La Repubblica. Libri VI e VII [Vol. 5]
 9788870884296, 8870884295

Table of contents :
Sommario
Introduzione ai libri VI e VII
1. I libri VI e VII: la "metafisica" e la sua metaforica
2. La deduzione delle virtù
3. La svolta: verso l'idea del buono
4. La linea e la caverna
5. Le scienze e la dialettica
6. Questioni di interpretazione
La Repubblica - Libro VI
La Repubblica - Libro VII
Commento ai libri VI e VII
[A] Il sapere del filosofo
1. Sapere intuitivo o sapere proposizionale?
2. Le metafore ottiche
3. Dianoia e noesis
4. Sapere proposizionale e definizione: l'autoreferenzialità della filosofia
5. Pensiero debole (ma non troppo)
6. Conclusioni
[B] L'allegoria della nave
1. La filosofia e il suo ruolo formativo: una questione controversa
2. La città-nave: una tradizione illustre
3. Un equipaggio multiforme
4. Il «vero capitano»
5. La natura filosofica e la sua corruzione
6. La «cattiva educazione»
[C] Il filosofo selvatico
1. La kallipolis rovesciata e il catalogo di quel che resta
2. I deviati e i mediocri usurpatori
3. Esiliati e marginali
4. Talenti in fuga
5. Malattia e ambiguità degli influssi demonici tra i socratici
6. Chi c'è dietro il «muretto»?
[D] Megiston mathema. L'idea del "buono" e le sue funzioni
1. Analitica del "buono" e teorema delle idee
2. L'eccesso di Socrate: il "buono" oltre le idee
3. La metafora solare e le funzioni del "buono"
4. Lo statuto onto-epistemologico dell'idea del buono
5. La potenza del "buono"
[E] L'idea del bene: collocazione antologica e funzione causale
1. L'ambito della causalità del bene
2. Causalità pratica
3. L'analogia con il sole
4. Ἀλήθειά τε καὶ τὸ ὄν
5. L'οὐσία e gli attributi ideali delle forme
6. La causalità del fuoco (Arist. Met. II)
7. Dall'οὐσία alla δύναμις: il carattere della causalità del bene
[F] Il sole e la sua luce
1. Struttura dell'analogia
La prole del buono
La vista del sole
L'azione del sole e quella del buono
2. Rapporto analogico e derivativo
3. Il richiamo alla tradizione religiosa sapienztale e a concezioni filosofiche precedenti
L'evocazione di Apollo
Concezioni religiose del sole
La luce e le tenebre
Helios e Apollo
4. Luce, visione, conoscenza
Teorie emissive della luce e visione
Opsis e nous
5. Conclusione: funzione e aporie dell'analogia
[G] La linea e la caverna
1.
2.
3.
4.
5.
6.
[H] Dialettica
1. VI e VII: due libri "dialettici"
2. La dialettica descritta
3. I percorsi della dialettica
4. Lo statuto della dialettica
5. L'obiezione di Glaucone
6. Il lavoro della dialettica
7. Dal punto di vista di Glaucone: qualche altra domanda
[I] La caverna
1. La caverna, le caverne
2. L'antro ideo
3. L'antro ideo e la caverna di Platone
4. Il sonno di Epimenide
5. La katabasis di Pitagora
6. Il viaggio di Parmenide
7. Platone e la tradizione sapienziale: il Fedone
8. Cavità e caverne
9. Il teatro dei burattini
10. La marionetta divina
[L] Le matematiche al tempo di Platone e la loro riforma
l. Lo stato delle cose
1
. Mathemata senza nome comune
2. Una «ginnastica»?
3. Tecniche «banausiche»
4. Forme di sapere intellettuale
5. L'aritmetica e la logistike
6. La geometria piana e solida
Il. Una riforma di potere
1. Un potere riservato agli aristoi
2. Un potere «aurorale»
3. Un potere «trainante» (verso l'alto)
4. Un potere utile alla guerra
5. Una «malattia vitale»
6. La fine della commedia
[M] Astronomia e armonica
1.
2.
3.
4.
[N] Teoria musicale e antiempirismo
1
. Scienze sorelle
2. Rifiuto dell'empirismo: l'intervento di Glaucone e la precisazione di Socrate
3. Temi e orientamenti di teoria musicale
4. I Pitagorici
5. La «terza via»: gli άρμονικοί
6. Consideralioni conclusive
[O] I filosofi a scuola e la scuola dei filosofi
I. I filosofi a scuola
1. «Un giro più lungo»
2. I saperi del proemio
3. I dialettici fra la scuola e il governo
II. La scuola dei filosofi
1. L'Accademia: perché, come e per chi si fonda una scuola
2. Che cosa facevano gli Accademici?
[P] Il Bene nell'interpretazione di Plotino e di Proclo
1 . Il Bene come «epekeina tou ontos» nell'interpretazio ne di Plotino
2. La natura del Bene-Uno nell'interpretazione plotiniana della metafora solare
3. La natura dell'Uno-Bene come fondamento dell'identità di essere e pensiero
4. L'interpretazione del Bene nella Dissertazione XI del Commento alla Repubblica di Proclo
5. Il rapporto tra «Via analogica» e «via apofatica»: l'Uno-Bene come totaliter aliter
6. Plotino e Proclo: differenti concezioni dell'Uno-Bene

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La R.qubblit:ll è certamente uno dei testi centrali del pensiero di Platone, della sua tradizione antica e moderna e della riflessione etico-politica contemporanea. Scopo della presente edizione è di offrirne un commento integrale, inteso a definire sia il contesto storico-culturale, sia le dimensioni teoriche, sia infine gli influssi sul pensiero successivo: si tratta dunque di un progetto che si giova della vastissima letteratura esegetica prodotta nel corso del nostro secolo, ma che non ha equivalente per ampiezza di obiettivi relativamente a questo singolo dialogo. Per ogni libro o gruppo di libri {ll-ill,VIII-IX) viene offerta una traduzione, che si propone la massima fedeltà al testo senza tuttavia ignorarne le questioni esegetiche; una introduzione, che delinea i problemi fondamentali del libro o dei libri in esame; un corredo di note, di carattere prevalentemente storico e filologico; un commento, articolato in una serie di saggi destinati all'interpretazione dei temi centrali del testo. L'edizione si conclude con un saggio di interpretazione complessiva, con indici e bibliografia. n commento è l'esito del lavoro di un gruppo che fa capo al Dipartimento di Filosofia dell'Università di Pavia: studiosi con specifiche competenze, ma che condividono omogenee prospettive metodiche ed esegetiche. Non si tratta dunque di una raccolta antologica, ma di un lavoro di interpretazione unitario, benché ampiamente articolato.

Mario Vegetti è professore ordinario di Storia della filosofia antica nella Facoltà di Lettere e Filosofia ddi'Università di Pavia. Ha tradotto e commentato opere di lppocrate, Aristotele e Galeno. È autore di numerosi studi, pubblicati in Italia e all'estero in varie lingue, dedicati alla storia dd pensiero antico nei suoi versanti filosofico-scientifico ed etico-politico. Fra i suoi lavori principali, i volumi

Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della rwonalità scientifica (Milano 1979; 19962 ), Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico (Milano 1983), L'etica degli antichi (Roma-Bari 1989). Ha curato diverse opere collettive, tra le quali l'Introduzione alle culture antiche (3 voli., Torino 198.5-92).

ELENCHOS Collana di testi e studi sul pensiero antico fondata da GABRIELE GIANNANTONI

XXVIII-5

ISTITIJTO PER

IL

LESSICO INTELLETilJALE EUROPEO E STORIA DELLE IDEE SEZIONE PENSIERO ANTICO Responsabile Vincenza Celluprica

ELENCHOS Collana di testi e studi sul pensiero antico fondata da

GABRIELE GIANNANTONI

XXVIII-5

ISTITUTO PER

IL

LESSICO INTELLETI1JALE EUROPEO E STORIA DELLE IDEE SEZIONE PENSIERO ANTICO Responsabile Vincenza Celluprica

PLATONE

LA REPUBBLICA Traduzione e commento a cura di MARIO VEGEITI

Vol. V Libro VI- VII

BIBLIOPOLIS

Quest'opera è stata realizzata con la collaborazione ddl'ISTITIJTO ITALIANO PER GLI STIJDI FILOSOFICI e con il contributo dd C.N.R

Copyright © 2003 by C.N.R, Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee ISBN 88-7088-429-5

SOMMARIO

Introduzione ai libri VI e VII (M. Vegetti) l. I libri VI c VII: la •metafisica c la sua mctaforica, 13; 2. La deduzione dcllc virtù, 14; 3. La svolta: verso l'idea dd buono, 18; 4. La linea c la caverna, 23; 5. Le scienze c la dialettica, 28; 6. Questioni di interpretazione, 3 l.

p.

13



LIBRaVI

35

LmRo VII

97

COMMENTO AI LIBRI VI E VII [A]

n sapere del filosofo (F. Trabattoni)

149 151

l. Sapere intuitivo o sapere proposizionalc?, 151; 2. Le metafore ottiche, 154; 3. Ditlnoitl c n�st's, 157; 4. Sapere proposizionalc c definizione: l'autorcfcrcnzialità della filosofia, 167; 5. Pensiero debole (ma non troppo), 179; 6. Conclusioni, 185.

[B]

L'allegoria della nave (S. Gastaldi)

187

l. La filosofia c il suo ruolo formativo: una questione controversa, 187; 2. La città-nave: una tradizione illustre, 192; 3. Un equipaggio multiforme, 195; 4. D «vero capitano», 199; 5. La natura filosofica c la aua corruzione, 204; 6. La «cattiva educazione», 207.

[C]

n filosofo selvatico (F. de Luise- G. Farinetti) l. La !tllllipolis rovesciata c il catalogo di qud che resta, 217; 2. I deviati c i mediocri usurpatori, 219; 3. Esiliati c marginali, 226; 4. Talenti in fuga, 230; 5. Malattia c ambiguità degli influssi demonici tra i socratici, 239; 6. Chi c'è dietro il «muretto»?, 245.

217

8

[D]

SOMMARIO

Megiston mathema. L'idea del "buono" e le sue funzioni (M. Vegetti)

p. 253

253; 2. L'eccesso di Socrate: il "buono� oltre le idee, 261; 3. La metafora solare e le funzioni dd "buono", 269; 4. Lo statuto onto-epistemologico dell'idea dd buono, 273; 5. La potenza dd "buono�, 280. l. Analitica dd "buono� e teorema delle idee,

[E]

L'idea dd bene: collocazione ontologica e funzione causale (F. Ferrari)

287

l. L'ambito della causalità dd bene, 287; 2. Causalità prati-

ca, 290; 3. L'analogia con il sole, 295; 4.

'.Uti&ux tt: �eal tò

ov; 303; 5. L'oùa\a e gli attributi ideali delle forme, 308; 6.

fuoco (Arist. Met. Il), 317; 7. Dall'oùoia alla OUVUJ!.tç: il carattere della causalità dd bene, 322.

La causalità dd

[F]

ll sole e la sua luce (F. Calabi)

327

l. Struttura dell'analogia, 327; La prole dd buono, 327; La

vista dd sole, 330; L'azione dd sole e quella dd buono, 331; 2. Rapporto analogico e derivativo, 334; 3. n richiamo alla tradizione religiosa sapienziale e a concezioni filosofiche precedenti, 336; L'evocazione di Apollo, 336; Concezioni rdigiose dd sole, 337; La luce e le tenebre, 339; Helios e Apollo, 343; 4. Luce, visione, conoscenza, 347; Teorie emissive della luce e visione, 347; Opsis e nous, 349; 5. Conclusione: funzione e aporie dell'analogia, 351.

[G]

La linea e la caverna (F. Franco Repellini)

355

[H]

Dialettica (M. Vegetti)

405

VII: due libri "dialettici", 405; 2. La dialettica descritta, 406; 3. I percorsi della dialettica, 408; 4. Lo statuto della dialettica, 415; 5. L'obiezione di Glaucone, 415; 6. Il lavoro della dialettica, 420; 7. Dal punto di vista di Glaucone: qualche altra domanda, 425. l. VI e

m

La caverna (S. Campese) 435; 2. L'antro ideo, 438; 3. L'antro ideo e la caverna di Platone, 442; 4. Il sonno di Epimenide, 444; 5. La katabasis di Pitagora, 448; 6. II viaggio di Pannenide, 451; 7. Platone e la tradizione sapienziale: il Fedone, 455; 8. Cavità e caverne, 458; 9. Il teatro dei burattini, 462; 10. La marionetta divina, 468. l. La caverna, le caverne,

435

9

SOMMARIO

[L]

Le matematiche al tempo di Platone e la loro

riforma (E. Cattanei)

p. 473

l. Lo stato delle cose, 473 l.

Mathemata senza nome comune,

473; 2. Una «ginna­

sticu?, 475; 3. Tecniche «banausich�. 477; 4. Forme di sapere intellettuale, 480; 5. L'aritmetica e la 493; 6.

logistike,

La geometria piana e solida, 509.

Il. Una riforma di potere, 520 l. Un potere riservato

agli aristoi, 521; 2. Un potere «au­

roral�. 522; 3. Un potere «trainant� (verso l'alto), 524; 4. Un potere utile alla guerra, 527; 5. Una «malattia vita­

l� 529; 6. La fine della commedia, 534. ,

[M]

Astronomia e armonica (F. Franco Repellini)

541

[N]

Teoria musicale e antiempirismo (A. Meriani)

565

l. Scienze sorelle, 565; 2. Rifiuto dell'empirismo: l'inter-

vento di Glaucone e la precisazione di Socrate, 569; 3. Temi e orientamenti di teoria musicale, 574; 4. I Pitagorici, 579; 5. La «terza via»: gli cip�ovuc:oi, 593; 6. Considerazioni conclusive, 601.

[ 0]

I filosofi a scuola e la scuola dei filosofi (M. Vegetti)

603

l. I ftlosofi a scuola, 603 I saperi dd proemio, 605; I dialettici fra la scuola e il governo, 608. Il. La scuola dei filosofi, 610 l. «Un giro più lungo», 603; 2.

3.

l. L'Accademia: perché, come e per chi si fonda una scuo­

la, 610; 2. Che cosa facevano gli Accademici?, 616.

[P]

Il Bene nell'interpre tazione di Plotino e di Proclo (M. Abbate) l.

n Bene come epekeina tou ontos nell'interpretazione di

Plotino, 628; 2. La natura dd Bene-Uno nell'interpreta­ zione plotiniana della metafora solare, 639; 3. La natura dell'Uno-Bene come fondamento dell'identità di essere e pensiero, 647; 4. L'interpretazione dd Bene nella Disser­ tazione XI dd 5.

Commento alla Repubblica di Proclo, 659;

n rapporto tra «Via analogica» e «via apofatica»: l'Uno­

Bene come

totaliter a/iter, 669; 6. Plotino e Proclo:

renti concezioni dell'Uno-Bene, 674.

diffe­

625

LA REPUBBLICA LIBRI VI

E

VII

Hanno collaborato al commento: Michele Abbate (Università di Pavia) Francesca Calabi (Università di Pavia) Silvia Campese (Università di Pavia) Elisabetta Cattanei (Università di Cagliari) Fulvia de Luise (Università di Trento) Giuseppe Farinetti (Liceo classico "G. Govone" di Alba) Franco Ferrari (Università di Salerno) Ferruccio Franco Repellini (Università Statale di Milano) Angelo Meriani (Università di Salerno) Franco Trabattoni (Università Statale di Milano) Mario Vegetti (Università di Pavia) Coordinamento redazionale: Anna Cattivelli.

INTRODUZIONE

l. I libri VI e VII: la "metafisica" e la sua meta/orica A rigore,i libri VI e VII della Repubblica non presentano nell'architettura del dialogo quella posizione centrale, quell'as­ setto di fastigio o di "timpano"' che viene loro assegnato da

una lunga tradizione esegetica. Non lo presentano sul piano quantitativo,perché da questo punto di vista la pagina "centra­ le" è quella sul regno filosofico (473 ), preceduta da 146 pagine dell editio princeps, e seguita da altre 147 pagine: senza dub­ '

bio, quindi, «the core of the whole Republie», come scrisse Paul Friedlander.2 E neppure lo presentano su quello composi­ tivo, perché i due libri costituiscono in primo luogo una lunga appendice destinata ad argomentare, tanto sul piano etico quanto su quello onto-epistemologico,la legittimità e la plausi­ bilità della proposta di un governo dei fllosofi: esse sono im­ perniate sulla celebre metafora della "nave" della polis nel li­ bro VI ,e vengono puntualmente richiamate alla fine del libro VII (540d sgg.),laddove si ritiene che quella paradossale pro­

posta abbia finalmente ottenuto il consenso degli interlocutori. Eppure, non si può dire che il privilegiamento dei libri VI e VII, dovuto a una tradizione antica almeno quanto il Com­ mento di Proclo- benché senza dubbio ispirato dall'intenzio­ ne di mettere in secondo piano la dimensione propriamente 1 Cfr. in questo senso H. THF.sLEFF, Loolting/or Clues: An lnterprPI41ion o/ Some Literary Aspects o/ Pillto's 'Two-Level Mode/', in G.A. PREss (ed.), Pillto's Di4/og�s. Nn»StudiesanJ lnterprel4tions, Lanham 1993, pp. 17-45 (p. 27).

2 P. FìuEDLÀNDER, Pillto (196()2), trad. ingl. London 1969, vol. Ill, p. 102.

14

PLATONE, LA REPUBBUCA

politica della Repubblica a vantaggio di quella "metafisica" sia privo di ragioni e di fondamento. Il libro VI approda a quella hyperbole teorica (un vero e proprio unù:um nel Corpus platonico) che è costituita dalla costruzione dell'idea del buo­ no; al centro del VII sta la discussione sulla episteme che le è qui, e solo qui - strettamente connessa, la dialettica. La trama di connessione fra i due libri è poi formata dal susseguirsi di una sequenza di immagini che sono a loro volta fra le più cele­

-

bri del Corpus: la metafora solare, il modello onto-epistemico della "linea", l'allegoria della "caverna" . Tutto questo rende plausibile, o almeno suggestiva, l'ipotesi di T hesleff secondo la quale i libri centrali della Repubblica terrebbero il posto del dialogo "sul filosofo" che Platone aveva annunciato ma mai scritto almeno come opera a sé, e che in essi sia reperibile il nu­ cleo della filosofia più autenticamente platonica.3 Tanto più significativa risulterebbe allora la decisione di Platone di rifon­ dere questa trattazione all'interno del dialogo sulla politeia, e di connetterla strettamente alla sua dimensione politica: in ef­ fetti, la "metafisica" dei libri centrali svolge senza dubbio un ruolo di fondazione - non di alternativa- rispetto all'intera te­ matica etico-politica del dialogo, e da questo ruolo risulta a sua volta profondamente orientata (cfr. qui [D]).

È il caso, dunque, di seguire da vicino il movimento argo­ mentativo che si sviluppa attraverso i due libri.

2. La

deduzione delle virtù

La prima parte del libro VI è dedicata al dispiegamento di una strategia persuasiva, intesa a convincere la città e i suoi intellettuali come Adimanto e Trasimaco, della ragionevolezza J

Cfr. H. THESLEFF, Studies in Plato's Two-Level Mode/, «Commentatio­

nes Humanarum Litterarum», 113, 1999. Thesleff attribuisce ai libri centrali una datazione tarda (verso il 350) e scrive: «The final work would represent only and purdy Plato's "own" and personal philosophy as he saw it as contra­ sted to the Eleatic, Pythagorean, mathematical, cosmological, physiological and legislative interests of bis associates in the Academy» (p. 115).

INTRODUZIONE Al LIBRI VI E VII

15

e plausibilità della proposta di affidare il governo ai filosofi (498d, 501c-e), una proposta a prima vista tanto paradossale da suscitare in Glaucone il timore di un'insurrezione armata contro i suoi sostenitori (V 473e sg.). Essa potrà apparire ac­ cettabile una volta che si sia raggiunto il consenso (homologia, 485a10) sulla reale natura della physis filosofica, fugando i non infondati sospetti, evocati da Adimanto, che la presentano sulla base di un equivoco circa la figura pubblica del "filosofo" -come inutile ed eccentrica, se non addirittura pericolosamen­ te malvagia (487d; cfr. vol. IV, [H], e qui [B]). La natura del­ l'autentico filosofo può venire rivalutata a partire dallo statuto ontologico degli oggetti cui è indirizzata la sua intenzionalità conoscitiva- "ciò che è" in modo trasparente e invariante, nel­ la sua contrapposizione alla mutevolezza e all'opacità del dive­ nire-, dalla forma della conoscenza che egli ne ottiene-"pen­ siero" e "verità", a loro volta contrapposte alla incostanza arbi­ traria e influenzabile della doxa-, e infme dal modo in cui egli vive questa sua tensione conoscitiva: si tratta di una dedizione assoluta dell'anima, di una tensione di natura erotica (490a-b), che comporta l'erogazione delle sue migliori energie psichiche

(hamillasthai, 490a9). Che cosa ha tutto questo a che fare con l'aspirazione filo­ sofica al governo della città? Molto, secondo Platone. «Veden­ do e contemplando realtà ordinate e sempre invariate nella lo­ ro identità, che non commettono né subiscono reciprocamente ingiustizia, bensl sono tutte disposte secondo un ordine razio­ nale, queste si imitano e a esse si cerca il più possibile di asso­ migliare [. . .] n filosofo dunque, che ha rapporto con ciò che è divino e ordinato, diventa egli stesso divino e ordinato (kos­ mios) per quanto a un uomo è concesso, benché dappertutto gli vengano rivolte accuse» (500c-d). L'ordine, la taxis della ontologia di modello geometrico• cui è rivolta l'intenzionalità 4

Non dunque ispirata al modello cosmologico del cielo come sembra

suggerire il passo di IX 592 secondo l'interpretszione di M. Burnyeat: cfr. qui

vol. IV, p. 141, n. 49 .

16

PLATONE, LA REPUBBUCA

conoscitiva dd filosofo suscitano dunque un desiderio di assi­ milazione (aphomoiousthai, 500c5) che è capace di rendeme la natura parimenti ordinata ed estranea all'ingiustizia. Da quella ontologia, e dai valori oggettivi e invarianti che la abitano, il filosofo non sarà in grado soltanto di derivare le norme (nomi­ ma) sul «bello, il giusto e il buono» destinate a regolare la vita della città (484d); egli ne deriverà inoltre, in modo per cosl dire consequenziale (hepomena, 486e2) la configurazione di un

ethos, la costellazione delle virtù proprie della sua anima. Per dirla in linguaggio aristotdico - ma con un nesso più forte di qudlo che Aristotde avrebbe accettato- Platone sostiene dun­ que la derivazione, e la dipendenza, ddle virtù "etiche", pro­ prie dd buon cittadino, da quelle "dianoetiche" che spettano soltanto al filosofo. La deduzione delle virtù etico-politiche dalla vocazione conoscitiva dd filosofo è prodotta mediante una serie di strin­ genti passaggi argomentativi. Chi è dedito alla ricerca della verità sarà un uomo sincero, esente da ogni menzogna (485c, 490c). Chi ama sopra ogni cosa il sapere e il "piacere dell'ani­ ma" sarà moderato e temperante (sophron) nei riguardi dei piaceri dd corpo e dell'avidità di ricchezza (chremata, 485e). Chi contempla «l'intero ambito dd tempo e ddla realtà» non potrà tenere in gran conto la propria vita, e sarà dunque esente da meschinità e viltà, risultando piuttosto magnanimo (mega/o­ prepes) e coraggioso di fronte ai pericoli (486a-b). Non ci po­ tranno essere, in una tale natura, tratti di ingiustizia e di violen­ za verso gli altri uomini (486b). Al termine di questa deduzio­ ne delle virtù, Platone può concludere - rassicurando il pub­ blico cittadino e fugandone i sospetti - che la natura filosofica, ed essa soltanto, possiede in modo pieno quei tratti della ka­ lokagathia che ci si attendono in chi avanzi la pretesa di gover­ nare la po/is. «Se la verità fa da guida, non diremo certo che la segue un coro di vizi [. ..] ma piuttosto un carattere sano e giu­ sto al quale consegue a sua volta la sophrosyne [. ..]. E vi è forse bisogno di rischierare fm dal principio, nd suo ordine necessa­ rio, tutto il resto del coro ddle qualità proprie ddla natura dd

17

INTRODUZIONE AI LIBRI VI E VII

filosofo? Ricorderai che a essa risultarono convenire il corag­ gio, la magnanimità, la facilità ad apprendere, la memoria» (490c). Se questa kalokagathia del filosofo non risulta ancora evidente allo sguardo della città, ciò dipende dal fatto che essa non ha finora avuto modo di conoscere i "veri" filosofi, avendo sotto gli occhi soltanto gli indegni "usurpatori" dell'autentica filosofia oppure le nature filosofiche che essa stessa, con la sua pressione diseducativa, ha contribuito a corrompere (cfr. qui

[B], [C]). In ogni caso, se la "moltitudine" potrà venire con­ vinta ad affidare loro le responsabilità politiche cui hanno di­ ritto (499e sg.), non c'è dubbio che essi si proverebbero, anche riguardo alla comunità, buoni «artefici di moderazione e di giustizia e di ogni pubblica virtù» (500d). Qui si apre però una questione diversa, e più complessa: quella relativa alle circostanze in cui una polis potrebbe accet­ tare il potere filosofico, direttamente oppure mediante la con­ versione alla guida filosofica da parte dei suoi leaders una -

questione peraltro decisiva se non si vuole incorrere nel "ridi­ colo" che tocca a chi favoleggia intorno ai "pii desideri" dell'u­ topia (cfr. vol. IV, [A]). Questo evento- benché se ne possa argomentare la non impossibilità -va pensato come ecceziona­ le, e costituisce una rottura subitanea,' un'improvvisa soluzio­ ne di continuità nello spazio-tempo della storia e della politica

(«Se è accaduto nell'infinito tempo passato, o anche oggi acca­ de in qualche regione barbarica a noi ignota per la sua lonta­ nanza, oppure se accadrà nel futuro ... », 499c-d). L'avvento dd governo filosofico non appartiene insomma al piano di quello che Hegel avrebbe chiamato "il corso del mondo", disposto secondo l'asse prima-poi, ma rappresenta piuttosto l'inserzio­ ne in esso di un piano verticale di valori orientato dalla polarità ' Si vedano in proposito le analisi di K. THIEN citate nella nota 82 allibro VI. Queste analisi sono state riprese e inserite in un quadro più generale (che 1ppare tuttavia meno convincente) nd volume K. TmEN, Le lien intraitable. Enquéte rur le tempr danr la 'République' et le 'Timée' de Platon, Paris 2001, pp. 27 sgg.

18

PLATONE, LA REPUBBUCA

alto-basso: la "natura del buono", del giusto e del bello differi­ sce radicalmente dalla "necessità" (anankaion) socialmente determinata (493c).

n linguaggio platonico che descrive i modi di questo avven­ to possibile è imperniato sulla ricorrenza di due parole: tyche, che ne esprime il legame con il kairos, la circostanza favorevo­ le, attesa ma istantanea e imprevedibile; e theion, che ne defini­ sce l'eccezionalità assiologica. La natura filosofica può preser­ varsi integra in un mondo storico ostile solo con il �fortuito soccorso di un dio» (492a5: t tç

aùtft �o116tlaaç 9eéòv tuxn),

con una «sorte divina» (493al: 9eou J.I.Otpav). La conversione filosofica dei "potenti" può avvenire per «un'ispirazione divi­ na» (499cl: EK ttvoç 9eiaç È1tt1tVoiaç). L'accesso al potere dei filosofi, dal canto suo, può dipendere da una «fortuita neces­ sità» (499b5: àva"(1C11 ttç Ète tUXTiç), da una «sorte divina» (IX 592a8: 9eia tUXTI).6

ll libro VI ha dunque fin qui mostrato - sviluppando e ar­ gomentando la "terza ondata" del V- che la "natura" del filo­ sofo, per sapere e per ethos, presenta i requisiti necessari per governare la città; che solo il suo governo, o quello di un "po­ tente" a guida filosofica, può salvare la comunità inserendo nella sua storia il piano dei valori di giustizia; che l'avvento di questo governo, per quanto rappresenti un'emergenza eccezio­ nale nel "corso del mondo", è insieme desiderabile e non im­ possibile. A questo punto - verso i due terzi del libro - Platone avverte la necessità di un supplemento di fondazione teorica, che imprime una brusca svolta al movimento argomentativo, e un drammatico innalzamento del suo livello filosofico. 3. La svolta: verso l'idea del buono La svolta è nettamente annunciata in 502e2: la questione della educazione dei futuri governanti andrà ripresa per così dire dal principio, ex arches. Ciò è dovuto al fatto che non si 6

Cfr. in proposito la nota

43

allibro VI.

INTRODUZIONE AI LIBRI VI E VII

19

tratta più di formare gli archontes politico-militari di cui si era trattato dal libro II al IV, bensi di selezionare ulteriormente, al loro interno, una élite di «più rigorosi difensori» (c:itcpt�E. «E come?». «Su questo almeno noi dobbiamo convenire circa le nature [b]

filosofiche, che cioè esse sempre amano un sapere [A] che ren­ da loro manifeste parti di quell'essenza13 che è sempre e non vaga sottoposta alla vicenda del nascere e del perire[A]».14 «Conveniamone». «E inoltre, dissi io, che

esse

amano tutto l'ambito di quel­

l' essenza, e non ne tralasciano volutamente alcuna parte, pic­ cola o grande, importante o trascurabile, proprio come prima11 si è detto circa gli appassionati di onori e gli amanti». «Dici bene» confermò.

12 n riferimento è a v 475e sgg., e al consenso (mj.LoÀ.o"flla&,, 485al0, b4) che si era ottenuto in quella discussione. u

Ot,i..oi ÈJCtiVIlç 't'fìç oùoiaç: il genitivo chiarisce come il sapere filosofico

renda ogni volta visibile una "parte" dd campo delle essenze immutabili, e non lo rivdi immediatamente nella sua totalità. 14 tilç oùaiaç tilç àd oua11ç JCaÌ 11Ìl d.aVO>j.LÉV'Ilç intò ytvÉatmç JCaÌ cp&piìç. Qui l'opposizione è tracciata fra la stabilità immutabile dd mondo

eidetico e la variabilità temporale di quello empirico (sia nd senso assoluto della nascita e della morte, sia in quello dd mutamento di proprietà; per la coppia genesislphthora cfr. ad es. Phaed. 95e9). A 490b l'opposizione sarà invece posta fra molteplicità dell'ambito doxastico e unità di quello noetico per ogni singola essenza. Su questi due aspetti cfr. vol. IV, [l]. "•Prima»: V 474c sgg. Ma quali sono le parti della ousia che possono venir considerate «minori» o addirittura atimotera? Appare suggestivo il rin­ vio a Parm. 130c, dove Parmenide rimprovera a Socrate di aver ignorato idee come quelle di «pelo o di fango» e altre atimoteta e phau/otata. La RepubbliCIJ, peraltro, considera soltanto idee "nobili" come quelle etiche ed epistemiche (ma forse questo accenno significa che dagine Hlosofica).

esse

non esauriscono il campo dell'in­

39

LIBRO VI

«Vedi ora se chi debba essere quale l'abbiamo descritto non possieda inoltre necessariamente nella sua natura anche quest'altra qualità». «Quale?».

[c]

«La sincerità e il rifiuto di accettare in alcun modo il falso,

anzi l'odio per esso e l'amore per la yerità». 16

«È probabile», disse. «Non solo è probabile, amico, ma assolutamente necessa­ rio che chi ha per natura un'inclinazione amorosa verso qual­ cuno, prediliga tutto ciò che è affine e proprio al suo predi­ letto».17 «Corretto», disse.

«E forse potresti trovare qualcosa di più proprio al sapere che non la verità?».

«E come?», disse lui. «È dunque possibile che la stessa natura sia amica del sapere e insieme amica della falsità?».

[d]

«, cÒ 5ÉCJ1tot'' i\ tÒ m.cltrovoç aya90v. 112

1eaÀÒv 5È 1eaì aya96v. In questo contesto, kalon (che ha un valore

prevalentemente etico, cfr. il nesso con dikaion in 505d5) non equivale a agathon (che significa, come si è visto, M utile, vantaggioso, ben fatto"). Nell'orizzonte platonico, le due dimensioni devono tuttavia coincidere, fino a confondersi. Qui però l'unione dei due termini appare più l'effetto di un tra­ scinamento semantico che di un'analisi teorica. 11J

Non credo che la menzione dei polloi che identificano il bene con il

piacere si riferisca all'edonismo di Aristippo e di Eudosso su cui verte la di­ scussione dd Filebo.

