavorato, meraviglia a vedersi. Pallade Atena le circondò il capo con corone fiorenti di amabili fiori di campo e le pose in testa una corona dorata che aveva fatto lo stesso Ambidestro con le sue mani, per soddisfare Zeus padre. Sopra ci aveva lavorato molte figure di belve, meraviglia a vedersi, quante la terra e il mare nutrono, terribili, coprendole tutte di grazia, ed erano meravigliose, simili ad animali viventi. Dopo dunque che ebbe fabbricato un bel male – invece di un bene – la condusse fuori dove si trovavano gli altri dei e gli uomini, superbamente adornata dalla figlia dall’occhio splendente di tremendo padre. Meraviglia prese gli dei immortali e gli uomini mortali, quando ebbero visto l’insuperabile inganno che non lascia scampo agli uomini. 1

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Così nella Teogonia. Il racconto degli Erga è un po’ più ampio e consta di due segmenti che ad alcuni studiosi sono sembrati l’uno il doppione dell’altro : nel primo, più breve, Zeus comanda, nel secondo le diverse divinità eseguono l’ordine ; la ripetizione non deve tuttavia sorprendere perché è tratto ricorrente della dizione epica.  



All’illustre Efesto ordinò di mescolare subito terra e acqua e di introdurvi voce umana e forza, di farla simile alle dee immortali, bella amabile figura di vergine ; ad Atena poi di insegnarle i lavori, tessere la tela lavorata con arte ; all’aurea Afrodite di circonfonderne il capo di grazia, di struggente desiderio e di cure che fiaccano le ginocchia ; all’uccisore di Argo Ermete, il messaggero, di inserirle uno spirito di cagna e un animo mendace. Così disse, ed essi obbedirono a Zeus, il signore figlio di Crono, e subito dalla terra l’illustre Ambidestro plasmò un essere simile a una pudica vergine, secondo la volontà del Cronide ; Atena, la dea dall’occhio splendente, la cinse e la agghindò, le dee Grazie e la veneranda Persuasione le misero addosso collane dorate ; le Ore dalle belle chiome la coronarono di fiori primaverili e il corpo le fu tutto adornato da Pallade Atena. Ma nel suo petto il messaggero uccisore di Argo collocò inganni, discorsi ambigui e un animo mendace, secondo il volere di Zeus che tuona profondo. L’araldo degli dei le dette quindi voce e chiamò questa donna Pandora, perché tutti gli abitanti delle dimore olimpie le avevano dato un dono, pena per gli uomini mangiatori di pane. Poi, dopo che ebbe compiuto l’insuperabile inganno che non concede scampo, il padre spedì il veloce messaggero degli dei, l’illustre uccisore di Argo, a recare il dono a Epimeteo. Epimeteo non tenne conto di quel che Prometeo gli aveva detto, di non accettare mai un dono da Zeus olimpio, ma di respingerlo indietro, perché non ne venisse male ai mortali. Egli invece lo accettò e solo quando già il male l’aveva raggiunto capì. 2  











1  Hes. Theog. 570-589.

Come si vede, le versioni di Teogonia e di Erga si corrispondono anche in alcune frasi o in alcuni sintagmi comuni. Si possono però notare due differenze : - la vergine degli Erga non è soltanto bella come una dea, ma è stata istruita in ogni sapere femminile e dotata della capacità di sedurre ; il suo animo inoltre nasconde falsità e inganno ; - essa non è esibita all’ammirazione, ma mandata in dono, si direbbe di nascosto, a Epimeteo che, nonostante l’avvertimento del più accorto fratello, cade nel tranello. Non è inutile dunque dedicare qualche attenzione ai due diversi finali. Il primo : “la condusse fuori (ejxavgage) dove si trovavano gli altri dei e gli uomini”. Ci si è interrogati se con questo “dove” il narratore volesse riferirsi a Mecone, un po’ enigmatico punto di partenza di tutto il precedente brano dedicato a Prometeo. Il richiamo presupporrebbe non solo come dimostrata l’esistenza di una testualità unitaria della Teogonia ancora da provare, ma soprattutto non aggiunge alcun elemento di delucidazione né a questo né a quell’episodio. È piuttosto da spiegare il motivo di un’esibizione in nulla funzionale al successo dell’inganno, che rischia di risolversi in un’accattivante richiesta di plauso delle divinità impegnate nell’impresa per l’abilità dimostrata. Più chiaro il secondo finale : la giovane bella e infida è portata a Epimeteo come dono per appartenergli. Nella Teogonia questa destinazione è taciuta, ma ad essa si accenna nell’anticipazione dei vv. 511-514 : “Per primo egli ricevette in moglie la vergine foggiata da Zeus”. Entrambe le narrazioni ricevono dai loro narratori ciascuna una diversa contestualizzazione, ma i brani si corrispondono nella cornice : si aprono entrambi con un nesso esplicativo :  















Da questa infatti (gavr) è il genere delle deboli donne (Theog. 590) Prima infatti (gavr) le stirpi degli uomini vivevano ... (Op. 90)

e si concludono con la comune gnome che ribadisce il primato supremo di Zeus :  

Così non è possibile ingannare o trascurare l’intento di Zeus (Theog. 613) Così non è in alcun modo possibile sottrarsi all’intento di Zeus (Op. 105).

Sono però diversi nel carattere prima ancora che per il contenuto : nella Teogonia abbiamo una sequenza gnomicoproverbiale, negli Erga un racconto considerato, per lo più ma non a ragione, la continuazione del precedente. Così la Teogonia :  



Da questa è infatti il genere delle deboli donne, [da questa è infatti il genere rovinoso e le razze delle donne] grande male per i mortali, che abitano con i loro uomini, avendo parte non della rovinosa miseria, ma della sazietà. Come quando nelle arnie protette le api nutrono i fuchi, compagni delle sventure : quelle tutto il giorno faticano a disporre i biondi favi, questi, invece, restano all’interno dei protetti alveari e ammassano nel loro ventre l’altrui lavoro. Così l’altitonante Zeus impose ai forti uomini come malanno le donne, compagne delle sventure.  

2  Hes. Op. 60-89.

la fabbricazione della sposa Diverso male in luogo del bene si procura chi, evitando le nozze e le funeste opere delle donne, non vuole sposarsi e giunto a rovinosa vecchiaia manca di un sostegno ; egli vive senza che gli manchi il necessario, ma quando egli muore i suoi averi se li dividono lontani parenti. A chi è toccato di sposarsi e che possiede una buona moglie, salda nei propri pensieri, il male tuttavia si alterna al bene per l’intera vita ; a chi invece è toccata un’infausta genia vive con l’animo in preda a inestinguibile afflizione e il suo male è senza rimedio. Così non è possibile trascurare o sottrarsi all’intento di Zeus. 3  





Il brano è stato oggetto di diverse interpretazioni, la maggioranza delle quali ha però trascurato la specificità del testo in favore di osservazioni generali sulla rappresentazione del genere femminile e della sua funzione nell’antropogonia esiodea. Tornerò più tardi su queste letture ; ora preme di definire il contesto gnomico cui prima l’allegoria dell’alveare e poi il seguito delle massime fanno esplicito riferimento : il gamos, il matrimonio e la famiglia, quale ineludibile istituzione sociale che garantisce la trasmissione patrimoniale, la sopravvivenza dell’oikos. La moglie fuco è colei che divora quanto l’uomo ammassa con il proprio lavoro, ma egli non può farne a meno se vuole avere a chi lasciare oltre al nome i propri averi e non disperderli tra eredi quasi sconosciuti. La scelta è tuttavia rischiosa, come mostra il coerente repertorio gnomico di seguito sviluppato sulle disgrazie del matrimonio. Unica, ma solo parziale, eccezione è quella di chi trova una buona moglie, una di quelle donne che, riprendendo il motivo dell’alveare, Semonide definisce, di contro alla donna fuco, la donna ape. Le donne (gynaikes) di cui si parla in questo brano sono dunque essenzialmente le mogli, e il luogo del loro operare, o per lo più del loro mal operare, l’interno della casa. Tutto ciò si adatta all’invenzione di Zeus : quel che gli dei fabbricano per suo ordine non è altro che una sposa ; alla sposa riconducono l’abito bianco (ajrgurevh/ ejsqh`ti) il velo (kaluvptrhn), la corona (stefavnhn) dorata o di fiori di campo, al rito matrimoniale la sua esibizione pubblica (ejx- avgage). 4 È dunque la specifica funzione di sposa ciò che caratterizza la pudica vergine (aijdoivh parqevno~) inventata come supremo malanno per gli uomini e che rende a Zeus più sopportabile il furto del fuoco. La contiguità della parthenos con la vera e propria nymphe è d’altronde ben presente nei pochi passi in cui il termine ricorre nell’epica arcaica. Il vocabolo non è frequente in Omero : tre occorrenze nell’Iliade e tre nell’Odissea. Astioche, la “pudica vergine” figlia di Attore, è sorpresa e ingravidata da Ares (Il. 2, 514)¸ a parqevnoi e a hjivqeoi e alle loro proverbiali schermaglie amorose si fa riferimento in Il. 18, 593 e 22, 127. In Odissea (6, 33, 190 e 228) l’unica parqevno~ è Nausicaa, la cui presentazione è particolarmente significativa : “È quasi l’ora delle tue nozze ... – l’ammonisce Atena – non resterai più a lungo vergine” (Od. 6, 27-33). Non è diverso in Esiodo. A parte l’epiteto formulare Dike parthenos (Erga 256, 519, 699), l’unica occorrenza fuori, ma fino ad un certo punto, del racconto di Pandora, l’abbiamo nella già citata anticipazione di Theog. 514-515 : lo stolto Epimeteo riceve in moglie (gunai`ka) la vergine (parqevnon)  

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3  Hes. Theog. 590-613 ; che 590 e 591 siano alternativi è riaffermato da West. N. Loraux (Sur la race des femmes et quelquesunes de ses tribus, « Arethusa » 11, 1978, 43 ss., poi in Les enfants d’Athéna, Paris 1981, 75 ss. da cui cito) propende per conservarli entrambi o comunque salvare 591 ; non convince però l’interpretazione che ne dà, considerando fu`la suddivisione di gevno~ : fu`la gunaikw`n è circonlocuzione che troviamo anche in Omero (Il. 9, 130 e 272) e il plurale fu`la è dovuto assai probabilmente alla metrica ; si veda la corrispondente espressione fu`lon ajoidw`n (Od. 8, 481).  











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foggiata da Zeus. West trova qualche difficoltà nell’accettare questa costruzione, ma, a parte l’ordine delle parole, necessitato forse dalla metrica, mi sembra che usare parqevnon come attributo di gunai`ka risulti ancora più difficile, salvo si voglia suggerire una immotivata castità di Epimeteo. 5 La figura della parthenos è sempre legata per contiguità o per esclusione a quella della sposa e quindi al gamos col quale essa diventa gyne, moglie e madre, e occupa il suo posto nell’oikos. Questo si vede bene nel brano conclusivo degli Erga :  



Prima infatti la stirpe degli umani viveva sulla terra al riparo dei mali, lontano dalle fatiche e dai dolorosi morbi che danno la morte agli uomini, ma fu la donna che, sollevato con le proprie mani il coperchio della giara, li disperse e causò agli umani mali luttuosi. Solo qui allora Speranza nell’integra casa dentro rimase sotto gli orli della giara e non se ne volò via, perché prima essa rimise il coperchio sopra la giara secondo il volere dell’adunatore di nubi Zeus dallo scudo caprino. Altri infiniti malanni vagano tra gli uomini : piena è la terra di mali, pieno ne è il mare. I morbi diurni e quelli notturni da sé si aggirano tra gli uomini, procurando mali ai mortali silenziosamente perché l’accorto Zeus ha tolto loro la voce. Così non è in alcun modo possibile sottrarsi all’intento di Zeus. 6  



Il brano è solitamente letto come la continuazione della storia precedente e come il narratore lo propone di fatto lo è ; tuttavia non è difficile scorgervi le tracce di un precedente diverso racconto. Si parla infatti di una giara, cui non si era fatto prima alcun cenno, ma che si presuppone come nota. Alcuni studiosi moderni spiegano che è stata la donna a portarla con sé, ma anzitutto questo non è né detto né lasciato intendere, in secondo luogo appare strano che una sposa porti una giara quale corredo di nozze. Più facile pensare a un altro mito, secondo cui i mali del mondo dipendono dall’anthropos, senza distinzione di sesso, che ha voluto aprire il recipiente che tutti li conteneva. È appunto la storia che troviamo in Babrio, che adempie la medesima funzione eziologica :  



Zeus, riuniti tutti i beni in una giara, dopo averla coperta la pose presso l’uomo. Ma l’uomo incontinente (ajkrath;~ a[nqrwpo~), desiderando sapere che cosa vi fosse dentro, sollevò il coperchio e li lasciò andar via alle dimore degli dei, volare lì, in alto dalla terra. Rimase solo la speranza, che il coperchio rimesso aveva trattenuta. Perciò la speranza sola convive con gli uomini, per darci la promessa di ciascuno dei beni fuggiti. 7  

È difficile pensare che si tratti di una variazione del racconto esiodeo ; l’enfasi degli Erga (“fu la donna che, sollevato con le proprie mani il coperchio della giara ...”) suggerisce piuttosto un riuso di una storia già conosciuta a un nuovo più specifico contesto. 8 Che i mali (e i beni) degli uomini fossero rinchiusi in recipienti apprendiamo d’altronde dalle parole che con intento consolatorio Achille rivolge al vecchio Priamo giunto a riscattare il corpo del figlio :  





Due giare ci sono sulla soglia di Zeus dei doni che egli ci dà, l’una dei mali, l’altra dei beni. 9  

4  Cfr. Il. 18, 492 ss. ; lo nota efficacemente Loraux, cit. 83. 5  Lo stesso West segnala tuttavia il passo senofonteo (Cyr. 4, 6, 9) in cui Gobria offre a Ciro in moglie (gunai`ka) la propria figlia in età da marito (qugavthr parqevno~). 6 Hes. Op. 90-105. 7  Babr. 58. 8  Così già W. Pötscher, s.v. in Kl. Pauly iv 453 : “Die Fassung bei Babr. scheint die ältere zu sein”. 9  Il. 24, 527-528.  



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Il motivo dell’apertura e della dispersione è presente nel racconto dell’otre dei venti affidato da Eolo a Ulisse e ritorna come tratto novellistico : i ginn rinchiusi nel boccale di Salomone delle Mille e una notte o lo spirito nella bottiglia dei fratelli Grimm. 10 Ma perché la donna solleva il coperchio ? Il narratore non lo spiega e credo che qualsiasi interpretazione psicologica sia superflua ; quel che importa è che la vergine, divenuta moglie, come tale si muove per la casa di cui è la padrona. 11 Che cosa viene disperso col suo atto ? Infiniti malanni (muriva lugrav) vagano (ajlavlhtai) tra gli uomini. Due versi dopo, questi malanni acquistano maggiore consistenza : sono i morbi che si aggirano in piena autonomia (aujtovmatoi) di giorno e di notte e sorprendono senza rumore gli uomini. È un quadro sicuramente inquietante, un quadro non molto consueto al mondo greco. Automatoi segnala un’indipendenza che non si addice alle malattie solitamente inviate dalla divinità. L’immagine suggerita è piuttosto quella dei demoni babilonesi, demoni in gran parte delle malattie e con le malattie addirittura identificabili, e tuttavia demoni, entità malefiche autonome da cui ci si può guardare ricorrendo a specifiche norme di scongiuro. 12 L’apertura della giara ha dunque popolato il mondo di demoni malefici. Si tratta di un esito ben diverso da quello proposto nella Teogonia : non dei soli guai del matrimonio qui si parla, ma della scomparsa della felicità dal mondo. A dispetto di quel che il narratore ribadisce nella gnome conclusiva, si può considerare lo scenario che si è disegnato ancora sotto il pieno rassicurante controllo di Zeus ? Ma, prima di passare a valutare meglio il senso di questa differenza, mi sia consentita una breve osservazione sui vv. 80-82, sul nome cioè di Pandora che solo qui viene enunciato. Che l’etimologia offerta dal testo esiodeo sia impossibile è stato già sufficientemente dimostrato ; il nome non può assumere in alcun modo una connotazione passiva : Pandora è colei che dona, non colei cui si dona. Il problema tuttavia non è la correttezza dell’etimo, ma l’enunciazione di un nome che non trova riscontro altrove. West ricorda l’antica espunzione di Lehrs dei vv. 81-82 e la sua interpretazione, non condivisa, seppur definita geniale da Aly : “Ermes chiamò costei donna” (ojnovmhne thvnde gunai`ka). 13 Ma a disturbare, più che il nome di Pandora e la sua falsa etimologia, è la definizione di “donna” per una vergine che deve ancora andar sposa. Si potrebbe suggerire un diverso taglio indolore dalla cesura pentemimera del v. 80 alla pentemimera del v. 82, ottenendo qh`ke qew`n kh`rux / ph`m’ ajndravsin ajlfhsth`/sin. Si tratterebbe di una glossa facile da inserirsi in un’esecuzione orale quale doveva essere quella più antica degli Erga. Che fare allora ? Espungere ? Ma espungere da che cosa ? Se ho insistito a segnalare gli scarti di un testo particolar-

mente ispido non è per cercare di ripristinarne un’impossibile purezza, ma al contrario per mostrare il difficile lavoro compositivo dell’autore, o degli autori, che ha, hanno, tentato di rendere coerente una multiforme pluralità di segmenti narrativi. L’espunzione presuppone il riconoscimento di una cronologia, di un prima (il testo originario) e di un dopo (aggiunte, integrazioni, modifiche). Ma la tradizione dell’esecuzione aedica, pur distendendosi in una diacronia, non ci permette alcuna scansione cronologica. I testi sono in continuo movimento, e il lavoro del narratore è quello del rimodellatore, integratore, restauratore di quel che riceve ed è chiamato a trasmettere. L’accanimento filologico pretende di sovrapporsi a questo lavoro, a spezzarne la continuità e a fissare delle scelte che troppo spesso obbediscono ai criteri di coerenza dello studioso e della società cui egli appartiene piuttosto che a quelli propri dell’antico narratore e del suo pubblico. Su chi si accosta ai testi della tradizione esiodea incombe però un altro non minore pericolo : pretendere di superare incongruenze e scarti del testo ricorrendo a nessi di inferenza che possono apparire sì persuasivi, ma solo perché soddisfano esigenze di senso nostre, che però non trovano riscontro nel racconto antico. Si può dire che in questo caso il testo sia sostanzialmente riscritto, la storia riraccontata, né più né meno che se il critico si integrasse nel seguito dei narratori. Un esempio di quello che intendo può vedersi in un passo di uno studioso peraltro di grande rigore e intelligenza. Kurt von Fritz, volendosi attenere a quanto di essenzialmente obiettivo si ricaverebbe dai racconti esiodei di Pandora, ce ne offre questa sintesi :

10  Il motivo dell’apertura inconsulta del recipiente può essere usato con due esiti all’apparenza opposti : dispersione dei beni posseduti, dispersione dei mali che, restando nel recipiente, erano mantenuti sotto controllo. I molti che hanno preteso e ancora pretendono nel narratore esiodeo un’assoluta coerenza di invenzione sono destinati, ahimé senza speranza, a tentare di risolvere un enigma prodotto dal sovrapporsi e intrecciarsi di narrazioni diverse. 11  Si veda J. D. McLaughling, Who is Hesiod’s Pandora ?, « Maia » 33, 1981, 71 s., secondo il quale tuttavia lo svuotamento della giara non rappresenterebbe altro che la dilapidazione dei beni dell’oikos. 12  J. Bottéro, La plus vieille religion. En Mésopotamie, Paris 1998, 137 e 366 s. ; un elenco di demoni mesopotamici con esemplificazioni di testi anche

esorcistici in G. Pettinato, Angeli e demoni a Babilonia, Milano 2001, 114 ss. e 162 ss. L’annotazione di West “ajlavlhtai suggests a personification of the evils”, rischia di risolversi in una tautologia, perché per Esiodo personificare significa di fatto considerare demoni, come nel caso di alcuni figli della Notte (Theog. 223-232) ; più interessante il confronto con i tri;~ muvrioi fuvlake~ che si aggirano invisibili (hjevra hJssavmenoi) tra gli uomini (Op. 225), come vagante e invisibile (hjerofoi`ti~) è l’Erinni in Il. 9, 571 e 19, 87. 13  W. Aly, Die literarische Ueberlieferung des Prometheusmythos, « Rh. Mus. » 6, 1913, 545 ss., ora in E. Heitsch (ed.), Hesiod, Darmstadt 1966, 327 ss. (336). 14  K. von Fritz, Pandora, Prometheus and the Myth of the Ages, « Rev. relig. » 11, 1947, 227 ss. ; tradotto in Heitsch, cit. 367 ss., da cui cito.













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Prometeo ha portato il fuoco ai mortali. Per compensare questo beneficio loro concesso contro la sua volontà, Zeus decide nella sua ira di mandare agli uomini un male che essi accettino con gioia ; in questo modo si tireranno addosso da sé il loro destino. Dà quindi ordine agli dei di costruire una bella donna, che possieda uno spirito avveduto e conosca molte arti utili, ma che nel suo cuore sia astuta e falsa. Invia questa donna come dono a Epimeteo, il fratello di Prometeo. Essa non porta però solo se stessa, ma anche una giara che contiene ogni male. Prometeo ha messo in guardia il fratello dal dono che gli dei gli stanno mandando, ma Epimeteo, cui manca la preveggenza del fratello, non fa caso a questo avvertimento e accetta il dono degli dei. Pandora, mossa dalla curiosità, apre la giara e, sebbene poi spaventata cerchi di richiuderla immediatamente, tutti i mali fuggono e si abbattono sugli uomini. Solo la speranza rimane prigioniera nella giara. 14  



Non interessa qui notare quanto il critico abbia tralasciato : a chi riassume è concesso omettere tratti che egli giudica meno significativi, ma quel che non gli si può concedere è introdurre integrazioni e spiegazioni. Sono appunto le espressioni sottolineate : sembrano particolari, ma non sono di piccolo conto. La prima risolve come coerente successione un incongruo salto narrativo, la seconda e la terza spostano il lettore da un contesto eziologico ad uno eminentemente psicologico.  















la fabbricazione della sposa Ma c’è un guaio ancora maggiore : il lavoro di coerentizzazione di molti interpreti moderni finisce col suggerire l’illusione di poter disporre direttamente di un mito, quando si è di fronte a un testo poetico, al risultato cioè di una più o meno complessa operazione di mise en récit di storie non necessariamente già connesse l’una all’altra. Operazione complessa, tanto più complessa in quanto il poeta arcaico procede piuttosto per accumulo che per selezione, tende a conservare e ad aggiungere, non a preoccuparsi di un’astratta unità compositiva. 15 Il racconto delle storie tradizionali è prima di tutto un esercizio di memoria sociale e il cantore è il custode di questa memoria. Ma ricordare è anche dare ordine alle storie ; perciò, come nota Blumenberg, la narrazione del mito è racconto del passato, per sua natura testimonianza secondaria, che presuppone un tempo trascorso. 16 Ed è con questo racconto, con questa testimonianza secondaria, che noi abbiamo a che fare, con i suoi tentativi di mettere ordine secondo uno specifico linguaggio sottomesso alle norme esecutive che gli sono imposte, norme che molto sbrigativamente noi compendiamo nella definizione di “genere poetico”. 17 La svolta degli studi sul mito di Pandora è segnata dall’interpretazione datane al principio dello scorso secolo da Jane Ellen Harrison. Harrison dedica in verità solo poche pagine dei suoi Prolegomena a Pandora, perché ha da poco pubblicato un denso articolo, Pandora’s box, sul « Journal for Hellenic Studies ». 18 La studiosa non svolge un’esegesi complessiva del passo esiodeo, ma punta la propria attenzione sull’apertura della giara e sul rito che ancora in epoca storica in qualche modo sembra ricordarla : la pythoigia che aveva luogo nella prima giornata della festa ateniese delle Antesterie. È qui che Harrison trova una connessione tra l’apertura delle giare e il diffondersi delle keres, le anime dei morti che vagano indisturbate e inquietanti – spettri mascherati – per la città, finché, a conclusione del terzo giorno della festa, viene loro comandato : “Andate via, Kere, le Antesterie sono finite”. L’irrompere dei revenants segna l’interferenza del mondo sotterraneo ed è appunto la terra, la terra madre, la donatrice di ogni cosa, ciò che richiama, secondo la studiosa, la figura di Pandora. In queste pagine è anticipato il nuovo quadro che nel libro viene compiutamente delineato : la specificità di divinità femminili accanto e in contrasto con le divinità maschili, le diverse logiche che sottendono le rappresentazioni e che ne accompagnano il culto, la loro conflittualità. Making a Goddess e Making a God costituiscono così due distinti capitoli del volume. Nel primo di questi Pandora è riportata all’ambito divino cui pertiene il suo nome, epiteto della Terra madre, e il suo apparire nel mondo confrontato, se non identificato, con quello di Persefone, nel contesto di quella che la studiosa definisce una “mitologia matriarcale”. È perciò nella “mitologia patriarcale” esiodea che « la sua grande figura è singolarmente mutata e

sminuita » e abbassata al ruolo di demone o evocatrice di demoni. 19 La riscoperta del femminile come dimensione teologica non implica però in Harrison quella concezione della separatezza dei sessi che trova invece la propria definizione e celebrazione nella produzione critica degli anni Settanta. È tale separatezza a informare il paradigma dell’approccio alle figure mitologiche femminili, in particolare a Pandora, di Nicole Loraux. Il suo saggio, pubblicato la prima volta nel 1978, annuncia già nel titolo quali implicazioni la studiosa ricavi dalla storia narrata nel passo della Teogonia. È il bistrattato v. 591, doppio o ripetizione di 590 (ma quale dei due sarebbe da espungere ?), il motore della sua indagine, e in particolare il sintagma gevno~ kai; fu`la gunaikw`n. Di qui Loraux sviluppa un’antropogonia esiodea di due tempi – un’umanità maschile e una femminile fino ad un certo punto distinte e separate – e la inserisce in un quadro di rigorosa coerenza nel disegno complessivo della Teogonia. 20 La potenza interpretativa di Nicole Loraux e la sua indiscutibile autorevolezza di studiosa hanno lasciato forte traccia : Pandora non solo si conferma l’archetipo della femminilità con tutto il carico di paure e di desideri con i quali il maschio guarda all’altro sesso, ma si afferma come la “madre delle donne”, il principio di una diversa stagione dell’umanità. È dunque comprensibile che non molti anni dopo un’altra importante studiosa, Froma I. Zeitlin, iniziando una lecture californiana intitolata a Jane Harrison, riprenda il tema della separatezza e della successione antropogonica dei sessi come punto di partenza ovvio e da tutti, o quasi tutti, condiviso : “Più spesso che no la donna è un pensiero successivo (afterthought), creato come categoria secondaria che segue l’apparizione dell’uomo”, e aggiunge : “Due degli esempi meglio conosciuti di questo tipo sono la storia di Eva nel libro della Genesi e il mito greco di Pandora come è riportato dal poeta arcaico Esiodo”. 21 Due tra i più noti esempi ; ma a quali altri esempi più noti o meno noti possiamo ricorrere ? Non pare di poterne scoprire, né in verità Ebrei e Greci esauriscono il patrimonio dell’umanità, e, contrariamente a quanto desidererebbe qualcuno, neppure il nostro di occidentali del xxi secolo. E la stessa Eva, siamo sicuri che la sua presenza nella Genesi abbia la medesima funzione di Pandora ? La tarda esegesi ebraica (Libro dei Giubilei) e quella cristiana hanno portato a stravolgere la sua immagine fino a ridurla al principio del male, complice del diabolico serpente :

15  Esempi non mancano nell’ambito esiodeo : il lungo proemio della Teogonia è costituito dall’assemblaggio di più proemi ; vedi W. Aly, Hesiodos von Askra und der Verfasser der Theogonie, « Rh. Mus. » 68, 1913, ora in Heitsch, cit. 50 ss. : “È del tutto escluso che un rapsodo abbia mai eseguito i primi 115 versi della teogonia così come noi oggi li leggiamo” (55). Sull’assenza di un principio di unità compositiva nella poesia greca arcaica mi permetto di rimandare a quanto annotavo nell’introduzione a Aristotele, Poetica, a cura di D. L., Milano 1987, 68 s. ; si veda anche L. E. Rossi, L’unità dell’opera letteraria : gli antichi e noi, in G. Arrighetti con la coll. di M. Tulli (edd.), Letterature e riflessioni sulla letteratura nella cultura classica. Atti del Convegno (Pisa, 7-9 giugno 1999), Pisa 2000, 17 s. 16  H. Blumenberg, Elaborazione del mito, trad. it. Bologna 1991, 18 ss. 17  Si veda quanto lucidamente ribadisce C. Calame in un’intervista : Du

muthos des anciens Grecs au mythe des antropologues, « Europe » 904-905 (AoûtSeptembre 2004), 11 ss. 18  J. E. Harrison, Prolegomena to the Study of Greek Religion, Cambridge 19223 (1903) ; Pandora’s Box, « Journ. Hell. Stud. » 20, 1900, 99 ss. 19  Harrison, Proleg. cit. 284. 20  Loraux, cit. 77 s. ; cfr. anche n. 3. 21  F. I. Zeitlin, Signifying Difference : The Case of Hesiod’s Pandora, ora in F. I. Zeitlin, Playing the Other, Chicago 1996, 53 ss. ; pur trattandosi di una JEH Lecture e pur non essendo l’autrice avara di citazioni, la studiosa inglese non è mai ricordata. 22  Tert. De cultu foemin. 1, 1 : l’albero dissuggellato richiama chiaramente il vaso di Pandora.











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Tu sei la porta del diavolo, tu sei chi ha dissuggellato l’albero, tu sei la prima disertora della legge divina, tu sei colei che persuadesti chi il diavolo non era riuscito ad aggredire, tu hai cancellato così facilmente l’uomo come immagine di Dio. A causa della tua ricompensa, cioè la morte, anche il figlio di Dio ebbe a morire. 22  





































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Questa l’invettiva di Tertulliano. Nell’iconografia la centralità di Eva si manifesta invece soltanto più tardi. Le prime illustrazioni della Genesi risalgono al quarto secolo e sono molto sobrie : l’uomo e la donna sono separati o dall’albero, sul quale si attorciglia il serpente, o dall’autorevole figura del Creatore. La stessa essenzialità troviamo ancora nei rilievi di dodicesimo secolo di Verona e di Modena. Si afferma poi un nuovo motivo : il serpente acquista dapprima una testa umana, poi anche braccia e mani con le quali consegna alla donna il frutto dell’albero ; testa, braccia e mani che non tardano a ricevere una caratterizzazione femminile, finché, nell’incisione di Luca Cranach il vecchio (1523), non è più un serpente con testa di donna, ma una donna con coda di serpente, in tutto e per tutto simile a Eva. È il suo doppio. 23 Il mito della creazione, peraltro limitato alla versione jahvista del cap. 2, ha però tutt’altro senso. La formazione di Eva dalla costola di Adamo anticipa una motivazione eziologica non dell’alterità o della pericolosità della donna, ma al contrario della sua perfetta integrazione e subordinazione al maschio. Adamo infatti le dà il nome (“Essa sarà chiamata donna”), come già aveva dato il nome a ciascuno degli animali presentatigli, e con l’imposizione del nome ne marca l’indiscusso possesso. 24 Nella versione sacerdotale, che si richiama invece alla creazione sincronica del cap. 1 (“li creò maschio e femmina”), la subordinazione della donna appare conseguenza della sua debolezza : “Tu cercherai la sua [dell’uomo] protezione ed egli avrà signoria su di te”. 25 La donna, anzi la moglie, come pericolo è invece presenza proverbiale ricorrente in terra greca : già la stessa Nicole Loraux apre il suo saggio citando la deprecazione di Ippolito contro il genere femminile e ricordando poi un ricco repertorio di gnomai euripidee dello stesso tono, ma il topos è già solidamente presente agli inizi della poesia giambica. Nella cosiddetta Satira delle donne di Semonide di Amorgo la varietà dei confronti animaleschi serve a costruire un catalogo variopinto di tipi femminili molto diversi l’uno dall’altro ; la gnome che tutti li conclude è però sempre la stessa e suona quasi ossessiva : la donna, la moglie, è un grande (mevga), il più grande (mevgiston) male che Zeus ha inviato all’uomo. Ma non c’è scampo : il matrimonio (gavmo~) non è evitabile e tutti “pur ignorandolo, abbiamo la stessa sorte”. 26 Non diversamente Susarione di Megara riportato da Stobeo : “Un male le donne, ma lo stesso, paesani, non è possibile amministrare la casa senza malanni ; è un male perciò sia sposarsi sia non sposarsi”. 27 “Chi dice donna dice danno” è massima misogina, caduta fortunatamente in dimenticanza, ma che solo qualche decennio fa ricorreva ancora frequentemente.

Ma che cosa ha a che fare la tradizione giambica con i racconti esiodei ? È vero, la conclusione cui approda la storia della fabbricazione della sposa nella Teogonia non è molto diversa : l’ineluttabilità del matrimonio e i mali che esso comporta ; ma gli Erga sembrano suggerire una prospettiva differente. Qui la sposa foggiata dagli dei acquista un nome, e un nome ha anche chi la accoglie. Epimeteo è però non solo nome parlante, ma strettamente funzionale al ruolo che gli è assegnato nella vicenda, un nome che evidenzia il rovesciamento del carattere del fratello, secondo quel gioco di sdoppiamento ben noto ai folkloristi, e come tale ritorna, seppure in una storia diversa, nel mito platonico del Protagora. Diverso, ma tutt’altro che semplice, il caso di Pandora : le poche testimonianze sul Catalogo non ci permettono di definire chiaramente il suo statuto e neppure la sua identità, né molto più perspicua è l’unica altra attestazione del nome che si legge in Ipponatte. 28 Il testo costituito da Enzo Degani tiene conto giustamente della citazione di Ateneo ; può tuttavia essere interessante che nella lezione del papiro Pandora non sia soggetto, ma destinataria di un sacrificio, quindi appartenente a una sfera divina. In questo caso si può ben pensare all’epiteto usato come nome, così come per il sacrificio del montone ricordato dal venditore di oracoli degli Uccelli aristofanei. 29 Si tratta di quella sovrapposizione di nomi e di immagini suggerita dall’indagine di Harrison ? La studiosa, fondandosi sull’iterazione della stessa scena su più vasi e soprattutto sulla presenza in una di queste di una cornice architettonica, propose l’ipotesi di un dromenon, di una sorta di rappresentazione templare dell’apparizione di Pandora-Persefone sulla terra. La documentazione iconografica di Harrison, ricca di figure di satiri interpretati come “la popolazione primitiva che venerava la Terra”, 30 è indubbiamente poco atta a spiegare Esiodo, tuttavia il suo riesame può essere di qualche utilità se consideriamo come il mito di Pandora sia presente durante il quinto secolo in Atene. Uno scolio agli Erga ricorda che Eschilo rappresentò sulla scena la consegna della giara a Epimeteo unita alla raccomandazione di Prometeo di non accettare nulla che provenisse da Zeus. A propria volta Prometeo aveva ricevuto la giara dai satiri. Di qui la necessità di collocare la vicenda in un dramma satiresco, verisimilmente nel Prometeo portatore di fuoco. 31 Dramma satiresco doveva essere anche il sofocleo Pandora ovvero i Martellanti, 32 e commedia la Pandora di Nicofone. 33 La storia esiodea era dunque presente sulla scena ateniese ed era considerata materia comica, da rappresentare con contorno di satiri, quando non come soggetto di una vera e propria commedia. Si trattava di un clamoroso mutamento ? Non pare, se pensiamo alla Teogonia ; in quanto agli Erga l’introduzione

23  La sovrapposizione di Eva e Pandora, maturata nell’esegesi cristiana della Genesi, trova il suo compimento nel quadro di Jean Cousin il vecchio (1550 ca.) conservato al Louvre : un nudo femminile semiadagiato, completo di ramo di melo, teschio, vaso da cui fuoriescono fumi e cartiglio “Eva prima Pandora”. 24  Gen. 2, 23. 25  Gen. 3, 16. Così la traduzione dei Settanta ; altri spiega “cercherai l’unità primigenia”, al riguardo si veda il commento di S. Brayford, Genesis, Leiden-Boston 2007 (S. E. Porter, R. S. Hess, J. Jarick edd., “Septuaginta Commentary Series”), 241 ss. Una seconda denominazione abbiamo in Gen. 3, 20 : “E l’uomo pose nome Eva alla sua moglie perché è stata la madre di tutti i viventi”. 26  Sem. Am. fr. 7, 114-115. Sulla struttura del componimento e il gioco delle riprese e ripetizioni si veda F. Roscalla, Il giambo di Semonide contro le donne e la dizione aedica, « Quad. Urb. » n.s. 73 (102), 2003, 105 ss.

27  Susar. fr. 1, 3-5 K.-A. ; ininfluente qui che si tratti di commedia, farsa megarese o giambo. 28  Si vedano Ps.Hes. Cat. frr. 2, 4 e 5 M.-W. (su cui A. Casanova, La famiglia di Pandora. Analisi filologica dei miti di Pandora e Prometeo nella tradizione esiodea, Firenze 1979, 35 ss.) e Hippon. fr. 107, 48 Degani (Athen. 370b). 29  Ar. Av. 971 : “Sacrifica anzitutto un ariete bianco a Pandora” e la glossa dello scoliaste : “a Pandora : alla Terra, poiché essa dona tutto ciò che serve per vivere”. 30 Harrison, Pandora’s Box, cit. 107. 31  Aesch. fr. 207a Radt. 32  Soph. frr. 482-486 Radt ; a questo dramma è stata ricondotta una delle immagini proposte dalla Harrison (cfr. A. D. Trendall - T. B. L.Webster, Illustrations of Greek Drama, London 1971, 33 ss., cui si può aggiungere forse la raffigurazione di Prometeo e Pandora riportata in F. Brommer, Satyrspiele, Berlin 19592, Abb. 49). 33  Nicoph. frr. 13-19 K.-A.







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la fabbricazione della sposa dello stordito Epimeteo dovrebbe far riflettere se ci troviamo davanti a una lineare costruzione cosmogonica, come molte moderne analisi paiono presupporre, o all’adattamento di una precedente storia di diverso registro al nuovo contesto : la spiegazione dell’incolmabile separatezza del divino dall’umano. “Appartiene all’essenza di queste storie che vengano rinarrate innumerevoli volte e, a mano a mano che vengono rinarrate, il loro significato muta leggermente”. 34 In questo caso inoltre c’è da considerare la contiguità e l’interscambio tra diversi generi poetici e la molteplicità dei motivi ricorrenti nel racconto. Dizione aedica e tradizione giambica avevano sì occasioni e modalità di esecuzione distinte, ma i punti di contatto, e talvolta di interferenza, non dovevano mancare. Nella stessa autorappresentazione omerica dell’aedo di Odissea 8, è rappresentato il cantore Demodoco alle prese con un tema che poco ha a che fare con la celebrazione eroica e che appare piuttosto la trascrizione aedica di un componimento epitalamico o comunque attinto a un repertorio di poesia scherzosa ; più particolarmente sugli interscambi tra esametro e giambo insiste giustamente Ezio Pellizer nella sua preziosa introduzione all’edizione di Semonide. 35 Non ci si può dunque sorprendere di trovare nella Teogonia, a conclusione della nostra storia, una sequenza gnomico-parodica sul gamos, che presenta non pochi tratti di somiglianza con la tradizione giambica. A colpire è piuttosto lo spostamento di piano

della conclusione di Erga che porta l’intera vicenda al livello di una vera e propria antropogonia nel quadro della continuamente ribadita teologia di Zeus. Ciò permette anche la conseguente formula di passaggio del v. 106 (“Se poi vuoi, ti posso esporre un diverso racconto …”) che introduce al cosiddetto mito delle razze. C’è inoltre da considerare la molteplicità dei motivi che si affollano nella breve narrazione. Ad alcuni di questi si è già accennato ricordando l’articolo di Jane Harrison : lo statuto divino e/o umano (proto-umano) di Pandora ; la giara racchiudente potenze che, una volta liberate, mutano la condizione degli umani e conseguentemente il loro rapporto con la divinità ; la natura di queste potenze (revenants o veri e propri demoni) e l’eventuale loro presenza in rituali ancora in uso. A questi sono da aggiungere motivi narrativi ricorrenti nella tradizione poetica e noti agli studiosi di folklore : sdoppiamento di un personaggio in due opposti e complementari, proibizione infranta, tardivo pentimento dell’apprendista stregone. Non è facile dire quanto ciascuno di questi tratti riuscisse immediatamente suggestivo al narratore e al suo uditorio, ma certo essi non dovevano riuscire totalmente estranei alla potenza persuasiva di un racconto che a propria volta veniva ad inserirsi in un autorevole contesto gnomico. Come, quando e perché questo sia avvenuto comporta però una diversa serie di considerazioni cui appare doveroso dedicare un altro studio.

34  von Fritz, cit. 372.

