Il Santuario di Monte Li Santi. Le Rote a Narce. Scavi 1985-1996. Vol. 3: iscrizioni, le offerte alimentari. Conclusioni, Le. 9788862278805, 9788862278812

Il terzo e ultimo volume dedicato al Santuario di Monte Li Santi. Le Rote a Narce contiene l'analisi dei materiali

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Il Santuario di Monte Li Santi. Le Rote a Narce. Scavi 1985-1996. Vol. 3: iscrizioni, le offerte alimentari. Conclusioni, Le.
 9788862278805, 9788862278812

Table of contents :
SOMMARIO
PARTE III
LE ISCRIZIONI Laura Biondi
TAVOLE
LE OFFERTE ALIMENTARI DI ORIGINE ANIMALE DEL SANTUARIO DI MONTE LI SANTI: ANALISI ARCHEOZOOLOGICA Jacopo De Grossi Mazzorin
ADDENDUM. I RINVENIMENTI MONETALI
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Maria Anna De Lucia Brolli
ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE
SOMMARIO GENERALE

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M E DI T E RR AN EA s u p p l e m e n to 16. *

CI V I LT À A RC AIC A D E I S ABIN I N E L LA VALLE D E L T E VE RE co l lana d i r etta da paola s a n toro 8.

M EDITE R R ANEA quader ni a nnua l i de l l ’ i st i t uto di studi s ul l e c i v i lt à i ta l i c h e e del me di t e rr a ne o a nt i co del con s i g l i o naz ionale d elle r ic erc he già « qua der n i di a rc heolo gia etru s co- italic a»

pisa · roma fa bri z i o s e r r a e d i to r e mmxvi

IL SANTUARIO D I M O N T E L I S A N T I - L E ROT E A NA RC E Scavi 1985-1996 PARTE III. LE ISCRIZIONI, LE OFFERTE ALIMENTARI. CONCLUSIONI a cur a di maria an na de lucia brolli

pisa · roma fa bri z i o s e r r a e d i to r e mmxvi

A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included offprints, etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2016 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. * www.libraweb.net issn 1827-0506 isbn 978-88-6227-880-5 e-isbn 978-88-6227-881-2

Testi di Laura Ambrosini (la) Barbara Belelli Marchesini (bbm) Maria Gilda Benedettini (mgb) Laura Biondi (lb) Claudia Carlucci (cc) Alessandra Costantini (ac) Jacopo De Grossi Mazzorin (jdgm) Maria Anna De Lucia Brolli (madlb) Leonardo Maria Giannini (lmg) Maria Laura Michetti (mlm) Documentazione grafica ed elaborazione delle tavole grafiche Marcello Forgia con il contributo di Barbara Belelli Marchesini Elaborazioni planimetrie in autocad Alberto Villari Documentazione fotografica Fabio Baliani Gilda Benedettini Trattamento digitale delle immagini Fabio Baliani Scansioni delle immagini Fulvio Fugalli

SOM M A R IO PA RT E I I I Laura Biondi, Le iscrizioni Tavole Jacopo De Grossi Mazzorin, Le offerte alimentari di origine animale del santuario di Monte Li Santi: analisi archeozoologica Addendum. I rinvenimenti monetali Maria Anna De Lucia Brolli, Considerazioni conclusive Abbreviazioni bibliografiche

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Sommario generale

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PARTE III

LE IS CR IZIO NI Laur a B i ondi

D

agli scavi dell’area santuariale di Mazzano Romano, in località Monte Li Santi-Le Rote, provengono le seguenti iscrizioni.1 Iscrizioni su cippi-altarini Rinvenuti in situ nell’area esterna D, affiancati con la faccia iscritta rivolta verso lo stesso lato (quello del deposito votivo), i due cippi-altarini tufacei appaiono omogenei per forma e dimensioni, e suggeriscono come probabile l’esistenza di un rapporto di affinità – e probabilmente anche di complementarità sul piano della funzione religiosa – tra le divinità di cui recano i nomi, e una loro possibile associazione nelle pratiche cultuali del santuario.2 1. (Tav. 1)

Fatta eccezione per il primo segno leggibile, o, inciso più in alto e più piccolo degli altri, l’iscrizione è stata apposta con sostanziale regolarità per distanza e dimensioni delle lettere, anche se r e t sono più allungate delle altre (soprattutto di u e di n, che si inseriscono nello spazio lasciato a disposizione dall’incavo rituale), mentre n ed a sono più ampie e spaziate. Il segno r è provvisto di codolo e di un ampio occhiello angolato, t ha il tratto orizzontale perpendicolare all’asta, u presenta l’asta destra spezzata in due tratti, n ha i tratti pressoché di uguale lunghezza e divaricati, a è del tipo con traversa interna inclinata e parallela all’asta sinistra, caratteristiche queste che, nel complesso, suggeriscono di collocare l’epigrafe entro il sec. iii a.C.5 2. (Tav. 2)

Cippo-altarino in tufo recante sulla faccia frontale un’iscrizione incisa, dall’alto verso il basso, lungo il margine destro, nello spazio tra questo e l’incavo rituale. Sulla superficie, fortemente vacuolata, sono ancora distintamente leggibili sei lettere: ]ortuna che dovevano essere precedute da un’altra, perduta a causa della sbrecciatura dell’angolo superiore destro del cippo e che è immediato integrare come f:3 f]ortuna La lettura restituisce il teonimo Fortuna e accerta l’attribuzione a questa divinità di almeno uno dei culti di Monte Li Santi-Le Rote, in una fase di frequentazione che, su base archeologica, in quest’area del santuario suburbano si protrae dall’inizio del sec. iii a.C. almeno alla metà del sec. ii a.C.4

1 Le iscrizioni nn. 3-4 sono state oggetto di una prima pubblicazione da parte di chi scrive nella Rivista di Epigrafia Etrusca di «StEtr» s. III, 65-68, 2002, pp. 367-370 nn. 76-77, tav. XXXII (Biondi 2002), con introduzione di M.A. De Lucia Brolli alle pp. 364-366 (De Lucia Brolli, Biondi 2002). Vengono ora riproposte insieme a tutte le altre rinvenute nell’area santuariale e ancora inedite; l’analisi complessiva dei materiali epigrafici, che in questo studio può avvalersi dei risultati integrali delle indagini archeologiche, è pertanto all’origine di considerazioni, precisazioni e valutazioni non rese esplicite, anche per esigenze di sintesi, nella prima sede di edizione. Altrettanto si può dire per le iscrizioni nn. 1 e 2, al cui contenuto è stato fatto riferimento in diverse sedi. 2 I cippi sono molto simili per forma e presentano entrambi un incavo rituale, v. qui Belelli Marchesini, O1II, 1-2; tuttavia, la diversa disposizione dell’incavo può far supporre modalità diverse nella prassi rituale. 3 Lo spazio a disposizione permette di integrare un solo segno. L’iscrizione, in ogni caso, consta del solo teonimo.

Cippo-altarino tufaceo recante sulla faccia frontale un’epigrafe che corre parallelamente al margine destro per tutta la lunghezza di questo, dall’alto verso il basso, e che si conclude sul lato corto inferiore della faccia. Diversamente dall’iscrizione f]ortuna, apposta direttamente sulla superficie scabra del tufo, questa è stata incisa dopo che la faccia anteriore del cippo era stata predisposta ad accogliere i segni alfabetici. Il lapicida ha infatti creato un’ampia fascia levigata lungo il margine destro e parte della base inferiore del cippo, ottenendo uno specchio di scrittura di poco più lungo e più esteso dell’epigrafe. L’iscrizione, completa, consta di nove lettere, in gran parte riconoscibili nonostante le condizioni attuali del tufo. Come nell’epigrafe f]ortuna, i grafi per le nasali (qui, oltre a n, anche due m) hanno i tratti di uguale lunghezza e divaricati, r ad occhiello è provvisto di codolo (più corto dell’asta verticale), entrambi i grafi per a sono del tipo con traversa interna inclinata e parallela all’asta

4 La devozione delle genti falische a Fortuna si mantiene viva anche a romanizzazione avvenuta. Dopo la caduta di Falerii ueteres nel 241 a.C. e il trasferimento in massa dei superstiti a Falerii noui, ad esempio, il culto di Fortuna è testimoniato per il nuovo centro da un’ara di peperino mutila datata fra gli ultimi decenni del sec. i a.C. e la prima metà del sec. i d.C. con dedica alla dea (CIL XI 3075a), v. Di Stefano Manzella 1981, pp. 127-128 n. 2. 5 L’assenza di a del tipo falisco, la forma di r e di t inducono a considerare latino, o latineggiante, l’alfabeto in cui l’iscrizione è redatta, anche se ‘pesa’ la perdita del segno per /f/, che per la peculiarità formale della lettera falisca a freccia avrebbe rappresentato un ulteriore tratto discriminante. È però l’insieme dei dati storico-archeologici e cultuali a corroborare l’attribuzione dell’epigrafe ad una fase di crescente romanizzazione, culturale e linguistica, ed in merito si rimanda alle considerazioni che seguono e ai contributi specifici raccolti in questo volume.

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laura biondi

sinistra,6 il che suggerisce una sostanziale affinità e compatibilità anche cronologica tra i due testi. Il segno e presenta le traverse parallele lievemente oblique. Una frattura, che taglia il cippo a circa due terzi della sua altezza, corre lungo il tratto destro del secondo grafo per m, senza peraltro pregiudicarne l’integrità. Seguono tre segni; vi si riconoscono distintamente, come primo e terzo, due a7 mentre la lettura del secondo segno, che è stato apposto in corrispondenza del punto in cui l’iscrizione piega a sinistra verso la base inferiore del cippo, è problematica anche per la presenza di altre incisioni (dovute forse alla difficoltà, qui maggiore che altrove, di apporre dei segni) che rendono preferibile la restituzione di i piuttosto che di n o di t (o anche l), dunque una lettura maia e non mana né mata. In via di ipotesi, perciò, si propone di leggere: minermaia ma poiché dopo r un segno di scalpello, apposto intenzionalmente a circa metà dell’altezza delle lettere, divide la sequenza in due costituenti: miner·maia si suggerisce di isolare nell’epigrafe due unità lessicali, separate da interpunzione: miner e maia.8 In miner sarà da riconoscere, abbreviato, il teonimo Minerva, con vocalismo /i/ della prima sillaba diverso da quello /e/ che il nome della divinità esibisce nell’iscrizione di età repubblicana CIL I2 454 su un vaso a figure rosse da Falerii ueteres9 e nella dedica falisca su lamina bronzea da Falerii noui CIL I2 365 (Ve 320: menerua. sacru).10 Nelle sue occorrenze nelle diverse tradizioni linguistiche dell’Italia antica11 il vocalismo /e/ del teonimo precede cronologicamente quello /i/. È infatti attestato fin dal sec. vi a.C. in etrusco (che lo mantiene in tutte le varianti note fino in età tarda),12 è da attribuire al latino ar6 Per quanto entrambi i segni abbiano il vertice stondato rispetto ad a, più angolata, dell’iscrizione f]ortuna. Per confronti nell’area v. ad esempio CIE 8403a, b da Gallese; 8441, 8442 e forse 8443 da Rignano Flaminio; 8452, 8453, 8454, 8458, 8469; 8460, 8461, 8496, 8498, 8508, 8509, 8514, 8518-8521 (e altre) da Capena. 7 La seconda a conclude l’epigrafe ed appariva capovolta quando il cippo era stante. 8 Per quanto le condizioni della superficie permettono di valutare, i segni che compongono la sequenza maia appaiono incisi con maggiore profondità rispetto ai precedenti. 9 CIL XI 6708,13; Giacomelli 1963, Appendice p. 263 n. B XI; Wachter 1987, pp. 367-369 § 166. 10 CIE 8340; Giacomelli 1963, p. 68 n. 59; Wachter 1987, p. 266 § 110f; v. anche Vine 1993, pp. 108-109 § 3.3.d. 11 Aspetti per i quali v. in particolare Rix 1981, pp. 111-122; 1998, p. 209; poi Meiser 1986, p. 184; Id., 1998, p. 117; Wachter 1987, pp. 447448 § 204g; Untermann 2000, pp. 470-471, s.vv. menereviius, meneruai; de Vaan 2008, pp. 380-381, s.v. Minerva. Per /e/ > /i/ dopo bilabiale ad inizio assoluto di parola v. Watkins 1973, pp. 195-206. V. inoltre DELL, p. 718, s.v. Minerua. 12 Per le occorrenze etrusche, oltre a Rix 1981, pp. 111-112; De Simone 1970, p. 111 nota 75, v. ad esempio le iscrizioni di Pyrgi (B. Belelli Marchesini, G. Colonna, in «StEtr» s. III, 64, 1998 [2001], pp. 424-426 n. 97), Veio (CIE 6401, 6418, 6436, 6438, 6446, 6459, 6477), quelle su specchi CIE 8884 dall’area capenate (già CII 8891 da Falerii; ora ET Fa S. 2), e CIE 8615 (ET La S.1), 8616, 8620, 8621 da Praeneste. V. anche le considerazioni di Meiser 1996, p. 192 e nota 10. Per le attesta-

caico del carmen Saliare, stando a Fest. 22 (Promenervat item, pro monet), e alle memorie teonimiche più antiche dell’Urbe (Quint. inst. I, 4.16-17: Quare minus, mirum si ‹in› uetustis operibus urbis nostrae et celebribus templis legantur … Quid? non e quoque i loco fuit, “Menerua” et “Leber” et “magester” …?),13 e inoltre caratterizza le due occorrenze prenestine di Ve 366o (CIL I2 2498 su specchio)14 e Ve 367b (CIL I2 563 su cista),15 nonché quelle di Sulmona (ST Pg 8),16 Punta della Campanella (ST Cm 2)17 e Pompei (Ve 27).18 A Monte Li Santi, invece, /i/ di miner si accorda con il latino (dat.) mineruai nella lamina dei cuochi da Falerii noui (CIL I2 364)19 e con il peligno minerua nell’iscrizione sulmonese (nota solo da apografo) Ve 203,20 ed è coerente anche con le spiegazioni etimologico-eziologiche attraverso minuo o minor21 accolte per il teonimo dalla tradizione latina e di cui è testimone, fra altri, Cic. nat. deor. II, 67: Minerua … quae uel minueret uel minaretur; III, 62: Minerua quae minuit aut quia minatur.22 Pertanto, /i/ di miner è indizio di latinizzazione linguistica – se non piuttosto di latinità effettiva – e di recenziorità del teonimo, e suggerisce di attribuire l’epigrafe e la consacrazione del cippo (con ciò che comporta anche a livello di frequentazione cultuale) ad una fase della vita del santuario in cui, se non già compiute, spiccate sono le tendenze alla romanizzazione. Se di fase di transizione si trattasse, questa sarebbe comunque decisamente orientata verso una facies latina,23 e a comprovarlo si presterebbe prozioni del teonimo in contesti di dono votivo v. Maras 2009a, pp. 108, 132 e passim. 13 V. ora il passo nell’edizione commentata di Ax 2011, p. 119 ad 4, 17. Per Leber cfr. fal. leper (Ve 243) nella restituzione di Peruzzi 1998, pp. 83, 86, 114 (e tav. XIa-b). 14 Wachter 1987, pp. 113-119 § 48. 15 V. anche ivi, p. 832 e Add. p. 905; CIL XIV 4105; Wachter 1987, pp. 130-135 § 55. 16 Per l’epigrafe, graffita dopo la cottura su un vaso a vernice nera, v. Poccetti 1983, pp. 159-161; Triantafillis 2008, pp. 78-79 (DM 9 Sulmona 3); v. anche Untermann 2000, p. 470, s.v. meneruai con bibliografia di riferimento. 17 Nel derivato menereviius; sull’iscrizione v. Russo 1990, pp. 86-89 e nello stesso volume, Punta della Campanella, i contributi di M. Lejeune (pp. 251-263), A.L. Prosdocimi (pp. 263-266), G. Pugliese Carratelli (pp. 275-279); v. poi F. Scotto Di Freca, in «StEtr» s. III, 62, 1996 (1998), pp. 376-377; 2005; Poccetti 1992; Triantafillis 2008, pp. 138142 (SN 32); Untermann 2000, p. 470, s.v. menereviius. 18 ST Po 38; v. inoltre almeno Antonini 1977, p. 331 ad Ve 27; Untermann 2000, p. 470, s.v. menereviius con bibliografia ulteriore. 19 Ve 320A; CIE 8341; Giacomelli 1963, pp. 264-265 n. XIV. Per il testo sulla lamina dei cuochi falischi v. Peruzzi 1966, pp. 115-119; v. ora anche Bakkum 2009, pp. 494-497 n. 214. 20 CIL I2 194; ST Pg 4; Prosdocimi 1974, p. 24; Jiménez Zamudio 1986, pp. 6-8 n. 2. Anche questa epigrafe, che la matrona ()cia pacia dedica a Minerva sefei … suois cnatois, presuppone per la dea prerogative materne e matronali. 21 E Paul. Fest. 123: Minerva dicta, quod bene moneat. Hanc enim pagani pro sapientia ponebant. Cornificius [scil. GRF 476.7] vero, quod fingatur pingaturque minitans armis, eandem dictam putat. Per l’esegesi letteraria ed antiquaria v. Maltby 1991, p. 385, s.v. Minerva. 22 Cfr. poi Firm. err. 17.3: Minerva … bellicum nomen est, quasi aut minuat aut minetur. 23 Ancora una volta, l’assenza di a del tipo falisco conforta l’ipotesi che il testo sia stato redatto nello stesso alfabeto usato per Fortuna. Non compete a questo contributo entrare nel merito delle vicende della storia politica ed economico-sociale di Narce successivamente al sec. iv a.C. e alla conquista romana di Veio. Certo, tali vicende non

le iscrizioni prio la diversità del vocalismo rispetto a menerua dell’epigrafe Ve 320 da Falerii noui, che per le scelte grafiche e la direzione sinistrorsa della scrittura è stata anche considerata non latina e «documento dell’estrema resistenza della cultura falisca contro Roma».24 L’abbreviazione di un teonimo non è scelta infrequente nell’Italia antica (cfr. a Pompei la citata iscrizione tarda Ve 27: mener)25 e dunque miner sostituisce minerva, a cui andrebbe attribuita la medesima marca flessionale – con ogni verosimiglianza il caso nominativo – del successivo maia (e di fortuna nell’altro cippo). Più problematico è valutare la funzione di maia rispetto al teonimo e stabilire se i due lessemi abbiano pari statuto e maia sia quindi nome proprio (espresso asindeticamente)26 di una seconda divinità titolare del cippo e del relativo culto o se, piuttosto, maia sia attribuito a Minerva e, dunque, una sola sia la dea a cui il cippo-altarino è consacrato. Pur con la necessaria cautela, questa seconda eventualità sembra da preferirsi alla prima per motivi diversi, a partire dal fatto che il ricorso all’abbreviazione miner appare compatibile con l’associazione ad un’unità lessicale avente funzione di epiteto piuttosto che ad un secondo teonimo.27 Eviterebbe inoltre di fare di Maia una divinità autonoma, accomunata però negli usi cultuali e nel regime delle offerte e degli ex voto non solo a Minerva, ma anche a Fortuna titolare dell’altro cippo. Il complesso dei materiali del deposito votivo US 166 collegato nell’area D, infatti, è riferibile ad entrambi i cippi-altarini,28 in origine collocati vicini, ciò che porta a supporre che le divinità femminili venerate in quella zona del santuario nel sec. iii a.C. condividessero prerogative e tratti, se non identici, almeno prossimi e che fossero ritenute appartenenti ad una sfera cultuale e ideologico-religiosa omogenea e in sé coerente. sono senza conseguenze per la vita del santuario e per il tipo di frequentazioni, di cui le epigrafi riflettono, sul piano linguistico, il modificarsi. Si rinvia in proposito a De Lucia, Baglione 1997, pp. 77-79; De Lucia Brolli 1998a, pp. 30-37. 24 Così Peruzzi 1997, p. 62 ma v. M. Mancini “IL” 25 (2002), pp. 34-40. 25 Per altri casi di abbreviazione di teonimo cfr. CIL I2 E.A.2867 (da Scorano: Fero·) e le epigrafi sui cippi Pisaurenses CIL I 371, 372, 384, 375, in cui i teonimi sono associati ai rispettivi epiteti. Si aggiungano anche i casi di apl dell’iscrizione etrusca da Pontecagnano e delle quattro dediche in alfabeto acheo ad ·ÔÏ dal santuario meridionale dello stesso centro, per cui v. da ultimo G. Colonna, in «StEtr» s. III, 73 (2007), 2009, p. 358 n. 87; cit. anche in Id. 2007 (2009), p. 123 con bibliografia di riferimento; v. già Id. 1984-85, p. 77, nota 67; infra, p. 18 nota 99. 26 Per la documentazione etrusca, le occorrenze binarie di teonimi sono state analizzate da De Simone 1997. Si aggiungano Colonna 1989-90 per i teonimi etruschi in genitivo o nominativo su ceramiche del sec. v a.C.; 2007 (2009), pp. 103-104; Maras 2009a; per il mondo latino-falisco v. Panciera 1989-90. Per le formule greche v. Lazzarini 1976; Ead. 1989-90. 27 Stante il fatto che il lato lungo della fronte del cippo non avrebbe consentito di apporre per intero due parole senza interessare anche la base stessa del cippo (così che il lapicida è stato comunque costretto a porre sul lato corto, come ultimo segno, a), la possibilità che l’epigrafe accogliesse due teonimi in asindeto è meno preferibile nella misura in cui suggerirebbe forse proprio nell’abbreviazione un rapporto non paritario tra le divinità titolari del culto. 28 V. qui De Lucia Brolli, Parte I, pp. 83 ss.

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Premesso che simile associazione triadica fra Minerva, Maia e Fortuna non trova conforto a livello iconografico né della tradizione antiquaria e letteraria, supporre in Maia onorata nel santuario suburbano di Narce una dea autonomamente configurata ma dai caratteri vicini a quelli di Minerva e Fortuna porta in primo luogo ad escluderne l’identificazione con la divinità legata a Mercurio (di cui è considerata madre, cfr. Acc. Atreus, fr. 1b Ribbeck; Fest. 120.8 Lindsay, e insieme a cui è festeggiata alle idi di maggio, cfr. Varro, ap. GRF 408 = Censor. d.d.n. 22.9) e al mondo mercantile29 in virtù di un rapporto che, pur recenziore e di impronta ellenica, appare preminente nella religione di Roma e ben radicato anche nella cultura italica.30 Questa medesima prospettiva, peraltro, non consente di recuperare in modo soddisfacente neppure quei tratti della personalità di Maia che la tradizione romana conserva nei termini di una più antica associazione con Vulcano (ad es. L. Cincius, ap. GRF 8 ex Macrob. Sat. I, 12.18; Gell. XIII, 23.2),31 di un luogo e di cerimonie cultuali nell’Urbe e di caratteri complessivamente più arcaici, che nella testimonianza di Cornelio Labeone (Corn. Labeo, fr. 1 Mülleneisen) e poi di Macrobio identificano Maia con terra e la assimilano a Bona Dea32 (Macrob. Sat. I, 12.21 Kaster): auctor est Cornelius Labeo huic Maiae, id est terrae, aedem kalendis Maiis dedicatam sub nomine Bonae Deae et eamdem esse Bonam Deam et terram ex ipso ritu occultiore sacrorum doceri posse confirmat …, e per cui (Macrob. Sat. I, 12.20): adfirmant quidam, quibus Cornelius Labeo consentit, hanc Maiam cui mense Maio res divina celebratur terram esse, hoc adeptam nomen a magnitudine, sicut et Mater Magna in sacris vocatur, adsertionemque aestimationis suae etiam hinc colligunt quod sus praegnans ei mactatur, quae hostia propria est terrae. Nelle testimonianze letterarie e antiquarie, infatti, Maia risulta debolmente caratterizzata e non sufficientemente distinta entro il pantheon romano. Piuttosto, la sua identificazione con terra e con Bona Dea, la (dichiarata) connessione etimologica con la radice di magnitudo e, quindi, la relazione semantica con l’epiteto magna che spetta, in sacris, anche alla Mater, sembrano alludere ad una condizione originaria che precede l’ipostasi di una funzione, di un atto, in questo caso di una qualità/proprietà – probabilmente quella che gli Antichi individuavano nella magnitudo – nei termini di un’indicazione teonimica e che corrispon29 Su Maia v. almeno Radke 1965, pp. 192-193, s.v., Maia; RE XIV.1, 1928, coll. 530-533 s.v. Maia II (A.Ch. Link); LexGM II.2, 1897, coll. 22352239, s.v. Maia II (R. Peter); LIMC VI.1, 1992, pp. 333-338 con ulteriore bibliografia (B. Rafn). Fondamentale ora Poccetti 1997, pp. 780-786, ma v. già Id. 1996, pp. 236-240. 30 Si pensi alla devozione a Maia dei negotiatores latino-italici presenti a Delo, le cui iscrizioni votive, datate fra la metà e la fine del sec. ii a.C., sono le occorrenze epigrafiche più antiche del culto della dea (prescindendo dal testo di Narce); v. almeno Brunet 1970, pp. 353354, 387-388, nonché Poccetti 1997, pp. 771-781, a cui si rinvia anche per bibliografia ulteriore; si ricordi anche Id. 2009b. 31 Per Pisone, stando a Macrobio (Sat. I, 12.18), è Maiesta il nome autentico della uxor Vulcani. 32 Sulla divinità v. da ultimo Marcattili 2010, con bibliografia di riferimento.

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de a quella “teologia dell’atto” caratteristica della religiosità latina ed italica.33 Con la cautela necessaria, pertanto, si propone che maia dell’iscrizione del santuario suburbano di Narce non designi una divinità femminile indipendente e che non abbia quella funzione teonimica che poche tarde epigrafi attestano a Roma e in Gallia,34 ma che invece sia un epiteto di Minerva come lo sono Medica o Memor altrove riferiti alla dea, o come Regina è epiteto di Iuno e Primigenia lo è di Fortuna a Praeneste. Non meno significativo, allora, potrà apparire anche il confronto proprio con quelle iscrizioni prenestine in cui il teonimo Fortuna ricorre abbreviato e in associazione a Primigenia, come in Fortun. Primig di CIL XIV 2860.35 Ancora, si propone che nell’iscrizione di Monte Li Santi-Le Rote maia abbia il medesimo valore semantico che magna36 riveste associato a Mater (come nel citato passo macrobiano) e, perciò, sia epiteto corrispondente all’aggettivo maius che a Tusculum è appellativo di Iuppiter, qui venerato come deus Maius in quanto a magnitudine scilicet ac maiestate dictus, come scrive ancora Macrobio (Macrob. Sat. I, 12.17): Sunt qui hunc mensem [scil. Maium] ad nostros fastos a Tusculanis transisse commemorent, apud quos nunc quoque vocatur deus Maius, qui est Iuppiter, a magnitudine scilicet ac maiestate dictus.37 Tale affermazione, fra l’altro, risulterebbe coerente con la testimonianza di Varrone relativa al nome del mese e alla spiegazione etimologica a maioribus che il Reatino accoglie (Varro, ling. Lat. VI, 33 Riganti: Tertius a maioribus Maius) e che, alternativa a quella che fa derivare maius (mensis) da Maia,38 è condivisa da Fulvio Nobiliore (ap. Macrob. Sat. I, 12.16), Cornelio Labeone (ap. Macrob. Sat. I, 12.20 cit.), Ovidio (Ouid. fast. I, 4: Tertius mensis a senibus; V, 73; 427: mensis erat Maius maiorum nomine dictus), più tardi anche da Isidoro di Siviglia (orig. V, 33.8 Lindsay: Maius dictus a Maia matre Mercurii; vel a maioribus natu, qui erant principes reipublicae. Nam hunc mensem maioribus, sequentem vero minoribus Romani consecraverunt. Unde et Iunius dicitur)39 e dalla tradizione

glossografica (CGL V, 82.23 gloss. Plac.: Maium mensem romani a maiia mercurii matre quam deam uolunt uel a maioribus qui erant principes rei supplices uocauerunt nam unum mensem maioribus sequentem iunioribus consecrarunt unde et iunius dicitur). Di recente si è proposto di recuperare il rapporto tra Maia e la radice di magnus, e anche di approfondire le relazioni etimologico-eziologiche che coinvolgono la documentazione italica nella misura in cui, come ha fatto Paolo Poccetti, maius è considerato corrispondente a maesius osco.40 In questa sede non si intende prescindere da questa prospettiva, su cui si conviene, ma la si deve per necessità lasciare a margine. Però, su un piano che resta quello della valutazione coerente del complesso delle evidenze archeologiche ed epigrafiche con i dati linguistici, il legame etimologico che gli Antichi sentivano con magnus (e maior) e la spiegazione per cui Maius è appunto tale a magnitudine scilicet ac maiestate possono valere anche per la Minerva titolare del cippo di Monte Li Santi-Le Rote. Tale prospettiva può giustificare per la divinità non tanto il ruolo di dea poliadica come è quello della Minerva di Falerii,41 quanto quello di dea la cui magnitudo ac maiestas si manifestano in rapporto ai momenti più significativi della vita femminile, legati al matrimonio e alla procreazione. Una dea, dunque, che assomma prerogative sia matronali, poiché la si invoca per la salvaguardia della fecondità, della gestazione e della nascita, sia curotrofiche, poiché è dea nutrix che tutela i nati;42 dunque una dea che presiede a quei passaggi cruciali di status nella vita femminile che della nubenda fanno una sposa auspicabilmente fertile, poi una matrona pronta per procreare, infine una madre che nutre e alleva la prole. Significativamente, queste prerogative sono con certezza riferibili alla Minerva del santuario suburbano di Narce in virtù della tipologia stessa dei materiali del deposito votivo US 166 collegato nell’area D.43 Esso contempla numerosi ex voto fittili di bambini in fasce, seduti o stanti con lunga tunica,44 e di mammelle (che sono qui circa la metà di quelle rinvenute nel santuario),

33 Per queste dinamiche v. Prosdocimi 1989, p. 484. 34 Per queste occorrenze v. LIMC VI.1, 1992, pp. 334, 338. 35 Come noto, l’epigrafia prenestina attesta anche l’abbreviazione del solo epiteto primigenia (oltre al caso citato anche CIL XIV 2855: Fortuna Primig) o di entrambe le componenti (nella forma f.p.). 36 Per quanto probabilmente generico, magna è riferito proprio a Minerva da Valerio Flacco (Arg. V, 503-504): seu quis honore meos, seu reddita dona deumque / nos genus atque ratem magnae sensere Mineruae. 37 Per il rapporto con la radice di magnus e per il quadro etimologico complessivo, su cui si tornerà, v. DELL, p. 379; Poccetti 1997, pp. 783-784; De Vaan 2008, pp. 358-359. Su Maius v. Radke 1965, pp. 193-194, s.v. Maius. 38 Ma Varro, ap. Censor. d.d.n., 22.12 (GRF 408 p. 354): Maium vero non a maioribus sed a Maia nomen accepisse, quod eo mense tam Romae quam antea in Latio res divina Maiae fit et Mercurio. Per la connessione con Maia v. Isid. orig. V, 33.8 cit.; CGL V, 82.23 cit.; Macrobio (Sat. I, 12.17 cit.) connette il nome del mese anche a deus Maius, come a Tusculum è invocato Iuppiter. 39 Per queste ed altre fonti v. Maltby 1991, p. 360, s.vv. Maia, maius, Maius.

