La Repubblica. Libro I [Vol. 1]
 9788870883176, 8870883175

Table of contents :
Sommario
Avvertenza
La Repubblica - Libro I
Introduzione al Libro I
1. Autonomia del I libro, data di composizione, data drammatica
2. I personaggi del I libro
3. Socrate nel I libro della Repubblica
4. Lo sfondo: i sapienti
5. Lo sfondo: i tiranni
6. Lo sviluppo delle argomentazioni
Libro I
Commento al Libro I
[A] Katabasis
1. Κατέβην χθὲς εἰς Πειραιᾶ..
2. Katabainein in Platone
3. La tradizione della katabasis
4. Socrate e la discesa al Pireo
[B] Bendidie e Panatenee
I. Le dee
1
. Bendis, la dea del Pireo
2. Bendis, la dea trace
3. Le armi di Bendis
4. Le armi di Atena
II. I rituali
1
. Il culto di Bendis in Atene
2. Le Bendidie ateniesi: una festa "barbarica"
3. Le Panatenee: l'autocelebrazione della città
4. Dalle Bendidie alle Panatenee: un percorso simbolico
[C] Cefalo
1
. Il personaggio
2. La vecchiaia
3. Il carattere
4. La ricchezza
5. La morale degli affari
6. Il patto del meteco
7. La confutazione socratica
8. Il paradigma del buon crematista
[D] Dikaion/dikaiosyne
1. I due termini nell'uso linguistico
2. Dike e dikaion
3. Dikaiosyne nei testi preplatonici
4. Platone: la dikaiosyne come virtù dell'anima
[E] Polemarco
1. Il personaggio e la sua storia
2. Polemarco "erede" di Cefalo
3. Alle onigini della contrapposizione amico/nemico
4. Le dinamiche conflittuali all'interno della città
5. L'esigenza della concordia
6. Socrate confuta Polemarco
[F] Techne
1. Socrate e le technai del V secolo
2. Le technai in Platone
3. La critica dell'analogia tecnica
4. La gerarchia dei saperi
[G] La battaglia
1
. Lo scontro dialettico come battaglia
2. Le fasi della battaglia dialettica
3. La disputa come combattimento oplitico
4. Le armi di Trasimaco
[H] La
belva
1. La ricerca filosofica come caccia
2. La città dei lupi
3. Il cane filosofo e il lupo sofista
[I] Trasimaco
1. Il personaggio Trasimaco
2. Il Trasimaco "storico"
3. Il rigore di Trasimaco
4. La prima tesi di Trasimaco
5. La confutazione socratica
6. La seconda tesi di Trasimaco
[L] Misthotike
1.
2.
3.
[M] Prooimion e nomos
1. Prooimion nella Repubblica
2. Canto, poesia, rito
3. Canto e danza
4. Prooimion e nomos
5. La ridicola attesa di Glaucone

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La � � - .... -­ .-..Ji ddpenoieJo di PIMme. cl>, rispose. «Senz'altro, dissi. Ma dim-

[d]

mi ancora questo: qual è il bene maggiore che pensi di aver de­ rivato dal possesso di una grande sostanza?». «Un bene, rispose, che a dirlo non riuscirei probabilmente a convincere molta gente. Devi sapere, Socrate, aggiunse, che quando un uomo pensa di esser giunto vicino al momento della Hne, è preso dal timore e dalla preoccupazione per cose di cui prima non si curava. I miti che si raccontano sull'Ade- che chi ha commesso qui ingiustizia debba laggiù pagame il fio -, prima derisi, sconvolgono allora la sua anima nel dubbio se non siano veri.10 E lui stesso, sia a causa della debolezza propria della vecchiez111 Il racconto di Cefalo è interessante per più di un aspetto. Il suo scetti­ cismo giovanile conferma la scarsa diffusione dei miti (di matrice, in senso lato, orfico-pitagorica) sui premi e le punizioni che attendono le anime nel­ l' Ade; uno scetticismo tanto più significativo in quanto il giovane Cefalo non appartiene certo all'élite intellettuale ateniese alla maniera, per es., dell'ahret· tanto scettico Callide de] Gorgi4 (493d), o dello stesso Adimanto nella Repub­ blica (11365d-366a). La conversione del vecchio Cefalo prova d'altra parte che si trattava di materiali largamente disponibili ai più diversi strati sociali, e non solo di dottrine esoteriche e settarie.

È appena il caso di notare che, a dif.

ferenza del sereno agnosticismo attribuito a Socrate nell'Apologia circa la questione dell'aldilà (40c sgg.), Platone insisterà a più riprese sui premi e sulle punizioni d'oltretomba come dispositivo di incentivazione alla vita giusta (per es. Gorg. 523a sgg., e nella stessa RepubbliC4, il mito di Er nel libro

X). Il mi­

sticismo orfico-pitagorico permea inoltre, come è noto, la delineazione della vita ftlosofica come «esercizio di morte» nel Fedone (80e-81a, cfr. 67a sgg., 8Ib sgg.). Quanto a Cefalo, egli conferma la rassicurazione che gli viene dal­ l'aver vissuto una vita giusta (nell'ambito morale che gli è proprio), con una bigotta mania sacrifìcale (cfr. Hld), che lo avvicina alla rdigiosità secondo Eutifrone (la therapeia resa agli dèi e

ai riti sacri, Euthyphr. 12e), e per certi

aspetti al superstizioso dei Uratteri di Teofrasto (16). Ma la capacità del ricco di ingraziarsi gli dèi mediante i sacrifici sarà ridicolizzata nd già citato discor· so di Adimanto; anche qui, Cefalo anticipa, al suo livello, un grande tema del­ la Repubblica. Attraverso Cefalo, Crisippo avrebbe colpito lo stesso Platone

[e]

PLATONE, LA REPUBBLICA

46

za, sia anche perché è ormai per così dire più vicino alle cose dell'al di là, ne intravede qualcosa di più. Si riempie così di so· spetto e di paura, e comincia a tirar le somme e a indagare se abbia recato ingiustizia a qualcuno. Chi dunque scopre nella propria vita molte ingiustizie spesso si risveglia dal sonno, co­ me i bambini, in preda al terrore, e vive accompagnato da un [331a]

cattivo presentimento. Chi invece non può accusarsi di nulla di ingiusto, è sempre confonato da una dolce speranza, buona "nutrice della vecchiezza", come dice anche Pindaro. E disse davvero con grazia, Socrate, che chi ha condotto la sua vita in modo giusto e santo, "dolce speranza lo accompa­ gna, nutrice di vecchiezza che alimenta il suo cuore, essa che più di tutto governa la mutevole mente dei mortali" .11 E dice bene, in modo davvero meraviglioso. È per questo che io con­ sidero il possesso delle ricchezze cosa di grandissimo valore,

[b]

non per ogni uomo ma per quello per bene e ordinato:12 per­ ché nel non ingannare o mentire a nessuno, anche involonta­ riamente, nel non andarsene laggiù con paura perché si è in

per il suo tentativo di «distogliere dall'ingiustizia per mezzo del timore degli dèi»: «questo discorso sui castighi divini non è molto dissimile da quello sul­ l'Orco e sul Babau di cui si servono le donne per impedire ai bambini di fare i capricci»

(S. V F. III fr. 3lJ, trad. Isnardi-Parente). Ma ancora più pesante

della critica stoica sarebbe stato il totale silenzio dell'etica di Aristotele sulla sorte dell'anima dopo la morte. 11

Fr. 214 Snell. Ma

elpis ha in Pindaro, come in tutta la tradizione mora­

le greca, un valore ambiguo, significando anche l'incauta attesa di beni futuri

e/pii, come attesa Leggi (l 644cl, come in

(oltre che la fondata speranza dell'iniziato). In questo senso paurosa di dolore o slancio verso il piacere, è nelle

seguito nello stoicismo, una matrice delle passioni, insieme con la paura (pho­

bos). Cfr. anche in questo senso Tim. 69d. 12 Kosmios, che designa uno stile di vita basato sul rispetto dell'ordine morale e sociale della polis, è, insieme con epieikes, un termine centrale nel­ l'autodescrizione dei buoni meteci della famiglia di Cefalo: esso è usato a que­

kosmios si accompagna a cukolos, «ben disposto», aggettivo che Aristofane riferisce a Sofode (Ra. v.

sto scopo anche da suo figlio Lisia, 26.3. In 329d4,

82), appunto il protagonista dell'aneddoto sulla vecchiezza.

LIBRO I

47

debito di un sacrificio verso un dio o

di denaro verso un uomo

- in tutto questo molto giova il possesso delle ricchezze. Ed esso ha anche molti altri usi; ma, uno per l'altro, io affermerei, Socrate, che questo non è certo il minore, per l'uomo che abbia senno, tra

gli aspetti più utili della ricchezza».

«Dici benissimo, Cefalo, risposi io. Ma questa cosa in se stessa

_n

la giustizia [DJ - diremo così semplicemente che

consiste nell'esser veritieri e nel restituire ciò che si sia ricevuto da qualcuno, oppure si dà il caso che queste stesse azioni siano

IJ

to\ho

�'aùt6, ti}v �lKmoc:J'6v11V. Si tratta di una formula tipica dell'in­ U senso originario di questa interrogazione è è il significato di (che cosa si intende per) giusti­ zia?». Da esso deriva un secondo senso di ordine antologico: «Che cosa è (l'oggetto ideale) giustizia?». Molto spesso (e certamente è così nel nostro te­ terrogazione socratico-platonica. di ordine linguistico: «qual

sto) i due aspetti della domanda non sono distinguibili, perché l'esplicita deri­ vazione del secondo dal primo richiede un ulteriore lavoro teorico qui non ancora compiuto. Auto serve di nonna a separare il significato in questione dagli altri che gli sono prossimi; serve inoltre a indicare che la risposta deve essere di tipo universale e normativa, cioè a escludere che si possa sostituire a «giustizia» un qualsiasi singolo caso di comportamenti giusti (cfr. P. STEMMER, op.

cii., Introduzione n. 31, pp. 35-37). Questo valore di separazione e isola­ è ribadito dal termine horos d si attende. Horos vale «de­

mento di significati contenuto dalla formula

(331d2) che descrive la fanna della risposta che

finizione» non tanto in senso formale quanto piuttosto come «confine», linea di demarcazione che deve delimitare un ambito semantico per evitare la con­ fusione linguistica (che è propria dell'uso retorico) e la sostituzione di nozioni universali con casi particolari. La discontinuità di significati, che viene così prodotta,

è preliminare (e rinvia) alla concezione di un sistema di enti ideali È in que­ È

discreti, ognuno dei quali è passibile di una sua definizione formale.

stione la possibilità di costruire un compiuto e stabile �dizionario eidetico".

illuminante in questo senso la critica rivolta ai platonici da lppia: «Voi battete sul w bello" togliendolo via (apolambanontes) da tutto l'insieme e ritagliando (/eatalemnontes) ciascuna cosa nei discorsi, sì che vi sfugge che i corpi della realtà sono per natura continui (dianeke)» (Hipp. Ma. 30la). La discontinuità platonica è dunque prodotta in primo luogo nei discorsi, e implica inoltre una struttura discontinua della realtà eidetica. Il problema del Sofista sarà, come è noto, quello reciproco di ristabilire una fanna di �comunità� antologica per rendere possibili enunciati predicativi complessi.

