La Repubblica. Libri II e III [Vol. 2]
 9788870883145, 8870883140

Table of contents :
Sommario
Introduzione ai Libri II e III
1. I libri II e III: sfondo culturale e funzione dialogica
2. Lo sviluppo dell'argomentazione
3. «Come se raccontassimo un mito»
La Repubblica - Libro II
La Repubblica - Libro III
Commento ai libri II e III
[A] Glaucone
1. Il personaggio dialogico
2. La sfida di Glaucone e la classificazione dei beni
3. La genealogia della giustizia
4. La doppia lezione di Antifonte
5. La risposta a Glaucone
6. L'eredità di Glaucone: Hobbes e Nietzsche
[B] Gige
1. La storia e le immagini
2. La regina e l'acquisizione del potere
3. La versione di Erodoto
4. La rivisitazione platonica
[C] L'infelicità del giusto e la crisi del socratismo platonico
1. L'abbandono di Socrate
2. Glaucone e Adimanto: il valore retorico della giustizia
3. La giustizia non è "un bene altrui": la contrapposizione fra proprio ed estraneo
4. La virtù perdente di Socrate nel Gorgia
5. L'inveramento della formula etica «fare le cose proprie»
6. Promesse filosofiche di felicità
[D] Adimanto
1. La religione tradizionale e la morale
2. I misteri e l'orfismo
3. La risposta ad Adimanto: la religione e l'anima
[E] Socrate, Adimanto, Glaucone. Racconto di ricerca e rappresentazione comica
I. Il racconto di ricerca
1. Il gruppo di ricerca
2. Fratelli / gemelli
3. L'eroe, l'aiutante, il donatore
4. Chi è Socrate nella Repubblica?
Il. La commedia
1. Trasimaco/Socrate: donatore vs eroe. La tenzone comica
2. Eroe/aiutante: la coppia comica. Socrate/Glaucone
3. Eroe/aiutante: la coppia comica. Socrate/Adimanto
III. Perché si ride nella Repubblica?
[F] Grammata
[G] La genesi della polis
I. La città del bisogno
1. Un'antropologia relazionale
2. Divisione del lavoro e integrazione sociale: i technitai
3. L'espansione della divisione del lavoro: le tecniche strumentali
4. I mercanti, il mercato, la moneta
5. I commercianti al dettaglio
6. I salariati
7. Giustizia ed economia
II. La città dei maiali
1. La diaita della frugalità
2. Una diaita animale
III. Polis tryphosa
1. La diaita del lusso
2. Il lusso femminile
3. La malattia della città
[H] Paideia/mythologia
I. La critica alla poesia
1. La funzione dei difensori
2. L'educazione dei difensori e i suoi modelli storici
3. Il controllo sui miti
4. I nuovi schemi di racconto
5. Poesia e vera virtù: la "purificazione" di Omero
II. Mimesis e mousike
1. Classificazione e selezione delle forme narrative
2. La revisione delle pratiche musicali
3. Il controllo sulla produzione artistica: la città armoniosa
4. La ginnastica: un addestramento semplice e severo alla guerra
[I] Hyponoia. L'ombra di Antistene
[L] Theologia
1. Teologia e poesia mitologica
2. I due caratteri essenziali della divinità: bontà e immutabilità
3. Bontà, utilità, conservazione
4. I caratteri della causalità divina
5. Divinità, provvidenza e presenza del male
6. La causa del male
7. L'immutabilità di dio
[M] Medicina
1. Il linguaggio medico: Arie acque luoghi
2. La critica della medicina dietetica
3. I: attacco a Erodico
4. La medicina fra politica e metodo
[N] La nobile menzogna
1. Menzogna, verità e mito
2. La nascita dalla terra
3. Esiodo e il mito dei metalli
4. Il fine della nobile menzogna

Citation preview

La Repubb/ic4 è cenamente uno dei testi centrali del pensiero di Platone, della sua tradizione antica e moderna e della rifles. sione etico-politica contemporanea. Scopo della presente edizione è di offrir· ne un commento integrale, inteso a definire sia il contesto storico-culturale, sia le dimensioni teoriche, sia infine gli influssi sul pensiero successivo: si tratta dunque di un progetto che si giova della vastissima letteratura esegetica prodotta nel corso del nostro secolo, ma che non ha equivalente per ampiezza di obiettivi relativamente a questo singolo dialogo. Per ogni libro o gruppo di libri {ll-Ill,Vlli-IX) viene offena una traduzione, che si propone la massima fedeltà al testo senza tuttavia ignorarne le questioni esegetiche; una introduzione, che delinea i problemi fondamentali del libro o dei libri in esame; un corredo di note, di carattere prevalentemente storico e fdologico; un commento, anicolato in una serie di saggi destinati all'interpretazione dei temi centrali del testo. L'edizione si conclude con un saggio di interpretazione complessiva, con indici e bibliografia. n commento è l'esito del lavoro di un gruppo che fa capo al Dipartimento di Filosofia dell'Università di Pavia: studiosi con specifiche competenze, ma che condividono omogenee prospettive metodiche ed esegetiche. Non si tratta dunque di una raccolta antologica,.ma di un lavoro di interpretazione unitario, benché ampiamente articolato.

Mario Vegetti è professore ordinario di Storia della filosofia antica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Pavia. Ha tradotto e commentato opere di lppocrate, Aristotele e Galeno. È autore di numerosi studi, pubblicati in Italia e all'estero in varie lingue, dedicati alla storia del pensiero antico nei suoi versanti filosofico-scientifico ed etico-politico. Fra i suoi lavori principali, i volumi

Il coltello e lo stilo. Ani111111i, schitJvi, barbari e donne alle origini della ravona/i/4 scientifica (Milano 1979; 19962 ), Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico (Milano 198.3), L'etica degli antichi (Roma-Bari 1989). Ha curato diverse opere collettive, tra le quali l'Introduzione alle culture antiche (.3 voll., Torino 198.5-92).

L.40.000

ELENCHOS

Collana di testi e studi sul pensiero antico diretta da GABRIELE GIANNANTONI :XXVIII-2

PLATONE

LA REPUBBLICA Traduzione e commento a cura di MARIO VEGETTI

Vol. II Libri II e III

BIBLIOPOLIS

Quest'opera è stata realizzata con la collaborazione dell'ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI e con contributi del C.N.R. e del MURST (fondi ex 40%)

Proprietà letteraria riservata

ISBN 88-7088-314-0 Copyright © 1998 by «C.N.R., Centro di studio del pensiero antico» diretto da GABRIELE G!ANNANTONI

SOMMARIO

Introduzione ai libri II e III (M. Vegetti)

p.

13

l. I libri II e III: sfondo culturale e funzione dialogica, 13; 2. Lo sviluppo dell'argomentazione, 16 ; 3. «Come se

raccontassimo un mito», 21.

LIBRO II

25

LIBRO III

85

COMMENTO AI LIBRI II E III

[A]

Glaucone (M. Vegetti)

149 151

l. ll personaggio dialogico, 151; 2. La sfida di Glaucone e la classificazione dei beni, 154; 3. La genealogia della giustizia, 159; 4. La doppia lezione di Antifonte, 163; 5. La risposta a Glaucone, 16 9; 6. L'eredità di Glaucone: Hobbes e Nietzsche, 170.

[B]

Gige (F. Calabi)

17 3

l. La storia e le immagini, 173; 2. La regina e l 'acquisizio-

ne del potere, 179; 3. La versione di Erodoto, 183; 4. La rivisitazione platonica, 185.

[C]

L'infelicità del giusto e la crisi del socratismo platonico (F. de Luise- G. Farinetti) l. L'abbandono di Socrate, 189; 2. Glaucone e Adimanto: il valore retorico della giustizia, 190; 3. La giustizia non è un "bene altrui": la contrapposizione fra proprio ed estraneo, 198; 4. La virtù perdente di Socrate nel Gorgia, 202; 5. L'inveramento della formula etica «fare le

cose proprie», 209; 6. Promesse filosofiche di felicità, 218.

189

SOMMARIO

8

[DJ

Adimanto (M. Vegetti)

p. 221

l. La religione tradizionale e la morale, 221; 2. I misteri e

l'orfismo, 225; 3. La risposta ad Adimanto: la religione e l'anima, 229.

[E]

Socrate, Adimanto, Glaucone. Racconto di ricerca e rappresentazione comica (M. Stella)

233

I. n racconto di ricerca, 234 l. Il gruppo di ricerca, 234; 2. Fratelli/gemelli, 236; 3.

L'eroe, l'aiutante, il donatore, 240; 4. Chi è Socrate nella

Repubblica?, 248. II. La commedia, 253 l. Trasimaco/Socrate: donatore vs eroe. La tenzone co-

mica, 254; 2. Eroe/aiutante: la coppia comica. Socrate/Glaucone, 262; 3. Eroe/aiutante: la coppia comica. Socrate/Adimanto, 266. III. Perché si ride nella Repubblica?, 273

[FJ

Grammata (M. Vegetti)

281

[G]

La genesi della polis (S. Campese- L.L. Canino)

285

I. La città del bisogno, 285 l. Un'antropologia relazionale, 285; 2. Divisione del

lavoro e integrazione sociale: i technitai, 287; 3. L'espansione della divisione del lavoro: le tecniche strumentali, 292; 4. I mercanti, il mercato, la moneta, 294; 5. I com-

mercianti al dettaglio, 299; 6. I salariati, 303; 7. Giustizia ed economia, 305. II. La città dei maiali, 307 l. La diaita della frugalità, 307; 2. Una diaita animale, 312.

III. Polis tryphosa, 318 l. La diaita del lusso, 318; 2. Il lusso femminile, 325; 3.

La malattia della città, 329.

[H]

Paideia/mythologia (S. Gastaldi) I. La critica alla poesia, 333 l. La funzione dei difensori, 333; 2. L'educazione dei di-

fensori e i suoi modelli storici, 336; 3. Il controllo sui miti, 342; 4. I nuovi schemi di racconto, 352; 5. Poesia e vera virtù: la "purificazione" di Omero, 355.

333

9

SOMMARIO Il.

Mimesis e mousike, 362

l. Classificazione e selezione delle forme narrative, 362; 2. La revisione delle pratiche musicali, 374; 3.

n controllo

sulla produzione artistica: la città armoniosa, 385; 4. La ginnastica:

un

addestramento semplice e severo alla guer·

ra, 388.

[l] [L]

Hyponoia. L'ombra di Antistene (F. de Luise G. Farinetti) Theologia (F. Ferrari)

p. 393 403

l. Teologia e poesia mitologica, 403; 2. I due caratteri es·

senziali della divinità: bontà e immutabilità, 404; 3. Bon· tà, utilità, conservazione, 408; 4. I caratteri della causalità divina, 409; 5. Divinità, provvidenza e presenza del male, 414; 6. La causa del male, 416; 7. L'immutabilità di dio, 421.

[M]

Medicina (M. Vegetti) l. n linguaggio medico: Arie acque luoghi, 427;

427 2. La cri·

tica della medicina dietetica, 431; 3. L'attacco a Erodico, 436; 4. La medicina fra politica e metodo, 439.

[N]

La nobile menzogna (F. Calabi) l. Menzogna, verità e mito, 445; 2. La nascita dalla terra, 448; 3. Esiodo e il mito dei metalli, 451; 4. Il fine della

nobile menzogna, 454.

445

LA REPUBBLICA LIBRI II

E

III

Hanno collaborato al commento: Francesca Calabi (Università di Pavia) Silvia Campese (Università di Pavia) Lucia Loredana Canino (Pavia) Fulvia de Luise (Alba) Giuseppe Farinetti (Alba) Franco Ferrari (Miinster) Silvia Gastaldi (Università di Pavia) Massimo Stella (Università di Pavia) Mario Vegetti (Università di Pavia) Michele Abbate (Università di Macerata) ha contribuito all'o­ pera curando una traduzione commentata del Commentario di Proclo alla Repubblica. Coordinamento redazionale: Anna Cattivelli

INTRODUZIONE AI LIBRI II E III

l. I libri II e III: sfondo culturale e funzione dialogica

La scena e lo sfondo culturale dei due libri costituiscono, nell'ambito del dialogo, un momento di transizione. Da

un

la­

to, vengono congedati i ricchi e colti meteci del Pireo, e i bril­ lanti sofisti che avevano affollato le pagine del I libro. Alloro posto, assumono il ruolo di protagonisti i giovani aristocratici ateniesi, come Glaucone e Adimanto, alle cui spalle si possono intravedere le grandi figure della politica della città: Crizia, Al­ cibiade, lo stesso Antifonte (cfr. qui [A]). Dall'altro lato, non si è ancora entrati nella più rarefatta atmosfera di costruzione della teoria che avrà inizio a partire dal libro IV. Sono ancora le voci della grande cultura della polis a venire interrogate e criticate: si tratta in primo luogo dei poeti fondatori, Omero ed Esiodo, dei tragici, dei teorici della mu­ sica come Damone. In secondo luogo, vengono evocate le cor­ renti religiose estranee ma parallele alla "teologia" olimpica, come l'orfìsmo o il dionisismo. Infine, sono messe in questione le teorie antropologiche rivali sulle origini della società e della cultura, da Democrito ad Antifonte. Un vero conglomerato del­ la cultura ateniese,1 dunque, che viene ampiamente rappresen­ tato sulla scena del dialogo per decidere che cosa se ne possa 1

Su questo "blocco storico" della cultura contemporanea che Platone af­

fronta, cfr. A. MASARACCHIA, Per l'interpreta1.ione de/II libro della Repubblica,

in R PRETAGOSTINI (a cura di), Tradi1.ione e innova1.ione nella cultura greca da Omero all'età ellenistica (in onore di B. Gentili), Roma 1993, vol. II, pp. 877· 86 (p. 88.5).

14

PLATONE, LA REPUBBLICA

salvare e che cosa invece vada condannato ed espulso dalla nuo­ va città. Se è impossibile determinare la cronologia assoluta dei due libri,2 risulta per contro piuttosto agevole individuarne la funzio­ ne nell'ambito dello sviluppo complessivo del dialogo. Si tratta certamente di un tramite, di uno snodo di raccordo, fra il "porti­ co socratico" costituito dal I libro e i grandi blocchi teorici che seguiranno (soprattutto quello formato dai libri IV- VI e VIII­ IX). Più specificamente, la "teoria critica" sviluppata da Glau­ cone e Adimanto, e il suo superamento ottenuto spostando la discussione sulla giustizia dall'ambito individuale a quello antro­ pologico-politico (che del resto era già stato imposto da Tra­ simaco), comportano un definitivo abbandono delle posizioni socratiche sostenute nel Gorgia e che riecheggiavano nel fallito tentativo di confutazione di Trasimaco. All' autarkeia del giusto e alla sua felicità solitaria e intransitiva, sorretta dalla speranza escatologica del giudizio oltreterreno delle anime, era necessario sostituire -dopo l'attacco concentrico di Glaucone e Adimanto -la prospettiva di un'antropologia collaborativa e della costru­ zione di una polis conseguente, come condizioni collettive della possibilità della giustizia e del successo privato e pubblico della condotta giusta (dr. qui [C]). Tutto questo comportava a sua vol­ ta la proposta di un vasto programm a educativo, inteso a ricon­ dizionare moralmente individui e comunità, che era sempre ri­ masto estraneo allo spirito del socratismo originale. Questo distacco da un lato, e dall'altro l'apertura a elemen­ ti teorici non ancora compiutamente elaborati (in primo luogo la 2

In una comunicazione presentata al IV Symposium Platonicum (Gra­

1995), H. Tarrant rileva come la frequenza delle forme verba­ -teon nei libri II-III abbia un equivalente solo nel Timeo e nel

nada, settembre li con suffisso

Crizia. Secondo Tarrant non si tratta di prossimità cronologica ma di affinità (Timeo e Crizia offrirebbero la mitologia ftlosofica che deve sostitui­ re quella poetica criticata in Repubblica). Si può osservare, tuttavia, che que­ sto uso stilistico appartiene da un lato all'approccio dimostrativo proprio di Glaucone (cfr. [A]), dall'altro all'assetto fortemente normativo della seconda tematica

parte del II e dell'intero III libro.