40 Poccetti 1997. 41 Per le iscrizioni da Falerii noui Ve 320 (CIL I2 365, XI 3078, CIE 8340) e Ve 320A (CIL I2 364, CIE 8341b) v. Peruzzi 1966 con bibliografia di riferimento, e 1997 per il trasferimento a Roma del simulacro della dea. V. inoltre Giacomelli 1978, pp. 532-533 n. 10. Sul tempio dello Scasato v. almeno Carlucci, De Lucia 1998, p. 71. 42 Per gli aspetti curotrofici rintracciabili nella figura di Minerva, oltre a Castagnoli 1979; 1985, v. almeno Enking 1944-45; Hadzisteliou Price 1978 (: pp. 166-186 per la documentazione dell’Italia antica); Simon 1978, pp. 146-147 (e tav. XXXIX). Per ulteriori indicazioni bibliografiche v. LIMC II.1, 1984, p. 1052, s.v. Menerva (G. Colonna et alii), a cui si rimanda (: 1050-1110) per ogni altro aspetto letterario, epigrafico e iconografico. 43 V. qui De Lucia Brolli, Parte I, pp. 83 ss., senza dimenticare analoghi rinvenimenti dallo strato superficiale US 149. 44 In area falisca, statue di bambini in fasce e di uno tunicato seduto sono state rinvenute in un deposito votivo datato ai secc. iii-i a.C. nella cosiddetta Caverna della stipe, presso Gallese in località Le Cese; descrizione e bibliografia di riferimento in Chiellini 2002, pp. 25-26 n. 1.4.

le iscrizioni ed ammette confronti con santuari e luoghi di culto dell’Italia antica nei quali alla dea vengono riservate analoghe tipologie di ex-voto e di offerte, come accade per la Minerva venerata a Veio-Portonaccio,45 per quella di Lavinio,46 e per quella di cui due statuine sono state rinvenute nel deposito votivo della Buca Lattaia presso Cetona, associate a figurine fittili di bambini seduti, con tunichetta e senza bulla.47 Però, nell’area D del santuario di Monte Li Santi-Le Rote queste stesse prerogative dovevano essere condivise anche con Fortuna, stante la comune pertinenza dei materiali votivi dell’US 166 ad entrambi i cippi-altarini. E ciò autorizza a supporre che lì Minerva Maia e Fortuna fossero percepite come divinità affini – probabilmente anche complementari, senza che al momento sia possibile inferire altro –, venerate nel loro aspetto e ruolo di Frauengottheiten che presiedono alle fasi fondamentali dell’esistenza muliebre, con la complessità e l’intreccio di valenze e funzioni (matronali e paidotrofiche) che tale natura comporta. Come noto, proprio tali aspetti sono individuabili nelle diverse forme che il culto di Fortuna48 assume a Roma49 e nel Lazio,50 e sono in particolar modo evidenti ad Anzio e soprattutto a Praeneste, dove originariamente la 45 Colonna 1987, p. 429. Per la coppa con l’iscrizione menerva.s proveniente dal santuario v. ET Ve 4.1; Colonna 1989-90, p. 878 nota 17; Maggiani 1997, p. 21 A 2 con altra bibliografia. 46 Il deposito votivo da cui proviene la statua, incompleta, con l’oca ha restituito anche statuette di offerenti – fanciulli e nubendae – per i quali l’appartenenza all’àmbito dei riti di passaggio è comprovata da attributi quali melograni, colombe, bullae etc., v. Enea nel Lazio 1981, pp. 73 ss.; Torelli 1984, pp. 137-141; LIMC II.1, 1984, p. 1058 n. 101 (G. Colonna). Le altre due statue rinvenute nello stesso deposito votivo raffigurano Minerva come Athena Tritonia, provvista di elmo e armatura, e paiono rinviare al culto di origine greca; per tutte v. Enea nel Lazio 1981, pp. 190-192 D 61, 193-194. Sul culto di Minerva a Lavinio, attestato anche in un’iscrizione su cippo fittile datato al sec. iii a.C., v. almeno Castagnoli 1979; 1980, pp. 164-167; 1985, pp. 7-12; Fenelli 1989-90, pp. 487-505 (: 494-504 Culto di Minerva). Su Lavinium e sui suoi santuari v. Fenelli 1990, pp. 461491; da ultimo anche Ceccarelli 2011, pp. 225-250 (XVII) con bibliografia di riferimento. 47 Maggiani 1999b, pp. 194-195 (e figg. 7-9), con ulteriore bibliografia e anche per un inquadramento generale; la datazione è fissata al i sec. a.C. Si ricordi per questa caratterizzazione di Minerva la presenza in Capitolio ante cellam Mineruae (Fest. 182) dei Nixi di, cioè tria signa … genibus nixa, uelut praesidentes parientibus nixibus. 48 In una bibliografia molto estesa, ci si limita qui a segnalare, tra gli studi di carattere generale, Wissowa 19122, pp. 256-266; RE VII.1, 1910, coll. 12-42, s.v. Fortuna (W. Otto); DNP IV, 1998, coll. 598-601, s.v. Fortuna (F. Graf); Radke 1965, pp. 132-134, s.v. Fortuna; Kajanto 1981, pp. 502-558; Champeaux 1982; 1987; Coarelli 1988, pp. 244-328 (anche per una revisione critica); i contributi raccolti in Atti Palestrina 1994; LIMC VIII.1, 1997, pp. 125-141, s.v. Fortuna (F. Rausa). 49 V. almeno Champeaux 1982, pp. 199-422; Torelli 1984, pp. 7795, 123-131; Grottanelli 1987; Coarelli 1988, pp. 203-407; 1994, pp. 127-135; Sabbatucci 1988, in part. pp. 209-213, nonché recentemente De Martino 2013. 50 Sulle Fortunae Antiatinae v. infra, p. 19. Per il culto attestato a Gabii da due stelai in tufo con dedica di un L. Oppius a Fortuna, provenienti da un sacello esterno al santuario cosiddetto di Iuno Gabina, v. in part. Rodriguez Almeida 1969, pp. 25-41; Basas Faure 1982, pp. 221-230 (tav. XXX.3-4), nn. 3, 4. Sul santuario di Gabii v. da ultimo quanto indicato in Marroni 2011, pp. 177-204 (XIV). Su Fortuna in Etruria v. recentemente Maras c.s.1.

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Fortuna Primigenia era venerata non in quanto dea delle sortes, bensì in quanto dea curotrofa, materna e nutrice, protettrice delle nascite e delle madri, dalle quali castissime colitur come Cicerone ricorda nel De diuinatione e come testimoniano, inequivocabilmente, la dedica nationu cratia fattale dalla nobile Orceuia Numeri (CIL I2 60, XIV 2863)51 e l’iscrizione delle matronae di Eretum (CIL I2 3047 Add. p. 989). Come la Fortuna prenestina è modello ultraterreno di maternità, primigenia perché nasce per prima e fa nascere,52 tanto che ancora ai tempi di Cicerone ne esiste un’effigie che la ritrae in atto di allattare Iuno e Iuppiter puer (Cic. diu. II, 85: lactens cum Iunone … in gremio sedens mammam adpetens), così anche la Fortuna di Monte Li Santi-Le Rote doveva essere, insieme a Minerva Maia, dea protettrice delle fasi più significative della vita muliebre, Frauengottheit garante della fertilità, della maternità come dei primi passi dell’esistenza umana, e oggetto di venerazione in quanto dea che tutela la donna nell’esperienza del matrimonio e della procreazione e la nuova vita generata. Alla luce dell’affinità che le dee palesano nel santuario di area falisca, meriterebbe (ri)considerare l’associazione di Minerva a Fortuna anche in scene del repertorio iconografico prenestino che probabilmente alludono a riti di passaggio all’età adulta.53 La prima è sulla cista bronzea berlinese da Praeneste (CIL I2 563 e p. 832; Add. p. 905; XIV 4105; Ve 367b), non anteriore alla prima metà del sec. iii a.C., in cui Marte, giovinetto nudo con elmo e scudo, è raffigurato in ginocchio su un pithos alla presenza di un consesso di dieci divinità tra cui Fortuna, provvista di un lungo scettro o tirso ornato di benda, e Minerva, che è chinata su di lui e gli tocca le labbra. La scena è stata oggetto di molteplici e diverse interpretazioni.54 Fra queste, quella formulata da Erika Simon55 appare forse la più lontana dalle valenze curotrofiche e matronali as51 Ve 505. Sull’epigrafe, commentata fra altri da Ernout 1905-06, p. 297 n. 2, v. inoltre Champeaux 1982, pp. 25-27, 40 ss.; recentemente v. Franchi De Bellis 2006, con ulteriore bibliografia; Ead., c.s.1. 52 Per questo significato dell’epiteto Primigenia e per una rassegna critica delle interpretazioni precedenti v. Champeaux 1982, pp. 40-97; Wachter 1987, p. 221; da ultimo Franchi De Bellis 2006, pp. 153157; Ead., c.s.2. 53 Per una rassegna dei tratti comuni caratterizzanti le due divinità v. anche Mastrocinque 1990, pp. 89-93; 2001, pp. 305-316. Non si dimentichi che il tempio arcaico di età serviana consacrato a Fortuna nell’area sacra di Sant’Omobono viene sostituito nell’età di Tarquinio il Superbo da un altro dedicato a Minerva. Per altre (e diverse) associazioni tra Minerva e Fortuna si rinvia a LIMC II.1, 1984, pp. 1097-1098 nn. 333-334 (F. Canciani). 54 Si segnalano in particolare, con posizioni anche diverse, Bordenache Battaglia 1979, I, pp. 50-54, 61 n. 5; II, Tavv. LX-LXIII; Champeaux 1982, pp. 142-145 e ss. (Tavv. VII-VIII); Torelli 1986, pp. 193194; Pairault-Massa 1987; 1992a, p. 115; Menichetti 1995, p. 81 nota 89; 1999, pp. 491-497; LIMC VIII.1, 1997, p. 135 n. 155 (F. Rausa); Franchi De Bellis 2005, pp. 143-147 (Tavv. XXa-b 1, 2, 3) con bibliografia di riferimento. 55 Simon 1978, p. 138 ss. e nota 21 p. 139 anche per una rassegna delle diverse interpretazioni proposte fino alla fine degli anni Settanta; per gli studi successivi, di cui quello della Bordenache Battaglia accoglie l’esegesi greca e le conclusioni della Simon, v. supra nota prec.

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sociate a Minerva e Fortuna e non escluse neppure da chi ha riconosciuto nella raffigurazione ora il dies lustralis, ora il manalis lapis o altri riti ancora, poiché a giudizio della studiosa la scena richiamerebbe piuttosto il mito greco della prigionia di Ares presso gli Aloadi, Oto ed Efialte, e la sua liberazione da parte di Liber-Dioniso. Chi scrive ritiene discriminante quanto osserva e obietta Jacqueline Champeaux, per cui «Si l’hypothèse justifie l’existence du pithos, où Arès était enfermé, elle n’explique de façon satisfaisante ni la présence de Cerbère, ni celle d’Athéna, puisque c’est, selon les variantes, Hermès ou Apollon qui l’ont délivré. Quant au “miracle du vin” que figurerait la scène, Liber, loin de la dominer, n’est qu’un dieu spectateur par miles autres, et l’on ne saurait dire que le pithos y soit “caractérisé comme dionysiaque”».56 Propende quindi per vedere raffigurato nella cista un rito di passaggio degli iuvenes all’età adulta e nello specifico quei liberalia Martis in cui Minerva «… y apparaît en courotrophe, qui entoure de ses soins maternels et nourriciers le jeune dieu dont l’enfance et l’éducation lui sont confiées»57 e Fortuna, «Mère elle-même et courotrophe, de surcroît dispensatrice des destins aux enfants nouveaux-nés, … est toute désignée pour assister à cette scène et pour participer, non seulement par sa présence attentive, mais dans toute la réalité de ses fonctions divines, aux soins que Minerve dispense au jeune Mars».58 La seconda scena prenestina in cui le due dee sono associate è quella sullo specchio in cui Hiaco (Ve 366o)59 è raffigurato come «iuvenis che vive come un trionfo il passaggio alla maturità»,60 su un carro dionisiaco trainato da quattro animali e al cospetto di Fortuna che cinge con il braccio sinistro le spalle di Menerva, appoggiata allo scudo e provvista di elmo ed egida.61

56 Champeaux 1982, p. 144 nota 622; sulla stessa linea si pongono, recentemente, Menichetti 1995; 1999, pp. 491-497; Franchi De Bellis 2005, loc. cit. 57 Champeaux 1982, p. 144. Ancora, la sola Minerva sembra assumere funzione curotrofica nelle raffigurazioni di due specchi etruschi nei quali tiene per mano Mari® Hursnana (CII 480; LIMC II.1, 1984, p. 1063f n. 165 Chiusi e CII 2094; LIMC, ibidem, n. 166 Bolsena). V. in part. Champeaux 1982, pp. 143-145 e nota 618; Pairault-Massa 1987, pp. 217-235; Menichetti 1999, p. 493, figg. 4, 5. 58 Champeaux 1982, p. 145. 59 CIL I2 2498 e Add. p. 904; v. almeno Pairault-Massa 1987, pp. 216-217; Menichetti 1999, p. 495 con bibliografia ulteriore; per l’esegesi linguistica v. Franchi De Bellis 2002, pp. 17-21 (Tav. II); 2005, pp. 112-114 (Tavv. XVa-c 1, 2). 60 Pairault-Massa 1992a, p. 116 e fig. 5; 1992b, p. 62; v. già Matthies 1912, pp. 67-68 fig. 8; Champeaux 1987, pp. 73-74; pl. i. 61 Con ciò non si vuole negare la possibilità che Fortuna sia presente in questo contesto, in cui con Menerva armata compare anche Victoria, più come corrispondente della greca T‡¯Ë che come dea locale, secondo quanto afferma Champeaux 1982, p. 73 nota 191, che per questo motivo data la cista alla seconda metà se non alla fine del sec. iv a.C. Si vuole solo sottolineare come i due aspetti possano coesistere e interagire a livello iconografico e ideologico nel trionfo sulle quattro fiere, aggiogate al carro, quale impresa a cui associare il transitus di Hiaco verso l’immortalità, segnando un più netto passaggio alla concezione ellenistica della dea.

Per questa diversa caratterizzazione delle due divinità, l’una matronale, l’altra guerriera, si è riconosciuto nello schema iconografico dello specchio prenestino il motivo delle Fortunae sorores; nella loro associazione si è vista la testimonianza «di un transitus, di un itinerario, che unisce i riti matrimoniali (di maturità) e conseguimento dell’immortalità (trionfo)»62 e si sono avanzati confronti con le Fortunae Antiatinae raffigurate sulle monete di Q. Rustius di Anzio63 e con l’ex voto marmoreo da Praeneste, in cui le due Fortunae acefale sul ferculum hanno appunto l’una tratti matronali, l’altra amazzonici.64 A Monte Li Santi-Le Rote, tipologia, collocazione ed aspetti epigrafici dei cippi-altarini avvalorano un rapporto di affinità e, probabilmente, anche di complementarità funzionale tra Minerva Maia e Fortuna e ciò per il fatto che il loro legame si manifesta primariamente nella sfera della tutela della maternità, della fecondità, della nascita, ma anche della nutrizione e probabilmente dei cambiamenti dello status giovanile, così che si può convenire con la Pairault-Massa che «leur association […] illustre le double aspect de l’initiation et du mariage».65 Si potrebbe avere qui il motivo di una associazione cultuale per la vicinanza delle funzioni e degli àmbiti di culto, una sorta di complementarità funzionale, comunque una molteplicità di valenze, tutte però coerentemente riferibili alla sfera femminile nei suoi passaggi cruciali, legati al matrimonio, alla fertilità, alla generazione e alla maternità, con tutto ciò che questo implica in forma di tutela della stessa madre e dei suoi figli.66 Ci si può chiedere allora se anche a Monte Li Santi-Le Rote l’associazione tra Fortuna e Minerva Maia non possa rappresentare, al di là di un’innegabile differente identità di queste, un caso assimilabile, nei risvolti funzionali, a quello delle divinità sdoppiate e diadiche comuni alla religiosità dell’Italia antica67 quali sono, oltre alle Fortunae Antiatinae e ai due simu62 Pairault-Massa 1992b, loc. cit. 63 Brendel 1960, nonché Champeaux 1982, pp. 154-155; Coarelli 1987, pp. 74-75 (Fig. 23). Per la descrizione delle Fortunae sul ferculum e per il rito oracolare v. Macrob. Sat. I, 23.13. 64 Nell’interpretazione che ne dà Coarelli 1987, pp. 74-79 (figg. 23, 24); ora anche Franchi De Bellis c.s.2.; la studiosa osserva che l’espressione Praenestinae sorores con cui Stazio allude al culto di Fortuna (Stat. silv. I, 3.80) «può riferirsi ad antichi simboli di culto della Fortuna Primigenia» che sarebbero rispecchiati nell’immagine fittile delle due Fortune velate in trono con in mezzo un infante nudo; ricorda inoltre come anche nel culto anziate le Fortunae fossero considerate protettrici delle madri e dei neonati, secondo Tac. ann. XV, 23.20. 65 Pairault-Massa 1987, p. 216. 66 Si aggiunga inoltre che alla Fortuna Primigenia di Praeneste L. Sariolenus Naeuius dona una statua di Minerva (CIL XIV 2867). Non si dimentichi che ancora sant’Agostino attribuisce a Minerva la facoltà (civ. Dei, 7.3) di dotare i bambini di memoria e che in età imperiale è noto il culto, anche a carattere salutare, della Minerva Medica Memor, su cui v. Bollini 1969; per i luoghi di culto di Minerva Medica Memor v. Granino Cecere 1991, pp. 248-250 (sul santuario di Olevano Romano presso il fiume Sacco); 1992, pp. 130-132; Cenerini 1989 (sul santuario di Santa Maria di Travo-Caverzago, che ha restituito le iscrizioni CIL XI 1292-1309). Sugli appellativi noti per Minerva v. Girard 1981, pp. 216-219. 67 Sul tema v. almeno Zevi 1994, pp. 148-149.

le iscrizioni lacri nel tempio romano della Fortuna Muliebris (cfr. Plut. Cor. 37.5), le figure femminili testimoniate a Cerveteri, Gravisca, a Veio e forse a Pyrgi.68 Non però nel senso che la loro dualità si giochi nell’opposizione tra prerogative guerriere e prerogative matronali, quanto piuttosto che sia una dualità funzionale, da intendersi come condivisione di una medesima sfera di pertinenza, eventualmente ripartita in termini e specializzazioni che qui non ci si azzarda a configurare più precisamente, ma che potrebbe ricordare aspetti non estranei ai culti della fecondità e delle nascite69 nei quali sono coinvolte non solo le singole matrone, ma anche le loro sorelle, come avviene nei Matralia, le feste (le più antiche dell’Urbe) dedicate a Mater Matuta, che significativamente al Foro Boario è geminata con Fortuna, venerata in quel giorno come Fortuna Vergine.70 Iscrizioni su ceramica 3. (Tavv. 3, 4) Fondo su piede ad anello appartenente ad una coppa di bucchero nero P1IVA-C fr 3771 recante un’iscrizione sinistrorsa apposta in prossimità del piede con moderato andamento curvilineo. L’epigrafe, in alfabeto e lingua etruschi, consta di sei lettere di dimensioni piccole e pressoché identiche (8-8,5 mm.), tracciate con uno strumento a punta molto fine e con precisione e sicurezza notevoli.72 Si individuano due a con aste parallele rettilinee e traversa ascendente,73 p con tratto ad arco fortemente pronunciato, l con traversa saliente, corta e fortemente addossata all’asta (un guasto della superficie all’incrocio dei tratti costituenti il segno non ne compromette la lettura), u privo di pedun-

68 Su cui v. Gentili 1989-90, pp. 719-728. Per un richiamo alla tipologia delle Fortunae sorores in àmbito etrusco, in particolare per il bronzetto femminile del Vaticano con la dedica di tite alpnas, v. Maras 2009a, p. 301 OA do.4 con bibliografia di riferimento; Id., c.s.1. 69 Zevi 1992. 70 V. almeno Sabbatucci 1988, pp. 206-213. In questa sede non si entra nel merito del culto di Mater Matuta, per cui basti il rinvio a RE XIV.2, 1930, coll. 2326-2329, s.v. Matuta (H.Ch. Link); LIMC VI.1, 1992, pp. 379-381, s.v. Mater Matuta (E. Simon), oltre che a Hadzisteliou Price 1978, né si accenna alla questione delle Matres venerate anche nelle aree celto-germanica e indiana. 71 L’US 213 è contenuta all’interno di una fossetta sacrificale correlata alla fornace II, nell’ambiente di servizio E; per la sua descrizione v. qui De Lucia Brolli, Parte I, p. 76, e precedentemente De Lucia Brolli, Benedettini 1996, pp. 433-434; De Lucia Brolli, Biondi 2002, pp. 365-366. Lo stato di conservazione non consente un inquadramento puntuale del tipo di coppa (v. qui Carlucci, P1IVA-C fr 37) e rende difficile anche una datazione del reperto, peraltro proveniente da una Unità stratigrafica non dirimente (fine v sec.a.C.?). 72 L’esecuzione è molto accurata al punto da far pensare che potrebbe essere stata apposta a crudo sul fondo esterno. 73 La ripulitura della superficie, eseguita con microscopio a scansione elettronica, ha reso visibile una linea discontinua ad arco, intenzionale benché apposta debolmente, che unisce i vertici delle aste della seconda a. Essa completa i tre tratti incisi come a con la traversa ascendente che congiunge le estremità inferiore e superiore delle due aste rettilinee.

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colo e sigma a tre tratti.74 In altra sede si è proposto di leggere75 apalus e di riconoscervi un’iscrizione di possesso costituita da  una forma onomastica monomembre al caso genitivo (-s). In apalu, infatti, si è supposto un nome personale derivato dal sostantivo apa76 “padre”77 mediante suffisso alu, che come formante patronimici è ampiamente noto nell’Etruria padana78 ma di cui non mancano affatto attestazioni nell’Etruria propria, soprattutto settentrionale.79 Tali sono le occorrenze chiusine di velcialu (CIE 2092 [ET Cl 1.1599], 2093 [ET Cl 1.1600], cfr. velcialual in CIE 1668 [ET Cl 1.1184])80 e quelle di celtalu (cfr. celtalual in CIE 1727, loc. inc. [ET Cl 1.1232]),81 trepalu (cfr. trepalual in CIE 1892, loc. inc. [ET Cl 1.1379])82 e probabilmente *ucalu 74 L’epigrafe è databile entro il v sec. a.C. L’alfabeto è di tipo veiente. Riscontri formali per le lettere n, l, u e s sono rilevabili, ad esempio, nelle epigrafi da Narce CIE 8419-8423 e ET Fa 12.12 velıarus velanas graffita su coppa a vernice rossa (sull’iscrizione v. G. Buonamici, in «StEtr» 15, 1941, pp. 370-371; Giacomelli 1963, n. LIV; Cristofani 1988, p. 22 n. 9) dello stesso tipo di quella qui esaminata. 75 Biondi 2002, p. 367 n. 76 (tav. XXXII). V. ora CIE 8899, tav. XXXV; Morandi Tarabella 2004, p. 71 n. XXXIX, 693. 76 Meno probabile è pensare ad ap che, come sigla, ricorre ad esempio ad Orvieto, «StEtr» s. III, 41, 1973, p. 312 n. 81, tav. LXXIX (M. Cristofani Martelli); Roselle, «StEtr» s. III, 42, 1974, p. 245 n. 145 fig. 11, p. 252 n. 179 fig. 13 (M. Michelucci); Castiglione del Lago, CIE 4727b (ET Cl 1.464b); Città della Pieve, in Atti Chianciano Terme, 1993, p. 443 (P. Bruschetti); Siena, CIE 291 (ET AS 1.489); Tarquinia, San Giuliano CIE 10451; Spina, «StEtr» s. III, 47, 1991, p. 248 n. 3 (S. Patitucci); con dubbio Chiusi, CIE 4727 (ET Cl 1.464). 77 Tra le occorrenze del nome di più recente acquisizione si ricordi l’epigrafe pisana apa® mi, in «StEtr» s. III, 64 (1998), 2001, pp. 335-336 n. 3, tav. XXXVII (S. Bruni). Il sostantivo apa si legge anche in un’iscrizione su vasetto dall’area capenate (Ve 360e; CIE 8458; Giacomelli 1963, Appendice, pp. 268-269 n. XXXVII.ii). Per la funzione di apa come epiteto di personalità divine (ad es. ±ur/±uri a Pyrgi o al tempio del Belvedere a Orvieto) v. G. Colonna, in Santuari d’Etruria 1985, p. 96; Id., in «StEtr» s. III, 55, 1989, p. 326 ad n. 96; Maras 2009a, pp. 111, 150-151, 428 (per Orvieto, Vs co.2-3), 339, 341, 345 (per Pyrgi, Py co.16, 20, 29). Sul nome v. anche De Simone 1991, pp. 139-141. 78 Sul suffisso -alu e sulla sua diffusione in etrusco v. già Schulze 1933, p. 177 nota 1; Pfiffig 1961, p. 328; 1962, p. 151, ma soprattutto Rix 1963, p. 182; De Simone 1970, pp. 222-224; Cristofani 1976b, pp. 211-212, 214; Prosdocimi 1991, pp. 163-176; Sassatelli 1992, pp. 708711, e da ultimo Uggeri 1998, pp. 491-503 che prende in esame tutte le occorrenze del suffisso e pubblica anche epigrafi inedite dall’abitato di Spina e dal sepolcreto di Valle Pega. Di queste ultime dà notizia poi G. Colonna, in «StEtr» s. III, 74, 2008, pp. 369-372 nn. 114123, tav. XLVII (con ulteriori confronti onomastici e con bibliografia precedente relativa all’epigrafia spinetica, a cui si rinvia). Sulla questione del rapporto con i formanti nell’onomastica leponzia e/o retica, su cui in particolare, dopo W. Corssen, v. Pedersen 1921, pp. 38-54 (: 47); Terracini 1931, pp. 336-346; Thurneysen 1933, pp. 6-7; Lejeune 1971, p. 52, v. l’imprescindibile revisione critica di Prosdocimi 1991. 79 Come afferma G. Uggeri (1998, p. 492): «È probabile che da qui alcuni tipi onomastici siano scesi lungo la penisola, specialmente a Chiusi, città con la quale Spina ebbe contatti più stretti come dimostra molta onomastica in comune, quasi fosse stata un’emanazione dell’Etruria più interna nella Padania etrusca». 80 Uggeri 1998, p. 500 n. 45, a cui si rinvia per i confronti onomastici; v. anche Morandi Tarabella 2004, p. 12. 81 Uggeri 1998, p. 500 n. 44. 82 Uggeri 1998, p. 500 n. 46.

