La Repubblica. Libro V [Vol. 4]
 9788870883848, 8870883841

Table of contents :
Sommario
Introduzione al Libro V
1. Il libro V: digressione o apice
2. L'ambito etico-politico: il paradigma della grande utopia
3. L'ambito etico-politico: il governo filosofico
4. L'ambito onto-epistemologico
La Repubblica - Libro V
Commento al Libro V
[A] Beltista eiper dynata. Lo statuto dell'utopia nella Repubblica
1. Il problema
2. Desiderabilità e possibilità
3. Il modello e l'esecuzione
4. Le condizioni di possibilità: teoria e comando
5. Telos e limite dell'utopia: unità della città e forma di vita comunitana dei phylakes
6. La questione dell'efficacia
7. La politica dell'utopia
[Ba] La prima ondata: «il dramma femminile»
1. Koina ta philon: una massima da chiarire
2. La metafora della cagna
3. Ridicolo e progettualità
4. Identità di natura e differenza biologica
5. Identità di natura e superiorità del genere maschile
6. L'educazione delle due mani
7. Una proposta alternativa: la regina della casa
[Bb] Nudità
1. La nudità: onore e vergogna
2. Le risa di Socrate
[C] La techne antilogike tra erizein e dialegesthai
1. Antilogia ed elenchos
2. Dall'antilogia alla dialettica
3. I bersagli polemici: sofisti e "socratici"
[D] L'utopia dalla commedia al dialogo platonico
1. La gente che ride e l'uomo che ride troppo presto
2. Dialogo e commedia
[E] La seconda ondata: la comunanza di donne e figli
1. Le due ondate
2. Necessità erotica e promiscuità sessuale
3. La regolamentazione dell'eros
4. Le madri
5. La famiglia civica
6. Linguaggio e società
7. La terminologia del possesso
8. Le "lezioni" della promiscuità
9. Nate dalla terra
[F] La «razza pura»
1. Paidopoiia: un problema politico
2. L'eugenetica platonica e il razzismo
[G] La guerra della kallipolis
1. La funzione guerriera: il modello eroico
2. Il codice di guerra greco: regolamentare la violenza
3. Stasis e polemos, Greci e barbari
4. L'atteggiamento filellenico
[H] Il regno filosofico
l. Dynamis politike e filosofia
1. «Un cambiamento minimo»
2. Il governo dei filosofi: uno scandaloso paradosso
3. La riabilitazione della filosofia
4. Il philosophon genos e la città
II. Archontes, filosofi-re, dialettici
1. I difensori/archontes
2. l filosofi-re
3. I dialettici
4. I problemi: corrispondenze, diversità, sequenze e paradossi
5. Un regno o una scuola per i filosofi?
[I] Teoria delle idee e ontologia
1. Collocazione drammatica e sequenza argomentativa
2. Tracce di teoria delle idee (475e9-476d6)
3. Κοινωνία τῶν εἰδῶν
4. L'essere e i suoi sensi
5. L'idea come referenza primaria e il ruolo dell'unità
6. Conclusioni: idee e instanziazioni
[L] Conoscenza e opinione: il filosofo e la città
1. Il parallelismo onto-gnoseologico e la "teoria dei due mondi"
2. Le obiezioni alla versione radicale della "teoria dei due mondi"
3. Forme cognitive e livelli di realtà
4. Termini e proposizioni
5. L'infallibilità del filosofo: la struttura del sapere scientifico
6. Conoscenza e opinione: il filosofo e la città
[Ma] Aristotele discute la Repubblica
1. La lettura aristotelica della Repubblica
2. Le critiche al progetto platonico
2.1 La critica dei fini proposti
2.2 Coerenza e consequenzialità dell'elaborazione platonica
3. Il rapporto con le Leggi
[Mb] La critica aristotelica alla Repubblica nel secondo libro della Politica, il Timeo e le Leggi
1. Il problema
2. Selezione, interpretazione, critica
2.1. La selezione
2.2. L'interpretazione
2.3. La critica
3. La discussione accademica
4. Per ora o per sempre?
[N] La kallipolis di Rousseau
1. Politica ed educazione
2. Il "platonismo" di Rousseau nella tradizione interpretativa
3. Rousseau e gli antichi
4. Coerenza e felicità: la critica dell'apparenza
5. Natura e artificio: un modello di perfezionismo antropologico
6. Il Legislatore
7. Identità e proprietà
8. Identità e appartenenza
9. Identità collettiva e scambio simbolico
[O] Il confronto di Marx con Platone (attraverso Hegel)
1. Marx e le genealogie regressive del comunismo
2. L'incontro con Platone di Marx studente
3. Marx, Hegel e la libertà degli antichi e dei moderni
4. L'influenza dell'interpretazione hegeliana di Platone su Marx
5. Platone nei Manoscritti del 1861-63 e nel Capitale
6. Il sistema castale e la sua idealizzazione conservativa in Platone
7. Marx, Platone e il «comunismo rozzo»: una genealogia negata
8. Una postilla
ERRATA CORRIGE

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La Repubblica è certamente uno dei testi centrali del pensiero di Platone, della sua tradizione antica e moderna e della riflessione etico-politica contemporanea. Scopo della presente edizione è di offrirne un commento integrale, inteso a definire sia il contesto storico-culturale, sia le dimensioni teoriche, sia infine ~li influssi sul pensiero successivo: si trana dunque di un progetto che si giova della vastissima letteratura esegetica prodotta nel corso del nostro secolo, ma che non ha equivalente per ampiezza di obiettivi relativamente a questo singolo dialogo. Per ogni libro o gruppo di libri (IJ.III,VIII-lXl viene offerta una traduzione, che si propone la massima fedeltà al testo senza tuttavia ignorarne le questioni esegetiche: una introduzione, che delinea i problemi fondamentali del libro o dei libri in esame; un corredo di note, di carattere prevalentemente storico e filologico; un commento, articolato in una serie di saggi destinati all'interpretazione dei temi centrali del testo. L'edizione si conclude con un saggio di interpretazione complessiva, con indici e bibliografia. n commento è l'esito del lavoro di un gruppo che fa capo al Dipartimento di Filosofia dell'Università di Pavia: studiosi con specifiche competenze. ma che condividono omogenee prospettive metodiche ed esegetiche. Non si tratta dunque di una raccolta antologica, ma di un lavoro di interpretazione unitario, benché ampiamente articolato.

Mario Vegetti è professore ordinario di Storia della 6losofia antica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Pavia. Ha tradotto e commentato opere di lppocrate. Aristotele e Galeno. È autore di numerosi studi, pubblicati in Italia e aU'estero in varie lingue, dedicati aUa storia dd pensiero antico nei suoi versanti filoso6co-scientifico ed etico-politi· co. Fra i suoi lavori principali, i volumi

l/ coltello e lo stilo. Animali, schilzvi, barbari e donne alle origini tklla ra'lionalità scientifica (Milano 1979; 19962 ), Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico (Milano 198) ), L 'etica degli antichi (Roma-Bari 1989). Ha curato diverse opere coUettive, tra le quali l'lntrodu'lione alle culture antiche U voli .• Torino 1985-92).

L. .50.000

ELENCHOS Collana di testi e studi sul pensiero antico fondata da GABRIELE GIANNANTONI XXVIII-4

PLATONE

LA REPUBBLICA Traduzione e commento a cura di MARIO VEGETTI

Vol. IV Libro V

BIBLIOPOLIS

Quest'opera è stata realizzata con la collaborazione dell'Istituto italiano per gli studi filosofici e con contributi dd C.N.R. e dd MURST

Proprietà letteraria riJeroata

ISBN 88-7088-384-1

Copyright © 2000 by «C.N.R., Centro di studio dd pensiero antico>>

diretto da VINCENZA CELLUPRICA

SOMMARIO

Introduzione al libro V (M. Vegetti) l. Il libro V: digressione o apice, 13;

2. L'ambito etico-

p.

13

politico: il paradigma della grande utopia, 17; 3. L'ambito etico-politico: il governo filosofico, 25; 4. L'ambito onto-epistemologico, 28.

LIBRO V COMMENTO AL LIBRO V

[A]

Be/tista eiper dynata. Lo statuto dell'utopia nella Repubblica (M. Vegetti)

39 105

107

l. Il problema, 107; 2. Desiderabilità e possibilità, 117; 3. Il modello e l'esecuzione, 119; 4. Le condizioni di possibilità: teoria e comando, 126; 5. Telos e limite dell'utopia: unità della città e forma di vita comunitaria dei phylakes, 130; 6. La questione dell'efficacia, 138; 7. La politica del-

l'utopia, 142.

[Ba]

La prima ondata: il «dramma femminile» (S. Campese) l. Koina la philon: una massima da chiarire, 150; 2. La

150

metafora della cagna, 158; 3. Ridicolo e progettualità, 165; 4. Identità di Aatura e differenza biologica, 172; 5.

Identità di natura e superiorità dd genere maschile, 177; 6. L'educazione delle due mani, 182; 7. Una proposta al-

ternativa: la regina della casa, 185.

[Bb]

Nudità (S. Campese) l. La nudità: onore e vergogna, 197; 2. Le risa di Socrate, 203.

197

8

[C]

SOMMARIO

La techne antilogike tra erizein e dialegesthai (F. de Luise- G. Farinetti) l. Antilogia ed elenchos, 209; 2. Dall'antilogia alla dialet-

p. 209

tica, 214; 3. I bersagli polemici: sofisti e "socratici", 220.

[D]

L'utopia dalla commedia al dialogo platonico (A. Beltrametti)

233

l. La gente che ride e l'uomo che ride troppo presto, 235; 2. Dialogo e commedia, 247.

[E]

La seconda ondata: la comunanza di donne e figli (S. Campese)

257

l. Le due ondate, 257; 2. Necessità erotica e promiscuità ero s, 264; 4. Le La famiglia civica, 274; 6. Linguaggio e SO·

sessuale, 260; 3. La regolamentazione dell madri, 271; 5.

'

cietà, 279; 7. La terminologia del possesso, 282; 8. Le "lezioni" della promiscuità, 284; 9. Nate dalla terra, 291.

[fl

La «razza pura» (M. Vegetti)

295

l. Paidopoiia: un problema politico, 295; 2. L'eugenetica

platonica e il razzismo, 298.

[G]

La guerra della kallipolis (S. Gastaldi)

301

l. La funzione guerriera: il modello eroico, 301; 2.

Il

codice di guerra greco: regolamentare la violenza, 307; 3. Stasis e polemos, Greci e barbari, 319; 4. L'atteggiamento

filellenico, 327.

[H]

Il regno filosofico (M. Vegetti)

355

l. DynamiJ politike e filosofia l. «Un cambiamento minimo», 335; 2. Il governo dei filo-

sofi:

uno

scandaloso paradosso, 338; 3. La riabilitazione

della Hlosofia. 343; 4.

Il philosophon gcnos e la città, 349.

II. Archontes, filosofi-re, dialettici l. I difensorilarchontes 352; 2. ,

I filosofi-re, 353; 3.

I dia-

lettici, 355; 4. l problemi: corrisp ondenze, diversità, sequenze e paradossi, 356; 5. Un regno o una scuola per filosofi?, 3 6 1 .

[l)

Teoria delle idee e ontologia (F. Ferrari) l. Collocazione drammatica e sequenza argomentativa, 365; 2. Tracce di tl.-oria delle idee 1475e9-476d6l, 369; 3.

Kotvwvin tiòv ft&òv,

374; 4. L'essere e i suoi sensi. 376:

365

9

SOMMARIO 5. L'idea come referenza primaria e il ruolo dell 'unità, 384; 6. Conclusioni: idee e instanziazioni, 390.

[L]

Conoscenza e opinione: il filosofo e la città (F. Ferrari) l. Il parallelismo onto-gnoseologico e la "teoria dei due mondi", 393; 2. Le obiezioni alla versione radicale della

p. 393

"teoria dei due mondi", 395; 3. Forme cognitive e livelli di realtà, 399; 4. Termini e proposizioni, 407; 5. L'infallibilità del filosofo: la struttura del sapere scientifico, 410; 6. Conoscenza e opinione: il filosofo e la città, 415.

[Ma] Aristotele discute la Repubblica (F. Calabi)

421

l. La lettura aristotelica della Repubblica, 422; 2. Le critiche al progetto platonico, 428; 3. D rapporto con le Leggi, 436.

[Mb] La critica aristotelica alla Repubblica nel secondo libro della Politica, il Timeo e le Leggi (M. Vegetti) l. Il problema, 439; 2. Selezione, interpretazione, critica,

439

440; 3. La discussione accademica, 450; 4. Per ora o per

sempre?, 451.

[N]

La kallipolis di Rousseau (F. de Luise) l. Politica ed educazione, 453; 2. Il "platonismo" di

453

Rousseau nella tradizione interpretativa, 455; 3. Rousseau e

gli antichi, 462; 4. Coerenza e felicità: la critica dell'ap-

parenza, 465; 5. Natura e artificio: un modello di perfezionismo antropologico, 471; 6. Il Legislatore, 479; 7. Identità e proprietà, 484; 8. Identità e appartenenza, 487; 9. Identità collettiva e scambio simbolico, 490.

[0]

Il confronto di Marx con Platone (attraverso Hegel) (G. Farinetti) l. Marx e le genealogie regressive del comunismo, 497; 2.

497

L'incontro con Platone di Marx studente, 501; 3. Marx. Hegel e la libertà degli antichi e dei moderni, 505; 4. L'influenza dell'interpretazione hegeliana di Platone su Marx,

Manoscritti de/1861-63 e nel Capitale, D sistema castale e la sua idealizzazione conservati-

519; 5. Platone nei 526; 6.

va in Platone, 535; 7. Marx, Platone e il «comunismo rozzo»: una genealogia negata, 549; 8. Una postilla, 555.

Errata corrige

561

LA REPUBBLICA LmRoV

Hanno collaborato al commento: Anna Beltrametti (Università di Pavia) Francesca Calabi (Università di Pavia) Silvia Campese (Università di Pavia) Fulvia de Luise (Alba) Giuseppe Farinetti (Alba) Franco Ferrari (Università di Salerno) Silvia Gastaldi (Università di Messina) Mario Vegetti (Università di Pavia) Michele Abbate (Università di Macerata) ha contribuito all'o­ pera curando una traduzione commentata del Commentario di Proclo alla Repubblica. Coordinamento redazionale: Anna Cattivelli.

INTRODUZIONE

l. Il libro V· digressione o apice Il libro V viene insistentemente presentato come una lunga digressione, imposta a Socrate dalla comunità dialogica (449a450a): l'ordine del discorso socratico, data per esaurita con il libro IV la discussione della migliore politeia, prevedeva il pas­ saggio all'analisi delle forme costituzionali degenerate. Questa analisi viene dilazionata fino al libro VIII, al cui inizio infatti i libri dal V al VII vengono considerati come una lunga digres­ sione (543 c5). La richiesta unanime e vibrante degli interlocutori di So­ crate, da Polemarco a Glaucone, da Adimanto a Trasimaco, si concentra essenzialmente su due punti: chiarire la forma di vita comunitaria prevista per la nuova polis, troppo sbrigativamente accennata nel libro IV con la formula koina ta philon, e indivi­ duare le condizioni che possano consentire la realizzazione del «sogno di fondazione» condiviso dalla comunità del dialogo. Non è difficile vedere come l'enfasi posta sulla resistenza degli interlocutori all'eccessiva scorrevolezza del discorso di Socrate, e sulla esitazione di questi ad accettarne la sfida, costi­ tuisca in realtà un dispositivo drammaturgico destinato da un lato ad acuire l'interesse dell'ascoltatore/lettore, dall'altro a segnalare l'imminenza di un drastico innalzamento del livello teorico del dialogo. La "digressione" del libro V (che si con­ clude soltanto con la trattazione dell'idea del bene nel VI, e che innesca per effetto di trascinamento un'altra "digressio­ ne", comprendente la fine del libro VI e l'intero libro VII), co-

PLATONE, LA REPUBBLICA

14

stituisce in effetti il coronamento apicale dell'intero dialogo. Ne è già testimone la sua collocazione all'interno del testo. Se è vero, come ha sostenuto Thesleff, 1 che molti grandi dialoghi platonici pongono i propri momenti teoricamente più rilevanti al centro del testo, questa centralità compositiva spetta senza dubbio nella Repubblica ai libri V e VI, preceduti e seguiti da due blocchi, l-IV e VII-X, che in parte potrebbero venir letti in sequenza (1-IV/VIII-X), e in parte costituiscono rispettiva­ mente la premessa (IV) e i corollari (VII) del nucleo centrale (gli stessi libri V e VI possono del resto esser visti come una struttura a timpano, al cui apice si collocano le pagine che van­ no dal potere filosofico fino all'idea del bene). Che il libro V rappresenti, agli occhi del suo stesso autore, il luogo alto del­ l'intera Repubblica, è provato dai diversi sommari del dialogo che egli ha delineato a più riprese. n primo di essi è presentato, per così dire a caldo, già nel libro VIII della Repubblica stessa (543a-c). L'accordo (homole­ getat) fino ad allora raggiunto veniva dato come relativo ai se­ guenti punti:

l) comunanza di donne, figli, educazione, ruoli in pace e in guerra;

2) regno dei migliori nella filosofia e nella guerra; 3) privazione di ogni proprietà privata per gli archontes, che devono venire mantenuti a spese della comunità degli altri cit­ tadini. Si tratta, come si vede, dei temi essenziali del libro V (ed è inoltre significativa l'omissione di tutti i temi "teorici" dei libri

VI e VII). Molto simile, anche se più articolato, lo sguardo retrospet­ tivo sulla Repubblica offerto dal Timeo, quali che ne siano le 1

H. THESLEFF, Looking /or Clues. An lnterpretation o/ Some Literary

Aspects o/ Pl4to's 'Two-Leve/ Mode/', in G.A. PRESS (e d.), Pl4to's Dialogues,

1993, pp. 17-4.5 (sulla Repubblica pp. 19, 27). Anche P. (196()2), trad. ingl. London 1%9, p. 102, indivi­ duava nella teoria dei filosofi-re «the core of the whole Republioo. Lanham

FRIEDLANDER, P/4to, vol. III

INTRODUZIONE AL UBRO V

15

deliberate mistificazionF (17 c-19a). Esso si articola sui temi se­ guenti:

l) divisione del corpo civico fra contadini e artigiani da un lato, combattentilphylakes dall'altro; 2) privazione di proprietà private e mantenimento pubblico dei phylakes; 3) comunanza di donne, figli, occupazioni e consanguineità tra i phylakes; 4) mobilità fra i diversi gruppi sociali e manipolazione dei sor­ teggi nuziali; 5) carattere thymoeides e philosophos dell'anima dei phylakes. È da notare che il Timeo, mentre riprende nell'essenziale le prime due «ondate>> dd libro V, ne tace la terza (il governo fi­ losofico) salvo quest'ultimo accenno, derivante però soprattutto dal libro III. Ma, a parte questa omissione, tipica di una pe­ culiare strategia di rilettura della Repubblica da parte di Platone, non c'è dubbio che egli presenti agli interlocutori del Timeo un'immagine del dialogo sostanzialmente centrata sul libro V. Ancora più accentuata appare questa scelta nel breve ma cruciale accenno alla polis della Repubblica tracciato nel libro V delle Leggi (739c-740a). Vengono qui sottolineati i seguenti punti:

l) le leggi migliori sono quelle che consolidano l'unità della città; 2) essa è conseguita grazie alla comunanza di donne, figli e proprietà; 3) ogni aspetto privato dovrà venire sradicato dalla vita degli uomini, in modo che essi godano e soffrano delle stesse cose nello stesso modo, come se la comunità fosse costituita da un solo individuo. La corrispondenza con i temi centrali del libro V della Re­ pubblica è come si vede perfetta, anche qui ad esclusione del 2 Rinvio in proposito a M. VEGETII, I.:autocritica di P/4ton�: il Timeo e le Leggi, in M. VEGETTI-M. ABBATE (a cura di), La Repubblica di Pi4tone nel/4 tradivone antica, Napoli 1999, pp. 13-27.

16

PLATONE, LA REPUBBLICA

governo dei filosofi. Esso costituisce per contro il tratto centra­ le del progetto politico maturo di Platone secondo il resoconto autobiografico tracciato nella Lettera VII (326a-b). Quali che siano le successive selezioni e oscillazioni autoin­ terpretative, Platone non lascia dunque dubbi, lungo l'intero corso della sua vita, sulla centralità che egli riconosceva al libro V nell'ambito della Repubblica e più in generale del suo pen­ siero politico. Già questa, d'altronde, può apparire una sele­ zione in qualche modo riduttiva rispetto ai contenuti del libro, probabilmente determinata dai contesti in cui esso viene rievo­ cato, oltre che forse da un progressivo distacco di Platone dalla sua dimensione più strettamente teorica. Questi contenuti si distribuiscono infatti in due blocchi distinti, anche se strettamente connessi fra loro. Il primo (che giunge fino a 473e) è di ambito specificamen­ te etico-politico: viene riaperta la questione della giustizia,3 che sembrava conclusa nel libro IV, definendo lo statuto comunita­ rio proprio della kallipolis con una radicalità di gran lunga su­ periore alla discussione precedente, e vengono inoltre discusse per la prima volta le condizioni di possibilità della sua instau­ razione, individuate ora nettamente nell'avvento del "regno filosofico" . n secondo blocco è invece di ambito epistemologico-anto­ logico, destinato com'è a chiarire la natura del sapere filosofico e le ragioni che legittimano l'aspirazione al potere da parte dei suoi detentori. Gran parte del libro VI, fino alla trattazione dell'idea del bene, costituisce un ampliamento e un approfon­ dimento della figura e del sapere del filosofo in quanto miglior candidato al "regno". Una cesura è segnata dalla discussione onta-epistemologica della "linea", che dal canto suo introduce alla problematica del libro VII (cfr. qui [H], parte Il). Entrambi i blocchi tematici del libro V comportano a loro volta, come vedremo, complesse operazioni di riattivazione e 1 Cfr. in questo senso D. CLAY, Readlng the Repub/ic, in C. L. GRJS\'1:'< lLD (cd.). P/atonie Wrltùtg.f. Platomc Rt·admgs, Ncw York-London 1988, pp. 19· 33 (specialmente p. 28).

INTRODUZIONE AL UBRO

V

17

di reinterpretazione di precedenti tradizioni di pensiero, con esiti di rilievo per l'intero profilo della fllosofia platonica. 2. L'ambito etico-politico: il paradigma della grande utopia L'utopia progettuale il cui paradigma viene delineato nel libro V da un lato sviluppa e integra il modello della città giu­ sta proposto nel IV - secondo l'imperativa richiesta della co­ munità dialogica-, dall'altro se ne differenzia in modo signifi­ cativo anche se non certo contraddittorio. Alla base di questa differenza stanno uno spostamento, o una diversa accentuazione, nell'ordine delle finalità del proget­ to. Nel modello del libro IV, il fme della giustizia comportava la concezione della città come struttura gerarchicamente arti­ colata in una pluralità di gruppi funzionali. n libro v si focaliz­ za invece intorno al fine primario dell'unità della città (462a­ b).4 n tema dell'unità era certamente connesso a quello della giustizia anche nel libro precedente, ma la sua centralità richie­ de ora una riflessione radicale sulle condizioni che rendano possibile una polis davvero "una" ed esente da stasis- una polis dunque che veda finalmente realizzata l'antica promessa indi­ rizzata ad Atene dal coro delle Eumenidi: «Faccio voto che in questa città non mai ruggisca la discordia civile (stasis) che di crimini non è mai sazia [ . ] Gioia invece con gioia i cittadini ricambino con l'animo volto all'amore comune (koinophilet), e quando odieranno sia unanime il loro pensiero»; questa sola sarà, secondo le parole di Atena, la polis davvero giusta (ortho­ dikaios) (vv. 976-995, trad. it. M. Untersteiner). Platone indivi­ dua senza incertezza la condizione primaria dell'unità della città nella concordia e nella pace (eirene) fra gli uomini del suo . .

gruppo dirigente: «Se essi non sono in conflitto (slasiaz.onlon) tra loro, non c'è da temere che il resto della città si divida per disaccordi nei loro confronti o al proprio interno» (465b). 4 Ha richiamato l'attenzione su questo spostamento phi/osophe-roi. Platon et la politique, Paris 1991, p. 95.

M.P. EDMOND,

Le

18

PLATONE, LA REPUBBUCA

Si può vedere in questa certezza platonica l'idea che l'unità del gruppo dirigente è di per sé sufficiente a prevenire educati­ vamente o eventualmente a reprimere con la forza la stasis so­ ciale, e anche la consapevolezza storico-politica che quest'ulti­ ma è di solito innescata appunto da conflitti insorti nell'ambito di quel gruppo. In ogni caso, l'attenzione di Platone si sposta così dall'arti­ colazione gerarchica del corpo sociale alle condizioni dell'u­ nità del suo ceto di governo, che sono individuate in una forma di vita comunitaria destinata ad attuare, con una radicalità che le era estranea, la vaga massima «siano comuni le cose degli amici». La mossa decisiva in questa direzione è costituita dall'abo­ lizione dell'oikos, la struttura familiare che inevitabilmente pri­ vatizza i vincoli parentali e quelli patrimoniali, riproponendo sempre di nuovo, in modo inerziale, le radici della divisione e del conflitto fra interessi contrapposti. La soppressione dei legami familiari privati ha innanzitutto l'effetto di trasformare gli "amici" del vecchio precetto in "fra­ telli" (adelphot), non più in senso soltanto metaforico ma lette­ rale: fratelli si considereranno fra loro tutti gli appartenenti alla stessa fascia di età, perché essi (in virtù dell'anonimia dei rap­ porti procreativi e della discendenza di sangue) avranno po­ tenzialmente in comune gli stessi genitori, negli anziani della città, e gli stessi figli, nei suoi giovani. Questa inaudita fratel­ lanza ha lo scopo e l'effetto di rafforzare il vincolo politico na­ turalizzandolo in un legame parentale diffuso e coesteso al­ l'intero gruppo dirigente della nuova polis.' Divenuti fratelli, questi "amici" non metteranno in comu­ ne le loro "cose" perché non ne possederanno alcuna, limitan­ dosi a condividere la mercede loro corrisposta dalla polis come retribuzione del servizio di governo politico-militare. L'assenza di qualsiasi forma di proprietà privata (a eccezione del loro 5

Cfr. qui [Ba). [E]. Devo inoltre utili indicazioni su questi problemi a

A.A. Beltramctti.

INTRODUZIONE AL UBRO V

19

corpo, 464d9) stabilisce una radicale eguaglianza, di beni ma anche di affetti e di interessi, fra gli uomini e le donne di que­ sta comunità fraterna. Questa eguaglianza, va detto, riposa su un processo di selezione morale, intellettuale e anche genetica (cfr. qui [F]) del più alto livello di perfettibilità umana, che costituisce al tempo stesso un dispositivo di esclusione per chi ne resta al di sotto ed è dunque diseguale per inferiorità mora­ le e intellettuale. Fraternità ed eguaglianza, dunque. C'è inoltre libertà nella grande utopia del libro V? Nel consueto senso greco di eleu­ theria, senza dubbio sì: la nuova polis è indipendente all'ester­ no, e all'interno non è soggetta ad un governo dispotico o all'a­ buso tirannico del potere. Il suo gruppo dirigente è inoltre autonomo nelle sue scelte di governo; il piano di valori ideali cui deve ispirare la sua azione concreta è largamente orientati­ vo, e non ci sono vincoli teologici, metafisici o legislativi cui es­ so si debba rigidamente attenere, una volta che abbia compre­ so e si sforzi di realizzare il senso (/ogos) della nuova politeia (VI 497c-d).6 Meno semplice è la questione della "libertà" degli altri, se al termine si assegna ora un significato più simile a quello mo­ derno. Essa sembra di fatto consistere in una accettazione consen­ ziente del governo dei migliori e delle sue leggi basata sulla consapevolezza che l'uno e le altre sono in funzione del bene comune? Questa accettazione volontaria e priva di costrizione violenta del governo di chi possiede la phronesis da parte di chi 6 G. Kl.OSKO, The Development o/ PltJto's Politica/ Theory, New York­

London 1986, sottolinea come i filosofi non dispongano di un'idea della polis da imitare; essi non sono prowisti di «nessuna guida metafisica>t in ordine alla realizzazione politica dd risultato morale desiderato (p. 171), e devono quindi mettere in opera una «active, sdf-critical intelligence» (p. 168). In questo senso la ltallipolis non può venir considerata come una teocrazia. 7

Cfr. in questo senso R.F. STALLEY, Plato's Doctri n e o/ Freedom,

«Proceedings of Aristotelian Society», XCVIT (1998) pp. 145-58 (specialmen­ te p. 157).

PLATONE, LA REPUBBLICA

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è sprovvisto di sapere, viene considerata nelle Leggi il migliore e più naturale axioma del potere (III 690b). Ma già la Repub­

blica ne indica il modello nella naturale sottomissione dei bam­ bini, che potranno venir lasciati eleutheroi soltanto quando saranno stati in grado di istituire la giusta politeia entro se stes­ si (IX 590e), cioè di sostituire la dipendenza gerarchica da altri con l'autonomo ordine della propria personalità. Se, ed entro quali limiti, lo stesso possa accadere per gli strati subalterni della nuova polis, è questione che Platone lascia indeterminata e offre alla riflessione dei lettori/interpreti. 8 La libera comunità dei fratelli e degli uguali, disegnata dalla grande utopia dd libro V, si distacca, per la radicalità del­ la sua concezione, dai tratti ancora filo-spartani e militaristici presenti nel disegno di riforma tracciato nei libri 11-IV. Si tratta in effetti più di una diversa accentuazione ed esplicitazione che di una reale discontinuità, perché l'abolizione della privatezza dell'oikos e la subordinazione del potere al sapere erano già presenti in quel disegno. La coerenza fra i due quadri è del resto sottolineata dallo stesso Platone, sia in linea di principio (464b-c), sia dal "realistico" (cfr. § 4), o addirittura iper-reali­ stico, privilegio che anche nel libro V continua a venir ricono­ sciuto alla funzione militare, come necessario raccordo fra il progetto utopico e i ceti sociali ai quali esso veniva in primo luogo indirizzato.9 Non c'è dubbio tuttavia che la forma di vita 8 La discussione è certamente cominciata già a partire da Aristotele: cfr.

in proposito R MAYHEW, Aristotle on the Extent o/ the Communism in Pltlto's

Republic, «Ancient Philosophy», XIII (1993) pp. 313-21 (sulla fondatezza dell'ipotesi aristotelica circa l'universalizzazione del comunismo nella Repub­

blica), e qui [Ma], [Mb], [A], S 5. Per diversi atteggiamenti in proposito nella tradizione moderna, fra Rousseau e Marx, dr. qui [N], [0]. 9

Su questo aspetto insiste D. DAWSON, Cities o/ the Gods. Communlst

Utopias in Greek Thought, New York-Oxford 1992, pp. 74 sgg. V. TEJERA, Pltlto's Dialogues One by One. A Dialogica/ lnterpretation, New York-Oxford 1999, vede (straussianamente) nella Repubblica un «attacco ironico contro spartanismo, militarismo e oligarchismo pitagorizzante» (p. 238). L'interpre­ tazione "ironica" non è probabilmente necessaria per sottolineare, come fa Tejera, l'antitesi fra Repubblica e Leggi, e il conseguente sforzo accademico

INTRODUZIONE AL UBRO V

21

comunitaria del gruppo dirigente della nuova polis e ancor più - come vedremo - la rivendicazione del governo filosofico co­ me sua condizione di possibilità, segnino rispetto ai libri prece­ denti un innalzamento di livello teorico nella progettualità pa­ radigrnatica di Platone. Proprio questo scarto rende più difficile individuare gli eventuali modelli, storici o teorici, ai quali essa può essersi ispi­ rata. Il più vicino era senza dubbio quello della comunità guer­ riera degli homoioi lacedemoni, in forme diverse idealizzato da un'ampia letteratura filo-spartana di ispirazione oligarchica, da Crizia a Senofonte. Ma qui non vi era naturalmente traccia né dell'abolizione della famiglia e della proprietà privata, né tanto meno di un sapere filosofico come garanzia del potere giusto. Altrettanto si può dire dei progetti di riforma costituzionale circolanti al principio del IV secolo, come quelli attribuiti a lp­ podamo e Falea, certo interessati ad un livellamento degli squi­ libri sociali ed economici, ma ben lontani, in entrambi i sensi indicati, dalla radicalità platonica. A maggiore distanza, è stato talvolta riconosciuto in Plato­ ne un riferimento pitagorico. Da un lato, Giamblico descrive in effetti i tratti di una comunità ascetico-sapienziale caratteriz­ zata da abitazioni collettive e comunione dei beni (VP 30,72). Dall'altro, viene ricordata la tirannide tarantina del filosofo­ matematico Archita. A questo si può obiettare che Giamblico può aver benissimo proiettato elementi platonici sul pitagori­ smo delle origini, che il contatto diretto di Platone con Archita è senza dubbio posteriore all'ideazione e in gran parte alla ste­

sura della Repubblica, e che comunque ben poco dell'esperien­ za storica del potere pitagorico in Magna Grecia presenta affi­ nità con il progetto platonico. 10 L'assiduo confronto di Platone per nasconderla neutralizzando «the Republic's dangerous anti-militarism and consritutional criricality with the hierarchical, gerontocratic Pythagoreanism of the Lawr- (p. 293). Questo contrasto è eccessivamente accentuato dall'au­ tore (che ritiene inautentiche le Leggt1, ma non infondato. 10

Su Giamblico cfr. E.L. MINAR, Pythagorean Communism, «American

Joumal of Philosophy», LXXV (1944) pp. 34-46; Early Pythagorean Polittcs

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PLATONE, LA REPUBBUCA

con il pitagorismo rende senza dubbio probabile l'ipotesi che elementi di quella tradizione siano filtrati nella sua immagina­ zione utopistica, contribuendo a plasmarla, ma oltre a questa supposizione non credo sia possibile andare in direzione di più specifiche influenze. 11 Per contro, la grande utopia progettuale della Repubblica disponeva di antecedenti più diretti e visibili, più a portata di mano nella cultura ateniese fra V e IV secolo. Si tratta, eviden­ temente, di quel grande «laboratorio utopico»12 che è rappre­ sentato dalla commedia attica, e in particolare della straordina­ ria capacità di Aristofane di dar forma e rappresentazione sce­ nica ai sistemi di controvalori sociali emersi nei sogni utopici circolanti verso la fine della guerra del Peloponneso, e al tem­ po stesso di parodiarli (cfr. qui [Bb], [D]). Così le Ecclesiaz.use rappresentano, insieme, una satira del­ la società ateniese e dei progetti di una sua riforma "comunisti­ ca", delle «nuove vie» (kainotomein, v. 584) di cui si veniva proponendo la sperimentazione. Sono ben note le stringenti prossimità fra la commedia aristofanea e il disegno riformatore del libro V,13 a proposito della comunanza di partners sessuali e di beni; e Aristofane attribuisce persino all'utopista Prassagora una «mente filosofica» (philosophon phrontida, vv. 572-73 ) . Mentre è fuori di dubbio che Platone avesse presente la dop­ pia satira aristofanea (della società esistente e dei progetti di riforma "comunistica") quando scriveva il libro V della Repubin Practice and Theory, New York 1979, pp. 98 sgg.; e per le fonti K. VON FRITZ, Pythagorean Politics in Southern Italy, New York 1940. pp. �5-6�. 11

Un "modo di vita pitagoriro• è menzionato in Resp. X 600a-b. ma con

riferimento all'ambito privato (idia) in esplicita opposizione a quello pubblico (demosia), dd quale secondo Platone si erano invece occupati legislatori come Licurgo, Caronda e l'ateniese Solone (599d-e). 12 Q uesta espressione compare (p. 224) nell'importante saggio di L. BER­ TELLI, I.;utopia sulla scena: Aristofane e la parodia della città, «Civiltà classica e

cristian�. IV (1983) pp. 21�-61. Cfr. anche pp. 230 sgg. °

Cfr. ADAM, pp. 350 sg.; H THESLEFF, The Early Versron o/ Plato's

Republic, ccArctos», XXXI (1997) pp. 149-74 (specialmente pp. 153 sg.); si vedano anche qui le note 58 e 76 alla traduzione.

INTRODUZIONE AL UBRO V

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b/ica, e che temesse il ridicolo che poteva riverberame sul suo stesso progetto, non è invece necessario ipotizzare che l'ogget­ to di quella satira fosse proprio una prato-Repubblica circolata prima delle Ecclesiaz.use (392).14 C'era, nel passaggio fra i due secoli, dawero abbondanza di "menti filosofiche", nel senso di una intelligentsia radicale e anticonformista, diffusa nei circoli sofistici, e certo anche socratici, nell'ambiente teatrale di Euri­ pide, di Agatone, dei comici -insomma in quel mondo dei phi­ lotheamones che lo stesso Glaucone confonde con i "veri" filo­ sofi (475d). Del resto, secondo questa presunta inevitabile priorità della filosofia sulla commedia, una qualche "Repubblica" avrebbe dovuto allora precedere anche quel vero manuale pa­ rodistico dell'utopia1' che è rappresentato dagli Uccelli. Anche qui, si tratta di «fondare una città unificata» (oikisate mian polin, v. 173), che sarà comunque, come quella di Glaucone, «una città greca» (v. 147), e addirittura, come quella dd libro IX, letteralmente una città «in cielo», nonché socraticamente sulle «nuvole» (w. 177, 184)! Non manca il problema della persuasione degli uccelli, che sono all'inizio apista come gli in­ terlocutori di Socrate (v. 417), né il ricorso ad una theia moira, a una syntychia di salvezza (w. 543-45), con cui va confrontato il passo di Repubblica VI 492a5. La città degli uccelli -la cui fondazione comporta fra l'altro la cacciata dd poeta (v. 948)­ sarà abitata da Sophia (v. 1320) e su di essa regnerà una donna dal nome appunto di Basileia, apportatrice di euboulia ed eunomia (w. 1536 sgg.): non manca infine una fuggevole com­ parsa di Socrate nell'atto di psychagogein (v. 1555). L'immaginazione comica ha dunque con ogni verosimi­ glianza preceduto, e alimentato, quella filosofica di Platone. E vi ha impresso una traccia profonda, nello stile più ancora che 14 La tesi è stata sostenuta da H. THESLEFF, art. al. (n. 13 ), e ripresa da NAILS, Agora, AC4demy and the Conduci o/ Philosophy, Dordrecht 1995. La priorità della commedia è invece sostenuta da ADAM, pp. 354 sg., e L. BERTELLI, art. cit. (n. 12), pp. 258 sg. "Così ancora L. BERTELLI, art. cit. (n. 12), p. 235. D.

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PLATONE, LA REPUBBLICA

nei contenuti. T hesleff ha giustamente rilevato il «sense of humour», 16 i toni e le allusioni comiche che pervadono il libro V e in generale l'intero dialogo. Questa considerazione può aprire la via a una migliore comprensione del carattere "ironico" di molte pagine della Re­ pubblica, e dd nostro libro in particolare, senza dover ricorrere all'arbitraria ipotesi straussiana di un'intenzione autoconfuta­ toria (cfr. qui [A]).17 Più che di un'ironia dissimulatoria, si trat­ ta in effetti di una diffusa aura comica in cui Platone esibisce la consapevolezza di una delle matrici culturali del sistema di controvalori che viene argomentando, provoca apertamente la derisione, si espone alla parodia assumendo tuttavia l'onere di una sua confutazione razionale. In altri termini, se si deve rico­ noscere alla commedia il merito di aver messo in scena l'uto­ pia, non si può dare quest'ultima come perduta sotto il peso della derisione; l'immaginazione filosofica deve affrontare il compito di riscattare dal ridicolo ciò che quella comica aveva insieme evocato e parodiato. Certo, questo riscatto non può più avvenire nelle forme arcaiche della profezia, deve rinuncia­ re all'enfasi- che ormai suonerebbe grottesca- del proclama e dell'invettiva. Dopo la commedia, e grazie ad essa, si tratta piuttosto di assumere il tono di una urbana e serena consape­ volezza dei limiti entro i quali il discorso della progettualità utopica può venir indirizzato ad una comunità storico-umana disincantata quale è quella messa in scena nella Repubblica. Tutto questo risulta chiaro, ad esempio, nelle ripetute battute comiche che Socrate indirizza a Glaucone nel discorso sulla 16

Cfr. H. THESLEFF, art. cit. (n.

13), p. 153.

17

La migliore versione di questa linea interpretativa è probabilmente quella offerta da D.A. HYLAND, Taking the longer Road: The lrony of Plato's Republic, •Revue de Métaphysique et de Morale>>, XCIII

(1988) pp. 317-35,

dove l'ironia filosofica è concepita come la rappresentazione del lato negativo della conoscenza e della natura umana (p.

335);

in questo senso va interpreta­

to anche il carattere letterario dei dialoghi, che imitano un impossibile sapere assoluto (p.

327). Sull'utopia della Repubblica Hyland si limita però a ripetere 327 sgg.).

l'interpretazione straussiana (pp.

25

INTRODUZIONE AL LIBRO V

guerra e sui guerrieri, e sulla sbrigativa impazienza con la quale il secondo lo congeda (cfr. 4 68b, anche 474d-e, 471c-d); più avanti, a proposito di una sua invettiva circa la condizione del­ la filosofia, Socrate deve scusarsi dell'eccessiva enfasi e serietà

(spoudaioteron) del suo discorso, che eccedevano il carattere scherzoso (epaizomen) del dialogo (VII 536c). Questo non significa, evidentemente, che ciò che vien detto della filosofia non vada "preso sul serio"; significa però che non è possibile assumere i toni "tragici"18 che vengono così efficacemente pa­ rodiati da Aristofane e che ne risultano perciò relegati in un arcaismo eroico ormai estraneo alla comunicazione culturale e alla dimensione umana cui questa si indirizza. n discorso dell'utopia ha insomma bisogno- dopo la com­ media -di un suo linguaggio e di una sua misura, presenti nella Repubblica, con la sua lievità, assai più che nelle Leggi, al cui dogmatismo la dimensione comico-ironica è estranea (e che per questo gli interpreti di ispirazione straussiana tendono ad assumere come documento più positivo ed attendibile del pensiero politico di Platone). Ma- a differenza della commedia -l'utopia progettuale della filosofia deve assumersi l'onere di indicare, nella teoria, le proprie condizioni di possibilità, le vie di transito dallogos all'ergon (cfr. qui [A],§ 4).19 3. L'ambito etico-politico: il governo filosofico Eiaì

n aaa t

�EtafJA.aì 1tOÀ.ltEléÌ>V 8avat6cpopol («tutte le

rivoluzioni sono portatrici di morte»), aveva detto Crizia per giustificare gli spargimenti di sangue che avevano accompagna­ to il colpo di stato dei Trenta (X. HG II 3.32) . Quasi per ri18

Cfr. in proposito il timore socratico di «parlare trogilwr» in III 4 13 b4

(dr. commento ai libri II-III, [E]). Altrove Socrate ironizza significativamente sul fatto di parlare syngrophikos, «come 19

un

trattato» (Phoed. 102d3).

Altrimenti, l'utopia diventa quella del «pigro sognatore» descritto in

4.58a, che corrisponde alle fantasie comiche del paese di Bengodi: dr. in pro­

posito L. BERTELLI, art. cit. (n. 12), p. 229.

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PLATONE, LA REPUBBLICA

spondere a Crizia, Platone indica la condizione minima, e tale da implicare il minimo ricorso alla forza (dynamis), necessaria per la metabole proposta nel libro V (473b). Ma-e qui Platone prende le distanze dall'esperienza socratica di una testimonian­ za solitaria e impotente2°- un certo livello di forza è comunque necessario. Il potere giusto, il regno filosofico, nascerà dall'in­ contro tra filosofia e forza politica, dynamis po/itike (473d). Si tratterà appunto, come ripete più volte Platone, di un «regno» (basi/eia): una forma di potere eccezionale, quindi. che ha il compito da un lato di mettere a regime il governo de­ gli archontes, dall'altro di controllare il rispetto dei principi e del senso etico-politico della nuova costituzione (VI 484d; cfr_ qui [H], parte l). Nell'usare il linguaggio della regalità, è possibile che Pla­ tone intendesse alludere a figure tradizionali dell'autorità co­ me l'archon basileus ateniese o i re spartani. Ma egli indicava anche certamente la via per uscire da una crisi di sovranità che ai suoi occhi durava da lunga data nell'esperienza storica greca e soprattutto ateniese, la via per una rilegittimazione del potere dopo la crisi simultanea e incrociata delle forme di governo che avevano tentato di supplire alla sovranità perduta. La de­ mocrazia - che sotto Pericle era stata di fatto, nelle parole di Tucidide, il «governo dell'uomo migliore» (Il 65.9), e che se­ condo il Menesseno si era configurata come «un'aristocrazia con il consenso delle masse» (238d) -era inevitabilmente de­ generata nell'anarchia demagogica di politici irresponsabili al servizio di maggioranze altrettanto irresponsabili nel loro in­ fantilismo, secondo la vibrante denuncia del Gorgia: insomma «una follia condivisa» (homologoumene anoia), come aveva detto Alcibiade nella sua autocritica di fronte all'assemblea de­ gli Spartani (Th. VI 89). Alla crisi della legittimazione democratica e maggioritaria del potere corrisponde quella della sua tradizionale rivale, ba­ sata sulla nascita e la ricchezza. Il fallimento nel sangue e nella 2° Cfr.

in questo senso G. KLOSKO, op. cit. (n.

6), pp.

175-79.

INTRODUZIONE AL UBRO V

27

vergogna dell'estremo tentativo di Crizia di ristabilire con la violenza il potere degli aristoi ne segnala in modo fin troppo eloquente l'infondatezza, l'arbitrarietà e oltretutto la fragilità. Ma l'una e l'altra crisi sembrano aprire la strada per un riempi­ mento del vuoto di potere da parte della sua forma più nuda e brutale, la tirannide: se a quella di Pisistrato poteva venir fatto risalire l'inizio della crisi di sovranità che aveva tormentato il V secolo ateniese, lo spettro della tirannide veniva nuovamente evocato, sulla scena dei dialoghi, da personaggi come Callide e Trasimaco e, su quella storica, da figure sinistre come Archelao in Macedonia, ripetutamente evocata nel Gorgia. La via maestra per ricomporre la crisi veniva indicata da Platone in una nuova alleanza fra sapere e potere:21 un'alleanza che, bene a monte della vicenda politica siracusana e delle stes­ se esperienze pitagoriche, poteva forse ritrovare le sue figure archegetiche in Codro e Solone, l'ultimo re e il protolegislatore di Atene, entrambi capostipiti rivendicati alla propria genealo­ gia dalla famiglia di Platone (D.L. III 1). Dopo Socrate, questo patto poteva venire configurato come una ricomposizione fra virtù e scienza, fra sapere, etica e politica: alla condizione, tut­ tavia, di non restare al livello dell'esortazione e dell'enuncia­ zione di principio.22 La legittimazione del nuovo potere di giustizia, destinato a chiudere la crisi di sovranità, richiedeva un ordine fondaziona­ le solido, incontrovertibile, universalizzabile; un ordine capace di superare tanto l'arbitrio del desiderio soggettivo e di mag­ gioranza, la cui ideologia si era espressa nel relativismo prota­ goreo, quanto quello di ceto e di censo, che, come Callide si era incaricato di mostrare nel Gorgia, era anch'esso strumento di desideri insaziabili. 21

Sul carattere «illuministico» di questa «nuova alleanza del sapere e

della politica», cfr. M.P. EDMOND, op. cit. (n. 4), p. 66 (si tratta di un libro di ispirazione straussiana, che mira a scagionare Platone dal sospetto di essere stato «une sorte de Poi Pot pythagoricien», p. 97). 22

E neppure su quello della mera confutazione antilogica: cfr. qui in pro·

posito [F].