È più probabile che Platone polemizzi qui con posizioni

Mvolgari" come quelle di Callide nel Gorgia (499b), cui era già stata rivolta la confutazione relativa all'esistenza di piaceri buoni e cattivi qui sommariamen­ te ripresa in 505c-d (dr. Gorg. 495a, 499b-c, 500a), e poi ampiamente discus­ sa nel libro IX. Callide può essere uno dei rappresentanti di quei polloi e phortikotatoi che secondo Aristotele identificano bene, felicità e piacere (EN I 3 1095b 16 sgg.). 114

Questi komproteroi, che identificano il bene con la phronesis, sono

spesso stati riconosciuti nell'ambito della cerchia socratica: Euclide e i Mmega-

LIBRO VI

81

«E che, amico, coloro che pensano questo non sono in grado di mostrare che cosa sia l'intelligenza, ma alla fine sono costretti ad ammettere che è l'intelligenza del buono». «Sì, disse, ed è assai ridicolo». «E come non lo sarebbe, io dissi, se prima ci rimproverano

[c]

di non sapere che cos'è il buono e poi parlano come se lo sa­ pessimo? affermano infatti che esso è l'intelligenza del buono, come se poi noi comprendeSsimo che cosa intendono quando profferiscono la parola "buono"». «Verissimo», disse. «E che dire di quelli che definiscono buono il piacere? sono forse meno colmi d'errore che gli altri? non sono anch'es­ si obbligati a convenire che vi sono piaceri cattivi?». «Certamente». «Ne segue, ritengo, che essi devono ammettere che le stesse cose sono buone e cattive: non è così?». «Sì». «Non è dunque chiaro che intorno a questo problema vi sono gravi e numerose controversie?». «E come no?». rici", sulla base di D.L. II 106, oppure Antistene (per una rassegna di queste interpretazioni dr. G. GIANNANTONI, Socratis et Socraticorum reliquiae, Na­ poli 1990, vol. l, pp. 366-67, e, per Antistene, vol. IV p. 390).

È difficile tutta­

via non spingersi oltre. La phronesis è considerata sinonimo di episteme in 506b2; viene denunciata come "ridicola" la circolarità dell'argomento secon­ do cui il bene consiste nella phronesislepisteme dd bene (505b-c). Tutto ciò richiama luoghi cdebti della dottrina altrove attribuita al "personaggio" So­ crate. Nd Protagora, la virtù è riconosciuta come episteme (352c3) o phronesis (c7) con cui si •conoscono i beni e i mali» (c4-5). Nd Carmide condizione di felicità è vivere secondo la -scienza dd bene e dd male» ( 174c). La critica pla­ tonica sembra dunque colpire qui, per la loro infondatezza teorica circa la natura dd "buono", tesi proprie dd gruppo socratico e rappresentate in alcu­ ni dialoghi dallo stesso personaggio di Socrate. Esse impiegano enfaticamente (505c4: cp9É'yl;rovta\: sul valore autoironico dd verbo cfr. ADAM ad loc.) «il nome dd buono» senza sapeme definire il contenuto: l'analisi ontologica che segue ha dunque anche lo scopo di superare questa petizione di principio.

[d]

82

PLATONE, LA REPUBBLICA

«E non è chiaro che per ciò che concerne le cose giuste i più sceglierebbero di fare, di possedere, di far credere le cose c�e paiono tali, anche se non lo sono;m quanto alle cose buo­ ne, invece, nessuno si accontenta di possederne di apparenti, bensì tutti ricercano quelle che lo sono davvero, e su questo punto chiunque disprezza l'opinione?». «Certo», disse.

[e]

«Ma ciò che ogni anima insegue e in vista del quale compie ogni suo atto, 116 supponendone l'esistenza ma versando nel dub-

115

Il riferimento è senza dubbio alla tesi di Glaucone in II 362a-b: ciò

che conviene è l'apparenza

(ta dokounta), non la realtà della giustizia, in virtù

della pubblica approvazione e dei vantaggi di praticare segretamente l'ingiu­ stizia. Se non è possibile dimostrare (analiticamente e poi sinteticamente) che il dikaion è connesso intrinsecamente all'agathon, a ciò che è utile e vantaggio­ so ai fini della felicità, continueranno ad avere ragione Trasimaco e i suoi "successori" nel libro II, Glaucone e Adimanto.

o m, 8ulncEt ILÈV aJtaoa vuxit ICUÌ. tOUtO'U EvEK:a ltcXVta !tpattEl, scii. "il buono". La tesi secondo cui ogni anima persegue to agathon, pur potendo­ 116

si sbagliare perché ne ignora la natura, è stata molto discussa perché sembra in contraddizione con la teoria psicologica del libro IV, secondo la quale l'anima può essere dominata dai desideri delle sue parti irrazionali (thymoeides, epithymetikon) che sono indipendenti dal bene. Va però notato che a questo livello dell'analisi l'ambito semantico di agathon è nettamente distinto dalla sfera morale (dikaionlkalon, 505d5, 506a4) e connesso invece a quello dell'uti­ lità (ai fini della felicità) che ognuno intenziona anche quando persegue soddi­ sfazioni come il potere, la ricchezza, i piaceri. Nessuno desidera ciò che è inu­ tile e nocivo in luogo di ciò che è vantaggioso e foriero di felicità. n problema è allora quello, teorico ed educativo insieme, di dimostrare il nesso costitutivo

fra dikaionlkalon e

agathon (Platone sosterrà, in modo dd tutto inedito, che la

"bontà" della giustizia dipende dalla sua derivazione ontologica dal "buono" stesso). Supposto che questo nesso possa venire dimostrato, e che "ognuno" possa venirne persuaso, esisteranno ancora condotte indipendenti dal "giusto­ buono", cioè "irrazionali", come sembra suggerire il libro IV (dove tuttavia la concezione di "razionalità" era molto meno esigente di quella del libro VI)?

In altri termini, prevarrebbe la akrasia o la tesi "socratica" dell'impossibilità di fare il male conoscendo il bene? La risposta sembra dover essere complessa. Poiché "ognuno" desidera ciò che è

veramente utile, ha senso tentare di con­

vincerlo che il suo scopo coincide con il dikaion. Ma poiché l'apparato psichi-

LIBRO VI

83

bio e nell'impossibilità di afferrare adeguatamente che mai esso sia e di formarsi una salda credenza come riguardo alle al­ tre cose (perciò anche non può trarre da queste i loro eventuali vantaggi): intorno a tale e tanto oggetto, diremo forse che

[506a]

debbano essere ugualmente ottenebrati anche gli uomini mi-

gliori della città, cui vogliamo affidarne tutto il potere?».117 «Per nulla affatto», disse.

«Ritengo del resto, dissi, che per le cose giuste e belle, di cui si ignori in qual modo possano essere buone, si sarebbe ac­ quisito un difensore di non eccelso valore se lo ignorasse a sua volta; e predìco che prima di saperlo nessuno potrà adeguata­ mente conoscere quelle stesse cose». «Ed è una bella predizione». «La nostra costituzione sarà dunque compiutamente ordi­ nata, solo se su di essa veglierà un difensore tale da avere scienza di tutto questo». «Necessariamente, disse. Ma tu, Socrate, pensi che il buono consista nella scienza o nel piacere o in qualche altra cosa?». «Quest'uomo!, dissi: era ben chiaro da parecchio tempo che non ti saresti accontentato dell'opinione altrui su questi problemi». «Infatti non mi pare giusto, disse, Socrate, che si sia in gra­ do di esporre le opinioni altrui ma non le proprie, quando ci si occupa di tali questioni da così gran tempo».118 co umano oppone resistenza a questa convinzione razionale, è probabilmente inevitabile che restino "pochi" coloro che comprendono e praticano la giusti­ zia. La questione, nel libro IV come nel VI, è quella di affidare a questi ultimi il governo delle condotte pubbliche e private. In questo senso si conclude infatti il passo (dr. n. 117). Cfr. anche ADAM e CENTRONE ad loc.

�17 Chi detiene il potere deve. possedere lo standard di valutazione delle norme legali e di giustizia in rapporto alla loro utilità in vista della felicità pub­ blica e, mediatamente, individuale; reciprocamente, ha diritto al potere chi è in grado di avere una salda conoscenza di questo standard, l'idea del buono. 118 S ocrate ha dedicato l'intera vita alla ricerca sulla giustizia: dr. II 367d­ e. La sua reticenza può apparire agli interlocutori come il segno di un fallimen-

[b]

84

[c]

PLATONE, LA REPUBBLICA

«E allora? dissi io: ti pare giusto parlare di ciò che non si sa come se lo si sapesse?». «Non certo come se lo si sapesse, rispose; ma almeno, poi­ ché ci si pensa, accettare di dire quel che se ne pensa». «Ma non ti sei forse accorto, dissi, quanto siano squallide tutte le opinioni non fondate sulla scienza? le migliori di esse sono cieche: e ti pare che vi sia qualche differenza fra i ciechi che percorrono la strada giusta e chi opina, non fondandosi sul pensiero, qualcosa di vero?».119 «Nessuna», disse. «E vuoi dunque goderti uno spettacolo di cose squallide,

[d]

cieche e tortuose, invece di ascoltarne da altri di luminose e belle?». 12o «Per Zeus, Socrate, intervenne Glaucone,1 21 non arrestarti quasi tu fossi giunto al termine. Ci riterremo soddisfatti anche se tu tratterai del buono al modo stesso che hai trattato della giustizia, della moderazione e delle altre virtù». >, disse. >. «Verosimile, certo», disse. «E allora pensi che in questo ci sia qualcosa di sorprenden­ te, dissi io: che un uomo, passato da divine contemplazioni alle umane sventure, agisca goffamente e appaia molto ridicolo, se, quando ancora vede male perché non si è assuefatto abbastan­ za all'oscurità che lo circonda, viene costretto a contendere, nei tribunali o altrove, sulle ombre dd giusto o sulle statuette che proiettano queste ombre, e a disputare sul modo in cui

[e]

tutto ciò vien concepito da coloro che mai hanno visto la giu­ stizia in sé?». «Per nulla affatto sorprendente», disse. . «Ci deve essere pertanto, dissi io, una tecnica proprio di questa conversione, di come quell'organo possa venire riorien­ tato nel modo più rapido ed efficace; non già per infondergli la vista, perché già la possiede, ma, poiché non è orientato corret­ tamente e non guarda ciò che dovrebbe, per ottenere appunto questo scopo». «Sembra infatti», disse. «Le altre cosiddette virtù dell'anima, del resto, è probabile siano abbastanza vicine a quelle del corpo: in realtà infatti anche se all'inizio sono assenti possono esservi introdotte in

[e]

seguito con l'abitudine e l'esercizio; ma quella dell'intelligenza sembra partecipare, più di ogni altra, di un elemento divino, che mai perde la propria facoltà, e che, a seconda dell'o­ rientamento, può diventare utile e proficuo, oppure inutile e dannoso. Non hai mai notato come l'anima meschina dei cosiddetti "malvagi intelligenti" abbia la vista acuta, con quanta precisione discerna ciò verso cui è rivolta: infatti non ha la vista debole, ma è obbligata a metterla al servizio del male, sicché quanto più acutamente vede, tanto maggiori sono i mali che produce?».20 «Certamente», disse.

19 n "buono" è 'toU ovtoç tò cpavotatov, e appartiene quindi all'ambito dell'essere, sia pure al suo limite estremo di conoscibilità: cfr. qui [D], S 4. 20

n passo offre interessanti punti di contatto, e di differenza, con l'etica

aristotelica. Platone distingue fra aretai (che Aristotele avrebbe chiamato "virtù etiche") che possono venire trasmesse con il condizionamento educati­ vo delle abitudini morali (E9Ecn), e quella tou cppovi\aal ("dianoetica" in Aristotele) che è sempre presente - in misura diversa - ma che può essere orientata verso fini eticamente positivi o negativi (si veda in Aristotele la pos­ sibilità della deinotes, EN VI 13).

[519a]

106

PLATONE, LA REPUBBUCA

«E tuttavia, dissi, se questa parte di una simile natura, ope­ rata fin dall'infanzia, fosse stata amputata di quella sorta di zavorra21 congenita alla condizione del divenire, e che incro[b]

statasi a essa nei banchetti, nei piaceri di questo genere, nella gola, volge in basso lo sguardo dell'anima, se, cosi alleggerita, venisse rivolta verso il vero, questa stessa natura, negli stessi uomini, avrebbe visto anch'esso con grande acutezza, come ora vede ciò verso cui è volta». «È probabile», disse. «E non è forse probabile, io dissi, anzi necessario stando a quanto s'è detto prima, che non potrebbero adeguatamente governare la città né coloro che sono privi di educazione e ine­ sperti della verità, né coloro cui si è consentito di dedicare tut-

[c]

ta la vita all'educazione, i primi perché non hanno un unico sco­ po nella vita verso il quale debbano orientare tutte le loro azio­

ni, e private e pubbliche, i secondi perché di loro volontà non agirebbero affatto, convinti di essersi stabiliti, ancor vivi, nelle isole dei beati?».22 «Vero», disse.

«È dunque compito nostro di fondatori, dissi io, di costrin­ gere le nature migliori a indirizzarsi verso la conoscenza che [d]

prima abbiamo definito la più alta, a vedere cioè il buono e ad ascendere per quell'ascesa;23 e una volta che siano saliti e l'ab21

Molybdidas. In X 611e sg. il riferimento metaforico è chiaramente alle

incrostazioni sulla carena di una nave («pietre e conchiglie»).

22 Le "isole dei beati� come luogo di felicità oltreterrena appartengono alla tradizione (cfr. HES. Op.

w.

170-73, PI. O. II w. 68 sgg.) ripresa in Plato­

ne (Gorg. 526c). Sulla divaricazione tra forme di vita qui accennata, cfr. n. 24. 2'

Anabasis. TI tema del percorso dal basso all'alto, e viceversa, percorre

l'intera Repubblica, che si apre con la ltatabasis di Socrate al Pireo e si conclu­ de (X 621c5) con la «via verso l'alto». Nel contesto della caverna, il movimen­ to alto/basso coincide con quello esterno/interno: si tratta però non di uno spostamento nello spazio ma di un orientamento dello sguardo conoscitivo e dell'intenzionalità etica (cfr. qui Introduzione, S 4). Sull'idea del buono come

megiston mathema cfr. VI 505a.

LIBRO Vll

107

biano adeguatamente veduto, di non concedere loro ciò che oggi viene concesso».24 «E cioè che cosa?». «Di rimanere lassù, di non volere ridiscendere presso quei prigionieri per condividerne le prove e gli onori, meschini o seri che siano». «Ma allora, disse, faremo loro ingiustizia, li faremo vivere male quando è loro possibile una vita migliore?». «Di nuovo dimentichi,2' dissi, amico, che alla legge non

[e]

importa che un solo gruppo goda nella città di uno straordinario benessere, ma che essa si sforza di diffondere questo benessere nella città intera, armonizzando i cittadini sia con la per­ suasione sia con la forza,26 facendo sl che essi si scambino reci­ procamente i servizi con cui ognuno sia in grado di rendersi

[520a]

utile alla comunità, e formando essa stessa uomini simili, non perché a ciascuno sia concesso di volgersi alle occupazioni che preferisce, ma per valersene ai fini della coesione della città». «Vero, disse; in effetti lo dimenticavo». «Del resto vedi, Glaucone, dissi: non commetteremo in­ giustizia verso i filosofi che da noi si sono formati, bensl dare­ mo loro giuste spiegazioni quando li costringeremo ad assu­ mersi la cura e la difesa degli altri. Diremo infatti che "nelle altre città chi è diventato filosofo è logico non partecipi alle fatiche politiche: infatti si è formato spontaneamente, senza la vo24

Ciò che «Ora» è concesso (ai filosofi che si sono fonnati «Spontanea­

mente», al di fuori dell'azione educativa ddla cinà), è di separare la loro fonna

di vita da quella politica, sicché, reciprocamente, i politici mancano di uno r/tr; por di riferimento: proprio questa separazione dovrà essere «obbligatoriamen­ te impedita» (V 473d) nella nuova cinà. La necessità dell'impegno politico dei nuovi filosofi è ribadita in 519e-520a. Sulla questione cfr. vol. V, [HJ. pane D. 15 D rinvio è alla discussione con Adimanto in IV 419a sgg. 26 nu8oi 'tE ICCXÌ. cXVcl'YICll. fl ricorso alla persuasione e alla COStrizione nella fonnazione di un corpo cittadino Mannonico• è un tema ricorrente nella R�pubblica (cfr. vol. IV, [A), S 6), e ripreso ancor più esplicitamente nel Politico (293d-e, 296b-c).

[b]

108

PLATONE, LA REPUBBUCA

lontà della rispettiva costituzione, ed è giusto che chi si è for­ mato da solo, a nessuno debitore del proprio nutrimento, non voglia poi versarne ad alcuno la ricompensa; quanto a voi però, noi vi abbiamo generato, per voi stessi e per il resto della città, perché siate quali i capi e i re negli alveari; vi abbiamo imparti­ to un'educazione migliore e più completa di quella degli altri filosofi,27 e vi abbiamo resi più capaci di dedicarvi a entrambe [c]

le attività. Dovete dunque, quando è venuto il vostro turno, ridiscendere là dove vivono gli altri e abituarvi a osservare le immagini oscure; una volta assuefattivi, le vedrete mille volte meglio di quelli di laggiù, e di ognuna delle immagini saprete che cos'è e che cosa rappresenta, grazie all'aver visto il vero intorno a ciò che è bello e giusto e buono.211 E cosl per noi e per voi la città sarà retta nell'ordine della realtà e non del sogno, come invece accade per la maggior pane di quelle di oggi, i cui cittadini si battono fra loro per delle omb� e si contendono il

[d]

potere, quasi fosse un gran bene". Ma questa è la verità: la città in cui è destinato al potere chi meno desidera esercitarlo, avrà necessariamente il miglior governo e sarà la più aliena da con­ flitti civili, quella invece che ha governanti del genere opposto, si troverà nella situazione opposta». «Ceno», disse. «Non si faranno forse convincere i nostri allievi, secondo te, ascoltando questi argomenti? si rifiuteranno di condividere, ognuno al suo turno, le prove della politica, pur trascorrendo la maggior pane del tempo fra loro, nella purezza?».29 27

Si chiarisce qui che i «dialettic». fonnati dall'impresa educativa della po/is

avranno una preparazione migliore di quella dei ftlosofì che si sono educati «Spontaneamento., cioè •privatamente". Sul rapporto fra l'autofonnazione filo­ sofica ndl'ambito dell'Accademia e quella progettata per la ktJ/ipo/is cfr. qui [0]. 28

Un passo importante, perché chiarisce bene come la episteme filosofica

agisca immediatamente da fondamento per la akthes doxa etico-politica. Cfr. vol. IV, [L], S 6, e qui [H], S 3.

2'1 iv tip �ea&pip. U linguaggio della Mpurezza" ha naturalmente

un

alone

religioso («half-mysticah� lo definisce ADAM ad loc.): si pensi all'Apollo

109

UBROVD

« di Bumet, che sembra inappropriata (ADAM ad loc.). 46 .1.tavo'll9i\ vat. Non è qui da vedere un riferimento alla dianoia mate­ matica contrapposta alla noesis dialettica in VI 510d-511a; il verbo descrive il procedimento astrattivo-idealizzante proprio delle matematiche così come, secondo Glaucone, esso è concepito dai matematici stessi, che certamente non accetterebbero la subordinazione prevista dal modello della "linea�. Del resto in b2 lo stesso Socrate segnala la continuità fra questo procedimento e il ricorso alla noesis. Sul problema cfr. qui [A].

LIBRO VII

119

«E davvero, disse, lo fa con grande efficacia».

«E non hai mai osservato che chi ha una disposizione natu­ rale per il calcolo dimostra un'altrettanto naturale acutezza praticamente in tutti i saperi, mentre le persone lente d'inge­ gno, se vengono istruite ed esercitate in questo campo, anche se

non ritraggono altri vantaggi, almeno migliorano tutte dive­

nendo più acute di quanto non fossero prima?». «È così,»,disse. «Del resto, penso che non sarebbe facile trovare molte di-

[c]

scipline il cui apprendimento e la cui pratica comporti più sforzi di questa». «No di certo». «ln vista di tutto ciò, questa disciplina non va trascurata, anzi le migliori nature devono esservi educate». «Sono d'accordo», egli disse. «Adottiamo dunque, dissi, questa prima disciplina; vedia­ mo ora se una seconda, che le consegue, convenga ai nostri propositi». «Quale? intendi forse la geometria?», disse. «Proprio questa»,dissi io. «Nella misura in cui essa concerne le cose di guerra, disse, [d] è chiaro che ci conviene: riguardo alla disposizione degli ac­

campamenti, alla presa delle piazzeforti, al concentramento e allo spiegamento dell'esercito, a tutti gli schemi di manovra nelle battaglie stesse e nelle marce, per un generale farebbe una bella differenza l'essere esperto di geometria piuttosto che non esserlo». «A tale scopo tuttavia,dissi,basterebbe una preparazione an­ che parziale nella geometria e nd calcolo;47 bisogna piuttosto in­ dagare se la parte principale e più avanzata della geometria tenda

�7 n Socrate senofonteo riteneva appunto che l'apprendimento della geo­ metria dovesse limitarsi alle sue finalità pratiche, senza spingersi fino agli aspetti più complessi della disciplina (Mem. IV 7.2-3).

PLATONE, LA REPUBBUCA

120

[e]

a qud nostro fine, ad agevolare cioè la visione dell'idea dd buono. Noi affermiamo che tende in questa direzione tutto ciò che co­ stringe l'anima a rivolgersi verso qud luogo nd quale si trova la parte più fdice dell'essere,48 che essa deve in ogni modo vedere». «Esatto», disse. «Se dunque questo sapere costringe a contemplare l'essen­ za, esso conviene, se invece il divenire, non conviene». «È ciò che affermiamo».

[527a]

«C'è peraltro una cosa, dissi io, che nessuno di quanti sia-

no anche minimamente esperti di geometria potrà contestarci: che questa scienza è tutto l'opposto dd linguaggio usato a pro­ posito di essa da coloro che la praticano». «Come?», chiese. ««Usano un linguaggio assolutamente ridicolo e vincolato alla necessità:49 costruendo tutti i loro discorsi come se operasse­ ro praticamente e in vista di questa pratica, parlano di "quadra­ re", di "costruire", di "aggiungere", e profferiscono tutta questa terminologia; mentre questa disciplina va certamente coltivata [b]

tutt'intera in vista della conoscenza». 48 Tò t:Ù�atj.loVÉO'ta'tov 'tOU ov'toç. Questa espressione si riferisce con ogni probabilità all'idea dd buono, confermandone due aspetti essenziali: l) l'appartenenza, sia pure in posizione eminente, al campo dell'essere; 2) la stretta connessione con la felicità, quindi con la dimensione etica della vita (per entrambi questi aspetti cfr. qui [D]). La geometria tuttavia non verte direttamente sul "buono" bensì sulla dimensione dell'essenza (ousia, e6), rispetto alla quale il "buono" è "ulteriore": un sapere dunque necessario ma solo preliminare. In ogni caso queste battute sembrano segnalare una supe· riorità della geometria rispetto all'aritmetica nd percorso verso il "buono", in quanto teoria non dell'uno ma dell'ordine strutturato del campo noetico. Sulla predilezione accademica per la geometria cfr. qui [O]. 49

Aiyouot j.lÉV Jtou j.lUÀ.a yt:À.otmç 'tE Kai àvaYKaimç. Per il "ridicolo"

cfr. la stessa espressione (Glaucone verso Socrate) in 509cl. L'avverbio anan­

kaios può significare che i geometri non possono fare a meno di questo lin· guaggio e delle operazioni che esso descrive (così SHOREY ad loc.), o anche che si tratta di procedure intellettualmente volgari, serviti («banausiche»). Per le diverse vedute in proposito cfr. qui [G] e [L].

121

UBROVII

«Assolutamente», disse. «E non bisogna convenire anche su quest'altro punto?».

«Quale?». «Che essa verte su ciò che sempre è,'0 non su ciò che volta a volta nasce e perisce». «Se ne può facilmente convenire,'1 disse: la geometria è in­ fatti conoscenza di ciò che sempre è». «Dev'esser dunque atta, nobile amico, a trainare l'anima verso so

la verità e a produrre pensiero filosofico, per rivolgere ver­

l'alto lo sguardo che ora a torto teniamo in basso». «Quanto mai adatta», disse. «È dunque quanto mai opportuno, dissi io, disporre che i

cittadini della tua bella città'2 non trascurino in alcun modo la geometria. Del resto essa presenta vantaggi marginali non tra­ scurabili». «Quali?», egli chiese. «Da un lato, dissi io, quelli di cui tu parlavi riguardo alla guerra, dall'altro, ai fini di una miglior comprensione di ogni altra conoscenza, sappiamo quale totale differenza vi si fra chi ha afferrato la geometria e chi no». «Totale davvero, per Zeus», disse. «Poniamo dunque questa come seconda disciplina per i giovani?».

,., to\ì cit:ì ovtoç. L'opposizione alla sfera dd nascere e dd perire sembra conferire uno spiccato valore esistenziale a questa espressione. Non c'è tutta­ via contraddizione con il prevalente significato veritativo-predicativo di locu­ zioni simili (cit:ì Katà taùtà cboaùtmc; ovta, V 479c6-7, VI 484b4), perché la fonna di esistenza specifica degli enti ideali ddle matematiche è l'invarianza ndla autoidentità. Cfr. vol. IV, Introduzione, p. 32. '1

Euòmologeton. La ricerca ddla homologill dialettica è esigenza ricor­

rente in tutto il libro vn. Qùesto rende tanto più significative le occasioni in cui Glaucone rifiuta di concederla (dr. .H2d). n so

Compare qui la cdebre lOC\lzione di IUJI/ipolis, con la quale viene spes­

designata la città utopica di Platone. C'è tuttavia

un

doppio

senso,

perché

[c]

122

PLATONE, LA REPUBBUCA

«Poniamola», disse. «E poi? porremo come terza l'astronomia? o non sei di que-

[d]

sto avviso?». «lo sì, disse: infatti una miglior percezione dei fenomeni connessi alle stagioni, ai mesi, all'annata, giova non solo all'a­ gricoltura e alla navigazione, ma non meno anche al comando in guerra»." «Sei proprio dolce, dissi io: sembri temere che la folla pen­ si che tu prescriva saperi inutili. Ma quel che non è affatto tra­ scurabile, sebbene difficile a credersi, è che grazie a questi saperi un organo ddl'anima di ogni uomo viene purificato e la sua fiamma ravvivata; un organo che viene perduto e accecato [e]

dalle altre occupazioni, ed è tuttavia più meritevole di essere salvato che non mille occhi: perché con esso soltanto è dato vedere la verità. Coloro dunque che condividono quest'opinio­ ne ti approveranno incondizionatamente, quanti invece non ne hanno mai avuto alcun sentore penseranno probabilmente che tu parli a vuoto: da questi saperi non vedono infatti risultare nessun'altra utilità che sia degna di rilievo. Vedi dunque, a par-

[528a]

tire da questo momento, a quale dei due gruppi intendi rivol­ gerti nella discussione, oppure se preferisci ignorarli entrambi e proseguire il discorso soprattutto per te stesso, senza però rifiutare che altri ne possano profittare». «Questa è la mia scelta, disse: di parlare, domandare e ri­ spondere soprattutto per me stesso».S4

esistevano sia in Asia minore sia in Sicilia e Magna Grecia cinà dal nome di Kallipolis (oggi Gallipoli): cfr. Hor. VII 1�42, STR. VI 2.6. n

Glaucone sostiene qui la stessa tesi sull'utilità ddl'astronom ia che Sc­

nofonte aveva attribuito a Socrate (M�m. IV 7.4-5).

'4 Glaucone segnala qui la sua autonomia dialogica: egli non sta né con il pkthor (nel quale si può annoverare il Socrate scnofontco) né con gli Ac­ cademici già pronti a consentire alla scdta platonica. Questa autonomia si rivela però a più riprese decisiva per lo svolgimento dd dialogo (cfr. vol. Il,

[A]).

LIBRO VII

123

«Torna allora indietro, dissi io: prima non abbiamo infatti scelto correttamente ciò che segue alla geometria».�� «Qual'è stata la scelta sbagliata?», disse. «Dopo la superficie, dissi io, abbiamo preso il solido già in rivoluzione, prima di considerarlo in sé e per sé: è invece corret-

[h]

to considerare, dopo la seconda, la terza dimensione. Si tratta cioè della dimensione propria del cubo, che comporta la pro­ fondità». «È cosi, disse: ma questo campo, Socrate, sembra non sia stato ancora scoperto». «Duplice infatti, dissi io, ne è la causa: da un lato, le ricerche, che sono in sé difficili, proseguono fiaccamente perché nessuna città le valuta importanti; dall'altro i ricercatori hanno bisogno di un direttore,� senza il quale non possono giungere a scoperte. Ora, innanzi tutto è difficile che questo direttore esista, e se anche ci fosse, nella situazione attuale quelli che sono dotati per le ricerche in questo campo, per la loro presunzione

[c]

non lo accetterebbero. Ma se una città intera cooperasse con lui, apprezzando l'importanza di questi studi, lo seguirebbero ed essi, fatti oggetto di ricerche serrate e vigorose, apparireb­ bero nella loro vera luce: anche adesso del resto, benché di­ sprezzati e ostacolati dai più, e coltivati da ricercatori che non ne comprendono a fondo l'utilità, si sviluppano ugualmente superando di forza tutte queste difficoltà in virtù della loro ele­ ganza, e non ci sarebbe da sorprendersi per una loro fioritura». «E davvero, disse, quanto a eleganza, ne hanno in misura straordinaria. Ma spiegami più chiaramente ciò che dicevi " L'errore compiuto viene sottolineato per enfatizzare l'importanza di ciò che è stato omesso: la geometria solida e, con essa, la fondazione geome­ trica dell'astronomia. Su quanto segue cfr. qui [L]. �

Epistates. Si tratta della più netta formulazione antica della necessità

che la ricerca scientifica disponga di un supporto pubblico (cfr. c2: polis ho/e) e di una adeguata direzione. Entrambe le condizioni sarebbero state realizzate solo nd Museo di Alessandria, in cui comparve appunto la figura dell'epistates.

[d]

124

PLATONE, LA REPUBBUCA

poco fa: in effetti ponevi, come trattazione della superficie, la geometria». «Sì», dissi io. «Poi, disse, in un primo momento ponevi dopo di essa l'a­ stronomia, ma in seguito sei tornato indietro». «E infatti, risposi, nella fretta di esaminare tutto rapidamen­

te, ho perso piuttosto dd tempo. Qudla che segue immediata­ mente è l'indagine sulla dimensione della profondità, ma poi­ ché la situazione ddle ricerche in questo campo è ridicola, l'ho [e]

saltata e dopo la geometria ho nominato l'astronomia, cioè il movimento di questa dimensione>>. «Esatto», disse. «Poniamo dunque, dissi io, l'astronomia [M] come quarta disciplina, supponendo che il sapere che ora tralasciamo esi­ sterà se la città vorrà occuparsene». «È probabile, egli disse. E poiché priman mi hai rimprove­ rato, o Socrate, di lodare un po' volgarmente l'astronomia, ora

[529a]

ne farò un elogio nel senso che tu preferisci: è chiaro a tutti, mi sembra, che essa costringe l'anima a guardare verso l'alto e la guida dalle cose di qui a qudle lassù».'8 «Forse, dissi, è chiaro a tutti salvo che a me: questa non è infatti la mia opinione>> . «Ma come?», disse.

H

Cfr. 527d.

'8

Enthadelekeine. L'equivoco di Glaucone sta nd prendere alla lettera la

metaforica platonica alto/basso come se equivalesse a cido/terra: si tratta, invece, dd rapporto fra livello noetico-ideale e livello empirico-sensibile (que­ sto passo è anche rilevante per l'interpretazione dd «paradigma in cido,. di

IX 592b2: si tratterà a sua volta di un modello ideale, non di un riferimento cosmologico: dr. in proposito vol. IV, p. 141, n. 49). Non c'è dubbio però che Glaucone sia confuso, e forse anche irritato, per il linguaggio metaforico di Platone, così denso in questo libro di riferimenti a anabasislkatabasis, cie­ lo/terra, sole/caverna. Sui possibili equivoci in questo senso, merita di venir letta la nota di SHOREY ad loc.