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(cfr. ucalui in CIE 3006, loc. inc. [ET Cl 1.2607]),83 a cui si aggiungono, sempre in età recente, le attestazioni da Asciano claucalu (cfr. claucalual ET AS 1.107)84 e ceicnalu (cfr. ceicnalual ET AS 1.157),85 quelle vulcenti ceistalu (al gen. in ET Vc 2.49)86 e tarsalu (al gen. in CIE 5241 [ET Vc 1.4; TLE2 313]),87 le occorrenze di vetalu su sestanti populoniesi (ad es. TLE2 379;88 794),89 una volta escluso che si tratti di un poleonimo e lo si intenda invece come nome personale,90 nonché quelle su cippo -a-l - -alu dal Fosso dell’Osteria91 e analu[ da Fiesole (peraltro dubbia e di età arcaica).92 Recentemente però, Daniele Federico Maras ha proposto di connettere apalu(s) con aplu e con il nome di Apollo, di cui costituirebbe la più antica occorrenza etrusca, databile nel corso della prima metà del sec. v a.C., che si affiancherebbe «alla poco più antica attestazione falisca CIE 8030 (al genitivo apolonos), proveniente dal santuario maggiore dell’acropoli di Falerii».93 Come in questa epigrafe, anche in quella da Monte Li Santi-Le Rote avremmo un testo breve, costituito dal solo teonimo e al genitivo (con valore di possesso), come spesso per l’Etruria documentano le iscrizioni votive a partire dal sec. vi a.C.94 L’ipotesi del teonimo non era stata presa in considerazione da chi scrive a motivo della problematicità del significante e che, al di là dell’innegabile e indubbio interesse per le implicazioni religiose e più latamente culturali che conseguono all’interpretazione di apalu quale nome etrusco del dio ellenico in un santuario dell’ager 83 Uggeri 1998, p. 500 n. 47. 84 E. Mangani, in «StEtr» s. III, 50, 1982 p. 108 ss.; Uggeri 1998, pp. 499-500 n. 43. 85 E. Mangani, in «StEtr» s. III, 50, 1982, p. 131 n. 61; Uggeri 1998, p. 499 n. 42. 86 M.T. Falconi Amorelli, in «StEtr» s. III, 33, 1965, pp. 469-470 n. 2 (tav. CI d) su anforone; v. poi Uggeri 1998, pp. 500-501 n. 49; Morandi Tarabella 2004, p. 12 n. CVII. 87 Uggeri 1998, p. 501 n. 50; Morandi Tarabella 2004, pp. 508509 n. DXXXIX, 650, 653. 88 CII 293; ET NU N. 9. 89 ET NU N. 30. Per le occorrenze di vetalu, dopo Cristofani 1976b, pp. 210-211 con bibliografia ulteriore, v. ThLE1, s.vv. vetalu; ET, I, cit., e ora ThLE2, s.v. vetalu; Uggeri 1998, p. 501 n. 48. 90 In vetalu si era riconosciuto il nome etrusco di Vetulonia e, negli esemplari di monete in cui ricorre insieme a f/pufluna e ca, si era visto il riferimento ad un’alleanza monetale tra Populonia, Vetulonia e Caere; così Garrucci 1885, p. 56 n. 10; poi Sambon 1903, pp. 32, 73 n. 120; CIE II, 1.2, pp. 105, 116. Contra Cristofani 1976a, pp. 351-352; 1976b, pp. 209-214; allo studioso si deve l’aver supposto in vetalu un nome personale in -alu e (: 212) da intendersi o come (: 214) «nome di un autore di conio» o più probabilmente, «perché inserita nel quadro della monetazione romana di età repubblicana dove il monetiere appone il proprio nome accanto a quello di Roma», come «nome di un magistrato. Questa seconda ipotesi trova una conferma anche nella monetazione etrusca se si accetta […] che le leggende vercnas e peiıesa indichino nomi personali […]». 91 M. T. Falconi Amorelli, in «StEtr» s. III, 31, 1963, p. 201 n. 30, che legge .] alt […] alu; Uggeri 1998, p. 501 n. 51. 92 A. Maggiani, in «StEtr» s. III, 51, 1983, pp. 248-249 n. 58; Uggeri 1998, p. 499 n. 41. 93 Maras 2009b, pp. 246-247, e già Id., ad CIE 8899, p. 109: «… sed, ut opinor, varia lectio nominis Apollinis potest esse (recenti aetate aplu)»; 2009, pp. 139, 287-288 Fa co.1. 94 Di cui tratta Colonna 1989-90, pp. 879-880; per la tipologia della consacrazione alla divinità v. Maras 2009a, p. 69 ss.

Faliscus, dove sarebbe assimilato all’etrusco ±ur/±uri e al suo omologo falisco Pater Soranus, ancora ad oggi appare non irrilevante. In ogni caso, le argomentazioni addotte dallo studioso danno modo di esplicitare alcune osservazioni e precisazioni. In Etruria, le occorrenze del teonimo greco che non attestano la sincope non presentano mai /a/ in sillaba interna, bensì un vocoide posteriore: apulu è forma attestata di frequente nel sec. v a.C. e in quello seguente.95 Nella prospettiva di un grecismo del lessico religioso etrusco, apalu farebbe una certa difficoltà in quanto «inconsueta resa aperta della -o- greca nell’ambito del prestito»,96 e ciò anche considerando che la variabilità osservabile in etrusco nel trattamento del vocalismo nei grecismi non è, almeno al momento, evidente per il nome di Apollo. Una difficoltà permane anche nell’ipotesi che apalu sia «un caso precoce di anaptissi con adozione del colore della vocale precedente».97 Non ci si riferisce al fatto che essa richieda di interpretare apalu come variante generatasi a partire da una forma già sincopata, che sarà da identificare in aplu (non in aplun)98 e che peraltro è nota solo successivamente, a partire dal sec. iv a.C.99 L’etrusco, infatti, conosce anche a data abbastanza alta fenomeni di sincope di vocale breve posttonica.100 Anche il

95 Se ne ha un’occorrenza anche su uno specchio della fine del sec. iv a.C. (De Simone 1968, p. 21 n. 18; ora CIE 8897, tav. xxxiv) forse proveniente da Civita Castellana ma ritenuto un falso da Fischer e Graf. Non la si può, pertanto, invocare a testimonianza di una presenza di apulu nell’ager Faliscus alla fine del sec. iv a.C., ma resta vero che ancora in questo secolo la forma non sincopata apulu conta numerose attestazioni, v. De Simone 1968, pp. 19-23 e 1970, pp. 10, 31, 41-42 § 39, 65, 213-215 e passim per una valutazione del complesso delle occorrenze. Per le attestazioni del teonimo in etrusco si rinvia, oltre che a ThLE1, s.vv. aplu, apulu; De Simone 1970, pp. 19-23; ET I, s.v. apulu, anche a ThLE2, s.vv. aplu, apulu. V. inoltre LIMC II, 1984, pp. 335-363, s.v. Aplu (I. Krauskopf); per le occorrenze nelle epigrafi cultuali etrusche v. ora Maras 2009a, pp. 121, 130, 135, 139, 464 e passim. 96 Maras 2009b, p. 246 nota 54, che prospetta questa come seconda possibilità, proposta come unica in 2009a, pp. 139 e 288 Fa co.1. Non concordo con lo studioso nell’intendere apulu come variante in cui (Maras 2009a, p. 139 nota 5) «il colore della vocale aggiunta è stato determinato dalla sillaba seguente anziché da quella tonica»; difficilmente si tratterà di anaptissi, quanto piuttosto della forma non sincopata del teonimo con resa u del vocalismo velare greco. 97 Maras 2009b, loc. cit. nota prec. 98 La forma aplun (ET OI S. 54) è riferita ad uno specchio berlinese, ora perduto, rinvenuto ad Orbetello e datato intorno al 470 a.C.; v. Mansuelli 1946-47, pp. 12, 49 (attr. Maestro di Peleo e Teti, n. 3); De Simone 1970, p. 41 con altra bibliografia. Di età ellenistica sarebbe invece l’altra attestazione su specchio, anch’esso perduto, CII 2473; v. De Simone 1970, pp. 19, 42; 1968, p. 22. V. però quanto G. Colonna osserva in 1997b, pp. 172, 182 nota 30 nell’escludere aplun, rinviando a Simon 1981, pp. 98, 101, 104. 99 Tra le occorrenze del nome aplu di più recente acquisizione si ricordino quella sulla sors di Arezzo (Maggiani 1986, p. 26 ss. e, da ultimo, Maras 2009a, pp. 225-226 Ar co.4 con bibliografia di riferimento), quella (al gen.) su bronzetto di bambino seduto con tunichetta, di area vulcente o tarquiniese del sec. iii a.C. (Bentz, Steinbauer 2001, p. 72 s.; Maras 2009a, pp. 298-299 OA co.6), e quella apl da Pontecagnano (G. Colonna, in «StEtr» s. III, 73, 2007 [2009], p. 358 n. 87, Tav. LVIII) e supra, p. 5 nota 25; Maras 2009a, p. 464 Cm co.5 Add.). 100 Sul fenomeno della sincope, osservato almeno dal 520-510 a.C. circa, v. anche Colonna 1990a, p. 18 e nota 42; 1997a, p. 94 e 97 nota 7.

le iscrizioni fenomeno dell’anaptissi è acclarato101 e, dunque, è opportuno chiedersi se essa operi in apalu. Semmai, non appare secondaria una precisazione riguardo all’attribuzione linguistica del fenomeno in rapporto allo specifico contesto falisco. L’epigrafia di Narce e quella di Corchiano indicano proprio nell’anaptissi un tratto di falischizzazione linguistica della componente etruscofona lì stanziata, e il riflesso di una situazione di interferenza etrusco-falisca che tende ad evitare la sincope vocalica, estranea alla fonetica del falisco, e che dà luogo a esiti quali tafina (TLE2 30 da Narce102 e CIE 8917 da Corchiano)103 rispetto a forme come ıapna, ıavhna104 note altrove in etrusco. Nella prospettiva di uno statuto teonimico per l’etr. apalu, pertanto, non si può affatto escludere di vedervi una variante in cui a della sillaba mediana è frutto di un’anaptissi verificatasi nell’etrusco parlato non nell’Etruria propria, ma in un’area di intenso contatto etrusco-falisco quale è appunto Narce fin dall’età arcaica.105 Dunque, non un fenomeno di conservatorismo linguistico dell’etrusco mantenutosi in un’area laterale come l’ager Faliscus settentrionale, bensì un fenomeno di innovazione prodottosi in seno alla comunità stanziale etrusca, che avrebbe recepito un tratto tipico del sistema linguistico falisco e vi si sarebbe adeguata, dando luogo ad una variante anaptittica come apalu a partire da etr. aplu.106 Ciò farebbe del prestito apalu un caso analogo a quello citato di tafina, nome etrusco di vaso. Se non fosse che, anche supponendo che nell’interferenza con il falisco in un testo linguisticamente etrusco risieda la motivazione dell’allomorfia del teonimo, resterebbe il fatto che essa comporta per la sillaba mediana un vocalismo che, attualmente, è un unicum nel novero delle forme etrusche del nome di Apollo107 e giustificabile solo in virtù del vocalismo iniziale a-. Inoltre, la sua provenienza da un’area

101 Sul fenomeno v. anche Agostiniani 1981; G. Colonna, A. Di Napoli, in «StEtr» s. III, 65-68, 2002, pp. 351-357 n. 71, nonché Maggiani 1999a, p. 56 (per il caso di celeniarasi della stele di Saturnia ET AV 1.31 rispetto a cliniiaras della kylix di Oltos). In merito ad apalu, per Maras 2009a, p. 288: «l’anaptissi si spiegherebbe meglio nella seconda metà del v sec. a.C., quando simili fenomeni sono dovuti probabilmente ad una sorta di reazione alla sincope (cfr. p. es. herecele in ET Pi S.1, hercales in OA co.4)»; v. anche Id., c.s.2. 102 Cristofani 1988, pp. 15-16, 23 n. 10; ET Fa 2.14; CIE 8901, con bibliografia di riferimento e datazione alla prima metà del sec. iii a.C. 103 Per l’iscrizione da Corchiano, in lingua e alfabeto etruschi, v. Colonna 1990b, pp. 118-120 (fig. 2, tav. Ia); Maras, c.s.2., p. 268 n. 14. 104 Per questi aspetti v. quanto osserva per Corchiano Peruzzi 1990b, pp. 281-282. 105 Sul tema v. almeno Baglione 1986, pp. 128 ss.; Cristofani 1988, pp. 14-17; 1996b, pp. 11-18; Colonna 1990, pp. 125-128; De Lucia Brolli, Biondi 2002 con bibliografia di riferimento; Maras, c.s.2. 106 Con Peruzzi 1990b, p. 282, si dovrebbe supporre che come per l’assenza di sincope a Corchiano, così anche a Narce l’inserimento di una vocale anaptittica rientri non nei «fatti di conservazione dell’etrusco arcaico in area marginale o coloniale», ma tra le «innovazioni dovute all’adattamento dell’etrusco al falisco». 107 Ciò anche volendo condividere l’opinione di De Simone 1970, p. 70 § 65, per cui per varianti come Apulu/Aplun: «Es darf also als sicher gelten, daß den verschiedenen Schreibungen der Vokale in den Mittelsilben im 5. Jh. im Etruskischen kein funktioneller Wert zuzuschreiben ist».

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di contatto etrusco-falisco come l’ager Faliscus settentrionale apre anche la questione (secondaria) di un possibile rapporto con le realizzazioni epicoriche del teonimo: di poco antecedente ad apalus di Monte Li Santi-Le Rote è apolonos attestato a Falerii nel santuario del colle di Vignale (CIE 8030),108 in cui o della seconda sillaba non è anaptittico ma etimologico e rende il vocalismo velare /o/ del modello greco109 come, sempre a Falerii ma più tardi, conferma anche apolo (CIE 8182), probabilmente nome di uno schiavo sepolto in una tomba della necropoli di Celle.110 È innegabile che riconoscere in apalu il nome di Apollo porta con sé conseguenze rilevantissime, perché costituirebbe l’attestazione etrusca (meglio, etrusco-falisca) più antica del teonimo e, soprattutto, perché nel santuario di Monte Li Santi-Le Rote ne attesterebbe un culto dalle caratteristiche (cata)ctonie, come coerentemente Daniele F. Maras evince dal contesto di rinvenimento dell’iscrizione,111 compatibili con quello del dio ìnfero ±ur/±uri, che di Apollo è una delle ipostasi venerate in Etruria (ad esempio a Pyrgi, dove è detto anche apa), e del Sanctus Soranus Apollo di cui il dio etrusco è omologo. La nuova testimonianza, di fatto, documenterebbe «una precoce assimilazione del locale Pater Soranus al greco \AfiÏψÓ, che prelude all’analogo fenomeno che ha interessato in Etruria il dio ±uri, a Pyrgi112 come altrove».113 Ma pur ammettendo che anche l’ipotesi di apalu come nome personale in -alu trova elementi di incertezza (forse nel fatto che il suffisso patronimico si combina 108 Ve 260; Giacomelli 1963, p. 59 n. 31; Comella 1986, p. 171 n. 28 (tav. 76), con bibliografia di riferimento; Hartmann 2005, p. 16 § 2.1.4; v. inoltre Colonna 1991-92, p. 97; 1996a, p. 358, nota 32; 2007 (2009), p. 124 e nota 169; 2010-13, pp. 98-99. Sul culto di Vignale v. anche Carlucci 2007, p. 91. 109 Sulle forme del nome di Apollo nell’Italia antica anche v. le sintesi offerte da Wachter 1987, pp. 134-135 § 55 (a proposito di CIL I2 563), 397-398 § 184; Vine 1993, pp. 241-246; Campanile 1991b, pp. 286-287. 110 Ve 246; Giacomelli 1963, p. 147. Ovviamente, ai nostri fini è irrilevante l’eventualità che non si tratti di un teonimo, come invece nel caso dell’iscrizione CIE 8030 su frammento di kylix. 111 Maras 2009a, p. 287: «Il documento compare in un contesto tanto più significativo in quanto il vaso sembra essere stato consacrato alla divinità sin dalla sua produzione ed è stato deposto assieme ad altri strumenti utilizzati nei rituali di sacrificio e libazione. La presenza di un altare perforato per offerte liquide di carattere (cata)ctonio è particolarmente importante per la comprensione del culto della divinità etrusca (in questo caso etrusco-falisca: ±uri-Soranus) cui è stato attribuito per assimilazione il nome greco di Apollo»; v. anche ivi, pp. 139 e Fa co.1. Per il contesto v. supra, ad nn. 1, 2. 112 Sul dio ±ur/±uri e sulla sua assimilazione ad Apollo si rinvia in particolare ai contributi di Colonna 1985, p. 116 ss.; 1994b, pp. 98-99; 1996a; 1997b, pp. 176-181; 2007 (2009), pp. 101-134 (tavv. XXI-XXXII); 2009 (2012) con bibliografia di riferimento; 2010-13, pp. 98-99 e ivi, pp. 294-295, n. 52; diversamente Thuillier 2012. Per le iscrizioni di culto che ne attestano il nome v. Maras 2009a, pp. 108, 114, 121, 135, 157, 467 e passim con bibliografia di riferimento. 113 Maras 2009b, p. 246, che aggiunge (: p. 247): «Le due iscrizioni considerate assieme [n.d.A. quella di Monte Li Santi-Le Rote e CIE 8899, proveniente dalla necropoli delle Colonnette e commentata alle pp. 244-246], quindi, potrebbero gettare luce sulla possibilità di un’interferenza latino-falisca o meglio di una preminenza di Narce e Falerii nell’accoglimento di elementi greci nel culto della divinità [scil. Pater Soranus], che in Etruria ha a lungo conservato forme onomastiche locali».

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di solito con basi onomastiche personali e non con un nome comune come apa,114 più che nella minor diffusione del suffisso al di fuori dell’area padana),115 si ritiene più prudente attenerci ancora a questa interpretazione e, in attesa di ulteriori dati, supporre in apalu la testimonianza della frequentazione del santuario suburbano di Narce da parte di etruscofoni, probabilmente insediati nell’ager Faliscus settentrionale (come lo è, all’incirca nello stesso periodo, il membro della famiglia peiıe nell’iscrizione seguente). 4. (Tavv. 3, 5) Coppa a vernice rossa con labbro distinto arrotondato P4ID 1, parzialmente ricomposta,116 databile alla seconda metà (terzo quarto) del sec. v a.C., recante sulla superficie interna della vasca, poco sotto l’orlo, l’iscrizione sinistrorsa: peiıe L’iscrizione, graffita dopo la cottura in alfabeto e lingua etruschi, è completa117 e consta di cinque segni ben distanziati (h. mm. 10-17): la lettera p è del tipo a uncino (molto angolato), le due e, ancora con peduncolo, presentano tratti paralleli e fortemente obliqui che non tangono l’asta verticale; ı è privo del punto centrale.118 La sequenza corrisponde ad un nome personale etrusco in -e,119 attestato in età recente in Etruria settentrionale nella forma del gentilizio peiıe a Bruscalupo (CIE 575 [ET Cl 1.543]) e probabilmente a Chiusi (loc. inc. CIE 3230

114 Il nome, peraltro, non è estraneo alla formazione di derivati onomastici, solo che si pensi a gentilizi come *Apa-rai-e (> Aparie > Aprie) e aparna (se dal plur. *apar-na, con G. Colonna, in «StEtr» s. III, 74, 2008, p. 284). Si consideri che non sono certo infrequenti forme onomastiche personali derivate da nomi di parentela come papa e ati. 115 Che infatti trova non poche attestazioni, v. supra. Tra i patronimici provenienti dall’abitato di Spina, del resto, tul[?]alu è di sicura origine latino-falisca e documenta (G. Colonna, in «StEtr» s. III, 74, 2008, p. 370 n. 116) «l’arrivo del gruppo dalla bassa valle del Tevere, e in età piuttosto recente: si tratta infatti di un ‘Lallname’ di maschi in ambito latino, sabino ed etrusco (basti citare i gentilizi Tatius ed etr. Tatana, formati entrambi su di esso), a Spina riferito anche a donne … » (e già Uggeri 1998, p. 497 n. 25). E potrebbe non essere casuale, in questa medesima prospettiva, che fuori dall’area padana il suffisso -alu sia noto anche nell’agro chiusino. Da questa zona, infatti, vengono in età recente alcune gentes etrusche, v. infra, ad n. 4. 116 De Lucia Brolli, Biondi 2002, p. 365; De Lucia Brolli, ibid., p. 366, mette in luce l’affinità con gli esemplari iscritti rinvenuti nelle tombe 18 e 3 del sepolcreto del Cavone di Monte Li Santi, come l’abitato omonimo collegato strettamente al santuario suburbano de Le Rote; per il contesto v. ora anche ivi, P4ID 1; v. anche infra, p. 21 nota 133. 117 La superficie della vasca non reca altri segni intenzionali e i due graffi orizzontali che tagliano, quasi parallelamente, nella metà superiore le lettere centrali del graffito paiono, se non accidentali, indipendenti dall’esecuzione di quello. Per la descrizione del reperto v. qui, p. 247 e quanto già scritto nella prima sede di pubblicazione, per cui v. Biondi 2002, pp. 367-370 n. 77 (tav. XXXII); l’epigrafe è ora in CIE 8900 (tav. XXXV); v. da ultimo anche Maras, c.s.2, pp. 266-267 n. 11, fig. 6 (con datazione alla prima metà - decenni centrali del sec. v a.C.). 118 A Narce il segno theta, nella variante senza punto centrale, compare ad esempio in CIE 8428 (Giacomelli 1963, Appendice, p. 271 n. LII) e in 8904; per altre occorrenze in iscrizioni etrusche o etruschizzanti in area falisca v. Giacomelli 1963, pp. 34, 39. 119 Rix 1963, pp. 236-238.

[ET Cl 8.1]) in peiı[,120 e nella forma in -sa peiıesa, incisa su monete bronzee diffuse nell’Etruria interna – Val di Chiana tra Arezzo e Bolsena, e Chiusi121 – tra la metà e la fine del sec. iii a.C.122 e che la nuova e più antica occorrenza dal santuario suburbano di Narce non osta ad interpretare come nome personale al genitivo dell’autorità ufficiale garante dell’emissione123 piuttosto che come poleonimo.124 La distribuzione areale del gentilizio peiıe in Etruria è alquanto significativa perché è circoscritta alla sola Val di Chiana anche nelle sue occorrenze su moneta, con prevalenza dell’area chiusina (Sarteano, Bruscalupo, la stessa Chiusi), e la circostanza richiama quanto Emilio Peruzzi osserva sulla provenienza di alcune gentes etrusche di Corchiano quali i marcna, i tetina, i murina, i numsina e gli zu¯u:125 «L’origine degli etruschi presenti a Corchiano risulta evidente se distribuiamo sulla carta i loro gentilizi: salvo pochissime e sporadiche eccezioni, essi appartengono ad una zona racchiusa da una linea che procedendo da Castiglione del Lago va a Lucignano e Montaperti a nord, e poi discende ad Asciano, Montepulciano, Sarteano, Cetona, Città della Pieve, risalendo per Chiusi al lago Trasimeno. Però, entro questa zona, i gentilizi sono concentrati massicciamente in prossimità del Trasimeno, nell’area di Montepulciano, Città della Pieve, Castiglione del Lago. Rispetto a tale distribuzione nell’agro chiusino, le pochissime testimonianze di Montaperti, Asciano e Lucignano sono chiaramente eccentriche». Con ragione, Peruzzi giudica recente il trasferimento a Corchiano di queste famiglie etrusche originarie dell’agro chiusino, poiché la facies linguistica delle epigrafi che le riguardano evidenzia «una sensibile 120 Forse anche pei[ Chiusi, loc. inc. CIE 3118 (in una formula onomastica); meno probabile CII app. 73 Cosa. Cfr. gentil. femm. peiıi: CIE 1364 (ET Cl 1.273 Chiusi); 600 (ET Cl 1.570 Bruscalupo); 4764 (ET Cl 1.2064 Bruscalupo); 915 (ET Cl 1.1044 Montepulciano); 1505 (ET Cl 1.854 Sarteano); 1981 (ET Cl 1.1091 loc. inc.); gen. peiıial: CIE 1365 (ET Cl 1.274 Chiusi); 1982 (ET Cl 1.1092 loc. inc.); 2063 (ET Cl 1.1558 loc. inc.). V. anche nella medesima area (oltre che a Tarquinia) il gentilizio peiına, che è confermato anche nel metronimico (al gen.) aretino di CIE 2834 (ET Ar 1.84) da S. Farulli, in «StEtr» s. III, 74, 2008, pp. 376-378 n. 128. Sul gentilizio v. anche Morandi Tarabella 2004, p. 362 n. XXXIX. 121 Chiusi, loc. inc. TLE2 565 (ET Cl NU N. 14); cfr. anche or. inc. TLE2 798. 122 Sambon 1903, p. 76 n. 128a. 123 Così Baglione 1976b, pp. 153-175, in part. pp. 153, 162-165, 174-175, e ivi Cristofani 1976a, p. 355: «Accettando l’ipotesi che in queste monete sia iscritto un nome personale possono essere ricordati come “calchi” linguistici le leggende delle monete romane di età repubblicana nelle quali alcuni nomi di monetieri ricorrono in genitivo» (e p. 366: «Le monete di tipo vercnas e peiıesa presentano chiaramente delle irregolarità rispetto al resto delle monete etrusche, non solo nella leggenda, che individua a mio modo di vedere nomi personali e non nomi di città, ma anche nel settore dei simboli, differenti da quelli attestati in altre serie coniate»; p. 367 v. supra, p. 18 nota 90); F.M. Vanni, in Civiltà degli Etruschi 1985, p. 373 (si ricorda anche un esemplare con legenda peiıesa da Carpineto in Valdarno); Catalli 1990b, pp. 111-113. 124 Nell’interpretazione data già da Sambon 1870, pp. 64, 66 e 1903, p. 76 n. 128: «Ces monnaies se trouvent habituellement dans la vallée de Chiana entre Arezzo et Bolsena; c’est là qu’il faudra placer la ville de Peithesa, autrement inconnue». Favorevoli ad interpretare peiıesa come toponimo anche Garrucci 1885, pp. 44-45, 58-59 (tav. LXXVI); Pallottino 1937, pp. 347, 356; 19847, p. 308. 125 Peruzzi 1990b, pp. 277-289 (: 283) e già 1964.

le iscrizioni azione assimilatrice da parte dei falischi»,126 per quanto non totalmente compiuta, ma che richiede l’accertamento della ragione per cui «in quel punto [scil. Corchiano] che controlla una arteria di grande traffico quale è la via Amerina si stanziano gentes chiusine». Non meno condivisibile è l’idea che un tale processo di integrazione linguistica e culturale mal si concilierebbe con una datazione delle epigrafi successiva alla durissima sconfitta falisca del 241 a.C.127 La nuova attestazione dal santuario di Monte Li SantiLe Rote, la cui cronologia è compatibile con quella della coppa su cui è graffita e può essere fissata alla seconda metà del sec. v a.C., precede però quelle di Corchiano, da cui si distingue anche per tipologia del supporto scrittorio (oggetto mobile quello da Narce, iscrizioni sepolcrali quelle corchianesi). Ciò non esclude, a priori, che la presenza di un peiıe presso il santuario suburbano di Narce sia fatto episodico e che, in ogni caso, sia dovuta a motivazioni diverse da quelle che in età recente porteranno gentes etrusche (come quelle prima ricordate) a trasferirsi dall’agro chiusino a Corchiano. E a questo proposito Giovanni Colonna, che privilegia una matrice ‘tiberina’ – veientevolsiniese – per l’onomastica etrusca di Corchiano nei secc. vi-v a.C.,128 pone in rilievo come la distribuzione della famiglia onomastica connessa a paiıe (di cui peiıe con rappresenterebbe la tendenza alla monottongazione di ai > e > i)129 in quei medesimi secoli sia localizzata nell’Etruria meridionale, ad Orvieto, Vulci e Gravisca, e come la stessa presenza dei peiıe a Chiusi possa spiegarsi con i rapporti intercorsi in età ellenistica fra Orvieto e Chiusi. Il peiıe di Monte Li Santi-Le Rote, dunque, potrebbe far intravedere una diversa direttrice di diffusione del nome che, in quanto di origine latina,130 avrebbe raggiunto l’Etruria meridionale attraverso l’area falisca.131 In ogni caso, anche non volendo trascurare eventuali diversità nelle dinamiche e nei tempi dei rapporti tra i

126 Peruzzi 1990b, p. 289: «[…] deve trattarsi di provenienza recente perché a Corchiano coesistono elemento etrusco e falisco e le epigrafi mostrano che il processo di falischizzazione è imperfetto, ancora in atto». 127 Peruzzi 1990b, loc. cit.: «Non abbiamo indizi di cronologia, ma è difficile pensare che ciò avvenga nell’epoca della completa decadenza dei falischi, ossia che le iscrizioni di Corchiano siano da assegnare a una data successiva alla totale disfatta dei falischi nel 241 a.C., come vuole il Vetter». 128 Colonna 1990, p. 120 nota 39. 129 Tale monottongazione per Colonna 1983 (1985), p. 158, «comincia a manifestarsi a livello di scrittura già nella seconda metà del vi secolo». 130 Schulze 1933, p. 205; Rix 1963, p. 238 e nota 156; Colonna 1983 (1985), loc. cit., nonché Meiser 1996, p. 193. Per Paetus v. anche Reichmuth 1956, p. 44; Kajanto 1982, p. 239. 131 Merita però di essere ulteriormente considerato il fatto che, tuttora, l’epigrafia orvietana conosce solo peıe/piıe come prenome e paiıunas come gentilizio e limitatamente ai secoli vi-v a.C. Dati i nomina chiusini peiıe, peiına/peına (che presuppone peiıe, in quanto probabile gentilizio rideterminato in -na), può non apparire improponibile un rapporto tra l’area falisca e quella chiusina, nei termini però di una diffusione del nome da (o meglio attraverso) l’area falisca nel sec. v a.C.; v. Biondi 2002, pp. 369-370.