28

PLATONE, LA REPUBBLICA

Per questa nuova fondazione occorreva, al di qua di Socra­ te, mobilitare gli strumenti dell'epistemologia e dell'ontologia.23 Occorreva in altri termini costruire una scienza che si presen­ tasse come la descrizione vera, rigorosa e universalmente valida di un livello immutabile dell'essere i cui oggetti ideali erano in primo luogo costituiti da norme. La natura normativa degli og­ getti di questa scienza la rendeva immediatamente capace di un'efficacia prescrittiva: una scienza delle norme poteva così di­ ventare un sapere del comando, un sapere costruttivo e demiur­ gico in grado di imporre, al livello disordinato e turbolento della realtà storico-umana, quelle regole d'ordine che esso veni­ va riconoscendo nell'ambito dell'essere noetico-ideale. n transito fra descrizione e prescrizione, garantito dalla na­ tura normativa degli enti ideali in quanto valori, consente in li­ nea di principio a Platone di ricostruire il nesso fra scienza e po­ tere, fra verità ed efficacia, su cui si fonda il suo progetto di dia­ lettica, e che trova la sua compiuta espressione politica nel di­ segno del governo filosofico.24 4. L'ambito onta-epistemologico Questo rapporto è fondato sul triangolo etica-epistemolo­ gia-ontologia, che è nitidamente tracciato nel libro V e che co­ stituisce senza dubbio uno dei nuclei tematici della filosofia pla­ tonica. Nel contesto della Repubblica, esso viene generato a par21

Resta classico in questo senso il saggio di H. CiiERNISS, The philosophica/

Economy o/ the Theory o/ Ideas ( 1936), ora in Selected Papers l..eiden

1977, pp. 121-32. Sul problema della fondazione teorica della questione etico-politica ,

della giustizia cfr. anche O. HOFFE, Ein/iihrung in Platons Politeia, in Io. (Hrgb.), Platon. Politeia, Berlin 1997 (specialmente p. 9). 2�

Tutto ciò sembra piuttosto importante in Platone, pace J. ANNAS,la

quale ritiene, senza ulteriori spiegazioni, che «even the dullest student in the class can see what is wrong with the idea that the philosophers should be kings» (The inner City: Ethics without Politics in the Repub/ic, in P/atonie Ethics,

0/J and New, lthaca-London 1999, pp. 72-95, citaz. a p. 82, n. 25). In

effetti, Platone dedica molte pagine dei libri VI e VII per tentare di spiegare

la validità della proposta anche ai «dullest» Ateniesi.

INTRODUZIONE AL LIBRO V

29

tire dal vertice etico-politico: il ruolo centrale nell'antologia­ che ne risulta così qualificata come un'antologia normativa- è giocato da idee-valori, come kalon e dikaion (476a, 479e), fino a culminare, nel libro VI, con il proto-valore, l'idea del bene. Ma la costruzione del triangolo pone in primo piano proble­ mi complessi di rapporti fra livelli di conoscenza e livelli di real­ tà, che generano, pur all'interno della destinazione etico-politi­ ca, una dinamica teorica autonoma di rilevante importanza. La prima mossa di Platone consiste, com'è consueto nel suo stile di pensiero, nella costruzione di un'opposizione polare2' (non diversamente l'analisi dell'anima nel libro IV partiva dal­ l'opposizione fra una parte razionale ed una irrazionale) . In ambito antologico, la coppia è qui formata da un livello dell'es­ sere perfettamente compiuto (477a3: tÒ Jtavn:Àiilç ov), il che significa anche univoco e non equivocabile (477a7: EÌÀucptviì>ç); ad esso si oppone il suo contrario, l'assoluto non-essere (477a2:

J.LiJ ov; 477a7: taU J.LTl&xJ.Lft ovtoç). Il termine «essere» presenta qui chiaramente due valori che tendono parzialmente a sovrapporsi: quello esistenziale (esistere/non esistere), e quello predicativo, prevalente ma non esclusivo. Nel primo senso, prevale il carattere di eternità e immutabilità dell'essere compiuto, cioè la sua estraneità alla variabilità temporale propria di altri livelli di esistenza; nel secondo, quello di auto-identità, di stabilità e costanza delle proprietà che ne sono predicabili (cfr. qui m). La seconda mossa platonica consiste nell'assegnare ai due livelli d'essere così identificati due distinti modi di conoscenza. L'ambito dell'essere perfetto e univoco è oggetto di una co­ noscenza altrettanto compiuta (477a3: navtEÀ.éi)ç yvcootov), cioè della gnosis (477a9), un termine di memoria parmenidea che Pla­ tone sostituisce presto con il più "moderno" episteme (477bl). n

Su questa costante teorica del pensiero di Platone cfr. H. THESLEFF,

Studies in Plato's Two-Level Mode/, «Commentationes Humanarum Littera· rum», 113 (1999). Thesleff sottovaluta però l'altrettanto importante esigenza platonica di individuare elementi Mterzi", di fondazione o mediazione. Sul concetto di metaxy cfr. qui n. 125 alla traduzione.

PLATONE, LA REPUBBUCA

30

Va notato che episteme acquisisce per la prima volta. nel contesto della Repubblica e non solo in esso, proprio grazie

a

questa connessione con un livello ontologicamente primario il .

valore forte di

un

sapere immutabilmente e stabilmente

vero.

ben al di là del significato di conoscenza dotata di regole pro­ cedurali valide, quindi prossima al concetto di techne, che in precedenza era stato assegnato a questo termine.26 A gnosis/episteme si contrappone polarmente agnoi4 (477 a9. bl), la totale assenza di conoscenza che corrisponde al livello contrassegnato dall'assenza di essere, vuoto, privo di detenni­ nazioni e perciò non suscettibile di conoscenza (477a4: 1tcXv't'fl

èiyvcootov). La coppia polare fin qui prodotta appare però chiusa e po­ vera di sviluppi teorici. Se l'ambito dell'esser conoscibile epi­ stemico si articola in oggetti del tipo aùtò to («il bello, il giusto in sé»), che Platone immediatamente ridefinisce come eide (476a5) o ideai (479al), il suo contrario onto-epistemologico non può presentare alcun contenuto teoricamente significati­ vo. E in effetti, la polarità è introdotta soprattutto allo scopo di generare un terzo livello, una figura di mediazione (metaxy), questa sl teoricamente rilevante. La modalità della sua costru­ zione appare tuttavia diversa rispetto alla dinamica mediante la quale l'essere generava l'ambito del gnoston e il non-essere quello dell'agnoston. In questo primo caso, il vertice ontologi­ co determinava quello epistemologico: l'esistenza di un certo 26

Episteme è termine assente o irrilevante nella filosofia presocratica.

Con il valore di competenza tecnica", abilità", esso appartiene al linguaggio •



il (Loc. Hom. 46.1). Ancora in Platone, le epistemai nel Menone

comune (cfr. per esempio S. Ph. v. 1057. TH. I 121.4); in lppocrate designa sapere medico

si differenziano da alethes o orthe doxa solo per la loro stabilità (monimoz) do­ vuta alla capacità di stabilire nessi (desmoz) di tipo causale (95a-d). E nella stessa Repubblica, prima del libro V, epistemt• mantiene il valore di sapere pro­ cedurale, non diverso da techne (cfr. ad esempio 438d9).

È solo la partizione

ontologica dei rispettivi oggetti, operata nel libro V, a distinguere nettamente episteme da doxa (per un riflesso in campo medico cfr. il tardo scritto "ippo­ cratico" Legge, 4). Per la parallela contrapposizione episteme-lechne cfr. qui commento al libro l,

[F].

INTRODUZIONE AL LIBRO V

31

tipo di oggetti era cioè la condizione di possibilità per la corri­ spondente forma di conoscenza (anche se implicitamente re­ stava aperta la possibilità di una lettura del rapporto a partire dal vertice epistemologico: l'esistenza di un sapere certo, vero e immutabile implicava quello di oggetti dotati delle proprietà ontologiche che ne rendessero validi gli enunciati). La produzione del metaxy ha invece esplicitamente luogo a partire dal vertice epistemologico. Se esiste una forma di cono­ scenza intermedia fra episteme e agnoia, l'oggetto cui essa si riferisce dovrà avere uno statuto parimenti intermedio fra esse­ re e non-essere (477a-b). Ma tale forma esiste: si tratta della capacità di formulare opinioni (doxa), che non possiedono la stabilità e la verità della scienza ma hanno tuttavia, a differenza di agnoill, un contenuto conoscitivo positivo e definibile (477b). Poiché ogni diversa capacità conoscitiva è relativa (ept) a un suo specifico livello di realtà, l'esistenza di doxa è prova della parallela esistenza di un livello di realtà, defmibile a partire da essa come doxaston (478a-b). Cosi prodotto epistemologica­ mente, questo oggetto è suscettibile di venire ontologicamente definito come intermedio fra essere e non-essere (478d-e): il che significa, da un lato, che partecipa dell'essere in quanto esiste, ma del non-essere in quanto è strutturato dalla mutevo­ lezza temporale propria dei processi della genesis; dall'altro, che esso non gode dell'auto-identità degli enti ideali, ma è pas­ sibile di predicazioni relative e contraddittorie (bello/brutto, giusto/ingiusto, 479a-c}. Benché i rapporti fra il vertice ontologico e quello episte­ mologico del triangolo siano, come si è visto, leggibili nei due sensi, l'argomentazione fin qui analizzata mostra chiaramente che per Platone è in ultima istanza la natura ontologica dell'og­ getto a determinare lo statuto epistemologico della relativa forma di conoscenza: anche a partire da quest'ultima, il carat­ tere di verità, stabilità, universalità dei suoi enunciati dipende dalle rispettive proprietà degli oggetti su cui essi vertono (la differenza fra geometria e medicina, astronomia e politica non consiste cioè, primariamente, nel grado di rigore delle rispetti-

32

PLATONE, LA REPUBBLICA

ve metodologie, perché queste dipendono a loro volta dall'in­ varianza del comportamento di enti noetici come i triangoli e gli astri rispetto alla strutturale instabilità delle condizioni cor­ poree e alla relatività delle condotte umane).27 E tuttavia, il vertice etico-politico che è generativo del triangolo della Re­ pubblica imprime all'intero discorso un orientamento fondati­ vo invece che oppositivo o alternativo. C'è, nella Repubblica come nel Pedone (cfr. 78c-d), il riferi­ mento ad un piano di enti eidetici, dotati di esistenza oggettiva e autonoma, che costituiscono unità invariabili e auto-identi­ che di significato (in questo senso Platone usa a più riprese, Come in 479e6-7, la formula clE:Ì Katà taÙtà OOoaUt,n cui corrisponde una concezione dell'anima «embodied» e non trascendente. Ma è indubbio che i materiali teorici provenienti da quei dialoghi erano fortemente contras­ segnati da una incandescente visione dei "due mondi" come opposti e alternativi - termini di una scelta decisiva anche a livello etico-esistenziale- e non si lasciavano quindi facilmente riassorbire all'interno del nuovo progetto di ricomposizione fra anima e corpo, eterno e temporale, filosofia e politica. Lo stesso si può dire di una più remota, ma altrettanto importante tradizione che Platone riattiva nella Repubblica. Si tratta dell'e­ redità parmenidea, il cui sistema di opposizioni polari (esse­ re/non essere, gnosisldoxa, sapienti/mortali), e la cui fonda­ mentale connessione fra modi di conoscenza e livelli di realtà strutturano il quadro teorico da cui inizia il discorso platonico nella Repubblica. Questo quadro viene tuttavia interpretato da Platone - o, come è più probabile, intenzionalmente rettifica­ to'4- in due direzioni di decisiva importanza. 1996, p. 361. 27), pp. 33, 40 sg., ritiene che il modello tri­

" C. H. KAHN, Plato and the Socralic Dia/ogue, Cambridge '4

J.A. PALMER, op. cii. (n.

partito dell'essere e della conoscenza proposto in Resp. V corrisponda all'in­ terpretazione che Platone dava del pensiero di Parmenide. Palmer ritiene inoltre (spingendosi oltre le sue stesse premesse di metodo) che questa inter­ pretazione sia sostanzialmente fedele al testo di DKB6. Ritengo più probabile che Platone sia partito dalla situazione teorica parmenidea (corrispondenza tra forme di conoscenza e livelli di realtà), ma ne abbia profondamente altera­ ta la struttura (pluralizzando il livello dell'essere, per assegnargli un ruolo fondazionale e non censorio rispetto alla pluralità di enunciati epistemici, at­ tribuendogli inoltre un contenuto noetico-eidetico e infine assegnando un livello di esistenza intermedia agli oggetti di doxa). Non è naturalmente qui possibile affrontare la questione dd numero delle Mvie" di Parmenide (una. due o tre: mi limito a rinviare in proposito alle ricche analisi di N.L. CORDE­ RO, Les deux chemins de Parménide, Paris-Bruxelles

1984), né quella della na­

tura dell'essere (logico-veritativa o fisico-cosmologica, secondo un'interpreta­

G. CASERTANO, Parmenide, il metodo la scienza l'e­ 1989, e ora a Y. LAFRANCE, Le sujel du Poème de Parménidt•: l'univers?, «Eienchos», XX (1999) pp. 265-308). Per echi inequivo-

zione per la quale rinvio a spen"enza, Napoli l'étre ou

INTRODUZIONE AL LIBRO V

37

La prima, e più ovvia, consiste nella pluralizzazione dello on parmenideo, che diventa non più una realtà unitaria ma un livello o ambito ontologico popolato da una molteplicità di en­ ti ideali." Solo cosi il piano dell'essere poteva assolvere alla funzione di fondazione, valutazione e orientamento di una cor­ rispondente pluralità di enunciazioni epistemiche ed etiche, sbloccando la contrapposizione tra l'asserzione di una verità tendenzialmente tautolo�ica e il discorso errante e fallace dei . «Non è facile, felice amico, dissi io, trattarne compiutamen­ te. Questo tema è foriero di molta incredulità, ancor più di quelli che abbiamo discusso in precedenza. Da un lato, si dubi-

[d]

terà che si parli di cose possibili, dall'altro- anche ammetten­ do che lo siano - si metterà inoltre in dubbio che esse siano davvero le migliori. [A] È per questo che c'è una certa esitazio­ ne a toccare l'argomento: non vorrei che il discorso sembri solo un pio desiderio, 12 mio caro compagno».

9

Per Glaucone, la riflessione etico-politica è degna di occupare l'intera

vita. Viceversa, nd libro VI, Socrate rimprovererà ad Adimanto di aver consi­ derato prematuramente conclusa in giusta misura la discussione sull'educa­ zione alle virtù, senza aver compiuto il più lungo percorso teorico che coin­ volge l'idea dd bene. 10

La Repubblica non dice mai a che età debba iniziare la paideia (in Leg.

Vll 794c essa è posta ai sei anni). D periodo è considerato "faticoso" dal pun­ to di vista delle tradizionali cure materne, ma esso risulterà assai leggero per le donne dei phylakes che le ddegano ad altre figure di nutrici (460d), come dd resto usavano fare le ricche signore ateniesi, sia pure in modo privato e non programmato dalla polis. 11

AuiL'n si riferisce, come intende Sartori, non a trophe ma a kolnonla, da

cui dipende il genitivo trophes in 450c2 (diversamente Chambry). 12

Per euche cfr. qui [A]. Il termine vale «VOtO», «preghiera» ed è spesso

contrapposto in Platone alla serietà razionale dd discorso (cfr. Leg. III 688b, V 736d, VIII 84lc; Soph. 249d). Nella Politica di Aristotde, euche ha il valo­ re più positivo di «aspirazione» (Il l 1260b29), che non deve tuttavia con­ durre, come accade in Platone, a ipotizzare l'impossibile, adynaton (Il 6 1265a17).

LIBRO V

43

«Non esitare affatto, disse lui. I tuoi ascoltatori non sono né irragionevoli né increduli né ostili». B E io dissi: «< uomo eccellente, parli perché vuoi cercare di

farmi coraggio?». «Certo», disse. «Però ottieni tutto il contrario, dissi io. Se fossi convinto di possedere una solida conoscenza intorno a ciò che sto per dire, l'incoraggiamento andrebbe bene: tra amici intelligenti, chi

[e]

conosce la verità può ben parlare, con sicurezza e fiducia, delle cose più importanti e più care. Ma costruire l'argomentazione nel mezzo di una condizione di dubbio e di ricerca,14 proprio

[451a]

come faccio io, è temibile e rischioso: il timore non è di incorrere nel ridicolo (questo sarebbe davvero infantile), u ma di mancare la presa sulla verità, e di precipitare non da solo, ma trascinando con me anche gli amici, proprio sulle cose in cui meno si dovrebbe cadere in errore. Mi inginocchio davanti ad Adrasteia, 16 Glaucone, in vista

di quello che sto per dire. Suppongo in effetti che sia minor colpa uccidere involontariamente qualcuno, che ingannarlo a proposito delle istituzioni belle, buone e giuste. Questo pericou

Senza nulla concedere in termini di contenuti, questa risposta di Glau­

cone apre lo spazio di possibilità dd discorso nd senso di una disponibilità psicologica che è ribadita da Socrate in 450d10. 14

Il dubbio di Socrate (apistounta), che contrappone la sua ricerca al

possesso di una verità precostituita

(t. «Si». «Dunque anche alle donne bisogna impartire entrambe queste tecniche, nonché la preparazione relativa alla guerra, ed esse vanno utilizzate con gli stessi criteri». 20

Non bisogna intendere che «alle donne» vada attribuita una trophe si·

milc agli uomini (Chambry, Sanori), perché qui non compare il riferimento alle donne;

essa

deve risultare per tutti i phylakes simile a quella dci cani da

guardia (Shorcy). 21 L' inferenza dalla metafora canina all'attribuzione delle stesse funzioni a uomini e donne è davvero brusca. Interessante l'obiezione di Aristotele in Poi. Il

5 1264b4 sgg.: è assurdo usare per l'estensione alle donne dci compiti

maschili la metafora degli animali, perché le loro femmine non hanno alcuna incombenza nella oikonomia. È proprio questo ruolo nell'oikos che Platone toglierà alle donne per intcgrarlc nelle funzioni dei phylakes.

46

PLATONE, LA REPUBBLICA

«Questo sembra coerente con ciò che sostieni», disse. «Forse però, dissi, molte delle cose che stiamo dicendo tra· sgrediscono il costume tradizionale fino al punto che potreb­ bero sembrare ridicole, se venissero realizzate secondo i nostri discorsi».22 «Proprio così», disse. «Che cosa ci vedi, chiesi io, di più ridicolo? ma sarà, è chia­ ro, che le donne si esercitino nude nelle palestre insieme con [b]

gli uomini - non solo le giovani, ma persino le anziane, alla ma­ niera di quei vecchi nei ginnasi, che amano ancora esercitarsi per quanto siano grinzosi e sgradevoli a vedersi [Bb],._ «Sì, per Zeus, disse: risulterebbe ridicolo, almeno per l'uso attuale». «Però, dissi io, dal momento che ci siamo decisi a parlare, non si devono temere i lazzi degli uomini di spirito,23 con tutto

[c]

quel che potrebbero dire contro un tale mutamento relativo ai ginnasi, alla musica e non ultimo all'uso delle anni e al cavalca­ re cavalli>>. «Dici bene», disse. «Ma dal momento che abbiamo cominciato a parlare, biso­ gna procedere verso il punto scabroso di questa legge, non sen­ za aver pregato gli uomini di spirito di non fare il loro mestie­ re24 e di restare seri: ricordiamo che non è passato molto tempo "(a(l)ç 6fl . Jtapà tò Eeoç yeÀ.o\a civ cpaivo1to JtoÀ.À.à !tEpÌ. tà vuv ì..E'yOjJ.EVa, El !tpc:içua\ n À.ÉyEta\. Per la minaccia del ridicolo che incombe sulle violazioni dell'ethos tradizionale proposte nel libro V, dr. qui n. 15. Cir­ ca il rapporto lexis-praxis, qui chiaramente indicato, cfr. [A], S 3, e qui n. 108. 22

21

..

Charientes: è difficile qui non vedere un riferimento ad Aristofane,

confermato dal komodein di 452d1. Cfr. qui in proposito Introduzione,

S 2, [Bb] e [D]; sul problema del rapporto con Aristofane dr. anche AnAM, pp. 345-55, e CENTRONE ad loc. 24 Mn tà aùtéiìv JtpUttE\V: non si può non vedere in questa raccomanda­ zione, che invita a non rispettare la maggiore regola di giustizia, la oikeiopra· gia, uno scherzo autoironico di Platone, perfettamente a suo luogo nella pole­ mica contro i comici.

47

LIBRO V

da quando ai Greci sembrava brutto e ridicolo- come del resto ancor oggi a molti barbari - che degli uomini si facessero vedere nudi, e quando prima i Cretesi, poi i Lacedemoni iniziarono

[d]

la pratica della ginnastica,2' tutto questo poteva bene venir trovato comico dai raffinati26 di allora. O non credi?». «Certo». «Ma quando, penso, apparve che per chi si esercitava era meglio spogliarsi invece che coprire tutte queste parti, allora anche quel che per

gli occhi era ridicolo svanì di fronte a ciò

che si rivelava migliore nel ragionamento; e questo mostrò che è uomo vano colui che ritiene ridicolo qualcosa che non sia il

male, e chi cerca di far ridere avendo di mira come ridicolo un qualche spettacolo che non sia quello della dissennatezza e

[e]

della malvagità, stabilisce poi seriamente, per la sua concezione del bello, un punto di riferimento diverso da quello del bene». «È assolutamente così», disse. «Non si dovrà allora in primo luogo, per tutto questo, rag­ giungere un accordo sul fatto se sia possibile27 o no? e aprire un dibattito fra chi voglia discutere, scherzosamente o sul se2' La vergogna di mostrarsi nudi dci barbari è attestata in HoT. I 10.3;

per l'inizio di questa pratica presso gli Spartani dr. TH. I 6.5. In Leg. I 636b sgg. Platone avrebbe addebitato all'uso della nudità nei ginnasi presso i Cre· tesi c gli Spartani le origini del vizio, qui considerato contronatura, della pc· derastia. Sulla questione della nudità cfr. qui [Bb]. 26 Aruioi: il riferimento polemico è costituito dagli intellettuali •urbani"

legati ad un'estetica del buon gusto, che disgiungono il •bello» dal •bene» (cioè da quanto è razionalmente utile per la comunità). Questi intellettuali che separano l'estetica dall'etica, come risulta dalla battuta seguente, e quindi prediligono il dileggio comico, prefigurano per certi aspetti gli «amanti degli spettacoli» che Glaucone menzionerà in 475d; la necessità di distinguerli dai veri "ft.losofi" introduce alla discussione teorica dell'ultima parte del libro (cfr. n. 117). 27

La discussione inizia qui dalla possibilità

(dynata) della proposta, anzi·

ché come di consueto sulla sua desiderabilità, perché la prima risulta agcvol· mente deducibile dalla condizione "naturale· del sesso femminile. La conclu­ sione dell'argomento, e l'enunciazione di desiderabilità (arirta) è in 456c.

[453a]

48

PLATONE, LA REPUBBLICA

rio, il problema se la natura umana femminile sia in grado di condividere tutti i compiti del genere maschile, o nessuno di essi, o sia adatta ad alcuni e ad altri no, e in tal caso a quale di questi due gruppi appartengono quelli relativi alla guerra? Co­ minciando così bene, non è probabile che si possa concludere altrettanto bene?».18 «Molto bene», disse. «Vuoi allora, dissi io, che discutiamo fra di noi, per conto [b]

degli altri, in modo che le posizioni della tesi opposta non ven­ gano espugnate perché prive di difensori?». «Niente lo impedisce», disse. «Diciamo dunque per conto loro: "Socrate e Glaucone, non c'è nessun bisogno che altri vi confutino: voi stessi infatti, all'inizio del processo che ha condotto alla fondazione della città, avete convenuto che ogni individuo deve svolgere la sola funzione che gli è propria secondo natura"». «Ne abbiamo convenuto, penso: come no?». «"È dunque possibile affermare che per natura la donna non differisce, e di molto, dall'uomo?"». «E come potrebbe non esservi differenza?». «"E dunque non conviene attribuire all'uno e all'altra

[c]

una funzione diversa, quella che si accorda con le rispettive nature?"». «Certo». «"Com'è possibile allora che adesso non siate in errore, contraddicendo voi stessi, quando venite a sostenere che gli uomini e le donne devono fare le stesse cose, pur avendo una natura nettamente distinta?" Avrai tu, o uomo ammirevole, una qualche difesa contro queste obiezioni?». «Così all'improwiso, disse, non è proprio facile: ma ti pre­ gherò, anzi ti prego, di farti interprete anche del nostro discor­ so, quale che possa essere». 2H

Per una possibile origine del detto. Shorey indica P1. P. I 33-35.

LIBRO V

49

«Sono cose queste, dissi, Glaucone, e ce n'è molte altre di simili, che io prevedevo da tempo, e di qui venivano il mio

[d]

timore e la mia esitazione nel toccare questa legge relativa al possesso e all'allevamento di donne e figli». «No, per Zeus, disse: non sembra propryo una cosa da nien­ te». «Non lo è infatti, dissi. Ma ecco come stanno le cose: che uno cada in una piccola piscina oppure in mezzo all'alto mare, dovrà comunque mettersi a nuotare». «Certo». «E non dobbiamo allora nuotare anche noi e cercare di sal­ varci dalla discussione, sperando o in un delfmo che venga a prenderei in groppa29 o in qualche altra miracolosa via di sal­ vezza?». «Sembra», disse.

[e]

«Vedi dunque, dissi io, se riusciamo a trovare una qualche via d'uscita. Siamo d'accordo che una natura diversa debba occuparsi di cose diverse, e che diversa è quella della donna e dell'uomo. Però ora diciamo che nature diverse debbano occuparsi delle stesse cose. È questo di cui ci accusate?». «Esattamente». «Com'è nobile, dissi io, Glaucone, la forza della tecnica antilogica! [C]». «Perché mai?». «Perché, dissi, mi sembra che molti vi cadano anche invo­ lontariamente, pensando di praticare non l'eristica ma la dia­ lettica, a causa della loro incapacità di indagare l'argomento dividendolo secondo i suoi aspetti specifici; invece inseguono la contraddizione soltanto nominale del discorso, praticando cosl fra loro l'eristica e non la discussione dialettica».30 29

Per la leggenda dd delfino salvatore, dr. HDT. I 23, 24.6.

10 Distinguendo antilogia, eristica e dialettica Platone usa certamente una

terminologia tecnica già in via di consolidamento. L'eristica sfrutta la polise­ mia omonimica dd nome (onoma), invece di analizzare il problema dividen-

[454a]

50

PLATONE, LA REPUBBLICA

«È questo in effetti, disse, che capita a molti; ma come può concernere anche noi in questo momento?». [b]

«Moltissimo, dissi io: per lo meno corriamo il rischio di trovarci involontariamente coinvolti in una discussione antilogica». «Come?». «Che nature non uguali non debbano dedicarsi alle stesse occupazioni, lo sosteniamo con molto coraggio eristico, attac­ candoci al nome, ma non abbiamo affatto indagato quale aspetto specifico relativo alla differenza e all'identità di natura, e in quale ambito di pertinenza, avessimo distinto allorché as­ segnavamo occupazioni diverse a una natura diversa, e uguali a una uguale». «In effetti, disse, non l'abbiamo indagato».

[c]

«Eppure allora, dissi, tocca a noi, a quanto pare, di chiedere a noi stessi se sono identiche od opposte le nature dei calvi e di chi ha i capelli, e una volta convenuto che siano opposte, se i calvi fanno i calzolai, negheremo questo mestiere a quelli coi capelli, o viceversa se lo fanno questi, non lo permetteremo agli altri». «Sarebbe proprio ridicolo», disse. «Ma da che punto di vista, dissi io, è ridicolo, se non per il fatto che prima non abbiamo posto l'identità e la differenza di

[d]

natura in senso assoluto, ma osservavamo solo quell'aspetto della differenziazione e della somiglianza che è pertinente all'i­ dentità di occupazioni? Per esempio, noi dicevamo che un uomo e una donna la cui anima è portata alla medicina31 hanno la stessa natura: non credi?». dolo nei suoi eid�. L'espressione JCat'd&j OtatpOU11EVOl rinvia chiaramente alla discussione metodologica sulla dialettica diairetica sviluppata in Phaedr. 265d sgg. Per altre contrapposizioni fra discussione eristica e dialettica

(EptOI/OtaÀ.ÉJCtq>) cfr. Meno 75c-d, Phil. 17a. Cfr., in proposito, per le origini so/isti (1981 ) , trad. it. Bologna 1988, cap. V, e qui [C]. Jt Seguo il testo di Burnet (con la sedusione di onta), con il quale è certa­ mente compatibile la traduzione di Shorey che condivido. U testo seguito da sofistiche di questa problematica, G.B. KERFERD, I

UBROV

51

«lo sÌ>> . «Ma un medico e un architetto, diverse?». «Assolutamente». «Dunque, io dissi, anche a proposito dd genere maschile e femminile, se apparissero dotati di capacità diverse in rapporto a una qualche tecnica o a un'altra occupazione, noi diremmo che queste vanno assegnate all'uno o all'altro dei due; ma se ri­ sultasse che essi differiscono per quest'unica cosa- che la fem-

[e]

mina partorisce, il maschio monta- non potremo affatto sostenere che è stato dimostrato che, in rapporto a ciò che noi stiamo dicendo, la donna è diversa dall'uomo; anzi, continueremo a pensare che i nostri difensori e le loro donne debbano dedicarsi alle stesse occupazioni>>. «E correttamente», disse. «Dopo di che non inviteremo il nostro contraddittore a insegnarci precisamente questo - in rapporto a quale tecnica o a quale occupazione connesse al buon ordine della città, la natura della donna e dell'uomo non sarebbero uguali ma diverse?».32 «Sarebbe giusto». «Forse però, proprio come tu dicevi poco fa, anche un al­ tro potrebbe osservare che non è facile improvvisare una rispo­ sta adeguata, ma che non sarebbe poi così arduo dopo un'at­ tenta riflessione». «Potrebbe ben dirlo». Adam (iatrikon kai iatrikon) e quello suggerito da Galeno (iatrikon kai illtrik�n psychen echonta) eliminano entrambi il riferimento alla figura femmi­ nile di medico, e costituiscono mere tautologie (un medico e un medico, op­ pure un medico e chi ha l'anima medica, hanno la stessa narura). Per il carat­ tere •ideologico" di molte correzioni galeniche al testo di Platone cfr. J. DILLON, Tampering with the Timaeus. Ideologica/ Emendations in Plato, with

Special Re/erence to the T imaeus, «American Journal of Philology», CX (1989) pp. 50-72. Secondo la traduzione proposta, il riferimento (e/egomen) è ai cani da guardia, in cui maschi e femmine presentano per così dire un'anima •guardiana" (451d). Per la possibilità di donne-medico cfr. 455e6. u

Per tutta la questione dr. qui [Ba].

[455a]

52

PLATONE, LA REPUBBLICA

«Vuoi allora che invitiamo colui che contraddice questa [b]

tesi a seguirei nel nostro ragionamento, nel caso che riusciamo a mostrare che nell'ambito della gestione della città non c'è alcuna occupazione peculiare della donna?». «Certo». «Via dunque, gli diremo, rispondi: quando dicevi che qual­ cuno è naturalmente ben dotato per una certa cosa, qualcun al­ tro no, non intendevi questo nel senso che l'uno apprende fa­ cilmente, l'altro a fatica? e che il primo dopo un breve insegna­ mento è in grado di scoprire molte più cose di quelle che ha imparato, il secondo invece, benché si sia sobbarcato molto

[c]

studio e molti esercizi, non riesce neppure a conservare quello che ha imparato? e che nell'uno le doti del corpo servono egre­ giamente l'intelligenza, mentre nell'altro la contrastano? Ci sono forse altri tratti se non questi, sulla base dei quali distingui chi è naturalmente ben dotato per ciascuna cosa e chi no?». «Nessuno, disse lui, potrà indicame altri». «Conosci dunque un ambito delle occupazioni umane in cui il genere maschile non eccella sotto tutti questi punti di vista rispetto a quello femminile? O la tireremo in lungo par­ lando della tessitura e della cura di ciambelle e bolliti, nei quali

[d]

campi il genere femminile sembra valere qualcosa, e dove anzi si renderebbe del tutto ridicolo se venisse superato?». «Dici il vero, rispose: l'un genere è di molto superato dal­ l'altro per così dire in ogni cosa. Benché molte donne siano migliori di molti uomini in molti campi, nell'insieme le cose stanno come tu dici». «Non vi è dunque, amico mio, nell'ambito della gestione della città alcuna occupazione che sia propria della donna per­ ché è una donna, né dell'uomo perché è un uomo, ma poiché le doti naturali sono parimenti disseminate in entrambe queste forme di vita, secondo naturan la donna partecipa a tutte le tivo

" Kata physin ha qui un valore nonnativo fone, come conferma l'indica­ mt'lt·chei che segue. Come è proprio di molte fonne di pensiero rivoluzio-

53

LIBRO V

occupazioni, e a tutte l'uomo, ma in tutte la donna è più debo-

[e]

le dell'uomo». «Certo». «Forse che allora assegneremo tutti i compiti agli uomini, e nessuno alle donne?». «E come potremmo?». «Penso invece che diremo che una donna può esser natu­ ralmente dotata per la medicina, un'altra no, una per la musica e un'altra priva di senso musicale». «Come no?». «E non ce ne sarà allora anche qualcuna dotata per la gin-

[456a]

nastica e per il combattimento, qualche altra imbelle e avversa alla ginnastica?». «Penso proprio di sÌ». «E allora? Amante'4 oppure nemica del sapere? collerica o

remissiva?». «C'è anche questo». «C'è dunque anche una donna atta alla difesa,3' un'altra no - non era questa la natura che abbiamo prescelta anche per

gli

uomini destinati alla difesa?». «Proprio questa». «Vi è dunque una stessa natura nella donna e nell'uomo che li rende adatti alla difesa della città, salvo che essa è più debole in un caso, più forte nell'altro». «Così pare». «E dunque andranno scelte donne di tale natura per vivere insieme con tali uomini e per condividere con loro la difesa nario, questo piano normativo viene contrapposto al costume vigente

(para lo �thos, 4�2a7), che a sua volta è contro natura (dr. 4�6c). � Philosophos ha qui ancora il valore debole dei libri II-IV (dr. commen­

to al libro Il, n. 93), ma ceno introduce alla valorizzazione della figura del filosofo sviluppata alla fine di questo libro.

"Phy/4kilu-. per il rappono fra carattere •filosofico" t�chne phylakik� IV 428d.

dr. II 3ne; per la

e doti di difensore

[b]

54

PLATONE, LA REPUBBLICA

della città, dal momento che sono in grado di farlo e a essi con­ generi per natura». «Certo». «E non bisogna assegnare gli stessi compiti a nature uguali?». «Gli stessi». «Per questo giro siamo dunque tornati a ciò che dicevamo in precedenza, e conveniamo che non è innaturale impartire alle donne dei difensori una preparazione musicale e ginnastica>>­ «Assolutamente». [c]

«La legislazione che proponevamo non è allora impossibile né un pio desiderio, proprio perché la legge era stabilita secon­ do natura; sono piuttosto le istituzioni attuali, opposte a quelle che proponiamo, a sembrare costituite contro natura». «Sembra». «E la nostra ricerca non verteva sulla possibilità e insieme sulla desiderabilità delle cose che venivamo dicendo?». «Proprio COSÌ». «E che siano possibili, questo lo si è convenuto?». «Sì». «Dopo di che, bisogna raggiungere un accordo sul fatto che siano anche le migliori».36 «Chiaro». «In vista della formazione di una donna guardiana, il no­ stro processo educativo delle donne non potrà dunque esser

[d]

diverso da quello degli uomini, tanto più che esso interviene sulle stesse doti naturali». «Non diverso». «Come la pensi su questo punto?». «Quale?». «Questo: tu supponi che alcuni uomini siano migliori, altri peggiori, o li ritieni tutti uguali?». «Niente affatto». 1"

Per il linguaggio di questo passo (possibile/migliore) cfr. qui [A).

55

LIBRO V

«Allora nella città che siamo venuti fondando, pensi che gli uomini migliori risultino i difensori che hanno ricevuto l'edu­ cazione di cui si è discusso, oppure i calzolai, educati nel loro mestiere?». «È una domanda ridicola», disse. «Capisco, dissi. E allora? questi non sono i migliori fra

[e]

tutti i cittadini?». «E di gran lunga». «Ma queste donne non saranno le migliori delle donne?». «Anche loro, disse, e di molto». «C'è qualcosa di meglio per la città che la formazione di donne e uomini per quanto è possibile perfetti?». «No, non c'è». «E questo risultato si otterrà grazie alla pratica di musica e ginnastica, nel modo che noi abbiamo discusso?».

[457 a]

«Come no?». «Non è dunque soltanto possibile, ma anche la migliore per la città la legislazione che abbiamo istituito». «È COSÌ». «Si spoglino dunque le donne dei difensori poiché indos­ seranno la virtù invece dei mantelli, e partecipino alla guerra e agli altri compiti di difesa della città, e non si occupino di nient'altro; ma in questo ambito alle donne vanno assegnati compiti più leggeri che agli uomini, per la debolezza del loro genere. Ma l'uomo che ride [D] delle donne nude, che si eser­ citano in vista del meglio, "cogliendo dalla sua sapienza il frutto acerbo" del ridicolo,37 non sa nulla, a quanto sembra, né di H

'Atù.fì

...

ooq�{ac; 6pbtoov 1Capxov è citazione da Pindaro, fr. 209 (qui la

polemica era contro i physiologot); sophia va mantenuto anche per la contrap· posizione a ouden oiden che segue, ma Platone aggiunge tou geloiou per adat· tare la citazione alla sua polemica contro i comici, e Aristofane in particolare (seguo nella traduzione l'interpretazione di SCHNAIDER cii. in AnAM p. 3�7). La conclusione della frase riprende la polemica contro l'estetica degli

di 4�2d-e (cfr. qui n. 26).

asteiot.

[b]

56

PLATONE, LA REPUBBUCA

ciò che deride né dd perché lo fa. Perché la cosa più bella che si possa e che sempre si potrà dire è questa: l'utile è bello,38 il nocivo brutto».

«È assolutamente cosÌ». «Possiamo dunque dire di esser sfuggiti a questo primo frangente - il discorso sulla legge rdativa alle donnel9 - come a [c]

un'ondata dalla quale non siamo stati dd tutto sommersi, pur stabilendo che i nostri guardiani e le nostre guardiane debbano attendere in comune a ogni occupazione; e che anzi il discorso ha ben mostrato, con una sua interna coerenza, di sostenere cose possibili e utili?». «Certo, disse, che non è un'onda da poco quella da cui sfuggi». «Tuttavia dirai, risposi io, che non era poi così grande, quan­ do avrai visto quella che vien dopo [EJ». «Parla dunque, e vediamo». «A questa, dissi io, e alle altre precedenti, consegue, a mio

parere, la legge che ora dirò». «Quale?». «Che tutte queste donne siano in comune a tutti questi [d]

uomini, ma che nessuna condivida con nessuno un'abitazione privata; che i figli siano a loro volta comuni, e che il genitore non conosca la sua prole né il figlio il genitore».40 18

Per il rapporto fra ophe/imon e ka/on, dr. Hi. ma. 296e; per quello fra

ophelimon e agathon, già accennato nell'lppia, dr. inoltre, in modo più defini­ tivo, VI 505a. "Gynaikeios nomos può anche valere, come segnala ADAM ad loc., la «canzone delle donne»; in ogni caso c'è

un

esplicito richiamo al «dramma

femminile» di 451c. �Merita di essere citato lo sdegnato commento di CHAMBRY ad /oc., che ben rappresenta lo scandalo tradizionale per questa proposta platonica: ..I'ex­

cuse de Platon pour cette monstrueuse aberration du communisme des fem­ mes et des enfants, c'est qu'il ne fut ni père ni époux; autrement, il n'aurait pas ainsi méconnu ce qui seui donne un but et un prix à la vie•. Neppure Aristotele era stato così drastico; dr. qui [Mb].

LIBRO V

57

«Questa ondata, disse, è ben più grande dell'altra - perché sia la possibilità sia l'utilità della legge lasciano increduli».41 «Non credo, dissi io, che almeno a proposito dell'utilità si possa mettere in dubbio che l'essere in comune donne e figli sia un bene grandissimo, supposto che sia possibile; penso invece che la discussione più grande nascerà probabilmente intorno alla possibilità o meno di questo». «Entrambi gli aspetti, disse lui, potrebbero ben venire di-

[e]

scussi, e molto». «Stai parlando, dissi io, di un complotto di discorsi, men­ tre io pensavo che sarei scampato almeno da uno dei due, se tu avessi riconosciuto l'utilità della legge, e che mi sarebbe ap­ punto restato solo il problema della possibilità o meno». «Ma non sei riuscito, disse lui, a fuggire inosservato, e allo­ ra devi dar conto di entrambi gli aspetti>>. «Devo scontame la pena, dissi io. Però fammi una grande

[458a]

grazia: concedimi una festa, alla maniera di quei pigri di mente che sono soliti banchettare con le loro fantasie quando passeggiano da soli. Costoro in effetti, prima di aver trovato in qual modo potrà realizzarsi qualcosa di ciò che desiderano, trascurano il problema per non ammalarsi a furia di deliberare intorno alla sua possibilità o impossibilità; ponendo come esistente quello che auspicano, passano senz'altro a disporre tutto il resto, e se la godono passando in rassegna tutto quel che faranno una volta che esso sia realizzato, rendendo ancora più pigra un'anima peraltro già pigra. Anch'io adesso sono preda della stessa mollezza, e desidero rinviare a più tardi42 l'indagine su 41

Glaucone oppone qui una comprensibile resistenza al carattere inaudi­

to della proposta di Socrate, opponendole quella che viene definita una logon

systasis (457el-2) che coinvolge tanto la sua possibilità quanto la sua deside­ rabilità. L'apistia suscitata da questa proposta è tale da far dimenticare a Glaucone la sua professione di «non incredulità» di 450d. 42 A differenza della proposta della parità femminile, la possibilità della

comunanza di donne e figli non può venire direttamente derivata dalla physis

[b]

58

PLATONE, LA REPUBBLICA

quelle cose in quanto possibili; adesso però, postele come pos­ sibili, esaminerò, se me lo concedi, come i governanti ne rego­ leranno l'attuazione, e mostrerò che, una volta messe in prati­ ca, nulla potrebbe essere più utile sia per la città sia per i difen­ sori. Questo cercherò in primo luogo di indagare insieme con te, e in seguito affronterò quegli altri problemi, sempre che tu lo conceda». «Certo che lo concedo, disse, e tu esamina». «Penso dunque, dissi io, che se i governanti saranno degni [c ]

di questo nome, e nello stesso modo le loro guardie,43 queste vorranno eseguire le disposizioni ricevute, e gli altri impartirle, in qualche caso obbedendo loro stessi alle leggi, in altri anche - quelli che avremo loro affidato - imitandone le intenzioni». «È probabile», disse. «Tu dunque, dissi io, il loro legislatore, come avevi scelto gli uomini, così anche selezionerai le donne cercando di asse­ gnare ai primi quelle di natura per quanto è possibile affme. E

[d]

loro, avendo in comune le case e i pasti, mentre nessuno pos­ siede privatamente nulla del genere, vivranno insieme, e me­ scolandosi, nei ginnasi e in ogni altro addestramento, per una necessità innata, penso, saranno portati a unirsi l'un l'altra. O non ti sembra che io stia parlando di una cosa necessaria?» «Non però di necessità geometriche, disse lui, ma erotiche, e c'è pericolo che esse siano più pungenti delle altre nel con­ vincere e nel trascinare la moltitudine del popolo».44

(qui

il riferimento ai cani di 466d funziona solo parzialmente, perché le cagne

comunque accudiscono i loro cuccioli); la condizione di possibilità dipende in verità da un mutamento dell'ordine politico. cioè dal governo dei filosofi (cfr. 473c sgg.). 0

Epikouroi vale qui propriamente «aiutanti», «collaboratori» (è meno

fone il senso militare che il termine aveva in III 414b,d: cfr. commento al li­ bro III, n. 140; e qui n. 70). 44

Tòv noì..ùv ì..toov: parodia del linguaggio tragico, come si conviene al v. 676 (o ltOÌ..Ùç Àaiòv oxÀoçl.

tono scherzoso del passo, che deriva da AR. Ra.

LffiROV

59

«Di gran lunga, dissi. Ma detto questo, Glaucone, che

[e]

regni il disordine nelle unioni reciproche o in qualsiasi altra azione, non sarebbe lecito in una città felice, e non lo permet­ teranno i governanti». «Non sarebbe giusto infatti», disse. «È chiaro di conseguenza che cercheremo di rendere le nozze per quanto è possibile sacre;"' e sacre saranno quelle più giovevoli». «Assolutamente». «Ma come dunque risulteranno le più giovevoli? Dimmelo tu

[459a]

questo, Glaucone, perché vedo la tua casa piena di cani da caccia e di nobili uccelli:46 e dunque, nel nome di Zeus, hai prestato una qualche attenzione ai loro accoppiamenti e alla figliazione?». «.76 «È del tutto necessario, disse, che se ne siano sbarazzati». «E neppure potrebbero esistere fra loro giusti motivi di intentare processi per violenze o maltrattamenti: non manche­ remo di dichiarare che è bello e giusto che i coetanei si difen­ dano dai loro pari di età, stabilendo l'obbligo di prendersi cura del proprio corpo».77 «Corretto», disse.

[ 465a]

«E questa legge, dissi io, ha anche questo di corretto: se qualcuno si adira contro un altro, e può sfogare direttamente la sua ira, è meno indotto a dilatare il conflitto». «Senz'altro». «Inoltre agli anziani sarà data disposizione di comandare e punire tutti i giovani». 78 «Chiaro». «Ed è chiaro inoltre che un giovane, a meno che lo ordini­ no i governanti, non tenterà con ogni probabilità di recare al­ cuna violenza a un anziano né di percuoterlo (e neppure, pen­

[b]

so, di fargli oltraggio in altro modo): bastano a impedirlo due guardiani, il timore e il rispetto- il rispetto che distoglie dal­ l'alzare le mani su chi potrebbe essere un genitore, il timore 76

Per la sparizione dei processi e dei reati contro la proprietà nella so·

cietà comunista delineata da Prassagora, cfr. AR. Ec. vv. 657-74. 77

Per l'autodifesa dei giovani, cfr. X. LAc. 4.6; per il soccorso ai vecchi

cfr. il passo delle Ecclesiazuse cit. a n. 58. 78 Per una analoga disposizione vigente a Sparta cfr. X. LAc. 2.10.

LIBRO V

73

che gli altri vengano in soccorso dell'offeso, come suoi possibi­ li figli, fratelli, padri>>. «Va proprio così», disse. «In generale, grazie alle leggi, gli uomini vivranno in pace tra loro?». «Molto in pace». .

79

Socrate riprende qui polemicamente l'intervento critico

di Adimanto

(che per riguardo non viene tuttavia menzionato per nome) in IV 419a. Gli onori pubblici tributati ai phylakes ne soddisfano la natura «fùotimica», e ne incrementano la felicità nella misura in cui si tratta di beni esterni che si ag­ giungono alla felicità interiore assicurata dalla vita giusta (dr. II 3.58a). Per

[A]. È interessante notare come la spazializzazione del testo scritto («qui-là») prevalga sulla temporalità del dialogo parlato (che do­

tutta la questione dr. qui commento al libro IV, 80

Ekei: dr. IV 420b-42lc.

vrebbe venir espressa con «ora-prima»). Cfr. anche commento al libro IV, n. l 07. 81

Cfr. HES. Op. v. 40.

LIBRO V

75

«Sei dunque d'accordo, dissi io, con la comunanza delle donne con gli uomini, che abbiamo descritta a proposito del­ l'educazione, dei figli e della difesa degli altri cittadini; e che esse, o restando in città o andando alla guerra, debbano parte-

[d]

cipare alla difesa e alla caccia come le femmine dei cani, e con­ dividere per quanto possibile ogni cosa in ogni modo? E sei d'accordo che agendo cosl esse agiranno da un lato nel modo migliore, dall'altro per niente in contrasto con il rapporto na­ turale tra femmina e maschio, laddove la natura dei due generi li dispone alla reciproca comunanza?». «Sono d'accordo», disse. «Non resta ora da discutere, dissi io, quell'altro problema, se sia possibile che anche fra gli uomini, come fra gli altri ani­ mali, si formi una tale comunità,82 e come ciò possa avvenire?». «Hai prevenuto, disse, la questione che stavo per sollevare». «Per quanto riguarda le cose della guerra, penso, dissi, che

[e]

sia chiaro in che modo combatteranno». «Come?», disse lui. «Parteciperanno insieme alle spedizioni e inoltre porteran­ no in guerra i figli già robusti, in modo che, come quelli degli altri artigiani,83 possano osservare quelle tecniche che dovranno mettere in opera quando saranno adulti, ma, oltre a guardare, fungano da aiutanti e attendenti in tutte le cose della guerra, e si prendano cura dei padri e delle madri. Non hai forse notato, nei lavori artigianali, per quanto tempo ad esempio i fi82 n riferimento è alla comunità di funzioni tra cani maschi e femmine. Stabilita la desiderabilità di applicare questo modello alla società umana, si tratta ora di verificarne la possibilità, e Socrate sceglie il caso-limite del pro­ blema, quello della panecipazione di uomini e donne alle operazioni militari. Benché giustificata, la lunga digressione che segue appare dilatoria rispetto alla presentazione della «terza ondata», il potere filosofico, e ne acuisce in questo modo l'attesa, come mostrerà l'impazienza di Glaucone a 471c-e (dr.

n.103). &J I phyiAites sono anch'essi demiourgoi della libertà (III 395c). Per la tra­ smissione di padre in figlio delle capacità tecniche dr. Prot. 328a, Leg. I 643b-c.