35  E. Pellizer - G. Tedeschi (edd.), Semonides. Testimonia et fragmenta, Roma 1990, xxxiii s.







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MODI E FORME DEL PROCEDIMENTO GIUDIZIARIO IN ESIODO. UN’IPOTESI RICOSTRUTTIVA A ndr ea Ercolani 3. Op. 37-39

1. Premessa

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L

a ricostruzione che qui propongo è stata largamente suggerita dall’interpretazione della scena del giudizio di Iliade 18 avanzata da Giovanni Cerri (Cerri 2010). Queste pagine concentrano l’indagine sul versante esiodeo e, nella mia ottica, mirano a riconoscere estendibile al retroterra esiodeo un sistema di amministrazione della giustizia raffrontabile con quello ricostruito da Cerri per il mondo omerico (vd. § 3.2). Obiettivo di questo lavoro è dunque provare a definire lo scenario storico culturale in cui calare i passi esiodei che elenco più sotto, i quali, se la mia ipotesi fosse corretta, acquisterebbero valore testimoniale per la ricostruzione di alcune procedure giudiziarie. Non riesco a sottrarre il ragionamento che propongo a una certa circolarità : di questo limite mi sento in obbligo di avvertire subito. A prescindere dalla plausibilità e dalla persuasività della mia analisi, ritengo importanti i paralleli etnografici addotti (§ 3.1), che consentono, e forse addirittura impongono, di tentare ricostruzioni e interpretazioni che vadano in quelle direzioni. Presento in apertura i passi esiodei rilevanti (il testo è quello di Solmsen 1983), numerandoli progressivamente ; a questa numerazione si farà riferimento nel testo.  



h[dh me;n ga;r klh`ron ejdassavmeq’, a[lla te polla; aJrpavzwn ejfovrei~ mevga kudaivnwn basilh`a~ dwrofavgou~, oi} thvnde divkhn ejqevlousi dikavssai.

4. Op. 219-221

aujtivka ga;r trevcei ”Orko~ a{ma skolih`/si divkh/sin:



thvnde divkhn: ejggu;~ ga;r ejn ajnqrwvpoisin ejovnte~



ajllhvlou~ trivbousi qew`n o[pin oujk ajlevgonte~.

220 th`~ de; Δivkh~ rJovqo~ eJlkomevnh~ h|/ k’ a[ndre~ a[gwsi dwrofavgoi, skolih`/~ de; divkh/~ krivnwsi qevmista~: 5. Op. 248-251 w\ basilh`~, uJmei`~ de; katafravzesqe kai; aujtoi; 250 ajqavnatoi fravzontai o{soi skolih`/si divkh/sin 6. Op. 260-262 260

... o[fr’ ajpoteivsh/ dh`mo~ ajtasqaliva~ basilevwn oi} lugra; noeu`nte~ a[llh/ parklivnwsi divka~ skoliw`~ ejnevponte~.

7. Op. 270-273 270 nu`n dh; ejgw; mhvt’ aujto;~ ejn ajnqrwvpoisi divkaio~ ei[hn mhvt’ ejmo;~ uiJov~, ejpei; kako;n a[ndra divkaion e[mmenai, eij meivzw ge divkhn ajdikwvtero~ e{xei.

2. Un ’ ipotesi di ricostruzione

ai\yav te kai; mevga nei`ko~ ejpistamevnw~ katevpausen. tou[neka ga;r basilh`e~ ejcevfrone~, ou{neka laoi`~ blaptomevnoi~ ajgorh`fi metavtropa e[rga teleu`si 90 rJhidivw~, malakoi`si paraifavmenoi ejpevessin:

Nel retroterra socio-culturale esiodeo l’amministrazione della giustizia, nel caso di controversie, 1 consiste in una forma di arbitrato. 2 Il dibattimento del caso è pubblico : si tiene nell’agora (cfr. nr. 1). 3 Vi partecipano i membri della comunità (cfr. nr. 2, spec. la formulazione ai vv. 84 s. oiJ dev te laoi; / pavnte~), che nel sentire pronunciare le divkai rumoreggiano (cfr. nr. 4, rJovqo~), in segno di approvazione o disapprovazione. L’organo giudicante è un consesso, quello dei basilei`~ (nrr. 2, 3, 5, 6), di fronte al quale si presentano i contendenti. Su un punto mi pare non si sia riflettuto a sufficienza, e precisamente sul fatto che i basileis, al plurale, pronunciano dikai, 4 al plurale (cfr. nrr. 2, 4, 5, 6). Se basileis e dikai non sono semplici plurali generici, come inclino a credere, occorre chiedersi a cosa, nella realtà, rimandino. La presenza di più basileis potrebbe non essere dovuta solo a generiche esigenze di collegialità per ragioni di equità e/o garanzia, ma potrebbe corrispondere all’esigenza di avere più dikai

1  Nel caso esiodeo pare trattarsi di una questione di proprietà, ovvero di qualcosa che rientrerebbe nella sfera del diritto privato secondo la nostra concezione (per la contesa con Perse e per l’oggetto del contendere rinvio alla discussione e alla bibliografia in Ercolani 2010, 49-51 ; nel caso di contesa per eredità, si potrebbe trattare di categoria giuridica universale : cfr. Nader 1965, 24). Ma ovviamente simili linee di separazione sono aliene alla cultura della società esiodea, specialmente se si considera, come ritengo probabile, che la comunità di riferimento è quella del villaggio (antropologicamente e sociologicamente inteso), in cui il confine tra pubblico e privato è notevolmente sfumato, se pure sussiste : di qui la presenza del popolo (= tutti i membri della comunità), che prende parte a un evento che interessa due membri del gruppo sociale e proprio per questo è di rilevanza collettiva (su tutto questo cfr. più diffusamente Ercolani 2010, 34 ss. ed Ercolani 2012). 2  Questo dato pare indubbio : cfr. Bonner 1912 ; Smith 1924, 2 e n. 4 (per cui si tratterebbe di “compulsory arbitration” : se anche una sola delle parti chiedeva il ricorso all’arbitrato, l’altra doveva forzatamente sottoporvisi) ;

Bonner-Smith 1945. Sull’arbitrato in generale vd. ora Roebuck 2001 (bibliografia sull’arbitrato in Pelloso 2008, 103 s. alla n. 208). 3  Anche questo dato è fuori discussione. La dimensione pubblica e segnatamente assembleare pare essere una costante : cfr. anche la disputa tra Agamennone e Achille in Iliade 1 e la contesa tra Antiloco e Menelao in Il. 23, 566 ss. 4  Evito intenzionalmente di tradurre il termine divkh, per il quale, a seconda dei contesti, occorrerebbero differenti traducenti italiani. In accordo al valore etimologico che riconduce il termine a deivknumi, “mostro, indico”, il sost. esprime la nozione basilare di “direzione” (DELG, LfgrE, con bibliografia a p. 302 s., sub L), e quindi la “maniera (indicata)” in cui le cose devono essere, conformemente all’ordine cosmico o sociale (AubriotSévin 1992, 361 e n. 172, con bibliografia). Più dettagliata discussione in Ercolani 2010 ed Ercolani, Addenda, in entrambi i casi ad Hes. Op. 213. Non preme qui prendere posizione sulla ‘giuridicità’ o meno dei principi che danno luogo al procedimento. Sulla questione vd. la discussione in Faraguna 2006, 67 ss.



1. Op. 27-29 w\ Pevrsh, su; de; tau`ta tew`/ ejnikavtqeo qumw`,/ mhdev s’ “Eri~ kakovcarto~ ajp’ e[rgou qumo;n ejruvkoi neivke’ ojpipeuvont’ ajgorh`~ ejpakouo;n ejovnta. 2. Th. 79-90 Kalliovph q’: h} de; proferestavth ejsti;n aJpasevwn. 80 h} ga;r kai; basileu`sin a{m’ aijdoivoisin ojphdei`: o{ntina timhvsousi Δio;~ kou`rai megavloio geinovmenovn t∆ ejsivdwsi diotrefevwn basilhvwn, tw`/ me;n ejpi; glwvssh/ glukerh;n ceivousin ejevrshn, tou` d’ e[pe’ ejk stovmato~ rJei` meivlica: oiJ dev te laoi; 85 pavnte~ ej~ aujto;n oJrw`si diakrivnonta qevmista~ ijqeivh/si divkh/sin: oJ d’ ajsfalevw~ ajgoreuvwn





























modi e forme del procedimento giudiziario in esiodo espresse su una data questione. Se dietro il plurale dikai si riconosce un referente oggettivo, non può trattarsi, logicamente, di un unico verdetto conclusivo raggiunto collegialmente, ma deve trattarsi di altro : mi pare possibile ipotizzare che con dikai si intendano qui più proposte di risoluzione di una controversia, ciascuna formulata da un basileus. Il procedimento giudiziario, in buona sostanza, consisterebbe nel fatto che i basileis, ascoltate le parti, propongono più soluzioni, e tra queste si opera una scelta. La proposta risolutiva della controversia, una volta definita, è imposta ai contendenti. 5 Nella definizione della soluzione, ovvero nella scelta della dike da applicare, però, mi pare giochi un ruolo importante la comunità, il demos, vale a dire coloro che assistono al procedimento. In favore di questa ipotesi, e cioè che, al fianco dei basileis, gli astanti abbiano un ruolo rilevante nella scelta della dike risolutiva finale, farebbero propendere alcune considerazioni indiziarie : i. il fatto che al procedimento assista una collettività sembra meglio spiegabile se a questa stessa si assegna una funzione attiva piuttosto che una funzione passiva di semplice ‘pubblico’ ; e questa funzione mi pare vada in una duplice direzione : da un lato quella appunto di orientamento della decisione, dall’altro quella di garanzia della decisione medesima, in quanto tutti sono testimoni della soluzione raggiunta ; ii. l’approvazione/disapprovazione sono gli strumenti di controllo sull’operato individuale vigenti in una face-to-face society, e proprio attraverso le manifestazioni di assenso o dissenso in relazione alle varie proposte avanzate si può supporre che venisse preferita l’una all’altra ; iii. a questa approvazione/disapprovazione parrebbe alludere rJovqo~ al v. 220, termine che, rinviando alla sfera del rumore, verosimilmente indica il clamore degli astanti quando assistono a quella che appare loro una violazione di dike ; 6 iv. in questa cornice può essere proiettata e meglio compresa l’affermazione di Op. 29 ss. (nr. 1) : fomentare contesa starebbe a indicare il prendere parte attiva alla definizione/ scelta di una proposta di soluzione, proprio come il “prestare attenzione all’agora” starebbe a indicare l’intervento attivo in un procedimento. Il peso di ciascuno dei contendenti di fronte al collegio sembra essere stato variabile (cfr. Op. 270-273 e spec. l’idea di una meivzwn divkh, una sentenza molto più vantaggiosa per uno dei due), condizionato da fattori legati all’individuo (al di là e più delle eventuali doti oratorie, che non emergono dai riferimenti testuali, 7 il vero fattore sperequante pare esser stato il peso sociale, dato dalla ricchezza e quindi dalla

possibilità di avere un seguito che ‘approva’ o ‘disapprova’, perché comprato o perché legato a uno dei contendenti da legame di eteria o di natura economica : a un qualcosa del genere si potrebbe ricondurre lo scenario evocato da Op. 37 ss. : nr. 3). Il termine dwrofavgoi (Op. 39, 221) riferito ai regiudici potrebbe alludere, pur con intento denigratorio nel contesto, alla pratica di dare un premio ovvero ricompensare il re-giudice che avesse espresso il parere o la proposta poi accolta e resa operativa : il dono non rappresenterebbe, in questo caso, una forma di corruzione, ma un riconoscimento economico dovuto a chi esplica una funzione, pur limitato a chi esprime il parere migliore. 8

5  Viste le rimostranze che sono a più riprese avanzate nelle Opere a proposito di dikai skoliai, “sentenze inique” (cfr. nrr. 4-6), si deve ammettere che le parti erano costrette ad accettare forzatamente la soluzione infine scelta, il che solo spiega lo scontento che traspare dal testo, difficilmente immaginabile per una decisione concordemente e volontariamente accettata. Per contrario cfr. Op. 35 s. : la proposta di risolvere la controversia con ijqei`ai divkai, cioè con “rette sentenze”, sembra rinviare a un accordo accettato da ambo le parti senza ricorso a un organo giudicante : au\qi diakri- nwvmeqa, “decidiamo qui”, cioè senza ricorrere ai giudici. 6  Cfr. Ercolani 2010, ad loc. Una forma del tutto simile di manifestazione pubblica di assenso/dissenso, o meglio di approvazione/disapprovazione, è descritta in Il. 1, quando lo schieramento acheo approva la richiesta di Crise (Il. 1, 22 ss.). Rilevante, in questo passaggio, è il v. 22 pavnte~ ejpeufhvmhsan ∆Acaioiv, dove il vb. ejpeufhmevw ricopre il senso di “acconsento/ approvo con un grido (di buon augurio)” : cfr. Giordano 2010, 127 s., ad loc. (con bibliografia).   7  L’unico in tal senso sarebbe Th. 84 (supra, nr. 2), che però caratterizza il basileus.

  8  Magari proprio in una prospettiva agonale, come ricostruisce Cerri 2010 per Il. 18, 497-508 (per cui cfr. anche infra). È importante, a mio avviso, provare a riflettere sui meccanismi decisionali nelle procedure giudiziarie, fatto – per quel che ho potuto vedere – solitamente trascurato (cfr. anche la denuncia – per quanto datata – di una identica lacuna in ambito più propriamente antropologico da parte di Nader 1965, 24).   9  Alla (in fondo troppo facile) obiezione che qui vado comparando l’incomparabile, rispondo in Ercolani 2012, 239 s. n. 16 : evito di ripetermi in questa sede. Vd. anche, per quanto riguarda il confronto con la società albanese, quanto rilevato da M. Giordano in questo stesso volume. Per quanto attiene alle liti, alle contese giudiziarie, e all’idea di giustizia che impronta i procedimenti e le loro risoluzioni, il confronto etnografico mostra che le funzioni della lite e del tribunale possono essere diverse, e anche profondamente, da quelle che comunemente presumiamo e assegnamo (d’ufficio) alle società antiche. Una rassegna, pur cursoria, di materiale in Nader 1965, 19-22. 10  L’idea di una giustizia astratta e assoluta mi pare tendenzialmente aliena anche dal retroterra ideologico delle Opere : il richiamo alla giustizia









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3. Alla ricerca di conferme Sulla base di questi dati indiziariamente ricavati dai passi esiodei ho provato a ipotizzare in che modo concretamente si svolgesse un processo, ma va da sé che questa ricostruzione vale unicamente come tentativo, il cui gradiente di aderenza alla realtà storica è verificabile in misura del tutto parziale. E va da sé che quegli stessi passi possono essere intesi in maniera diversa, configurando un diverso quadro storico. 3. 1. Il confronto etnografico Un dato che mi spinge a interpretare i passi esiodei nella direzione indicata è di ordine etnografico. 9 Un simile modo pubblico, collegiale e collettivo di risoluzione delle controversie trova paralleli nelle procedure di amministrazione della giustizia nei villaggi dell’India, del Punjab, dell’Indonesia, delle Filippine e della Tailandia (vd. Tandy-Neale 1996, 44 n. 19, con bibliografia). La pratica diffusa in Indonesia del gotong royong (principio di armonia e sua applicazione alla risoluzione di dispute) procede in maniera simile a quanto sopra tracciato per l’arbitrato esiodeo : un consiglio di villaggio (i cui membri, almeno per il loro ruolo di collegio di fronte al quale è presentata la controversia, possono essere rapportati ai basileis esiodei) ascolta il caso ; possono essere presenti alcuni membri della comunità, ciascuno col diritto di presentare liberamente prove o esprimere parere, così che “the participants were not only the immediate parties to the dispute but everyone who choose to voice an opinion” ; queste sedute possono durare nel tempo uno o più giorni, a seconda dell’importanza del caso e/o delle persone ; l’audizione si conclude con il raggiungimento di un accordo consensuale : non una decisione, non una risoluzione tramite voto (Tandy-Neale 1996, 43 s.). Il consenso raggiunto non risponde affatto a un criterio astratto di giustizia, 10 ma a una logica pratica, molto concreta, nei fatti  

















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andrea ercolani

una logica del quieto vivere : la soluzione raggiunta è una decisione con cui la maggior parte dei membri del villaggio può convivere. Di qui la possibilità che i partecipanti al procedimento, schierati con uno dei contendenti, orientino questo consenso finale, semplicemente attraverso il loro numero o in virtù della loro forza di protesta o riottosità : “even the most downtrodden had some power if they had allies – even other downtrodden – with whom everybody had to go on living” : Tandy-Neale 1996, 44. In Albania, ambiente più vicino geograficamente e culturalmente all’area greca, in una società fortemente conservatrice (ovvero con un elevato grado di resistività alle modificazioni indotte da fatti culturali avventizi), all’interno di una tradizione come quella del Kanun (un codice consuetudinario ancor oggi vigente), si trovano figure i cui comportamenti pubblici risultano rapportabili a quelli dei basileis esiodei per quanto attiene ad alcuni aspetti procedurali. 11 Segnatamente è la figura del mediatore che mi pare comparabile e in grado di validare, pur con tutta la cautela possibile, la ricostruzione qui proposta (cito da Resta 2002 ; il contesto di cui si tratta è quello della vendetta, fatto non direttamente rapportabile, per il motivo del contendere, con i passi esiodei, ma che tuttavia con lo scenario esiodeo presenta evidenti analogie procedurali) :  







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I mediatori erano arbitri di una contesa, la cui soluzione rimaneva nelle mani dei contendenti ... La famiglia dell’omicida dava avvio alla procedura, invitando alcuni saggi ad assumere il ruolo di intermediari. In genere si trattava degli anziani del villaggio ... Il ruolo del mediatore, proprio perché funzionava come intermediario di pace, non prevedeva compensi ..., anche se ciascuno riceveva piccoli doni o somme di denaro ... “per pagare la spesa delle scarpe”. I pacificatori agivano sempre in molti (p. 115). (Procedura relativa alla cessazione della vendetta, alla concessione del perdono e all’accettazione del prezzo del sangue) I mediatori, assieme al consiglio di villaggio, svolgevano nella circostanza la funzione di giudici-arbitri. Ragionavano sulle cause della vendetta e stabilivano la liceità dei comportamenti. Fondavano le loro decisioni sulla premessa costituita dal sistema giuridico, consuetudinario ... Nel percorso cerimoniale, i mediatori venivano accolti dal capo del villaggio. Si costituiva un’adunanza, a cui partecipava il consiglio del villaggio al completo, assieme ai mediatori ... (p. 116). La presenza di un pubblico folto era garanzia di stabilità per la tregua ... Presa la decisione, l’accordo era comunicato pubblicamente dal padre a quanti erano in attesa (p. 117).

proponendo soluzioni. L’assemblea di villaggio ha funzione di garanzia per la stabilità e la correttezza dell’accordo. Se anche non si menziona espressamente la possibilità di orientare la decisione (né, in fondo, trattandosi qui di riconciliazione, ve ne è necessità), è importante rilevare che il coinvolgimento del gruppo sociale nella sua maggior rappresentatività possibile è espressamente richiesto. 12  

3. 2. Testimonianze convergenti (o quanto meno compatibili) Sul versante greco, un modo di amministrazione della giustizia rapportabile a quello schizzato per Esiodo è ricostruito da Cerri 2010 per la scena giudiziaria di Il. 18, 497-508. 13  

Il. 18, 497-508 laoi; d’ eijn ajgorh`/ e[san ajqrovoi: e[nqa de; nei`ko~ wjrwvrei, duvo d’ a[ndre~ ejneivkeon ei{neka poinh`~ ajndro;~ ajpofqimevnou: o} me;n eu[ceto pavnt’ ajpodou`nai 500 dhvmw/ pifauvskwn, o} d’ ajnaivneto mhde;n eJlevsqai: a[mfw d’ iJevsqhn ejpi; i[stori pei`rar eJlevsqai. laoi; d’ ajmfotevroisin ejphvpuon ajmfi;~ ajrwgoiv: khvruke~ d’ a[ra lao;n ejrhvtuon: oi} de; gevronte~ ei{at’ ejpi; xestoi`si livqoi~ iJerw`/ ejni; kuvklw/, 505 skh`ptra de; khruvkwn ejn cevrs’ e[con hjerofwvnwn: toi`sin e[peit’ h[i>sson, ajmoibhdi;~ de; divkazon. kei`to d’ a[r’ ejn mevssoisi duvw crusoi`o tavlanta, tw`/ dovmen o}~ meta; toi`si divkhn ijquvntata ei[poi.

Da una lettura del passo 14 emergono chiaramente alcuni fatti rilevanti, tutti compatibili con la ricostruzione qui tentativamente offerta per lo scenario esiodeo : dimensione pubblica del dibattimento (si tiene nell’agora e vi partecipano i membri della comunità : v. 497) ; coinvolgimento del demos (v. 500 : al demos si rivolge direttamente uno dei contendenti) ; collegialità dell’organo giudicante (i cui membri sono qui chiamati gevronte~, v. 503 : gli anziani sono, antropologicamente, la categoria sociale da cui sono prevalentemente scelti i componenti del ‘consiglio di villaggio’) ; contesto agonale in cui si esprimono le dikai, come suggerisce la ricompensa in premio per la dike migliore (cfr. vv. 506-508). Nella Teogonia (vv. 84-90 : qui sopra nr. 2) è descritto che un solo basileus emette dike : ma il fatto che la emetta “after hearing all sorts of people speak, and after the opportunity to see the reactions of all present in the agora, certainly suggests that he is articulating an emerging consensus” : così, opportunamente, Tandy-Neale 1996, 45.  





















Alcune analogie mi paiono rilevanti : la dimensione pubblica non solo e non tanto dei fatti di cui è causa (omicidio e vendetta), quanto piuttosto (e questo importa ai fini della ricostruzione qui avanzata) della procedura di mediazione e pacificazione : un collegio di arbitri-giudici, che agiscono di fronte, e di concerto, con l’assemblea del villaggio,  



di Zeus, che parrebbe andare in direzione contraria, mira più plausibilmente a garantire la correttezza del giudizio, che va intesa come accettabilità e sostenibilità della decisione finale, più che non rispondenza astratta a un modello a priori di equità. La questione, comunque, è tutt’altro che pacifica. Al riguardo cfr. infra § 4. 11  Per una più informata e circostanziata illustrazione di queste caratteristiche rinvio alle pagine introduttive del contributo di M. Giordano in questo stesso volume. 12 Singolare, non conciliabile con il quadro esiodeo, la gratuità della prestazione : i mediatori non prendono compenso (se non simbolico e a titolo di rimborso), ma questa divergenza potrebbe derivare esclusivamente dallo specifico e particolare ambito di azione (= conciliazione per far cessare la catena della vendetta), e sarebbe utile sapere (ma non sono riuscito a trovare informazioni al riguardo) se lo stesso vale anche per altri tipi di mediazione. 13 Informazioni sul procedimento giudiziario sono ricavabili, ovvia 

4. Corollari Presento di seguito alcune considerazioni sparse, che non rendono più nitido il quadro qui abbozzato, ma che forse mente, da altre fonti (una raccolta, con discussione, in Smith 1924 ; più ampia raccolta in Arnaoutoglou 1998), ma si tratta di materiale di un livello cronologico posteriore, relativo ad altre società greche, concernente altre forme di procedimento (per lo più di tipo penale, diremmo noi) che, metodologicamente, non può essere preso in considerazione per la ricostruzione dello scenario esiodeo. Limitare l’analisi alle testimonianze dell’epos mi pare una soluzione di compromesso accettabile, per quanto comporti una certa circolarità di ragionamento (e per quanto il caso iliadico riguardi appunto un caso di tipo ‘penale’). 14  Non interessa questa discussione la natura del contendere (v. 499 s.), se si tratti cioè di un fatto pregresso (= compensazione per l’omicidio effettuata in forma di pagamento, ma negata dalla parte lesa) o di rivendicazione di un diritto (= affermare l’intenzione di compensare il delitto mediante pagamento, secondo una norma di diritto consuetudinario) : mi limito a rinviare alle diverse posizioni di Cerri 2010 da un lato e di Westbrook 1992 e Carawan 1998, 51-58 dall’altro (entrambi con bibliografia). Una rapida sintesi in Faraguna 2006, 66.  



modi e forme del procedimento giudiziario in esiodo lo incorniciano meglio, tenendo conto anche di altri passi delle Opere. Resta ipotetico, ma non impossibile, che l’appello a una “giustizia/sentenza” (dike) equa, superiore a quella dei basileis – appello variamente espresso nelle Opere, anche in maniera indiretta, come attraverso la deprecazione di skoliai dikai o attraverso il richiamo di Op. 249 ss. (cfr. nr. 5) agli ajqavnatoi che sorvegliano chi emette sentenza –, direttamente posta sotto il patrocinio di Zeus (cfr. Op. 9-10, 36 etc. ; cfr. anche, pur con tutti i dubbi del caso, la favola di 202-212), sia da porre in relazione all’emergenza o all’interferenza della polis, i cui modi di operare peserebbero e si scontrerebbero con le procedure del villaggio : una giurisdizione esterna ed estranea alla comunità produrrebbe sentenze non conformi a norme procedurali e consuetudinarie (cfr. 225-226), non rispettose della logica del consenso sopra descritta ; di qui deriverebbe l’esaltazione o l’invocazione di una giustizia superiore (quella tradizionale in via di superamento ?). Ipotetico è anche che questi appelli a Zeus garante di giustizia esprimano l’idea o l’esigenza di procedure certe per conseguire una dike assoluta (ma così Gagarin 1992, puntualizzando precedenti prese di posizione). L’idea che la giustizia cui si fa riferimento nei testi epici (esiodei e non) sia immanente e concreta resta più persuasiva : una giustizia operativa, in contrasto con quello che noi potremmo definire ‘senso di giustizia assoluta’, ma che nondimeno era percepita come giustizia.  





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Bibliografia Un’amplissima raccolta bibliografica ragionata su quanto pertiene alla giurisprudenza nel mondo greco è reperibile presso il sito http ://www.sfu.ca/nomoi. I. Arnaoutoglou, Ancient Greek Laws. A Sourcebook, London 1998. D. Aubriot-Sévin, Prière et conceptions religieuses en Grèce ancienne jusqu’à la fin du ve siècle av. J.-C., Lyon 1992. R. J. Bonner, Administration of Justice in the Age of Hesiod, « Class. Philol. » 7, 1912, 17-23. R. J. Bonner - G. Smith, Administration of Justice in Boeotia, « Class. Philol. » 40, 1945, 11-23.  









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R. J. Bonner - G. Smith, The Administration of Justice from Homer to Aristotle i-ii, Chicago 1930-38. E. Carawan, Rhetoric and the Law of Draco, Oxford 1998. G. Cerri, Omero. Iliade, libro xviii. Lo Scudo di Achille, Roma 2010. A. Ercolani, Esiodo. Opere e giorni, Roma 2010. A. Ercolani, Addenda a Esiodo. Opere e giorni, Roma 2011 (testo online : www.carocci.it). A. Ercolani, Una rilettura di Esiodo, Opere e giorni. Contributo all’individuazione dell’epos sapienziale greco, « Sem. Rom. » n.s. 1, 2012, 235-252. M. Faraguna, Tra oralità e scrittura. Diritto e forme della comunicazione dai poemi omerici a Teofrasto, « Dike » 9, 2006, 63-91 . M. Gagarin, Dike in the Works and Days, « Class. Philol. » 68, 1973, 81-94. M. Gagarin, Hesiod’s Dispute with Perses, « Trans. Am. Philol. Ass. » 104, 1974, 103-111. M. Gagarin, The Poetry of Justice : Hesiod and the Origins of Greek Law, « Ramus » 21, 1992, 61-78. M. Giordano, Omero. Iliade, libro i . La peste - l’ira, Roma 2010. E. A. Havelock, Dike. La nascita della coscienza, Roma-Bari 1981 (ed. or. 1978). R. Hirzel, Themis, Dike und Verwandtes, Leipzig 1907. E. A. Hoebel, The Anthropology of Inheritance, in E. N. Cahn (ed.), Conference on Social Meaning of Legal Concepts, New York 1948. H. Lloyd-Jones, The Justice of Zeus, Berkeley 1971. L. Nader, The Anthropological Study of Law, « Am. Anthropol. » 67, 1965, 3-32. C. Pelloso, Studi sul furto nell’antichità mediterranea, Padova 2008. Ed. Platner, Notiones iuris et iustitiae ex Homeri et Hesiodi carminibus, Diss. Marburg 1819. P. Resta, Pensare il sangue. La vendetta nella cultura albanese, Roma 2002. D. Roebuck, Ancient Greek Arbitration, Oxford 2001. G. Smith, The Administration of Justice from Hesiod to Solon, Diss. Chicago 1924. F. Solmsen, Hesiodi Theogonia, Opera et dies, Scutum, Oxford 19832 (Fragmenta selecta ediderunt R. Merkelbach et M. L. West). D. W. Tandy - W. C. Neale, Hesiod’s Works and Days : A Translation and Commentary for the Social Sciences, Berkeley-Los AngelesLondon 1996. R. Westbrook, The Trial Scene in the Iliad, « Harv. Stud. Class. Philol. » 94, 1992, 53-76.  

































LE M A LEDIZIONI DEL POETA ITINER A NTE NELLA VITA HOMER I HERODOTEA Bruna M. Palumbo Str acca

P

er i tratti avventurosi e romanzeschi della narrazione la Vita Homeri Herodotea 1 fu definita a suo tempo da Wilamowitz un Volksbuch (definizione che condivide con il Certamen Homeri et Hesiodi) : 2 formalmente strutturata come un prosimetro e non priva di un certo grado di elaborazione letteraria, racconta la vita di Omero rappresentandolo come un poeta itinerante non sempre accolto con onore e in evidenti difficoltà economiche e di salute. Questo piccolo bizzarro testo, che si potrebbe definire la fiction di un falsario – il suo autore si spaccia per Erodoto, e in coerenza con questo assunto si ingegna ad adottare dialetto e stile erodoteo –, 3 presenta, come è noto, una serie imponente di problemi. Li enumero qui in estrema sintesi : la spinosa questione cronologica ; 4 la relazione intercorrente tra le composizioni poetiche (i cosiddetti epigrammi) e la trama narrativa ; 5 l’individuazione del genere letterario ; 6 le problematiche relative alla categoria del ‘falso’ ; 7 le non poche difficoltà testuali che derivano in gran parte proprio dalla nebulosità del processo compositivo. Sono questioni rilevanti, che meriterebbero, credo, di essere riprese oggi con la dovuta attenzione. Per parte mia in questa sede mi limiterò a prendere in esame un particolare aspetto del personaggio ‘Omero’ che emerge abbastanza chiaramente dal racconto, e che consiste nell’attitudine del poeta a proferire maledizioni nel corso dei suoi viaggi. Si vedrà che una più attenta valutazione di questo dato consentirà di restituire funzionalità e organicità al brano dai vistosi tratti popolari che Omero esegue su sollecitazione dei vasai durante il suo soggiorno samio, brano che, come ci informa lo stesso compilatore della VH, aveva il nome di Kavmino~. 8 E dunque sulla Kavmino~ concentrerò la mia attenzione, non senza avere prima passato brevemente in rassegna la serie delle maledizioni che punteggiano il racconto.  







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1  Da ora in poi indicata con la sigla VH. L’edizione di riferimento, da cui cito, è di Wilamowitz 1916. Altre edizioni e/o traduzioni : Westermann 1845, Allen 1912, De Martino 1984, Esposito Vulgo Gigante 1996, West 2003. 2  Wilamowitz 1916a, 396-439 (Zwei alte Volksbücher. a) Der Wettkampf zwischen Homer und Hesiod ; b) das Leben Homers). 3  La paternità erodotea, oltre ad essere improponibile in sé per le caratteristiche dell’opera, è in ogni caso da escludere, sia perché fornisce una datazione di Omero di gran lunga differente da quella dello storico, sia perché menziona la Batracomiomachia che sappiamo essere di datazione tarda (West 2003, 300 s.). A suo tempo Bergk 1872, 443, aveva escluso che si trattasse di una deliberata falsificazione, sulla base del fatto che un falsario non avrebbe attribuito ad Erodoto una datazione di Omero così vistosamente discrepante da quella dell’Erodoto autentico : lo studioso ipotizzava che l’opera, composta ad Atene verso la fine dell’età classica e giunta anonima in età alessandrina perché mancante dell’incipit, fosse stata attribuita allo storico di cui erano noti gli interessi omerici (“nur der Titel der Schrift ist gefälscht”) ; oppure che il nome del vero autore fosse stato cancellato e sostituito da quello ben più famoso di Erodoto. Ma queste sono fantasticherie senza fondamento : in realtà l’imitazione dello stile e del dialetto erodotei conferma, a mio avviso, il falso deliberato ; tutt’al più si può pensare al divertissement di un intellettuale che beffardamente si prende gioco delle convenzioni delle biografie dei poeti (ipotesi prospettata da Latacz 1985, 38). 4  Di fatto non abbiamo appigli cronologici attendibili : è significativo che le ipotesi di datazione degli studiosi spazino dal v a.C. ( Jacoby 1933, 10) al ii d.C. (Schmidt 1876, 207-211 ; Ludwich 1916, 42 s., West 2003, 301), pas 















Un crescendo di maledizioni Il tratto più caratteristico della VH è costituito, come si è detto, dalle peregrinazioni che Omero compie per ragioni connesse con gli eventi della vita e con il suo mestiere di poeta : è una condizione che lo accompagna sin dal concepimento, dal momento che la madre Creteide lo concepisce a Cuma eolica con un uomo che rimane sconosciuto e lo partorisce a Smirne, sulle sponde del fiume Meles. 9 Spostandosi continuamente di luogo in luogo, il poeta si trova nella condizione topica dello straniero che necessita di ospitalità e di aiuto, tanto più dopo essere stato colpito dalla disgrazia della cecità : non stupisce allora che le ‘estemporanee’ composizioni che scandiscono i suoi viaggi consistano per lo più in preghiere e benedizioni per coloro che gli offrono aiuto ; meno ovvio è che il poeta non esiti a lanciare maledizioni, ora dissimulate, ora palesi, nei confronti di chi non lo soccorre, in un crescendo che culmina per l’appunto nella Kavmino~.  







La città senza poeti (cap. 15) : la prima maledizione concerne la città di Cuma, colpevole di non avere accolto la richiesta del poeta di essere mantenuto a pubbliche spese :  



meta; tou`to ajpallavssetai ejk th`~ Kuvmh~ ej~ Fwkaivhn, Kumaivoi~ ejparhsavmeno~ mhdevna poihth;n dovkimon ejn th`i cwvrhi genevsqai o{sti~ Kumaivou~ ejpaglai>ei`.

Come osserva West 2003, ad loc., è probabile che la maledizione sia da riferire alla migrazione del padre di Esiodo in Beozia, evento che ha avuto come conseguenza che Esiodo è diventato il poeta della Beozia e non di Cuma. La punizione del traditore (cap. 17) : la seconda maledizione è rivolta contro Testoride Focese, l’uomo che, in violazione dei patti convenuti – Omero era disposto a cedere le sue poesie in cambio di ospitalità e aiuti economici –, era partito  

sando attraverso il iv a.C. (Bergk 1872, 442 s., Cerri 2000, 42) e l’età tardoellenistica (Wilamowitz 1916a, 416). 5  Gli epigrammi sono stati analizzati da G. Markwald in una pregevole monografia del 1986 : si tratta di quindici componimenti selezionati in base al criterio di prendere in considerazione solo le poesie che il personaggio Omero ha improvvisato ed eseguito nell’ambito di precise occasioni. Sono testi (generalmente brevi) di carattere sapienziale o popolare, che l’anonimo ha incastonato nel ‘romanzo di Omero’ in maniera più o meno pertinente. È opinione diffusa che questo materiale sia più antico rispetto al tempo di confezionamento della Vita, ma se ciò si può affermare per alcuni testi (ad es. l’epitafio di Mida, noto già a Platone e persino a Simonide), la garanzia di antichità non si estende a tutti, talché in più di un caso sorge il sospetto di radicali rifacimenti da parte del compilatore, se non di composizioni ex novo. 6  La Vita non si inquadra né nella elaborata biografia di impronta peripatetica, né nella smilza biografia alessandrina, e sembra piuttosto appartenere a quella che con termini moderni potremmo definire “produzione di consumo”, destinata ad un pubblico vasto e mediamente acculturato. Su questa tipologia di testi vd. Pecere-Stramaglia 1996. 7  Sulla pseudepigrafia nella cultura greca e romana vd. da ultimo Cerri 2000. 8  Un altro titolo (Vasai) è fornito da Polluce 10, 85, cui dobbiamo anche l’informazione che secondo alcuni la composizione era da attribuire ad Esiodo. 9  In numerose altre fonti Meles è il padre, ma il nostro autore razionalizza alla maniera di Erodoto.  

le maledizioni del poeta itinerante nascostamente per Chio portando con sé i versi del poeta e abbandonandolo al suo destino. 10 Più precisamente si tratta non di una vera maledizione, bensì di un auspicio, posto a conclusione di una preghiera che Omero rivolge a Posidone, anzitutto a beneficio dei marinai che si erano offerti di accoglierlo nella loro nave, e poi anche per se stesso :  



Klu`qi Poseidavwn megalosqene;~ ejnnosivgaie

-----------------------------------------------------------

eujrucovrou medevwn hjde; zaqevou ÔElikw`no~. do;~ d∆ ou\ron kalo;n kai; ajphvmona novston ajrevsqai nauvtai~, oi} nho;~ pompoi; hjd∆ ajrcoi; e[asi. do;~ d∆ ej~ uJpwvreian uJyikrhvmnoio Mivmanto~ 5 aijdoivwn m∆ ejlqovnta brotw`n oJsivwn te kurh`sai. fw`tav te tisaivmhn o}~ ejmo;n novon hjperopeuvsa~ wjduvsato Zh`na xevnion xenivhn te travpezan. 11

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Ascolta, Posidone possente, scuotitor della terra, ---------------------------------------------------------signore di ..... dalle ampie contrade e del sacro Elicona. Ai marinai, che della nave sono scorte e capi, concedi un bel vento e un viaggio propizio. Concedi a me, una volta giunto ai piedi del Mimante scosceso, 5 di incontrare uomini rispettosi e pii. E possa io trarre vendetta dell’uomo che ingannando la mia mente ha mostrato odio ( ?) per Zeus ospitale e per l’ospitale mensa.  

Nella sezione ‘personale’ dell’epigramma (vv. 5-8), oltre al consueto auspicio di imbattersi in uomini giusti e rispettosi (vv. 5-6), Omero esprime la speranza di potersi vendicare di Testoride, che ha violato le sacre norme dell’ospitalità poste sotto la protezione di Zeus xevnio~ (vv. 7-8). È interessante notare che in questo caso l’augurio non sembra avere particolare effetto, benché siano chiamate in causa due divinità del calibro di Posidone e Zeus : infatti nel cap. 24 ci viene detto che Testoride, appreso della presenza di Omero nell’isola, abbandona Chio, e di fatto non si sa più nulla di lui. Allora si deve supporre che la punizione/vendetta consista precisamente in questo : che vengono sventate le trame di Testoride, e Omero assume nell’isola il ruolo che gli spetta (con ovvio riferimento ai futuri Omeridi di Chio).  

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Marinai che solcate il mare, simili per odioso destino a timide folaghe con la vostra non invidiabile vita, rispettate la maestà di Zeus protettore degli ospiti che regna dall’alto : tremenda è la vendetta di Zeus protettore degli ospiti per chi sia colpevole.  

Puntualmente si alza un vento contrario che risospinge la barca al punto di partenza. Omero li incalza così :  

ÔUma`~, w\ xevnoi, e[laben oJ a[nemo~ ajntivo~ genovmeno~: ajll∆ e[ti kai; nu`n me devxasqe, kai; oJ plou`~ uJmi`n e[stai. 13  

Uomini, vi ha còlti il vento divenuto avverso, ma suvvia accoglietemi adesso, e avrete la vostra navigazione.

A questo punto i marinai, pentiti, lo accolgono nella barca, e questa volta giungono felicemente a destinazione. È interessante notare che qui Omero sembra assumere il ruolo di un mago, in grado di governare i venti. La maledizione erotica (cap. 30) : giunto a Samo durante la celebrazione delle feste Apaturie, Omero si avvicina ad alcune donne che stanno sacrificando alla Kourotrophos, 14 ma viene malamente scacciato dalla sacerdotessa. Pronuncia allora questi versi :  





Klu`qiv moi eujcomevnwi Kourotrovfe, do;~ de; gunai`ka thvnde nevwn me;n ajnhvnasqai filovthta kai; eujnhvn, h} d∆ ejpiterpevsqw poliokrotavfoisi gevrousin, w|n w{rh me;n ajphvmbluntai, qumo;~ de; menoina`i.

Ascolta la mia preghiera, Kourotrophos : fa’ che questa donna rifiuti l’amore e il letto dei giovani ; goda dei vecchi dalle tempie canute, il cui vigore si è indebolito, ma il cuore è colmo di desiderio.  



Nau`tai pontopovroi, stugerh`i ejnalivgkioi ai[shi ptwkavsin aijquivhisi bivon duvszelon e[conte~, aijdei`sqe xenivoio Dio;~ sevba~ uJyimevdonto~, deinh; ga;r mevtopi~ xenivou Diov~, o{~ k∆ ajlivthtai. 12

È un testo a dir poco sconcertante : l’introduzione dell’elemento erotico appare del tutto incongrua rispetto alla situazione (l’allontanamento di Omero era evidentemente giustificato da un divieto di tipo cultuale nell’ambito di riti femminili), talché sarebbe lecito supporre di trovarsi in questo caso di fronte a un goffo inserimento nella trama narrativa di un testo poetico preesistente, e tuttavia occorre anche dire che l’epigramma per altri versi appare saldamente collegato al contesto (cfr. gunai`ka thvnde). Ancora : nel testo tràdito da Suida compare al v. 4 un sorprendente oujraiv invece di w{rh, lezione condivisa anche da Eustazio (1968.41), che cita questo verso nel commento proprio in riferimento ad oujrav. Benché non si possa escludere che oujraiv rispetto a w{rh sia da intendere come l’esito di una confusione ‘fonetica’, il termine che si registra in Suida ed Eustazio è ugualmente significativo di un approccio interpretativo in senso marcatamente sessuale, in linea con lo spirito di una maledizione.