INTRODUZIONE AI LIBRI Il E III

15

teoria di psyche e polis dei libri IV e V, in cui il problema della giustizia trova una prima soluzione), conferiscono ai due libri quel carattere di transito e di tramite di cui si è detto. Esso si esprime, più specificamente, nel proliferare di elementi "prolet­ tici", cioè di anticipazioni che risultano immotivate e alquanto rapsodiche di ciò che in seguito verrà più solidamente argo­ mentato. Questo carattere è chiaramente segnalato da Platone in almeno un paio di passi. La selezione del gruppo degli ar­ chontes è solo schizzata secondo una prima traccia approssima­ tiva e priva di rigore (414a6-7: Èv n'mcp, I!Tt Ot'à.KptPEiaç). I.:akribeia dovrà evidentemente attendere la delineazione della figura del filosofo e della sua formazione nei libri V-VII. Nello stesso senso va letta la riserva di Socrate sulla completez­ za della paideia fin qui delineata in 416b8 (tOUtO j.tÈv OÙK al;tov

OncrxupiçecrOat). Ma elementi prolettici sono sparsi ovunque nei due libri, e spesso in posizioni concettualmente rilevanti. C'è in primo luogo l'emergenza di caratteri psicologici e tipi di uomo (thymoeides, philosophos: 375b sgg., 375e sgg.), che solo nei libri IV e V verranno adeguatamente analizzati. C'è qualche enigmatico riferimento ai futuri filosofi-re (389cl, 412a10). Ci sono soprattutto, alla fine del libro III, le norme abbastanza confuse per la selezione, nell'ambito dei phylakes, del gruppo degli archontes, e per il modo di vita "comunistico" di questi ultimi (413b sgg., 416d sgg.), che richiedono senza dubbio i successivi e più precisi chiarimenti. Compaiono infine cenni sporadici a un ordinamento legislativo e di governo della futura polis: nomoi non solo sulla "teologia" e sulla paideia (dr. qui [H]) ma anche sul comportamento erotico (403b); e i rela­ tivi "sorveglianti" o ministri, epistatai (412a10: per una simile fi­ gura di "ministro della scienza", destinato a sovrintendere alle ricerche matematiche, cfr. V II 528b7). Va detto però che questi ultimi cenni non riceveranno mai nella Repubblica alcun tratta­ mento sistematico. In ogni caso, l'abbondanza di elementi prolettici nei libri II e III contribuisce a suscitare l'impressione di un certo disor­ dine compositivo. Un'impressione confermata, del resto, dalla

16

PLATONE, LA REPUBBLICA

debolezza dei principali snodi argomentativi che seguono al blocco compatto dei discorsi di Glaucone e Adimanto. 2. Lo sviluppo dell'argomentazione

A prima vista, la sequenza argomentativa avrebbe potuto essere molto semplificata. Le teorie critiche di Glaucone e Adi­ manto concordano nella richiesta di una fondazione della pre­ feribilità della giustizia autonoma rispetto sia alle convenzioni sociali sia alle credenze religiose, e invece riferita direttamente all'anima e al suo "benessere". Sarebbe dunque stato possibile passare direttamente al libro IV, che offre una risposta soddi­ sfacente a questa esigenza. Le cose non sono tuttavia così semplici. La teoria di Glau­ cone implica un'antropologia conflittuale, centrata sulla pleo­ nexia, e una concezione della politica coerente con essa (come

già aveva sostenuto Trasimaco). Per superarla, e risponderle in modo adeguato, occorreva la costruzione di un altro modello antropologico, della relativa immagine della politica, e dei pro­ cessi educativi di formazione dell'uomo giusto. Dal canto suo, il riferimento di Adimanto alle concezioni religiose condivise imponeva di delineare nuovi principi di "teologia", cioè gli elementi di una nuova religione pubblica, che costituiva anche una delle condizioni di possibilità di quei processi educativi. Tutto questo richiedeva lo sviluppo di una serie di argomentazioni per così dire collaterali rispetto all'asse principale, che preparassero la risposta formulata nel libro IV (e che d'altra parte ne avrebbero modificata la natura: non più sol­ tanto una teoria dell'anima, ma dell'anima e dellapolù insieme). La cosa notevole è che i nessi di questa sequenza argomen­ tativa sviluppata nei libri II e III sono di solito formalmente così deboli da suscitare l'impressione della gratuità, a meno di interpretarli secondo prospettive che vadano oltre la lettera del testo investendo l'insieme delle intenzioni platoniche. Il primo di essi consiste nello spostamento da cui si origina l'intera sequenza. Socrate afferma che la risposta a Glaucone e

INTRODUZIONE AI LIBRI II E III

17

Adimanto è possibile in prima istanza solo spostando l'indagi­ ne dall'ambito individuale a quello sociale (386d-e). A questo scopo ricorre alla metafora dei grammata, dei caratteri grafici, che permette di concepire la polis come un testo più grande, ma strutturalmente omologo a quello dell'anima individuale (cfr. qui [.F]). La verità di questa omologia non è in alcun mo­ do provata, e viene intieramente affidata alla efficacia suggesti­ va della metafora grafica. A partire di qui, Socrate costruisce comunque il suo mo­ dello di un'antropologia collaborativa centrata sulla figura dei­

l'homo oeconomicus, che il bisogno (chreia) spinge allo scambio di beni e servizi necessari alla sopravvivenza collettiva. Questa antropologia sostituisce quella "pleonektica" di Trasimaco e Glaucone senza confutarla, ma è comunque un presupposto necessario per tutti gli ulteriori sviluppi del dialogo. È però in­ dispensabile procedere oltre la società puramente economica della prima città, che deriva direttamente dal presupposto an­ tropologico, per una serie di ragioni cogenti. Occorre in primo luogo produrre un modello di transizione fra la prima società, "sana", e la polis socialmente malata che la situazione storica esibisce, e che Glaucone aveva erroneamente ritenuta come originaria. E occorre in secondo luogo disporre di un modello sociale più complesso del primo, nel quale reperire (nonostan­ te la sua degenerazione) gli elementi politico-intellettuali ne­ cessari allo sviluppo di una strategia educativa capace di con­ durre alla formazione di un nuovo gruppo di potere e della sua forma di vita "comunistica": elementi estranei, se non addirit­ tura contraddittori, alla semplicità della prima società rigida­ mente economica.3 Ora, il passaggio dal primo al secondo modello è apparen­ temente affidato soltanto all'indulgente compiacenza di Sacra3 R.C. CROSS-A.D. WOOZLEY, Plato's Republic. A Philosophical Com­ mentary, London 1964, p. 80, attribuiscono alla prima città il carattere di uno «straightforward capitalism», il che non è esatto perché il profitto è estraneo agli scambi che vi si svolgono; è vero tuttavia che il suo fulcro antropologico è costituito non dalla politica ma dall'homo oeconomicus.

18

PLATONE, LA REPUBBLICA

te verso una battuta scherzosa di Glaucone, che definiva la po­

lis economica «una città di maiali», ed esigeva un regime di vi­ ta più confortevole (372d-e). Nulla ci dice se questo transito sia da concepire come un effettivo processo storico, e se esso sia necessario o casuale; mai forse come in questo caso, le inter­ pretazioni devono scontrarsi, su un punto così cruciale, con l'elusività del testo platonico (cfr. qui [G]). Si può pensare che la degenerazione della città sana verso quella della tryphe sia inevitabile perché un aggregato puramente economico non possiede in sé gli elementi intellettuali e morali necessari a pre­ venire e a controllare lo scatenarsi, altrimenti inevitabile per­ ché insito nelle stesse matrici economiche della prima città, delle dinamiche della bramosia e dell'avidità (in una parola dell'epithymia).4 Si può d'altro canto supporre che fra prima e seconda città non esista in realtà una transizione diacronica (che in effetti non è esplicitamente affermata nel testo platonico) ma che si tratti di due strati sincronici di una fenomenologia complessa. Per semplificare, potrebbe trattarsi di una contrapposizione fra ambiente rurale e ambiente urbano; o anche dei livelli di pro­ duzione, di scambio e di consumo, che coesistono nello stesso spazio sociale, sia pure con dinamiche e valori differenti, e che l'analisi platonica ci mostra sovrapposti fra loro come fanno le pagine di un atlante anatomico ad esempio per il sistema osseo e quello muscolare. Restando più vicini alla lettera del testo, è infine possibile pensare che sia proprio l'intervento di Glaucone a rendere ne­ cessaria la transizione. La sua insoddisfazione mostrerebbe co­ me i limiti angusti della prima città siano inadatti a tener conto delle ambizioni e delle esigenze intellettuali e anche estetiche

4

Cfr. in questo senso P. FRIEDLANDER, Plato, trad. ingl. London 1969,

vol. III, p. 83; E.N. LEE, Plato's Theory o/ Social ]ustice in Republic Il-IV, in ].P. ANTON-A. PREUS (a cura di), Essays in Ancient Greek Philosophy III: Plato, Albany 1989, pp. 117-40 (p. 124: «satisfiyng prirnary needs and secu­ ring survival inevitably issues in a tendence toward luxury»).

19

INTRODUZIONE AI LIBRI II E III

della "società del dialogo", che comprende personaggi ben di­ versi da quelli della formazione sociale primitiva.� Si tratta di interpretazioni certamente plausibili che tutta­ via devono largamente integrare l'insostenibile lievità argo­ mentativa del testo platonico. Un terzo snodo, questa volta non solo precario ma addirit­ tura concettualmente arbitrario, è quello, ancora più impor­ tante, che avvia la riforma educativa della seconda città, la sua "purificazione", e con essa il processo di fondazione della kal­ lipolis platonica.6 La dinamica interna della polis tryphosa la spinge inevita­ bilmente al ricorso alla guerra. Da questo atto di violenza, che segnala la degenerazione estrema della città del lusso, si origina nel testo platonico la costruzione della città bella e giusta.7 Poi­ ché essa implica un elevato livello di specializzazione tecnica, la violenza bellica non dovrebbe essere lasciata nelle mani del­ l'intero corpo dei cittadini, come accade nella realtà storica �O. HOFFE, Zur Analogie von Indivzduum und Polis (Buch II 367a·374d),

in ID. (hsg.), Platon. Politeia, Berlin 1997, pp. 69-93, propone di interpretare la «gedankliche Konstruktion» della genesi della polis alla stregua di una triade dialettica hegeliana: la tesi è l'immediata innocenza, pre-politica e esente da conflitto della prima città, tuttavia «non realizzabile» e «unrealistisch» per la società contemporanea a Platone; l'antitesi è quella, storica, della città conflit­ tuale della pleonexia; la sintesi, la nuova città, anch'essa priva di conflitti, ma attraverso la mediazione del potere, ideale ma realizzabile (pp. 73-80). L'in­ terpretazione è interessante e in parte condivisibile, a parte la «non realizzabi­ lità» della prima città. Poiché essa non è l'esito di un progetto, ma dovrebbe costituire la forma associativa spontanea di una situazione antropologica "na­ turale", il suo carattere irrealistico sembra piuttosto costituire un argomento contrario alla verità dell'ipotesi antropologica cooperativa, e confermare l'an­ tropologia conflittuale della pleonexia da cui si origina la polis tryphosa. Que­ sto può essere, in ultima istanza, 6

il senso della obiezione di Glaucone.

Sulla difficoltà concettuale del passaggio dalla prima e seconda città

("naturali") alla terza ("artificiale", cioè politica), insistono R. C. CROSS-A.D. WOOZLEY, op.cit. (n. 3), pp. 99 sgg. 7

Su questo insiste giustamente D. CLAY, Reading the Republie, in C.L.

GR!SWOLD (a cura di), P/atonie Writings. P/atonie Readings, New York­

London 1988, pp. 19-33 (pp. 27 sg.).

20

PLATONE, LA REPUBBLICA

sottolineata da Glaucone, bensì va affidata, secondo Socrate, a un ceto separato di specialisti (374a-e): i phylakes, «atleti della guerra», la cui rieducazione e selezione darà luogo al nuovo gruppo di potere (gli archontes). È perfettamente comprensibi­ le che Platone abbia bisogno di un gruppo selezionato di citta­ dini da formare nella suprema tecnica del governo, e ci sono diverse ragioni (che vanno dal carattere agonale dell'ideologia aristocratica greca e dal modello spartano fino alle stesse istan­ ze collettivistiche del suo pensiero) perché egli lo identifichi proprio all'interno di un ceto di professionisti della guerra. Re­ sta il fatto che questo sviluppo argomentativo comporta un passaggio brusco e ingiustificato da un livello descrittivo (la ne­ cessità della guerra per la città della ricchezza, alla quale con­ segue tuttavia, come nota Glaucone, l'impegno militare dell'in­ tera collettività), a un livello normativa (la necessità che la tec­ nica militare sia praticata da specialisti sulla base del principio della otkeiopragia). In ogni caso, un intenso programma educativo, integrato con una riforma della morale e della religione pubblica, farà di questo gruppo di specialisti della guerra i «difensori» e protet­ tori (phylakes) della nuova città. Alla fine del libro III, un'ulte­ riore selezione, le cui prove sono solo rapidamente accennate, produrrà al suo interno la separazione tra funzione strettamen­ te militare (affidata agli epikouroi), e funzione di governo, che spetterà agli archontes (un ulteriore e problematico sviluppo, nei libri V e VI, assegnerà loro una natura filosofica, qui solo sommariamente accennata nella metafora "canina" di 375e e nel mito dei metalli di 415a).