[467 a]

76

PLATONE, LA REPUBBLICA

gli dei ceramisti aiutano e osservano prima di prendere in ma­ no il mestiere?». «Proprio così». «E quelli devono dedicare più cure dei guardiani nell'edu­

cazione dei loro figli mediante l'esperienza e l'osservazione delle azioni appropriate?». «Sarebbe assolutamente ridicolo», disse. «Del resto, ogni animale non combatterà con maggior vi­ [b]

gore quando è presente la sua prole?». «È così. Però c'è il pericolo non piccolo, Socrate, che in caso di sconfitta (cosa che può ben succedere in guerra), la perdita dei figli oltre che di loro stessi, renda impossibile ri­ prendersi anche per il resto della città>>.84 «Dici il vero, risposi io. Ma tu pensi che la prima cosa sia tutelarsi da qualsiasi pericolo?». «Per niente». «E allora, se bisogna pur correre qualche pericolo, non sarà il caso di farlo quando ne usciranno migliori se ce la faranno?». «È chiaro».

[c]

«Ma pensi che faccia poca differenza e non valga il rischio, che i figli destinati a diventare uomini di guerra possano osser­ vare il campo di battaglia?». «No, fa molta differenza dal punto di vista di cui stai par­ lando». «Acquisito dunque il fatto che i figli devono essere spetta­ tori della guerra, bisogna inoltre provvedere alla loro sicurez­ za, e così tutto andrà bene, o no?». «Sì». «In primo luogo dunque, dissi io, i loro padri, per quanto è 84

Glaucone parla qui da esperto di cose militari.

Analambano, per indi­

care la ripresa demografica della città dopo le perdite subite, è usato in TH. VI 26.2. Per superare l'obiezione di Glaucone, nella battuta seguente Socrate

deve evocare il sospetto di codardia Oe necessarie precauzioni sono però indi­ cate in 467d).

LIBRO V

77

umanamente possibile, non saranno incompetenti, ma anzi

[d]

buoni conoscitori del carattere pericoloso o meno delle spedizioni militari». «È verosimile», disse. «Alle une perciò li condurranno, alle altre se ne guarderan­ no bene». «Esatto». «E come loro comandanti è probabile, dissi io, che non no­ mineranno i più mediocri, ma quelli che per esperienza ed età siano in grado di fungere insieme da generali e da pedagoghi». «Cosl è opportuno fare». «E però, ammettiamolo, spesso molte cose vanno contro ogni piano». «Molto spesso». «Dunque per questi imprevisti, amico, bisogna mettere le ali ai bambini in modo che se occorre possano fuggire volando via». «In che senso?».

[e]

«Bisogna farli montare a cavallo, dissi io, quando sono ancora molto giovani, e una volta insegnatogli a cavalcare, condurli allo spettacolo della guerra non su cavalli furiosi e batta­ glieri, ma il più possibile vdoci e docili. Così potranno assistere ai loro futuri compiti nd modo migliore, e, all'occorrenza, si metteranno in salvo nd modo più sicuro seguendo i loro anziani generali». «Mi sembra, disse, che tu parli correttamente». «E per quanto riguarda la condotta della guerra?, dissi. Come vorrai che si comportino i soldati fra loro e verso i nemi­ ci? Sarà corretto o no il mio parere? [ Gl». «Dimmi quale», chiese. «Quello di loro, dissi, che abbandona il posto assegnatogli o getta le armi e compie per viltà un gesto di questo genere, non dovrà venir destinato a qualche mestiere artigianale o al lavoro nei campi?».

[468a]

PLATONE, LA REPUBBLICA

78

«Senz'altro». [b]

«E chi si lasci catturare vivo dai nemici, non lo regaleremo a quelli che l'hanno preso perché facciano quel che vogliono della loro preda?».8' «Certo». «Ma quello invece che si sarà distinto per azioni valorose, non ti sembra che dovrà venire incoronato, già durante la spe­ dizione, a turno da ciascuno dei suoi compagni, giovani e fan­ ciulli? o no?». «A me sì». «E non lo saluteranno alzando la mano destra?».86 «.Anche questo». «Su un'altra cosa, dissi io, penso che invece non sarai più d'accordo». «Quale?». «Fare all'amore con ciascuno».

[c]

«Approvo questo più di tutto, disseY E aggiungo alla legge che durante la spedizione nessuno che egli desideri amare gli si possa rifiutare, in modo che, se capita che uno sia inna­ morato di un maschio o di una femmina, sia ancor più deside­ roso di ottenere il premio del valore».88

8'

Questo significa, probabilmente, rifiutare le consuete richieste di

riscatto o di scambio di prigionieri. 86

Dexiothenai: non la Mborghese" stretta di mano, ma il saluto, militare o

religioso, con la mano destra alzata (cfr. per esempio A. Ag. v. 852). . 87 Glaucone, ben noto come erotileos (474 d, e si veda l'aUusione in III 402e), accetta volentieri l'ironica provocazione socratica. SHOREY ad loc. con­ sidera questa «deplorable facetiousness» degna di una caserma, e come «almost the only passage in Plato that one would wish to blot». A parziale conforto di Shorey, si possono ricordare i limiti del phi/ein omosessuale detta­ ti dal buon gusto in III 403 b. 118

Per usanze simili viene citato il caso del battaglione sacro tebano (cfr.

ATH. XIII 561 F). Glaucone vede qui finalmente riconosciuti da Socrate i tratti di una «felicità» propria di un ceto aristocratico e guerriero (dr. qui

[G], S

1l.

79

LIBRO V

«Bene, dissi io. Che poi per il buon cittadino le nozze sa­ ranno approntate con più frequenza degli altri, e che gli verran­ no scdte donne dello stesso valore più spesso degli altri,89 per­ ché da lui nascano quanti più figli possibile, lo si è già detto». «Lo dicevamo,90 infatti>>, rispose. «Ma inoltre, secondo Omero, è giusto rendere ai giovani di va-

[d]

lore i seguenti onori. Omero disse infatti che ad Aiace, distintosi nella guerra, "il filetto allungato donò in premio" ,91 un premio questo appropriato ad un giovane coraggioso, perché serve al tempo stesso per onorario e per accrescerne la forza». «Molto corretto», disse. «Almeno in questo, dissi io, ci affideremo a Omero. Anche noi infatti, sia nei sacrifici sia in tutte le occasioni simili, rende­ remo onore ai buoni, nella misura dd loro valore, sia con inni sia con tutto quello di cui ora si parlava, e inoltre "con privile-

[e]

gi, con carni, con coppe ricolme",92 cosl che, oltre a onorarli, renderemo robusti gli uomini e le donne buoni». «Parli benissimo», disse. «D'accordo. E dei morti durante la campagna, chi sia ca­ duto dopo essersi distinto non diremo in primo luogo che ap­ partiene alla razza aurea?». «Assolutamente». «E non crederemo a Esiodo quando dice che allorché uo­

mini di tal fatta muoiono diventano dèmoni sacri della terra, benigni, difensori degli uomini dai mali?».9'

19

Seguendo la traduzione di Chambry, interpreto tmv totoutmv (se.

àya8Q)v) come riferito alle donne dei valorosi, per evitare la ripetizione in cui altrimenti si incorre («più matrimoni», «più spesso»). 90

Or. 459d sg.

91 Il. VII v. 321. 92 11. vm v. 162. 91 HES. Op. vv. 121-3 (modificati da Platone).

[469a]

80

PLATONE, LA REPUBBUC..t..

«Certo che gli crederemo». «E, consultato il dio su come si debbano seppellire questi uomini di natura demonica e divina, e con quali peculiari

ono ­

ri, disporremo i funerali seguendo puntualmente le sue rispo­ ste?». «E come potremmo non farlo?». [b]

«E per il resto del tempo cureremo e venereremo le loro tombe come se fossero di demoni. E seguiremo lo stesso quando morirà, per vecchiezza o qualche altro motivo,

uso

uno

di

coloro che in vita si erano segnalati come straordinariamente buoni?». «Sarebbe certamente giusto», disse. «Ma poi come si comporteranno i nostri soldati verso i ne­ mici?». «Da che punto di vista?». «In primo luogo, a proposito della riduzione in schiavitù. Ti sembra giusto che città greche riducano in schiavitù uomini greci, o invece non si dovrebbe nella misura del possibile im­ [c]

pedirlo anche a ogni altra, imponendo l'uso di risparmiare il popolo greco, in modo di guardarsi dal pericolo di asservimen­ to a opera dei barbari?».94 «Risparmiare i Greci, disse, è assolutamente importante». «Dunque i nostri cittadini non possederanno alcuno schia­ vo greco e così consiglieranno anche agli altri Greci?». «Senz'altro, disse: così del resto sarebbero più disposti a

volgersi contro i barbari, astenendosi invece da ogni ost� tà fra loro». «E ancora, dissi io: spogliare i caduti dopo la vittoria (a [d]

parte le armi) è cosa bella? o fornisce ai vili una scusa per non 9o1

C'è qui forse un'eco dei timori suscitati dall'intervento persiano nell a

(395-386), il che fornirebbe Wl'indica­ ilterminus posi quem della composizione della Repubblica. Per

guerra interellenica detta di Corinto zione circa

tutta la questione della regolamentazione delle guerre fra i Greci, e dd divieto

di ridurli in schiavitù, dr. qui [G), SS 2-4.

81

LffiROV

attaccare i nemici combattenti, come se svolgessero un compi­ to dovuto chinandosi sul mono? e non sono già stati distrutti molti eserciti per via di una tale rapacità?». «Proprio cosÌ». «Non ti sembra indegno di un uomo libero, e segno di avi­ dità, saccheggiare un cadavere? e di mente femminile e me­ schina"' considerare ostile il corpo del mono, quando il nemico è volato via, lasciandosi dietro lo strumento con cui combatteva? o pensi che quelli che si componano così facciano qualcosa di diverso dalle cagne che si arrabbiano con le pietre da cui sono state colpite, senza assalire chi le lancia?».96 «Non c'è la minima differenza», disse. «Si deve dunque abbandonare l'uso di spogliare i cadaveri e di rifiutame il recupero?». «Ceno che va abbandonato, per Zeus», disse. «E neppure credo, poneremo le armi ai templi per dedicarle in voto,97 soprattutto quelle dei Greci, se ci sta a cuore la benevolenza verso gli altri Greci. Al contrario dovremo temere che sia in qualche modo impuro ponare nei luoghi sacri un simile bottino tolto a chi ci è familiare, a meno che il dio di-

[e]

[470a]

sponga diversamente». «Molto corretto», disse. «E quanto alla devastazione del suolo greco e all'incendio delle case, come si componeranno i tuoi soldati verso i nemici?». «Ascolterei volentieri, disse, un chiarimento della tua opi­ nione». «A mio parere dunque, dissi io, non si deve fare nessuna delle due cose, ma solo ponar via il raccolto annuale. E vuoi che ti dica perché?». " L'uso linguistico porta Platone a ri attivare un luogo comune che con­

traddice alla teoria sull'uguaglianza femminile sviluppata in questo stesso

libro {dr. n. 51). !16

La metafora è citata in

ARisT. Rhet. III 4 1406b33. 114.1; qui [G], § 2.

"�Per questo uso cfr. per esempio TH. III

[b]

82

PLATONE, LA REPL'BBUC\

«Certo». «A me pare che, così come si usano questi due nomi, guer­

ra e conflitto civile, vi siano anche due cose, relative a due forme di discordia. Voglio dire che una delle due si riferisce al­ l'ambito familiare e congenere, l'altra a quello estraneo e stra­ niero. Dunque si chiama "conflitto civile" l'ostilità tra familia­ ri, guerra quella verso gli estranei». «Nulla di quello che dici, affermò, è fuori di luogo». [c]

«Guarda allora se dico a proposito anche questo: affermo in effetti che il popolo greco è tra sé familiare e congenere. ma straniero e alieno rispetto a quello barbarico». «Bene», disse. «Quando allora i Greci combattono con i barbari e i bar­ bari con i Greci, diremo che fanno la guerra, che sono per na­ tura nemici, e che "guerra" va chiamata questa ostilità; che in­ vece quando i Greci si comportano così verso i Greci, essi sono per natura amici, ma in un tale momento la Grecia è malata e

[d]

in preda al conflitto civile,98 e "conflitto civile" dovrà venir chiamata questa forma di ostilità». «>. «Vedi dunque, dissi, in quelli che attualmente si conviene di considerare conflitti civili,99 ovunque qualcosa di simile si verifichi e la città si spacchi, che, se entrambe le parti si deva­ stano a vicenda i campi e si bruciano le case, il conflitto è rite­ nuto abominevole e nessuno dei contendenti patriottico (se lo fossero, non oserebbero mai inaridire la loro nutrice e ma-

[e]

dre),100 e che appare invece condotta misurata da parte dei vin98 Per il rapporto fra stasis e malattia cfr. commento al libro IV, n. 122. Tft vuv Of.IOÀoyOUf.IÉvU ataaEl: il carattere odioso che la pubblica opi­ nione attribuisce (dokei, 470d6) a ciò che si considera comunemente stasis, guerra civile, va allargato ai conflitti interellenici (per il nun cfr. 47lb e n. 102). Sul concetto di philopolis (d7) cfr. qui [G], S 4. 100 Keirein: per la pratica di «rendere sterile la terra» cfr. per esempio 'l'l

HDT. VI 99.2 (riferito ai Persiani), TH. I 64.2 (agli Ateniesi).

LIBRO V

83

citori il portar via i raccolti dei vinti, nella convinzione che in futuro si riconcilieranno e non faranno sempre la guerra>>. «Questo modo di pensare, disse, è molto più mite dell'al­ tro». «Ma dopo tutto, disse, la città che stai fondando non sarà una città greca?». «Dev'esserlo», disse. «E allora i suoi cittadini non saranno buoni e miti?». «Sl, molto». «Ma non saranno filelleni, non considereranno la Grecia come la loro famiglia e non condivideranno con gli altri gli stessi santuari?». «Senz'altro». «Dunque la discordia nei riguardi dei Greci, loro familiari,

[471a]

la considereranno un conflitto civile e non la chiameranno neppure "guerra"?». «No, certo». «E pur nel dissenso manterranno la prospettiva della ri­ conciliazione?». «Certamente». «Li ricondurranno benevolmente alla ragione, senza spin­ gere la punizione fino all'asservimento o allo sterminio, com­ portandosi da castigatori, non da nemici». «Così faranno», disse. «Dunque, Greci, non saccheggeranno la Grecia, non bru­ ceranno le sue case, non accetteranno di considerare come loro ostile l'intera popolazione di una città, 101 uomini donne e bambini, ma individueranno come tali i responsabili della discordia, che sono sempre pochi. E per tutte queste ragioni non vor­ ranno devastarne il territorio, visto che per la maggior parte 101

Questo atteggiamento era stato deliberato dagli Ateniesi nei riguardi

della ribelle Mitilene, ma in seguito modificato: cfr. TH. III 35.2 sgg.; la di­ struzione di massa fu invece applicata dagli Ateniesi nei riguardi dei Meli

(TH. V 116.4) e dagli Spartani verso i Plateesi (TH. III 68.2).

[b]

84

PLATONE, LA REPUBBUC.l.

sono amici, né abbatterne le case, ma porteranno avanti il con­ flitto solo fino al momento in cui i colpevoli saranno costretti a render giustizia dagli innocenti che soffrono per causa loro». «lo, disse, sono d'accordo che i nostri cittadini debbano condursi in questo modo verso i loro avversari, però

verso

i

barbari come ora102 fanno i Greci tra loro». [c]

«Poniamo dunque anche questa legge per i difensori: non devastare la terra recidendo le piante, e non dare alle fiamme le case?». «Poniamo, disse, che queste disposizioni, al pari delle pre­ cedenti, vanno bene. Però mi sembra, Socrate, che se ti si la­ scia continuare a parlare di simili questioni, finirai per non ricordarti più di ciò che prima avevi accantonato per dire tutto questo: cioè come è possibile che questa costituzione venga realizzata, e in che modo potrebbe mai esserlo. Non c'è dub­ bio che se lo fosse tutto andrebbe bene nella città in cui si

[d]

rea -

lizzasse; e io voglio dire quello che tu hai tralasciato: che com­ batterebbero nel modo migliore contro i nemici perché certo non abbandonerebbero il posto di combattimento a fianco degli altri, visto che si riconoscono e si chiamano tra loro con i nomi di fratelli, padri, figli; se poi anche la componente fem­ minile partecipasse alla battaglia, schierata nello stesso fronte oppure nella retroguardia (tanto per far paura agli avversari quanto per portare rinforzi in caso di necessità), so che i nostri combattenti per tutto questo diverrebbero invincibili; e vedo

[e]

tutti i beni che li aspetterebbero a casa, benché non se ne sia parlato. Ma visto che io concordo che si otterrebbero tutti questi beni nonché mille altri, se questa costituzione fosse rea­ lizzata, non parlame più, ma cerchiamo di convincere noi stes102 Nun: è probabile che Platone si riferisca qui agli eventi della guerra

Corinto, terminata nd 386 !contemporanea quindi al periodo

di di composizio­

ne del dialogo). Ma poiché i fatti di Mitilene e di Platea risalgono al428, l'at­ tualità potrebbe anche riguardare la "data drammatica", collocabile attorno al425.

LIBRO V

85

si di questo solo punto: che è possibile e come è possibile, e lasciamo perdere il resto». 103 «All'improvviso, dissi, tu lanci una carica104 contro il mio

[472a]

discorso, e non tolleri le mie dilazioni. Forse non sai che, sfuggito a stento alle due ondate, ora sollevi quella che della triplice onda è la maggiore e la più dura; quando l'avrai vista e ascoltata, tu sarai pieno di comprensione, ammettendo che non erano infondati la mia esitazione e il mio timore di formulare

un

discorso cosi paradossale e di por mano all'indagine». «Più tu continui a dire cose del genere, disse, meno noi ti esenteremo dal discutere su come sia possibile di realizzare

[b]

questa costituzione. Dunque parla senza perdere altro tempo>>. «E allora, dissi io, in primo luogo bisogna ricordare questo: che noi siamo arrivati fin qui cercando che cosa siano la giustizia e l'ingiustizia>>. «D'accordo, ma perché questo?», disse. «Niente, ma se trovassimo che cos'è la giustizia, esigerem­ mo allora che l'uomo giusto non debba differire per nulla da essa, e anzi debba assolutamente esser tale qual'è la giustizia? oppure ci accontenteremo che si approssimi il più possibile a essa e che ne partecipi più degli altri?». «Così, disse: ci accontenteremo». «Un modello dunque, dissi, era il nostro scopo quando cercavamo che cos'è la giustizia in sé,'0, e quale risulterebbe 10'

Glaucone si comporta qui ancora una volta da "signore dd dialogo•,

ponendo fine in modo insieme ironico e sbrigativo alla lunga digressione sulla guerra con la quale Socrate aveva cercato di dilazionare la questione decisiva, relativa alla possibilità di attuazione dd progetto delineato nel discorso. Pro­ prio con questa dilazione, del resto, Socrate ha reso più acuto l'impaziente interesse di Glaucone e degli altri interlocutori. 104

Ktltadrome, «irruzione». Per questo e altri termini militari applicati al

discorso dialettico, come epilambano (450a7), amyno («difendo», 474a3 ), pro­

didomi («tradisco», 474a6), poliorkeo («assedio», 453a9), ekpheugo («sfug­ go», 474a4, b5), cfr. commento al libro l, [G], S 2.

1'" Tutto il passo anticipa la configurazione normativa e paradigmatica che la "teoria delle idee� assumerà in questo libro e nell'intera Repubblica. Si

[c]

86

PLATONE, LA REPt:BBUC\

essere l'uomo perfettamente giusto- se mai esistesse

e a loro

-,

volta l'ingiustizia e l'uomo ingiustissimo: in modo che , tenendo [d]

d'occhio quei punti di riferimento a proposito della questione della felicità e dd suo contrario, fossimo poi obbligati a conve­ nire, anche relativamente a noi stessi, che chi è più simile

a

uno

di essi avrà la sorte più simile alla loro; non si trattava invece di dimostrare che la loro esistenza fosse possibile». «È vero questo che dici», rispose. «Pensi allora che sarebbe meno bravo il pittore che dopo aver dipinto un modello di quel che sarebbe l'uomo più bello. ritraendone ogni parte in modo adeguato, non fosse poi in gra­ do di dimostrare che un tal uomo possa davvero esistere?>>.1(�tt «No di certo, per Zeus», disse. [e]

«E allora? non possiamo dire anche noi di aver tracciato nel discorso un modello di una buona città?». «Certo». «E pensi che da questo punto di vista si sia meno ben det­ to, se non fossimo in grado di dimostrare che è possibile che una città sia governata così come siamo venuti dicendo?». «Certo no», disse. «Questa è dunque la verità, dissi io. Ma se inoltre, per com­ piacerti, 107 bisogna impegnarsi a dimostrare quale sia la conditratta (a) di definire l'idea di giustizia (472b7: oTov ian 6uca\OGUV1\ auto tE 6ucawauvf1v oiov ian); (b)

=

c4 - 5 :

di usarla come modello (paradeigma, c4.

cfr. 472d9), termine di riferimento normativo mai perfettamente riproducibi­ le ma al quale ci si deve approssimare (cl: ott Èyyl)tata), «panecipandone» quanto più è possibile (c2: JtÀ.E'iata ... Èlc:Etvflç J.IEtÉXnl. Sulla teoria platonica dd paradigma, in rappono alla metafora pittorica consueta nella RepubbliCII, cfr. Poi. 277d sgg.; cfr. L. BERTELLI, Paradigmi platonici, in V.l. COMPARATO (a cura di), Modelli nella storia del pensiero politico, vol. l, Firenze 1987, pp. 4987; F. ROSCALLA, 'Paradeigma' ed 'eikos' nella costruzione del discorso platoni­

co, in D.

LANZA-0. LoNc;o (a cura dil, Il meraviglioso e tl verosimik

tra tmti­

chità e medioevo, Firenze 1989, pp. ')7 -83. 106 107

Su questo passo e l'altra metafora pittorica in VI 'JOOe sgg. cfr. qui [A], S 3. Questa apparente concessione a Glaucone ricorda il passaggio dalla

prima città a quella del lusso cui pure Socrate è costretto dal suo interlocuto-

87

UBROV

zione più importante che renderebbe più elevata la possibilità di realizzare questa costituzione, e in rapporto a che cosa ciò possa avvenire, anche a proposito di questa dimostrazione mi dovrai ripetere le stesse concessioni>>. «Quali?». «È possibile tradurre nella pratica una cosa proprio come

[473a]

è detta nel discorso, oppure è nella natura delle cose che la

prassi si accosti alla verità meno del discorso, anche se qualcuno non lo crede?108 Tu però sei d'accordo su questo o no?». «Sono d'accordo», disse. «Perciò non costringermi a mostrare ciò che abbiamo de­ scritto nel discorso come interamente realizzato anche nei fatti; se poi saremo capaci di scoprire come una città possa venir dotata di una forma di governo che si approssima al massimo a quella di cui abbiamo parlato, dovrai ammettere che noi abbiamo trovato quella possibilità di realizzazione che tu esigi. Non saresti contento di questo risultato? per conto mio me ne accontenterei». «E anch'io», disse. «Dopo di che, a quanto pare, dobbiamo tentare nella no­ stra ricerca di mettere in luce quale mai sia l'errore praticato nelle città attuali, a causa del quale non hanno questa forma di governo; e quale sia il cambiamento minimo grazie a cui una città potrebbe avvicinarsi a questo tipo di costituzione - me­ glio se si tratta di cambiare una cosa sola, se no due, o comunre (ll 372e sgg.). Si trana in realtà di movimenti imposti dalla necessità della situazione dialogica, di cui fanno parte integrante le esigenze degli allocutori di Socrate. In questo

caso,

di fronte alle loro attese, egli non può sottrarsi alla

questione della praticabilità dd disegno utopico, che è centrale nella strategia discorsiva dell'autore. 101

Nd modo di pensare comune, i «fatti» (praxis) sono più reali, quindi

più «Veri» dei discorsi (/exis); Platone insiste invece sulla disgiunzione della verità teorico-discorsiva dalla realtà fattuale, e sul carattere normativo della prima rispetto alla seconda. Su tutto il passo dr. R. C. CRoss-A.D. WOOZLEY, Plato's R�ublic. A Philosophical Commentary, London 1964, pp. 136 sgg.

[b]

PLATONE, LA REPUBBLICA

88

que quanto più possibile ridotte di numero e limitate quanto alla forza».

[c]

109

«Assolutamente», disse. «Con un solo cambiamento, dissi, possiamo secondo me mostrare che la città si trasformerebbe; certo non piccolo né fa­ cile, però possibile». «Quale?», disse. «Eccomi giunto, dissi io, a quel punto che abbiamo para­ gonato all'onda più grande. Lo si dica dunque, anche se è pro­ babile che come un'onda di derisione mi annegherà semplice­ mente nel ridicolo e nel disprezzo. Vedi quel che sto per dire». «Parla», disse. «A meno che, dissi io, i filosofi non regnino nelle città, op-

[d]

pure quanti ora son detti re e potenti non si diano a filosofare con autentico impegno, e questo non giunga a riunifìcarsi, il po­ tere politico cioè e la filosofia, e ancora quei molti, la cui natura ora tende a uno di questi poli con esclusione dell'altro, non ven­ 1

gano obbligatoriamente impediti -1 0 non vi sarà, caro Glaucone, 109 Nelle espressioni t\voç civ O'IJ.llc:potatO\liJ.EtaiJa)..Ovtoç, on òì..ry\atcov tòv cipt91J.Òv �eal 0'1J.t1CpOtatcov t'ÌJv SuvaiJ.tV, non credo sia da leggere un

understatement ironico della proposta dd governo filosofico. La metabok da cui si origina l'intero p rocesso di trasformazione sociale è veramente minima in quanto incide su di un solo punto (il vertice dd potere) e implica il minor ricorso possibile alla forza (come credo si debba intendere dynamis): al limite, basta che cambi un solo uomo (il tiranno che già detiene il potere e si conver­ te alla filosofia, oppure consegna il potere al Hlosofo). 110

A ok/eisthosin: si intende di solito «esclusi» (dal governo), ma questa p

misura non ha senso nei riguardi di quanti praticano la filosofia rifiutando

volontariamente la politica. È perciò meglio intendere (Adam) che ad essi dev'essere impedito di proseguire nella loro unilateralità (•Forcibly debarred from doing so», GRUBE). I commentatori non danno di solito adeguato rilievo a questo passo in cui Platone condanna l'esercizio esclusivo della filosofia a danno della politica, riprendendo in un certo senso l'accusa rivolta da Callide a Socrate nel Gorgia (484c sgg.). Chi sono questi filosofi che rifiutano la poli­ tica? Non è tanto il caso di pensare ad Anassagora, straniero in Atene, né a quello di Teage (VI 496b-c}, escluso dalla vita politica a causa di una malattia. La polemica di Platone contro l'unilateralità filosofica si rivolge probabilmen-

LIBRO V

89

sollievo ai mali delle città, e neppure, io credo, a quelli del gene­ re umano; né mai prima d'allora questa costituzione, che il nostro discorso è venuto delineando, potrà nascere nei limiti della

[e]

sua possibilità e veder la luce del sole. Ecco dunque ciò che da gran tempo un'esitazione mi tratteneva dal dire, vedendo quanto paradossali sarebbero risultate le mie affermazioni: arduo è infatti comprendere che nessun'altro tipo di città111 potrebbe esser felice né nella vita privata né in quella pubblica [H]». Ed egli: «Socrate, disse, con tali affermazioni, con tale di­ scorso, ci hai investiti, che, una volta detti, devi aspettarti che subito uomini in gran numero, e non certo mediocri, gettati quasi i mantelli, e nudi afferrando la prima arma che capiti

[474a]

sotto mano a ciascuno, si avventino con ogni forza su di te per compiere uno scempio. E se non ti difendi a forza d'argomenti, sfuggendo all'assalto, ne pagherai il fio venendo realmente coperto di scherno». «Ma non ne sei forse tu il responsabile?» dissi io. «E ho fatto bene davvero, disse. Ma certo non ti abbandonerò, anzi ti aiuterò con tutte le mie forze: ed esse consistono nel mio benvolere, nel mio incoraggiamento, e fors'anche nel risponderti più propriamente di altri. Dunque con un tale soccorso112 tenta di mostrare agli increduli che le cose stanno come tu dici». te contro posizioni presenti nel gruppo socratico, e dd resto enfaticamente riecheggiate in Theaet. 173c sgg. (la figura di filosofo qui descritta manca pre­ cisamente di quella empeiri4 politica che in VI 484d6 è richiesta ai filosofi che devono assumere il governo). Per una importante eco di questa posizione cfr. la discussione riferita in AlusT. Poi. VII J 12J5al6 sgg. fra coloro che intendo­ no la «Vita secondo virtÙ» come straniera alla politica e quelli che invece pri­ vilegiano appunto la dimensione politica. 111

Seguo cillTJ dei codd.; leggendo invece cilln (Adam, Shorey) si

dovrebbe tradurre: «in nessun altro modo la città potrà essere felice.. 112

Boethon: il «SSCCOrso»l�thei4) non è dunque solo quello fonclazio­

nale offerto dal filosofo, secondo la nota tesi di Szlezak (cfr. commento al libro I, [A], n. lJ ): esso viene in questo caso offerto, nella dinamica della situazione dialettica, dall'interlocutore di Socrate.

[b]

90

PLATONE, LA REPUBBUCA

«Occorrerà tentare, dissi io, dal momento che tu mi offri una cosi grande alleanza. Mi par dunque necessario,

se

voglia­

mo in qualche modo sfuggire agli uomini di cui parli, definire di fronte a loro che cosa intendiamo per falosofi quando osia­ mo affermare che essi debbano assumere il potere, in modo che, una volta ne sia chiara la figura, ci si possa difendere. [c]

mo-

strando che agli uni per natura s'addice praticare la filosofia e comandare nelle città, agli altri invece non praticarla e seguire piuttosto chi comanda». «Sarebbe ora, disse, di precisarlo». «Su, seguimi dunque per questa via, nel caso che in un mo­ do o nell'altro riusciamo a trovare una spiegazione adeguata». «Guidami», disse. «Si dovrà richiamarti alla memoria, dissi io, o ricordi

tu

stesso, che se diciamo di qualcuno che ama qualcosa, occorre, perché il nostro discorso sia corretto, che egli non appaia inna­ morato di una parte dell'oggetto a scapito di un'altra, bensì portato dal suo amore verso l'oggetto tutt'intero?». «Occorre a quanto sembra, disse, che me lo si richiami alla [d]

memoria: in effetti non ricordo perfettamente». «Ad un altro, dissi, si converrebbe, Glaucone, dire quel che ora tu dici: ma a un uomo esperto d'amorem non si addice di dimenticare che ogni giovane in fiore procura non so qual puntura, qual commozione a chi dall'amore dei giovani è pre­ so, apparendogli degno di cura e d'affetto: o non è forse così che vi comportate con i belli? l'uno, se è camuso, voi lo lodere­ te chiamandolo grazioso; l'altro, se ha il naso aquilino, dite

[e]

esser regale; l'altro ancora, se è intermedio fra i due, sarà allora 87), trac­ humour dei costumi dei giovani aristocratici ateniesi. La risposta un po' risentita di Glauc!Jne, che pure accetta il motteg­ 11'

Socrate riprende qui lo scherzo su Glaucone erotikos (cfr. n.

ciando un quadretto pieno di

gio, ricorda a Socrate l'opportunità di non superare certi limiti di rispetto

so­

ciale. Del resto, lo stesso atteggiamento erotico era stato attribuito da Socrate a se stesso in

Charm. 154b.

LIBRO V

91

proporzionatissimo; quelli di colorito scuro hanno un aspetto virile, quelli pallidi invece sono rampolli di dèi; e "color del miele", quest'espressione di chi pensi sia opera se non di un amante che vezzeggia l'amato con un dolce nomignolo e senza pena ne sopporta l'aspetto giallastro, purché sia nel fiore degli anni? e in una parola tutti i pretesti adducete, tutti gli accenti

[475a]

trovate, per non rifiutare nessuno che sia fiorente d'età». «Se vuoi riferirti a me, disse, quando dici che gli innamorati si comportano cosi, te lo concedo per amor della discussione». «Ma poi, dissi io, gli amatori del vino non li vedi compor­ tarsi nel medesimo modo? non s'appassionano d'ogni vino, con ogni pretesto?». «E come>>. «E poi chi ama gli onori: avrai ben visto, io credo, che se non possono comandare un esercito si accontentano di una compagnia, 114 e se non possono essere onorati dai personaggi

[b]

più alti e stimati, amano ricevere l'omaggio di gente umile e mediocre, perché sono desiderosi di ogni tipo d'onore>>. «Proprio cosi». «Convieni dunque o meno su questo: quando diciamo che qualcuno è desideroso di qualche cosa, intenderemo che ne desidera tutti gli aspetti, oppure l'uno si, l'altro no?». «Tutti», disse. «Non diremo dunque anche del Hlosofo che egli desidera tutto il sapere, m e non una parte di esso e un'altra no?». «Vero». «Chi dunque ha avversione per gli studi, soprattutto quand'è giovane e non sa ancora dar conto razionalmente di ciò che è utile e ciò che non lo è, non diremo sia amante del sapere né 114

«Stratega» è il comandante dell'intero esercito; sotto di lui stavano dieci

tassiarchi, e ogni taxis era composta di tre trittie (qui reso con «compagnia»). ln

n filosofo è tpithymetes di sophia: per l'esistenza di epithymiai proprie

della pane razionale dell'anima cfr. commento al libro IV, [D], S l; per l'eros fs.losofico verso la verità cfr. VI 490a-b.

[c]

92

PLATONE, LA REPUBBUCA

filosofo,116 proprio come chi ha ripugnanza per i cibi non dicia­ mo esser affamato né desideroso di cibo né ghiotto, ma piut­ tosto inappetente». «E correttamente lo diremo». «Chi al contrario è favorevolmente disposto a gustare ogni conoscenza, e con gioia si appresta ad apprendere, e ne rimane insaziabile, costui con giustizia chiameremo filosofo. Che ne dici?». E Glaucone disse: «Ne troverai certo molti, e strani, di uo[d]

mini del genere. Tutti gli appassionati di spettacoli, 117 per esempio, mi sembrano essere tali perché si rallegrano d'impa­ rare, e poi gli appassionati di audizioni, gente certo ben strana da collocare tra i filosofi, che non vorrebbero proprio andare spontaneamente ad ascoltare discorsi razionali e una discussio116 n carattere philomathes era già stato assegnato alla figura "debole· del filosofo nel libro III 376b-c (cfr. ivi n. 93). Platone richiama ora questo aspet­ to mentre si accinge a delineare la nuova figura •forte" di filosofo. n carattere eumathes è ribadito per esempio in VI 485b (cfr. qui 117

[H], parte Jl).

Philotheamones, philekooi; cfr. anche a 476a philotechnai, praktikoi (i

primi tre aggettivi sembrano neologismi platonici, coniati per assonanza e opposizione a philosophos). A quali figure si riferisce questa descrizione? Se si privilegia il punto di vista gnoseologico (limitazione all'apparenza sensibile senza risalire a un livello ulteriore di verità), si può pensare a una vasta gamma di riferimenti, dai «mortali» di Parmenide (cfr. DK B7.4 per «vista» e «udito») fino all'Antistene del motto «Vedo il cavallo ma non la cavallinità» (GIAN· NANTONI V A 149). Ma tutti costoro non hanno specificamente nulla a che fare con la dimensione degli spettacoli, delle tecniche, delle attività pratiche. È dunque preferibile pensare a figure di intellettuali legati alla cultura urbana della polis democratica, e proprio per questo rivali dei filosofi nell'aspirazione a una leadership politico-culturale. Il .personaggio emblematico in questo senso va probabilmente identificato in lppia, la cui incapacità di pensare il «bello in sé» è ampiamente e ironicamente esposta in Hi. ma. 287d sgg. Per l'assiduità di lppia alle feste olimpiche cfr. Hi. mi. 363c sg., e per le sue capa­ cità tecniche 368b sgg. (anche Prot. 318e); il rapporto di lppia con la politica (in contrasto con Anassagora) è illustrato in Hi. ma. 281b sg. Per una tratta­ zione del problema cfr. ora ].A. PALMER, Plato's Reception o/ Parmenides, Oxford 1999, pp. 56 sgg.; cfr. qui [n. S l, [L]. S 6, e la n. 26 alla traduzione.

UBROV

93

ne di questo tipo, ma che, quasi avessero affittato le orecchie, corrono dietro alle feste dionisie per ascoltare tutti i cori, senza trascurare né quelle di città né quelle di campagna. Dunque tutti questi e quanti altri si applicano ad apprendere questo genere di cose e altre tecnicucce, li chiameremo filosofi?».

[e]

«Per nulla, dissi, bensì simili a filosofi>). «Ma quelli veri, disse, come li intendi?)). «Quelli, io dissi, il cui spettacolo prediletto è la verità». «E questo, disse, è sicuramente corretto: ma in che senso lo dici?». «Per nulla facile, dissi io, spiegarlo a un altro: ma tu penso

concorderai con quanto sto per dirti». 118 «E cioè?».

«Giacché il bello è il contrario del brutto, essi sono due».

[47 6a]

«Come no?». «E siccome sono due, ognuno di essi sarà uno?». «Concedo anche questo». «E circa il giusto e l'ingiusto, il bene e il male, e tutte le idee, il discorso è sempre lo stesso: ognuna di esse in se stessa è una, eppure, manifestandosi ovunque nella relazione con le azioni, con i corpi, con le altre idee, la sua unità appare risol­ versi in molteplicità m)). «È corretto quel che dici», rispose.

«Su questa base, dissi io, compio la divisione, 119 ponendo da una parte coloro che poco fa chiamavi appassionati di spet­ tacoli, di tecniche e dell'attività pratica, dall'altra invece coloro

111

Glauconc è qui evidentemente interpellato come abituale partecipan­

te alle discussioni del gruppo socratico-platonico c poi accademico: da lui ci si attende dunque una certa familiarità con i lineamenti generali della «teoria delle idee» (cfr. anche VI '07a, c, per l'idea del bene, VI ,O,a); lo stesso acca­ deva con Fcdonc in Phaed. 102b. 119

Tau111 61a1p). «Non diremo forse che l'opinione126 è qualcosa?». «Come no?». «Ed è una facoltà diversa dalla scienza oppure identica a essa?». «Diversa)). «L'opinione è dunque sovraordinata a un oggetto, la scien­ za a un altro, ognuna secondo la propria facoltà». «Così». «La scienza per sua natura non si riferisce forse a ciò che è, per conoscere il modo d'essere di ciò che è?127 Piuttosto, prima di procedere mi sembra necessario fare questa distinzione». «Quale?». corpus platonico, «almeno la metà segnala la trasformazione di un'opposizio­ ne binaria in uno schema ternario, funzionale sia alla costruzione di classifica­ zioni scalari e strutture gerarchiche sia alla defmizione di moddli simbolici Mmediazione"»). Cfr. qui Introduzione, 126

di

S 4.

Nell'ambito del vasto spettro semantico di doxa, Platone individua

qui (costruendolo in opposizione a episteme) il valore di «opinione» struttu­ ralmente incerta e mutevole, prelevandolo senza dubbio da Pannenide Oe do­

BIJO), ma anche da Gorgia (cfr. per esempio Hel. II, BII) . Su questo concetto in Platone cfr. C.A. VIANO, Il significato della doxa nella filosofia di Platone, «Rivista di filosofia», XLIII (1952) pp. I67-85. xai dei «mortali», DK DK

e soprattutto Y. LAFRANCE, La théorie platonicienne de la Doxa, Montréai­ Paris

I98I; per la funzione di mediazione di doxa, cfr. qui Introduzione, S 4. 127 'EnlCJTllllll ... Ènl tijl ovn nÉcp\IKE, yviòval Wç ECJTl tò ov. EpisteMe

acquisisce qui per la prima volta nel dialogo- nel contesto dell'opposizione gnoseologica con doxa e di quella ontologica fra essere e divenire - il valore forte di conoscenza stabile e veritiera. Per la stabilità di episteme dal punto di vista soggettivo cfr. Crat. 437a; dal punto di vista oggettivo, questa stabilità è garantita dal suo rapporto con l'essere (di eredità pannenidea, ma che andrà interpretata come conoscenza del piano noetico-eidetico pensato nella sua

LIBRO V

97

«Diremo che le facoltà128 sono un genere di cose, grazie al-

[c]

le quali noi possiamo fare ciò che possiamo, e così lo può qualsiasi altra cosa: ad esempio dico che la vista e l'udito sono tra le facoltà, se capisci a quale specie di cose intendo riferinni». «Certo, capisco», disse. «Ascolta dunque il mio parere intorno a esse. Di una facoltà io non vedo né il colore né la forma né alcun'altra delle qualità che sono invece presenti in molte altre cose, osservando alcune delle quali sono in grado per conto mio di distinguere questa cosa da un'altra. A proposito di una facoltà, invece, ri­ volgo la mia attenzione soltanto a ciò cui essa è correlata e che essa produce; su questa base ho chiamato appunto "facoltà" ognuna di esse, e chiamo identiche quelle sovraordinate allo stesso oggetto e producenti lo stesso effetto, diverse invece quelle sovraordinate a oggetti diversi e producenti effetti diversi. E tu come procederesti?». «Così», disse. «Ed ora torniamo al punto, dissi io, mio ottimo amico. Quanto alla scienza, dici che essa è una facoltà, oppure in qual genere la poni?». invariabile oggettività, dr. qui [L], S 5). Sulla verità come prodotto dd rap­ porto conoscitivo fra epistmte ed essere dr. VI 508e; Crat. 385b; Soph. 263b (vero è il discorso che dice tà ovta cix; lcmv). Cfr. 478a6: ÈxlGnl�'l ... btì tij> ovn, tò òv yvéòval cix; txEl. Sullo statuto della scienza nel libro V si veda anche Introduzione, S 4. 121 Platone avverte qui la necessità di una definizione di dynamis che ne individui, all'interno della gamma usuale di significati dd termine («poten­ za»,

«capacità di fare-) il valore di «facoltà conoscitiva» strutturalmente rda­

zionata ad uno specifico oggetto (dr. anche, per la vista e l'udito, VI 507c sgg.). La natura rdazionale di dynamis, come polarità attiva in rapporto con quella passiva di pathema, è teorizzata in Phaedr. 271a sgg. (per le probabili derivazioni dalla medicina ippocratica di questa valenza concettuale dr. M. VEGETn, La medici11t1 in Platone, Venezia 1995, pp. 114 sgg.). Una Jynamis è infatti riconoscibile soprattutto in base agli effetti che essa produce (477a1: o àupyaçetal). Resta utile la ricerca di J. SoUIUit, Etude sur le terme dynamis d4ns /es Di41ogues de Plato n, Paris 1919.

[d]

98 [e]

PLATONE, LA REPUBBLICA

«In questo, disse, e proprio come la più forte delle facoltà». «Ma l'opinione, la metteremo tra le facoltà o in qualche altra specie?».129 «No di certo, disse: l'opinione infatti altro non è se non la facoltà mediante la quale opiniamo». «Ma poco fa hai convenuto che la scienza e l'opinione non sono la stessa cosa». «E come potrebbe mai un uomo che abbia senno, disse, identificare ciò che è infallibile"0 con ciò che infallibile non è?». «Bene, dissi io. È chiaro che noi conveniamo che l'opinio­

[ 478a]

ne è cosa diversa dalla scienza». «Diversa». «Ognuna di esse, avendo un'efficacia diversa, è dunque per sua natura correlata a oggetti diversi?». «Di necessità». «E la scienza è in qualche modo correlata a ciò che è, per conoscerne il modo d'essere?». «Sì». «L'opinione invece, diciamo, opina ?». BI «Sì». 119

Eidos ha qui un valore classificatorio debole, equivalente al preceden­

te genos di 477d8. 110 È sorp rendente che Glaucone definisca qui come infallibile (anamarte­ ton) l'episteme, un concerto che in tutto il corso dd dialogo era stato finora con­ siderato come equivalente a techne. Va tuttavia ricordato che l'infallibilità era stata attribuita da Trasimaco anche alle technai e ai loro professionisti in I 340e.

(}(n testo dei manoscritti reca doxaz.ein, il che significherebbe che oggetto dell'opinione è !'«opinare», cioè l'esercizio della facoltà stessa (come il vedere per la vista). Se così fosse, l'opinione risulterebbe un diverso approccio cono­ scitivo allo stesso oggetto della scienza, to on. Poiché invece, come risulta

da ciò

che segue, facoltà diverse hanno oggetti diversi (come vista e udito), e l'oggetto proprio di doxa non è il doxaz.ein bensì il doxaston, è qui necessario accogliere la correzione di Adam (doxazet): l'opinione si limita a «opinare», invece che cono­ scere come la scienza, e il suo oggetto andrà ricavato, anche a livello linguistico, da questo modus operandi, configurandosi appunto come «opinabile».

99

LIBRO V

«Ed essa opina proprio la stessa cosa che la scienza cono­ sce? e il conoscibile e l'opinabile saranno la stessa cosa? o è impossibile?». «È impossibile, disse, stando a quanto si è convenuto: se facoltà diverse sono per loro natura correlate a oggetti diversi, posto che entrambe siano facoltà, l'opinione e la scienza, e

[b]

reciprocamente diverse, come abbiamo affermato, da queste premesse non può conseguire che l'opinabile e il conoscibile siano la stessa cosa». «Se dunque conoscibile è ciò che è, opinabile sarà qualche cosa di diverso da ciò che è?». «Diverso». «Verte allora l'opinione su ciò che non è? oppure è impos­ sibile perfino formulare opinioni su ciò che non è? Rifletti. Chi opina non riferisce forse la sua opinione a qualcosa? oppure è bensì possibile opinare, pur vertendo l'opinione su nulla?». «Impossibile». «Allora l'opinione di chi opina verterà comunque su qual­ che cosa?». «Si». «Ma ciò che non è, non è certo qualche cosa, bensì con la massima correttezza potrebbe essere chiamato un nulla». «Senz'altro».

[c]

«A ciò che non è abbiamo necessariamente attribuito l'i­ gnoranza, a ciò che è invece la conoscenza?». «Esatto», disse. «L'opinione non si riferisce dunque né a ciò che è né

a

ciò

che non è?». «No davvero». «L'opinione non sarebbe quindi né ignoranza né conoscen­ za?». «Sembra di no». «Sta perciò al di fuori di entrambe, superando la cono­ scenza per certezza o l'ignoranza per incertezza?».

100

PLATONE, LA REPUBBLlC..l,

«Né questa né quella>.. «Ma allora, dissi io, ti appare forse l'opinione più oscura della conoscenza, più chiara invece dell'ignoranza?». m «E di molto», disse. [d]

«E si colloca fra l'una e l'altra?». «Si». «L'opinione sarebbe dunque intermedia fra queste». «Senza dubbio». «Non si è in precedenza asserito che, se fosse apparso qualcosa che in un certo senso è e non è insieme, questo sareb­ be stato intermedio fra ciò che puramente è e ciò che del tutto non è; e che né la scienza né l'ignoranza sarebbero state relati­ ve a esso, bensl a sua volta ciò che risulta intermedio fra l'igno­ ranza e la scienza?». «Corretto». «Ora, intermedia fra di esse è apparso ciò che chiamiamo opinione?».

«È apparso». «Quello poi che ci resterebbe da scoprire, a quanto pare, è [e]

ciò che partecipa di entrambi, dell'essere e del non essere, e di cui non si può propriamente dire che sia né l'uno né l'altro nel­

la loro purezza; in modo che, se si manifesterà, potremo allora con giustizia dire che esso è l'opinabile, assegnando agli ogget­ ti estremi i modi di conoscenza estremi, a quelli intermedi gli intermedi. Non è così?)). «Così». [479a]

«Ciò posto, mi dica, chiederò, mi risponda, quel brav'uomo che non ritiene esservi il bello in sé né alcuna idea della bel­ lezza in sé che permanga sempre invariata nella sua identità, ma che invece crede siano molte le cose belle - lui, l'appassionato di spettacoli che non ammette assolutamente che qualcuno m

Per il rappono luce/oscurità in relazione a conoscenza/ignoranza dr.

anche 479c-d; I. CRYSTAL, art. c;t. (n. 121 ), pp. 357 sgg., ha rilevato l'ascen­ denza parrnenidea

di questa opposizione.