10  Quindi a rigore Testoride non ha compiuto un vero e proprio plagio, dal momento che Omero è consenziente, anche se agisce in stato di necessità. 11  L’epigramma presenta alcune criticità. Al v. 2 zaqevou è congettura di Ruhnken in luogo del tràdito xanqou` inadatto come epiteto di un monte, come peraltro è inadatto eujrucovrou : Wilamowitz tenta di risolvere l’impasse supponendo una lacuna. Al v. 8 fanno difficoltà sia la costruzione di ojduvssomai con l’accusativo sia lo stesso significato del verbo : l’unico altro esempio di oj. con l’acc. si registra in un epigramma di Statilio Flacco (AP 9, 117, 7 : Aijakivdh, tiv tosou`ton ejmh;n wjduvssao nhduvn ; “Eacide, perché così tanto hai odiato il mio grembo ?”), che tuttavia costituisce un confronto non del tutto calzante, in quanto è dubbio che si possa dire che Testoride, avendo ingannato Omero, ha odiato Zeus. Si potrebbe attribuire al verbo un valore causativo (“far adirare”), che però non ha paralleli. Ampia discussione dei vari aspetti del problema in Markwald 1986, 135 ss., dove opportu-

namente si segnala l’oscillazione tra significato attivo e significato passivo nell’etimologia del nome di Odisseo. 12  Anche per questo epigramma sussistono non poche criticità sul piano testuale per le quali rinvio al commento di Markwald 1986, 150 ss. 13  Eccezionalmente qui Omero si esprime in prosa (altrove sempre in versi). Da segnalare il tentativo di Barnes (accolto da West, ma non da Markwald) di ricostruire dal testo prosastico una coppia di esametri (uJma`~, w\ xei`noi, a[nemo~ lavben ajntivo~ ejlqwvn: / ajll∆ e[ti nu`n devxasqe, kai; oJ plovo~ e[ssetai u{min) : un’operazione alquanto discutibile, condotta a prezzo di non pochi mutamenti del testo tràdito e per di più contraddetta dalla circostanza che il presunto epigramma venga introdotto con il semplice tavde e non con tavde e[pea, come è negli altri casi. 14  Verosimilmente si tratta di Ecate, come lascia supporre il riferimento ai trivii (ejn th`/ triovdw/). Peraltro l’epiteto di Kourotrovfo~ si applica a numerose divinità femminili, compresa Afrodite.



Venti contrari e venti favorevoli (cap. 19) : l’episodio narrato in questo capitolo è il tipico esempio di maledizione che coinvolge magicamente elementi della natura. Ad alcuni pescatori in procinto di salpare per Chio che non lo hanno preso a bordo, Omero rivolge un ammonimento che è di fatto una velata minaccia :  





















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bruna m. palumbo stracca

A complicare ulteriormente le cose c’è la testimonianza di Ateneo, che cita il nostro testo ponendolo in relazione con la vicenda dell’amore senile di Sofocle per l’etera Teoride. 15 Prescindo in questa sede dalle numerose questioni che pertengono al versante sofocleo della tradizione, ma una cosa va detta : quella che nella VH ha tutte le caratteristiche di una maledizione, nel racconto di Ateneo diventa una preghiera vera e propria, che Sofocle rivolge ad Afrodite – così, coerentemente, Ateneo intende l’identità della Kourotrophos – al fine di ottenere, lui vecchio, l’amore di una giovane donna.  



Minacce ai vasai con evocazione di demoni, mostri e maghi (cap. 32) : infine la Kavmino~. Il brano è eseguito da Omero durante il suo soggiorno a Samo su sollecitazione di alcuni vasai che gli promettono di ricompensarlo per la sua performance con il dono di vasellame e quant’altro. Omero sceglie di sviluppare il suo canto proprio sul tema della ricompensa che gli è dovuta, rivolgendosi direttamente ai vasai, circostanza questa che contribuisce a dare al testo un’impressione di estemporaneità. Vengono prospettate le due opposte situazioni : che i vasai lo ricompensino, e in tal caso il poeta invoca concrete benedizioni sui loro manufatti (vv. 1-6) ; che i vasai non lo ricompensino, e questa è un’eventualità che scatena una serie impressionante di maledizioni (vv. 7-23). È su questa seconda parte che intendo soffermarmi, ma mi pare utile presentare il testo nella sua interezza, corredandolo di un apparato selettivo. 16 Pur riportando per comodità il testo di Wilamowitz, mi corre l’obbligo di sottolineare che in alcuni punti cruciali mi allontano dalle sue scelte, come chiarisco nelle note di commento.  

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Eij me;n dwvsete misqo;n ajoidh`~, w\ keramh`e~, deu`r∆ a[g∆ ∆Aqhnaivh kai; uJpevrsceqe cei`ra kamivnou, eu\ de; melanqei`en kovtuloi kai; pavnta kavnastra, 17 frucqh`nai te kalw`~ kai; timh`~ w\non ajrevsqai, 5 polla; me;n eijn ajgorh`i pwleuvmena polla; d∆ ajguiai`~, polla; de; kerdh`nai, hJmi`n d∆ hJdevw~ sfin ajei`sai. 18 h]n d∆ ejp∆ ajnaideivhn trefqevnte~ yeuvde∆ a[rhsqe, sugkalevw dh; e[peita kamivnwn dhlhth`ra~ Suvntrib∆ oJmw`~ Smavragovn te kai; “Asbeton hjde; Sabavkthn 10 ∆Wmovdamovn q∆, o}~ th`ide tevcnhi kaka; polla; porivzei: 19 †pei`qe puraivqousan kai; dwvmata: su;n de; kavmino~ pa`sa kukhqeivh, keramevwn mevga kwkusavntwn. wJ~ gnavqo~ iJppeivh bruvkei bruvkoi de; kavmino~ pavnt∆ e[ntosq∆ aujth`~ keramhvi>a lepta; poou`sa. 15 deu`ro kai; ∆Helivou quvgater, polufavrmake Kivrkh, a[gria favrmaka bavlle, kavkou d∆ aujtouv~ te kai; e[rga: deu`ro de; kai; Ceivrwn ajgevtw poleva~ Kentauvrou~, oi{ q∆ ÔHraklh`o~ cei`ra~ fuvgon oi{ t∆ ajpovlonto: tuvptoien tavde e[rga kakw`~, pivptoi de; kavmino~. 20 aujtoi; d∆ oijmwvzonte~ oJrwviato e[rga ponhrav. ghqhvsw d∆ oJrovwn aujtw`n kakodaivmona tevcnhn.  





15  Athen. 13, 592a (iii 304, 20 Kaib.) : Sofoklh`~ d∆ oJ tragw/diopoio;~ h[dh gevrwn w]n hjravsqh Qewrivdo~ th`~ eJtaivra~. iJketeuvwn ou\n th;n ∆Afrodivthn fhsivn: ‘klu`qi ~ menoina`i’. tau`ta mevn ejstin ejk tw`n eij~ ”Omhron ajnaferomevnwn.  

16  Per un apparato più completo rinvio a Markwald 1986, 220. 17  kavnastra è la lezione di Polluce (10, 85), che cita il verso proprio per documentare il vocabolo, e dunque non v’è dubbio che questo fosse il testo che il lessicografo conosceva ; invece la tradizione della VH ha un enigmatico mavl∆ iJrav, dietro cui Wilamowitz sospettava che si celasse un nome sconosciuto di vaso ; tuttavia occorre dire che kavnastra = “vasi di argilla” trova conferma in Esichio (k 634 kavnastron: o[strakon, trublivon, kanou`n), oltre che in alcune attestazioni epigrafiche (vd. Milne 1988, 192 ss.) 18  La proposta di Wilamowitz per sanare la seconda parte del verso tràdita malamente dalla VH e da Suida è indubbiamente attraente, ma mi pare che non abbia torto Markwald quando evidenzia la difficoltà di dover sottintendere un dov~ a cui collegare idealmente hJmivn (complemento di  



o}~ dev c∆ uJperkuvyhi, peri; touvtou pa`n to; provswpon flecqeivh, wJ~ pavnte~ ejpivstwnt∆ ai[sima rJevzein.

3. melanqei`en VH : peranqei`en Pollux x 85, maranqei`en Suid.   kavnastra Pollux x 85 : mavl∆ iJrav VH, Suid.   6. hJmi`n de; dh; w{~ sfi noh`sai VH, hJmi`n de; dh; w{~ sfin ajei`sai Suid., hJmi`n d∆ hJdevw~ sfin ajei`sai Wilamowitz, hJmi`n dh; dov~ sfin ajei`sai temptavi.   11. pei`qe VH, stei`lai Suid., pevrqe Scaliger, stei`be Wilamowitz, sei`e vel pai`e Allen, pevrqe, Puvr conieci.    11-21 interpolatos esse censuit Faraone (tantum 15-21 Wilamowitz, 15-19 Markwald).  





Se darete il compenso per il canto, vasai, qui vieni, Atena, e stendi la mano sulla fornace ; si scuriscano bene le coppe e ogni scodella, si cuociano in modo eccellente e abbiano il prezzo che meritano, 5 vendute in quantità al mercato e per le vie ; si faccia un gran guadagno, e a noi concedi di cantare dolcemente per loro ( ?). Ma se vi volgete ad impudenza e siete menzogneri, allora invocherò i distruttori di fornaci : Sfrantumante e Rimbombante, Semprevivo, Malfatto 10 e Guastator d’argilla cruda, che a quest’arte molti guai procura. ......... il fornello e le stanze ; tutta la fornace sia sconquassata, tra gli alti lamenti dei vasai. Come stritola la mascella del cavallo, così stritoli la fornace, tutti i vasi all’interno sbriciolando. 15 Qui vieni anche tu, figlia del Sole, Circe dai molti filtri, getta atroci veleni, danneggiali, loro e i loro pezzi ; qui anche Chirone conduca molti Centauri, quelli che scamparono alle mani di Eracle, e quelli che perirono : colpiscano malamente questi lavori, crolli la fornace, 20 ed essi guardino gemendo quelle azioni sciagurate. Me la godrò guardando il loro mestiere disastrato, e a chi sporga la testa dal di sopra, tutta la faccia sia bruciata, perché ognuno impari ad agire come si deve.  













Anzitutto va detto che, in ragione del cliché delle benedizioni e delle maledizioni, il brano è stato generalmente accomunato con i cosiddetti “canti della questua”. 20 In realtà con questa tipologia la Kavmino~ ha ben poco a che vedere, in quanto Omero esegue il suo pezzo su commissione e sollecita una ricompensa che gli era stata promessa, mentre è fuor di dubbio l’affinità con il variegato mondo delle ajraiv, degli incantesimi, delle defixiones ecc. È merito di Faraone 2001 avere richiamato l’attenzione sul possibile confronto tra il nostro testo e la tipologia degli incantesimi esametrici, che oggi conosciamo in numero sempre maggiore ; temo, tuttavia, che proprio l’ottima conoscenza che lo studioso ha di questa produzione subletteraria lo abbia indotto a interpretare la Kavmino~ in maniera fuorviante, cioè come un rozzo assemblaggio di testi di repertorio. Penso al contrario che si possa dimostrare che il componimento ha una sua precisa fisionomia e una certa compattezza.  



termine). La mia proposta (vd. apparato) intende ovviare precisamente a questa difficoltà, eliminando nel contempo hJdevw~, che nel presente contesto ‘utilitaristico’ mi sembra alquanto incongruo. 19  I cinque demoni che andranno a colpire i vasai se questi non daranno ad Omero il compenso promesso hanno nomi evocativi del loro ruolo, ed è probabile che siano creazioni dello stesso autore. Peraltro si tratta di nomi assai incerti, perché la tradizione ms. è oscillante (Markwald 1986, 231 ss.). 20  Nell’ambito della poesia di impronta popolare della Grecia antica, i canti della questua costituiscono una categoria dai tratti ben delineati : il documento più significativo è costituito senza dubbio dal canto rodio della rondine (PMG 848), ma di grande rilevanza è anche l’Eijrhsiwvnh, tràdita dalla VH (cap. 33). C’è poi il korwvnisma di Fenice di Colofone (fr. 2 Diehl3), che si configura di fatto come un dotto riecheggiamento di un tema popolare. Su questi testi mi propongo di tornare a riflettere in altra sede.  

le maledizioni del poeta itinerante Sulla valutazione complessiva del brano molto dipende dalla crux del v. 11, dove risulta inaccettabile, in assenza di un vocativo, l’imperativo nella forma della 2a pers. sing., immediatamente dopo l’evocazione dei cinque distinti demoni : a prescindere dalla incomprensibilità semantica di pei`qe (VH) e di stei`lai (Suida), 21 è proprio la seconda persona singolare a creare problemi, né vale a risolverli la supposizione che l’imperativo si riferisca a ∆Wmovdamo~, cioè all’ultimo (e perciò il più importante) dei demoni citati. 22 Lo scollamento tra il v. 11 e i versi precedenti, nonché la presenza nel v. 11 dell’asindeto e dell’imperativo presente, cioè di due tratti tipici della produzione magica, hanno indotto Faraone a supporre che in questo punto si possa individuare un’interpolazione, che consiste per l’appunto nell’inserimento di una formula di incantesimo : in tal modo, a detta dello studioso, si supera la questione dell’incoerenza logica e sintattica con i versi precedenti. 23 Argomenterò tra poco il mio tentativo di soluzione per la crux in questione, ma ora mi preme sottolineare che l’ipotesi dell’interpolazione non è una novità : l’aveva già prospettata a suo tempo Wilamowitz nella sua edizione della VH, però in relazione ai vv. 15-21, annotando in apparato : alter poeta inseruit. L’affermazione è formulata in maniera apodittica, ma la motivazione in ogni caso risulta evidente : si tenta di giustificare in questa maniera l’irruzione di personaggi ‘omerici’ (Circe, Chirone, i Centauri) in un contesto che allo studioso appariva di tutt’altra tipologia, vale a dire un Volkslied ambientato nel mondo dei vasai e trasportato non senza qualche difficoltà nel contesto della vita di Omero. A questa impostazione non è difficile obiettare che una interpolazione è ipotizzabile solo se esiste un testo precedente ben definito, in cui si incunei per i motivi più svariati una sezione estranea ; ma in questo caso, se si eliminano i versi ‘interpolati’, si ottiene un brano che, al di fuori della situazione contingente (Omero teme di non essere ricompensato per la sua prestazione), è totalmente privo di funzionalità. In altri termini, se è vero che un canto di maledizione sarebbe perfettamente comprensibile in un contesto di invidie e gelosie tra vasai, 24 è altrettanto vero che, per recuperare l’Urtext, si dovrebbe eliminare ogni riferimento alla situazione specifica, il che è ovviamente impossibile se non si vuole scardinare dalle fondamenta l’impianto della composizione. Proviamo a tracciare il percorso che viene ipotizzato : alla base ci sarebbe un canto di maledizione nato nell’ambiente dei vasai ; ad esso si sarebbe sovrapposto, nella fase del suo inserimento nella narrazione delle vicende biografiche di Omero, il motivo specifico della ricompensa per la performance poetica ; in questa nuova veste il brano avrebbe subìto un ulteriore rifacimento ad opera di qualcuno desideroso di caratterizzare meglio il testo in senso omerico. Come si vede, è un percorso tortuoso, e soprattutto immotivato. A mio parere, è più semplice supporre che l’intero brano sia stato confezionato contestualmente alla

biografia, a qualunque stadio si voglia collocare cronologicamente l’opera : 25 il suo autore avrà inteso comporre un pezzo ‘alla maniera’ dei testi magici, ma che al tempo stesso fosse mimeticamente coerente con la personalità del protagonista. Si è visto che nel corso di tutta l’opera Omero viene raffigurato come un individuo pronto a proferire maledizioni contro chiunque lo ostacoli o non lo soccorra : ebbene, in questo senso mi pare evidente che le minacce ai vasai, lungi dall’essere il prodotto dell’artificioso accostamento di un autonomo Volkslied alle vicende della vita di Omero, si inseriscono agevolmente in un quadro dotato di coerenza e aderenza all’ethos del personaggio. È in base a queste considerazioni che non vedo alcuna necessità di ricorrere all’ipotesi dell’interpolazione per spiegare la presenza nel testo di personaggi epici. Capita a volte che un’idea lanciata da uno studioso autorevole diventi nel seguito degli studi un idolum indiscusso. È esattamente ciò che è avvenuto per questo testo : non è un caso che Markwald, pur non condividendo l’impostazione di Wilamowitz riguardo alla genesi del brano, non abbia minimamente messo in discussione l’interpolazione. 26 Nella danza delle interpolazioni Faraone ha assunto la posizione più radicale : a suo parere l’interpolazione si estende da v. 11 a v. 21 (ben 11 versi !), ed è costituita da non meno di tre differenti maledizioni esametriche, verosimilmente prese da qualche conglomerate charm. Per le ragioni già esposte contro l’idea di un testo che avrebbe subìto indebite inserzioni, non ritengo necessario discutere in dettaglio gli argomenti avanzati dallo studioso a sostegno della sua tesi ; mi soffermo solo sulla crux di v. 11 che è stata per Faraone il punto d’avvio per la sua proposta. Ho già accennato alle difficoltà suscitate dalla presenza di un verbo nella forma dell’imperativo sing., ma anche puraivqousan, vocabolo per noi ignoto, solleva non pochi dubbi : si è ipotizzato che abbia una valenza tecnica, nel senso che puraivqousa sarebbe propriamente il tunnel di alimentazione della fornace, simile nella forma a un portico (ai[qousa in Omero), 27 e analogamente si è supposto che i dwvmata siano i vani della fornace. 28 In effetti, tentare di individuare tecnicismi in un contesto di tipo artigianale è assolutamente legittimo, ma è chiaro che con ciò non sono risolti tutti i problemi del v. 11. Premesso che a mio avviso la soluzione migliore per l’incipit del verso, sia sul piano dei contenuti, sia sotto il profilo paleografico, è pevrqe, presento ora la mia proposta, che consiste nel supporre che la ‘malapreghiera’ sia rivolta al fuoco personificato :

21  Si noti che la lezione di Suida è inaccettabile anche sotto il profilo metrico. 22  Così Markwald 1986, 234. 23  Uno degli argomenti portanti del ragionamento di Faraone in favore dell’interpolazione è che con il v. 11 si passa repentinamente da una maledizione condizionale a una maledizione reale, procedura che è del tutto assente negli incantesimi. La mia opinione è che in un testo poetico non ci aspettiamo la rigida applicazione di un modulo stereotipato. Per fare solo un esempio : nel canto di Licida per Ageanatte (Theocr. 7, 52-89) si comincia con un augurio condizionale (“per Ageanatte felice sarà la navigazione per Mitilene ... se vorrà salvare Licida dal fuoco di Afrodite”), ma poi l’augurio diventa certezza (“le alcioni placheranno le onde del mare, ecc.”).

24  Da Polluce (7, 108) apprendiamo che i bronzisti erano soliti esporre amuleti apotropaici (baskavnia) per proteggersi dall’invidia. 25  Che la composizione del brano sia da porre nel v a.C. è convinzione ampiamente diffusa (Lef kowitz 1983, 17 ; Markwald 1986, 240 ; Milne 1988, 194 ; Faraone 2001, 435), ma sostanzialmente immotivata. 26  Markwald 1986, 241 : “Kirke und Cheirons Kentauren haben mit dem Töpfergewerbe nichts gemein”. Vero, ma hanno a che fare con ‘Omero’ ! 27  Vd. Milne 1988, 189, sulla scorta di confronti iconografici ; ma già Hermann 1806, 193 annotava : “Equidem nescio an puraivqousa focus vel pars fornacis dicta fuerit”. 28  Ludwich 1916, 212 ; Milne 1988, 189.













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pevrqe, Puvr, ai[qousan kai; dwvmata.





Con questo lievissimo ritocco si ottengono alcuni non trascurabili vantaggi : si recupera l’atteso vocativo singolare da porre in relazione con l’imperativo ; si recupera altresì il ben noto vocabolo omerico ai[qousa (“portico”), che va a sostituire un termine sconosciuto e problematico (puraiv-  



















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bruna m. palumbo stracca

qousa). 29 Soprattutto, sul piano dei contenuti, si ottiene un  

testo che, nella sequenza delle forze maligne che operano contro i vasai, si snoda in maniera del tutto coerente : dopo la menzione dei cinque demoni ‘specializzati’, seguono nell’ordine : il Fuoco, la Fornace orrendamente trasformata in un essere mostruoso, Circe, e infine Chirone con i Centauri. Alla possibile obiezione che non si conoscono attestazioni specifiche del fuoco distruttore in veste di demone si può rispondere che in un contesto di maledizione l’immagine di Pu`r personificato non appare affatto stravagante, per lo meno non più di quanto non lo sia la rappresentazione della fornace/mostro a v. 13 s., o degli sconosciuti demoni dai nomi fantasiosi invocati precedentemente. Ovviamente so bene che la mia proposta comporta una difficoltà di ordine prosodico, in quanto è necessario ammettere un vocativo puvr breve, ma sono anche dell’opinione che non si tratti di una difficoltà insormontabile. Anzitutto è bene ricordare che le occorrenze metriche di pu`r al vocativo sono rarissime, e per di più non dirimenti, perché cadono in sillaba chiusa. 30 Occorre perciò analizzare la questione sul piano teorico : pu`r è un antico nomeradice di genere inanimato, che al nominativo presenta un allungamento, e nel resto della declinazione mantiene u breve. 31 A rigore, dunque, per il vocativo, che è costituito di norma dal puro tema, ci dovremmo aspettare precisamente puvr, ma in questo caso si fa valere la regola enunciata da Erodiano (iii 2, p. 903 Lentz), secondo la quale tutte le forme monosillabiche subiscono l’allungamento ; un ulteriore motivo di incertezza può derivare dall’essere pu`r di genere neutro, e si sa che nella declinazione dei neutri il vocativo è uguale al nominativo/accusativo. Detto questo, occorre anche considerare che la configurazione di pu`r è decisamente atipica, come conferma lo stesso Erodiano che definisce pu`r un caso isolato di monosillabo neutro in ur, 32 e dunque, proprio per la sua atipicità, il vocabolo sembra sottrarsi a un inquadramento in categorie ben definite. Pertanto, a mio avviso, non sussistono ragioni veramente cogenti per escludere l’esistenza di un vocativo puvr. Un’ultima considerazione va fatta su Chirone : in quanto personaggio sostanzialmente positivo, è parso che fosse poco adatto ad essere inserito in una schiera di spiriti maligni, il che ha costituito un ulteriore argomento a favore dell’ipotesi dell’interpolazione. Premesso che, se il supposto interpolatore aveva l’obiettivo di rendere il testo maggiormente caratterizzato in senso omerico, non è comprensibile la scelta di alludere all’episodio dei Centauri sconfitti da Eracle, che non appartiene ai poemi comunemente attribuiti a Omero, 33 e premesso altresì che i Centauri con il loro aspetto mostruoso (umano ed equino) potevano ben essere assimilati a demoni distruttivi, importa chiarire che le tradizionali caratteristiche sostanzialmente positive di Chirone, personaggio che in Omero compare come esperto di medicina e maestro di Asclepio, di Achille e di altri eroi, non confliggono affatto con il ruolo assunto in questo testo, al contrario ! Si sa che nel  





mondo antico (e non solo) il ricorso alla magia nasce sovente dall’esigenza, vera o presunta, di ottenere giustizia in situazioni di sopraffazione e violenza : 34 ebbene, in questo caso quel che Omero chiede è precisamente di avere giustizia in previsione di una colpa da parte dei vasai (il mancato pagamento) ; e dunque chi meglio di Chirone, definito dikaiovtato~ Kentauvrwn in Il. 11, 832, poteva essere lo strumento della sua vendetta ? Aggiungo che non deve stupire l’enormità della pena rispetto alla colpa : anche sotto questo profilo l’autore della ‘maledizione’, nel confezionare il suo testo, ha messo a frutto un ben noto cliché delle minacce magiche, che consiste nella iperbolicità del castigo prefigurato. In conclusione, penso che sia giunto il tempo di abbandonare l’idea che il brano sia il frutto di successive e goffe stratificazioni, e che occorra considerarlo per quello che è : un componimento che si compiace di riprendere stilemi e motivi della magia popolare, ma che si configura di fatto come un testo autoriale, non privo di scaltrezza compositiva.  











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29  Ovviamente si potrebbe attribuire anche ad ai[qousa lo stesso valore tecnico che si attribuisce a puraivqousa, però non è indispensabile : si è affermato che l’azione dei demoni si concentra solo sulla fornace senza toccare il resto dell’abitazione (Markwald 1986, 233), ma è appena il caso di sottolineare che da una maledizione è lecito aspettarsi precisamente un’estensione dell’augurio malefico. 30  Soph. Phil. 927 w\ pu`r su; kai; pa`n dei`ma kai; panourgiva~ ; APl 198, 4 ptano;n pu`r, yuca`~ trau`m∆ ajovraton, “Erw~.  



Bibliografia Allen 1912, T. W. Allen, Homeri opera v, Oxford 1912. Bergk 1872, Th. Bergk, Griechische Literaturgeschichte, Berlin 1872. Cerri 2000, G. Cerri (ed.), La letteratura pseudepigrafa nella cultura greca e romana. Atti di un Incontro di studi (Napoli, 15-17 gennaio 1998), Napoli 2000. De Martino 1984, F. De Martino, Omero quotidiano. Vite di Omero, Venosa 1984. Esposito Vulgo Gigante 1996, G. Esposito Vulgo Gigante, Vite di Omero, Napoli 1996. Faraone 2001, Ch. A. Faraone, A Collection of Curses against Kilns (Homeric Epigram 13. 7-23), in A. Y. Collins - M. M. Mitchell (edd.), Antiquity and Humanity. Essays on Ancient Religion and Philosophy presented to H. D. Betz on His 70th Birthday, Tübingen 2001, 435-449. Hermann 1806, G. Hermann, Homeri Hymni et Epigrammata, Leipzig 1806. Jacoby 1933, F. Jacoby, Homerisches i. Der Bios und die Person, « Hermes » 68, 1933, 1-50 (= Kleine Schriften i, Berlin 1961, 1-53). Latacz 1985, J. Latacz, Homer, München-Zürich 1985. Lefkowitz 1983, M. R. Lefkowitz, The Lives of the Greek Poets, London 1983. Ludwich 1916, A. Ludwich, Homerische Gelegenheitsdichtungen, « Rh. Mus. » 71, 1916, 41-78 ; 200-231. Markwald 1986, G. Markwald, Die homerischen Epigramme, Meisenheim 1986. Milne 1988, M. J. Milne, The Poem entitled Kiln, in J. V. Noble, The Techniques of Painted Attic Pottery, London 19882, 186-196. Pecere-Stramaglia 1996, O. Pecere - A. Stramaglia (edd.), La letteratura di consumo nel mondo greco-latino. Atti del Convegno Internazionale (Cassino, 14-17 settembre 1994), Cassino 1996. Schmidt 1876, J. Schmidt, De Herodotea quae fertur vita Homeri, « Diss. Halenses » 2, 1876, 97-219. Versnel 1991, H. S. Versnel, Beyond Cursing : The Appeal to Justice in Judicial Prayers, in Ch. A. Faraone - D. Obbink (edd.), Magika Hiera. Ancient Greek Magic and Religion, New York-London 1991, 60-106.  















31  Schwyzer, Gr. Gr. i 350. 32  Herodian. 3, 2, p. 919 Lentz : oujde;n eij~ ur lh`gon oujdevteron monosuvllabon, ajlla; movnon to; pu`r. 33  L’episodio a cui si fa riferimento è quello relativo ad Eracle e Folo (Apollod. 2, 5, 4 ss.) : il primo a trattare la vicenda, per quanto ne sappiamo, fu Stesicoro (PMG 181). 34  Versnel 1991.  



le maledizioni del poeta itinerante

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West 2003, M. L. West, Homeric Hymns Homeric Apocrypha Lives of Homer, London 2003. Westermann 1845, A. Westermann, Biogravfoi, Vitarum Scriptores Graeci Minores, Braunschweig 1845.

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Wilamowitz 1916, U. v. Wilamowitz-Moellendorff, Vitae Homeri et Hesiodi, Bonn 1916. Wilamowitz 1916a, U. v. Wilamowitz-Moellendorff, Die Ilias und Homer, Berlin 1916.

“NEPPUR E SOTTO TORTUR A” : LA PATR I A DI OMERO E UN SINGOLA R E EXEMPLUM FICTUM (AP 7, 5 = A LC. MESS. 22 G.-P.)  

Massimo Di Marco

Oujd jei[ me cruvseion ajpo; rJaisth`ro~ ”Omhron sthvshte flogevai~ ejn Dio;~ ajsteropai`~ oujk ei[m joujd je[somai Salamivnio~, oujd joJ Mevlhto~ Dhmagovrou. mh; tau`t jo[mmasin ÔElla;~ i[doi. 5 a[llon poihth;n basanivzete: tajma; dev, Mou`sai kai; Civo~, ÔEllhvnwn paisi;n ajeivset je[ph.







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ell ’ epigramma non conosciamo con certezza né l’autore né le circostanze della composizione. Nella Planudea è presentato come anonimo ; nel codice Palatino, ove è rubricato primariamente come a[dhlon, il Lemmatista ha aggiunto la notizia che alcuni lo attribuivano ad Alceo di Mitilene : un’attribuzione evidentemente assurda, ma che lascia facilmente supporre una confusione di etnico con il meno celebre epigrammista di Messene. Pur dando credito a questa ipotesi, riesce tuttavia difficile stabilire quale fondamento potrebbe avere tale ascrizione : 1 il che giustifica il prudente agnosticismo di molti dei critici moderni. 2 Quanto all’occasione che lo avrebbe originato, non si va al di là della constatazione che in esso si respinge con veemenza la pretesa di Salamina di Cipro di aver dato i natali a Omero : 3 ciò – afferma l’ego loquens, lo stesso Omero – non corrisponde in alcun modo al vero. Per avvalorare la loro rivendicazione i Salaminii erano giunti perfino a indicarne in un tal Demagora il padre, 4 ma anche questa invenzione trova nel testo una recisa smentita : padre del poeta era stato in realtà Melete. 5 Un nutrito gruppo di componimenti che ci testimonia 

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1  Casi analoghi, in cui siamo posti di fronte all’alternativa a[dhlon, oiJ de; tou` dei`na, compaiono anche altrove nell’Anthologia : vd. Gow-Page 1965, i  

XXX-XXXXII. Per comodità espositiva designeremo comunque il nostro autore come ‘Alceo’ : gli apici intendono marcare gli ampi margini di dubbio. 2  Elementi a favore di Alceo, in verità assai tenui, furono già indicati da Rubensohn 1893, col. 706 s. : il fatto che a Omero è dedicato AP 7, 1 (= Alc. 11 G.-P.) ; la personificazione di ÔEllav~, per cui cfr. AP 7, 412, 1 (= Alc. 14, 1 G.-P.) e 9, 588, 2 (= Alc. 17, 2 G.-P.) ; le consonanze di fraseologia tra AP 7, 5, 5 s. e AP 9, 588, 7 s. (= Alc. 17, 7 s. G.-P.) ; a sfavore, invece, lo studioso segnalava “die Häufung der Elisionen”. Nel complesso “there is little for, and little against, the ascription” (Gow-Page 1965, ii 26). Manca ancora uno studio che tracci un adeguato profilo poetico di Alceo di Messene : spunti interessanti in tal senso, in fase di rielaborazione in vista di uno specifico contributo a stampa, sono presenti nella tesi di laurea di una mia giovane allieva, Chiara Bonsignore. 3  Assente dal ‘canone delle sette città’ tràdito da APl 297 (anon.), Salamina di Cipro è annoverata tra le pretendenti a patria di Omero – ma sempre in subordine ad altre città più accreditate, in primis Smirna, Chio e Colofone – in Antip. Sid. APl 296, 3, APl 299, 3 (anon.), Cic. Arch. 8, 19, Ps.-Plut. Vita 2, 12, Vita 6, 17, in quest’ultimo caso sull’autorità di Callicle, nonché Suda o 261 Adler, ove, a causa di una evidente confusione, si registra l’alternativa oiJ de; Kuvprion ... oiJ de; Salamivnion. Sulla ‘patria di Omero’ vd. Jacoby 1933, 24-37 (= 1961, 26-40), che acclude alla sua analisi una chiara e comoda tabella sinottica che rende conto di tutte le testimonianze (Anhang i 46 s. = 49 s.), e Skiadas 1965, 18-32. 4  Cfr. Certam. 21 (ove i mss. hanno Masagovra~), che cita come sua fonte Callicle, e Vita 7, 2 e 10, ove si attribuisce ad Alessandro di Pafo la notizia che Dmasagovra~ e Aithra erano stati i genitori egizi del poeta. Sull’esatta grafia del nome e sulla possibilità di leggere Dmhsagovrou nel nostro testo, accettando la proposta dell’Allacci, vd. Skiadas 1965, 36 n. 3 ; Gow-Page 1965, ii 27. 5  Così in Certam. 9, 21, 53, 75, 151 (nella seconda occorrenza si cita Euagon di Samo = FGrHist 535 F 2, storico di v sec. a.C.) e, in maniera presso 













no come la querelle relativa alla patria d’Omero fosse ben presto divenuta tema comune agli epigrammisti è presente in APl 294-299 : sono tutti testi anonimi, tranne APl 296, attribuito a un Antipatro, forse il Sidonio. 6 Il nostro appare comunque déplacé all’interno sia della Palatina sia della Planudea, collocato com’è tra gli epigrammi funerari : 7 una scelta suggerita probabilmente dall’affinità con quegli epitimbi fittizi in cui si immagina che poeti famosi parlino direttamente dalla tomba. 8 La precisione dei riferimenti a Demagora e a Melete dimostra che anche AP 7, 5, come molti altri epigrammi in cui si rievocano celebri autori del passato, ha dietro di sé gli studi biografici dell’erudizione ellenistica. 9 Ad alimentare le ricerche in questo campo sarà stato, in più di un caso, un interesse localistico : per qualsiasi città greca l’essere indicata come il luogo d’origine di un grande poeta costituiva titolo di prestigio e di vanto, e comportava talora anche implicazioni politiche di non poco conto. Ciò dovette essere vero soprattutto per la disputa circa la patria d’Omero : 10 non si spiegherebbe altrimenti il fiorire di una vera e propria letteratura intorno a questo argomento. 11 È scontato che tra le città concorrenti esistesse una forte rivalità, sì che non può certamente sorprendere che da questo tipo di testi traspaia talvolta un’intenzione polemica. E tuttavia, rispetto ad altri epigrammi che trattano lo stesso tema, la polemica assume in AP 7, 5 un tono particolarmente acceso : 12 di qui l’ipotesi – avanzata da più parti – che a sollecitarne  

















ché ricorrente, nel resto della tradizione biografica : cfr. Jacoby 1933, 13-24 (= 1961, 14-26) ; Skiadas 1965, 32-37 ; Graziosi 2002, 72-77.   6  Argentieri 2003, 164-166. In Gow-Page 1965 l’epigramma figura invece come Antip. Thess. 72.   7  Più precisamente esso fa seguito a quattro epigrammi (AP 7, 1-4) tutti dedicati al luogo di sepoltura di Omero, che fu per gli antichi, senza alcuna discussione, l’isola di Io. Tra questi figura, quale primo della serie, un componimento di Alceo di Messene (AP 7, 1 = 11 G.-P.). Sugli epigrammi dedicati a Omero vd. in particolare Skiadas 1965 e Bolmarcich 2002.   8  Ad es. AP 7, 715 (= Leonid. 93 G.-P.), 7, 415 e 525 (= Callim. 30 e 29 G.-P.), 7, 417 e 418 (= Meleag. 2 e 3 G.-P.). Come ha osservato Prioux 2007, 7, gli epigrammi concernenti le statue di poeti sono assai meno numerosi di quelli relativi alle loro tombe. Tra quelli che la studiosa registra, a me sembra che un caso di déplacement simile al nostro si possa individuare in AP 7, 644 (= Theocr. 14 G.-P. = 21 Rossi) : il componimento, dedicato a una rappresentazione iconografica di Archiloco, non presenta alcunché, sul piano del contenuto, che rinvii esplicitamente a un contesto tombale ; ma l’impiego di formule tipiche delle iscrizioni funebri (vd. Rossi 2001, 329) ha fatto sì che venisse incluso tra i funerari.   9  Vd. in generale Bing 1993. Per “the possibility of a ‘critical/literal’ reading” di questa tipologia di epigrammi, Rossi 2001, 86-93 ; Barbantani 2010, 1-4. 10  Cfr. Certam. 2 ”Omhron de; pa`sai wJ~ eijpei`n aiJ povlei~ kai; oiJ e[poikoi aujtw`n par jeJautoi`~ gegenh`sqai levgousin. La querelle ha avuto e continua ad avere sviluppi fino ai giorni nostri : se ancora Leone Allacci nel xvii secolo rivendicava con non dissimulata partigianeria le ragioni della sua Chio, è cronaca relativamente recente (maggio 2010) la disputa tra i sindaci delle città turche di Bornova e Gaziemir circa l’esatto luogo di nascita del poeta. 11  Vd. Jacoby 1933 (= 1961) ; De Martino 1984 ; Esposito Vulgo Gigante 1996 ; Graziosi 2002 ; West 2003. 12  Cfr. Skiadas 1965, 28 : “einen scharf angreifenden und kämpferischen Ton”.  























la patria di omero e un singolare exemplum fictum la composizione sia stata un’occasione ben definita. Su di essa torneremo sul finire del nostro contributo, al termine di un’esegesi che, come si vedrà, sarà almeno in parte diversa da quella sin qui comunemente accolta ; nondimeno la suggestione che il nostro componimento sia strettamente connesso alla novità di un preciso evento, di cui sembra voler contrastare gli effetti, ne risulterà ulteriormente rafforzata.  

Il messaggio complessivo dell’epigramma non si presta a equivoci : Omero non è nato a Salamina. 13 Meno perspicua di quanto non sia parsa finora è invece in più di un punto, a me sembra, l’interpretazione del testo. Generalmente si pensa che ‘Alceo’ faccia dire a Omero che neppure se i Salaminii lo onorassero elevandogli una statua d’oro egli sarebbe disposto ad ammettere di essere nativo del luogo : la realizzazione di una statua in oro, dunque, sarebbe presentata dallo stesso poeta come una possibile forma di lusinga per indurlo ad avallare il falso circa le sue origini – una lusinga certamente eccezionale, e tuttavia neppur essa sufficiente a smuoverlo. 14 Si vedano ad es. traduzioni quali :  





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Non, quand de votre enclure vous me feriez surgir en Homère d’or, parmi les éclairs enflammés de Zeus, je ne suis ni ne serai de Salamine, ni le fils de Melès ne le sera de Damagoras. Que les yeux de la Grèce ne voient cela ! Mettez à l’essai un autre poète. 15 Ergere me dalla forgia – dorato Omero – potreste / tra barbagli di folgori divine : / di Salamina non sono per ciò né sarò, né figliolo, / anzi che di Melete, di Demàgora. / Questo non veda la Grecia ! Prendetene un altro ! 16

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testo appare permeato di una ricercata e capziosa ambiguità che i critici ‍– non solo Rubensohn, ma anche quelli successivi – non sembrano aver colto. È sfuggita, in particolare, la studiata costruzione del primo distico, ove più intenso si concentra il sarcasmo dell’autore : qui, infatti, ‘Alceo’, come subito vedremo, si è divertito a evocare nel lettore, in rapida successione, prospettive di significato destinate a essere rimesse in discussione o a essere addirittura rovesciate di segno dal progressivo articolarsi del periodo, fino alla pointe finale del v. 2, la cui esatta intelligenza si rivela essenziale per poter ricostruire retrospettivamente il senso complessivo del discorso. Una marcata ambiguità caratterizza già l’inizio del componimento. Chi cominci a leggere ha in effetti la netta suggestione che a parlare sia direttamente una statua di Omero : richiamerei in particolare incipit analoghi come ad es. APl 258 (anon.) Diktuvnnh~ Tivmwn me kaq jiJero;n e[mpuron oJ Krh;~ É cavlkeon e[sthse Pa`na to;n aijgovnuca, AP 6, 261 (Crinagoras, GP 1793 s.) cavlkeon ajrgurevw/ me paneivkelon, ∆Indiko;n e[rgon, É o[lphn ktl., APl 191 (= Nicaenet. 3 G.-P.) aujtovqen  



ojstravkinovn me kai; ejn posi; ghvinon ÔErmh`n É e[plasen aJyi`do~ kuvklo~ eJlissovmeno~, in cui è direttamente il manufatto (e

Ma è davvero una lusinga quella che Omero viene prospettando nella frase ipotetico-concessiva dei vv. 1-2 ? È importante, ai fini dell’esegesi, non lasciarsi fuorviare dalla tessitura verbale e sintattica apparentemente piana dell’epigramma. Sul finire del xix secolo, sostenendo la tesi dell’ascrizione ad Alceo, 17 Max Rubensohn indicava come caratteristiche del poeta di Messene una certa spontaneità d’espressione e uno scarso tasso di elaborazione retorica. In realtà non sono propriamente questi i tratti che AP 7, 5 pone in luce ; anzi, se analizzato con attenzione, il nostro

precisamente una statua nel primo dei tre esempi) a riferirsi a se stesso con un pronome di prima persona in accusativo e l’indicazione del materiale di cui è costituito. 18 Ma, subito, lo sviluppo della frase smentisce – o meglio, come vedremo, sembra smentire – questa impressione : con l’occorrere di sthvshte al congiuntivo – e i{sthmi è il verbo tecnico per l’erezione di una statua 19 – sembra farsi chiaro che la statua di Omero in oro si delinea come un’ipotesi che concerne il futuro, non come un dato dell’hic et nunc. La prospettiva muta : la sensazione, a questo punto, è che chi parla sia un Omero redivivus, 20 e che, completando il giro di pensiero avviato con l’oujd jeij iniziale, l’antico poeta stia rifiutando, per una qualche ragione, la dedica di una statua d’oro in suo onore. A rafforzare questa seppur provvisoria convinzione doveva concorrere il fatto che l’erezione di statue celebrative era una forma di onorificenza assai comune per i poeti nel mondo greco. 21 Relativamente a Omero ce ne restano

13  Se il rifiuto delle pretese di Salamina è netto, il testo non lascia intendere con altrettanta chiarezza quale sia in positivo la posizione dell’autore : l’indicazione di Melete come padre del poeta indurrebbe a pensare che egli privilegiasse Smirna, sì che Chio, menzionata successivamente in relazione alla diffusione del lascito poetico di Omero, figurerebbe solo come sede degli Omeridi (così Gow-Page 1965, ii 27 e già Rubensohn 1893, col. 707). In realtà, come rileva Skiadas 1965, 26-28, nel nostro epigramma la precisazione oJ Mevlhto~ serve unicamente a smentire la presunta filiazione da Demagora : allo stesso modo, in APl 292 Omero è a un tempo, senza apparente contraddizione, figlio di Melete e nativo di Colofone. Ciò tuttavia, secondo lo studioso, non significa che ‘Alceo’ lo consideri originario di Chio (come riteneva ad es. Jacobs 1798, 348) : l’epigrammista intenderebbe invece denunciare, in generale, l’inverosimiglianza, se non la paradossalità, di molti tentativi di accaparrarsi la gloria dei natali di Omero da parte di città pronte a costruirsi delle ‘prove’ ad hoc. 14  L’eccezionalità è sottolineata dal ricorso a una costruzione che di norma si usa per ipotesi del tutto fittizie. Cfr. K.-G. ii 488 : “das Eintreten der Bedingung wird […] meist als unmöglich oder unwahrscheinlich hingestellt”. Cfr. Il. 8, 477 ss. (Zeus a Era) sevqen d jejgw; oujk ajlegivzw É cwomevnh~, oujd jei[ ke ta; neivata peivraq ji{khai É gaivh~ kai; povntou. Un incipit analogo a quello del nostro epigramma presenta Leonid. Alex. AP 7, 668 (= 13 G.-P.) oujd jei[ moi gelovwsa katastorevseie Galhvnh É kuvmata ktl. 15  Desrousseaux ap. Waltz 1960, 58. 16  Pontani 1979, 11. 17  Rubensohn 1893 (cfr. supra, n. 2), in garbato dissenso dall’opinione di Stadtmüller, il quale gli aveva comunicato di propendere piuttosto per Dioscoride – una propensione della quale tuttavia non v’è traccia nell’edizione teubneriana della prima parte dell’Anthologia che Stadtmüller pubblicò qualche anno più tardi : è facile sospettare un ripensamento da parte dello stesso studioso, “too free with such guesses” (Gow-Page 1965, ii 26).