[c]

PLATONE, LA REPUBBLICA

48

compiute qualche volta giustamente, qualche altra ingiusta­ mente? Intendo dire, ad esempio: se uno ha ricevuto armi da un amico assennato, e poi questo, impazzito, le richiede, chiun­ que direbbe che non bisogna renderle, e che non sarebbe giu­ sto chi le rendesse, come non lo sarebbe chi volesse dire tutta la verità a uno che si trovi in questo stato». [d]

«Dici bene», rispose. «Non è dunque questa la definizione della giustizia, dire la verità e rendere ciò che si è ricevuto». «Certo lo è, Socrate», disse Polemarco [E] subentrando nel discorso, «se almeno bisogna credere a Simonide». «Co­ munque, disse Cefalo, io vi cedo il discorso. Adesso devo oc­ cupanni dei sacrifici». «E non è forse Polemarco, dissi io, l'ere­ de delle tue cose?». «Certo», rispose ridendo, e intanto se ne andava a sacrificare.

[e]

«Dimmi allora, lo interpellai, tu che sei l'erede del discorso, che cosa secondo te Simonide ha detto correttamente sulla giu­ stizia?». «Che, rispose, è giusto rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto». «In ogni caso, dissi, è difficile non prestar fede a Si­ monide: è un sapiente e un uomo divino.14 Tuttavia che cosa vo14

Sophos, theios aner: si tratta deglj appellativi comunemente riferiti alla

figura arcaica del «maestro di verità». In realtà, Platone pensa che il secondo escluda precisamente il primo. Adam rinvia a un passo del Menone, dove l'uomo divino si caratterizza appunto per la sua assenza di sapere: «E allora, Menone, non è forse giusto chiamare divini tali uomini [i politici], che, pur non avendo intelletto (nous), con successo riescono in molte e grandi cose mediante l'azione e la parola? ( ...] E con ragione chiameremo divini quei tali che or ora dicevamo indovini e vati e tutti i poeti; e non meno di questi di­ chiareremo divini anche i politici, poiché ispirati e posseduti dalla divinità al­ lorché riescono a dire e fare grandi cose, senza nulla sapere (meden eidotes) di quanto affennano» (99c-d, trad. Adorno). Per questo è necessario sottoporre le sentenze dei poeti al vaglio della correttezza (orthos legein, .33lel), secondo una procedura di stampo sofistico. Tanto più necessario in quanto i poeti si esprimono per enigmi (.3.32bl4) (o almeno è opportuno supporre che si com­ portino così per poter dare un'interpretazione non letterale ma moralizzata delle loro sentenze). Per un deliberato uso poetico dell'enigma cfr. per es. THGN. v. 681 Diehi-Young. Il tema dell'enigma diventerà comune nella trage-

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glia dire così, tu, Polemarco, ceno lo comprendi, ma io lo ignoro. È chiaro infatti che non intende, come dicevamo poco fa, che se qualcuno ha depositato qualcosa e, fuor di senno, la richiede, glie la si debba ridare. Eppure questa cosa depositata

[332a]

è senza dubbio dovuta, no?». «Sì». «E non tutto va restituito

allorché lo richieda chi non è in senno?». «Vero», disse. «Qual­ cos'altro, a quanto sembra, intende dunque dire Simonide con le parole "è giusto rendere ciò che è dovuto"». «Qualcos'altro ceno, per Zeus, disse: pensa infatti che per gli amici sia dovuto fare del bene agli amici, e mai del male». «Capisco, dissi.. Non rende dunque ciò che è dovuto chi restituisce l'oro a chi l'ha depositato, se la restituzione e la ri-

[b]

presa risultano nocive, quando siano amici colui che riprende e colui che riconsegna. Non è questo che secondo te vuol dire Simonide?». «Ceno». «E allora? ai nemici bisogna rendere ciò che sia loro dovuto?)), «Sicuramente, disse, proprio quel che è loro dovuto: e penso che da un nemico a un nemico sia proprio dovuto quel che gli spetta, qualcosa di male». «A quanto sembra, dissi, Simonide, alla maniera dei poeti, faceva del giusto un enigma. Pensava in effetti, pare, che questo fosse giusto, il rendere a ciascuno ciò che gli si conviene, ma questo lo chiamava poi il dovuto>). 1' «Ma che ne pensi h), chiese. «0 per Zeus, dissi, se qualcuno gli avesse chiesto: "Simoni­ de, a chi la tecnica [FJ che da ciò prende il nome di medicina rende il dovuto e il conveniente, e che cosa rende?", che cosa

V secolo e nella satira di Aristofane. Per una raccolta di testimonianze G. COLLI, lA sapien� greca, Milano 1977, vol. l, pp. 340 sgg. 1' Socrate traduce I'ophe1iomenon di Simonide e Polemarco con prose· kon: il primo tennine ha un valore prevalentemente economico e appaniene alla dinamica di restituzione dei depositi (il «dovuto»), mentre il secondo (ciò dia del

cfr.

che «conviene, si addice») ha sia alla pratica delle

un

significato più generale, e può venire riferito

technai (dr. per la medicina 332c6-7) sia in generale alle

relazioni etico-politiche.

[c]

PLATONE, LA REPUBBLICA

50

pensi ci avrebbe risposto?». «È chiaro, disse: è la tecnica che dà ai corpi farmaci, cibi e bevande». «E la tecnica che da ciò prende il nome di cucina 16 a chi [d]

rende il dovuto e il conveniente, e che cosa rende?». «Con­ dimenti ai cibi». «Bene. E rendendo che cosa a chi una tecnica verrebbe chiamata giustizia?».17 Rispose: «Se si deve, Socrate, restare coerenti con ciò che si è detto prima, è la tecnica che agli amici e ai nemici rende rispettivamente benefici e danni». «Intende dunque dire che giustizia è far del bene agli amici e male ai nemici?». .18 «E chi ai naviganti in 16

Mageirike, che

è piuttoS[o la tecnica del macellaio, nel Fedro (265e)

paragonata alla diairesi per la sua capacità di tagliare secondo le articolazioni naturali. Sarebbe più naturale qui parlare di opsopoiike, «cucina» e cottura dei cibi, come Platone fa nel GorgitJ (463b). 17

La riduzione di dikaiosyne a techne non

è tenibile, a meno che (come

suggerisce Shorey) la si intenda senz'altro come tecnica politica (ma in questo contesto l'identificazione sarebbe ingiustificata, perché il discorso è ancora in ambito morale). Del resto, l'argomento di Socrate è a doppio taglio. Nell'am­ bito di una concezione della techne come efficacia performativa, e anche mo­ ralmente ambivalente (chi può giovare può anche nuocere), la giustizia finisce per risultare ambigua o inutile (cfr. infatti 3He sgg.). D'altra parte, la descri­ zione di techne come funzione di servizio o di «cura», che ne rileginima il mo­ dello di riferimento per la giustizia, può venire agevobnente confutata da Tra­ simaco (343b sg.). In ogni caso, l'argomento ottiene qui l'assenso di Polemar­ co, che accetta di derivare coerentemente (ako/outhein, 332d4) le conseguen­ ze delle premesse "tecniche", secondo un requisito tipico dell'e/enchos (cfr. ad es. Phoed. 107b). Cfr. n. 23. 18

L'ambivalenza della medicina (capacità di guarire e perciò anche di

nuocere: cfr. anche 3He) fa parte della concezione socratico-platonica delle technoi in generale (episteme come «Saper fare», senza qualificazione morale).

Per un accenno alla possibilità di usare gli strumenti di riduzione per la tortura anziché per la cura, si veda l'ippocratico Art. 47 (IV 210 L.). In questo caso specifico, Platone si riferisce naturalmente all'ambivalenza arcaica del termine pharmakon (medicina/veleno, equivalente al nostro «pozione»). Sono tuttavia

da vedere specificamente in Platone le origini del «romanzo nero» del medico avvelenatore per interesse, che non sembra diffuso nel V e IV secolo. Nel

LIBRO l

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rapporto al pericolo del mare?». «Il capitano». «Ma l'uomo giusto? In quali azioni e in rapporto a quale funzione egli è il più capace di giovare agli amici e di nuocere ai nemid?>>. «Nel portar guerra e nello stringere alleanze, a me pare». «Bene. Però a chi non è malato, amico Polemarco, un medico è inutile».19 «Vero». «E a chi non naviga il pilota». «Certo». «Dunque anche per chi non combatte il giusto è inutile?». «Questo non mi sembra proprio». , disse. «Ma riterrebbe opportuno pre­ varicare sull'ingiusto e penserebbe o no che questo sia giu­ sto?».58 «Lo penserebbe e lo riterrebbe, disse, ma non potrebbe». «Ma non è questo che ti chiedo, dissi io, bensì se il giusto non ritiene opportuno e non vuole prevaricare sul giusto, ma piuttosto sull'ingiusto?». «Così stanno le cose», disse. «E quanto all'ingiusto? Non riterrà opportuno prevaricare tanto sul giusto quanto sulla condotta giusta?». «Come no, disse, lui che ritiene di prevaricare su tutti?». «Non cercherà allora l'ingiusto di prevaricare anche sul­ l'uomo ingiusto e sulla sua condotta, e si sforzerà di prendere lui stesso la parte più grande possibile di tutto?». «È così».

H Discutere l'argomentazione, e non chi la sostiene, è del resto regola deU'elenchos, come Socrate dice in Prot. 333c. '8 Che il giusto voglia pleonektein sull'ingiusto è in contrasto con l'esito della discussione fra Socrate e Polemarco, se il termine mantiene il suo valore

di «prevaricare», «sopraffare». Socrate opera qui un gioco eristico, perché suppone da pane di Trasimaco la costanza di questo significato, mentre egli ne sta di fatto usando uno diverso, «doing more than or differently from» (SHOREY), «dépasser» (CHAMBRY), «prevalere» (ADORNO).

[c]

82

PLATONE, LA REPUBBLICA

«Così dunque concludiamo, dissi: il giusto non cerca di prevaricare sul suo simile ma sul diverso, mentre l'ingiusto sia [d]

sul simile sia sul diverso». «Ti sei espresso benissimo,>, disse. «Ma l'ingiusto, dissi, è intelligente e buono, il giusto né l'uno né l'altro?». «Va bene anche questo», disse. «Non ne viene dunque, dissi io, che l'ingiusto assomiglia all'intelligente e al buono, mentre il giusto non somiglia loro?». «E come potreb­ be, disse, il primo, che è tale, non somigliare al suo simile, a differenza dell'altro?>>. «Bene. Dunque ognuno dei due è tale quali sono quelli cui somiglia?». «Ma cos'altro sarebbe?». «Sia, Trasimaco. Dici che qualcuno è esperto di musica,

[e]

qualcun altro inesperto?». «lo sÌ». «Quale dei due è intelligen­ te, e quale no?». «L'esperto di musica, certo, è intelligente, l'i­ nesperto non è intelligente». «E nelle cose in cui si è intelligen­ te, non si sarà anche buono, in quelle in cui non lo si è, catti­ vo?». «Sì». «E per il medico non è così?». «Così». «Ti sembra allora, ottimo uomo, che un musicista accordando la lira voglia prevaricare su un altro musicista nella tensione o nell'allenta­ mento delle corde, o ritenga opportuno sopraffarlo?». «No

[350a]

certo». «E sull'inesperto di musica?». «È necessario», disse. «E per il medico? Nella prescrizione di cibi o bevande vorrà in qualcosa prevaricare su un medico o su una questione di medi­ cina?». . «Vedi tu se in ogni forma di scienza e di mancanza di scienza un qualunque scienziato sceglierebbe di sopraffare nelle azioni e nei discorsi un altro scienziato, e non si comporterebbe invece nello stesso modo del suo simile nella medesima azione». «Forse, disse, è necessario che almeno in questo caso le cose stiano cosÌ». «Ma

[b]

chi non ha scienza? Non vorrà prevaricare tanto su chi è scien­ ziato quanto su chi non lo è?». «Forse». «L o scienziato è sa­ piente?». «Dico di sì». «E il sapiente è buono?». «Dico di sì». «Dunque il buono e il sapiente non vorrà prevaricare sul suo simile, ma su chi è diverso e contrario». «Sembra>), disse. «Ma il cattivo e l'ignorante lo vorrà, sia sul simile sia sul contrario)).