UBRO VII

125

«Nel modo in cui attualmente la trattano coloro che vo­ gliono introdurre alla filosofia,'9 essa fa sì che si guardi proprio in basso». «In che senso? », disse. «Ardita davvero mi sembra, dissi, la concezione che ti sei fatta di quale sia il sapere relativo a ciò che sta in alto. Finirai infatti col credere che uno che osservi le decorazioni di un sof-

[h]

fitto con la testa all'insù e ne distingua qualcosa, usi nella sua osservazione il pensiero e non

gli occhi.

Forse tu hai ragione e

io sono un ingenuo. 60 Io comunque non posso pensare che vi sia altro sapere che indirizzi verso l'alto lo sguardo dell'anima, se non quello che verte su ciò che è e sull'invisibile. Ma se uno vuole studiare qualcuna delle cose sensibili, che la si osservi in alto a bocca spalancata,61 o in basso tenendola chiusa, io affermo che egli non ottiene nessuna conoscenza, perché non c'è scienza per nessuna di simili cose, e che la sua anima non in alto ma in basso rivolge lo sguardo, anche se si studia nuotando sul dorso, in terra62 o nel mare». «Ho avuto quel che meritavo, disse, e giustamente mi hai rimproverato. Ma come secondo te occorrerebbe studiare l'a­ stronomia, prescindendo da ciò che attualmente viene studia­ to, per rendeme lo studio utile ai fini che ci proponiamo?». "oi EÌç cpl.Àoooq>tav àvàyovttç. Non credo che l'espressione valga «co­ loro che la innalzano a filosofia» (Eudosso?) o «che la riconducono alla filoso­ fia» (lppia? cfr. Prot. 318e). Traduco invece pensando all'insegnamento iso­ crateo, che vedeva gli studi astronomici come preliminari all'apprendimento della "filosofia", nd senso debole che gli era proprio (cfr. Antid. 261). 60

Euethikos. Socrate rovescia qui ironicamente l'accusa di "dabbenaggi­

ne" e ingenuità (euetheia) che gli viene spesso rivolta. Cfr. vol. I, p. 80, n. 55; vol. II, pp. 199-201. Ma il personaggio Socrate del libro VII è certo . molto

lontano da quello dileggiato da Trasirnaco nd I (343d). 61

Kechenos: è l'astronomia di Socrate nelle Nuvole di Aristofane (cfr. v.

172); per lo "stare sul dorso", così doveva apparire Socrate nella sua cesta agli spettatori (vv. 218, 225). 62

Un'espressione bizzarra, che AoAM riferisce alla caricatura aristofanea

(cfr. n. 61). Per il "nuotare a dorso nei discorsi" cfr. Phaedr. 264a.

[c]

126

PLATONE, LA REPUBBLICA

«Così, dissi. Queste decorazioni che adornano il ciclo, pro[d]

prio perché ricamate nell'ambito visibile, vanno considerate le più belle e le più esatte fra le cose di tale ambito, ma anche di gran lunga carenti rispetto a quelle vere,63 a quei movimenti nei quali la vdocità in sé e le lentezza in sé si muovono in reci­ proco moto secondo il vero numero e secondo tutte le vere fi­ gure, e muovono altresì ciò che in esse è contenuto:64 tutto questo si può afferrare con il pensiero razionale, non con la vi­ sta. O sei di altro avviso?». «Proprio no», disse. «Bisogna dunque servirsi, dissi, degli ornamenti del ciclo come di modelli in funzione dell'apprendimento di quelle real-

[e]

tà, proprio come se ci si imbattesse in disegni eccezionalmente ben tracciati ed elaborati da Dedalo6� o da qualche altro artista o pittore. Vedendoli, un esperto di geometria penserebbe trat­ tarsi di opere dalla bellissima esecuzione, ma anche che sareb­ be ridicolo studiarli seriamente come se si potesse cogliere in

[530a]

essi la verità circa gli eguali, i doppi o qualsiasi altro rapporto». «E come potrebbe non essere ridicolo? », disse. «Ma chi è realmente astronomo, io dissi, non credi che assumerà lo stesso atteggiamento quando osserva i movimenti degli astri? e penserà che il miglior ordinamento possibile per queste opere, certo l'artefice dd cido66 l'ha predisposto per il 63 Alethinon. Tutto questo passo ridonda- in opposizione all'astronomia

empirica- dd linguaggio dell'"ontologia della verità". Cfr. alethinos, alethes, aletheia (529 d2, 3, e5, 530b4), e "tÒ ov, il oooa, "tép ovtt, OV"tOlç (529d2, 530a3, 530b8). 64

-tà Èvov"ta. Secondo SHOREY ad loc. si tratta degli astri visibili, ma il te­

sto, con il pronome rdativo che segue (a) sembra piuttosto suggerire che si tratti di enti ideali-noetici (ADAM, pp. 128 sg.). Per l'interpretazione di questo difficile passo cfr. qui [M], S 2. 6 ' A Dedalo veniva attribuita la capacità di scolpire statue semoventi

(Men.

97d-e), o almeno che davano l'impressione di esserlo (cfr. anche Euthyph. llb). 66

-tép -tou oùpavou Sruuoupyép: si può vedere qui sia un riferimento alla

religione tradizionale, sia un'apertura in direzione dd mito cosmogonico dd

127

UBROVll

cido stesso e per ciò che esso contiene; quanto però ai rapporti in cui stanno la notte con il giorno, entrambi con il mese, il mese

con l'anno, gli altri astri67 con questi e tra loro, non credi

[b]

che egli riterrà assurdo pensare che essi siano sempre identici68 e non presentino neppure la minima deviazione, pur essendo corporei e visibili, e cercare in ogni modo di coglierne la verità?». «Comunque è qud che ne penso io, disse, ora che ti ascolto». «Affronteremo dunque l'astronomia, dissi io, al pari della geo­

metria, servendoci di problemi: lasceremo però andare le cose del ciclo, se intendiamo, grazie a una trattazione dell'astronomia reale, rendere utile, da inutile che era, la parte della nostra anima che è per natura intelligente».

[c]

«Proponi certo, disse, un lavoro ben più impegnativo di quello che ora si svolge nd campo dell'astronomia». «Ritengo però, dissi, che anche per le altre discipline do­ vremo disporre nello stesso modo, se la nostra opera di legisla­ tori dovrà avere una qualche utilità. Comunque, sei in grado di menzionare qualche altro sapere che ci convenga?». «No, disse, almeno cosl sul momento». «Eppure il moto, dissi, presenta a mio avviso non una sola forma, ma molte. Un sapiente sarebbe forse in grado di dirle tutte: ma due ve n'è di evidenti anche per noi». «Quali?». « ... KaÌ Otavoi� Afl1t'tcl, O.El o' ou, e non senta il bisogno di specificare che in questo caso si tratta di vO,atç e non di lhavoux. Dal commento di Glaucone in 5llc2-d5 si capisce con chiarezza, in effetti, che vOt,cnc; e 6uxv0\a. Ma Smith ha dimostrato che ciò non si ricava dal testo, ed anzi il passo 510c2-d1 piuttO&to lo esclude (op. cit., p. 33). Per quello che mi riguarda, trovo persuasiva l'interpretazione dello stesso Smith, esposta per la prima volta in The Objects o/ auiv01a in Pltlto's Divided line, «Apeiron•, XV (1981) pp. 129-37, e poi più ampiamente nell'articolo più volte citato (Pitlto's Divided Line). Gli oggetti della 6uxv0\a sono le cose sensibili usate come immagini dell'intelligibile. Chi esercita la 6uxv0\a, in altre parole, compie in un certo senso una attività ibrida, perché pensa cose intelligibili attraverso rappresentazioni mentali tolte dal sensibile. 17

È corretto dire,

in accordo con l'interpretazione di Smith, che gli og­

getti del terzo segmento sono in un senso gli stessi oggetti del secondo (quelli colti dalla xic:Tttc;) e in un altro senso gli stessi oggetti del quarto (quelli colti dalla vOt,olc;). Nel primo caso ci si riferisce infatti alle

cose

sensibili utilizzat e

come immagini per conoscere le idee, nel secondo caso alle idee stesse, che sono il reale obiettivo di questo genere di conoscenza. Ciò, del resto, è quanto Socrate dice espressamente in 510d5-51la (cfr. N.D. SMITH, tlrt. cit. (n. 16), pp. 129-30; 135).

COMMENTO AI UBRI VI E Vll,

[A]

167

la ouxvOta non è un modo specifico di pensare, ma il termine generico per indicare il pensiero, che proprio in quanto generi­ co non può non essere attribuito anche a modi di pensare non strettamente filosofici. È la v6ft: riformata nella sua struttura epistemica dalla dialettica, responsabilizzata dal punto di vista etico-poli-

232

PLATONE, LA REPUBBLICA

tico, essa potrebbe superare i limiti delle microtecniche per­ suasive ed entrare in dialogo con la filosofia, aprendo la strada ad alleanze inedite, come quella prospettata dal sorprendente elogio di lsocrate, alla fine di quel dialogo. Se prendiamo sul serio la prospettiva del Fedro, e la facciamo retroagire sul testo della Repubblica, Platone potrebbe qui alludere ad alcuni for­ tunati passaggi dalla retorica alla filosofia, avvenuti nel tempo socratico (e perciò segnalati dal personaggio Socrate) o invita­ re, attraverso la profezia socratica, qualche illustre retore del suo tempo a compiere il passo decisivo verso la filosofia. In realtà, diversi amici di Socrate (tra cui molti personaggi rimasti oscuri quanto a qualità filosofiche, ma rappresentati nei dialo­ ghi platonici) dovevano aver subito il fascino dei maestri di retorica congiuntamente a quello della virtù socratica; una tra­ dizione attesta inoltre il discepolato di Antistene presso Gorgia tra il427 e il425; e, nel poco che sappiamo di Euclide di Me­ gara, spicca la sua passione per le controversie dialettiche, che potrebbe anche essere di derivazione sofistica, presumibilmen­ te convertita poi all'etica del socratismo. Non è chiaro però se, e in quale misura, Platone potesse considerare questi passaggi significativi per la sopravvivenza della filosofia, nel senso del mantenimento di una tradizione di pensiero legata alla qualità dei suoi esponenti. Nel tempo platonico, Antistene era proba­ bilmente il socratico di maggiore fama, ma come si è detto, ci sono buoni motivi per pensare che Platone non lo considerasse un maestro all'altezza della filosofia. Per lui, come per Isocrate, potrebbe piuttosto valere l'idea di passaggi incompiuti, di pro­ messe mancate. D'altra parte, la redenzione della retorica, intesa come in­ tervento della dialettica a monte, sulla struttura della disciplina (non come un progresso degli individui al suo interno), è anco­ ra un progetto pensato al futuro nella cornice conciliatoria del Fedro. Tenendo presente il contesto fortemente polemico nei confronti degli usurpatori, che circonda questi passi della Re­ pubblica, altre piste, che non passino per il disprezzo morale, sembrano più promettenti. Una tecnica come la medicina pre-

COMMENTO AI LIBRI VI E VII,

[c]

233

sentava già un livello di daborazione teorica decisamente più solido della retorica (almeno nella tradizione ippocratica, ap­ prezzata da Platone nd Fedro). Ma la valorizzazione degli aspet­ ti epistemologici dell'arte medica non sembra ancora maturata qui, nd contesto della Repubblica, né esistono indizi su presen­ ze significative di medici nell'ambiente platonico. La pedagogia della Repubblica offre invece più solidi agganci per indirizzare alle discipline matematiche l'interesse e il parziale disprezzo intellettuale dd filosofo. Innanzitutto, come si accennava pri­ ma, per il ruolo ausiliario e propedeutico attribuito alla geome­ tria (e alle discipline misuratrici in generale) nella formazione delle capacità intellettuali dd futuro filosofo. n tema della solle­ citazione dell'intelligenza, così socratico nella sua matrice, trova qui (524d e 525a-b) uno sbocco privilegiato nella dimensione puramente logica dd calcolo, campo di esercizio indipendente dai referenti concreti cui si applica. Nd punto decisivo dd di­ stacco dalla dimensione sensibile,24 la disciplina dd calcolo ap­ pare a Socrate «necessaria, perché è chiaro che essa costringe l'anima a valersi dd puro pensiero in direzione della verità stes­ sa» (526b). Non solo: essa è anche un potente filtro per la sde­ zione dei talenti, visto che «chi ha una disposizione naturale per il calcolo dimostra un'altrettanto naturale acutezza praticamen­ te in tutti i saperi>> (526b), mentre non ci sono (497b), che riapre il percorso costruttivo ideale. n muretto è l'ultima spiaggia della filosofia, ma anche il luogo dove si raccolgono le forze per il futuro. Dietro il muretto, la virtù filosofica potrebbe limitarsi a difendere uno spazio di cura e di tranquillità per se stessa, col­ tivando il giardino della teoria che è quanto di meglio sa fare (già questo non sarebbe «davvero poco», ma neppure «il mas­ simo», commenta Socrate: 497a). Potrebbe però, anche, atten­ dere con calma il verificarsi di particolari circostanze nella co­ stituzione cittadina reale, tali da consentire di dimostrare la sua divina eccellenza nei fatti (497c). L'alternativa non ha evidentemente un senso per il Socrate storico, cui si adatta piuttosto l'immagine del giusto che si è re­ so «inutile a sé e agli altri», soccombendo «prima ancora d'a­ ver giovato in qualcosa alla città e agli amici>> (496d)Y È assai significativa se la leggiamo come un invito a praticare, nel pre­ sente platonico, una strategia ad ampio spettro, in cui possia­ mo riconoscere il progetto dell'Accademia. In esso Platone fa­ ceva convergere due piani di finalità distinti, ma strettamente interagenti: l'alto profilo teorico di un programma educativo da coltivare in sdegnoso isolamento rispetto alla polis; la pro­ spettiva di un rientro «regale» nella grande politica dei costi­ tuenti. Utile in ogni caso, lo spazio protetto dell'Accademia

40

Un tipo di filosofo che corrisponde a quello che si è formato «sponta­

neamente» (automatos) (520b) e dunque non è tenuto all'impegno politico. 41

Su questa inutilità del giusto, secondo parametri comuni, cfr. Gorg.

522c-d.

COMMENTO AI LIBRI VI E VU,

[C]

247

poteva essere la serra di acclimatamento per piante filosofiche prive di ambiente naturale idoneo. L'immagine dd «seme stra­ niero» (497b) fa riaffiorare qui l'area metaforica ddla coltiva­ zione, radicalizzando l'opposizione alla città diseducante con la proiezione sull'identità del filosofo di un modello biologico di estraneità. Se, dunque, la sua natura vera lo rende straniero alla polis in cui è nato, il filosofo potrà restare se stesso soltanto rinun­ ciando ad avere una patria, estraniandosi cioè volontariamente da qudla terra cui non può appartenete. L'Accademia poteva ben rappresentare, allora, una seconda patria, un terreno di coltura artificiale, fatto per consentire, almeno in vitro, la ma­ turazione non degenere dei talenti naturali. Negli anni in cui scrive la Repubblica, la fondazione di un luogo amico, dove uomini simili potessero confrontare i loro pensieri, doveva ap­ parire a Platone una soluzione politica, una città sostitutiva più che un ritiro intellettuale. Quanto alla città reale, Platone sembra fare sua la logica del catalogo: come se non fosse un ateniese, come se vivesse in terra straniera, perfino come se fosse malato, passa quasi tutta la vita ad Atene senza fare politica, lui che, per nascita, educa­ zione e qualità, avrebbe dovuto occupare una posizione di pri­ mo piano tra le élites al potere. Se anche non prestassimo fede all'autenticità ddla Lettera VII e alle motivazioni fi addotte ddla sua volontaria astensione (323b-326a), dovremmo supporre che Platone si comportò di fatto come un esiliato in patria, se poté vivere l'epoca più burrascosa della storia ateniese senza subire in alcun modo gli effetti dei suoi rivolgimenti interni. Aveva 17 anni, la vigilia ddl'ingresso nella vita adulta, all'epoca dd colpo di stato oligarchico dd 411 e, in tutto il drammatico avvicendarsi di gruppi egemoni avversi in Atene, sembra non trovare mai l'occasione giusta per passare all'azione, mentre non disdegna il lontano scenario politico di Siracusa per impe­ gnarsi in rischiosi tentativi, pur di concretizzare i suoi progetti di costituzione. Se si fosse limitato a scrivere di politica, si po­ trebbe avvicinarlo a lsocrate, a Tucidide, allo pseudo-Senofon-

248

PLATONE, LA REPUBBUCA

te, agli scrittori di politeiai, costretti a usare l'anna della parola perché in qualche modo impediti nell'azione.42 Ma il suo attivi­ smo anomalo in campo internazionale, di cui probabilmente ci sfugge la logica complessiva, non collima con l'immagine dd teorico puro, animato esclusivamente da «furore geometrico», ed è difficile pensare che sia stato soltanto episodico il coinvol­ gimento degli accademici in imprese politiche impegnative, co­ me quella dd rovesciamento della tirannide di Dionisio di Si­ racusa, capeggiata da Dione.43 Frapponendo il muretto tra sé e la cattiva politica, il filosofo platonico si disponeva a costruire, dal suo lato, le condizioni per il ricongiungimento della razionalità teoretica con la capacità di comando, la cui possibilità è fondamento assoluto di credibilità dell'intero discorso sulla giustizia (cfr. 473d-e). Le circostanze avrebbero poi deciso le modalità più praticabili, in direzione dd governo dei filosofi o dd supporto filosofico ai governanti. La priorità dd fine costringe a considerare equivalenti le alternati­ ve: riunite in una sola persona o distribuite in un sapiente gioco delle parti tra il filosofo e l'uomo di potere, le disposizioni al bene devono integrarsi in un'unica capacità di direzione strate­ gica. Tutto ciò al di fuori di un quadro ideale di garanzie; per i fondatori non vale infatti l'ordinato progetto di selezione e di uso delle risorse della kallipolis. Cambiano, come si è visto, le condizioni di reperibilità degli uomini, cambiano anche le pos­ sibilità di controllo delle circostanze e, più in generale, la di­ mensione dd tempo: da un lato c'è l'intero corso del passato e dd futuro, in cui nessuno può, statisticamente, escludere che si siano prodotte (499b) o che possano prodursi (502a-b) le com­ binazioni giuste di uomini e situazioni; dall'altro, il tempo op­ portuno, il kairos da afferrare al volo quando si presenta, senza lasciarsi cogliere impreparati. Di questa preoccupazione offre �2 L'osservazione

è in N. LoRAUX, I:invention d'Athènes. Histoire de l'o­

raison/unèbre dans la "cité classique", Paris 1981, p. 182. �)Sull'attività degli "accademici politici"

dr. M. lsNARDI PARENTE, Studi

sull'Accademia platonica antica, Firenze 1979 , pp. 274-305 e qui [0].

COMMENTO AI UBRI VI E Vll,

[C]

249

un'eco precisa la Lettera VII,44 nei passaggi in cui il filosofo giu­ stifica in prima persona la decisione di tentare l'awentura sira­ cusana: era difficile vedere nelle disposizioni del tiranno Dio­ nisio la possibilità che giungesse «alla sua piena realizzazione la nostra speranza che i filosofi e reggitori di grandi stati fossero congiunti nella medesima persona» (328a-b); ma Platone sa che non può pennettersi di aspettare circostanze più favorevoli e decide di correre il rischio perché «Se mai si voleva tentare di dare realizzazione ai miei pensieri sulle leggi e sullo stato, quello il momento» (328c). E perché sia chiaro che la posta in gioco

era

va ben al di là delle sue personali ambizioni (e anche della sua feddtà all'amicizia), attribuisce a Dione un'accusa (nell'ipotesi che egli non si convinca ad agire) dd tutto in tono con questi passaggi della Repubblica: «Tuttavia non è la mia sorte a mac­ chiarti della vergogna maggiore ma la filosofia: la filosofia, che tu sempre esalti e dici disonorata dal resto degli uomini, non l'hai forse tu tradita come hai tradito me?» (328e-329a). L'accu­ satore ha dawero tutti i titoli per muovere un simile rimprove­ ro: descritto senza ombra di dubbio come una natura filosofica, materializzava il sogno di una miracolosa incorruttibilità, resi­ stendo giovanissimo all'influsso pervertitore della corte e della città, fino alla svolta decisiva dell'incontro con Platone.4' Se il detenninarsi nei fatti delle circostanze opportune re­ stava un fattore imponderabile, più complesso diventava il pro­ blema della formazione dei filosofi: bisognava integrare i tempi lunghi della teoria e i tempi rapidi dell'azione e questo richie­ deva attitudini caratteriali diverse; la tenuta di qualità dd pro­ getto esigeva, d'altra parte, una perfetta osmosi tra le nature fi­ losofiche. È questo il rompicapo che Platone doveva sciogliere. Cosi, nella modellistica dell'Accademia, potevano circolare ritratti diversi dd filosofo: tanto il teorico puro, incline a sen44

Queste le parole con cui Dione invita Platone ad andare in Sicilia la

seconda volta: «Quali altre occasioni (ICa\poUç) vorremmo aspettare, migliori

di quelle che si sono presentate ora (v\Jv) per una certa qual sorte divina (9d� nvì 't'Uxn>?• (327e). °

Cfr. Ep. VII 326b-c, 327a-b.

250

PLATONE, LA REPUBBLICA

tirsi a casa sua solo nel calcolo, quanto il politico, disposto a giocare la sua vita per un progetto di giustizia; tanto il Teeteto, «liscio come l'olio» (Teeteto, 144b) nelle procedure di ricerca intellettuale e completamente privo di ambizioni competitive, quanto il Dione ritratto nella Lettera VII (327a-b, 328b, 351a­ e) come un individuo straordinariamente dotato per la virtù e per il comando, «buon timoniere» (351d), ma, come il giusto travolto dalla tempesta, troppo grande e ingenuo per com­ prendere la cattiveria degli uomini, «la profondità della loro ignoranza, della loro malvagità e ingordigia>> (351e). Per le nature filosofiche i tempi erano, insomma, durissimi. Lanciando l'idea di un rifugio per il futuro della filosofia, Platone si proponeva in qualche modo come punto di riferi­ mento per la dispersa intellettualità "buona" nel mondo greco. A conclusione del percorso di ricognizione sulle risorse resi­

due, i referenti dell'appello sembrano una ben precisa catego­ ria, identificabili nel presente platonico: «quei pochi filosofi, che ora (nyn) sono definiti non malvagi ma inutili», che la «for­ tuita necessità» potrebbe indurre, «che lo vogliano o no» (499b), a occuparsi di politica. Se in questi personaggi possia­ mo riconoscere il profilo degli accademici, anche l'ipotesi seguente, parzialmente alternativa («che per una qualche ispi­ razione divina sorga nei figli di quelli che oggi detengono il potere o il regno, o in loro stessi, un vero amore per la vera filosofia>>), potrebbe contenere un autoriferimento.46 In fondo

46

Cfr. anche 502a, dove il discorso sui possibili re o potenti convertiti

alla filosofia si restringe ai figli. Nel tempo in cui Platone scrive, verosimil­ mente, la Repubblica, i riferimenti possibili includono tanto Dionisio il giova­ ne (allora adolescente in crescita, essendo nato intorno al 396, e, a detta di Dione, dotato e promettente), quanto Dione stesso, ma non escludono certo Platone, come tramite di ispirazione per entrambi. Non è più così nel conte­ sto della Lettera VII, dove le buone disposizioni di Dionisio sono rappresen­ tate ormai, con il senno di poi, dal punto di vista della loro perversione, men­ tre Dione è già morto. Assumendo questo testo come base interpretativa, Plutarco ricostruisce la trama dell'ispirazione divina facendo perno su Plato­ ne (Dio, 4.3-4).

COMMENTO Al UBRI VI E VII,

[C]

251

potrebbe essere proprio Platone l'uomo di cui Socrate profe­ tizzava l'avvento, chiamando l'intero corso del tempo a realiz­ zame la possibilità statistica (502a-b): figlio di stirpe regale, dotato di natura filosofica, gli mancava soltanto l'obbedienza fiduciosa di una polis. n discorso sulla reperibilità di uomini e circostanze si chiu­

de con un preciso richiamo alla necessità di passare dalle paro­ le ai fatti, considerando questo un traguardo ottimo, difficile, ma non impossibile (502c). Solo in questa prospettiva, dipinge­ re costituzioni con le parole potrà non essere considerato una perdita di tempo: specchiandosi nel disegno di «pittori che si valgono di un modello divino», la città potrebbe concepire ver­ gogna per se stessa e comprendere che, se non si affiderà a quei visionari, in nessun modo «potrebbe esser felice» (500e). Fulvia de Luise - Giuseppe Farinelli

[D] Megiston mathema. L'idea del ((buono, e le sue funzioni

La metafisica è una metaforica presa alla lettera H. BLUMENBERG

l. Analitica del ((buono" e teorema delle tdee

La discussione sull'idea dd buono1- tema che la tradizio­ ne interpretativa antica e moderna avrebbe considerato come uno dei vertici e insieme degli enigmi più inquietanti della Re­ pubblica e dell'intero pensiero platonico- viene introdotta, od­ l'ultima parte del libro VI, senza alcuna enfasi e persino con un certo tono di irritazione da parte di Socrate. Egli ha sostenuto che la questione della formazione dei futuri archontes deve ve­ nire ripresa dal principio (502e) rispetto ai lineamenti offertine nei libri II e III, che già in quella sede erano stati considerati «privi di rigore» (ill 414a).2 Questa ripresa è tanto più inevitabi­ le, in quanto ora non si tratta soltanto di formare un ceto poli­ tico-militare in grado di gestire la nuova polis, ma di costruire, nd suo ambito, un gruppo di governanti-filosofi capaci di com1 To agathon è un aggettivo neutro sostantivato, esattamente come to lealon, to dikaion e così via (tecniòzzati nd linguaggio delle idee con il sintagma auto to-). Non c'è quindi motivo di tradurre, come accade tradizionalmente in ita­

liano e in francese, con i sostantivi «bene», «hien» (magari con l'iniziale maiu­ scola). Si rende dunque «il buono», come «il bello», «il giusto» (così l'inglese

«G> (parou­ sia) in essi di cl> (che comunque non risulta frammentata o par­ cellizzata da questa partecipazione o presenza, costituendo pur sempre un'unità noetica di significato rispetto alla molteplicità di x, y, z: dr., per esempio, Phaed. lOOb-c). Non è qui naturalmente il luogo per discutere il senso teo­ rico, del resto altamente controverso, di questa «partecipazio­ ne» o «presenza>>. Su due aspetti del «teorema>> è però neces­ sario insistere brevemente. In primo luogo: la descrizione (o definizione) di 4> in quanto perfetta unità di significato, costi­ tuisce il criterio o lo standard per valutare la correttezza dell'at­ tribuzione della proprietà F alle sue singole, molteplici e par­ ziali istanziazioni. La conoscenza di che cos'è il giusto in sé (la descrizione o definizione dell'idea di giusto) è il parametro di riferimento per l'attribuzione a stati di cose ed azioni della pro­ prietà della giustizia o per la sua negazione; esso serve cioè a "spiegare" perché alcuni oggetti siano giusti ed altri ingiusti. Si tratta, naturalmente, di un criterio e di un parametro assoluti, perché derivano dalla descrizione di un ente noetico immuta­ bile; il significato di giustizia non dipende cioè dall'arbitrio di individui o maggioranze politiche, come sosteneva secondo Platone il relativismo protagoreo, ma resta permanentemente e universalmente identico. In secondo luogo: nonostante alcuni aspetti del linguaggio platonico relativo alle idee e al loro modo di esistenza e di conoscibilità possano indurre equivoci e anche tensioni teoriche, le idee stesse- almeno nell'ambito di Pedone e Repubblica non devono venir concepite come super-oggetti che esistono a fianco degli oggetti in cui sono istanziate, al mo­ do cioè in cui gli dèi esistono accanto agli uomini o una mela -

perfetta nel cesto con le altre mele; le idee non sono, in altri

COMMENTO AI LIBRI VI E VII,

[D]

259

termini, «i migliori esemplari della loro specie».10 Un chilogram­ mo non è un oggetto ma un'unità di misura che consente di stabilire il peso di mele, pere e così via; allo stesso modo, l'idea di cerchio non è un cerchio ma ciò per cui tutti gli oggetti che ne condividono le proprietà sono detti cerchi (Vlastos), e l'idea di giustizia non è un comportamento giusto o giustissimo (co­ me sostengono Cefalo e Polemarco all'inizio del libro 1), ma ciò che costituisce il criterio per giudicare giusti o ingiusti i sin­ goli comportamenti. Sulla base di questo «teorema», è dunque possibile conclu­ dere che l'idea del buono deriva per ekthesis dalla proprietà della bontà istanziata dai singoli casi di cose buone, e che reci­ procamente è per partecipazione a essa che le cose diventano (cioè possono venir giudicate) buone, cioè utili e giovevoli, come è chiaramente indicato in 505a3-4 (Ù OilKaÌ OiKata KaÌ t&Ua 1tpO> (517c). In quanto dotata della massima verità (alethestaton) normativa, l'idea del buono costituisce, come si è visto, il cano­ ne di riferimento per le norme legislative (nomima) relative alla giustizia e alla moralità (484c9 sgg.). Se nell'ambito dell'intenzionalità conoscitiva l'idea del buono era la condizione di possibilità della scienza, in quello etico-politico essa appare dunque piuttosto la garanzia di vali­ dità della opinione vera (alethes doxa) che governa le condotte giuste nella dimensione storica della comunità umana. Per la praxis, tanto conoscitiva quanto etico-politica, l'idea del buono funge dunque come telos e causa finale, principio di desiderabilità di scienza e giustizia; ma al tempo stesso anche come causa efficiente generatrice di verità e normatività del campo noetico (sulla questione si veda qui anche [E]). La dynamis del "buono" si estende dunque su di una com­ plessa gamma di effetti, critico-negativi da un lato, positivo-pro­ duttivi dall'altro. Essa si presenta certamente in questo modo come il correlato oggettivo del lavoro della dialettica filosofica. Reciprocamente, il suo problematico statuto onto-epistemolo49 Se ndla too xavtòç àPX11 di 511b7 è da riconoscere il •buono", questa dichiarazione sembra tuttavia delimitare l'ambito di ciò di cui esso è causa e principio all'insieme dei valori morali. Sulla questione dr. qui [H].

284

PLATONE, LA REPUBBLICA

gico, che ne rende la conoscenza per principio più difficile di quella delle altre idee, rende parimenti problematico lo statuto metodologico e cognitivo della dialettica stessa, come Glau­ cone non manca di rilevare nel libro VII (532d-e: sul passo cfr. qui [ffi). Quanto più ampia e complessa è la gamma degli effetti della dynamis del buono, tanto più profonda risulta la trasgres­ sione rispetto al "teorema delle idee" introdotta nella sua di­ scussione nel libro VI, e tanto più "straordinaria" la hyperbole che le viene riconosciuta, secondo le parole di Glaucone. C'è da chiedersi, a questo punto, perché Platone- nell'assenza, al­ meno provvisoria, di una adeguata horme, di una condizione di homo/oRia dialettica- abbia deciso di tentare il difficile esperi­ mento consistente nell'attribuire al "buono" non solo una fun­ zione di norma e di telos, ma anzi principalmente di fondazio­ ne meta-ideale e meta-epistemica, dalla quale quella funzione è derivata solo in seconda istanza. Poiché questo ruolo eccedente del "buono" compare solo nella Repubblica, e anzi solo nei suoi libri centrali, la risposta va senza dubbio cercata nello specifico contesto dialogico, secon­ do il principio metodico della Kontextbezogenheit.'j{) Da questo punto di vista, è chiaro che nella strategia argomentativa della Repubblica risulta di vitale importanza che la natura onto-epi­ stemologica delle idee nel loro insieme (prescindendo cioè dal­ l'essenza specifica di ognuna) sia fondata su di un principio di valore, quale è appunto to agathon. Le idee esistono e sono vere in quanto prodotte da questo principio, che per la propria stessa natura le rende inoltre utili, vantaggiose, desiderabili, perciò fruibili come norme e criteri per la valutazione e l'orien­ tamento della condotta etico-politica. La destinazione dei filo­ sofi al potere appare legittimata dal fatto che essi soltanto, a differenza dai politici e dai loro consiglieri sofisti, possono fare riferimento- fondato sulla conoscenza dialettica- a questo principio supremo di verità e di valore, o di verità del valore. 50 n principio è stato formulato da N. BL6sSNER, art. cit. (n. 8).