18  Il motivo del monumento funebre o della statua che ‘parla’ al viandante o all’osservatore è ampiamente sfruttato, com’è noto, dall’epigramma alessandrino. All’origine vi è, già a partire dall’epoca arcaica, la convenzione epigrafica dell’‘oggetto parlante’ indagata, dopo Burzachechi 1962, soprattutto da Häusle 1979. Una ricca fioritura di studi, che non è qui il caso di citare, ne ha poi, soprattutto negli ultimi anni, esplorato e messo a fuoco le molteplici riprese e variazioni in ambito letterario. 19  Cfr. ad es. Hdt. 2, 141, 6 ou|to~ oJ basileu;~ e{sthke ejn tw`/ iJrw/` tou` ÔHfaiv- stou livqino~ ; Plat. Phaedr. 236b sfurhvlato~ ejn ∆Olumpiva/ stavqhti ; Demosth. 19, 261 Fivlippon ... calkou`n iJsta`si. 20  Che un celebre personaggio del passato sia fatto ‘resuscitare’ per interloquire con i viventi non è, notoriamente, fenomeno raro nella poesia greca : basti pensare alla scena della commedia attica di v secolo o, in età ellenistica, al Giambo i di Callimaco e, in una dimensione dichiaratamente onirica, al mimiambo viii di Eronda. Il caso del nostro epigramma sarebbe però diverso : Omero non comparirebbe direttamente, ma farebbe sentire solo la sua voce per comunicare al lettore il suo risentimento per una situazione che lo coinvolge direttamente. Qualcosa del genere accade in Callim. fr. 64 Pf. (= 163 Massim.), ove Simonide leva la sua energica protesta contro l’empio abbattimento del proprio tumulo da parte di Fenice : nel riprendere il topos epigrammatico del defunto che si rivolge al viandante dalla tomba, Callimaco fa parlare Simonide non si sa bene da dove, dal momento che il suo sepolcro non esiste più (vd. al riguardo Harder 1998, 97 ; Massimilla 2010, 309). In realtà questa suggestione – che cioè, come il poeta di Ceo negli Aitia, così anche nel nostro epigramma a parlare direttamente, seppur da un luogo imprecisato, sia Omero ‘in persona’ – verrà smentita nel prosieguo del testo : vd. infra. 21 Sulle statue di poeti copioso materiale in Rossi 2001, 92-98 e in Clay 2004, che, in una documentata Appendix sulla “Evidence for the cult of























































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massimo di marco

testimonianze per Smirna (Strabo 14, 1, 37), Colofone (Ps.Plut. Vit. Hom. 1, 75 ss.), Pergamo (IPergamon 203), Alessandria (Ael. VH 13, 22), Delfi (Paus. 10, 24, 2), Olimpia (Paus. 5, 26, 2), Atene (Ps.-Plut. Vit. x or. 837d). E si veda lo straordinario monumento che è il rilievo di Archelao di Priene, noto non a caso come ‘apoteosi d’Omero’. 22 Si aggiunga, poi, che neppure la costruzione di una statua in oro doveva sembrare di per sé un’ipotesi irrealistica : nella Grecia d’epoca classica ne abbiamo attestazioni per Alessandro di Aminta (Hdt. 8, 121 ; [Demosth.] 12, 21), Gorgia (Hermipp. ap. Athen. 11, 505e = fr. 63 Wehrli = 41 Bollansée ; Cic. De or. 3, 32, 129 ; [Dio Chrys.] 37, 28 ; Plin. NH 33, 83 ; Val. Max. 8, 15 ; Paus. 10, 18, 7), Frine ([Dio Chrys.] 37, 28 ; Plut. De Pyth. orac. 401d, Amat. 753f ; Athen. 13, 591bc = Alceta, FGrHist 405 F 1). 23 Né è da trascurare il fatto che nella cultura grecolatina la promessa di una statua d’oro assume, soprattutto in contesti scherzosi, il valore di iperbolica forma di lusinga a fronte della richiesta di un favore o di un impegno assai gravoso : cfr. ad es. Verg. Ecl. 7, 36 ; Luc. Pseud. 15 ; Alciphr. 4, 3, 3. 24 Ma torniamo all’analisi dell’epigramma. Se fino a sthv- shte – come si è visto – le parole di Omero sembravano configurare l’ipotesi della costruzione di una statua d’oro a fini onorifici, con la iunctura flogevai~ ejn Dio;~ ajsteropai`~, posta a completamento della frase, si avverte all’improvviso come un inciampo : ci si attenderebbe in effetti l’indicazione di un luogo idoneo ad accogliere la statua, ad es. l’agorà 25 o comunque uno spazio pubblico di particolare prestigio, 26 e invece ecco che, in maniera del tutto inopinata, compaiono i fulmini di Zeus. Sorprende come l’esegesi corrente abbia generalmente eluso la difficoltà di integrare una siffatta espressione in un contesto come quello generalmente postulato per il primo distico del nostro componimento : non si vede, infatti, in che modo la menzione delle folgori possa conciliarsi con la prospettiva, apparentemente sin qui evocata, del tributo a Omero di uno straordinario onore. Con eccessiva disinvoltura si è per lo più supposto che con flogevai~ ejn Dio;~ ajsteropai`~ ‘Alceo’ intendesse alludere allo splendore dell’oro della statua, che di fatto verrebbe assimilato a quello dei fulmini divini. 27 Ma – per quanto non manchino attestazioni di espressioni che esaltano appunto lo ‘sfolgorio’ di determinati oggetti in metallo (ad es. Il. 11, 66 lavmf jw{~ te steroph; patro;~ Diov~ ; Od. 4, 72 s. calkou` te sterophvn ... É crusou` t jhjlevktrou te kai; ajrguvrou) – è davvero difficile trarre un senso di tal genere dalla iunctura del nostro epigramma. Né, allo stesso modo, è possibile dedurne un significato come quello voluto da Boissonade :

“Ne si me quidem aureum posueritis fervidaque manu tenentem Jovis fulgura”. 28 È presumibile, invece, che la locuzione non significhi nulla più di quello che banalmente, in qualunque altro contesto, saremmo indotti a ritenere : “tra le fiamme dei fulmini di Zeus”. Ma, allora, a che cosa si riferisce Omero ? Quale ipotesi sta adombrando ? Dübner, non discostandosi dalla linea esegetica tradizionale, quella della statua d’oro come forma di captatio, pensava che con flogevai~ ejn Dio;~ ajsteropai`~ Omero prefigurasse una collocazione del suo simulacro nel tempio di Zeus. 29 Una tale collocazione di per sé non sarebbe implausibile. La prassi di associare in qualche modo i poeti al culto degli dèi è già testimoniata per l’epoca classica, ad es. con la dedica nell’Altis a Olimpia di Micito di Reggio, forse dopo il 467 : come ci attesta Paus. 5, 26, 2, dinanzi al tempio di Zeus comparivano, accanto alle statue di divinità, anche quelle di Omero ed Esiodo. Il santuario delle Muse sull’Elicona ospitava statue di Tamiri, Arione, Sacada, Esiodo e Orfeo, insieme a quelle delle Muse, di Ermes e Apollo e di Dioniso (Paus. 9, 30, 1-4). Statue di Eschilo, Sofocle e Euripide furono commissionate da Licurgo per il recinto di Dioniso ad Atene (Ps.-Plut. Vit. x or. 841f ; Paus. 1, 21, 1-2), ove fu eretta anche una statua di Menandro (Paus. 1, 21, 1). E si potrebbe continuare. 30 Omero è tra tutti, sin da Aristofane (Ra. 1034) e Platone (Phaed. 95a ; Ion 530b), il poeta ‘divino’ per eccellenza. Qei`o~ è epiteto che forse nel suo caso poté avere con il tempo valenze diverse, passando dal significato di “ispirato dagli dèi” 31 a quello di “compartecipe della natura degli dèi” in senso più proprio, in sintonia con il processo di eroizzazione se non addirittura di divinizzazione che la sua figura conobbe soprattutto in età ellenistica. Nel tempio fatto costruire in suo onore da Tolemeo IV Filopatore il poeta era seduto al centro, e intorno a lui in circolo erano disposte le città che si vantavano di avergli dato i natali (Ael. VH 13, 22) ; il rilievo di Archelao sembra presupporre un Homereum di tal fatta ; e un tempio dedicato a Omero, con un suo xoanon, era certamente a Smirna (Cic. Arch. 8, 19 ; Strab. 14, 1, 37). 32 Per quanto suggestiva e potenzialmente corroborata dagli esempi testé addotti, l’interpretazione di Dübner ha tuttavia contro di sé la fraseologia del testo : la statua, infatti, dovrebbe sorgere non accanto a quella di uno Zeus folgorante, ma esattamente “tra i fiammeggianti fulmini di Zeus”. La chiave di lettura dovrà dunque essere necessariamente un’altra. Nell’immaginario greco la folgore di Zeus non è solo uno dei principali attributi e motivi di vanto del dio (Ap. Rh. 1, 510 s. keraunw`/ É bronth`/ te: steroph/` te: ta; ga;r Dii; ku`do~

poets in Greek Polis” (136-153), offre una significativa selezione delle testimonianze al riguardo.

ant”. Hecker 1852, 262 proponeva invece di correggere in flogevai~ eu[dion ajsteropai`~. 28  Ap. Dübner 1864, 417. Peraltro, a quel che l’iconografia d’Omero ci mostra, se il poeta è effigiato con qualcosa tra le mani, si tratta non certo della folgore, ma dello scettro e del rotolo : cfr. Zanker 1995, 160. 29  Dübner 1864, 417 : “An poeta voluit : in ipso Jovis templo, fulguribus keraunouvcou coruscante ?”. L’ipotesi è presa in considerazione anche da Rubensohn 1893, col. 733, che, pur non nascondendosi le difficoltà linguistiche che l’espressione pone, riteneva che la statua potesse essere collocata “am passendsten” nel tempio di Zeus Salaminio menzionato da Tacit. Ann. 3, 62 e Ammian. 14, 8, 16. 30  Cfr. Clay 2004, 88 :”Votive poets were a presence in sanctuaries throughout the Greek world”. 31  Vd. Finkelberg 1998, 27 ; Capuccino 2005, 211-228. 32  Pinkwart 1965, 169-173 ; Brink 1972, 549-552 ; Zanker 1995, 154-160 ; Clay 2004, 63-98. È notevole, peraltro, che su alcune monete di Smirna, gli ÔOmhv- reia, il poeta appaia ritratto con una iconografia che richiama assai da vicino quella di Zeus : cfr. Zanker 1995, 160.





























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22  Fondamentale Pinkwart 1965. 23  Sul tema in generale Whitehorne 1975. 24  Al riguardo Lorenzoni 1995, 115, la cui ipotesi di un uso proverbiale (ne è indizio la formulazione della frase in Luc. Pseud. 15 crusou`~, fasivn, ejn ∆Olumpiva/ stavqhti) trova chiara conferma in Apostol. 18, 41 L.-Schn. 25  Cfr. Posidippo 118, 17 A.-B. (= SH 705, 17) laofovrw/ keivmeno~ eijn ajgorh`./ 26  Come per Filita in Hermesian. fr. 7, 75 s. Pow. to;n ajoidovn, o}n Eujrupuvlou polih`tai É Kw/`oi cavlkeion sth`san uJpo; platavnw/, per cui vd. Hollis 1996 e Hardie 1997. 27  Jacobs 1803, 446 : “de splendore fulguris splendori comparando accipienda videntur”. Cfr. Desrousseaux ap. Waltz 1960, 58 n. 2 : “On discute sur le sens de ces mots. Probablement, ils font allusion aux reflets “fulgurants” du bronze dont serai faite la statue”. Non diversamente Gow-Page 1965, ii 26 : “perhaps ‘flashing like lightning’ is all that is me 























































la patria di omero e un singolare exemplum fictum ojpavzei), ma è soprattutto il segno della sua minacciosa potenza : a[grupnon bevlo~, É kataibavth~ kerauno;~ ejkpnevwn flovga (Aesch. Prom. 359 s.), pthno;n o{plon deinovn, klonokavr- dion, ojrqoevqeiron (Hymn. Orph. 19, 8). Di essa Zeus baruvmhni~ si serve per punire i malvagi e i suoi nemici dando così  

sfogo alla sua ira (Hymn. Orph. 20, 4) ; è l’arma con cui già in Esiodo egli vince i Titani e Tifeo, e con cui in generale, nel mito, fulmina Salmoneo, gli empi, gli spergiuri. È significativo, in proposito, che nel lamentare il fatto che le scelleratezze commesse dai mortali rimangano impunite il Timone lucianeo chieda provocatoriamente a Zeus dove siano hJ  

ejrismavrago~ ajstraph; kai; hJ baruvbromo~ bronth; kai; oJ aij- qalovei~ kai; ajrghvei~ kai; smerdalevo~ keraunov~ (Tim. 1).

Alla luce di queste e altre associazioni consimili riesce difficile non interpretare l’espressione flogevai~ ejn Dio;~ ajsteropai`~ come evocativa di una condizione di terrore, di pericolo, di sofferenza. 33 Ma proprio ciò determina all’interno del nostro contesto un clamoroso effetto di aprosdoketon. La mente del lettore, che finora aveva visualizzato l’immagine di una statua d’Omero forgiata con il più nobile e prezioso dei metalli, vede infatti d’un sol colpo materializzarsi un tableau assolutamente imprevisto : quello di una statua sulla quale si abbattono, come nel pieno di una terribile tempesta, i fulmini ardenti di Zeus. Altro che lusinga ! L’ipotesi che Omero sta considerando è che i Salaminii possano torturarlo per costringerlo ad assecondare la loro richiesta. 34 Torneremo nel seguito a interrogarci sul perché nel testo si immagini che la tortura si eserciti proprio su una statua d’oro del poeta. Al momento ciò che preme porre in rilievo è che la situazione in cui Omero si finge proiettato richiama per più di un aspetto quella di un famoso antecedente mitico : mi riferisco a Prometeo, in particolare al Prometeo rappresentato da Eschilo, incatenato per volere di Zeus alla rupe della Scizia, intorno al quale, in un’atmosfera di tregenda, si scatenano gli elementi naturali. Certo, a fronte dell’ampia e vivida descrizione della tragedia eschilea, lo scenario apocalittico nel nostro breve epigramma è soltanto sinteticamente racchiuso nell’immagine dei fulmini ; ma è notevole, a me pare, un’altra coincidenza, quella per cui in entrambi i testi il fiammeggiare delle folgori si configura come una forma di tortura volta a strappare alla vittima del supplizio la rivelazione di un segreto o un’ammissione alla quale essa strenuamente recalcitra : il nome, nel caso di Prometeo, della dea da cui nascerà colui che porrà fine al dominio di Zeus ; l’avallo, nel caso di Omero, al menzognero logos circa i suoi natali. Si vedano in particolare i vv. 992-996 del Prometeo :  

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pro;~ tau`ta rJiptevsqw me;n aijqalou`ssa flovx, leukoptevrw/ de; nifavdi kai; bronthvmasi cqonivoi~ kukavtw pavnta kai; tarassevtw: gnavmyei ga;r oujde;n tw`ndev m jw{ste kai; fravsai pro;~ ou| crewvn nin ejkpesei`n turannivdo~.

33  Proprio per questo non si può credere che con sthvshte flogevai~ ejn Dio;~ ajsteropai`~ ‘Alceo’ volesse indicare la costruzione di una statua alta fino al cielo, come supponeva Brodeau 1600, 387 : “nec si me aurea statua alteque substructa donetis” ovvero “etiam si meus colossus aërem ubi coruscat Iupiter, pertingat”. 34  Lo aveva ben intuito – salvo proporre in anni successivi una spiegazione diversa – Jacobs 1798, 348 : “Hanc statuam si Iovis fulminibus exposueritis feriendam, numquam tamen me Salaminium esse confitebor. Ait (scil. Omero) itaque, se nullis minis, nullis cruciatibus adduci posse, ut illam insulam (sic !) patriam suam esse dicat”. È sconcertante che di questa esegesi non sia rimasta traccia – per quel che ho potuto vedere – nei successivi commenti al nostro epigramma. A relegarla nell’oblio contribuì lo  





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Se questa suggestione ha un fondamento, se cioè davvero ‘Alceo’ nel concepire il suo epigramma ha avuto in mente il paradigma mitico di Prometeo, occorrerà allora intendere l’espressione a[llon poihth;n basanivzete del v. 5 non nel senso di “alium poetam explorate, an donis corruptus vester dici haberique velit”, 35 ma piuttosto in quello, ben diverso, di “sottoponete a questa tortura un altro poeta meno disposto di me a sopportare un tale supplizio”. Siamo all’opposto del conferimento di un onore prestigioso. La tortura – giova ricordarlo – era il mezzo normalmente impiegato per estorcere confessioni agli schiavi : 36 che sia proprio Omero, altrove celebrato come qei`o~, a evocare la possibilità che essa venga usata nei suoi confronti ha un che di paradossale.  





In questa prospettiva acquista probabilmente significato anche la scelta di menzionare il martello al v. 1, e di farlo con un vocabolo come rJaisthvr. Non v’è dubbio che la iunctura cruvseion ajpo; rJaisth`ro~ si lasci facilmente interpretare come l’equivalente di crushvlaton : ma perché introdurre un riferimento al martello quando è del tutto ovvio che per lavorare il metallo il toreuta ha comunque la necessità di servirsi di un simile attrezzo ? È invece interessante rilevare che il termine, già impiegato da Omero per indicare il maglio che Efesto utilizza per forgiare lo scudo di Achille (Il. 18, 477), compare nella letteratura prealessandrina ancora solo in Aesch. Prom. 56, esattamente nella scena in cui Kratos ordina a Efesto di inchiodare il Titano alla roccia : balwvn nin (scil. yevlia) ajmfi; cersi;n ejgkratei` sqevnei É rJaisth`ri qei`ne, passavleue pro;~ pevtrai~. Il sospetto è, dunque, che l’autore del nostro epigramma abbia voluto evocare, sin dall’inizio, un’azione compiuta con la forza, contro la volontà dell’interessato : un primo segnale, per così dire, del modello mitico reso più esplicito dalla successiva menzione dei fulmini. Se poi il nostro autore fosse davvero Alceo di Messene, la memoria mitica di particolari propri della tortura inflitta a Prometeo troverebbe un interessante parallelo all’interno dei pur non cospicui resti della sua produzione in APl 8 (= 18 G.-P.), in cui il poeta, presentando Apollo che punisce Marsia serrandogli in primo luogo le mani (v. 5 s. dh; ga;r ajluktopevdai~ sfivggh/ cev- ra~ ou{neka Foivbw/ É qnato;~ ejw;n qeivan eij~ e[rin hjntivasa~), ha certamente avuto ben vivo il ricordo del celebre episodio del mito del Titano : lo dimostra, come è stato acutamente osservato, il ricorso al raro ajluktopevdai e a sfivggw, usati, il sostantivo da Hes. Theog. 521 e Ap. Rh. 2, 1249 e il verbo da Aesch. Prom. 57, proprio in riferimento all’incatenamento che il ribelle subisce a opera di Efesto. 37 L’esegesi dei vv. 1-2 or ora proposta ci consente anche di apprezzare, a me sembra, la finesse racchiusa nell’uso di basanivzete al v. 5. La possibilità di una correlazione tra l’impiego di questo specifico verbo e l’oro della statua non è del tutto sfuggita agli studiosi, che tuttavia non ne hanno fornito una spiegazione soddisfacente. Si è ovviamente pensato alla bavsano~ : “Il verbo allude alla prova dell’oro con la pietra di paragone, e richiama finemente l’immagine di v.  













stesso studioso ritrattandola e consegnando alla letteratura posteriore come sua interpretazione autentica e definitiva quella che si legge in Jacobs 1803, 446 : “cum eum apud se natum esse putari vellent (scil. i Salaminii), hunc honorem Homerus sibi habitum esse ait, quo ipse corruptus litem secundum Salaminios daret. […] basanivzein non est torquere, sed explorare, an corrumpi queat”. 35  Jacobs ap. Dübner 1864, 418. Cfr. Gow-Page 1965, ii 27 : “if you must claim as your own a poet who is not really yours, put to the test mentioned above one more likely to yield than I am” (ove il test sarebbe appunto quello dell’allettamento onorifico). 36  Harrison 1971, ii 147-150 ; duBois 1991. 37  Vd. Gow-Page 1965, ii 23, nonché Dettori 1995.  





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massimo di marco

1”. 38 Ma, postulato in questi termini, il nesso rimane piuttosto estrinseco e artificioso, e si riduce a poco più di una mera agudeza linguistica. 39 Vero è che abbiamo significative testimonianze, sin dall’epoca arcaica, dell’uso metaforico dell’immagine della bavsano~ in riferimento alla ‘messa alla prova’ delle qualità morali di un individuo (Theogn. 119 s., 415 s., 449 s., Pind. Pyth. 10, 67 s., ecc.) 40 e che, d’altra parte, il nostro contesto può ben suggerire l’idea che in qualche modo Omero sia chiamato, resistendo ai Salaminii, a ‘dare prova’ della sua vera tempra ; ma ciò avrebbe, tutto sommato, poco o nulla a che vedere con l’oro della statua in quanto tale. A me sembra invece che sia possibile fornire una interpretazione più sottile – ma anche più arguta – del nostro contesto, tale da unire in un rapporto di stretta consequenzialità l’oro della statua, l’azione dei fulmini e l’impiego in chiave pregnante di basanivzw. Come ci documenta una pluralità di fonti, nell’antichità l’oro veniva saggiato – oltre che sfregandolo sulla pietra di paragone – anche sottoponendolo alla prova del fuoco, eseguendo cioè la c.d. obrussa. Delle due prove, diverse nelle modalità ma parimenti efficaci quanto all’effetto, parla ad es. Theophr. De lapid. 7, 45 : dokei` (scil. hJ bavsano~) ... th;n aujth;n e[cein tw`/ puri; duvnamin: kai; ga;r ejkei`no

dell’obrussa. 43 È significativo che l’autore dell’epigramma scelga di qualificare le ajsteropaiv come “fiammeggianti”. Applicato ai fulmini l’epiteto, ovviamente, non è inatteso e può apparire meramente esornativo ; e tuttavia, nell’ottica della nostra interpretazione, esso non serve semplicemente a dare un tocco di colore. 44 Non è infatti l’effetto luministico quello che, come in altri casi in cui ricorra un’immagine simile, il poeta vuole mettere in rilievo : qui del fulmine ‘Alceo’ vuole specificamente sottolineare la natura ignea e la proprietà che esso ha di trasferire la sua carica di elettricità – e dunque tutto il suo immenso potenziale di calore – al corpo sul quale si abbatte. È suggestivo pensare che anche per questo particolare la fantasia del poeta possa essere stata stimolata dalla memoria di un celebre racconto mitico, quello esiodeo della lotta di Zeus contro Tifeo, ove non solo è diffusamente illustrato il potere incendiario delle folgori del dio, ma si introduce anche, per via di comparazione, l’immagine della fusione dello stagno e del ferro, e dunque il riferimento a un processo che poteva richiamare appunto l’obrussa eseguita nei confronti dell’oro (Theog. 859-867) :

va perso nel fuoco tutte le sue scorie, 41 e la prova della fiamma era la più consona a stabilirne l’effettiva qualità. Annota Plinio, NH 33, 59, che l’oro, quo saepius arsit, proficit ad bonitatem, aurique experimentum ignis est, ut simili colore rubeat ignescatque et ipsum ; obrussam vocant ; e in Petron. 67, 6 l’espressione reticulum aureum, quem ex obrussa esse dicebat sta a indicare una cuffia il cui pregio è quello di essere stata filata con oro zecchino. Come per bavsano~, dal dato empirico si è sviluppato un significato metaforico : la prova dell’oro attraverso il fuoco ha ben presto acquisito un’esemplarità proverbiale (Men. Mon. 385 Jäkel = Comp. Men. et Philist. 1, 65 = Arsen. 10, 8a L.-Schn. krivnei fivlou~ oJ kairov~, wJ~ cruso;n to; pu`r), 42 e lo stesso termine obrussa, di per sé solo, ha finito con l’assumere valore traslato : cfr. Sen. Epist. 13, 2 haec eius obrussa est ; Nat. quaest. 4, 5, 1 si omnia argumenta ad obrussam coeperimus exigere. ‘Alceo’ ha appena finito di evocare l’ipotesi di una statua d’oro collocata al centro di una tempesta di fulmini ardenti (flogevai~ ejn Dio;~ ajsteropai`~). Non è fuori luogo, allora, pensare che in basanivzete si celi una ironica allusione proprio all’effetto che i fulmini provocano sull’oro, ovvero al liquefarsi del metallo, come avveniva durante la prova

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flo;x de; keraunwqevnto~ ajpevssuto toi`o a[nakto~ ou[reo~ ejn bhvssh/sin ajidnh`~ paipaloevssh/~ plhgevnto~: pollh; de; pelwvrh kaiveto gai`a aujtmh/` qespesivh/ kai; ejthvketo kassivtero~ w}~ tevcnh/ uJp jaijzhw`n uJpo; eujtrhvtou coavnoio qalfqeiv~, hje; sivdhro~, o{ per kraterwvtatov~ ejstin, ou[reo~ ejn bhvssh/si damazovmeno~ puri; khlevw/ thvketai ejn cqoni; divh/ uJf j ÔHfaivstou palavmh/sin: w}~ a[ra thvketo gai`a sevlai puro;~ aijqomevnoio.

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dokimavzei: ª...º ouj ga;r to;n aujto;n trovpon dokimavzei, ajlla; to; me;n pu`r tw//` ta; crwvmata metabavllein kai; ajlloiou`n, oJ de; livqo~ th/`/ paratrivyei. L’oro più puro era quello che ave 













38  Conca-Marzi-Zanetto 2005, 578 n. 39  Decisamente forzata mi sembra la lettura che di basanivzete – ma in generale di tutto l’epigramma – offre Tueller 2008, 181. Il componimento polemizzerebbe contro la tendenza a concepire una “continuity between the image and the person”, in reazione agli epigrammi di Teocrito su Epicarmo (AP 9, 600 = 17 G.-P. = 18 Rossi) e Pisandro (AP 9, 598 = 16 G.-P. = 22 Rossi) : “In denying the veracity of his golden self [ma è così ?], Homer […] focuses on the physicality of the experience of looking at a statue : the eyes are emphasized as the means by which the reception takes place, and Homer refuses to be put to a touchstone test (with a backhanded reference to those poets that submit to representation at the hands of Theocritus”). 40  Cannatà Fera 1995 ; Imperio 2000. 41  Come in una sorta di processo di cottura. L’analogia è sottolineata dal fatto che, accanto a cruso;~ kaqarwvtato~ e ajkhvrato~, ricorre spesso in greco la locuzione cruso;~ a[pefqo~ (Hdt. 1, 50, 2 ; Thuc. 2, 13, 5 ; Poll. 7, 97 ecc.) : cfr. Blümner 1912, col. 1568 s. 42  Vd. al riguardo Tosi 1991, 596. Cfr. Ov. Trist. 1, 5, 25 ut fulvum spectatur in ignibus aurum, / tempore sic duro est inspicienda fides ; Sen. Dial. 1, 5, 10  















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Resta da definire un ultimo punto, che è tuttavia anch’esso di fondamentale importanza per l’esegesi complessiva dell’epigramma. Siamo partiti dalla constatazione che dopo l’attacco iniziale, il quale sembrava avvalorare l’impressione che a parlare fosse una statua di Omero, il lettore era indotto a ricredersi e a immaginare l’intervento di un Omero per così dire ‘fuori campo’, che respingeva con forza l’ipotesi di un’onorificenza volta a corromperlo. Una volta però che si integri nella lettura del testo l’espressione flogevai~ ejn Dio;~ ajsteropai`~ e si abbia chiaro che quella che si prospetta è un’ipotesi di tortura, la voce di un Omero ‘fuori campo’ appare difficilmente ammissibile. Se intendessimo infatti “neppure se mi elevaste una statua d’oro tra i fulmini di Zeus …”, dovremmo dedurne che ai Salaminii Omero attribuisca l’intenzione di costruirgli una statua d’oro al solo scopo di esporla alla violenza dei fulmini : si tratterebbe di un exemplum fictum bislacco e sostanzialmente privo di senso. Perché poi – ci sarebbe da chiedersi – proprio una statua d’oro ? A queste ineludibili aporie ci si sottrae, invece, se, con diversa interpretazione, si ipotizza che una statua d’oro di Omero già esista, e che sia appunto essa a prendere la parola : “neppure se collocaste me, statua aurea di Omero, tra i fulmini di Zeus …”.  





ignis aurum probat, miseria fortes viros ; Cic. Brut. 258 quo magis expurgandus est sermo et adhibenda tamquam obrussa ratio. Altre testimonianze in ThLL 9, 2, col. 155. 43  Ovviamente l’obrussa si svolgeva secondo un protocollo che richiedeva l’uso di una serie di strumenti e l’adozione di particolari accorgimenti tecnici : vd. Blümner 1887, 130 s. ; Forbes 1971, 172-178. Lo stesso termine che designava complessivamente il procedimento, come ha chiarito Benveniste 1953, doveva indicare all’origine la ‘coppella’ in cui esso aveva luogo. L’immagine di ‘Alceo’, come del resto si riscontra negli stessi accenni all’obrussa di Teofrasto e Plinio, coglie unicamente, in modo pregnante, il dato essenziale del processo : la messa alla prova dell’oro con il fuoco. 44  Allo stesso modo anche la qualificazione Dio;~ ajsteropaiv potrebbe non essere pleonastica : il collegamento dei fulmini con Zeus era familiare a qualunque lettore antico ; il fatto, tuttavia, che qui esso venga esplicitato potrebbe essere funzionale all’attivazione dei paradigmi mitici sottesi al testo, in cui i fulmini non sono semplici fenomeni celesti ma hanno rilievo come specifiche armi del dio.  











la patria di omero e un singolare exemplum fictum

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da chi si vedeva assillato da continue domande di prestito. 51 Ciò che i Salaminii chiedono a Omero è qualcosa di molto più impegnativo : una malleveria, anzi un’autenticazione, alle loro falsità. Un atto insolente e temerario : l’aversio che li indirizza bruscamente in altra direzione esprime efficacemente, nella sua perentorietà, la stizza e l’indignazione del poeta per l’affronto subìto.  

Già altri studiosi hanno ritenuto probabile che ad ispirare questo componimento fosse una statua del poeta realmente esistente, 45 ma hanno pensato a una statua di altro materiale, magari di bronzo, 46 sulla base della convinzione, come si è visto, che l’erezione di un simulacro in oro fosse una mera proiezione fantastica di un Omero che interveniva dall’esterno. La nostra esegesi ci obbliga invece a pensare che la statua in questione fosse precisamente una statua d’oro e che sia proprio essa, nell’epigramma, a prospettare per sé il trattamento di cui ai vv. 1-2. 47 Nonostante il silenzio delle fonti è lecito credere che, nel momento stesso in cui presentavano Omero come una celebrità del luogo, i Salaminii gli avessero effettivamente dedicato un monumento : certamente una statua non d’oro massiccio, ma ricoperta da lamine d’oro, e dunque tale da non comportare una spesa insostenibile per la comunità locale. 48 È a partire da questa realtà, che dobbiamo immaginare ben nota a un vasto pubblico, che ‘Alceo’ costruisce la sua pointe. Egli dà per implicito che Omero non si lasci condizionare da un simile omaggio, e focalizza invece l’attenzione del lettore sugli ipotetici sviluppi conseguenti al fallimento del tentativo di irretire l’antico poeta con le lusinghe : la magnificenza della statua non può in alcun modo surrogare la totale assenza di titoli di legittimità ; neppure se i Salaminii sottoponessero a tortura quel simulacro così prestigioso, neppure allora essi riuscirebbero a estorcergli il placet alla loro pretesa. Ed è significativamente la statua stessa che, giocando a vari livelli sulle suggestioni veicolate proprio dal suo essere realizzata in oro, schernisce con ironia il goffo tentativo di alterare i fatti. Che poi in un unico discorso tenuto in Ich-Stil si confondano i riferimenti della statua a se stessa e quelli a Omero qua persona è un fatto che non deve certo meravigliare ; si tratta anzi di un procedimento ampiamente diffuso già nella pratica iscrizionale almeno fin dal vi secolo a.C. La retorica della finzione e le convenzioni dell’epigramma consentono al discorso una contestualità di piani che la logica formale terrebbe invece rigorosamente distinti. Si veda ad es. la famosa iscrizione di Frasiclea :  





Bibliografia

La ripulsa di Omero tocca l’apice al v. 5. Alimentato da una reazione di dispetto, il suo sarcasmo 50 si manifesta nella ripresa di un’espressione popolare che conferisce alla comunicazione un’impronta di ruvida immediatezza. Il secco a[llon poihth;n basanivzete è infatti, come fu già rilevato da Rubensohn, sequenza modellata su una frase proverbiale, a[llhn dru`n balavnize (“bacchia un’altra quercia”), di cui conserva per intero il tono spiccio e liquidatorio. Il proverbio, secondo i paremiografi, era impiegato in primo luogo

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45  Gow-Page 1965, ii 26 : “The lines would be suitable if their author had seen or heard of a statue of Homer erected in Salamis as of a local celebrity. [...] Salamis’ claim was a novelty when the lines were written, and called for protest”. Sulla stessa linea già Paton 1916, 6 s. n. 2 : “This epigram […] refers to a statue of Homer at Salamis in Cyprus”. Di “érection projetée d’une statue du poète” a Salamina parla Desrousseaux ap. Waltz 1960, 58 n. 2. 46  Beckby 1957, 570 : “In dem Streit um Homers Heimat […] hatten auch die Salaminier ihrem Anspruch durch Errichtung einer Bronzestatue Nachdruck gegeben” ; Pontani 1979, 501 : “Omero, di cui a Salamina esisteva verosimilmente una statua di bronzo”. 47  Così, prima della sua ritrattazione (cfr. supra, n. 34), aveva già inteso Jacobs 1798, 346 : “cruvseion ajpo; rJaisth`ro~, Homerus aureus, auro mallo ducto. Suspicor, ap. Salaminios eiusmodi Homeri statuam fuisse”.

48  Il termine preciso sarebbe ejpivcruso~ : cfr. de Ronchaud 1877, 578. La definizione di cruvseo~ si applicava spesso in realtà a “statues creuses dont le métal était plus ou moins épais”. È significativo, ad es., che Paus. 10, 18, 7 definisca ejpivcruso~ eijkwvn la statua di Gorgia a Delfi, che secondo altre fonti sarebbe stata d’oro massiccio. 49  CEG 24, ca 540 a.C. Vd. in proposito Svenbro 1993, 9 ss. 50  Cfr. Skiadas 1965, 27 s. : “Das Epigramm ist im Grunde und im Ganzen Protest und Spott. […] der Spott gibt dem Epigramm seine Gepräge”. 51  Zen. 2, 41 ; Diogen. 1, 19 L.-Schn. Il proverbio è utilizzato in un contesto erotico in AP 11, 417, 1 (anon.) : vd. Prittwitz-Gaffron 1912, 52. Uno psogos non molto diverso, parimenti volto a stigmatizzare l’implausibilità ma ancor prima l’ardire di una siffatta associazione tra Salamina e Omero, sembra ispirare la formulazione di Ps.-Plut. Vita 2, 2 oujk w[knhsan dev tine~ Salamivnion aujto;n eijpei`n ajpo; Kuvprou.







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sh`ma Frasikleiva~. kovrh keklhvsomai aijeiv, ajnti; gavmou para; qew`n tou`to lacou`s jo[noma. 49  









































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LIR ICA A RCA ICA E TA R DO-A RCA ICA

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SA FFO E I DISCOR SI DI A LLOR A Vincenzo Di Benedetto lo snodo tra la parte precedente (relativa alla situazione personale di Saffo) e la parte successiva, dove si fa menzione di Eos e Titono. Trascrivo i vv. 8-12, con la traduzione :

Per Giovanni Cerri con affettuosi auguri



1. Premessa

I

n questo mio lavoro farò alcune brevi considerazioni intorno alla vicenda mitica di Eos e Titono, quale è evocata nei vv. 9-12 del Carme della vecchiaia di Saffo. Con la dizione Carme della vecchiaia indico il componimento di Saffo, di 12 versi, che si ricostruisce quasi integralmente, sulla base di un papiro di Ossirinco (POxy 1787, pubblicato nel 1922 : ~ fr. 58, 11-22 V.) e di due frammenti di un papiro di Colonia (PKöln 21351 e PKöln 21376), pubblicati recentemente da M. Gronewald e R. W. Daniel in « Zeitschr. Pap. Epigr. » 147, 2004, 1-8 e 149, 2004, 1-4 (per la numerazione dei versi seguiremo quella adottata dai due studiosi). Per ciò che riguarda il v. 10, in alternativa al testo di Gronewald e Daniel, che (a parte una ininfluente questione di accento) nella prima parte del verso avevano letto e interpretato con buoni argomenti, e[rwi d≥ev≥p≥a~≥ eijsavnbamen∆, si è avuto un fiorire straordinario di congetture testuali ed esegetiche, sulla base dell’assunto che non fosse accettabile la lezione devpa~. Nessuna di queste congetture regge, a mio parere, a una verifica critica. E in effetti, per ciò che riguarda la ricognizione dei dati di base, un contributo importante è stato fornito ultimamente da J. Hammerstaedt : 1 in séguito a un accurato riesame del papiro è risultato che solo due proposte di restituzione testuale sono compatibili con le tracce, e cioè dev≥p≥a~ (che è la lezione dell’editio princeps) oppure dev≥m≥a~. Ma la seconda possibilità – io credo – deve essere scartata per ragioni non paleografiche. 2 E, soprattutto, dal lavoro di Hammerstaedt è risultata fondata sul nulla l’obiezione secondo la quale nel papiro la lettura depa~ sarebbe stata contraddetta da una traccia di un’asta verticale, non compatibile con la terza lettera di depa~. La traccia non ha retto alla verifica. E il discorso può essere ripreso.  

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ajghvraon a[nqrwpon e[ont∆ ouj duvnaton gevnesqai: kai; gavr pota Tivqwnon e[fanto brodovpacun Au[wn e[rwi d≥ev≥pa≥~≥ eijsanbavmen∆ eij~ e[scata ga`~ fevroisan e[onta k≥≥avlon kai; nevon: ajll∆ au[ton u[mw~ e[marye crovnwi p≥ov≥l≥i≥o≥g≥ gh`ra~ e[cont∆ ajqanavtan a[koitin.