È da notare a questo proposito che il tratto essenziale della forma di vita dei phylakes, cioè la rinuncia "comunistica" al possesso dei patrimoni privati, viene ancora una volta motivato da un argomento molto debole. Si tratta di un elemento miti­ co, esplicitamente definito come menzognero ancorché tradot­ to in un linguaggio dalle forti intonazioni religiose: perché un dio ha mescolato oro e argento nella loro anima, non è hosion che essi contaminino (mianein) questi metalli divini con i loro

INTRODUZIONE AI LIBRI Il E III

21

corrispondenti umani e mortali (416e). Per quanto precario, questo argomento costituisce il diretto presupposto di uno svi­ luppo decisivo che conduce, oltre il libro IV, alla teoria del governo dei filosofi e della comunanza di beni e di oikos che verrà sostenuta nei libri V e VI con più sostanziali motivazioni. C'è ora da chiedersi: perché questo disordine e questa pre­ carietà nell'argomentazione? La risposta non può essere univo­ ca. In certi casi, probabilmente, il ricorso all'immediatezza suggestiva di metafore e miti surroga difficoltà probatorie, in­ tegra gaps almeno provvisori della teoria. Più in generale, il ca­ rattere largamente prolettico dei libri II e III impedisce a Pla­ tone di provvedere ai molti sviluppi solo accennati l'adeguato supporto argomentativo. Si direbbe che egli si comporti verso il lettore ancora alle soglie della Repubblica secondo lo stesso schema propedeutico previsto nel programma educativo del libro V II: gli elementi del sapere vengono dapprima proposti ai giovani «alla rinfusa» (chyden, 53 7 cl), come per gioco (537a), per poi venir ripresi, in età più adulta, in modo sinotti­ co e sistematico. Nello stesso modo, l'ancor "giovane" lettore del dialogo verrebbe così introdotto agli sviluppi successivi, cioè- riprendendo un'espressione già citata- per linee genera­ li, ma senza il necessario rigore. 3. «Come se raccontassimo un mito» n tema del mito e della mitologia è fra i più ricorrenti nei libri TI e III. Non si tratta soltanto di criticare gli effetti morali e religiosi della mitologia poetica, o di forgiare nuovi miti, a de­ stinazione propagandistica, come quello dei ), dove designa la separazione e l'isolamento delle sostanze organiche (cfr. sulla questione A.-J. FESTUGIÈRE, commento a Hippocrate. I.:ancienne médecine, Paris 1948, pp. 47-50). Nd nostro passo, la formula non designa ancora certa­ mente "l'idea", come è provato anche dal riferimento ippocratico, ma enfatizza lo sforzo di Glaucone verso un'astrazione e concettualizzazione crescenti della discussione sulla giustizia. Questa voluta enfasi platonica sul ruolo di Glaucone è sottolineata dal fatto che l'espressione non compare altrove nd dialogo, e che in turto il corpus platonico Glaucone è l'unico a usarla a eccezione dei discus­ sion-leaders dei dialoghi: cfr. in proposito K.F. MooRS, Glaucon and Adei­ mantus on ]ustice, Washington 1981, p. 11 n. 39. Cfr. anche qui n. 64 .

[d]

28

PLATONE, LA REPUBBLICA

ta di per se stessa, e penso che questo elogio lo apprenderò sop­ prattutto da te. Perciò mi sforzerò di elogiare la vita ingiusta, e così parlando ti mostrerò in qual modo vorrei da parte mia sentirti biasimare l'ingiustizia e lodare la giustizia. Vedi dun­ que se quel che ho detto ti trova consenziente». «Più di tutto, dissi io. Su quale argomento chiunque abbia senno amerebbe più spesso parlare ed ascoltare?».

[e]

«Dici molto bene, rispose. E ora ascolta ciò che avevo annunciato di voler discutere in primo luogo: quale sia e onde si origini la giustizia. Dicono che per natura il commettere ingiustizia è un bene, e subirla un male, ma che il male connesso al subire ingiustizia sia più grande del bene connesso al compierla. Sicché quando hanno reciprocamente commesso e subito ingiustizia, e hanno provato il sapore dell'una e dell'altra, a coloro che non posso-

[359a]

no sfuggire la seconda cosa e scegliere la prima, sembra van­ taggioso stipulare il patto reciproco di non commettere né su­ bire ingiustizia a vicenda. Da quel momento in poi si comincia­ rono a stabilire leggi e patti fra gli uomini, e l'ordine imposto dalla legge fu chiamato legittimo e giusto.8 Affermano dunque che questa è la genesi e l'essenza9 della giustizia, che si trova ad essere intermedia10 tra la possibilità migliore- compiere ingiuVOillJ.u)v tE KaÌ. �t lCatov: l'endiadi è socratica prima ancora che trasima­ m,§ 4. 9 yÉvEaiv tE KaÌ. où aiav L'espressione non ha qui certamente il valore ontologico che avrebbe assunto soprattutto nd Fz1ebo. Essa comporta piutto­ sto un'articolazione della forma di risposta alla domanda socratica ti esti: il 8

chea. Cfr. il commento allibro I, .

processo di formazione dell'oggetto ne condiziona e ne chiarisce la struttura

È esattamente in questo modo che si articolerà la ricerca nei libri (genesis) e IV (ousia della giustizia). ll termine ousia, di cui si discuterà

essenziale. II-III

più ampiamente in sede di commento al libro V, ha in Platone un'ampia gamma di significati: da «Sostanza» (in senso patrimoniale) appunto a «essen­ za», che designa lo specifico modo d'essere di un oggetto, nella sua individua­ lità e differenza rispetto a tutti gli altri. 10

Il carattere "mediano"

(metaxy) della giustizia non rinvia qui certa­

mente né al valore ontologico ed epistemologico che il termine metaxy avreb-

29

LIBRO II

stizia senza pagame il fio- e quella peggiore- subire ingiusti­ zia nell'impotenza di vendicarsi. Il giusto allora, in quanto medio fra questi due estremi, non viene amato come un bene, ma è apprezzato perché manca la forza di recare ingiustizia,

[b]

visto che chi potesse farlo e fosse dunque un vero uomo non stipulerebbe mai con nessuno il patto di non fare né subire ingiustizia: sarebbe davvero pazzo. La natura11 della giustizia, Socrate, è dunque questa e siffatta, e queste sono le condizioni onde essa si origina, stando al discorso. Che poi anche chi la pratica lo faccia contro la sua volontà, per l'impotenza di commettere ingiustizia, ce ne accorgeremo nel modo più evidente se costruiremo col pensiero la seguente situazione: concediamo ad entrambi, il giusto e l'ingiusto, la possibilità di fare ciò che vogliono, poi seguiamoli osservando dove il desiderio conduce ciascuno dei due. Sorprenderemo dunque il giusto nell'atto di avviarsi per la stessa strada dell'in­ giusto, a causa del desiderio di sopraffazione che ogni singola natura naturalmente persegue come un bene, mentre per la violenza della legge è ricondotta al rispetto dell'eguaglianza. 12 be assunto in Platone, già a partire da vedere in esso un'anticipazione della

Resp. V 477a sgg .; tanto meno è da mesotes aristotelica. Piuttosto la condi­

zione di chi non può commettere ingiustizia né vuole subirla ricorda quella deità J.LÉaatéòv noì..t t éòv nell'analisi tucididea delle guerre civili, che non par­ tecipavano agli eccessi delle parti in conflitto e finivano per cadere vittima

di (III 82.8). 11 Physis vale qui il processo attraverso il quale la giustizia prende forma

entrambe

nell'opinione comune, dando luogo a una convenzione sociale (cfr. K.F. MOORS,

op. cit. (n. 7), pp. 18, 24-5).

A

359c5 il termine assume invece una

connotazione forte, che lo oppone al carattere convenzionale della giustizia: cfr. n.

12. 12 ll linguaggio di Glaucone in questo passo rappresenta una rilevante ed efficace condensazione di un preciso clima culturale (cfr. [A],§§ 3-4). C'è in· nanzitutto l'insistenza sulla "natura umana"

(naaa cpuatç ... nÉqruKEV ),

intesa'

come struttura antropologica immutabile e "vera", nella sua resistenza a ogni convenzione sociale (cfr.

359b2: Wç àì..116mç c'ivlìpa). Essa viene alla luce qua­ exousia, che qui vale «libertà di scelta» in

lora all'individuo sia concessa la

[c]

30

PLATONE, LA REPUBBLICA

La possibilità di cui parlo sarebbe realizzata nel modo mi­ gliore se toccasse loro la stessa facoltà di cui, a quanto si rac­

[d]

conta, dispose

un

tempo Gige [B], l'antenato del Lidio.U

Era costui un pastore che serviva presso l'allora signore della Lidia. In seguito a una grande tempesta e a

un

terremoto,

un tratto di terra si spaccò formando una voragine presso il luogo in cui pascolava. La vide e se ne meravigliò, poi discese e scorse, tra le altre cose meravigliose di cui racconta la favola, 14 assoluto (il termine, che compare in ANTIPHO I 6, è significativamente con­ nesso con hybris e pleonexia già in TH. III 45.4). Questa libertà consente lo sprigionarsi del desiderio, epithymia, la forza motrice incondizionata della condotta (anche questo termine, destinato a giocare un ruolo centrale nella psicologia di Platone, compare in ANTIPHO II 17, e in TH. VI 13, dove vale «brama» irriflessa). L'oggetto del desiderio è per natura la pleonexia, la so­ praffazione (cfr. commento al libro I, m,§ 6): la connessione di pleonexia con la struttura permanente della "natura umana" era stata enunciata da TH. III 82.6,8, come conseguenza della rottura degli equilibri della polis nel corso delle guerre civili. La contrapposizione dell'eguaglianza (to ison) imposta dalle leggi a questa naturale tendenza alla pleonexia era parte centrale della perorazione di Callide nel Gorgia (483c), che preconizzava il ritorno di un vero uomo capace di spezzare i vincoli convenzionali e tornare alla suprema­ zia del più forte (484a). L'ideologia oligarchica del V e IV secolo si muove nel­ l'ambito di una antropologia della "natura umana" che riconfigura il "vero uomo", al di là dell'esperienza della polis, secondo una memoria e una nostal­ gia dell'eroe omerico. Platone, e Democrito, le avrebbero contrapposto un modello antropologico cooperativo, dove l'esigenza naturale primaria non è la pleonexia ma il bisogno, e con esso la necessità di scambio di beni e presta­ zioni (cfr. qui [C]). n

Il testo dei mss. reca tép fuyou tou Auoou !tpoyovcp, «l'antenato del

Lidio Gige». Poiché in X 612b Platone parla dell'anello di Gige, accetto qui e traduco la correzione proposta da Chambry: fuY!l tép tou Auoou !tpoyovcp. Burnet seclude dal testo ms. «Gige» («l'antenato del Lidio»). In ogni caso, se Gige è l'antenato, il Lidio cui Platone accenna dovrebbe essere Creso. S.R. SLINGS, Critica/ Notes on Plato's Politeia, II, «Mnemosyne» XLII (1989) pp.

380-97, propone di considerare tép !tpoyovcp come glossa e di leggere ruY!l tép

Auocp, «Gige il Lidio». Sulla questione cfr. ADAM, pp. 126-29, e, qui, [B]. 14

Mythologein vale qui e altrove «raccontare» storie. Può trattarsi delle

favole che le balie narrano ai bambini (377a-c), oppure dei «miti maggiori», come quelli di Omero e di Esiodo (377c-d), o della stessa narrazione filosofi-

31

LIBRO II

un

cavallo di bronzo, cavo e provvisto di piccole porte. Vi si af­

facciò e vide che dentro c'era un cadavere, a quanto pareva, più grande delle misure umane, che non indossava nient'altro se non un anello d'oro alla mano. Lo strappò via e tornò fuori.

[e]

Quando si tenne la consueta riunione dei pastori, per riferire ogni mese al re sulla situazione delle greggi, egli vi giunse in­ dossando quell'anello. Sedutosi dunque insieme con gli altri, girò per caso il castone dell'anello verso se stesso, rivolgendolo all'interno della mano. Questo bastò a renderlo invisibile a

[360a]

quelli che gli sedevano accanto, sicché essi conversarono di lui come si fa di un assente. Lui si stupì e sfiorando di nuovo l'anello rivolse il castone verso l'esterno, e così facendo ritornò visibile. Avvedutosi di questo, riprovò a controllare se l'anello avesse questa facoltà, e gli risultò che se rivolgeva il castone al­ l'interno diventava invisibile, se all'esterno visibile. Una volta notata la cosa, fece subito in modo di essere incluso fra i messaggeri inviati presso il re. Giunse dunque dal re, sedusse sua moglie, e con l'aiuto di costei lo aggredì, lo uccise e si impadronì del potere. Se dunque ci fossero due di quegli anelli, e uno se lo met­ tesse il giusto, l'altro l'ingiusto, nessuno sarebbe, è dato crede­ re, tanto adamantino15 da resistere nella giustizia, astenendosi coraggiosamente dall'impadronirsi delle cose altrui, mentre gli sarebbe possibile prendere impunemente ciò che vuole nel ca (376d). Per quest'ultimo aspetto si veda qui l'Introduzione. Per l'atteggia­ mento di Platone nei confronti della mitologia cfr.

[H]; specificamente, per il [B]. u Adamantinos. Adamas non significa qui «diamante» ma «ferro tempra­ to», «acciaio». Con esso è costruita la falce di Gaia in HEs. Th. v. 161, e anche lo thymos dei guerrieri della stirpe del bronzo, Op. v. 147. È interessante nota­ senso di questo passo, cfr.

re che in ANON. ]AMBL. 6.2l'uomo «adamantino», alla maniera esiodea, è co­ lui che persegue

kratos e pleonexia tentando (vanamente) di opporsi al nomos

comune. Secondo Glaucone, al contrario, neppure un uomo «adamantino» potrebbe conservarsi giusto e resistere all'attrazione della che

Gorg. 509a e Resp.

X 618e).

pleonexia (cfr. an­

[b]

32

[c]

PLATONE, LA REPUBBLICA

mercato, entrare nelle case ed unirsi con chiunque voglia, e uc­ cidere o sciogliere dalle catene tutti quelli che vuole, e fare tut­ to il resto come se fosse, tra gli uomini, eguale a un dio.16 Com­ portandosi così, non farebbe nulla di diverso dall'altro, ma entrambi andrebbero nella stessa direzione. Questo è dunque un grande indizio,17 si potrebbe dire, che nessuno è giusto per sua volontà, bensì perché è soggetto a costrizione: la giustizia non è considerata alla stregua di un bene privato, giacché chiunque, laddove pensi di essere in grado di recare ingiustizia, lo fa. Ogni uomo pensa infatti che l'ingiustizia

[d]

gli sia in privato18 molto più giovevole della giustizia, e pensa il vero, come affermerà chi sostiene questa teoria. Perché se qual­ cuno che disponesse di una tale possibilità non volesse mai com­ mettere alcuna ingiustizia né mettesse le mani sulle cose altrui, sembrerebbe del tutto degno di compatimento per la sua de­ menza a quanti se ne accorgessero. Però lo loderebbero quando si trovassero l'uno davanti all'altro, ingannandosi a vicenda per la paura di subire ingiustizia. Così dunque stanno le cose.

[e]

Quanto al giudizio sulla vita degli uomini di cui stiamo parlando, se contrapporremo il più giusto e il più ingiusto, sa­ remo in grado di giudicare correttamente, ma non altrimenti.

Isotheos: l'aggettivo era appunto stato riferito alla tirannide da E. Tr. v. 1). Si veda in proposito l'esplicita citazione di Platone in Resp. VIII 568b. In 383c sono invece i futuri phylakes della città a dover diventare, per quanto umanamente possibile, theioi. Cfr. inoltre qui n. 29. 17 llÉ-ta 'tElCllTJPlOV. L'espressione è diffusa nei testi medici: cfr. ad esem­ pio Aer. 20 (per la particolare presenza di quest'opera in Resp. II-III cfr. qui [M)), VM 17. Tekmerion vale «prova indiziaria», ed è quindi termine diffuso, 16

1169 (cfr. Introduzione al libro

oltre che nell'argomentazione semiotica dei medici, anche in quella giudizia­ ria (cfr. ANTIPHO II 4.10, ls. IV 12, VIII 6). 18

iBiçt: la sfera del privato è quella elettiva dell'ingiustizia, mentre la giu­

stizia (in virtù del patto sociale dettato dalla reciproca paura) può vigere nella dimensione pubblica . La soppressione del privato, o almeno la sua armoniz­ zazione con il pubblico, è naturalmente uno degli assi portanti del progetto della

Repubblica.