LIBRO V

101

dica che il bello è uno, uno il giusto e cosi via: "Fra tutte queste molteplici cose belle, o uomo eccellente, gli diremo, ve n'è forse una che non possa apparire anche brutta? e fra quelle giu­ ste, una che non sembrerà ingiusta? e fra quelle pie, empia?"». «No, ma è necessario, disse, che le stesse cose appaiano, da diversi punti di vista, ora belle ora brutte; e così tutto ciò di cui

[b]

chiedi». «E che mi dici delle molteplici quantità doppie? sono forse

meno metà che doppie?». «Per niente». «E le cose che possiamo chiamare grandi e piccole, leggere e pesanti, c'è forse qualche ragione per definirle cosi piuttosto che con le denominazioni contrarie?».133 «No, disse; in ogni caso, ognuna di esse sarà passibile di entrambe le denominazioni». «Ognuna di queste cose molteplici, dunque, è ciò che si dice essa sia più di quanto non lo sia?». «Esse assomigliano, disse, ai doppi sensi134 conviviali, e all'indovinello dei bambini sull'eunuco che tira al pipistrello, in cui chiedono di indovinare con che cosa l'uno ha colpito l'altro e dove stava. Queste cose sono parimenti ambigue, e di m

Platone riprende qui la tematica concettuale che aveva costituito l'og­

getto di molte analisi precedenti: kalon (lppia maggiore, anche Phaed. lOOc­ d), dikaion (libro I della Repubblica), hosion (Eutt/rone), doppio, grande (Phaed. 96d sgg., lOOd sgg.). La strutturale ambivalenza di ogni singola in­ stanziazionc di questi predicati impone il riferimento a nuclei di significato autonomi C invarianti (la definizione di idea come aEÌ ICU'tà 'tUÙ'tà ÒXJUU'tcoç qouoa in 479a2-3 è quella canonica della Repubblictl: cfr. anche VI 484b4). u4

Epamphoterir.ein compare in TH. VIII 85.3 nel senso originario di

«fare il doppio gioco». In Aristotdc il termine assumerà un valore tassonomi­ co, per indicare quegli animali che presentano le caratteristiche di due gruppi diversi; fra questi proprio il pipistrello, che compare nell'indovinello seguen­ te, intermedio fra i mammiferi c gli uccelli (PA IV 13 697bl sgg.). D senso dd­ l'indovinello sembra questo: «Un uomo non uomo (l'eunuco) tira c non tira (mira ma non colpisce) a un uccello non uccello (un pipistrello) che stava so­ pra un legno non legno (una canna) una pietra non pietra (una pomice)».

[c]

PLATONE, LA REPUBBLICA

102

nessuna di esse si può pensare in modo univoco né che è né che non è, né che valgono entrambe le alternative oppure nes­ suna delle due>>. «Hai dunque, dissi io, un modo di trattare queste cose che sia migliore del porle in posizione intermedia fra l'essenza m e il non essere? Perché in nessun modo appariranno più oscure

[d]

di ciò che non è, non eccedendolo quanto al non essere, né più chiare di ciò che è, non eccedendolo quanto all'essere>>. «Verissimo», disse. «Abbiamo dunque scoperto, 136 a quanto pare, che le mol­ teplici convinzioni condivise dai più intorno al bello e a tutto il resto, si rotolano, in certo senso, nella regione intermedia fra ciò che non è e ciò che puramente137 è». «L'abbiamo scoperto». m

Ousia. Il termine prima di Platone mantiene il valore patrimoniale

di

«sostanza», con la sola possibile eccezione di PHILOL. DK Bll, dove si parla di ousia del numero come «Vera natura». Nel senso di «essenza» o «idea» (significato univoco e ontologicamente stabile di termini) ousia compare in Euthyphr. lla7; dr. anche Phaed. 65dl3, 92d9 (equivalente a ho estin); Hi. ma. 302c5. Cfr. in proposito B. CENTRONE, Pathos e ousia nei primi dialoghi di Platone, tata) a questi

paradigmi esemplari (472b-c). Lo stesso rapporto si applica al modello della ka/lipolis e alle sue esecuzioni. Qud modello è stato tracciato nel discorso,

en logois, è stato costruito al modo di una fiction narrativa, un racconto mitico (cfr. II 369c, 376d; VI 501e). Ora, dice Plato­ ne, la costruzione discorsiva, la lexis, benché non possa né debba escludere l'esecuzione nella praxis, è certamente più vicina di questa alla verità; il discorso può descrivere con mag­ gior nitore e precisione i lineamenti del modello, senza doversi piegare ai vincoli che condizionano l'esecuzione pratica, l'er­

gon, immersi come essi sono nella dimensione spazio-tempora­ le del divenire. La «possibilità»

(roç Suvata) dell'esecuzione pratica del

modello deve allora venir considerata non come una sua ripro­ duzione identica, ma, ripete Platone, come il massimo di ap­ prossimazione consentita da quei vincoli

(ç Èyy\)tata, 473a-b).

n rapporto è reso perspicuo da una metafora pittorica. Chi agisce correttamente nella praxis (in questo caso i ftlosofi re o i potenti convertiti alla ftlosofia) opera come un «pittore di co­ stituzioni»

(noÀ.ttEtéòv çcirrpacpoç) che si ispira al modello para­

digmatico e tenta di rendere gli uomini che vivono concreta­ mente nella storia per quanto è concesso

(oaov Èv5éxetat) si­

mili a esso (VI 50lb-c). C'è a dire il vero un'altra metafora pittorica che sembra contraddire il senso generale del discorso platonico fin qui de­ lineato, e il nesso che vi viene istituito fra desiderabilità e prati­ cabilità, paradigma e riproducibilità. La bravura di un pittore

COMMENTO AL UBRO V,

[A]

121

non sarebbe diminuita, scrive Platone, dal fatto che egli non fosse in grado di indicare l'esistenza di un uomo altrettanto bello di quello che ha dipinto (472d). Va anzitutto notato che la struttura di questo paragone è asimmetrica rispetto a quello citato in precedenza. Là il modd­ lo era antecedente al dipinto, che ne rappresentava una ripro­ duzione inevitabilmente imperfetta. Qui invece il modello è costituito dal dipinto stesso, e l'eventuale replica ne va cercata fuori, nel campo degli erga. Il pittore di questa metafora va dunque assimilato non al riproduttore di modelli, ma al co­ struttore di paradigmi en logois: la correttezza logica ed etica di questi paradigmi non è inficiata, secondo Platone, dall'im­ possibilità di reperime nella realtà empirica una replica identi­ ca. Questo non significa contraddire il senso dell'intero discor­ so, che insisteva appunto sulla riproducibilità pratica dd para­ digma, ma soltanto avvertire che ogni riproduzione di esso è inevitabilmente imperfetta, senza che ciò ne riduca la validità teorica. Sembra chiaro da questa analisi che l'utopia del V libro ha per Platone un carattere marcatamente progettuale. Come «ogni utopia seria», scrive Finley, essa non è una fantasticheria di evasione dalla realtà, ma «è concepita come un fine che si può legittimamente tentare e sperare di raggiungere».28 n para­ digma è dunque un modello normativo, un «criterio deontolo­ gico cui la prassi deve tendere».29 nella simultanea certezza della sua imperativa desiderabilità e dd carattere solo appros­ simato e imperfetto (dunque anche instabile) di una sua possi­ bile realizzazione. Questa doppia certezza apre tuttavia un'ulteriore serie di problemi. 21 M.l. FINLEY, op.cit. (n. 2), p.

270. 20), p. 500; D. DAWSON, op.cit. (n. 1), p. 71, parla di «Standard to follOW». Sulla questione dr. ora le convincenti osserva­ zioni di CH. RowE, Myth, hi story and Dialutic in Plato's R�public and 2'1 L. BERTELU, art. cit. (n.

Timan�s-Critias, in R BUXTON (ed.), From Myth to Reason?, Oxford 1999,

pp. 263-78 (specialmente pp. 269 sg.).

122

PLATONE, LA REPUBBUCA

n varco, tanto ontologico quanto storico-pratico, che sepa­ ra illogos dall'ergon, il modello dalla riproduzione, impedisce di considerare l'utopia platonica, anche una volta riconosciu­ tone il carattere progettuale, come un programma politico di cui sia possibile indicare tappe, tempi e modi di realizzazione. Come vedremo meglio nd paragrafo 4, i luoghi e i tempi del suo accadimento vanno pensati sulla scala dell'«intero corso dd tempo» (VI 502b: Èv navtì. tép xp6v•; nel secondo, la «lacuna» della Repubblica risulta tale dal punto di vista delle Leggi, che per prime ne decretano lo statuto uto­ pico. Condivide con opportune sfumature le tesi di Laks M. ScHOFIELD, The

COMMENTO AL UBRO V,

123

[A)

Questa ipotesi è senza dubbio sostenuta dal testo delle Leggi (dr. V 739b-e). Ma è difficile pensare, dal punto di vista dell'utopia del libro V, che le Leggi possano davvero rappre­ sentare la "proiezione" applicativa di quel paradigma. Ne ven­ gono in effetti rovesciati i contenuti presentati come necessari all'unificazione e alla salute della città, con il ritorno alla pro­ prietà privata e alla famiglia; ne viene inoltre ignorata l'impre­ scindibile condizione di possibilità, il governo filosofico. Si tratterebbe in verità di una copia, non «quanto più vicina è possibile» al modello, ma separata da esso da uno scarto tanto profondo da rendere irriconoscibile il modello stesso. Se la pri­ vatezza di patrimoni e legami familiari è la malattia della città, di cui la forma di vita comunitaria dovrebbe costituire la tera­ pia, attuata da medici come i filosofi-re, il modello delle Leggi sembrerebbe davvero accettare quella malattia come inguaribi­ le, e rinunciare alla funzione terapeutica.

È forse da dire che, nel quadro della Repubblica (se non certamente in quello delle Leggt), la domanda da cui si è par­ titi sembra mal posta. È impossibile determinare nell'ambito del discorso teorico la misura e le forme della differenza desti­ nata a separare, in ogni tentativo di esecuzione, modello e co­ pie: è impossibile quanto lo è prevedere le circostanze spazio­ temporali, storiche, in cui quei tentativi avranno luogo. Non si tratta soltanto di variabili geografiche, climatiche o antro­ pologiche (più importanti nella nostra concezione del mondo - perché certamente una kallipolis fondata a Oslo risultereb­ be ben diversa da un'altra a Calcutta- che nella visione più ri­ stretta di Platone). Si tratta piuttosto della infinità variabilità, mutevolezza e instabilità delle situazioni storiche, dei costu­ mi, delle tradizioni, di cui Platone è certamente ben consape­ vole, come mostrano nello stesso libro V le considerazioni sulla diversa valutazione storica della nudità nelle palestre (452c-d). disappearing philowpher-king, pp. 31-�50.

in

Saving the City, London-New York

1999,

124

PLATONE, LA REPUBBUCA Se c'è dunque una lacuna nella Repubblica circa i limiti di

praticabilità dell'utopia, questa va probabilmente considerata come teoricamente inevitabile: un altro aspetto, cioè, dd diva­ rio che separa un'utopia progettuale da un programma politi­ co, e impedisce per principio alla prima di determinare inanti­ cipo i suoi margini effettivi di realizzabilità. Quello che però si deve escludere, ancora in linea di principio, è che lo scarto fra modello e copia possa esser tale da rendere irriconoscibili i li­ neamenti fondamentali dd primo: stravolto fino a questo pun­ to, non potrebbe neppure più venir considerato come deside­ rabile. Più che una proiezione attuativa della Repubblica, le

Leggi andrebbero allora considerate come una revisione del paradigma stesso, in modo da renderlo praticabile almeno a livello di «terza città». All'interno dell'orizzonte proprio alla Repubblica, va piut­ tosto considerata un'importante espansione della metafora pit­ torica. I «pittori di costituzioni>>, gli attori dd processo di tra­ sformazione, non potranno svolgere il loro compito di ripro­ durre quanto più fedelmente è possibile il paradigma cui si ispirano nella tavola (pinax) dell'ambiente storico-politico, se non l'avranno prima interamente ripulito e «purificato» dalle forme politiche e dall'ethos pubblico e privato esistente. Que­ sto azzeramento degli assetti legislativi e dei costumi vigenti non è certo una cosa facile (o'Ù 7tavu p��hov), ma si tratta di una premessa indispensabile al lavoro di ricostruzione etico­ politica (VI 501a). Nel suo ambito, di per sé perfettamente comprensibile perché proprio di qualsiasi potere rivoluziona­ rio o di "salute pubblica" ai suoi esordi, si inscrive una norma che gli interpreti moderni hanno considerato a tal punto ecces­ siva da leggervi un segnale di assurdità dell'intero progetto, deliberatamente inseritevi da Platone. Ai fini della radicale «purificazione» della situazione di fatto esistente, scrive Plato­ ne, i nuovi governanti manderanno «nei campi» (eis agrous) tutti gli abitanti della polis di età superiore ai dieci anni, e ne educheranno i figli, sottratti ai costumi esistenti (téòv vùv ,;Orov) secondo il nuovo progetto. Questa sarà la via più rapida

COMMENTO AL UBRO V,

e più facile

[A]

125

('taXt rilv ltOÀ.lV, d'tt KaÌ altOlKtac;

· - ­

EKKÉJllttOVttc;). Per la riduzione i n schiavitù dei cittadini indesiderabili cfr. anche309a. Jz Cfr. L. CANFORA, Cnl.ia prima dei Trenta, in G. CASERTANO (a cura di), I filoso/i e il pot�e nella società e nella cultura antiche, Napoli 1988, pp. 29-41 (la citazione alla p. 32). È interessante notare che un allievo di Platone e del­

l'Accademia, Chairon, divenuto tiranno di Pellene, sembra abbia attuata una variante di "sinistra" dd programma criziano, con l'espulsione degli aristoi e

la distribuzione agli schiavi dei loro beni e delle loro donne. Cfr. ATH. 508c509e e K. TRAMPEDACH, Platon, die AkAdemie und die uitgenossische Politik,

126

PLATONE, LA REPUBBUCA

rale di tipo laconico», ma la rieducazione di giovani ancora plasmabili e non definitivamente condizionati dalla forma di vita del vecchio regime. Del resto, anche il progetto di Crizia non sarebbe risultato intollerabilmente estremistico dal punto di vista dell'esperienza storica dei Greci fra V e IV secolo: un'esperienza che certo non ignorava la pratica della deporta­ zione, dell'asservimento e persino dello sterminio in massa di intere popolazioni (si pensi ad esempio ai casi di Platea, di Me­ lo o dei progetti di Cleone per Mitilene, riferiti in Tucidide). Comunque la si interpreti, dunque, l'esigenza platonica appare certo radicale ma del tutto coerente con la ragionevole esigenza di una «purificazione» etico-politica della tavola della polis, e per nulla assurda dal punto di vista della discussione costituzionale e della pratica storica dell'epoca. Va invece sot­ tolineato un aspetto che non pare sia stato sufficientemente messo in luce. In questo passo Platone sembra concepire il processo educativo come rivolto all'insieme della popolazione giovanile della polis, almeno nella fase della sua prima attuazio­ ne, e non limitato ai figli del gruppo di governo. Un'eccezione di cui si dovrà tenere conto in sede di discussione dei limiti del progetto collettivistico della Repubblica. 4. Le condi1.ioni di possibilità: teoria e comando Le condizioni che consentono di pensare come possibile il

disegno utopico del libro V sono individuate da Platone a due diversi livelli, di principio il primo, di fatto il secondo. In linea di principio, la riforma è possibile perché essa è conforme a natura, kata physin, come nel caso dell'assegnazio­ ne di uguali funzioni a uomini e donne: è infatti nella natura di queste ultime il poter svolgere gli stessi ruoli (455d-e). Qui chiaramente il concetto di natura ha un valore normativa: è "naturale", e quindi anche possibile, ciò che è in accordo con «Hermes», Einzdschriftcn 66, Stuttgart 1994, pp. 64 sg.; M. ISNARDI PA­ RENTE, I.:Accademia antica e la politica del pn"mo Ellenismo, in G. CASERTANO (a cura dD. op. cit., pp. 89-117 (specialmente p. 103 ).

COMMENTO AL LIBRO V,

[A]

127

le qualità e le proprietà essenziali delle cose in se stesse; "natu­ rale" è anche ciò che risulta, di conseguenza, in accordo con il miglior ordine possibile delle cose. Per questo, oltre che una garanzia sulla possibilità di principio di ciò che le è conforme, la natura offre un punto di vista critico sull'esistente, in cui quell'ordine non è normalmente realizzato: «sono piuttosto le istituzioni attuali (tà vuv yt"(VOJ.Leva), contrarie a quelle che proponiamo, a sembrare costituite contro natura (para phy­ sin)» (456c). È interessante notare che nelle Leggi la difformità dalla si­ tuazione attuale (nun, V 739e) avrebbe invece cominciato a co­ stituire un marchio di impossibiltà (adynaton) per il disegno utopico (V 746c). Si preparava così la saldatura effettuata da Aristotde nd libro II della Politica fra "normalità" dell'esisten­ te (1263a22: tòv vf>v tpanov), la natura umana che vi si espri­ me, e normatività di questo sistema normale/naturale:H di qui deriva il carattere innaturale, perciò tanto indesiderabile quan­ to impossibile, della forma di vita collettivistica ddineata nella Repubblica (cfr. per esempio 1263b9). Non sempre, tuttavia, Platone può invocare la conformità all'ordine naturale come condizione di possibilità, in linea di principio, della trasgressione utopica dell'esistente. In casi do­ ve questo riferimento non è evidente - come per la comunanza di donne e di figli -la condizione di principio è piuttosto indi­ viduata nella coerenza interna dell'argomentazione . Che quella comunanza sia «conseguente (epomene) al resto della costitu­ zione, bisogna confermarlo con illogoS>> (461e): si tratta dun" Un'altra contrapposizione fra stato attuale delle cose e progetto della

RepubbliCIJ compare in Poi. II l 1261a8 sg.: quest'ultimo risulta ad Aristotde, fra tutti i disegni costituzionali, il più lontano dalla situazione storica (Il 7 1266a31 sgg.). Una prova dell'indesiderabilità e dell'impossibilità dell'utopia della RepubbliCIJ consiste secondo Aristotele appunto nel fatto che niente di simile è mai stato scoperto e sperimentato nd corso dd tempo passato (Il 5 1264al sgg.). Anche per un altro esponente del moderatismo del IV secolo, lsocrate, non si tratta di inventare leggi nuove ma di scegliere le migliori fra quelle che esistono (Antidorir 83).

128

PLATONE, LA REPUBBUCA

que di dimostrare la consistenza, la homologia (464b8) dei diversi aspetti della legislazione proposta con il disegno gene­ rale e gli scopi del progetto costituzionale. La coerenza intrin­ seca dell'argomentazione, che ne connette gli enunciati in modo cogente e «automatico» (VI 498a: ànò tou aÙtOJ.Uitou OUJ.l1tEv Ktiì, LXXIX (1984) pp. 97-113. Sulla

posizione della donna all'interno della famiglia e della società cfr., in generale, W. LACEY, The Family in Classica/ Greece, London 1968; S.B. POMEROY, Goddesses, Whores, Wives, and Slaves. Women in Classica/ Antiquity, London 1976; J.P. GOULD, Law, Custom and Myth: Aspects of the Socio/ Position o/

Women in Classica/ Athen.f, «The Joumal of Hellenic Studies», C (1980) pp. 38-59; R JUST, Women in Athenian Law and LI/e. London-New York 1989; P. SCHMITT-PANTEL (a cura di), L'antichità, in G. Dusv-M. PERROT (a cura di).

Storia delle donne in

Ocadcnle, Roma-Bari 1990, vol. l; R. HAWLEY-B.

LEVICK

(eds.), Women in Antiquity. Ncw a.ue.uments, L ondon-New York 1995 (con bibliografia aggiornata). Biografie si�ificative di donne greche sono contenute in N. LORAUX (a cura di), Grecia a/femminile, Roma-Bari 1993; una attenta rifl essione metodologica è condotta da J. BLOK, Sexual Asymmetry. A Hi.ftoriop,raphù:al Essav, in J. BLOK-P. MASON (eds. ), Scxual A.fymmetry. Studies

in Anacnt Society, Amsterdam 1987, pp. 1-

57. Per un interessante approccio

cfr. anche A. BELTRAMETTI, lmmap,ini della donna. ma.fchere del logos. in S. SETTIS (a cura di),/ Grm, vol. II, tomo Il, Torino 1997, pp. 897-953.

COMMENTO AL UBRO V,

[Ba)

161

de infatti un'applicazione alle cagne -l'estensione della nascita e dell'allevamento previsti per i cani - le cui conseguenze sono oggetto di un quesito, che Socrate rivolge a Glaucone (451d­ e). Si tratta di scegliere tra le seguenti alternative, pertinenti la funzione sociale: la collaborazione delle femmine alla sorve­ glianza dei greggi e in generale a ogni mansione, oppure la loro permanenza entro la casa, quasi che il parto e la cura dei cuc­ cioli le rendesse inette (adynatous), lasciando ai maschi tutto il lavoro (ponein) della custodia. Il quesito appare chiaramente retorico, l'assenso non può non premiare la prima alternativa, lo svolgimento di ogni atti· vità «in comune» (Kotvfi), salvo trattare le femmine come più deboli (cia9eveotépatç), i maschi come più forti (ioxupotépotç). La funzione rinvia all'addestramento presupposto, all'impossi­ bilità di servirsi di un animale per gli stessi compiti di un altro, senza assegnargli lo stesso tipo di educazione. Socrate introduce quindi la conclusione perseguita, il disvelamento della metafora: è necessario insegnare alle donne le stesse cose che vengono insegnate agli uomini, dal momento che il ruolo sociale sarà lo stesso. Anche alle donne bisogna dunque impartire la musica e la ginnastica, nonché la preparazione concernente la guerra. L'esplicitazione della massima koina ta philon perviene ad un approdo ben diverso da quello ipotizzabile da parte degli interlocutori. Glaucone, come già Adimanto, aveva privilegia­ to l'ambito della procreazione e aveva chiesto precisazioni in merito alla trophe, l'intervallo di tempo che sembra essere più faticoso (epiponotate, 450c). Nel discorso di Socrate il ponos della maternità è associato all'incapacità e all'inerzia, mentre il verbo ponein si applica alla cura politica, sottolineando l'asim­ metria dei valori che tradizionalmente accompagna i ruoli ses­ suali. La metafora della cagna mette tuttavia in discussione l'a­ simmetria stessa, affermando la valorizzazione dell'elemento femminile grazie alla koinonia dell'attività maschile. La do­ manda rdativa all'uso delle donne per i phylakes pone infatti il compito consueto come un exemplum /ictum, al quale si con­ trappone la desiderabilità dell'alternativa proposta.

PLATONE, LA REPUBBLIC�

162

Per Aristotele sarà al contrario quest'ultima a disporsi dal lato dell'assurdità, dell'atopia, dell'impossibilità di trovare una collocazione nella storia quanto nella coer�nza della teoria. Atopon - affermerà nella Politica

-

è richiamarsi al paragone

con gli animali per sostenere che le donne debbono avere le stesse occupazioni degli uomini poiché quelli non hanno un ménage domestico, una oiJ:onomia, di cui doversi occupare (II 5 1264b 4-6). Atopon è certamente nel quadro aristotelico che, incentrato sull'oikos, «per natura» assegna loro le funzioni di riprodurlo biologicamente (Poi. I 2 1252a26 sgg.) e di conser­ vare i beni che, procurati dal capofamiglia, racchiude all'inter­ no (Poi. III 4 1277b16 sgg.).10 Certamente plausibile è nel qua­ dro platonico che, sopprimendo la privatezza dell'oikos, elide la dinamica della trasmissione dei nomi e dei beni che immobi­ lizza la donna nel ponos domestico e ne presuppone l'inabilità ad un altro uso sociale. L'esplicitazone socratica della massima koina ta philon enuncia il paradosso della separazione dal ruolo riproduttivo, dal momento che avere in comune le donne signi­ fica avere in comune con quelle la custodia politica. La mobilità delle donne, l'uscita verso gli spazi aperti della città, si pone dunque in discontinuità con il ruolo materno. La phylakis (cfr. 457cl), sulla scena della kallipolis, non ripetereb­ be l'orgogliosa affermazione rivolta dalla corifea della Lisistra­ ta ai cittadini riuniti a teatro: «E non lo devo dare un buon consiglio alla Città? Sono nata femmina: ma non mi vietate di 10

Sulla rappresentazione dd femminile daborata da Aristotele ndla Po­

litica e nell'Etica Niromachea cfr. lo studio di S. CAMPESE, Madre materia: don­ na, casa, città nell'antropologia di Aristotele, in S. CAMPESE-P. MANULI-G. SISSA, Madre materia. Sociolagia e biolagia della donna greaJ, Torino 1983, pp.

15-79, 193-98, 205-08; inoltre M. VEGEITI, Il coltella e la stila, Milano 1979, pp. 122 sgg. Sulle aporie implicate dall'attribuire alla donna la facoltà delibe­ rativa (lo bouleutikon), ma priva di capacità decisionale, aleyron (Poi. I 13 1260a12-14), dr. D. LANZA, La critica aristotelica a Platone e i due piani della Politia�, «Athenaeum», XLIX (1971) pp. 355-92, in particolare pp. 375 sgg.; W. W. FORTENBAUGH, Aristotle on Slaves and Women, in J. BARNES·M. ScHOFIELO-R. SORABJI (ed s.), Artici es on Arislotle 2: Eth ics an d Politics,

London 1977, pp. 135-39, in particolare pp. 137 sgg.

COMMENTO AL UBRO V,

[Ba)

163

fare una proposta, migliore di quello che succede. La mia parte la pago: gli uomini li fornisco io! (andras eisphero)». Al civismo costituito dalla generazione dei figli, che ella ritiene abiliti al protagonismo politico, fa da contrappunto la condotta degli uomini: «Voi, poveri vecchi, che portate? Quel fondo cosid­ detto avito, l'avete sprecato dal tempo dei Persiani, e non l'a­ vete sostituito con i tributi (eisphoras): corriamo il rischio, anzi, di andare al fallimento per causa vostra» (Ar. Lys. vv. 648-55; trad. it. B. Marzullo). Alla produttività femminile che integra il fondo pubblico si oppongono la dilapidazione maschile dell'e­ redità ancestrale e il mancato pagamento dell' eisphora, la tassa di guerra. Né la phylakis riterrebbe convincente la motivazione che - assicura Prassagora alle compagne - persuaderebbe gli uomini a !asciarle governare (archein): sono madri, nessuno più di loro desidera salvare la vita ai soldati, né saprebbe me­ glio rifornirli di viveri (Ar. Ec. vv. 231-35). L'uditorio costituito dal popolo di Atene consentirebbe dunque ad estendere alla gestione della polis il ruolo nutritivo svolto nell'oikos, la cura dei figli, dei loro corpi." Ma l'uditorio di Socrate fornisce il suo assenso a un progetto diverso, la compartecipazione alla tutela dell'integrità etica, simbolica della città, del territorio che ne rappresenta la dimensione fisica. Tale compito, totaliz­ zante come per i phylakes, richiede alle donne un'assoluta mobilità dall'oikos, dai suoi ruoli e rappresentazioni culturali. Si tratta di un uso sociale, di una chresis eminentemente bellica, come sottolineano le precisazioni relative al completa­ mento dell'addestramento ginnico con la preparazione alla guerra. La phylakis abbandona la tradizionale condizione fem­ minile di subirne le conseguenze, di essere accomunata agli achreioi, gli «inutili», in caso di conflitto. Così, allorché gli rilievi di M. RosELLINI, Lysistrata: une mise en scène de la 17 (1979) pp. 11-32: il potere delle donne costituisce l'esito logico delle loro funzioni abituali (p. 16); S. SAIO, I.:Assemblù tks Femmes: /es /emmes, l'économie et/a politique, ivi, pp. 33-69: il sistema delineato da Prassagora è orientato alla vittoria dell'oikos sulla po/is (p. 61). 11

Significativi i

/éminiti, «Les cahiers de Fontenay», n.

164

PLATONE, LA REPUBBLICA

Spartani con gli alleati cinsero d'assedio Platea- racconta Tuci­ dide (Il 78.3 ) , - i Plateesi avevano già condotto ad Atene i bambini, le donne, i vecchi e il gran numero degli uomini ina­ bili alla guerra (7tÀ.il0oç tò àxpEiov tiòv àv6pclmrov). Le donne, garanti della continuità della comunità insieme ai figli, costitui­ scono beni preziosi da portare al riparo all'esterno, fuori del territorio, oppure, in ossequio alla strategia di Feride, da collo­ care all'interno: gli Ateniesi, persuasi dai suoi argomenti, fecero venire dalla campagna in città i bambini e le donne (Il 14.1). È necessario parare l'eventualità che, catturati, divengano ostag­ gi, beni preziosi questa volta per il nemico, e non sempre tra la tutela e la cattività sussiste una demarcazione netta: i Plateesi erano ben consapevoli di dover sottostare alle direttive degli Ateniesi in quanto i loro figli e le loro donne si trovano ad Ate­ ne (Il 72.2). Entrambe le condizioni sono d'altronde caratteriz­ zate dalla passività, dall'inabilità all'azione bellica, fattore pri­ mario della storia, 12 alla quale si contrappone l'irruzione della phylakis, come protagonista, nella vita della ka/lipolis. La finalità militare, cui si connette l'addestramento ginnico femminile, costituisce un segno eloquente della trasformazione della topica propria del «mirage)) nel paradosso della «prima ondata)), la legge relativa alle donne (V 457b). Crizia e Seno­ fonte, come si è visto, riconducono il training atletico all'euge12

Vedi la lettura dei passi tucididei condotta da N. LRAUX,l.A cité, /'hi·

storien, /es/emmes, «Pallas», XXXI I ( 1985) pp. 7-39. Sintomatica è la conver­

genza delle fonti sulla valutazione negativa del comportamento delle donne spartane durante l'invasione tebana. Senofonte, HG VI 5.27-8, mette in luce la mancata tolleranza del fumo nemico da parte femminile, in contrasto con la coraggiosa ed ordinata difesa maschile. Aristotele. Poi. II 9 1269b 37 sgg. afferma che le donne, del tutto inutili come nelle altre città. recarono più con­ fusione dei nemici stessi. Cfr. M. L. NAPOLITANO, Le donne spartane e la guer· ra. Problemi di tradizione, «Annali dell'Istituto Orientale di Napoli. Archeo­

logia e storia antica», IX (1987) pp. 127-44: anche le critiche platoniche alla loro incapacità militare (Leg. VII 806a-b) potrebbero riferirsi a tale circostan­ za (p. 132). Sulla problematica dr. anche D. ScHAPS. Le donne greche in tem­ po di guerra 0982), trad. it. in G. ARRJGONI (a cura dii. Le donne 1n Grena,

Bari-Roma 1985. pp. 399-430.

COMMENTO AL UBRO V,

(Ba]

165

netica, e il Licurgo di Plutarco fornirà una significativa elabora­ zione della problematica (14.3): «Egli esercitò i corpi delle fan­ ciulle con corse, lotte e lanci dd disco e dd giavellotto, in mo­ do che da un lato i loro figli, ricevendo fin da principio una ra­ dice robusta in corpi robusti, crescessero meglio, e dall'altro esse, sopportando con vigore i parti, lottassero (agonizointo) decorosamente (kalos) e facilmente contro le doglie» (trad. it. M. Manfredini). La simmetria tra i ruoli pubblici del guerriero e della madre viene integrata dall'analogia tra la nobile lotta contro il nemico e quella contro i dolori della generazione, i­ scritta negli stessi valori. Tale analogia- afferma ancora Plutar­ co - aveva una sanzione nella legislazione funeraria, in quanto era consentito iscrivere sulle tombe i nomi dei sepolti, solo nel caso di un uomo caduto in guerra o di una donna morta di parto (27 .3) .13 La città le conferisce pertanto il privilegio di sot­ trarsi all'anonimato, di fregiarsi dell'onore della memoria, riproponendo quella scansione dei ruoli sessuali che Socrate intende comporre nella categoria di koinonia. 3. Ridicolo e progettualità Lo stesso Socrate interrompe tuttavia lo svolgimento del discorso ed espone a Glaucone una perplessità, che questi a sua volta condivide (V 452a): «forse [. .. ] molte delle cose che stiamo dicendo trasgrediscono il costume tradizionale (para to ethos) fino al punto che potrebbero sembrare ridicole (geloia), se venissero realizzate secondo i nostri discorsi». Ricompare l'incognita della incredulità, della apistia, che già lo aveva in­ dotto ad aggirare la trattazione (450c-d), incognita che sempre Glaucone si era adoprato a dissipare, assicurando la sintonia Il

L'equivalenza tra l'oplita e la partoriente, in quanto condividono la

«belle mort», è sottolineata da N. LORAUX, Le lit,

la guerre (1981), in Les 1989, pp. 29-53. 1

expériences de Tirésias. Le /éminin et l'homme grec, Paris

problemi testuali presentati dal passo sono analizzati da R. FLACELitRE, jur que/ques passages des Vies de Plutarque, «Revue des etudes grecques», LXI

(1948) pp. 403-0.5.

166

PLATONE, LA REPUBBLICA

degli interlocutori, «né irragionevoli né increduli né ostili». Le apprensioni si rivolgono dunque a un altro uditorio, esterno alla polifonia dialogica, che si esprime, antidialetticamente, nel linguaggio irragionevole, incredulo ed ostile costituito dal ridi­ colo. Il riso di un qualunque cittadino segnalerà le soglie estre­ me della progettualità, dell'utopia, quelle stesse che la riflessio­ ne di Aristotele consegnerà all'atopia. Una cosa apparirà più ridicola di tutte, geloiotaton: l'eser­ citarsi delle donne, nude (gymnas), nelle palestre, insieme agli uomini, e non solo le giovani, ma persino le anziane, come quei vecchi nei ginnasi che amano ancora esercitarsi, per quanto siano grinzosi e sgradevoli a vedersi. Ponendo al centro del di­ scorso l'assunto della nudità femminile, Socrate mostra la fer­ ma intenzione di abbandonare un timore, già definito «infanti­ le)) ( 4 51a), a favore di una coerenza teorica spinta al limite della provocazione. Nel rilanciare la sfida egli individua inter­ locutori qualificati all'interno dell'anonimato dell'uditorio, «uomini di spirito)), i cui lazzi si appunteranno contro le inno­ vazioni nell'iter educativo, dalla formazione musicale a quella atletica, all'uso delle armi e all'equitazione (452b-d). In relazio­ ne alla topica specifica che attinge il climax della scabrosità, rivolge loro un invito a mantenersi seri e impartisce una lezio­ ne di storia culturale. Rammenta infatti che non molto tempo prima ai Greci sembrava brutto (aischra) e ridicolo (geloia), come attualmente a molti barbari, che degli uomini si facessero vedere nudi, e quando i Cretesi e i Lacedemoni iniziarono la pratica della ginnastica, ciò poteva sembrare comico ai raffina­ ti di allora. La sequenza presenta assonanze con l'archeologia tucidi­ dea: gli Spartani furono i primi a scoprirsi pubblicamente, unti di grasso, in occasione.degli esercizi ginnici; l'innovazione è annoverata tra quelle che distinguono sia dalla «barbarie>> elle­ nica arcaica, sia dalla barbarie contemporanea (16.5-6).14 Ero14

Un riscontro specifico è condotto da M.

McDo:--�:-�n., The lntroductùm

o/ Athll"lic Nudity. ThuC)'Jidt•J, Plato and the VaH'J,

«Thc .Joumal of Hellenic

COMMEI\'TO AL UBRO V,

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167

doto aveva a sua volta annotato che presso i Lidi, al pari di quasi tutti i barbari, era fonte di grande vergogna essere visto nudo, anche per un uomo (l 10.3 ) . Socrate integra il percorso culturale, rendendolo funzionale alJa polemica: quando appar­ ve che per chi si esercitava era meglio spogliarsi, alJora ciò che per gli occhi era ridicolo svanì di fronte a ciò che il ragiona­ mento rivelava migliore, e questo mostrò che è un uomo vano (mataios) chi ritiene ridicolo altra cosa dal male. Illogos che elabora la nozione del bene, dell'utile per l'addestramento, si contrappone dunque all'inarticolata percezione sensibile, al­ l'irragionevolezza del tabù che muove al riso. La condanna che impartisce la storia a coloro che ieri furono amici del ridicolo è la stessa che impartirà a coloro che tali sono oggi, nel momento in cui essa sta tracciando una sequenza ulteriore: l'ingresso delle donne nel luogo nudo che è al centro della vita della polis. La polemica platonica sembra suggerire, quasi inerzialrnen­ te, un testo e un nome: le Ecclesiazuse di Aristofane (cfr. qui

[D]). Nelle Ecclesiazuse si ride infatti di un gynaikeion drama che, oltre alJa messa in scena del potere femminile, contempla molte delle topiche trattate nella Repubblica - la comunanza dei beni, delle donne, dei bambini, l'assenza di vertenze legali, l'istituzione dei sissizi -, per quanto inserite in un progetto radicalmente diverso, in una disparità di contesti ideologici e, ovviamente, di generi letterari. Socrate a sua volta seleziona il linguaggio del ridicolo, nella forma propria alla commedia, come modalità privilegiata delle critiche che gli verranno rivol­ te. Allude, come si è visto, ai «lazzi (skommata) degli uomini di spirito (ton charienton)», alJa «comicità» (Krof.LqX)Eiv) che i raf­ finati di un tempo ravvisarono nella nudità maschile. Seleziona uno specifico interlocutore, l'«uomo vano» che non identifica il ridicolo con il male, figura che tornerà successivamente in (1991) pp . 182·93; più in generale cfr. L. BoNFANTE, Nudity as Costume in ClassictJI Art, «American Joumal of Archaeology», XCIII ( 1989) pp. 543-70, in panicolare pp. 556 sgg. Cfr. qui [Bb], nn. 4, 5, 6.

Studies>o, CXI a

168

PLATONE, LA REPUBBLICA

una veste analoga: «l'uomo che ride (gelon aner) delle donne nude, che si esercitano in vista del meglio, «cogliendo dalla sua sapienza il frutto acerbo» del ridicolo, non sa nulla, a quanto sembra, né di ciò che deride né del perché lo fa» (457b). Tale polemica, pur nella sua astrattezza tipologica, può dunque suggerire un'allusione alla drammaturgia aristofanea, sebbene i temi specifici in discussione, le innovazioni neli' iter educativo e la nudità correlata, non facciano parte del reperto­ rio delle Ecc/esiazuse. Se la commedia, cronologicamente ante­ riore al libro V (cfr. qui Introduzione, § 2) non ne costituisce la fonte di ispirazione, fornisce comunque un banco di prova pri­ vilegiato dell'elemento anticonvenzionale, provocatorio, con­ naturato alle topiche socratiche, della sua esposizione a una let­ tura parodica, altrettanto provocatoria, radicata nella memoria collettiva e catalizzatrice della recettività sociale. I versi della List'strata (79-82), relativi al costume spartano, costituiscono d'altronde un esempio significativo di lettura dell'addestra­ mento atletico femminile in chiave di ridicolo (cfr. qui [Bb]). Questo si appunta inoltre, nella stessa opera, sulla attività belli­ ca e in particolare equestre, riattivando il vecchio fantasma ate­ niese della guerra delle Amazzoni contro la città. n corifeo dà voce al timore degli uomini: «Se si danno all'ippica, sono fottu­ ti i Cavalieri: chi meglio della femmina, per cavalcare? Sta salda in selta, non sguscia nemmeno se galoppi>> (vv. 676-78; trad. it. B. Marzullo). Il doppio senso sessuale del "cavalcare", l'allu­ sione oscena, consegna all'aischron, e al riso che ne consegue, la rappresentazione para to ethos del ruolo femminile. Agli uomini di spirito Socrate impartisce, oltre ad una le­ zione di storia culturale, una lezione di estetica: «chi cerca di far ridere (gelopoiein) avendo di mira come ridicolo un qual­ che spettacolo che non sia quello della dissennatezza (tou aph­ ronos) e della malvagità (kakou) stabilisce poi seriamente, per la sua concezione del bello (kalou), un punto di riferimento diverso da quello del bene (agathou)» (452d-e). La ribadisce all'«uomo che ride»: il suo humour è ate/es, imperfetto, perché concerne rappresentazioni scorrettamente selezionate; infatti

COMMENTO AL LIBRO V,

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169

l'utile è bello, il nocivo brutto (457b). Socrate riafferma dun­ que gli assunti teorici più volte esposti nella requisitoria contro i cattivi maestri, i poeti, formulata nell'ambito della delineazio­ ne della paideia. n kalon deve costituire la dimensione estetica dell'etica funzionale alla kallipolis, mai deve esserne disgiunto, identificandosi con il piacevole per la vista e l'udito. n libro III, nell'individuare il ristretto ambito della mimesi conveniente ai difensori- il modello dell'uomo metrios- enu­ clea un vasto repertorio di comportamenti interdetti, di sog­ getti sociali che ne sono i portavoce (395d sgg.). n catalogo è inaugurato dalla donna, colta nell'atto di infrangere il dettato della sophrosyne: essa insulta il marito, sfida gli dèi, è in preda al pianto e al lamento. Meno che mai essi - uomini - la imite­ ranno ammalata o innamorata o nel travaglio di parto. Nel li­ bro V la lezione socratica segue una procedura diversa, seppu­ re complementare, e approda a un esito inclusivo. n gynaike­ ion drama mette ora in scena una figura pubblica, plasmata dall'utile per la polis: essa non può essere correttamente assun­ ta a oggetto del ridicolo, ma rientra di diritto nel kalon, nell'e­ stetica del bene. Nello spazio civico ne verrà pertanto operata la mimesi e le esecutrici saranno le phylakides. Nel radicalismo della progettualità platonica affiora un retroterra etnografico, ricco di presenze femminili e di modelli di organizzazione sessuale difformi dal "costume tradizionale" (cfr. qui [E]). Tale repertorio culturale, mai esplicitato nella Repubblica, è invece direttamente segnalato nelle Leggi, che vi rinvengono un supporto alla legge pertinente l'educazione femminile alla ginnastica e all'equitazione (VII 804e sgg.). Al­ l' obiezione preventivata che il provvedimento non è conforme al criterio di ciò che è conveniente, prepon, l'Ateniese oppone innanzi tutto un dato di fatto, un'esemplificazione. Egli già credeva in base ad antichi racconti ed ora, per così dire, «Sa» (ol&x), che intorno al Ponto vivono miriadi di donne, chiamate Sauromatidi, alle quali è prescritta come agli uomini la pratica dei cavalli, dell'arco, delle altre armi, e l'addestramento ade­ guato. Nella certezza platonica è leggibile una memoria erodo-

PLATONE, LA REPUBBLICA

170

tea, la descrizione dei costumi dei Sauromati, popolo prossimo agli Sciti (IV 110-17). li resoconto etnografico è preceduto da un'ampia archeologia, incentrata sulla figura dell'Amazzone, canonica nella tradizione mitica. All'epoca della vittoria del Termodonte, racconta Erodoto che i Greci, di ritorno in patria, caricarono sulle navi le guer­ riere sconfitte che, in alto mare, li attaccarono e li uccisero. Ignoranti della navigazione, esse si lasciarono trasportare dai flutti finché approdarono in terra scita. Gli abitanti, esacerbati dai saccheggi, le affrontarono in battaglia credendole uomini, ma i cadaveri rimasti sul campo rivelarono la vera identità. Peculiare, rispetto alla tradizione, è la modalità scelta dal loro consiglio per ottenere la vittoria: non le avrebbero infatti più combattute, ma avrebbero inviato un gruppo di celibi per sedurle e generare dei figli. Gli Sciti ragionano dunque da capifamiglia greci, decidendo di «domarle» (cfr. 113.3) attra­ verso il matrimonio e la maternità, come si fa con le donne del proprio paese.15 Ma la risposta delle Amazzoni ha la fierezza di quella che le phy/akides offrirebbero agli Ateniesi (114.3-4): «Non potremmo vivere con le vostre donne perché noi e loro non abbiamo gli stessi usi (nomaia); noi tiriamo con l'arco, sca­ gliamo giavellotti e andiamo a cavallo, mentre non abbiamo appreso i lavori femminili. Le vostre donne non fanno nulla di quanto abbiamo detto; si occupano invece di lavori femminili rimanendo sui carri; non vanno a caccia né in alcun altro po­ sto. Con loro dunque non potremmo andare d'accordo» (trad. it. A. Fraschetti). Come non conoscono la divisione del lavoro incentrata nell'oikos, cui viene assimilato il carro degli Sciti, così le Amaz­ zoni non ne conoscono la regolamentazione della sessualità (113 .l sgg.). Libere e lascive, anziché educate alla tutela della 1'

Sulla trasformazione della società scita in una quasi società greca cfr. F.

HARTOG,

Le miroir d'Hérodall', Paris 1980, pp. 230 sgg. Per una diversa lettu­

ra dell'esposizione erodotea, alla luce dei ritrovamenti archeologici degli ulti­ mi decenni, cfr. T. DAVID,

La position de la /emme en Asie centrale, (1976) pp. 129-62.

«Dialogues d'histoire ancienne», II

COMMENTO AL LIBRO V,

171

[Ba]

verginità, alla sophrosyne, avevano accettato di buon grado le

avances dei seduttori; l'accoppiamento si era svolto in uno sce­ nario remoto dalla nonna, sotto il sole del mezzogiorno, nella selvatichezza dell'aria aperta. La geografia dello spazio aperto, che fa da sfondo alla promiscuità, al rifiuto del matrimonio, è omogenea all'acquisizione del ruolo maschile del guerriero, al­ l' aggressività, alla vocazione al dominio che gli sono proprie. La sconfitta delle guerriere fa tradizionalmente parte delle ge­ sta compiute dagli eroi civilizzatori, 16 ma può essere attribuita ad Atene stessa: il catalogo delle gesta compiute dagli antenati annovera di consueto l'alto fatto di averle ricacciate, dopo che si erano spinte fino a cingere d'assedio l'Acropoli. Diverso tuttavia è il discorso erodoteo, nel configurare il passaggio dall'archeologia all'etnografia, dal mito eziologico alla descrizione, evocata da Platone, dei costumi dei Sauro­ mati. Questa non ci riporta infatti la fenomenologia della gine­ cocrazia, ma quella dell'indistinzione dei ruoli sessuali (IV

116-7): «Le donne dei Sauromati vivono alla maniera antica: cavalcando vanno a caccia con gli uomini e senza di loro, van­ no in guerra e portano lo stesso equipaggiamento dei maschi

[. .. ]. Riguardo ai matrimoni (peri gamo n) ecco quali sono le loro usanze: nessuna fanciulla si sposa prima di aver ucciso un nemico» (trad. it. A. Fraschetti). La pacificazione nelle relazio16

Cfr. E. HF vv. 408 sgg.: Eracle riporta in Grecia la cintura strappata al·

la regina. Analogamente dr. A. Eu.

vv.

685 sgg.: Teseo sconfigge le Amazzoni

che avevano assediato Atene, mosse dall'odio nei suoi confronti . Le diverse tradizioni relative al mito del rapimento della regina, che avrebbe causato tale odio, sono esaminate da W.B. TYRRELL, Amazons. A Study in Athenian Mythmaking, Baltimore-London

1984, pp. 3 sgg. (con ampia bibliografia).

Sulla modifica della rappresentazione dell'Amazzone prodotta dall'assimila­ zione ai Persiani, conseguente alle guerre mediche, cfr. le osservazioni di P. DEVAMBEZ, Les Amazones eti'On.ent, «Revue archéologique», II

(1976) pp.

265-80, in particolare p. 273: se nel periodo arcaico erano state figure folclori­

stiche, analogamente ai Centauri, ora ottengono il diritto di cittadinanza nel­ l'arte ufficiale. Per una connessione tra Amazzoni e Centauri, in quanto ambedue ostili alle pratiche matrimoniali sottese alla civiltà della polis, cfr. P. DuBOIS, Centaurs and Amazons

(1982), Ann Arbor 1991.

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PLATONE, LA REPUBBLICA

ni tra i sessi è l'esito dell'accettazione, da parte delle Amazzoni, del vincolo monogamico proposto dagli interlocutori: esso consente di "domarle", di estinguere la fierezza solitaria e la furia omicida. n rifiuto di condividere le attività, la vita quoti­ diana delle donne scite, implica tuttavia una devianza dalle norme nuziali, che si riproduce nelle coordinate spaziali. Men­ tre la consuetudine greca prevede che la sposa si trasferisca nell'oikos maritale, conducendo con sé la dote, le Amazzoni impongono agli sposi di ottenere dai parenti la loro parte di beni e di installarsi oltre il fiume Tanai (114-16). La devianza, che si manifesta anche nell'exploit che qualifica le Sauromatidi per il matrimonio, è l'esito della frattura rispetto ai tradizionali ruoli sessuali introdotta dalla partecipazione femminile a quel­ lo bellico, dal sottrarsi agli erga gynaikon.17 La "lezione" che giunge dall'orizzonte etnografico, sul quale si profila la rifles­ sione platonica, è pertanto duplice: alla certezza dell'esistenza di donne guerriere si associa la consapevolezza che tale esisten­ za postula la destrutturazione dell'oikos. 4. Identità di natura e differenza biologica n nodo teorico fondamentale resta comunque da scioglie­ re: è la donna in grado (dynate) di condividere i compiti del­ l'uomo, a cominciare da quello bellico? (452e sgg.). Si apre la problematica della possibilità, il primo aspetto dell'incredulità 17

Sull'indistinzione dei ruoli maschile e femminile configurata dalla nar­

razione erodotea cfr. M. RoSELLINI-S. SAiO, Usages de /emmes et autres 'nomoi' chez /es 'sauvages' d'Hérodote. ccAnnali della Scuola Normale Supe·

riore di Pisa», VIII (1978) pp. 949-1005, in particolare pp. 1001 sgg.; sulle tensioni rispetto alle modalità matrimoniali greche J. CARLIER, Voyage en Amazonie grecque,

..