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centri dell’ager Faliscus e l’Etruria, l’epigrafe di Monte Li Santi-Le Rote ha comunque un valore significativo. Le epigrafi etrusche provenienti da Narce e dalle sue necropoli sono precoce quanto ricca testimonianza linguistica di quella vocazione al transito e agli scambi che fa di quel centro, fin dall’età arcaica, un insediamento cerniera tra l’ager Faliscus settentrionale e l’Etruria e in cui si ha presenza stabile ed integrata di etruscofoni. Rispetto al corpus ad oggi noto l’iscrizione di peiıe va ad aggiungersi a quelle databili tra la fine del sec. v a.C. e la prima metà del sec. iii a.C., insieme all’epigrafe esaminata al n. 3 (apalus), e con questa dimostra la frequentazione del santuario suburbano da parte di locutori etruschi.132 Che però la presenza di peiıe tra i fedeli di Monte Li Santi-Le Rote non sia fortuita ma vada al di là del noto – e comunque rilevante – interesse della componente etruscofona per i santuari dell’area falisca è circostanza che appare coerente con le vicende stesse di Narce, ma che potrebbe avere un ulteriore elemento probante nella scelta dell’instrumentum: l’epigrafe, infatti, è stata apposta su una forma vascolare che annovera esemplari iscritti nei corredi delle tombe 18 e 3 del sepolcreto del Cavone133 e che, dunque, doveva essere particolarmente gradita e familiare alle genti etrusche stabilite a Narce. Non è perciò da escludere che chi ha dedicato questa tipologia vascolare a Monte Li Santi-Le Rote risiedesse nell’area, e che perciò l’iscrizione testimonî l’esistenza di rapporti stabili, nucleo primo di quelli che, più tardi, hanno determinato il migrare verso i centri falischi di famiglie etrusche come i peiıe chiusini insediati a Corchiano.134 5. (Tav. 3) Coppetta a vernice nera P8III E, 1, databile entro la prima metà del sec. iii a.C. (285 ± 25 a.C.) e recante, graffita dopo la cottura sulla parete esterna, un’iscrizione destrorsa e completa. L’iscrizione è stata apposta (ed è leggibile) in prossimità della base, tenendo il recipiente capovolto, ciò che può far supporre per questo un impiego intenzionale e originario come coperchio dell’offerta rituale, e per questa ragione da porsi verosimilmente in rapporto con culti ctonî, e per l’iscrizione un significato votivo.135

132 Per questi aspetti in rapporto alla documentazione di Monte Li Santi-Le Rote v. De Lucia Brolli, ivi, p. 67. 133 Cristofani 1988, p. 22 n. 8 (cinque esemplari di coppa «di argilla figulina con vernice rossastra» recanti l’iscrizione lazi veiane.s; v. CIE 8419-8423; ET Fa 2.6-2.10; Giacomelli 1963, Appendice, p. 271 n. 50) e n. 9 (velıarus. velanas; v. CIE Add. 8904; Giacomelli 1963, Appendice, p. 271 n. 54). Per l’identificazione del corredo della tomba 3 v. ora Baglione, De Lucia Brolli 1998, p. 136 con bibliografia di riferimento. 134 Se poi è vero che esiste una direttrice Corchiano-Narce che porta a Monte Li Santi-Le Rote votivi anatomici prodotti da officine corchianesi, sia pure in una fase successiva a quella dell’iscrizione, e se, per quanto in misura meno evidente, si ha traccia di influenze anche nella direttrice opposta, Narce-Corchiano, il caso di peiıe a Narce non apparirà del tutto inspiegabile. 135 V. in merito quanto scrive qui De Lucia Brolli, Parte I, p. 78.

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L’epigrafe consta di quattro lettere, distanziate tra loro ed eseguite con incisione superficiale e senza particolare cura:136 sace Si segnalano s a quattro tratti, molto allungato,137 a del tipo a freccia, con asta centrale impostata al di sotto dell’angolo formato dai tratti obliqui.138 Quest’ultimo segno, che a Monte Li Santi-Le Rote è riconoscibile anche nel graffito n. 3,139 rinvia a quelli analoghi noti altrove nel Lazio, in particolare a Capena,140 Roma,141 Praeneste,142 Tusculum,143 nell’ager Signinus,144 forse anche a Falerii ueteres.145 All’interno della vasca, in prossimità dell’orlo, è stata graffita, con solco deciso ma non fermo, la sequenza bilittera destrorsa nc – con n avente tratti di uguale lunghezza e c lievemente angolato –146 per la quale non è improbabile supporre un valore commerciale e che, comunque, è indipendente da sace. Con la cautela necessaria, si propone di riconoscere in sace l’aggettivo sacer (che dunque presuppone il suffisso -er rispetto a -ro- del latino arcaico) nella forma del nominativo maschile singolare e con omissione di r in posizione finale, che nell’area si osserva sia nelle scritture falische uxo (Ve 269b; 322bA), mate (Ve 322a [CIE 8344]), sia in quelle in alfabeto latino censo (Ve 323A), mino (Ve 312a), suto,147 e che qui è da considerare riflesso grafico, più che della scomparsa, della «articolazione debole e perciò di

136 La lettera e presenta il tratto centrale più lungo degli altri e quello inferiore parte, obliquamente, al di sopra dell’estremità dell’asta. In corrispondenza del tratto superiore di e, e da questo obliterato, si nota un leggero graffio obliquo, che pare intenzionale (non dovuto a scorrimento dello stilo, ma forse all’abbozzo del primo tratto, poi corretto). 137 Il che richiama gli esempi capenati di CIE 8451; 8462 (CIL XI 6706,11a); 8466, e ancora CIE 8357 (Caprarola), forse CIE 8455 (CII 2453bis h, tav. XLIII; CIL XI 6706,3; I2 476,3); CIE 8588 (Corchiano) e CIL XI 6406. 138 Il tratto sinistro misura ca. 8 mm ed è leggermente arcuato, il destro misura ca. 7 mm. 139 V. ivi, p. 17 n. 3. 140 Ad es. CIE 8450 (CII 2453bis c, tav. XLIII; CIL XI 6706,5). 141 Ad es. da Roma CIL I2 461; 462; E.A.2902c (per cui v. Roma 1977, p. 185 n. 276). 142 Ad es. CIL I2 560 (Ve 367i); 564 (XIV 4106; Ve 367c); 566 (XIV 4107; Ve 367e); 2498 (Ve 366o); XIV 4114/5.1, 2, 4. 143 Ad es. CIL I2 E.A.2848 (fine sec. iv - inizi iii a.C.), v. Rodinò di Miglione 1971, pp. 117-120 (Tav. XLIII); Solin 1973, pp. 183-190; 1974, p. 167. 144 Si tratta dell’iscrizione morai eso(m) nella vasca di una ciotola (450-350 a.C.) proveniente dalla zona di Artena (loc. Muracci di Crepadosso), per cui v. G. Colonna, in «StEtr» s. III, 60, 1995, pp. 398-301; Solin 1999, p. 387. 145 Se si riconosce in un segno a freccia quello impresso a rilievo sul fondo di una coppetta a vernice nera CIE 8033, per cui v. Giacomelli 1963, p. 60 n. 35, che però lo interpreta come «del tipo latino L, ma con i tratti di sinistra arrotondati»; Comella 1986, p. 172 n. 31 (tavv. 66c, 77). 146 Le lettere hanno dimensioni maggiori rispetto a quelle graffite all’esterno della vasca; non è possibile inferire l’attribuzione a mani diverse dal confronto del segno c, che in sace tende ad essere a semicerchio. 147 Dal sepolcreto di Pratoro, v. Renzetti Marra 1990; 1997, pp. 146-147, con le osservazioni di Mancini 2002, pp. 26 ss.

notazione facoltativa»148 di /r/.149 Ma la direzione della scrittura e la forma di alcuni segni (s e a) possono far propendere per un’attribuzione dell’epigrafe ad un contesto linguistico non falisco, bensì latino o latino-falisco. Finora, le iscrizioni provenienti dall’ager Faliscus attestano la forma sacra su un frammento di coppa dal tempio di Mercurio in località Sassi Caduti (Ve 266a; CIE 8050 «litteris in fundo inscriptis»),150 e l’abbreviazione sa, documentata sia dipinta su un frammento dalla medesima area (Ve 266b; CIE 8051 «litteris dextroversum in fundo pictis»),151 sia graffita su una ciotola da Falerii ueteres.152 Il neutro singolare sacru ricorre sulla tavola bronzea di Minerva da Falerii noui (Ve 320, CIL XI 3081; I2 E.A.365: menerua sacru).153 Nel caso dell’iscrizione di Monte Li Santi, sace sarebbe da supporre concordato con un nome di genere maschile (sia esso designazione del recipiente o dell’offerta) e richiamerebbe l’uso e il valore semantico che il termine riveste nella ritualità della consacrazione agli dei.154 Ceramica comune 6. (Tavv. 6, 7) Coperchio di argilla rossa P17II L, 2, parzialmente ricostruito da sette frammenti e databile entro il sec. i a.C. Nella parte interna, il coperchio reca una sequenza destrorsa in lettere latine (per lo più) apicate e di grandi e regolari dimensioni, incise prima della cottura con una certa accuratezza mediante uno strumento a punta fine. La datazione del coperchio è compatibile con i caratteri alfabetici incisi. L’iscrizione è incompleta nella sua parte finale e la superficie del coperchio, ricomposta, reca tracce di altri due segni incisi dopo i primi quattro distintamente leggibili con cui l’epigrafe si apre, cioè s serpentiforme apicato ad entrambe le estremità, t con traversa perpendicolare all’asta verticale, i apicato seguito da c. Un piccolo segno impresso, in basso, fra la seconda e la terza lettera e che al microscopio risulta triangolare – e dunque inten148 Così Peruzzi 1990b, pp. 280-281; 1997, p. 63. 149 Difficile pensare una pertinenza all’etrusco in base alla prossimità (a parte il grafo c per ¯) con forme onomastiche quali sa¯e di Caere (CII 2407) e il cognomen di area settentrionale sa¯u (Chiusi, loc. inc. CIE 2400; Cortona CIE 455, TLE2 639), gen. sa¯u® (Perugia CIE 3874), o con sacil di Bolsena (in «StEtr» 38, 1970, p. 299). Altrettanto ardua la relazione con le forme saca et simm. che si suppongono appartenere al lessico religioso (e al campo semantico della consacrazione). 150 Giacomelli 1963, p. 55 n. 17; Comella 1986, p. 169 n. 15 (tavv. 66b, 77). 151 Giacomelli 1963, n. 18: «Si può completare sa[cra], ma pensando a un’abbreviazione, non a una perdita, perché lo spazio dopo a è assai maggiore che non fra le due lettere (cfr. del resto la 13 VI)»; Comella 1986, p. 169 n. 16 (tavv. 66c, 79). 152 Giacomelli 1963, pp. 52-53 n. 13 VI (: 53): «Per sa il riscontro preciso della 18 [scil. nota 28] induce a credere, nonostante l’apparente occasionalità del tracciato, a un’abbreviazione di sacra o sacer»). 153 Da ultimo v. Peruzzi 1997, pp. 61-74. 154 Basti pensare almeno all’espressione sacer esto, nota anche nelle leges regiae. Per la semantica di sacer v. almeno Bréal 1903, pp. 243-244; Fowler 1911; Bennett 1930; Sabbatucci 1952; Gernia Porzio 1961, pp. 111 ss.; Fougier 1963, p. 69 ss.; Morani 1981; Albanese 1988, pp. 160 ss.; da ultimo anche Santi 2004; 2008.

le iscrizioni zionale – va inteso come segno interpuntivo. Esso suggerisce la lettura: st.ic[- ed esclude di leggere stic[- - ed interpretare la sequenza come appartenente ad un nome personale, eventualmente abbreviato, forse Stichus noto anche in epigrafi latine di età repubblicana155 e riferibile ad un individuo di probabile condizione servile. Suggerisce invece, più probabilmente, di intendere st.ic[- - come formula onomastica bimembre, con st. abbreviazione del prenome e ic[- - (parte iniziale del) gentilizio dell’offerente. In st. si avrebbe un’attestazione del prenome di origine sabellica Statius, che nell’ager Faliscus ricorre come statio in un’epigrafe dei secc. v-iv a.C.,156 e che è noto abbreviato sta. a Fabrica157 nell’iscrizione sepolcrale latina di età repubblicana Ve 327a (CIL XI 7518).158 Quanto a ic[- -, la sequenza potrebbe essere riconducibile al gentilizio Ic(c)ius,159 ipotesi a cui non osterebbe la restituzione del quinto segno, di cui è visibile la base di un’asta, anch’essa probabilmente apicata, che potrebbe appartenere ad i:160 con le cautele necessarie, pertanto, si propone di restituire st.ic[i - e di supporvi un’iscrizione votiva con formula onomastica bimembre al genitivo. Il sesto segno, distanziato rispetto agli altri, è per questa ragione da considerarsi indipendente dal gentilizio che lo precede. Ne resta la parte inferiore dell’asta verticale apicata e forse, sul frammento contiguo (3485/35/88), a sinistra di quella, una breve traversa discendente che possiamo supporre andasse a toccarla: in via di ipotesi, potrebbe trattarsi di y.161 7. (Tav. 7) Coperchio d’impasto bruno P17II Ga, 1, proveniente dal deposito secondario US 58 databile al sec. ii a.C. e re155 Oltre alle attestazioni plautine, cfr. ad es. CIL I2 1685 da Tegianum (= ILLRP 674); CIL I2 1573 (Teano Sidicino, ILLRP 168); per Roma v. Solin 20032, pp. 1343-1344. 156 Colonna 1976, pp. 117-120 (S. Oreste: statio cailio). 157 CIE 8372 v. ad loc.; Giacomelli 1963, pp. 220, 265 B XVI: st.aco/leuia. 158 Gabriella Giacomelli esclude l’interpretazione onomastica suggerita dal Vetter per Ve 254a, b (CIE 8012-8013) su due tazzine da una tomba della necropoli di La Penna a Falerii, che la studiosa legge rispettivamente statuo (1963, p. 58 n. 26) e stat (ivi, n. 27) e interpreta come forme verbali; concorda con la studiosa anche Hirata 1967, p. 76, s.v. Statius. Il prenome Statius, abbreviato, è noto anche a Capena sia come sta. (G. Colonna, in «StEtr» s. III, 56, 1989-90, pp. 462-464), sia come st. in st.clanidio (Briquel 1972, pp. 825-826); mar.popi.st.f. (Kretschmer 1917, p. 139; Briquel 1972, p. 826). Per confronti a Praeneste cfr. CIL I2 142 (XIV 3114: Sta.Cupio). 159 PIR IV, p. 109 n. 15, 17; RE XVI, 1914, coll. 819-820, s.v. Iccius (A. Stein). 160 Sembra un graffio accidentale della superficie il tratto che taglia trasversalmente l’asta, da sinistra verso destra, e che dunque escluderebbe u dopo c. 161 L’appartenenza al deposito votivo, l’assenza di tracce di bruciato o annerimento e la collocazione dell’epigrafe nella superficie concava del coperchio lasciano supporre, come per c.lucretio (v. infra, ivi n. 7) e per sace (v. supra, pp. 21-22 n. 5), un significato cultuale, che esclude un eventuale carattere commerciale (ciò che rende poco probabile, ad esempio, vedere in IC il numerale «99»).

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cante, al di sotto e in prossimità dell’orlo, un’iscrizione destrorsa incisa prima della cottura. L’epigrafe è completa, in alfabeto e lingua latini, ed è stata apposta con uno strumento dalla punta non fine (il tratto raggiunge 1 mm di larghezza) e di taglio irregolare, come lo è anche la profondità d’incisione delle lettere. Queste sono state eseguite con scarsa cura: c è stondato in entrambe le sue occorrenze; seguono l’interpunzione, l ad uncino molto disteso e con traversa obliqua appena accennata (e quasi a virgola), r ad occhiello aperto e ampio e provvisto di codolo, e con le traverse oblique distanziate dall’asta verticale, prolungata in basso, t con traversa che seca obliquamente l’asta verticale, i con lieve ondulazione, o disarticolato. In alto i segni tangono (e talora, come r, secano) una linea (verosimilmente) di tornitura:162 c·lucretio Vi si riconosce una formula onomastica bimembre, in cui un segno di interpunzione separa il prenome (Gaius), abbreviato in c, dal gentilizio (Lucretius), probabilmente al caso dativo o al nominativo con omissione di -s. L’identificazione del dedicante con uno dei Lucretii con praenomen Gaius noti dalle fonti letterarie e/o epigrafiche ha nella datazione del coperchio al sec. ii a.C. il proprio terminus ante quem, che è congruente sia con i caratteri alfabetici incisi, sia con la cronologia dei materiali dello strato votivo da cui quello proviene. Compatibili con tale datazione, e in mancanza del cognomen del dedicante di Monte Li Santi-Le Rote, sono ad esempio C. Lucretius M.f. di Tegianum (CIL I2 1685; ILLRP 674), C. Lucretius Pet.f dall’agro di Amiternum (CIL I2 1851), C. Lucretius Apul(us) liberto di un C. Lucretius, magister Cereris nominato in un’iscrizione di Capua del 106 a.C. (CIL I2 677; X 3779).163 Cronologicamente possibile anche l’identificazione con C. Lucretius Gallus che, nominato duumuir naualis nel 181 a.C. contro i pirati (Liu. XL, 18.7; 26.8; 28.7)164 e praetor nel 171 a.C. al comando della flotta contro Perseo nella terza guerra macedonica (Liu. XLII, 28.5; 31.9),165 viene poi accusato dai Calcidesi (Liu. XLIII, 7.5-11) delle vessazioni a danno delle genti beotiche culminate con il saccheggio, la distruzione di Aliarto e la vendita dei superstiti (Liu. XLII, 56.1-5; 63.3-11) e con i fatti di Thisbae.166 Proprio Livio (XLIII, 4.5-7) fra l’altro lo descrive in agro

162 Le ultime due lettere, io, più grandi e più spaziate rispetto alle precedenti, non seguono tale linea e l’iscrizione procede fino all’orlo rilevato del coperchio (che o tocca, a destra). L’estensore non ha ruotato il coperchio, venendo meno, proprio alla fine, alla regolarità del tracciato circolare. Il segno i è quasi serpentiforme. 163 ILLRP 714; RE XIII.2, 1927, col. 1659 n. 16 (F. Münzer). 164 RE XIII.2, 1927, coll. 1684-1686 n. 23 (F. Münzer). A C. Lucretius viene assegnato il controllo della costa a Sud del promonturium Mineruae, mentre quella a Nord fino ad Gallicum sinum (Liu. XL, 26.8) è affidata a C.Matienus (Liu. XL, 18.8). 165 A lui votano una corona d’oro gli abitanti di Delos sotto l’arconte Theodoros (171 a.C. al più tardi, v. Durrbach 1916, pp. 320-323; 1921-1922, p. 85. Cfr. anche Liu. XLII, 63.12 che riferisce i fatti a Tebe. 166 Cfr. S.C. de Thisbaeis, 170 a.C. IG VII 2225, in part. ll. 22-23, 47-53; Syll. 646; Mommsen 19652, pp. 274-296 n. XV. Sull’operato di C. Lucretius in Grecia v. Liu. XLII, 56.1-7; Pol. XXVII, 7.1-16.

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suo Antiati, impegnato ad aquam […] ex manubiis Antium ex flumine Loracinae duceret. Id opus centum triginta milibus aeris locasse dicitur, e ne ricorda i donativi ex praeda167 al fanum Aesculapi del centro laziale (tabulis quoque pictis ex praeda fanum Aesculapi exornauit). E poiché al legame tra C. Lucretius e Anzio l’iscrizione CIL XI.1 3892 da Rignano aggiunge anche quello tra i Lucretii e la gens Gnoria dell’ager Capenas,168 in via di ipotesi non possiamo escludere che l’interesse di C. Lucretius per il culto anziate di Esculapio abbia un risvolto anche nella devozione di lui o della sua gens a Fortuna, non solo quella del santuario di Monte Li Santi-Le Rote, ma forse anche alle Fortunae di Praeneste e della stessa Anzio.169

Bucchero 11. Frammento parete di coppa di bucchero P1IVA-Cfr, 42, del terzo quarto del sec. v a.C., che reca, graffita dopo la cottura, una lettera a del tipo con traversa discendente: a Ceramica a vernice rossa 12.

Segni isolati

Frammento di coppa a vernice rossa P4Ifr, 20, recante la lettera a, graffita dopo la cottura con tratto assai superficiale e incerto: a

Pesi da telaio

Ceramica a vernice nera

8. (Tav. 8)

13. (Tav. 9)

Peso da telaio I1IA, 2, databile stratigraficamente nel terzo quarto del v sec. a.C.170 Su una parete troncopiramidale, sprovvista del foro di sospensione, è stata incisa prima della cottura una scanalatura a croce. Sulla base superiore si nota, anch’essa incisa a crudo, un’asta verticale tagliata da due traverse oblique e parallele tra loro.

Coppetta a vernice nera integra P8III E, 44, databile intorno al 285±25 a.C.173 e recante, all’interno della vasca, in corrispondenza dell’anello del piede, a del tipo a traversa discendente, graffito dopo la cottura: a 14. (Tav. 9)

9. (Tav. 8) Peso da telaio I1IB, 2, databile intorno alla metà del iii sec. a.C.171 Sulla sommità reca, impressa prima della cottura, una scanalatura a croce, mentre una delle facce laterali, al di sotto del foro di sospensione, presenta, incisi con punta sottile prima della cottura, segni che potrebbero essere pertinenti ad una a. 10. (Tav. 8) Peso da telaio I1IIA, 5, databile in base alla stratigrafia tra la seconda metà del v e la prima metà del sec. iii a.C.172 Reca, graffito dopo la cottura, un ampio e scarsamente regolare segno a croce sulla faccia laterale maggiore. Sulla base inferiore, nella sua parte centrale, è stato graffito dopo la cottura un segno a croce, con probabile valore numerico.

Coppetta a vernice nera P8III E, 96, ricomposta da tre frammenti, databile al 285±25 a. C.174 e recante sul fondo della vasca un segno a croce graffito dopo la cottura, con i tratti che si incrociano non centralmente.175 15. (Tav. 9) Coppetta frammentaria a vernice nera P8III E, 98, databile intorno al 285±25 a.C.,176 recante sul fondo esterno, nel piede, una serie di tratti graffiti con diversa profondità, due dei quali convergono a cuneo, mentre gli altri, a due a due, si inseriscono nel cuneo quasi a formare a del tipo a freccia. Resta dubbia la natura alfabetica del segno. 16. (Tav. 10) Frammenti di fondo di coppetta a vernice nera P8III E, 197177 recante, sulla superficie interna, un segno a croce. 17. (Tav. 10)

167 Cfr. Liu. XLII, 63.11: ornamenta urbis, statuae et tabulae pictae, et quidquid pretiosae praedae fuit, ad naues delatum; urbs diruta a fundamentis; XLIII, 7.10: apud se templa omnibus ornamentis spoliata; compilataque sacrilegiis C. Lucretium nauibus Antium deuexisse; libera corpora in seruitutem abrepta; fortunas sociorum populi Romani direptas esse et cotidie diripi. 168 Nell’iscrizione un Lucretius Gall(i)us c.u. è ricordato tra gli haeredes di T. Gnorius Atilianus; v. PIR V.1, n. 406; Hirata 1967, p. 28. 169 Sui legami tra i santuari di Fortuna a Praeneste ed Anzio v. almeno Coarelli 1985, p. 398; 1987, pp. 54-55, 74-79. 170 V. Parte II, p. 188. 171 V. Parte II, p. 188. 172 V. Parte II, p. 189.

Coppetta a vernice nera, integra P8III Ia, 1 databile al 300±20 a.C.,178 recante sulla superficie esterna, vicino al piede, due segni graffiti dopo la cottura: X, con i tratti perpendicolari, e, ben distanziato da questo, V, con il tratto sinistro che prosegue in basso oltre l’incrocio con il destro, che lo scriba ha graffito lievemente arcuato.

173 V. Parte II, p. 277. 175 Per confronti v. nota 187. 177 V. Parte II, p. 282.

174 V. Parte II, p. 279. 176 V. Parte II, p. 279. 178 V. Parte II, p. 283.

le iscrizioni 18. (Tav. 10) Coppetta a vernice nera, ricomposta da due frammenti P8III Ia, 2, databile al 300±20 a.C.,179 recante sulla parete esterna, vicino al piede, un graffito apposto dopo la cottura con scarsa cura, in cui sono visibili tre tratti verticali tra loro pressoché paralleli (con valore numerico?), un segno più profondo formalmente simile a t, seguito da un piccolo tratto verticale.

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di base, la lettera l, con traversa angolata e saliente, sinistrorsa: l 25. (Tav. 11) Coppetta frammentata a vernice nera P8III Ld, 2 databile entro la prima metà del sec. iii a.C.185 e recante sul fondo esterno, per tutta l’ampiezza della base del recipiente, un segno a croce graffito.

19.

26. (Tav. 11)

Coppa a vernice nera P8III Ia, 3 databile al 300±20 a.C.,180 recante all’esterno della vasca, poco al di sopra dell’anello del piede, il segno a del tipo a freccia, i cui tratti sono stati graffiti superficialmente e appaiono incompleti per una frattura che ne interessa la porzione superiore:

Coppetta a vernice nera integra P8III N, 1 databile alla prima metà del sec. iii a.C.,186 recante al centro della vasca un segno a croce graffito, con probabile valore numerico.187 27.

a Dei tre, il tratto centrale è molto più corto ma più ampio e marcato degli altri. 20. Coppetta frammentaria a vernice nera P8III Ia, 19, ricomposta da vari frammenti, databile intorno al 300±20 a.C.,181 recante nella superficie interna della vasca un segno a croce, graffito dopo la cottura e incompleto per la frattura dell’oggetto.

Coppetta a vernice nera P8III N, 23, ricomposta da frammenti e databile alla prima metà del sec. iii a.C.,188 recante sul fondo interno della vasca, in posizione non centrata, un segno a croce graffito (e ulteriori graffi in prossimità di questo). 28. Frammento a vernice nera di piede a listello di età ellenistica P8fr 4189 recante sul fondo, graffito dopo la cottura molto superficialmente (e decentrato) un segno a croce.

21. (Tav. 10) Frammento di vasca di coppetta a vernice nera P8III Ia, 30, databile al 300±20 a.C.,182 recante sulla superficie esterna, in prossimità del piede, un segno graffito con tratto deciso ma poco accurato. Vi si può vedere: a del tipo a traversa orizzontale (che prosegue a sinistra oltre l’incrocio con il tratto obliquo).

Frammento del fondo con il piede di coppa a vernice nera P8III Ib, 25 (285±20 a.C.). Su un lato della vasca, internamente, sono graffite tre lettere, in direzione destrorsa, di cui la prima è interpretabile come sigma a tre tratti, la seconda come a del tipo a freccia e la terza, verosimilmente, come l fortemente angolato e dal tratto saliente lungo quasi quanto quello verticale:190 sal

23. (Tav. 11) Coppetta a vernice nera P8III Ib, 1 databile fra il secondo e il terzo quarto del sec. iii a.C.183 e recante, graffito sotto il piede e decentrato, un segno ad uncino, che potrebbe essere pertinente a l, ma che presenta un tratto arcuato, tracciato più debolmente degli altri due, e che non esclude la lettura n (con i tratti fortemente disuguali per lunghezza). 24. (Tav. 11) Coppetta a vernice nera integra P8III La, 3 databile entro la prima metà del sec. iii a.C.184 e recante incisa prima della cottura sulla parete esterna, al di sopra dell’anello

179 V. Parte II, p. 283. 181 V. Parte II, p. 284. 183 V. Parte II, p. 285.

29. (Tav. 12)

180 V. Parte II, p. 283. 182 V. Parte II, p. 284. 184 V. Parte II, p. 286.

La sequenza appare completa e la superficie non reca traccia di altri segni alfabetici. Potrebbe trattarsi di abbreviazione per salus, nome di divinità, oppure abbreviazione di un nome personale. Nell’area è noto il gentilizio latino-falisco saluena attestato sulla lamina dei cuochi (CIL XI 3078; CIE 8341).191

185 V. Parte II, p. 287. 186 V. Parte II, p. 292. 187 Per confronti in area falisca, v. CIE 8009 (Civita Castellana, Celle); 8424 (Narce, Monte Li Santi); 8435; 8441; 8446; 8447; 8448 (Monte Casale); 8477; 8505 (Capena); 8059 (Falerii ueteres, loc. Sassi Caduti; Comella 1986, p. 171 n. 24, Tav. 77); 8061 (Comella 1986, p. 170 n. 23 Tav. 79); 8062 (Comella 1986, n. 27 tav. 78); Comella 1986, p. 173 n. 35 tav. 77. 188 V. Parte II, p. 293. 189 V. Parte II, p. 303. 190 V. Parte II, p. 386. Meno probabile pensare a oppure a . 191 Giacomelli 1963, p. 217 e B XIVa, con rinvio ai gentilizi lat. Salvenus, Salvinius, Salvius, ed etr. salvi.

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30. (Tav. 12) Frammento di coppetta a vernice nera P8III Ld, 82 (285± 20 a.C.), recante nella vasca, graffito dopo la cottura molto superficialmente (e decentrato) un segno a croce. 31. (Tav. 12) Frammento di piede a disco di vaso a vernice nera di forma aperta P8IIIfr 1, recante all’interno e all’esterno, un

segno a del tipo a traversa discendente, graffito dopo la cottura: a 32. (Tav. 12) Frammento di teglia di ceramica comune P17V B, 1, databile su base stratigrafica tra la metà v e la prima metà del ii sec.a.C. Sulla superficie esterna appare leggibile in grafo n.