LIBRO II

33

Qual' è allora la contrapposizione? Questa: non togliamo nulla dall'ingiustizia dell'ingiusto, né dalla giustizia del giusto, bensì poniamo l'uno e l'altro al limite estremo19 delle rispettive forme di vita. In primo luogo dunque l'ingiusto agisce alla maniera dei sagaci professionisti:20 come un abile pilota o un medico perce­ piscono ciò che nella loro tecnica è impossibile e ciò che è possibile, e a questo pongono mano, mentre lasciano perdere il re-

[361a]

sto, e se tuttavia in qualcosa falliscono, sono capaci di rettificare l'errore- così anche l'ingiusto non venga scoperto mentre intraprende in modo corretto le sue ingiuste imprese, se dev'essere rigorosamente ingiusto. Chi venga colto sul fatto sia considerato uomo dappoco: l'estrema ingiustizia consiste nel sembrare giusto non essendolo. Si conceda dunque a chi è per­ fettamente ingiusto la più perfetta ingiustizia, e nulla si tolga bensì si consenta che compiendo le maggiori ingiustizie egli si procuri la maggiore fama di giustizia, e che, se tuttavia fallisce in qualcosa, sia in grado di rettificare l'errore, essendo capace tanto di parlare in modo persuasivo, se viene accusato per uno dei suoi atti ingiusti, quanto di usare violenza nelle situazioni che richiedono violenza, grazie sia al coraggio e alla forza sia alla disponibilità di amici e di sostanze. Posto un uomo siffatto, il nostro argomento gli metta di fronte il giusto- un uomo semplice e nobile, che voglia, secon19 Teleon: comincia qui il ragionamento al limite di Glaucone (dr. escha­ te, teleos, in 36la4-5). n ragionamento fa ampiamente uso del linguaggio del­ l'assiomatica geometrica (cfr. doteon, aphaireteon, eateon in 36la). Per questa forma di argomentazione, e la sua ascendenza trasimachea, dr. qui [A], § l e

n. 24. 2Q

5tlVOÌ &!J.noopyoL L'efficacia tecnica esente da errore e priva di quali­ dei­

ficazioni morali era stata teorizzata da Trasimaco in I 340d-e (sul termine

nos cfr. commento al I libro, n. 30). L'osservazione seguente sui medici richia­ il testo iatrosofistico de Arte: compito della medicina è «liberare i malati dalle sofferenze [. ] e non curare chi è ormai sopraffatto dal male, sapendo che questo non può farlo la medicina» (cap. 3, dr. 8). ma da vicino

. .

[b]

34

PLATONE, LA REPUBBLICA

do Eschilo/1 non sembrare, ma essere buono. Va certo tolto il [c]

sembrare: perché se sembrasse giusto, gli verrebbero tributati onori e doni in ragione di una tale apparenza, e dunque non risulterebbe chiaro se egli sia giusto in vista della giustizia op­ pure dei doni e degli onori. Sia allora denudato22 di tutto salvo che della giustizia e si renda la sua condizione opposta a quella dell'altro: non commettendo alcun atto ingiusto abbia fama della più grande ingiustizia, in modo che venga messa alla pro­ va la sua determinazione a non piegarsi riguardo alla giustizia neppure in seguito alla cattiva fama23 e alle sue conseguenze.

[d]

Vada invece inflessibile fino alla morte, sembrando ingiusto per tutta la vita ed essendo invece giusto, sicché, giunti en­ trambi al limite estremo, l'uno della giustizia, l'altro dell'ingiu­ stizia, si possa giudicare quale dei due sia più felice» [C]. «Ehilà, dissi io, amico Glaucone, con quanta forza hai ri­ pulito ognuno dei due uomini, come se fosse una statua,24 per sottoporlo al giudizio!». «Per quanto posso», rispose. «Ma tali essendo, non è più per nulla difficile, credo, percorrere col discorso il tipo di vita 21

8ÉÀ.El.

A. Th. v. 592 (detto di Anfiarao): où yà.p OolCEtv iiptatoç, àì..ì..'dvcu

22 Gymnoteos: viene qui richiamato il denudamento dell'anima voluto da Zeus per sottoporla al giudizio nell'Ade (Gorg. 523c). Nell'ottica politica di Glaucone questo denudamento produce però l'effetto opposto: la giustizia, da sola, non viene premiata bensì atrocemente punita. Il rapporto tra virtù e "uomo nudo" (cioè privato dagli orpelli sociali) era destinato a diventare un topos nello stoicismo: dr. per esempio SEN. De ben. III 18. n basanizein di 361c5 è termine che designa correntemente l'interrogatorio degli schiavi sotto tortura. 2' Kakodoxia: è difficile qui non pensare alla "cattiva fama" come effetto di quella calunnia (diabole) di cui Socrate si proclama vittima in Apo/. 19a a opera in primo luogo di Aristofane. Per l'adombramento della vicenda socra­ tica in questi passi, cfr. qui [C]. 24 Le statue perfettamente rifinite stanno qui a indicare l'artificialismo dell'argomentazione di Glaucone, che è tipico del suo gusto "geometrico" per il ragionamento al limite (cfr. n. 19 e [A],§ 1). In VII 540c è a sua volta Glaucone che definisce Socrate «scultore» per il suo ritratto dei filosofi-re.

LIBRO Il

35

che attende l'uno e l'altro. Diciamolo dunque, e se anche il lin-

[e]

guaggio fosse un po' troppo brutale, non pensare, Socrate, che sia io a parlare, ma coloro che apprezzano l'ingiustizia più delIa giustizia. Questo diranno: che se tale è la condizione del giusto, egli sarà frustato, torturato, incatenato, gli si bruceranno gli occhi, e fmalmente, dopo aver sofferto ogni male, verrà im­ palato25- e saprà che quel che bisogna volere non è essere giusti, ma sembrarlo. Quel detto di Eschilo sarebbe allora molto più corretto ri­ ferirlo all'ingiusto. Diranno infatti che è in realtà l'ingiusto - in quanto perse­ gue una condotta attinente alla verità e non vive in funzione dell'opinione26- a voler essere, non sembrare ingiusto,

2'

L'antecedente più diretto

di questo passo è Gorg. 473c, dove secondo

Polo chi viene sorpreso a tramare contro la tirannide «è torturato, mutilato, accecato col fuoco e[ ...] alla fine viene crocifisso e bruciato nella pece» (trad. Nonvel Pieri): Socrate si dichiara significativamente atterrito da questa de­ scrizione.

I supplizi qui indicati sono attribuiti da Erodoto alle consuetudini

barbariche dei Persiani: per la cauterizzazione degli occhi con lame ardenti cfr. VII 18; per il supplizio del palo

I 128, III 133, III 159,

IV 43, IX 78 (dove

è inflitto al cadavere di Leonida). Questo supplizio è tuttavia menzionato già

in

Od. XXII 171 sgg ., ed esso doveva essere ben noto anche ad Atene, se è

vero che all'impalamento del nostro passo e alla crocifissione del Gorgia può venire assimilato l'apotympanismos che è stato archeologicamente documen­ tato al Falero (cfr. E. CANTARELLA, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Milano 1991, pp. 41 sgg.). Questa esposizione al palo, finché ne seguisse la morte, era inflitta ai kakourgoi (e si veda l'accusa di kakourgia mossa da Tra­ simaco a Socrate in 341b, con la n. 39 nel commento al libro

1). Di fronte a

questi supplizi inflitti a schiavi, traditori e malfattori, la morte per cicuta rap­ presentava senza dubbio un privilegio sociale e una forma di esecuzione "discreta", inflitta ad avversari politici e intellettuali (dr. E. CANTARELLA, op.

cit., pp. 115-16). Sul tema si veda in generale AA.W., Du chatiment dans la cité, Ecole Française de Rome 1984. 26

tép ovn ... tòv iilìucov ... àÀ.n9daç tX011Evov �eaì. o-ù npòç Ml;av

çrovta. Glaucone capovolge qui pesantemente il linguaggio etico-antologico di Platone (cfr. per questo

I 347d4 e n. 52 nel commento al libro 1): è qui l'in­

giusto radicale e coerente a seguire la verità contro l'opinione, determinato

[362a]

36

PLATONE, LA REPUBBLICA

da solco profondo frutti ricavando nel campo di una mente [b]

onde germogliano accorti pensieri:27 in primo luogo esercitare il potere nella città grazie alla sua re­ putazione di giusto, poi prender moglie da qualsiasi casa lo vo­ glia, dare le figlie in spose a chi vuole,28 aver rapporti e relazio­ ni con chi desideri, e inoltre trar vantaggio in ogni circostanza profittando del fatto che non ha alcun ritegno nel commettere ingiustizia. Entrando dunque in qualsiasi conflitto, privato o pubblico, ha la meglio e sopraffà gli avversari, e sopraffacen-

[c]

doli si arricchisce, benefica gli amici e danneggia i nemici, e agli dèi celebra sacrifici e dedica offerte in modo adeguato e magnifico, rendendo agli dèi e agli uomini che abbia prescelto servigi molto migliori dell'uomo giusto, sicché verosimilmente gli spetta anche di esser più di quello caro agli dèi.29 Tanto mi­ gliore, sostengono, Socrate, è la vita che dagli dèi è riservata al­ l'ingiusto rispetto a quella del giusto». com'è a essere in realtà ingiusto e a sembrare al tempo stesso giusto, per otte­ nere i vantaggi di entrambe le posizioni. A.

27

Th. vv. 593-94 (trad.

F. Ferrari): i versi, riferiti sempre ad Anfiarao,

seguono quello citato a n. 21. Platone aveva certamente sott'occhio

il testo

scritto della tragedia. Mentre in 360c Glaucone aveva alluso alla liceità per l'ingiusto potente

28

di possedere anche con la violenza qualunque donna volesse (un uso già attri­ buito al tiranno in HDT. III 80.5), qui invece (come più oltre Adimanto in 363a) egli si riferisce alla politica di alleanze matrimoniali perseguita dalle grandi famiglie dell'oligarchia e dagli stessi tiranni. Emblematico in questo senso

il matrimonio di Pisistrato con la figlia dell'alcmeonide Megacle (cfr.

HDT. I 61, e ArusT. A. 14.4); successivamente lo stesso Pisistrato sposò l'argi­ va Timonassa, imparentata con i Cipselidi (ArusT. A. 17.4). Sulla questione cfr. L. GERNET,

Mariages de tyrans,

in AA.VV.,

Hommage à

L.

Febvre, Paris

1953, vol. II, pp. 41-53.

Theophilesteros: Glaucone rovescia qui la tesi dell'amicizia fra il giusto D passo riattiva molti temi discussi nel libro 1: il p/eonektein vincente dell'ingiusto (362b7, e cfr. qui n. 12), e la 29

e gli dèi sostenuta da Socrate in I 352b.

possibilità di favorire gli amici e danneggiare i nemici in cui Polemarco aveva ravvisato la definizione stessa di giustizia (cfr. commento al libro I,

[E]). Si

LIBRO II

37

Quando Glaucone ebbe detto questo, io avevo in mente di

[d]

replicare qualcosa, ma suo fratello Adimanto [DJ disse: «Non penserai, Socrate, che si sia detto abbastanza sul nostro argo­ mento?». «Ma che altro?», dissi. «Non si è detto, rispose, proprio quello che soprattutto bi­ sognava dire». «Ebbene, dissi io, c'è il detto che il fratello assi­ ste il suo uomo [E] :30 dunque anche tu, se questo ha omesso qualcosa, aiutalo. Eppure, per quanto mi riguarda, già quel che ha detto è sufficiente ad atterrarmi e a rendermi impossibile di portar soccorso alla giustizia».31 E lui: «Parli a vuoto, disse. Ma ora ascolta anche questo.

[e]

Bisogna infatti che noi analizziamo anche i discorsi opposti a quelli di cui egli ha parlato, quelli cioè che lodano la giustizia e biasimano l'ingiustizia, in modo da render più chiaro ciò che secondo me Glaucone vuoi dire. Dicono dunque e raccomandano i padri ai figli,32 e chiunque si prenda cura di qualcuno, aggiunge il vantaggio di poter celebrare sacrifici sontuosi, che verrà ripreso da Adimanto (cfr. qui [D]). L'avverbio J.LE"'fUÀoltpExéòç, usato a questo proposito da Glaucone, rinvia alla virtù della magnificenza (megaloprepeia), analizzata da Aristotele in EN IV 4-5 (in particolare per quanto riguarda i sacrifici cfr. 1122b 20 sgg.). '0

Per una vaga assonanza del proverbio cfr. Od. XVI 97 sg.: «oppure la

colpa è dei fratelli, nei quali pure si dovrebbe aver fede quando nasce una grande contesa>> (trad. M.G. Ciani: Odisseo a Telemaco). H

Katapalaio appartiene al lessico della lotta, ciò che conferma il caratte­

re agonale della discussione dialettica in Platone (per l'analogo linguaggio militare, cfr. commento al libro I, [C]). Boethein vale spesso «portar soccor­ so» nel senso concettuale di offrire un fondamento all'argomentazione, come ha sostenuto T.A. SzLEZAK, Platone e la scrittura della filosofia (1985), trad. it. Milano 1988; ma per il tema dell'aiutante cfr. qui [E]. '2

K.F. MooRS, op.cit. (n. 7), pp. 81-83, 114, ha messo in luce l'insistenza

della Repubblica sulle relazioni familiari di padre/figlio e di fratelli (per esem­ pio Cefalo/Polemarco, Aristone-Trasimaco/Glaucone-Adimanto, Museo/Eu­ molpo), che spesso assumono come in questo passo un valore educativo rile­ vante. Questo offre, per contrasto, lo sfondo alla necessità che verrà teoriz­ zata più avanti di sopprimere la struttura dell'oikos e di trasferirne il ruolo educativo alla comunità politica. Cfr. anche l'analisi di E. AvEZzù l/lessico ,

[363a]

38

PLATONE, LA REPUBBLICA

che si deve esser giusti, non lodando la giustizia in sé, ma la buona reputazione che ne deriva, tanto che a chi sembra esser giusto vengono concessi, grazie a questa fama, cariche e matri­ moni e quanto altro Glaucone enumerava poco fa, che toccano al giusto per la sua buona reputazione. Ma questi sostengono che le conseguenze della fama vanno anche oltre. Adducendo la buona reputazione presso gli dèi, possono parlare dei beni copiosi che gli dèi, dicono, concedonb benevolmente agli uo­ mini pii:33 così affermano sia il nobile Esiodo sia Omero.34 Il

[b]

primo dice che per i giusti gli dèi fanno sì che la quercia in cima produce le ghiande, in mezzo porta le api; e le greggi lanose, dice, le opprime il vello pesante,

e concedono inoltre molti altri beni affini a questi. Similmente anche l'altro, che dice infatti: [fama di te sale al vasto cielo] come d'un re perfetto, che, pio verso i numi, alla giustizia è fedele: porta la terra nera

[c]

grano e orzo, piegano gli alberi al peso dei frutti, figliano senza sosta le greggi, il mare offre pesci.

della parentela in Platone, in E. AVEZZù-0. LONGO (a cura di), Koinon aima, Bari 1991, pp. 179-203. JJ

Hosios, qui nd senso consueto di chi «si prende cura» o «rende servi­

zio» (therapeia) agli dèi (cfr. Euth. 12e). A 363d1 il termine vale invece, in lin­ guaggio orfico, «santi» o «iniziati». 14

Esiodo e Omero «sono coloro che hanno composto per i greci una teo­

gonia e hanno dato i nomi agli dèi, dividendo gli onori e le prerogative e indi­ cando il loro aspetto»: HDT. II 53.2. Per le citazioni seguenti, cfr. HES. Op. vv. 232 sg. (trad. Arrighetti), e HoM. citate sono sempre

di

Od.