COMMENTO AI LIBRI VI E VII,

[D]

285

L'esigenza anti-protagorea di una fondazione etica assolu­ ta, che sfugga al rischio della arbitrarietà e della mutevolezza delle opinioni individuali e collettive,'1 è spinta da Platone fino al punto "iperbolico" di fare del "buono" stesso il fondamento dell'essere e della verità delle idee,e dunque anche della scien­ za e della conoscenza in generale. Nel triangolo formato da eti­ ca,antologia ed epistemologia,che caratterizza lo stile di pen­ siero proprio di Platone,il ruolo fondativo del "buono" costi­ tuisce la garanzia del primato del vertice etico,come è richiesto dal contesto di un dialogo sulla giustizia e sul potere giusto quale è la Repubblica.'2 n costo teorico di questa operazione è certamente elevato. Da un lato,l'idea del buono è descritta come causa di proprie­ tà diverse dalla bontà,quali la verità e l'essere; dall'altro,la sua collocazione «al di là della ousi@ ne mette in questione lo stes­ so statuto di idea,e con esso la possibilità della dialettica di of­ frime la definizione d'essenza. Tutte queste aporie suscitano tanto il dubbio metodico di Glaucone quanto le reticenze di Socrate,la sua "provvisoria" incapacità di superarlo con rispo­ ste teoricamente esplicite. Non c'è dubbio che Platone stesso, e la discussione acca­ demica, abbiano a più riprese affrontato queste difficoltà, esplorando diverse possibilità di soluzioni teoricamente più controllabili. n Filebo sembra concepire il "buono" piuttosto come una struttura di ordine e simmetria immanente all'ambi­ to antologico del «misto»,un principio di limite forse non dis51

La più nitida formulazione del relativismo protagoreo, che nega ai

valori etico-politici qualsiasi ousia, è in Theaet. 172b. '2

Su questo tema sono ancora rilevanti le osservazioni di H. CHERNISS,

The Phi/osophical Eronomy o/ the Theory o/ Ideas (1936), in Selected Papers, Leiden 1977, pp. 121-32. Che l'idea dd buono fondi il primato della ragione pratica era tesi dei filosofi neokantiani come H. RlcKERT, Der Gegenstand der Erkenntnis. Ein/iihrung in die Transzendentale Phi/osophie, Tiibingen 19042 (pp. 117 sgg.), e P. NATORP, Platos Ideenlehre, Leipzig 192!2, pp. 191 sgg. Recentemente dr. R. FERBER, op. cit. (n. 23 ), p. 149. Su questa funzione dell'i­ dea dd buono dr. ora anche F. FRONTEROTTA, op .cit. (n. 5), pp. 137-39.

286

PLATONE, LA REPUBBLICA

simile, come si è detto, dagli esperimenti teorici che nelle dot­ trine non scritte portavano a concepirlo come «principio» e/o «elemento» di unità nel molteplice. Per altri aspetti, come mostra il Sofista, l'elaborazione platonico-accademica sembra essersi mossa nella direzione di rescindere o almeno di allenta­ re gli stretti vincoli con i quali la Repubblica aveva tentato di connettere fondazione antologica, principio di valore e meto­ do dialettico. Ma questo inaudito sforzo di unificazione fra le tre dimen­ sioni era comunque destinato a diventare, dalla critica aristote­ lica nell'Etica eudemia e nella Nicomachea fine alle ardite elabo­ razioni metafisiche dei neoplatonici (sulle quali si veda qui

[P]), un terreno aperto di scontro teorico e di esercizio erme­ neutico. Lo è ancora per noi, e questa "apertura" è probabil­ mente legittimata dall'intrinseca problematicità, dalla polise­ mia teorica del testo della Repubblica. Come si è cercato di indicare, ci sono tuttavia limiti al plu­ ralismo interpretativo e alla gamma delle opzioni esegetiche: essi consistono nel rispetto del contesto del dialogo, dell'inten­ zione complessiva che domina le sue strategie teoriche, dell'u­ dienza e degli scopi peculiari ai quali era destinato. Se questi limiti vengono violati, la legittima apertura delle interpretazio­ ni diventa arbitrio ermeneutico, applicazione riduttiva di sche­ mi di lettura allogeni che cancellano la specificità del dialogo e ne dissolvono la straordinaria, benché problematica, potenza filosofica: la dynamis, insomma, non tanto del "buono" quanto della dialettica. Mario Vegetti

[E] I:idea del bene: collocazione antologica e funzione causale

l. L'ambito della causalità del bene

La forza d'impatto, anche scenografica, con cui il bene (tò àya96v )1 fa il suo ingresso nella discussione tra Socrate e i suoi partners è certamente quella che ci si aspetta da una figura teo­ rica destinata a recitare un ruolo di primo piano nell'economia complessiva della Repubblica. Le dichiarazioni socratiche sono un misto di enfasi e reticenza,2 secondo uno stile drammatico al quale Platone è solito ricorrere quando intende rimarcare l'im­ portanza di una determinata questione.

Al bene è dedicata l'intera sezione conclusiva del libro VI e una parte consistente delle riflessioni contenute nel VII. Ma l'importanza che questa entità riveste nell'ambito della costru­ zione filosofica della Repubblica non può certo venire misurata sulla sola base dell'estensione dei riferimenti. La trattazione del bene rappresenta il centro drammatico e teorico dell'intero dia­ logo, il punto in cui convergono tutti i principali motivi di ri­ flessione, sia quelli sviluppati nelle sezioni precedenti, sia quelli destinati a essere affrontati nel prosieguo dell'opera. Essa si 1

Condivido quanto dice M. Vegetù (qui [D], S l, n. l) a proposito della

traduzione di questa espressione e di altre in cui ricorre il neutro. Tuttavia, per facilitare il confronto con la letteratura criùca sull'argomento, preferisco uniformarmi all'uso più comune e continuare a parlare di «bene» e di «idea dd bene». 2

Ma dr. qui [D], S l. È vero che il bene viene introdotto ricorrendo a un

profilo che potrebbe definirsi "basso". Tuttavia, non mancano allusioni che ne prospettano l'importanza.

288

PLATONE, LA REPUBBUCA

situa circa a metà dd dialogo, dopo che Socrate ha messo a pun­ to i risultati conseguiti fino a quel momento e prima che sia affrontata la decisiva questione relativa al programma di for­ mazione dei filosofi. Dal punto di vista teoretico, poi, la premi­ nenza della trattazione dd bene è soprattutto connessa al fatto che da essa viene fatta dipendere la capacità di fornire una fon­ dazione più solida alla psicologia, all'etica e all'ontologia espo­ ste nei primi cinque libri, nonché all'epistemologia e al pro­ gramma educativo presentati nei libri VI e VII. D'altra parte, è Socrate stesso a sottolineare il rango che spetta al bene quando afferma, nell'introdurlo, che si tratta dd f.I.Éytatov f.Lafhwa, vale a dire del massimo oggetto di cono­ scenza (504e4-5).3 Egli spiega immediatamente di seguito il senso di questa superiorità, sostenendo che «le cose giuste e le altre, servendosi dell'idea dd bene diventano utili e vantaggio­ se» (505a3-4). E aggiunge che senza l'idea del bene, anche la conoscenza di tutte le altre cose non sarebbe per l'uomo di al­ cuna utilità (505a6-bl). Se si considera, poi, che il compito di conoscere il bene viene prescritto prima di tutto ai guardiani della kallipolis (504c6-7), è inevitabile concludere che la supre­ mazia alla quale Platone allude va compresa prima di tutto al­ l'interno di un quadro filosofico di natura politica.4 Coerentemente rispetto a questa prospettiva, le considera­ zioni di Socrate pongono l'accento sulla natura "pratica" dd tipo di causalità che l'idea dd bene sembra esercitare. L'affer­ mazione secondo la quale il bene rappresenta il fine verso cui l'anima tende, vale a dire lo scopo in vista del quale (toutou evn:a) essa agisce (505dll-el), appartiene senza dubbio a questo contesto teorico. Una posizione del genere induce a considerare il ruolo del megiston mathema in termini di "sco-

3

Per R.C. CROSS-A.D. WOOZLEY, Plato's Repub/ic. A Phi/osophica/

Commentary, London 1964, si tratta di highest kind o/ know/edge (p. 201). Sull'introduzione dd bene come megiston mathema dr. anche qui [D], S l. 4 Per la centralità dei risvolti politici della conoscenza dd bene dr. G. CAMBIANO, Platone e le tecniche, Torino 1971, pp. 195 sgg.

COMMENTO AI LIBRI VI E Vll,

[E]

289

po", e dunque a interpretare la sua funzione nell'ambito dell'a­ gire come "causa finale". Ciò significa che il bene, causando l'utilità delle realtà sulle quali agisce, le rende desiderabili, e dunque oggetto di tensione. n fatto poi che esso rappresenti il punto di riferimento di coloro ai quali spetta il compito di go­ vernare la città, porta a ritenere che la fmalità dell'agire umano debba intendersi essenzialmente all'interno di un orizzonte pratico-politico.' Se la supremazia di cui il bene viene investito sembra di­ pendere dal suo ruolo causale, e se quest'ultimo è inteso essen­ zialmente in termini finali, è inevitabile concludere che il pro­ cesso di fondazione delle tesi filosofiche emerse nella prima parte del dialogo, reclamato da Socrate per giustificare l'intro­ duzione del megiston mathema, si attua inizialmente in modo da mantenere la discussione entro i confini della prospettiva pratico-politica che ha dominato i primi cinque libri. Ma le cose cambiano radicalmente con l'introduzione dell'analogia del sole, tramite la quale Socrate si propone di presentare il proprio punto di vista circa la collocazione e il tipo di azione esercitata dell'idea del bene; con l'assimilazione del bene al sole si determina infatti uno spostamento dell'indagine dal piano etico-pratico a quello propriamente metafisico (ed epi­ stemologico).6 In effetti, l'idea del bene non viene più studiata come fine dell'azione dell'uomo, bensi nella sua duplice fun­ zione di principio attivatore della potenzialità cognitiva dell'in­ telletto, e di generatore ontologico delle idee. Ma anche in questo nuovo contesto essa non perde affatto il suo ruolo cau­ sale. Anzi: il linguaggio della causalità diventa più esplicito e pervade l'intera sezione contenente la metafora (508a4, b9, ' Sul bene come 4oia e l'àpxil delle coseY Si è dimostrato, tuttavia, che questa posi­ zione confligge in maniera sostanziale con molti degli assunti ricavabili dalle affermazioni contenute nell'analogia solare. n bene platonico non sembra equiparabile all'essenza dell'essere, cioè a quell'ente che è "essere per essenza", come l'Esse ipsum 47 za

Sembra invece disposto a concedere un certo credito alla testimonian­

aristotelica E. BERTI, Multiplicity and Unity o/ Being in Aristotle, Meeting

of the Aristotdian Society, University of London 2001, pp. 185-207, il

quale

proprio sulla base di Met. III 4, considera Platone espressione di un'antologia che concepisce il principio come fonna separata, la cui

essenza

consiste ap­

punto nell'essere (pp. 204-07): cfr. anche supra n. 33. Sulla concezione secon­

do cui Deus est esse cfr. W. BEIERWALTF.S, Pl4tonismo e idealismo, trad. it. Bo­ logna 1987, pp. 16-93.

COMMENTO AI UBRI VI E VII,

[E]

323

subsistens della tradizione tomistica. Esso possiede certamente l'essere sostanziale in forma prototipica e superiore rispetto alle realtà a cui lo trasmette, e per questo può in qualche modo definirsi maxime ens, e tuttavia non dovrebbe esaurirsi in esso, proprio come il fuoco non si esaurisce nel calore che genera. In altri termini, l'idea del bene non è, o non è solo, causa formale, ma anche, e probabilmente soprattutto, causa efficiente delle idee e del loro essere.48 La difficoltà di cogliere in se stessa la natura del bene consi­ glia di spostare l'attenzione dell'indagine dalla questione dell'es­ senza metafisica a quella dell'azione causale, tenendo natural­ mente presente l'esistenza di un certo scarto tra la causa e la proprietà che essa trasmette. Sebbene il bene non si identifichi con i caratteri antologici di cui è causa nei confronti delle idee, cioè l'essere sostanziale e la verità, tuttavia li produce e dunque li possiede intrinsecamente. Se si è disposti a rinunciare alla pre­ tesa, per altro non illegittima, di cogliere senza resti l'essenza del bene, si possono ricavare utili indicazioni dall'esame dei prodot­ ti della sua azione causale. Si tratta di un'indicazione che non farebbe altro che recepire il suggerimento di Socrate, il quale invitava ad accontentarsi dell'EK"(Ovoç del bene (506e3; 507a3; 508bl3), che è certamente il sole, ma forse anche, sul piano metafisica, il complesso dei prodotti della sua azione causale. Nell'ultima parte del Filebo si viene introdotti in un conte­ sto teorico non dissimile da quello implicito nel libro VI della Repubblica. Socrate, di fronte alla difficoltà di definire formal­ mente, cioè eideticamente (!J.{� U)é�), il bene, suggerisce anco­ ra una volta di rivolgersi ai prodotti della sua azione causale, che sono la bellezza (lcaUoç), la proporzione ((f\)IJ.IJ.Etp{a) e la verità (àJ..il&ta).49 Anche in questo caso si tratta di proprietà

48

Sulla natura efficiente e non solo formale e finale della causalità del

bene concorda anche E. BERTI, Il Platone di Kriimer e la metafisica classica, «Rivista di filosofia neoscolastica», LXXV (1983) pp. 313-26 (p. 318, n. 13 ).

4' Phil. 64e5-65a5. Su questo testo si vedano le considerazioni di M. MIGLIORI, I.:idea del Bene nel 'Filebo', in G. ALMANZA CIOTII-S. BALOONCINI-

324

PLATONE, LA REPUBBLICA

antologiche che possono considerarsi comuni a tutte le forme, e che defmiscono quindi il1taVtEÀiÌ>, XV (1921) pp. 131-52, in particolare

334

PLATONE, LA REPUBBLICA

2. Rapporto analogico e den'vativo

Se il sole è figlio-interesse del buono sembra vi debba esse­ re una derivazione sul piano antologico del sole, che è colloca­ to nella sfera empirica, dal buono che appartiene all'ambito noetico. Dal buono si diparte un doppio processo: causativo della verità, generatore del sole cioè del sensibile. La derivazio­ ne di un oggetto sensibile quale è il sole dal buono pone delle difficoltà: il rapporto derivativo è antologicamente impossibile, a meno che non sia già implicito il Timeo, cosa che mi sembra difficilmente sostenibile. Se, poi, Platone volesse alludere a una semplice analogia, finalizzata a mettere in luce la somiglianza tra sole e buono, a illustrare come il buono possa essere al di là dell'essenza pur causando la conoscenza e l'essere, perché par-

p. 132: «We may say that this first simile, which is simply and purely a simi­ le ..,,., In un successivo articolo, Plato's Simile of Light again, «Classica! Quanerl�. XXVTII (1934) pp. 190-210, Ferguson riprende la sua tesi e cerca

di dimostrarla facendo riferimento alla definizione di homoiotes data da Ari­ stotele nei Topià. Se Ferguson parla dell'analogia del sole in termini di sem­ plice paragone illustrativo, RL. NETILESHIP, Lectures on the Republic o/Plato (1897), London 1963, p. 235, sostiene che essa «is not merely an illustrative simile, but expresses to Plato's mind a real analogy between the phenomena of the sensible world and the non-sensible principles they express,., In pole­ mica con Ferguson, N.R. MURPHY, The ·simile o/ Light" in Plato's Republic, «Classica! Quanerl�. XXVI (1932) pp. 93-102, sostiene che il mondo sensi­ bile non può essere inteso solamente come simbolo per l'intellegibile: in tutte tre le analogie (sole, linea, caverna) Platone trae dal mondo visibile simboli per rappresentare sia il mondo sensibile, sia il mondo intelligibile. Da una prospettiva completamente differente anche W. BEIERWALTES, Lux lntelli­ gibilis. Untersuchung zur Lichtmetaphysik der Griechen, Dissen., Miinchen

1957, sostiene che l'analogia solare non è un semplice paragone. Per l'autore essa ha un significato metafisica: sole e buono sono principi di ordine e di vita, ma anche luce dell'essere. La luce rende le cose visibili e conoscibili. In un caso si tratta di luce sensibile, nell'altro di luce intelligibile. La luce sensi­ bile è logicamente e antologicamente seguente rispetto a quella intelligibile. La luce non è, dunque, solamente l'espressione visibile di qualcosa di invisibi­ le: la luce corporea è un analogo della luce spirituale invisibile, luce che è solo nella verità (cfr. p. 51).

COMMENTO AI LIBRI VI E VII,

[F]

335

lare di tokos? Vi è nel termine un'idea di derivazione o, per lo meno, di implicazione che non sembra giustificata nell'ipotesi di una semplice analogia. Che si tratti di derivazione, d'altron­ de, è esplicitamente affermato a 506e (il sole è figlio del buono) e a 508b12-c2 (il sole è prole del buono). Ancora, a 517c, l'idea del buono ha generato la luce e il suo signore, il sole.12 Di qui la discussione di Ferguson, di Nettleship e di vari altri critici, se si tratti di semplice analogia o di un rapporto di reale implicazione, se, cioè, si possa parlare di un rapporto de­ rivativo del sole che è posto al sommo della scala gerarchica, nella sfera sensibile, come il buono nella sfera noetica. In tutta la successiva presentazione si affiancano e interagiscono diffe­ renti modalità di discorso e tipi di relazione: il raffronto tra buo­ no e sole viene condotto su un piano analogico elo metaforico rispetto a differenti momenti dell'argomentazione e la relazio­ ne tra buono e sole e i relativi oggetti subisce spostamenti da rapporti meramente analogici a rapporti derivativi o causativi. Rispetto alla relazione generativa, più sfumato appare il rap­ porto di 506e-507a ove la relazione - pur di tipo derivativo - è anche di tipo imitativo: il sole è interesse e prole del buono e a lui somigliantissimo. Nel richiamo del carattere heliodestaton dell'occhio cui la facoltà di vedere è dispensata dal sole come una sorta di fluido, invece, è ribadita l'idea derivativa, applica­ ta non più al rapporto tra sole e buono, bensì al rapporto tra facoltà di vedere e sole o, meglio, tra occhio e sole. L'occhio deriva la vista dal sole come in un rapporto di cessione di un fluido. Alle spalle di tale immagine vi è la concezione della struttura e della funzione deH'occhio come fonte di luce pre­ sente anche nel Timeo (45b sgg.). 12 A proposito di un legame genealogico tra Helios e l'idea dd bene W. Ll.JTIIER, Wahrheit, Licht, Sehen und Erkennen in Sonnengleichnis von Platons Politeia. Ein Ausschnitt aus der Lichtmetaphysik der Griechen, «Studium Ge­

nerale», XVIII (1965) p. 491, richiama Pindaro (l. 5 l) e Esiodo (Th. V 371) in cui compare Theia, madre dd Sole. Essa è la madre originaria di tutto ciò che nd mondo è bello e di valore, ICaM ICUÌ. 'tl�UQ. fl sole sarebbe fratdlo dd bello.

336

PLATONE, LA REPUBBLICA

Se rivediamo ora l'andamento generale dell'analogia pos­ siamo affermare che in tutta l'immagine sole e buono hanno un rapporto sia di tipo derivativo che analogico: i rapporti che val­ gono nella sfera noetica, vigono anche in quella visibile (508c). Se tra buono e sole vi è un rapporto derivativo e di analogia, tra buono e verità ed essere e oggetti noetici, da un lato, tra sole e luce e vista e oggetti visti, dall'altro, il rapporto è causati­ vo e di analogia: il buono è

aitia di episteme e di aletheia. Pro­

cura verità agli oggetti conosciuti e produce la possibilità di conoscere, ma è più bello della verità. Come la luce e la vista sono

helioeide, ma non sono helios, così episteme e aletheia so­ no agathoeide senza essere agathon che le supera per bellezza (509a). Analogia e somiglianza sono compresenti: la prima

parte del discorso è volta a evidenziare la relazione analogica, mentre a 508b viene costruito un ponte tra rapporto derivativo e di somiglianza:

384

PLATONE, LA REPUBBLICA

1UIV'tòç àPXitv )» (511b); nella ripresa finale dice che «il metodo dialettico soltanto[. ..] si muove per questa via (mpri>erat), eli­ minando il carattere ipotetico delle premesse ( tàç ùxo8iaEtç àv at pouo a), fino al principio stesso (bt'aùtitv titv àprf1v)»

(VII 533c). Data questa corrispondenza, a «andando fino all'anipoteti­ co» risponde «eliminando le ipotesi»; in entrambi i casi, il con­ testo più largo mostra che questa operazione si compie dando un logos all'ipotesi. Dunque l'eliminazione delle ipotesi non può essere intesa come un procedimento meramente distruttivo; questo converge con il consenso quasi generale degli studiosi, per cui Platone non sta proponendo di distruggere le ipotesi dei matematici, ma di trasformarle in proposizioni non ipoteti­ che (ciò che consente anche eliminazioni vere e proprie). Qui si propone la seguente interpretazione (che non è riduttiva dd peso dd termine àvux68etov). Un anipotetico è una proposizione nella quale la prcdicazione esprime una con­ nessione definitoria. In un certo senso è autoesplicativa; dati questi caratteri essa sola vale in linea di diritto come un princi­ pio; essa sola consente svolgimenti deduttivi che non fanno ri­ corso a nulla di sensibile . Essa è la risposta alla domanda "che cos'è?" riguardo a ciò che è introdotto dalle ipotesi dei matematici. In un certo senso, si tratta della concezione dei principi della scienza che si manterrà negli Analitici aristotelici, ma tra­ sferita alle scienze particolari. Ma il fatto che in Platone sia posta al livello globale (dr. tl,v toU xavtòç àpxftv) è di impor­ tanza fondamentale. Nella formulazione platonica l'anipoteti­ co e il principio dd tutto non coincidono esattamente (dr. qui [ffi, SS 3, 7). Se, come tutto il contesto suggerisce, il principio del tutto è l'idea del buono, allora si può pensare che Platone pensi che l'idea di buono ha un ruolo nello stabilimento dell'a­ nipotetico, che sia capace di introdurre restrizioni e costrizioni nella risposta alla domanda "che cos'è?". È molto difficile ca­ pire in che modo si potesse attribuire all'oggetto della doman­ da "che cos'è?" questa dipendenza dall'idea di buono; in ogni

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caso, ciò converge con quanto Platone dice del buono come causa. Va allora in qualche modo sfumato ciò che ho detto po­ che righe sopra: l'autoesplicatività dell'anipotetico è data ad esso dalla sua connessione con il buono. Qui siamo probabil­ mente al limite della dialettica; ma si può ancora pensare di collegare questa connessione con l'attività di logon didonai propria della dialettica (senza introdurre momenti puramente intuitivi). Merita di essere fatta un'ultima osservazione. Spesso si è notato che non si capisce come Platone potesse pensare di operare deduzioni a partire da un unico principio, quale è l'ar­

che tou pantos.19 Ma forse Platone non dice questo. La discesa deduttiva è compiuta dallogos, dopo che è venuto a contatto con il principio, «mantenendosi connesso alle cose che sono connesse ad esso». Si noti il plurale ÈXOJ.LÉvrov. Il singolare àvun69nov può essere inteso in senso collettivo: "ciò che è non ipotetico", e riferirsi a una molteplicità. Se gli ÈXOJ.leva sono gli anipotetici, allora Platone dispone di una molteplicità di principi per gli svolgimenti deduttivi, ciascuno dei quali d'altronde resta connesso al principio del tutto. Va segnalato peraltro che exeo6at in questo caso cambia di significato nelle sue due. occorrenze a 511b9; illogos procede ÈXOJ.Levoç (dedu­ cendo) da principi i quali sono èxoJ.Leva (connessi, in un senso che non sembra più deduttivo) al principio del tutto. Di più il testo platonico non consente di dire. Ma si può proporre qual­ che congettura interpretativa. «Eliminare» (àvatpeiv) un'ipo­ tesi potrebbe significare qualcosa di più definito che "elimi­ narne il carattere ipotetico"; potrebbe significare il passo me­ todico di "negarla". In un contesto dialettico di indagine sulle definizioni, e in generale su ciò che funge da principio, la nega19lnsiste su questa difficoltà interpretativa R. ROBINSON, op. cit. (n. 4), pp. 132 sgg. Sulla stessa linea, meritano di essere citate qtieste parole di l. MUELLER, art. cit. (n.

6), p.

190: «The notion of being the first principle of

ali

things seems to me impossible to construe sensibly in terms of a strictly deductive model of the downward path».

386

PLATONE, LA REPUBBUCA

zione di un'ipotesi (supponendo operanti di fatto il principio di non contraddizione e il principio del terzo escluso) potreb­ be essere intesa come equivalente all'assunzione della predica­ zione contraddittoria a quella che nell'ipotesi era intesa espri­ mere la connessione definitoria; in tal caso, l'eliminazione di un'ipotesi lascia chi ricerca con l'ipotesi contraddittoria. Al­ lora, l'esame incrociato delle conseguenze di un'assunzione e delle conseguenze dell'assunzione della contraddittoria diven­ ta pensabile come metodo di convalida delle ipotesi. Questa congettura interpretativa sembra collegabile con quanto Pla­ tone dice poco dopo circa l'indagine dialettica sull'idea di buo­ no: illogos proposto per tale idea deve sapersi "provare" supe­ rando il passaggio "attraverso tutte le confutazioni". Si noti in particolare come in questo passo chi propone un logos per l'i­ dea di buono sia visto sia nel ruolo di difensore sia in quello di attaccante nella discussione;20 questo sembra collegarsi natu­ ralmente con il procedimento dell'esame incrociato di un'as­ sunzione e della sua negazione (e si può pensare qui ad un pro­ cedimento del tipo di quello esposto nella seconda parte del Parmenide).21 Ma, certamente, questa congettura va oltre a ciò che è detto in questa sezione della Repubblica.

20

Questa alternanza è rilevata da P. STEMMER, op. cit. (n. 14 ), p. 192, n. 2,

il quale

se

ne serve in un senso diverso dal nostro. ll punto chiave sembra

risiedere nel "tutte" di "tutte le confutazioni". Se si ritiene che Platone pen­ sasse di poter esaurire tutte le prove confutatorie possibili, allora è proponibi­ le l'interpretazione più forte di questo passo. In effetti, il principio di non contraddizione e il principio del terzo escluso consentono la produzione di matrici delle tesi possibili circa una questione; una tale matrice organizza la prima metà del libro I della Fisica aristotelica. Essa sembra anche sottesa alla discussione della "comunione" dei generi nel So/irta (251e-252e). Sottolineo che dichiarare una tesi proponibile è meno che dichiararla provabile. 21

Segnaliamo il recente tentativo di collegare la risalita all'anipotetico

della Repubblica con il P armenide, dovuto a D.C. BALTZLY, 'To an Unhypothetical First Principle' in Plato's 'Republic', «History of Philosophy

Quarterly», XIII (1996) pp. 149-65, il quale va oltre la congettura avanzata in cp1esto paragrafo.

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4. La linea dunque è l'immagine mediante la quale la distin­ zione tra vista-visibile da un lato e intelletto-intelligibile dal­ l'altro - distinzione che rimaneva statica nell'analogia sole­ "buono" -è elaborata in modo da produrre una sequenza di li­ velli di conoscenza per un'anima, la quale si trova naturalmen­ te in una condizione iniziale in cui l'intelletto incontra e fron­ teggia il visibile, pensato astrattamente come spazio generale dei luoghi di compresenza di contrari e come luogo di manife­

stazione iniziale a noi dell'intelligibile nel contesto di tale com­ presenza. Sul versante oggettivo la sequenza è organizzata mediante l'iterazione della relazione reale "immagine-ciò di cui l'immagine è immagine". L'antologia sottesa peraltro è lasciata non trattata da Platone; i livelli oggettivi sono caratterizzati essenzialmente in base al tipo dei logoi che ciascuno di essi consente rispetto a se stesso (tipo di logos da cui discende lo stato cognitivo che ciascuno di essi consente). L'ascesa conoscitiva si compie attraverso i logoi. In un cer­ to senso, è compiuta da tutta l'anima; in un senso più definito, è compiuta dall'intelletto. L'intelletto compie tale ascesa, in quanto gli è proprio e caratteristico ricercare. Motivo della ri­ cerca è il desiderio dell'anima di un proprio stato di chiarezza rispetto all'oggetto. Nel costruire il percorso di ascesa Platone incontra il fatto delle matematiche. Le matematiche procedo­ no producendo logoi; il loro modo di procedere è dunque già quello proprio dell'intelletto. D'altra parte, esse non si pongo­ no come una fase di un'ascesa conoscitiva complessiva. Di fat­ to, esisteva all'epoca della Repubblica una varietà, dai contorni indefiniti, di pratiche matematiche e di ambiti di indagine oggetto di applicazioni di strumenti matematici. Di per sé que­ sta situazione non rinviava a nessuna ontologia; l'eventuale on­ tologia che esse richiedevano era soltanto di tipo regionale. Platone fronteggia questa situazione con un'operazione teorica sulle matematiche, che è a un tempo una loro valorizzazione e

una loro delimitazione: esse sono già rivolte all'intelligibile, ma non sono ancora al livello conoscitivo di piena chiarezza rispet­ to all'oggetto- quel livello cui spetta propriamente il nome di

388

PLATONE, LA REPUBBLICA

episteme. Con questa operazione Platone considera una colle­ zione di indagini speciali come un insieme unitario, situabile così come un livello entro la sequenza articolata con l'immagi­ ne della linea. Platone ottiene la collocazione cercata per le matematiche mediante una doppia caratterizzazione distintiva della metodi­ ca loro peculiare entro i comuni procedimenti razionali del

logos: esse si servono delle cose visibili cui l'opinione attribui­ sce realtà come di immagini di oggetti altri e ad esse propri, e fanno ipotesi circa questi oggetti altri. n primo carattere le col­ lega alla situazione da cui l'intelletto, nel praticarle, prende le mosse, e dunque le situa rispetto al loro esterno, dato dall'asce­ sa conoscitiva complessiva. Il secondo carattere è quello per cui è ad esse possibile compiere quel passo in cui consiste la loro attività di ricerca: le ipotesi stabiliscono le condizioni cui gli "originali" delle immagini (di cui le matematiche si servo­ no) soddisfano e cui tali immagini non soddisfano; questo è la condizione perché tali immagini possano fungere appunto da immagini. I matematici non valenti non comprendono bene questa metodica (ciò che non impedisce loro di praticare le matematiche, ma al livello più basso della comprensione), i matematici valenti la comprendono, e la comprendono perché sono matematici valenti. Così Platone, caratterizzandò le matematiche in base alla metodica propria dei loro logoi, le situa come un livello dell'a­ scesa conoscitiva, vertente già sull'intelligibile. Più difficile è l'interpretazione di come egli pensi il passo, e livello, ulteriore, che procede a partire dal limite delle matematiche ed è affidato in proprio alla dialettica. La nozione critica è qui quella di ipo­ tesi: necessarie per procedere validamente entro le matemati­ che, esse possono fungere da principi, anche se non conosciu­ te/comprese; in effetti, i matematici procedono non ponendosi le questioni associate a tale conoscenza/comprensione, e vica­ riano tale mancanza mediante la loro homologia. Si è notato come Platone non specifichi chiaramente ciò che intende con "ipotesi" (e le discussioni tra gli interpreti moderni non hanno

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portato a un accordo); e ciò rende difficile determinare con precisione in che termini egli pensi l'operazione di dare a un'i­ potesi il logos che la rende conosciuta/compresa e così compie il passaggio all'anipotetico, eliminando le ipotesi, verso il prin­ cipio del tutto. Se il passo di eliminazione di una ipotesi è inte­ so equivalere all'assunzione della contraddittoria, allora si può collegare naturalmente questa metodica con la metodica con­ futatoria che controlla la definizione dell'idea di buono; in questo modo è possibile assegnare al buono (identificato con il principio del tutto) il diritto di esercitare restrizioni sulle ipote­ si e insieme di convalidarle, e così di fungere da autentico prin­ cipio nell'esplorazione e ordinamento dell'intelligibile. Questo darebbe il livello conoscitivo più alto, e il contenuto della can­ zone che la dialettica esegue, venendo sul versante oggettivo del sottosegmento più alto della linea. Ma, lo ripetiamo, questa interpretazione va in certa misura oltre ciò che il testo della Re­

pubblictJ dice. La concezione esposta nella linea va letta come una critica alle matematiche (come molti studiosi ritengono)?22 La que­ stione, a mio giudizio, è in parte terminologica. Se con "criti­ ca" si intende la messa in rilievo di un limite proprio dell'intel­ ligenza matematica (quale è data nella caratterizzazione della linea), allora Platone sta criticando le matematiche. Se si asso­ cia a "critica" una componente polemica- nel senso che Pla­ tone si opporrebbe ad una pretesa delle matematiche, quella di essere depositarie di una comprensione che è propria soltanto della dialettica- allora Platone non sta criticando le matemati­ che: in nessun punto della RepubblictJ egli si esprime come se i 22 La monografia più influente in questo senso è stata probabilmente R ROBINSON, op.cit. (n. 4), per il quale Platone criticherebbe i matematici per la loro «/ailure lo use the hypothetiaJI method» (p. 155; il corsivo è dell'autore), fallimento che si manifesterebbe nd loro uso delle ipotesi come se fossero principi certi. Tra gli altri sostenitori di una posizione affine a questa, mi limito a citare G. CAMBIANO, Il metodo ipotetico e le origini de//4 sistemazione eucli­ dea de//4 geometria, «Rivista di filosofia», LVIII ( 1967) pp. 1 15-49, dr. p. 143; e}. ANNAS, An Introduction lo Plato's 'Republic', Oxford 1981, pp. 277-79.