LIBRO l

83

«Pare». «Ma allora, Trasimaco, dissi io, il nostro ingiusto non prevarica tanto sul diverso quanto sul simile? Non dicevi proprio questo?». «lo sì», disse. «Mentre il giusto non vorrà preva-

[c]

ricare sul simile, bensì sul diverso?». «Sì». >. «6

Eu prallein: l'ambivalenza dell'espressione («far bene» ed «essere feli­

ci») è necessaria alla chiusura dell'argomentazione di Socrate. Il rapporto fra i due significati è chiaramente segnalato in Gorg. 507c, che chiarisce il

senso

di

questo passo e ne costituisce il diretto antecedente. Eu praltomen (nel senso forte di felicità e anche di salvezza dell'anima) sono le due ultime parole della Repubblica, X 621d.

[354a]

PLATONE, LA REPUBBLICA

90

«Come no?,>. «Perciò, beato Trasirnaco, in nessun caso l'in­ giustizia è più giovevole della giustizia». «E questo sia, Socrate, disse, il tuo banchetto per le Bendi­ die». «Servito da te, dissi, Trasimaco, da quando sei diventato mite con me e hai smesso di essere violento. Però non ho man[b]

giato gran che bene, ma a causa mia, non tua. Come gli ingordi che si precipitano ad assaggiare i nuovi piatti man mano che vengono serviti prima di aver gustato nella giusta misura il pre­ cedente, così mi sembra di aver fatto anch'io: prima di aver trovato ciò che abbiamo ricercato all'inizio- che cosa mai sia il giusto67 -, l'ho abbandonato e mi sono lanciato nella ricerca se esso sia vizio e ignoranza oppure sapienza e virtù; infine, so­ pravvenuto un altro discorso ancora, secondo cui l'ingiustizia è più vantaggiosa della giustizia, non ho potuto trattenermi dal gettarmi su questo argomento abbandonando l'altro, sicché mi

[c]

accade a questo punto della discussione di non sapere nulla. Finché infatti non so che cosa è il giusto, tanto meno potrò sapere se si trova a essere una virtù oppure no, e se chi lo pos­ siede è infelice o felice>> [M].

67 tò Sh:awv &n 1tot'imiv: la fonnula classica dell'interrogazione dialet­ tica socrarica. La sua riproposizione in questa sede azzera, almeno formal­ mente, il lavoro svolto nel libro I e propone l'esigenza di riaprire l'indagine ex-nove. Sulla necessità che la ti·Frilge preceda la poion-Frilge cfr. P. STEM­

MER, op. ciJ. Introduzione n. 31, p. 44; anche T.C. BRICKHOUSE-N.D. SMJTH, op. cit. Introduzione n. 30, pp. 58 sgg. Sul problema del passaggio da una dimensione soggettiva-doxastica a una oggettiva-veritativa nella questione della giustizia insiste L. PALUMBO, "SoggettiVItà" e "oggellività" nel discorso introdullitJO de/14 Repubblicil di Pl4tone, «Atti Accad. Scienze Morali e Poli­ tiche Napoli», CVI 099.5) pp. 65-87.

COMMENTO AL LIBRO I

[A] Katabasis

l.

KatÉ�v xl)èç EÌç nElpatéì... Sappiamo da Diogene Laerzio che l'inizio della

Repubblica (pollakis

«fu trovato con moltissime correzioni e mutamenti»

estrammenen,

III

37). La notizia, che sembra risalire a una

buona tradizione accademica, è importante perché mostra co­ me Platone continuasse a manipolare i testi dei dialoghi anche dopo averli messi in circolazione (ma non "pubblicati", nel sen­ so moderno e definitivo del termine).1 Per quanto ora ci inte­ ressa, la testimonianza di Diogene rafforza, nel caso del nostro testo, una buona regola generale per l'interpretazione di Pla­ tone: le scelte linguistiche dovrebbero sempre venir prese sul serio, nel loro valore espressivo e simbolico. La particolare cu­ ra dedicata da Platone all'apertura della stessa una garanzia contro i rischi di

Repubblica è di per se over-interpretation che

qualche volta si possono correre nell'applicazione di questa re­ gola. La scdta di iniziare il grande dialogo con l'aoristo di kata·

bainein- un termine ricco di tradizione letteraria e culturale, e carico di un forte alone semantico - può difficilmente venire considerata casuale e insignificante. Spetta a Erich VOgelin2 il merito di avere richiamato il pre­ cedente omerico di 1

kateben, e di averne indicato le prime im-

Si veda in proposito H. THESLEFF,

Studies in P/atonie Chronology,

«Commentationes Human. Litterarum», Helsinki, LXX (1982) pp. 83-85.

E. Vt">GELIN, Ordine e storia. Lafi/oso./UJ politica di PL1Jone (1966), trad. it. Bologna 1986, pp. 108-15. L'ipotesi di VOgelin è respinta, senz'altro argo­ 2

mento che la contrapposizione di una «Startling simplicity» del testo platani-

PLATONE, LA REPUBBLICA

94

plicazioni ermeneutiche. Kateben eis Aiden, racconta Odisseo a Penelope nella sua prima notte a ltaca dopo il ritorno (Od. XXIII 252-53). Partendo da questa suggestione, Vogelin pro­ pone di interpretare il viaggio di Socrate al Pireo come una di· scesa in un Ade sociale e culturale. Non tutti gli sviluppi che VOgelin trae da questa intuizione sono accettabili, e d'altra pane egli non la utilizza in tutta l'ampiezza d'indagine che ri­ sulta oggi possibile.

È quindi necessario, in primo luogo, veri­

ficare la plausibilità di questa proposta ermeneutica; in secon­ do luogo, nel caso che essa risulti attendibile, collocarla nel quadro della tradizione culturale evocata dalla scelta platonica; infine, discutere le conseguenze che ne possono derivare per l'interpretazione complessiva del dialogo, e in panicolare della costruzione del personaggio Socrate che in esso ha luogo. 2. Katabainein in Platone Un controllo sui valori di katabainein in Platone dà risulta­ ti contraddittori, ma proprio per questo interessanti. Il verbo ha un senso debole e colloquiale in tutti gli altri dialoghi, dove significa in generale «scendere da luoghi alti verso il basso», ad esempio dai monti alla pianura in Leg. III 678c2; in un caso (Soph. 235b9) il termine ha un valore concettuale, ma pur sem­ pre debole, indicando la "discesa" lungo la procedura dicoto­ mica. C'è di più. In Theaet. 142a6, cioè proprio all'inizio del dialo­ go, katabainein è usato nell'espressione colloquiale di «scendere al porto», che equivale formalmente a quella con cui si apre la Repubblica. Questo sembrerebbe proibire ogni forzatura nell'in­ terpretazione del verbo nel nostro dialogo. Tuttavia, nella Re­ pubblica esso ha sempre un valore forte, riferendosi a situazioni di katabasis, cioè di discesa nell'al di là o comunque nelle viscere della terra. Non c'è di che meravigliarsi, perché la Repubblica contiene almeno tre racconti di katabaseis, anche se non dello co al suo «pesame simbolismo», da E. L. HARRISON, Plato's Manipulation o/ Thrasymachus, «Phoenix», XXI (1967) pp. 27-39.

COMMENTO AL LIBRO l, [A]

95

stesso tipo: quella di Gige, quella nella caverna", e quella, cano­ •

nica, di Er.3

È in questi contesti, e quasi solo in essi, che ricorre il cha­

nostro tennine. In 395d5 (Gige) si parla della discesa in un

sma della terra; in 519d5 e 520cl (caverna) la discesa è appunto katageion; in 614d7 (Er) si tratta della discesa delle anime dal ciclo alla terra sempre attraverso un chasma. in un

L'unico impiego del verbo che non si riferisca a una situa­ zione di

katabasis, ma che ha comtu1que un valore concettual­

mente forte, è in 511b8, dove esso designa la discesa" della •

dialettica dalla arche non ipotetica verso le idee. All'interno del testo della

Repubblica, dunque, l'eventuale valore debole, col­ kateben iniziale sarebbe un caso isolato; poco

loquiale, del

plausibile, data la forte presenza di temi "katabatici" in tutto il dialogo, e il particolare impegno stilistico dedicato da Platone alla sua apertura. D'altronde, riferire al termine il senso di un'allusione alla

katabasis odisseica o comunque tradizionale comporta una conseguenza impegnativa, e cioè quella di interpretare l'intero dialogo come una vicenda di "discesa", nell'Ade o in una simi­ le profondità oscura. A parte le verifiche che il primo libro può offrire a questa interpretazione, e che verranno discusse in seguito, si rende immediatamente necessario un controllo sulla conclusione della

Repubblica, dove dovremmo a questo punto

attenderci l'accenno alla "risalita". E infatti, alla fine del libro X, dove Socrate riprende la parola al posto di Er sostituendolo

è stato sug· VIDAL NAQUET, Le charseur noir, Paris 1981, p. }57, n. 110, e da

'Un rappono fra l'inizio della Repubblica e queste "discese" gerito da P. C.

SEGAL, 'The Myth was saved': Reflections on Homer and the Mythology of

Plato's Republic, «Hermes», CVI (1978) pp. H5-}6 (pp. 323-24). In panìco­ lare, C. SEGAI. (p. 3}4) mette in rilievo

il valore del vocabolo omerico thami­

:zein (I/. XVIII 386, 425: discesa di Teti alle case di Efesto; Od. V 88: visita di

è unito al panicipio katabainon in 328c6 a proposito della discesa di Socrate al Pireo. Per il rapporto con le discese di Gige ed Er cfr. anche K.F. MooRS, G/4ucon andAdeimantus on Justice, Washington 1981, p. 21, n. 73. Qualche accenno in proposito anche in}. HOWLAND, The Republic. The Odiney o/Philosophy, New York 1993, pp. 43 sgg. Hermes a Calipso), che

PLATONE, LA REPUBBUCA

96

nel ruolo di angelos (6!4d2), egli esorta a «seguire sempre la via verso l'alto» (tiìç èivro OOOU), praticando la giustizia insieme con l'intelligenza, affinché «sia qui, sia nel cammino di mille anni, possiamo esser felici» (E'Ò npO:ttOOJlEV, 621c-d). È dun­ que, circolannente, sulla prospettiva di una anabasis che si chiu­ de il dialogo aperto dal racconto di una "discesa".' 3. La tradizione della katabasis

Questi primi controlli ci autorizzano a esplorare lo spazio culturale della katabasis, nel quale la Repubblica sembra venire allusivamente collocata dalla sua parola inaugurale. All'inizio sta, naturalmente, la nekyia di Odisseo, alla quale abbiamo già fatto riferimento. Per quanto ci riguarda, il suo aspetto più interessante è lo scopo conoscitivo della discesa

ali' Ade: Odisseo vuoi consultare Tiresia per conoscere il suo destino (la nekyiomanthia è del resto un aspetto ben noto della cultura arcaica).' L'altra proto-katabasis nell'Ade è quella di Orfeo (DK Al); secondo qualche testimonianza, aneh' essa ha una dimensione conoscitiva («disceso nell'Ade e visto come stavano le cose lag­ giù ...», Kem 33 =Colli 4B2). Se la katabasis di Odisseo è certo quella più ricca di echi letterari, la discesa di Orfeo ha per il nostro discorso un maggior peso culturale, perché da essa si origina qud motivo "sciamanico", studiato da Meuli e Dodds,6 che conobbe una vasta diffusione nell'ambiente sapienziale arcaico, fino a diventare un vero e proprio topos tradizionale. Alcuni tratti importanti sono presenti nella leggenda dello iatromantis Epimenide: la sua discesa in un antron, seguita da

un lungo sonno (D.L. I 109); e il suo incontro, durante questo �

Ma di una anabasis del logos si parla anche in sede di una prima (e

provvisoria) conclusione del dialogo, in IV 445c5. 'Cfr. KAtabasis in RE X 2, coll. 2372 sg. 6

Il riferimento è agli studi ormai classici di K. MEULI, Scythica, «Her­

mes», LXX (1935) pp. 137 sgg.; e di E.R. Dooos, The Greeks and the

lrrational, Berkeley-Las Angeles 1951.