XIX 109-113 (le traduzioni omeriche

R. Calzecchi Onesti salvo indicazione diversa). In que­

sto secondo testo, Platone omette

il v. 110 («su molti e forti uomini regna»):

una delle molte manipolazioni che confermano come Platone impiegasse pro­ babilmente

un

testo scritto di Omero.

39

LIBRO II

Museo e suo figlio3' concedono ai giusti da parte degli dèi beni ancor più splendidi di questi:36 li guidano infatti col loro discorso presso Ade, apprestando per loro un simposio dei santi, dove giacciono inghirlandati, e di qui in poi li fanno passare tutto il tempo bevendo, giacché ritengono che il più bel compenso per la virtù sia una sbronza eterna. Ma altri estendono ancora al di là di questi i compensi ricevuti dagli dèi: figli dei figli, dicono, e un'intera stirpe rimane dopo di lui dell'uomo santo e fedele ai giuramenti. Queste ed altre simili cose adducono ad encomio della giu­ stizia. Al contrario, seppelliscono gli empi e gli ingiusti nelle fangose profondità di Ade e li costringono a portar acqua in un setaccio,37 e finché ancora vivono li espongono all'infamia; tut-

}�

Si tratta di Eumolpo. Per le testimonianze e il significato di questa di­

scendenza in ordine al rapporto fra orfismo e misteri eleusini cfr. A. MASA­ RACCHIA, Orfeo e gli or/ici in Platone, in Io. (a cura di), Orfeo e l'or/ismo, Ro­

ma 1993, pp. 180 sg. }6

Inizia qui un attacco violentemente sarcastico all'orfismo diffuso. Se­

condo Shorey, vwvucrotepa («splendidi») è già «humorous and depreciative» (cfr. VIII 563e). Il passo è fitto di riferimenti letterari: yÉvoç Kat6ntcr9Ev M:inecr9at (363d5 sg.) riecheggia HEs. Op. 284 (yEVEll11Et6mcr9E ì..ÉÀ.emtm) (cfr. anche HoM. Il. XX 308); euorkos, ivi 285 (per lo spergiuro, epiorkos, v. 283, cfr. anche EMP. DK B115 v. 4). Sul banchetto dei beati cfr. F. GRAF,

Eleusis und die orphische Dichtung in vorhellenistischer Zeit, Berlin-New York 1974, pp. 98 sgg. La corona di ghirlande (363c6), tipica dei rituali misterici, è ripresa in un rovesciamento ironico in VIII 560d-e, dove l'anima è "purifica­ ta" dalle virtù e

il vizio incoronato: cfr. E. DEs PLACES, Platon et la langue des

mystères, in Etudes platoniciennes, Leiden 1981, pp. 83-98. Si veda in genera­ le qui [D]; cfr. anche A. BoRTOLOTTI, La religione nel pensiero di Platone dalla

Repubblica agli ultimi scritti, Firenze 1991, pp . 10 sgg . H

Si tratta di punizioni tipicamente orfico-eleusine: per la fangosa palude

dell'Ade cfr. AR. Ra.

vv.

143 sgg . ; in contesto orfico PLAT . Phaed. 69c (per una

metafora in ambito conoscitivo, si veda anche il borboros barbarikos in Resp. VII 533d). In D .L. VI 39, Diogene cinico rifiuta l'iniziazione eleusina perché trova ridicola (geloion) l'idea che Agesilao ed Epaminonda possano esser sepolti

Év tep j3opi3Qpcp, mentre gente dappoco risiede nelle isole dei beati in ll setaccio è pena mitica delle Danaidi, che Platone at-

virtù dell'iniziazione.

[d]

40

[e]

PLATONE, LA REPUBBLICA

te quelle punizioni che Glaucone elencava per i giusti conside­ rati però ingiusti, essi le attribuiscono agli ingiusti, senza poter­ ne trovare altre. Questi dunque la lode e il biasimo di entrambe le forme di vita. Ma oltre ad essi esamina, Socrate, ancora un altro tipo di discorsi sulla giustizia e l'ingiustizia, che vien detto sia dai pri-

[364a]

vati sia dai poeti.38 Tutti a una voce inneggiano che la modera­ zione39 e la giustizia sono cosa bella, ma difficile e penosa,40 mentre l'intemperanza e l'ingiustizia sono dolci e di agevole acquisto, e vergognose soltanto agli occhi dell'opinione e della leggeY Dicono che le condotte ingiuste sono per la gran parte più vantaggiose di quelle giuste, e sono pronti senza soverchi scrupoli, in pubblico e in privato, a considerare felici e ad ono­ rare i malvagi ricchi e comunque potenti, a disprezzare invece, guardandoli dall'alto in basso, coloro che in un modo o nell'al-

[b]

tro siano deboli e poveri, pur convenendo che essi sono miglio­ ri dei primi. Ma di tutti questi discorsi i più sorprendenti sono quelli che fanno sugli dèi e sulla virtù, sostenendo che gli dèi stessi hanno dato in sorte a molti uomini buoni sventura e una catti­ va vita, e a chi è loro contrario una contraria sorte.42 Preti mentribuisce all'Ade in

Gorg. 493b. Su queste punizioni dr. A.

MASARACCHIA,

op.

cit. (n. 35), p. 185. '8

ferma

Questa distinzione tra il discorso privato (iOtl,l) e quello poetico con­ il valore pubblico (perciò formatore di opinione) riconosciuto al secon­

do: cfr. nello stesso senso 366e. '9

Sophrosyne: si tratta di un termine centrale del lessico etico e politico

del V e IV secolo, spesso reso con ne; o\JvaJ.nc; imapxEl wuxiìç iì OOOJ.latoc;) corrisponde 104a2-4 (1:à yàp imapxovta a ot J.ltyaÀa dvat [ ... ] axò tOU OOOJ.latoç ap/;aJ.lEVa tEÀEUtéÌ>vta Eiç titv 'lf\lxflv). Ai chremata di 366c2 corrisponde ta plousia di 104cl; al genos (ivt) il neanikotaton genos di 104a6. Su Alcibiade si veda anche qui [A],§ l. alla figura di Alcibiade delineata da Socrate in

57

La theia physis è quella di giovani come Glaucone e Adimanto (cfr.

368a), la cui buona dotazione morale fa sì che si mantengano giusti pur tro­ vando razionalmente inconfutabile illogos dell'ingiustizia. "Vepisteme è allora quella di Socrate: non certo la conoscenza dell'idea del bene, impensabile a questo livello del dialogo, bensì la «Scienza del bene e del male» di Charm. 174c e di Pro/. 352c. Potrebbe essere suggestivo (ma azzardato) leggere inol­ tre tra le righe del passo l'attribuzione della "natura divina" a Socrate, visti i fallimenti delle sue dimostrazioni denunciati in 367a, d; l'uomo "epistemico" sarebbe allora lo stesso Platone. 58

Adimanto riprende qui la tesi di Glaucone sulla genealogia della mora­

le a partire dall'impotenza (sulla adynamia come origine della giustizia cfr. Callide in Gorg. 492a).

È interessante notare che secondo Platone si diventa

filosofi per analoghe debolezze sociali o fisiche: resiste alla corruzione am­ bientale solo chi è esule dalla propria città, o vive in una smikra polis, o anco­ ra, come Teage, è malaticcio

(VI 496b-c).

[d]

46

[e]

PLATONE, LA REPUBBLICA

dinario, di tutti voi che vi proclamate laudatori della giustizia, cominciando dagli eroi delle origini'9 i cui discorsi sono stati tramandati, fino agli uomini di oggi, nessuno ha mai biasimato l'ingiustizia né lodato la giustizia se non in vista della fama, degli onori, delle ricompense che ne derivano. Ma quanto alla specifica potenzialità dell'una e dell'altra in se stesse, quando siano presenti nell'anima di chi le possiede- anche se sfuggo­ no tanto agli dèi quanto agli uomini- nessuno mai, né in poe­ sia né nei discorsi privati, ha adeguatamente argomentato che l'una è il maggiore fra i mali che l'anima ha in sé, mentre la giu­ stizia è il maggiore dei beni. Perché se questo venisse detto da

[367a]

voi tutti fin dal principio,60 e ci convinceste fm da giovani, non ci sorveglieremmo a vicenda per vedere se non commettiamo ingiustizia,61 bensì ciascuno sarebbe il miglior guardiano di se stesso, temendo che, nel commettere ingiustizia, egli finisse con l'ospitare il peggiore dei mali. Questo, Socrate, e forse anche qualcosa di più potrebbero dire sulla giustizia Trasimaco e qualcun altro, invertendo bru­ talmente, per quanto sembra a me, la rispettiva efficacia. Io

[b]

però- non ho bisogno di nasconderti nulla- sto parlando con il maggior impegno possibile perché desidero ascoltare da te la tesi contraria. Non limitarti dunque a sostenere che la giustizia è superiore62 all'ingiustizia, ma mostraci, in base agli effetti che entrambe di per se stesse producono su chi le possiede, che '9

In questi «eroi» antichi ADAM,

altri poeti e profeti figli 60

ad loc., riconosce Orfeo, Museo, e gli

di dèi di 366b.

Ex arches: Adirnanto anticipa qui la necessità che l'educazione morale

inizi già nella prima infanzia, come verrà sostenuto più avanti nd programma

op. dt. (n. 7), pp. 103 sg. o'Ùtc uMittOJ!EV JllJ àattcEiv. L'espressione non signifi­ ca tanto «ci impediamo a vicenda di commettere ingiustizia», bensì indica il reciproco sospetto di tramare segretamente in vista della pleonexia. Sul «so­ spetto» (hypopsia) nei rapporti quotidiani cfr. TH. II 37.2. 62 Kreitton: Adimanto rimette esplicitamente in questione le conclusioni educativo di 377a sgg. Cfr. in proposito K.F. MooRS, 61

del libro I, 350c sgg.

LIBRO II

47

l'una è un male, l'altra un bene. Ma prescindi dall'opinione, come Glaucone raccomandava. Perché se non sottrarrai da en­ trambe le opinioni vere, e non vi aggiungerai invece quelle false,63 noi diremo che tu lodi non il giusto ma il sembrar giusto, e non·biasimi l'essere ingiusto ma il sembrarlo, e che ci esorti ad

[c]

essere ingiusti in segreto, convenendo così con Trasimaco che il giusto è un bene altrui (cioè l'utile del più forte), mentre l'in­ giustizia è utile e vantaggiosa per se stessi, nociva invece per il più debole. Visto dunque che concordavi che la giustizia fa parte dei beni maggiori, quelli che sono degni di essere posseduti per le conseguenze che ne derivano ma molto più di per se stessi (ad esempio vista, udito, intelligenza, e certo salute, e quanti altri

[d]

beni sono fecondi per loro stessa natura, non per l'opinione), elogia dunque la giustizia proprio per ciò in cui di per se stessa giova a chi la possiedé4 e l'ingiustizia nuoce; e lascia invece ad altri le lodi dei compensi e della buona reputazione. Quanto a me, potrei accettare che altri lodino la giustizia e biasimino l'ingiustizia in questo modo, elogiando e deplorando le rispettive reputazioni e ricompense, ma non che lo faccia proprio tu, se non me lo imponi, poiché hai trascorso l'intera vita ricercando nient'altro che questo.65 il significato dell'espe­ di negare al giusto e al­ l'ingiusto le rispettive reputazioni "vere" (cioè di essere il primo giusto, il se­ condo ingiusto), e di attribuire loro reputazioni false (al giusto di essere ingiu­ M Le traduzioni non sempre rendono esattamente

rimento intellettuale proposto da Adimanto. Si tratta

sto, all'ingiusto di essere giusto). Solo con questo esperimento limite la valu­ tazione 64

di giustizia e ingiustizia potrà prescindere dalle convenzioni sociali. o aùtT, lìt'autT,v tòv [xovta

Tout'o1'>V aùtò È1taiveaov lìucatom>vTtc;,

òviVTt>). Lo scopo di questa associazione è I'autarkeia, l'autosufficienza

economica (cfr. 369b6). Questo carattere fondamentale sarebbe stato attribuito

51

LIBRO II

«Ma fanno scambi reciproci, dando o ricevendo qualcosa, ciascuno nella convinzione che questo sia meglio per lui?». «Senz' altro». «Su dunque, dissi, costruiamo nel discorso una città fin dal principio;69 però a farla, a quanto pare, sarà il nostro bisogno». «Come no?». >, lui disse. «Non tollereremo allora, io dissi, che coloro di cui soste­ niamo di prenderei cura perché diventino uomini buoni, imiti­ no - loro uomini - una donna, giovane o vecchia, nell'atto di insultare il marito o di sfidare esaltata gli dèi nella convinzione di esser felice, o al contrario travolta dalla sventura e in preda al pianto e al lamento; e meno che mai ammalata o innamorata o nel travaglio del parto».73 «Assolutamente», disse. «E neppure schiave e schiavi intenti ai loro lavori servili». «Neppure questo». «E certo, mi sembra, neppure uomini cattivi, vili e che agi­ scono nel modo opposto a quello di cui abbiamo appena parla72

MlJ.UOUpyoÙç ÈÀE'IJ9Ep{aç. n difensore è dunque l'artigiano specializza­

tO nella protezione dell'indipendenza della città: con una significativa ripresa del paradigma tecnico, la polis diventa il manufatto proprio del phylax (cfr. in questo senso S. BERNADETE, Plato's second Sailing, Chicago 1989, p. 57). 71

in Ra.

L'attacco è rivolto alle tragedie di Euripide (al quale Aristofane fa dire vv.

1043 sg.: «parlavano tutti nella mia tragedia, donna o schiavo che

fossero, padrone, ragazza o vecchia, non importa!»; perciò Euripide rivendica la propria vocazione di "poeta democratico"). n comportamento sconvenien­ te di donne e folli in Euripide è riscontrabile in tragedie come Fedra (citata nelle Rane), Eracle, Aiace, Baccanti. Secondo uno scolio a Ra. 1080 Euripide avrebbe rappresentato il travaglio di Auge in un tempio.