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matematici avanzassero una tale pretesa.2J La caratterizzazione delle matematiche è basata su ciò che le matematiche di fatto sono: ri�tamente Socrate si rivolge a Glaucone invitandolo a ritrovare in ciò che egli sta dicendo ciò che Glaucone sa già (in base, chiaramente, alla propria educazione matematica). E questa caratterizzazione delle matematiche per come esse sono di fatto è presentata come propria costituzionalmente di esse: l'uscita dal sogno riguardo all'essere, cioè l'ascesa fino al non ipotetico, è qualcosa che la sola dialettica compie, differenzian­ dosi in questo dal modo di procedere dei matematici. Si potrebbe leggere nella distinzione tra l'intelligenza ma­ tematica e quella dialettica un progetto di riforma delle mate­ matiche. La dialettica sembrerebbe essere ciò che dota le mate­ matiche della conoscenza/comprensione dei propri principi; in questo modo le convertirebbe in epistemai, e il dialettico sa­ rebbe il miglior matematico. Sebbene non appaia impossibile leggere la Repubblica in questo modo, non credo che sia questo ciò che Platone sta dicendo: tutta la sua costruzione presenta la dialettica come un livello di intelligenza che non è più dd tipo di quello matematico. Sotto un certo profilo, la dialettica nella Repubblica può essere intesa come una metamatematica, cioè come un'indagine chiarificatrice dei principi delle matemati­ che. Ora, essa è certamente anche questo, tuttavia non sembra potersi risolvere in una tale metamatematica; l'eccedenza dd buono sembra impedire una tale risoluzione. n senso dd lavo­ ro metamatematico che Platone assegna alla dialettica non pare essere quello di una moderna filosofia della scienza; piut­ tosto, sembra essere quello di pervenire al riconoscimento di ciò per cui le matematiche valgono. N d libro VII in particolare

lJ

Questa è la posizione di M. 8URNYEAT, sostenuta con particolare ener­

gia in art. cit. (n. 4). Le parole conclusive della sua discussione sono: nella Rt­ pubblica «mathematics is not criticised but plaud» (p. 42). Cfr. anche J. MITTELSTRASS, Die Dialektik und ihre wissenrcha/tlichen Voriibungen (BIICh

Vl510h-511e und Buch Vll521c-539d), in O. HÙFFE (Hrgb.), PLzton. PoliteiA,

Berlin 1997, pp. 229-49.

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391

è dominante la sottolineatura di questo aspetto (ciò che è coe­ rente con la prospettiva educativa di questa sezione della Re­ pubblica). Si è accennato in precedenza a come il discorso di Platone in questa sezione della Repubblica sia centrato sull'educazione e dunque sull'anima, e come esso rinvii a un'antologia, che pe­ rò rimane sullo sfondo, senza essere trattata direttamente. Un problema interpretativo molto controverso riguarda lo statuto ontologico degli oggetti delle indagini dei matematici, che do­ vrebbero costituire la popolazione del primo sottosegmento dell'intelligibile. In base alla notissima testimonianza di Ari­ stotele,24 molti li hanno identificati con i cosiddetti enti mate­ matici intermedi, caratterizzati dall'invarianza (come le idee), ma anche dalla pluralità (a differenza delle idee). Contro que­ sta interpretazione, si è ribattuto che non c'è nessun chiaro e inequivocabile rinvio agli enti matematici intermedi negli scrit­ ti platonici2' (invero, il passo che, in tutto il corpus platonico, più si avvicina a un tale rinvio si trova in questa sezione della Repubblica, a 526a2-4, dove Socrate suppone di interrogare i matematici sull'uno del quale discutono, "ciascuno singolar­ mente uguale a ciascun altro"). Si è argomentato anche che essi sono esclusi da 510d7 -9, dove Socrate dice che ciò "in vista di" cui i matematici producono i loro logoi è, per esempio, il qua­ drato "in sé" e la diagonale "in sé" (too tetpayc.Ovou aùtou ... x:aì �haJ.Létpou aùtou): l'apposizione del termine aùt6 segna­ lerebbe il riferimento alle idee,26 come frequentemente avviene nella scrittura platonica. Ma si è replicato che questo non è sempre vero e che la funzione generale di questo uso di aùt6 è quella di isolare ciò cui è apposto da qualificazioni e relazioni 24Met. I 6 987h14-18. 2' L'esame più equilibrato resta quello compiuto da W D. Ross, op. cit. (n. 15), pp. 60 sgg. 26 Qu esta lettura è comune a molti; dr., tra gli altri, R RoBINSON, op. cit. (n. 4), p. 197; WD. Ross, op. cit. (n. 15), p. 60; R.C. CRoss-A.D. WOOZLEY, Plato's Republic, London 1966, p. 236;}. ANNAS, op. cit. (n. 22), p. 251 ; R. FERBER, Platos Idee des Guten, Sankt Augustin 19892, p. 92. .

392

PLATONE, LA

REPUBBUCA

contestualmente non peninenti27 (cfr., per esempio, a 51lb4, aùtòç ò À.O'yoç; illogos non è un'idea); e si aggiunga che in que­ sto stesso passo Socrate contrappone aùtà tauta a IC'tÀ.. (le figure che i matematici disegnano) ad aùtà Èn:iva a IC'tÀ.. (le figure che si possono vedere soltanto con la dianoi4); il primo aùta, che ovviamente non rinvia a idee, ha chiaramente la fun­ zione isolante, e dunque anche il secondo ha la stessa funzione; ma nd contesto la relazione sottolineata è quella immagine-ori­ ginale, e dunque gli Èn:iva qui sono gli originali (che possono essere già idee, ma possono anche non esserlo; il testo resta compatibile con entrambe le interpretazioni); ma il quadrato "in sé" e la diagonale "in sé" della riga immediatamente prece­ dente sono un'esemplificazione di quegli ÈKEiva, dunque con­ sentono entrambe le interpretazioni;28 la formulazione platoni­ ca è (volutamente?) neutra. La "reticenza" platonica sull'ontologia sembra destinare questo problema interpretativo ad una controversia insolubile. Merita di essere citato un argomento recentemente avanzato da M. Burnyeat a favore della presenza implicita degli enti matematici intermedi nella Repubblica:29 dato il realismo plato­ nico, essere vero è essere vero di qualcosa; ma allora, per esem­ pio, il teorema di Pitagora (che non è vero della figura disegna­ ta) ha naturalmente in tutti i triangoli rettangoli matematici e in tutti quadrati matematici ciò di cui è vero, mentre non si com­ prende come lo si possa costruire come vero dell'Ulea di trian­ golo o di quella di quadrato. Questo argomento ha effettiva­ mente la forza di spostare l' onus probandi su qudli che negano in Platone gli enti matematici intermedi. Va peraltro rilevato come lo stesso Bumyeat abbia concluso, cautamente, JO che lo

Cfr. M. BURNYEAT, ort. a't. (n. 4), pp. 35 sgg. Argomenta convincentemente in questo senso M.-H. YANG, The 'SI{Wl­ re itre/f ond 'dillg01uzl itu/f in 'Repub/ic' 510d, «Ancient Philosophy., XIX (1999) pp. 31-35. 29 NeU'anicolo Platonirm, cit. (n. 5), aUe pp. 223 sgg. 10 lvi, pp. 231 sgg. 27

11

COMMENTO AI UBRI VI E VII,

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statuto ontologico degli oggetti matematici doveva costituire per Platone più un problema di cui egli era consapevole che una dottrina stabilita. In effetti, secondo l'interpretazione qui presentata p punto di Platone è che la costrizione del mathema porta con sé il rin­ vio a oggetti invarianti e che sono sempre, e che d'altronde i matematici in quanto tali non si interrogano su tali oggetti. Che gli oggetti propri delle matematiche siano tali, è ciò che fa delle matematiche uno studio platonicamente utile. In un testo do­ minato dalla prospettiva educativa Platone ha il diritto di rite­ nere non necessario definire più precisamente l'articolazione dell'ontologia sottesa. 5. La caverna è l'immagine della condizione della nostra

natura sotto il profilo della sua educazione e mancanza di edu­ cazione. Certamente, qui l'educazione di cui si tratta è quella platonica. Essendo un'immagine sotto un certo profilo, essa pre­ suppone una molteplicità di altri aspetti della nostra natura; dati questi, l'educazione platonica può esserci o mancare. Che cosa presuppone questa immagine? Essa presuppone molto della normalità umana. I suoi abi­ tanti sono uomini che agiscono nella città. Sono destinatari di trasmissioni educative, e per questa via apprendono modelli/ norme, conformandosi ai quali determinano il loro agire nelle varie situazioni. In un senso non platonico quindi sono educa­ ti; hanno acquisito, per esempio, "immagini" della giustizia. Contendono, ovviamente anche mediante discorsi, per il do­ minio. Più fondamentalmente, essi hanno facoltà sensibili e le esercitano rispetto alle cose, come è naturale fare. Essi parla­ no gli uni agli altri, con tutta la varietà delle funzioni cui i di­ scorsi possono assolvere. Sono insomma i cittadini medi. A questi uomini (e donne) si applica l'immagine della caverna, il cui senso è farli vedere sotto il profilo dell'educazione pla­ tonica. L'immagine della caverna è complessivamente costituita da due luoghi, la caverna e il suo esterno. Nell'esaminare la caverna

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PLATONE, LA REPUBBUCA

non va dimenticato che essa è soltanto una pane dell'imm� complessiva. La caverna è anzitutto l'immagine, iniziale e limite, di totale assenza, in questi uomini, di educazione nel senso plato­ nico. Costoro nell'immagine sono legati in un modo per cui essi non vedono altro che ombre, che sono loro mostrate mediante un sistema di luci e proiezioni di pupazzi, che essi non vedono. Essi non sono in grado di S\CXÀÉyro9at, termine che qui non può significare soltanto "conversare" (i prigionieri parlano continua­ mente tra loro), ma deve già significare "discutere", nd senso della dialettica. Perciò non sono in grado di VOJ.l\çetv relativa­ mente a ciò su cui la dialettica VoJ.l\çet, cioè sulla realtà e verità di ciò che vedono (515b-c). Qui voJ.l\çnv non può voler dire semplicemente "avere come costume"; deve significare •rico­ noscere/regolare ciò che è alla base del costume". Nella loro condizione i prigionieri non possono avere altro costume che pensare che reale e vero sia ciò che possono vedere; questa è l'assunzione implicita e non riconosciuta dei prigionieri, che essi, in quanto tali, non sono in condizione di mettere .in di­ scussione. Il significato dell'immagine della caverna è costruibile ab­ bastanza facilmente, se si opera una restrizione sui pupazzi e sulle ombre da essi proiettate, se cioè li si intende soltanto co­ me "valori", come spesso si suole dire, o come moddli/norme, come qui si è preferito. Allora i prigionieri sono i destinatari della trasmissione sociale, mediante la quale ciò che si p resenta nell'esperienza ad essi viene presentato in termini di valore. I destinatari sono agenti, dunque si tratta per essi di acquisire modelli di conformazione; il sistema fuoco-pupazzi assolve la funzione di presentarglieli. La condizione dd prigioniero è quella di chi accoglie passivamente, non essendo in grado di fare altrimenti, tutto ciò che è detto dd suo campo d'esperien­ za e di azione da parte di tutti quelli che nella comunicazione sociale svolgono (anche non intenzionalmente) una funzione educativa. I portatori dei pupazzi sono tutti gli agenti di questa trasmissione educativa non platonica; certamente, tra essi sono comprese figure come i musicisti e i poeti, ma non c'è motivo

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di escludere da queste figure i padri.31 Si noti che Platone non dice che i portatori dei pupazzi sono anche i loro fabbricanti. L'immagine della caverna analizza il processo di educazio­ ne (in senso non platonico) svolgentesi entro il circuito sociale della comunicazione nei suoi elementi strutturali: il destinata­ rio della trasmissione, il contenuto della trasmissione (il pupaz­ zo), l'agente della trasmissione (il portatore), l'origine della tra­ smissione stessa (il fuoco). n prigioniero platonico vi si trova, senza essere in grado di riconoscerla. n destinatario platonico è un educando; ma nell'immagine della caverna il prigioniero è colui cui manca l'educazione platonica; è ormai un uomo adul­ to, per il quale è ormai passato il tempo decisivo dell'educazio­ ne, la giovinezza. Non essendo in grado di StaÀÉyea9at, è ormai governato dalla sfi.lata, che non vede, dei pupazzi. Questo è certamente una buona parte di ciò che Platone vuole mostrare con l'immagine della caverna. Più avanti (VII 520c) in effetti descrive gli abitanti della caverna come in co­ stante conflitto gli uni con gli altri attorno alle ombre del giusto e alle configurazioni (àyclÀJ!ata) che danno luogo a tali ombre, e come dominati da e\&oÀ.a del bello, del giusto e del buono. Quanto più si restringe il contenuto dei pupazzi e delle ombre ai valori, e si pensano i valori come produzioni mera­ mente sociali e artificiali, contrapposte al piano del naturale e del reale, tanto più è possibile sostenere che non c'è rapporto tra la caverna e il segmento inferiore della linea: né le immagini della linea né i loro originali sono prodotti sociali e artificiali. Ma una restrizione tanto forte, che risolve così il problema, è impossibile. In effetti, consideriamo il passo iniziale dell'educazione platonica, che nell'immagine è rappresen tata dallo slegamento, R FERBER, op.

26) richiama giustamente (p. 122), a questo pro­ c il bello, nelle quali siamo allevati come da genitori (iOOxt:p uxò yovrixn)». Sul ruolo dei Sofisti («Schancnwcishcit») cfr. l. Kl.AR, Di� Schallen im Hohl�ngleichnis und di� Sophislen im Homerisch�s Ad�n. «Archiv f. Geschichte d. Philoso­ phi�. LI (1969) pp. 225-59. 11

cii. (n.

posito, il passo 538c: «fm da fanciulli abbiamo dottrine sul giusto

396

PLATONE, LA REPUBBUCA

al quale corrisponde l'abbandono del costume non riconosciu­ to consistente nd pensare che gli enti sono le cose che si posso­ no vedere, le ombre. Una volta slegato, l'ex-prigioniero può ri­ volgersi ai pupazzi. Che lo faccia, è naturale, dato che l'essere slegato equivale all'abbandono del riconoscimento implicito di realtà alle ombre, e tuttavia egli procede a partire dall'espe­ rienza di esse. Si volge dunque agli originali delle ombre, i quali in quanto tali si p resentano come più reali delle ombre, e incontra la domanda "che cos'è?" riguardo a ciascuno di essi. L'affrontare questa domanda in certo modo coincide con lo slegamento stesso; nd momento in cui le ombre sono messe in questione quanto alla loro realtà, la forma della questione è "che cos'è?", e la questione verte su ciò che si mantiene all'ori­ gine della loro configurazione. Questa domanda, riferita ai pu­ pazzi, porta a una condizione aporetica insuperabile. Non ser­ virebbe guardare, oltre ai pupazzi, alla luce; non si sarebbe in grado di sostenerne la visione, a questo livell o. L a conseguenza di questa sequenza per l'ex-prigioniero sarebbe il VOJ.Liçetv n'conosciuto del VOJ.Liçetv implicito dei prigionieri: le ombre sono realmente più chiare (515c-e). In questa figura il modo di pensare inconsapevole dei prigionieri diviene l'oggetto di un'a­ desione consapevole. Questa conseguenza tratta dall'ex-prigioniero impedisce di pensare le ombre della caverna semplicemente come produzio­ ni sociali e artificiali. Se così fosse, esse non potrebbero soprav­ vivere al rigetto di ciò che le produce. n piano delle ombre ha dunque un'oggettività indipendente dai pupazzi che le proiet­ tano. Si aggiunga che le ombre sono presenti anche sul percor­ so di uscita dalla caverna, come qualcosa attraverso la cui con­ siderazione si tratta di passare (516a6); qui non sono più om­ bre proiettate dai pupazzi, e tuttavia non c'è nulla nelle parole di Platone che suggerisca che si tratta di altre ombre.32 12

C'è un passo nell'immagine della caverna (516b), che sembra implicare

che le ombre sono le stesse. Socrate dice che chi fosse pervenuto a vedere il sole quale è potrebbe concludere che

esso

«è,

in ceno

modo, causa di tutte

COMMENTO Al LIBRI VI E VII,

[G]

397

Forse nell'immagine della caverna c'è una suggestione per noi moderni fuorviante su questo punto. Dato che le ombre nella caverna sono presentate come proiezioni su uno sfondo, è forse naturale pensare che esse sono fatte esistere da tale proie­ zione, e che un'eliminazione dei pupazzi ci dovrebbe lasciare con qualcosa come uno schermo vuoto. Ma allora non si com­ prende come esse sopravvivano anche per chi rifiuti i pupazzi. Secondo l'interpretazione che qui si propone, lo "schermo" in cui si manifestano le ombre è sempre pieno; la proiezione in questo pieno delle ombre dei pupazzi produce una sua organiz­ zazione riconoscibile. Le ombre nella caverna sono questo pie­ no articolato secondo i contorni della "proiezione" dei pupazzi. La funzione dei pupazzi è quella

di determinare la pistis relati­

vamente al campo delle ombre; in un certo senso, di produrla.

Si potrebbe pensare il campo delle ombre senza pupazzi

come il campo del sensibile "nudo", per così dire, cioè preso prima di qualsiasi attività sociale mirante a organizzarne le cre­ denze relative. Ma la Repubblica non richiede un tale esperimen­ to mentale. Infatti il percorso educativo platonico ha un'in­ varianza temporale, che gli deriva dall'invarianza dell'antropo­ logia sottesa. Per tutti e sempre perciò tale percorso inizia in una condizione in cui è già data l'organizzazione sociale con il suo circuito comunicativo e il suo aspetto educativo; dunque è sempre già data la situazione in cui i pupazzi proiettano ombre in ciò che si vede, organizzandolo in un certo modo, in funzio­ ne della determinazione delle pisteis. È allora un errore pensa­

re la caverna come una struttura sociale contrapposta alla base naturale umana; è invece una struttura sociale naturalmente ar­ ticolata nella natura umana. I pupazzi sono la popolazione variabile di un li\rello di educazione e conoscenza dato con una struttura invariante.

quelle cose che essi vedevano (ÈJCElV(I)V c1v acpEiç Éoop(l)v)•. Questo acpEiç non può che riferirsi ai prigionieri (non può riferirsi a chi compie l'ascesa, che è sempre indicato al singolare); ma ciò che vedevano i prigionieri sono le om· bre. Dunque le ombre dei prigionieri si conservano come oggeno di spiega· zione (in questo senso sono reali).

398

PLATONE, LA REPUBBLICA

Non c'è allora nessuna ragione cogente per restringere i pupazzi all'ambito dei "valori", andando oltre a ciò che Plato­ ne dice. Nei pupazzi coesistono l'aspetto per cui essi propon­ gono valori, e quello per cui essi organizzano il campo dell'e­ sperienza naturale; i due aspetti possono essere compresenti. Per quanto riguarda ciò di cui sono fatti i pupazzi, nemmeno in questo caso c'è ragione di introdurre restrizioni, andando oltre le parole di Platone. Certamente, in buona parte sono eidola fatti di parole e discorsi; ma andrebbe contro la suggestione del testo escludere che siano fatti anche degli altri materiali di cui erano fatte le produzioni artistiche (in senso moderno), cioè di ingredienti visivi e musicali. L'aspetto comune dei pupazzi è la funzione che esercitano sulle ombre per i prigionieri. Se vale questo, allora lo stato cognitivo dei prigionieri è quello di 1tionç; essi attribuiscono implicitamente realtà a ciò che vedono, per come è fatto loro vedere da pupazzi che non vedono. Si tratta di una xionç "eterodiretta", per usare un'e­ spressione moderna. Si tratta tuttavia di 1tt>

avanti se il «principio anipotetico» sia, univocamente, lo stesso

al di là delle singole essenze ideali o se ognuna di esse funga, distributivamente, da "principio" per i rispettivi ambiti pro­ blematici e argomentativi. n problema è reso più complesso dalla comparsa in un luogo cruciale della preposizione mechri accanto a epi. La dialettica procede «fino (mechri) a ciò che non è ipotetico, verso (ept) il principio del tutto» (511b7: titv too nav'tòç àPxilv). Questo principio supremo e finale segna la direzione di un percorso che però si arresta a una sorta di tap­ pa intermedia costituita dall'anipotetico? Se la risposta fosse affermativa, essa parrebbe confermare la seconda delle inter­ pretazioni ora proposte, quella "distributiva". Non è tuttavia sicuro che il senso di mechri sia così distinguibile da quello di

ep� che cioè la preposizione designi stazioni intermedie effetti­ vamente raggiunte a prescindere dalla meta finale del viaggio alla quale si potrebbe anche non pervenire mai. In effetti, Socrate afferma altrove che il dialettico non deve arrestarsi «prima di aver afferrato con il puro pensiero l'essenza del buono», giungendo così al limite estremo dello spazio noetico

(532bl sg.: èn'a ù téì> ... téì> tou vontou tÉA.Et). In 533c8 sg. Socrate conferma che il cammino (poreia) della dialettica giun­ ge «fino (ept) al principio stesso», al fine di consolidarvisi epi8

Anypotheton compare solo in questo passo, ed è di probabile conio pla­

tonico: dr. R ROBINSON, Plato's Earlier Dialectic, Oxford 1953, p. 158. Per la seguente discussione dd passo, si tenga presente la parafrasi di Y. LAFRANCE,

Pour interpréter Platon II, Saint-Laurent

1994, p. 369: �e raisonnement

[. ..]

va dans la direction du principe du tout jusqu'à ce qu'il atteint qudque chose qui est anhypothétique>>.

412

PLATONE, LA REPUBBUCA

stemicamente ({va �ePaulxnrtat). Tutto ciò sembra conferma­ re che la dialettica perviene effettivamente a un principio che è al tempo stesso non-ipotetico, univoco e posto al limite estre­ mo del campo noetico, e sembra anche indicare abbastanza chiaramente come il «principio del tutto» di 5llb7 possa venire identificato con l'idea del buono (occorrerà chiedersi più avanti perché ciò non venga detto nel testo in modo esplicito). C'è dd resto un passo ulteriore in cui viene affermato con chiarez­ za che il dialettico perviene a dar conto delle singole essenze ideali (534b3 sg.: tòv ')jyyov Élcaatou AaJ.!.�vovta ti\ç oùaiaç), e similmente dell'idea del buono: occorre dunque pensare che stazioni intermedie e meta finale siano del pari raggiungibili dal cammino dialettico, e che lo spazio dd "non-ipotetico" possa appartenere tanto alle prime, distributivamente, quanto univo­ camente alla seconda. Nel suo percorso ascendente la dialettica supera il livello delle per la sua anabasi verso il livello dei principi non ipotetici (che si tratti di definizioni invarianti degli enti ideali o della forma di conoscenza propria del "buono"), cioè tali da non richiedere alcuna ulteriore fondazione perché dotati di evidenza razionale incontrovertibile. In questo movimento la dialettica «toglie» (533c7: anairousa) le ipotesi, probabilmente nel doppio senso di confutarle e/o di dimostrarne comunque l'infondatezza. Raggiunto il livello di ciò che non è ipotetico e/o il «princi­ pio del tutto» - da identificare forse con l'idea del buono - il percorso della dialettica inverte comunque la sua direzione, e «ridiscende verso una conclusione>> (511b8: Èn:Ì tEÀ.euti,v Kata­ �aivn). Questa conclusione consiste presumibilmente nella fondazione argomentativa, basata sulla comprensione del livel­ lo noetico invariante delle idee e del loro «principio», di quelle ç j.10lKaÌ CÌX:ptJXòç /J:ye O'tl iÌV Jkmç)» (336dl sgg.).24 Ma il secondo e maggiore ordine di difficoltà è esterno a questo primo livello, e consiste nella necessità del rinvio a un'ulteriore fondazione di verità e di valore delle stesse idee al­ la cui definizione fosse eventualmente pervenuta la dialettica, come nel caso della giustizia. Questo rinvio comporta il pas­ saggio al secondo livello della conoscenza dialettica, quello appunto del principio ultimo di fondazione. In questo ambito, la domanda sulle modalità conoscitive proprie della dialettica si intreccia strettamente con quella relativa alla precisa deter­ minazione del suo oggetto principale; lo statuto di questo non

24 Del resto, la stessa definizione della giustizia nd libro IV non va consi­ derata definitiva; F. TRABATIONI, I:argomentazione platonica, «Problemata», I (2001) pp. 7-38, suggerisce che il provvisorio arresto ddla ricerca dialettica è dovuto all'esigenza etico-pratica di disporre di una norma immediatamente fruibile (pp. 15-18). Sembra confermarlo l'accettazione di Adimanto e Glau­ cone ddla definizione dd libro IV anche

se

Socrate la considera priva di akri­

beia (504b). Cfr. anche W.G. LEsZL, Pourquoi des Formes? Sur que/ques-unes des raisons pour lesquelles P/aton a ronçu l'hypothèse des /ormes intelligibles,

inJ.-F. PRADEAU, Platon: les/ormes intelligibles, Paris 2001, pp. 87-127. Ben­ ché «senza la teoria ddle forme, il platonismo non sarebbe che una forma di scetticismo» (p. 98), Platone ha tuttavia rinunciato a «produrre una cono­ scenza sicura e definitiva ddla natura di queste realtà, dei loro rapponi reci­ proci e dd!'estensione effettiva dd mondo ddle formo> (p. 122).

PLATONE. LA REPUBBLICA

428

può che reagire - secondo un nesso tipicamente platonico sulle forme della sua comprensione. Sappiamo che, al di là delle idee, la dialettica culmina (perai­ net) nel telos dd suo percorso di conoscenza, che viene inizial­ mente caratterizzato come «principio del tutto» (5llb7). L'uso platonico della locuzione to pan non consente però un'inter­ pretazione univoca della natura di questa arche. Nel Timeo «il tutto» designa di nonna l'universo, sicché il suo principio po­ trebbe risultare di natura cosmo-teologica. Nella Repubblica però pan significa l'insieme delle idee, che viene esplorato me­ todicamente dalla dialettica (533b3),� o anche, in endiadi conto ho/on, la «compiutezza» cui aspira il sapere filosofico (486a5). Nel Teeteto la coppia panlho/on indica semplicemente un "in­ tero" in opposizione alle sue "parti", e nel Fedro, in relazione al metodo della medicina ippocratica, ho/on è stato interpreta­ to come «la totalità del campo di indagine» (270cl).26 In que­ sta seconda accezione, il «principio» cui perviene la dialettica sarebbe nient'altro che il punto di partenza sintetico relativo a ogni singola questione in discussione, o anche, più in generale, il punto di vista della synopsis dal quale la dialettica considera i diversi saperi, mathemata (e i relativi ambiti ontologici), stu­ diandone le affinità, le relazioni e le differenze (537c2 sgg.). A seconda dell'alternativa esegetica scelta, l'universalità della dialettica risulta configurata nel primo caso come "intensiva• (perché perviene alla comprensione dd singolo principio del­ l'universo e/o delle idee), nel secondo come "estensiva" (per­ ché assume di volta in volta un punto di vista unitario sull'in­ sieme dei saperi e dei problemi in discussione). La questione si complica ulteriormente se si accetta di ri­ conoscere nel «principio dd tutto» l'idea dd buono, come il te­ sto platonico -lo si è visto - sembra suggerire in modo inequi2' VElV.

26

nipl o lanv EKaatov . btlXElpEi 11i&&ç O&p at:pl aavtòç A.allPci­ ..

Cfr. G. CAMBIANO, Diokttica, m�dià1111, r�ton"ca n�I'F�dro' p/4tonico, «Rivista di filosofia», LVII (1966) pp. 284-30' (pp. 287 sgg.); anche M. VEGETn, La mediàlfll in Platone, Venezia 1995, pp. 116 sgg.

COMMENTO AI LIBRI VI E VII,

[H]

429

vocabile27 pur senza dichiararlo in modo esplicito. Ma anche questa omissione non può essere sorvolata come non problema­ tica. Se infatti il «principio dd tutto» è il "buono", esso sembra limitare l'universalità della dialettica in entrambe le accezioni che ora si sono considerate. D "buono" non può costituire, da un lato, il punto più alto cui perviene il movimento sintetico­ sinottico della dialettica nel senso teorizzato dal Fedro della >, che l'Accademia platonica conosce bene, grazie probabilmente 12

Cfr. G. FRIEDLEIN (Hrsg.),Procli Diadochi In pn·mum Euclidis Elemen­

torum librum, Lipsia 1873, rist. 1967, pp. 35-36, di cui occorre tenere presen·

te anche la traduzione italiana di M. TIMPANARO-CARDINI, Proclo, Commento al pn·mo libro degli «Elementi» di Euclide, Pisa 1978. La sezione di quest'ope­

ra che si ritiene derivata dalla Storia della geometna dell'allievo di Aristotele Eudemo di Rodi è l'excursus storico da p. 64,7 a p. 68, 23; sebbene siano stati avanzati dubbi su questa derivazione, le pagine dell'excursus costituiscono pur sempre un punto di riferimento per la ricostruzione della geometria pre­ euclidea. u

È la teoria che distingue proporzione aritmetica,geometrica e armoni­

ca (su cui cfr. ad esempio Gorg. 508 a, Tim. 31b-36d, e soprattutto Leg. VI 757 a-d), ricostruita dettagliatamente da T. HEATH, op.cit. (n. 8), I, pp. 84-97.

COMMENTO AI LIBRI VI E Vll,

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483

all'esposizione che ne fece Filolao (DK 44A13 = Speusippo, fr. 122 Isnardi-Parente).14 Si usava rappresentare le unità che compongono i numeri con punti nello spazio, dislocati in mo­ do tale da formare diverse figure, piane e solide; su questa ba­ se, è stata prodotta una classificazione dei numeri, che, in rela­ zione alle figure che formano, risultano, ad esempio, «triango­ lari», «quadrati», «diagonali», «poligonali», «cubici», e così via.u Nella teoria dei numeri figurati si radica, perciò, un'affi­ nità parentale fra aritmetica e geometria, sebbene la loro con­ cordia non ignori motivi di profonda discordia: un evento qua­ si fratricida fu, ad esempio, la scoperta di grandezze geometri­ che in commensurabili, che decretava l'esistenza di realtà non esprimibili in termini di numeri interi positivi. Ma all'interno della matematica pitagorica, si affinarono strumenti validi a sanare le discordie, fra i quali, all'epoca di Platone, si collocava in primo piano la logistike, che - stando a due frammenti rite­ nuti autentici - proprio Archita concepisce come portatrice di

14

Su Filolao, che pare la fonte principale dei rendiconti aristotelici sui

Pitagorici, cfr. C. HUFFMANN, Philolaus o/ Croton, A Commentary on the Fragments and Testimonia with interpretative Essays, Cambridge 1993, dove si

considerano con buona probabilità autentici i frammenti DK 44Bl-7, che presentano fra le altre cose una «teoria dei principi» dd limite e ddl'illimita­ to, strutturalmente connessa alla concezione dei «numeri figurati>.. La dipen­ denza di Speusippo da Filolao a questo proposito è discussa da M. Isnardi­ Parente in SPEUSIPPO Frammenti, edizione, traduzione e commento a cura di ,

M. Isnardi-Parente, Napoli 1980, pp. 368-77. 15

Non si pensi solo alla formulazione più dementare ddla teoria, che si

limita ai primi quattro numeri. Su questa base, si sviluppano teoremi che coinvolgono tutte le possibili combinazioni fra i numeri: uno dei più semplici è, ad esempio, qudlo attribuito a Pitagora, secondo cui la somma di ogni nu­

mero di termini successivi ddla serie dei numeri naturali a iniziare da l forma un numero triangolare (cfr. T. HEATH, op. cit. (n. 8), I, pp. 76-84). E non si pensi solo ai risvolti numerologici di questa teoria -legata soprattutto al culto ddla «tetractide»: qui siamo di fronte «a un andlo di congiunzione tra la sd­ vaggia speculazione numerica e la matematica scientifica» (K. VON FRITZ, Grundprobleme der Geschichte der antiken Wissenschaft, 1: Der Ursrpung der Wissenschaft bei den Griechen, Berlin 1971, trad. it. Bologna 1988, p. 59).