Acta antiqua Academiae Scientiarum Hungaricae»,

XXVII (19791 pp. 381-405, in particolare p. 393: gli Sciti son divenuti ..des

époux et pères amazoniens». Sui costumi dei Sauromati cfr. HP. Aer. 17: le loro donne non lasciano la verginità se non dopo avere ucciso tre nemici; quando si sono sposate cessano di cavalcare, a meno che vi siano costrette da una mobilitazione generale. In questa versione la guerra abilita al matrimonio. ma

vi diviene. successivamente, di fatto incompatibile.

COMMENTO AL LIBRO V,

[Ba)

173

che Socrate aveva indicato, problematica che si pone al livello logico della coerenza con il principio di «fare le proprie cose»

(ta hautou prattein). Questo aveva costituito il fondamento del­ la divisione tecnica del lavoro che, nel libro II, aveva inaugura­ to il processo di fondazione della polis: si era infatti asserito che ciascun individuo deve svolgere la sola funzione che gli è propria secondo natura. L'obiezione formulata da Socrate, a nome di un virtuale interlocutore, mette in luce un dato incon­ trovertibile, la grande differenza naturale che sussiste tra la donna e l'uomo. Incontrovertibile appare a sua volta la conse­ guenza in base all'assunto posto come premessa: conviene

(proseket) attribuire a ciascuno una funzione diversa, in accor­ do alle rispettive nature. L'obiezione si traduce pertanto in un'autoconfutazione, come Socrate fa notare a Glaucone, in quanto essi cadono palesemente in contraddizione, nel soste­ nere che gli uomini e le donne debbono fare le stesse cose, pur avendo una natura nettamente distinta. Il virtuale interlocutore conferisce un rigore formale alle prevedibili reazioni del senso comune, quelle che già si erano espresse nel linguaggio del ridicolo. La sua formulazione del principio di ta hautou prattein approda infatti alla convalida del costume tradizionale contro le trasgressioni proposte. L'ap­ pello alla physis biologica introduce un'accezione peculiare del termine hekastos, riconducendo la pluralità dei singoli indivi­ dui all'interno della scansione binaria implicata dal genere. Il principio attitudinale si esprime quindi nella terminologia del

prosekon, di ciò che è conveniente secondo la distribuzione, operata dalla consuetudine, dei ruoli sociali. L'obiezione riveste tuttavia una coerenza logica puramente verbale, in quanto gioca capziosamente sui nomi, ingenerando un equivoco che Socrate riconosce di avere involontariamente alimentato, rischiando di essere coinvolto in una discussione eristica. Non aveva infatti esaminato quale aspetto specifico (ti

d�) relativo alla differenza e all'identità di natura, e in quale ambito di pertinenza (npoç ti n:ivov ), egli aveva selezionato come criterio di assegnazione delle occupazioni (454b). Si as-

PLATONE, LA REPUBBLICA

174

sume ora l'onere dell'esame, ricorrendo ad un ragionamento per assurdo: se si individuasse come discriminante per fare il mestiere di calzolaio l'assenza o la presen za dei capelli, la natu­ ra di calvo lo precluderebbe a chi presenta una natura opposta, oppure viceversa. L'esempio mostra l'incongruità di aver rite­ nuto socialmente rilevante una caratteristica fisica, l'incon­ gruità - il ridicolo - nella divisione del lavoro che ne è di conse­ guenza scaturita. L'esito paradossale mostra la correttezza della delimitazione attuata, seppure senza fornirne un'adeguata esplicitazione: egli aveva sdezionato l'aspetto della differenza e dell'identità di natura che è pertinente all'identità di occupa­ zioni

(tò npòç aùtà tEivov tà È1ttt1l0EUJ.1ata), invece di porre tali termini in senso assoluto (ncivnoç). Due esempi ulteriori convalidano l'assunto, tornando al nodo della problematica: un uomo medico e una donna la cui anima è portata alla medicina hanno la stessa natura, mentre un medico e un architetto l'hanno diversa (454c-d). La varietà dd­ la casistica trova il suo elemento ordinatore nel termine psyche,

che costituisce l'ambito della diversità e della somiglianza natu­ rale. La caratteristica psichica, attitudinale, rende corretta la divisione del lavoro operata nel terzo caso, costruendolo come speculare al primo contemplato. Tale specularità implica tutta­ via uno spostamento essenziale, introdotto dalla seconda varia­ bile, l'assimilazione della corporeità al genere: identici sono un uomo e una donna con la stessa inclinazione professionale, l'a­ nima non presenta una connotazione sessuale. TI virtuale obiet­ tore aveva dunque praticato l'eristica, rinvenendo una contrad­ dizione che si poneva a livello puramente nominale. Egli aveva prioritariamente equivocato sul significato dd termine physis, ritenendo pertinente al principio dita hautou prattein un'acce­ zione biologica che nel contesto tecnico è irrilevante.18 Una lucida analisi è condotta da G. CAMBIANO, Platon��le tecniche (1971), Roma-Bari 1991, p. 167: l'attitudine a una techne è ciò che costituisce la physis di un uomo, riafferrnando l'interpretazione, tipicamente platonica, del cittadino come tecnico. In una prospettiva critica vedi i rilievi di L.H. CRAJG, The War Lover. A Study o/ Plato's Republic, Toronto 1994, p. 217: la 18

COMMENTO AL LIBRO V,

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175

La scelta della medicina, come settore in cui si esplica una competenza femminile, non è certamente casuale, dal momen­ to che a compierla è Socrate, figlio di una levatrice. Altrettanto pregnante è inoltre tale scelta dal punto di vista della coerenza argomentativa: si tratta di una attività pubblica, rispettabile, qualificata, che può costituire il tramite a quella di guardiana.19 Se infatti - si conclude - il genere maschile e femminile si rive­

leranno dotati di capacità diverse in rapporto a una qualche tecnica

O

a un'altra occupazione (npÒç tÉXVllV nvà i\ aÀ.À.o

bttritl>ruJla), queste andranno assegnate all'uno o all'altro. Se invece, sottoposti al vaglio attitudinale, riveleranno una diffe­ renza solo nei ruoli riproduttivi, non sarà affatto dimostrato che la donna è diversa dall'uomo, e pertanto i difensori e le loro donne si dedicheranno alle stesse occupazioni (454d-e). Non può certamente sfuggire il radicalismo di questa asserzio­ ne, il rifiuto del dogma, mai prima sottoposto a una disamina critica, secondo il quale la differenza sessuale funge da nonna per la divisione del lavoro. L'onere della verifica spetterebbe al virtuale obiettore (455a sgg.), tuttavia egli viene invitato a seguire un ragionaconcezione dd naturale, radicalmente dipendente dall'artificiale, produce ef­ fetti comici. In assenza delle arti non potremmo parlare della natura di nessu­ no,

mentre in loro presenza non possiamo distinguere una natura nè maschile

né femminile in quanto tale, né umana, ma solo la natura di un calzolaio, di un medico e così via.

19 Il ruolo rilevante svolto dall'esempio dell'uomo e della donna medici nella progressione teorica è sottolineato da S.B. POMEROY, Plato and the Female Physician (Republic 454d2), ccAmerican Joumal of Philology», XCIX

(1978) pp. 496-500 (con disamina critica degli emendamenti proposti al testo). Tale

esem

plificazione troverebbe un supporto nelle attestazioni letterario-epi­

grafiche rdative alla presenza di ginecologhe nell'Atene dd IV secolo. Più ampiamente Io., Technikai kai Mousikai: T be Education o/ Women in tbe Fourth Century and in the Hellenistic Period, ccAmerican Journal of Ancient History», II (1977) pp. 51-68. Sulla controversa problematica cfr. le posizioni più caute di P. HERFST, Le trovai/ de la /emme dans la Grèce ancienne, Utrecht

1922, pp. 52 sgg., e di P. MANULI, Donne mascoline, femmine sterili, vergini perpetue. La ginecologia greca tra lppocrate e Sorano, in S. CAMPESE-P. MANuu­ G. SISSA, op. cit (n.

10), pp. 149-92; 201-04; 210-12, in particolare pp. 186-87.

176

PLATONE, LA REPUBBUCA

mento, volto a mostrare che, in relazione alla gestione della

polis, non c'è alcuna occupazione idion gynaiki, peculiare alla donna. A tal fine Socrate enuclea i requisiti che distinguono, rispetto a un altro che non lo è, l'individuo naturalmente ben dotato in un campo: facilità di apprendimento, creatività, me­ moria, capacità di servirsi delle qualità corporee. Tali selettori attitudinali sembrano paradossalmente confortare la tesi avver­ sa, fungendo da moltiplicatore della differenza specifica, in quanto registrano la superiorità in ogni ambito del genere maschile (tò téòv àv�péòv yévoç �tacpEp6vtcoç EXEl). Né vale la pena di parlare degli erga gynaikon, tessitura e cucina, in cui il

gynaikeion genos rivela un'abilità, e sarebbe ridicolo venisse sconfitto (455c). Essi non sono chiaramente funzionali alla problematica, posta all'interno dell'ottica civica. Come, alla luce del principio dita hautou prattein, la funzione riprodutti­ va non è pertinente all'attribuzione dei ruoli sociali, così, alla luce dello stesso principio, non esiste linea di continuità tra lo svolgimento del ruolo privato e di quello pubblico. Glaucone conferma la validità, in linea di massima, dell'assunto socrati­ co, ma aggiungendo una precisazione significativa: molte don­ ne, in molti campi, sono migliori di molti uomini (yuvainç

flÉvtot xoÀÀaÌ. xoÀÀéòv àv�péòv �EÀtiouç EÌç xoÀÀa). L'ar­ gomentazione approda quindi all'obiettivo perseguito, la nega­ zione che sussistano occupazioni proprie alla donna e all'uomo in quanto tali. L'una e l'altro partecipano a tutte, secondo na­ tura, dal momento che le doti naturali sono parimenti dissemi­ nate in ambedue i generi (455d-e). L'unico correttivo all'affermazione dell'identità di natura è fornito dalla maggiore debolezza che quella femminile manife­ sta in tutti i settori (È7tÌ Jtatav Otatpt�Vt(J)V), fingendo di cee· care la verità (o'ì xpoo!totoilvtati'Èv tiJv èù..iJ8Etav çnEiv). Anche loro, che si propongono come maestri di virtù, di scienza e di felicità, non fanno altro che andare a caccia di contraddizioni nei discorsi: la loro occupazione è giustamente considerata dagli uomini dabbene solo chiacchiera e meschinità (à&At:oxiav

Kai JlliCpoÀ.o'ylav: Platone doveva avere presente questa accusa infamante quan­ do utilizzava la coppia adoleschia/meteoro/ogia e quando, in Resp. VI 486a, rivendicava alla natura filosofica, che punta «all'intero e al tutto», il ripudio della smikro/ogia); in questa prospettiva, acquista valore l'ipotesi che dietro l'a· nonimo interlocutore di Critone in Eutidemo 304d-305d si nascondesse Isocrate, critico degli eristi, ma anche di Socrate che con loro si mischiava. Cfr. anche Hel. l, dove Isocrate si riferisce a quei superbi che trattano argomenti assurdi e paradossali: alcuni sono invecchiati negando la possibilità dell'antik-

COMMENTO AL UBRO V,

229

[C]

Platone si accinge a costruire le ragioni del primato politico e teorico del filosofo ed è particolarmente attento a mostrare che in pratiche simili si cela il rischio della contraffazione. Diventa allora interessante notare che la ricerca antistenica dell'oikeios logos sottintende la stessa distinzione tra oikeion e allotrion che è servita a costruire la logica del to hautou prattein nella Repubblica fino al libro IV. ll criterio del "proprio" è sta­ to spinto a un massimo di ambiguità per introdurre la necessità di chiarirne i referenti. Non ogni divisione kata eide è dialettica e i socratici possono cadere nel nominalismo come gli antichi seguaci di Prodico, contraendo con lui sterili matrirnoni.28 La chiarificazione metodologica procede di pari passo alla costruzione della kallipolis: se ci si attiene alle distinzioni già gn'n, altri sostengono che coraggio sapienza e

giustizia sono una sola cosa, altri

passano il tempo in discussioni inutili e noiose. Se il primo riferimento sembra una polemica diretta contro Antistene, il secondo sembra richiamare Platone (Protagora) o Euclide (per la tesi dell'unità del bene) e il terzo sembra rivolgersi, indistintamente, a socratici (forse Megarici) ed eristi; su questi temi dr. in gene­ rale W }AEGER, Paideia. La formazione dell'uomo grero (1947), vol. III, trad. it. Firenze 1983), pp. 94-102 e 115-16; A. PATZER, op.cit. (n. 21), pp. 238-44; G. GIANNANTONI, op.cit. (n. 21), vol. IV, pp. 270-75; A. BRANCACO, op.cit. (n. 16), pp. 37-39 e 97-104. È probabile che in questo contesto stessero maturando anche quegli dementi che hanno permesso alle tradizioni successive di attribui­ re a una componente socratica, quella che fa capo a Euclide, una pratica eristi­ ca, trasmessa poi ai «V'tat), per essere imparentati

(kasignetot) tra loro e, essendo tutti parenti (oikeiot), non pro­ vare l'uno per l'altro né gelosia né odio (IV 104).21 20

Sulla prudenza con cui vanno segnalate le suggestioni provenienti dal­

l'etnografia dr. H. jOLY, Le renversement platonicien. Logos, episteme, polis, Paris 1974, pp. 349 sgg.: si tratta del tentativo di ricostruire una informazione mai esposta in quanto tale. Comunque Platone non avrebbe veramente sotto· scritto !'"etnocentrismo" dell'epoca; il suo silenzio sarebbe dovuto all'inten­ zione di evitare di aggiungere allo scandalo teorico delle sue tesi l'anomalia della loro provenienza barbarica. Per un quadro complessivo della relazione Grecilharbari nel pensiero platonico cfr. J. BIDEZ, Eos ou Platon el l 'On.enl, Bruxelles 1945, in panicolare pp. 96 sgg.; sull'offuscarsi delle partizioni tradi­ zionali in Poi 262d dr. H.C. BALDRY, L'unità del genere umano nel pensiero . greco (1965), trad. it. Bologna 1983, pp. 96 sgg.; ma cfr. O. REVERDIN, Crise spin.tuelle et évasion, in Grecs et barbares, Fondation Hardt, Entretiens sur I'Antiquité classique, V III, Vandoeuvres-Genève 1962, pp. 85-107: se la divi· sione del genere umano in Greci e barbari è per Platone logicamente falsa, tuttavia a sua volta vi ricorre, essendo anche per lui psicologicamente vera. Sul retroterra mitico-etnografico sotteso all'eleborazione platonica, in panicolare in relazione alla figura femminile cfr. già G. GROTE, Plato and the Other Companions o/ Sokrates, London 1865, vol. III, pp. 224 sgg.; inoltre E. BARKER, op. cit. (n. 2), pp. 253; recentemente- tra gli altri- C. QUARTA,

L'utopia platonica, Milano 1985, pp. 209-10; L. BERTELLI, Platone, in A. CoLOMBO-C. QuARTA (a cura di), li destino della famiglia nell'utopia, Bari

1991, p. 39; in generale dr. L. BERTELLI, L'utopia greca, in L. FIRPO (a cura di), Storia delle idee politiche economiche e sociali, Torino 1982, vol. I, pp. 463-581. 21 N. LoRAUX, op.cit. (n. 16), pp. 211·13, sottolinea la selezione, compiu­ ta da Erodoto, del termine kasignetos, all'interno del lessico dei «noms du frère»: se in epoca classica esso è equivalente ad adelphos nel linguaggio poeti­ co, può al contempo indicare una fratellanza estesa nell'ambito della collate­ ralità. (Significativamente cfr. HDT. I 171: discendenti di fratelli). Un termine classificatorio dunque, analogamente a phrater, seppure con una valenza

PLATONE, LA REPUBBUCA

286

Non sorprende che i costumi di questo popolo avessero ri­ chiamato l'attenzione di L.H. Morgan: essi comprovavano l'as­ sunto che le denominazioni, proprie al sistema classificatorio di parentela, fossero sopravvivenza di un'era, non storicamente esperibile, in cui le società umane erano sistematicamente pro­ miscue.22 La promiscuità caratterizzava anche le usanze degli Ausei, come attesta l'identità del lessico utilizzato in entrambi i casi. Evidente tuttavia è la discrepanza dei contesti ideologici in cui le pratiche sessuali sono inserite. L'accostamento all'animalità iscrive la comunanza delle donne propria agli Ausei nello sce­ nario di uno stato di natura dominato dalla selvatichezza, coe­ rentemente alle pratiche alimentari. La comunanza adottata denotativa diversa, meno forte dal punto di vista istituzionale, ma più forte nell'ottica affettiva. n gruppo dei kasignetoi, ignaro di gdosia e di odio, costi­ tuisce una finzione quanto la città platonica in cui, in condizioni molto simili, i fratelli si chiamano adelphoi come i cittadini nella prosa politica ateniese. Sul controverso significato del termine cfr. LIDDEL-Scorr, Lexicon e P. CHAN­ TRAINE, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, P aris 1968, tome l,

s.v. kasignetos: fratello/cugino. Cfr. anche É. BE.NVENISTE, op. al. (n. 15), pp. 220-21: gli usi omerici contemplano quello classificatorio. Una disamina criti­ ca della problematica è condotta da S. GRIMAUOO, KAI/rNHTOI KAI OflA.

TPOI. Su alcuni aspetti della consanguineità in Omero, «cPEÀ.lJ.I.WtÉpouç CÌEÌ toÙç ÈyKOVOUç ytyvEa6at). Oltre al versante positivo, la selezione della razza guardiana ne comporta inevitabilmente uno negativo. Ci sono, anche tra i phylakes, individui dalla qualità relativamente scadente (phaulo­ tatat), che i sorteggi truccati porteranno ad accoppiarsi ripetuta­ mente fra loro. La prole di costoro, prescrive Platone, «non an­ drà allevata» (trephein, 459d), come pure non vi sarà trophe per i figli di guardiani che sono al di fuori dell'età riproduttiva otti­ male o che risultino consanguinei (461a-c). Mentre i figli degli agathoi andranno accolti per la trophe nei nidi pubblici, quelli dei cheirones, nonché l'eventuale prole deforme (anaperot) degli stessi migliori verrà condotta in luoghi remoti e segreti (460c). Si è molto discusso se le secche prescrizioni platoniche sul­ la necessità di «non allevare» i figli dei phylakes che per una ra­ gione o per l'altra risultassero di qualità umana inferiore allu­ dano alla pratica dell'infanticidio e dell'esposizione,2 del resto 2

L'interpretazione di queste nonne platoniche è molto dibattuta (va no·

taro tra l'altro che esposizione e abono sono considerati opportuni da ARIST. Poi. VII 15, dove «non

trephein» significa chairamente «sopprimere», cfr.

298

PLATONE, LA REPUBBLICA

testimoniata per Sparta (Plu. Lyc. 16.2). Poiché altri luoghi pla­ tonici (cfr. soprattutto Resp. III 415b-c, e il riassunto offertone in Tim. 19a) insistono piuttosto sulla necessità di assegnare al terzo ceto i figli degeneri dei phylakes, è plausibile l'ipotesi che Platone intenda anche in questi passi che questi figli «non devono essere allevati come difensori», e che la raccolta in

un

luogo occulto preluda alla loro assegnazione alle famiglie dei contadini e degli artigiani (così mostra di interpretare anche Aristotele in Po/. II 4 1262b25 sgg.). Che si tratti di infanticidio o di declassamento, lo scopo di Platone è chiaro: si tratta di mantenere puro il genos dei gover­ nanti della città (460c:

et7tEp j.lÉMtt

. . .

Ka9apòv -rò yÉvoç -rrov

qroÀ«XKrov ECJEo9at). 2. L'eugenetica platonica e il ra:a.ismo

L'eugenetica di Platone, almeno in quanto assimilabile al­ l'esperienza storica di Sparta per quanto si può desumere dalle testimonianze di Crizia, Senofonte e Plutarco, è stata ovvia­ mente considerata con simpatia nel contesto del razzismo na­ zional-socialista, e con altrettanta ostilità da parte degli inter­ preti di orientamento liberal-democratico.3 Prima ancora di 1335b21). ADAM, pp. 357-60, e più recentemente H.D. RANKIN, Plato's

Eugenie euphemia and apothesis in Republic, Boolt V. cHermes», XCIII (1965ì pp. 407-20, respingono la lettura "caritatevole" dd testo platonico e vi

leggono la prescrizione dell'infanticidio. Così anche M. ISNARDI PARENTE, nella sua nota a ZELLER-MONDOLFO, LA filo.w/ia dà Greci, parte Il. vol. IIV2. Firenze 1974, pp. 626 sg. Al contrario, B. CENTRONE, p. 758 n. 32, e ].F.M. ARENDS, Die Einheil der Polis. Leiden 1988, pp. 436-37, ritengono che

Platone prescriva non la soppressione ma

il declassamento dei figli imperfetti

dci phylakt·s. La brevità delle formule platoniche rivela probabilmente

una

cena indifferenza nei riguardi della soluzione dd problema (non c'è necessità politica che induca alla soppressione

di questi bambini, a meno che si ponga

un problema di controllo demografico, peraltro evocato nel libro IV 423b-c, e ribadito da Aristotele nel passo citato). 1

P er un'onima ricostruzione di questa discussione, dr. M. ISNARDI PA­

RENTE, op. cit. (n. 2 ), pp. 609-20. Più recentemente J. ANNAS, An lntroduclion

COMMENTO AL UBRO V,

[F]

299

rimarcare l'infondatezza di questa polemica che affonda le sue radici nei terribili anni Trenta e Quaranta del nostro secolo, va rilevato che esperimenti eugenetici non sono propri soltanto del nazismo. Se a quest'ultimo spetta in esclusiva la pratica di unioni fra puri esponenti della razza ariana, e il privilegio ri­ produttivo dei combattenti valorosi, procedure di sterilizzazio­ ne di individui fisicamente o psicologicamente menomati o de­ vianti sono state praticate su larga scala, fino agli anni Cin­ quanta, anche in paesi socialdemocratici o liberali, come la Da­ nimarca, la Svezia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, a quanto risulta da recenti ricerche e dalle relative segnalazioni sulla stampa. La preoccupazione, in questi casi, non consisteva nella difesa della purezza della razza, bensì nella prevenzione della criminalità e nella riduzione degli oneri sociali per il manteni­ mento e la cura di individui socialmente disadattati. Procedure eugenetiche non sono dunque soltanto il risultato di deliri raz­ zisti, ma anche il frutto di preoccupazioni, più o meno distorte, che privilegiano una buona gestione della cosa pubblica e del corpo sociale a detrimento dei destini individuali. Platone non era tuttavia né un razzista alla maniera nazio­ nal-socialista né un ragionevole amministratore social-demo­ cratico. Non era un razzista, perché il genos che egli voleva mantenere "puro" e migliorare non era fondato su alcuna base razziale o etnica (come gli Spartiati o gli "ariani"): la sua kalli­ polis sarebbe stata probabilmente "ellenica", come richiedeva

Glaucone (470e, 471b), ma non può venir escluso che essa sia nata o possa formarsi in qualche «ignoto luogo barbarico» (499c; cfr. però qui [G], § 4). La "razza" dei guardiani è invece il risultato di una rigorosa selezione prestazionale; si tratta dunque di una élite morale e intellettuale, che può rappresen­ tare l'idealizzazione di una tradizione aristocratica ma non ha direttamente nulla a che fare con determinazioni biologiche e neppure classiste. to Plato's Repuh/ic. Oxford 1981, parla di «repellent stock-breading talk, (p. 176).

300

PLATONE, LA REPUBBUCA

D'altro canto, l'eugenetica di Platone non poteva neppure essere ispirata dal desiderio di proteggere un corpo sociale "sa­ no" dai pericoli della devianza. Platone coniugava piuttosto un profondo pessimismo antropologico con uno straordinario ot­ timismo sulla forza plasmatrice della politica e dell'educazione. Non c'era nulla di strano né di scandaloso per lui nel conside­ rare il genere umano come una razza di animali da allevamento sempre esposti al pericolo del disordine, dell'imbastardimento e della degenerazione.• È precisamente in questo pessimismo che si radica il senso dell'eugenetica platonica: trattare gli uo­ mini per quel che sono - cioè da animali - per cercare di ren­ derli migliori di quel che sono, costruendo fra di loro un grup­ po capace di governare in nome di tutti una città che sia final­ mente una città di uomini (le Leggi diranno piuttosto di dèi o figli di dèi). È proprio a questo gruppo, del resto, che si chiede il maggiore sacrificio in termini di libertà personale e privatez­ za degli affetti: il compito di servizio che devono assolvere non può consentire loro né la libera scelta dei partners sessuali, né la garanzia di generare figli che prenderanno il loro posto. Cani da guardia e da caccia al servizio della città, i phylakes saranno certamente onorati come eroi (cfr. qui [G]) ma la loro potrà essere soltanto una felicità "pubblica" (cfr. commento ai libri 11-111, [A]). E la loro stessa prole, se adeguata, sarà desti­ nata alla comunità, eiç tò KO\vov (461a4).

Mano Vegetti

The Open Soaéty and its Enemies, London 194.5, p. 51, par· cattle». Per la metafora dell'arte di governo come pastorizia del gregge umano cfr. Poi. 276a •

K. PoPPER,

lava polemicamente, ma correttamente, di .cherding the human

sgg. (questo stesso dialogo contiene a sua volta indicazioni eugenetiche, ten­ denti a contemperare nella popolazione aggressività e moderazione, ma nel­ l'ambito di un'altra metafora, quella della tessirura: dr. 310a-e).

[ G] La gue"a della kallipolis

l. La funzione guerriera: il modello eroico

Dopo aver superato non senza difficoltà le prime due "on­ date", giungendo a delineare il modello di vita proprio dei difensori, uomini e donne allo stesso modo, Socrate discute le caratteristiche e le modalità di svolgimento dell'attività guer­ riera che loro compete. Emersa nel libro II come funzione spe­ cializzata, tale da richiedere un addestramento specifico e una completa dedizione, la pratica bellica non è stata in realtà fatta oggetto fino a qui di un'analisi ravvicinata. 1 Neppure in queste pagine, tuttavia, Platone mostra un au­ tentico interesse per le componenti tecniche della guerra, diver­ samente da quanto avverrà nelle Leggi, dove, sottoponendo tutto l'arco di attività che caratterizzano il cittadino a una scru­ polosa codificazione, descriverà compiutamente anche ogni aspetto del tirocinio bellico e della pratica del combattimento.2 1 Nd libro m. dopo aver ampiamente trattato dell'educazione musicale, Platone si limita a sostenere, in rapporto alla ginnastica, intesa come prope­ deutica alla guerra, che deve essere «semplice e adeguata» (404b). In questo contesto, sono presenti esclusivamente prescrizioni di carattere dietetico: non viene fatto alcun riferimento ai tipi di esercizio proposti ai futuri phylakes. Nel libro IV, poi, Platone fornisce brevi indicazioni circa la tattica bellica. I guer· rieri, paragonati a cani «duri e asciutti», si contraddistinguono per la grande mobilità, grazie

alla quale, ingaggiando rapidi scontri cui seguono altrettanto

rapide fughe, possono avere la meglio su nemici più numerosi ma non altret· tanto scattanti (422b-d). 2

ar. Leg. VII 813c sgg., in cui Platone conduce una completa rassegna de­

gli «esercizi fisici che ci preparano alle fatiche della guerra», destinati ai giovani,

302

PLATONE, LA REPUBBLICA

L'accento è posto sul carattere collettivo che assumono le spe­ dizioni militari intraprese dai phylakes: uomini e donne vi par­ tecipano congiuntamente, e a loro si uniscono i figli, che pren­ dono progressivamente dimestichezza con la guerra tramite l'osservazione diretta, sul campo. L'arte della guerra si acquisi­ sce dunque con modalità del tutto simili a quelle che caratte­ rizzano l'apprendimento delle altre tecniche, e in più, come normalmente avviene nel mondo greco, la trasmissione delle competenze è delegata alle figure familiari, seppure qui nel­ l'ambito più esteso della nuova "famiglia allargata". Lo spazio più ampio è dedicato, qui, alla valorizzazione dd­ la funzione guerriera, che si delinea come prestazione erogata a vantaggio della città, al fine della sua salvezza (soteria). Come tale, essa deve essere ripagata non solo con «il cibo e tutto il resto che occorre alla vita loro e dei loro figli»; in più i phylakes «da vivi sono onorati dalla loro città, da morti ricevono una degna sepoltura» (465d-e). Platone appare ben consapevole che ai difensori, privi della famiglia e della proprietà, detentori esclusivamente di un potere di servizio, debbano essere riserva­ te opportune forme di gratificazione: si tratta di ricompense che rendono più incisivo ed efficace lo svolgimento del loro ruolo, incrementando l'esercizio della loro arete specifica, il coraggio. Tramite questi onori, i phylakes conseguono la felicità, dalla quale, secondo l'obiezione di Adimanto (IV 419a), sem­ bravano essere stati esclusi proprio nel momento in cui era sta­ ta loro negata ogni forma di possesso. Certo si tratta di un eu­ daimonia diversa da quella tradizionalmente riservata all' oiko­ nomikos: il modello che Socrate propone ai suoi interlocutori è, non a caso, quello dei vincitori nelle gare di Olimpia (V 466a-b), un modello agonale, quale si conviene ai difensori, de­ finiti, fin dagli esordi, proprio come «atleti», impegnati nella gara più importante, la difesa della città (III 403e). In queste pagine si assiste d'altronde al recupero di un re­ ferente ancora più antico e prestigioso, quello della tradizione '

e anche alle fanciulle che mostrino una qualche prcdisposizionc, c Leg. VIII 829e sgg., dove sono descritte le pratiche militari riservate ai cittadini adulti.

COMMENTO AL UBRO V,

[ G]

303

epica: i phylakes sono progressivamente assimilati agli eroi omerici. A segnalare questa equiparazione contribuisce una serie di elementi estremamente significativi. Anzitutto, a indi­ care le ricompense onorifiche destinate a premiare il loro im­ pegno si fa ricorso al termine geras, tipico del lessico omerico, dove designa la parte dell'animale sacrificato riservata ai guer­ rieri più nobili e valorosi, la porzione migliore. Occorre subito rilevare che nella Repubblica questo vocabolo possiede un'evi­ dente ambiguità. Accanto a un'accezione metaforica, che allu­ de genericamente a tutte le forme di gratificazione di cui sono fatte pubblicamente segno le prestazioni belliche, persiste sen­ z'altro il senso originale: i phylakes più coraggiosi saranno pre­ miati «con privilegi, con carni e coppe ricolme», come afferma Socrate citando espressamente Omero (468e).J La maggiore quantità di cibo è funzionale, del resto, anche ad aumentare la forza fisica e a mantenere prestazioni di alto livello. In questi passi è dunque costante ed esplicito il riferimento al codice guerriero arcaico, di cui proprio i poemi omerici so­ no l'esempio più eminente. Omero, il poeta archetipo, bollato nei libri II e III come un "cattivo maestro", sembra ora recupe­ rato, e ottengono addirittura una citazione elogiativa quei con­ testi che, esaltando i ricchi banchetti allestiti per gli eroi, erano stati colpiti precedentemente dalla più rigida censura.4 Ai phy­

lakes viene proposto come modello il valoroso Aiace, che vede ricompensati i suoi meriti col dono delle parti più nobili degli animali sacrificati (468d).' Un'altra forma di gratificazione riservata a chi dà prova di valore (ton ... aristeusanta) consiste nell'essere incoronato dai J

I/. VIII 162 c XII 3ll: in entrambi i passi questi riconoscimenti sono

indicati come specificamente riservati ai combattenti più valorosi, come segni di distinzione all'interno della comunità dci guerrieri. 4

Cfr. Resp. III 390a-b.

'Il. VII 321. Dopo che Agamennone ha sacrificato c immolato un bue, viene organizzat o un banchetto, durante il quale è attribuito questo geras ad Aiace, per ricompensarlo del valore dimostrato nd duello appena sostenuto

con Ettore.

304

PLATONE, LA REPUBBUCA

giovani commilitoni (468b). Platone prevede tuttavia un premio ulteriore, la possibilità per il phylax particolannente coraggioso di intrattenere liberamente rapporti sessuali con chiunque desi­ deri, senza ricevere alcun rifiuto. Anche nell'ambito delle unioni temporanee finalizzate alla procreazione costui ottiene senz'al­ tro la priorità, accoppiandosi più spesso. Oltre a costituire una ricompensa adatta a stimolare l'ardore guerriero, questa conces­ sione risponde a una precisa esigenza eugenetica: dall'unione degli elementi più valorosi nascerà senz'altro la prole migliore. Se le prestazioni coraggiose sono ricompensate da tutti que­ sti riconoscimenti, oggetto di aspra critica sono quei compor­ tamenti che, sempre all'interno della tradizione epica, appaio­ no segno di viltà. I.: abbandono dello scudo emerge, anche in queste pagine, come paradigma canonico di negatività,6 e il guerriero che si rende colpevole di un simile atto, lasciando il proprio posto di combattimento, viene immediatamente priva­ to del suo status e declassato, ricadendo nel genos inferiore, quello degli artigiani e degli agricoltori. Nella k allipolis, afferma Socrate, il coraggio sarà onorato non solo con premi tangibili, che assumono il massimo caratte­ re di visibilità, ma anche con inni, canti di lode, finalizzati a consacrare, come nel passato, il kleos, la fama, del guerriero.7 ll phylax della Repubblica si proietta dunque in una dimensione eroica, affine per certi versi a quella divina, in conformità al modello omerico. Il suo definitivo ingresso in questa sfera av­ viene comunque al momento della morte: sia che cada in batta­ glia, sia che muoia di morte naturale dopo essersi dedicato sempre valorosamente alla difesa della città, sarà venerato co­ me una figura divina, un daimon. Egli viene assimilato infatti agli uomini della razza dell'oro, il chryseon genos che nelle 6

Si trana

di un vero e proprio topos, come dimostra la sua ricorrenza nei

testi letterari: dr., tr.a l'altro, ARCJUL. fr. 6 D, ALc. fr. 49 D, ANAC.R. fr. 51 D. 7 Su questo punto Platone non mante r r à lo stesso parere nelle Leggi:

nella città cretese non sarà più ammesso cdebrare con hymnoi persone ancora viventi, «prima che ognuno abbia percorso fino in fondo rutta la sua vita e vi abbia posto fine in modo degno

di lode» (VIII 802a).

COMMENTO AL LIBRO V,

[G)

305

Op ere e i giorni di Esiodo apre la sequenza delle età, e che rap­ presenta lo stadio felice dei primordi dell'umanità. Vivendo al tempo di Crono, immersi in una natura spontaneamente fe­ conda, questi uomini non conoscono né fatiche né sventure e, una volta morti, divengono «demoni venerabili», destinati a proteggere dai mali e a custodire gli uomini mortali

(109 sgg.).

Anche Esiodo, precedentemente censurato al pari di Ome­ ro, viene dunque riabilitato. Platone mostra così di recuperare compiutamente il patrimonio dei tradizionali valori eroici ben presente nella città storica, da cui aveva preso così drastica­ mente le distanze. Nella polis, infatti, la prestazione bellica dei cittadini è sempre oggetto di esaltazione, e il discorso di lode attinge costantemente al repertorio sedimentato nella poesia arcaica. L'epitafio, l'orazione funebre che consacra l'arete dei caduti in battaglia, costituisce la testimonianza più evidente di questa tenace persistenza, come hanno efficacemente dimo­ strato gli studi di Nicole Loraux.8 La matrice di questo genere peculiare di discorso pubblico è del resto da individuare nell'elogio del valore, tipico della tradizione eroica: il repertorio omerico è fatto proprio dai poe­ ti arcaici, i cui componimenti esaltano le imprese, belliche e sportive, dei nobili, riconducendole costantemente ad archeti­ pi miticP Nello spazio della città, il kleos, che la poesia aristo­ cratica riserva a una singola, eccezionale figura, si estende a tutto il gruppo dei cittadini combattenti, e proprio grazie a questo elemento di connessione, rimane vivo nel discorso pub­ blico tutto il repertorio argomentativo e lessicale consolidatosi nel corso del tempo. Un ruolo saliente, nell'ambito dei "luoghi comuni" cui at­ tinge costantemente l'epitafio, è svolto proprio dall'assimilazio­ ne dei combattenti morti per la città agli eroi. Particolarmente 8

N. LoRAUX, L'invenlion d'Athènes. Histoire de /'oration /unèbre dans

'cité citJssique', Paris-La Haye-New York 1981.

14

di questa poesia celebrativa è costituito dagli di Pindaro, richiesti da una committenza aristocratica per solennizza­ re, e consacrare al perenne ricordo, le sue imprese. •

L'esempio più eminente

epinici

306

PLATONE, LA REPUBBLICA

significativa appare, sotto questo profilo, un'affermazione con­ tenuta nell'epitafìo pronunciato da Pericle per i caduti di Samo, ricordata da Plutarco (Pericle 8.9): i morti vi appaiono caratte­ rizzati dagli onori che ricevono, ma anche dai benefici che pro­ curano. Non sfuggono le stringenti analogie con il passo plato­ nico di Resp. V 469 a, che cita Esiodo a sostegno di una conce­ zione analoga. Ancora più esplicito nell'affermare la natura eroi­ ca, semidivina, dei guerrieri valorosi è lsocrate nel Panegirico che, pur non appartenendo al novero dei discorsi funebri, riser­ va tuttavia ampio spazio alla esaltazione delle guerre in cui i Greci sono morti combattendo valorosamente. L'archetipo di tutte le guerre greche è l'impresa troiana, in cui i guerrieri si distinsero a tal punto da ricevere «gli stessi onori che spettano ai figli degli dèi, che vengono chiamati sernidei» (Paneg. 84); una sorte altrettanto gloriosa compete, insieme con una fama impe­ ritura, a coloro che hanno realizzato un exploit ancora più gran­ dioso vincendo contro i Persiani. Al lessico tradizionale degli epitafì appartiene poi l'assegnazione dell'epiteto di eudaimon ai

morti,10 di cui si delinea la sorte felice nelle Isole dei Beati. 11

È difficile stabilire, come avverte la Loraux, se simili affer­ mazioni presuppongano l'attribuzione di un vero e proprio statuto eroico ai caduti. 12 Appare comunque significativo un episodio riferito da Tucidide: durante la guerra del Pelopon­ neso, ad Anfipoli, il generale spartano Brasida, caduto in com­ battimento, è sepolto a spese pubbliche e gli abitanti «gli fanno sacrifici come a un eroe e offrono in suo onore giochi e sacrifi­ ci annuali» (V 11.1). Un illustre precedente ateniese, relativo alla fondazione di un culto eroico, è quello che concerne i TI­ rannicidi, Armodio e Aristogitone, un culto inaugurato all'in10

nelJ'Epita/io per i caduti in dt/esa dei Connv (§ 79) e nd l Epita/io di lperide (5 42). 11 Cfr. D. Epita/io 34. 12 N. LoRAUX, op. cit. (n. 8), pp. 40-42, sottolinea che, nei discorsi com­ Così awiene ad esempio

di Lisia

'

memorativi, è costantemente presente una forma di reticenza su questo pun­ to: l'accento è posto sugli aspetti politici e pertanto gli oratori «se plaisent d'occulter le religieux sous le politique» (p.

41).

COMMENTO AL UBRO V,

[G]

307

domani della cacciata dei Pisistratidi, in concomitanza con l'in­ staurazione della isonomia clistenica. 13 Nella Repubblica, l'attribuzione di una «natura demonica e divina» ai phylakes valorosi dopo la morte appare decisamente affermata, al punto che la regolamentazione del loro seppelli­ mento e lo svolgimento delle pratiche cultuali da tenersi sulle loro tombe rientrano nell'ambito della legislazione sacra, posta sotto il patrocinio di Apollo Delfico (469a-b).14 Il ruolo decisi­ vo della funzione combattente svolta per la salvaguardia della città ottiene coslla sua massima consacrazione. 2. Il codice di gue"a greco: regolamentare la violenza In queste pagine, i phy/akes si configurano come i membri di un'aristocrazia guerriera cui si addice uno stile di vita tipica­ mente agonale, teso al conseguimento della time, l'onore, e del

kleos, la fama imperitura. Ciò spiega la riattivazione, non priva di una certa enfasi, dell'antico repertorio eroico. Questo siste­ ma di valori appare dunque coerente con il ruolo di "signori della guerra" che i difensori svolgono all'interno della città, e che a questo punto della trattazione appare ancora predomi­ nante. La loro apparizione sulla scena è del resto altamente si­ gnificativa: essi si mostrano come un esercito in marcia che, gui­ dato dai suoi capi, viene a insediarsi nel luogo migliore, da cui sorvegliare i concittadini e tenere a bada gli aggressori esterni (ill 415d-e). Accampandosi sul territorio, i phylakes si presen­ tano come un presidio armato, il cui referente storico è rappre­ sentato dal ceto militare spartano, quegli Spartiati destinati a mantenere l'ordine nella città e a combattere contro i nemici.�' ne

u Come scrive Aristotele nella Costituzione di Atene 58.1, l' organizzazio­ dci sacrifici in loro onore compete all'arconte polemarco, cui spetta anche

di curare le celebrazioni in onore dei cinadini caduti in guerra. 14 Sull'assegnazione ad Apollo della massima autorità in campo religioso cfr. Resp. IV 427b (cfr. commento al libro IV, [C], S 3). 15 Cfr. al riguardo le imponanti osservazioni di D. DAWSON, Cities of the Gods. Communist Utopias in Greelt Thought, New York-Oxford 1992. pp. 81-87: la presenza di un ceto guerriero dotato di queste specifiche competen-

308

PLATONE, LA REPUBBLICA

La centralità assunta nella ka/lipolis dal gruppo dei guer­ rieri nasce, come ben mostrano le argomentazioni presenti nel libro III, dalla consapevolezza dell'ineluttabilità della guerra: il polemos rappresenta la modalità ricorrente, al punto da essere considerata normale, di rapporto tra le città.16 Questa prospet­ tiva si amplia nel libro V, in cui Platone riprende il discorso e lo arricchisce di riferimenti precisi alla storia. «Come si comporteranno i nostri soldati verso i nemici?» (469b): proprio in risposta a questo interrogativo, la discussio­ ne esce dall'ambito teorico in cui si è fin qui collocata. I phy­ lakes si delineano come il corpo combattente di una polis desti­ nata a scontrarsi inevitabilmente con le altre. In questa pro­ spettiva, Platone si trova a discutere degli usi militari greci, delle modalità di combattimento che sono costantemente rile­ vabili nella lotta tra le città. L'accento non è posto, come si diceva, sui contenuti tecnici della guerra. L'analisi è governata, piuttosto, da un criterio valutativo, teso a rintracciare, e a criticare, il grado di efferatez­ za raggiunto dal polemos. L'obiettivo della discussione non è comunque quello di cancellare il conflitto: l 'assenza di aggres­ sività appare compatibile solo con gli scenari mitici di una pri­ mitiva età dell'oro, racchiusi in una dimensione utopica da cui la Repubblica prende qui le distanze. 17 Si tratta piuttosto di regolamentare l'uso della violenza, di fissarne i limiti.18 ze costituisce un preciso aggancio alla realtà, che distingue la ktJ/Iipolir da una costruzione puramente utopica. 16 È q uanto mette in luce]. DE RoMILLY, Guerre el patx entre citér, in

J.P.VERNA:'>IT (éd.), Problèmes d e la guerre en Grèce anci enne, Paris-'s Gravenhage 1968, pp. 205-20. 17

Tra questi modelli pienamente pacificati si colloca anzitutto la prole

polis delineata nel libro II, i cui abitanti passano la vita «in pace e insieme in

salute» (372d); le stesse caratteristiche compaiono poi sia nella raffigurazione del tempo di Crono nel Politico (271e), sia nella descrizione dd periodo delle origini dell'umanità in Leg. III 678e sgg.

'"Sul privilegiamento di questa prospettiva dr. G. CAMBIANO, lA pace in Platone e in Anslotele, Atti del Convegno nazionale di studi Lz pace nel mon­ do anltco, Torino 1990, pp. 97-114, in panicolare pp. 104-05.

COMMENTO AL UBRO V,

[G)

309

Non è mai esistito, d'altronde, nel mondo greco, un codice

di guerra. Una serie molto ridotta di prescrizioni, tra cui la sal­ vaguardia dei luoghi sacri o il libero svolgimento dei giochi panellenici, rientra nell'ambito delle leggi non scritte, definite come «leggi degli Elleni>> (tà téòv 'EUilvwv VOf.ltf!a), ma nes­ suna regola vincola il comportamento dei vincitori nei con­ fronti dei vinti, anche se si tratta delle popolazioni civili.19 Si­ gnificativamente, Senofonte cita un'altra norma, senz'altro uni­ versalmente applicata, tanto da essere definita come «una leg­ ge eterna tra gli uomini» secondo cui, quando una città è cattu­ rata con un'azione di guerra, tanto la vita degli abitanti quanto le loro proprietà appartengono ai conquistatori. Ne consegue che consentire ai vinti di conservare la vita o parte delle pro­ prie sostanze, dipende esclusivamente dal senso di umanità, philtJnthropia, dei vincitori (Cyr. VII 5.73). Nelle pagine platoniche è proprio la brutalità del polemos endemico nel mondo greco a essere messo anzitutto sotto ac­ cusa. Benché il discorso assuma una portata generale, appare evidente il riferimento privilegiato alle vicende che, nella me­ moria collettiva, continuano a delinearsi come le più dramma­ tiche, e cioè quelle legate alla guerra del Peloponneso. I com­ portamenti bellici negativi che Platone passa qui in rassegna sembrano in effetti richiamare molto da vicino quelli cosl effi­ cacemente descritti da Tucidide, la cui narrazione mostra come il conflitto tra Atene e Sparta risulti essere non solo il più gran­ de mai combattuto nel mondo greco, ma anche il più feroce.20 19

Molto puntuale, su questo tema, è il saggio di P. DucREY, Arpects juri·

diques de la victoire et du traitement des vaincues in J.P. VERNANT (éd.), op. cit.

(n. 16), pp. 231-43. 20

Platone non menziona mai Tucidide: se conoscesse o meno la sua opera

è un problema cui gli studiosi hanno dato risposte differenziate. In passato, ha

giocato un ruolo decisivo l'opinione contraria di Wùamowitz, cui si è contrap­ posto tuttavia M. Pmn.ENZ, Aus Platons Werdeuit, Bcrlin 1913, pp. 247-55, che, analizzando in particolare la critica platonica alla democrazia presente nel Mmesseno, nella RqJubblica

c

nelle Leggi, vi riconosce l'eco di numerosi passi

tucididei, sulla scorta di riferimenti già presenti nd commento di Adam. In anni più recenti, tra quanti asseriscono che Platone non conoscesse Tucididc,

310

PLATONE, LA REPUBBUCA

Oggetto della prima, fondamentale censura è, da parte di Platone, l'andrapodizein, il rendere schiavi altri Greci. In que­ sto solo caso, che significativamente viene citato per primo, non si tratta di regolamentare una pratica, bensì di affermarne la totale proibizione: la riduzione alla condizione servile costi­ tuisce l'inammissibile ribaltamento di quella condizione di li­ bertà che da sempre costituisce il segno distintivo della stirpe greca. Viene anticipato qui il tema, destinato più oltre a diven­ tare assolutamente centrale, della contrapposizione tra i Greci, accomunati proprio da questa prerogativa fondamentale, e i barbari, nome collettivo con cui si designano tutti gli "altri", coloro che sono estranei allo hellenikon, e che possono appro­ fittare dei conflitti interni tra le città per assoggettarle. Proprio riguardo alla pratica dell'andrapodizein, è Tucidide a segnalare come essa costituisca la specificità, e anzi una sorta di emblema negativo, della guerra del Peloponneso. Nelle Sto­

rie, il primo episodio di assoggettamento citato riguarda la città di Eione sullo Strimone, sottoposta al potere persiano, che Ci­ mone conquista all'indomani della fondazione della lega delio­ attica (198.1). TI successivo consolidamento dell'arche ateniese appare scandito da altri analoghi episodi, che non hanno più come protagoniste città sottoposte al dominio dei barbari, ben­ si città greche. Tucidide menziona così dapprima Sciro, e poi Nasso, che rappresenta

(1tapà tÒ Ka9Et, XXXIII

(1991) pp. 145·57. Riguardo

al tema del seppellimento dei morti neii'Anlrgone e nelle Supp/ici, cfr. G. CERRI, LegiJI4lione orale e tragedra greca, Napoli

1979, che sottolinea come,

316

PLATONE, LA REPUBBUCt\

Nel424, gliAteniesi, come riferisceTucidide, siimposses­ sano del santuario di Apollo a Delio e, pur trattandosi di un luogo sacro, garantito dall'inviolabilità, lo circondano di forti­ ficazioni per combattere dan contro i Beoti. Accusati di aver agito àvof,lroç (IV 92.7) avendo violato le consuetudini dei Greci ( tà VOf.llf.la t éò v EA.A.iJvrov, 97.2), si vedono negare la restituzione dei morti nella battaglia che vienen ingaggiata: la deroga alle norme non scritte, ma collettivamente condivise, viene punita tramite una sorta di messa al bando, di esclusione, che punisce la contaminazione contratta dagliAteniesi. Tucidi­ de, inquesti passi, riserva un ampio spazio alla loro autodifesa: essendosi impadroniti con la forza delle armi del territorio di Delio, si trovano ormai sulla loro terra, e pertanto fanno rica­ dere suiBeoti l'accusa di empietà, poiché essi rifiutanodi con­ cedere la tregua finalizzata, secondo le usanze tradizionali (teatà tà 1tatpta), al recupero dei morti (IV 98). Come si vede, le motivazioni religiose giocano un ruolo strumentale in una contesa che assegna unafunzione preminente agli aspetti poli­ tico-militari, alla logica del potere. Anche inquesto caso, è il conflitto tra le città a essere messo sotto accusa. Inqueste pagine, d'altronde, viene messa esplicitamente in discussione una forma di ritualità religiosa che, celebrando il successo in battaglia e la distruzione di un grande numero di nemici, appare aPlatone aberrante: si tratta della consacrazio­ ne alla divinità, nei templi, delle armi tolte agli avversari. Que­ sto atto solenneè solitamente preceduto dall'innalzamento di un trofeo, che viene costruito proprio con le armi strappate ai morti o ai prigionieri, accatastandole o addossandole a tronchi d'albero. Anch'essoè consacrato a una divinità, in ringrazia­ mento per il successo ottenuto, ma al contempo segnala visibil­ mente il saldo possesso del territorio su cui si eleva. La lettura diTucidide mostra, come ha rilevato Garlan, che, durante la •

nell'opera sofoclea, la legge divina violata da Creonte rappresenti una norma di tradizione orale di cui erano depositari i gene aristocratici, mentre nella tra­ gedia euripidea si fa esplicito riferimento a .leggi di tutta la Grecia» (v. 311) e a «leggi panelleniche»

(vv. 526, 671).