TAVOLE

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Tav. 1.

Tav. 2.

30

parte iii

Tav. 3.

tavole

Tav. 4.

Tav. 5.

Tav. 6.

31

32

parte iii

Tav. 7.

tavole

Tav. 8.

33

34

parte iii

Tav. 9.

tavole

Tav. 10.

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parte iii

Tav. 11.

tavole

Tav. 12.

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LE O FFERTE ALIMEN TA R I DI O R IG INE A NIM A L E DEL SANTUARI O DI M O NTE L I S A NTI: ANALISI ARCH EO ZO O LO G ICA Jacopo De Gro ssi M a z zo ri n Dipartimento di Beni Culturali – Università del Salento

in senso diacronico e quali criteri avessero influenzato la scelta degli animali da abbattere. Spesso il singolo atto cultuale era ben evidente e ben inquadrabile cronologicamente, specialmente nel caso di offerte associate nella deposizione ad una particolare forma ceramica, in altri casi i resti ossei provenivano da strati disturbati o non ben databili per cui le informazioni che si potevano trarre erano senza alcun dubbio meno puntuali e precise. Le diverse fasi cronologiche da cui provengono resti animali (Tab. 2) mostrano in alcuni casi leggeri margini di sovrapposizione ma tuttavia ci permettono di valutare in senso diacronico alcune variazioni nell’utilizzazione delle diverse specie animali. Le diverse fasi non presentano campioni quantitativamente omogenei nella loro composizione – i resti delle fasi III e V sono di gran lunga più numerosi delle altre e quindi permettono una visione statisticamente soddisfacente delle variazioni di utilizzo delle diverse specie (Fig. 1). Nei paragrafi successivi verrà esaminata in dettaglio, fase per fase, la componente animale delle diverse unità stratigrafiche.

resti ossei rinvenuti nell’area del santuario provenivano da diverse UUSS inquadrabili cronologicamente in diverse fasi che coprivano un arco cronologico che va dalla fine del secondo quarto-metà v secolo a.C. fino agli inizi del I secolo a. C. (Tab. 1). Si presentavano in buono stato di conservazione anche se a volte estremamente frammentati. Sovente recavano le tracce della macellazione o della preparazione dei diversi tagli di carne.

I

Fase

Cronologia

II III IV V VI VII

secondo quarto-metà v secolo a.C. metà-fine v secolo a.C. seconda metà-fine iv secolo a.C. iii-ii secolo a.C. fine ii-inizi i secolo a. C. post fine ii-inizi i secolo a. C.

Tab. 1. Sequenza cronologica delle diverse fasi.

Tali resti appartenevano prevalentemente ad animali domestici che furono con molta probabilità oggetto di offerte cultuali alle divinità o di consumo alimentare da parte dell’uomo nell’ambito di particolari costumi religiosi. Le offerte di carne erano talvolta associate a diverse forme ceramiche che hanno permesso spesso datazioni più puntuali. Nel presente lavoro si è tentato di rispondere ad alcune domande riguardo all’utilizzazione degli animali nelle pratiche del santuario. Si è voluto innanzi tutto vedere quali animali fossero utilizzati e se vi fossero variazioni US

Fase II: secondo quarto-metà v secolo a.C. I resti riferibili alla fase II, appartengono esclusivamente ad animali domestici (bovini, caprovini, suini e cani) con un maggior impiego dei caprovini (Tab. 2). Nella Tab. 3 è riportato l’elenco delle UUSS che hanno restituito resti animali e il relativo contesto.

191

204 A

205

214

216

1004

1006

1012

1018

1027

Totale

NR

NR

NR

NR

NR

NR

NR

NR

NR

NR

NR

Bue - Bos taurus

1

1

1

2

-

-

-

-

-

-

5

Pecora o Capra - Ovis vel Capra

-

11

5

-

-

1

-

1

-

-

18

Maiale - Sus domesticus

-

-

1

1

1

-

-

-

1

-

4

Cane - Canis familiaris

-

1

-

-

-

-

-

-

-

-

1

frr. coste

-

4

2

1

-

-

-

-

-

-

7

frr. vertebre

-

-

-

-

-

-

-

-

1

-

1

frr. non determ.

1

12

7

4

-

-

2

-

-

1

27

Taxa

Tab. 2. Resti animali della fase II suddivisi per UUSS.

40

jacopo de grossi mazzorin US 191 204 A

contesto strato di terreno utilizzato come piano del canale 188 nell’area D, in fase con la costruzione vano E strato con materia carbonizzata addossato al muro sigma all’interno del vano E

205

cordolo di frammenti di tegole - correlato ad epsilon primo e al canale (impianto canale 188), in fase con la costruzione vano E

214

strato di riempimento della piccola fornace nel vano E

216

sottile strato di terra relativo alla frequentazione del vano E

1004

Costruzione platea monumentale: rito di consacrazione delle fondazioni

1006

Costruzione platea monumentale: vespaio di tufo compattato con terra a riempimento delle fondazioni

1012

costruzione muro “ipsilon” nelle aree F e G

1018

strato di fondazione dei muri 1012 A e 250 rimaneggiamento aree F e G

1027

Platea monumentale: strato di frequentazione sul battuto 1045/1033 Tab. 3. Fase II: elenco delle UUSS che hanno restituito resti animali.

Fig. 1. Percentuali dei resti faunistici raccolti nello scavo e suddivise per fase cronologica.

Di particolare interesse un premolare superiore destro di ovicaprino proveniente dall’US 1004 e riferibile probabilmente a un rito di consacrazione delle fondazioni durante la costruzione della platea monumentale. La maggior parte dei resti proviene dal vano E ed in particolare dall’US 204 A, riferibile a uno strato con materia carbonizzata addossato al muro sigma all’interno del vano. A parte un frammento di cranio bovino e un canino di cane, la cui presenza potrebbe essere del tutto

casuale, i resti appartengono ad almeno due caprovini, uno di età, stimata con la metodologia proposta da Payne (1973), compresa tra i due e i tre anni e l’altro leggermente più vecchio (tra i 3 e i 6 anni). Un resto di diafisi di metacarpo è con certezza riferibile al sesso maschile. Per quanto riguarda la selezione di particolari porzioni di carne si notano soprattutto sia elementi mandibolari che dell’arto anteriore (scapola, omero e metacarpo), ma è presente anche un frammento di coxale (Tab. 4).

Elemento anatomico

Bos taurus

Ovis/Capra

Sus domesticus

Canis familiaris

le offerte alimentari di origine animale del santuario di monte li santi

neurocranio

1

-

-

-

denti superiori

-

4

-

-

mandibola

2

3

-

-

denti indeterminabili

-

1

-

1

atlante

-

-

1

-

scapola

1

2

-

-

omero

-

2

1

-

radio

-

1

1

-

metacarpali

-

2

-

-

coxale

-

1

-

-

metatarsali

1

2

1

-

5

18

4

1

totale

Nella fase III si colloca la costruzione del sacello AA; le diverse UUSS hanno restituito caprovini e suini in proporzioni più o meno equivalenti. I 28 resti di ovicaprini sono riferibili ad almeno due individui adulti femminili di età compresa tra i 2 e i 4 anni. Del maiale sono invece presenti 24 resti appartenenti a un numero minimo di 3 individui: un giovanile di età inferiore ai 7 mesi, un subadulto e un adulto. Di quattro canini (2 superiori e due inferiori) è stato possibile valutare il sesso che in tre casi sono attribuibili a scrofe e in uno a un verro. Erano inoltre presenti un frammento di mandibola (US 132) e un astragalo sinistro (US 64) di cane con evidenti tracce di taglio e quattro resti di bue: un incisivo, un frammento di diafisi di femore, uno di scafocuboide e una I falange appartenente ad un individuo subadulto. Un altro atto certamente rituale è quello che riguarda la deposizione di resti animali nell’area meridionale all’aperto D, dove al di sotto dell’altare III (US 195) sono stati recuperati all’interno di un profondo incavo realizzato nello spessore di uno dei due blocchi che costituivano l’altarino un frammento di metatarso prossimale sinistro di un individuo femminile di Ovis aries, un frammento di costa, uno di vertebra e 5 frammenti ossei non meglio determinabili. Un’altra cospicua quantità di resti faunistici è stata recuperata nell’US 213, il riempimento di una fossetta (US 225) probabilmente collegata al rito di dismissione (o obliterazione?) della fornace I. Erano presenti resti di cane (un frammento di cranio e uno di ulna), un frammento di IV metatarso di lepre, un osso carpale (capitato carpale) calcinato di maiale e diverse (11) ossa di caprovini (di cui sicuramente tre attribuibili a pecora). Quest’ultime erano riferibili ad almeno 3 individui: un giovanile (26 mesi), un subadulto e un adulto di età avanzata (tra i 6 e gli 8 anni). Le porzioni di carne comprendevano sia parte della testa (ossa craniali, mascellari e mandibole) che dell’arto anteriore (scapola, radio, metacarpo).

Tab. 4. Elenco dei resti della II fase suddivisi per elemento anatomico.

Fase III: dalla metà alla fine v secolo a.C. La fase III presenta ancora resti ossei appartenenti prevalentemente ad animali domestici ma sono presenti anche sporadici resti di cervo e lepre. Rispetto alla fase precedente i caprovini sono ancora la categoria di animali domestici maggiormente rappresentata, seguita per ordine d’importanza dai resti di maiale. Nella Tab. 5 è riportato l’elenco dei resti animali rinvenuti nelle diverse UUSS, mentre nella Tab. 6 sono descritti i diversi contesti relativi alle stesse UUSS. US Taxa

41

21 29 31 34 64 132 133 170 = 194 186 195 210 213 230 232 234 Totale NR NR NR NR NR NR NR

NR

NR NR NR NR NR NR NR

NR

Bue - Bos taurus

-

-

1

1

3

-

-

7

1

-

-

-

-

-

-

13

Pecora o Capra Ovis vel Capra

1

5

2

1

8

8

3

31

4

1

1

8

2

4

6

85

Pecora - Ovis aries

-

-

-

-

-

-

-

3

-

-

-

3

-

1

-

7

Maiale - Sus domesticus

-

1

2

-

13

8

-

11

1

-

-

1

-

3

-

40

Cane - Canis familiaris

-

-

-

-

1

1

-

-

-

-

-

2

-

-

-

4

Cervo - Cervus elaphus

-

-

-

-

-

-

-

1

-

-

-

-

-

-

-

1

Lepre - Lepus europaeus

-

-

-

-

-

-

-

-

-

-

-

1

-

-

-

1

frr. coste

1

2

-

1

5

13

3

38

-

1

-

45

-

5

2

116

frr. vertebre

-

1

-

-

-

4

1

4

-

1

-

5

-

1

-

17

frr. non determ.

2

14

5

2

26

23

2

78

6

5

3

27

6

21

6

226

Tab. 5. Resti animali della fase III suddivisi per UUSS.

42

jacopo de grossi mazzorin US

contesto

21

Costruzione sacello AA: cavo di fondazione del muro “alpha”

29

Costruzione sacello AA: strato di sabbia in fondazione del muro “alpha”

31

Costruzione sacello AA: strato di scaglie di tufo e tegole in fondazione del muro “alpha”

34

Costruzione sacello AA: riempimento di spezzoni in fondazione del muro “alpha”

64

Costruzione sacello AA: riempimento nell’intercapedine tra il muro “beta” e il muro “epsilon”

132

Costruzione sacello AA: strato di livellamento nel portico

133

Costruzione sacello AA: vespaio di posa del muro “gamma” primo

170 = 194 Sistemazione area D: strato di livellamento dell’area e fondazione del muro “pi” 186

Sistemazione area D: battuto di terra con detriti tufacei in fase con “pi greco” e altare III nella parte sud dell’area D

195

Sistemazione area D: rito di consacrazione altare III

210

Dismissione vano E: tegole poste a sigillo della fornace I

213

Dismissione vano E: riempimento della fossetta 225

230

Interventi area D, settore meridionale: strato di terra nero/bruna tra il muro “theta”, il muro “rho” e l’area a sud di “rho”

232

Interventi area D, settore meridionale: strato di riempimento della depressione 233

234

Interventi area D, settore meridionale: strato di terreno sabbioso con materiale archeologico a livellamento del settore meridionale Tab. 6. Fase III: elenco delle UUSS che hanno restituito resti animali.

Analizzando in dettaglio il campione (Tab. 7) si nota come i resti siano prevalentemente rappresentati da frammenti mandibolari e dai relativi denti. L’alta percentuale degli elementi dentari ricorre abbastanza frequentemente nei campioni archeozoologici ed è dovuta a numerosi fattori come la più facile determinazione a livello specifico rispetto agli altri elementi anatomici, la maggior resistenza ai fattori tafici per le loro caratteristiche chimico-fisiche, la scarsa importanza alimentare che ne determina un minor trattamento da parte dell’uomo e la maggior rappresentazione come singolo elemento anatomico. Spesso infatti mascellari e mandibole sono fortemente danneggiati dagli agenti tafonomici e quindi si rompono in modo più o meno grave, liberando i denti sciolti nel terreno; questi fattori possono quindi influire in modo importante sulla composizione percentuale del campione. Per quanto riguarda lo scheletro appendicolare si nota soprattutto una maggior rappresentazione dei metapodiali (metacarpo e metatarso) seguita in ordine di importanza da quelle parti degli altri elementi ossei più compatte e meno dense di tessuto spugnoso come ad esempio le porzioni distali della scapola, dell’omero e della tibia e quelle prossimali del radio. Fase IV: seconda metà-fine iv secolo a.C. Strettamente appartenenti alla fase IV risultano solo i resti ossei provenienti dalle UUSS 50 e 190, mentre l’US

39 è in realtà riferibile ad un momento di incerta datazione che si colloca cronologicamente tra la fine del iv e i primi anni del iii sec. a.C. (Tabb. 8, 9). Nel caso dell’US 50 si tratta di una singola deposizione effettuata nel bothros ad “emiciclo”, individuato nel Vano A, che denota un atto cultuale ben definito (v. Parte I, p. 71); a fianco di un atlante di un ovicaprino adulto e di una mandibola, provvista del terzo molare deciduo, di un agnello di età compresa tra i 2 e i 6 mesi sono stati recuperati i resti di un maiale adulto (un frammento di ulna prossimale) e di numerosi maialini in età neonatale, di numero variabile da un minimo di tre ad un massimo di otto individui. L’atto, come vedremo più avanti, si ripete nella fase successiva con modalità abbastanza simili nell’US 48.Un altro atto definibile come cultuale è sicuramente quello della deposizione a ridosso del muro perimetrale, sempre nel vano A, di un frammento di mascellare di maiale associato con frammenti di materiale ceramico a vernice nera (l’US 39 sopracitata). I resti dell’US 190, pertinenti all’obliterazione della canaletta 188 nell’area D, sono invece riferibili principalmente ad ovicaprini e suini; i primi sono rappresentati da ossa del cranio, vertebre (epistrofeo) e dell’arto anteriore riferibili a un individuo adulto, i secondi invece da elementi scheletrici, provenienti da più distretti anatomici, di due individui, un adulto e un giovanile (Tabb. 8 e 10).

le offerte alimentari di origine animale del santuario di monte li santi

Totale

NR

NR

NR

NR

Bue - Bos taurus

-

-

1

1

Pecora o Capra Ovis vel Capra

-

2

10

12

Canis familiaris

190

Sus domesticus

50

Ovis/Capra

39

Bos taurus

US

43

neurocranio

-

1

1

1

mascellare + osso incisivo

-

4

2

-

Maiale - Sus domesticus

1

19

7

27

denti superiori

-

5

5

-

frr. coste

-

-

11

11

mandibola

3

14

6

1

frr. vertebre

-

-

4

4

denti inferiori

1

12

13

-

frr. non determ.

2

-

31

33

scapola

-

4

2

-

omero

1

5

-

-

radio

-

7 (3 o)

4

-

ulna

-

4

1

1

carpali

-

-

1

-

metacarpali

-

13 (2 o)

1

-

coxale

-

3

-

-

femore

1

-

-

-

tibia

1

4

-

-

metatarsali

-

11

2

-

metapodiali

1

-

2

-

calcagno

-

2

-

-

astragalo

1

-

-

1

altri tarsali

1

-

-

-

prima falange

1

3 (2 o)

-

-

seconda falange

1

-

-

-

terza falange

1

-

-

-

13

92

40

4

Sus domesticus

Tab. 7. Elenco dei resti della III fase suddivisi per elemento anatomico (o = Ovis aries).

Ovis/Capra

totale

Tab. 8. Resti animali della fase IV suddivisi per UUSS.

Bos taurus

Elemento anatomico

Taxa

neurocranio

-

1

-

mascellare

-

-

1

denti superiori

-

2

2

mandibola

-

1

-

denti inferiori

-

2

2

atlante

-

1

-

epistrofeo

-

1

-

scapola

-

-

8

omero

-

1

7

ulna

-

1

2

metacarpali

-

1

-

coxale

-

-

3

tibia

1

-

-

metatarsali

-

-

1

astragalo

-

-

1

prima falange

-

1

-

1

12

26

Elemento anatomico

totale

Tab. 10. Elenco dei resti della IV fase suddivisi per elemento anatomico.

US

contesto

39

frequentazione del vano/recinto A: deposizione votiva

50

frequentazione del vano/recinto A: riempimento profondo bothros “delta”; ultimo quarto iv a.C.

190

obliterazione della canaletta 188 nell’area D Tab. 9. Fase IV-V A: elenco delle UUSS che hanno restituito resti animali.

207 25 27 6 2 7 1 Tab. 11. Resti animali della fase V suddivisi per UUSS.

3 14 3 4 1 11 3 29 11

2

4 9 frr. non determ.

45

19 1 2 3 1 1 5

3

1 frr. vertebre

2

50 8 14 2 2 4 2 5 3

1

1 frr. coste

8

1 1

-

Uccelli ind. - Aves ind.

-

7 1 4 -

-

2 Gallo - Gallus gallus

-

79 3 9 7 1 5 1 2 2 1 1 17 2 7

4

1 6 Maiale - Sus domesticus

10

1 1 -

-

Capra - Capra hircus

-

-

Pecora - Ovis aries

-

3 1 2 -

1 1 1 1 4 1 8 5

1

Pecora o Capra Ovis vel Capra

19

1 1 1

-

1 Bue - Bos taurus

-

86 14 3 2

1

-

-

2

22

10 1 5

NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR NR Taxa

98 95 71 77 = 8 1= 91 86 68 58

La fase V è senza alcun dubbio quella che ha restituito il maggior numero di resti animali, 463 frammenti di cui 187 determinati (pari al 40,4%), ma anche il maggior numero di atti, sicuramente rituali, che hanno comportato l’utilizzazione di animali (Tabb. 11-12). Anche per questa fase la quantità di resti attribuibili agli ovicaprini si equilibra grosso modo a quella dei suini, il 50,3% contro il 44,1% circa. In questa fase, inoltre, compare per la prima volta l’utilizzazione del pollame; nell’US 71, relativa ad una deposizione votiva primaria, accanto ad un frammento prossimale di radio combusto di un maiale adulto si trovavano un frammento di diafisi di omero e uno di tibia distale di gallo. Altri quattro frammenti – uno di diafisi di ulna, un altro di ulna distale, uno di tibia prossimale e uno di tarsometatarso distale – di un individuo adulto sono stati recuperati, assieme a numerosi resti, di cui alcuni calcinati, di ovicaprini (almeno un individuo subadulto di sesso femminile) e suini (almeno quattro individui, uno neonatale, uno giovanile di età inferiore ai 12 mesi e due adulti di cui uno sicuramente di sesso femminile) in uno strato di frammenti di tegole e materiali votivi posti sul piano dei vani B e C, in generale definiti come interventi per la costruzione dell’altare II (US 95). Infine un frammento di diafisi di radio di gallo si trovava, assieme a una I falange di ovicaprino subadulto e ad alcune ossa di un maialino in età neonatale, in una deposizione votiva nel vano C (US 135). Di particolare interesse in questa US l’associazione di una olpetta acroma, un ciottolo di origine fluviale rosso e alcune ossa di maialino in età neonatale (v. Tab. 13). Queste non sono le uniche associazioni di frammenti con reperti ceramici, più o meno integri, o altri manufatti; nella Tab. 13 sono elencati altri casi anche se non è detto che tutti rappresentino un atto rituale puntuale. Vanno però sicuramente sottolineate alcune delle evidenze registrate: l’US 48 è il livello più superficiale del riempimento nel bothros ad “emiciclo”, individuato nel vano A, di cui si è già detto per quanto riguarda la deposizione di resti animali dell’US 50 della fase IV; anche in questo caso abbiamo una deposizione analoga alla precedente, infatti assieme ad un frammento di sacro di bovino erano presenti alcune ossa di un maiale subadulto (un frammento di C superiore di un individuo maschile, uno di coxale e un III metacarpo integro) e altre di un individuo neonatale (due frammenti di scapola e uno di un non meglio identificato III-IV metapodio). Alcune di queste ossa erano in stretta relazione con una coppetta acroma (vedi Tab. 13). I resti dell’US 58 invece si trovavano in una deposizione secondaria, quando le offerte ceramiche e animali deposte in precedenza vengono risistemate, nella fase finale del santuario, all’interno del recinto all’aperto del vano A. Sempre nella Tab. 13 sono elencate alcune delle associazioni tra resti animali e alcune forme ceramiche, soprattutto coppette a vernice nera e ollette in ceramica grezza. Nel complesso si sono recuperati un sesamoide

48

Fase V: iii-ii secolo a.C.

101 107 128 130 131 135 136 161A 162 165 166 180 183 185 totale

jacopo de grossi mazzorin

US

44

le offerte alimentari di origine animale del santuario di monte li santi US

contesto

48

frequentazione del vano/recinto A: riempimento superficiale del bothros “delta”

58

deposito secondario di materiali votivi

68

costruzione recinto A: terra di sostegno al setto 67

71

frequentazione del vano/recinto A: deposizione votiva nel recinto A

77 = 81 = 91

45

deposizioni votive nel recinto A

86

frequentazione area esterna W: strato con materiale archeologico sotto US 85

95

interventi per la costruzione dell’altare II: strato di frammenti di tegole con materiali votivi sul piano dei vani B e C

98

riti di obliterazione delle strutture sacre: sigillo cippi recinto A

101

frequentazione del vano/recinto A: deposizione rituale di coppette e altro materiale ceramico

107

deposizione di materiali votivi intorno al forno

128

riti di obliterazione delle strutture sacre: sigilli teche vano C

130

riti di obliterazione delle strutture sacre: sigilli teche vano C

131

riti di obliterazione delle strutture sacre: sigilli teche vano C

135

deposizioni votive vano C

136

interventi per la costruzione dell’altare II: strato di obliterazione della soglia muro “eta” area D

161A

strato di livellamento o abbandono dell’area

162

strato di bruciato nell’angolo nord dell’area

165

frequentazione area D: allettamento 164

166

frequentazione area D: deposito bambini in fasce purtroppo lo strato è stato fortemente danneggiato dai lavori agricoli

180

nucleo di ex-voto

183

interventi per la costruzione dell’altare II: strato tardo-arcaico rimaneggiato in età ellenistica area D

185

interventi per la costruzione dell’altare II: strato tardo-arcaico rimaneggiato in età ellenistica area D Tab. 12. Fase V: elenco delle UUSS che hanno restituito resti animali.

bovino, un frammento di ulna di un uccello non determinato e resti di alcuni animali più o meno giovani: un ovicaprino giovanile (un frammento di scapola e uno di femore) e uno subadulto (un frammento di radio, uno di calcagno e un epifisi distale di metapodio), un maialino neonato (un IV metacarpo) e uno subadulto (frammenti di incisivo inferiore, di mandibola e di prima falange, oltre a un’altra prima falange, una II falange e un II metatarso integri). Altra interessante deposizione rituale, simile alla precedente, è sicuramente l’US 101, caratterizzata da un consistente accumulo di materiale ceramico e di resti di fauna; accanto ad un frammento di scapola di un maialino in età neonatale vi erano anche un mascellare e una mandibola di un ovicaprino adulto di età avanzata (tra i 4 e i 6 anni) e due epifisi distali non saldate, una di femore e l’altra di radio, di un altro ovicaprino subadulto. L’epi-

fisi di radio ora citata era in stretta relazione con una coppetta a vernice nera sovradipinta. Alcuni riti sembrano strettamente connessi, nel vano C, con l’obliterazione del bothros (teca 2) e dell’adiacente fossa di sua pertinenza (teca 1). L’area venne suddivisa in due settori. Quello più settentrionale era coperto da diverse tegole, poste con una certa accuratezza, al di sopra di queste (US 128) vi erano un frammento di cranio e uno di mandibola di maialino neonatale, un frammento di radio distale di ovicaprino e tre frammenti di vertebre. Il settore più meridionale, invece, era privo di sigillo ma presentava uno spesso strato ricco di carboni e resti animali (US 130) che nella composizione riflettono più o meno la deposizione posta sopra le tegole nel settore settentrionale; erano infatti, anche in questo caso, presenti un frammento di diafisi di omero di ovicaprino, due frammenti di ulna di un maialino neonato e alcuni fram-

46 US

jacopo de grossi mazzorin n. inv. provv.

associazione

resti faunistici

51-52

frammenti ceramici rinvenuti insieme ad ossa e bruciato dentro l’olla (inv. 51)

un dente superiore (C) di maiale (maschile), due frammenti di scapole destre di maialino appena nato, 4 frammenti non determinabili, un frammento di vertebra non determinabile

201

frammenti vari di ossa

un frammento di costa; sei frammenti non determinabili

209

frammenti fauna associati ad una coppetta a vernice nera

frammento di ulna prossimale destra di uccello non determinabile; un frammento di costa; un frammento non determinabile

386-387

un osso (inv. 387) contenuto dentro una coppetta a vernice nera (inv. 386)

un sesamoide di bovino

429-430

una coppetta a vernice nera datata (inv. 429) che fungeva da coperchio ad una coppetta a vernice nera (inv. 430) all’interno della quale si trovava un osso.

una I falange di maiale subadulto

431

frammento osseo con tracce di bruciato dentro un olletta in ceramica grezza (inv. 431)

un frammento non determinabile

448

olletta di argilla grezza contenente un osso e bruciato

un frammento di vertebra

469-470

olletta di argilla grezza (inv. 469) impilata insieme ad un coperchio in frammenti (inv. 470). Il tutto con tracce di bruciato e due frammenti ossei.

un frammento non determinabile calcinato e un frammento di vertebra

550-551

osso con resti di bruciato dentro il fondo di una olletta in ceramica grezza (inv. 551)

una II falange di maiale subadulto

675

osso con altre tracce di bruciato contenuto dentro una coppetta acroma

un frammento non determinabile

734-735

frammento d’osso (inv. 735) con altre tracce di bruciato contenuto dentro una coppetta frammentaria e lacunosa a vernice nera (inv. 734).

frammento di I falange di maiale subadulto

751-756

frammento d’osso con altre tracce di bruciato associati ad un insieme impilato costituito da materiali di tipo diverso (coppetta a vernice rossa, coppette a vernice nera, olletta di ceramica grezza e coperchi)

frammento di diafisi di radio di ovicaprino

784-785

contenuto insieme con resti di bruciato entro una coppetta a vernice rossa (inv. 784) e coperto da una coppetta a vernice nera (inv. 785)

frammento di I inferiore destro di maiale

865

osso e bruciato erano dentro un’olletta di ceramica grezza (inv. 865)

frammento di costa

877

frammento osseo trovato assieme ai frammenti di una olletta (inv. 877)

un frammento non determinabile

95

1956

coppetta a vernice nera che conteneva un osso e del bruciato

frammento di diafisi di femore destro di maialino neonato

101

2020A

coppa a vernice nera sovradipinta

un radio distale destro di ovicaprino (subadulto)

olpetta acroma con ciottolo fluviale rosso e alcuni frammenti ossei

una I falange di ovicaprino (subadulto), frammenti di diafisi di omero e di tibia distale di maialino neonato, due frammenti di coste, un frammento di vertebra un frammento non identificabile

48

58

135

2227

Tab. 13. Elenco di resti faunistici rinvenuti in associazione con ceramiche o altri manufatti.