10

Essendo un uomo non è possibile essere indenne da vecchiaia. E infatti di Titono una volta dicevano che Eos dalle rosee braccia per amore salì nella ‘coppa’ portandolo alla estremità della terra, 10 lui che era bello e giovane. Ma tuttavia col passare del tempo la vecchiaia canuta lo afferrò, lui che aveva una sposa immortale.

Le ragioni che inducono ad accettare l’idea di Eos che sale su una ‘coppa’, con la funzione di ‘veicolo’ per attraversare l’Oceano e portare Titono nell’estremo est, secondo un modello attestato già per Eracle, sono state già chiarite da diversi studiosi. Ora invece concentreremo la nostra attenzione su un aspetto particolare della questione, vale a dire i discorsi ai quali Saffo nel v. 9 del Carme della vecchiaia fa riferimento con e[fanto. La vicenda mitica di Eos e Titono è evocata da Saffo nei vv. 9-12 del Carme della vecchiaia, con il v. 8 che contrassegna

Il procedimento per cui Saffo contraddice in prima persona un discorso altrui è comparabile a moduli espressivi presenti nei poemi omerici. Entrano in gioco in particolare i brevi discorsi anonimi (introdotti con l’espressione w|de dev ti~ ei[peske), che fanno riferimento a un evento o a una situazione proprio allora percepita. Risultano pertinenti soprattutto tre passi, nei quali dopo il breve commento anonimo, riprodotto con la modalità del discorso diretto, interviene il narratore che contrasta in modo polemico l’enunciazione precedentemente espressa : vd. Od. 4, 769772 ; 13, 167-170 ; 23, 148-152. In tutti e tre i passi il verso conclusivo è w}~ a[ra ti~ ei[peske: ta; d∆ oujk i[san wJ~ ejtevtukto, “così alcuni dicevano, ma non sapevano come stessero le cose”. Su questa linea, in Il. 12, 125-126 il narratore, usando il verbo e[fanto (come Saffo), riferisce che i Troiani dicevano (ma il verbo fhmiv aveva una valenza ampia, come un ‘dire’ che coinvolgeva il ‘pensare’) che i Greci non ce l’avrebbero fatta più a reggere il loro attacco e sarebbero stati sopraffatti vicino alle navi : ma questa opinione viene subito vivacemente contraddetta dal narratore stesso (vd. in particolare all’inizio del v. 127 nhvpioi : “stolti !”). È attestato nell’Iliade anche un modulo espressivo contiguo, contrassegnato da un contesto dialogico. Un personaggio, attraverso una frase impostata su una forma dell’imperfetto del verbo fhmiv (attivo o medio), contraddice una enunciazione che lui stesso subito prima ha attribuito al suo interlocutore : “tu dicevi … e invece …”. I passi interessati sono 16, 830-833 (Ettore con e[fhsqa rinfaccia a Patroclo il fatto che egli diceva di poter distruggere Troia, e subito dopo, di séguito, Ettore stesso lo smentisce, con una asserzione impostata su nhvvpie : “stolto !”) e 22, 331-336, un segmento di testo in chiara corrispondenza, quasi un contrappasso, con quello del xvi canto : ora è Achille che

1  J. Hammerstaedt, The Cologne Sappho. Its Discovery and Textual Constitution, in E. Greene - M. B. Skinner (edd.), The New Sappho on Old Age. Textual and Philosophical Issues, Harvard 2009, 17-40. – Sul Carme della vecchiaia e sulla difesa della integrazione d≥ev≥p≥a≥~≥ ho scritto in « Zeitschr. Pap. Epigr. » 153, 2005, 7-20 (La nuova Saffo e dintorni ~ Il richiamo del testo ii, Pisa 2007, 925-946). 2  La integrazione d≥ev≥m≥a≥~≥ nel v. 10 del Carme della vecchiaia è stata sostenuta da E. Livrea, in I papiri di Saffo e Alceo. Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 8-9 giugno 2006), Firenze 2007, 72-76. È significativo che

lo studioso, una volta accolta la lezione devma~, sia incerto nell’interpretazione, se si debba intendere come oggetto di fevroisan oppure come accusativo dell’oggetto interno da collegare a kavlon kai; nevon. Nella traduzione il Livrea mostra di preferire la seconda possibilità : “Così si raccontava che un tempo l’Aurora dalle braccia rosee per amore imbarcò Titono portandolo ai confini della terra, lui che aveva il corpo giovane e bello”. Ma in tal modo si postula un ordine delle parole difficilmente tollerabile, e ancora meno tollerabile se si attribuisce a eijsanbavmen(ai), come si deve, una valenza di verbo intransitivo.

















2. Il passato più remoto: i discorsi di allora

















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vincenzo di benedetto

con e[fh~ rinfaccia a Ettore il fatto che egli, pur uccidendo Patroclo, dicesse (credesse) di potersi salvare ; e subito dopo Achille gli spiega che ha sbagliato in questa sua previsione ; e nel prosieguo della frase compare all’inizio del v. 333 l’insultante nhvpie, “stolto !”. Si noti anche, nei passi del xvi e del xxii canto dell’Iliade, l’uso di pou in associazione con e[fhsqa e con e[fh~ : che Patroclo o Ettore avesse l’opinione che gli viene attribuita, è solo una congettura del parlante, funzionalizzata all’insulto. Nel Carme della vecchiaia di Saffo coloro che avevano espresso un loro commento alla scomparsa di Titono (nel carme di Saffo non si parla specificamente di un ‘rapimento’) vengono contraddetti dall’autrice stessa del carme, con uno snodo costituito da ajll(av) ... u[mw~, “ma … tuttavia”. Ma che cosa di erroneo avrebbero detto costoro ? Che Eos fosse salita su un depas, che ella avesse l’intento di portare Titono ai confini estremi della terra, che questo avvenisse in una situazione contrassegnata dall’eros, e soprattutto che Titono fosse giovane e bello, un dato – questo ultimo – che suggellava quei commenti e li irraggiava in positivo, tutto questo non poteva essere smentito. Si noti che in questa frase dei vv. 9-11 il verbo e[fanto è costruito non con l’infinito futuro, come avviene invece nei tre passi iliadici di cui si è detto, bensì con l’infinito aoristo. Si trattava non di previsioni, ma di dati di fatto, già accaduti, in modo irreversibile. Veritieri erano, dunque, i discorsi di coloro che avevano commentato a caldo la scomparsa di Titono. E veritiera però secondo Saffo era anche l’obiezione con la quale ella contrastava quei commenti. Solo che la situazione di base era cambiata. Da quando Titono era scomparso fino a quando Saffo intervenne sulla vicenda con la sua ode era trascorso molto tempo, così tanto tempo che Titono (che non era un dio) era certamente invecchiato. E perciò quei commenti erano sì veritieri, ma erano destinati a risultare inadeguati. In essi si parlava della bellezza e della giovinezza di Titono come di un dato incondizionato e sicuro, e non vincolato, in riferimento a una prospettiva futura, da riserve o limitazioni. Si è ipotizzato che con e[fanto Saffo potrebbe riferirsi a versioni della saga di Titono anteriori a quella ‘vulgata’, versioni che non avrebbero contemplato l’invecchiamento di Titono. Ma per Saffo non di differenti versioni del mito si trattava, bensì della ricezione del reale, un reale, quello della condizione umana, che con il trascorrere del tempo si modifica, anche in peggio. Né aiuta molto l’ipotesi che i commenti ai quali Saffo fa riferimento fossero stati ascoltati da lei quando era ancora giovane. Ma la distanza tra l’‘allora’ e l’‘ora’ non può essere immaginata entro un arco di tempo così ristretto. 3 Per recuperare l’impatto del passato, Saffo non aveva bisogno di invecchiare lei stessa. In Saffo il confronto con il passato faceva tutt’uno con l’intensità con la quale ella viveva il tempo presente. Esemplare a questo proposito è il fr. 17 V. Saffo rievoca (o immagina) un incidente di percorso nel quale erano in-

cappati i Greci a Lesbo di ritorno da Troia, ed essi ne erano venuti fuori grazie a una preghiera rivolta congiuntamente a Hera e a Zeus e a Dioniso. Questa vicenda è collocata da Saffo nella dimensione dell’ ‘antico’, nel mentre però ella si augura che ciò che ora le sta a cuore abbia un esito omologo alla vicenda nella quale erano stati coinvolti gli Atridi tornando da Troia : vd. v. 11 nu`n de; kª e v. 12 ka;t to; pavl≥ªaion. In maniera analoga nel fr. 16 V. Saffo rievoca la vicenda che precedette immediatamente la guerra di Troia e ne fu la causa, e però questa rievocazione assolve, nell’intento di Saffo, la funzione di capire e valutare il presente : si noti in particolare gavr del v. 6, nel punto dello snodo. Ma Saffo sperimentava anche, nei confronti del passato, un approccio diverso. Una valenza diversa rispetto al fr. 16 e rispetto al fr. 17 assume la rievocazione, nel fr. 44 V., di un momento delle nozze di Ettore e Andromaca. Si tratta di una rievocazione di un tempo passato più remoto rispetto al fr. 16 V., un tempo che ancora non conosceva la guerra con i Greci. Saffo lo rivive con lieta e disinibita dizione. Al tempo passato più remoto apparteneva anche il rapimento di Titono, fratello di Priamo, avvenuto certo prima dell’inizio della guerra. 4 In effetti i discorsi di commento dell’evento (quali Saffo fa a loro riferimento nel Carme della vecchiaia) si rapportano piuttosto alla letizia del fr. 44 che non al fr. 17 o al fr. 16. Ma ora, nel tempo attuale di Saffo, Troia non c’è più e Titono è invecchiato e imbelle. E la presa di distanza nei confronti dei discorsi ‘di allora’ non è espressione di ostilità o di didattismo. Saffo coinvolge se stessa. Non è contenta di avere ragione. E le sue parole si connotano di una accorata amarezza.

3  Vd. L. Edmunds, The New Sappho : e[fanto, « Zeitschr. Pap. Epigr. » 156, 2006, pp. 23-26. L. Bettarini, Note esegetiche alla nuova Saffo, « Zeitschr. Pap. Epigr. » 159, 2007, 1-10, in particolare p. 3, fa riferimento a Il. 9, 524 e ad Ar. Lys. 781-782, ma in questi due passi c’è proprio quello che non c’è in Saffo e cioè un verbo attraverso il quale il parlante dica di avere ascoltato o appreso. 4  Se infatti si attribuisce a Titono, in quanto giovinetto ambìto da Eos, l’età di 15/16 anni, ne risulta che l’evento del rapimento si può ben collocare, in via ipotetica, a circa dieci anni prima dell’inizio della guerra. E quindi Titono avrebbe circa 35 anni nel decimo anno dopo l’inizio della guerra : il

che è ben compatibile con Il. 11, 1-2, una enunciazione che l’autore dell’Iliade presenta come attuale per il tempo della narrazione della vicenda del suo poema. E a sua volta per Od. 5, 1-2 (= Il. 11, 1-2) si evince con questo calcolo una età di circa 45 anni per Titono, quando il poeta parla di lui come presente nella dimora di Eos, e implicitamente come compagno, e quindi valido compagno, del suo letto. Peraltro questa congettura è consonante con il dato secondo il quale Memnone arriva a Troia per portare aiuto a Priamo, fratello di suo padre Titono (Il. 20, 237), nel decimo anno della guerra (~ Etiopide, Argum.). Memnone era figlio (primo figlio ? : vd. Hes. Theog. 984-985) di Eos.









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3. Limc iii 1, s.v. ‘Thesan 22’ ~ Eur. Troad . 841-858 Il procedimento per cui nel carme di Saffo la vicenda relativa a Eos e a Titono viene rapportata a due momenti diversi, in sequenza l’uno dopo l’altro, con il secondo che ‘smentisce’ il primo, trova riscontro nelle Troiane di Euripide. La seconda antistrofe, che conclude il secondo stasimo delle Troiane, si apre (vv. 841-843) con una straordinaria allocuzione a Eros, in absentia. In questa allocuzione il Coro, che è composto idealmente da donne della città di Troia, or ora distrutta, evoca, come già avvenuto, un arrivo di Eros a Troia, in concomitanza con un evento straordinario, del quale Eros è presentato come promotore e nunzio. L’evento che il Coro delle Troiane rievoca è il rapimento di Titono, che poco più avanti nello stasimo risulta come realizzato, a suo tempo, dalla quadriga di Eos (vv. 852-857). Si tratta di un evento fausto per la città di Troia, per il fatto che in questo modo Troia viene ad imparentarsi con gli dèi. Questo dato, enunciato dal Coro in modo esplicito, può di per sé spiegare il coinvolgimento di Eros. Il coinvolgimento attivo di Eros nel rapimento di Titono è una novità rispetto ai testi letterari anteriori alle Troiane. Esso però trova riscontro nella raffigurazione vasco-





saffo e i discorsi di allora lare di un cratere falisco, del 380-360 a.C., proveniente da Civita Castellana e ora nel Museo di Villa Giulia a Roma : è il nr. 22 nell’elenco di R. Bloch in LIMC iii 1, p. 794, s.v. ‘Eos/Thesan’, con fotografie in LIMC iii 2, p. 584 (Thesan era la divinità etrusca omologa a Eos). Thesan – scrive il Bloch – è nuda, fatta eccezione per un lungo velo che svolazza al vento ; ella tiene nella mano destra le redini della sua quadriga e si dirige verso sinistra, dopo aver fatto salire vicino a lei il giovane Kephalos, nudo, che sembra interrogare la dea circa la destinazione del viaggio. In alto ci sono uccelli e stelle (per le stelle vd. Beazley, EVP 82 e P. Bocci, Enc. arte ant. i, 933) e nella parte inferiore si distinguono animali marini. Che una proprietà del carro dell’Aurora fosse quella di salire su dal mare e volare nel cielo, è una cosa che certo non sorprende. Ed è ragionevole l’ipotesi che nel cratere falisco si presupponga il mito di Eos che porta via con sé un bel giovinetto (che il giovinetto fosse Kephalos o Titono, non è rilevante, data la interscambiabilità dell’uno e dell’altro nelle raffigurazioni vascolari). Ma la novità della raffigurazione del cratere falisco è che il carro è preceduto da un giovane alato, in sospensione. Il confronto con le Troiane costituisce dunque un argomento importante a favore della tesi secondo la quale nel cratere falisco il giovane alato che precede il carro è da intendere come Eros (questa identificazione era già sostenuta da Beazley, EVP 82, mentre il Bloch è incerto tra Eros e Phosphoros). E per converso il confronto con la raffigurazione del cratere falisco permette di capire meglio la valorizzazione di Eros, per come è invocato, con così grande rilievo, nello stasimo delle Troiane, nel mentre gli si attribuisce l’arrivo a Troia e una parte attiva nell’episodio del rapimento di Titono. Secondo il testo dello stasimo euripideo il carro che Eos conduce quando illumina l’alba desolata della distruzione di Troia (a questa invenzione, dotata di alta pateticità, viene dato grande rilievo) era lo stesso carro con il quale a suo tempo la dea aveva rapito Titono. Il contesto è complesso. In effetti si ha in questo passo euripideo l’intrecciarsi di due linee diverse : quella di Eos come divinità cosmica che assolve un compito di rilevanza universale e la linea di Eos come dea personalmente interessata ai mortali giovani e belli. La ricezione di questo intreccio in un testo letterario non era facile, ed Euripide si permette una dizione che è contigua alla forzatura sintattica. Il participio femminile e[cousa (nella frase dei vv. 853-854 teknopoio;n e[cousa ta`sde ga`~ povsin ejn qalavmoi~, “lei che aveva nel 

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la sua casa uno sposo di questa terra”, cioè Troia) si riferisce ovviamente a Eos, ma la dea, in quanto persona, si risolve nella funzione che ella assolve. E per indicare la “luce” di Eos viene usato un termine di genere neutro, fevg- go~, che risulta essere disomologo rispetto a e[cousa. E in più, in modo sintetico, quasi criptico, all’immagine della luce si sovrappone quella del carro di Eos (v. 856 o[co~), che inaspettatamente si pone come agente primario del rapimento di Titono. La sintassi si smaglia in modo vistoso : un segno della difficoltà dell’intreccio, difficoltà che peraltro Euripide non intende nascondere. È interessante, però, che in questo pezzo lirico di Euripide, ricco di immagini e di preziosità espressive, giochi un ruolo importante, anche sul versante concettuale, il confronto con Saffo, e in particolare proprio con il Carme della vecchiaia. È notevole, anzitutto, la consonanza di Troad. 853-854 teknopoio;n e[cousa ta`sde ga`~ povsin ejn qalavmoi~ con la formulazione del v. 12 del Carme della vecchiaia e[cont∆ ajqanavtan a[koitin, con inversione circa il soggetto e l’oggetto del participio e[cousa/e[cont(a). Ma non si tratta soltanto dell’aspetto esteriore della dizione. Nel segmento finale dello stasimo delle Troiane alla evocazione del ‘ratto’ di Titono, presentato come un dato gratificante per la città di Troia, si contrappone l’amara considerazione che ora l’amore degli dèi per Troia è cosa finita. Questo schema di base, con la sequenza – nella rievocazione del mito di Titono – di due momenti, con il secondo momento che ‘smentisce’ il primo, trova, come abbiamo accennato, un diretto precedente in Saffo. E vengono coinvolti anche i discorsi ai quali aveva fatto riferimento Saffo nel Carme della vecchiaia. Nella tragedia euripidea il Coro delle donne troiane afferma che “allora” (v. 843 tovte) Eros inorgoglì i Troiani (in realtà il Coro usa il modulo dell’allocuzione con la seconda persona singolare : “Eros Eros, quanto tu allora inorgoglisti i Troiani, quando annodasti parentela con gli dèi …”). È difficile immaginare che secondo Euripide questa situazione di inorgoglimento non si fosse manifestata con discorsi di gioia e interlocuzioni di reciproco compiacimento. Appunto i discorsi di allora. Ma Euripide concede più spazio al motivo della rievocazione gratificante e il mutamento di segno appare come un qualcosa di improvviso e immotivato : il che è congruente con l’intento di stigmatizzare il comportamento, ingeneroso, degli dèi. Saffo invece non accusava gli dèi, ma faceva riferimento, con accorata consapevolezza, al trascorrere ineluttabile del tempo.  





SA FFO E TITONO : DUE VECCHI A IE A CONFRONTO  

Fr anca Perusino · Mar ia Colantonio

I

n un carme restituito alla quasi totale integrità grazie alla combinazione di due papiri 1 Saffo contrappone se stessa alle ragazze del tiaso esortandole a coltivare i bei doni delle Muse, ossia il canto e la danza al suono della lira, 2 che a lei, ormai vecchia, sono negati : la pelle un tempo delicata si è coperta di rughe, 3 i capelli da neri sono diventati bianchi, lo slancio vitale si è affievolito, 4 le ginocchia, un tempo agili nella danza come quelle delle cerbiatte, più non la reggono. La constatazione sfocia in una domanda che evidenzia l’impotente e rassegnata disperazione della poetessa : “Ma cosa mai posso fare ?”. Consapevole che la vecchiaia è indissolubilmente legata alla natura umana, Saffo conclude il carme rievocando un esempio mitico (vv. 9-12) :  













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kai; gavr p≥[o]t≥a≥ Tivqwnon e[fanto 5 brodovpacun Au[wn e[rw/ d≥ev≥p≥a≥~≥ eijsanbavmen j eij~ e[scata ga`~ fevroisa[n, e[onta≥ [k]av≥l≥o≥n kai; nevon, ajjll j au\ton u[mw~ e[marye crvonw/ p≥o≥vl≥i≥o≥n≥ gh`ra~ e[c≥[o]n≥t≥ j ajqanavtan a[koitin.

che l’anonimo autore dell’Inno ad Afrodite mette in bocca alla dea nell’intento di dissuadere il mortale Anchise da lei amato dall’aspirare all’immortalità (Hymn. Hom. 5, 218-238). Esemplare era apparsa la sorte di Titono anche a Mimnermo che riteneva la sua eterna vecchiaia una sventura peggiore della morte (fr. 1, 1-2 Gent.-Pr. = 4 W.). Dunque la malinconica vicenda di Titono era ben conosciuta ai tempi di Saffo 7 che sinteticamente la espone nei quattro versi conclusivi del carme evidenziandone particolari e sfumature suggeriti dalla sua personale sensibilità. Saffo riprende un motivo tradizionale quando racconta che l’Aurora scelse per Titono e per sé una dimora ai confini della terra (v. 10 eij~ e[scata ga`~, cfr. Hymn. Hom. 5, 227 ejpi; peivrasi gaivh~) quasi a isolarlo, proteggerlo, preservarlo (da altri amori ? o dalla vecchiaia ?) ; non contempla invece il “rapimento” del giovane principe da parte della dea (cfr. Hymn. Hom. 5, 218 h{rpasen) che semplicemente “trasporta” (v. 10 fevroisan) l’amato alla dimora stabilita e sceglie come mezzo di trasporto la coppa d’oro prestata dal Sole. 8  





Un tempo si diceva che anche l’Aurora dalle braccia di rosa per amore salì sulla coppa portando Titono ai limiti estremi della terra, lui che era giovane e bello, ma parimenti l’afferrò col tempo la grigia vecchiaia pur avendo una moglie immortale. trad. di B. Gentili 6







Innamorata del giovane principe troiano che aveva rapito e portato ai confini della terra, l’Aurora aveva chiesto a Zeus di concedergli l’immortalità, dimenticando però di chiedere per l’amato anche l’eterna giovinezza. Condannata a vivere accanto ad uno sposo che invecchiava sempre più, si era decisa infine a chiuderlo all’interno della casa e a isolarlo dal mondo. Questo per sommi capi il racconto

La lettura d≥ev≥p≥a≥~≥ eijsanbavmen(ai), proposta e difesa dai primi editori Gronewald e Daniel (2004b, 3), è stata contestata da West (2005, 4 s.) che individua in eisan la parte finale di un participio, senza tuttavia giungere a precisare il verbo di appartenenza. 9 Devpa~ è stato identificato con il devpa~ cruvseon nel quale, secondo Stesicoro (fr. S17 Davies), il Sole è traghettato “attraverso l’Oceano verso le profondità della sacra notte tenebrosa”. Che l’Aurora si serva della coppa del Sole per raggiungere la dimora ai confini della terra non fa meraviglia, dal momento che anche Eracle vi era stato ospitato in occasione di una delle sue fatiche. 10 Qualche perplessità ha suscitato l’impiego del verbo eijsanabaivnw, laddove Stesicoro usa eijskatabaivnw per descrivere l’ingresso del Sole nella coppa. Perché l’Aurora “sale” nella coppa, mentre il Sole vi “scende” ? Noi crediamo che la spiegazione vada cercata nella diversa funzione e nei diversi compiti affidati alle due divinità : mentre il Sole, salito al mattino sul suo carro, compie la parabola

1  Siamo quasi certamente in presenza di un carme intero : i due papiri che lo trasmettono (POxy 1787 del iii sec. d.C., noto fin dal 1922, e PCol 21351 + 21376, appartenenti allo stesso rotolo, del iii sec. a.C., pubblicati nel 2004) contengono testi diversi, ma hanno in comune i 12 versi che compongono il carme (vv. 11-22 del POxy = vv. 9-20 del PCol). Che il primo dei versi in comune costituisse l’inizio di un carme era stato già ipotizzato, ancor prima della pubblicazione del papiro di Colonia, da C. Gallavotti (1956, 111) ; che il carme si concludesse con il v. 12 (22 del POxy = 20 del PCol) sembra confermato dalla presenza nel papiro di Colonia di un nuovo testo dopo il v. 20, vergato in una scrittura più grande e più marcata, separato dal testo precedente da un’interlinea più ampia, contrassegnato da una coronide al margine sinistro del v. 21. Nel POxy 1787 il v. 22 è seguito da quattro versi che prima della pubblicazione del papiro di Colonia (e anche dopo : cfr. l’editio princeps di Gronewald-Daniel 2004a, 2-4) erano considerati la parte conclusiva del carme : cfr. Sapph. fr. 58 V. 2  L’esortazione a coltivare i doni delle Muse e l’invito a danzare erano probabilmente contenuti nella lacuna che mutila i primi due versi nella parte sinistra. 3  Il soggetto gh`ra~ al v. 3 presuppone un verbo (diwvlese Di Benedetto 2004, 5 ; katevskeqe o ejpevllabe West 2005, 4) scomparso nella lacuna iniziale del v. 4. 4  Per il significato di qu`mo~ cfr. Bernsdorff 2004 e Di Benedetto 2004, 5. 5  La triplice espressione che introduce l’esempio mitico, kai; gavr pota . . . e[fanto, è stata esaminata da Edmunds 2006 che interpreta l’impiego, del tutto eccezionale, dell’imperfetto di fhmiv come il proseguimento del contrasto fra passato (quel che Saffo da giovane era solita ascoltare senza

comprendere oppure credendo di comprendere) e presente (quel che Saffo ora comprende della vecchiaia in generale oppure della propria vecchiaia), con una ripresa della tematica che occupa i vv. 3-6. “Efanto : “dicevano”, “raccontavano”, non “credevano”, come in un primo momento hanno inteso, sulla scorta di Liddell-Scott-Jones, s.v. fhmiv iib, Gronewald-Daniel (2004a, 8), ipotizzando un rifiuto da parte di Saffo di incolpare l’Aurora per aver condannato Titono a un’eterna vecchiaia, diversamente da quello che tutti “credevano” e che credeva anche l’autore dell’Inno ad Afrodite 223 s. : nhpivh, oujd∆ ejnovhse meta; fresi; povtnia ∆Hw;~ / h{bhn aijth`sai, xu`saiv t∆ a[po gh`ra~ ojloiovn. Successivamente i primi editori si sono ricreduti : nel Nachtrag all’editio princeps (2004b, 2) l’espressione iniziale del v. 9 è resa con “Denn einst sagte man . . .”. Sull’impiego di fhmiv e di espressioni analoghe per introdurre un episodio mitico esemplare si veda ancora Edmunds 2006, 23 e Di Benedetto, qui sopra, 109 s. 6  In Gentili-Catenacci 2010, 81. 7  L’Inno ad Afrodite è con tutta probabilità databile al vii sec. a.C. (cfr. Cassola 1975, 149 ss.) ; alla seconda metà dello stesso secolo risale l’attività di Mimnermo ; intorno al 640 a.C. era nata Saffo. 8  Cfr. Di Benedetto 2005, 19 e qui sopra, 109. 9  Severo il giudizio di Austin (2007, 117-119) nei confronti di devpa~ e di altre letture proposte per dare un senso al problematico passo. Convinto che al v. 10 fosse nominato il carro dell’Aurora, ma insoddisfatto della proposta di Magnani (2005, 45-49) di leggere di≥ v≥[fr]on≥ ≥, anche Austin non è sfuggito alla tentazione di cimentarsi con il testo di Saffo e di leggere all’inizio del v. 10 “Erw/ a[r≥ m≥ j avqeisan bavmen j, “avendo affidato il suo carro a Eros andò . . .”. 10  Cfr. Athen. 11, 781d ; Apollod. Bibl. 2, 5, 10.

































saffo e titono: due vecchiaie a confronto del percorso diurno e al tramonto “scende” nella coppa per trascorrervi la notte, l’Aurora si leva dall’Oceano di buon mattino e “sale” nel cielo, 11 nel caso specifico “sale” nella coppa che la trasporterà insieme all’amato nella dimora ai confini della terra. Molto opportunamente Vincenzo Di Benedetto (2005, 19) ha individuato una sfumatura erotica nell’impiego di eijsanabaivnw, che indica anche l’atto di “salire” su un letto : 12 la coppa, nella quale il Sole dopo le fatiche diurne trova il ristoro del sonno (Mimn. fr. 5, 8 Gent.-Pr. = 12 W. eu{donq j aJrpalevw~) ma anche le gioie dell’amore (Mimn. fr. 5, 5 Gent.-Pr. = 12 W. poluhvrato~ eujnhv), funge da letto nuziale per l’Aurora innamorata (e[rw/, non a caso all’inizio del v. 10) e per il giovane bellissimo Titono.  





La coppa del Sole che trasporta i due innamorati non rappresenterebbe l’unica novità nella versione della vicenda offerta da Saffo. Non è stato finora osservato che la poetessa, concentrata quasi esclusivamente su Titono tanto da far passare in secondo piano la figura dell’Aurora, 13 non fa cenno della sua immortalità. Nei pochi versi a lui dedicati Saffo insiste piuttosto sulla sua natura mortale : al v. 8 lo include fra gli a[nqrwpoi, ossia fra gli esseri mortali, ai quali non è concesso di essere immuni da vecchiaia : ajghvraon a[nqrwpon e[ont j ouj duvnaton gevnesqai ; al v. 12 la rievocazione mitica si conclude con il quadro della grigia vecchiaia che con il tempo raggiunge Titono “che pure aveva una moglie immortale”, e[cont j ajqanavtan a[koitin. Che bisogno aveva Saffo di rilevare l’immortalità dell’Aurora, se avesse ritenuto che anche Titono fosse immortale ? 14 Due le spiegazioni possibili : o a Saffo premeva soprattutto istituire un confronto fra la propria vecchiaia e quella di Titono, tanto da passare volutamente sotto silenzio il motivo della sua immortalità che avrebbe inficiato la stretta rispondenza fra la propria condizione e quella del modello mitico ; oppure Saffo riportava nel carme una versione della vicenda che contemplava solo la vecchiaia, non l’immortalità di Titono. Tracce di questa versione – che avrebbe il vantaggio di far combaciare perfettamente vicenda mitica e situazione presente – si possono rinvenire in alcune testimonianze antiche secondo le quali Titono, diventato molto vecchio, fu tramutato dall’Aurora in cicala e solo allora avrebbe avuto in dono l’immortalità.  





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Nessun accenno all’immortalità di Titono ma solo alla trasformazione in cicala sembra avesse fatto lo storico Ellanico, conterraneo di Saffo (FGrHist 4 F 140 = Schol. Hom. Il. 3, 151) ; secondo lo scoliasta all’Odissea 5, 1, dopo un tentativo di rendere Titono immortale senza tuttavia evitargli la vecchiaia, l’Aurora fece in  

11  jEph;n rJododavktulo~ ∆Hwv~ / ∆Wkeano;n prolipou`s j oujrano;n eijsanabh/,` precisa Mimnermo, fr. 5, 4 Gent.-Pr. = 12 W. 12  Cfr. p. es. Hom. Il. 8, 291. 13  Notevole al v. 9 la prolessi dell’accusativo Tivqwnon dipendente da fevroisan del verso seguente, mentre Au[wn, l’Aurora, alla quale si deve l’iniziativa amorosa e l’organizzazione del viaggio, è relegata in secondo piano, alla fine del verso. L’attenzione di Saffo è concentrata su Titono ; l’Aurora le interessa solo in funzione del protagonista della vicenda. 14  Pur considerando scontata l’immortalità di Titono, Rawles (2006, 3) si meraviglia che Saffo illustri un fenomeno regolare e generale come la vecchiaia e la mortalità (di Saffo) con un esempio irregolare e anomalo come la vecchiaia e l’immortalità (di Titono). Improponibile la supposizione  

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modo che gli dèi lo trasformassero in cicala e solo allora lo rese immortale. 15  

Improntato ad una simmetrica rispondenza fra realtà presente e passato mitico, il carme prende l’avvio dal confronto fra la costante immutabile giovinezza delle ragazze che si avvicendano nel tiaso e il progredire degli anni nella loro maestra 16 e si chiude con la rievocazione del triste destino di Titono, condannato a confrontarsi, lui vecchio e forse mortale, con una moglie sempre giovane e immortale. La brusca conclusione non lascia spazio, come in altri carmi di Saffo, a considerazioni rassegnate o consolatorie ; 17 trasmette piuttosto la sensazione di uno stato di chiusura e di una totale disperata immobilità.  





Bibliografia Austin 2007, C. Austin, Nuits chaudes à Lesbos : buvons avec Alcée, aimons avec Sappho, in G. Bastianini - A. Casanova (edd.), I papiri di Saffo e Alceo. Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 8-9 giugno 2006), Firenze 2007, 115-126. Bernsdorff 2004, H. Bernsdorff, Schwermut des Alters im neuen Kölner Sappho-Papyrus, « Zeitschr. Pap. Epigr. » 150, 2004, 27-35. Cassola 1975, Inni Omerici, a cura di F. Cassola, Milano 1975. Di Benedetto 2004, V. Di Benedetto, Osservazioni sul nuovo papiro di Saffo, « Zeitschr. Pap. Epigr. » 149, 2004, 5-6. Di Benedetto 2005, V. Di Benedetto, La nuova Saffo e dintorni, « Zeitschr. Pap. Epigr. » 153, 2005, 7-20. Edmunds 2006, L. Edmunds, The New Sappho : e[fanto (9), « Zeitschr. Pap. Epigr. » 156, 2006, 23-26. Gallavotti 1956, C. Gallavotti, Saffo e Alceo. Testimonianze e frammenti i, Napoli 19562. Geissler 2005, C. Geissler, Der Tithonosmythos bei Sappho und Kallimachos. Zu Sappho fr. 58 V., 11-22 und Kallimachos, Aitia fr. 1 Pf., « Gött. Forum für Altertumsw. » 8, 2005, 105-114. Gentili-Catenacci 2010, B. Gentili - C. Catenacci (edd.), I poeti del canone lirico nella Grecia antica, Milano 2010. Gronewald-Daniel 2004a, M. Gronewald - R. W. Daniel, Ein neuer Sappho-Papyrus, « Zeitschr. Pap. Epigr. » 147, 2004, 1-8. Gronewald-Daniel 2004b, M. Gronewald - R. W. Daniel, Nachtrag zum neuen Sappho-Papyrus, « Zeitschr. Pap. Epigr. » 149, 2004, 1-4. Magnani 2005, M. Magnani, Note alla nuova Saffo, « Eikasmós » 16, 2005, 41-49. Rawles 2006, R. Rawles, Notes on the Interpretation of the “New Sappho”, « Zeitschr. Pap. Epigr. » 157, 2006, 1-7. West 2005, M. L. West, The New Sappho, « Zeitschr. Pap. Epigr. » 151, 2005, 1-9.  











































della Geissler (2005, 107 e n. 11) che l’immortalità dell’Aurora sottintenda anche quella dello sposo Titono. 15  Anche altri testimoni evidenziano la proverbiale longevità di Titono e tacciono della sua immortalità : p. es. Suda a 2159, s.v. a[ndra Tiqwno;n sparavttwn kai; taravttwn kai; kukw`n ; t 578, s.v. Tiqwnou` gh`ra~. 16  Come osserva West 2005, 6. 17  La brusca conclusione ha infastidito anche i primi editori e li ha indotti a ritenere che i quattro versi che seguono il v. 12 (= 22) nel POxy 1787 (vv. 23-26) facessero parte del carme e ne costituissero la conclusione : cfr. Gronewald-Daniel 2004a, 2 e sopra, n. 1. Ma si veda l’equilibrata posizione di Edmunds 2006, 24 s.  





ESPERO E AUROR A DA SA FFO (FR. 104A V.) A MELEAGRO (AP 12, 114 = HE 75) Gabr iele Bur zacchini

C

osì suona il noto distico di Meleagro (AP 12, 114 = HE 75) : 1  



Merita considerazione la raffinata struttura dell’arguto epigramma. Aurora ed Espero sono collocati entrambi in posizione di rilievo, in incipit l’una d’esametro, l’altro di pentametro ; annunciatore della prima, l’astro viene prontamente apostrofato col nome di Faeçfovroç, ‘Portatore della luce (dell’alba)’, ma ciò che preme soprattutto al poeta è manifestare l’auspicio – espresso nell’adonio finale del v. 1, connesso in felice enjambement con l’avvio del v. 2 – che esso possa velocemente ritornare in veste di Espero, restituendo all’amante in tutta segretezza l’amata or ora sottrattagli. Il Gadareno gioca abilmente sul doppio nome della stella del mattino e della sera, 2 richiamando allusivamente la tradizione poetica dell’epitalamio, ma senza rinunciare ad innovare mediante il predicativo lavqrioç, che precisa, ammiccando, la modalità dell’au\qiç a[gein dopo la malaugurata ajpagwghv. Non credo che lavqrioç sia da riferire ajpo; koinou` ad ajpavgeiç e au\qiç a[gwn, come opina Dorsey 1967, sulla scorta di un’argomentazione più speciosa che cogente : “It is obvious”, egli osserva, “that if the beloved is to be returned secretly, she probably must also make her exit secretly, before the dawn itself arrives. Hence this welcome and warning harbinger. The girl leaves with him, in secret” (p. 321) ; dal punto di vista logico il ragionamento sembra quadrare, ma la struttura del verso suggerisce una spiegazione più semplice : mentre la clausola del primo emistichio configura con icastica efficacia lo strappo dall’amante, è soltanto nel secondo hemiepes che l’idea del ricongiungimento s’accompagna a quella della segretezza. Di questo parere

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1  Seguo l’edizione di Gow-Page 1965, i 237. 2  Così, ma in contesto molto diverso, anche ‘Plat.’ AP 7, 670 = FGE 2 (Page 1981, 162) : ∆Açth;r pri;n me;n e[lampeç ejni; zwoi`çin ÔEw/`oç:/nu`n de; qanw;n lavmpeiç ”Eçperoç ejn fqimevnoiç (Dorsey 1967, 321 s.). 3  Non per nulla parecchi interpreti, a rimarcare l’esegesi più naturale, si premurano di interpungere dopo ajpavgeiç con virgola ; così, ad esempio, Beckby 1967, iv 73 : “Die du jetzt fortnimmst, / bring sie als Abendstern bald heimlich mir wieder zurück !” ; Paduano 1989, 291 : “Ma tu arriva veloce, / stella del vespro, riportando in segreto quella che mi rapisci” ; Pontani 1981, 59 : “com’Espero torna, / reca in segreto lei, che via mi porti !” ; similmente, pur senza adottare la succitata interpunzione, Guidorizzi 1992, 73 : “torna presto come Espero, riconduci in segreto lei che ora mi rubi”. Non è mancato chi ha eluso il problema ignorando disinvoltamente lavqrioç nella traduzione ; così Bignone 1921, 276 : “ma tosto / Vespero torna, e guida quella che mi rapisti”. Traduceva lavqrioç, perdendo però ajpavgeiç, Mazzoni 1880, 49 : “E tu non tardare, / Vespero, e lei radduci furtivamente teco”. Da ultimo, Gärtner 2008, 199 proporrebbe di correggere lavqrioç in o[rqrioç, costruendo … h}n ajpavgeiç o[rqrioç, au\qiç a[gwn, “… die zurückführend, die du am frühen Morgen wegführst” : emendamento ingegnoso, ma che altera il senso, eliminando l’idea dell’operazione clandestina. 4  Riscontro segnalato da Beckby 1967, iv 520 ; Dorsey 1967, 321 ; MooreBlunt 1978, 83 s. ; Citti 1978-79, 335 s. e 347 n. 41 ; Pontani 1981, 463. 5  Le principali questioni critico-testuali ed esegetiche del passo sono discusse in Gow-Page 1965, ii 623, coi quali concordo quando osservano :  



































Di Aurora nunzio, salve, Lucifero, e rapido possa tu giungere Espero, colei che conduci via nascostamente riportando.







∆Hou`ç a[ggele cai`re Faeçfovre, kai; tacu;ç e[lqoiç ”Eçperoç, h}n ajpavgeiç lavqrioç au\qiç a[gwn.



sono anche Gow-Page 1965, ii 649 : “lavqrioç : with a[gwn (of a clandestine rendezvous), not with ajpavgeiç”. 3 Nel Gadareno il motivo non è isolato ; lo si ritrova, stemperato in una versione un po’ affettata, meno incisiva, nell’epigramma AP 5, 172 = HE 27 : 4









“Orqre, tiv moi, duçevraçte, tacu;ç peri; koi`ton ejpevçthç, a[rti fivlaç Dhmou`ç crwti; cliainomevnw/ ; ei[qe pavlin çtrevyaç tacino;n drovmon ”Eçperoç ei[hç, w\ gluku; fw`ç bavllwn eijç ejme; pikrovtaton. h[dh ga;r kai; provçqen ejp∆ ∆Alkmhvnhn Dio;ç h\lqeç ajntivoç: oujk ajdahvç ejççi palindromivhç.  

Mattino, perché, infausto agli amanti, rapido incombesti sul mio letto, quando appena adesso mi riscaldavo a pelle con l’amata Demo ? Oh se, volgendo indietro celere il corso, Espero tu fossi, tu che dolce una luce irradii, per me amarissima. Ché già pure una volta presso l’Alcmena di Zeus tu giungesti all’incontrario : 5 non sei ignaro di corso a ritroso.  