COMMENTO AL LIBRO V,

317

[G)

guerra del Peloponneso, è in atto una vera e propria «trofeo­ mania»:26 ogni vittoria è celebrata con la costruzione di più di un trofeo e muta anche la sua originaria struttura. Sempre più si assiste all'innalzamento di monumenti stabili, destinati a ce­ lebrare la gloria dei cittadini e dei loro comandanti. L'offerta ai templi di parte delle armi costituisce un ulterio­ re suggello del successo conseguito, ed è solitamente accompa­ gnata da doni di prestigio, come statue o tripodi, fatti costruire con il ricavato della vendita del bottino. Questa pratica con­ cerne i grandi santuari panellenici, come Olimpia e soprattutto Delfi, dove sorgono i cosiddetti tesori, i tempietti destinati a custodire gli oggetti preziosi consacrati dalle diverse città. Riguardo a queste pratiche, il giudizio di Platone è catego­ rico. La consacrazione di armi o di beni conquistati nelle batta­ glie tra Greci costituisce non un atto religioso, ma un miasma, un evento contaminante. n suo presupposto è infatti la violen­ za arrecata a popoli della stessa stirpe:27 questa affinità consen­ te di interpretare ogni atto bellico come una prevaricazione operata ai danni dei familiari (oikeioi: 470a), un delitto infa­ mante che richiede una purificazione. Certamente questo stravolgimento degli usi comuni e con­ solidati non è del tutto indolore: potrebbe comportare il risen­ timento di Apollo Delfico, non solo principale destinatario delle offerte votive, ma anche, proprio per Platone, suprema autorità in campo religioso all'interno della kallipolis. La necessità di eliminare il conflitto tra le città rappresenta tuttavia una priorità. In questa luce, non devono più essere praticate neppure le devastazioni del territorio nemico e la 26 Y. GARLAN, La guerre dans

/'antiquité, Paris 1972, p. 40.

De Pythiae oracu/is 40lc-d: come sacerdote delfico, egli ritiene che ci si debba indignare vedendo il santuario di Apollo colmo di offerte scelte e di decime provenienti da uccisioni, guerre e saccheggi che hanno coinvolto i Greci. Al contempo, 27

Queste espressioni di sdegno sono riecheggiate da PLU.

afferma che si dovrebbe provare pietà leggendo, sui begli oggetti consacrati al dio, iscrizioni- da lui definite «>.J2 Ancora a Olimpia risuona, nel388, un altro Discorso Olim­ pico, questa volta di Lisia. Anche qui è nettamente sottolineato il contrasto tra l'occasione panellenica, che vede pacificamente riuniti tutti i Greci, e la situazione di guerra permanente che regna tra le città. Questa conflittualità costituisce un'inammis­ sibile deroga a quei principi dell'eunoia, la reciproca benevo­ lenza, e della philia, l'amicizia, che Eracle, istituendo l'agone panellenico, aveva inteso assicurare. Lisia indica la situazione attuale come vergognosa, anche perché consente ai barbari di detenere ciò che appartiene ai Greci, e ai tiranni di restare sal­ damente al potere. La causa di questa degenerazione è da iden­ tificare nella stasis e nella philonikia, nel conflitto interno e nella rivalità per il potere: di qui l'invito a porre fine alle guerre tra Greci e, seguendo le orme degli antenati, a rivaleggiare con loro nel combattere contro i barbari, oltre che nel prendere le anni contro i tiranni. Proprio al 386 sembra risalire anche un dialogo platonico, il Menesseno, che assume una precisa quanto significativa for­ ma letteraria, quella dell'epitafio, dedicato appunto ai caduti ateniesi nella guerra di Corinto. Benché gli interpreti propon­ gano per quest'opera valutazioni estremamente diversificate, e molti propendano per considerarla una pura esercitazione let­ teraria, e anzi una parodia del genere retorico dell'orazione 11

(trad. di M. 5b.

DK A l

'2 DK B

UNTERSTEINER, l Sofisti,

vol. II, Firenze 1949).

COMMENTO AL UBRO V,

[G)

323

funebre,H sembra possibile individuare in essa alcune tracce di un atteggiamento, in relazione agli avvenimenti contempora­ nei, che corrisponde largamente alle prese di posizione del libro V della Repubblica. In tutto l'epitafio il motivo antipersiano rappresenta una sorta di nota dominante. Naturalmente, sono anzitutto gli Ate­ niesi, di cui il discorso, secondo le norme del genere, deve cde­ brare le gesta, ad apparire gli autentici campioni della lotta contro i barbari. Assumono così una rilevanza particolare le guerre persiane: «Per primi elevando un trofeo sui barbari, si fecero guide e maestri agli altri, insegnando che la potenza per­ siana non era invincibile» (240d). Nella rievocazione platonica della storia ateniese, oltre all'impegno nella lotta contro i Per­ siani, è centrale la difesa degli interessi comuni a tutte le città greche, a tutti coloro che «parlano la stessa lingua» (242a). Ne consegue che, nei passi dedicati alle vicende della guerra del Pdoponneso, Platone adotta un criterio sdettivo, mettendo in risalto gli esempi di eunoia. Citando la decisione di risparmiare gli opliti spartani catturati a Sfacteria, attribuisce agli Ateniesi una precisa presa di posizione: essi agirono così «ritenendo che contro gente della stessa stirpe (homophylon) si dovesse com­ battere fino alla vittoria, e non sacrificare allo sdegno particola­ re di una città l'interesse della comunità ellenica (tò teotvòv téòv 'EUflvwv), mentre era contro i barbari che si doveva prosegui­ re

fino alla loro totale distruzione»

(!J.ÉXPt �taql6opiiç, 242d).

Nella rievocazione di queste vicende, non vi è alcuna prete­ sa di verità storica: piuttosto, come ha messo in luce Kahn,34 si delinea qui un'evidente intonazione protrettica. Platone sembra voler indicare agli Ateniesi come essi avrebbero dovuto davvero agire, e questa impostazione, d'altronde, si fa ancora più marca­ ta quando il discorso tocca gli eventi più prossimi, quelli relativi

agli anni successivi al 404 fino alla pace di Antalcida. Per un'ampia rassegna delle differenti correnti interpretative cfr. R. Mén�xene de Platon et la rhétorique de son temps, Paris 1980, 16-77. J4 C.H. KAI-IN, art. cit. (n. 20), pp. 225-26. H

CLAVAUD, u pp.

PLATONE, LA REPUBBUCA

324

Certamente lo sdegno dei cittadini per la conclusione della guerra di Corinto è ingiustificato: Atene stessa ha sottoscritto insieme alle altre città quel trattato, avallando le pretese del Gran Re. Ben diverso era stato il suo atteggiamento originario, negli anni iniziali della guerra, nel 392-91, quando la città era rimasta isolata «per non aver voluto commettere un vergogno­ so ed empio atto»

(aicrxpòv �eaì avoç ov e tò òv KaÌ. �'Ìl ov so­ pra ricostruita è poi certamente implicata l'idea di una grada­ zione ontologica. Infatti , se entrambi i termini appartengono all'universo dell'esistente (sono un tt), le rispettive modalità di

COMMENTO AL UBRO V,

[I]

383

esistenza andranno collocate lungo una scala che va dal più al meno . E in effetti, una posizione di questo genere dovrebbe essere ascrivibile senza problemi a Platone, sia sulla base del­ l'assegnazione agli oggetti dell'opinione di un maggiore grado d'essere nei confronti dd non essere e di uno minore rispetto all'essere (J.Laì..ì.v .o

[J.Lit] EÌvat) implicata nell'uso dei compara­

tivi in 479c7-d l, sia in virtù della tesi che esistono oggetti di conoscenza più vicini all'essere, cioè dotati di più essere, ri­ spetto ad altri, sostenuta all'interno dell'esposizione della me­ tafora della caverna (J,léiA.ì..Ov tl È"yyutÉpoo tou ovtoç KaÌ 1tpÒç

J.LéiUoV 0Vta).27 Infine, l'attribuzione agli oggetti dell'opinione di una qualche forma di esistenza, idea ricavabile da molti pas­ si dei dialoghi (cfr. per esempio Phaed. 78a6-7, Resp. VI 508b3, ecc.), rende problematica l'interpretazione esistenziale dell'uso assoluto dd verbo essere in questo contesto. Ma se non è l'esistenza pura e semplice a distinguere il piano dell'unità eidetica da quello della molteplicità, quale senso si può attribuire ali' affermazione che alcuni oggetti «so­ no», mentre altri «Sono e non sono»? Abbiamo visto che la tesi formulata in 479b9-10, secondo la quale «ciascuno dei molti è e non è ciò che si dice esso sia», induce a considerare le due espressioni appena richiamate come forme ellittiche di un uso predicativo del verbo essere, equivalenti rispettivamente a «Sodo F» e «sono F e non F». L'«essere F» corrisponde al tò

Jtavtù..éòc; ov, mentre l'«essere F e non F» si riferisce all'insie­ me dei termini che non sono Jtavtù..éòç ciò che sono, vale a di­ re non sono senza resti il predicato che viene loro ascritto.28 17

Resp. VII 515d2-3. Sulla dottrina dei gradi di realtà resta fondamenta·

le G. VLASTOS, art. ci t. (n. 20), panim. Per un'analisi dd significato antologico del sintagma 11iill.ov-f!ttov dval si rimanda a J. SZAIF. op.cit. (n. Il), pp. 129 sgg.

28 I sintagmi tò xavtEÀ.(Ì)ç ov e tò EÌÀucpwiì>ç ov (477a7) possono consi­

derarsi equivalenti a formule che ricorrono con una cena frequenza nei dialo­ ghi, quali tò òv ovtooç, oùaia ovtooç o\'Jaa, tù.kooç ov, ecc.: cfr. Phaedr. 247c4, e3, 249c4; Tim. 28a3, 52c5 sgg.; Phi/. 58a2, 59d4; Soph. 248all e Resp. X 597a5. Si vedano le osservazioni di J. SZAIF, op. ci t. (n. Il), p. 129, n. 81.

384

PLATONE, LA REPUBBUCA

Si è dunque stabilito che il verbo essere è utilizzato da Pla­ tone primariamente, anche se non esclusivamente, con un

sen ­

so predicativo, al quale si collega una nuance veritativa di pri­ mo grado. Nel prossimo paragrafo intendo discutere le conse­ guenze che una simile posizione comporta dal punto di vista dell'interpretazione dello status logico-ontologico delle idee e delle loro instanziazioni. 5. L'idea come referenza primana e il ruolo dell'unità

Nel§ 2 si è visto che la linea di demarcazione tra l'unità della forma e la molteplicità delle sue instanziazioni non si si­ tua esattamente alla medesima altezza della separazione tra piano intellegibile e piano sensibile, in quanto le instanziazioni possono collocarsi anche a livello delle altre forme. Nel para­ grafo precedente si è poi cercato di dimostrare che l'uso predi­ cativo del verbo essere, come copula di un'espressione ellittica del tipo «X è F», implica che ciascuna unità è pienamente il pre­ dicato F che le viene ascritto, mentre i molti sono e non sono ciò che si dice che siano. Naturalmente tutto ciò non significa che un termine qualsiasi, idea o particolare sensibile, che parte­ cipa di una forma, non sia in modo assoluto il predicato che gli viene assegnato, ma significa che esso non è identico a tale pre­ dicato: nell'ambito della terminologia della dottrina delle idee questo nodo teorico trova espressione nel principio che i molti "partecipano" del predicato F, senza identificarsi con esso.29 Platone è, dunque, interessato ad argomentare a favore dell'esi­ stenza di termini che esauriscano senza resti il predicato di cui sono portatori. E in effetti, le unità eidetiche incorporano in forma assoluta il significato del loro nome: in altre parole,

esse

sono unità trasparenti e assolute di significato.30 In [L], §§ 4-5, N A. GRAESER, art. cit. (n. 20), p. 36. scrive che le idee

sono

ciò che nei

molti «nur in Form von Eigenschaften fìndet». 10 La relazione tra l'idea e

il significato del nome emerge anche dal prin­

cipio formulato in Resp. X 596a6-7, il quale esprime l'esigenza di «parre una singola forma per ciascun gruppo di molti oggetti pasticolari ai quali attri-

COMMENTO AL UBRO V,

385

[I]

tenterò di ricavare le conseguenze di ordine epistemologico derivabili da questo insieme di assunti. La costellazione teorica appena ricostruita può trovare espressione anche in un altro principio, che fa da sfondo a molte delle riflessioni con le quali nei dialoghi si argomenta in favore della necessità delle forme separate. Tale principio, al quale si è già accennato nel S 2, afferma che, se si assegna a una serie di oggetti, siano essi sensibili o ideali, il predicato F, di cui, dunque, essi costituiscono in un certo senso l'estensione, si è automaticamente tenuti ad ammettere che esista un termine unico che incorpora il significato di questo predicato. Si tratta, per la precisione, del procedimento dell'ftc9eatç, consistente appunto nel collocare al di fuori dei molti particolari in cui si trova instanziato, il predicato in questione e nel concepirlo come esistente in sé e per sé, vale a dire come sostanza.31 L'interpretazione combinata dell'opposizione tra le unità eidetiche e la molteplicità delle loro instanziazioni presentata da Socrate a partire da 476a3, da una parte, e delle tesi di natu­ ra metafisica che emergono dal dialogo tra Socrate e il suo in­ terlocutore fittizio, dall'altra, consente di proporre il seguente buiamo l'identico nome». Sulle idee come «Bedeutungen ihres Namens>> cfr. T. BoRSCHE, art. dt. (n. 17), p. 106 e soprattutto A. GRAESER, Die platonischen

ldun als Gegenstiinde sprachlicher Re/eren1., ..:Zeitschrift fiir philosophische Forschung», XXIX (1975) pp. 218-34 (p. 219) e art. dt. (n. 20), p. 35, il quale le concepisce come «Beudeutungstriigern». li

Per l'attribuzione ai Platonici della procedura dell'ekthesis cfr. ARIST.

Met. XIII 9 1086b7-l0 e XIV 3 l090a17. Nella sua forma generale, questo argomento comporta la necessità di ammettere l'esistenza di una forma sepa­ rata per ogni predicato attribuito a più individui

([v btì �tollii>vJ: cfr. la for­

mulazione generale, già richiamata, contenuta in Resp. X 596a6-7. Va tuttavia osservato che all'interno dei dialoghi si trovano alcuni passi che sembrano limitare l'estensione di questo principio. Su questo ordine di problemi cfr. G. FINE, op. dt. (n. 7), pp. 110-13, per la quale gli unici predicati che ammettono

un corrispettivo eidetico sono quelli esprimenti proprietà. Resta, in ogni caso, fuori discussione che, almeno nella Repubblica, esistono idee corrispondenti sia a predicati contrari (giusto-ingiusto, buono-cattivo, pio-empio), sia a con­ cetti relativi (velocità-lentezza), sia infme a termini sostanziali (uomo).

386

PLATONE, LA REPL"BBLICA

schema teorico: (a) ilnav'tEÀ.éÒç (tiÀ.ucpt.véì>ç) ov corrisponde alle unità trasparenti di significato; da ciò consegue che il

senso

dell'dvat. che ricorre in 476a6 viene restituito dai due avverbi di 477a3 e 7. (b) Il piano occupato da ciò che è intermedio tra l'essere pieno e il non essere assoluto inerisce alle instanziazio· ni, sia eidetiche che spazio-temporali, delle unità formali; la modalità antologica caratterizzata dalla compresenza di «esse· re e non essere F» esprime l'essenza del cpaivta6at di 476a7. (c) Nel corso del primo argomento portato da Socrate a favore della tesi che l'oggetto intenzionale dei filosofi è diverso da quello degli amanti degli spettacoli (475e9-476d6), non si trova nessuna allusione al «non essere>> (tò J.l� ov) che viene invece evocato nel colloquio con l'interlocutore fittizio. In effetti, se l'obiettivo che si propone Socrate è quello appena richiamato, è chiaro che il riferimento al non essere come termine intenzio­ nale dell'ignoranza (477a9) risulta superfluo. Esso viene intro­ dotto all'interno dell'argomento esposto a partire da 476e7 per esigenze di coerenza logica e simmetria. Se l'interpretazione proposta in questa sede è corretta, e in particolare se è accetta­ bile l'attribuzione di un senso predicativo alle espressioni «es­ sere» e «non-essere», sembra inevitabile concludere che anche il non-essere dovrà venire inteso primariamente in senso copu­ lativo, vale a dire come un non essere determinato (non-F). In effetti, se la struttura dell'argomentazione platonica è coerente, il J.l� ov, esattamente come l'ov, ricade nell'ambito esistenziale espresso dal

t1.

di 476e8: si tratterà, dunque, di un non-essere

un predicato determinato.32 Questa dovrebbe essere la condi· zione antologica di quegli oggetti che non sono in alcun modo F, perché non sono identici a F («essere F»), e neppure ne par­ tecipano, cioè possiedono F come qualità («essere e non essere F»), e dunque non possono in alcun modo venire conosciuti come F. L'ignoranza (ayvOt.a), che è il correlato cognitivo di 12

Anche se

il J.llJ ov di 478b12, esplicitamente equiparato al J.lflliÉv, do­

vrebbe possedere un senso esistenziale. Ma ciò non fa altro che confermare quella sovradeterminazione nell'uso del verbo essere di cui si diceva sopra.

COM.MENTO AL LIBRO V,

[I]

387

questa forma di esistenza, si configurerebbe allora come attri­ buzione del predicato F a ciò che non lo possiede nella manie­ ra più assoluta, non identificandosi con esso e neppure parteci­ pandone.n Concentriamoci ora brevemente sulla natura metafisica delle unità eidetiche. Nell'economia complessiva del disegno platonico la sezione conclusiva del libro V ha la funzione, co­ me si è più volte rilevato, di delimitare un ambito costituito da termini intenzionali il cui possesso cognitivo legittimi il filosofo al governo dello stato. n carattere peculiare di questi oggetti è stato individuato nel xavtt:ÀéÌlç dvat vale a dire, secondo l'in­ terpretazione qui proposta, nell'"essere pienamente e assoluta­ mente ciò che si è". Una condizione antologica di tal genere consente di concepire i termini che ne sono investiti come por­ tatori assoluti e trasparenti del significato espresso dal loro nome. Le unità eidetiche costituiscono, cioè, i rappresentanti ideali e perfetti del significato della definizione a esse relativa. Si trana, per la precisione, dei referenti primari dei termini sin­ golari astratti e universali concreti: le unità eidetiche sono, in altre parole, gli oggetti che veicolano in modo trasparente la definizione a loro corrispondente. I termini singolari astratti (la giustizia) e universali concreti (il giusto) possiedono una definizione, vale a dire un Myoç �ç oùaiaç: l'd&ç (aùt6 tÒ �iKatov oppure aùtò o Èatt �ilcatov) è la referenza antologica primaria di questa definizione.l4 Le considerazioni di natura logico-semantica appena pro­ poste forniscono il quadro di riferimento adatto a introdurre la 11

L'ignoranza non sarebbe dunque quella condizione limite, comune sia

all'amante degli spettacoli che

al filosofo, di chi necessariamente ignora ciò

che non è: RC. CROSS-A.D. WooZLEY, op. cii. (n. 1), p. 147. Essa rappresen­ terebbe invece il tentativo, operato in violazione al divieto parmenideo, di ascrivere un predicato determinato a un termine che non lo possiede:

J.LÌI ov

j.ITJ&zJ.Lfi KaV'tll clyYWO'tOV (477a3-4). �

Per questa costellazione problematica rimando a A. GRAESER, ari. cii.

ln. 30), pp. 223 sgg. e art. cit. (n. 20), p. 38. Che singolari astratti e universali concreti siano concepiti da Platone come sinonimi risulta chiaro da 479al-2.

388

PLATONE, LA REPUBBUCA

questione di carattere metafisica cui si faceva sopra riferimen­ to. Si tratta per la precisione della possibilità di individuare

un

fondamento di ordine antologico in grado di spiegare le carat­ teristiche e le funzioni che Platone ascrive in questa sezione alle unità eidetiche. Queste ultime rappresentano, come si è visto, unità elementari di significato, e le loro instanziazioni interessano sia il piano sensibile, sia quello intellegibile, vale a dire le altre idee. L'"essere-F" di un termine qualsiasi (eidetico o sensibile) dipende dalla "presenza" in esso di F: xF, yF, zF.35 Dal momento che questo termine non si identifica con F, ma ne partecipa, cioè lo possiede come qualità, deve esistere un ente che si identifica senza resti con F, cioè che esprime intera­ mente l'essenza di F: tale termine primario è CZ,, dove l'uso dd­ la lettera greca vuole esprime l'alterità strutturale nei confronti della serie dei xF, yF, i quali, dunque, sono e non sono f.J6 L'ei­ dos CZ, viene qualificato da Platone eminentemente come unità, contrapposta alla molteplicità delle istanziazioni. Questo signi­ fica che ai suoi occhi l'unità costituisce }'"essenza" dei termini non instanziati: ciascuno di essi è oggetto primario di cono­ scenza (nel senso di episteme) in quanto rappresenta un nucleo ontologico elementare che corrisponde perfettamente alla defi" Quanto detto implica che la forma sia "causa" ddl'csscrc: F dci partcci·

panti. Una simile tesi non è formulata esplicitamente nd libro V, e tuttavia

essa

costituisce senza dubbio uno dci teoremi centrali della concezione eidetica con­ tenuta in altri dialoghi, si pensi soprattutto a Phaed. 100c4 sgg. Aristotele ascri­ ve sovente alle forme platoniche la funzione di cause dci sensibili: cfr. Met. I 6

987bl8 sgg., I 9 990a.34 sgg., 99lall sgg., 99lb3 sgg. (con riferimento esplicito al Fedone). Una discussione sistematica relativa alla ripologia causale in Platone e Aristotele è fornita da G. FINE, Forms as Causes: Plato and Anstotle, in A. GRAESER (ed.), Mathematics and Metaphysics in Arislotk, Bem-Stuttgart 1987.

pp. 69-112. Sulla funzione causale delle idee platoniche cfr. ora D. BALTll.Y, art_ cit. (n. 3 ), pp. 248 sgg., il quale ascrive alle forme il ruolo di «.logical causoo. 16

L'essere-F di CII è tale da escludere in modo necessario non-F: cfr. F.C

WHITE, The 'Phaedo' and the 'Republic' V on Essences, «The Journal of

Hellenic Studies••. XCVIII (1978) pp. 140-56 (p. 154). TI presupposto antolo­ gico di questa concezione sembra consistere nell'ammissione di termini che si identificano·assolutamente con la proprietà di cui sono portatori: cfr. F-J­ GoNZALEZ, art. cit. (n. 20), p. 254.

COMMENTO AL LIBRO V,

(I)

389

nizione del predicato F. Quest'ultima funzione non può venire assolta da una realtà composta, perché essa non si identifica senza resti con il predicato di cui è portatrice.H Sembra di poter affermare che, in quanto unità antologiche elementari di significato, le forme di cui parla in questo contesto Platone costituiscono gli stoicheia del sapere relativo alla realtà: ogni essere (a qualsiasi livello ontico esso si situi), infatti, parteci­ pa di queste unità elementari alle quali deve la sua costituzione logico-antologica. Ma ciascuna unità eidetica rappresenta un termine non-instanziato in virtù dd suo essere "uno": da questo punto di vista, si può forse concludere che lo Ev è principio delle forme, tesi non dissimile da quella che Aristotele ascrive spesso a Platone.38 Naturalmente, il carattere di arche-stoicheion dell'uno nei confronti delle forme non è di natura matematico-dementa­ ristica (00ç J,lipoç x:aì UÀ.fl), bensì sostanziale-universale (00ç d&ç x:aì oùoia), nel senso che l'uno è principio delle idee in quanto trasmette a esse la proprietà di essere unità non instanziate e per questo anche oggetto di conoscenza scientifica.l9 H

Ciò non significa che le idee non possano presentare una struttura

composita, vale a dire un'articolazione interna che viene restituita dalla defi­ nizione (/ogos us ousias). L'idea di uomo, ad esempio, la quale si instanzia nella molteplicità degli uomini empirici, si definisce sulla base di una com­ plessa articolazione di generi e specie. Tuttavia, essa conserva il ruolo di unità elementare di significato. 11

Cfr., per esempio, Met. I 6 987b18-25 e 988a8-17. Sulla possibilità di

interpretare le forme di Resp. V come unità elementari e sulla prossimità di questa posizione alla dottrina dell'uno come principio delle idee, da Aristote­ le attribuita a Platone, dr. CH. HoRN, Platons 'episteme-doxa' Unterscheidung und die ldeentheon·e, in O. HòFFE (hsg.), Platon: Politeia, Berlin 1996, pp.

291-312, specialmente 302-12. Aristotele sembra anche ascrivere a Platone l'i­ dentificazione tra l'uno e il bene (Met. I 6 988al4-17 e XIV 4 1091bl3-15), che in Resp. VI viene concepito come principio delle idee. Una lettura delle idee come unità (in Resp. V) alla luce dell'identificazione uno-bene è fornita da G. REALE, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano 199720, pp. 186 sgg. Di tutti questi problemi collegati alla questione delle ·dottrine non scrit­ te" ci si occuperà commentando i libri VI e VII. 19 Sui diversi modi in cui gli Accademici concepirono il carattere di prin­ cipio dell'uno, dr. ARIST. Met. XIII 8 1084b18 sgg. Ampia discussione di que-

390

PLATONE, LA REPUBBLIC.-\

6. Conclusioni: idee e instanziazioni Arrivati a questo punto, siamo nelle condizioni di propor­ re alcune considerazioni di ordine generale sui caratteri del­ l'ontòlogia che si può ricavare dalla sezione conclusiva del li­ bro V. La distinzione fondamentale tra termini eidetici elemen­ tari e instanziazioni si fonda sull'opposizione tra "uno" e "mol­ ti". La conoscenza del filosofo si riferisce a queste unità ele­ mentari, il cui carattere dominante consiste nell'essere solo ciò che esse sono. V iceversa gli enti in cui si instanzia il predicato in questione non si identificano con il significato del predicato stesso e, dunque, sono e non sono F. Credo di avere dimostrato che l'opposizione tra le unità eidetiche e la molteplicità dello loro instanziazioni non è so­ vrapponibile a quella tra idee intellegibili e particolari sensibili. Ora si pone il problema di definire con più precisione il com­ portamento antologico degli elementi appartenenti ai due in­ siemi fondamentali. In un passo piuttosto noto del Simposio Platone sembra fornire la risposta a questo interrogativo. Diotima defmisce la natura di una forma, quella del bello, nei termini (a) della sua eternità ( àEÌ ov), e (b) della sua indifferenza rispetto a ogni genere di relazione, sia essa (hl) di natura temporale, (b2) og­ gettuale (7tpÒç �Év ... 1tpÒç OÉ), (b3) locale, oppure (b4) legata all'osservatore.40 L'"essere F" della forma cl> consiste, dunque, nell'essere tale indipendentemente da ogni circostanza oggettisti problemi in E. BERTI, Aristotele: dalla dia/euica alla /ilaso/ia prima. P adova 1977, pp. 119 sgg. Che

il concetto di

stoicheion potesse venire inteso sia in

senso materiale. cioè come parte costitutiva

di un tutto, sia in senso generico­

universale, è confermato da Mel. V 3 1014a26-b15. Che l'unità delle idee sia

di natura eidetico-universale e non numerica viene sostenuto anche da

R.

FERBER, op. dt. (n. 20), p. 20. •o

Symp. 210a7 s�g. Sulla legittimità di usare questo passo per chiarire la

tesi esposta in 479a5 sgg., in R. KRAUT

(cd.),

cfr. N.P. WHITE, Plato's melaphysica/ Epistemo/og_;·.

The Cambndge Companion lo P/ato, Cambridge 1992. pp.

277-310 (p. 290). Si veda anche R.E. ALLEN, a rt. cit. (n. 12). p. 170 e N.

CooPER, art. dt. (n. 20), p. 240.

COMMENTO AL LIBRO V,

[J]

391

va e soggettiva. E l'invarianza di ciascun termine elementare rispetto a ogni relazione presuppone l'identità con sé, vale a dire l'assoluta persistenza nell'identità. Quest'ultimo motivo è ricavabile dalle stesse affermazioni di Platone, per il quale l'i­ dea si caratterizza in virtù della sua perfetta auto-identità: «Ò.EÌ. �Èv x:atà taùtà ci>oautroç exouoa» (479a2-3, e7 -8).41 E in effetti, dalla lettura della sezione conclusiva del libro V emerge l'impressione che l'intento primario dell'autore non fosse tanto quello di sottolineare l'intellegibilità delle forme, quanto quel­ lo di evidenziarne l'auto-identità, condizione indispensabile, come si vedrà nel § 5 di [L], perché esse possano costituire oggetti intenzionali di un sapere "scientifico". Credo che l'auto-identità di ciascun termine elementare si possa, a sua volta, fare risalire all'unità, come categoria antolo­ gica fondante. La perfetta identità con sé dell'eidos, vale a dire l'essere sempre ciò che realmente è, presuppone il suo essere Ev ÈnÌ. nolléòv: infatti, solo se è concepito come unità priva di molteplicità, un termine elementare conserva la sua assoluta ipseità, e viene preservato dalla variabilità cui si espone ogni evento relazionale. In questo senso, l'unità garantisce l'ipseità di ogni forma elementare e, dunque, la possibilità stessa che essa diventi oggetto di episteme.

�1 Cfr. anche Phaed. 78c6, d2-3; Soph. 248all-l3; Phil. 6le2-3; Tim. 28a2, 29al e Resp. VI 500c2-3.

[L] Conoscenza e opinione: il filoso/o e la città

l. Il parallelismo onta-gnoseologico e la "teoria dei due mondi"

Un rapido sguardo alla bibliografia platonica degli ultimi decenni induce a ritenere che la questione interpretativa centra­ le alla quale ha dato luogo la lettura della sezione finale del libro V (475dl sgg.) sia quella relativa alla attribuibilità a Pla­ tone della cosiddetta "teoria dei due mondi" (d'ora in poi: T2M), vale a dire di quella concezione filosofica secondo la quale esistono due tipi di realtà (ooo El� trov ovtrov), ciascu­ no dei quali dotato di uno specifico corredo di proprietà onta­ logiche. I due ambiti, quello delle forme intellegibili e quello in cui si trovano i particolari sensibili, occupano due sfere antolo­ giche distinte e separate, di cui la prima è concepita come causa della seconda. Nella sua forma generale la T2M comporta importanti im­ plicazioni di ordine epistemologico. La differente costituzione ontologica degli elementi che occupano i due universi determi­ na una radicale distinzione anche nelle facoltà cognitive in grado di accedere a essi: nei dialoghi si incontrano numerose affermazioni dalle quali emerge la tesi che le idee sono «cono­ scibili» solo da una facoltà di natura razionale-intellettiva (vouç, v6tlcnc;, Àhyoç e Àoyl.OJJ.oc;), mentre gli enti empirici sono «opinabili» per mezzo di una facoltà in qualche modo dipen­ dente dalla sensazione.' Una posizione filosofica di questo tipo 1

Cfr.,

ad esempio,

Phaed.

79al sgg.;

Tim.

28al sgg., �ld3-�2a7;

Phil.

�8e4·�9c6. La conoscenza delle idee è indicata con il termine episteme in

394

PLATONE, L-\ REPuBBLICA

definisce una sorta di "parallelismo onto-gnoseologico" consi­ stente nell'ammissione di due universi paralleli, reciprocamen­ te incomunicabili, ciascuno dotato di una dimensione oggetti­ va e di una soggettiva.2 In entrambi i casi, è la natura costituti­ va del momento antico-oggettivo a determinare la struttura del­ la funzione epistemico-soggettiva, contribuendo così a confi­ gurare quel primato della prospettiva antologica da sempre considerato uno dei motivi peculiari del platonismo. La versione classica della T2M sembra, dunque, definire un'epistemologia nella quale la differenza tra funzioni cognitive viene ricondotta alla natura ontica dell'oggetto intenzionato: si tratta, dunque, di una «objektbezogene Unterscheidung>>.' So­ litamente, questo schema epistemologico disegna una grada­ zione di forme conoscitive dipendente da un universo ontico concepito come una successione di piani ciascuno dotato di una propria consistenza antologica: l'esemplificazione più chia­ ra di un simile modello teorico viene spesso individuata nella metafora della linea con la quale si chiude il libro VI.4 Resp. VI 508e3, VII 533d6; Symp. 210d7; Phaed. 74b4 e Phaedr. 247c8, d1

sgg.

Nel nostro dialogo la concezione della corrispondenza tra natura ontolo­

gica dell'oggetto e modalità conoscitiva a esso relativa compare in forma esplici­ ta in VI 508dl sgg., oltre che naturalmente in conclusione del libro V. Rapida discussione dei documenti significativi in A. G RAESER, Platons Au/assung rxm

Wissen und Meinung in Politeia V, «Philosophischcs Jahrbuch», XCVIII

(1991) pp. 365-88 (pp. 385-87) .

2 Al tema della incomunicabilità reciproca tra le due sfere onto-episte­ Parm 134d9-e6; sull'aporia cui dà luogo una versione troppo rigida della T2M dr. F. VON KUTSCHERA, Platons Parmenides, Berlin molo�iche si accenna in

1995, pp. 40-44. l I due sintagmi: ccParallclitat von ontologischen und kognitiven Qua­ litiiten» e «objektbezogene Unterscheidung» vengono utilizzati e discussi da

J. SZAIF, Platons Begrif/ •

der WcJbrhe�i Miinchen 1996, pp. 183 sgg. ,

Rt·sp. VI 509d! sgg. Sulla gradazione onto-gnoseologica dr. G. VLA.'IT< lS,

Dl·grees o/ Reality in Plato. ora in Platonic Studies, Princeton 1973, pp. 58-75.

L'interpretazione tradizionale favorevole all'assegnazione a Platone della versio­ ne classica della T2M è sostenuta, tra gli altri, da R.C. CROSS-A.D. WuOZLEY, Plato's Republic. RE. ALLEN, The

A Philosophical Commentary, London 1964, pp . 164 sgg. e Argument /rom Oppmites in Repuhllc V, in J.P. ANTON-G.L.

CO.\fMENTO AL LIBRO V,

[L]

395

La sezione del libro V di cui ci stiamo occupando è stata spesso considerata come uno dei documenti nei quali la posi­ zione filosofica appena delineata emerge in maniera più evi­ dente. In effetti, l'andamento teorico generale della parte con­ clusiva del libro, con la riconduzione delle tre funzioni cogniti­ ve (Èlttonu.lll-Ml;a-èiyvota) a tre differenti modalità ontiche ( tÒ navtEÀ.&ç ov - tò J.1Etal;u

-

tÒ J.lll ov), sembra configurare

quel primato della dimensione antologica di cui si diceva. Inoltre, un'affermazione come quella che si legge a 478bl-2 non pare lasciare spazio a equivoci, dal momento che vi è for­ mulato espressamente il divieto che il medesimo oggetto possa essere termine intenzionale di differenti modalità cognitive: OÙ'K ÈnropEl yvrootòv KaÌ ool;aotòv tautòv dvat. Si tenga presente, infine, che lo scopo complessivo dell'intera sezione sembra quello di legittimare la pretesa dei filosofi al governo della città proprio sulla base della loro capacità di accedere cognitivamente a un livello di realtà precluso agli altri eventua­ li pretendenti. In sintesi: la separazione antologica sembra ine­ vitabilmente condurre a quel parallelismo di natura epistemo­ logica spesso considerato come uno dei tratti distintivi del pla­ tonismo. 2. Le obiezioni alla versione radicale della "teoria dei due mondi" La tenuta del quadro interpretativo appena descritto è, tuttavia, meno solida di quanto possa apparire a prima vista. In GcsTAS (eds.), Essays in Ancienl Greek Philosophy, New York 1971, pp. 165·

75. Tra i più recenti rappresentanti di questa linea esegetica vanno annoverati

�.C. WHITE, Plato's metaphysical Epistemology, in R. KRAUT (ed.), The Camhndge Companion to Plato, Cambridge 1992, pp. 277·310 (pp. 283 sgg). e R. FERBER, Platos Idee des Guten, St. Augustin 1989-2, pp. 19·28. Più sfumata,

ma sempre riconducibile a un'interpretazione di questo genere, la posizione di A. GRAESER, art. cit. (n.

l), T. BoRSCHE, Die Notwendigkeit der Ideen: Politeta,

in T. KoBUSCII·B. MOJSISCH (hsg .), Platon. Seine Dialoge in der Sicht nmcr Forschungen, Darmstadt 1996, pp. 97·114 (pp. 104

sggl. e C.

HoRN, Platom

'episteme'· 'doxa'·Unterscheidung un d die Ideentheorie, in O. HùFFE Platon: Politeia, Berlin 1997, pp. 291-312.

(hsg. l,

396

PLATONE, LA REPUBBUCA

effetti, la T2M nella forma di uno stringente parallelismo onte­ gnoseologico non è esente da una serie di difficoltà, sia di ordi­ ne teorico generale, sia legate alla sua effettiva attribuibilità a Platone. Qui non si può che dencare qudle più direttamente collegate all'esegesi dd nostro testo. Le obiezioni che sono state mosse contro la presenza in Resp. V di un'epistemologia fondata sulla dipendenza della funzione cognitiva dalla natura dell'oggetto intenzionato pos­ sono venire divise in quattro gruppi. Come ogni classificazio­ ne, anche questa pecca di eccessivo schematismo, e tuttavia mi sembra che possa fornire un quadro abbastanza realistico ddlo status quaestionis. Da talune parti (a) si è osservato che l'assegnazione a Pla­ tone di una versione rigida ddla T2M sulla base ddle afferma­ zioni contenute nd nostro testo, non tiene conto del contesto dialogico-drammatico al cui interno tali affermazioni vengono pronunciate. In particolare, la dottrina della «objektbezogene Unterscheidung» tra episteme e doxa emerge dal colloquio che Socrate ha con Glaucone, il quale a partire da 476d8 assume i panni dell'amante degli spettacoli, venendo così a rappresenta­ re un partner dialogico di livello basso, in grado di fornire ri­ sposte commisurate al sapere di cui è in possesso. Questo si­ gnifica che, mentre le tesi risultanti dal dialogo che si svolge tra Socrate e Glaucone fino a 476d7 possono venire effettivamen­ te considerate come espressione del punto di vista ddl'autore, perché il livello dell'interlocutore di Socrate consente il pieno sviluppo di determinati teoremi filosofici, viceversa le posizio­ ni che emergono dallo scambio tra Socrate e il Glaucone che veste i panni dell'amante degli spettacoli non sono legittima­ mente ascrivibili a Platone, dal momento che esse dipendono dal grado di adesione che può fornire un simile interlocutore. Ciò significa che la homologia che i due locutori raggiungono non corrisponde, dal punto di vista del contenuto filosofico, alla posizione dell'autore. A quest'ultimo sarebbe, dunque, ascrivibile solamente la distinzione ontologica tra forme e par­ ticolari sensibili esposta in 475e6-476d7, ma non un'episteme-

COMMENTO AL LIBRO V,

397

[L]

logia in cui la differenza tra funzioni cognitive dipenda dalla natura antologica dell'oggetto intenzionato (476d8 sgg.).5 Anche alcune delle obiezioni mosse alla versione radicale della T2M da parte di esponenti dell'area culturale anglossas­ sone, legati in maniera più o meno diretta alla filosofia analiti­ ca, prendono le mosse dal contesto dialogico in cui si situano le affermazioni platoniche contenute in conclusione del libro V. Diverso è tuttavia l'argomento proposto: per Gail Fine, ad esempio, si possono considerare espressione del punto di vista di Platone solo quelle tesi che rispondono al criterio della "non-controversialità" rispetto all'interlocutore di Socrate. Questo significa che l'interpretazione corretta del dialogo tra Socrate e il suo partner fittizio deve condurre ad attribuire a Platone teoremi e argomenti di volta in volta accettabili dall'a­ mante degli spettacoli, cioè non estranei all'insieme di premes­ se che egli può ammettere. V iceversa, una lettura che assegnas­ se all'autore dei dialoghi una dottrina asserente il parallelismo onta-gnoseologico tra idee ed enti particolari, non risponde­ rebbe ai parametri di "non -controversialità" richiesti dalla Fi­ ne, perché presupporrebbe una serie di premesse teoriche, ad esempio l'esistenza delle forme, inammissibili dal punto di vi­ sta dell'amante degli spettacoli.6 ' Questa interpretazione è stata sostenuta da TH. EBERT, Meinung und Wissen in der Philosophie Platons, Berlin

1974, pp. 109-30, per il quale la

«) che si ottiene nell'ambito della àva!J.VTIO'lç, e dunque non nel ricorso all'ipotesi di una differenza nella natu­ ra degli oggetti intenzionati.8 Gcschichte der Philosophie», CXXIX (1997) pp. 239-72 (pp. 240 sgg). e soprattutto F.J. GoNZALEZ, Propositions or Objects? A Cn.tique o/ Gai/ Fine on Know/edge and Belie/ in Republic V, «Phronesis», XLI

(1996) pp. 245·75

(pp. 249 sggl.

7 Il caso paradigmatico di questa linea interpretativa è naturalmente rap· presentato da W. WIELAND, Piaton und die Formen des Wissens, Gottingen 1982, pp. 280 sgg. �

il riferimento alla causalità eidetica consente di trasforma· ool;,at in ÈntotiÌJ,mt, il cui carattere peculiare è costituito dalla

Men. 98al-7:

re le àì..TI6E'iç

stabilità. Cfr. su questo imponame testo G. FINE, Knowledge 1978, art. al. (n. 6), p. 121 e Knowledge 1990, art. cit. (n.

6), pp. 85 sgg., J.

ANNAS, An

Introduction lo Piato's Republic, Oxford 1981, p. 192 e G. CAMBIANO, Platone e le tecniche, Torino 19912, p. 226, tutti d'accordo nel mettere in evidenza l'assenza del riferimento a un diverso ambito oggenuale che spieghi la distin·

COMMENTO AL LIBRO V,

[L]

399

Alcuni interpreti osservano, inoltre, (d) che dall'accettazio­ ne della T2M deriverebbe una grave conseguenza di natura filosofica generale: se gli oggetti cognitivi cui si rivolge il filo­ sofo sono diversi da quelli con i quali hanno quotidianamente a che fare gli altri uomini, quale utilità pratica potrà avere il sapere di cui egli è in possesso? E sopprattutto: in che modo i guardiani potranno dirigere una realtà costituita da enti che essi non conoscono e con i quali non hanno rapporto? La ver­ sione radicale della T2M sembrerebbe inevitabilmente impli­ care un conflitto insanabile tra epistemologia da una parte, ed etica e politica dall'altra.9 Infine, non sarebbe giusto passare sotto silenzio un ulterio­ re argomento, mai espressamente formulato dai critici della T2M, ma la cui influenza è forse maggiore di quanto si sia abi­ tuati a ritenere: si tratta, per la precisione, di un certo fastidio, latente e tuttavia facilmente avvertibile, che molti interpreti nu­ trono nei confronti di una posizione filosofica che viene so­ stanzialmente considerata banale, quando addirittura non as­ surda. La T2M è vista, soprattutto nell'area culturale anglosas­ sone di matrice analitica, alla stregua di un truismo, o meglio di un insopportabile arcaismo epistemologico dal quale Pla­ tone va liberato.

3. Forme cognitive e livelli di realtà Gli interpreti contrari ad assegnare a Platone un'epistemo­ logia fondata sulla T2M si trovano di fronte al compito di indi­ viduare un criterio discriminante tra scienza e opinione che sia diverso da quello del riferimento oggettuale, o diverso comun­ que da quello stabilito dalla separazione tra idee e sensibili. Le zione tra «opinione vera>> e «scienza». L'idea che queste due modalità cono­ scitive possano avere a oggetto il medesimo ambito ontico sembra emergere anche da Theaet. 201b8 sgg. 9 Cfr. J. ANNAS, op.cit. (n. 8), p. 194. Anche G. FINE, Knowledge 1990, art. cii. (n. 6) p. 86 richiama l'attenzione sul pericolo che il sapere dei filosofi

risulti sostanzialmente inutile alla città.