COMMENTO AL UBRO l, [A]

97

sonno profetico, con Aletheia e Dike, figure di cui non sfuggirà Ja connessione con Pannenide, e, indirettamente, con il nostro stesso dialogo. Altrettanto significative sono naturalmente le katabaseis di Pitagora. Secondo una versione (D.L. VIII 21), nella sua disce­ sa all'Ade egli vi incontrò una sacerdotessa delfica dal nome significativo di Themistoclea, dalla quale avrebbe appreso la facoltà mantica. Secondo un'altra, ironica (D.L. VIII 41), egli si sarebbe invece costruito una dimora sotterranea (kata ges

oikiskon), dove la madre l'avrebbe raggiunto ragguagliandolo circa gli eventi quotidiani, sicché egli avrebbe potuto racconta­ re al ritorno di aver soggiornato nell'Ade e di avervi conosciuto quanto accadeva neJ mondo degli uomini. Secondo Burkert,7 questo aneddoto va tuttavia interpretato alla luce del racconto erodoteo (Il 122-23) della vicenda del re egiziano Rampsinito. Sceso nell'Ade, costui vi avrebbe incontrato una divinità ma­ terna come Demetra (la chiave, dunque, della "madre" di Pi­ tagora). È notevole che nello stesso contesto Erodoto rivendi­ chi l'origine egiziana delle idee greche (cioè orfico-pitagoriche) sull'immortalità e la trasmigrazione delle anime. È ancora Ero­ doto (IV 95) a raccontarci Ja storia di un personaggio noto a Platone, lo iatromantis Zalmoxis (Charm. 156d), che lo connet­ te a un'altra figura sciamanica, Abaris lperboreo (Charm. 158b). Servo di Pitagora da un lato, Trace dall'altro (e questo è inte­ ressante per il I libro della Repubblica), Zalmoxis avrebbe si­ mulato una finta morte come prova della propria immortalità (secondo l'incredula versione d·'odotea), una volta «sceso giù nella caverna» (katabas [ .. ] kato es lo katageon). Questi racconti di katabasis presentano alcuni tratti domi­ .

nanti. La discesa all'Ade, sottoterra, nel mondo oscuro dei mor­ ti, comporta di solito l'incontro con una divinità femminile (dea madre, come Demetra, o profetessa), connessa con la cono7 Cfr. W. BURKERT, Das Pro> (Theaet. 183e) fa dunque sentire la sua presenza in Platone, e nel nostro dialogo in particolare. Se si accetta la dimensione "katabatica" cui viene fatta al­ lusione nell'apertura del I libro, ne conseguono alcune impli­ cazioni sulla fisionomia dell'intero dialogo, e in particolare sul­ la costruzione del personaggio Socrate, che occorre ora met­ tere in luce sia pure a titolo di ipotesi. In primo luogo. Chi compie la katabasis è certamente un uomo eccezionale, un kouros degno di iniziazione, un poetaghi, «Philologica», II (1993) pp. 3-22 (spec. 15 sg.). Ma è inoltre d'obbligo il riferimento a E. ROHDE, Pryche (1890-94), trad. it. Bari 1970Z.

COMMENTO AL LIBRO l, [A]

101

sciamano alla ricerca della verità; non però ancora un vero sapiente, perché la sapienza, e la capacità di trasmetterla dopo I'anabasis, viene ottenuta solo grazie alla discesa e alla rive· !azione che al suo tennine si ottiene.12 Al contrario di quanto pensa Szlezak," dunque, al momento di scendere al Pireo So­ crate non è ancora "fùosofo",anche se ha le qualità umane ne· cessarle per diventarlo. La discesa al Pireo è del resto motivata dal desiderio di Socrate sia di rendere onore alla «dea», sia di «osservare» (theasasthai) lo spettacolo delle processioni. Da questo secondo punto di vista, Socrate è dunque caratterizzato come quel philotheamon, l'amante di spettacoli che pratica la

theoria nel senso primitivo e non sublimato del termine, al quale verrà contrapposto il philosophos in V 479a (Trasimaco definirà inoltre Socrate philotimos., ambizioso di fama nel­ l'agone confutatorio,336c). Socrate scende dunque al Pireo al­ la ricerca di conoscenza,ma non la possiede ancora né è in gra­ do di insegnarla. Allo stessa·modo,l'asty da cui Socrate scende verso il mon­ do infero, notturno e barbarico del Pireo non è la «Vera città», ma piuttosto la confusa Atene dd suo tempo; la sua luce è quel­ la del barbarica, dovrebbe costituire il luogo della rivelazione per il Socrate ini­ ziando. E di fatti lo è,ma non senza uno straordinario capovol­ gimento ironico di tutta la imagerie "katabatica,. che Platone è venuto fm qui costruendo per via di allusioni. Non c'è nessuna rivelazione di una dea profetica a rendere Socrate sapiente,a farne un filosofo. Questa conquista può es­ sere ottenuta solo attraverso il confronto, l'inchiesta, il lavoro 12

Il testo orficheggiante di Phaed. 68a-b parla del resto dell'Ade come

unico luogo in cui trovare la sapienza nella sua interezza. 11

Cfr. T.A. SZLEZAK,

Pl4tone e 14 scrittura de/14/iloso/ia (1985), trad. it. Repubblica sono a

Milano 1988; le importanti considerazioni sul I libro della pp. 354 sgg.

PLATONE, LA REPUBBLICA

!02

dialettico che devono aver luogo pazientemente nel contatto con le zone "infere" della città, i suoi strati sociali, le sue tradi­ zioni culturali, i suoi conflitti politico-ideologici. Se vuole alla fine educare la città, Socrate deve prima "discendere" nelle sue profondità, apprendere da essa, !asciarsene confutare. Dice Cefalo usando un solenne lessico america: «Socrate, non vieni certo spesso a visitarci (thamizeis) scendendo al Pireo. Eppure dovresti (chren mentoi)>> (328c7 -8). Per questo, nonostante la sua prima intenzione, Socrate non può ancora tornare all'asty prima di aver portato fino in fondo la sua katabasis. Né il luogo in cui essa accade, né la folla dei personaggi che Socrate incontra, sono privi di significato.

È stato detto che il Pireo fu il primo melting-pot

14

della

cultura greca. Ma per Platone il grande porto è uno spazio in­ quietante e temibile: dal mare viene «una varietà disordinata

di

costumi cattivi»; esso costituisce una «molto salata e amara vicinanza. Perché ciò riempie lo stato allora di traffici e di pic­ coli affari commerciali, e facendo nascere in esso, nei suoi cit­ tadini, costume di incostanza nelle promesse e di falsità, lo rende infido e nemico di sé nei suoi rapporti interni e parimen­ ti nei riguardi degli altri uomini all'estero» (Leg. IV 704d sg., trad. Zadro). Nella topografia psicosomatica tracciata dal Ti­

meo (69d sgg.), il Pireo corrisponderebbe senza dubbio alle zone inferiori, separate dall'acropoli razionale della testa dall'i­ stmo formato dal collo. Non solo però al ventre. Sullo sfondo della katabasis socratica sta la folla dei Traci, i quali sono por­ tatori di valore guerriero, dominati quindi dallo thymoeides

(Resp. IV 435e). Le figure di primo piano rappresentano l'intero spettro so­ iale e ctÙturale della polis. Cefalo, meteco e ricco crematista, è certamente un personaggio legato al porto e al complesso pas­ sionale che vi domina, la epithymia; egli prefigura tuttavia, se­ condo i modi della tradizione popolare, quella sophrosyne che Platone considererà come la virtù propria e necessaria 1�

di que-

Cfr. P. FRJEDLANDER, Plato (1957), trad. ingl. London 1964, vol. Il, p. 51.

COMMENTO AL LIBRO I, (A]

103

sto strato sociale. I figli di Cefalo, Polemarco e Lisia, sono intellettuali di parte democratica in via di ascesa sociale; il pri­ mo verrà costretto a bere la cicuta dai Trenta tiranni nel 404, costituendo così (al pari di Nicerato, figlio di Nicia, personag­ gio muto del dialogo e altra vittima dei Trenta) una corrispon­ denza simmetrica rispetto al destino di Socrate (a segnalare la pari caratteristica di violenza di entrambi i regimi contrappo­ sti). Ci sono poi gli intellettuali sofistici di simpatie oligarchi­ che, legati alla cultura di critica della polis, come Clitofonte e soprattutto Trasimaco.1' E ci sono infine i fratelli di Platone, Glaucone e Adimanto, giovani aristocratici vicini alla cerchia di Crizia, il futuro capo dei Trenta. Con tutti costoro Socrate deve confrontarsi, nello scontro delle reciproche confutazioni e nel conflitto di culture. U dialo­ go si configura così come una sorta di Bildungsroman del per­ sonaggio Socrate, nella sua progressiva trasformazione in filo­ sofo. Dai suoi interlocutori Socrate è costretto a elevare via via

il livello concettuale e teorico del discorso, riconoscendone in­ sufficienze e lacune e cercando ogni volta di superarle median­ te il soccorso di nuove strutture fondazionali (in questo senso resta valida la teoria del "soccorso" proposta da Szlezàk). Solo alla fine di questo percorso, Socrate potrà imboccare, come le anime orfiche e come l'iniziato Parmenide, quel bivio che porta alla periagoge, alla vera epanodos che sale dall'Ade verso la luce (Resp. VII 52 le), dal katageion allo splendore (phos) del sole (ivi, 532b). Ma la via del ritorno non porta all'asty da cui Socrate era partito bensì alla kallipolis - che è, insieme, «paradigma nel cielo», «fondazione di se stessi», e compito della praxis teori­ co-etica del filosofo (Resp. IX 592a-b). Proprio questo compi-

11

L'importanza di Trasimaco è segnata dal fatto che �r ben due volte

(338a, 344d) gli astanti si impegnano per ­ logia 22c-e, dove Socrate dichiara di aver trovato nell'ambiente dei cheirotechnai e dei demiourgoi, degli artigiani e dei tecnici, quegli elementi di sapere e di competenza che mancavano inve­ ce alle figure cui erano tradizionalmente assegnati il governo e la guida intellettuale della città, i politici e i poeti. E ne sono prove tanto i ripetuti sarcasmi dei suoi interlocutori nei dialo­ ghi, 1 quanto penino il decreto del tiranno Crizia, che secondo Senofonte (Mem. I 2.32-37, 52), avrebbe proibito a Socrate di continuare la sua frequentazione di calwlai, fabbri e falegnami, che evidentemente stava diventando politicamente fastidiosa. Questo atteggiamento socratico non può destare meravi­ glia. Lo sviluppo dei saperi tecnici e delle relative professioni era stato certamente uno dei fatti socialmente e intellettual­ mente più rilevanti della seconda metà del V secolo.' La parola 1