La variazione non è insignificante. Qui il poeta non si augura che il giorno trascorra in fretta, affinché Lucifero si ripresenti tosto come Espero. L’apostrofe è qui rivolta al troppo veloce crepuscolo del mattino (o[rqroç), per l’occasione personificato sostituto di Aurora ; interrotto nel tenero amplesso con la sua fiamma, il poeta vorrebbe, questa volta, che il chiarore dell’alba ritornasse indietro ad essere l’astro della sera, a duplicare – come già per Zeus ed Alcmena – una notte d’amore. 6 Il lusus vagamente intellettualistico, concluso dall’ironico richiamo mitologico, tradisce una Stimmung tanto leggera quanto disincantata. Maggiormente efficace, nella pur levigata tornitura, la sobria schiettezza del distico sopra esaminato. Per il quale, come non si è mancato da più parti di segnalare, 7 imprescindibile modello risulta essere stato un celebre frammento d’epitalamio di Saffo, fr. 104a V. :  







“We incline to believe that the text is sound, and feel certain that this is the only possible interpretation of it, “you went backwards to Zeus’s Alcmena” ; sulla stessa linea la traduzione di Marzi in Conca-Marzi-Zanetto 2005, 291 : “Già in passato giungesti a ritroso dall’Alcmena di Zeus”. Altri preferisce far gravitare il gen. Diovç su ajntivoç, complicando talvolta inutilmente l’interpretazione ; così, ad es., Moore-Blunt 1978, 87, che intende : “you came head-on towards Zeus as far as Alcmena”, spiegando : “The star, rising from behind Alcmena, comes to overhang her (ejp j ∆Alkmhvnhn) thus facing Zeus (ajntivoç). The word ajntivoç makes it clear that the star cannot have risen behind Zeus, because in that case he would not have seen it. Since it rose behind Alcmena, he saw it and immediately sent it back”. Insoddisfatto di tutte le soluzioni fino ad oggi proposte, Gärtner 2007, 101 s., sarebbe incline ad emendare il testo tràdito, azzardando qualcosa come un’interrogativa retorica h\ dh; ga;r kai; provçqen ejp j ∆Alkmhvnhn Diva t jh\lqeç / ajntivoç ; “Bist du fürwahr denn etwa auch vormals Alkmene und Zeus entgegengetreten ?”, oppure una negativa ouj ga;r dh; kai; provçqen ejp∆ ∆Alkmhvnhn Diva t jh\lqeç / ajntivoç, “Denn fürwahr bist du nicht auch vormals Alkmene und Zeus entgegengetreten”. 6  Tutti motivi, questi, variamente topici : cfr. ad es. Sapph. test. 197 V. ; Prop. 3, 20, 11 ; Ov. Am. 1, 13, 9 ; Antip. Thess. AP 5, 3 (= GPh 7) ; Marc. Argent. AP 9, 286 (= GPh 16) ; Paul. Sil. AP 5, 283 ; Maced. AP 5, 223 ; Anon. APl 102 ; vd. Gow-Page 1965, ii 622 s. 7  Marzullo 1967, 88 s. ; Burzacchini in Degani-Burzacchini 2005, 174 ; Citti 1978-79, 347 s. ; Pontani 1981, 463 ; Guidorizzi 1992, 126.  







































espero e aurora da saffo a meleagro

spica che il medesimo astro, ricomparendo rapidamente come stella della sera, gli restituisca furtivo (lavqrioç) la donna importunamente carpitagli.

“Eçpere pavnta fevrwn o[ça faivnoliç ejçkevdaç jAu[wç, fevrh/ç o[in, fevrh/ç ai\ga, fevrh/ç a[pu mavteri pai`da.

Espero, tu che riporti tutto quanto luminosa Aurora disperde, riporti la pecora, riporti la capra, porti via alla madre la figlia.

Bibliografia

Non intendo, in questa sede, ridiscutere analiticamente problemi di ordine critico-testuale e metrico dei quali mi sono occupato altrove. 8 Mi limiterò ad osservare che al v. 1 fevrwn – cui taluni, tra cui la Voigt, preferiscono fevrh/ç, sulla scorta del fevreiç di Demetr. Eloc. 141 9 – è lezione non solo documentata da quasi tutti gli altri testimoni, 10 ma anche corroborata dal nesso omerico pavnta fevrwn (Il. 9, 331). Dopo l’esametro del v. 1, la struttura metrica e la restituzione testuale del v. 2 rimangono parzialmente incerte, 11 ma ciò non compromette, a quanto pare, la sostanziale comprensione del frammento. A dispetto dell’assenza del contesto, infatti, la nota dominante appare con tutta evidenza in linea con la consolidata tradizione del genere. Emblematica è la topica invocazione ad Espero, l’astro della sera propizio alle nozze. Tutti gli esseri che la fulgida Aurora 12 con impulso centrifugo disperde sulla terra, Espero con inverso moto centripeto raduna in sede la sera : così riconduce la pecora, così la capra, ma strappa alla madre la figlia 13 per portarla alla sua nuova dimora da sposa. Nel riprendere il modello saffico, Meleagro introduce alcune sostanziali variazioni : non solo esplicitando l’identità dell’astro del mattino e della sera, 14 ma anche e soprattutto configurando una realtà ben diversa da quella rappresentata dalla poetessa di Lesbo. Mentre, infatti, in Saffo l’occasione è data da una cerimonia nuziale, sul cui background si giustifica appieno il topico richiamo alla lacerante separazione dalle rassicuranti braccia materne, 15 nel Gadareno il forzato allontanamento (ajpavgeiç) indotto dalla stella dell’alba è quello dell’amata dall’amante, in un contesto di kruptadivh filovthç o eros clandestino, sicché il poeta au-

Beckby 1965-67, H. Beckby, Anthologia Graeca i-iv, München 1965672. Bignone 1921, E. Bignone, L’epigramma greco. Studio critico e traduzioni poetiche, Bologna 1921. Citti 1978-79, V. Citti, Imitazioni da Saffo in Meleagro, « Atti ist. veneto lett. scienze arti » 137, 1978-79, 333-354. Conca-Marzi-Zanetto 2005, F. Conca - M. Marzi - G. Zanetto (edd.), Antologia Palatina i (Libri i-vii), Torino 2005. Degani-Burzacchini 2005, E. Degani - G. Burzacchini (edd.), Lirici greci. Antologia, agg. bibl. a c. di M. Magnani, Bologna 20052. Dorsey 1967, D. F. Dorsey, Jr., Meleager’s Epigrammatic Technique, diss. Princeton 1967. Gärtner 2007, T. Gärtner, Textkritisches zu den Epigrammen Meleagers i, « Emerita » 75/1, 2007, 93-112. Gärtner 2008, T. Gärtner, Textkritisches zu den Epigrammen Meleagers ii, « Emerita » 76/2, 2008, 197-216. Gow-Page 1965, A. S. F. Gow - D. L. Page, The Greek Anthology. Hellenistic Epigrams i-ii, Cambridge 1965. Guidorizzi 1992, G. Guidorizzi (ed.), Meleagro. Epigrammi, Milano 1992. Marzullo 1967, B. Marzullo, Frammenti della lirica greca, Firenze 19672. Mazzoni 1880, G. Mazzoni (trad. di), Epigrammi di Meleagro da Gadara, Firenze 1880. Moore-Blunt 1978, Jennifer Moore-Blunt, Two Epigrams by Meleager, « Emerita » 46, 1978, 83-89. Paduano 1989, G. Paduano (ed.), Antologia Palatina. Epigrammi erotici, libro v e libro xii, Milano 1989. Page 1981, D. L. Page, Further Greek Epigrams, Cambridge 1981. Pontani 1978-81, F. M. Pontani, Antologia Palatina i-iv, Torino 1978-81. Voigt 1971, Eva-Maria Voigt, Sappho et Alcaeus. Fragmenta, Amsterdam 1971.

  8  Per il testo qui adottato e per un dettagliato commento, mi permetto di rinviare a quanto scrivevo in Degani-Burzacchini 2005, 173 s.   9  Probabilmente mnemonica (incompleta proprio nel v. 1), la citazione di Demetrio avrà indebitamente esteso al v. 1 l’anafora del v. 2. 10  Vd. Voigt 1971, 117 s. 11  Vd. Degani-Burzacchini 2005, loc. cit. 12  Notevole faivnoliç ... Au[wç, cfr. Hymn. Cer. 51 fainoli;ç ∆Hwvç. 13  Banalizzante è l’interpretazione, da altri sostenuta, secondo cui l’espressione significherebbe “riporti alla madre il figlio” o “la figlia”, intendendo dopo i consueti svaghi del giorno o dopo le mansioni della pa-

storizia o della campagna ; la corretta esegesi è garantita dalla topicità del riferimento alla tenerezza materna nei confronti d’una figlia che va sposa : cfr. Theocr. 18, 13 s. pai`da d∆ eja`n çu;n paiçi; filoçtovrgw/ para; matriv / paivçdein ejç baqu;n o[rqron, e vedi infra, n. 15. 14  Ciò sottolinea Citti 1978-79, 348. 15  Cfr. Catull. 62, 20 ss. Hespere, quis caelo fertur crudelior ignis ? / qui natam possis complexu avellere matris, / complexu matris retinentem avellere natam, / et iuveni ardenti castam donare puellam ; 61, 56 ss. tu (scil. Hymen) fero iuveni in manus / floridam ipse puellulam / dedis a gremio suae / matris.











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TR A GR ECI A E OCCIDENTE : L’OR ESTEIA DI STESICORO  

A lfonso Mele 1. Oreste e Ifigenia a Matauros alla fine del vi secolo

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ella purificazione di Oreste a Matauros parlano Catone 1 e Varrone, 2 Probo 3 e uno scolio a Teocrito, 4 una serie di fonti di diversa ispirazione e valore. Probo e lo scolio dipendono da una tradizione di tipo letterario interessata a tracciare la storia della presenza del culto di Artemide Taurica in rapporto alla questione delle origini del genere bucolico. 5 Nella misura in cui le origini della poesia bucolica venivano connesse ad un’Artemide pastorale e l’Occidente in quanto patria di Teocrito invitava a cercarne in Sicilia le origini, queste fonti, partendo dall’equivalenza tra la pastorale Artemide Tauropola/os, intesa come la dea dei tau`roi, e l’Artemide Taurica, 6 venerata da popolazioni che praticavano il nomadismo e la pastorizia, 7 spiegano la diffusione del culto nell’isola con l’arrivo dello xoanon taurico a Siracusa, per Probo, a Tindari, per lo scolio. La cosa diveniva possibile a partire dalla tradizione dell’arrivo di Oreste in Italia in cerca di definitivo risanamento dopo il matricidio. Tale arrivo ne costituiva però il presupposto solo dopo la sovrapposizione dei due paralleli percorsi che Oreste aveva dovuto seguire per purificarsi : uno apollineo che lo aveva portato, venendo in Italia per purificarsi dal matricidio nelle acque del Metauros, a ripercorrere l’andata di Apollo a Tempe per purificarsi nelle acque del Peneio dell’uccisione del serpente sacro di Delfi ; 8 l’altro, quello artemideo, che lo aveva portato in Sicilia per trasferirvi l’immagine della dea, riproponendo in Occidente il viaggio di ritorno dalla Scizia in Grecia, mirante a sottrarre il culto della dea alle pratiche barbariche e omicide dei Tauri, a quel mondo in cui Artemide/Ifigenia era finita in seguito alla richiesta del sacrificio umano. Questo e non altro era infatti il senso del trasferimento tra i Tauri di un’Ifigenia inglobata in Artemide stessa in quanto Enodia/Hekate ; 9 poi, grazie alla sottrazione a quello spazio, il culto della dea si era purificato da tali pratiche. Allo stesso modo Oreste, che si era macchiato del sangue della madre, doveva passare tra i Tauri omicidi, sfuggire al sacrificio e tornare con lo xoanon di Artemide, purificando così anche se stesso da ogni contatto con quel mondo primitivo e barbarico in cui anche lui, sacrificando la madre, era finito. Tenuto conto di tutto questo, il diverso rilievo che le no 











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Fr. 71 Peter = iii 4 Chassignet. 2  Rer. hum. xi F 11 Mirsch. Praef. Verg. Buc. 2, pp. 325, 12-326, 21 Thilo-Hagen.   4  Schol. Theocr. Prol. 2, 13-20 Wendel.   5  Cf. F. Frontisi-Ducroux, Artémis Bucolique, « Rev. hist. rel. » 198, 1981, 29 ss. ; C. Montepaone, Artemis taurica in occidente, in Lo spazio del margine, Roma 1999, 47 ss.   6  Diod. Sic. 4, 44, 7 ; Nic. fr. 58 G.-S. ap. Ant. Lib. 27 ; schol. Soph. Ai. 172a.b ; Eustath. p. 395, 5 van der Valk ; Sud. s.v. Tauropovla.   7  Eur. IT 254, 265 ; Hyg. Fab. 120 ; Nic. ap. Ant. Lib. 27, 3.   8  Theop. FGrHist 115 F 80 = Ael. VH 3, 1 ; Call. Aet. frr. 86-89 Pf. ; Plut. Mor. 293c ; 417e-418b.   9  Cypr. arg. 45-49 Bern. ; Hes. fr. 23 M.-W. ; Stesich. PMG 215. Sul problema si tornerà più avanti. 10  Liv. 25, 1, 2. 11  S. Settis, Tauriana (Bruttium) : note storico-archeologiche, in Archeologia in Calabria. Figure e temi, Roma 1987, 64 ss.   3 































stre fonti rispettivamente danno ad Oreste e/o ad Artemide diviene chiaro. Punto di partenza comune, sia per Catone che per lo scolio e Probo, è l’arrivo di Oreste, munito dello xoanon della dea, entro i confini di Reggio, nell’area del fiume Metauros, il fiume dalle sette diramazioni, e la conseguente purificazione nelle sue acque. Poi le strade divergono. Lo scolio e Probo, a cui interessano le origini della poesia bucolica, si concentrano sul destino dello xoanon, Catone e Varrone lasciano spazio ad Oreste. Le Origines di Catone si interessavano alla storia di Taurianum. Perciò, dopo aver integrato la menzione dello xoanon con l’esplicita attestazione che accanto all’eroe c’erano Pilade ed Ifigenia, Catone aggiungeva che del passaggio di Oreste nella zona a lungo era rimasta prova nella sua spada sospesa ad un albero e passava quindi a richiamare l’archeologia, le origines, del sito, gli Aurunci (Ausoni) e gli Achei ; ricordava che il fiume aveva dato colà il nome a una popolazione, i Tauriani, e a un sito, Taurianum ; precisava, infine, che il braccio del fiume dove era avvenuta la purificazione, il settimo della serie, costituiva il confine tra Reggio e appunto Taurianum. L’intento di Catone era quindi, coerentemente con l’obiettivo generale della sua opera, di presentare il sito e la sua storia e stabilire il suo confine con Reggio, attribuendo al fiume connesso a Oreste e al luogo dove era rimasta la sua spada il compito di rappresentare il limite di tale territorio. Si può legittimamente supporre che l’attenzione riservata a questo sito sia dovuta al ruolo da Taurianum svolto durante la guerra annibalica 10 e che le sue glorie di un tempo siano state dedotte dal passato di Metauros 11 e attinte da Timeo, 12 tanto più poi se l’autonomia dei Tauriani (e quindi il problema della definizione del loro territorio) era una necessità impostasi dopo il 356 a.C., data di nascita della confederazione dei Brettii, e proseguita in seguito per effetto della crescita di questa comunità italica nei secoli successivi. 13 Nessun riferimento a Taurianum si trova invece nello scolio e in Probo, ma la tradizione da cui tutti muovono è la stessa : costante è il riferimento all’area del Metauros (l’attuale Petrace nella piana di Gioia Tauro) e dei suoi affluenti 14 in relazione alla posizione confinaria che l’area aveva rispetto a Reggio, e comune è anche il rimando al passato greco, il che può anche lasciar supporre che la località confinante col reggino fosse in origine Medma, alla quale ancora Plinio associava la menzione di Portus Orestis. 15  

















12  A Timeo fa pensare il richiamo a precedenti presenze achee, tema caro a questo storico (D. Musti, Strabone e la Magna Grecia, Padova 1988, 58) e riscontrabile in una serie di tradizioni riferite da Licofrone (1008 ss. ; 2067 ss. ; 1083 ss.) e nella tradizione straboniana su Temesa dove è di nuovo la successione Ausoni-Achei (6, 1, 5, 255). 13  Una breve sintesi della sua storia in F. Mollo, Ai confini della Brettìa, Soveria Mannelli 2003, alla cui bibliografia vanno ora aggiunti i tre volumi Sila Silva, curati da R. Agostino e M. Maddalena Sica, Soveria Mannelli 2009. 14  Unico testo discorde su questo punto è lo scolio a Teocrito, che erroneamente intende i sette fiumi come diramazioni da un’unica sorgente, contraddetto da tutti gli altri e dalla realtà dei luoghi che vede confluire più affluenti nel corso del Petrace. 15  Plin. N.H. 3, 73 : il porto di Oreste con Medma a sud del Metauros.  





tra grecia e occidente: l ’ oresteia di stesicoro 117 La funzione liminare dell’area è confermata dalla presenza qua che era, analogamente al Peneio, il risultato della conin loco nel vi secolo di strutture militari per la difesa del fluenza di sette fiumi ; 24 allo stesso modo fuggendo, dopo territorio. 16 l’incendio della capanna sede della drakaina, si purificava Quanto a Varrone, questi dava ampio spazio ad Oreste. nelle acque del Peneio il pais che colla daphnephoria ritualRicordava, come già Catone, la spada depositata sull’albemente replicava i comportamenti del pais Apollo. 25 ro, ma sottolineava, oltre alla purificazione, tutte le altre Il dio aveva compiuto libagioni e sacrifici 26 e un altare a tracce del passaggio di Oreste nell’area. L’interesse per Ifilui dedicato lo ricordava a Tempe dove anche il pais incarigenia e Pilade presente in Catone, nello scolio e in Probo, cato di replicare gli atti del dio sacrificava ; 27 presso il Mequello per la sorte dello xoanon e per le origini della poetauros c’era un tempio (il confronto dice che doveva tratsia bucolica, presente nelle altre fonti, sono nel suo caso tarsi di un altare) del dio fondato dopo la purificazione da totalmente ignorati. Sono ricordati invece altri particolari, Oreste, dove evidentemente i Reggini sacrificavano. che completano il quadro della purificazione : i nomi dei Apollo dopo la purificazione si era cinto di lauro e aveva sette fiumi, 17 la fondazione di un locale tempio di Apollo, staccato un ramo dall’albero, Dyareia, 28 che fioriva accanto la menzione di un lauro da cui i Reggini, come attuando all’altare ; col ramo, ormai purificato, era tornato a Delfi a una propria daphnephoria, staccano un ramo nel muover prendere pieno possesso del tempio ; 29 il pais che ne repliverso Delfi. cava gli atti era incaricato di una daphnephoria da Tempe Sono particolari assai interessanti. Essi permettono, ina Delfi, che lo riportava nella comunità da cui era ritualfatti, in primo luogo di capire che Catone e ancor più Varmente dovuto fuggire ; Oreste, una volta purificato e fatti rone utilizzano fonti storiche e non letterarie ; fonti in cui, evidentemente i conti col lauro locale, era potuto tornare come mostra il testo di Catone, Ifigenia e Oreste erano in patria per sposarsi e riprendersi il regno di Agamennone contemporaneamente presenti, ma in cui il territorio rege Menelao ; i theoroi reggini, che partivano per Delfi, come gino e, particolarmente in Varrone, Oreste la facevano da Apollo, come il pais daphnephoros, e implicitamente lo stesprotagonisti. La tradizione è dunque chiaramente di origiso Oreste, staccavano un ramo dal lauro e con questo si ne reggina e traduzione italica di fatti metropolitani. presentavano al dio. In secondo luogo il quadro della purificazione e delle sue Sono più che evidenti le implicazioni di tutto ciò. 30 Oreconseguenze cultuali consente di notare una serie di analoste è l’omologo di Apollo ; i Reggini, come Apollo e il pais e gie e di avere un’idea più chiara sia dei comportamenti di Oreste, sono gli omologhi di tutti costoro, in quanto muoOreste che dei modelli seguiti dai Reggini nel definire l’area vono a Delfi dopo avere (Varrone) staccato il ramo dal sasacra nata in seguito a tale purificazione. Apollo, che si era cro lauro. E non meraviglia. I Calcidesi di Reggio erano macchiato di empietà con l’uccisione della drakaina, 18 cuil frutto, secondo una tradizione che l’età di Anassila ha stode e interprete del preesistente oracolo della madre Terfissato, 31 di una decimazione a causa di una carestia, segno ra, Themis/Gaia, 19 era dovuto fuggire e andare supplice in della collera divina verso la loro città ; per liberarsi di queTessaglia 20 a purificarsi nelle acque del Peneio, 21 un fiume sta erano stati allontanati come fossero pharmakoi su cui che, nato indipendentemente, si arricchiva poi di acque per erano state riversate le colpe della comunità ; erano stati inla confluenza in esso di sei diversi affluenti, quattro oltre viati a Delfi ; avevano ricevuto l’ordine di Apollo di fondare il Peneio citati da Erodoto, e due ricordati da Strabone, 22 una colonia entrando nelle acque dell’Apsia, il più santo per cui esso, nel suo tratto finale, appariva come la somma dei fiumi, 32 individuato dalla presenza in loco di un segno di sette diversi fiumi. 23 Oreste, che si era reso colpevole di di inversione, una donna/vite che si comportava da mariempietà uccidendo la propria madre, si era dovuto allontato verso un maschio/fico selvatico. 33 La loro storia quindi nare, presentarsi supplice ad Apollo, e per ordine del dio si replicava, come seguendo un modello, la successione imera dovuto purificare nelle acque del Metauros, corso d’acpurità, allontanamento, intervento di Apollo, purificazione  





























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16  L. Costamagna, Il territorio di Reggio, in M. Gras - E. Greco - P. G. Guzzo (edd.), Nel cuore del Mediterraneo antico : Reggio, Messina e le colonie calcidesi dell’area dello Stretto, Corigliano Calabro 2000, 229. 17  Il nome del settimo è in Catone Pecoli, forse Pegulìs, gelido ; nell’elenco di Varrone, peraltro assai corrotto, apparentemente manca, ma il Polie presente nell’elenco potrebbe essere quel che ne resta. 18  Pind. fr. 249a Maehl. ; Theop. FGrHist 115 F 80 = Ael. VH 3, 1 ; Call. frr. 86-89 Pf. ; Plut. Mor. 293b-c, 418a-b sono le fonti principali. 19  Pind. fr. 55 Maehl. ; Pae. 8, 16 ; Aesch. Eum. 1-8 e schol. 2 ; Prom. 209 ss. ; Eur. IT 1233 ss. ; Or. 163 ; Theop. fr. 80 = Ael. VH 3, 1 ; Call. frr. 86-89 Pf. Nell’Inno ad Apollo 305-355, la drakaina appare come nutrice di Typhoeus per conto di Hera che con l’aiuto delle potenze ctoniche lo ha generato, mentre in Hes. Theog. 820 ss. è Gaia stessa a generarlo. 20  Pind. fr. 249a Maehl. ; Call. fr. 89 Pf. 21  Theop. FGrHist 115 F 80 = Ael. VH 3, 1 ; Call. frr. 86-89 Pf. 22  Cinque col Peneio citati da Erodoto (7, 129, 2) : Peneio, Apidano, Onocono, Enopeo, Pamiso e due aggiunti da Strabone 7, 7, 9. Cf. Theop. FGrHist 115 F 80 = Ael. VH 3, 1. 23  È evidente a questo punto che, se parlano di Sette fiumi confluenti Catone e Varrone e Probo che li cita (praef. Verg. Buc. 2, pp. 325, 12-326, 21 Thilo-Hagen), rispecchiano la tradizione originaria, mentre se ne distacca lo schol. Theocr. Prol. 2, 13-20 Wendel, che invertendo i termini riferisce di sette fiumi da una sola fonte. 24  Varr. Rer. hum. xi F 11 Mirsch (fluvii continui septem) ; Prob. praef. Verg. Buc. 2, pp. 325, 12-326, 21 Thilo-Hagen (flumine quod septem fluminibus confunderetur). 25  Jam. VP 52. Le fonti principali sono le stesse citate a n. 18 poiché i due  































percorsi sono costantemente citati assieme. Una discussione accurata se ne rinviene in A. Brelich, Paides e parthenoi, Roma 1969, 413 ss. 26  Theop. F 80 = Ael. VH 3, 1 ; Plut. Mor. 293c ; 417e-f ; 418 b-c. 27  IG ix 2, 1934 Ruesch ; Theop. FGrHist 115 F 80 = Ael. VH 3, 1. 28  Hesych. s.v. Duavreia. Cf. Ael. VH 3, 1 ; Paus. 10, 5, 9 ; Mela 2, 36. 29  Theop. FGrHist 115 F 80 ; Call. fr. 87 Pf. ; Nic. Alexiphar. 199 s. Con il ramo in una mano e il lauro nell’altra è costantemente rappresentato il dio : H. Saurian - V. Machaira, s.v. ‘Orestes’, LIMC vii 1, 1994, 68-76 e catalogo vii 2, 50-55. 30  Già notate da N. Luraghi, Il mito di Oreste nel regno dello stretto, in Mito e storia in Magna Grecia. Atti del xxxvi Convegno di studi sulla Magna Grecia, Napoli 1997, 333 ss., esse sono state riprese e sviluppate, in un lavoro assai più dettagliato e documentato, di M. Intrieri, Osservazioni sul mito di Oreste, in La Calabria Tirrenica nell’Antichità, Soveria Mannelli 2008, 380 ss., lavoro cui si rimanda anche per l’ampia bibliografia sul tema. Se un rilievo può essere in generale rivolto ad entrambi è di non aver riletto attentamente i dati relativi ad Apollo, a Tempe e al pais daphnephoros. 31  Strabone conclude questo racconto evocando Anassila e l’egemonia dei Messeni su Reggio, 6, 1, 6 contrapponendole il racconto antiocheo (FGrHist 555 F 9) sulla fondazione zanclea citato in precedenza. 32  Sul significato di questa definizione cf. Intrieri, op. cit. 365. 33  Tim. FGrHist 566 F 43 ; Diod. Sic. 8, 23, 2 ; Dion. Hal. 19, 2 ; Strab. 6, 1, 5. La tradizione in questione fa capo agli ambienti vicini alla tirannide, non vi aderisce pertanto Aristotele che rispecchia ambienti ostili ad essa : Heracl. Lemb. Pol. 55. Sull’inversione ancora valide le ossevazioni di N. Valenza Mele, « Mél. Ec. Fr. Rome » 89, 1977, 513 ss.  





























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fluviale, 34 inversione/reintegrazione, analoga a quella che si evidenzia nei casi di Apollo Pythoktonos, del pais protagonista della daphnephoria, di Oreste italico. La vicenda italica di Oreste era dunque metafora della nuova versione della fondazione di Reggio che aveva sostituito quella originaria della fondazione da parte di Zancle, la stessa città che aveva fondato anche Metauros, 35 ora sostituita nel possesso dell’area proprio da Reggio. Zancle come metropoli scomparve e apparvero, invece dell’Apollo Delio, di Cuma e Nasso, Apollo Delfico e l’oracolo di fondazione ; la città divenne una città di Febo, Foibiva, 36 e i coloni iJeroiv di Apollo 37 e Foivbioi essi stessi ; 38 scomparve Periere, l’ecista cumano di Zancle che portava il nome dell’Eolide della Messenia e richiamava quindi la presenza eolide e messena come mediata da Cuma, 39 e apparvero direttamente i Messeni associati da Apollo alla fondazione calcidese ; ecisti ne divennero al posto degli Zanclei il calcidese Artimedes 40 e il messeno Alcidamida. 41 Le origini di tutto ciò vanno ovviamente ricercate nel processo di crescita di Reggio che portò nel corso del vi secolo la città ad assumere un ruolo di autonomia ed egemonia nell’area. Reggio sostenne Locri contro Crotone ed ebbe modo così di condividere la risonanza e i meriti di una vittoria considerata epocale non solo in Italia ovviamente, dove l’espansionismo di Crotone risultò ridimensionato per sempre, 42 ma nella Grecia metropolitana : a Delfi dove si depositarono le ricche offerte promesse ad Apollo, 43 ma anche ad Atene, 44 nel Peloponneso, 45 a Corinto, a Olimpia, 46 a Sparta 47 dove la fama della sorprendente vittoria dei deboli contro i forti grazie al miracoloso intervento divino si diffuse e nacque il proverbio ajlhqevstera tw`n ejpi; Savgra/ ; 48 e comparvero le tradizioni sulle prodigiose guarigioni degli strateghi crotoniati feriti nella mischia 49 e quella stessa su Stesicoro, che prendeva atto del ruolo positivo di dèi ed eroi e guariva dalla sua cecità assolvendo Elena dalle sue colpe. 50 Parallelamente Reggio sostituì Zancle nell’area del Metauros, che divenne confine del territorio reggino ; 51 e a partire dal secondo quarto del vi sec. prese a imporre e diffondere la sua ceramica, la ceramica calcidese, 52 per chiudere il secolo con l’aperto scontro con Zancle 53 fino a giungere poi, sotto Anassila, ad eliminarla. 54 Non a caso tale versione dei fatti si conclude, in Strabone, con la legittimazione della tirannide di Anassila e dell’egemonia dei Messe-

ni. E non a caso nella versione antianassilaica, che Eraclide Lembo mutua da Aristotele, 55 il racconto della fondazione conserva lo stesso ordito, ma non ne rispetta il testo. C’è la carestia, ma non c’è la decima ; i Calcidesi stessi raccolgono i Messeni di Makistos e non è Apollo a inviarli da loro ; la colonia si dirige a Reggio perché rinnova una fondazione dell’eolide Jokastos ; l’oracolo di Apollo viene chiesto congiuntamente ed a posteriori ; nel testo l’inversione sostituisce il fico selvatico, di origine messena, col leccio ; il racconto, infine, si conclude ancora col ricordo di Anassila, ma se questi aveva esaltato la sua vittoria colle mule con un sontuoso banchetto e rispecchiandola nel tipo colla biga e le mule per le sue coniazioni, 56 il racconto aristotelico ironizza sulla importanza data a una vittoria ottenuta con le mule e non coi nobili cavalli e sul comportamento di Simonide che solo una più che lauta ricompensa aveva indotto alla sua celebrazione, con l’allusione alla nascita delle mule dalle cavalle. 57 La piena conferma della esistenza di questa tradizione nel vi secolo si ottiene anche dall’analisi degli aspetti artemidei della stessa.

34  Giusta l’intuizione sulla funzione dell’Apsia in Intrieri, op. cit. 35  Sol. 2, 11. 36  Strab. 6, 1, 7, 258. 37  Tim. FGrHist 566 F 43. 38  Steph. Byz. s.v. Foibiva, città omonima, fondazione dei Sicionii : Paus. 9, 15, 4. 39  Su tutto questo processo : A. Mele, Cuma in Opicia tra Greci e Romani, in Cuma i. Atti del xxxxviii Convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 2009, 81, 101 s., 107, 120 s. 40  Dion. Hal. 19, 2. 41  Paus. 4, 23, 6. 42  Strab. 6, 1, 10, 261 ; 1, 12, 262 ; Justin. 20, 4, 1-2. 43  Justin. 20, 3, 3. 44  Justin. 20, 3, 9 : Corinto, Atene, Sparta. 45  Plut. Ae. Paul. 25, 1. 46  Cic. De nat. deor. 2, 16 ; Strab. 6, 161. 47  Eustath. ad Il. 278, 5 ; Sud. s.v. ajlhqevstera ktl. 48  Cic. De nat. deor. 3, 13 ; Strab. 6, 261 ; schol. Clem. Alex. Protr. 25, 1 ; Sud. s.v. ; Zenob. 2, 17. 49  Autoleon/Leonimos : Conon, FGrHist 26 F 1, 18 ; Paus. 3, 19, 12 ; Hermias : Plat. Phaedr. 243a ; Phormion : Sud. s.v. 50  Schol. Plat. Phaedr. 243a. Cf. Conon, FGrHist 26 F 1, 26 ; Paus. 3, 19, 13. 51  Cato 3 F 4 Chassignet ; Varro, Rer. hum. xi F 11 Mirsch. 52  M. Iozzo, Ceramica “calcidese”: nuovi documenti e problemi riproposti, Roma 1994. 53  SEG xi 1954, 1295 ; xv 1958, 240 ; Hdt. 6, 23, 2. Cf. Jeffery, LSAG, 243 s.,

247 e vd. N. Luraghi, Tirannidi arcaiche in Sicilia e Magna Grecia, Firenze 1994, 138 s., senza dimenticare però le pagine classiche di G. Vallet, Rhégion et Zancle, Paris 1958, 335. 54  Hdt. 7, 164, 1 ; Thuc. 6, 4, 6 ; Strab. 6, 268 ; Paus. 4, 23, 4. 55  Arist. fr. 611, 55 R. = Heracl. Lemb. Pol. 55. Cf. Simon. PMG 515 ; Arist. fr. 578 R., Rhet. 1405b 23 ; Athen. 1, 3e ; schol. Pind. Pyth. 2, 38. 56  Cf. Luraghi, Tirannidi, cit. 218 ss. 57  Cf. Simon. PMG 515 ; Arist. fr. 578 R., Rhet. 1405b 23 ; Athen. 1, 3e ; schol. Pind. Pyth. 2, 38. 58  Le fonti relative si trovano citate e discusse in Montepaone, op. cit. 47 ss., in particolare per ciò che attiene alla loro connessione con il dibattito antico circa le origini della poesia bucolica. Si tratta di schol. Theocr. Prol. 2, 13-20 Wendel, per quel che riguarda Tindari, e per quel che riguarda Siracusa, di Prob. praef. Verg. Buc. 2 (ap. Serv. 3, 2), pp. 325, 12-326, 21 Thilo-Hagen, che cita poi le testimonianze di Cato, Or. 3, 4 Chassignet e Varro Rer. hum. xi F 11 Mirsch, a proposito dell’arrivo nel Reggino di Oreste (e secondo Catone anche di Pilade ed Ifigenia). 59  Hyg. Fab. 121 ; 261 ; Serv. ad Verg. Aen. 2, 116 ; 6, 136. Cf. Luc. Tox. 6 ; Arr. Peripl. 6, 4. 60  Prob. praef. Verg. Buc. 2 (ap. Serv. 3, 2), pp. 325, 12-326, 21 Thilo-Hagen. 61  Oltre a schol. Theocr. Prol. 1, 2 : Lucil. Sat. 3, frr. 104-106 ap. Prob. praef. Verg. Buc. 2, pp. 325, 12-326, 21 Thilo-Hagen ; Sil. It. 14, 260 ; Vib. Seq. De flum. s.v. ‘Phacelinus’.



















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2. Artemide Taurica e Oreste a Siracusa agli inizi del v secolo Di una presenza dell’Artemis Taurica in Occidente connessa all’allontanamento del suo xoanon dalla selvaggia e barbara Tauride, si parla tanto, come abbiamo già accennato, per il reggino, per Tindari e Siracusa, 58 quanto in diverso contesto per Aricia. Secondo la tradizione reggina Ifigenia e Pilade sono arrivati con Oreste portando con loro lo xoanon di Artemis Taurica, che hanno ottenuto avendo ucciso il re Toante 59 e nascosto il simulacro in una fascina, favkelo~/favsko~. Di qui l’epiclesi Facelitis/Fascelitis (Siracusa) 60 o Facelina (Tindari), 61 applicata alla dea che Oreste ha dovuto trasferire a Siracusa o a Tindari, con un culto che nello scolio, a proposito dell’origine della poesia bucolica a Siracusa, non prevede sacrifici sanguinosi ma canti in onore della dea, processioni di pastori mascherati con corna di cervo, offerte di vino, pani e semi. La tradizione siracusana, nel generale contesto della diffusione del culto di Artemis Facelitis/Fascelitis, appare per più versi una forzatura. Essa dipende dalla tradizione dell’Oreste reggino, ma mentre la connessione con la piana di Gioia Tauro luogo della purificazione di Oreste, che si  







































tra grecia e occidente: l ’ oresteia di stesicoro 119 trovava in una zona liminare come Tempe rispetto all’Arricche di acque, di boschi e di prati fioriti, 66 e tra i corsi golide e offriva con i suoi sette fiumi confluenti un ambienegualmente ramificati del Peneio e del Metauros. Qui inte analogo a quello tessalico, appare ben motivata, non allo vece la purificazione apollinea si subordina e si integra con stesso modo lo è il passaggio di Oreste a Siracusa, dove né un’ulteriore purificazione artemidea realizzata attraverso Ifigenia né l’eroe argivo avevano alcun motivo per recarsi l’allontanamento dallo spazio taurico. e portarvi lo xoanon taurico : la sua presenza sul posto non Questa tradizione dà come scontata la distinzione tra Ifiaveva, a parte l’esistenza in loco di uno dei tanti culti pastogenia come Artemide stessa finita nello spazio taurico una rali della dea, nessuna specifica giustificazione. volta che ha preteso un sacrificio umano, e Ifigenia come Connessa alla patria della poesia bucolica, 62 creazione sacerdotessa della dea, prova indiscutibile del mancato sadel siracusano Teocrito, la tradizione siracusana da un puncrificio e condizione indispensabile per un rientro nel suo to di vista letterario fa subito pensare ad un collegamenculto nello spazio ellenico. L’operazione ha una precisa to tardo. La debolezza del collegamento è chiaramente collocazione nel tempo. Nei Cypria, vii secolo, Ifigenia, fidimostrata del resto dalla presenza proprio a Siracusa di glia di Agamennone sottratta alla morte, portata tra i Tauri tradizioni alternative che collegavano le origini della poee resa immortale, è la dea stessa, come ancora conferma sia bucolica non ad un’Artemis Taurica, ma ad un’Artemis Erodoto riferendo che per i Tauri Ifigenia era la loro parpacificatrice attiva già all’epoca di Gelone o una altrettanthenos divina. 67 Coerentemente nel vi secolo nel Catalogo to siracusana Artemis Lyaea risanatrice del bestiame. 63 Né delle donne Ifigenia appare tra i Tauri come Artemis Enodia basta, perché a testimoniare la debolezza della connessione o Hekate, propolos della Cacciatrice, cosa che anche Stesidi un’Artemide occidentale, Taurica o meno che fosse, con coro nella prima metà di questo stesso secolo ripeteva. 68 le origini della poesia bucolica, sempre in ambito dorico e Immediatamente come dea Ifigenia appariva ancora in età agli inizi del v secolo, sia lo scolio teocriteo che Probo conclassica in Arcadia, in Acaia, ad Ageira, in Argolide, a Herservano anche un’altra tradizione che ne riportava le orimione, 69 mentre nel Catalogo il nome attribuito all’eroina è gini ad una lacedemone Artemis Karyatis e all’epoca della Iphimede, 70 il che permette di rintracciare per lei una conspedizione di Serse. nessione con la micenea Iphimedeia venerata a Pilo. 71 Tuttavia queste tradizioni contengono qualche messagIl senso ultimo della tradizione taurica era dunque che gio per noi interessante. L’insistita notazione cronologica la dea, una volta che aveva richiesto un sacrificio umano sul 480 o su di lì costituisce un terminus ante quem per tuted Ifigenia si era dissolta in essa, si era automaticamente te queste tradizioni. Questa insistenza serve a dimostrare estraniata al mondo greco e si era posta sullo stesso piano la presenza a Lacedemone o, alternativamente, a Siracusa di una barbara e lontana dea della Tauride. Al contrario, negli anni della spedizione di Serse o poco prima (prima Ifigenia, quale vivente sacerdotessa di Artemide, non solo di Gelone) di un’Artemis pastorale identica o equivalente manifestamente riduceva il sacrificio umano a finzione, ma alla Taurica, e quindi a dimostrare l’esistenza di un culto rendeva possibile il recupero del culto nello spazio greco ad di Artemide Taurica autonomo dalla tradizione ateniese opera di Oreste, recupero che lo risanava, facendogli comche rivendicava il possesso originario dello xoanon taurico piere un tragitto non più analogo a quello che Apollo avea Brauron, ma ricordava come esso all’epoca dell’invasione va compiuto a Tempe, ma analogo a quello che Artemide di Serse fosse stato da lui asportato e trasferito in Asia. 64 Il aveva compiuto tornando tra i Greci, dove : a Brauron la riferimento pertanto consente di concludere che la tradimorte dell’animale a lei sacro, l’orsa, lasciava il campo al zione del trasferimento dell’immagine della dea taurica era travestimento rituale delle bambine ; 72 ad Halai, il sacrifigià presente in Grecia prima del 480 (e non è stata invenziocio diveniva epidermico ferimento della vittima umana ; 73 ne di Euripide). 65 a Sparta, il sacrificio diveniva una fustigazione a sangue ; 74 a Siracusa, a Tindari e nella stessa Laconia il culto della dea 3. Artemide Taurica nel reggino richiedeva canti e offerte non sanguinose e non sacrifici umani ; a Reggio trovavano la salvezza i Messeni che aveLa tradizione relativa all’arrivo di Ifigenia nel reggino prevano preso le distanze dal sangue di Teleclo e degli altri suppone quella sopra analizzata della purificazione di OreSpartani versato nel tempio della dea. 75 Tutto ciò rendeva ste nelle correnti del Metauros, che ha, come si è visto, copossibile il fatto che : a Brauron Ifigenia fosse stata sepolta me modello la purificazione realizzatasi a Tempe, la quale dopo essere stata la portachiavi della dea ; 76 a Megara avesha pienamente riabilitato Apollo subito dopo tornato a se avuto dopo la morte un suo heroon ; 77 ad Argo si fosse Delfi a fondarvi il suo tempio, una compiuta ed autosuffermata dopo essere stata recuperata da Oreste. 78 ficiente purificazione, dunque, omologa peraltro alla traL’epoca in cui questo processo si era sviluppato si dedudizione calcidese sulla decima offerta a Delfi e indirizzata ce in vari modi. A Halai 79 il culto si era affermato dopo che a Reggio. La sua autonomia ed autosufficienza è inoltre l’originale di Brauron era stato sottratto dai Persiani nel confermata dalla già notata omologia tra la valle di Tempe 480 ; 80 a Sparta il culto era arrivato con Oreste, 81 dove tra il e la piana di Gioia Tauro, conche circondate da montagne,  









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62  Schol. Theocr. Prol. 2, 13-20 Wendel ; Prob. praef. Verg. Buc. 2, pp. 325, 12-326, 21 Thilo-Hagen. 63  Cf. Montepaone, op. cit. 53 ss. 64  Paus. 3, 16, 8. 65  Come imprudentemente sostenuto da M. J. O’Brien, Pelopid History and the Plot of Iphigenia in Tauris, « Class. Quart. » 38, 1988, 98 ss. 66  Cf. la descrizione in Theop. FGrHist 115 F 80 = Ael. VH 3, 1 e per la costa tirrenica Duris, FGrHist 76 F 19 e Strab. 6, 1, 5, 256 (Hipponio). 67  Cypr. arg. 45-49 Bern. ; Hdt. 4, 103. Cf. Apollod. Ep. 3, 21. 68  Hes. fr. 23a, 21-26 M.-W. ; Hes. fr. 23b M.-W. = Paus. 1, 43, 1 ; Stesich. PMG 215. 69  Paus. 1, 43, 1 ; 7, 26, 5 ; 2, 35, 1. 70  Hes. fr. 23a, 21-26 M.-W.  



