PLATONE, LA REPUBBUCA

484

concordia (DK 47B3) e superiore alla geometria, poiché com­ pie «le dimostrazioni che la geometria non riesce a compiere» (DK 47B4, specialmente ll. 9-10). Aritmetica e «logistica», geometria, astronomia e armoni­ ca, formano così una famiglia di discipline affini, ulteriormente accomunate da un certo modo di praticarle, su cui Repubblica VII pone con insistenza l'accento: Pitagora medesimo- raccon­ ta Proclo rifacendosi probabilmente a Eudemo- ha inaugurato un approccio «filosofico» alle matematiche, nella «forma di un'educazione liberale», «ricercandone i principi primi e inve­ stigandone i problemi concettualmente e teoreticamente» (DK 14A6a). Di Pitagora, inoltre, il X libro della Repubblica ricorda il carattere personale e privato - per forza di cose esteso a pochi - del suo insegnamento, che ha permesso ai suoi successori di contrarre uno stile di vita capace di renderli «in certa maniera illustri fra tutti gli altri» (600b2-5). Nonostante le cautele che bisogna usare nel collegare la trasmissione del bios pitagorico alla coltivazione degli studi di matematica teorica in ambiente pitagorico, 16 si può presumere una certa simpatia di Platone per il riserbo - che molte fonti attribuiscono a Pitagora e ai suoi seguaci- a diffondere a chiunque dottrine, anche di contenuto matematico, che è più opportuno riservare a pochi e ai miglio­ ri, destinati oltretutto a compiti di governo. Di fatto, la diffusione delle scoperte e delle teorie dei mate­ matici più o meno strettamente legati al pitagorismo, non ap­ pare un fenomeno assai allargato nella cultura greca del V-IV secolo. Pare attendibile la notizia che Platone stesso si sia pro­ curato il libro di Filolao solo con difficoltà durante uno dei

16

A lludo specialm ente alla distinzione all'interno della «Scuola» fra «acu­

smatici» e «matematici», su cui si è appuntata l'analisi ipercritica di L.

ZHMUD, Mathematici and Acusmatici in the Pythagorean School, in K.I. BoUDOURIS (ed.), Pythagorean Philosophy, Athens 1992, pp. 24049; cfr. peral­ tro, oltre a B. CENTRONE, op. cit. (n. 10), pp. 81-83, W. BuRlCERT, Lore and Science in the Ancient Pythagoreanism, Cambridge Mass. 1972, pp. 192-208.

COMMENTO AI UBRI VI E VII,

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485

suoi viaggi in ltalia.17 E per la fme del V secolo, il caso di lp­ pocrate di Chio, che dopo aver perso il suo patrimonio si recò ad Atene per insegnare geometria a pagamento (DK 42A2), si presenta come un'eccezione- e non meno eccezionale, al di là della sua attendibilità e della natura romanzesca dei racconti che la descrivono, risulta la divulgazione della scoperta dell'in­ commensurabilità da parte di lppaso di Metaponto (18B4), ormai contemporaneo di Filolao.18 Le matematiche di/fuse dai so/isti. Perché Glaucone, l'ate­

niese di cultura superiore up to date, possa sensatamente mani­ festare il suo partecipato assenso alle osservazioni che Socrate fa sulle matematiche intese come forme elaborate di sapere intellettuale, bisogna pensare anche a un altro canale di diffu­ sione di alta cultura scientifica, di maggiore fruibilità rispetto a quello pitagorico. Sensibile alla cultura «oligarchico-sofisti­ ca ... del gruppo di Crizia>>, «di netta impronta trasimachea>>,19 e quindi con un gusto particolare per il rigore metodologico e argomentativo,20 l'ateniese-tipo rappresentato da Glaucone può avere alle spalle studi secondari di matematica, oggetto dell'insegnamento di più di un sofista. Lasciamo la parola a Protagora, nell'omonimo dialogo di Platone: «Gli altri sofisti danneggiano i giovani, perché, mentre questi rifuggono dalle varie tecniche, quelli li spingono e li cacciano dentro di nuovo nelle tecniche contro la loro volontà, insegnando loro calcoli, astronomia, geometria e musica - e a questo punto guardò ver­ so lppia>> (Prot. 318d9-e 4). L'accusato è lppia di Elide: nell'lp­ pia Maggiore (285b) e nell'Ippia Minore (366c-368e) maestro di logistike, geometria, astronomia, alle quali si aggiungono anche 17

18

Cfr. DK 44A1, insieme a W. BURKERT, op. cit. (n. 16), pp. 218-38. Su lppocrate di Chio dr. anche più avanti S 1.6; su lppaso come «pita­

gorico», dr. B. CENTRONE, op. cit. (n. 10), pp. 84-85, mentre sulla sua «leg­ genda», cfr. W. BURKERT, op.cit., (n. 16), pp. 447-65, insieme ai contributi di K. von FRITZ e S. HELLER segnalati più avanti, n. 56. 19 Cfr. vol. II, [A], pp. 152, 153. 20 Cfr. vol. I, m. pp. 237-40.

486

PLATONE, LA REPUBBUCA

«ritmi» e «armonie»; per lo più considerato lo stesso lppia di cui parla Eudemo in Proclo, attribuendogli progressi originali

nel campo della geometria, primo fra tutti l'invenzione di una curva, nota come «quadratrice», utile, originariamente, per risolvere il problema della trisezione di ogni angolo, e successi­ vamente utilizzata anche in relazione al problema della qua­ dratura del cerchio.21 A quanto suggeriscono i dialoghi di Pla­ tone, dunque, lppia e altri Sofisti, eccettuato Protagora, inse­ gnano le discipline del quadrivium pitagorico a livello superio­ re, una volta che sia stato concluso, dopo i quattordici anni di età, l'insegnamento elementare, che prevedeva- come si è vi­ sto- anche l'apprendimento di rudimenti tecnici di aritmetica e geometria. E, stando sempre alle notizie tramandateci dall'lp­ pia Maggiore (285b-e), questo insegnamento talora fu rifiutato, ad esempio a Sparta, ma trovò buona accoglienza ad Atene. Si può presumere che i suoi contenuti derivassero, in misura sostanziale, dai primi trattati di matematica, che iniziavano a circolare nel mondo greco: allo stesso Ippocrate di Chio, di cui si racconta che si mantenne ad Atene dando lezioni a paga­ mento, è attribuita la stesura dei primi Elementi di geometria della nostra civiltà; e il concittadino di Protagora, Democrito, aveva dedicato più di un'opera a problemi aritmetici, geome­ trici e astronomici, istituzionalizzando un interesse già dimo­ strato nei loro confronti, probabilmente, da Anassagora, e forse ancora prima, almeno in ambito geometrico e astronomi­ co, da Talete.22 21

Cfr. DK 86A11 , 12, B12, 21, insieme a PROCL.ln pr. Eud., p. 326,1.10,

e a T. HEATH, op. cit. (n. 8), l, pp. 182-83. 22

A Talete e ad Anassagora si riferisce esplicitamente lppia, all'inizio

dello Hi. Ma. 281c. Una panoramica sulle conoscenze matematiche, attribuite loro in base a una tradizione fondata sul Commento

t1

Euclide di Prodo, e

alcune ragionevoli congetture sui contenuti delle opere matematiche di De­ mocrito, di cui possediamo solo i titoli, si trova in T. HEATH, op. cit. (n. 8), pp. 118-40 (Talete e l'Egitto), 170-74 (Anassagora), 176-83 (Democrito). Sull1 redazione dei primi trattati di matematica, a partire dalla metà dd V secolo, dr. G. CAMBIANO, lA nascittl dei trattati e dei mtlnwli, in G. CAMBIANO-L

COMMENTO AI LIBRI VI E Vll,

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487

Le matematiche coltivate nell'Accademia. Nelle cerchie ate­ niesi di alta cultura al tempo di Platone, e con ogni verosimi­

glianza all'interno dell'Accademia, non dovevano essere rare situazioni analoghe a quella descritta nel Teeteto, che trova conferma anche nello pseudo-platonico Amanti (32a-b). Figu­ ra centrale ne è Teodoro, amico e allievo di Protagora, ma non suo difensore perché, passato «troppo presto dai ragionamenti puri e semplici alla geometria» (165al-2), si rifiuta di dare sostegno alla tesi dell'identità fra scienza e sensazione (164d8165a3; dr. 170c5-9) . Di fronte a un ristretto e selezionato grup­ po di ragazzi (168d8-e 5), egli incarna il ruolo di esperto di geo­ metria, astronomia, logistike e musica (168e), tenendo una le­ zione sugli irrazionali: con l'aiuto di disegni, dimostra che le lunghezze, espresse dalla radice quadrata dei numeri, da 3 a 17, che non sono numeri quadrati, risultano incommensurabili alla linea lunga un piede, scelta come unità di misura (147d26). I suoi giovani scolari, alcuni dei quali molto versati in mate­ matica, come Teeteto, discutono fra loro la lezione e si doman­ dano, «nel tentativo di sviluppare una teoria di carattere più generale»,23 se non sia possibile raccogliere questi irrazionali sotto un'unica definizione (147c8-dl, d7-e l); ci riescono «al meglio delle umane possibilità>> (148b3): utilizzando la dassifi­ cazione dei numeri figurati, in particolare la distinzione fra numeri quadrati ed equilateri, e numeri rettangolari, definisco­ no due classi di linee, le (522b9), cioè forma un «sapere comune, di cui si valgo­ no- anzi «sono costrette a servirsi» (522c8) -«tutte le tecni­ che, tutte le attività intellettuali, tutte le scienze» (522cl-2), «e persino la tecnica della guerra» (522cl0). Ma, se alla tecnica della guerra «basterebbe una preparazione anche parziale», o rudimentale, «nel calcolo» (526d7-8), perché «numero e calco­ lo» coincidano veramente con il mathema ricercato vengono portati gradualmente a cambiare la propria veste, fino assume­ re quella, «raffinata» (525dl), della «scienza del calcolo e del­ l'aritmetica» (525a9). In questa veste, è soprattutto la «scienza del calcolo» a rendersi utile a «tutti i saperi» (526b6), per la ra­ gione - condivisa come si è visto dalla pedagogia del tempo di Platone - che «chi ha una disposizione naturale per il calcolo dimostra un'altrettanto naturale acutezza praticamente in tutti 34 Sottraggo quest'espressione a M. CAVEING, op.cit. (n. 31), pp. 127-28, dandole un significato più esteso.

PLATONE, LA REPUBBLICA

494

i saperi, mentre le persone lente d'ingegno, se vengono istruite ed esercitate in questo campo, anche se non ritraggono altri van­ taggi, almeno migliorano tutte diventando più acute di quanto non fossero prima» (526b5-9). Di che cosa si occupano, dunque, e quali relazioni intrat­ tengono fra loro, gli studi di logistike e di aritmetica? «La scienza del calcolo e l'aritmetica- osserva Socrate, confortato da una risposta certissima di Glaucone - verte tutta sul numero» (VII 525a9-11). In riferimento ad altri scritti di Platone, specie al Gorgia (45th) e al Carmide (166a), ma anche al Teeteto (198a) e al Politico (259e), si capisce che l'aritmetica studia i numeri in sé stessi e le loro proprietà, mentre la logi­ stike studia i numeri in rapporto reciproco e le proprietà dei loro rapporti.3' Chiaramente, tra le due è basilare l'aritmetica, dato che senza numeri non si danno neppure rapporti fra nu­ meri; però la logistike tende ad assumere una posizione domi­ nante e quasi esclusiva, perché «il centro dell'interesse» del­ l'indagine teorica sui numeri dei Greci «è, come nella geome­ tria, la nozione di rapporto (/ogos)».36 " Specialmente uno scolio al Carmtde ha indotto per decenni gli studiosi a ritenere la logistike non una disciplina teorica, ma una sorta di «aritmetica ap­ plicata» a cose numerate (cfr. T. HEArn, op. cit. (n. 8), pp. 14-15)- errore in­ terpretativo che è stato via via riconosciuto e corretto, soprattutto a partire dalla traduzione inglese del saggio di J. KLEIN, Die griechische Logistik und die Entstehung der Algebra, «Quellen und Studien zur Geschichte der Mathematik,

Astronomie und Physik», Abt. B, vol. m (1936) pp. 18-105, 122-235, tradotta con il titolo: Greek Mathematical Thought and the Origin o/Algebra, Cambridge (Mass.) 1968. Anche per questo motivo, si comprende facilmente come la tra­ duzione usuale di logistike con «Scienza dd calcolo», non meno che la traduzio­ ne di logismos con «calcolo», si riferiscano a qualcosa di profondamente diffe­ rente da un semplice «fare di conto»; sono state proposte, in effetti, traduzioni alternative, ad esempio quella inglese da parte di D.H. FoWLER, op. cit. (n. 32), di logistike con «ratio theory» e di logismos con «ratio», che tuttavia indicano con grande chiarezza la difficoltà di trovare una traduzione dei due termini, diversa da quella corrente, che sia di comprensione abbastanza immediata. 36 R NETZ,

La matematica nel V secolo; Euclide e la matematica del IV se­

colo, in Storia della Scien1Jl, Istituto dell'Enciclopedia Treccani, vol. l, Roma

2001,pp. 754-63,763-79 (p. 776).

COMMENTO AI UBRI VI E Vll,

[L]

495

I numeri e le unità, il pari e il dispari. «> la distinzione tra «pari» e «dispa­ ri», che compare nd novero delle definizioni di Elem. VII e presuppone chiaramente Elem. VII deff. l, 2.41 Le definizioni 6 e 7 dello stesso libro recitano, infatti, «numero pari è quello divisibile in due parti uguali», e «numero dispari è quello che non è divisibile in due parti uguali, o che differisce da un nu­ mero pari per un'unità>>, dove la «parte» di un numero altro non è se non un gruppo delle sue unità, un suo sottomultiplo (dr. Elem. VII def. 3). Ma gli Elementi contengono un'intera teoria - pare molto antica - costruita sulle definizioni di «pari» e «dispari»: si tratta delle proposizioni 21-34 di Elementi IX, che formano un'autonoma dottrina fossile, incastonata nd cor­ pus euclideo, senza connessione con nessun altro teorema degli

40

Questo capita, ad esempio, anche nella teoria dei «numeri figurati»

ricordata in precedenza, S I.4. I teoremi di cui si compone riposano in buona parte sulla distinzione fra numeri piani e numeri solidi, e più in particolare su quella fra numeri quadrati e numeri cubici, che coincidono con le definizioni 16-19 daborate dallo stesso libro VII degli Elementi a partire dalle deff. l e 2 di unità e di numero, unite alla def. 15. Quest'ultima stabilisce che «un nume­ ro

moltiplica un numero, se il numero che è moltiplicato è aggiunto a se stesso

tante volte quante sono le unità nell'altro, e così si produce un certo numero»; ne risulta quindi, alla lettera, quanto segue: «se due numeri moltiplicati fra loro producono un certo numero, il numero così prodotto è chiamato piano, e i suoi lati sono i numeri che sono stati moltiplicati fra loro (def. 16); e se tre numeri moltiplicati fra loro producono un certo numero, il numero così pro­ dotto è solido, e i suoi lati sono i numeri che sono stati moltiplicati fra loro (def. 17); e un numero quadrato è un uguale moltiplicato per un uguale, o un numero che è contenuto da due numeri uguali (def. 18); e un cubo è un ugua­ le moltiplicato per un uguale e di nuovo per un uguale, o un numero che è contenuto da tre numeri uguali (def. 19)». 41

Ciò si riscontra in diversi altri dialoghi platonici, ad esempio nd Poi.

262d-e, Eutiphr. 12 d-e, sui quali cfr. J. ANNAS, op. cit. (n. 29), pp. 43-44.

COMMENTO AI UBRI VI E VII,

[L]

497

Elementi.42 Le proposizioni 21-30, ad esempio, stabiliscono quanto segue: (21) la somma di numeri pari è pari; (22) la som­ ma di un numero pari di numeri dispari è pari; (23) la somma di un numero dispari di numeri dispari è dispari; (24) pari meno pari fa pari; (25) pari meno dispari fa dispari; (26) dispa­ ri meno dispari fa pari; (27) dispari meno pari fa dispari; (28) dispari volte pari fa pari; (29) dispari volte dispari fa dispari; (30) un numero dispari, che ·divide un numero pari, divide anche la metà di questo numero. Già da questo quadro sintetico e non completo possono emergere alcuni tratti della teoria dd «pari e dispari», che ne fanno un possibile sfondo della riflessione di Socrate e Glau­ cone sull'aritmetica in Repubblica VII. Si riscontra come prima cosa un'implicita ma evidente coestensione dell'universo dei nu­ meri con quello dd «pari» e dd «dispari», e allo stesso tempo emergono le regole di appartenenza a questo universo. Le de­ finizioni-base della teoria svolgono in modo implicito il ruolo

42

A questo proposito cfr. il contributo essenziale di O. BECKER, Die

Lehre vom Geraden und Ungeraden im neunten Buch der Euklidischen E/e­ mente, «Quellen und Studien zur Geschichte der Mathematik, Astronomie

und Physib, Abt. B, vol. IV (1938) pp. 533-53, ripreso in Io., Das mathema­

tische Denken der Antike, Gottingen 1957, pp. 44-51, e ristampato in ID.

(Hrsg.), Zur Geschichte der griechischen Mathematik, Darmstadt 1965, pp. 125-45; per una prospettiva diversa, WR KNoRR, op.cit. (n. 24), pp. 134-35. B.L. VAN DER WAERDEN, Die Arithmetik der Pythagoreer, in O. BECKER (Hrsg.), op.cit., pp. 676-700, ripreso in B.L. VAN DER WAERDEN, Die Pytha­ goreer. Religiose Bruderscha/t und Schule der Wissenscha/t, Ziirich-Miinchen

1979, pp. 396-98, insiste sull'antichità della teoria del «pari e dispari» e ne sottolinea la connessione con la dimostrazione dell'incommensurabilità della diagonale al lato dd quadrato, ricordata da Aristotele, An. pr. I 23, 41a23-30

(dr. il prossimo paragrafo, n. 61). Sull'appartenenza di questa teoria «agli strati più antichi della matematica pitagorica» si dimostra d'accordo anche L.

ZHMU D , Wissenscha/t, Philosophie und Religion im /rUhen Pythagoreismus,

Berlin 1997: operando un collegamento con il Fr. 23 di Aristosseno, la «SÌ può connettere direttamente a Pitagora» (p. 158), unitamente alla costruzione di un gruppo particolare di «numeri figurati», quelli «gnomonici», che a suo avviso «si allaccia a questa teoria» (p. 165, dr. sopra, n. 40 eS 1.4).

498

PLATONE, LA REPUBBUCA

di assiomi, dai quali «si deve anzitutto trarre che le cose indica­ te da questi termini primitivi»- pari e dispari- «Si comporta­ no come numeri».'43 Più precisamente, se si considera il mondo dd pari e dispari un insieme, esso si rivela «caratterizzato dal fatto che si possono connettere i suoi dementi tramite quattro composizioni binarie diverse, e che il risultato di queste è an­ cora un elemento dd medesimo insieme. Queste composizioni binarie sono le quattro operazioni, addizione e moltiplicazione, sottrazione e divisione, di cui noi [. . ] abbiamo conoscenza a .

partire da quello che chiamiamo mondo dei numeri interi. Ciò significa soprattutto che, in questo insieme, c'è un elemento neutro della moltiplicazione, come il nostro "l", che corri­ sponde anche alla monade pitagorica. Dai teoremi Elem. IX 28, 29, segue che questo elemento è il dispari. n pari svolge, invece,

il ruolo dello zero, "O", l'elemento neutro dell'addizione».44 Viene cosi alla luce un ulteriore tratto della teoria dd «pari e dispari», che «colpisce»: «la sua assoluta superfluità>>Y Né nelle matematiche, né nella vita quotidiana, serve applicare le regole che fissa, fra le quali abbiamo, ad esempio, nei termini­ base più vicini a noi appena indicati, 0+0 0-0

=

=

O, 1·0

=

O, 1·1

=

l,

O. Non possiede insomma applicazioni concrete- cosa

che, in ottica platonica, è senza dubbio un pregio, ma non certo per l'uomo della strada. Non stupisce, anzi, che l'unica sua applicazione documentata in epoca antica si trovi nella commedia di Epicarmo, che la usa come espediente comico.46 Ma c'è un'altra ragione, per cui la teoria dd «pari e dispa­ ri>> può rivelare una vena paradossale: il comportamento, nel suo ambito, della monade indivisibile. Oltre a trattarsi di un'u­ nità piena e perfetta, in quanto indivisibile, ma infinitamente molteplice, in quanto ripetibile all'infinito attraverso la serie

43 L Torn, op.cit. (n. 27), p. 167 . .. lvi, pp. 167-68. 4' Cfr. ivi, p. 169. 46 ll frammento DK 23B2 cita E/em. VII def. 7; ulteriori informazioni su Epicarmo, vissuto all'inizio del V secolo, più avanti, § 11.6.

COMMENTO AI UBRI VI E VD,

[L]

499

dei numeri naturali, la monade può dar luogo a formule sor­ prendenti, che appaiono chiare soprattutto se la si indica, nel senso illustrato sopra, con l' «l» coincidente con il dispari, opposto allo «0>., coincidente con il pari; ad esempio, uno dei casi più naturali che si verificano entro la teoria, ossia che dispari e dispari fanno pari, tradotto nel linguaggio-base dell'«l» e dello «0», diventa: «1+1 = 0>>:47 Ora, nella stesura del curriculum matematico, Socrate e Glaucone si concentrano su di un carattere paradossale dell'u­ nità, quello di apparire «simultaneamente come una e come in­ finitamente molteplice» (VII 525a4-5)- paradosso che si esten­ de a «ogni altro numero» (VII 525a6). Non viene data, però, nessuna spiegazione dd modo in cui l'aritmetica e la logistike si occupino di unità, e di numeri, che siano simultaneamente unità e molteplicità. Si esclude soltanto che la molteplicità atti­ nente l'unità sia una molteplicità di parti in cui dividerla (VII 525d5-526a7), e si sottolinea che si tratta di un esercizio molto arduo di scienza del calcolo (VII 526c2).48 Quest'ultima indi­ cazione induce a ritenere insufficiente una spiegazione sempli­ ce e sul piano puramente aritmetico - peraltro documentata in Platone -, quale potrebbe essere quella per cui ciascuna unità è una, ma è infinitamente ripetibile, e ciascun numero è uno in

se stesso, ma infinitamente ripetibile.49 Probabilmente occorre andare a cercare - come faremo tra poco - alcuni esempi, non facili, di logistike teorica, per vedere come si realizzi la compre­ senza di unità e di molteplicità nell'uno e in ciascun numero, di 47

Ulteriori dettagli e spiegazioni in l. Torn, op. cit. (n. 27), p. 169.

48

Si tornerà ripetutamente sull'intera questione: cfr. più avanti §§ 1.6,

11.5 e 11.6. 49

Cfr. Resp. 526a3, unito a Phil. 56e2. Sulle discusse implicazioni ontolo­

giche di questo carattere dell'unità e dd numero, dr. la nota di T.A. Szi..E:zAK a 525d-e in PLATON, Der Staat, Politeia, Oberstetzt von R. RUFENER, Ein­ fiihrung, Erlaiiterungen und Literaturhinweise von T.A. Szlezak, Diissddorf­ Ziirich 2000, insieme al saggio di K. GAISER, Platons Zusammenschau der

mathematischen Wissenschaften, «Antike und Abendland», 32 ( 1986) pp. 89124, specialmente 91, n. 10.

500

PLATONE, LA REPUBBUCA

cui parla Socrate. E tuttavia, il fatto stesso che Socrate non pre­ ·cisi le sue considerazioni a questo proposito può far pensare a • un tacito riconoscimento, da parte sua e di Glaucone, di un'attitudine più generale riscontrabile nell'aritmetica e nella scien­ za dd calcolo, con le quali hanno dimestichezza: l'attitudine a

contemplare visioni paradossali e contrastanti dell'unità, a non meravigliarsi di aspetti anomali dd suo comportamento, come quelli rilevabili nella teoria del «pari e dispari» o come altri, dai quali i dialoghi di Platone non ritraggono mai lo sguardo.� I logoi e l'antanairesis. Sembra che almeno le principali difficoltà teoriche sollevate dalla concezione dell'indivisibilità dell'unità, e del numero come gruppo di unità indivisibili, siano state affrontate molto presto sviluppando una teoria dei rap­ porti, o logoi, fra i numeri. Questa sarebbe la logistike, di cui

discutono Socrate e Glaucone, che nel Carmide, ad esempio, viene defmita «scienza del pari e del dispari», non solo, però, come l'aritmetica, «relativamente alla qualità loro propria, ma anche rispetto alla loro relazione reciproca» (166a5-7). n logi­ smos, illogizesthai, e l'attività dellogistikon, immessi come parole di significato noto già in apertura del «paragone della linea» (VI 51Oc3), e più spesso nel cum"culum matematico di Repubblica VII, avrebbero quindi per oggetto rapporti o rela­ zioni di numeri interi con altri numeri interi. «Ma che cosa sia veramente un rapporto non è facile spie­ gare. Del rapporto matematico esistono diversi possibili con­ cetti e definizioni, ma due definizioni soprattutto, l'una in un certo senso complementare dell'altra, ne colgono gli aspetti essenziali. La prima (in senso non cronologico) è quella che si



Un esempio importante a questo proposito può essere Hi. Ma. 30ld-

302b, da dove emerge una certa coscienza del fatto che i concetti di numero, e in particolare quello di 4CWlO», non si comportano come tutti gli altri, per­ ché- come dirà G. F'REGE, Fondamenti de//'antmetica, trad. it. Torino 1965, p. 263 - posso combinare «Talete è saggio» e &Ione è saggio» in « Talete e Solone sono saggi», mentre non posso combinare «Talete è uno» e «Salone è uno» in «Talete e Solone sono uni».

COMMENTO AI UBRI VI E VD,

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501

trova negli Elementi di Euclide, e si combina con il concetto di proporzione [sci/. inteso come uguaglianza di due rapporti]. Della seconda, più vicina a un'idea di algoritmo o di processo computazionale numerico, si hanno testimonianze più incerte e frammentarie; ma Aristotele ne dà una formulazione chiara ed esplicita».'1 Per capire di che tipo di logos si occupi la logistike, bisogna quindi spostarsi alle spalle della teoria delle proporzioni conte­ nuta in Euclide, Elementi V, tradizionalmente attribuita a Eu­ dosso e indicata da Aristotele come una sorta di «111atematica generale».'2 Nonostante il Corpus aristotelicum non parli più, in nessun luogo, di logistike, il libro VIII dei Topici, 158b29-35, fornisce quella che, in base anche ad altre fonti, per lo più euclidee, si può ritenere la migliore definizione dd logos su cui essa verteva. È un logos «arcaico»- precisa il commento attri­ buito ad Alessandro di Mrodisia -, denominato antanairesis o antiphairesis;" più precisamente, Aristotele afferma che le basi e le superfici di un parallelogramma, spezzato in due da una retta parallela a uno dei suoi lati, sono divise dalla retta «in modo simile, poiché le superfici e le basi hanno la stessa anta­ nairesis, e questa è, appunto, la definizione di "stesso rappor­ to" (auton logon)» (158b31-35). Nella sua etimologia, il termi­ ne allude «a un "antagonismo" (antt), a un confronto recipro­ co di due grandezze, e alla "risoluzione" di questo confronto per via di un processo "all'indietro" (ana) di "scioglimento" o di "disfacimento"», oltre che «a un'idea di "bilanciamento di parti contrapposte"»; si tratta, infatti, di un procedimento «ge­ nerato dalla ripetizione di una stessa operazione elementare di sottrazione applicata a diverse grandezze legate da una formu­ la ricorsiva», che può «Servire sia per dimostrare, quando è il

"P. ZELLINI, Gnomon. Una indagin� sul num�ro. Milano 1999, p. 131. '2 Per i passi di referimento e le opportune spiegazioni, cfr. E. CATIANEI, op. cit. (n. 28), pp. 74-81. " M. WALLIES (ed.), AkXJJndn· Aphrodisi�1Uis In Aristot�/is Topicorum /ibros octo comm�nl4ri4, 2 voli., Berlino 1891, l, p. 545, specialmente Il. 15-19.

502

PLATONE, LA REPUBBUCA

caso, che due grandezze sono incomrnensurabili, sia per calco­ lare delle approssimazioni numeriche del loro rapporto, sia, infine, per definire il concetto di logos».'4 Ci troviamo di fronte a ciò che, nella letteratura matemati­ ca, è noto con il nome di «algoritmo euclideo». Il suo caso­ base, che ne costituisce un'illustrazione efficace, è quello dd rapporto tra due segmenti di retta. Dati due segmenti di lun­ ghezza diversa, a e b, con a> b (fig. 1), si può stabilire in che rapporto stanno, scegliendo come unità di misura il segmento più piccolo, b, per procedere alla «sottrazione ripetuta» (fig. 1): il segmento più piccolo, b, viene sottratto iterativamente, un certo numero di volte, da quello più grande, fmo a che que­ st'ultimo non viene misurato, perché risulta uguale ad un certo numero di unità; se, ad esempio, nei termini del nostro sistema di misurazione e numerazione, a = 6 cm. e b che a= 3b.

---

][

---

a

=

2 cm., risulta

][---

b (fig. 1: «Sottrazione ripetuta>>)

Ma è molto più facile che le sottrazioni iterate del segmento più piccolo da quello più grande producano, ad un certo punto, un resto tra il segmento da misurare e un determinato numero di unità, come può capitare, ad esempio, con c = 7 cm. e b= 2 cm., ottenendo un resto, r, di l cm., in eccesso rispetto a

3b, ma in di/etto rispetto a 4b (fig. 2). A questo punto, si proce­ de alla «sottrazione reciproca»: si assume il resto come unità di misura e lo si sottrae dal segmento minore di partenza; nel nostro caso, si sottrae r da b. «In altri termini, si usa ciò che resta della prima misurazione, per misurare la prima unità di misura; il significato dell'antiphairesis è dunque questo: misura5o4 P. ZELLINI, op.cit. (n. 51), p.

179.

COMMENTO AI UBRI VI E VU,

[L]

503

re l'unità di misura mediante ciò che resta dell'oggetto misura­ to»." n procedimento cessa, quando il resto misura esaustiva­ mente, cioè senza ulteriore resto, il segmento da cui è sottratto; nell'esempio scelto ciò avviene subito, perché il resto r lungo l cm misura senza resto, dopo la prima sottrazione, b, che è lun­ go 2 cm n segmento, risulta cosi la maggiore misura comune dei segmenti di partenza, c e b, in quanto è in grado di misurar­ li entrambi con esattezza, senza produrre né eccessi né difetti. Nel suo complesso, il rapporto che si crea tra c e b si può espri­ mere con una coppia ordinata di numeri interi, che corrispon­ de all'andamento della «SSttrazione reciproca», cioè: [3, 2]. .

.

n---J[---Jr-J c (rJ h

[-] r

(fig. 2: «SSttrazione reciproca») Ovviamente, nel caso appena prospettato, i segmenti di par­ tenza sono commensurabili. Invece, nel caso di grandezze in­ commensurabili - poniamo il lato e la diagonale di un pentago­ no regolare, oppure di un quadrato - non si giunge mai ad un resto che li misuri entrambi e il procedimento antanairetico si rivela infinito, anche se i resti diventano sempre più piccoli, e convergono verso un punto di coincidenza, che però non rag­ giungono mai. Se, infatti, si cerca di costruire geometricamente la «SSttrazione reciproca» di grandezze incommensurabili, ci si trova a ripetere ciclicamente, in dimensioni via via minori, la medesima figura. Ad esempio, l'antanairesis del lato e della diagonale di un pentagono regolare trova espressione nella costruzione del «pentagramma» (fig. 3 ) , dove la differenza fra la diagonale e il lato del pentagono maggiore è uguale alla dia" R NETZ, op.

cii.

(n. 36), p. 762.