Sus domesticus

Ovis/Capra

menti di coste e vertebre. Al di sotto di questo un’altra sottile lente di cenere (US 131) ha restituito un frammento di scapola di maiale e tre frammenti non identificabili, di cui almeno uno combusto. Un’altra piccola deposizione di materiali votivi disposti attorno al forno (US 107), nel recinto A, presentava frammenti ceramici frammisti a frammenti di tegole e coppi, ciottoli fluviali e un frammento di mandibola di un individuo femminile e subadulto di maiale e un frammento osseo non identificabile. Nel Recinto A si è inoltre evidenziata una concentrazione di minuti frammenti ossei e di frustuli di materia carbonizzata probabilmente in relazione con i riti di obliterazione delle strutture sacre (US 98): tra il materiale faunistico era presente un frammento di diafisi di omero di ovicaprino e tre frammenti non determinabili. Altre deposizioni votive (UUSS 77 = 81 = 91), sempre nel Recinto A, comprendevano residui alimentari di origine animale (Tab. 11), caratterizzati prevalentemente da ossa di quattro ovicaprini (due adulti, un subadulto e un giovanile) e tre suini (un adulto e due subadulti). I resti animali, provenienti dalle altre UUSS (86, 136, 161 A, 162, 165, 166, 180, 183, 185) non sono da riferirsi ad atti cultuali precisi ma più che altro a momenti di frequentazione dell’area sacra. Nel complesso i campioni, prelevati dalle diverse UUSS, sono caratterizzati da un’alta frammentazione dei resti scheletrici e dentari dovuta in parte ad agenti pertotassici1 come la macellazione, la preparazione alimentare (tracce di combustione) e il successivo consumo, evidente soprattutto nella rottura di alcune porzioni ossee e nella presenza di tracce di tagli prodotti dall’uomo, ma anche da agenti tafici come gli agenti fisici e chimici che agiscono sui resti animali dopo il loro interramento, influenzandone la conservazione. Tutto ciò ha purtroppo comportato la presenza di un’alta percentuale di reperti indeterminabili (circa il 60% del totale complessivo). Analizzando in dettaglio i resti della V fase suddivisi per elemento anatomico (Tab. 14) si nota come questi siano prevalentemente rappresentati da denti, sia mascellari che mandibolari la cui conservazione come si è detto è da imputare prevalentemente a fattori tafonomici. Per quanto riguarda l’arto anteriore si nota in genere una maggior rappresentazione di quelle parti più compatte e meno dense di tessuto spugnoso come le porzioni distali dell’omero o le diafisi del radio. Lo stesso si verifica per l’arto inferiore dove prevalgono porzioni di diafisi e distali della tibia e soprattutto elementi del tarso come il calcagno e l’astragalo.

47

Bos taurus

le offerte alimentari di origine animale del santuario di monte li santi

cavicchie o palchi

-

1 (o)

neurocranio

-

3

1

mascellare+osso incisivo

-

1

1

denti superiori

1

8

3

mandibola

1

8

9

denti inferiori

1

7

16

denti indeterminabili

-

-

1

atlante

-

-

1

scapola

-

3

4

omero

1

10

11

radio

-

9

1

ulna

-

-

5

metacarpali

-

11 (1 o)

2

osso sacro

1

-

-

coxale

-

2

3

femore

-

5

5

tibia

1

7

7

metatarsali

-

8 (1 o)

4

metapodiali

-

1

2

calcagno

-

1

-

astragalo

1

2

-

sesamoidi

1

-

-

prima falange

2

3 (1 c)

2

10

90 (3 o; 1 c)

78

Elemento anatomico

totale

Tab. 14. Elenco dei resti della V fase suddivisi per elemento anatomico.

Fasi IV-V: dalla seconda metà del iv e il ii sec. a.C.

non meglio definibile tra l’ultimo quarto del iv e il ii sec. a.C. Questi sono caratterizzati dalla presenza di due crani bovini rinvenuti, circondati da pietre, in ognuna delle due UUSS. L’US 22 inoltre è caratterizzata da numerose ossa di pollo e altri uccelli non meglio identificati, seguiti in ordine d’importanza dagli altri animali domestici (Tab. 15). Oltre ai due bucrani vi erano un dente superiore e alcuni frammenti di ossa lunghe di ovicaprini e alcuni denti inferiori e frammenti di ossa dell’arto anteriore di un maiale (Tab. 16).

I resti provenienti dalle UUSS 22 e 23, entrambe ascrivibili alla frequentazione finale dell’area sacra e all’abbandono dell’area esterna nord, si collocano in un momento

Fase VI: fine ii-inizi i secolo a.C. Fase VII: post fine ii-inizi i secolo a.C.

1 Per la definizione degli agenti tafonomici che intervengono sul campione faunistico si veda De Grossi Mazzorin 2008b, capitolo 5.

Pochi resti sono riferibili alle fasi VI e VII, si tratta prevalentemente di ossa di ovicaprini rinvenute nei sigilli di tegole dei vani A, B e C (fase VI) o negli strati di abbando-

22

23

Totale

NR

NR

NR

Bue - Bos taurus

9

1

10

Pecora o Capra - Ovis vel Capra

5

-

5

Elemento anatomico

Ovis/Capra

Sus domesticus

jacopo de grossi mazzorin

Bos taurus

48 US

Maiale - Sus domesticus

6

-

6

cavicchie o palchi

2

-

-

Gallo - Gallus gallus

11

-

11

neurocranio

2

-

-

Uccelli ind. - Aves ind.

5

-

5

denti superiori

2

1

-

mandibola

2

-

-

frr. coste

1

-

1

denti inferiori

2

-

3

frr. non determ.

33

-

33

scapola

-

-

1

radio

-

-

2

metacarpali

-

1

-

femore

-

2

-

tibia

-

1

-

10

5

6

Taxa

Tab. 15. Resti animali della fase IV-V suddivisi per UUSS.

no delle aree D, F e G (fase VII). Nella Tab. 17 sono riportati i resti rinvenuti nelle diverse UUSS (Tab. 18). Nelle Tabb. 19 e 20 sono riportati i resti rinvenuti nelle due fasi suddivisi per specie ed elemento anatomico.

totale

Tab. 16. Elenco dei resti della IV-V fase suddivisi per elemento anatomico.

Conclusioni ni, suini e pollame) anche se non mancano nel campione rare ossa di selvaggina, come il cervo (un incisivo infe-

Come si è visto la maggior parte dei resti faunistici è costituita dai principali animali domestici (bovini, ovicapri-

Fase VI US

Fase VII

66

94

totale

204

221

1003

1005

totale

NR

NR

NR

NR

NR

NR

NR

NR

Bue - Bos taurus

-

1

1

-

-

-

-

-

Pecora o Capra - Ovis vel Capra

6

-

6

10

-

-

-

10

Maiale - Sus domesticus

2

1

3

-

-

-

-

-

frr. coste

-

1

1

-

-

1

1

2

frr. vertebre

1

-

1

1

1

-

-

2

frr. non determ.

36

7

43

16

-

-

4

20

Taxa

Tab. 17. Resti animali della VI e VII fase suddivisi per UUSS. US

contesto

66

Sigillo superiore con blocchi sui vani A, B, C

94

Sigillo di tegole accatastate e blocchi sui vani A, B

204

Strati di abbandono e distruzione dell’area D, settore meridionale:

221

Strati di abbandono e distruzione dell’area D, settore meridionale

1003

Strati di abbandono e distruzione dell’area (tempio, pars antica)

1005

Strati di abbandono e distruzione delle aree F e G Tab. 18. Fasi VI e VII: elenco delle UUSS che hanno restituito resti animali.

Ovis/Capra

Sus domesticus

denti superiori

1

-

-

denti inferiori

-

1

1

omero

-

-

1

radio

-

1

1

tibia

-

2

-

astragalo

-

2

-

1

6

3

totale

49

Elemento anatomico

Ovis/Capra

Elemento anatomico

Bos taurus

le offerte alimentari di origine animale del santuario di monte li santi

denti superiori

2

denti inferiori

5

radio

1

metacarpo

1

metatarso

1 totale

10

Tab. 20. Elenco dei resti della VII fase suddivisi per elemento anatomico.

Tab. 19. Elenco dei resti della VI fase suddivisi per elemento anatomico.

riore) e la lepre (un frammento di IV metatarso prossimale) o altri animali che non rientravano nell’alimentazione abituale come i cani (Tab. 21). Se si eccettua un incisivo inferiore di maiale che presentava una morfologia irregolare dello smalto non si sono osservate affezioni patologiche a carico delle ossa recuperate. Questo indica che probabilmente non venivano sacrificati animali malati o con particolari malformazioni. Dei quasi 1300 resti ossei rinvenuti solo 75, pari al 5,8% circa erano bruciati e/o calcinati.

È interessante notare (Tab. 22; Fig. 2) come nelle fasi più antiche (fase II e III) prevalgano i resti di caprovini e come questi nella fase IV siano pian piano sostituiti dai maiali per poi più o meno equilibrarsi nella fase V; i resti delle ultime fasi sono troppo scarsi per poter formulare una qualsiasi considerazione attendibile. Molto meno frequente è invece l’impiego dei bovini mentre l’impiego del pollame non è attestato prima della V fase. Ciò non desta meraviglia visto che, sebbene resti pollame (comprese le uova) siano documentate in contesti funerari, almeno in Etruria padana, sin dall’ultimo quarto dell’viii sec. a.C. in realtà la diffusione di questo uccello domesti-

Fig. 2. Percentuali delle tre principali categorie di animali domestici suddivise per fase.

50

jacopo de grossi mazzorin Fase

II

III

IV

V

IV-V

VI

VII

NR

NR

NR

NR

NR

NR

NR

Bue - Bos taurus

5

13

1

10

10

1

Pecora o Capra - Ovis vel Capra

18

85

12

86

5

6

10

Pecora - Ovis aries

-

7

-

3

-

-

-

Capra - Capra hircus

-

-

-

1

-

Maiale - Sus domesticus

4

40

27

79

6

3

-

Cane - Canis familiaris

1

4

-

-

-

-

-

Cervo - Cervus elaphus

-

1

-

-

-

-

-

Lepre - Lepus europaeus

-

1

-

-

-

Gallo - Gallus gallus

-

-

-

7

11

-

-

Aves ind.

-

-

-

1

5

-

-

28

151

40

187

37

10

10

frr. coste

7

116

11

50

1

1

2

frr. vertebre

1

17

4

19

-

1

2

frr. non determ.

27

226

33

207

33

43

20

Taxa

totale determinati

-

Tab. 21. Taxa identificati e relativo numero di resti (NR) suddivisi per fasi cronologiche.

Fase

II

III

IV

V

IV-V

VI

VII

Taxa

%NR

%NR

%NR

%NR

%NR

%NR

%NR

Bovini

18,5

9,0

2,5

5,6

47,6

10,0

0,0

Caprovini

66,7

63,4

30,0

50,3

23,8

60,0

100,0

Suini

14,8

27,6

67,5

44,1

28,6

30,0

0,0

Tab. 22. Percentuali delle tre principali categorie di animali domestici suddivise per fasi cronologiche.

co è abbastanza sporadica almeno fino al iii sec. a.C. (De Grossi Mazzorin 2005). La sua utilizzazione è inoltre sicuramente documentata in un pozzo di Piano di Comunità a Veio in una deposizione che è stata interpretata come un atto cultuale direttamente connesso alla chiusura finale del pozzo stesso in cui erano stati gettati i materiali provenienti dalla bonifica dell’area circostante (De Grossi Mazzorin, Cucinotta 2009). Come appena accennato l’impiego del pollame nelle pratiche cultuali, pur rimanendo un fatto estremamente episodico, sembra iniziare in pieno periodo ellenistico. La maggior parte dei resti proviene dall’US 22, nell’area nord. In questa zona si sono rinvenute almeno tre deposizioni di porzioni di polli giovanissimi se si eccettua una scapola di individuo adulto che presentava ben evidenti tracce di taglio sulla superficie dell’osso. Altre ossa di individui adulti provenivano dall’US 95, uno strato di accatastamento di tegole nei vani B e C, dall’US 71, una de-

posizione votiva nel Recinto A, e dall’US 135, riferibile a varie deposizioni votive nel vano C. Il suo uso cultuale riguardava sacrifici e riti di purificazione, inoltre questo animale, nella mitologia grecoromana, era sacro a una moltitudine di divinità: a Zeus (Diogene Laerzio, VIII, 34), ad Asclepio (Eliano, Var. Hist., V, 17), ad Apollo, ad Atena, a Latona, ad Ares, a Ermes e ad Eracle (Eliano, De natura animalium, XVII, 46). Giovenale (13, 233) riporta inoltre che era sacrificato ai Lari (De Grossi Mazzorin 2005). Il pollame inoltre era anche utilizzato negli auspicia; il pullarius infatti interpretava il futuro a seconda di come le galline beccassero il mangime. Dal punto di vista della documentazione archeologica una gran quantità di resti di pollame provengono da un cunicolo sotterraneo, di incerta datazione e indagato sul margine orientale del pianoro di Centocelle a Roma, cui si poteva accedere tramite un pozzetto di forma qua-

le offerte alimentari di origine animale del santuario di monte li santi drangolare provvisto di pedarole per la discesa. Tale pozzetto inizialmente utilizzato per il drenaggio delle acque fu probabilmente riutilizzato a scopo rituale come struttura ipogea di un qualche edificio di culto che doveva trovarsi nelle immediate vicinanze. Il deposito archeologico, costituito da diversi strati cinerosi ricchi di reperti ceramici in buono stato di conservazione e numerosissimi resti faunistici e paleobotanici, è inquadrabile cronologicamente tra la fine del iv secolo a.C. e gli inizi del iii sec. a.C. La tipologia della ceramica, ricca tra l’altro di frammenti con lettere iscritte, ha fatto ipotizzare un uso cultuale della struttura dove probabilmente le deposizioni si erano susseguite nell’arco cronologico di cui sopra (De Grossi Mazzorin 2004; 2005). Analogamente anche nel pozzo di Piano di Comunità a Veio erano presenti resti di pollame, riferibili ad almeno tre individui di cui uno femminile ed uno giovanile. Il femore dell’individuo giovanile presentava tracce di esposizione al fuoco mentre una scapola, oltre ad essere combusta, evidenziava chiari segni di macellazione (De Grossi Mazzorin, Cucinotta 2009, p. 130). Anche i resti di cane non sono frequenti e presenti solo nelle fasi più antiche – fasi II e III – ma se nella prima, riferibile allo strato di abbandono del vano di servizio con fornacetta, si tratta di un solo dente, forse intrusivo, nella seconda i resti sono più numerosi e tra questi è presente un astragalo proveniente dall’US 64, ovvero lo strato con materiale archeologico nell’intercapedine tra le strutture murarie “beta” ed “epsilon”, che mostra evidenti tracce lasciate da uno strumento tagliente sulla sua faccia dorsale. Sempre attribuibili alla fase III sono un’ulna di cane adulto e un frammento di cranio (zigomatico sinistro) di un cane giovanile o sub-adulto provenienti dall’US 213, riferibile alla deposizione rituale collegata al rito di dismissione o di obliterazione della fornacetta annessa, e un frammento di mandibola dall’US 132, lo strato di costruzione del sacello AA; le dimensioni alquanto ridotte di questa mandibola, la sua frammentarietà e la mancanza dei denti non permettono un attribuzione sicura alla specie canina, lasciando aperta la possibilità che si tratti della mandibola di una volpe. Per lo studio del rituale sono di particolare interesse le tracce di taglio presenti sull’astragalo; la presenza di segni del genere in Etruria meridionale è documentata anche su due mandibole di cane rinvenute nel pozzo di Piano di Comunità a Veio di cui si è appena accennato (De Grossi Mazzorin, Cucinotta 2009). Il depezzamento rituale del cane viene citato nelle Tavole Iguvine (IIa, 15ff) come rito scarificale, dovuto a Hondia (Devoto 1948); gli arti e le viscere erano in parte bruciate, consumate o abbrustolite, la parte dell’animale che non veniva preparata veniva sotterrata ai piedi dell’altare. Nel mondo antico i cani furono frequentemente usati nei riti sacrificali (Bodson 1980; Gianferrari 1995; Smith 1996; Zaganiaris 1975). Si ricorda il sacrificio simbolico di un cane-guardiano nella fondazione delle mura della città, in un punto chiave del sistema difensivo. A questo tipo di rito potrebbero ricondursi i resti di cane rinvenuti nelle mura coloniali di Ariminum (Ortalli

51

1990), nel bastione settentrionale della porta Marina di Paestum (Robert 1993) e nella cinta muraria di Fidene (Amoroso et al. 2005). Altro sacrificio di cane, effettuato nei pressi di una porta della città, che da esso traeva il nome di Porta Catularia, è quello ricordato da Festo.2 Ma in questo caso il rito era legato al mondo agricolo. Così come i riti dei Robigalia,3 a deprecazione di Rubigo, la ruggine delle messi, e dell’Augurium canarium4 che prevedevano entrambe il sacrificio di cani. Nei Lupercalia invece si sacrificavano al dio Fauno un capro e un cane5 per richiamare in questo caso la sua funzione proprio come animale da guardia. Il cane era inoltre venerato nel culto dei Lari protettori della città, che in età storica sono raffigurati vestiti di pelle canina e con un cane ai loro piedi. Plinio6 descrive infine il sacrificio di un cucciolo di cane a Genita Mana, dea italica che presiedeva al ciclo mestruale ed era collegata più in generale alla sfera della fertilità. Per quanto riguarda i periodi storici, non sono molti i santuari in Italia centrale indagati da un punto di vista archeozoologico e tra questi ricordiamo il tempio arcaico nell’area sacra di S. Omobono a Roma e il santuario di Uni a Pyrgi. A Pyrgi tra i materiali, databili tra la fine del iv e gli inizi del iii sec., che riempivano un pozzo appartenente al complesso sacro del tempio A si rinvenne lo scheletro completo di un cane (Cardini 1970; Caloi, Palombo 1980), mentre nell’area sacra di S. Omobono (vi sec.) tra gli animali sacrificati, erano presenti cuccioli di cane di età compresa tra 0 e 2 mesi, connessi ai sacrifici della Mater Matuta e Fortuna (Tagliacozzo 1989). Infine in una fossa a carattere rituale scavata nella necropoli della I età del Ferro (viii-vii sec.) Osteria dell’Osa (Roma) era stato deposto il cranio di un cane (De Grossi Mazzorin 1992). Nel mondo greco e presso gli Etruschi, il cane potrebbe rimandare idealmente al mondo dell’oltretomba e sembrerebbe connesso a divinità o demoni ctoni. In Grecia il cane era sacro ad Ecate e, sebbene non rientrava tra gli animali sacrificati agli dei olimpici, le era sacrificato durante cerimonie lustrali. In Argos i cani erano sacrificati a divinità ctonie in particolare a Ilizia. Pausania (III, 14,5) riporta il sacrificio notturno di cuccioli neri da parte degli abitanti di Colofone a Trivia e anche dagli Spartani a Euialalius (Villari 1991). In ambito etrusco il cane sembra connesso al culto di Calu, come documentano le dediche iscritte su due bronzetti di età ellenistica rinvenuti a Cortona (Gianferrari 1995). I resti del cane, rinvenuti in un pozzo del tempio A di Pyrgi, potrebbero essere collegati con la dea Uni, che fu probabilmente vista 2 Festo, 39 L: “Catularia Porta Romae dicta est, quia non longe ab ea ad placandum caniculae sidus frugibus inimicum rufae canes immolabantur, ut fruges flavescentes ad maturitatem perducerentur”. 3 per i Robigalia vedasi Ovidio (Fasti, IV, 905) e Plinio (Nat.Hist. XVIII, 285). 4 per l’Augurium Canarium vedasi Plinio (Nat. Hist. XVIII, 14) e Festo (358 L). 5 Plutarco, Q.R., 111. 6 Plinio, Nat. Hist. XXIX, 58: “Catulos lactentes adeo puros existimabant ad cibum, ut etiam placandis numinibus hostiarum vice uterentur iis. Genitae Manae catulo res divina fit, et in cenis deum etiam nunc ponitur catulina”.

52

jacopo de grossi mazzorin

Fig. 3. Numero di resti (NR) di bovini suddivisi per elemento scheletrico.

dai Greci come Ilizia e certamente fu assimilata alla dea fenicia Astarte. Ilizia era la divinità patrona dei parti. Astarte dea della forza feconda dell’amore. Quindi una divinità strettamente collegata al concetto di rigenerazione e crescita così come lo era la Mater Matuta, a cui probabilmente furono sacrificati i cuccioli di cane rinvenuti nell’area sacra di S. Omobono. Il sacrificio di cani sembra quindi strettamente connesso a una serie di divinità direttamente collegate all’idea del passaggio da uno stato ad un altro, siano queste divinità del mondo ctonio collegate al concetto di riproduzione e crescita o divinità che vegliano su un limes che contraddistingue due mondi diversi e in contrapposizione (Amoroso et al 2005; De Grossi Mazzorin, Minniti 2006; De Grossi Mazzorin 2008a). Infine il cervo e lepre sembrano essere perlopiù collegati ad episodi sporadici e in ogni caso utilizzati solo nelle fasi più antiche. Per quanto riguarda i resti di ossa associati a determinate forme vascolari (Tab. 13) si è notato come questa pratica abbia inizio non prima della fase V. Le specie utilizzate sono rappresentate specialmente da maialini in età neonatale ma sono presenti anche caprovini, bovini e pollame. Il campione di ossa del santuario è tuttavia il risultato di molteplici fattori, dovuti in particolare alle pratiche cultuali, che ne hanno influenzato la composizione. Qui di seguito si analizza quindi l’impiego di ciascuna delle tre principali categorie di animali domestici (bovini, caprovini e suini) e le relative caratteristiche di utilizzazione. Per quanto riguarda i bovini se si eccettua un frammento di mandibola rinvenuta nell’US 205 (fase II), un

frammento di diafisi di omero di individuo giovanile nell’US 170 (fase III), una I falange nell’US 34 (fase III), un III molare inferiore deciduo nell’US 183 (fase V) e un molare superiore deciduo nell’US 94 (fase VI) la maggior parte dei resti appartiene ad individui adulti o senili. Se si eccettuano i due bucrani delle UUSS 22 e 23 non si nota inoltre la selezione di particolari parti anatomiche (Fig. 3); i resti sono prevalentemente rappresentati da resti craniali e denti ma questo potrebbe dipendere semplicemente dal fatto che crani e mandibole spesso si frantumano liberando i denti sciolti sul terreno. I caprovini utilizzati nelle pratiche cultuali sembrano essere rappresentati in prevalenza da pecore, normalmente di sesso femminile (Tab. 23) e in età abbastanza avanzata. Per meglio comprendere le modalità secondo cui si svolgeva l’abbattimento di questi animali si sono utilizzate l’eruzione, il rimpiazzamento e l’usura dei

Fase

M

F

totale

II

2

1

3

III

5

13

18

V

6

11

17

IV-V

-

1

1

VI-VII

-

2

2

13

28

41

totale

Tab. 23. Resti di caprovini suddivisi in base al sesso (M = maschili; F = femminili) e alle diverse fasi cronologiche.

le offerte alimentari di origine animale del santuario di monte li santi

53

Fig. 4. Percentuali degli ovicaprini uccisi suddivisi per anni di età.

denti (Tab. 24). A tutti i resti di mandibola è stato applicato rigidamente il metodo di registrazione proposto da S. Payne (1973). Questo si basa sulla “registrazione” dello stato in cui si trovano i denti mandibolari alla morte dell’animale, cioè se sono ancora in cripta oppure, se già spuntati, a che livello di usura si trovano. Ogni dente o serie di denti viene quindi inserito in un diverso stadio di usura (indicato dallo stesso Payne con una lettera dell’alfabeto da A ad I) cui corrisponde una determinata età. Quei denti che sono riferibili a più stadi sono ripartiti proporzionalmente. Da questi valori è stato quindi ricavato il grafico della Fig. 4 che mostra le percentuali di animali uccisi per ogni classe d’età; si nota, quindi, come per le pratiche cultuali fossero utilizzati soprattutto animali di età avanzata (oltre i 3 anni), forse gli animali divenuti inutili dopo esser stati sfruttati per i prodotti dell’animale vivente (latte e lana). Per quanto riguarda la rappresentazione dei diversi elementi anatomici di nuovo prevalgono, per i motivi già spiegati, i denti ma il numero di frammenti di mandibole sono in ogni caso molto numerosi (Fig. 5). Anche i metapodi (metacarpo e metatarso) sono molto rappresentati e anche questo può essere giustificato dal fatto che le loro ossa sono costituite prevalentemente da tessuto compatto, con percentuali di tessuto spugnoso abbastanza basse e questo facilita la loro conservazione nel terreno. Inoltre, i metapodi, non supportando quantitativi di carne, non vengono di solito sottoposti ad azioni di macellazioni particolarmente distruttive. In ogni caso sembra esserci una maggior utilizzazione dell’arto anteriore rispetto a quello posteriore; se si sommano le principali ossa di ognuno dei due arti, l’omero, il radio e il metacarpo per quello anteriore e il femore, la tibia e il metatarso per quello posteriore, possiamo vedere che queste si trovano in una proporzione di 1,5:1 (70 resti per l’arto superiore e 49 per quello inferiore).

Fase

usura

età

NR

II

E

24-36 mesi

1

II

FG

36-72 mesi

1

III

B

2-6 mesi

1

III

C

6-12 mesi

2

III

D

12-24 mesi

1

III

DE

12-36 mesi

1

III

DEF

12-48 mesi

5

III

E

24-36 mesi

1

III

EFG

24-72 mesi

2

III

F

36-48 mesi

1

III

G

48-72 mesi

1

III

GH

48-96 mesi

1

III

H

72-96 mesi

1

IV

B

2-6 mesi

1

V

BC

2-12 mesi

1

V

CD

6-24 mesi

1

V

D

12-24 mesi

1

V

E

24-36 mesi

2

V

EFG

24-72 mesi

2

V

G

48-72 mesi

1

V

GH

48-96 mesi

1

VI

EFG

24-72 mesi

1

VII

EFG

24-72 mesi

1

VII

FG

36-72 mesi

1

VII

GH

48-96 mesi

1

Tab. 24. Resti di caprovini suddivisi in base alle diverse classi d’ètà (Payne 1973) e alle diverse fasi cronologiche.

54

jacopo de grossi mazzorin

Fig. 5. Numero di resti (NR) di caprovini suddivisi per elemento scheletrico.