71  Py Tn 316, 4.6. 72  Rimando per ciò alla analisi di Brelich, op. cit. 240 ss. ; Montepaone, op. cit. 53 ss. 73 Eur. IT 1450 ss. ; cf. Brelich, op. cit. 245 s. 74  Cic. Tusc. 2, 34 ; Hyg. Fab. 261 ; Nic. Dam. FGrHist 90 F 103 ; Plut. Inst. Lac. 239d ; Paus. 3, 16, 7 ss. Cf. Brelich, op. cit. 130 ss. 75  Strab. 6, 1, 6, 257 ; 8, 4, 9, 361-362 ; Paus. 4, 4, 2-3. 76  Eur. IT 1462 ss. 77  Paus. 1, 43, 1. 78  Eur. IT 982 (Micene) ; Hyg. Fab. 120 ; Paus. 1, 33, 1. 79  Eur. IT 1449 ss. ; 1452 ; Strab. 9, 1, 22, 399. 80  Paus. 1, 33, 1 ; 3, 16, 8. Cf. Eur. IT 1463. 81  Paus. 3, 16, 7-11.  

























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570/60 ne furono trasferite le ossa, 82 essendo stato l’eroe, a partire dal calcidese Stesicoro, 83 trasformato in marito di Hermione e quindi in re di Lacedemone. 84 Proprio il fatto che il calcidese Stesicoro, 85 così come il Catalogo delle donne, 86 considerasse Ifigenia ancora come dea, dimostra che la sua trasformazione in sacerdotessa mortale destinata a un’eroizzazione post mortem era allora, cioè nella prima metà del vi, ancora da venire. La tradizione occidentale su Ifigenia che prevede questa trasformazione non può perciò collocarsi prima della seconda metà di questo secolo, mentre la purificazione di Oreste distinta, autonomamente motivata nella sua localizzazione occidentale, connessa ad un’esigenza di moralizzazione della vicenda già testimoniata da Stesicoro, non può che essere precedente.  









vimini, che è come dire equivalente alla Phacelitis intesa come avvolta in una fascina stretta da vimini. 101 L’Artemis Taurica che convive nel reggino con Oreste ormai purificato è dunque la stessa che troviamo a Reggio e a Sparta, dove risulta associata a Oreste ormai sanato e divenuto re della città e poi sepolto in essa : un’operazione che si data intorno al 570/60 102 e che il calcidese Stesicoro è il primo, almeno per noi, a registrare. 103 Questa Artemis è connessa ai Messeni sia a Tindari che a Reggio stessa. Lo scolio a Teocrito, relativo a Tindari, pure esso letterariamente interessato a ricondurre alla Sicilia le origini della poesia bucolica, 104 la connetteva comunque ad una città, nel territorio di Messina, tra Mylai e Nauloco dove sorgeva l’Artemision, che era stata fondata dai Messeni nel 396, 105 ed era interessata ad un’Artemis Facelina portata sempre dal reggino da Oreste. Lo scopo era quello di nobilitare la città attribuendo ad essa la creazione del genere bucolico. Non sono noti peraltro poeti bucolici locali, sono invece conosciute le tradizioni pastorali, se si tiene conto della prossimità a Mylai e della localizzazione, proprio nella zona, della cittaduzza di Artemision e dei mitici armenti del Sole. 106 Il mito, però, può fornire non più che un aition al culto. La ragione del culto si trova evidentemente altrove. Entra in gioco la connessione con i Tindaridi eponimi della città : l’Artemis Taurica era stata, prima che dea, una Tindaride, perché figlia di Clitemnestra o, secondo altri, tra cui l’occidentale poeta Stesicoro, di Elena, 107 entrambe come è ben noto figlie di Tindaro. 108 Ma il problema del culto a Tindari non si esaurisce considerandolo esclusiva creazione dei coloni messeni di iv secolo. Esso proviene dall’area di Matauros, poi Metauros, e possiede connessioni messene che vanno al di là di Tindari. L’Artemis Taurica, connessa ad Ifigenia, è un’Artemis Einodia : 109 dunque un’Artemis lunare, 110 fwsfovro~ 111 e lucifera ; per via delle sue fasi visibili, triplice, trivmorfo~ 112 per l’aspetto che assume quando è in fase crescente o calante, cornuta, divkerw~, 113 e quindi taurovkerw~, 114 taurw`pi~, 115 taurwpov~, 116 tauropovlo~ 117 e infine tau`ro~ 118 essa stessa.  











4. L’Artemis laconica e messenica a Reggio La versione occidentale della storia di Ifigenia si presenta inoltre assai diversa da quella ateniese : si parla di uccisione del re Toante 87 e di trafugamento dello xoanon nascosto in una fascina, laddove nell’Ifigenia Taurica di Euripide il re viene solo ingannato e la statua portata via senza alcun nascondimento. L’Artemis pervenuta a Metauros è d’altra parte connessa, oltre che a Siracusa e Tindari, a quella presente a Reggio stessa ed è a sua volta di chiara matrice laconica. L’Artemis di Reggio nella interpretazione del reggino Teagene, editore ed esegeta di Omero (fine vi secolo), 88 è la lunare, il che, per via delle sue fasi, crescente e calante, vuol dire : divkerw~, taurovkerw~, taurw`pi~, 89 e perciò Tauropolos ; 90 fwsfovro~/lucifera 91 ossia Facelitis nell’accezione a face ; triforme nelle sue apparizioni 92 e quindi analoga all’Artemis Taurica, nella versione che ne danno il Catalogo esiodeo e Stesicoro : 93 ∆Iocevaira, ∆Enodiva, ÔEkavth. Ma non basta. L’Artemis reggina è figlia di quella messenico-laconica di Limne, 94 e, come la Limnatis di Sparta, 95 è extracittadina 96 e localizzata nel proasteion. 97 La Limnatis spartana è però identica all’Artemide Orthia 98 a sua volta identica all’Artemis Taurica portata da Oreste ; 99 connessa, tramite il rito della fustigazione a sangue dei giovani, al bisogno greco di mitigazione degli originari sacrifici umani propri dell’Artemide Scitica. Essa è inoltre Lygodesma, 100 cioè avvolta da  

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82  Hdt. 7, 159. Cf. Pind. Pyth. 11, 15 e 32 ; Nem. 11, 34 ; Paus. 2, 16, 7. 83  Stesich. PMG 216, e poi Simon. PMG 549. 84  Paus. 2, 18, 6. 85 Stesich. PMG 215. 86  Hes. fr. 23 M.-W. 87  Hyg. Fab. 121 ; 261 ; Serv. ad Verg. Aen. 2, 116 ; 6, 136. 88  8 D.-K. Cf. Hes. fr. 23 M.-W. e Stesich. PMG 215. 89  Hymn. Hom. 19, 2 ; AP 5, 122, 1 ; Hor. Carm. saec. 35 s. (bicornis) ; Orph. Hymn. 55, 2 ; Nonn. Dion. 9, 68 ; 11, 185. 90  Sud. s.v. Tauropovla. 91  Bacchyl. fr. 1B, 1 Sn. ; Paus. 9, 19, 6 ; Serv. ad Verg. Aen. 2, 116. 92  Plut. Defect. orac. 416e. 93  Hes. fr. 23 M.-W. ; Stesich. PMG 215. 94  Strab. 8, 5, 1, 362 ; Paus. 1, 33, 1 ; 3, 16, 7. 95  Strab. 6, 1, 6, 257 ; 8, 4, 9, 361-362 ; Tac. Ann. 4, 43 ; Paus. 4, 4, 2 ; 31, 3 ; Justin. 3, 4, 1. Cf. IG v 1, 1431. 96  Thuc. 6, 44, 2-3. 97  Strab. 8, 5, 1, 363. Cf. la collocazione probabile a Reggio fuori della cinta delle mura lungo la via Marina : Vallet, op. cit. 130 s. ; R. Spadea, in Atti del xxvi Convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1986, 462-464 ; D. Asheri, in Mélanges Lévêque i, Paris 1988, 9 s. 98  Strab. 8, 4, 9, 361-362 ; Paus. 3, 16, 7-11. 99  Paus. 3, 16, 7-9 ; Serv. ad Verg. Aen. 2, 116. 100  Paus. 3, 16, 11. 101  Arist. Met. 1042b 17 ; Plut. Fab. Max. 6, 6 ; schol. Opp. Hal. 4, 419. 102  Stesich. PMG 216 ; Simon. PMG 549 ; Pind. Pyth. 1, 65 ; 11, 15 e 32 ; Nem. 11, 34 ; Isthm. 7, 94 ; fr. 96 Maehl. ; Hdt. 7, 159 ; Paus. 2, 18, 6 ; 3, 16, 7. Cf. C. Calame, Spartan Genealogies. The Mythological Representation of Greek Mythology, in J. Bremmer (ed.), Interpretations of Greek Mythology, London 1987, 177. Il Luraghi si è sbarazzato dell’Artemide Phacelitis a Reggio ritenendola non attestata da Probo ma semplice deduzione di Pomponio Leto (Luraghi, Il mito di Oreste, cit. 336 s.), ma le cose, come si vede, sono un po’ più  







































































complesse di come egli crede, se l’Artemis reggina è connessa ai Messeni filolaconici di Reggio e si colloca nell’ottica laconica della Limnatis/Orthia in rapporto con la Taurica e la Phacelitis. 103  Stesich. PMG 216. 104  Schol. Theocr. Prol. 2, 13-20 Wendel ; Lucil. Sat. 3, frr. 104-106 Krenkel ; Sil. It. 14, 260 ; App. 5, 116 ; Vib. Seq. De flum. 9. 105  Diod. Sic. 14, 78, 4-6. 106 App. Civ. 116 ; schol. Ap. Rh. 4, 965. 107  Stesich. PMG 191 = Paus. 2, 22, 6 ; Euphor. fr. 90 Pow. ; Aless. Aetol. fr. 2 Mein. 108  M. Zunino, Hierà Messeniaka, Udine 1997, 192-194 ; Luraghi, art. cit. 338 s. 109  Hes. fr. 23a, 26 M.-W. ; ossia Hekate : fr. 23b M.-W. ; Soph. fr. 535 Radt ; ossia trioditis : Soph. fr. 535 Radt ; Eur. Jon 1048 ; Hymn. Orph. 1, 1. 110  Jo. Lyd. De mens. 3, 10 ; Eus. Praep. ev. 3, 11, 2. 111  Eur. IT 21 ; Paus. 4, 31, 10. 112  Schol. Hes. Theog. 287 ; Lyc. 1176 e schol. ad loc. ; L. Ann. Cornut. De nat. deor. 7, 2 ; Jo. Lyd. De mens. 3, 10 e 13. 113  Schol. Hes. Op. 763 ; Orac. Sib. 5, 517 ; Philod. AP 5, 123, 1 ; Horap. gramm. Hier. 1, 10, 26. 114  Hymn. Orph. 9, 2. 115  Maxim. Astr. 4, 50 ; Eus. Praep. ev. 4, 23, 7 ; Synes. Hymn. 3, 22 ; Nonn. Dion. 9, 68 ; 11, 185. 116  Schol. Soph. Aj. 172 a-b ; Sud. s.v. Tauropovlo~. 117  Eur. IT 1449-1467 ; Dion. Skyt. FGrHist 32 F 14 ; Nic. ap. Ant. Lib. 27 ; Diod. Sic. 2, 46, 2 ; 4, 44, 7 ; Strab. 5, 4, 12, 239 ; Clem. Alex. Protr. 3, 42, 6 ; schol. Ar. Lys. 447 ; Eus. Praep. ev. 4, 16, 2 ; Eustath. ad Il. 259, 5 ; Hesych. e Sud. s.v. Tauropovla ; Sud. e Et. M. s.v. Tauropovlon. 118  Hesych. s.v. Tau`ro~ ; Et. M. s.v. Tauropovlon.  















































































tra grecia e occidente: l ’ oresteia di stesicoro 121 Per questo verso una Artemide Taurica era per i Greci Strabone dimostra, è collegata all’avvento della tirannide di casa sul versante tirrenico della Calabria tra Turi e lo di Anassila e alle scelte filolaconiche e filoartemidee dei Stretto e se a Tauros e a Tauroi corrispondeva un etniMesseni di Reggio, e quindi datata tra la fine vi e gli inizi co Taurianos, 119 a sud di Turi c’era una Tauriane chora ; v secolo, è giocoforza riconoscere da un lato che, come tra Temesa e Hipponion un Taurianos skopelos ; subito a il riscatto di Oreste nelle acque del Metauros è apparso sud c’era Matauros/Metauros, 120 che dava origine a un l’omologo del riscatto nelle acque dell’Apsias dei coloni etnico Mataurinos, a una comunità di Tauriani e a un opcalcidesi, i quali portavano con sé lontano da Calcide la pidum Taurianum, Turinum o Tauroentum. 121 La silva Taucarestia che affliggeva la città, così dall’altro il riscatto di reana era l’Aspromonte. 122 Nell’area a sud dell’istmo tra Artemide passata tra i Tauri perché macchiata dalla preteil golfo Lametino e Scilletico era nata, secondo Antioco, sa di un sacrificio umano e quello stesso di Ifigenia, portata la prima Italia, 123 così chiamata da un re Italos che ne tra i Tauri da Artemide per salvarla dalla morte e quindi aveva trasformato gli abitanti da pastori nomadi in agriper intervento di Apollo recuperata da Oreste, si rivelacoltori, 124 ma, secondo Ellanico e Timeo, il nome anno l’omologo dei Messeni. Essi si erano sentiti macchiati dava ricondotto a una originaria Vitalia terra di italoi/ dal sacrilegio commesso dai loro connazionali ai danni di vitelli : 125 e perciò di buoi. Reggio era ÔRhvgion, da rJhvgnuArtemide ; erano come tali stati espulsi e quindi ridotti a mi, la città del distacco, che aveva preso nome da un touna sorta di pharmakoi ; come tali si erano presentati come ro che ivi ajporrhvgnusi, si stacca dal resto della mandria supplici ad Apollo, il quale li aveva aggregati ai Calcidesi di Herakles. 126 Sull’altro versante dello Stretto un colle e questi, come Oreste aveva fatto con lo xoanon taurico, li Tauros esisteva a Nasso e lì si sviluppò in seguito Tauroavevano riscattati, nel loro viaggio purificatore portandoli menio. 127 A Mylai c’erano le tracce delle vacche del Socon loro in Occidente. le. 128 Ad un orecchio greco, che tauros chiamava il bove Nessuna meraviglia per tutto ciò : la Reggio del tardo e non il monte o l’altura, 129 tutto ciò implicava la consivi secolo è la città dove Teagene (età di Cambise : 529derazione di tutta quest’area, dove l’allevamento bovino 522), 139 al rifiuto senofaneo delle teomachie, considerate e transumante da monte a pianura peraltro esisteva, conel loro senso letterale, 140 contrapponeva, riallacciandosi me una Tauriane chora allargata e coerentemente, quinalla concezione pitagorica dell’universo come un’insieme di, un’Artemis Taurica poteva insediarsi a Reggio, come di opposizioni, 141 una lettura allegorica del racconto mia Tindari e nella stessa Siracusa, e in esse poteva perfino tico. 142 Il terminus ante quem costituito dal 480 trova così dare origine alla poesia bucolica. piena conferma e può essere ulteriormente precisato verMa non è tutto. A Tindari la dea era eujpraxiva, datrice so l’alto attraverso il richiamo a Teagene e ad Anassila e, di successo : 130 il territorio di Tindari era in origine apparancor più, attraverso l’analisi della tradizione aricina, le tenuto a Messina, 131 prima sede dei coloni di Tindari e cocui implicazioni ai fini della valutazione dei rituali regsì denominata perché divenuta popolata da Messeni 132 ad gini, finora trascurate, si rivelano invece di primaria imopera di Anassila agli inizi del v secolo. 133 Per questa via il portanza. culto appare riproposizione locale del legame che i Messeni vantavano con il culto di Artemide a Reggio, la loro datrice 5. Artemide Taurica e Oreste: di salvezza, 134 e con la tirannide messenia, 135 iniziata con tra Sparta e Aricia Anassila ai principi del v secolo e continuata prima con il Sulla presenza dello xoanon di Artemide Taurica ad Arisuo immediato successore Micito e poi con gli Anassilaidi, cia portatovi da Oreste informano fonti romane relative al rimasti al potere fino al 461/60. 136 La tradizione anassilaide tempio di Diana Aricina e al bosco a lei sacro, ma anche riferita da Strabone presenta il culto collegato alla salvezza importanti e decisivi reperti archeologici. 143 La consacraottenuta dai coloni messeni e alle origini stesse della cozione del tempio è avvenuta all’epoca delle lotte contro lonia e alla pretesa di un primato messenico a Reggio che Arrunte, figlio di Porsenna, dei Latini e di Aricia in partiAnassila in sé riassume. 137 Il culto dell’Artemide Limnatis colare, culminate nell’omonima battaglia. 144 I Latini eradi Reggio appare, dunque, a pieno come taurico e messeno sostenuti da Tarquinio il Superbo ormai scacciato da nico e con un posto di rilievo sul finire del vi all’epoca dei Roma, da suo genero Ottavio Mamilio, e sopra tutto da tiranni reggini. 138 Cuma e da Aristodemo, subito dopo la vittoria di Aricia nel La conclusione è allora evidente. Se la valorizzazione 504 divenuto tiranno di Cuma e più tardi ospite ed erede del culto della Limnatis reggina, come la testimonianza di  































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119  Steph. Byz. s.vv. Tau`ro~, “Agkura. 120  Matauros è la forma più antica perché connessa alla tradizione su Stesicoro (Sud. s.v. Sthsivcoro~ ; Steph. Byz. s.v. Mavtauro~), mentre il resto della tradizione ha Metauros. Cf. inoltre Strab. 6, 2, 9 275 (da Poseidonio). 121  Cat. Orig. iii F 4 Chassignet ; Liv. 25, 1, 2 ; Mela, 2, 4 ; Tab. Peut. 7, 2 ; Plin. NH 3, 73. 122  Alfius Fest. p. 158. 123  Antioch. FGrHist 555 FF 3, 5. 124 Arist. Pol. 1329b 14. 125  Hell. FGrHist 4 F 111 ; Tim. FGrHist 566 F 42, che Varrone a sua volta riprendeva : LL 5, 96 ; RR 2, 1, 9 ; 2, 5, 3. 126  Apollod. 2, 5, 10. 127  Diod. Sic. 14, 59, 2-3 ; 16, 7, 1. 128  Schol. Ap. Rh. 4, 965 ; App. BC 5, 116. 129  Walde-Hoffmann, LEW, Heidelberg 1965, 651 s. 130  IG xiv 375. 131  B. Pace, Artemis Phacelitis, « Arch. stor. Sicilia or. » 16-17, 1919-20, 11-13 ; G. Camassa, in Atti del xxvi Convegno di studi sulla Magna Grecia, cit. 144. 132  Strab. 6, 2, 2, 268 ; Paus. 4, 23, 5. 133  Thuc. 6, 4, 6. 134  Strab. 6, 1, 6, 257 : i Messeni dovevano essere grati alla dea perché li aveva salvati.  































135  Heracl. Lemb. Pol. 55 ; Strab. 6, 1, 6, 257. 136  Vd. per tutti : Luraghi, Tirannidi, cit. 187 ss. 137  Strab. 6, 1, 6, 257. Per l’orientamento della fonte : S. Mazzarino, Il pensiero storico classico i, Bari-Roma 1965, 216. 138  Il fatto che sia solo Pomponio Leto, come ha ricordato Luraghi, Tirannidi, cit. 187 ss. a parlare di una Artemis Fakelitis a Reggio, nulla toglie a questa realtà, che emerge dai fatti e che fonti interessate a nobilitare le origini siceliote della poesia bucolica collegandole allo xoanon taurico non avevano alcun interesse a evidenziare. 139  8, 1 D.-K. 140  21 B 1 D.-K. 141  Cf. 8, 2 D.-K. con Alcmaeon 24 A 2 e B 4 D.-K . 142  8, 2 D.-K. 143  Per la documentazione completa rimando a : F. Massa Pairault, Diana Nemorensis, déesse latine, déesse hellenisée, « Mél. Ec. Fr. Rome » 81, 1969, 425 ss. ; A. Mele, Aristodemo e il Lazio in Etruria e Lazio arcaico, Roma 1987, 172 ss. ; C. Montepaone, L’alsos/lucus, forma idealtipica artemidea : il caso di Ippolito, in Les bois sacrés, Napoli 1993, 69 ss. ; C. Ampolo, Boschi sacri e culti federali nel Lazio, ibid. 159 ss. 144 Mele, Cuma, cit. 153 ss.  





















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dei beni di Tarquinio. 145 Siamo alla fine del vi, quindi in un momento di forte integrazione tra Latini e Calcidesi di Campania. Tarquinio pretende di discendere dai Bacchiadi, gli Eraclidi di Corinto ; 146 Aristodemo, il loro alleato, fin dal 524 si presenta come un Eracle redivivo ; 147 la Theogonia aveva collocato al Circeo la Maga e dall’incontro con Odisseo aveva fatto nascere Silvio e Latino ; 148 Tarquinio il Superbo aveva fondato Circei ; 149 Ottavio Mamilio suo genero pretendeva, come Tuscolo, la sua patria, in virtù della sua discendenza da Odisseo, attraverso Telegono, figlio di Odisseo e Circe ; 150 l’Averno cumano era il luogo dove Odisseo, partendo dall’isola di Circe, aveva trovato l’Ade e incontrato i morti. 151 In questo contesto la locale Diana viene identificata con la Artemide cumana, l’Artemide Trivia, la trimorphos, la Cacciatrice, Hekate e Selene lucifera, l’esatto equivalente dell’Artemide cumana che conosciamo all’Averno 152 e nello stesso tempo, grazie al rito sanguinoso del rex nemorensis, l’Artemide Ifigenia, scaturita dalla richiesta del sacrificio umano, che conosciamo attraverso il Catalogo delle donne e Stesicoro : l’Artemide Enodia, quale propolos della Cacciatrice ed Hekate. 153 Che l’operazione sia stata compiuta in età arcaica è comprovato dal famoso dokanon bronzeo con le tre teste risalente alla fine del vi secolo e illustrato dai più tardi denarii di L. Accoleius che questa stessa immagine riproducono. 154 Ma non è tutto. La tradizione romana attribuisce esplicitamente ai Latini l’accoglimento dello xoanon taurico e la ricezione delle ossa di Oreste ad Aricia. I Romani, per la crudelitas del suo rito, 155 rifiutano lo xoanon restituendolo a Sparta, e il rito dei Bomonici frustati a sangue accanto al suo altare, mentre, in virtù dell’egemonia che esse rappresentano 156 e che i Latini hanno evidentemente perduto, fanno proprie le reliquie dell’eroe trasferendole a Roma dinanzi al tempio di Saturno. Ancora una volta l’antichità della tradizione è confermata sia dalla collocazione della sepoltura dell’eroe a Roma 157 sia, sopra tutto, dal rilievo marmoreo aricino con la rappresentazione dell’Egistofonia, con Clitemnestra ed Elektra (databile, ancora una volta, alla fine del vi sec.). 158 In questo periodo, dunque, è passata dalla calcidese Cuma ai Latini la tradizione della sottrazione dello xoanon dell’Artemide Taurica ad opera di Oreste in cerca della liberazione definitiva dalla follia conseguente al matricidio. Una versione della purificazione che a partire dalla tradizione stesicorea, la quale trasferiva Oreste a Sparta dopo il matrimonio con Hermione 159 e l’avvenuta purificazione, includeva anche l’avventura artemidea, non limitandosi, come Stesicoro, a considerare Ifigenia una delle forme dell’Artemide trimorfa, ma, identificando la dea con l’Orthia-Lygodesma, la associava al luogo in cui ormai, come a Sparta, giacevano anche le ossa di Oreste.

La conclusione sopra raggiunta a proposito dell’epoca in cui questa tradizione taurica si è sviluppata ne risulta così confermata e precisata. La giustapposizione dei due percorsi purificatori, apollineo e artemideo, ha un terminus ante quem nella cronologia della documentazione aricina e un terminus post quem nel trasferimento delle ossa di Oreste a Sparta avvenuto intorno al 570/60. La tradizione stesicorea dell’Oreste spartano non prevedeva però il recupero di Ifigenia, che restava l’Einodia inglobata nel culto stesso di Artemide Hekate. 160 Il culto reggino di Oreste presupponeva una purificazione apollinea che si era per il dio rivelata perfettamente autosufficiente ed era, quanto alla sua localizzazione, connessa al riconoscimento dell’omologia tra la conca di Tempe e quella di Gioia Tauro e tra i sette bracci del Peneio da un lato e del Metauros dall’altro. Dunque la sua tradizione e sotto il profilo cronologico e sotto quello topografico era indipendente da quella su Ifigenia/Artemide. D’altro canto la vicenda di Oreste reggino è, come si è visto, trasposizione mitica di quella dei Calcidesi decimati e allontanati da Calcide a causa della carestia. A questa tradizione Anassila aveva agganciato quella artemidea dei Messeni, ma essa dimostra la sua autonomia. Il ruolo di Apollo viene conservato, ma non viene valorizzato fin dall’inizio, né connesso ai Messeni nella tradizione aristotelica riassunta da Eraclide Lembo, che in quanto posttirannica tiene piuttosto a inquadrare attraverso Jokastos la colonia nel contesto delle eredità eolidi, ma la consacrazione dei Calcidesi ad Apollo torna in pieno nella leggenda di Eunomo e nel calcidese Timeo 161 che la riprende e ancora in età dionigiana, se Dionisio II rifonda la città come Phoibia. 162 Sotto ogni aspetto, quindi, la tradizione calcidese/apollinea e quella di Oreste che la riflette sono indipendenti e anteriori rispetto a quella messeno/artemidea e se quest’ultima risale indubbiamente alla prima metà del vi, non così l’altra che invece apparterrà alla seconda metà del secolo e in particolare ai suoi ultimi anni.

145  Mele, Aristodemo, cit. 176 s. 146  Le numerose fonti e il loro valore sono discussi da D. Briquel, La référence a Héraklès de part et d’autre de la révolution de 509, in Le mythe grec dans l’Italie antique, Rome 1999, 102 ss. 147  Mele, Cuma, cit. 114 ss. ; 148 ss. ; 524. 148  Hes. Theog. 1011-1016. 149  Liv. 1, 56 ; Dion. Hal. 4, 63. 150  Liv. 1, 49, 3 ; Dion. Hal. 4, 45, 1 ; Fest. 116 ; 117 L. Cf. Hor. Ep. 1, 29 s. ; Carm. 3, 29, 6-8 ; Prop. 2, 32, 4 ; Ov. Fast. 3, 91. 151  Ephor. FGrHist 70 F 134. Cf. Mele, Aristodemo, cit. 173 s. ; Cuma, cit. 113 ss. 152  Obrimò/Brimò ; Lyc. 698 ; Hekate trivia. Verg. Aen. 6, 11 e 13 ; 35 ; 69. Cf. Mele, Aristodemo, cit. 173 s. 153  Hes. fr. 23 M.-W. ; Stesich. PMG 215.

154  P. J. Riis, The Cult Image of Diana Nemorensis, « Acta Archaeol. » 38, 1966, 67 ss. (Ny Carlsberg Gkyptotek). 155  Cf. Serv. ad Verg. Aen. 2, 116 con Strab. 5, 3, 12, 293 s. 156  Cf. Hdt. 7, 139. 157  Massa Pairault, op. cit. 425 ss. 158  Riis, art. cit. 159  Non sarà un caso che l’Oresteia, in cui la reggia di Agamennone veniva trasferita a Sparta (PMG 216), si apriva con l’invito alla Musa a cantare, col ritorno delle rondini e della primavera, le nozze degli dèi, i conviti degli uomini e le feste dei beati (PMG 210-212), la serena realtà che Senofane contrapporrà al canto delle lotte tra gli dei e alle lotte civili (21 B 1 D.-K.) e Aristofane, che riprende questi luoghi di Stesicoro, nel celebrare il clima della da lui ottenuta pace (Pax 775, 797 ss.). 160  PMG 215. 161  FGrHist 566 F 43. 162  Strab. 6, 1, 7.





























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6. Tra Tempe e Matauros: la purificazione di Oreste e la sua cronologia L’Oresteia italica risulta, dunque, funzionale a interessi calcidesi e reggini. A questo punto i problemi sono due : in primo luogo la cronologia e l’origine prima di questa purificazione tessalica e, subito dopo, il rapporto di Stesicoro con questa tradizione reggina e il senso della polemica che di nuovo egli ha instaurato con l’Oresteia di Xantho. La purificazione reggina di Oreste presenta un unico tratto originale : la defunzionalizzazione della spada omicida, ma per il resto essa non è altro che replica del rito di Tempe e come tale non è difficile precisarne gli inizi. In 







tra grecia e occidente: l ’ oresteia di stesicoro 123 nanzi tutto l’idea stessa della necessità di una purificazione L’idea della purificazione tessalica egualmente appare in non è originaria né per Apollo né per Oreste. Per Apollo esrapporto alla prima guerra sacra. La purificazione è opera sa si impone quando prevale il concetto che il suo culto si è dei Tessali di Tempe ; 172 coinvolge i Tessali tutti nella defiaffermato ai danni di un precedente culto di Gaia/Themis nizione e tutela dalla via sacra, la Pythiàs, lungo cui Apollo il cui custode e interprete era la drakaina, la serpentessa, prima e poi il pais daphnephoros tornano a Delfi portando uccisa da Apollo al momento della sua presa di possesso su il ramo del sacro lauro ; 173 è connessa al rinnovamento dei Delfi. Ora l’uccisione della drakaina è presente nell’inno ad giochi, i Pythia, attuato a partire dal 582 dal tessalo EuriloApollo che allude alle conseguenze per il clero delfico dopo co, il vincitore di Crisa, che prevede un nomo, citaristico la conclusione della prima guerra sacra, 163 ma della natura ed auletico, celebrativo della lotta di Apollo con la drakaidivina della serpentessa non fa esplicita menzione né di puna, 174 e giochi stefaniti, dove ai vincitori si dà una corona rificazione apollinea parla. 164 intrecciata col lauro portato dai daphnephoroi da Tempe. 175 L’idea della purificazione, avvenuta a Creta, appare nella La vittoria su Crisa e sulla vecchia gestione del tempio tradizione relativa a Sicione riferita da Pausania. Nella città diventa così l’omologo della vittoria di Apollo sui suoi preallora Aigialeia, si rifugiarono in cerca di purificazione dodecessori e della sua purificazione ad opera dei Tessali. L’inpo l’uccisione del serpente Apollo ed Artemide ma, caduti no ad Apollo delfico, invece (che presenta un Apollo che in preda alla paura in una località detta appunto Phobos, attraversa la Tessaglia ma solo fino a Iolco ; passa quindi in abbandonarono irati la città, che venne colpita da pestilenEubea, disdegnando Lelanto, che era stata oggetto di una za, mentre le due divinità passarono a Creta dove le puriguerra in cui i Tessali di Farsalo erano intervenuti ; 176 passa ficò Karmanor, padre di Chrysothemis, colui che vinse i in Beozia, non vi trova ancora Tebe, rende omaggio al culprimi Pythia istituiti da Apollo stesso, eseguendo il nomo to di Poseidon di Onchesto, a Ocalea ed Aliarto ; sottolinea citarodico. 165 La vicenda si chiude con gli abitanti di Siciol’anteriorità del culto delfico su quello di Apollo Telphoune che, invitati dagli indovini a propiziarsi Apollo e Artemisios ed esprime la sua condanna per i Flegii di Orcomede, inviano sette ragazzi e altrettante ragazze a supplicarli no ; fonda poi il tempio a Crisa, con l’aiuto di Trofonio ed e il luogo dove persuasi si fermarono prese nome di PeiAgamede, figli di Ergino, e solo dopo affronta la drakaina thò. Donde il rito annuale con cui ragazzi portano gli dèi al che appostata presso una vicina anonima fonte danneggiasantuario di Peithò per poi riportarli nel tempio di Apollo va uomini e cose nell’area in cui crea il santuario ; 177 sa del nell’agorà, edificato da Preto perché lì le figlie erano state cambio di gestione del tempio sopravvenuto dopo la sconpurificate della loro follia. 166 fitta di Crisa, 178 ma nulla dice dei giochi), evidentemente La storia è particolarmente interessante. Essa dà una riflette ambienti almeno in parte ancora legati a un passato versione, avvalorata dalla connessione con importanti pretessalico. È dunque negli anni a partire dalla vittoria sui culti e riti cittadini, del rapporto di Apollo e Artemide : la Crisei, mentre il passato tenta ancora di far sentire la sua città era stata di Clistene, il tiranno che, dopo aver preso voce, non senza contrasti, che la nuova visione si afferma. parte alla prima guerra sacra e ai primi giochi Pitici, 167 Non va diversamente per Oreste. Nell’Odissea, 179 nei Noaveva sul modello di questi fondato i locali Pythia ; 168 ma stoi, 180 nel Catalogo delle donne 181 egli è il di`o~ Oreste, figlio l’episodio si era svolto quando essa non era ancora divedi Agamennone e modello per Telemaco : diventato adulto nuta la città dell’ateniese Sikyon 169 (il quale è metafora si ricopre di gloria 182 e si mostra degno dell’eredità paterna del rapporto tra Clistene e la stessa Atene), 170 ma era anvendicandone la morte. La comunità nulla ha da eccepire : cora Aigialeia, ossia la città da Aigialeus, figlio di Adrasto, essa è stata oppressa da Egisto e, ora liberata, partecipa all’eroe avversato da Clistene, ma difeso dalla Delfi crisea la sepoltura dell’usurpatore e della sposa fedifraga di Agaavversa allo stesso Clistene e da lui perciò combattuta. 171 mennone, cerimonia cui lo stesso Menelao allora tornato La città adrastea, dunque, non aveva offerto un’accoglienassiste. 183 Se dunque la Telemachia e i Nostoi di Agias di za benevola al dio, ma lo aveva al contrario atterrito, paTrezene rappresentano un orizzonte di vii sec., 184 mentendone poi le conseguenze. La vicenda quindi rispecchia tre il Catalogo, particolarmente sotto quest’aspetto, rispecle polemiche ortagoridi sul reale stato dei rapporti tra Sichia un orizzonte pisistrateo, 185 l’idea della purificazione cione e Delfi negli anni a cavallo della prima guerra sadell’eroe sembra fino a questo momento non essersi ancocra. ra imposta.  























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163  Hymn. Ap. 542-543. Cf. W. G. Forrest, The First Sacred War, « Bull. corr. hell. » 80, 1956, 33 ss., e più specificamente : F. Cassola, Inni Omerici, Milano 1975, 101 ; G. Zanetto, Inni Omerici, Milano 1966, ad loc. 164  Hymn. Ap. 300-374. 165  Hypoth. Pind. Pyth. c ; Paus. 10, 6, 7 ; Eus. Praep. ev. 5, 31, 2. 166  Paus. 2, 7, 7-8. 167  Schol. Pind. Nem. 9, 2 ; 5 ; 7 ; 20 ; 25 ; Paus. 2, 9, 6 ; 10, 37, 6 ; Frontin. Strat. 3, 7, 6 ; Polyaen. 3, 5. Per la vittoria col carro : Paus. 10, 7, 6. 168  Pind. Nem 9, 9 e 20 ; 10, 43 ; Isthm. 4, 25-26 e scholl. Pind. Ol. 13, 155 ; Nem. 9, 2 e 25b. Pindaro, che riflette la Sicione post-tirannica di v sec., attribuisce la creazione dei giochi allo stesso Adrasto ; lo scolio alla Nemea 9, 25b sana la contraddizione attribuendo ad Adrasto la creazione dei Pythia e a Clistene la loro riforma. Erodoto 5, 67, 2-4 attesta il favore di Delfi per Adrasto, di Pythia adrasteia non fa parola, ma solamente cita sacrifici, feste e i cori tragici, che Clistene gli sottrae. 169  Hes. fr. 224 M.-W. ; Eumel. fr. 4 Bern. ; Asius, fr. 11 Bern. ; Paus. 2, 6, 5. 170  M. L.West, The Hesiodic Catalogue of Women, Oxford 1985, 164. 171  Hdt. 5, 67-68. Cf. Dio Chrys. 3, 4, 1 ; Sud. e Hesych. s.v. leusthvr. 172  Ael. VH 3, 1 = Theop. FGrHist 115 F 80. 173  Hypoth. Pind. Pyth. c ; Call. frr. 89 e 194 Pf. ; Plut. Def. orac. 418a-b ;  



















































Q.G. 293b ; Ael. VH 2, 1. Essa era rito di Dori (Callimaco) che, contrapponendosi alla via degli Iperborei, coinvolgeva tutti gli Elleni al di là di Tempe, attraversando da Tempe alla Locride Hesperia esclusivamente paesi dorici e tessali. 174  Hypoth. Pind. Pyth. a ; Strab. 9, 3, 10, 421 ; Paus. 2, 22, 8 ; Poll. 4, 84 ; Phot. Bibl. 239 Bekker. Cf. Brelich, op. cit. 406 s. ; B. Gentili et al. (edd.), Pindaro. Le Pitiche, Milano 20064, xxv-xxvi. 175  Hypoth. Pind. Pyth. a ; Paus. 10, 7, 5-7 ; 7, 4 ; Ael. VH 3, 1. 176  Plut. Erot. 17 = Arist. fr. 98 R. = 44 Gigon. 177  Hymn. Ap. 216-387. 178  Hymn. Ap. 542-543. 179  Hom. Od. 1, 298 ; 3, 311-312. 180  Arg. p. 95, 17-19 Bern., entro la prospettiva dell’∆Atreidw`n kavqodo~ propria dell’Odissea (Sud. s.v. novsto~ ). 181  Fr. 23a M.-W. 182 Hom. Od. 1, 298. 183  Hom. Od. 3, 309 ss. ; Apollod. Ep. 6, 29. 184  Procl. Chrest. 306 Sev. = Od. cycl. T 3 Bern. = Teleg. arg. p. 101, 1 Bern. Cf. A. Debiasi, L’epica perduta, Roma 2004, 229 ss. 185  Hereas, FGrHist 846 F 1 = Plut. Thes. 20, 2. Questa datazione per F 23a è confermata in particolare dalle sue strette connessioni con Stesicoro : vedi la discussione del motivo dell’ei[dwlon evocato a proposito di Ifigenia nello stesso passo e rileggi West, The Hesiodic Catalogue, cit. 134 s.  