[e]

106

PLATONE, LA REPUBBLICA

to -ingiuriandosi e schernendosi a vicenda e abbandonandosi [396a]

al turpiloquio, ubriachi o sobri che siano, e così via per tutto ciò di cui uomini siffatti si rendono colpevoli sia verso se stessi sia verso gli altri con le parole e le azioni; e penso che neppure debbano abituarsi ad identificarsi con i pazzi: perché bisogna sì conoscere pazzi e uomini malvagi e donne, ma non compiere né imitare nulla che sia loro proprio». «Verissimo», disse. «Quanto poi, dissi, ai fabbri e agli altri artigiani, ai remato­

[b]

ri delle triremi e a chi batte loro il tempo, e ad altre simili man­ sioni, se ne dovrà fare l'imitazione?». «E come, disse, visto che ad essi non sarà neppure consen­ tito di volgere la mente a nulla del genere?». «E poi? cavalli nitrenti e tori muggenti e fiumi scroscianti e mare rombante e tuoni e quant'altro vi sia di tal fatta7� -li imi­ teranno?». «Macché. È proibito loro, disse, di esser pazzi e di identifi­ carsi ai pazzi». «Se dunque, dissi, capisco quel che vuoi dire, c'è una forma di espressione narrativa secondo la quale condurrebbe la sua narrazione l'uomo realmente provvisto di eccellenza morale,

[c]

quando sia per lui opportuno raccontare qualcosa; e c'è un'altra forma diversa da questa, di cui sembra si servirebbe nelle sue narrazioni l'uomo opposto a quello per nascita ed educazione».75 «Quali sono queste forme?», chiese. «Mi sembra, dissi, che l'uomo capace di misura, quando giunge a raccontare un discorso o un'azione di un uomo buo;4

Per l'uso dei suoni onomatopeici in teatro cfr. qui [H], § Il. l. Alcuni di

questi effetti erano probabilmente ottenuti con apposite macchine teatrali (per le quali cfr. anche 397a). n

> (cfr. HDT. IX

34.1, TH.

VI

104.2), dunque "corpo dei cittadini" della polis. Il rapporto

fra forma costituzionale ed estensione del diritto di cittadinanza è ampiamen­ te discusso nei libri III e IV della Politica di Aristotele, mentre questo proble­ ma non ha rilievo nella Repubblica, dove la cittadinanza coincide con l'insie­ me degli abitanti della polis, e si tratta invece di organizzarne la stratificazione funzionale e di potere.

Al tempo di Platone, Politeia era comunque il titolo di

una serie consolidata di opere di carattere politico-costituzionale, che andava dalla più antica Costituzione degli Ateniesi dello pseudo-Senofonte (uno scrit­ to oligarchico secondo alcuni risalente agli anni intorno al

440, secondo altri

attribuibile a Crizia), fino alla raccolta di Politeiai composta da Aristotele e dalla sua scuola, di cui ci è pervenuta una Costituzione di Atene. Sulla questio­ ne si veda ora G. MADDOLI (a cura di), L'Athenaion Politeia di Aristotele 1981-1991, Perugia

1994;

la pensée grec­ 1982 (per Platone pp. 385 sgg.). La traduzione

in generale,]. BoRDES, Politeia dans

que jusqu'à Aristate, Paris

«Repubblica» è doppiamente inadeguata, perché si tratta di un calco impro­ prio (possono evidentemente esistere costituzioni monarchiche) del latino Respublica, che a sua volta traduce non tanto politeia quanto polis.

È comun­

que d'obbligo mantenere il titolo tradizionale, anche perché «costituzione» ha per i moderni il senso formale di un insieme di leggi fondamentali organi­ camente codificate, cosa estranea alla società greca.

[e]

PLATONE, LA REPUBBLICA

110

il calzolaio, il contadino contadino e non giudice oltre che con­ tadino, e il combattente combattente e non affarista oltre che combattente, e così via?».81 «Vero», disse. «Un uomo dunque, a quanto pare, capace per una sua sa-

[398a]

pienza di trasformarsi in ogni sembianza e di imitare tutte le cose82 - se venisse in città da noi volendosi esibire con i suoi poemi, ci prosterneremmo davanti a lui come persona sacra e ammirevole e gradevole, ma gli diremmo che non esiste nella nostra città

un

uomo siffatto e neppure è lecito che vi soprag­

giunga, e, cosparsogli il capo di mirra e incoronatolo di bende, [b]

lo manderemo via verso un'altra città. Noi però ci varremo, per giovarcene, di un poeta e di un narratore di miti più auste­ ro e meno piacevole, il quale ci imiti le forme espressive del­ l'uomo valente e modelli i suoi discorsi secondo le tracce che fin dall'inizio abbiamo legiferato,83 quando abbiamo intrapre­ so l'educazione dei soldati».84 «Faremmo di sicuro così, se stesse in noi», disse. «Ormai, dissi, amico, c'è il caso che abbiamo portato del tutto a termine la discussione della musica, per quanto riguar81

Platone attacca qui duramente non solo l'elegante versatilità propria

dell'ideale di uomo ateniese delineato dal Pericle tucidideo

autòv èivopa ... ÈltÌ ltÀ.Etcrt'iiv El01l

(Il 41.1: tòv •mi JlEtà xapitrov JlaÀ.tcrt'iiv EUtpaltÉÀ.o>ç

tò créòJ.la aìhapKEç xapÉxecr9at), ma la struttura stessa di quella società, in cui era appunto normale e necessario che gli artigiani servissero nella flotta, così come i contadini nei tribunali; quanto ai militari «crematisti», Platone può pensare ai guadagni degli strateghi spesso satireggiati da Aristofane (cfr. n. 49 al libro 1), e all'intraprendenza economica dei generali del

IV secolo, come

Timoteo. 82

Torna qui, dopo la lunga analisi delle forme di imitazione accettabili

per i

phylakes, la vera e propria figura del poeta; per la sua messa al bando, che allude in parte al rituale del pharmakos, cfr. qui [H],§ Il. l. 83 Per i typoi delle leggi sulla poesia cfr. 11379a sgg. 84 Stratiotai: i phylakes mantengono fin qui un profilo solo militare, e non di governo, come comincerà invece a risultare verso la fine del libro (cfr. 414a-b e n.

140).

111

LIBRO III

da sia i discorsi sia i racconti: si è esposto infatti quel che biso­ gna dire e come bisogna dirlo». «Pare anche a me», disse. «E dopo questo, dissi io, non resta la questione del canto

[c]

melodico?». «È chiaro». «Ma a questo punto non sarebbe capace chiunque di sco­ prire ciò che dovremmo dire su quali abbiano ad essere le loro caratteristiche, se intendiamo esser coerenti con le nostre pre­ messe?». E Glaucone, mettendosi a ridere, disse: «lo però, Socrate, temo di essere escluso da questo 'chiunque'; non sono proprio in grado al momento di inferire che cosa mai dovremmo dire. Però lo sospetto». «È certo comunque, dissi io, che su questo primo punto sei in grado di esprimerti: il canto è composto di tre cose, parole, armonia e ritmo».8' «Sì, almeno questo», disse. «E dunque, per quanto riguarda almeno le sue parole, non c'è alcuna differenza con il discorso non cantato in ordine alla necessità che vengano pronunciate secondo le tracce che ab­ biamo definito poco fa, e in modo simile». «Vero», disse. «Quanto poi all'armonia e al ritmo, devono essere adattati alle parole».86 «Come no?». «D'altronde dicevamo che nei discorsi non c'è alcun biso­ gno di lamenti e di pianti». «No, in effetti».

H5

Per le questioni di teoria musicale discusse in queste pagine cfr. ADAM,

pp. 202-04, e qui

[H],§ II.2. L'educazione musicale proposta da Platone è di­ Poi. VIII 5-7.

scussa, e in parte approvata, da Aristotele in 86

La priorità delle parole rispetto alla musica era un dato arcaico; nel IV

secolo questa priorità venne rovesciata, come accade in epoca moderna per i libretti d'opera. Cfr. ADAM e SHOREY ad loc.

[d]

PLATONE, LA REPUBBLICA

112

[e]

«Quali sono dunque le armonie lamentose? Dimmi, visto che sei un esperto di musica». «La mixolidia, disse, la sintonolidia, e qualche altra simile». «Non sono dunque queste da eliminare? Sono infatti inuti­ li persino alle donne che debbano essere valenti, per non parla­ re degli uomini». «Del tutto, certo». «Per i difensori, ancora, sono quanto mai sconvenienti l'ubriachezza, la mollezza e la pigrizia». «Come no?». «Quali sono dunque le armonie molli e simposiastiche?». «Certe ioniche, disse, e lidie, sono chiamate lasse».

[399a]

«E secondo te, amico, queste sono di qualche utilità per uomini destinati alla guerra?». «Assolutamente no, disse. Ma attenzione, ti restano la do­ rica e la frigia». «Non conosco le armonie, dissi, ma !asciaci quella87 che possa convenientemente imitare i toni di voce di un uomo co­ raggioso impegnato in un'azione di guerra e in ogni impresa cui è costretto - e che, se per una sorte avversa va incontro alle

[b)

ferite e alla morte o è caduto'in qualche altra sventura, in tutti questi frangenti sopporta con fermezza i colpi della fortuna. E poi !asciane un'altra, adatta a chi attende ad un'azione di pace e non compiuta sotto costrizione bensì volontariamente: o men­ tre cerca di convincere qualcuno di qualcosa e lo esorta con la preghiera se è un dio, con l'insegnamento e il monito se è un uomo, o al contrario si mostra aperto alle richieste e agli in­ segnamenti e alle dissuasioni che gli vengono da un altro uo­ mo; e che, avendo in tal modo realizzato le sue intenzioni, non 87

La dorica. «L'altra»

di 399b è di conseguenza l'armonia frigia; Socrate di Glaucone,

preferisce tuttavia non nominarle, !asciandole alla competenza

per non esporsi alle controversie tecniche degli specialisti, e a obiezioni come quella formulata da Aristotele in Poi. VIII 7 1342bl sgg. (l'armonia frigia im­ piega gli effetti passionali dello aulos).

113

LIBRO III

se ne insuperbisca, ma in tutte queste circostanze si comporti con moderazione e misura, accogliendo con soddisfazione gli

[c]

eventi. Queste due armonie - la violenta e la spontanea - che imiteranno nel modo migliore i toni di chi nella cattiva e nella buona sorte è moderato e coraggioso, queste lasciale». «Ma, disse lui, non mi chiedi di lasciare se non proprio quel­ le che dicevo poco fa». «Dunque, dissi, non avremo certo bisogno per i nostri can­ ti melodici di strumenti a molte corde e panarmonici». «A me non sembra», disse. «Allora non daremo di che vivere agli artigiani fabbricanti di trigoni, di pettidi e di tutti gli strumenti a molte corde e po-

[d]

liarmonici». «Non pare che lo faremo». «E poi, accoglierai nella città fabbricanti e suonatori di flauto? O non è questo per eccellenza lo strumento "con molte corde", 88 e gli stessi strumenti panarmonici non si trovano ad essere imitazioni del flauto?». «È chiaro», disse. «Ti restano dunque, dissi io, la lira e la cetra utili in città; poi, per i pastori in campagna, ci sarebbe una sorta di siringa». «Stando almeno, disse, a quel che ci indica il nostro discorSO». «Certo, amico mio, dissi, non facciamo niente di nuovo, giudicando Apollo e gli strumenti di Apollo migliori di Marsia e dei suoi strumenti». «Per Zeus, disse, a me non pare».

811 Lo

aulos è uno strumento a fiato, che solo metaforicarnente può venir

definito polychordos per la sua capacità di produrre molti toni (è infatti defi­ nito pamphonos da PI. O. VII 12). È interessante notare che Platone sostiene nel Fedro (277c) che la retorica debba convincere le anime complesse usando discorsi poikilous e appunto panarmonious; ma nella polis della Repubblica deve prevalere il tipo d'anima "semplice" (haple).

[e]

PLATONE, LA REPUBBLICA

114

«E per il cane, esclamai, senza neppure accorgercene ab­ biamo continuato a purificare la città che poco fa chiamavamo gonfia di lusso». «E ci abbiamo messo tutta la nostra saggezza», disse lui. «Su allora, dissi, purifichiamo anche il resto. Di seguito alle armonie ci sarebbe da affrontare la questione dei ritmi non andare in caccia di quelli variati né di ogni sorta di piedi, ma vedere quali siano i ritmi propri di una vita ordinata e co­ raggiosa; e, dopo averli individuati, obbligare il piede e la me-

[400a]

lodia ad adattarsi al discorso di chi vive in tal modo, non inve­ ce il discorso al piede e alla melodia. Quali però siano questi ritmi, è compito tuo dirlo, proprio come per le armonie». «Ma per Zeus, disse, non so che dire. Che in effetti ci siano tre forme a partire dalle quali si combinano i piedi, così come ce ne sono quattro dei suoni da cui derivano tutte le armonie,89 questo potrei dirlo perché l'ho osservato. Ma non so dire per ognuno di che genere di vita sia imitativo».

[b]

«Ma per queste cose, dissi io, ci consiglieremo anche con Damone,90 su quali siano i piedi convenienti alla meschinità e all'arroganza e alla follia e al resto dei vizi, e quali ritmi si deb­ bano riservare ai loro rispettivi contrari. Penso, ma non ne so­ no sicuro,91 di averlo sentito parlare di

un

piede composto che

eide da cui si formano le baseis (piedi o unità metriche) sono pro­ l'ison (dattilo, spondeo, anapesto), lo hemiolion (peone, eretico), e il diplasion (trocheo, giambo) . I quattro phongoi (suoni, toni vocali) sono H• I tre

babilmente

forse da identificarsi con le note di un tetracordo, oppure con gli intervalli musicali primari 'lO

(2:1, 3:2,4:3, 9:8). Per la questione cfr. ADAM e VITALI ad loc.

Damone, teorico dell'educazione musicale e politico, fu uno dei mag­

giori intellettuali del gruppo pericleo (cfr. anche Lach. 200b, Aie. I 118c, dove viene menzionato con rispetto, al pari che nel nostro passo). Se si prende il testo alla lettera, Damone doveva ancora essere vivo all'altezza della data

Repubblica, cioè negli anni '20 del V secolo . Per l'opera di [H],§ 11.2. Interpreto ou craqKòç non come riferito alla vaghezza di Damone (Shorey,

drammatica della

Damone si veda qui 91

Chambry) ma alla difficoltà di comprensione da parte di Socrate, che a più

LIBRO III

115

chiamava "enoplio", di un "dattilo" e di un "eroico", ecco, che arrangiava non so bene come, eguagliando il "su" e il "giù"92 e con l'uscita sia breve sia lunga; e, a quanto penso, parlava di un "giambo" e chiamava "trocheo" un certo altro piede, e vi adattava le quantità lunghe e brevi. E per alcuni di questi, penso,

[c]

egli criticava o elogiava i tempi del piede non meno dei ritmi stessi (o anche una qualche combinazione di entrambi, non so proprio dire). Ma queste cose, come dicevo, rimettiamole a Damone, perché analizzarle richiederebbe un discorso tutt'altro che breve, non credi?». «lo sì, per Zeus». «Ma almeno questo lo potrai discernere, che la buona e la cattiva grazia dipendono dal buon ritmo o dal cattivo ritmo?». «Come no?». «Ma il buon ritmo e il cattivo ritmo tengon dietro, per assi-

[d]

milazione, l'uno alla bella dizione, l'altro a quella opposta, e così anche l'armonico e il disarmonico, se è vero, come si diceva poco fa, che il ritmo e l'armonia dipendono dal discorso, e non il discorso da loro». «È proprio così, disse lui: devono esser conseguenti al di­ scorso». «Quanto poi al modo dell'espressione discorsiva, dissi, non è forse conseguente al carattere dell'anima?». «Come no?». «E tutto il resto da questa forma della dizione?». «Sì». «Dunque il buon discorso, la buona armonia, la buona grazia e il buon ritmo dipendono da un buon carattere: non si riprese si dichiara incompetente di tecnica musicale, ed è comunque restio a fornire indicazioni precise in questo campo, !asciandole piuttosto a Glaucone e

appunto alla consulenza di Damone. 92

L'enoplio era il ritmo dei canti di marcia; l'eroico corrisponde forse al­

lo spondeo o al eretico, ma può anche venir identificato con l'esametro datti­ lico della poesia epica. I.: espressione . «Ho compreso anche questo, disse, ed è corretto quel che dici».