504

PLATONE, LA REPUBBUCA

gonale dd pentagono minore, e la differenza fra il lato dd pen­ tagono maggiore e la diagonale dd pentagono minore è uguale al lato dd pentagono minore; ma, a sua volta, la differenza fra la diagonale dd pentagono minore e il suo lato è uguale alla diagonale dd pentagono immediatamente più piccolo, e cosi via, all'infinito.� D

(fig. 3: «sottrazione reciproca» nd caso di grandezze incommensurabili)

x.

Più precisamente: il lato AB dd pentagono più grande, ABCDE, viene

sottratto solo una volta dalla sua diagonale AC; dato che AB=AE', e E'C=E'B', ne risulta che AC-AB=E'B', cioè è uguale alla diagonale dd pentagono imme­ diatamente più piccolo, A'B'C'D'E'; ma da AB=BC=CD', segue che il secondo resto, AB-CE', è uguale a D'E', cioè al lato dello stesso pentagono, A'B'C'D'E'; la diagonale e il lato di quest'ultimo pentagono vengono quindi sottoposti a due ulteriori momenti della «sottrazione reciproca», che si ripetono come i precedenti, per passare infine al pentagono, ancora più piccolo, A•B•cv•E•; secondo lo stesso procedimento, per ogni pentagono ottenuto dalla «SSttra­ zione reciproca» della diagonale e dd lato di quello precedente, si ottiene all'infmito

un

nuovo pentagono, sempre più piccolo. Su questa costruzione,

che fra l'altro si trova riprodotta in motivi di pittura vascolare assai antichi, e alla quale diversi studiosi legano la scoperta stessa dd fenomeno dell'incom­ mensurabilità, cfr. soprattutto i contributi di K. VON FRITl, Die Entdeckung der Inkommensurabilitat durch Ippasos von Met apont, e di S. HELLER, Die Entdeckung der stetigen Teilung, in O. BECKER (Hrsg.), op.cit. (n. 42), pp. 271-

COMMENTO AI UBRI VI E VII,

[L]

505

Anche nd caso delle grandezze incommensurabili, la quan­ tità di sottrazioni compiute nel corso del procedimento an­ tanairetico può essere descritta attraverso coppie di numeri in­ teri poste in serie; chiaramente, queste serie di coppie di nu­ meri sono infinite e aperte, al contrario di quelle, finite e chiu­ se, che indicano rapporti fra grandezze commensurabili.fl Logos, nd contesto di una teoria dd calcolo incentrata sul­ l'antanairesis, significa perciò un rapporto, che trova espressio­ ne in una coppia ordinata di numen· interi, e che corrisponde a uno dei momenti di un processo ricorsivo di misurazione di due grandezze, esprimibile in una serie ordinata - in una taxis -, chiusa o aperta, di logoi. D reperimento di calcoli antanairetici in numerosi luoghi della letteratura matematica antica, non solo aritmetica e geo­ metrica, ma anche astronomica e musicale, ha indotto a rico­ noscere un autentico Enlightment antanairetico della matema­ tica pre-euclidea, il cui oscuramento, nella matematica succes­ siva, avrebbe ragioni storiche e teoriche precise.'8 In ogni mo-

307, e 319-54, specialmente 295-98,328-30. Una figura simile, ma composta di quadrati sempre più piccoli, di cui abbiamo riproduzione su numerose monete dd V secolo a.C., risulta dall'antanairesis della diagonale e dd lato dd quadrato, come dimostrano, fra gli altri, R NETZ, op. cit. (n. 36), p. 762, e l. Tarn, Lo schiafJO di Menone, Milano 1998, specialmente pp. 2.5, 50, 55, 61, 65,84. 77

Per fare un esempio,sul quale si ritornerà fra poco, dalla combinazio­

ne di Men. 82e-84a con Resp. VIII .546d e Theaet. 196a,199b,l. Tarn, op. cit. (n. 56), pp. 42-4.5,ha ricostruito i primi quattro membri della serie infmita delle coppie di numeri relative all 'antanairesis dd lato e della diagonale del quadrato prodotta a suo awiso nell'esperimento maieutico dd Menone: [l, l]; [3,2]; [7,.5]; [17,12]; etc. "Questa è la tesi di fondo di D.H. FoWLER, op. cit. (n. 32), sintetizzata, con

un quadro delle ragioni per cui la teoria de//'anl4nairesis si è oscurata, in

ID., op.cit. (n. 33), dove si sottolinea soprattutto l'importazione,a partire

dal II secolo a.C.,nell'astronomia greca delle matematiche babilonesi,fonemente

ariunetizzate, che ha fatto sl che molte delle nostre fonti sulla matematica prima di Euclide abbiano lavorato nell'alveo di una tradizione matematica di­ versa da quella delle origini.

PLATONE, LA REPUBBUCA

506

do è chiaro come lo sviluppo e lo studio di Jogoi antanairetici riesca a supplire alcuni dei limiti più restrittivi dell'aritmetica "pitagorica". La semplice concezione di logos come coppia or­ dinata di numeri interi, e non come numero esso stesso, permet­ te di superare la contraddizione fondamentale - affrontata apertamente da Repubblica VII - fra una matematica che im­ pedisce la divisibilità dell'unità e una che la concede - quale era l'aritmetica delle frazioni.'9 «L'affermazione che l'" l ", il quale è oggetto singolo, individuale, è indivisibile, mentre il Jogos [l,

1], il quale consiste in una coppia di numeri, è divisibile, non presenta nessuna contraddizione e nessunissima difficoltà logi­ ca, anche qualora la coppia costituisca il rapporto dell'uno con se stesso».60 Non sembra, tuttavia, quello aritmetico-algebrico, il terre­ no più propizio alla coltivazione della Jogistike, incentrata sul rapporto antanairetico: i suoi frutti migliori si raccolgono nd1' ambito dd problema geometrico delle grandezze incommen­ surabili. Sono state portate alla luce quasi dieci strade differen­ ti, su cui può essere stata scoperta l'incommensurabilità, fra le quali si usa dare notevole importanza alla dimostrazione per assurdo conservata da Aristotele, secondo la quale la commen­ surabilità della diagonale implicherebbe l'esistenza di un nu­ mero né pari, né dispari (An. pr. I 23, 41a23-30).61 «Ma que­ sta» prova - che per di più riusciamo a ricostruire solo grazie al

'9

Cfr. più avanti S 11.6. Un'analisi ancora valida di questi aspetti dell'arit­

metica pitagorica si trova in}. KLEIN, op.cit. (n. 3-'). 60 61

I.

Torn, op.cit. (n. 27), p. 77.

Com'è noto, Aristotele pone in rilievo il meraviglioso impulso della

scoperta dell'incommensurabilità sullo sviluppo dd sapere teorico (Met. I 2, 983all-21) e usa la «diagonale commensurabile» come uno dei suoi esempi preferiti di assurdità (dr. H. BoNITZ, op. cit. (n. 1), voci: dillmetros, symm� tros). Già a lui risale la tendenza a ritenere centrale la scoperta dell'incom­ mensurabilità nella matematica greca arcaica, condivisa dal main stream della ricerca del nostro secolo, da cui intende staccarsi W.R KNoRR, op.cit. (n. 24), specialmente 298-302 (riassunto), mostrando anzitutto che vi sono molte in­ commensurabilità nel pensiero matematico greco delle origini.

COMMENTO AI UBRI VI E VII,

[L]

507

commento di Alessandro di Mrodisia -, «anche se è stata con­ siderata la migliore espressione di un pensiero raziocinante emancipato dai sensi, riproduce verosimilmente solo in parte la modalità della scoperta e della concezione originaria dell'in­ commensurabilità».62 In tutte le dimostrazioni pre-euclidee dell'incommensurabilità, infatti, persino in una possibile va­ riante geometrica di quella aristotelica, «è possibile riconosce­ re [. ..] una relativa invarianza di stile e di intenzioni, le quali sembrano regolarmente volte alla costruzione di sequenze illi­ mitate di forme geometriche simili» - sequenze che vengono tradotte in cifre nelle taxeis dei logoi antanairetici.63 I logoi antanairetici possiedono dunque il potere di espri­ mere, in una forma non chiusa, però ordinata e «razionale», il fenomeno geometrico che si era guadagnato il nome di «irra­ zionale» (alogon) e di «inesprimibile» (a"heton): il rapporto fra grandezze prive di unità di misura comune, che non poteva essere espresso in termini di numeri interi positivi. Forse proprio grazie a questa , in un dialogo «senza sosta», «il problema dei rapporti fra grandezze commensurabi­ li e incommensurabili» (Leg. VII 817e5 -820e 7, specialmente 820b3-c9). E oltretutto, l'unico esempio effettivo di dimostra­ zione matematica a cui si allude nel «paragone della linea» coinvolge il quadrato e la sua diagonale (Resp. VI 510d7-8). Un esempio di logistike teorica, non banale, anzi impegnativo, familiare a Socrate e a Glaucone, potrebbe quindi essere pro­ prio lo sviluppo delle serie numeriche relative all'antanairesis di due linee incommensurabili, quali sono la diagonale e il lato 6' I passi sono discussi da D.H. FOWLER, op. cit. (n. 32), nei numerosi luoghi indicati a p. 393; l. Torn, op. cit. (n. 27), pp. 204-20 offre un'analisi dettagliata dell'inseguimento antanairetico del Parmenide, mentre ricostruisce l'esperimento del Menone, in modo più radicale ma non lontano da quello proposto da Fowler, nel breve saggio citato (n. 56). Entrambi mostrano la di­ mestichezza di molti dialoghi platonici con costellazioni concettuali legate al calcolo antanairetico (limite-illimitato, eccesso-difetto, etc.), trovando esempi soprattutto nel Filebo.

COMMENTO AI UBRI VI E VII,

[L)

509

del quadrato. «L'incomrnensurabilità costringeva», in effetti, «ad approssimazioni senza fine, dove l'uno, mattone fonda­ mentale della misura, poteva essere frantumato in infiniti pez­ zi», ma la matematica dell'antanairesis costituisce il «>.69 Ippocrate parte, infatti, da un teo­ rema relativo alle aree dei cerchi - «segmenti di cerchio stanno tra loro nello stesso rapporto che intercorre tra i quadrati co­ struiti sulle loro basi>> -, che assume o forse riesce a dimostrare

V e del

IV secolo a.C.: gli stessi libri aritmetici degli Elementi di Euclide­

come si accennava prima (S 1.5)- usano segmenti per dimostrare teoremi sui numeri; ma soprattutto si è visto che esiste un'aritmetica Mpitagorica" dei «numeri figurati» e che la struttura costante delle dimostrazioni antanaireti­ che dell'incommensurabilità consiste nella costruzione di sequenze illimitate

di forme geometriche simili, che sono espresse in cifre da serie di logoi, ma trovano anche antichissime raffigurazioni in figure concentriche simili a quel­ la riprodotta, sopra, fig. 3, oggi conosciute come «frattali». Specialmente sul­ l'aspetto visivo della matematica greca- come ricorda anche R. NETZ, (n. 36) p. 757

-

op. dt.,

hanno fatto leva le critiche contro la tesi di una sua genesi e

formazione puramente intellettuale, sostenuta con vigore da A. SZAB6,

An/iinge der griechischen Mathematik, Miinchen 1969, di cui si può vedere anche il più recente: Ent/altung der griechischen Mathematik, Manheim 1994. 09 R. NETZ, op. dt. (n. 36), p. 760.

512

PLATONE, LA

REPUBBUCA

grazie a un'ulteriore dimostrazione, quella del rappono pro­ porzionale delle aree di due cerchi con i quadrati costruiti sui loro diametri; ma a questo punto, per procedere alla quadratu­ ra di una lunula avente come arco esterno una semicirconfe­ renza, costruisce una figura, «circoscrivendo un semicerchio a un triangolo rettangolo isoscele - si legge in Simplicio - c co­ struendo un segmento circolare sulla base di questo, simile a quelli ritagliati dagli altri due lati»: dimostra, cosl, che la lunula è uguale al triangolo inscritto, che a sua volta è uguale al qua­ drato costruito sulla metà della sua base.70 lppocrate insomma «quadra, applica e aggiunge» direb­ be con disappunto il Socrate della Repubblial (VII .527a8-9, su cui S 11.6) -, anche se non lo fa, ceno, praxeos heneka (VII .527a7); al contrario, oltre ad affrontare un problema che sti­ mola l'intelligenza, perché è uno «Sforzo per ottenere l'impos­ sibile»,71 è chiaro che il suo lavoro presuppone un apparato di definizioni e di catene argomentative, tale da non rendere in linea di diritto inaccettabile la notizia che abbia scritto i primi Elementi di geometria della nostra civiltà, sebbene, di fatto, l'e­ -

poca in cui è vissuto sia troppo antica per un'opera del genere. I «!Jroto-Elementi» accademici e Eudosso.

È nella prima me­

tà del IV secolo e all'interno dell'Accademia platonica- come si è accennato prima -, che si colloca con ogni probabilità la redazione di proto-Elementi, che confluiranno in quelli di Eu­ clide. Le «ipotesi» geometriche citate come esempio durante il «paragone della linea» sono tutte reperibili fra le definizioni e i postulati del libro I degli Elementi di Euclide. «Le figure» (VI .510c4: schemata), fra le quali ricade anche il «quadrato,. (citato con la «diagonale» in .510d6-7), corrispondono a Elementi, I, deff. 14, 1.5, 18, 19, 20, 21, 22, e postulati l, 2, 3, cioè alle defi­ nizioni euclidee di «figura», di «cerchio», di «centro,. e di «diametro» del cerchio, di «semicerchio», di «figure rettili-

pp.

7° Cfr. ivi, p. 761, e ulteriori spiegazioni in C.B. BoYER, op. 77-81, e T. HEArn, op. cii. (n. 8), l, pp. 183-200. 71 C.B. BoYER, op. cii. (n. 25), p. 77.

cii.

(n. 25),

COMMENTO Al LIBRI VI E VII,

[L]

513

nee», di «triangolo», equilatero, isoscele e scaleno, e di «qua­ drilatero» (entro la quale è definito anche il quadrato), e ai postulati relativi alla linea retta e alla circonferenza. «l tre tipi di angoli» (VI .510c.5) coincidono con Elementi I deff. 10, 11, 12, dove sono definiti l'angolo retto, l'angolo ottuso, e l'angolo acuto, e con il postulato 4 dello stesso libro, che stabilisce l'u­ guaglianza di ogni angolo retto con un altro angolo retto. A partire da queste «ipotesi»- alle quali i matematici concedeva­ no l'assenso universale della loro comunità scientifica-, si arti­ colavano dimostrazioni di andamento deduttivo, ispirate a cri­ teri rigorosi di esattezza e chiarezza, dove, tuttavia, non scom­ pare ogni componente visiva. Vale la pena di considerare, a questo proposito, uno dei contributi di importanza epocale che si attribuisce alla mate­ matica accademica: la teoria delle proporzioni attribuita a Eudosso, contenuta in Euclide, Elementi V.72 D libro VII della Repubblica pone al centro della propria attenzione un teoria dei logoi più antica, benché altri luoghi dei dialoghi di Platone ne mostrino qualche traccia. In ogni caso, che sia di Eudosso, com'è presumibile, o che non lo sia, il fatto che Aristotele ne parli colloca la sua elaborazione non più tardi della metà del IV secolo. Si tratta di una teoria generale, complicata e rigoro­ sa: si estende in linea di principio a ogni tipo possibile di gran­ dezza - indicata con il nuovo termine pelike -, fondandosi su di una definizione non semplice di logos (Elem. V deff. 3, 4, .5) che, priva di ogni riferimento a numeri interi, viene «data sol­ tanto in termini di grandezze minori o maggiori di altre», e si basa su «relazioni più generali e astratte: "uguaglianza", "ec­ cesso", "difetto"».73 Per questa ragione, si è creduto che fosse nata per fare fronte al fenomeno dell'incommensurabilità, per­ ché la sua definizione di logos copre senza difficoltà, insieme, grandezze commensurabili e incommensurabili, anche se il suo 72

Cfr. l'introduzione e il commento di T.

112·90. n R NETZ,

op.

àt.

(n. 36), p. 766.

HEATH,

op.

al.

(n. 38), II,

pp.

514

PLATONE, LA REPUBBLICA

nocciolo teorico si riconosce, piuttosto, nello sforzo, molto fi­ losofico, di «cogliere l'essenza>> della proporzionalità, unito al­ l'impegno, molto matematico, di risolvere problemi su questa nuova base teorica (dr. ad esempio Elem. V 7). «L'interesse fi­ losofico per la natura della "proporzione" si traduce in risulta­ ti logici e matematici, e ciò che rende "rigoroso" il libro V è il fatto che tutto sia ricondotto a una definizione esplicita>>; d'al­ tro canto, nell'articolazione effettiva dei teoremi, è chiaro che si concentra su grandezze geometriche, e in particolare su seg­ menti di retta: così, «nella sua ricerca della teoria più generale Eudosso fml con il costruire una teoria "geometrica"», piegan­ dosi egli stesso a quel «ruolo centrale della geometria» che, in quanto «conseguenza del ruolo delle dimostrazioni fatte con l'aiuto delle figure», determina il carattere fortemente visivo di tutta la matematica greca.74

Stereometria e pessimismo. Una novità matematica del IV secolo, presa in esplicito esame da Socrate e Glaucone all'in­ temo del curriculum di Repubblica VII, è per definirla con un termine che ricorre non prima dell'Epinomide (990d8)-la ste­ -

reometria, lo studio teorico delle figure solide. Entrambi sem­ brano coscienti della novità della disciplina, tanto da dimenti­ care, in un primo tempo, di citarla come terzo mathema, ante­ riore all'astronomia, che studia i solidi in movimento (Resp. VII 527dl-528b5; 528d2-e5). L'errore-dice Socrate- è stato prendere «dopo la superficie [ .. ] il solido già in rivoluzione, prima di considerarlo in sé e per sé: è invece corretto conside­ .

rare, dopo la seconda, la terza dimensione. Si tratta della di­ mensione propria del cubo, che comporta profondità>> (528a9b3; cfr. 528d8). E però, Glaucone si giustifica, appellandosi al fatto che «questo campo sembra non sia stato ancora scoper­ to» (528b4-5). Altra imprecisione- spiega Socrate: non è che non sia stato ancora scoperto, non è coltivato con sufficiente vigore e non è coltivato nel modo giusto; ne risulta che «la 74 Cfr. ivi, pp. 766 sg., 762.

COMMENTO AI UBRI VI E VII,

[L]

515

situazione delle ricerche in questo campo è ridicola» (528d9). Socrate ne dipinge un quadro che ha tinte pessimistiche: la 4>: il suo elemento razionale, illogistikon (dr. X 602e), «che viene per­ duto e accecato dalle altre occupazioni, ed è tuttavia più meri­ tevole di essere salvato che non mille occhi, perché con esso soltanto è dato vedere la verità» (527d8, dr. e3). n «direttore», dunque, coltiva e promuove studi di geometria solida a puri scopi teorici, avendo di mira la razionalità che abita nell'anima umana e la ricerca della verità. n «direttore» dovrebbe inoltre cooperare con la città, cioè agire a livello politico, per dare im­ pulso a questi studi (528cl), ed è una persona rara (528b8-9). I suoi requisiti hanno indotto gli storici della matematica a dar­ gli due nomi: Eudosso o, con maggiore facilità, Archita- en­ trambi geometri e astronomi.76 unJ Metaphyrik bei Arirtoteler, Akten des X. Symposium Aristotelicum,

Sigriswil, 6.-12. September 1984, Bern-Stuttgart 1988, pp. 213-40, special­ mente 218, suggerisce che in 528a-e verrebbe rispettata da Platone l'anticipa­ zione cronologica dd dialogo, facendo allusione allo rtatur della geometria solida anteriore al «lavoro sistematico» (ibidem) di Teeteto, che invece al momento della redazione ddle Repubblica sarebbe stata cosa fana. Un pro­ blema mi sembra soprattutto l'allusione, nd medesimo contesto, all'«degan­ za,.

(528d1) degli studi di stereometria, che probabilmente- come cercherò

di spiegare fra poco - allude alla teoria dei solidi regolari elaborata proprio da Teeteto: nd giro di poche righe, cioè, Platone rispetterebbe e non rispettereb­ be la finzione storica nei confronti di Teeteto. In generale, il fatto che la reda­ zione ddla Repubblica richiese almeno una decina d'anni (cfr. Introduzione al libro I, pp. 18-22), considerato insieme alla condizione di «evoluzione speri­ mentale» in cui le matematiche versavano all'epoca di Platone, rende molto difficile «datare» la presenza o l'assenza in parti del dialogo di Teeteto, o anche di Eudosso; anche per queste ragioni, qui si persegue piuttosto il tenta­ tivo di agganciare le pagine di Platone a una stagione dello sviluppo delle matematiche, che fra le altre cose vide fiorire, non certo dal nulla e in una fase non primitiva, anche i contributi di Teeteto e di Eudosso. 76

Cfr. T. HEArn, op. àt. (n. 8), I, pp. 12-13; i contributi di entrambi, an­

che in ambito astronomico, sono illustrati in forma sintetica, ma documentata,

COMMENTO AI UBRI VI E VII,

[L)

517

Ad Archita in particolare si attribuisce uno dei più brillanti contributi nell'ambito della stereometria della prima metà dd IV secolo, che oltretutto riguarda l'unica figura solida espres­ samente citata da Socrate, il cubo (528b3), e un rapporto che gli esperti di geometria - sempre a detta di Socrate - si preoc­ cupano di stabilire con verità: il doppio (530al). n problema generale che affronta è infatti, almeno intenzionalmente, la duplicazione dd cubo, che accanto alla quadratura dd cerchio e alla trisezione dell'angolo costituiva uno dei grandi problemi­ sfida della matematica antica.77 La soluzione attribuita da una tradizione non indiscutibile ad Archita si presenta intricata, quindi difficile da riassumere: sembra che coinvolga quattro rette, due rette date e due medie proporzionali che si ricerca­ no, e che preveda «complicati movimenti nello spazio» di figu­ re piane e solide, ad esempio rette, circonferenze, corde, tan­ genti, parallele, triangoli, cilindri, e conF8 Proprio la sua com­ plessità, volta probabilmente a suscitare stupore, indica che ivi, pp. 213-16,246-.51, 322-29; com'è noto, i maggiori progressi in campo

astronomico di Eudosso riguardano il sistema delle sfere celesti,su cui dr. ivi, pp. 329-3.5. Esiste una tradizione secondo la quale Platone candiderebbe se stesso alla carica di direttore degli studi di stereometria- tradizione rivalutata di recente da T.A. SZLEZAK, op.cit. (n. 49), p. 979,che rimanda a K. GAISER,

op.cit.(n. 2),p.1.52- dunque a Filodemo- e al Fr. 133 Wehrli di Eudemo di

Rodi. Ma i dubbi sorgono soprattutto di fronte alla discussa attendibilità della tradizione che attribuisce a Platone contributi originali in ambito stereometri­ co (dr. nota successiva), di contro alla verosimiglianza che specialmente Ac­ chita abbia prospettato le prime soluzioni a problemi di geometria solida,da cui se ne sarebbero sviluppate diverse altre,all'interno stesso dell'Accademia. 77

Come si accennava alla nota precedente,una tradizione estremamente

discutibile attribuisce a Platone un tentativo di duplicazione del cubo: secon­

do T. HEArn, op.cit.(n. 8), I, pp. 24.5-46,2.5.5,bisogna considerare il tentativo

«platonico» una soluzione prospettata all'interno dell'Accademia,in risposta a quelle proposte da Acchita e da Eudosso. Una ricca monografia dedicata ai tre grandi problemi della matematica greca è quella di W.R. KNORR, The Ancient Tradition o/Geometrie Problems, Boston-Basel1986, di cui si posso­

no consultare specialmente le pp. 49-66 sulle soluzioni accademiche della duplicazione del cubo. 78

Cfr. R NETZ, op.cit. (n. 36), p. 765.

518

PLATONE, LA REPUBBUCA

molto verosimilmente fu la prima soluzione al problema, dalla quale si possono trarre due considerazioni sugli esordi della stereometria: è una disciplina che per qualche aspetto risulta ancora fisica, specie nella misura in cui sembra prevedere mo­ vimenti di figure per procedere a dimostrazioni, eppure mo­ stra un apparato terminologico e concettuale molto ricco e preciso, «che permetteva di descrivere senza ambiguità le con­ figurazioni più complicate».79

Stereometri'a e otti'mi'smo: la «grazia» di Teeteto. D lavoro di un Archita, o di un Eudosso, può essere stato il motore di una situazione più positiva, quale è quella a cui Socrate si richiama con una vena di ottimismo, quando osserva che «anche adesso, del resto» gli studi di geometria solida, «benché disprezzati e ostacolati dai più, e coltivati da ricercatori che non ne compren­ dono a fondo l'utilità, si sviluppano ugualmente superando di forza tutte queste difficoltà in virtù della loro eleganza, e non ci sarebbe da sorprendersi per una loro fioritura» (528c4-8). Glaucone, nonostante su tutto il resto del discorso intorno alla stereometria non riesca a seguire molto bene Socrate, a questo riguardo approva al volo le sue parole: «E davvero - afferma quanto a eleganza ne hanno in misura straordinaria» (528dl). Sembra che Accademici ricordati come allievi di Platone e di Eudosso abbiano veramente raggiunto risultati molto raffinati in ambito stereometrico, quale è, ad esempio, la teoria delle sezioni coniche attribuita a Menecmo, dove ricorre, fra le altre cose, una soluzione al problema della duplicazione del cubo più lineare di quella di Archita.80 Ma perché - e a che proposito -parlare di «eleganza>> o «grazia» (chan's) di questi studi? In tutte le matematiche c'è una certa bellezza- sosterrà Aristotele rifacendosi a un ordine di idee accademico-, perché mostrano ordine, simmetria, e definizione, che sono «le forme

79 Ibidem. 80 Cfr. T. HEATH, op.cit. (n. 8), l, pp. 251-55; C.B. BoYER, op.cit. (n. 25), pp. 110-14; R NErz, op. al. (n. 36), pp. 770-72.

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più grandi di bellezza».81 Esiste, però, un dialogo di Platone, in cui più che altrove si decantano le bellezze della geometria solida, ogni volta che il discorso si sofferma sui cinque solidi regolari e sui rapporti di proporzionalità che li legano: il Timeo (cfr. specialmente 31b-32c; 53b-56b); e il riferimento obbligato è uno: il libro XIII degli Elementi di Euclide, che contiene la teoria dei solidi regolari attribuita al giovane amico di Platone, Teeteto. Si ritiene che sia sua anche la teoria degli irrazionali conservata nel libro X degli Elementi- come può suggerire an­ che il passo del Teeteto citato in precedenza. 82 Nei due casi, Teeteto esercita il proprio dominio sulla materia che affronta procedendo ad attente definizioni e classificazioni, che nel mondo delle grandezze incommensurabili si rivelano capaci di porre ordine in un caos, ma non esaustive, mentre nel libro XIII riescono nello scopo di «dare una sistemazione completa e definitiva a un dato campo di ricerche», attraverso «Wl' espo­ sizione chiara e lineare di una teoria completa e molto bellu. 83 A proposito dei solidi aventi poligoni regolari uguali fra loro come facce - che sono solo cinque: il cubo, il tetraedro, l'ottae­ dro, il dodecaedro, l'icosaedro- vengono posti fondamental­ mente due problemi: quello della loro inscrizione in una sfera, e quello dd confronto degli spigoli gli uni con gli altri e con il

81

Cfr. Mel. XIll 3, l 078a31-b6. L'ascendenza accademica, se non platoni­

ca, dell'argomento- che Aristotele sfrutta contro Aristippo- è dimostrata dal nesso fra questo passo e E1 h . Eud. I 8,121&15-32,su cui dr. J. BRUNSCHWIG, Ethique à EuJème I 8, 1218 a 15-32 elle «Peri tagalhou», in P. MORAUX-D.

HARLFINGER (Hrsg.), Untersuchungen zur Eudemischen Elhik, Akten des V. Symposium Aristotelicum, Berlin 1971,pp. 197-222. 82

Cfr. T. HEArn, op. cii. (n. 8),I, pp. pp. 209-12,294-97,sulla teoria dei

solidi regolari in Platone, insieme a Io., op. cii. (n. 38), III, pp. 10-13, per un'introduzione a EuCL. Elem. X, e, ivi, pp. 438-511,per un commento anali­ tico a EuCL. Elem. XIII. ll carattere di bellezza dei rapporti di proporzione citati nel Timeo è stato sottolineato anche di recente da J.L. P8uu.ffi, Pl41on el/4 section d'or, in M. FATIAL (éd.), La P hilosophie de Pl41on, Paris 2001, pp.

185-204. 83

Cfr. R NETZ, op. cii. (n. 36), pp. 767 sgg.

PLATONE, LA REPUBBUCA

520

raggio della sfera. Quest'ultimo problema ripropone la neces­ sità di stabilire rapporti fra linee, che nd caso del dodecaedro e dell'icosaedro risultano incommensurabili, ma, rientrando in una delle classi di incommensurabili distinte nel libro X, han­ no diritto a un posto preciso od cosmo geometrico. Il.

Una riforma di potere Aritmetica e logistike, geometria e stereometria, subiscono

-si diceva in apertura -una riforma durante la delineazione del curriculum di studi matematici di Repubblica VII. Aspetti di questa riforma sono emersi nella descrizione delle discipline che coinvolge, ma dalle parole stesse di Socrate e di Glaucone il nocciolo intorno al quale maturano risulta soprattutto uno: bisogna dare loro nuovo potere (dynamis). Solo all'interno di un simile progetto, e come conseguenza delle fmalità che si propone, si crea la necessità di insistere su quei tratti dd sape· re matematico che ancora oggi vengono chiamati «platonisti­ ci», cioè, essenzialmente, sulla sua natura puramente intellet­ tuale e teorica e sulla natura non-empirica ed extra-mentale degli oggetti a cui si rivolge.84 La riforma platonica è anche, ma non soltanto, «platonistica»; forse con un certo arcaismo -l'ar­ caismo di una cultura non ancora divisa in settori privi di co· municazione - si immerge profondamente in quella che ci è ,

parsa la matematica dell'epoca: ne segue le correnti contra­ stanti, di basso sapere tecnico-pratico e di alto sapere scientifi­ co-teorico, approfitta del suo stato fluido di «Scienza in labora­ torio», ne asseconda la tendenza a gestire contrarietà anche pa­ radossali, nello sforzo senza fme di armonizzarle con ordine ad esempio il commensurabile e l'incommensurabile, o in am­ bito aritmetico e «logistico» l'uno e l'infinitamente molteplice, e specie in quello geometrico il visibile e l'intellettuale. Tutto questo energico e mobile patrimonio culturale - che significa "4 Cfr. P. BERNAYS, On P/4tonism in Mathmratia, in P. BENACERRAF-H. PuTNAM (eds.), Philosophy o/Mathematia, Oxford 1964, pp. 274-86.

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anche abitudini didattiche, modi di procedere e di ragionare, usi linguistici, teorie sufficientemente consolidate oppure in corso di daborazione- viene trasformato in una dynamis, ca­ pace di agire a livello psichico, scientifico, filosofico e politico, in" maniera «conveniente», «Utile» e «opportuna».8' i. Un potere riservato agli aristoi

In mano di chi sarà il nuovo potere delle matematiche? Non certo di tutti. Non se ne prevedono né una gestione, né una fruizione allargata e «democratica». Socrate ribadisce con insistenza che l'insegnamento delle matematiche «riformate»­ che sono studi scientifici superiori, non abilità tecniche- viene iinposto per legge dalla città, limitandolo ai futuri «difensori». «Conviene- dice a proposito dell'aritmetica e della logistike­ prescrivere per legge questa disciplina, e convincere coloro che devono assumere le massime cariche nella città a orientarsi verso la scienza dd calcolo e a impadronirsene» (VII 525b11cl), cosl come «è quanto mai opportuno disporre che i cittadi­ ni della tua bella città non trascurino in nessun modo la geo­ metria» (527cl-2); e addirittura, riguardo alla geometria soli­ da, per le condizioni particolari in cui versa, afferma che «esi­ sterà se la città vorrà occuparsene» (528e4-5). È chiaro, in ogni

8'

Scrive P. FRIEDLANDER, Plalon: Eidos-Poideùz-Dialogos, Bcrlin 1954,

trad. it. Firenze 1979, p. 123: «per i greci numero c figura hanno sempre con­ servato qualcosa che li inalzava sopra le astrazioni, per così dire scolorite, dclla scienza matematica, qualcosa di bcllo c di magico. Per P latone era più ancora decisivo il fano che egli bcnsl coltivava c faceva coltivare con grande energia le scienze matematiche, ma che esse avevano sempre per lui

un

signi­

ficato che andava al di là dd loro carattere di scienza singola c guidava su fino all'essere sommo[. ..). Me è proprio questa 14 svolta pltztonica: le scienze par­ ticolari traggono su l'anima alla verità, sono dirette alla scienza dcll'etcmo essere, purificano l'organo dcll'anima, servono alla ricerca dd bcllo c dd buo­ no. Cosl non possono certamente svolgersi autonome nd significato attuale [. ..).Tuttavia, l'opinione contraria che si trani soltanto di astruse speculazio­ ni è non meno contraddetta dai fani».