Nei suini non risulta una selezione operata sul sesso degli animali, in base all’esame dei canini sia superiori che inferiori si nota, infatti, un sostanziale equilibrio tra i due generi (Tab. 25). Come si è visto erano spesso sacrificati maialini in età neonatale ma nel campione sono presenti anche numerosi resti di animali subadulti e adulti. I resti mandibolari rispetto i mascellari sono ancora molto numerosi così come gli elementi ossei dell’arto anteriore (omero e radio) rispetto a quello posteriore (femore e tibia) sono in rapporto di 2,5 a 1 (Fig. 6). L’uso del maiale, come quello degli altri due animali domestici di particolare importanza, ovvero il bue e la pecora, caratterizzerà i sacrifici cultuali delle genti italiche fino alla definitiva consacrazione da parte dei romani nel Suovetaurilia; si ricordino ad esempio i riti sacrificali previsti nelle Tavole Iguvine Questo animale era inoltre oggetto di culto totemico da parte dei Latini; basti ricordare il sacrificio di Enea a Giunone della bianca scrofa trovata giacente al suolo presso la riva del Tevere coi suoi trenta porcellini (Virgilio, Eneide, VIII, 93-119). Si vuole che la bianca scrofa

Fase

M

F

totale

III

4

3

7

V

4

5

9

8

8

16

totale

Tab. 25. Resti di suini suddivisi in base al sesso (M = maschili; F = femminili) e alle diverse fasi cronologiche.

simboleggi Alba Longa, e i porcellini i trenta anni che intercorreranno da quel momento alla sua fondazione (che avverrà ad opera di Julo) o le trenta città che formeranno la confederazione latina capeggiata da Alba. Il sacrificio di una scrofa, in questo caso a Cerere, era inoltre previsto nei rituali agrari descritti da Catone (De Agr. 134) così come quello di un porco da effettuarsi prima di un disboscamento (De Agr. 139). Il sacrificio di un maiale era inoltre previsto nei riti celebrati dai Fetiales per suggellare un patto o un’alleanza tra diverse cittadine o popolazioni. Mentre l’animale veniva sacrificato con un particolare coltello di selce, il sacrum silex di Iuppiter Lapis, si invocava il dio a colpire con uguale ferocia chi fosse venuto meno al patto (Livio I, 24). A tale proposito vale ricordare il passo di in cui si descrive il trattato di pace tra Tullo Ostilio e Mezio Fufezio, rispettivamente re di Roma e dittatore di Alba Longa, e in particolare le parole pronunciate dal Feziale M. Valerio: “Ascolta Giove: ascolta padre patrato del popolo Albano; ascolta tu pure, popolo Albano: voi state per sentire leggere ad alta voce, dalla prima all’ultima senza sotterfugio le condizioni scritte su questa tavoletta: il senso vi è chiaramente fissato. Il popolo romano non le violerà per primo. Se egli le violerà per primo per una decisione pubblica, per un sotterfugio, lo stesso giorno, Giove, distruggi il popolo romano come io distruggo oggi questo porco: e distruggilo tanto meglio e più violentemente quanto tu sei più forte e possente”. “Audi, inquit, Iuppiter; audi, pater patrate populi Albani; audi tu, populus Albanus; ut ita palam prima postrema ex allis tabulis cerave recitata sunt sine dolo malo, utique ea hic hodie rectissime intellecta sunt, illis legibus populus Romanus prior non deficiet. Si prior defexit publico consilio, dolo malo; tu illo die, Iuppiter, populum Romanum sic ferito, ut ego hunc

le offerte alimentari di origine animale del santuario di monte li santi

55

Fig. 6. Numero di resti (NR) di suini suddivisi per elemento scheletrico.

porcum hic hodie feriam: tantoque magisferito, quanto magis potes pollesque.”. Numerose sono inoltre le testimonianze archeologiche del sacrificio di maiali o cinghiali in diversi santuari o aree cultuali dell’antichità. Tra i materiali rinvenuti nella stipe del Santuario di Schiavi d’Abruzzo (iv-i sec. a.C.) figurano diversi frammenti di mandibole o denti mandibolari di suini (De Grossi Mazzorin 1997). Nel santuario di S. Angelo di Civitella di Nesce (Pescorocchiano) si sono rinvenuti, in alcuni livelli del iii sec. a.C., diversi resti ossei animali riferibili a pratiche cultuali condotte all’interno dell’area sacra (De Grossi Mazzorin 1995). La maggior parte degli animali offerti alle divinità e/o consumati dalle persone che partecipavano ai riti era costituita da pecore o capre, ma i sacrifici nel santuario prevedevano anche l’uso del maiale come testimonia parte del campione faunistico rinvenuto. Di particolare interesse è l’uso di sacrificare porzioni non particolarmente pregiate dell’animale, come testimonia la gran quantità di resti del cranio (il 37% ca. dei caprovini e ben il 55% ca. dei suini), specie le mandibole. È possibile tuttavia che la mancanza delle parti del corpo possa essere dovuta al fatto che solo alcune porzioni dell’animale restassero nell’area templare ed il resto venisse consumato in altro luogo. Anche tra i resti rinvenuti nell’area sacra di S. Omobono a Roma si nota una forte incidenza delle parti craniali (Tagliacozzo 1989). Del resto una forte preponderanza di ossa riferibili soprattutto a parti craniali sembra essere diffusa ovunque nel mondo antico (Méniel 1992, pp. 94-97, 124-126). I resti ossei provenienti da livelli di frequentazione del Tempio arcaico di S. Omobono, datati al vi sec. a.C. appartenevano prevalentemente ad ovicaprini ma a questi seguiva per importanza il maiale, che nei livel-

li più recenti tende ad aumentare in percentuale. In genere venivano utilizzati maialini di età inferiore ai 4 mesi, il 70% circa, mentre un altro 10% era costituito da individui di età inferiore a un anno. Ma senza alcun dubbio il dato più interessante è la presenza certa di resti di feti che lascia presupporre il sacrificio di scrofe gravide. La presenza di resti fetali di maiale, legati a pratiche di carattere cultuale, è documentata anche nella grotta 10 dell’abitato del Bronzo finale di Sorgenti della Nova (Farnese - VT) e nella grotta di S. Maria di Agnano presso Ostuni (BR), usata come luogo di culto dalla preistoria fino a tempi recenti (Wilkens 1995). Nel caso di Sorgenti della Nova la maggior parte dei resti ossei, molti dei quali fortemente combusti o calcinati, appartenevano a maialini in età neonatale. Il gran numero di resti di neonati, riferibili a numerosi individui, non trova una spiegazione plausibile tra le faune di un abitato, si è quindi propensi a un uso cultuale della grotta dove probabilmente veniva praticato il loro sacrificio (De Grossi Mazzorin 1998; De Grossi Mazzorin, Minniti 2002). Un rito analogo, come si è detto, è testimoniato anche nella grotta di S. Maria di Agnano, in cui in età ellenistica veniva praticato il culto di Demetra. Questo prevedeva tra l’altro, durante le Tesmoforie, il sacrificio di un certo numero di maialini che venivano gettati assieme a delle torce accese in un pozzo o venivano sacrificati in una sala sotterranea (Sfameni Gasparro 1986). Con questo gesto si voleva ricordare il mito del ratto di Persefone da parte di Ade. Infatti un guardiano di porci, di nome Eubuleo, si trovava con i suoi maiali nel punto in cui Ade aveva trascinato Persefone negli Inferi e una parte del branco era stata inghiottita sotto terra con le due divinità. Il maiale è quindi un animale tipico di que-

56

jacopo de grossi mazzorin

sto culto e alla divinità venivano offerte tra l’altro anche statuine in ceramica di questo animale. A tale proposito Clemente Alessandrino (Protr. II, 17) dopo aver ricordato le “scrofe di Eubuleo sprofondate con le due dee”, conclude “per questa ragione nelle Tesmoforie buttano porcellini nei megara”. Il sacrificio di scrofe gravide nella grotta di Ostuni sembra tuttavia avere radici molto più antiche come lascerebbe presupporre la frequenza dei giovani maialini nei livelli dell’età del Bronzo. D’altra parte miti, come quello dualistico di Demetra-Persefone, sono legati alla sfera della fecondità della terra e hanno radici molto profonde e compaiono in numerose culture dal mondo mediterraneo alla Mesopotamia; ad esempio i miti sumero/accadici di Inanna/Ishtar e di Dumuzi/ Damu (Petrioli 1998). In ambito greco e magnogreco è ben documentata la presenza di resti di maialini giovanissimi nei santuari demetriaci, tra i tanti vale la pena ricordare il santuario di Demetra e Kore a Corinto (Bookidis et al. 1999), Cnosso (Jarman 1973), Cirene (Crabtree, Monge 1990), Bitalemi a Gela (Orlandini 1968-69). Anche nel mondo messapico resti di maialini sono presenti nel santuario di tipo demetriaco a Oria-Monte Papalucio (Albarella, De Grossi Mazzorin, Minniti in studio) e nel bothros 3 di Vaste (De Grossi Mazzorin, Solinas 2010), dove il culto esercitato sembra riguardare una divinità femminile indigena, le cui caratteristiche sono assimilabili a quelle di Demetra (Mastronuzzi 2002). Anche le ossa dei maialini di Mazzano potrebbero quindi riferirsi, con molta probabilità, a un rituale di tipo demetriaco. Del resto, come si è visto, anche il gallo e il cane rimandano a divinità ctonie senza escludere la possibilità che nel santuario vi fosse una pluralità di culti con modalità di sacrificio differenti. Appendice: misure Le misure osteometriche (riportate in mm) sono state prese in accordo a quanto stabilito da A. von den Driesch (1976) e riportate in appendice suddivise cronologicamente per specie animale ed elemento scheletrico; le abbreviazioni usate per indicarle sono quelle in lingua inglese adottate dall’Autrice. Bove - Bos taurus 1) mandibola (fase III - US 194): (10) = 39,5 × 15 Cane - Canis familiaris 1) astragalo (fase III - US 64): GL = 25 2) ulna (fase III - US 213): BPC = 15,4; DPA = 24,6; SDO = 20,4 Gallo - Gallus gallus 1) ulna (fase V - US 95): Did = 7,9 2) tibia (fase V - US 95): Dip = 18 3) metatarso (fase V - US 95): Bd = 11,4 Pecora - Ovis aries 1) radio (fase III - US 194): Bp = 32 Dp = 15,5 2) radio (fase III - US 213): Bp = 31,4; Dp = 15,7

3) metacarpo (fase V - US 183): GL = 130,4; Bp = 24; Dp = 17,4; SD = 16; DD = 10,2; Bd = 26; Dd = 17 4) metacarpo (fase III - US 213): GL = 129,3; Bp = 22,6; Dp = 16,5; SD = 14,8; DD = 10,7; Bd = 21,1; Dd = 16,5 5) metatarso (fase V - US 183): GL = 139,2; SD = 12,7; DD = 9,9; Bd = 24,6; Dd = 16,3 Pecora o Capra - Ovis vel Capra 1) cranio (fase V - US 101): (7) = 65,3; (8) = 44,1; (9) = 22,5 2) mandibola (fase III - US 213): (7) = 69,5; (8) = 47,2; (9) = 21,8; (10) = 22*8,2; (15b) = 23,2; (15c) = 19,4 13) mandibola (fase III - US 170): (8) = 51,7; (10) = 23*8,6; (15a) = 41,9; (15b) = 22,7 14) mandibola (fase V - US 101): (8) = 47,9; (15b) = 21,2; (10) = 21,5*8 15) mandibola (fase II - US 204 A): (9) = 20,3 (15b) = 22,9; (15c) = 20,6 16) mandibola (fase VII - US 204): (10) = 24,3 × 8,4 17) mandibola (fase III - US 194): (10) = 23 × 7,5 18) mandibola (fase III - US170): (10) = 20 × 7,8 19) atlante (fase IV - US 50): GLF = 47,3 BFcd = 57 10) epistrofeo (fase IV - US 190): BFcr = 45 11) omero (fase III - US 29): Bd = 34,2 Dd = 29,6 12) radio (fase V - US 183): Bp = 34 Dp = 18 13) metacarpo (fase III - US 186): Bp = 29,3, SD = 18,5; DD = 11,3 14) metacarpo (fase V - US 183): Bp = 25,8; Dp = 18,5; SD = 17; DD = 11 15) metacarpo (fase VII - US 204): Bp = 22,2; Dp = 17 16) metacarpo (fase V - US 185):Bp = 22 Dp = 16 17) metacarpo (fase III - US 194): Bp = 22 Dp = 15,5 18) metacarpo (fase III - US 194): Bp = 21 Dp = 16 19) tibia (fase V - US 183): Bd = 28 Dd = 20,3 20) tibia (fase V - UUSS 77 = 81 = 91):Bd = 27,4 Dd = 20,8 21) tibia (fase III - US 31): Bd = 26,2; Dd = 20,1 22) astragalo (fase VI - US 66): GLl = 32,5; GLm = 31; Dl = 19; Dm = 18,7; Bd = 20,7 23) astragalo (fase V - US 161 A):GLl = 31,5; GLm = 31,1; Dl = 16,8; Dm = 17,4; Bd = 19,8 24) astragalo (fase V - US 77 = 81 = 91):GLl = 31,3; GLm = 28,8; Dl = 16,9; Bd = 19,5 25) metatarso (fase V - US 183): Bp = 20,2; Dp = 19,3 26) metatarso (fase III - US 195): Bp = 19,8; Dp = 20,2; SD = 11,1; DD = 9,1 27) metatarso (fase V - US 183): Bp = 19,5 Dp = 21 28) metatarso (fase III - US 186): Bp = 18,9; Dp = 18,9; SD = 10,8; DD = 9,8 Maiale - Sus domesticus 1) scapola (fase III - US 64): GLP = 32 SLC = 21,5 2) scapola (fase IV-V - US 22): GLP = 31,8; LG = 26,6; BG = 22,8; SLC = 22,2 3) scapola (fase III - US 132): GLP = 31,7 LG = 26,5 SLC = 21 4) scapola (fase V - US 131): SLC = 18 5) radio (fase III - US 132): Bp = 30,1 Dp = 19,7 6) ulna (fase IV - US 50): SDO = 27,5 7) astragalo (fase IV - US 190): GLl = 35,6; GLm = 32,3; Dl = 17,7; Dm = 19,6; Bd = 22,1 8) III metatarso (fase III - US 186): GL = 75,2 9) V metatarso (fase V - US 95): GL=54,6

AD DE NDU M . I RIN VEN IM E NTI M O NE TA L I

e monete restituite dagli scavi 1985-96 sono già state pubblicate in maniera analitica1 e pertanto non si è  ritenuto opportuno riproporle integralmente. Per completezza di documentazione, tuttavia si propone la tabella che segue, rielaborata sulla base di B. Mazzot-

L

ta, Tabella dei materiali numismatici provenienti da Narce, località Monte Li Santi-Le Rote, in Benedettini, Catalli, De Lucia Brolli 1999, pp. 52-56, che sintetizza il quadro dei rinvenimenti. madlb

Fase V: US 135 (deposizioni votive nel Vano C) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

Campania/Neapolis (?) (270-250 a.C.)

Litra

1

Roma, Repubblica/Roma (280-276 a.C.)

Triente

1

Roma, Repubblica/Roma (217-215 a.C.)

Oncia

2

Fase V A: US 1037 (deposito votivo dell’altare IV) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

Roma, Repubblica/Roma

(280-276 a.C.)

Triente

1

Roma, Repubblica/Roma

(217-215 a.C.)

Semoncia

1

Fase V A: US 1054 (bozzame di tufo addossato all’altare IV) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

AE (prora)

1

Fase V B: US 136 (strato di obliterazione della soglia del muro η tra vano C e area D per la costruzione dell’altare II) Zecca

Autorità

Roma, Repubblica/Roma

Nominali

N. esemplari

Asse Triente

1 1

Fase V B: US 183 (strato tardo-arcaico rimaneggiato in età ellenistica per la costruzione dell’altare II) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

Roma, Repubblica/Roma iii-ii sec.a.C.

AE (prora)

2

Roma, Repubblica/Roma (fine iii sec.a.C.)

Triente

1

1 Benedettini, Catalli, De Lucia Brolli 1999

58

addendum Fase V B: US 166 (deposito votivo nell’area D) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

AE (illeggibili)

3

Roma, Repubblica/Roma

AE (prora)

2

Roma, Repubblica/Roma (iii sec. a.C.)

Asse Quadrante Oncia

1 2 1

Roma, Repubblica/Roma (169-158 a.C.)

Triente

1

Fase V: US 22 (deposizioni votive in strato di frequentazione e abbandono nell’area esterna nord) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

AE (illeggibili)

25

Baleari/Ebusus (iii-ii sec.a.C.)

AE

1

Campania/Neapolis (270-250 a.C.)

Litra

8

Campania/Suessa (312-268 a.C.)

Litra

1

Calabria/Reggio (203-89 a.C.)

Tetrans

1

Sicilia/Panormus (?) (post 241 a.C.)

AE

1

Sicilia/Siracusa (post 212 a.C.)

AE

1

Macedonia/Amphipolis (187-31 a. C.)

AE

1

Epiro/Balleus (?) (167-135 a.C.)

AE

1

(279-168 a. C.)

Lega etolica (?)

AE

1

Greca (279-168 a. C.)

Lega etolica (?)

AE

1

Magno greca (279-168 a. C.)

Lega etolica (?)

AE

1

Roma, Repubblica/Roma (poco prima del 269 a. C.)

Litra

3

Roma, Repubblica/Roma (241-235 a.C.)

Litra

2

Roma, Repubblica/Roma (234-231 a.C.)

Litra Mezza litra

1 1

Roma, Repubblica/Roma (217-215 a.C.)

Oncia Semoncia Quartoncia

1 6 4

Roma, Repubblica/Roma (215-212 a.C.)

Oncia

10

Roma, Repubblica/Roma (post 211 a.C.)

Asse Semisse Triente Quadrante Sestante Oncia

16 4 8 8 5 1

i rinvenimenti monetali

59

Fase V: US 22 (deposizioni votive in strato di frequentazione e abbandono nell’area esterna nord) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

Italia centrale o Roma (211-208 a. C.)

Asse

6

Roma, Repubblica/Roma o Sicilia (209-208 a.C.)

Asse

1

Roma, Repubblica/Roma (206-195 a.C.)

Semisse

1

Roma, Repubblica/Roma (211 a. C.)

Sestante

2

Roma, Repubblica/Roma (206-195 a.C.)

Sestante Semisse

2 1

Roma, Repubblica/Roma (169-158 a.C.)

Triente

2

Roma, Repubblica/Roma (135 a.C.)

Quadrante

1

Roma, Repubblica/Roma (130 a.C.)

Q. Mete

Quadrante

1

Roma, Repubblica/Roma (130 a.C.)

M. Vargu

Quadrante

1

Roma, Repubblica/Roma (127 a.C.)

M. Metellus

Quadrante

1

Roma, Repubblica/Roma

Quadrante

9

Roma, Repubblica/Roma

AE (prora)

7

Roma Roma, Repubblica/Roma

Asse? Semisse? Triente (?)

3 2 1

Fase V: US 148 (strato con materiale votivo rinvenuto sconvolto all’esterno del muro θ) Zecca

Autorità

Roma, Repubblica/Roma (iii-ii sec. a.C.)

Nominali

N. esemplari

Asse

1

Fase V: US 161 A (strato di livellamento o abbandono dell’area D) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

Semisse Triente (?) Quadrante

1 1 1

Quadrante

1

Roma, Repubblica/Roma

AE (non identificabile)

2

Roma, Repubblica/Roma

AE (prora)

1

Roma, Repubblica/Roma

Quadrante (?)

1

Roma, Repubblica/Roma (iii-ii sec.a.C.) Roma, Repubblica/Roma (132 a.C.)

M. Aburi. M.f. Gem.

60

addendum Fase V: US 162 (strato di frequentazione finale e abbandono area D) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

AE (illeggibili)

2

Roma, Repubblica/Roma

AE (prora)

1

Roma, Repubblica/Roma (iii sec. a.C.)

Asse

9

Roma, Repubblica/Roma (215-212 a.C.)

Oncia

1

Roma, Repubblica/Roma (iii-ii sec. a.C.)

Quadrante Semisse Triente

3 1 3

Fase V: US 180 (nucleo di ex-voto nell’area D) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

Roma, Repubblica/Roma (iii sec. a.C.)

AE (prora)

1

Roma, Repubblica/Roma (iii sec. a.C.)

Asse Rriente

1 1

Fase VI: US 35 = 66 (sigillo finale di blocchi - Recinto A, Vani B-C) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

Roma, Repubblica / Roma o Sicilia

AE (prora)

1

Roma, Repubblica / Roma o Sicilia (209-208 a.C.)

Asse

1

Roma, Repubblica/Roma (post 211 a.C.)

Triente

1

Fase VII: US 1005 (strato di abbandono e distruzione) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

Sestante

1

Nominali

N. esemplari

Roma, Repubblica/Roma (225-217 a.C.)

Oncia

1

Roma, Repubblica/Roma

AE

1

Roma, Repubblica/Roma

Asse

1

Roma, Repubblica/Roma

Triente

2

Roma, Repubblica/Roma (217-215 a.C.)

Fase VIII: US 42 (arature) Zecca

Autorità

i rinvenimenti monetali

61

Fase VIII: US 82 (scavo clandestino nel Recinto A) Zecca

Autorità

Roma, Repubblica/Roma (post 211 a. C.)

Nominali

N. esemplari

Asse

1

Fase VIII: US 146 (scavo clandestino nel Vano C) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

Roma, Repubblica/Roma (iii-ii sec. a.C.)

AE (prora)

1

Roma, Repubblica/Roma (post 211 a.C.)

Quadrante

1

Fase VIII: US 176 (scavo clandestino nell’area D) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

Roma, Repubblica/Roma (post 211 a.C.)

Asse

1

Roma, Repubblica/Roma (217-215 a.C.)

Quartoncia Semoncia

1 1

Fase VIII: US 200 (scavo clandestino nell’area D) Zecca

Autorità

Nominali

N. esemplari

AE (prora)

2

Nominali

N. esemplari

Roma, Repubblica/Roma (post 211 a.C.)

Triente

1

Roma, Repubblica/Roma

AE (prora)

2

Nominali

N. esemplari

Quadrante

1

Roma, Repubblica

Fase VIII: US 18 (humus) Zecca

Autorità

Sporadico Zecca Roma, Repubblica/Roma (ii sec. a.C.)

Autorità

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CO NSIDERA ZIO NI CO NCLU S IV E Ma r ia Anna De L uc i a B ro l l i a storia degli studi sul santuario di Monte Li Santi-Le Rote mostra come più volte il complesso archeologico sia stato portato all’attenzione degli studiosi, come pure di un pubblico più vasto in occasione di eventi legati alla valorizzazione del patrimonio culturale. È solo da questo volume tuttavia che il santuario viene illustrato in maniera analitica in tutte le sue componenti, consentendo, attraverso l’incrocio dei dati di stratigrafia assoluta e relativa, interessanti conclusioni sulle fasi di vita, sul regime del culto, sulle produzioni locali, sulla circolazione dei materiali votivi e sulle fasce sociali che ad esso facevano capo. I capisaldi cronologici cui la vita del santuario è ancorata sono di particolare rilievo per una più approfondita conoscenza della storia del centro antico; il suo impianto, nella prima metà del v sec. a.C., si colloca infatti in un momento di particolare impegno pubblico della comunità narcense, che vede la realizzazione delle opere di fortificazione dell’area urbana di Monte Li Santi e Pizzo Piede e l’erezione di altri santuari, urbani e suburbani, di cui si conoscono al momento solo pochi importanti resti di decorazioni architettoniche.1 Il termine cronologico inferiore, tra la fine del ii e l’inizio del i sec. a.C., testimonia invece una continuità del culto anche in una fase successiva alla conquista romana del territorio, in significativa coincidenza con quanto si verifica nei santuari di Falerii e del suo hinterland. Dopo il 241 a.C., infatti, nonostante l’abbandono degli insediamenti urbani, i santuari falisci continuano a vivere in ragione di una popolazione diffusa nelle campagne, secondo modelli di occupazione favoriti da Roma per contrastare la grave crisi economica conseguente alla conquista.2 La loro storia è dunque intimamente legata all’evoluzione della nuova compagine sociale, e risente della profonda crisi che si determina alla fine del ii sec. a.C., aggravata all’inizio del i sec. a.C. dalle guerre sociali. Benché esistano evidenze stratigrafiche di incendi che hanno interessato in questa fase in particolare l’Area esterna nord, l’abbandono del santuario di Monte Li Santi-Le Rote non fu repentino, ma seguì modalità che prevedevano un’intenzionale obliterazione delle strutture e dei materiali in esso contenuti, in sintonia con quanto avviene a Falerii. Infatti l’intera struttura coincidente con l’originario sacello AA è stata rinvenuta sigillata da

L

1 In generale su questi aspetti: De Lucia, Baglione 1995, pp. 55 ss.; per il santuario urbano di Pizzo Piede: Baglione, De Lucia Brolli 2004, pp. 89-102. 2 Sulla delicata fase della romanizzazione del territorio falisco: Potter 1985, pp. 114-115; De Lucia Brolli, Michetti 2005a.

più strati di blocchi di reimpiego, conseguenti ad un sistematico intervento di smantellamento delle murature. È stata questa una congiuntura a noi favorevole perché ha protetto i resti più superficiali, conservati ad appena 30 cm dal piano di campagna, dalle ripetute arature e dagli scavi clandestini. Scorrendo il catalogo, appare evidente come i materiali rinvenuti siano estremamente variegati anche in rapporto alle diverse fasi di frequentazione e al significato che essi assumono nell’ambito del santuario. In primo luogo occorre fare una distinzione tra le testimonianze residuali relative alle fasi iniziali e quelle attinenti in maniera esplicita o specifica alla sfera del sacro, delle quali ritroviamo le evidenze anche in giacitura primaria negli strati di frequentazione delle fasi IV e V. I materiali residuali più antichi, esclusivamente ceramici, provengono dagli strati di fondazione connessi alla monumentalizzazione dell’area, e da quelli di livellamento collegati al succedersi delle diverse trasformazioni edilizie che hanno interessato il sito. Nonostante l’ovvia frammentazione, è stato possibile individuare delle linee di tendenza nell’utilizzo delle diverse classi ceramiche all’interno del santuario. Mentre la fase I non consente osservazioni puntuali, per la fase II è possibile affidarsi ai riempimenti dei cavi di fondazione della “platea monumentale” che hanno restituito frammenti di bucchero, di ceramica comune e di ceramica d’impasto chiaro-sabbioso, appartenenti a vasellame circolante in epoca precedente. Alcune delle forme individuate (kyathos o kantharos per il bucchero, dolia nella ceramica comune) si ritrovano esclusivamente in questa fase, come attestano anche altre stratigrafie affidabili, quali i livellamenti per l’impianto delle aree F e G, nel settore meridionale del santuario, e i frammenti inclusi nel battuto di frequentazione del Vano E. Ulteriori dati sono forniti dalla costruzione del sacello AA nella fase III; anche in questo caso sono i cavi di fondazione e i livellamenti a restituire gli elementi più significativi sia in termini di cronologia relativa sia in termini quantitativi e qualitativi, con l’introduzione del bucchero grigio, di scarsa ceramica attica a figure rosse, di ceramica a vernice rossa e acroma. Il bucchero rappresenta senza alcun dubbio la presenza numericamente più consistente, ma di scarso impegno formale che si differenzia nettamente dai prodotti di maggior qualità delle coeve tombe a camera di Narce; le affinità percepibili invece con le analoghe attestazioni veienti di Comunità e Casale Pian Roseto suggeriscono la possibilità di una produzione espressamente dedicata ai circuiti santuariali. La presenza di forme aperte trasversali alle diverse classi, quali il calice, la coppa, il piatto, il

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maria anna de lucia brolli

coperchio – tutte, tranne il coperchio, non attestate in precedenza –, e quella più rarefatta di vasi chiusi anche di grandi dimensioni, la contestuale adozione di forme aperte miniaturizzate, dovevano rispondere evidentemente a peculiari esigenze del rito, che, affermatisi già prima del terzo quarto del v sec. a.C., proseguiranno per tutta la vita del santuario fino al suo abbandono. Il fulcro dell’attività religiosa, prima della costruzione del sacello AA doveva essere rappresentato dalla “platea monumentale” e dai suoi annessi (il vano E). All’inizio delle indagini si era voluto riconoscere in questa grande struttura un edificio templare, poi, più prudentemente, si è ritenuto opportuno non trarre delle conclusioni che lo stato attuale delle ricerche non consente. Tuttavia l’ipotesi rimane ancora valida, supportata dalle dimensioni, che trovano significativi confronti con quelle dei grandi edifici templari eretti a partire dalla prima metà del v sec. a.C. in Etruria e nel Lazio,3 e dall’articolazione interna percepibile nel settore settentrionale già scavato. In ogni caso scarse ma interessanti terrecotte architettoniche attestano l’esistenza in questo periodo di un edificio arricchito da un altorilievo frontonale di raffinata esecuzione, come dimostra l’unico frammento superstite,4 e protetto da rivestimenti fittili decorati a stampo. L’edificio – che si debba identificare o meno nella struttura della “platea monumentale” – ebbe, al pari di questa, vita breve, non più di un cinquantennio, dal momento che il frammento di altorilievo è stato rinvenuto nello strato di livellamento funzionale alla costruzione del sacello AA. È proprio la realizzazione di quest’ultimo a costituire il punto di svolta rispetto alla tradizione precedente. La data del iii quarto del v sec. a. C. per la sua costruzione si fonda non solo sui frammenti residuali di ceramica, soprattutto bucchero, che riempiono i cavi di fondazione e ai quali si è già fatto riferimento, ma soprattutto sulla colmata dell’intercapedine tra il muro ‚ di perimetro del sacello e il muro  della “platea”. Sul carattere rituale di questa colmata ci si è soffermati nel paragrafo sui riti di fondazione e di consacrazione;5 preme qui sottolineare come in questa deposizione, frutto di un atto cerimoniale, si sia fatto ricorso per l’ultima volta all’uso di una classe di prestigio quale è da considerare la ceramica attica figurata e, nell’ambito di questa, a forme particolari quali le glaukes e gli skyphoi. È significativo, infatti, che, da quel momento in poi, non si ritrovi ceramica attica nei nuovi spazi sacri, nemmeno nell’accatastamento secondario US 58, che pure conserva materiali del v sec. a.C. Quali siano state le motivazioni che hanno determinato l’abbandono dell’edificio precedente non è dato sapere. La “platea” si estende fino a lambire il declivio scosceso della rupe di Monte Li Santi, spesso interessato da frane, di cui rimangono ancora oggi i segni nei grossi massi tufacei rotolati fino a raggiungere i margini della struttura. Si potrebbe pertanto ipotizzare una fine traumatica, tuttavia la costruzione di un nuovo edificio, qua-

le il sacello AA, non si configura come una mera sostituzione, ma segue criteri topografici e architettonici che lo differenziano nettamente dall’altro. Lontano dalla rupe, ma a ridosso del Treja, era in realtà anch’esso esposto ai rischi dovuti al carattere torrentizio del fiume, che nel corso dei secoli che ci interessano ha avuto fasi caratterizzate da depositi alluvionali (ante 200 a.C.), alternate a processi di erosione delle sponde (200 a.C.-200 d.C.).6 Ma tale ambientazione soddisfaceva esigenze cultuali specifiche, ulteriormente sottolineate dalla adesione a schemi architettonici di ispirazione siceliota, che rinviano al carattere demetriaco dei nuovi spazi sacri fin dalle fasi iniziali, sebbene esso si manifesti con sfumature più articolate soprattutto a partire dalla metà del iv sec. a.C. Che la costruzione del sacello dovesse rispondere a precise regole è ancora una volta suggerito dall’assenza di terrecotte decorative, segno solo apparente di “povertà”. Che si tratti invece di una scelta ideologica è provato dall’uso del “Piperno di Mazzano” per la realizzazione di alcune delle parti principali dell’edificio, funzionali all’espletamento del culto nella cella (pedana, parte superiore dell’altare I, teca interrata). Tale utilizzo comportava uno sforzo organizzativo ben più costoso in termini di reperimento e di trasporto del materiale da costruzione. A differenza degli altri tipi di tufo usati, che sfruttavano certamente materiale in loco, il “Piperno”, di qualità superiore in quanto più compatto e resistente, doveva essere prelevato a grande distanza dall’area prescelta, in località Monte Gelato, da dove poteva forse essere trasportato attraverso la via fluviale, all’epoca navigabile.7 Le modifiche strutturali del sacello AA, suddiviso nei vani A, B e C nel corso della fase IV, sono dunque probabilmente espressione di una diversa sfumatura di un culto già presente, più orientato ora in senso ctonio-infero, come sembrano suggerire l’approfondimento del vano A rispetto al piano di calpestio originario della cella, la realizzazione di bothroi ricavati nella nuda terra e il richiamo a Persefone, oltre che alla madre Demetra, percepibile nella tipologia delle offerte votive e sacrificali. Quando, nella fase V, il vano A viene convertito in un recinto – secondo un processo che investe anche altri santuari demetriaci –,8 sta concludendosi la lenta trasformazione del culto che, sotto la spinta incalzante della romanizzazione, tende dalla metà del iii sec. a. C. ad identificarsi con quello di Minerva Maia e Fortuna, trasferendo su divinità assimilabili le prerogative che gli erano proprie. Si può forse suggerire che l’impianto del nuovo culto sia in qualche modo collegato ad un personaggio cardine della progressiva occupazione dell’ager faliscus, quello Spurio Carvilio Massimo che, in occasione del trionfo del 293 a.C. per le vittorie sui Sanniti e soprattutto sugli Etruschi alleatisi con i Falisci, fece costruire un tempio proprio a Fors Fortuna trans Tiberim nei pressi di quello eretto da Servio Tullio (Liv., X, 46.14).