Si veda ad es. il fastidio testimoniato da un personaggio di tendenza oli­

garchica come a Callide dd Gorgia: .Jlcr gli dè:i., tu non hai in bocca che cal­

zolai, cardatori, cuochi, medici, come se a nostro discorso avesse per argo­ mento tale gente!» (490e). 2 re

Per l'impatto culturale ddlc techMi nd V secolo, mi limito qui a rinvia·

a D. LANzA, Lingw

e discorso nell'Atene delle professioni, Napoli 1979, c a

194

PLATONE, LA REPUBBUCA

tecbne aveva cominciato a designare una impressionante va­ rietà di competenze e di mestieri, dalle arti figurative alla reto­ rica, dalla medicina alla nautica all'architettura, fino al lavoro, appunto, di fabbri, falegnami e calzolai Oa vastità di questo ambito rende in effetti inadeguate tutte le traduzioni dd termi­ ne, da quella tradizionale di .. arte" alla stessa "tecnica,. che qui si è preferita)., Si tratta, naturalmente, di competenze e prati­ che che erano in un modo o nell'altro esistite da sempre. La novità era che nello spazio urbano e nel contesto politico della democrazia esse avevano conquistato una dignità e un presti­ gio che consentiva loro di considerarsi come forme autonome e compiute di sapere, non più subordinate alla vecchia sapien­ za totalizzante dei poeti, dei sophoi ispirati, dei "maestri di ve­ rità". Una novità, questa, che era stata precocemente segnalata da un intellettuale di primo piano nell'Atene periclea come Anassagora: il sapere si articola secondo lui in un movimento che va dall'esperienza al suo consolidamento nella memoria

alla formazione �apienia (sophia), per culminare appunto nella techne (B21b);4 e che si trattasse di quella pratica che

C.A. VIANO, l.4 u/va delle somiglianze, Torino 1985; ma il miglior quadro generale, in rapporto a Platore, è quello di G. CAMBIANO, P!dtone e le tecni­ che, Roma-Bari 199tl. 1

Una lista in qualche modo archetipica delle technai è quella offerta nel

IIepisodio del Prometeo incatenato di Eschilo (vv. 436 sgg.), che annovera fra le sco�rte offerte agli uomini dal titano l'architettura, l'astronomia, la mate­ matica, la scrittura, l'addomesticazione dei cavalli, la nautica, la medicina, la mantica, la metallurgia (per una �cente attribuzione dell'opera alla cultura so­ fistica cfr. B. MARZULLO, I so/ismi di Prometeo, Firenze 1993). Altrettanto va­ riata è la nomenclatura dei professionisti delle technai: al più generico techni­ tes («tecnico»), si affiancano l'omerico demiourgos (ad es. Od. XVII383 s&g., dove il termine vale «chi offre una prestazione pubblica» e designa l'indovino, il medico, il costruttore e l'aedo), e cheirotechnes, più recente, che vale talvolta (>(lavoratore manuale» in opposizione al capo-tecnico, es. ARIST., Met. I l 98la31). Itre termini compaiono però già in AntiCA medicina, l, 4, per indi­ care il medico "professionista n, e questo valore permane di solito in Platone. 4

Si veda in proposito il commento ad loc. di D. LANZA in Anassagora

Testimonianze eframmenti, Firenze 1966.

COMMENTO AL LIBRO l, (F]

195

combina competenza specifica con l'esercizio di un mestiere, Anassagora lo indicava con la tesi che è proprio il possesso delle mani (lo strumento principale del lavoro tecnico) a deter­ minare la superiorità dell'intelligenza umana su quella animale (DKAl02)' I caratteri delle technai che si imponevano all'attenzione

della cultura di questo periodo, e che spesso venivano esplici­ tamente rivendicati dai loro detentori - un ruolo di guida spet­ tò da questo punto di vista ai medici -si possono rapidamente riassumere. Esse rivendicavano il controllo di un sapere specia­ lizzato, in grado di dominare il proprio campo di esperienza mediante procedure razionali e pubblicamente descrivibili, e di ottenere nel suo ambito risultati efficaci. Esse rivendicavano altresì una piena autonomia, nel proprio ambito e relativamen­ te alle proprie procedure e ai propri risultati: i medici rifiutava­ no ad esempio, in opere programmatiche come Antica medici­ na e la Natura dell'uomo, che la loro techne potesse venir ricon­ dotta nell'ambito della fùosofia della natura empedodea o del­ l'ontologia eleatica, entrambe viste come manifestazioni arcai­ che di una sophia totalizzante. 6 Le technai esibivano inoltre una capacità di trasmissione e di insegnabilità, che significa anche accumulo progressivo di conoscenze nel tempo, e che è in larga misura resa possibile

' Sul rapporto fra Anassagora, il tema della manualità e l'ambiente deUe technai (in particolare la medicina) cfr. G. CAMBIANO, Le médecin, la main e l'artisan, in «Corpus Hippocraticum», Moos 1977 (pp. 220-32), e M. VEGET­

TI, Il De /ocis in homine fra Anassagora e Ippocrate, >

(òpOiilç À.o'ytço�tÉvcp, 339a3), capace di rilevare l'inva­ (navtaxoU tò aùtO, ivi).

rianza dei termini concettuali

J.:akribologia (340e2), il richiamo al «massimo del rigore» (lo akribestaton, 340e8, 341b8), il ricorso al ragionamento al limite (344a), sono tratti che ricorrono insistentemente nel

lin­

guaggio di Trasimaco, e che servono senza dubbio a Platone per segnalarne tanto la collocazione culturale quanto il senso del ruolo che egli svolge nel dialogo. Saphes, orthos, aknbes sono nel V secolo altrettante parole d'ordine di una metodologia d'avanguardia, che privilegia l'ac­ certamento rigoroso dei fatti, il ragionamento stringente, la certezza e la chiarezza dei risultati, rispetto alle vecchie forme di accesso alla verità tramite la rivelazione e l'autorità della tra­ dizione. Questo schieramento epistemologico accomuna la me­ dicina ippocratica, la storiografia di Tucidide, e naturalmente la sofistica di Protagora e di Prodico. 5 In campo medico, questi termini caratterizzano uno scritto metodologicamente centrale come Antica medicina (eidenai to saphes 1.21; eidenai to akribes, 9.22; e cfr. Ae·r 1.1, orthos z.etein; Progn. 25, orthos proginoskein; ancora VM 13, orthos ietreu­ ein). La «corretta ricerca dei fatti» è al centro del programma ' Su questi concetti metodici in Tucidide e nella medicina "ippocratican cfr. K WEIDAUER, Thukydides und die HippokratischenSchri/ten, Heidel�rg

1954, pp. 50 sgg.; H. HERTER, Die Tre//kunst des An:tes in hippokratischer und platonischerSicht, ccSudhoffs Archiv», XLVII (1963) pp. 247-90. Si veda anche il commento di M. VEGETil in Ippocrate. Opere, Torino 19762, p. 199. Per l'uso di orthon nella filosofia preplatonica cfr. A. BRANCACCI, Le vrai e le droit.·la notion d'orthon chez Mélissos, in J.F. MAnti (éd.), lA naissance de la raison en Grèce, Paris 1990 (pp. 197-206).

COMMENTO AL LIBRO l, [!]

239

metodologico di Tucidide (1140.2), che condivide inoltre con i medici tanto l'esigenza di saphes quanto quella di akribeia. Per la sofistica, è appena il caso di ricordare l'attenzione ponata da Protagora (DK AIO) e da Prodico (DK Ali, 16) al problema della orthotes linguistica e concettuale.

È da notare che il linguaggio del «rigore» e della «corret­ tezza» si oppone costantemente a quello della verità e dell'esse­ re, di chiara derivazione pannenidea e di largo uso platonico. Se per esempio nell'Edipo re di Sofocle il primo contrappone il sapere "moderno", indagatore, di Edipo a quello arcaico, rive­ lato, del mantis Tiresia,6 nel I libro della Repubblù:a è prevalen· temente Socrate a impiegare, diversamente da Trasimaco, locu­ zioni connesse ad aletheia ed einai: si veda ad esempio l'en­ fatica locuzione socratica té!} Ovtt àì..118tvòç clpxoov (347d4), che costituisce un indubbio rinvio ai fùosofi re del libro V. SW piano del metodo, Platone raffigura dunque Trasimaco come allineato alle tendenze moderne del sapere della sua epoca, che contrappongono lo stile epistemologico della ricer­ ca rigorosa, della correttezza delle procedure, della certezza dei risultati acquisiti, al vecchio rapporto con una verità coe­ stesa all'essere e ottenuta tramite la rivelazione o l'autorità, che poteva farsi risalire a Parmenide e all'orizzonte sapienziale arcaico, a matrice religiosa. Tutto questo non serve però soltanto a caratterizzare la collocazione culturale che Platone assegna, come ci si poteva attendere, al "sofista" Trasimaco. Le sue dichiarazioni di meto­ do definiscono inoltre a mio avviso il ruolo che gli viene speci­ ficamente assegnato nel dialogo: quello appunto di rigorizzare, di portare alle conclusioni estreme e alla massima chiarezza tesi diffuse nella cultura cui egli appartiene e che tuttavia non erano mai state descritte con altrettanta precisione.

È ovvio che questa interpretazione rigorizzante non può venire attribuita, per quel che ne sappiamo, al Trasimaco "sto­ rico", bensì alla potenza del pensiero di Platone; ma è altret�cfr. in proposito M. VF.ClTn, Tra Edipo e Eucilde, Milano 1983. pp. 23 SAA.

240

PLATONE, LA REPUBBLICA

tanto ovvio che egli aveva bisogno di un ponavoce per questa sua rilettura di tesi altrui, e lo trovava nel logografo potente e violento (come, nel II libro, avrebbe usato per funzioni simili i suoi stessi fratelli, giovani aristocratici senza dubbio di simpa­ tie oligarchiche e sofistiche).

4. La pn'ma tesi di Trasimaco È ora il momento di vedere quali siano le tesi che Trasima­ co rigorizza sulla base dei suoi presupposti metodici; quali sia­ no i loro presupposti culturali e i loro avversari; se esse siano coerenti tra loro; in quale misura esse siano confutate da Sacra­ te, e quale ruolo esercitino nel seguito dd dialogo. La prima tesi {di qui in poi Ta) è formulata da Trasimaco secondo un'efficace modalità retorica, in cui la conclusione anticipa la dimostrazio­ ne. ll «giusto», egli asserisce con forza, non è altro che l'«utile del più forte» (toiì Kpeinovoç au�upÉpov) (338c). Infatti (l) giusto è ciò di cui le leggi impongono l'osservanza; (2) ma le leggi sono promulgate da chi detiene il potere (!o archon), quale che sia la forma costituzionale del potere stesso, tirannica, ari­ stocratica o democratica; (3) fine ultimo delle leggi è quello di conservare il potere di chi le emana; (4) «fone» è chi detenga il potere, singolo, gruppo o maggioranza secondo le varie costitu­ zioni; (5) quindi «giusto» è per i sudditi l'ossequio alle leggi emanate dal potere dei forti, e perciò stesso «giusto» coincide con l'interesse di questi a mantenere il loro potere (338d-e). È ben difficile sopravvalutare la forza di questa tesi di Tra­ simaco, che combina in modo originale e rigoroso due diverse posizioni entrambe diffuse nel pensiero etico-politico del V secolo: il positivismo giuridico (Rechtpositivismus) di (1), e lo smascheramento della natura del potere - di qualsiasi tipo di potere (Machtpositivismus) di (2-4). La potenza della rigorizzazione operata da Trasimaco può venire meglio compresa attraverso un confronto sia pure som­ mario con le posizioni che essa sintetizza e supera per livello concettuale.