400

PLATONE, LA REPUBBUCA

soluzioni fomite a questo problema variano anche in misura considerevole e non tutte sono ugualmente interessanti dal pun­ to di vista dell'interpretazione del nostro testo. La linea esege­ tica più diffusa resta quella consistente nell'attribuire a Platone un'epistemologia nella quale scienza e opinione rappresentano differenti modalità cognitive rivolte al medesimo oggetto. Viene cioè decisamente infranto il divieto di transitare da uno stato cognitivo doxastico a uno scientifico in relazione allo stesso ente intenzionato, del quale sono dunque ammesse dif­ ferenti forme di sapere. L'esame di alcuni passi dei dialoghi conferma, in effetti, l'ammissibilità della tesi secondo la quale delle idee si può ave­ re opinione e, dunque, non solo scienza, mentre appare franca­ mente più problematica l'affermazione che anche le cose sensi­ bili siano conoscibili e non solo opinabili.10 A proposito della 10

Essa si basa soprattutto su Resp. VII 520c3 sgg., dove si dice che i filo­

sofi che ridiscendono nella caverna «conosceranno• le immagini che vi si tro­ vano (yvt:00Ea9E ElCaa"ta "tà d&oi..a) le quali corrispondono naturalmente agli enti di questo mondo: cfr. G. FINE, Knowledge 1978, art. cit. (n. 6), p. 121. Tuttavia, è chiaro che in questo contesto il verbo «conoscere- è utilizzato in senso generico e non nel significato pregnante di «conoscenza scientifica». Quest'ultima, come risulta chiaramente dalla metafora della linea, è possibile solo per gli enti che si trovano nella sezione intellegibile della stessa. In effetti, l'impressione di una cena fluidità nell'uso dei termini si accompagna spesso alla lettura dei dialoghi. Anche in Phil. 6Idl0 il vocabolo ÈKlOTFtll'l ricorre a proposito delle cose particolari, ma anche in questo caso non sarebbe corret­ to pensare che di esse si possa avere una conoscenza vera e propria. Infatti, Platone si affretta a precisare (6le3-4) che rivolgendosi all'ambito dd vero, quello in cui si trovano le idee, si avrà una «scienza più vera- della prima, cioè di quella relativa ai particolari sensibili. Ma se quest'ultima ammette una forma di sapere a essa superiore, non potrà identificarsi con la vera conoscen­ za: corretta l'interpretazione di questo passo fornita da A. GRAESER, art. cit. (n. 1), pp. 384-85. In realtà, come vedremo nel § 5, la saldezza della cono­ scenza dipende dalla natura degli oggetti intenzionati. D'altra parte, l'impos­ sibilità di una vera e propria conoscenza dei particolari sensibili dipende dal carattere che ogni proposizione relativa a essi possiede: i giudizi che esprimo­ no stati di cose relativi a questo mondo possono perdere il loro carattere di verità (o l'adeguatezza all'oggetto) nel momento stesso in cui vengono espres-

COMMENTO AL LIBRO V,

[L)

401

possibilità di produrre asserzioni "opinabili" relativamente a enti eidetici, mi limito a ricordare il caso più noto: in Resp. VI 505b5-6l'identificazione dell'idea del Bene con il piacere e con l'intelligenza ricade nel campo cognitivo della Mça (toic;

�Èv noA.A.oic; i]�ovÌl �oui dvat tÒ àya06v, toic; �È KO�ljlotÉpotc; cppOVll, l:, A (singolari astratti o universali concreti), dall'altra, il loro senso (F, S, D), esprimibile in linea di principio in forma definizionale. Ammettendo ciò, si può forse spiegare la con­ temporanea presenza nei dialoghi di affermazioni relative alla semplicità, all'unitarietà e all'indivisibilità delle forme, e di argomenti dai quali emerge l'esigenza di fornirne la definizio­ ne; è chiaro che se si riuscisse a fare coesistere questi differenti

COMMENTO AL LIBRO V,

409

[L]

motivi, si sgombrerebbe il campo dall'annosa questione rdati­ va al carattere immediato e pre-(non) proposizionale, oppure definitorio e proposizionale del sapere delle forme. Queste ultime sono termini unici e incomposti, ma il sapere producibi­ le (e comunicabile) intorno a esse non può che consistere nella definizione dell'essenza (À.Oyoç tftç oùoiaç) vale a dire nell'e­ splicitazione del significato di cui sono portatrici. n dialettico è, infatti, colui che è in grado di «tÒv ')J;yyov bc:aotou tftç oùoiaç Àa!J.j}avEtv KaÌ �tMvat», secondo la nota espressione che ri­ corre in Resp. VII 534b3-4Y 17 D fatto che la conoscenza si rivolga a entità semplici non significa che il sapere da essa prodotto sia di natura non-proposizionale o pre-proposiziona­ le: tale sapere, infatti, si risolve nell'espressione di una proposizione relativa a questi oggetti incomposti. Recentemente la questione relativa al carattere ddla conoscenza in Platone è stata ripresa e affrontata sistematicamente da Francisco Gonzalez in due ampi saggi. Nel primo, art. cit. (n. 6), egli sostiene, contro G. Fine, che l'oggetto della conoscenza filosofica è rappresentato da entità e non da proposizioni e che tali entità sono naturalmente le forme. Tut­ to ciò è perfettamente in linea con quanto sostenuto in questa sede (special­ mente S 3) e in particolare con la tesi secondo cui la forma cognitiva dipende dalla natura dell'oggetto intenzionato. Nel secondo saggio, F.J. GONZALEZ, Nonpropositional Knowledge in Plato, «Apeiron», XXXI

(1998) pp. 235-84,

sviluppando posizioni accennate nel primo, lo studioso arriva a negare che il logos tes ousias corrisponda alla "definizione essenziale e a sostenere, soprat­ w

tutto sulla base dell'excursus gnoseologico contenuto nella Epistola VII, che la forma suprema di sapere è di natura extra-definizionale e non-proposizionale, anche se finisce con l'ammettere che le sue analisi non hanno dimostrato che ndla Repubblie11 la conoscenza ddle forme sia caratterizzata in termini sicura­ mente non-proposizionali (p. 283). In verità, come ho cercato di dimostrare, il motivo dd sapere filosofico come conoscenza diretta e immediata ottenuta per contatto e rivolta a entità semplici, che è certamente presente nei dialoghi e risulta, tra l'altro, veicolato anche dall'uso sistematico ddle metafora ddla visione e dd contatto, non è automaticamente inconciliabile con l'esigenza di fornire un sapere defmizionale di queste entità. Si tratta di due motivi presen­ ti entrambi nei dialoghi, la cui tensione costituisce probabilmente uno dei tratti essenziali e forse ineliminabili della filosofia platonica. Non mi sembra condivisibile, invece, la tesi di W. WJELAND, op. cii. (n. 7), p. 292, secondo il quale l'infallibilità dd sapere si fonderebbe sul suo carattere non-proposizio­ nale: Platone, infatti, non dice che il sapere del dialettico consiste nella sua

410

PLATONE, LA REPUBBLICA

5. L'infallibilità del filoso/o: la struttura del sapere scientifico Platone è, dunque, impegnato a circoscrivere un ambito logico-ontologico di trasparenza, il cui possesso cognitivo rappresenti il criterio che legittima i filosofi - g'wernare lo stato. Abbiamo, tuttavia, constatato che non tutte le forme di conoscenza relative alle idee si identificano con l't'pistone: delle idee è possibile avere opinione più o meno corretta, così come in linea di principio è possibile avere una corretta e vera opinione delle cose sensibili. La possibilità di opinare intorno alle forme intellegibili risulta, a ben vedere, fondata proprio sulla loro Kotvrovia nov à.UftA.rov: se un eidos determinato, in sé unitario e incomposto, si instanzia, oltre che in azioni

e

corpi, anche in altre forme, queste ultime lo posseggono come qualità, senza identificarsi con esso; unicamente l 'aù tò tò KaAOv è solo ciò che è, mentre le altre idee possono possede­ re la bellezza come qualità, senza esserne il referentc ontico primario. Da quanto detto risulta evidente che in prima istanza la struttura della conoscenza del filosofo è insieme oggettuale

e

definizionale, ma non relazionale. Egli è, infatti, prima di tutto colui il cui sapere è rivolto a entità assolute e trasparenti -sin­ golari astratti (la giustizia, la bellezza) e corrispettivi universali concreti (il giusto, il bello), -le quali incorporano il significato della parola, sono in sostanza identici a esso. Come si vede, a questo livello, non abbiamo ancora un sapere relazionale, dal momento che le idee sono pensate solo come termini di riferi­ mento semplici e incomposti di una definizione. In questo senso l'infallibilità della conoscenza filosofica risiede nella capacità di rivolgersi a termini intenzionali che incorporano senza resti il significato del predicato loro at­ tribuito. Nel giudizio «il giusto è F», il termine che funge da soggetto rappresenta la referenza ontica primaria del significapacità «mit Siitzen umzugehen, bestimmte Tiitigkeiten zu praktizieren,. (p. 293 ), bensì in quella di fornire definizionalmente l'essenza delle fonne: Rerp. VII 534b3-6.

COMMDITO AL LIBRO V,

[!.]

411

cato dato da F: esso è, dunque, il giusto in sé, l'idea di giusti­ zia (cl>). 18 Nel caso della giustizia ci troviamo in una situazione parti­ colarmente fortunata, dal momento che il significato di cui essa è il referente primario, cioè il suo M yoç tilç oùaiaç, è for­ nito da Platone nel libro IV: la giustizia «consiste nel fare le proprie cose» (433a8, b4, d8, ecc.).19 Gli interlocutori di So­ crate sperano di ascoltare una definizione formalmente analo­ ga anche dell'idea del bene (VI 506d3-5), sperano cioè di co­

noscere aùtò ti not' Èatì tàya96v, come avevano conosciuto il giusto in sé. Socrate, come è noto, non soddisfa questa richie­ sta, ma conferma in ogni caso che il sapere filosofico consiste in prima istanza nella capacità di fornire la definizione dei ter­ mini singolari astratti e dei predicati a essi relativi. Esaminiamo con attenzione quale modello di episteme è ricavabile da Resp. V. Il compito della conoscenza viene espli­ citamente indicato nel «tÒ ov yvrovat ci>ç EXEl» (478a6).20 So­ crate spiega, da una parte, che essa si rivolge all'essere (ÈnÌ tép

ovn) e dall'altra che il suo compito consiste nel conoscere che cosa è questo ov. Il significato del termine «essere» e la natura della sua esistenza (il suo ci>ç EXEl) risultano chiari sulla base dell'affermazione contenuta in 479al-3: l'essere è la forma intellegibile (aùtò Kaì..òv KaÌ ioÉav ... aùtou KaÀÀouç) e il 18

La verità dd /agos, vale a dire il suo essere completamente vero, dipende

dall' «essere assolutamente f,. dd termine intenzionato: dr. D. BALTZLY, art. cit.

6), p. 267. Sull'origine parmenidea del teorema che fa dipendere la pienezza (xavtEÀ.ijlç yvoxnov) da quella ontologica ( tÒ xavtEÀ.ljlç o v) dr. J .A. PALMER, Plato's Reception o/Parmemdes, Oxford 1999, pp. 37 e 51 s�. 1� Ma secondo F.J. GoNZALEZ, art. cit. (n . 17), p. 279, la definizione di giustizia fornita nel IV libro è solo uno schizzo (uxoypacpiJ, VI 504d6-7) e non (n.

conoscitiva

può venire considerata alla stregua di un'autentica descrizione conoscitiva. Questa lettura, tuttavia, contrasta con la pretesa degli interlocutori di Socrate di ascoltare una definizione dell'idea del bene simile a quella data per le virtù:

iOOKEp 1)\lcauxri>vllc; xÉpl Kai amcppoo{JVTic; Kai tcpv èiÀ.Ào>v (506d3 sgg.l. lO n sintagma specifica e chiarisce il significato della più generica espres­ sione che ricorre in 477bl0-ll: yvépvm cOç [an tò ov. Cfr. le osservazioni di A. GRAESER, art. cit. (n. ll, p. 377, anche n. 35.

412

PLATONE, LA REPUBBUC.'l

suo modo principale di esistenza è costituito dalla assoluta au­ toidentità o dalla persistenza nell'identità (àEì. � Ka'tà taùtà cixJautwç [:xouaav).21 Ed è esattamente a questo livello che si situa la garanzia dell'infallibilità della conoscenza: l'identità assoluta dell'idea, tale cioè rispetto a tutte le condizioni, signi­ fica che a essa può sempre venire ascritto il predicato (F) di cui è portatrice e con il quale si identifica.22 n dato teorico emerso da questa discussione può venire riassunto nei seguenti termini: il criterio di natura epistemolo­ gica in base al quale si distinguono conoscenza e opinione, il quale risiede nell'infallibilità della prima di contro alla fallibi­ lità della seconda (477e6-7), dipende in ultima analisi dal ca­ rattere degli oggetti intenzionati: solo l'esistenza di un ambito di termini i quali sono completamente ciò che sono, vale a dire costituiscono portatori trasparenti e assoluti del predicato che possiedono, garantisce la verità e la necessità della conoscenza a essi relativa. In quanto eternamente identica a sé, la forma intellegibile rappresenta un "portatore costante" del proprio significato. È certamente vero che il dialogo fittizio tra Socrate e il "Glaucone-amante degli spettacoli" è incentrato sul motivo epistemologico della differenza tra conoscenza e opinione e che è tale differenza

a

rappresentare la datità fenomenologica

primaria: è cioè l'evidenza dell'esistenza di un sapere doxastico a mettere in moto l'intero processo di indagine (477b2). E tut­ tavia, la soluzione che Platone fornisce al problema dd criterio discriminante tra episteme e doxa, fa riferimento a un ambito di oggetti dotati di una natura peculiare.2l 21

Il raffronto di 477bl0-ll e 478a6 con 479al-3 dimostra, come si è

visto a suo tempo ([D S 4), l'insostenibilità di un'interpretazione in chiave unicamente veritativo-proposizionale dell'uso dd verbo essere. n senso prin­

cipale di ov è infatti esplicitamente dato dall'idea, che costituisce il referente ontico primario e assoluto del predicato F. 22

La verità dd sapere si fonda sul riferimento a un ambito di oggetti il

cui "essere-così" è indipendente da ogni fattore, sia esso di natura temporale o, più in generale, di carattere relazionale: dr.J. SZAIF, op.cit. (n. 3), p. 210. 21

1n tutto ciò l'epistemologia platonica tradisce

il suo debito

nei con­

fronti di Parmenide; la possibilità di una conoscenza autentica è fornita dal-

COMMENTO AL UBRO V,

[L]

413

Se ci si limitasse alle risultanze che emergono dalla lettura della sezione conclusiva di Resp. V, si sarebbe inevitabilmente portati a concludere che agli occhi di Platone la conoscenza consiste solamente nella capacità di esibire il significato dei termini singolari astratti o universali concreti, cioè nella capa­ cità di produrre proposizioni del tipo «Cl> è F» (la giustizia equivale a «fare le proprie cose»). In un tale contesto, sembra­ no esclusi sia il riferimento a una conoscenza rdazionale delle idee, sia la possibilità, di cui si trovano accenni nei dialoghi, che uno stesso oggetto risulti "opinabile" e "conoscibile". In verità, un panorama teorico cosi ridotto e semplificato rispetto al normale sviluppo che questi temi incontrano in altri dialoghi non deve sorprendere. Della teoria delle idee, in que­ sto contesto era sufficiente schizzare i tratti generalissimi, dai quali, in ogni caso, non manca l'importante motivo della "par­ tecipazione reciproca delle forme", sviluppato poi ampiamente negli scritti successivi. Anche il tema dei rapporti di dipenden­ za

all'interno dell'universo eidetico conoscerà un qualche ap­

profondimento nei libri VI e VII. La sezione conclusiva del V libro va compresa alla luce dello sviluppo teorico che il dialogo ha raggiunto fino a quel punto: l'esigenza primaria di Platone consiste nel fornire un criterio in grado di distinguere il filo­ sofo, investito dd compito di guidare lo stato, da altre figure sociali, contigue, almeno dal punto di vista dell'immaginario popolare, a esso. Le idee, intese come referenti primari del si­ gnificato di predicati assiologici fondamentali quali «buono», «giusto» e «pio», svolgono perfettamente questo compito. Ciò non significa, naturalmente, che al tempo di composi­ zione di questo libro, Platone non possedesse teoremi filosofici più complessi relativi alla dottrina delle idee e alla teoria della conoscenza. Per quanto riguarda questo secondo tema, va pre­ cisato quanto segue. li tratto distintivo della conoscenza vera e propria nei confronti dell'opinione viene individuato, come ho ricordato più volte, nella sua infallibilità, vale a dire nella capal'esistenza di oggetti dotati di un peculiare corredo antologico: cfr. ].A. PALMER, op. cii. (n.

18), pp. 31

sgg.

PLATONE, LA REPl!BBLICA

414

cità di produrre asserzioni sempre vere. È chiaro che il caso più semplice di proposizione vera è costituito da quella in cui soggetto e predicato sono identici (in tutto sovrapponibili). In questo senso, la proposizione definitoria nella quale si fornisce il Àéyoç Tiìç oùoiaç di una forma, costituisce senza dubbio il modello del giudizio vero: il soggetto cl» incorpora completa­ mente il significato dd predicato F. Si è visto, tuttavia, che Pla­ tone altrove ammette in linea di principio il caso di opinioni vere che, se fomite di un legame di natura causale, diventano conoscenze vere e proprie. In questi casi, la stabilità rappre­ senta il criterio discriminante tra le due forme cognitive: l'opi­ nione conserva tracce di insicurezza e instabilità che la scienza è in grado di superare.24 In precedenza si è anche constatato che l'ambito oggettuale di cui si può avere tanto conoscenza quanto opinione, è costituito dal mondo delle idee. A questo punto viene naturale domandarsi quali siano i motivi che scandiscono il passaggio dalla opinione retta alla conoscenza vera e propria. È probabile che il ragionamento causale in grado di fornire il legame necessario alla trasforma­ zione di una alethes doxa in episteme (Men. 97e2-98a7), sia co­ stituito dalla riconduzione di una proposizione vera alla causa della sua verità, vale a dire al Àéyoç Tftç oùoiaç dei termini che vi ricorrono. Un giudizio del tipo «l'anima è immortale», ad esempio, rimarrà confinato a livello di «opinione vera» fino a quando il suo contenuto non verrà ricondotto alla defmizione di anima come «principio di ogni movimento»: solo il ricorso a essa permette, infatti, di escludere la possibilità della morte. n riferimento al Àéyoç Tftç oùoiaç di cui una determinata forma z• tere

Sulla ltMIV'l, e più in generale sulla mancanza di stabilità, come carat­

peculiare dell'opinione e del sapere non filosofico, dr. Resp. VI 484b5-7,

508d6-9,

Phaed. 79c7-8: osservazioni inJ. SZAIF,

op.cit. (n.

3), p. 218.

L'epi­

steme, i nvece oltre che sal da, è anche «durevole» (j.lllVliJ.O.19 Si tratta dunque di collocare il tema della felicità entro il sistema teorico dei due autori, vedendone le inconciliabilità. Così, per RF. Stalley,20 Aristotele sembra fraintendere la rispo­ sta socratica all'obiezione sulla felicità dei guardiani, giacché Platone non sostiene che una città possa essere felice se non è felice la maggior parte dei suoi cittadini, né che la felicità della città nel suo complesso sia distinta da quella dei suoi membri. Pure, afferma Stalley, il fraintendimento di Aristotele è com­ prensibile: la preoccupazione di Socrate è di assicurare coesio­ ne alla città. Dal momento che una città forte e pacifica non 18

Cfr. commento allibro IV, [A].

19 L. NAPOLITANO VALDITARA, op. cit. (n. 10

Op.cit.

(n. 7), p. 197.

2), p.

154.

436

PLATONE, LA REPUBBLICA

deve necessariamente avere cittadini felici può sembrare che Platone distingua la felicità della città da quella dei suoi mem­ bri. Di fatto, sia Platone che Aristotele, per Stalley, concordano sul fatto che una città può essere felice solamente se felici sono i suoi cittadini: la discordanza delle loro opinioni riguarda il modo di intendere l'affermazione. Aristotele accentua l'attività dei cittadini in grado di compiere scelte, Platone sostiene l'im­ portanza di essere virtuosi più che di agire secondo virtù. L' op­ zione aristotelica è, dunque, strettamente legata alla proprietà privata e alla relazione con altri individui, mentre per Platone la virtù come azione virtuosa coincide con le qualità necessarie al bene della città. Per Aristotele, cioè, il benessere degli uomi­ ni, animali politici, è comunque relato al rapporto con altri, rapporto mediato da proprietà privata e famiglia, fondamento del vivere comune. 3. Il rapporto con le Leggi Dopo il progetto della Repubblica Aristotele analizza la proposta delle Leggi. La lettura che egli conduce di quest'ope­ ra presenta inesattezze, tanto che molti studiosi si sono interro­ gati sull'autenticità dei passi in questione.21 Ciò su cui vorrei soffermarmi, però, non è tanto l'analisi delle Leggi, quanto l'ap­ piattimento che per certi versi Aristotele conduce delle Leggi sulla Repubblica. Egli individua forti somiglianze tra i due pro­ getti che gli appaiono per molti versi analoghi: «eguale è l'edu­ cazione e così il genere di vita esente dai lavori indispensabili e lo stesso per il regime dei sissizi» (1265a5 sgg.). Colpisce tale identificazione dei due progetti; tanto più che nell'analisi suc­ cessiva Aristotele mette in luce aspetti delle Leggi assai lontani dalla comunanza della Repubblica. Sembra vi sia, dunque,

un

divario tra quanto affermato a 1265a5-10 e le successive elabo­ razioni. In parte, la ragione del divario potrebbe essere connes­ sa a quanto dice lo stesso Aristotele (1265al-3): le Leggi sono 11

Cfr.J.

AUBONNET, op. àt. (n. 3). p. 144, n. 7.

COMMENTO AL LIBRO V,

(Ma)

437

una raccolta di leggi, di disposizioni specifiche, ma trattano assai poco della costituzione; gli aspetti determinanti sono l'e­ ducazione e il sistema dei sissizi, cioè un tipo di vita comunita­ ria che è presente in entrambe le costituzioni. Viceversa, le dif­ ferenze riguardano l'estensione territoriale, il numero dei citta­ dini armati, il limite delle nascite, la possibilità di accrescere la proprietà della terra, la separazione delle abitazioni. Sembre­ rebbe dunque si possa asserire che i progetti generali sono si­ mili nonostante alcuni particolari legislativi. Di fatto, però, la presentazione del quadro costituzionale delle Leggi è diversa da quella della Repubblica. La continuità tra Repubblica e Leggi è allora da vedere in relazione alla realizzabilità dei progetti. Nelle Leggi

-

sostiene Aristotele - Platone propugna soluzioni

improponibili (1265a18) che non tengono conto del numero dei cittadini rispetto all'estensione territoriale, del rapporto con le popolazioni confinanti, della relazione tra governanti e governati. Le sue proposte risultano, dunque, sbagliate e im­ precise. Pure, hanno, rispetto alla Repubblica, maggiore possi­ bilità di essere applicate. Sono un adattamento alla situazione concreta di quanto nella Repubblica risulta di difficile realizza­ bilità. Non costituiscono certamente la scelta migliore dopo la prima costituzione come sostiene Platone, ma, come egli affer­ ma, la più applicabile (1265b29-31), una versione più realizza­ bile dell'altro progetto. Si riafferma, così, la linea di continuità sostenuta a 1265a2-5 e la si riconduce allo stesso Platone. Già que s t ' u ltimo, infatti, aveva accostato il modello della Repubblica alla città propugnata nell'altra opera. L'ipotesi della kallipolis appariva impossibile (746cl). Si trattava, dunque, di realizzare la costituzione a essa più vicina per natura e più prossima per genere. L'accostamento aristotelico tra modello della Repubblica e progetto delle Leggi è, dunque, già presente nel Platone delle

Leggi che dà una lettura in qualche modo "modificata" della kallipolis. Non parla di filosofi-re, accentua l'idea di organismo sociale, applica la comunanza a tutta la città indistintamente, presenta il modello della Repubblica come impossibile mentre,

438

PLATONE, LA REPUBBUCA

più volte, nd dialogo precedente, aveva insistito sulla realizza­ bilità del progetto. Se paragoniamo tali tesi con alcune considerazioni aristo­ teliche troviamo singolari sintonie: Aristotele non parla dei filosofi-re, afferma che la collettivizzazione riduce la città a in­ dividuo, sostiene che il progetto platonico è inapplicabile e contrasta con la natura degli uomini, ipotizza che la comunan­ za di donne, figli, beni non riguardi solamente i primi ceti, ma tutta la città. Certamente, Aristotele non si limita a considerare il progetto della Repubblica irrealizzabile. Egli non parla sola­ mente di impossibilità, ma anche di indesiderabilità. Quello che nelle Leggi è un modello irraggiungibile, per lo meno nei tempi presenti, un progetto, però, di stampo divino, altissimo e fortemente auspicabile, è ora un errore, il perseguimento di fini scorretti e negativi. L'irrealizzabilità della kallipolis, inoltre, non è dovuta alla pochezza dei contemporanei, indegni per la loro natura e la loro educazione di una meta di carattere supe­ riore, ma è connessa ai presupposti sbagliati e ai mezzi inade­ guati che Platone propone. Francesca Calabi

[Mb] La critica aristotelica alla Repubblica nel secondo libro della Politica, il Tlmeo e le Leggi

l. Il problema n problema centrale nell'interpretazione delle critiche che Aristotele rivolge alla Repubblica platonica resta quello formu­ lato da una lunga tradizione esegetica, discussa nella sintesi di Linda Napolitano:1 l'esposizione che Aristotele traccia della

Repubblica nel secondo libro della Politica è così riduttiva, e l'interpretazione che egli ne offre cosi manifestamente arbitra­ ria, da rendere a prima vista fondate le accuse di ignoranza del testo o di malafede eristica. In altri termini, per usare le parole 1

L. NAPOLITANO VALDITARA.

LA trattazione aristotelica della 'Politeia' di

P/4tone, in E. BERTI-L. NAPOLITANO (a cura di), Etica, Politica, Retorica. Studi su Aristotele e 14 sua presenUJ. nell'età moderna, L'Aquila 1989, pp. 13�·�9. Oltre alla bibliografia classica, per la quale si rimanda a questo studio e qui a [Ma], mi riferisco principalmente ai saggi seguenti: D. LANZA, LA cn"tica ari­ stotelica a P/4tone e i due piani della Politica, «Athenaeum», XLIX (1971) pp. 3��-92; L. BERTE.LLJ, Historia e methodos. Analisi critica e topica politica nel

secondo libro del/4 'Politica'

di Aristotele, Torino 1977; R

Bootos, Pourquoi

Platon a-t-il composé /es Lois, «Etudes Classiques», LIII (198�) pp. 367-72; RF. STALLEY,Aristotle's Critidsm o/PI4to's Republic, in D. KEYT-F.D. MILLER

(eds.), A Companion to Aristotle's Politics, Cambridge Mass.,

1991, pp. 182-

99; M. CANTO SPERBER, L'unité de l'Eta/ e les conditions du bonheur public

(Piaton, République

V, Aristate, Politique Il), in A. TORDESILLAS (éd.),

Aristate, Politique, Paris 1993, pp. 49-71 {cit. p. �O); R MAYHEW, Aristotle's Critidsm o/PI4to's Republic, Lanham 1997 (sul quale si veda la recensione di D. KEYT in «Ancient Philosophy», XVIII (1998) pp. 486 sgg.). Una chiara

esposizione delle tesi aristoteliche è ora in E. BERTI, Il pensiero politico di Anstotele, Roma-Bari 1997, pp. 47-�7.

440

PLATONE, LA REPUBBLICA

di Monique Canto, Aristotele appare «un professeur peu re­ commandable en histoire de la philosophie platonicienne». Senza mettere in discussione nelle sue linee generali la vali­ dità dell'interpretazione della Napolitano, che vede nell'ap­ proccio aristotelico alla Repubblica non ignoranza o malafede, ma un tipico esempio della consueta «strategia dialettica» di Aristotele nella trattazione dei predecessori, con espansioni an­ che retoriche, si può proporre un percorso interpretativo par­ zialmente nuovo (qualche cenno nella stessa direzione è reperi­ bile anche nel saggio di Bodéiis del1985). 2. Selezione,

interpretazione, critica

È il caso, per scandire le tappe di questo percorso, di di­ stinguere tre diversi livelli dell'analisi: il primo riguarda la sele­ zione dei contenuti della Repubblica che viene operata da Ari­ stotele; il secondo, la sua interpretazione dei testi platonici così individuati; il terzo, i temi essenziali della critica che egli rivol­ ge alle proposte platoniche in precedenza sottoposte al lavoro della selezione e dell'interpretazione. 2.1. La

selezione.

L'esposizione aristotelica della Repubblica, contenuta nei capitoli 2-6 del libro II della Politica, si limita in sostanza ai libri IV e V, con qualche ulteriore e vistosa omissione. A prima vista, per spiegare questa drastica selezione operata sulla com­ plessa tematica del grande dialogo platonico, non è affatto ne· cessario pensare a una ignoranza o a una rimozione del testo. Basta riferirsi al criterio della pertinenza disciplinare, cui Ari­ stotele ricorre di norma nelle sezioni dossografico-dialettiche con le quali spesso si aprono i suoi trattati.2 Questo criterio (che consiste essenzialmente nel prendere in esame solo quei temi che risultano direttamente attinenti al 2 Cfr. in proposito M. VEGErn, Il corso e il trattato. Pertinen1:11 disciplin•· M. GALLUZZI et ali. (a cura di), Le /orme della comunicazione scientifica, Milano 1998, pp. 27-40.

re e

costruzione della tradizione in Aristotele, in

COMMENTO AL LIBRO V,

[Mb)

441

campo delle questioni discusse nd singolo trattato e all'ambito di realtà cui esso si riferisce), è ribadito con una certa sbrigati­ va impazienza anche nel capitolo 6 del libro II della Politica. Dopo aver riassunto le tesi ritenute pertinenti alla questione della politeia reperibili nella Repubblica, Aristotele aggiunge che «per il resto Socrate ha riempito il suo logos di argomenti non pertinenti u:;weev A.Oyot), e di discorsi sulla educazione deiphyillkes» (1264b39 sgg.). Ora, questo criterio di pertinenza disciplinare può certa­ mente venire invocato per spiegare alcune delle lamentate omissioni aristoteliche: per esempio, quella rdativa alla tripar­ tizione dell'anima (tema considerato di afferenza psicologica e non politica), o quella relativa all'idea del bene (che viene in effetti discussa nei trattati di etica, dove Aristotele mostra di conoscere molto bene il testo di Repubblica VI). Ma non si vede come esso possa giustificare un'altra e an­ cor più clamorosa omissione, quella che fa cadere il silenzio sul governo dei filosofi evocato alla fine del libro V come condi­ zione di possibilità e di senso dell'intera politeia platonica. Oc­ corre prospettare allora un'altra soluzione, per la quale sarà utile prendere le mosse dal riassunto conclusivo della Repub­ blica ddineato da Aristotele all'inizio del capitolo 6 (1264b29 sgg.). I contenuti propriamente politici della Repubblica ne ri­ sultano individuati in questo modo:

l) koinonia di donne e figli; 2) koinonia delle proprietà (kteseis); 3) taxis della cittadinanza (politeia) divisa inizialmente in due parti, georgoi e propolemoun meros, all'interno del quale è ulte­ riormente selezionato un meros preposto alle deliberazioni e quindi 4Eo9atKaÌ cptÀ.Eiv) sono infatti «il proprio e l'amato» (cap. 4 1262b23 sgg.: tÒ tlitov KaÌ tò

àymtlltov). Questo legame inscindibile fra privatezza e affezione ren­ derebbe impossibile la philia nella città platonica, perché non vi può essere legame affettivo e di amicizia senza riconosci­ mento parentale e vincoli familiari (cap. 4 1262bl sgg.). Non vi potrebbe essere phi/ia e neppure piacere, perché fonte di «piacere inenarrabile» (it&vi't lÌJ.n'>Eh]toc;) è appunto il ritenere qualcosa come proprio, idion, tanto nella sfera degli affetti quanto in quella dei patrimoni (cap. 5 1263a40). Nessuno sarebbe dunque felice nella città platonica, nep­ pure i phylakes (cap. 5 1264b15 sgg.). E nessuno potrebbe esservi virtuoso: la mancanza di beni privati rende impossibile praticare la generosa liberalità; quella di vincoli matrimoniali impedisce la temperanza sessuale (cap. 5 1263b5 sgg.). Anzi, la città platonica diventerebbe inevitabilmente, come ha scritto la Canto, la scena di una sorta di tragedia edipica generalizzata. di Aristotele a Platone e il suo contesto L'io, l'anima e il soggetto, in S. Srms (a cura di). Noi e i Greci, Torino 1996, pp. 431-67 (specialmente pp. 452 sgg.). 4

Sull'opposizione antropologica

teorico dr. M. VEGETI!,

COMMENTO AL UBRO V,

[Mb]

449

per il diffondersi di parricidi e di incesti dovuti all'assenza del riconoscimento di consanguineità (cap. 4). Aristotele può dunque concludere -con una affermazione che nella tradizione avrebbe trovato innumerevoli consensi che nella città platonica «la vita sembra essere del tutto impos­ sibile» (cap. 5 126Jb9: cpatVEta\ a'dva\ 1tQJ.l1taV àauvatoç O

�ioç).

Ma persino questa aggressione alla Repubblica su base an­ tropologica (quel progetto è impossibile e perciò anche impro­ ponibile, perché confligge con la natura umana, fondata su di un moderato e ragionevole egoismo proprietario), era stata an­ ticipata, nelle sue linee essenziali, dall'analisi platonica delle Leggi. Qui si riconosceva che negli intenti della Repubblica c'era il proposito di «sradicare ovunque dalla vita tutto ciò che si definisce idion», collettivizzando persino ciò che è «privato per natura» (tà cpUOE\ iala), come gli occhi, le orecchie, le mani, al fine di ottenere che si veda, si oda, si faccia insieme e in comu­ ne (739c). Ma Platone ammetteva che tutto questo «eccede l'attuale (nun) nascita, allevamento ed educazione» (740a: yivEo\v KaÌ tf>OCPllv KaÌ Jtaiarumv), prescrivendo perciò che si tornasse a un modello di po/is in cui fosse riconosciuta la pri­ vatezza di terre, case e famiglie (739e). In effetti, rilevava Pla­ tone, se c'è qualcosa che possiede il più elevato livello di bel­ lezza e verità (KaÀÀ\Otov, cV.:ri9Éotatov), e tuttavia risulta im­ possibile (adynaton), il legislatore dovrà ricusarlo e non attuar­ lo (746c: J.llt 1tpattE\V, con cui si confronti il secco où JtO\TitÉov di Poi. 126lal8). Come si vede, è già qui in buona parte presente -seppure in modo assai sintetico -l'ossatura concettuale della critica ari­ stotelica: il conflitto del paradigma collettivistico con la reale natura umana, il suo essere «bello ma impossibile», la necessità conseguente di non tentame l'esecuzione, l'inevitabile ritorno alla privatezza di famiglie e patrimoni. Poiché si parla di uomi­ ni e non di dèi o figli di dèi, Platone riconosceva la necessità di

450

PLATONE, LA REPUBBLICA

tener conto del desiderio del piacere come fonte di motivazio­ ne (733a): quel piacere che appunto Aristotele individuava pri­ mariamente nella sfera dello idion. 3. La discussione accademica

È forse lecito a questo punto trarre qualche prima conclu­ È ben nota la profonda influenza che le Leggi esercitaro­

sione.

no sulla definizione del pensiero politico ed etico di Aristotele. Alla luce di questa evidenza, risulta mal posto il problema del grado di fedeltà mostrato da Aristotele verso Platone nella sua esposizione, interpretazione e critica della Repubblica. In real­ tà, il libro II della Politzca con ogni probabilità si inserisce nel contesto di una discussione accademica sul valore e il senso del retaggio della Repubblica, che ha lasciato, come si è visto, trac­ ce profonde nei dialoghi tardi di Platone, come il Timeo e le Leggi

(il Politico richiederebbe un'analisi a parte che è qui im­

possibile affrontare).' I capitoli della Politica vanno dunque interpretati come

un

intervento e un contributo critico di Aristotele in questa di­ scussione, ed è possibile che Platone fosse già a conoscenza di alcuni degli argomenti aristotelici quando scriveva le Leggi: il rapporto di influenza fra Leggi e Politica potrebbe dunque es­ sere almeno in parte reciproco. Aristotele non era certo il solo accademico impegnato in questa discussione: un altro suo protagonista dovette certa­ mente essere Filippo di Opunte (o meglio di Medma nella Lo­ cride occidentale), che

fu l'anagrapheus delle Leggi e l'autore

dell'Epinomide (e che, come ho suggerito in altra sede, è forse riconoscibile dietro il personaggio di Timeo di Locri). Dai tardi dialoghi platonici risulta che la strategia preva­ lente negli orientamenti accademici era quella di prendere pro'Cfr. però M. SCHOFIELD, Saving

the City, London-New York.

1999, p.

42, circa una possibile influenza di Aristotde sull'daborazione platonica dd Politico.

COMMENTO AL LIBRO V,

[Mb]

451

gressivamente le distanze dalla Repubblica, e dal suo lascito che poteva ora risultare teoricamente e politicamente imbaraz­ zante, dal collettivismo fino al governo dei fùosofi, pur conti­ nuando a riconosceme un prestigio e una perfezione che ormai tuttavia sembravano appartenere irrevocabilmente al passato.

È noto, del resto, lo scarso peso che la Repubblica esercitò nel­ la Accademia post-platonica, soprattutto in rapporto all'in­ fluenza di dialoghi più tardi come appunto il Timeo e le Leggi (cui vanno aggiunti, naturalmente, i dialoghi "dialettici"). In questo senso, la Politica aristotelica rappresenterebbe l'episodio conclusivo di questa strategia già impostata in seno all'Accademia e condivisa almeno in parte dallo stesso vecchio Platone. Questo non comporta però- almeno per un dettaglio che tuttavia può apparire di decisiva importanza - una perfetta concordanza fra Aristotele e il Platone delle Leggi nell'atteg­ giamento verso il paradigma proposto dalla Repubblica. 4. Per ora o per sempre? Per Platone, l'abbandono del paradigma collettivista in quanto adynaton è motivato, come si è visto, dal fatto che esso confligge con l'attuale (nun) forma di allevamento ed educa­ zione degli uomini. Tale forma potrebbe essere già ora diversa in qualche luogo remoto e sconosciuto (come già diceva la Repubblica, VI 499c-d), o soprattutto venir modificata in futu­ ro. Questo lascia aperta - sia pure soltanto in linea di principio - la possibilità di una integrale attuazione del modello perfetto della ka//ipolis (739c: dtE 1tou vuv E>, acquistando la sua vera libertà.J In passi come questi dell'Ideologia tedesca, che risentono certamente dell'idealizzazione giovanile dell'associazionismo operaio come potenziale modello di società nuova e della ri­ vendicazione della parola comunismo come strumento di pole­ mica politica, emergono tuttavia due tesi profondamente e definitivamente marxiane: da una parte il comunismo è pieno dispiegamento delle facoltà e potenzialità dell'uomo e della sua volontà,4 dall'altra esso non può corrispondere a nessun mo­ dello filosofico-ideale; in questo senso, ogni riferimento a for­ me di comunismo teorico appare a Marx anti-storico, ora co­ me quando, non ancora comunista, egli aveva parlato delle teo­ rie di Cabet, Dézamy, Weitling come di forme di «astrazione dogmatica»,' simili a quelle che nei Manoscritti de/1844 defini­ sce espressioni di comunismo rozzo. È solo il comunismo «an­ cora incompiuto», astratto, dei visionari à la Cabet,6 che «cer1

Cfr. ivi, p. 55.

� Nella nuova comunità, i proletari «prendono sotto

il loro controllo le

condizioni di esistenza proprie e di tutti i membri della società» (ivi, p. 57); queste formulazioni sulla società comunista sono da confrontare con quelle del libro III del Capitale sul «regno della necessità» e

il «regno della libertà»,

che ne rappresentano la versione più matura: dr. Il capitale, libro m (1894), trad. it. Roma 1965�. p. 933. 'Lettera a Ruge del settembre del 1843, in K. MARx-F. ENGELS, Opn-e, vol. III, Roma 1976, pp. 154-55. 6

Su Étienne Cabet, autore del Vzaggio in Icana (1840), dr. l'ironia (bene·

vola) di Marx e Engds ne L'ideologia tedesca, pp. 518-19: «Nei capitoli dodi­ cesimo e tredicesimo del suo Voyage en Ican·e Cabet accwnula le opinioni di autori antichi e moderni a favore dd comunismo. Non ha affatto la pretesa di esporre un movimento storico. Agli occhi del borghese francese il comunismo passa per

un

pregiudicato. Bene, dice Cabet, io vi produrrò le testimonianze

delle persone più rispettabili di tutti i tempi che garantiscono

il carattere del

mio cliente; e Cabet procede alla maniera degli avvocati. Trasforma in testi­ monianze favorevoli

al suo cliente anche quelle sfavorevoli». Marx ed Engels

sono qui vicini alle critiche del tutto simili rivolte in quegli anni a Cabet da Proudhon (ma nel 1865 Marx ritornerà su questa faccenda, riabilitando

COMMENTO AL UBRO V,

499

[O)

ca, in separate figure storiche contrapposte alla proprietà pri­ vata, una prova storica per sé, una prova nell'esistente staccan­ do singoli momenti dal movimento [ . ] e fissandoli quali prove ..

della propria pienezza storica»; un comunismo senza senso storico, che si contraddice quando cerca «la sua pretensione all'essenza»7 in qualcosa che, se anche fosse esistito, apparter­ rebbe irrimediabilmente al passato.

·

Sono sufficienti passi come questi per comprendere quan­ to poco a Marx potesse interessare un'eventuale genealogia regressiva del comunismo teorico8 e, all'interno di questa, l'a­ nalisi di un progetto politico come quello platonico; e lo scarso interesse è effettivamente attestato dalla mancanza di significa­ tive testimonianze in tutta la produzione teorica tra il 1844 e il 1850. Per trovare un segno dell'attenzione di Marx per Plato­

ne, bisogna allora cambiare scenario e spostarsi nell'opera ma­ tura, all'interno della critica dell'economia politica; e l'analisi non può che ruotare intorno all'unica citazione significativa, Cabet per la sua degna azione politica nd proletariato di fronte alle critiche sconvenienti e superficiali, frutto di «sentimenti da piccolo bottegaio», di Proudhon: cfr. la lettera a Schweitzer dd 24 gennaio 1865, trad. it. in appen­ dice a K. MARX, Miseria della filoso/io (1847), Roma 1976'. pp. 187-88). Ne La sacra famiglia(1845) (trad. it. Roma 1976 è ri­ volta, direttamente, alla linea Rousseau-Robespierre, ma, in un senso più generale, ad ogni mitologizzazione dell'antica Grecia M

lvi, p.160.

M

Su questo punto cfr. S. AVINERI, Il pensiero politico e soàale di Marx

1 ( 968), trad. it. Bologna19842, pp. 237-39; cfr. anche l'analisi contenuta in un passo delle Glosse critiche pubblicate sull'•Avanti» del 7 agosto del1844 (in K. MARX, Scritti politià giovanili, a cura di L. Firpo, Torino197S2, pp. 437-

38). Marx sottolinea qui la cecità storica di Robespierre e dei giacobini (dietro cui si scorge Rousseau con il suo primato della volontà), e la loro impotenza di fronte alla palese diseguaglianza regnante nella società civile: ..Quanto più lo Stato è potente, quanto più

un

paese è politico, tanto meno è incline a cer­

care nel principio dello Stato, cioè nell'ordinamento attuale della società, di cui lo Stato è l'espressione più attiva, cosciente e ufficiale, la base dei mali sociali e ad afferrarne il principio generale. L'intelligenza politica è appunto intelligenza politica perché ragiona entro i limiti della politica. Quanto più acuta, quanto più viva, tanto più è incapace di intendere i mali sociali.

n pe­

riodo classico dell'intelligenza politica è la rivoluzione francese. Lontanissimi dallo scorgere nel principio dello Stato la sorgente dei mali sociali, gli eroi della rivoluzione francese scorgono

al contrario in essi la fonte degli incon­

venienti politici. Così Robespierre vede nella grande povenà e nella grande ricchezza solo un impedimento alla pura democrazia. Egli desidera perciò sta­ bilire una generale frugalità spartana. Principio della politica è la volontà; quanto più l'intelligenza politica è unilaterale, quanto più è perfetta, tanto più crede nell'onnipotenza della volontà, tanto più è cieca di fronte ai limiti natu­ rali e intellettuali del volere, tanto più inabile è quindi a scoprire la fonte dei mali sociali». 66

La critica hegeliana

al terrore giacobino è già contenuta nelle lezioni

sulla Filosofia dello Spirito del1805-06 ed è ribadita negli stessi termini nelle opere successive.

COMMENTO AL LIBRO V,

[O]

517

e delle sue repubbliche come ideali politici e all'idea che si possa ripristinare la antica integrazione tra pubblico e privato; Robespierre e Saint-Just «hanno scambiato la comunità antica, realisticamente democratica, che poggiava sul fondamento della schiavitù reale, con lo Stato moderno rappresentativo, spirituali­ sticamente democratico, che poggia sulla schiavitù emancipata, sulla società civile».67 A questi miti Marx ormai contrappone la rivoluzione sociale, con la quale il socialismo si può liberare definitivamente «del suo involucro politico»,68 riscattando l'u­ manità, la vera comunità umana.69 I giacobini con i loro miti repubblicani mancano di senso

storico e ripropongono il primitivismo degli antichi, le cui con­ cezioni politiche risentono del mancato sviluppo della società civile, cioè della libera individualità che organizza la propria esistenza in funzione dei propri interessi senza la mediazione della "volontà" dello Stato. L'accusa è, sostanzialmente, di in­ fantilismo politico.70 Gli stati antichi, dice Hegel, non conosce­ vano la società civile che è scoperta del mondo moderno;71 e Marx lo segue su questa linea.72

67 LA sacra/amiglia, p. 160; cfr. anche pp. 147-48. M

Glosse critiche, in

K. MARX, Scritti politici giovanili, p. 446, su cui cfr.

D. Zow, op.cit. (n . 43), pp.124-25. Non è naturalmente possibile qui analiz­

zare l'evoluzione dell'atteggiamento di Marx dopo il1845 nei confronti del mito politico dei rivoluzionari francesi; su questo argomento, cfr. B.

BoNGIO­

VANNI, Le repliche della storia, Torino 1989, pp. 81-89. 69

Cfr. Glosre critiche, p. 444.

70

La centralità della critica ai giacobini è esplicita nello schema generale

elaborato da Marx, tra la fine del1844 e l'inizio del 1845, per la Critica della politica e dell'economia politica. Al primo punto compare: «La storia della nascita delio Stato moderno ovvero la Rivoluzione francese. L'autoinnalzamen­ to dell'entità politica- confusione con lo Stato antico»

(K. MARX-F. ENGELS,

Opere, vol. IV, Roma 1972, p. 658).

al 5182.

71

Cfr. Lineamenti di filosofia del diritto, aggiunta

72

«Il termine società civile sorse nel secolo diciottesimo, quando i rap­

porti

di proprietà si erano già fatti strada fuori dd tipo di comunità antico e

medievale. La società civile come tale comincia a svilupparsi con la borghe­ sia» (L'ideologia tedesca, p. 66); cfr. anche La sacra famiglia, p.148.

518

PLATONE, LA REPUBBLICA

Marx quindi condivide le critiche dei due principali teorici del suo tempo della libertà dei moderni, HegeF' e Constant.74 Naturalmente la sua prospettiva è opposta a quella di Con­ stant; egli si colloca, con Hegd, contro i teorici liberali che leg­ gono la modernità come esaltazione dell'individualismo pro­ prietario, rimuovendo la questione sociale e il problema della miseria e delle diseguaglianze; poi sviluppa l'idea che la vera libertà dei moderni possa esistere solo come dominio attivo n

Una critica definitiva alla illusione di poter ripristinare la «bella e felice

libenà dei Greci� si può leggere, tra le righe, già nelle lezioni jenesi dd 1805· 06 (dr. Filosofia dello spirito jenese, p. 189); su Hegel lettore di Constant e

teorico della libenà dei moderni cfr. K. ROSENKRANZ, Vita di Hege/ (18441, trad. it. Milano 19741, p. 81; R BoDEl, Filosofia e politica nello Hege/ berline­ se, in F. TESSITORE (a cura di), lncidenu di Hege/, Napoli, 1970, p. 322-23; D. LosuRDO, op. cit. (n. 47), p. 236 e pp. 322-23; M. ISNARD! PARENTE, La

«libertà dei moderni» e fil 'Repubblica' di Pfiltone, «La Cultura», 14 (1976) pp. 102-12 (in panicolare pp. 111-12). 7•

Secondo P. Vidal Naquet, Constant prefìgura quello che Marx scrive

ne La sacra famiglia: cfr. La democrazia greca nell'immaginario dei moderni (1990), trad. it. Milano 1996, p. 220 e, soprattutto, p. 237; secondo Furet,la critica a Robespierre «a trouvé probablement le germe dans Benjamin Con­ stant» (F. FURET,Marx et fil révolution /rançaise, Paris 1986, p. 33); cfr. anche B. BoNG!OVANNl, op. cit. (n. 68), p. 67. Anche se è difficile parlare di un'in­ fluenza diretta, Marx aveva sicuramente letto attentamente Constant nd pe­ riodo 1842-46: cfr., per esempio, la citazione ne L'ideologia tedesca, p. 332. con il riferimento diretto alle due opposte anime della borghesia, quella libe­ rale (Constant) e quella repubblicana. Su Constant vero interprete della reali­ stica società borghese, nata dopo le illusioni giacobine, cfr. Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte (1852), vol. Xl, p. 108. Su Marx lettore di Constant, cfr. P. H!GONNET, Marx, discip/e de Constant?, «Annales Benjamin Constant», VI

( 1986) pp. 11-16. Del resto, la distinzione tra la libertà degli antichi e dei moderni, al di là della fonunata sintesi letteraria realizzata da Constant, circo­ lava ampiamente al tempo di Marx, anche tra autori che egli conosceva bene (cfr. H. P. ]AECK, Die franzosische burger/iche Revolution von 1789 im Fruhwerk von Karl Marx (1842-46), Berlin-Est 1979, p. 115); su questo tema, cfr. anche M. ISNARD! PARENTE, art. cit. (n. 73). Già Ferguson, nel suo influen­ tissimo libro del 1767 sulla società civile, aveva affermato che «per gli antichi Greci o per i Romani l'individuo era niente e la comunità tutto. P resso i mo­ derni, in troppe nazioni d'Europa, l'individuo è tutto, la comunità niento (Saggio sulla storia de/fil soctetà civile (1767), trad. it. Firenze 1973, p. 671.