[c]

«"Vittime di incantesimo" credo che anche tu chiameresti coloro che cambiano opinione per il fascino del piacere o per un terrore dovuto alla paura>>. «Sembra in effetti, disse, che tutto ciò che inganna operi un incantesimo». «Questo è dunque quel che dicevo prima: bisogna esami­ nare quali siano i migliori difensori della loro stessa decisione di dover fare in ogni circostanza ciò che ritengano il meglio per la città. Occorre quindi sorvegliarli fin da giovani proponendo loro quei compiti nei quali si rischia maggiormente di dimenti-

[d]

care quella decisione e di venire ingannati; e si deve selezionare colui che è fermo nel ricordarla e resiste all'inganno, scartare invece chi non si comporta così. O no?». «Sì». «E bisogna esporli a fatiche, sofferenze e competizioni, nel cui corso si dovranno tener d'occhio queste stesse reazioni». «È corretto», disse. «Non occorre poi, dissi, sottoporli anche a una prova di un terzo tipo, quello relativo agli incantesimi, e osservare - pro­ prio come si portano i puledri in mezzo ai rumori e al baccano per vedere se sono paurosi, così bisogna esporre i nostri giova-

[e]

ni a situazioni spaventose, e poi d'altro canto ai piaceri, sag­ giandoli ancor più che l'oro col fuoco- se ognuno di essi appa-

LIBRO III

141

re capace di resistere all'incantesimo e di conservare la sua buona grazia in ogni circostanza, continuando ad essere buon difensore di se stesso e della musica che ha appreso, sì da resta­ re in questi frangenti euritmico e armonioso, tale quindi da po­ tersi rendere in massimo grado utile a se stesso e alla città. E chi, sottoposto a prove da bambino, da ragazzo, da uomo, ne uscirà integro, noi lo insedieremo nel rango di governante e

[414a]

difensore della città, tributandogli onori da vivo e poi da morto, quando riceverà, come suprema onoranza, la sepoltura e gli altri monumenti alla sua memoria. Ma chi non è così va scartato.139 Di questo genere, aggiunsi, Glaucone, mi sembra sia la selezione e l'instaurazione dei governanti e dei difensori, per parlare in linee generali, senza rigore». «Pare anche a me, disse, che sia più o meno così». «Non è allora in verità la cosa più corretta chiamare costoro perfetti difensori140 sia rispetto ai nemici esterni sia rispetto agli amici interni, così che questi non vogliano, quelli non possano far danno, mentre i giovani, che fin qui chiamavamo di­ fensori, vanno piuttosto definiti guardie e aiutanti delle decisioni dei governanti?». 139

Apokriteon: questa clausola ricorre qui per la seconda volta, dopo

413d2, in modo tanto più brusco in quanto segue l'enfatica descrizione degli onori riservati ai prescelti. Si intende comunque che i non selezionati per l'ap­ partenenza al gruppo dirigente diventeranno epikouroi (cfr. 414b e n. 140). 1�0 C'è una notevole enfasi in questa espressione (Wç àÀ.ll600ç op6o•tatov

JCaÀEtv toutouç v) e a violentarmi con il discorso (�1aoao6m téì> À.O'yq>)! SOCRATE Lungi da me provarci! Senti, per non trovarci nella situazione di prima: definisci «colui che comanda e il più forte», se lo dici nell'accezione comune o rigorosa, quel più forte il cui utile do­ vrebbe essere giusto che faccia il più debole. 45

È arduo rendere il gioco tra OUJ.upÉpov e àm)J.upopov: il secondo termi­

ne non significa esattamente inutile, ma svantaggioso. Per di più àou�t)». Allorché il sofista dà la sua risposta, il discorso si intensifi­ ca, e si apre una scena da lazzo di commedia. La risposta è tÒ oix:mov [Èon] tò tou x:pEi't'tovoç Épov OtJC(llOV dval 3) OUJ.lq>Épov dvat 'tÒ Oix:awv 4) Oix:awv ... Èonv 'tÒ 'tOU x:pd't'tovoç v où 1taç .. .

&v rupot) che cosa dobbiamo dire su quest'argomento, solo che ci armonizziamo alla sviolinata di prima? Glaucone, zitto fino ad allora, non ce la /a più e scoppia in una gran risata. GLAUCONE Ehi là, Socrate! Me non mi conti nei «chiunque» (Ktv­ Buvruro ÈIC1:Òç téòv mxvtrov dv at) ? Perché io non ho neanche un'idea

di che cosa dobbiamo dire! Be' forse un'ideuzza... SOCRATE Allora... questo senz'altro lo saprai dire: non è vero che

la melodia si distingue in tre generi, parola, armonia e ritmo? GLAUCONE Sì. Almeno questo argomento te lo so dire.

Socrate elenca con G/aucone i tipi di armonia al contempo deciden­ do con lui quali sono ammissibili e quali no. SocRATE E quali sono le melodie lamentose? Dai, che tu ce l'hai

uno spirito musicale! GLAUCONE Mixolidia, sintonolidia e ... tutto il resto!

L'intera pièce è caratterizzata, anzi è organizzata al suo in­ terno da quello che potremmo chiamare il lazzo delJ.mv9a-

270

PLATONE, LA REPUBBLICA

vetv, incastonato nel paradigma maestro-ridicolo/allievo-negli­ gente, già impiegato da Platone, ad esempio, nel1'Eutidemo,53 con effetti innegabili di ilarità e di patente istrionismo: si tratta per altro di situazione topica della commedia.H Seguiamone da vicino la tessitura. Quando Socrate pronuncia orgogliosamente la formula da fine capitolo di trattato, Adimanto erompe in où J.uxvOavro ott

A.Éyetç, «non capisco che cosa dici» cui fa di nuovo riscontro Socrate con àì..JJ:J. J.LÉVtot òei ye «devi capirlo!», che il giovane ripaga con KaÌ. touto ... Ett ÒÉoJ.Lat craJlPoÀ.ov

�ç àA.À.ayiìç EVE!CIA», XV­ (1985-86) pp. 218-30 e G. GIANNANTONI, op. dt. (n. 5), pp. 252-53.

1'

XVI

398

PLATONE, LA REPUBBLICA

È rispetto a un panorama intellettuale così profondamente permeato dai valori della tradizione che diventa valutabile, nel­ la sua radicalità, la condanna platonica della poesia. La mime­ sis contro cui si rivolge la requisitoria del libro III della Repub­ blica è la matrice della polisemia del testo e del pluralismo in­ terpretativo che poteva avvalersi delle oscillazioni di senso tra intenzioni espresse e latenti dell'autore. Platone è perfettamen­ te consapevole della complessità della comunicazione letteraria mentre denuncia i suoi effetti pedagogici perversi. Egli sottoli­ nea come nessun virtuosismo interpretativo potrà frenare gli effetti immediati della comunicazione poetica, così inestrica­ bilmente intessuta di senso letterale e senso nascosto: certe co­ se «composte da Omero, non devono venir ammesse nelle città, che abbiano o meno un senso nascosto (Èv Ùnovoimç). Un gio­ vane infatti non è in grado di giudicare quel che è hyponoia e quello che non lo è, ma ciò che ha accolto a questa età fra le sue opinioni suole diventare incancellabile e inalterabile» (378d­ e).16 È dunque in ragione della semplicità degli utenti che le 16

Il concetto di

hyponoia viene usato da Platone solamente in questo

passo. Lo stesso valore semantico nella forma verbale ricorre soltanto in un

Leggi, dove, parlando del ricostituirsi della società degli uomini il diluvio, si accenna anche alla avvenuta distruzione, accanto ad altre

passo delle dopo

conoscenze caratterizzanti la città, delle capacità interpretative in uomini di­ venuti troppo semplici e incapaci di concepire significati complessi: «Buoni erano, dunque, quegli uomini, sia per queste ragioni, sia per la loro cosiddetta semplicità

(euetheia): ciò che infatti sentivano definire come bello o come

brutto, da semplici come erano, ritenevano che fosse verissimo e vi prestava· no fede. Perché nessuno in mala fede, come avviene oggi, era capace attraver· so la sapienza

(sophia) di fare supposizioni (hyponoein), ma ritenendo vero

tutto ciò che si diceva degli dèi e degli uomini, ne vivevano in conformità»

(III 679c). Nello stesso senso, nel Fedro (275b-c), Socrate contrappone la (oi neoi), che si diffondono in indagini sulla natura della parola rivelata, all'ingenuità (euetheia) degli antichi che si

sapienza degli interpreti "moderni"

disponevano a raccogliere un messaggio di verità prendendolo per quello che era da qualunque parte provenisse: «Caro amico- dice Socrate a Fedro subi· to dopo avergli raccontato la storia "egiziana" di Theut alla cui provenienza Fedro non crede -, i sacerdoti del tempio di Zeus a Dodona dicevano che i primi discorsi divinatori erano provenuti da una quercia. Agli uomini di allo-

COMMENTO AI LIBRI II E III,

[I]

399

interpretazioni raffinate dei "sensi nascosti", quand'anche fos­ sero vere, non potrebbero avere un uso pedagogico. Ma, più profondamente, la critica va a colpire chi ritiene che la pedago­ gia e la scienza che la sorregge possano consistere in una mi­ gliore interpretazione dei testi, senza che se ne metta in questio­ ne la verità. La critica platonica non ignora, dunque, ma pre­ suppone la raffinatezza degli strumenti correttivi messi a punto dall'esegesi conservativa: il pericolo dei moduli mimetici, pre­ senti tanto nella struttura drammatica della tragedia quanto inseriti nel tessuto narrativo dell'epica, sta, in ultima istanza, nel permettere di salvare in ogni caso una presunta "verità" d'aura, dato che non erano sapienti

(sophot) come voi moderni, bastava nello loro (euetheia) ascoltare una quercia o una pietra, a condizione solo che dicesse la verità (alethe). Ma per te forse è più importante chi è che parla e da semplicità

che paese viene, poiché non esamini soltanto se le cose stiano così o altrimen· ti». D'altra parte l'intento polemico contro i moderni mitologi e i loro metodi interpretativi è presente a più riprese nel

Fedro, a cominciare dal passo 229b-

230a, che è ancora nella parte introduttiva del dialogo. Qui l'ipotesi di poter prendere sul serio l'analisi dei miti come punto

di partenza di un sapere desa­

cralizzato viene decisamente esclusa a vantaggio della scelta di occuparsi prio­ ritariamente della conoscenza di sé, oggetto decisamente più degno di atten­ zione in quanto "proprio" del filosofo, che non ha tempo da perdere per oc­ cuparsi di ciò che gli è "estraneo": interrogato da Fedro sulla serietà da attri­ buire ai miti, Socrate si schermisce dal dare una risposta defmitiva sulla verità della loro lettura sacrale o allegorica (quella prodotta dai moderni increduli

sophoi): «Per conto mio, Fedro, ritengo queste spiegazioni particolarmente attraenti, ma proprie di un uomo troppo abile e laborioso e non certo felice, se non altro per il fatto che, dopo questo, è costretto a correggere la forma de­ gli Ippocentauri e poi quella della Chimera e viene inondato da una folla di tali esseri, Gorgoni e Pegasi e una moltitudine sconcertante di altre innumere­ voli mostruose leggendarie nature. E se uno non vi presta fede e vuole ridurre ciascuna di esse alla verosimiglianza, facendo uso di una sapienza grossolana, avrà bisogno di molto tempo libero. lo, invece, tempo libero per tali cose non ne ho affatto, e il motivo, mio caro, è questo: non sono ancora in grado, con­ formemente all'iscrizione di Delfi, di conoscere me stesso. E mi sembra ridi­ colo, ignorando ancora questo, mettersi a indagare cose che mi sono estra­ nee». Secondo L. BrussoN,

Platon, les mots et /es mythes, Paris 1982, pp. 157-

58, l'evocazione polemica da parte di Socrate dell'interpretazione allegorica dei miti fa pensare che qui Platone critichi direttamente Antistene.

400

PLATONE, LA REPUBBLICA

tore con i più incontrollabili artifici interpretativi. Per la mag­ gior parte degli interpreti, compreso lo stesso Antistene, la ri­ cerca della verità del testo, intesa come coerenza delle intenzio­ ni dell'autore, finiva per identificarsi

tout court

con la verità di

una cultura cui si appartiene. E questa appartenenza trovava per Antistene stabilizzazione nell'esegesi letteraria della lingua come luogo di massima sedimentazione di una storia cultura­ leY Non così per Platone, per il quale la ricerca esegetica delle intenzioni dell'autore è al più un atto preliminare alla loro criti­ ca e il linguaggio è fatto oggetto di una intenzione riformatrice.

A noi sembra significativo che all'interno della requisitoria del libro III contro le pretese pedagogiche della cultura poetica si possano distinguere due aspetti: quello sugli effetti etico­ emotivi della musica (cfr. 398c-400c), che apre una prospettiva pedagogica nel senso del condizionamento, rivolgendosi po­ tenzialmente a tutti, e specificamente ai più semplici; quello sui testi letterari in senso stretto che può avere propriamente come interlocutori solo lettori raffinati ed esperti di tecniche inter­ pretative. Qui la radicalità della condanna platonica investe i li­ velli più alti della cultura poetica, considerandola, nel suo com­ plesso, incapace di rinnovamento . Ma più che la negazione del­ la dimensione letteraria, Platone prospetta un rinnovato rap­ porto tra letteratura e verità con la mediazione della filosofia. Ci sembra importante sottolineare che egli non sembra af­ fatto mirare a ridurre la pedagogia e la comunicazione in genere a una dimensione lineare, senza spessore e complessità: l'analisi dei moduli narrativi e mimetici ha messo in evidenza il pericolo del loro uso incontrollato, inevitabile se si resta all'interno di una cultura letteraria sostanzialmente priva di una trama pro­ fonda di coerenza; ma, assumendo il punto di vista di una buo­ na e nobile ingenuità da salvaguardare nelle sue pratiche inter17

Sull'importanza delle due pratiche di esegesi linguistica, l'ÈitiaiCTI'Iflç e

la xpfìalç 'tOOV ÒVOI!a'tWV, per la logica e l'etica antisteniche cfr. A. BRANCACCI,

op.cit. (n. 5), in part. pp. 43-84 e 119-29 e F. DE LUISE-G. FARINEITI, Felicità socratica: immagini di Sacra/e e modelli antropologici tdeali nella filosofia anti­ ca,

Hildesheirn 1997.

COMMENTO Al LIBRI II E III,

[!)