COMMENTO AL LIBRO l, [l]

241

L'identità o la stretta coimplicazione di dikaion e nomi­

mon, di giusto e legale- cioè la concezione della giustizia come osservanza delle norme politico-giuridiche sancite dalle leggi e dai tribunali - era profondamente radicata nella cultura greca. Essa disponeva all'inizio di una sanzione religiosa. In Esiodo Eunomie, la buona legge, era sorella di Dike ed entrambe erano figlie di Zeus (Th. 901 sg.), a significare l'origine divina della legge e a garantire la sua congruenza con la giustizia volu­ ta dalla divinità. Ed Eunomie è ancora divinizzata nel pensiero di Solone, il prato-legislatore di Atene (3.30 sgg.). Ancora nelle Eumemdi di Eschilo, le nuove leggi e i nuovi tribunali incarica­ ti di amministrare la dzke sono posti sotto la garanzia di Atena, la divinità poliade (vv. 468, 483-84, 57 1-72). Ma anche quando la polis, la sfera politica e la sua ideolo­ gia sostituiscono la vecchia garanzia religiosa, la stretta impli­ cazione di legge e giustizia non viene meno: anzi essa risulta ora rafforzata dall'autonomia della dimensione giuridico-poli­ tica e dal dominio che questa esercita suil'insieme della vita so­ ciale.; Un grande sofista come Protagora assegnava alle leggi il compito di raddrizzare e correggere la personalità morale dei cittadini (Pro!. 326c sg.); e riteneva che la città, nella sua auto­ nomia, fosse con le sue leggi la norma e il criterio del giusto («ciò che per una data città appare giusto e bello, codesto an­ che è, per quella data città, giusto e bello, finché così essa re­ puti e sancisca» (Theaet. 167c). 7

La secolarizzazione di nomos, che non intacca il suo rapporto con dike.

è sc�nalata nel frammento del SISi[o �eneralmcntc attribuito a Crizia (DK 825), che anche per questo aspetto rappresenta dunque uno dei prota�onisti del dibattito etico-politico di fine V secolo. La le�ge è un'invenzione umana per dare ordine alla vita, ed essa istituisce una ��iustizian che viene ora signi· ficativamente chiamata tyrannos. In particolare sul ruolo delle Eumenidi si ve· da

C. MEIER, LJ nascita della catt·goria da politico in Grecia (1980), trad. it. 1989. Più in generale, dr. M. GJG,\NTE, Nomos bastleus, Napoli 1956: M. OSTW',\LD, NomOI and the beginnings o/ Athenian Democracy, Oxford 1969: J. DE Rm.ttLLY, La Joi da m la pt·mée grecque d es origineJ ò Amtote, Paris 1971. Si veda anche M. VEGETI!, L'etica degli antichi, Roma· Bari 1990, pp. 37 SAA· Bologna

242

PLATONE, LA REPUBBLICA

Nello stesso ambiente culturale, il sofista noto come «1'a­ nonimo di Giamblico» aveva sostenuto che nomos e dikaion costituiscono insieme la condizione di possibilità della convi­ venza umana nella polts (3.6, 6.1). Non c'è motivo di dubitare che anche il Socrate "storico" condividesse in larga parte questa posizione così radicata nella tradizione del pensiero della polis. Secondo Senofonte, Socrate sosteneva che anche se la legge è una convenzione mutevole fra i cittadini, il «giusto» non è altro se non ciò che è conforme alla legge, nomimon e dikaion sono la stessa cosa (Mem. IV 4.12): «è lo stesso vivere nella legge ed essere giusto» (Mem. IV 4.18); con una chiara memoria esiodea e soloniana, Socrate aggiunge­ va che «anche agli dèi è gradita l'identità fra ciò che è giusto e ciò che è conforme alla legge>> (IV 4.25). E non si tratta solo del Socrate senofonteo, perché quello platonico del Critone sostiene tesi assai simili. Non c'è virtù senza giustizia, e la giustizia consiste primariamente nel rispet­ to della norma positiva sancita dalla legge, che costituisce il patto di convivenza tra i cittadini Le leggi personificate - pa­ dri e madri dei cittadini- ricordano a Socrate che egli ha sem­ pre insegnato che «la vinù e la giustizia (are/eldikaiosyne) sono il più alto valore per gli uomini, insieme con le leggi e le loro disposizioni (nomima/nomot)» (Crit. 53a sgg.). La premessa di Trasimaco (Tal) è dunque saldamente radi­ cata nelle convinzioni diffuse nella cultura tra V e IV secolo, e non può in quanto tale venir messa in discussione neppure da Socrate. Trasimaco va però radicalmente oltre questa premessa, non nel senso di confutarla bensì piuttosto nel senso di uno sma­ scheramento della sua natura ideologica. Dietro la legge e la giustizia che essa promulga e sancisce, non stanno né gli dèi né la volontà concorde della comunità dei cittadini, bensì la pura realtà del potere. L'uso del termine astratto to archon (338dl0) rappresenta adeguatamente lo sfor­ zo di rigorizzazione concettuale che Platone attribuisce a Tra­ simaco. È il potere che detiene la forza (kratos) nella città, in

COMMENTO AL LIBRO l,[/]

243

primo luogo la forza per emanare le leggi e quindi sanzionare ciò che è giusto. E c'è una logica interna al potere- a ogni for­ ma di potere- per la quale esso opera e legifera nel proprio in­ teresse, che è anzitutto l'interesse del proprio consolidamento e della propria stabilità (338e). Che !'> (technites), essi possono sbagliare, emanando leggi che nelle intenzioni sono funzionali al potere, ma nei fatti gli sono nocive. In tal caso, obbedire alle leggi significherebbe, per i sudditi, fare non l'interesse ma il danno dei potenti. Di fronte a questa obiezione, Clitofonte, che appoggia Trasimaco, propone una rifonnulazione di Ta: giu­ sto è fare ciò che i detentori del potere ritengono, a torto o a ra­ gione, sia il loro interesse (340b). Trasimaco non accetta questa proposta,1) probabilmente perché non desidera invischiarsi nelle insidie del rapporto essere/apparire, sapere/opinare, do­ ve Socrate è notoriamente temibile. La sua replica è invece ti­ pica del suo stile rigorizzante. La condizione di verità di Ta consiste nel fatto che essa contempla "veri" detentori di pote­ re, i quali in quanto tali non sbagliano, come non sbaglia un medico in quanto medico, cioè come detentore di una techne.

ll governante che sbaglia cessa di essere kreitton, come il medi­ co che sbaglia non è più medico perché nel momento dell'erro­ re egli esce dall'ambito della sua techne.14 11 Tra le varie ipotesi proposte circa il rifiuto di Trasirnaco di accettare il ANNAS, An lntroduction to Plato's Republic, Oxford 1981, p. 42: Trasimaco non vuole suggerimento di Clitofonte, la più plausibile sembra quella di J.

adottare una posizione semplicemente convenzionalista (perché gli interessa

di questa sta la logica rigorosa dd potere). 1• U livello rigoroso del discorso di Trasirnaco ftnisce per venire accettato

mostrare che a monte

esplicitamente da Socrate (che a 341c parla di ò ti!J àJCpl�Ei Ài:!y� iatpéçl.

PLATONE, LA REPUBBLICA

248

ll secondo assalto si svolge in due tempi. Nel primo (341c343b) Socrate ricorre al modello delle tecniche, sostenendo che ciascuna di esse opera non nel proprio interesse ma in quel­ lo dell'oggetto cui essa è preposta: così il medico lavora nel­ l'interesse della salute dei corpi. La risposta di Trasimaco è sec­ ca e a questo livello inconfutabile: i pastori non lavorano nel­ l'interesse del gregge ma nel proprio; se lo proteggono e lo nu­ trono, è solo per realizzare un guadagno al momento della ven­ dita o della macellazione. Socrate deve allora rendere più com­ plesso il proprio argomento (345c-346d). Egli inventa una nuova techne, la misthotlke o tecnica del salario. La tecnica medica è finalizzata alla salute e non al compenso del medico; in quanto egli si procura il guadagno, esercita, oltre la medici­ na, appunto la misthotike. Ma l'argomento è fallace. O la mi­ sthotike non è una techne (e allora il guadagno del professio­ nista torna a essere un aspetto della sua tecnica primaria), op­ pure lo è: ma in questo caso esiste almeno una tecnica che non è di servizio ma che opera in funzione solo del vantaggio del suo esperto. Questo viola la definizione generale di techne se­

condo Socrate, e potrebbe permettere a Trasimaco di sostene­ re che la politica è una tecnica del tipo della misthotike (cfr. qui [L]). Per evitare questo imbarazzo, e continuare a sostenere la sua tesi di un potere di servizio esemplato sulle technai, Sacra­ te deve allora ricorrere a una constatazione che egli vorrebbe presentare come fattuale (345e-347d). Che il potere non sia in se stesso profittevole, è dimostrato secondo Socrate dal fatto che chi vi accede deve venire com­ pensato con un'apposita retribuzione. Sul piano concettuale, questa considerazione non è soddisfacente perché riproduce la contraddizione della miSthotike (grazie al compenso, il potere diventa profittevole); ma soprattutto non rappresenta un dato di fatto, perché Socrate non può ignorare la competizione per

il potere esistente al suo tempo, che basta a dimostrare come la conquista del potere stesso sia universalmente considerata desiderabile (quindi profittevole in un modo o nell'altro). So-

COMMENTO AL LIBRO l, (I]

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crate deve allora introdurre una restrizione morale: sono gli uomini migliori (epieikeis, 347bl) coloro che non desiderano il potere e lo assumono solo per evitare di essere governati da altri peggiori di loro. Soprattutto, Socrate deve rinviare la sua concezione del potere come servizio, e pertanto non desidera­ bile né profittevole, al futuro dell'utopia («se esistesse una città di uomini buoni...)), 347d). In questo modo, Socrate sopprime il valore fattuale della sua considerazione: non è vero che, oggi, e per gli uomini che partecipano di fatto alla competizione politica, il potere sia considerato non desiderabile né profitte­ vole. La tesi di Trasimaco resiste quindi anche a questo secon­ do assalto, e Socrate sembra darne atto quando conclude prov­ visoriamente: «In questo dunque da parte mia non concordo affatto con Trasimaco, che il giusto sia l'utile del più forte. Ma su questo dovremo certamente tornare a indagare)) (347d-e).

La forza della prima tesi di Trasimaco sta nel suo carattere interamente e puramente politico, cioè nel suo essere centrata sulla questione del potere. Trasimaco non si riferisce ad alcun diritto naturale (physei), a differenza dal Callide del Gorgza e da simili posizioni sofistiche alla maniera di AntifonteY Supe­ rando d'altra parte i limiti di una morale individuale (Cefalo) o di fazione (Polemarco), egli svolge il ruolo fondamentale di co­ stringere il dialogo- e Socrate stesso- a elevarsi al livello della politica, e ad affrontare radicalmente la questione del potere. Del resto, le strutture portanti della tesi vengono implicita­ mente accettate da Platone. Questi non metterà mai in dubbio la coimplicazione di legge e giustizia (che assumerà, nel libro IV, la forma articolata di una gerarchia di funzioni e di poteri nella città e nell'anima). Tanto meno metterà in dubbio che lo scopo della legislazione consista nell'assicurare la stabilità del potere, che viene ora principalmente demandata alle strategie 1' Contro G.B. KERJ'ERD, art. cit. (n. 2), che attribuisce a Trasimaco una 562), cfr. le �iuste obiezioni di E.L. HARRISON, art. cit. (n.}), p. �2. Cfr. in questo senso anche E. SntOT· RUMPI', Konventionelle Vorstellun?,cn Uber Gerechtigkeit, in O. HOFFE (hsg.), Platon Politeia, Berlin 1997, pp. 29-5}.

concezione fondata sulla natura umana (p.