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Il motivo della purificazione di Oreste modellata su quella apollinea di Tempe ha in Grecia solo un riflesso a Trezene. La purificazione viene attuata da nove purificatori dorici (9 è un dorico 3×3), che si erano seduti su una pietra posta dinanzi al tempio di Artemide Lykaia, fondato da Ippolito, il figlio di Teseo, che Asclepio aveva, come ricorda il vicino Asklepieion, una volta morto, resuscitato. 186 Oreste era stato, in quanto impuro, 187 ospitato in una tenda presso il tempio di Apollo Thearios, sede cioè dei theoroi dorici incaricati dei rapporti con Delfi. La purificazione era avvenuta nelle acque della fonte Hippokrene, fatta sgorgare da Pegaso all’epoca del suo passaggio. Dove gli strumenti e i resti della purificazione erano stati sepolti era spuntato un lauro, 188 quello, è implicito, da cui staccavano un ramo i theoroi trezenii in partenza per Delfi. 189 Si tratta evidentemente di una purificazione anch’essa modellata su quella di Tempe, ma in una traduzione trezenia.Vi sono purificatori alla dorica (3×3), come a Tempe : 190 vi è il lauro presso il tempio di Apollo Thearios, replica dell’altare presso il lauro a Tempe, 191 un’allusione ad una daphnephoria trezenia replica dell’arrivo a Delfi di Apollo col ramo di lauro e del parallelo arrivo dei dapnephoroi delfici, che Callimaco qualifica come Dori. 192 Si tratta manifestamente di una costruzione ad maiorem gloriam di Trezene, trasformata, come nelle abitudini locali, 193 in un punto di confluenza di quanti più miti possibili, poco rispettosa del modello. Ad un’eschatia di confine che offre un ambiente naturale di grande bellezza, ricco di acque, sede privilegiata per sacrifici e rituali, 194 sostituisce una città con la sua agora e i suoi antichi santuari, quello di Artemide Lykaia, istituito da Ippolito, figlio di Teseo, quello di Apollo Thearios eretto da Pitteo, il fondatore della città ; la fonte Hippokrene fatta scaturire da Pegaso, quando nella città era venuto Bellerofonte ; nelle operazioni di purificazione interviene Artemide, assente a Tempe, ma attiva nella versione arcadica della purificazione come Artemide Hiereia ; 195 il lauro non preesisteva, ma è appositamente fiorito a purificazione avvenuta. A datare l’operazione servono il rifiuto totale della tradizione attica di v secolo così come confluita nei tragici (purificazione a Delfi col sangue di un maialino ; 196 giudizio dell’Areopago ; recupero dello xoanon taurico), nella quale tuttavia, in particolare nelle Eumenidi di Eschilo (458 a.C.), si dà conto, senza per altro valorizzarle, di già avvenute purificazioni in acque correnti ; 197 la connessione comunque esistente con la purificazione apollinea di Tempe, funzionale al ruolo dei Tessali a partire dal 582, rimanda anche per Trezene ad un orizzonte non più antico del vi sec., lo stesso cui si riferisce il contesto relativo ad Ippolito con cui la purificazione di Oreste interferisce. 198 Rispetto a queste tradizioni il rito di Metauros, allo stato delle nostre conoscenze, rappresenta una specificità, la defunzionalizzazione della spada omicida, non testimoniata altrove, ma non inattesa perché presente nella purificazione di Ifigenia a Comana pontica 199 e nella purificazione di Giasone da parte di Circe. 200 Per il resto i riti compiuti a

Metauros appaiono direttamente ricalcati su quelli apollinei e dafneforici di Tempe in un ambiente, quello del Petrace e dei suoi affluenti nella piana di Gioia Tauro, a sua volta esattamente equivalente. Tutto ciò rimanda a un perfetto conoscitore e della realtà idrografica e rituale di Tempe valorizzata a partire dal 582 e della realtà idrografica e rituale di Metauros e ad un’epoca e a un contesto euboico-calcidese che risente immediatamente di tradizioni delfiche e tessaliche. Così non più i tragici ateniesi che, vedi l’accenno nelle Eumenidi eschilee, mostrano di conoscere ma senza accettarla questa tradizione. A questo punto il problema del rapporto con l’Oresteia di Stesicoro si impone.

186  Paus. 2, 32, 4. 187  Cf. Aesch. Eum. 281. 188  Paus. 2, 31, 4-6 ; 9, per cui vd. il commento di D. Musti e M. Torelli, Pausania, Guida della Grecia ii. La Corinzia e l’Argolide, Milano 1986, ad loc. 189  Paus. 2, 31, 4 ; 32, 1-4 ; 10. 190 Ael. VH 3, 1. 191  Ael. VH, 3, 1. 192  Fr. 194 Pf. 193  Paus. 2, 30, 5. 194 Ael. VH 3, 1. 195  Pherec. FGrHist 3 F 135 ; Paus. 8, 44, 2. 196  Aesch. Eum. 282-283. Cf. Ap. Rh. 4, 693-717. 197  Aesch. Eum. 452. 198 Musti-Torelli, op. cit. 318 s.

199  Cass. Dio 36, 11, 2. 200  Ap. Rh. 4, 696 s. 201  De sen. 23. 202  Macrob. 26, 3. 203  M. L. West, Stesichorus, « Class. Quart. » 21, 1971, 302-306. 204  Typhoeus figlio di Hera : Hymn. Ap. 305-355, spec. 367 = Stesich. PMG 239. 205  Steph. Byz. s.v. Mavtauro~. 206  Cic. De nat. deor. 3, 11, 13 ; Diod. Sic. 8, 32 ; Justin. 20, 2, 12-14 ; 3, 8 ; ecc. 207  Hdt. 1, 65-70. 208  Steph. Byz. s.vv. Sthsivcoro~, Mavtauro~.













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7. L’ Oresteia di Stesicoro e il culto reggino Stesicoro ha assistito da contemporaneo e alla guerra sacra e alla riorganizzazione del rituale delfico attuato dai Tessali. La cronologia di Stesicoro, calcidese legato a Himera e a Metauros, è da collocare, infatti, nella prima metà del vi sec. Cicerone 201 pone Stesicoro tra quanti sono rimasti attivi ancora nella vecchiezza e quindi gli attribuisce una vita andata oltre i 60 anni ; la Suda gli attribuisce 76 anni di vita e Luciano 202 gliene attribuisce 85 : entrambi quindi gli assegnano un periodo di attività che se iniziato sui trent’anni è durato una cinquantina d’anni. Il West pensa agli anni tra il 570 e 540. 203 La conoscenza dell’eclissi solare del 557 (PMG 271), la connessione con Falaride (PMG 281) e colla Sagra (Paus. 3, 19, 11), con la prima guerra sacra (Cicno : PMG 207) e col trasferimento delle ossa di Oreste a Sparta (Oreste re di Sparta : PMG 216) ; le interconnessioni con l’inno ad Apollo delfico 204 e con il Catalogo delle donne (Hes. fr. 23 M.-W. e Stesich. PMG 215), la condanna dell’espansione locrese ai danni dei Calcidesi che si appalesa col passaggio a Locri intorno alla metà del vi del territorio di Metauros, 205 confortano a pieno questa cronologia : ma se il poeta è vissuto a lungo e se, quando dopo la Sagra compone la sua duplice Palinodia, avendo però già diffamato la sorella dei Dioscuri, eroi della Sagra, 206 nella Ilioupersis e nell’Elena, occorre risalire almeno al 590-580 per gli inizi della sua carriera e spiegare così il prestigio che gli si attribuisce nel 571/70, quando, come l’anziano Solone di fronte a Pisistrato, egli invita i suoi concittadini a non fidarsi di Falaride. Tutta la serie degli avvenimenti che avevano avuto luogo da un lato in Grecia, il primato dei Tessali su Delfi in conseguenza della vittoria nella prima guerra sacra, l’affermazione dell’egemonia spartana a partire dalla conclusione della guerra con Tegea e il recupero delle ossa di Oreste, 207 dall’altro in Italia con la vittoria dei Reggini e dei Dori di Locri contro gli Achei di Crotone gli erano ben noti. E ne aveva tratto le dovute conseguenze, trasferendo proprio nell’Oresteia la reggia degli Atridi a Sparta e rivedendo la tradizione su Elena nella Palinodia. Non è improbabile quindi che rispondendo ad un’analoga esigenza di moralizzazione egli abbia questa volta interpretato in termini tessalico-delfici la vicenda di Oreste. Ma c’è dell’altro. Egli è ritenuto nativo di Metauros 208 il che vuol dire, te 









































tra grecia e occidente: l ’ oresteia di stesicoro 125 nendo conto di come gli antichi ricostruivano le biografie per lui, 218 e ne aveva ripreso, seppur variandolo, il tema degli autori del passato, che nella sua opera questa località base, lo scontro di Herakles con l’eroe e il padre Ares. 219 riceveva particolare risalto. E se quest’area era quella su cui Lo Scutum, apparso dopo la conclusione della guerra crisi esercitavano le mire di Locri, che portarono al suo passea, 220 intorno al 580/70, 221 rispecchiando il clima della saggio nelle loro mani, Metauros colonia di Locri 209 invece Delfi dell’epoca interpretava in chiave filotessalica il rapche di Zancle, 210 a queste tensioni va probabilmente colporto tra l’Apollo di Delfi e l’Apollo di Pagase. Kyknos, colegato l’ammonimento stesicoreo ai Locresi vincitori alla me i Crisei sconfitti nella prima guerra sacra, 222 meritava la Sagra di non cedere a loro volta alla hybris se non volevano sua punizione perché depredava i pellegrini che portavano che le loro cicale cantassero da terra. 211 In queste condiziole ecatombi a Delfi. 223 L’Apollo tessalico di Pagase, il porto ni supporre che tra l’Oresteia di Stesicoro e la tradizione itadi Fere, non si presenta con caratteri diversi da quello di lica di Oreste debba esserci un rapporto è necessario tanto Delfi, ne riconosce il primato : rompendo la sua solidarietà più poi se, come si è visto, Oreste rappresentava il diritto con Kyknos, che pure operava nel suo sacro recinto, 224 non calcidese al possesso dell’area, il suo confine. ne ascolta la preghiera e, dopo la sua morte, ricordando i Stesicoro aveva, d’altra parte, composto la sua Oresteia torti inflitti ai pellegrini per Delfi, fa in modo che l’Anauro in contrasto con quella di Xantho. 212 Dell’Oresteia di costui ne distrugga sepoltura e monumento. 225 sappiamo che in essa, come nel caso del Cicno, veniva riAl contrario in Stesicoro il culto di Apollo Pagaseo prepresentata la tradizione esiodea, questa volta quella del Casenta caratteri barbarici e primitivi solidali con l’azione del talogo delle donne : Laodike figlia di Agamennone diventava kakoxenos Kyknos, il quale, nel valico che dalla Tessaglia Elektra quella privata del letto, cioè delle nozze ad opera di mena in Acaia Ftiotide, uccide e decapita i passanti per coEgisto ; la sorella deputata a divenire la migliore alleata di struire con i loro teschi il tempio di Apollo : 226 Herakles Oreste e destinata a superare la sua condizione di nubilato non opera, dunque, nel clima filotessalico di un’intesa orgrazie alle nozze che Oreste le concede con Pilade. 213 L’inmai raggiunta tra i signori di Fere e Delfi, ma in quello novazione era ripresa anche da Stesicoro che sviluppava il ancora di una contrapposizione che vede nell’intesa ragtema del riconoscimento e introduceva, ci viene precisato, giunta il risultato di una purificazione di un culto di Apolil tema del ricciolo che tanta fortuna poi doveva avere nei lo, pretessalico ed eolico perché in origine legato al beota tragici ateniesi e in Eschilo in particolare. 214 Trofonio, 227 che nell’area assumeva il volto di un vero flaMa, ci viene ancora precisato, caratteristica dell’opera gello. Nell’ottica di Stesicoro, dunque, il primato dei Tesstesicorea era l’idea che Oreste, uccisa sua madre, venuto sali a Delfi si associa a quella esigenza di una purificazione in una condizione di impurità e perciò perseguitato dalle di culti e di comportamenti che in quello stesso contesto Erinni, si fosse giovato, come poi è detto nell’Oreste eurila vicenda stessa di Apollo dopo l’uccisione della drakaina pideo (v. 268), 215 dell’aiuto di Apollo e dell’arco ricevutoassume. ne per tenerle lontane e prepararsi alla purificazione ; 216 E vi sono in Stesicoro indizi in questo senso proprio a la stessa connessione tra difesa dalle Erinni ed esigenza di proposito delle vicende che portarono alla nascita del culto purificazione era però già apparsa, prima che in Euripide, di Apollo a Delfi. L’Inno omerico ad Apollo delfico racconta in Ferecide. 217 Questi presupposti si ritrovano tutti nella vila Pythoktonia come uccisione di una drakaina che era stata cenda della purificazione italica di Oreste che nel segno di da Hera madre di Typhoeus incaricata di far da nutrice a Apollo si svolge. questo mostro, perché Hera e non Gaia era stata madre di Essa si fonda però sul presupposto dell’omologia tra MeTifone. 228 Non è la tradizione comune, ma significativatauros e Peneio, tra la piana di Gioia Tauro e la valle di mente l’unico a condividerla è proprio Stesicoro. Stesicoro Tempe, tra culto di Apollo istituito al Metauros e altare di dunque viene colto a presentare Hera come l’equivalente Tempe, tra Duareia/lauro di Tempe e lauro del Metauros, di Gaia, cosa che nell’Inno era allusione alla prima titolare tra daphnephoria da Tempe e daphnephoria dal Metauros. Di del culto di Delfi e quindi all’empietà commessa da Apollo ciò nulla dicono i frammenti conservati dell’Oresteia stesinell’impadronirsene. 229 corea. Tuttavia indizi di collegamento alla tradizione moIl trasferimento di Oreste in Occidente per purificarsi apdello, quella dell’empietà di Apollo e della sua purificaziopare, come si è visto, riflesso della purificazione dei coloni ne, non sono del tutto assenti. calcidesi trasferiti a Reggio, città con cui si mostra solidale. Alle problematiche poste dalla conclusione della prima Le truppe reggine avevano combattuto alla Sagra accanto guerra sacra Stesicoro si era certamente accostato nella mia quelle di Locri 230 e condiviso con loro la gloria della vitsura in cui componendo il Kyknos aveva fatto esplicito rifetoria. Il giudizio in merito dell’imerese e calcidese Stesicorimento allo Scutum, pseudoesiodeo per noi, ma esiodeo ro, emerge nella tradizione relativa alla Palinodia sul con 

































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209  Steph. Byz. s.v. Mavtauro~. 210  Solin. 2, 11. L’evoluzione è riscontrabile anche attraverso i dati archeologici : A. De Franciscis, « Atti e mem. soc. Magna Grecia » 2, 1960, 21-67. Su tutto il problema del conflitto territoriale tra Reggio e Locri : G. Cordiano, I rapporti politici tra Locri Epizefiri e Reggio nel vi secolo, « Rend. Ist. Lomb. » 122, 1988, 39 ss. ; Espansione territoriale e politica colonizzatrice, « Kokalos » 41, 1995, 79 ss. ; L’espansione territoriale di una polis in ambito coloniale, « Annali Fac. Lett. Filos. Univ. Siena » 18, 1997, 1 ss. 211  PMG 281b. Così giustamente Cordiano, I rapporti politici, cit. 212  PMG 699-700. 213  PMG 700. Cf. Pherec. FGrHist 3 F 63 ; Soph. El. 962 ; Eur. El. 1219-1250 ; Or. 1158-1159 ; IT 716 ; Hellan. FGrHist 4 F 155 ; Apollod. Ep.6, 28 ; Hyg. Fab. 119 ; 120 ; 122, 4 ; schol. Lyc. 1374. 214  PMG 217, 11-14. 215  Vd. anche lo scolio ad loc. 216  PMG 217, 14-24. 217 Pherec. FGrHist 3 F 135.  











































218  Hes. Scut. Hypoth. A = Stesich. PMG 269. 219  Schol. Pind. Ol. 10, 19b = Stesich. PMG 207. 220  Su questa guerra restano ancor oggi più che valide le equilibrate considerazioni di F. Cassola, Note sulla guerra crisea, ora in Scritti di storia antica i. Grecia, Napoli 1993, 245 ss. 221  A. Cambitoglu - S. A. Paspalos, s.v. ‘Kyknos, i’, LIMC vii 1, 1994, 982 ss. : il tema appare a partire dal secondo quarto del vi sec. 222  Strab. 9, 418-419 ; Legatio ix, p. 406 Littrè = Presbeutikòs 27, 7. 223  Hes. Scut. 478-480. 224  Hes. Scut. 57 ss., 70. Cf. Thebais fr. 8 Bern. ; schol. Hom. Il. 23, 340 ; schol. Pind. Ol. 10, 19 ; Ael. NA 2, 32. 225 Hes. Scut. 68 ; 473-480. 226  PMG 207. 227  Heracl. Pont. fr. 137 Wehrli. 228  Hymn. Ap. 300 ss. ; contro : Hes. Theog. 820 ss. 229  G. Zanetto, Inni Omerici, cit. 249 n. 66. 230  Strab. 6, 1, 10, 261.  















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alfonso mele

to di Elena. 231 L’eliminazione del suo adulterio, di cui non la figlia di Zeus e sorella dei Dioscuri 232 ma solo un suo ei[dwlon fu colpevole, risponde ad un’innovatrice esigenza di purificazione del comportamento divino ed eroico. Essa è la stessa che, imponendo una purificazione, emerge nella vicenda di Oreste, ma secondo la tradizione maturò nel poeta, a{te mousiko;~ w[n, 233 dopo che, nella battaglia della Sagra, Zeus, 234 i Dioscuri 235 e gli eroi, tra cui Achille, 236 che dopo la morte aveva nell’Isola Bianca potuto coronare il suo sogno di divenire il compagno di Elena, 237 assicurarono la vittoria a soli 10.000 Locresi e 5.000 Reggini su una massa di 120/130.000 Crotoniati. 238 Così facendo essi si erano dimostrati tutori di Dike e nemici di hybris : erano intervenuti in sua difesa, giacché “nulla di quanto fanno i mortali sfugge agli dèi e agli eroi”. 239 Una riflessione del genere tornava a maggior gloria dei Locresi come dei Reggini, che in questo successo vedevano valorizzate le loro autonome scelte e traevano forza per affermarle. La purificazione apollinea di Metauros era, come si è detto, l’omologo della nuova versione delle origini calcidesi-messene di Reggio fondata egualmente su un’esigenza di purificazione : essa eliminava l’originaria metropoli Zancle e il rapporto tra Messeni e Calcidesi non rappresentava più nella figura dell’eolide e messeno Periere. 240 Coerente era la scelta di Stesicoro, il quale sottraeva a Periere questa funzione, facendone non un eolide ma un atlantide, il figlio del lacone Cinorta. 241 Segno ancora della adesione alla versione apollinea della ktisis reggina si rinviene nel ruolo da Stesicoro assegnato a Pallantion arcade nella Gerioneide e nella parallela notizia che ne fa un nativo della stessa città. 242 L’oracolo di matrice reggino-messena sulla coppia vite/caprifico portava i coloni in un luogo detto Pallantion 243 e Pallantion arcade era per Stesicoro appunto tappa precedente la partenza di Herakles alla ricerca delle vacche di Gerione, così che, se il Pallantion reggino era il luogo dove sorse la colonia, esso era anche il luogo da dove il toro 244 e/o le vacche di Herakles 245 passarono in Sicilia : il passaggio di Herakles in Sicilia e lo scontro col bovaro Eryx divenivano così l’omologo della Gerioneide tartessia. Omologia di cui esiste prova. Dalle testimonianze relative, in particolare di Ibico e di Ecateo, emerge, infatti, che il passaggio in Sicilia di Herakles era cosa fatta nella seconda metà del vi secolo. In tali circostanze Herakles veniva aiutato da Efesto che si prendeva cura delle vacche mentre Herakles inseguiva il toro fuggitivo : 246 questo particolare riaffiora esattamente in Ibico, 247 per il quale non le Ninfe imeresi ed egestane, 248 ma Efesto è colui che, per Herakles diretto ad Erice, faceva, presso

Himera, la città patria di Stesicoro, da lui celebrata per le acque dell’omonimo fiume, sgorgare le famose fonti calde. Alla fuga del toro, d’altro canto, e all’inseguimento da parte di Herakles si connette per il Pseudo-Apollodoro come per Ellanico 249 il nome di Italia, che era la terra attraversata dall’ijtalov~/vitulos. A questa tradizione piuttosto che, in una col tipo del leone sul dritto, a un non testimoniato culto di Apollo come Helios, va, come era stato in precedenza supposto, connesso il tipo del vitello presente sulle prime monete reggine a doppio rilievo. 250 Tale spiegazione del nome della penisola viene contestata da Antioco e connessa a Italo e agli Oinotroi, 251 ma appare nell’oracolo di fondazione e in Ellanico connessa ai Calcidesi e al loro retroterra ausone. 252 Sempre nella versione del Pseudo-Apollodoro, che vede, come nel messeno e reggino Ibico, Efesto accanto ad Herakles, il toro che si separa, ajporrhvgnusi, dal resto della mandria, dà nome di ÔRhvgion al luogo dove ciò si verifica. 253 È una spiegazione del nome cui, nel clima della Reggio post-tirannica, si contrappone la connessione posta da Eschilo con un terremoto che avrebbe interrotto la continuità con l’Italia, 254 terremoto che nel clima sempre posttirannico del richiamo a Jokastos e alla tradizione che vedeva le origini delle colonie calcidesi sui due lati dello Stretto replica dell’ospitalità che nella sede di Eolo e degli Eolidi avevano ottenuto Odisseo e i suoi, 255 era stato un omaggio di Poseidon a Jokastos, 256 re dell’Italia. 257 Sempre in tradizione antitirannica il nome della città in Aristotele veniva rapportato al nome di un eroe locale. 258 Infine la corsa del toro si era conclusa con la sua immissione tra le mandrie di Eryx, il pastore kakovxeno~ Eryx, figlio di Boutes, il bovaro, per recuperare il quale Herakles deve lottare con Eryx, che sconfitto e ucciso viene privato delle sue mandrie, proprio come era capitato a Gerione. 259 Nessuna menzione si fa della messa in gioco della sua terra come capita nella versione timaica riportata da Diodoro, dove Herakles passa lo stretto aggrappato alle corna di un toro, ma è accompagnato da tutta la sua mandria e la perderebbe se fosse sconfitto da Eryx, mentre l’altro perderebbe appunto la sua terra. Versione che si riallaccia a tradizioni di tipo coloniale. 260 Ecateo, infatti, prevede uno scontro di Herakles con i Fenici di Solunto e l’appoggio invece di quelli di Motya, 261 una situazione che ricorda i casi di Locri e Crotone, dove uno sbocco coloniale da parte di Eraclidi è assicurato dalla presenza, accanto a un kakoxenos, di eponimi philoxenoi come Locro e Kroton ben disposti verso l’eroe. 262 Quanto a Dorieo, egli muove alla volta di Egesta convinto che questa

231  PMG 192 ; 193. 232  Cypr. fr. 9 Bern. 233  Plat. Phaedr. 243a. 234  Justin. 20, 3, 7. Simmetricamente la notizia della vittoria viene subito trasmessa a Olimpia : Cic. De nat. deor. 2, 6. 235  Diod. Sic. 8, 32 ; Cic. De nat. deor. 3, 11 ; Trog. Justin. 20, 3, 8 ; Strab. 6, 1, 10, 261 ; ecc. 236  Paus. 3, 19, 12-13 ; Herm. ad Plat. Phaedr. 243a. 237  Cypr. arg. p. 42, 59 s. Bern. ; Hes. fr. 204, 87-93 M.-W. ; Paus. 3, 24, 10. 238  Trog. Justin. 20, 3, 4 ; Strab. 6, 1, 10, 261. 239  Herm. ad Plat. Phaedr. 243a. Cf. Aristox. fr. 33 Wehrli. 240  Mele, Cuma, cit. 93 s. 241  PMG 227 ; Apollod. 1, 87, 3 ; Paus. 4, 2, 4. Cf. West, Catalogue, cit. 67 n. 86 ; 95. 242  PMG 182. Cf. Sud. s.v. Sthsivcoro~. 243  Dion. Hal. 19, 2. 244  Hellan. FGrHist 4 F 111 ; Apollod. 2, 5, 10 ; schol. Lyc. 866. 245  Hec. FGrHist 1 F 76-77 ; Diod. Sic. 4, 22, 6-23, 3 (cf. Tim. FGrHist 566 F 90) ; Paus. 3, 16, 4-5. 246  Apollod. 2, 5, 10. 247  PMG 300.

248  Pind. Ol. 12, 19. Cf. schol ad loc. ; Diod. Sic. 4, 23, 1 ; 5, 3, 4. 249  Hellan. FGrHist 4 F 111. 250  La spiegazione apparteneva al Robinson e al Vallet, ma è stata respinta dalla Caccamo Caltabiano a favore dell’ipotesi di un culto solare. Cf. M. Caccamo Caltabiano, Le prime emissioni anassilaiche a Rhegion e Messene, « Quad. Ist. Arch. Univ. Messina » 2, 1986-87, 7 s. 251  Ant. FGrHist 555 F 2-5 e 9. 252  Hellan. FGrHist 4 F 79 ; Diod. Sic. 8, 23, 2. 253  Apollod. 2, 5, 10. Cf. Diod. Sic. 4, 22 ; Tz. Chil. 2, 343 ; Lyc. 1232. 254  Aesch. fr. 63 Mette = Strab. 6, 1, 6, 258 ; Parad. Vatic. 39, 5. 255  Hom. Od. 10, 1 ss. : favore che egli poi nega quando capisce che l’eroe è in odio agli dèi : 72-75. Come poi gli Eolidi, egli è un esempio di pietà e giustizia : Diod. Sic. 5, 8, 1-3. 256  Schol. DP 476. 257  Diod. Sic. 5, 8, 1. 258  Heracl. Lemb. Pol. 55. 259  Apollod. 2, 5, 10 (110-111). Cf. supra, n. 240. 260  Diod. Sic. 4, 23. 261 Hec. FGrHist 1 F 76-77. 262  Diod. Sic. 4, 24, 7 ; Conon, FGrHist 26 F 1, 3.





















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tra grecia e occidente: l ’ oresteia di stesicoro 127 terra gli sia in quanto Eraclide dovuta, 263 mentre Gelone, In conclusione, anche se i particolari non possono allo evidentemente adeguandosi a lui, ritiene suo dovere venstato dei fatti essere tutti precisati, né la tradizione apoldicarne la morte ad opera degli Egestani. 264 Tutto questo linea della fondazione di Reggio, né l’archaiologia delsembra assente in questa versione della vicenda dove l’imla città nella sua relazione con il passaggio di Herakles presa di Herakles, proprio come nel Kyknos stesicoreo, rimandriano, né il culto di Oreste possono essere considesponde ad una generale esigenza di purificazione contro rati indipendenti per un verso dalla Gerioneide per l’altro un’empia pratica di kakoxenia. dall’Oresteia. Lo confermano sia il Kyknos sia, nella sua L’imerese Stesicoro con la sua Gerioneide, dove Herakles, duplice versione, la Palinodia. Come quest’ultima infatti assistito da Atena, 265 purifica la terra da una disumana, perera connessa ad una generale esigenza di una purificazioché mostruosa, 266 figura di bovaro, è certamente il presupne del mondo divino ed eroico, ancorata alla riflessione posto di tutta la leggenda italica dell’eroe, ma, in particolasulla vittoria di Locresi e Reggini alla Sagra, così il Kyknos re per Reggio, appare come la premessa, e forse non solo, era connesso ad una esigenza tutta delfica di una generadi una tradizione sul passaggio di Herakles in Sicilia non di le purificazione del culto apollineo da pratiche primitive una sua volontà, favorito da Efesto, il dio calcidese dell’Ete barbariche, ancorata ad un Herakles concepito non cona, 267 priva nei riguardi di Erice di un preciso carattere come guerriero omerico ma armato di clava e di arco, che loniale. 268 Stesicoro sembra nell’Ilioupersis aver accettato la è a dire nella maniera specifica del mandriano, Herakles tradizione della venuta in Hesperia di Enea ; 269 agli Elimi italico e reggino, figlio a sua volta dell’Herakles tartessio. veniva attribuito uno statuto troiano ; 270 la Reggio di AnasMa non è allora questo anche il caso dell’Oreste reggino sila, in funzione antisiracusana, aveva ritenuto legittimo assoggettato, come in Stesicoro, a una generale esigenallearsi con Terillo tiranno di Himera e con i Cartaginesi, za di purificazione, ma portato a realizzarla nelle acque signori della Sicilia nordoccidentale. 271 dell’italico Metauros ?  



















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263  Hdt. 5, 43. 264  Hdt. 7, 158, 2. 265  S 14 Page. 266  PMG 186. 267  Call. Art. 47 ; Verg. Georg. 4, 170 ss. ; Verg. Aen. 8, 416 ss. 268  C. Jourdan-Annequin, Héraclès aux portes du soir, Besançon-Paris 1989, 293 ss.  





269  PMG 205. Vi corrisponde in Ecateo l’attribuzione di un fondatore troiano a Capua e, nella prassi dell’aristocrazia della calcidese Cuma, il legame di ospitalità e di alleanza con la città. Cf. Mele, Cuma, cit. 162 s. 270  A. Mele, « Kokalos » 39-40, 1993-94, 71 ss. 271  Hdt. 7, 165.  



QUA LCHE R IPENSA MENTO SUL FR. 555 P. DI SIMONIDE Luigi Br av i divdwti d’eu\ pai`~ ÔErma`~ ejnagwvnio~ Maiavdo~ oujreiva~ eJlikoblefavrou: e[tikte d’ “Atla~ eJpta; ijoplokavmwn fila`n qugatrw`n tavnd’ e[xocon ei\do~, ai kalevontai Peleiavde~ oujravniai.



L

’assenza nelle fonti di indicazioni che contribuiscano a identificare l’ei\do~ lirico a cui queste parole di Simonide appartengono ha relegato il frammento in quella sezione dei Poetae melici Graeci di Page che, a partire dal fr. 541, raccoglie gli incerti loci. 1 Page ha seguito Diehl, che lo collocava tra i frammenti ejx ajdhvlwn melw`n (fr. 30 D.). 2 Credo invece che sia condivisibile e quindi da ricuperare la sistemazione tra gli epinici sulla scia di quanto proposto da Schneidewin (fr. xxvii), 3 poi seguito nei Poetae lyrici Graeci da Bergk (fr. *18). 4 Di questo avviso era anche Bowra 5 che arrivò persino a suggerire un’ipotesi sul destinatario, come vedremo ; da ultimo Poltera lo considera frammento epinicio 6 (fr. 20). Il frammento si è conservato per tradizione indiretta in un insieme di testimoni di carattere esegetico, dedicati, da un lato, al testo omerico, dall’altro invece a Pindaro e a Licofrone. Un primo ramo della tradizione è costituito dal fr. 4 Pagani di Asclepiade di Mirlea, 7 proveniente dallo scritto peri; th`~ Nestorivdo~ e conservato in Athen. 11, 487f-494b, che riporta il frammento in esame a 490e-f ; di qua, attraverso l’Epitome di Ateneo (ii 62 s. Peppink), 8 il frammento confluisce nel Commento di Eustazio al dodicesimo dell’Odissea (12, 65, p. 1713, 3 s.). 9 Asclepiade, nel fornire una dettagliata spiegazione ed interpretazione della coppa di Nestore, al momento di spiegare la presenza di colombe d’oro sui manici della coppa fa osservare che quelle colombe (peleiavde~) alludono metaforicamente alla costellazione delle Pleiadi (Pleiavde~), coerentemente con l’interpretazione cosmica del celebre manufatto ; questo uso di peleiavde~ per Pleiavde~, annota Asclepiade, era ricorrente nei poeti e, proprio nel riportare uno di questi esempi, informa che tale interpretazione era già nota a Cratete di Mallo (fr. 59 Broggiato). 10 Il motivo contingente per il quale quindi Asclepiade cita le parole di Simonide è di ordine linguistico : si trattereb 





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be di un’attestazione dell’ejktrophv del nome delle Pleiadi, cioè la forma Peleiavde~ per il nome Pleiavde~ (Peleiavde~ indica le colombe). Che il termine ejktrophv indichi un fenomeno di ordine linguistico e non retorico sembrerebbe suggerire l’occorrenza in schol. Hom. Il. 24, 343b ; è probabile che questa variante linguistica abbia agevolato la nascita della metafora. 11 L’insieme degli esempi e l’argomentazione su questa ejk- trophv del nome delle Pleiadi sono assunti, tramite l’Epitome, nel commento di Eustazio all’Odissea in forma sintetizzata, e rappresentano quindi un unico ramo della tradizione, anche con esplicita ammissione di Eustazio stesso (in Od. 12, 65, p. 1712, 61-63 o{ti de; polloi; ta;~ pleiavda~ peleiav-













da~ wjnovmasan, iJkanw`~ deivknusin oJ ∆Aqhvnaio~, dhvlhn tiqei;~ th;n ejktroph;n tou` ojnovmato~ kaq’ h}n aiJ pleiavde~ pevleiai kai; peleiavde~ para; poihtai`~ levgontai). 12  

Il testo offerto da Ateneo costituisce l’ossatura per la ricostruzione filologica di quel che resta del carme di Simonide ; qui di seguito dispongo le parole senza distinzioni colometriche, che sono lasciate all’interpretazione moderna, non entrando in gioco nelle fasi della tradizione del testo per noi documentabili.  

divdwti deutes ÔErma`~ ejnagwvnio~ Maiva~ eujplokavmoio pai`~: e[tikte d’ “Atla~ ejpita ijoplokavmwn fivlan qugatevrwn tavn g’ e[xocon ei\do~ ajgikalevontai Peleiavde~ oujravniai.











1  Poetae melici Graeci, ed. D. L. Page, Oxford 1962. 2  Anthologia lyrica Graeca ii 5. Poetae melici, Chorodia, Fragmenta adespota, ed. E. Diehl, Lipsiae 19422. 3  Simonidis Cei carminum reliquiae, ed. F. G. Schneidewin, Brunsvigae 1835. 4  Poetae lyrici Graeci iii. Poetae melici, quartis curis rec. Th. Bergk, Lipsiae 1882 (= 1914). Il frammento porta testo e numerazioni differenti nelle edizioni che dei lirici Bergk ha di volta in volta pubblicato ; è il fr. 21 nell’edizione Lipsiae 1843, il fr. 18 nell’edizione Lipsiae 18532, ed inizia ad essere il fr. *18 dall’edizione Lipsiae 18673. 5  C. M. Bowra, La lirica greca da Alcmane a Simonide, Firenze 1973, 464. 6  O. Poltera, Simonides lyricus. Testimonia und Fragmente, Einleitung, kritische Ausgabe, Übersetzung und Kommentar, Basel 2008, 112 s., 323-328. 7  Asclepiade di Mirlea. I frammenti degli scritti omerici, Introduzione, edizione e commento di L. Pagani, Roma 2007. 8  Athenaei Deipnosophistarum Epitome ii (Libri ix-xv), ex rec. S. P. Peppinki, Lugduni Batavorum 1939. 9  Cfr. P. Maas, Verschiedenes zu Eustathios, « Byz. Zeitschr. » 45, 1952, 1-3 (ora in P. Maas, Kleine Schriften, hrsg. von W. Buchwald, München 1973, 520523, in particolare 521 s.).  





Nell’Epitome, come nella sintesi eustaziana (in Od. 12, 65, p. 1713, 4), è solamente confermata la iunctura Peleiavde~ oujravniai. 13 I punti fragili del testo su cui si è registrato l’intervento degli editori sono deutes ÔErma`~, ejpita, tavn g’, ajgikalevontai. Di non poco conto per quel che attiene alla costituzione del testo è quanto si conserva nello schol. Pind. Nem. 2, 17c (iii 34, 21-35, 9 Drachm.) ; una specifica porzione dello scolio risponde alla domanda (zhtei`tai) 14 perché mai Pindaro abbia definito montane (ojrei`ai) le Pleiadi (Pind. Nem. 2, 10-12 e[sti d’ ejoiko;~ ojreia`n ge Peleiavdwn mh; thlovqen ∆Warivwna nei`sqai). Nella risposta, abbastanza complessa, al quesito, ad un certo punto lo scoliasta afferma che Simonide aveva definito montana Maia, una delle Pleiadi, con le parole  





10  Cratete di Mallo. I frammenti, Edizione, introduzione e note a cura di M. Broggiato, La Spezia 2001, 225 s. 11  È facile intuire, proprio per le circostanze della trasmissione di questo frammento, che la congettura Pleiavde~ del frammento simonideo non vada neppure discussa a differenza di come fanno O. Poltera, Le langage de Simonide. Étude sur la tradition poétique et son renouvellement, Bern 1997, 277-279 e L. Pagani, Asclepiade di Mirlea, cit. 167 ; del resto Poltera stesso, Simonides lyricus, cit. nell’edizione del frammento fa sparire ogni traccia della congettura sia nel testo critico che nel commento. 12  Sull’insieme dei rapporti tra Eustazio ed Ateneo, cfr. Eustathii Commentarii ad Homeri Iliadem pertinentes i, cur. M. van der Valk, Lugduni Batavorum 1971, lxxix-lxxxv. 13  Simwnivdh~ de; peleiavda~ oujravnia~ ta;~ pleiavda~ fhsiv. 14  Su questa specifica porzione di scolio K. Lehrs, Die Pindarscholien. Eine kritische Untersuchung zur philologischen Quellenkunde, Leipzig 1873, 114, annotava che esso conteneva ipotesi linguistiche estranee alla scuola alessandrina.  

qualche ripensamento sul fr. 555 p. di simonide Maiavdo~ oujreiva~ eJlikoblefavrou, con fondamento, poiché

– come dice un esametro adespoto riportato di seguito – “generò Hermes messaggero degli dèi sulle alture di Cillene”. 15 Attingendo a questo scolio, Giovanni Tzetzes, nel Commento al v. 219 dell’Alessandra di Licofrone (p. 102 Scheer) riprende da vicino le parole del commento pindarico. 16 Il sintagma simonideo qui conservato andrebbe a sovrapporsi a Maiva~ eujplokavmoio tramandato da Ateneo ed entra quindi di peso nella scelta del testo da pubblicare. La menzione in Asclepiade di Cratete, a proposito della poetessa Merò di Bisanzio, subito prima della citazione di Simonide, e i versi della seconda Nemea di Pindaro (Nem. 2, 10-12) su cui intervenne lo stesso Cratete (cfr. schol. Pind. Nem. 2, 17c, iii 36, 5-8 Drachm.) inducono a ritenere che tutto il blocco di citazioni, compreso Simonide, sia assunto da Asclepiade a partire dagli scritti di Cratete, benché non sia in alcun modo possibile dimostrarlo. Possiamo a questo punto passare al testo che troviamo in Page e valutarne i diversi interventi. Il problema è comprensibilmente legato a doppio filo con l’interpretazione metrica del testo, per la quale si deve usare ogni cautela, a maggior ragione trattandosi di un frammento di tradizione indiretta e conservato in autori nei quali i criteri della citazione non si curano della corretta conservazione delle sequenze liriche. 17 Così come è in Page, il frammento è aperto da un verso con questo schema : + < + < < < < + + < + < ia glyc, il dodecasillabo alcaico, già presente in Simonide per esempio nell’Encomio a Scopas a str. 3, 18 in contesto prevalentemente gliconico. Tale primo verso tuttavia costa al testo una pesante correzione introdotta da Page : a partire dalla vox nihili deutes di Ateneo, attraverso il verisimile passaggio d’eu\ tais annotato in apparato, Page legge d’eu\ pai`~. Ma il testo dei Deipnosofisti contiene già un pai`~ dopo i genitivi del sintagma relativo a Maia, omesso da Page nella sua edizione. Come è possibile che si sia prodotta una reduplicazione del sostantivo pai`~ entro la stessa frase ? E se anche si fosse prodotta, la sua ridondanza farebbe sorgere il legittimo sospetto che si possa trattare di un guasto nel testo. Per questo motivo, diversamente da Page, non accolgo la correzione in pai`~ di v. 1 e lo mantengo, con tutti gli editori precedenti, invece dopo i genitivi di v. 2. La sistemazione di deutes più fortunata è stata una correzione di Jacobs che vi rintraccia un eu\co~, pur improbabile da un punto di vista paleografico, accolto in un primo tempo da Bergk, 19 poi da Diehl, che esplicita l’oggetto del dono, ovvero la fama conseguente alla vittoria, secondo il sintagma omerico eu\co~ didovnai. 20 Con tale testo la scansione del verso non cambia. La cautela suggerirebbe al limite anche l’uso delle croci entro le quali racchiudere †deutes†. 21  

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A v. 2 Page, sulla scia di tutti gli editori che lo hanno preceduto, preferisce al Maiva~ eujplokavmoio la lezione meno generica che si conserva negli scoli a Pindaro, Maiav- do~ oujreiva~ eJlikoblefavrou ; mantenendo, come detto, il pai`~ conservato in Ateneo, ne risulta < + + < < < + + < + + < < un pentametro dattilico catalettico in disillabo che sarebbe presente anche in Stesicoro (TB 22b (iii) Davies), stando a Servio (Gr. Lat. vi 461, 2 Keil), e in Bacchilide 16, str. 6 (v. 6 incompleto, v. 18 Zhni; quven baruaceva~ ejnneva tauvrou~), 22 in contesto dattilico. Con Schneidewin 23 Poltera corregge in eJlikoblefavroio per ottenere un pentametro simonideo. 24 Il v. 3 del frammento vede solo un intervento sull’ejpita della tradizione manoscritta corretto in eJptav già da Musuro. Lo schema metrico, col lieve accorgimento di Schneidewin che muta il tràdito qugatevrwn in qugatrw`n, restituisce un perfetto pindarico, l’asinarteto noto alla tradizione metricologica composto da pentemimere giambico, hemiepes maschile e pentemimere giambico. 25 Nell’ajgikalevontai, in considerazione della lezione ai} kalevontai di alcuni deteriores di Ateneo, accolto da Schneidewin e da Bergk nella prima edizione, Hartung 26 ha scorto quanto resta di un taiv che conferisce al verso un omogeneo ritmo pari, mantenuto con diversa soluzione anche da Page, che ipotizza aplografia e restituisce di seguito ad ei\do~, due soluzioni equivalenti sul piano del risultato metrico ; il verso costituirebbe così uno dei rari esempi di dimetro anapestico ipercataletto, noto da Eur. Or. 1363, che si può intendere anche come an reiza. 27 Chiude il frammento un prosodiaco di tipo ‘a’ senza problemi di testo. La colometria di Page è a mio avviso migliore delle due ipotesi ricostruttive che segnano la storia di questo frammento negli ultimi due secoli, sia quella di Schneidewin, ripresa da Diehl, sia quella di Bergk, che pure in un primo momento seguì grosso modo Schneidewin, ed è quindi sulla base di Page che propongo il testo che segue :  

















divdwti d’eu\co~ ÔErma`~ ejnagwvnio~ Maiavdo~ oujreiva~ eJlikoblefavrou pai`~: e[tikte d∆ “Atla~ eJpta; ijoplokavmwn fila`n qugatrw`n tavn g’ e[xocon ei\do~, tai; kalevontai Peleiavde~ oujravniai.



La gloria concede Hermes protettore degli agoni figlio della montana Maia dagli occhi neri ; questa generò Atlante, superiore in aspetto tra le sue sette figlie dalle trecce di viola, che si chiamano Pleiadi celesti. +