522

PLATONE, LA REPUBBUCA

caso, che «solo le migliori nature» (526c5-6) devono essere educate nelle nuove matematiche - e non soltanto perché, co­ me si è sottolineato più volte, si tratta di studi difficili. «Le mi­ gliori nature» sono i pochi aristoi, destinati a diventare «difen­ sori»: alla loro formazione è dedicato l'intero curriculum mate­ matico (521cl-2). E che non siano una «folla», anzi che si op­ pongano ai «più», lo si capisce restando all'interno stesso dd curriculum (527d5)- sebbene risulti molto chiaro anche altro­ ve, specialmente nd passo dd Filebo (56d-e) richiamato in pre­ cedenza (dr. S 1.4). È come se qui, silenziosamente, si riscrivesse in chiave oli­ garchico-aristocratica almeno pane dd mito di Prometeo -lo stesso mito che Protagora, nell'omonimo dialogo platonico, ha riscritto in chiave democratica, come si ricordava a proposito della discussione sulle technai del libro 1.86 Prometeo, uno degli scopritori mitici dd numero, non dargisce più in maniera equamente distribuita e complessiva i suoi saperi - tutti saperi che hanno un ceno potere -ai futuri membri di una città: è co­ stretto a distinguere fra sapere e sapere, e a riservare solo a po­ chi almeno uno di essi -la matematica più vera, insieme al po­ tere che implica . 2. Un potere «aurorale»

Fin dai passi iniziali della loro indagine, molto prima di identificare il mathema che ricercano con i diversi mathemata di tipo matematico, Socrate e Glaucone concordano nell'intenzio­ ne di cercare un mathema che presenti come requisito fonda­ mentale una certa dynamis: un «Sapere» che anzitutto «ppSSie­ da» un ceno «potere» (52lcl0-dl). E in pane, Socrate ha già descritto tale potere, servendosi di due metafore della luce.87 ���> Cfr. vol. I, [F), p. 196. 87 Sul significato delle metafore della luce in Platone, e in particolare od­ la RepubbliCIJ,Iette specialmente dal punto di vista della teoria della cono­ scenza e delle sue implicazioni ontologiche, dr. il suggestivo libro di L.M.

COMMENTO AI UBRI VI E VII,

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523

È la forza di ricondurre (anagein) gli uomini alla luce, di riportarli (anerchomat) dall'Ade, il regno delle ombre, agli dèi (521c2-3)- divinità che sono luce, poiché coincidono con gli astri, ricordati all'interno del «paragone del sole» (VI 508a4). È, allo stesso tempo, la forza di far volgere (periagoge) l'anima umana «da un giorno notturno a uno vero» (VII 521c6-7), os­ sia dalla luce degli astri nella notte al pieno giorno. Al mathema ricercato viene cosi richiesto il potere di ope­ rare un passaggio da una data situazione al suo contrario. La situazione di partenza- l'Ade, la luce notturna - può essere letta in parallelo a quella nella quale la visione è «offuscata», e perciò si colgono solo «ombre», di cui si parla sia nell'interpre­ tazione del «paragone del sole» (VI 508c4-10), sia in apertura del «paragone della linea» (VI 510al), sia nel corso del parago­ ne della caverna (VII 515b; 516b). Coincide, in generale, con la situazione nella quale si colgono cose sensibili con conoscen­ za sensibile. E la situazione di arrivo è, all'opposto, la contem­ plazione della luce degli astri e del sole: in generale, la cono­ scenza intellettuale di cose intelligibili. n passaggio da una si­ tuazione all'altra viene descritto come «ascesa (epanodos) verso ciò che è» (521c7), o come passaggio «da ciò che diviene a ciò che è» (521d2-3), e dunque come «Vera filosofia» (521c8). Ma in che modo avviene un simile passaggio? Non come un gioco da bambini: «non è semplice come il voltare (peri­ strophe) una conchiglia» (521c6-7). Non si tratta, cioè, di gira­ re una conchiglia, o un coccio, così come capita durante il gio­ co degli ostraka, che prevede il lancio di cocci o conchiglie da una parte neri- e questa parte viene chiamata «notte» (nux) , e dall'altra parte- chiamata «giorno» (hemera) - bianchi.88 Vol­ gere questi cocci significa passare d'un tratto dalla piena notte -

NAPOLITANO-VALDITARA, Lo sgut�rdo nel buio,

Metafore visive

e /orme

greco­

antiche de//4 rav'ona/ità, Bari 1994, dove tuttavia non sono prese in esplicita considerazione le due piccole metafore qui in 88

Cfr.

ostrakon.

esame.

LYDDEL-ScOTI-}ONES, Greek-Eng/ish uxicon, Oxford

196811, s.v.

PLATONE,

524

LA REPUBBUCA

al pieno giorno, e per di per di più passarci a caso, perché i cocci si girano con

un

lancio. n passaggio, che il mathem4 ri­

cercato deve avere la forza di operare, non può perciò esse re né immediato, né casuale. Appare, piuttosto, graduale e ricor­ sivo, simile alla periagoge dal giorno notturno al pieno giorno, che si verifica giorno dopo giorno all'aurora: quando tramon­ tano le costellazioni, e sorge il sole. Anche i verbi anagein e anerchom4i, e le parole epanodos e periagoge, di frequente tra­ dotte in questo contesto «guidare su» o «Salire», «ascesa» e «conversione», possono in effetti alludere al sorgere periodico dd giorno.89 Un potere aurorale- ecco che cosa chiedono So­ crate e Glaucone, prima di ogni altra cosa, al m4thema che ri­ cercano: il potere di tornare regolarmente ad avvicinare, cer­ cando di assimilarle e bilanciarle, le opposte condizioni dd­ l'ombra e della luce; fuor di metafora: il potere, esercitato sul­ l'anima umana, di approssimare le realtà contrarie del sensibile e dell'intelligibile, dd divenire e dell'essere, nello sforzo rego­ lare e costante di equilibrarle il più possibile. Soprattutto que­ sto, a quanto pare, significa la «conversione» e l'«ascesa» dd­ l'anima alla «Vera filosofia». E malgrado il m4thema capace di operarla resti ancora senza nome, la sua affinità con l'alba può suscitare qualche aspettativa: fra gli dèi legati alle prime luci dd mattino, il mito annovera anche Prometeo, che- come dice Eschilo (Pr. 456-458)- fu il primo a mostrare agli uomini «CO· me si discerne il sorgere e il calare degli astri, e infine per loro» scoprì «il numero». 3. Un potere «trainante» (verso l'alto)

Un'altra immagine, piuttosto ricorrente, di cui Socrate e Glaucone si servono per descrivere la dynamis dd mathema ricercato, e in seguito i poteri dell'aritmetica, della /ogistike e della geometria, è quella di

un

«traino» (holkon). Si propongo­

no di cercare «il sapere capace di trainare l'anima da ciò che R'l Cfr. ivi,

s. v.

periago, anago, anerchomai, epanodos.

COMMENTO AI UBRI VI E VII,

[L]

525

diviene verso ciò che è» (521d3: holkon apo tou gignomenou epi to on) e, discutendo se la mathesis perito hen possa essere un sapere dd genere, si preoccupano di definire in quale modo si debba cogliere l'uno, perché si riveli «atto a trainarci verso l'essenza» (524el: holkon epi ten ousian). In maniera analoga, la geometria «dev'essere atta a trainare l'anima verso la verità» (527b9: holkon pros aletheian); e al medesimo gruppo di imma­ gini appartiene la «capacità di tendere una corda», che ricorre già in 523a2-3, dove, in seguito ad aver concordato con Glau­ cone che «numero e calcolo» sono utili all'arte della guerra, Socrate avanza il sospetto che «nessuno sappia valersene cor­ rettamente, per quanto siano assolutamente in grado di trai­ narci verso l'essenza» (523a2-3: helktikos pros ousian).90 n traino- risulta chiaro da questi stessi passi- è «dell'ani­ ma», cioè si trova al suo interno e agisce su di essa. Esercita una forza che «guida» l'anima verso una meta (agein e termini derivati: 522bl; 523al, 6; 525al; 525bl), mentre nel campo della geometria si esprime come una forza che la fa «tendere» a un certo scopo (teinein: 526el-2); ma soprattutto, sottopone l'a­ nima a una «conversione» (metastrophe: 525al, 525c5; 526e3), costringendola a voltarsi in una certa direzione (anankazein e termini derivati: 525d6; 526bl-2; 526e2, 6).91 «Dal mondo dd divenire» l'anima si volge ed è spinta sotto sforzo verso il mondo - contrapposto- dell'«essere» e dell'«ou90

Cfr. ivi, le voci holkos- che fra i suoi significati ha anche quello della

forza di attrazione magnetica della calamita- e helktikos. n contesto in cui ri­ corre quest'ultimo termine- dove, come vedremo nd prossimo paragrafo, si ricorda la capacità da parte di Palamede di avvicinare cido e terra attraverso

il dispiegamento di taxeis- evoca forse «quella sistematica riproduzione degli avvenimenti cdesti in cui consisteva il compito principale degli antichi harpe­

donaptai, "coloro che tendono le funi". Gli harpedonaptai erano infatti gli ar­ chitetti che costruivano, soprattutto in Egitto, per mezzo di corde tese e palet­ ti, e che avevano un ruolo preminente nelle cerimonie di fondazione dei tem­ pli» (P. ZElliNI, op. cit. (n. 51), pp. 126-27).

91 n potere «necessitante» delle matematiche viene accentuato nelle Leg­ gi, VII 818h, dove si parla di una loro «necessità divina», sulla quale cfr. G.R. MORROW, op. cit. (n. 8), pp. 344-45.

526

PLATONE, LA REPUBBUCA

sia», della «verità» e della noesis o «puro pensiero» (521d4; 523a3;523d8;524b4;525d5;524e11;525a1;525b5;526bl-2; 526e4;526e6;527b5-6): verso, addirittura, (527b7-8), e non di «ciò che volta a volta nasce e perisce» (527b5-6), si dimostra «atta a trainare l'anima verso la verità [. . . ], per rivolgere verso l'alto lo sguar­ do che ora a torto teniamo in basso» (527b10-ll). Si è visto, in effetti, che ç liÈ ... clXp1'1G'tOV; 530e: fliJ.t:iç l)è �tapà �tavta tauta q�uM�oiJ.t:V tò iliJ.Étt:pov ... Mi! Jtot' aùtiòv n àuUç DUXt:lpiòCJlV iJIJ.lV IJ.UVOàVt:\V ouç 9pÉ1jiOIJ.EV, ICUt OÙIC É�tllCOV ÉICEl> (529c-d). Dal confronto si può ricavare che come il vero numero governa il vero movimento dei veri astri, cosl i numeri aUJ.lcpc!)VOt gover­ nano i rapporti fra i veri suoni, quelli che, seguendo la medesi­ ma similitudine con i veri astri, si possono cogliere con il A.Oyoç e con la �havota, non con l'udito. In prima approssimazione, dunque, considerata la simmetria concettuale tra i due passi, si potrà dire che l'aggettivo cruJ.Lcpcovoc;, pur generalmente appli­ cato a sostantivi appartenenti alla sfera semantica del suono, corrisponde qui nel significato ad àÀTI9tv6c;, che ricorre, sem­ pre riferito al numero, a 529d. Ma in questo contesto viene resa evidente la duplice esigenza di "sollevarsi ai problemi", e di far uscire la materia musicale dalla dimensione empirico­ descrittiva: l'istanza fondamentale sottesa alla suggestiva me­ tafora platonica è che il concetto di consonanza transiti dalla sfera dei suoni e delle percezioni, alla quale è legato per defmi­ zione, a quella dei numeri, che di quei suoni sono la più. com­ piuta rappresentazione da un punto di vista teorico. A detta di 14 Sull'esegesi dd passo, cfr. A. BARKER, IVJl.,aJVOI cip18#lol- a R�public 5Jlc1-4, .Classica! Philology., LXXIII (1978) pp. 3.37-42.

note on

572

PLATONE, LA REPUBBLICA

Socrate, i Pitagorici dei suoi tempi non cercavano (ancora) que­ sti numeri crUj.uprovot, fermandosi all'analisi e alla misurazione acustico-numerica dei fenomeni sensibili e ignorando la possi­ bilità di costruire modelli matematici deduttivi, sulla base dei quali fosse possibile esplorare il mondo dei «Veri» suoni. 1' I commentatori presentano in genere l'intervento di Glau­ cone come un semplice fraintendimento del discorso di So­ crate sui Pitagorici.16 Fraintendimento che si muta certo per noi nella preziosa occasione di aggiungere una testimonianza autorevole su un orientamento teorico-musicale dai contorni poco chiaramente delineati. Fraintendimento del quale si po­ trebbe anche rintracciare il motivo nell'attenzione riservata da Socrate alla misurazione di suoni e consonanze, cosl come ve­ niva praticata dai Pitagorici: la misurazione degli intervalli mu­ sicali - pur se su basi ben differenti, come si vedrà meglio in seguito è infatti anche lo scopo dei teorici evocati da Glauco­ ne. Eppure, al momento della scelta delle harmoniai da inseri­ -

re, in una prospettiva di pratica musicale, nel programma edu­ cativo dei > (oi � qxxcnv " , ' , ' ' ' ' , ';' ett Ka'taKouetv ev JJ.EO'cp ttva TtXTtV Kal O'J.llKpo'ta'tov ewat 'tOU'tO �UXO''t'TlJJ.a, Q> JJ.e'tPTt'tÉov), nella quale l'espressione Èv J,J.Éocp fa pensare che si fosse in grado di percepire, e che dun­ que fosse possibile produrre, un suono dall'intonazione inter­ media fra altri due suoni dati.18 Virtualmente, questo procedimento avrebbe potuto durare all'infinito, essendo virtualmente infiniti gli incrementi di ten­ sione che si possono imprimere a una corda vibrante, unico limite essendo, ovviamente, la limitata capacità delle corde di resistere intatte a tensioni sempre maggiori. Inoltre, bisognerà ammettere che, teoricamente, le tre corde non arriveranno mai a essere intonate sullo stesso suono, perché, come tra ogni pun­ to e ogni altro punto su una retta immaginaria ci sono infiniti punti, così tra ogni suono e ogni altro suono sono postulabili

78 Ritengo che quest'ipotesi risolva anche le perplessità espresse, proprio sull'espressione bi �Éocp, da A. BARKER, op. cit. (n. 4), p. 56, n. 3.

COMMENTO AI LIBRI VI E VII,

599

[N]

infiniti suoni.79 Ma, a parte le limitate possibilità, anche su uno strumento musicale moderno, di regolare con precisione mi­ crometrica la tensione delle corde, esiste un altro limite pratico alla verificabilità di questo teorema, ed è rappresentato dalla limitata capacità dell'udito, che varia comunque da individuo a individuo, di apprezzare le diff erenze di intonazione. In altri tennini, più piccola è la differenza di intonazione tra due suoni, meno un orecchio comunemente allenato è in grado di per­ cepirla e apprezzarla. Ecco perché, giunti in prossimità della "soglia di percepibilità" delle differenze tra i suoni, si è portati a considerare uguali per intonazione due suoni che sono invece diversi. Ora, il nostro passo ci riporta proprio una discussione su questo tema: «alcuni sostengono di udire ancora una nota intermedia, e che questo va considerato l'intervallo minimo e dunque adottato come unità di misura, mentre altri ribattono che si tratta di un suono uguale ai precedenti» (53la).80 Una delle metafore più interessanti del successivo inter­ vento di Socrate riguarda le accuse degli apJ.WVllCOl alle corde da loro sottoposte a tortura, e le risposte delle corde a queste accuse. In un testo cosl denso di indicazioni tecniche, ci si può legittimamente domandare quale sia il motivo del contendere: di che cosa, musicalmente parlando, i musicisti accusano le corde, e a che cosa, musicalmente parlando, si riferiscono i ter­ mini il;apvttcnç e àÀ.açoveicx? Trattandosi di un contesto che riguarda esclusivamente l'altezza dei suoni, e non la loro inten­ sità o volume, va detto subito che non convince l'interpretazio­ ne di chi, facendo dipendere il;cxpvitoemç e àAaçoveicxç da Kcxnryopicxç, intende che i teorici accusino le corde di non suo­ nare o di suonare troppo forte: il;apvT'Iotç potrebbe avere a che fare con il rifiuto di suonare, ma àÀ.açoveicx non si può in questo caso intendere con «amplificazione del suono».81 Si 7'1 W. BuRKEKT, op. 10 11

cit. (n.

4), p. 372.

Cfr. A. BARKER, llrl. cit. (n. 30), pp. 10-13, con utili Un panorama

187-88.

delle differenti interpretazioni

dettagli tecnici. da AoAM, pp.

è fornito

600

PLATONE, LA REPUBBLICA

potrà pensare invece che le accuse alle corde riguardino la mancata produzione del suono cercato. Ovviamente, da un punto di vista oggettivo, le accuse sono ingiuste, perché, a ri­ gore, ogni pur minima modificazione della tensione di una cor­ da vibrante produce una variazione dell'altezza dd suono pro­ dotto. Ma, come si è posto in evidenza più sopra, non tutte le variazioni di altezza sono distintamente percepibili dall'orec­ chio. In sostanza, nella vivida immagine platonica, le corde tor­ turate non hanno fatto altro che riprodurre esattamente i suoni corrispondenti alle tensioni alle quali sono state sottoposte dagli ixpJ.lovuc:oi loro torturatori. Questi ultimi, non essendo in grado di apprezzare le differenze di intonazione, rivolgono le loro accuse infondate alle corde che rispondono negando gli addebiti

(èçcipVTI stesso. In effetti le espressioni èné1Ce1.va oùaiaç e èné1Ce1.va tou ovtoç- impiegate per qualificare la trascendenza dell'Uno­ Bene - sembrano venir considerate da Plotino come equiva­ lenti." D'altro canto è bene notare al contempo che il nostro autore non attribuisce ai termini oùaia e ov lo stesso valore fi­ losofico-semantico: per quanto non sempre sia facile distingue­ re il significato che di volta in volta viene attribuito nelle En­ neadi ai due termini in questione (considerato anche il fatto che il termine oùoia acquisisce in Plotino il significato aristote10

Veramente illuminanti sono le pagine dedicate a questa complessa e

articolata questione da T.A. SZLEzAK nel volume Platone e Aristotele nella

dottrina del 'Nous' di Plotino (1979), trad. it. Milano 1997, in particolare pp. 21-57. Cosl scrive l'autore: «ciò che per la critica moderna costituisce la più importante differenza tra la filosofia plotiniana e quella platonica -la dottrina delle tre ipostasi dd mondo intelligibile

-

è per Plotino il caso più tipico

di

una corretta esegesi di Platone» (p. 25). 11 L' espressione ÈKÉJCElVa oùo{aç (Piotino propende per questa forma senza l'articolo ri\ç) in riferimento al Primo Principio viene impiegata ad esempio in Enn. I 7 (ord. cron. 54), l, 19; V l (ord. cron. 10), 8, 8; V 3 (ord. cron. 49), 17, 13; V 4 (ord. cron. 7), 2, 38 e passim; V 6 (ord. cron. 24), 6, 30; VI 7 (ord. cron. 38), 40, 25; VI 8 (ord. cron. 39),19, 13; l'espressione ÈltÉlCElVQ "toU ovtoç (o anche WICElVQ ovtoç) compare in Enn. I 3 (ord. cron. 20), 5, 7·8; II 4 (ord. cron. 12), 16, 25; III 9 (ord. cron. 13), 9, l; V l (ord. cron. 10), 10,2: V 5 (ord. cron. 32),6,11; VI 2 (ord. cron. 43), 17, 22· 23, VI 6 (ord. cron. 34), 5, 37.

63()

PLATONE, LA REPUBBLICA

lico di sostanza), tuttavia è forse possibile delineare brevemen­ te in quale specifica accezione Plotino parla rispettivamente di essenza (oùa\a) o di essere (ov). Per questo è opportuno pren­ dere in considerazione quei passi in cui la differenza fra i due termini in questione è più evidente. Ad esempio:12

l) in Enn. II 6 (ord. cron. 17), l, l sgg., in forma di domanda retorica, si dice che l'ov e l'oùo\a sono diversi fra loro: il primo è isolato rispetto alle altre entità (à1t11PT\J.1Cl>J.1ÉvOV trov aÀ.Ao>v), mentre l'oùo\a è l'ov congiuntamente con le altre entità (J.LE'tà trov èiA.A.rov), cioè con il movimento, la quiete, l'identità e la differenza (x:tvftoeroç, otaoeroç, taùtou, ÉtÉpou). In questo passo Plotino, riferendosi chiaramente ai generi sommi del So­ lista, sembra sostenere che l'oùo\a è una determinazione spe­ cifica dell'ov in senso generale, o meglio è parte dell'ov, cioè ente nella sua specifica determinatezza e particolarità. 2) In Enn. V l (ord. cron. 10), 7, 21-2613 il termine oùo\a indi­ ca chiaramente non l'essere in generale, bensì l'ente intelligibi­ le nella sua specifica determinatezza ontologica. 3) In Enn. V 9 (ord. cron. 5), 10, 14-15 si afferma che nel mon­ do intelligibile, ove tutto è oùo\a, ogni singolo ov è in atto, non in potenza (ÈVEpyet�, OÙ 5UVclJ.1E1 tÒ OV ElCaO'tOV), sicché la qualità (tò notov) non risulta separata (où x:exroptotat) da ogni singola oùo\a. Anche in questo passo dunque l' oùo\a viene Ovviamente qui di seguito verranno considerati solo quei passi che si riferiscono chiaramente o almeno rinviano all'oùoia in quanto appartenente 12

alla realtà intelligibile, giacché Plotino distingue fra

oùaial intelligibili

e

oùaial sensibili. " In questo brano Plotino affenna che tutti gli enti che fanno parte della

oùaial in quanto «sono già detenninati e possiedono, oùaial 'tau'ta mplG'tal yàp il&! xaì otov �oJ>CPilv exaa'tov ExEl). Plotino continua affermando che l'ente ('tÒ ov) deve risultare fissato da un limite e da una condizione di stabilità (opcp 1tE1ti\X9al xaì È 'toiç VOTI'tOtç oplo�òç U1tOO'tQJ.LCI)ç), possono essere considerati qualità. Ciò significa in ultima istan­ za che anche l' essenzt� in quanto tale- e non una determinata e particolare essenza ('tÌlv nvà oùa\av)- è comunque in se stessa (proprio nella misura in cui viene portata a compimento dai generi primz) una determinazione dell'essere in generale (che è ovviamente altro dall'essere inteso come uno dei �ma yÉvtl). 5) In Enn. VI 2, 17, 21-22, si afferma che i generi pn'mi sono parte integrante dell'essere in quanto essere e sono in relazione con l'oùo\a, vale a dire che concorrono a determinarla (ÈlCeiva Sè �v tOU ovtoç n ov lCaÌ eic; 'tÌlV oùo\av). 16 6) Particolarmente interessante per comprendere quale sia il significato che Plotino attribuisce al concetto di oùo\a nel­ l'ambito della realtà intelligibile è quanto si sottolinea in Enn. 14

Sulle complesse e difficili questioni trattate in Enn. VI 2 si rinvia alle

importanti considerazioni di T.A. SZI..EZAK, op. al. (n. 10), pp. 136-38. 1'

Tale interpretazione è confermata dal fatto che subito dopo, in VI 2,

15, l, Plotino afferma che i quattro generi

(movimento, quiete, identità, lllte­ rità) portano l'essenza alla sua completezza (-rà -rmapa 'YÉV11 ov-r�. Plotino, come vedremo in segui­ to, deduce la natura metaontologica del Primo Principio soprattutto dal fatto che l'essere è necessariamente e intrinsecamente molteplice, in quanto anche i

generi sommi fanno parte integrante di esso: per questo l'essere è «uno-molti» (ivxoUU).

632

PLATONE, LA REPUBBUCA

VI 7 (ord. cron. 38), 40, 11 sgg.171n questo passo viene afferma­

to che il pensiero (vbr,cnç) che è unito all'oùcrla e la fa sussiste­ re (intooniaaaa) è in se stesso potenza di generare (oovaJ.ltç too "(EVVfxv), il suo atto (èvÉpyEux) è oùaia; tale pensiero dun­ que è anche unito e coesiste nell'oùa(a (auvEan lCaÌ Èv tft ooo{�): ciò significa che vbr,atç e oùaia, pensante e pensato, non differiscono fra loro (éan oùx ttEpov). Questo è l'atto primo (npclm, ÈvÉpyeta), continua Plotino, che fa sussistere l'oùaia (ùnootac; sia inferiore rispetto a quella dd Bene. L'Intelletto possiede in se stesso una sua pro­ pria luce, ma non è j.lovov cp(i)c;: l'Intelletto è luce che risulta- a sua volta illumin ata; invece la luce emanata dal Bene è aJtÀ.ouv cp&ç, ovvero, come si potrebbe intendere, luce allo stato puro; la aJtÀ.ouv cpéì>c; del Bene, afferma esplicitamente Plotino, è ciò che concede all'Intelletto la possibilità, ovvero la facoltà, di essere quello che è.,9 Si potrebbe dire a questo pro-

l7

Sul significato c sulla funzione ddl'aggcttivo ciya&El&ftç nelle EnnNiii

si rinvia a T.A. SZI...EZAx,

op.

aggettivo - conferendogli

cit. (n.

un

relazione alla derivazione dd

10), pp. 202

sgg. Plotino riprende questo

valore estremamente pregnantc c articolato in

Nous dal Principio Primo - da R�sp.

509&3

ovc

il termine in questione è riferito a ExlOtlUlTI c àJ..i)OEta. '1

Sulla metafora ddla luce ndla metafisica plotiniana cfr. l'ancora fonda­

mentale saggio di W. BEIERWALTES, Die M�l4physik Jes licht� in der Philosopbi�

Plotins, «Zeitschrih fiir philosophischc Forschung», XV (1961) pp. 334-62. 19 Cfr. Enn. V 6, 4, 17-20. Per la sua rilcvanza appare opponuno citare integralmente il passo in questione: VoUç &' bJ IXÙtcp oin\ov EzEl OÙ .U. CÌJv

COMMENTO AI LIBRI VI E VII,

(P]

643

posito che il vouç è àya9oet&ftç proprio nella misura in cui è illuminato dal Bene, la cui luce fonda e costituisce, da un punto di vista sia ontico che antologico, quella che è lecito considerare come l' «essenza» stessa della realtà intelligibile: vale a dire l'identità di essere e pensiero. Ma cosa rappresen ta, secondo la prospettiva plotiniana, la luce che viene emanata· dal Bene e che illumina l'Intelletto e le sue specifiche determi­ nazioni, owero, come si è visto, i suoi contenuti, i vottta? Nel settimo trattato dell 'Enneade IV- uno dei trattati in assoluto più antichi delle Enneadi: è infatti il secondo in base all'ordine cronologico- nella parte centrale della sezione 10 Plotino, descrivendo il modo in cui, attraverso la consapevo­ lezza dell'immortalità, è possibile giungere alla contemplazio­ ne della realtà intelligibile, osserva per inciso che il Bene fa ri­ splendere la verità su tutti gli oggetti intelligibili.40 Certamente non è possibile sulla base di questo unico passo inferire che la luce emanata dal Bene è la verità. In effetti Plotino sottolinea più volte che la luce rappresenta il Bene stesso e al contempo l'attività dd Bene. Tuttavia stretta appare- anche in considera­ zione dd ruolo che viene attribuito alla verità nella metafora solare esposta nella Repubblica - la correlazione che Plotino stabilisce tra Bene o attività del Bene come luce e la verità intrinseca alla realtà intelligibile. Si potrebbe infatti dire che il Primo Principio, inteso come Bene e luce, è la fonte originaria e il fondamento più autentico della verità della realtà intelligiJ.U)VOV, all'O Èat\ KE4p(Dt\O�ÉVOV i:v tft aÙ'toU OOOl�, tÒ �è Jtapqov tOl>tlp tÒ cp(ì>ç OÙIC cillo ÒV cp(ì>ç ÈOt\V WtÀoUV Kapqov t'Ì'IV oova�nv ÈJCElVcp tOU dva\ O Èatl. Con ogni probabilità qui l'espressione ��:apqov t'Ì'IV oov�w richiama il �UVQJ.I.\V Jtapqt:\V di Rerp. .509b3 in riferimento al sole che dti 111 possibilità agli oggetti visibili di essere veduti. 4° Cfr. Enn. IV 7, l O, 3 7: o [scii. tÒ àya96v] Jtiìow ÈJt\À.a�JtE\ toiç VOTitoiç cV..i!Ot:\av. L'espressione ÈKWi�t:\ cV..i!Ot:lav richiama probabilmen­ te Rerp. 508d5 (KataÀ.cl�JtE\ àM9t:la) ove si afferma che è la verità insieme con l'essere a illumillllre ciò che l'anima contempla. Platino sembra interpre­ tare il passo platonico in questo senso: la verità illumina i VOTita nella misura in cui essa, intesa come luce, è/atta n'splendere dal Bene.

644

PLATONE, LA REPUBBUCA

bile. A questo proposito estremamente significative si rivelano le prime tre sezioni di Enn. V 5 (ord. cron. 32). Questo trattato si apre con l'analisi del rappono che colle­ ga fra loro verità e vooç-VOTI"tcl. La domanda fondamentale che si pone Plotino è da dove derivano la verità e l'evidenza dei contenuti dell'Intelletto, giacché l'ovtmç voi>ç, quello che è realmente Intelletto, non può essere soggetto in alcun modo al­ l'inganno e all'errore. n problema consiste dunque nello stabi­ lire in quale modo verità, Intelletto e oggetti intelligibili risulti­ no strettamente connessi fra di loro. A questo proposito Pio­ tino osserva che se non c'è verità nel vooç, in questo caso esso non sarà né verità né veramente Intelletto (cU..,.eEi� vo\)ç) né in assoluto Intelletto (oi.mç vooç); ma se è così, la verità, conclude Plotino, non potrà trovarsi neppure altrove.41 I VOTita dunque, intrinsecamente connessi con la verità della realtà intelligibile in quanto unici oggetti di conoscenza autentica e cena, non possono trovarsi al di fuori dell'Intelletto, ma ne fanno a tutti gli effetti pane integrante; da ciò consegue che la verità deve trovarsi nel vouç.42 Questo concetto è ulteriormente ribadito all'inizio della sezione terza di V 5: qui viene affermato che l'Intelletto, caratterizzato da una natura unitaria (j.Lia qn)otç), si identifica con tutti gli enti intelligibili (tà ovta xcivta) e con la verità stessa (il àÀ.it8Eta). Chiaramente in questo passo come nei precedenti àÀ.it8Eta è da intendere proprio come l'identità di pensato e pensante, ovvero come l'identità di essere e pen­ siero: solo in questo modo infatti è possibile comprendere appieno il ragionamento e l'argomentazione plotiniani. D'altro canto proprio nella misura in cui nell'Intelletto, che è al con­ tempo Essere, v'è una molteplicità di oggetti e atti di pensiero, l'identità di essere e pensiero deve risultare a sua volta fondata, 41 Cfr. Enn. V'· l, 6' sgg.: ei o{Jv I.I.Tt CÌÀ:f18t:la Év 'tql vqi, of»'toç I.I.Èv o tOloU'tOç ov deve necessariamente partecipare, il Bene non può in alcun modo venire identificato con il vero essere. 78 Sulla base di questa con­ clusione Proclo giunge a dimostrare che il Bene per Platone è anche ÈJtÉJCEtVa tOU ovtoç: in effetti dato che il nostro com­ mentatore non trova una simile definizione esplicitamente enunciata nel testo platonico, egli mette in luce come possa comunque venir derivata proprio a partire dall'analogia solare. La dimostrazione procliana è articolata nel modo seguente:79 a) l'essere è veramente essere (tale considerazione viene presen­ tata da Prodo come una premessa ipotetica che agli occhi del nostro commentatore appare comunque indiscutibile: Ei yàp tò �Èv ov àÀ.Tt8iì>ç ov Èattv); b) il Bene ha fatto sussistere la verità che è superiore all'essere ( tò SÈ àya8òv tilv àAi18EtQV ÙJtÉ