PLATONE, LA REPUBBLICA

250

educative legiferare dalla polis, ma che non esclude neppure, come ha notato Broze,16 il ricorso alla menzogna pubblica e alla coercizione violenta, giustificate appunto dall'esigenza di sta­ bilità. La sola vera risposta di Platone a Trasimaco consiste allora nello sforzo di garantire la qualità etica del potere a monte del sistema leggi-giustizia-stabilità. Questa risposta verrà data solo nel libro V, e consisterà nell'affidare il potere a un gruppo di fi­ losofi selezionati intellettualmente e moralmente, oppure a re/tiranni filosoficamente riqualificati. Ma per evitare che sem­ pre di nuovo il sympheron degli archontes tomi a essere privato o di gruppo, e garantire invece che il loro interesse coincida con quello universale della comunità, occorrerà inoltre attuare le riforme "comunistiche" discusse a partire da III 416a sgg. e fino al libro V (abolizione della famiglia e della proprietà pri­ vata per gli archontes). Questo "comunismo" appare così reso necessario dalla sfida di Trasimaco, come l'unico modo per su­ perare il suo altrimenti invincibile smascheramento della natu­ ra del potere, e per garantire in modo radicale la funzione di "servizio" collettivo che Platone attribuisce al potere. 6. La seconda tesi di Trasimaco

La seconda tesi di Trasimaco (Th) si apre con la dichiara­ zione che «la giustizia è un bene altrui» (343c), nel senso che essa consiste nel rispetto di leggi promulgate nell'interesse dei potenti e non dei loro sudditi; di conseguenza l'ingiustizia rap­ presenta un «bene proprio», cioè dei potenti stessi. In questo modo, come Trasimaco segnala chiaramente, si opera una tran­ sizione da un livello politico, che era proprio di Ta, alla dimen­ sione morale (giusto/ingiusto), che caratterizza invece T b (343d2).17 L'identificazione ingiustizia-potere permette a Trasi1� Cfr. M. BROZE, art. cit. (n. 12), pp. 112 sgg. 11 Su questo aspetto insiste K.A. ALGRA, Obseroations on Plato's Thrasy­ machos: the Case /or PleonexiiJ, in ID. ET AU. (eds.), Polyhistor, Leiden 1996, pp. 41-60. Secondo Algra, che tende a ridurre la distanza fra le due tesi, esse

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maco di sostenere che l'ingiusto è forte, è in grado di esercitare la sopraffazione (pleonexia) sui giusti, e pertanto è felice; per­ fettamente potente e felice sarà chi è perfettamente ingiusto, cioè il tiranno che soggioga città e popoli con la violenza e l'in­ ganno 044a-c). Ora, non è difficile dimostrare cheTb (il cui effetto è di identificareTrasimaco con Callide e con il pensiero "tiranni­ co" della p/eonexia)18 viene fatta derivare daTa solo mediante una fallacia retorica, e cheTa non solo non implicaTb, ma la contraddice. 19 11 modo (retorico) della derivazione è il seguen­ te: se la giustizia riguarda i sudditi perché consiste nell'osse­ quio alle leggi, per un semplice dispositivo polare l'ingiustizia spetterà a chi promulga le leggi, cioè ai forti e ai potenti. Ma non è così: secondoTa, la coppia giusto/ingiusto concerne sol­ tanto i sudditi alle leggi, che sono giusti se le rispettano, ingiu­ sti nel caso contrario. A monte della legge, cioè al livello del potere, il problema della giustizia e dell'ingiustizia non si pone. Come ha scritto esattamente Kerferd, che tuttavia non accetta aprono comunque lo spazio per la doppia indagine della Repubblica, sulla giustizia politica 1"

c

quella individuale (p. 51).

Il carattere «libero e signorile•• (cleutheriosldùpotikos) dell'ingiustizia

tirannica U44c), connene chiaramente questa tesi di Trasimaco alle posizioni nostalgicamente oligarchiche di Callide (si veda l'atteso ritorno del "superuo­ mo" naturaliterdespotex di 484a). La libenà assoluu del tiranno, in rappono al suo controllo discrezionale di nomox edike, era del resto diventata un topos nella letteratura tragica. Nel Prometeo incatenato di Eschilo, solo Zeus è eleutherox (v. 50), perché ha «il giusto presso di sé»

(1ta.pq>i:a.ut{!l tÒ Oimtov,

vv. 186-87), ed è di conseguenza iltyrannos degli dèi. Nelle Supplici di Euripide (rappresentate verso il 424), il tiranno esercita

il potere (krateJ) pos­

sedendo la legge come una proprietà personale a.ùtép, vv.

429·32). Questo impasto linguistico, che riattiva formule ben

note ai suoi lettori, agevola a Platone la transizione fra Ta e

Tb, e la riduzione

di Trasimaco a pensatore in ultima analisi filo-tirannico. 1�

L'inconsistenza di Tb rispetto a Ta è stata giustamente segnalata daJ.P.

MAGUIRE, Thrasymachus... or Plato?, «Phronesis», XVI (1971) pp. 142-63; cfr. anche]. ANNAS, op.cit. (n. 13), che parla di un «inconsistent set» di tesi (p. 35). Cfr. nello stesso senso l'analisi di R. C. CRoss-A.D. WoozLEY, op.cii (n. 8), pp. )8-41.

PLATONE, LA REPUBBLICA

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questa interpretazione, «la persona [o il gruppo] che fa le leggi non può essere giusta o ingiusta, sarà sopra o fuori dall'ambito della giustizia». Aggiunge con precisione Maguire: «il gover­ nante-legislatore è interamente esterno alla sfera della giustizia e dell'ingiustizia».20 Alla luce diTa, non ha dunque senso attribuire l'ingiustizia ai detentori dd potere di emanare le leggi. Secondo il suo posi­

tivismo giuridico, fondato su di un positivismo del potere, que­ st'ultimo risulta eticamente neutro nel momento dell'emana­ zione della legge. Certo, una volta emanata, il detentore del potere potrà osservarla a sua volta, e non potrà fare diversa­ mente (se non commette errori) perché essa è destinata, più o meno direttamente, alla conservazione del suo potere. Altri· menti, non sarebbe ingiusto ma stupido (cioè cesserebbe di essere kreitton), perché lavorerebbe contro se stesso. La formulazione «l'ingiustizia ha il potere (archet)» (343c), dunque, non può venir derivata daTa, la contraddice, e produ· ce un'immagine di Tra'Simaco banalizzata, o comunque meno individualizzata, più appiattita in una corrente diffusa di pen· siero politico. Si tratta allora di chiedersi perché Platone abbia attribuito al suo personaggio due posizioni così diverse. Credo che vada subito esclusa l'ipotesi che egli abbia voluto in questo modo indicare la confusione o addirittura il marasma concettuale di Trasimaco.21 Come abbiamo visto, Platone assegna a più ripre· se a questo personaggio un'esigenza di rigore, che viene accet­ tata senza ironia anche da Socrate; e più in generale il ruolo di Trasimaco nel I libro è così decisivo per orientare la discussio­ ne verso i futuri sviluppi, che, non va dimenticato, per ben due volte egli è trattenuto dagli astanti perché non se ne vada prima di aver compiuto fino in fondo la sua funzione dialetti· 1!.1Cfr. G.B. KERFERD, art. cit. (n. 2), p. 561;J.P. MAGUIRE, art. cit. (n. 19), p. 146; ma si veda anche M. SALOMON (1911), cit. in M. UNTERSTEINER, l So­ /isti(cit. n. 2), p. 197. 11 Cfr. in questo senso per es. E. Mf.RON, Les idées mora/es des interlrxuteurs de Sacra/e dans /es Jialcgur:s p!dtomciens de jeunene, Paris 1979, pp. 136 sg.

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ca. Perché allora Trasimaco dovrebbe venir esposto alla troppo facile accusa di confusione e inconsistenza? Gli studiosi che hanno correttamente individuato la contraddizione fra Ta e Tb hanno allora avanzato due proposte interpretative simmetri­ che: quella più plausibile (Maguire) secondo cui Ta rappresen­ terebbe il "vero" Trasimaco (cioè il Trasimaco storico), e T b una manipolazione platonica; oppure quella (Annas), meno plausibile perché porta a confondere Trasimaco con Callide, secondo la quale il "vero" Trasimaco è invece rappresentato da Tb.22 Entrambe queste ipotesi risultano tuttavia inficiate dal­ l'impossibilità di trovare qualsiasi riscontro o conferma esterni al testo platonico circa il "vero" Trasimaco.n Appare dunque metodicamente più corretto attribuire sia Ta sia Tb al "perso­ naggio" del dialogo, e questo ci riporta alla domanda sul senso della coesistenza delle due tesi incoerenti. Credo che esistano nel testo segnali sufficienti a formulare un 'ipotesi più soddisfacente: che Platone consideri Tb come la "verità" di Ta, non in senso logico ma in senso retorico, psico­ logico e politico;24 che voglia cioè indicare come il "rigore" concettuale di Ta intorno al potere, alla legge e alla giustizia finisca di fatto per portare alla legittimazione della violenza tirannica alla maniera di Callide. La concezione, derivata da

Tb, secondo la quale "ingiustizia è bello", viene definita da So­ crate- per il suo carattere trasgressivo rispetto al senso comuu

Cfr.J.P. MAGUIRE, art. àt. (n.

19), pp. 159 sg.;J. AN :">lAS, op. àt. (n. 13),

pp. 37. 45. 11

J.H. QVJNCEY, Another Purpose /or Pklto, 'Republic"l, «Hermes», CIX

(1981) pp. 300-16, sostiene che la formula sull'"utile del più fone" sarebbe una citazione testuale da un trattato di retorica di Trasimaco; ma può solo provare che Platone conosceva questi testi, come risulta da Phaedr. 267c-d, non che vi abbia trovato questa asserzione. N

Che uno «stress of powerful emotion» funga da collante fra le due

posizioni è stato seJilnalato da

W.K.C. GUTHRIE, op. àt. (n. 2), pp. 91 sg.; che T. what R. L. NETrLE.'\HIP, Lectures on the Repu­ blic o/ Pklto (1897), London 1964. p. 27. Cfr. anche le considerazioni svolte da K. LY era stato notato da

PLATONE, LA REPUBBLICA

254

ne- «più dura>> e più difficilmente attaccabile (348e); e lo stes­ so Socrate dichiara di ritenere che essa esprima le autentiche opinioni di Trasimaco sulla verità (tà Oo1eoUvt"CX1tEpi tfìç tucjì

tixvn. 346c IO).' L'esito cui è approdato il discorso di Socrate è quello per­ seguito: separare l'autointeresse dall'erogazione delle compe­ tenze, negame la coessenzialità all'erogazione stessa. Elemento omogeneo nella costruzione della casistica è penante quello della recezione di un utile da parte di un professionista, che si afferma essere prodotto da un'attività diversa dalla sua. L'omo­ geneità non è tuttavia completa, a cominciare dal carattere di

exempla fi"cta, a uso confutatorio, dei primi due casi, mentre il terzo, la remunerazione percepita dal medico, riveste una con­ cretezza fattuale. La presenza dell'autointeresse è inoltre nei primi due del tutto casuale, come mostra il benefico influsso, sul fisico del capitano, dell'aria di mare: esso si genera nell'a­ nominato di un accidente naturale, non è l'utile riconducibile alla norma di una del

/echne, a un soggetto sociale. La recezione misthos è invece l'esito di un atto intenzionale, dell'eserci­ techne da parte dello stesso technites. Que­

zio di una seconda

sta è diversa da tutte le altre perché è autoriflessiva, l'autointe­ resse è il frutto della sua capacità "in quanto tale", che non presta quindi alcun servizio alla collettività: la dimensione del

koinon allusa da Socrate rinvia alla corporazione dei produtto­ ri, al loro lucro, non alla comunanza degli utenti, al soddisfaci­ mento dei bisogni Avviene la rescissione del nesso tra la remU­ nerazione e il servizio prestato, l'occultamento del dato che il capitano e il medico la guadagnano per mezzo dell'assicurare

� lmeressanti i rilievi contenuti in L. STRAuss-J. CROPSEY, Storia della fi· loso/i4 politica (1963), vol. l, trad. it. Genova 199}, p. 113: l'arte di far soldi si

pone come l'arte delle arti, quella che tutte le accompagna. Ad

essa ,

in un or­

dine gerarchico, subentrerà la Hlosofia,l'arte delle arti che, nella sua superio­ rità, non può essere praticata da chi pratica le altre (p.