401

pretative non diffidenti, Platone enuncia un intento di ricostru­ zione dei media comunicativi capace di utilizzare tutta la com­ plessità dei modelli letterari. Verità e menzogna andranno pen­ sate come dimensioni profonde e pervasive della costruzione del senso, non come immanenti a forme specifiche di comuni­ cazione (per esempio nel senso di una presunta superiorità dei moduli narrativi su quelli mimetici) e, soprattutto, non all'in­ terno di un gioco mimetico delle parti che non è stato pensato per fornire garanzie di tenuta etica. Si può supporre infine che, ancor più della malafede inter­ pretativa, oggetto della preoccupazione platonica fosse la catti­ va ingenuità, la dabbenaggine degli interpreti ben intenzionati, sicuri di cogliere in profondità, combinando e limando i signi­ ficati di superficie del testo, la struttura di un senso inesistente o inadeguato. A questo punto si può meglio intendere il fine cui mirava Platone criticando l'uso della hyponoia, completando la cita­ zione del passo precedente: «Bisogna far sì in ogni modo che i primi racconti da loro ascoltati siano i migliori possibili per indirizzare gli ascoltatori alla virtù. [ . . ] Adimanto, non siamo .

poeti tu e io in questo momento, ma fondatori di una città: e ai fondatori conviene conoscere le tracce (typoi) nel cui ambito i poeti devono comporre i loro racconti e che non si deve per­ mettere loro di trasgredire. Ma non tocca certo a essi di fare racconti poetici» (378e-379a). All'interno di un rapporto di subordinazione funzionale al­ la filosofia, la letteratura potrà dunque riprendere a svolgere un effettivo ruolo educativo. Non era la mimesis in sé l'oggetto della critica platonica, ma le sue cattive intenzioni: il poeta potrà indurre solo imita­ zioni desiderabili e, come l'uomo dabbene preferisce citare le parole e le azioni di una persona onesta, i comportamenti seri e ragionevoli (396c), così sarà preferibile nella città ideale avere un poeta e mitologo «più austero e meno piacevole (aÙ KaÌ cXTJÒEaivecreat 19

Cfr.

Resp. X

609bll-12

e

Gorg.

477b7.

422

PLATONE, LA REPUBBLICA

[381e10] per indicare questo livello). In questa sede vorrei oc­ cuparmi essenzialmente del primo argomento, quello relativo all'immutabilità d'essenza di dio. Platone ricorre a uno schema argomentativo precedente che egli potè presumibilrnente ricavare nelle sue linee portanti dalla filosofia presocratica, e del quale si servì anche Aristotele. Tuttavia, Platone operò un'importante variazione rispetto al modello che aveva davanti agli occhi, eliminando una parte dd­ l'argomentazione e sostituendola un po' a sorpresa con una di­ mostrazione apparentemente fuori luogo. Credo che questa mo­ difica sia tutt'altro che irrilevante, e che anzi essa sia la spia di un problema filosofico piuttosto interessante. Ecco dunque la se­ quenza argomentativa utilizzata da Platone. Egli parte dalla formulazione di un principio generale: ciò che si distanzia dallo stato in cui si trova, lo fa o per opera pro­ pria o per opera di altro. In entrambi i casi l'intervento è con­ cepito nel senso della causalità agente (u> e «arie» che ribollono nei corpi come in

paludi limacciose (405d). Si tratta di termini medici diffusissimi, che indicano processi morbosi relativi (in linguaggio moderno) all'apparato respiratorio e soprattutto a quello digestivo. Di fron­ te a queste novità nella patologia, che i sofisticati medici moderni attribuiscono ai loro predeces­ sori tradizionali (406c: è forse possibile scorgere in queste pa­ role una confutazione polemica di Male sacro l-2, che appunto attribuiva apeiria e ignoranza ai guaritori ciarlatani legati alla superstizione religiosa). Ma il richiamo ad Asclepio e ai suoi figli è evidentemente so­ lo polemico e ironico. Lo sottolineano due pungenti battute di Glaucone: «davvero raffinati (kompsoi) li descrivi, i figli di A­ sclepio» (408b); e «un politico (politikon) ne fai di Asclepio» (407e). Al contrario, Platone appare molto serio, e perfettamente

informato, quando prescrive i requisiti per la medicina adatta alla città purificata. (a) Essa deve trattare solo malattie ben circoscritte (nosema apo­ kekrinomenon, 407d). Qui Platone si oppone alla tendenza della medicina moderna, inclusa quella ippocratica, a farsi carico del­ l'intero organismo malato, e, al limite, dell'intera esistenza del paziente, a scopo sia terapeutico sia profilattico. Una tendenza, del resto, che egli aveva condiviso e approvato. Secondo il Car­ mide (156b-c), i «buoni medici» (agathoi iatroi, qui sicuramente gli "ippocratici"), se si rivolge loro uno che ha una malattia agli occhi, «gli dicono che non si può cominciare a curare solo gli oc­ chi, ma che bisognerebbe curare anche la testa se si vuole guari­ re gli occhi; e dicono ancora che è un'assurdità pensare di curare la testa per se stessa senza tenere conto dell'intero corpo. Così

COMMENTO AI LIBRI II E III,

[M)

441

[ ...] cercano di curare e guarire la parte applicando un regime all'intero corpo» (ouxhm É1tÌ. 1tav tò créòJ.ux). Ma i buoni (e ip­ pocratici) medici del Carmide, benché esemplari metodicamen­ te, non sono socialmente utili nella «città sana» della Repubblica. (b) n trattamento di queste malattie locali deve essere rapido e immediatamente efficace: esso non impiegherà dunque diete ma solo farmaci catartici, cauterizzazioni e incisioni chirurgiche (406d). Questa triade è naturalmente canonica, ma anche qui Platone corregge gli ippocratici e se stesso. Arie acque luoghi, per esempio, aveva sottolineato la necessità di astenersi dal somministrare pharmakon, tamnein e kaiein durante i muta­ menti di stagione (11). E anche Platone nel Protagora (354a) aveva indicato come rimedi standard della medicina pharma­

kon, kausis e tome, aggiungendovi tuttavia le restrizioni dieteti­ che Uimoktonia), che qui vengono omesse in polemica contro la medicina dietetica e probabilmente come inutili in una polis dove il regime alimentare è già politicamente controllato. (c) La medicina inoltre dovrà rifiutarsi di trattare quanti siano di costituzione malferma e incapaci perciò di rendersi social­ mente utili, «lasciandoli morire», proprio come i giudici do­ vranno mandare a morte coloro che siano incurabili nell'anima (410a). n punto di vista di Platone è qui perfettamente chiaro. L'esi­ stenza individuale non ha alcun valore se non in funzione della sua utilità sociale; sopravvivere senza essere in grado di contri­ buire al benessere comune non ha alcun senso né personale né pubblico. Questo punto di vista non ha naturalmente paralleli nella deontologia medica, anche se vi compare a volte (cfr. per es. de Arte 3) il rifiuto di affrontare la terapia degli incurabili, dovuto soprattutto alla preoccupazione che la loro morte possa venir addebitata al medico invece che alla malattia. È qui il caso di accennare che il parallelo platonico fra medicina e giustizia/0 con l'obbligo per la seconda di mandare a morte chi Il parallelo fra medicina e giustizia, ma senza riferimento ai rimedi estremi del nostro passo, era stato elaborato in Gorg. 478a sgg. 20

442

PLATONE, LA REPUBBLICA

sia moralmente irricuperabile, e per la prima di lasciar morire gli invalidi permanenti, era destinato a inaugurare una lunga tradizione di pensiero tanto etico quanto medico. Essa sarebbe culminata, con Galeno (Quod animi 11, K. IV 815-6), in un singolare rovesciamento.21 Poiché le devianze morali sono se­ condo Galeno determinate da malformazioni organiche, spetta al medico - che si appropria così anche della funzione del giu­ dice platonico - di diagnosticare chi sia incurabile nel corpo e (dunque) anche nell'anima e di decretare la condanna a morte di coloro che risultano tanto «irrimediabilmente malvagi» da «non poter essere rieducati dalle Muse stesse né migliorati da Socrate o da Pitagora» (e neppure, s'intende, curati dallo stes­ so Galeno). In Platone, c'è ancora parallelismo, e non conver­ genza, fra sentenza di giustizia e diagnosi medica, anche se, come si è visto, la patologia morale influenza quella organica e viceversa. La nuova medicina, frutto di una purificazione della città, contribuirà comunque a sua volta a depurarla dagli indi­ vidui inutili, al contrario di quella dietetica che l'aveva invece intossicata prolungando, alla maniera di Erodico, la loro mal­ sana esistenza. L'atteggiamento platonico verso la medicina nei libri II e III della Repubblica risulta dunque piuttosto articolato e com­ plesso. Da un lato, Platone non dimentica la fruibilità metodi­ ca del modello medico: essa sarà certo enfatizzata soprattutto nel Fedro, e nella Repubblica viene messa in secondo piano per il privilegio che i suoi libri centrali riconoscono alle matemati­ che, ma anche qui, come si è visto, la medicina offre utili stru­ menti diagnostici e modelli terapeutici per la patologia sociale della polis tryphosa. Anche sul piano etico, il rapporto medico­ paziente, che dal Gorgia alle Leggi costituisce un possibile pa­ radigma del potere giusto, non manca di venir richiamato, nel­ lo stesso senso, nel I libro del nostro dialogo. 21

Per questa vicenda, anche in rapporto al riferimento aristotelico alla

«punizione medica o politica» (EE I 3), cfr. M. VEGETII, Cura dei tribunalz;

punizioni della medicina, in F. ROSA (a cura di), Immaginario

1991, pp. 29-36.

e

follia, Trento

COMMENTO AI LIBRI II E III,

[M)

443

Dall'altra parte, però, Platone attacca violentemente il ruo­ lo sociale della medicina dietetica in quanto solidale alla pato­ logia morale della polis tryphosa. In un "regime di salute pub­ blica", quale è quello necessario alla purificazione della città, questa medicina non può a sua volta che essere destinata al­ l'evacuazione purgativa, diventando così vittima dei suoi stessi canoni terapeutici. Il necessario ridimensionamento della fun­ zione pubblica della medicina è al tempo stesso una premessa e una conseguenza del risanamento della città: nella polis sana, moderata e temperante, serviranno certamente meno medici, meno iatreia, meno diete (come anche meno tribunali e avvo­ cati). E intanto, le energie sociali necessarie a questo risana­ mento andranno ricuperate distogliendo l'attenzione dalla vi­ cenda privata e individuale delle terapie dietetiche per reinve­ stirla nella sua prioritaria destinazione pubblica. Ma in questa drastica svolta, Platone cerca comunque di salvare il salvabile, e ne è un segno il fatto che la sua polemica risparmi qui il nome di Ippocrate. Serviranno ancora buoni me­ dici (408c-d), presumibilmente di ispirazione "ippocratica" nel metodo e nell'ethos (gli agathoi iatroi menzionati nel Carmtde). Essi dovranno però essere "politicizzati", al pari dell'Asclepio rivisitato da Platone, e di tutti gli altri cittadini-pazienti. Che la «buona medicina» descritta nel Carmide e nelle Leggi sia suscettibile di questa politicizzazione, secondo il modello della sbrigativa «terapia dell'artigiano» a base di farmaci, incisioni e cauterizzazioni approvata nel libro III, è un serio problema concettuale, che Platone non affronta in questa sede, sotto l'ur­ genza del progetto di riforma etico-politica e anche sanitaria della polis. In seguito, il ridimensionamento di questo progetto consentirà alla medicina di riassumere, in forme variabili, la sua funzione di paradigma metodico e di modello etico, senza l'a­ sprezza delle tensioni polemiche prodottesi nella Repubblica.22 Mario Vegetti 22 Sull'opposizione fra critica della medicina e valorizzazione del modello medico cfr. L. AYACHE, Platon et la médecine, «Centre d'études sur la pensée

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PLATONE, LA REPUBBLICA

antique kairos kai logom, 1996, pp. 1-42; si veda anche RF. STALLEY, Menta! Health and Individua! Responsibility in Plato's Republic, «Joumal Value In­ quiry», XV (1981) pp. 109-24, e, per il Timeo, Punishment and the Physio/ogy o/ the Timaeus, «Classica! Quarterly», XLVI (1996) pp. 357-70.1n generale dr. F. WEHRLI, Der Arztvergleich bei Platon, «Museurn Hdveticurn», VIII (1951) pp. 177 84 -

.

[N] La nobile menzogna

l.

Menzogna, verità e mito Parlando dell'opportunità di saggiare i futuri governanti,

Socrate introduce la nozione di «nobile menzogna» che rientra tra le menzogne necessarie. A 382c sgg., posta la distinzione tra

pseudos in senso pieno - l'ignoranza che è nell'anima - e pseu­ dos nelle parole, Platone aveva affermato che vi sono menzo­ gne utili. Tali le falsità rivolte ai nemici o agli amici affetti da follia, tali i racconti relativi a un passato ignoto in cui la rico­ struzione di eventi lontani si avvicinerà quanto più possibile al­ la verità. Pseude, dunque, chresima, come tali adottabili anche se solo da parte dei governanti (389b-c). Ora, a 414c sgg., la menzogna viene narrata innanzi tutto ai futuri governanti ed eventualmente anche agli altri cittadini. In un primo tempo è ipotizzabile che la narreranno gli stessi Socrate e Glaucone, cioè i fondatori della nuova città; in governanti ai successori. È

un

un

secondo tempo i nuovi

racconto relativo al passato,

un

mito delle origini, necessario e nobile perché finalizzato a uno scopo utile per la città, dotato di

un

suo statuto di credenza par­

ticolare, come si vedrà meglio nelle pagine seguenti. È la nar­ razione della nascita degli uomini dalla terra, madre e nutrice dei mortali, cui si affianca il mito dei metalli nella composizio­ ne (mixis) dell'anima. Si racconterà ai governanti che l'imma­ gine che essi hanno della propria nascita da altri esseri umani non è che

un

sogno e, in verità, essi sono nati direttamente dal­

la terra che ha plasmato loro, le loro armi, il loro equipaggia­ mento, e li ha poi espulsi dal suo seno già adulti e formati. La

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terra che li ha plasmati e nutriti è madre e nutrice e anche arti­ giana dal momento che li ha prodotti. A un sogno è contrappo­ sta una aletheia che in realtà è uno pseudos. Vi è dunque un gioco di rovesciamento tra verità e falsità che si arricchisce ulteriormente nel momento in cui la menzogna, con l'introdu­ zione di nuovi elementi, diviene mythos. Dal momento, infatti, in cui viene introdotto il racconto della commistione dei metal­ li nella natura dei vari uomini, ciò che fino a quel momento era chiamato pseudos, viene detto mythos n racconto sulla nascita .

dalla terra è pseudos, anche se nobile e necessario, quello sui metalli è mythos, metafora di una verità: la composizione più preziosa degli individui destinati al comando. Di qui il senso della contrapposizione tra onar e aletheia: la collocazione a un livello epistemico intermedio tra certezza empirica e verità "ideale" .1 Apparentemente, un racconto ancora informe e par­ ziale in cui rientrano elementi indeterminati, eventi accaduti in passato in molti luoghi (JtoÀÀ>, CLVI-VII

(1986)

pp.

38-48.

COMMENTO AI LIBRI II E III,

(N]

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gano scambi di ruolo dacché un oracolo ha predetto che la cit­ tà andrà in rovina quando sarà governata dal ferro o dal bron­ zo. Sarà dunque fondamentale riconoscere in ognuno la "misu­ ra" che gli è propria (415c). I termini arcaici propri del linguaggio religioso qui impie­

gati rinviano a favole antiche ed echeggiano il linguaggio di 416e sgg. in cui si afferma la necessità di persuadere i gover­ nanti a non contaminare l'oro e l'argento divini e puri della lo­ ro anima con l'oro mortale. Si parla qui di contaminazione, di purezza, di empietà, di liceità. Termini quali ocna, J.uaivetv, 8É�tç, v6�t