COMMENTO AL LIBRO V,

[O]

519

sulle circostanze in cui l'individuo viveY La prospettiva rous­ seauiana della volontà generale (e quella hegeliana dello Stato etico) è infine superata dall'idea che solo la rivoluzione sociale possa produrre le condizioni della libertà individuale: anche nell'opera matura il comunismo è definito come «libero svilup­ po dell'individualità»/6 piena realizzazione del «libero indivi­ duo sociale>>.77 4. L'influenza dell'interpretazione hegeliana di Platone su Marx

Il modo marxiano di concepire l'orizzonte della moder­ nità, contro il mito della supremazia degli antichi, ha indubbia­ mente le radici in Hegel e nel suo modo di concepire la società civile. La distinzione hegeliana tra antichità e modernità è chia­ ramente sintetizzata in un passo delle Lezioni sulla storia della filosofia, in cui Hegel si riferisce ad Aristotele come allievo di Platone nel sostenere la priorità dello Stato sull'individuo: «So­ lo i popoli liberi hanno coscienza e attività a favore del tutto; laddove nei popoli moderni l'individuo è libero solo per sé, co­ me individuo, e gode soltanto la libertà del bourgeois, non quella del citoyen: anzi non abbiamo neppure due parole per le due cose. La libertà del bourgeois in questo significato, è ap­ punto il fare a meno dell'universale, è il principio dell'isola­ mento. Essa è però un momento necessario, che gli Stati anti­ chi non conobbero: la completa indipendenza dei punti, e ap­ punto perciò la maggiore indipendenza della totalità, che costi­ tuisce la superiore vita organica. Dacché lo Stato ha accolto in sé tale principio, ha potuto sorgere una più elevata libertà; gli Stati antichi invece erano giuochi e prodotti di natura, che dipendevano dal caso e dal capriccio del singolo; soltanto oggi sono possibili la consistenza dello Stato e quella della sua indi­ struttibile universalità, che è reale e consolidata nelle sue parCfr. S. PETRUCCIANI, op. cit. (n. 62), pp. 35-66. Lineamentifondamentali, vol. Il, p. 402; dr. anche ivi, vol. l, p. 99. 77 lvi, vol. l, p. 151; dr. anche ivi, vol. Il, p. 401. n

76

520

PLATONE, LA REPUBBUCA

ti».78 Solo dalla libera volontà degli individui può nascere una nuova universalità, che, per Hegel, non può comunque avere la natura del contratto tra "atomi" borghesi; per Marx è il co­ munismo a poter fondare le condizioni per la libertà di ciascu­ no, fuori dall'orizzonte dell'individualità borghese, la cui iden­ tità è costruita intorno alla proprietà privata. Se nel 1843, dunque, Marx critica definitivamente Hegel (ancora prigioniero della idealizzazione della politica e, quindi, in questo senso, figlio della rivoluzione francese), da lui dipen­ de però nell'analisi storica dell'evoluzion� della società civile e della forma-Stato, in particolar modo proprio per quanto ri­ guarda l'antichità e il mondo asiatico; e questa influenza non smette di agire nelle opere successive. Scrive Marx: «L'astrazione dello Stato come tale appartiene solamente al tempo moderno, perché l'astrazione della vita pri­ vata appartiene soltanto al tempo moderno. L'astrazione dello

Stato politico è un prodotto moderno»; invece, «negli Stati anti­ chi lo Stato Politico costituisce il contenuto dello Stato con l'e­ sclusione delle altre sfere»/9 cioè non esiste l'autonomia dello «Stato materiale»; e ancora: «Nella immediata monarchia, de­ mocrazia, aristocrazia [le /orme antiche di governo] non si dà ancora costituzione politica distinta dallo Stato reale, materiale, o dal rimanente contenuto della vita del popolo. Lo Stato poli­ tico non appare ancora come la /orma dello Stato materiale. O, come in Grecia, la cosa pubblica è l'affare privato reale, il reale contenuto dei cittadini, e l'uomo privato è schiavo, lo Stato politico come tale essendo il vero, unico contenuto della loro vita e della loro volontà; o, come nella despotia asiatica, lo Stato politico non è che l'arbitrio privato di un singolo individuo, ossia lo Stato politico, come lo Stato materiale, è schiavo».80 ;•

Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. Firenze 19852, vol. Il, p.

43. accettando il

372.

;• Cn trea alla /t!o.w/ta hegelùma del Jintto pubblico, p.

44; Marx si riferisce in particolare, punto di vista §§ 273 c 279 dei Lineamenti di fllow/ia del diritto; sul lessico usato da Marx in questo contesto (in particolar modo sui concetti di Stato po­ litico, Stato reale, Stato matcrialcl, cfr. D. ZoLO, op.cit. (n. 43), pp. 81-87. "'' lvi, p.

di H egei, ai

COMMENTO AL LIBRO V,

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521

Marx assume in pieno l'analisi hegeliana dd mondo antico, caratterizzato dalla subordinazione degli interessi individuali («l'uomo privato è schiavo») alla totalità rappresentata dallo Stato, cioè dalla subordinazione del privato rispetto al pubbli­ co. Qui non esiste l'idea moderna di libertà individuale; gli antichi, dice Marx nell Ideologia tedesca, come modello di li­ bertà «presentano il citoyen», che è un prodotto della comu­ nità, fondata sul lavoro coercitivo di tipo schiavile; a -questo modello «i moderni» contrappongono il «bourgeois, realistico ami du commerce».81 '

Marx si riferisce inoltre al dispotismo orientale; questo siste­ ma di potere si fonda sull'arbitrio, mentre il mondo antico orga­ nizza giuridicamente, culturalmente e con lo strumento della religione la relazione tra Stato, proprietà e possesso; ma quello che manca sia al mondo antico che al mondo asiatico è il mo­ mento della libertà, possibile solo attraverso il riconoscimento della piena autonomia dell'individualità. L'intero dispositivo interpretativo appare di marca hegelia­ na. Marx nella sua Critica del1843 riporta, senza commento specifico, il § 299 dei Lineamenti di filosofia del diritto in cui H egei propone esplicitamente un accostamento tra l'organiz­ zazione del lavoro pensata da Platone nella Repubblica e il si­ stema castale egiziano,82 ed è evidente che è proprio da passi di questo tipo che egli trae ispirazione. Secondo Hegel, il massimo livello di coscienza teorica del­ lo sviluppo raggiunto dal mondo greco è rappresentato dal pensiero politico di Platone:83 «Platone mostra, nel suo Stato, l'eticità sostanziale nella sua bellezza ideale e nella sua verità; 81

Da questo punto

di vista, dice Marx nell'Ideologia tedesca, «si può con­

siderare l'antichità come il periodo idealistico in quanto nella storia gli antichi presentano il "citoyen", il politico idealistico, mentre i moderni mettono capo in ultima istanza al "bourgeois", realistico ami du commerce; ovvero si può dire che è realistico perché per gli antichi la comunità era una "verità", men­ tre per i moderni è una "menzogna" idealistica» (I.:zdeologia tedesca, p. 124). 82 8'

Cfr. Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico, p. 72. Cfr. anche Lezioni sulla storia della filosofia, vol. Il, p. 256.

PLATONE, LA REPUBBUCA

522

ma egli non poté sbrigarsela con il principio della panicolarità autonoma, che al suo tempo aveva fatto irruzione nell'eticità greca, se non con il contrapporgli il suo Stato soltanto sostan­ ziale, e con l'escludere del tutto il medesimo principio, sin dentro ai suoi inizi, che esso ha nella proprietà privata e nella

famiglia e, poi, nel suo ulteriore sviluppo, in quanto arbitrio particolare e scelta del ceto».84 Passi come questi si trovano ri­ petuti in luoghi cruciali dell'elaborazione politico-giuridica hegeliana, oltreché nella parte dedicata a Platone nelle Lezioni sulla storia della filosofia; nei Lineamenti di filosofia del diritto il confronto con Platone è fondamentale nella sezione sulla proprietà all'interno dell'analisi del diritto astratto, nel passag­ gio alla società civile, nell'analisi del potere legislativo dello Stato;85 e l'intera costruzione del sistema dell'eticità è ispirata da un confronto con Platone, che, dice Hegel, nella RepubbliaJ non ha affatto presentato «la favola di un vuoto ideale», bensì «ha interpretato essenzialmente la natura dell'eticità greca»,86 «ha conosciuto ed esposto il vero»,87 rappresentando quello che Hegel vuole essere per il suo tempo storico. Platone, dice Hegel, ha negato l'esistenza reale della libera individualità, possibile solo attraverso la proprietà privata,88la 54

Lineamenti di filosofia del diritto, S 185 (traduzione modificata); cfr.

anche Lezioni suiLz storia della filosofitJ, II, pp. 268-69. 81

Naruralmente non è qui possibile ricostruire l'evoluzione della posizio­

ne hegeliana nei confronti dd pensiero politico platonico, che è comunque interna alle prese di posizione nei confronti della "democrazia degli antichi• (su cui cfr. supra la n. 48); il momento decisivo è rappresentato dalle lezioni

jenesi dd 1805-06: cfr. Filosofia dello spin.tojenese, p. 191. 86

Prefazione, p. 16; cfr. ugualmente Lezioni sul/4 storia deiLz filosofia, II,

p. 254; ma già nella Filosofia dello spirito jenese dd 1805-06 aveva chiarito a se stesso il valore della concezione platonica dello Stato: dr. p. 191; cfr. anche le Lezioni su Platone, 1825-26, trad. it. Milano 1995, p. 152; per la difesa di Platone dalle accuse di chimericità della sua R�ubblial, cfr. Lezioni sulla sto­ na dellizfilosofia, Il, pp. 251-54. 87

Lezioni sul/4 stona del/4 filosofia, II, p. 254.

88

«La libertà esiste solo in quanto la persona è fornita di proprietà» (Le­

zioni sul/4 storia del/4 filosofia, II, p. 269); sulla funzione della proprietà come costitutiva dell'individualità, cfr. SS 40-46 dei Lineamenti di filoso/i4 del diritto.

COMMENTO AL LIBRO V,

[O]

523

famiglia, la libertà di scelta nella vita e nella professione.89 Nel­ la negazione del principio della libertà soggettiva, lo Stato pla­ tonico è assimilabile agli stati orientali;90 la differenza consiste nel fatto che in India e in Egitto la collocazione nelle caste «av­ viene mediante la nascita»,91 mentre nella Repubblica «ciascu­ no è esaminato dai reggitori dello Stato, dagli anziani della pri­ ma classe, cui spetta di far educare gl'individui, e che, secondo le capacità e le attitudini di ciascuno, fanno la scelta e la di­ stribuzione, assegnando ognuno a una determinata attività>>.92 Nel mondo moderno, invece, l'appartenenza a una classe dipende dal temperamento, dalla nascita, dalle circostanze, ma, in ultima istanza, dall'arbitrio particolare.93 n sistema delle caste spiega, secondo Hegel (le cui fonti antiche principali, in particolare Erodoto e Diodoro Siculo, sono le stesse, come si vedrà, cui attinge Marx), perché in Egitto si sia tanto sviluppa­ to l'elemento manuale e tecnico nelle arti e come sia stata pos­ sibile la realizzazione di gigantesche opere, non «come produ­ zioni libere, bensì come opere del dispotismo».94 L'Egitto rappresenta, dunque, «uno stato di cose tutto pre­ ordinato, regolato poliziescamente», da cui è escluso l'arbitrio individuale, e per questo viene considerato dagli antichi Greci «un modello di Stato moralmente regolato, secondo quel tipo di ideale che Pitagora volle realizzare in una limitata e scelta comunità e che Platone delineò in un più vasto quadro».9' stona della filosofia, II, pp. 267-72. Lineamenti di filosofia del diritto, SS 299 e 206. 91 Cfr. aggiunta al S 262; sull'India, cfr. Lezioni sulla fi"loso/ia della storia, trad. it. Firenze 19472, vol. Il, pp. 121 sgg.; sulle caste in Egitto, cfr. ivi p. 239. 92 Lezioni sulla storia della fi"losofia, II, pp. 267 -68; cfr. anche Lineamenti di ft"loso/ia del dinlto, S 299. 89

Cfr. Lezioni sulla

90

Cfr.

9J

«Negli stati moderni vige la libenà di coscienza, in vinù della quale

ciascun individuo può esigere di poter attendere ai propri interessi; orbene, questo è escluso dall'idea platonica» (Lezioni sulla storia della filosofia, Il, p. 257); cfr. anche Lineamenti di fi"losofia del din"tto, S 206. 94 G.W.F. HEGEL, Le filosofi·e del diritto, a cura di D. Losurdo, Milano 1989, p. 399; cfr. anche Lineamenti di filosofia del diritto, SS 236,247, 299. "'Lezioni sulla ft"/osofia della storia, vol. II, pp. 243-44.

PLATONE, LA REPUBBLICA

524

«Platone mette a fondamento il sostanziale, l'universale, in modo che l'individuo come tale abbia per suo fine appW)to l'u­ niversale, e il soggetto voglia, operi, viva e goda per lo Stato, che deve diventare la sua seconda natura, consuetudine e co­ stume»;96l'organizzazione economico-sociale non è pensata in funzione dell'incremento e miglioramento della produzione, ma come strumento per impedire lo sviluppo delle rivalità, del­ l'odio, dell'avidità tra i cittadini. Secondo Hegel, Platone idealizza le caratteristiche del mondo greco (la libertà di pochi resa possibile dal lavoro schia­ vile)97 che è ormai sulla Via del tramonto; egli si oppone all'af­ fermazione della libertà soggettiva («principio dell'età moder­ na, civilizzata»),98 che appare come elemento dissolutore,99 e nel fare questo guarda con simpatia all'immobile mondo egi­ ziano, di cui ammira la staticità storica. Platone si propone, in­ fatti, di eliminare la minaccia rappresentata dallo sviluppo de­ gli interessi particolari;100 minaccia realissima, pensa Hegel: in­ fatti la «individualità particolarizzata era proprio quello che poteva nascere solo dalla Grecia, ma che il mondo greco non poteva sostenere. La profonda intelligenza di Platone compre­ se benissimo questo e volle perciò escludere dal suo Stato la libera soggettività».101 Secondo Hegel, «l

Lezùmi sulla storia della filoso/ta, vol. II, p.269.

10'

lvi, vol. Il, pp. 178.

lllb

Cfr. M. ISNARDI PARENTE, Noterei/e marginali alle hegeliane 'Lezioni

sulla storia della filosofia', «La Cultura», 12 ( 1974) pp. 414-34 (in particolare pp.431-32). 107

Hegel riconosce la fondamentale importanza della formazione dei

custodi per l'educazione all'ethos dell'intera comunità, ma la pensa risolta tra i libri II e III: cfr. Lezioni Iulla stona della filosofia, II, pp.264-65.

526

PLATONE, LA REPUBBLICA

struzione di un modello idealistico di definizione epocale, non sembra riconoscere nemmeno il contributo critico dell'analisi aristotelica.108 Egli è piuttosto interessato a collocare Platone al più alto livello della dialettica dello Spirito, come coscienza teorica del proprio tempo, rappresentante esemplare della concezione antica dello Stato, che ignora la libertà soggettiva (e quindi la proprietà privata). 109 5. Platone nei Manoscritti del 1861-63 e nel Capitale

La citazione platonica nel libro primo del Capitale si trova alla fine del capitolo sulla divisione del lavoro e la manifattura, all'interno di un confronto tra l'economa politica borghese e gli scrittori dell'antichità. Gli economisti borghesi, come Adam Smith, analizzano la produzione capitalistica in termini di valore di scambio,110 conUJB

Hegel assimila Aristotele a Platone nel non aver riconosciuto la pro­

prietà libera e privata (cfr. Le filoso/i� d�l diritto, p. 98) e nell'aver indicato la dominanza del tutto sulla parte (cfr. Filosofia d�llo spiritoj�nes�. p. 184; Lezioni sulla storia della filosofia, vol. II, p. 371). 109 Cfr. l'aggiunta di Gans al S 260 dei Lineamenti di filosofia d�/ diritto.

È interessante sottolineare come, pur criticando riperutamente la linea inter­ pretativa di Brucker (cfr. Lezioni sulla storia d�lla filosofia, trad. it. Firenze 198P, vol. I, pp.

20,54-55, 128-29), che concepisce il progetto platonico

come un'idea chimerica e cervellotica, egli assuma poi i luoghi comuni che provengono anche da questa tradizione, tra i quali, appunto, l'idea dd comu­ nismo allargato, dando di fatto inizio ad una nuova "scolastica• anti-platonica (cfr. J.L. VIEILLARD BARON, Introduzione, in G.W.F. HEGEL, L�zioni su Platone 1825-1826, p. 67). In realtà Brucker liquida con una pagina schernati­ ca il fanatico progetto politico di Platone, sottolineando come sia difficile ca­ pire per quale ragione questi possa avere avuto un'idea tanto turpe come quella della comunanza delle donne: cfr. J.J. BRUCKER, Histona cn"tiC4 philoso­

phiae, Lipsiae 1742, vol. I, p. 727. E non è da escludere che lo stesso Marx, che conosceva la edizione ridotta del 17 47 della storia della filosofia di Brucker (citato nella dissertazione di dottorato come il «Vecchio Bruckeoo: cfr. K. MARX-F. ENGELS, Opere, vol. I, p. 53), abbia attinto a questo tipo di materiali filtrati dall'influenza di Hegel. 110

Il capitale, libro l, p. 408.

COMMENTO AL LIBRO V,

[O]

527

siderando però la merce la forma specifica di ogni società; in questo modo tendono a naturalizzare la formazione sociale capitalistica e a sussumere il valore d'uso nel valore di scambio. Se la «cooperazione fondata sulla divisione del lavoro, os­ sia la manifattura è alle sue origini una formula spontanea e na­ turale», la manifattura moderna organizza il lavoro sociale in modo da dare vita alla forma capitalistica della produzione, funzione del plusvalore relativo. Gli economisti come Smith concepiscono la divisione del lavoro come «forza produttiva del capitale», ma non si accorgono che essa è prodotta dal ca­ pitale.111 Al contrario si comportano gli scrittori antichi, che esclu­ dono dalla loro analisi ogni riferimento al valore di scambio. Tratto comune della riflessione antica sulla divisione del lavoro è infatti l'attenzione "esclusiva" al valore d'uso: «Gli scrittori dell'antichità classica si tengono esclusivamente alla qualità e al valore d'uso, in rigorosissimo contrasto con questa accentua­ zione della quantità e del valore di scambio. In seguito alla se­ parazione delle branche della produzione sociale, le merci sono fatte meglio, i differenti impulsi e talenti degli uomini si scelgono sfere d'attività loro confacenti, e senza limitazione non si può compier nulla di notevole in nessun campo. Dun­ que prodotto e produttore vengono migliorati dalla divisione del lavoro. Se occasionalmente si ricorda anche l'aumento del­ la massa dei prodotti, è solo in riferimento alla maggiore ab­ bondanza di valori d'uso. Non c'è sillaba che accenni al valore di scambio».112 Qui Marx ricorda come questo punto di vista sia presente, oltreché in Senofonte, anche in Platone, il quale «tratta la divisione del lavoro come fondamento della separa­ zione sociale fra i ceti» e, sottolinea Marx facendo riferimento al libro II della Repubblica, «deduce la divisione del lavoro al­ l'interno della comunità dalla molteplicità dei bisogni e dalla unilateralità delle disposizioni naturali degli individui. Per lui Cfr. Manoscrilli de/1861-63, trad. it. Roma 197F, p. 283. Il capitale, libro l, pp. 408-09; cfr. anche Manoscritti del 1861-63, 284 e F. ENGELS, Antiduhnng (1878), trad. it. Roma 197F, pp. 243-44. 111

112

p.

PLATONE, LA REPUBBLICA

528

il punto di vista principale è che l'operaio si deve adattare al lavoro, non il lavoro all'operaio, il che sarebbe inevitabile se l'operaio esercitasse molte arti allo stesso tempo, e quindi l'uno o l'altro fosse per lui lavoro secondario [Nebenwerk]»;113 in questo senso, «la repubblica di Platone, per quanto riguarda lo svolgimento della divisione del lavoro come principio formati­ vo dello Stato, è soltanto una idealizzazione ateniese del sistema egiziano delle caste [ist nur atheniensische Idealisierung des à'gyptischen Kastenwesen]». In questo ultimo passaggio, Marx circoscrive il valore del suo giudizio. Non si esprime sull'intera proposta politica (che del resto non sembra interessarlo), ma si limita a sottolineare il ruolo di imprigionamento delle attività proposto da Platone, all'interno di una concezione della divi­ sione del lavoro strutturata esclusivamente in funzione del va­ lore d'uso, condivisa da tutto il pensiero greco,114 in un'analisi che egli stesso ritiene adeguata al mondo antico. m Ma è im­ portante sottolineare subito come Marx definisca la divisione del lavoro «principio formativo dello Stato»: il riferimento è quindi alla forma politica che la comunità immediatamente as­ sume fin dalla sua formazione come n6À.tç. Come si è visto, egli non considera applicabile al mondo antico la differenza "mo­ derna" tra società civile e Stato politico. 111

lvi, p. 409, n. 80. Ironicamente Marx rintraccia un fondo di platoni­

smo nell'idea che regge la protesta dci candcggiatori inglesi contro la clausola che introduce l'ora fissa per il pranzo per tutti gli operai: è impossibile prede· terminare l'interruzione senza tenere conto delle diversità delle mansioni e delle necessità della produzione 114

Cfr. J.P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci 096.5), trad. it. Tori­

no 19781, pp. 28.5·316. m

«Presso gli antichi- scrive Marx- non troviamo mai un'indagine su

quale forma di proprietà fondiaria, ccc., crei la ricchezza più produttiva, la massima ricchezza. La ricchezza non si presenta come scopo della produzione [ ... ] L'indagine è sempre volta a stabilire quale forma di proprietà crei i mi­ !diori cittadini. La ricchezza come fine a se stessa si ritrova solo tra i popoli commerciali[ ..

.

] che vivono nei pori del mondo antico come gli ebrei nei pori

della società medievale» (Lineamenti fondamentali, vol. II, pp. 111-12; cfr. anche Il capitale. libro I, pp. 269-70).

COMMEl\'TO AL LIBRO V,

[o]

529

Per capire come Marx sia arrivato al lapidario giudizio del Capitale bisogna guardare ai manoscritti redatti nel densissimo periodo di gestazione dell'opera maggiore. Nel1859 era ap­ parsa, dopo il lavoro di preparazione iniziato nei due anni pre­ cedenti con i Grundrisse, la prima parte della sua critica dell'e­ conomia politica. A partire dal febbraio dello stesso anno Marx ricomincia il lavoro di annotazione e schedatura del Quaderno VII lasciato interrotto con l'ultima pagina dei Grundrisse,116 e,

nonostante difficoltà di tipo familiare e politico, 117 prosegue fmo all'estate del1861, riempiendo anche

un

Quaderno di cita­

zioni, organizzato per titoli e temi.118 In questi scritti egli inseri­ sce le annotazioni relative alle letture condotte nella seconda metà degli anni '50; in particolare, nel Quaderno di citazioni egli rifonde per temi i materiali raccolti nei precedenti manoscritti. Sulla base di questi appunti, egli comincia a lavorare, nell'estate del1861, alla continuazione del suo grande progetto, di cui, come si è detto, la prima parte era già comparsa nel1859;119 il risultato sono i Manoscritti de/1861-63 e le Teorie sul plusvalore. Nei Manoscritti de/1861-63 egli utilizza gli appunti raccol­ ti nel biennio precedente. Nella sezione sulla divisione del la­ voro usa come fonte privilegiata le Lectures on politica/ eco­ nomy di Dugald Stewart, edite nel 1855, di cui aveva già in precedenza schedato le pagine fondamentali;120 secondo Marx, Stewart ha colto, meglio di Smith, gli effetti della divisione del lavoro e dell'uso delle macchine: questi traggono valore dalla loro «tendency to enable one man to perform the work of many»; 121 nel lessico di Marx questo significa la riduzione della 116

Cfr. L. CALAB, I

lntrodu1.ione a K. MARX, Manoscritti del 1861-63, p.

XXXTII. 11;

Cfr. la lettera a Engels del9 dicembre del1861, vol. XLI, pp. 229-30.

op. cit. (n. 116), p. XXXIV.

111

Cfr. l'indice in L. CALABI,

ll9

Cfr. la prefazione di Engels a Il capitale, libro II (1885), trad. it. Roma

19651, pp. 9-13 . 120

Cfr. la nota di L. CALASI,

op. cit. (n. 116), p. 426; nel Capitale il riferi·

mento a Stewart è ridotto: cfr. libro I, p. 404, n. 63. 121

Lectures on politica/ economy, Edinburgh-London 1855 (ristampa

New York 1968), p. 317, citato da Marx a p. 290.

PLATONE, LA REPUBBUCA

530

capacità di lavoro «a una pura, arida astrazione». 122 Stewart ricorda come lo sviluppo storico della società a partire dalle prime comunità abbia richiesto una divisione sempre più com­ plessa delle attività e occupazioni; da ciò deriva l'osservazione proverbiale e di buon senso comune che «a jack of ali trades is master of none», che l'editore di Stewan, Hamilton, rafforza, segnalando in nota ricorrenze antiche e moderne. m Inoltre Stewart sottolinea come altri autori prima di Smith abbiano messo in rilievo la funzione fondamentale della divisione del lavoro per lo sviluppo della ricchezza e cita in particolare J ames Harris e Adam Ferguson. Ma già Senofonte, in un passaggio del libro VIII della Ciropedia, che Stewan riporta, 12_. aveva col­ to l'importanza della divisione del lavoro. Tuttavia, sottolinea Stewart, ciò che interessa Senofonte è «the effect of this divi­ sion in improving the quality of the anicles produced», mentre «the circumstance which has chiefly attracted the attention of Mr. Smith and other modero writers, is its astonishing effect in increasing their quantity». m L'intero argomento è ripreso da Marx, inclusa la citazione da Senofonte: questi, dice Marx, da buon antico è interessato soltanto al valore d'uso, al miglioramento della qualità.126 Egli riprende anche dalla nota di Hamilton la breve collezione di espressioni proverbiali e la citazione dal Margite,127 cui aggiun­ ge i riferimenti a Tucidide che aveva già selezionato nei qua122 121

Cfr. Manoscn"tti del 1861-63, pp. 290-93. Cfr. D. STEWART, op. cit. (n. 121), p. 311. In particolare, Hamilton rin­

traccia l'origine dell'espressione proverbiale in un frammento del poema Margite (falsamente attribuito a Omero), citato nd dialogo pseudo-platonico Alcibiade minore

(noll't1�tiotato [pya, KaKiòç l)'t1�tiatato ltcXVta, «molte

cose sapeva fare, ma tutte male», 147b); frammento cui, dice Hamilton, certa­ mente.«Mr. Stewart here makes reference». 124

Cfr. X. Cyr. VIII 2.4, in D. STEWART, op.cit. (n. 121), pp. 311-12.

m

lvi, p. 312.

126

Cfr. Manoscn"tti del 1861-63, pp. 294-95; il riferimento è ripreso ne Il

capitale, libro I, p. 410, n. 81. 127

e

79.

Cfr. Manoscritti de/1861-63, p. 293 e Il capitale,libro l, p. 409, nn. 78

COMMENTO AL LIBRO V,

[O]

531

derni del1859-61Y8 Ma sembra eccepire sull'inclusione di Harris tra gli «other modem writers» che, su questo punto, avrebbero anticipato Smith; sono piuttosto gli antichi, e speci­ ficamente Platone (e quindi il punto di vista del valore d'uso),

a ispirare Harris. 129

li ritorno a Platone è necessario, quindi, per chiarire le fon­ ti di questa letteratura, che non vede la radicale novità prodot­ ta dalla sussunzione reale del lavoro sotto il capitale e pensa ancora alla divisione del lavoro come forma di cooperazione naturale;130 in particolare, è il libro II della Repubblica che deve

essere senz'altro inserito nella sezione sulla divisione del lavo­ ro;131

così Marx ne cita i lunghi passi (da 360d a 374e, poi sin­

tetizzati nel Capitale) relativi alla genesi della polis dai bisogni, mostrando l'adesione di Platone al punto di vista della qualità. Secondo Platone, 132 la divisione del lavoro nasce dalla ne­ cessità di soddisfare una molteplicità di bisogni; a questa corri­ sponde la naturale diversità dei talenti, delle attitudini che devono essere valorizzate. Tutti dovranno eseguire quindi un unico lavoro in modo da dare il meglio di sé senza disperdere 128

Quaderno VII; i riferimenti sono ripresentati in

409-10, nn . 79-80. m

Il capitale, libro

I, pp.

«L'esposizione di Platone nella Repubblica costituisce la base diretta e

il punto di panenza per una serie di autori inglesi che hanno scritto sulla divi­ sione del lavoro dopo Petty e prima di A. Smith. Vedi per esempio James Harris [ ... ]: Three Treatises ecc.

3° ed. Lon. 1772, il3° Treatise, nd quale la

Division of employments viene però rappresentata come base naturale della

148-55, di cui egli stesso in una nota dice di avere preso il whole 295-96); ilriferimento è al Dialogue concerning Happiness, Londra 1741, e viene ripreso ne Il capitale, libro I, p. 409, n. 77, dove Harris è accomunato, nel suo ingenuo "platoni­ società, p.

argument da Platone» (Manoscritti del1861-63, pp.

smo", a Cesare Beccaria. 110

Se Smith "naturalizza" la divisione dd lavoro di tipo capitalistico, au­

tori come Harris e Beccaria naturalizzano

il modello qualitativo antico, pren­

dendo come modelli Senofonte e Platone. 111

Cfr. la nota di L. CAI.ABJ a p.

434 dell'edizione italiana dei Manoscritti

de/1861-63. lll I passi cui si fa ora riferimento si trovano alle pp. scritti de/1861-63.

297-300 dei Mano­

532

PLATONE, LA REPUBBLICA

le proprie capacità in attività secondarie e dovranno svolgere questo compito per tutta la vita. In questo modo si crea un tes­ suto di capacità da sfruttare in vista del meglio, della qualità: m la qualità, la produzione di valori d'uso per la comunità, è per Platone . Ma ancora più devastante è la funzione dissolutrice svolta dal denaro da un punto di vista politico, in quanto "democratico" eversore di un ordine gerar­ chico: «Come nel denaro è cancellata ogni distinzione qualita­ tiva delle merci, il denaro cancella per parte sua, leveller radi­ cale, tutte le distinzioni. Ma anche il denaro è merce, una cosa esterna, che può diventare proprietà privata di ognuno. Così la potenza sociale diventa potenza privata della persona privata. Perciò la società antica lo denuncia come moneta dissolvitrice del suo ordinamento economico e politico)). 196 Si capisce, allora, l'idealizzazione del sistema delle caste: laddove è esistito, sottolinea Marx, esso si è opposto storicail rapporto di eguaglianza nella il limite storico della società entro la

scienziato gli aveva permesso di scoprire espressione del valore delle merci; ma

quale ha vissuto gli ha impedito di scoprire la verità di questo nesso: Ari­ stotele, «da greco antico», non ha potuto rintracciare nel lavoro umano l'equi­ valente generale che si nasconde dietro la merce e

il denaro, in quanto la so­ diseguaglianza

cietà greca era fondata sul lavoro schiavilc e aveva come base la

reale tra gli uomini (le due brevi citazioni sono tratte, rispettivamente, da Il capitale, libro l, p. 92 e da Per

la critica dell'economia politica, p. 49: il riferi­ che appare

mento è a Etica Nicomachea V 8, sulla funzione della moneta). Ciò

ad Aristotele contro natura, cioè la conservazione e l'aumento del capitale all'infmito,

è l'espressione del suo limite teorico (che è il limite storico dd suo

tempo), che, da un lato, non può concepire la filiazione dd denaro (denaro da denaro: dr. anche Il capitale, libro I. p. 197, dove Marx riporta

il passo di Poi.

l J 1257aJ9-b9 con la condanna dell'usura c dd prestito a interesse come peg­

gior forma di guadagno contro natura), dall'altro, non dispone della visibilità

La linea di di­ è la stessa linea che serve a Marx per distin­

del lavoro come equivalente delle merci e produttore di valori. visione su cui si attesta Aristotele

guere tra due mondi, tra il punto di vista antico c quello moderno. 1""

Cfr. Lineamenti fondamentali, vol. l, p. 175; sulle tre determinazioni

del denaro dr.. in generale, pp. 157-85. 1"'

lvi, vol. l, p. 183.

1"" 11 capitale, libro l, p. 164; da confrontare qui la significativa citazione

da Shakespearc,

n.

91.

COMMENTO AL UBRO V,

[O]

549

mente al dominio del commercio, impedendo che quest'ultimo si impadronisse della produzione, disgregando le comunità. 197 Forse Marx pensava che in Platone il riferimento all'Egitto si abbinasse alla mitizzazione di una condizione arcaica (la so­ cietà del yévoç), quella in cui l'organizzazione, su base «gentili­ zia», delle tribù, già offriva un esempio di sistema castale.198 In tutti i casi, il Platone che costruisce un modello perfezionato di uso dei talenti naturali per la riproduzione della comunità non è assimilabile al Platone di Popper, idealizzatore di una società arcaica rurale e pastorale. Piuttosto la Repubblica, che già era stata letta da Hegel (in una logica idealistica) come elevata espressione teorica del pro­ prio tempo, doveva apparire a Marx costruzione ideologica for­ temente connotata da una tensione conservativa e anti-storica. 7. Marx, Platone e il «comunismo rozzo»: una genealogia negata

Se si tiene conto degli schemi di ricostruzione filosofica della storia, riconvertiti poi in analisi materialistica dell'evolu­ zione dei rapporti di produzione e si considera il Platone di Marx teorico di un sistema per controllare le contraddizioni del mondo greco, attraverso una rigida gerarchia sociale e un'organizzazione castale della divisione del lavoro, si può senz'altro condividere l'osservazione secondo cui «Platone sembra importante per Marx piuttosto come sostenitore dell'i­ deale dei filosofi al governo che non come ideatore di un pro­ getto comunistico». 199 19' U commercio «ha a mala pena scosso le antiche comunità dell'India e in genere i rapporti asiatici» (Lineamenti fondamentali, vol. II, p. 614). 198 Le tribù più antiche dd mondo antico, qtJelle a base gentilizia, hanno

«la loro forma estrema più rigida» nella «organizzazione in caste, dove ciascu­ na casta è divisa dall'altra, non esiste un diritto matrimoniale reciproco, ed

il grado di dignità; ciascuna ha fun­ 104).

esse si differenziano nettamente secondo zioni esclusive, immutabili» (ivi, Il, p.

199M. ISNARDI PARENTE, lA 'Repubblica' di Platone in Germama nel Jl'co­

lo di Marx, cii. (n. 30), p. 624, n. 23.

550

PLATONE, LA REPUBBLICA

Lontano dal tentativo rousseauiano di mantenere in tensio­ ne bourgeois e citoyen istituendo una democrazia politica radi­ cale (pur essendo vicino, malgré lui, almeno nel periodo tra il 1842 e il 1844, all'istanza di identità tra il singolo e l'intero che percorre i testi politici di Rousseau), lontanissimo dal mito anti­ storico della polis ideale riproposta dai giacobini, critico del ten­ tativo hegeliano di trovare una conciliazione tra il sistema ca­ pitalistico e una nuova concezione dello Stato, e, soprattutto , critico tout court della politica, teorico della necessaria dissolu­ zione dello Stato e di una rigorosa dialettica storica tra forze produttive e rapporti di produzione, Marx non può che ritenere poco interessante per il presente il progetto politico di Platone, che egli doveva considerare piena espressione dell'«infantile mondo greco»;200 un comunismo, quello platonico, che poteva forse esser stato modello per alcuni intellettuali francesi rozzi e «caotici», le cui tracce affiorano negli scritti giovanili. Nel1842, Marx, giovane redattore liberale della «Gazzetta renana», replica alla «Gazzetta augustana>> che considera il suo giornale «una comunista prussiana; certo non una vera comu­ nista, ma pur sempre una persona che civetta fantasiosamente con il comunismo e gli fa platonicamente l'occhiolino».201 In un momento storico in cui in Germania l'accusa generica di comunismo cominciava a gravare pesantemente sulle opposi­ zioni liberali e democratiche e richiedeva cautela, la sarcastica e polemica risposta di Marx contiene, tuttavia, un interessante, per noi, elemento di serietà e di confronto intellettuale. Pren­ dendo le distanze dal comunismo teorico francese, Marx rico­ nosce in Platone l'ispiratore di esperimenti reali attuati da espo­ nenti dell'area di Fourier, ma non ne riconosce «l'attualità teo­ retica», nella loro forma attuale, né, tantomeno, nella loro pre­ sunta «pratica realizzazione». Invitando allo studio accurato di pensatori come Leroux , Considérant e Proudhon, Marx ri­ conosce piuttosto che la reale pericolosità viene dalla teoria co2'" 201

Lineamenti fondamentali, Il comunHmo

Zeitung»,

16

t'

vol.

Il, p. 113.

[ «Rheinische vol. l, p. 215.

la «All�emelne Zeltung» di Augusta

ottobre 1842]. in K.

MAR.X·F. ENGELS, Opere,

COMMENTO AL LIBRO V,

[O]

551

munista (per la quale il pensiero di Platone doveva rappresen­ tare un riferimento ideale) e dalla sua possibile rielaborazione in relazione ai mutamenti sociali in atto in Francia e Inghilter­ ra, e se ne propone uno studio approfondito (nel1859 ricor­ derà come quella fosse stata una delle occasioni che lo spinsero a ritirarsi «nella stanza da studio»).202 Nel terzo dei Manoscritti parigini del1844 Marx delinea il movimento dialettico tra le tre forme di comunismo; la prima di esse è definita rozza, volgare, bestiale ed ha la sua più piena espressione nella generalizzazione della proprietà privata, che include, come elemento fondamentale, la proprietà comunita­ ria delle donne.203 Per Marx, questa forma realizzerebbe sem­ plicemente un istinto brutale e primario dell'uomo, la proprie­ tà privata generalizzata, che «vuole astrarre con la violenza dal talento» e dalle diversità individuali e che rappresenta «l'a­ stratta negazione di tutto il mondo della cultura e della civiltà, il ritorno alla innaturale semplicità dell'uomo povero e senza bisogni, che non ha ancora sorpassato la proprietà privata, che anzi non è ancora pervenuto alla medesima». Si tratta di un comunismo che «nega la personalità dell'uomo», credendo che la sua realizzazione, la riappropriazione dell'umanità negata, si attui con la generalizzazione della proprietà privata, dando piena espressione all'invidia e alla cupidità, tratti dell'indivi­ duo proprietario. Il riferimento a uno stadio in cui realmente l'uomo non è ancora pervenuto alla proprietà privata richiama l'età arcaica in cui non si era ancora sviluppata la libera indivi­ dualità; chi disegna una condizione di questo genere prefigura una comunità che sia «soltanto comunità del lavoro ed egua­ glianza del salario che paga il capitale comunitario, la comunità

1"1

Pala crr1ica dell'economia polr1ica, p.

4.

1"' «E finalmente questo procedimento, di contrapporre alla proprietà

privata la proprietà privata generale, si manifesta nella forma animale: per cui al matn.monio (ch'è certamente una /orma di propn'età esclusiva) si contrappo· ne la comunione delle donne[

.] Si può dire che tale concetto, della comunio­

..

ne delle donne, è il segreto svelato di questo comunismo ancora tutto rozzo e irriflesso>> (Manoscritti economico-filoso/ici del 1844, p.

224).

552

PLATONE, LA REPUBBUCA

come capitalista generale. Entrambi i termini sono elevati a una universalità immaginata: il lavoro, in quanto destinazione di ognuno; il capitale, in quanto riconosciuta universalità e po­ tenza della comunità». Anche se qui Marx sta costruendo uno schema dialettico senza indicare direttamente nessun referente storico o teorico, alcuni elementi di questa comunità universa­ le «immaginata» richiamano quella che doveva essere la vulga­ ta dell'utopia platonica, soprattutto nei circoli dd comunismo francese di impronta neo-babeuvista (che avevano, tra le origi­ narie matrici teoriche, l'idealizzazione giacobina e repubblica­ na dell'antica Sparta):204 una società che fa un uso funzionale­ ristretto dei talenti e delle personalità individuali in nome di una generale standardizzazione a un livello «minimo immagi­ nato», costruita per soddisfare bisogni elementari e non vera­ mente «umani», in cui, «come la donna procederebbe dal ma­ trimonio a una prostituzione generale, l'intero mondo della ricchezza, cioè dell'esistenza oggettiva dell'uomo, procedereb­ be dal rapporto di matrimonio esclusivo col proprietario priva­ to a quello di un'universale prostituzione con la comunità»: «il comunismo rozzo [. ] è così soltanto una manifestazione della ..

204

Cfr. V. GOLDSCHMIDT, op. cit. (n.

10), p. 143, che scrive: cS'agissant

d'une construction dialectique, on peut penser que la description de ce pre­ mier niveau ne vise nommément aucune doctrine précise et qu'elle entre­ prend, à ce niveau, une élaboration conceptuelle, mais dont des éléments, volontairement enlevés à leur contexte, sont bien empruntés à Platon». In realtà, più tracce portano ai babeuvisti, primi eredi «rozzi e incivili» dd mate­

'700 (cfr. La sacra famiglia, p. 173 ). A suo tempo. nel 1795, Babeuf aveva scritto che per trasformare radicalmente la società bisogna «Stabilire l'amministrazione comune; eliminare la proprietà privata; legare ogni rialismo francese del

uomo al talento, all'attività che conosce; obbligarlo a depositarne il prodotto in natura al magazzino comune; e istituire una semplice amministrazione di distribuzione, un'amministrazione delle sussistenze, la quale, tenendo registro di tutti gli individui e di tutte le cose, ripartirà queste ultime secondo la più

(F. N. (1795), trad. it. ne 11 tribuno del popolo, Roma

scrupolosa eguaglianza e la recapiterà al domicilio di ogni cittadino» BABEUF,J/ manz/esto dei plebei

1969, p. 241). In particolare, Babeuf, estremista nella sua ostilità alle discrimi­ nazioni sociali, negava ai talenti il diritto alla distinzione e al premio economi­ co, in nome dell'egualitarismo dei bisogni e voleva regolare dall'alto

il sistema

di distribuzione, in nome del bene pubblico, garantendo a tutti «le sussisten-

COMMENTO AL LIBRO V,

(O)

553

bassezza della proprietà privata che intende porsi come positi­ comunità».20'

va

ze>> , cioè un trattamento frugale e limitato (sulle diverse posizioni, sul tema dell'egualitarismo, interne all'originario movimento degli "Eguali", tra Babeuf, Maréchal e Buonarroti, dr. G. MANACORDA, introduzione a F. BUONARROTI, op. cit. (n.

6), pp. XXI-XXV). Buonarroti, da parte sua, presentava il nuovo

«ordine sociale, che sottomette alla volontà dd popolo le azioni e le proprietà dei singoli, incoraggia le arti utili a tutti, proscrive quelle che appagano solo i gusti di una minoranza, sviluppa senza preferenza la ragione di ognuno, [... ] fa di tutti i cittadini una sola e pacifica famiglia» (ivi, p. 11), non solo sotto l'egida

di Rousseau, ma anche sotto il patronato di coloro che nei secoli avevano fano oggetto dei propri «voti segreti» questo modello, cioè Minosse, Licurgo, Mosè, Platone e poi, a salire, Moro, Montesquieu, Mably. Qui Marx poteva trovare tracce di un "platonismo" egualitario, di un comunismo basato su una logica distributiva vincolante (e mortificante) rispetto alle potenzialità umane. D. McLellan individua, nei passi dei Manoscritti del 1844, un riferimento diret­

to a due gruppi politici di ispirazione babeuvista, i Travailleurs égalitaires e gli Humanitaires, di cui parla Engds nel suo articolo Progressi della n/orma socia­ le sul continente, apparso sul «The New Moral World» del 4 novembre 1843

(cfr. D. McLELLAN, Marx prima del marxismo (1970), trad. it. Torino 1974, p. 209). Qui Engds scrive: «Gli egualitari erano più che altro, come i babuvisti della grande rivoluzione, una "rozza genia": si proponevano di fare dd mondo una comunità di lavoratori, eliminando ogni civile raffmatezza - la scienza, le belle arti e così via - come lussi inutili, pericolosi e aristocratici: pregiudizio, questo, che era una conseguenza inevitabile della loro totale ignoranza della storia e dell'economia politica. Gli umanitari erano soprattutto noti per i loro attacchi contro i matrimoni, la famiglia e simili istituzioni» (K. MARX-F. ENGELS, Opere, vol. III, p. 433 ).

Il riferimento all'area babeuvista può essere

confermato da altri passaggi; nel Manifesto del partito comunista (1848) si legge: «La letteratura rivoluzionaria che ha accompagnato quei primi movi­ menti del proletariato è per forza reazionaria, quanto al contenuto; insegna un ascetismo generale e un rozzo egualitarismo» (trad. it. Torino 1998, p. 43). Ancora Engels, nella breve ricostruzione dell'origine dd socialismo moderno contenuta nell'introduzione all'Antidiihn"ng, parla, riferendosi a queste prime forme tardo-settecentesche di comunismo, di «un comunismo ascetico che si ricollegava a Sparta>> (op. cit. (n. 112), p. 21), cioè alla matrice giacobina. Se nella Sacra famiglia, dunque, Marx ed Engds colpiscono la mitizzazione, reo­ rizzata dai giacobini, della rivoluzione politica e delle antiche repubbliche, ai loro epigoni comunisti riservano l'accusa di materialismo rozzo e incivile. 1m

Manoscritti economico-filoso/ici del 1844, pp. 224-25; il vero comuni­

smo consiste, invece, nella «effettiva soppressione della proprietà privata quale autaalienaàone dell'uomo, e però in quanto reale appropria1.ione dell'umana

554

PLATONE, LA REPUBBUCA

Al di fuori dell'uso "reazionario" che del suo pensiero po­ teva essere stato fatto dalla letteratura comunista-utopista, al Marx storiografo dell'antichità, ormai ben lontano da questo tipo di problematica, Platone appare, invece, con la sua nostal­ gia egiziana, pensatore politico ben concreto, paladino della resistenza alla «tendenza crematistica»206 reale che si affaccia nel mondo greco. Hegel aveva scritto: «Con la soppressione della proprietà e della vita di famiglia, con la negazione della libera scelta della professione, cioè di tutte le determinazioni, che si riferiscono al principio della libertà soggettiva, Platone crede di aver chiu­ so le porte a tutte le passioni: egli aveva riconosciuto benissimo che la corruzione della vita greca derivava dal fatto che gli indi­ vidui come individui cominciavano a far valere i loro propri scopi, le loro inclinazioni, i loro interessi, subordinando a essi lo spirito comune».207 essenza da parte dell'uomo e per l'uomo; e in quanto ritorno completo, con· sapevole, compiuto all'interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico, del­ l'uomo per sé quale uomo soàale, cioè uomo umano•. Questo comunismo è

«il risolto enigma della storia» (ivi, pp. 225-26).

Cfr. A. CARANDINI, L'anatomia della sàmmia, Torino 1979, pp. 174-75. Lezioni sulla storia della filosofia, D, p. 272. Sulla società civile sviluppa­ ta come antitesi di lusso e miseria cfr. Le filosofie del dintto, pp. 181-212. Nella 20b 207

società civile, dice Hegd, prodotto della modernità, si esprimono .d'insensibi­ lità dd desiderio» e .d'indeterminatezza dell'arbitrio>> e si unificano «la man­ canza di misura dd bisogno e del godimento e quella della miseria. (p. 201), producendo la possibilità di una ribellione all'«abiezione passiva della mise­ ria>>. Uno Stato che non riesca ad impedire questa abiezione e che, invece, si sottometta ad essa è uno Stato corrotto e malato: secondo Hegel, Platone, che aveva ben in mente il problema del conflitto latente prodotto dall'eccesso di ricchezza e di miseria, volle fondare un modello di Stato dal quale fosse bandi­ ta alla radice la corruzione, eliminando il «principio della particolarità., che ne è sempre l'origine (cfr. p. 197). Per Hegel, naturalmente, non è questo il rime­ dio, in quanto la libera individualità deve necessariamente esprimersi anche attraverso le contraddizioni della società civile; piuttosto si tratta di pensare lo Stato come correttore degli eccessi e capace di dominare la contraddizione (cfr. Lineamenti di filosofia del din"tto, aggiunta al S 185). È evidente che qui Hegel assume in pieno il problema di Rousseau: conciliare libertà, indipendenza e autonomia (cfr. il commento di D. LosURDO, àt. (n. 94), alle pp. 181-85).

COMMENTO AL LIBRO V,

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(o]

"Tradotto" nel lessico categoriale della marxiana critica dell'economia politica, questo significa che Platone colse l'in­ combente minaccia determinata dallo sviluppo degli interessi particolari, al punto da cercare di impedire la comparsa dd de­ naro «in quanto tale», come astrazione, fissando i ceti a una di­ visione castale del lavoro, naturalizzata con il riferimento ai «talenti», funzionale alla produzione dei bisogni di. una comu­ nità ordinata, gerarchica e non individualistica. «Con lo sviluppo della ricchezza - e perciò di nuove forze e di più estese relazioni tra gli uomini», scrive Marx nei Grun­ drisse, necessariamente si dissolvono successivamente le forme di società precapitalistiche e con esse le comunità e la coscien­ za degli individui; da un punto di vista «ideale», hegeliano, autéì>

1tap 'éautéj)

Vol. II

Corrige

Pagina e riga 107,24 152,20 212,26 214, 12 240,7 270,14 277,12

ibidem, 20 314,17 357,4 366,3 380,15 384,19 408,30-34

[379a]

[397a]

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