119).

COMMENTO AL LIBRO I, (L]

265

la salute, la salvezza dell'equipaggio. Nel misthos non si espri­ me alcun riconoscimento dell'utilità del loro operare poiché l'avere titolo a riceverlo costituisce una capacità non solo addi­ zionale, ma esterna alle loro competenze: non sono infatti que­ ste che la generano, ma la tecnica autoriflessiva del salario, di cui si servono. n compenso - si ribadisce - non viene ai technitai dalla pro­

pria tecnica: la medicina produce la salute e la tecnica dd salario il salario; l'edilizia produce la casa e la tecnica del salario che le si accompagna il salario. Così ogni techne svolge la sua funzio­ ne specifica e giova a ciò cui è preposta e, se il salario non ve­ nisse ad aggiungersi, nessun vantaggio verrebbe dal mestiere al

demtourgos, all'artigiano (346d). A lui viene dunque consegna­ ta una professione purificata, ma nel far questo Socrate gli ha addebitato un comportamento profondamente scorretto agli occhi di Platone: l'infrazione all'imperativo di ta eautou prat­

tein, di svolgere il proprio e unico compito, che costituisce la norma dell'efficienza e della giustizia nella città della Repubbli­ ca (IV 433a sgg.). 3. Diversa è la lettura dell'attività artigianale compiuta da Platone nelle Leggi (Xl 920 sgg.). Sacri ad Atena e Efesto sono i demiourgoi che con le loro tecniche organizzano la nostra vi­ ta: essi vivono al servizio del paese e del popolo, creando, per un salario (emmisthon), strumenti e opere. Le raccomandazio­ ni che la legge fonnula per chi intraprende un lavoro sono le stesse che già aveva rivolto al venditore: di non cercare di mag­ giorame il prezzo (1tÀÉ:ovoç ttjliiv), ma di attenersi strettamen­ te al suo valore (ffiç axì..oue1tata tiiç àl;iaç) poiché lui, l'ani­ giano, ben lo conosce (yryvooKEt ... titv àl;iav). Egli non deve dunque far uso della techne che, per natura, è cosa certa e sce­ vra di falsità (aacpEi ... àveu0Ei cpUOE\ 1tp0.yjlatt), per abusare con artifici (technazonta) dei cittadini. La sacralità che riveste l'attività del technites privilegia la funzione sociale, civilizzatri­ ce, svolta dalle sue competenze, di cui individua una modalità specifica di erogazione nella richiesta del misthos. La sua de-

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266

terminazione si pone come interna alla professione stessa, un sapere aggiuntivo ma non esterno, non proveniente da un'altra techne,la mùthotike. Tale sapere è prerogativa di ogni soggetto perché è un sapere condiviso, rinviando al valore conferito alla prestazione dalla comunità della poiis. L'autointeresse trova il riconoscimento e al contempo il limite nella funzionalità alla riproduzione collettiva, alla riproduzione dello stesso technites, del ruolo sociale da lui rivestito.7 Ma la duplicazione dell'attività tecnica introdotta da Socrate nel I libro della Re­ pubblica non è del tutto ricomposta perché l'identità del­ l'onesto competente si sdoppia in quella infida del commer­ ciante. Questi è portavoce di una dinamica oggettiva, iscritta nell'anima degli uomini: la maggior parte a un guadagno mo­ derato preferisce il guadagno senza misura (918d). Alla natura­ lità dell'operare della tecnica può sempre subentrare l'artificio­ sità del tecnicismo, l'uso di ogni espediente per produrre il de­ naro, il bene innaturale per eccellenza. Tale modalità non ap­ pare nelle Leggi come un elemento estrinseco, che non altera la struttura "in quanto tale", poiché scaturisce dall'uso della pro­ pria tecnica, piegandola dall'interno all'eccedenza dell'autoin1

Sulla problematica vedi G. FABRIS, Economia di sussistenUJ, rapporti di

scambio e istituzioni politiche. Un'indagine su Platone, in L. RUGGIU (a cura di), Genesi dello spazio economico, Napoli 1982, p. 40. Il giusto prezzo, che mantiene la posizione dell'anigiano nell'ordine socio-politico costituito,� tut­ tavia ricondotto dall'autrice all'esercizio della misthotike techne. Questa, an­ che nell'analisi socratica del I libro della Repubblica, sarebbe un elemento in­ trinseco al"lavorare per gli ahri\ informato penante ai principi di reciproci­ tà e solidarietà (p. 3,). Per una lettura delle istituzioni politiche ed economi­ che proprie della città delle Leggi in parallelo a quelle presenti storicamente vedi G.R. MORROW, Plato's Cretan City, Princeton 1960, in pan. sull'artigia­ nato e il commercio pp. 138 sgg. Va rilevato che tali attività, ritenute incom­ patibili con i doveri civici, sono riservate a meted che vivono in residenze separate dal resto della popolazione (cfr. M. PlffiART, Platon et la citi grecque. Théon·e et réail1é dan.t la Constitution des «Loù», Bruxelles 1974, pp. 41-47). Dubbi sull'affluenza di stranieri, dati i controlli esercitati sull'acquisizione di ricchezza, sono avanzati da P.A. BRUNT, The Mode/ City of Plato's Laws, in Studies in Greek History and Thought, Oxford 1993, pp. 24,-68.

COMMENTO AL LIBRO I, [L]

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teresse. Ogni technites appare riguardare gli oggetti cui è pre­ posto con lo stesso sguardo del pastore di Trasimaco, che os­ servava le pecore come fa il crematista, come beni utili per fare affari, per vendere e comprare. La techne misthotike produce nell'intento di Socrate un unico, ma inestimabile servizio collettivo: quello, ideologico, di purificare le altre professioni, a cominciare dalla politica, dall'ipoteca del far denaro. Sembrerebbe sufficiente elidere il compenso che ricevono al termine della riunione, e gli Atenie­ si, seduti all'assemblea o al tribunale popolare, diverrebbero ottimi governanti, devoti solo al servizio della po/is. L'opera­ zione non è in realtà così semplice neppure per chi sembra suggerirla: essi- si affermava- governano solo richiedendo ta­ le erogazione, che, seppure racchiusa all'interno di una tecnica altra da quella politica, mostra, inequivocabile, il suo potere motivazionale. La disgiunzione tra l'arche e l'autointeresse sa­ rà l'esito di un lungo percorso teorico di rifondazione e, nella città rifondata, del lungo tirocinio educativo dei suoi difensori (phylakes), guerrieri e governanti. E anche questo non saprà sradicare il desiderio di ricchezza dalle anime se non ne saran­ no stati in precedenza sradicati i presupposti materiali. Ai phy­ lakes soltanto, tra i cittadini, sarà penante precluso il possesso di alcuna sostanza personale, a essi soli non sarà consentito toccare l'oro e l'argento (Resp. III 4!6d sgg.). Riceveranno dai governati il nutrimento, quanto abbisogna ad atleti di guerra sobri e valorosi, come unico salario della difesa. Infelici appa­ iono ad Adimanto tali uomini, privi di terra, di case, di dena­ ro: stanno nella città per montare di guardia, come epikouroi misthotoi, ausiliari salariati (IV 419a sgg.). E- si ribadisce­ ricevendo solo gli alimenti (episitioi), senza aggiungervi alcun misthos al modo degli altri mercenari; così non potranno viag­ giare da privati, pagare donne, né spendere altrimenti nei pia­ ceri. Percettori di un salario sono dunque i governanti della città platonica, e tale remunerazione è il segno dell'assenza del­ l'autointeresse nell'esercizio nel potere, come già Socrate affer-

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mava. Ma per confermare l'assunto socratico si è richiesta altra cosa che neutralizzare il denaro grazie all'astrazione della tech­ ne misthotike, si è richiesta l'abolizione del denaro stesso. Silvia Campese

[M] Prooimion e nomos

«lo, dunque, dopo aver detto queste parole, pensavo di es­ sermi liberato del discorso: ma a quanto sembra era stato solo un prooimion)). Così Socrate, all'inizio de! libro II della Repubblica (357al), definisce retrospettivamente il confronto dialogico con Trasima­ co, messo in scena e appena conclusosi nello spazio del libro I. Si tratta di un'affermazione riduttiva o piuttosto di un sug­ gerimento generale sulla forma socratica della ricerca dialoga­ ta?

È possibile rispondere a questa domanda seguendo da vi­ cino l'uso del termine prooimion, analizzandone i contesti, de­ finendone il campo semantico e, soprattutto, delineandone il campo simbolico d'impiego. Ad un primo approccio risulta pressoché inevitabile inter­ pretare prooimion nel significato di «proemio))- cioè discorso d'apenura di un tema specifico-, secondo l'accezione retorica del termine. Così infatti di norma si è inteso, con il risultato, tuttavia, di confinare il I libro nella dimensione di un prologo senza alcuna tangenza con la Repubblica vera e propria. L'argo­ mento è stato sollevato dalla critica fùologica impegnata nella dimostrazione di un tardo accorpamento della presunta opera giovanile Trasimaco al testo del dialogo sulla giustizia. l. Prooimion nel/, Repubblica

È possibile, però, offrire una diversa interpretazione di prooimion contestualmente alla struttura di Repui.Wlica.

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(Euthyd. 29ib). Queste parole, tratte dall'Eut.Jemo, rivelano da sole una straordinaria analogia con quelle di Socrate nel libro IV della Repubblica. Esse non solo contribuiscono a illuminare ulterior­ mente le suggestioni poetiche e rituali che Socrate si diverte a conferire alla pratica del dialogo, ma svelano anche sebbene per metafora, il carattere puramente "labirintico" della conver­ sazione socratica. Bisogna infatti notare il simbolismo dd labirinto qui steno­ graficamente, per così dire, ma molto puntualmente evocato, così come lo troviamo nel mitologema cretese: si tratta di una precisa figura di danza, incentrata sul movimento incessante di caduta e svolta all'indietro, di avanzamento e retrocessione.6 Quasi descrivendo un labirinto, Socrate tesse una rapsodia di prooimia legati tra loro dal motivo della giustizia. 4. Prooimion e nomos

Quanto al rapporto prooimion-nomos, di cui prima si dice­ va, esso non è certo infrequente in Platone.