3 Cfr. a titolo esemplificativo Rendeli 1989. 4 R2A 1. 5 Parte I, pp. 72-73.

6 D. S. Cherkauer, in Potter 1976, p. 106 ss. 7 Si veda in questo volume il contributo di L. Giannini. 8 Per i riferimenti, v. Parte I, nota 296.

considerazioni conclusive E il paesaggio si trasforma di conseguenza: non più edifici, anche se qualche rara terracotta architettonica di iii-ii sec. a.C. sembra indicare la presenza di strutture coperte, al momento non individuate, ma altari sub divo, posti a distanza ravvicinata l’uno dall’altro, ciascuno con una propria area di pertinenza, bassi muri di delimitazione ai quali si addossano le offerte dei fedeli, cippi con funzione di altarini. È un fenomeno non isolato, che trova confronti in aree limitrofe a Veio, nei santuari di Comunità e Campetti Porta Caere.9 I complessi riti di obliterazione che accompagnano la trasformazione costituiscono uno degli elementi di maggiore interesse del santuario, insieme al rinvenimento dell’instrumentum sacrificale, sigillato nei pressi dell’altare I nel Recinto A.10 L’evidenza archeologica mette in luce una tendenza al conservatorismo rituale, rispondente a schemi preordinati nella celebrazione delle cerimonie solenni, secondo una prassi che trova riscontro anche nelle Tavole Iguvine, come si è più volte sottolineato. L’obliterazione comportò di fatto l’annullamento di una serie di strutture ipogee e di manufatti deputati alla celebrazione del rito, quale il grande forno portatile ed il “piatto-vassoio” ad esso associato,11 probabilmente funzionali alla cottura e alla presentazione di offerte di natura non cruenta, protetti e conservati nell’angolo dello spazio sacrificale del Recinto A. Ma comportò anche la distruzione della coppia di statue femminili sedute in trono, una delle quali certamente identificabile con Persefone per l’applique con il serpente barbato e crestato sulla spalliera.12 La dispersione dei frammenti delle due statue nell’area interessata dagli interventi di ristrutturazione per l’impianto della nuova area all’aperto, destinata al culto di Minerva Maia e Fortuna, fa pensare ad una voluta cancellazione di icone collegate al culto demetriaco. Anche se non più praticabile, lo “spazio sacrificale” retrostante l’altare I doveva tuttavia avere conservato nel tempo la valenza originaria se qui sono stati riposti e obliterati dal sigillo finale di blocchi, al momento dell’abbandono del santuario, gli altri materiali che facevano parte dell’instrumentum sacrificale: la coppia di alari in ferro,13 il grande vassoio d’impasto chiaro sabbioso con le pinze da fuoco,14 la serie di strumenti da taglio per la macellazione e il sezionamento delle offerte animali.15 È interessante che ai due distinti momenti di obliterazione corrispondano suppellettili destinate a pratiche cerimoniali di differente qualità, e che, nella fase di frequentazione finale del santuario, appaia predominante il sacrificio cruento. È una inversione di tendenza percepibile anche da altre tracce significative, che mostrano la presenza di vasellame per la preparazione di pasti a base di cereali o legumi esclusivamente in strati di formazione secondaria, databili non più tardi della 9 Bartoloni, Benedettini 2011, p. 789. 10 Per i quali si veda Parte I, pp. 74-77. 12 A1fr 1 e 2. 14 P16IA e M7 1.

11 Q3I A. 13 M6 1 e 2. 15 M42 e 3.

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II metà del iv secolo a.C., a fronte dei soli cinque clibani distribuiti tra l’area D e l’Area esterna nord nella fase tardo-repubblicana.16 I riferimenti stratigrafici e la distribuzione dei materiali votivi nell’ambito del santuario hanno contribuito sensibilmente a definire aspetti del culto e del rituale. La tipologia degli ex-voto, e, più in generale, del vasellame utilizzato nella prassi devozionale, fornisce inoltre dati relativi alla compagine sociale, alla circolazione dei manufatti, alla esistenza di produzioni locali, ipotesi questa avvalorata dal ritrovamento di un’area industriale annessa al santuario17 e di insediamenti produttivi, principalmente per la manifattura di tegole, individuati negli scavi e nelle ricognizioni degli anni ’70 del novecento lungo il Treja.18 Produzioni locali sono state riconosciute sia nel settore ceramico sia in quello della coroplastica votiva e per esse si rinvia alle considerazioni espresse nei contributi sulle singole classi; preme qui sottolineare come, al di là dell’esistenza di un circuito produttivo per la realizzazione di ex-voto, teso a soddisfare le richieste di devoti certamente poco esigenti sul piano formale, fossero presenti sul territorio atelier che si impegnavano nella creazione di statue fittili di grandi dimensioni, talora anche superiori al vero. Atelier che erano in grado di rispondere a precise richieste di tipo ideologico, come si evince dal simbolismo che emana da alcuni dettagli degli esemplari rinvenuti: di produzione locale sono infatti le già citate statue sedute in trono, una delle quali arricchita sulla spalliera da una applique a testa di serpente barbato e crestato; un’altra singolare applique a tutto tondo è conformata a mammella e forata in corrispondenza del capezzolo, così che si configura come un gocciolatoio, realizzato per essere applicato ad un’altra statua.19 La frequentazione del santuario nel v e iv sec. a.C. sembra aperta preferibilmente a strati sociali medio-alti della popolazione, in una fase nella quale l’insediamento urbano è ancora vitale; ce lo segnalano le teste femminili votive adorne di diademi e monili, la ceramica fine da mensa figurata – e in precedenza la ceramica attica –, la presenza di una raffinata kylix a vernice nera, probabilmente d’importazione. La prevalenza della velatio capitis fin da quest’epoca sottolinea l’indipendenza di Narce rispetto a Falerii, espressione di una società che guarda preferibilmente al comparto tiberino-veiente. Sono stati spesso sottolineati gli stretti rapporti che intercorrono tra Narce e Veio;20 di questi si avverte l’eco anche nel santuario, scorrendo la nutrita sequenza dei confronti che è possibile stabilire con i principali complessi votivi veienti, da Portonaccio a Campetti a Comunità a Casale Pian Roseto. È un rapporto che possiamo definire privilegiato sia per le produzioni ceramiche del

16 P17II O e P17II P. 17 Della quale è stata scavata solo una fornace tardo-arcaica a pianta quadrata, probabilmente utilizzata per la fabbricazione di laterizi (De Lucia Brolli, Benedettini 1996, pp. 432-435). 18 Potter 1976, p. 80 s. 19 A1fr 11. 20 Da ultimo, per una sintesi, si veda De Lucia Brolli, Tabolli 2013.

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maria anna de lucia brolli

bucchero e dell’impasto chiaro-sabbioso, sia per alcune tipologie di ex-voto, come le statuette di figure femminili stanti con bocciolo o melograno,21 di figure matronali in trono, per lo più con bambino,22 la lastra con il recumbente o quella con la figura maschile che reca un animale sotto il braccio.23 È sintomatico che le produzioni locali di alcune delle piccole terrecotte figurate prendano avvio a Narce proprio da prototipi veienti dei quali si ritrovano nel santuario talora solo esemplari singoli.24 I dati stratigrafici hanno consentito di stabilire che i prodotti locali sono circolanti nell’area sacra tra l’ultimo quarto del iv e la prima metà del iii sec. a.C. Le statuine veienti dalle quali questi sono ricavati vengono datati al più tardi all’inizio del iv sec. a.C. Si tratta di esemplari di qualità scadente, tratti da matrici ormai molto consunte, e il loro utilizzo, sia direttamente come ex-voto, sia come fonte d’ispirazione per una produzione ancora più “povera”, è espressione di una società in profonda crisi. Il panorama dei contatti si presenta in ogni caso ben più ampio, riscattando il santuario di Narce da un’impronta esclusivamente veiente. Soprattutto significativo è in questo senso il ventaglio delle produzioni della ceramica fine da mensa rappresentato nel santuario da un considerevole numero di vasi a vernice nera, di grande varietà morfologica, ai quali si affiancano le produzioni figurate del iv e iii sec. a.C. L’analisi condotta da L. Michetti per la vernice nera e da L. Ambrosini per quella figurata mette in evidenza una forte componente falisca dei prodotti circolanti nel santuario, ma anche la presenza di prodotti di area etrusca, laziale e persino di provenienza dall’Italia meridionale. Il gran numero di vasi a vernice nera, peraltro in ottimo stato di conservazione, ha svolto la funzione tradizionale di fossile guida non solo nella definizione cronologica delle Unità stratigrafiche, ma anche in quella delle ceramiche comuni e/o acrome associate in piccoli contesti chiusi, contribuendo così in maniera fondamentale ad arricchire il quadro sinora conosciuto. È noto che dal iv sec. a.C. Narce sembra subire una forte flessione percepibile nella contrazione dei sepolcreti e nello scadimento dei corredi, e che il fenomeno è probabilmente riconducibile ai contraccolpi della conquista romana di Veio all’inizio del secolo. La ristrutturazione del sacello AA che interviene nella seconda metà del secolo indica tuttavia una persistenza del polo religioso che travalica la crisi del centro urbano e prosegue indiscutibilmente fino all’abbandono. D’altra parte, l’area sacra, per la sua dislocazione topografica, era naturalmente aperta anche alla popolazione diffusa nelle campagne alle cui aspettative, enfatizzate proprio dal momento di crisi, occorreva dare risposte. E probabilmente queste motivazioni sono alla base della nuova sfumatura del culto, alla quale forse non è estranea l’influenza del culto deme-

21 D4IA. 23 D2IA e D3I.

22 D6II-D6IV. 24 Vedi Parte II, p. 69 ss

triaco di Campetti,25 ben attestato nel santuario veiente proprio dopo la conquista romana.26 A Narce la devozione popolare, espressione soprattutto della componente femminile, si manifesta ancora in questa fase attraverso doni che rivestono una certa valenza economica; oltre alle teste diademate, ornate dai segni del rango – collane e orecchini –, che nel iv sec. a.C. proseguono la tradizione del secolo precedente, è l’offerta di statue fittili di qualità a segnalare la frequentazione da parte di un ceto abbiente anche maschile, che affida ad una icona di se stesso la mediazione con la divinità. Nel corso del iii sec. a.C. la statuaria mantiene un ruolo di primo piano nel regime delle offerte: tra il iii e il ii sec. a.C. esemplari di produzione seriale, talora di scarsa qualità tecnica e stilistica, accanto a prodotti più pregiati, sottolineano come questo tipo di dono rivestisse una valenza così pregnante da superare differenze di classe ed economiche. Tra la fine del iv e gli inizi del iii sec. a.C. a Narce, come altrove, si introducono nuove tipologie di ex-voto, quali gli anatomici, le maschere,27 i bambini in fasce e accovacciati, le terrecotte raffiguranti animali. Particolarmente significativa è la distribuzione delle diverse categorie di votivi nei depositi che si sviluppano nel corso del iii sec. a.C. nelle aree D, F e G, in relazione agli altari II, IV e V, quest’ultimo ancora in corso di studio.28 La composizione di ciascun deposito è espressione di esigenze particolari rapportabili non solo alla specificità del culto praticato in quel settore del santuario, ma anche alle diverse componenti di una società in via di trasformazione. Spunti di riflessione vengono dalla dislocazione topografica dell’altare IV, nell’area F, che è impiantato nella prima metà del iii sec. a.C. a distanza dai vani A, B e C, rispetto ai quali è diversamente orientato. La composizione del deposito mostra come questo altare rappresenti il punto di aggregazione della comunità rurale, con una consistente frequentazione anche della componente maschile (il 54% delle teste maschili viene da questo deposito), che affida le proprie speranze e aspettative ad una divinità dalle chiare valenze ctonie, chiedendo protezione per il “patrimonio” animale e, soprattutto, per quelle parti del corpo – quali gli arti superiori ed inferiori – ritenute strumento fondamentale per il proprio sostentamento nel lavoro delle campagne. È significativo che il deposito ellenistico dell’altare V, separato dal precedente solo da un muro di delimitazione, comprenda un bel bronzetto di giovane nudo con la roncola (Silvano?) e, nel contempo, una statuina fittile di soldato che indossa un mantello e l’armamento difensivo, ovvero un 25 Sulla presenza di Demetra a Campetti nella seconda metà del iv sec. a.C.: Comella, Stefani 1990, pp. 213 ss; Colonna 1997b, pp. 173 ss.; Carosi 2002; Carosi 2008. 26 Sulla rilevanza sociale del culto demetriaco, aperto ad ampie fasce di popolazione residente nelle campagne: Hinz 1998, p. 64 ss. 27 Rinvenute in grande quantità, ma purtroppo in strati superficiali, sconvolti. 28 Il deposito dell’altare V, frutto di scavi effettuati tra il 2000 e il 2004, non è inserito in questo volume.

considerazioni conclusive elmo tipo Montefortino, un grande scudo ovale e una corazza anatomica. È suggestivo pertanto collegare il culto che si sviluppa in questo settore del santuario con l’avanzata romana degli inizi del iii sec. a.C. e con le sue conseguenze sulla compagine sociale del territorio. Nel contempo la dislocazione topografica e l’anomalia dell’orientamento rispetto al nucleo portante del santuario potrebbe suggerire una volontà o una necessità di distinzione dalla componente urbana del sito. A quest’ultima si collega invece, nell’area D, il culto a Minerva Maia e Fortuna, correlato all’impianto dell’altare II – in significativa assialità con l’altare I –, culto che continua ad assolvere, nel solco della tradizione, alla funzione di protezione del nucleo portante della società – la famiglia –, in tutte le sue sfaccettature e in tutte le fasi della sua formazione e crescita. Il deposito 166 nella seconda metà del iii sec. a.C. rivela una particolare attenzione alle fasi di passaggio nello sviluppo della prole, da quella neonatale, con l’offerta di statue di infanti fasciati, a quella del progresso motorio nel secondo semestre di vita, con i bambini accovacciati, e infine alla fase del pieno possesso delle capacità di deambulazione con le statue dei bambini stanti. L’offerta di statue tunicate e ammantate che indossano i calcei, segno di status, rivela una frequentazione da parte dei ceti abbienti della società, che guardano ora preferibilmente a Roma e ai centri latini; lo si evince non solo dalla iscrizione di Minerva sul cippo-altarino posto di fronte al deposito, che, come osserva Laura Biondi, presenta significativi e non fortuiti indizi di latinizzazione del teonimo, ma anche dai confronti che è possibile istituire per alcuni tipi di ex-voto la cui presenza risulta, sulla base dei dati stratigrafici, ascrivibile a questa fase di frequentazione del santuario. È eloquente, ad esempio, la consistenza che assumono in questo deposito le piccole terrecotte figurate riconducibili alla classe delle cd. Tanagrine, classe che non è attestata negli altri santuari del territorio falisco.29 Segno tangibile di contatti sempre più assidui con il mondo romano è la monetazione di zecca urbana che entra a far parte del regime delle offerte fin dalla prima metà del iii sec. a.C. con un progressivo incremento nel corso del secolo successivo e che si concentra soprattutto nell’Area D e nell’Area esterna nord,30 che sembrano, al momento, essere gli spazi nei quali si esprime la ritualità nell’ultima fase di frequentazione del santuario (Parte I, Tav. 091). Nel contempo, a partire dalla metà del iii sec. a.C., diminuisce sensibilmente l’incidenza della ceramica a ver29 Si vedano le osservazioni già avanzate in Benedettini, Carlucci, De Lucia 2005, pp. 222-225. Anche a Veio/Campetti si assiste ad un mutamento nella tipologia dei materiali votivi che, a partire dalla fine del iv - inizi del iii sec. a.C., in coincidenza con il nuovo assetto sociale determinato dalla conquista romana, riflettono le tendenze stilistiche di matrice greco-ellenistica (Carosi 2002, pp. 373-374). 30 Benedettini, Catalli, De Lucia Brolli 1999, pp. 61-83 (US 22, Area esterna nord), pp. 90-100 (UUSS 155, 161A, 162, 166, 180, 183, 200, area D).

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nice nera nel repertorio delle offerte, divenendo praticamente irrisoria, sostituita dalla ceramica acroma e dalla ceramica comune. Le motivazioni vanno cercate in un nuovo assetto socio-politico che evidentemente si è andato costituendo nel territorio di Narce, entrata più precocemente nell’orbita romana, e che vede dunque interrompersi il flusso dei rapporti con Falerii, con un significativo sbarramento nei confronti degli interessi economici e commerciali della “capitale” falisca. I rapporti con l’agro falisco settentrionale privilegiano ora l’asse Narce-Corchiano, con una trasmissione reciproca di manufatti di produzione locale dell’uno come dell’altro centro. I depositi di riferimento nel territorio di Corchiano sono quelli della Caverna della Stipe e del Fosso Ritello, entrambi posti fuori dell’insediamento urbano, pure strettamente legato a Falerii, e caratterizzati da scarichi votivi che coprono un arco di tempo dal iii al ii sec. a.C., penetrando ormai con le loro testimonianze, al pari del santuario di Narce, nella romanizzazione.31 È significativo che, quando Falerii entra sporadicamente nel circuito, è solo per il santuario extraurbano di Celle e in una fase tardiva,32 aperta alla frequentazione dei fedeli della nuova città romana sorta dopo la conquista e ubicata sulla medesima direttrice. La vitalità del santuario ancora nel ii sec. a.C. è dimostrata anche dalla partecipazione consapevole di fedeli che vi giungono avendo già fatto incidere il proprio nome prima della cottura all’interno di semplici coperchi di ceramica comune, come C. Lucretius o ancora il devoto il cui nome è indicato dalla sigla st.ic[- -, forse identificabile come Statius Ic(c)ius.33 Sono le ultime testimonianze epigrafiche di una serie non numerosa ma significativa, in quanto ci segnala la presenza di diverse componenti della società narcense come pure della frequentazione devozionale, a partire da quella che si esprime in etrusco a quella ormai pienamente latina delle due ultime iscrizioni citate, passando attraverso forme epigrafiche più propriamente falische o falischeggianti. Se le iscrizioni, etrusche, latino-falische, latine, apposte su oggetti mobili, per lo più vasellame, ci attestano la frequentazione dell’area sacra da parte di devoti di varia provenienza, un significato particolare hanno invece le epigrafi collegate alle manifestazioni “ufficiali” del rito. In questo senso è significativo che per la cerimonia di obliterazione della “fornacetta” nel Vano E alla fine del v sec. a.C. si usi la lingua etrusca, in linea con una tradizione epigrafico-linguistica ben consolidata a Narce; nel contempo dal falisco-latino dei teonimi di Minerva Maia e Fortuna della metà del iii sec. a.C. inciso sui cippi-altarini dell’Area D emerge il profondo mutamento sociale che ha investito il sito nel corso del tempo.34

31 Sulla frequentazione di età storica della Caverna della Stipe: Ambrosini, Benedettini 2007. 32 Per i riferimenti, si veda Parte II, p. 52, nota 149. 33 Parte III, pp. 22-24, nn. 6 e 7. 34 Rispettivamente Parte III, pp. 11 ss, n. 3 e nn. 1-2.

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SO MMA R IO G E NER A L E Premessa Introduzione Abbreviazioni bibliografiche Maria Anna De Lucia Brolli, Storia degli scavi e stato degli studi

9 11 13 37

PA RT E I Leonardo Maria Giannini, La geologia dell’area Maria Anna De Lucia Brolli, La topografia dell’area sacra Maria Gilda Benedettini, Maria Anna De Lucia Brolli, Le fasi del complesso monumentale Maria Anna De Lucia Brolli, Il culto e gli aspetti del rituale Tavole

41 47 49 69 93

PA RT E I I Catalogo Criteri di classificazione (Maria Anna De Lucia Brolli)

13

A – Statue (Claudia Carlucci - Maria Anna De Lucia Brolli) A1fr – Frammenti di statue sedute A2 – Statue femminili A2fr – Frammenti di statue femminili A3fr – Frammenti di statue maschili A fr – Frammenti di statue di sesso non identificabile

15 21 23 23 24 26

B – Busti e teste (Maria Anna De Lucia Brolli) B1 – Busti B2 – Teste femminili isolate B3 – Teste maschili isolate B4 – Teste giovanili (?) Bfr – Frammenti di busti e teste isolate di tipo non identificabile

35 37 38 45 48 49

C – Rappresentazioni di bambini (Maria Gilda Benedettini) C1 – Bambini in fasce C2 – Bambini accovacciati C3 – Bambini stanti Cfr – Frammenti di rappresentazioni di bambini

51 51 59 63 64

D – Statuette (Maria Anna De Lucia Brolli) D1 – Figure maschili stanti D2 – Figure maschili gradienti D3 – Recumbenti D4 – Figure femminili stanti D5 – Figure femminili gradienti D6 – Figure femminili sedute D7 – Coppie D8 – Figure giovanili D9 – Testine isolate e staccate Dfr – Frammenti di statuette di incerta attribuzione

69 69 73 73 74 89 90 93 97 98 106

E – Clave votive (Maria Anna De Lucia Brolli)

111

F – Statuette di animali (Maria Gilda Benedettini) F1 – Statuette di bovini

113 115

94

sommario generale F2 – Statuette di cavalli F3 – Statuette di suini F4 – Statuette di canidi F5 – Statuette di arieti (?)

117 117 118 118

G – Ex-voto anatomici (Maria Gilda Benedettini) G1 – Maschere G2 – Occhi isolati G3 – Orecchie isolate G4 – Arti superiori completi G5 – Mani isolate G6 – Dita isolate G7 – Arti inferiori completi G8 – Piedi isolati G9 – Mammelle G10 – Uteri G11 – Organi genitali maschili G12 – Elementi poliviscerali G13 – Vesciche G14 – Torsetti G15 – Organi non identificabili

119 119 126 126 127 129 133 134 136 143 146 148 151 152 153 153

H – Frammenti modellati non inseribili nelle singole classi (Maria Anna De Lucia Brolli - Maria Gilda Benedettini) H1 – Frammenti di teste o maschere H2 – Frammenti di arti superiori H3 – Frammenti di arti inferiori

155 155 165 173

I – Pesi da telaio e fuseruole (Maria Gilda Benedettini) I1 – Pesi da telaio I2 – Fuseruole

185 185 189

J – Cippetti (Maria Gilda Benedettini)

191

L – Oggetti di bronzo (Laura Ambrosini) L1-4 – Statuette L5 – Coltello L6 – Campanello L7-11 – Aes rude L12-14 – Vasellame L15-24 – Lamine di rivestimento L25-37 – Borchiette, chiodi e chiodini L38 – Utensili L39-43 – Fibule

193 196 196 196 196 197 197 197 198 198

M – Oggetti di ferro (Laura Ambrosini) M1 – “Chiavi” M2 – Chiavi reali M3 – Armi M4 – Coltelli M5 – Spiedi M6 – Alari M7 – Pinze da fuoco M8 – Staffe M9 – Grappe M10 – Fascette di rivestimento M11 – Cerniere M12 – Perni M13 – Ganci M14 – Piccone M15 – Chiodi Mfr – Frammenti di ferro non attribuibili a forme specifiche

199 207 211 211 211 212 212 212 212 213 213 213 213 213 213 213 218

sommario generale

95

N – Oggetti di piombo (Laura Ambrosini)

219

O – Basi/basette e cippi lapidei (Laura Ambrosini-Barbara Belelli Marchesini) O1 – Altari e cippi-altari O2 – Basi O3 – Basette

221 222 223

P – Ceramica (Laura Ambrosini, Barbara Belelli Marchesini, Claudia Carlucci, Alessandra Costantini, Laura M. Michetti) P1 – Bucchero P2 – Ceramica attica a figure rosse P3 – Ceramica di importazione (?) a vernice nera P4 – Ceramica a vernice rossa P5-7 – Ceramica etrusca e falisca figurata e ceramica ad ornati neri P5 – Ceramica etrusca e falisca figurata a figure rosse P6 – Ceramica etrusca e falisca ad ornati neri e ad ornati vegetali (a decorazione non figurata) P7 – Ceramica a vernice nera sovradipinta P5-7fr – Frammenti di incerta classificazione P8 – Ceramica a vernice nera P9 – Ceramica argentata P10 – Ceramica acroma e a fasce P11 – Vasi potori a pareti sottili P12 – Terra sigillata italica P13 – Ceramica invetriata P14 – Ceramica moderna P15 – Ceramica d’impasto orientalizzante P16 – Ceramica d’impasto chiaro sabbioso P17 – Ceramica comune

225 234 240 241 250 253 255 257 265 268 307 308 330 330 331 331 331 332 349

Q – Alari, forni/fornelli (Maria Gilda Benedettini, Claudia Carlucci) Q1 – Cd. “Alari” votivi Q2 – Alari funzionali Q3 – Forni e fornelli

407 407 411

R – Rivestimenti (Barbara Belelli Marchesini, Maria Anna De Lucia Brolli) R1 – Tegole e coppi R2 – Terrecotte architettoniche

413 417

S – Varia (Laura Ambrosini, Barbara Belelli Marchesini, Maria Gilda Benedettini, Maria Anna De Lucia Brolli)

421

Figure e Tavole

425 PA RT E I I I

Laura Biondi, Le iscrizioni Tavole Jacopo De Grossi Mazzorin, Le offerte alimentari di origine animale del santuario di Monte Li Santi: analisi archeozoologica Addendum. I rinvenimenti monetali Maria Anna De Lucia Brolli, Considerazioni conclusive Abbreviazioni bibliografiche

11 27 39 57 63 69

co m po sto in c a r atter e dante monotype dalla fa b riz io ser r a editor e, pis a · roma. sta m pato e r ilegato nella t ipo gr a fia di agnano, agnano pis ano (pis a). * Ottobre 2016 (cz 3 · fg 21)

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MEDITE R R A NEA supplementi * Andrea Babbi, La piccola plastica fittile antropomorfa dell’Italia antica dal Bronzo all’Orientalizzante, 2007 («Mediterranea», Supplemento, 1). Lidia Falcone, Virginia Ibelli, La ceramica campana a figure nere. Tipologia, sistema decorativo, organizzazione delle botteghe, 2007 («Mediterranea», Supplemento, 2). Una nuova iscrizione a Magliano Sabina. Scrittura e cultura nella valle del Tevere, a cura di Paola Santoro, testi di Vincenzo Bellelli, Enrico Benelli, Alessandra Minetti, Paolo Poccetti, Francesco Roncalli, Paola Santoro, 2008 («Mediterranea», Supplemento, 3 · Civiltà arcaica dei Sabini nella Valle del Tevere, 2). Alfredo Guarino, Le terrecotte architettoniche a stampo da Vigna Parrocchiale. Scavi 1983-1989, 2010 («Mediterranea», Supplemento, 4 · Caere, 5). Enrico Benelli, Claudia Rizzitelli, Culture funerarie d’Abruzzo (iv-i secolo a.C.), 2010 («Mediterranea», Supplemento, 5). Laura Ambrosini, Le gemme etrusche con iscrizioni, 2011 («Mediterranea», Supplemento, 6). Flaminia Verga, Persistenze ed evoluzione del popolamento in area centro-italica in età antica: il caso del vicus di Nersae, 2011 («Mediterranea», Supplemento, 7 · Civiltà arcaica dei Sabini nella Valle del Tevere, 3). La lamina di Demlfeld, a cura di Carlo de Simone e Simona Marchesini, 2013 («Mediterranea», Supplemento, 8). Jacopo Tabolli, Narce tra la prima età del Ferro e l’Orientalizzante antico. L’abitato, I Tufi e La Petrina, 2013 («Mediterranea», Supplemento, 9 · Civiltà arcaica dei Sabini nella Valle del Tevere, 4). Per Maristella Pandolfini cên zic zi¯u¯e a cura di Enrico Benelli, 2014 («Mediterranea», Supplemento, 10). Caere e Pyrgi: il territorio, la viabilità e le fortificazioni, Atti della Giornata di Studio, Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1 marzo 2012, a cura di Vincenzo Bellelli, 2014 («Mediterranea», Supplemento, 11 · Caere, 6). Francesca Colosi, Alessandra Costantini, Il territorio tra Otricoli e Magliano Sabina in epoca romana, in preparazione («Mediterranea», Supplemento, 12 · Civiltà arcaica dei Sabini nella Valle del Tevere, 5). Valentina Belfiore, La morfologia derivativa in etrusco. Formazioni di parole in -na e in -ra, 2014 («Mediterranea», Supplemento, 13). Maria Anna De Lucia Brolli, Il santuario di Monte Li Santi-Le Rote a Narce. Scavi 1985-1996. i. La topografia, le fasi, il culto, 2016 («Mediterranea», Supplemento, 14 · Civiltà arcaica dei Sabini nella Valle del Tevere, 6). Maria Anna De Lucia Brolli, Il santuario di Monte Li Santi-Le Rote a Narce. Scavi 1985-1996. ii. Catalogo, 2016 («Mediterranea», Supplemento, 15 · Civiltà arcaica dei Sabini nella Valle del Tevere, 7). Maria Anna De Lucia Brolli, Il santuario di Monte Li Santi-Le Rote a Narce. Scavi 1985-1996. iii. Le iscrizioni, le offerte alimentari. Conclusioni, 2016 («Mediterranea», Supplemento, 16 · Civiltà arcaica dei Sabini nella Valle del Tevere, 8).