Le commedie di Eduardo

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Le commedie di Eduardo

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BIBLIOTECA

UNIVERSALE 125

LATERZA

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Fiorenza

Di Franco

LE COMMEDIE DI EDUARDO

Editori

Laterza

1984

Finito di stampare nel settembre 1984 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-2499-3 ISBN 88-420-249%6

RINGRAZIAMENTI

Un vivo ringraziamento al personale della Biblioteca del Burcardo e in modo particolare alle dott.sse Patrizia Frisoli, Grazia Antonelli, Maria Rosa Gallerano; a Rosella Cercone, Maria Bordellin, Paolo Sanchini e Mario Pierri, per la squisita cortesia e il concreto contributo dato alle ricerche. Uguale ringraziamento al prof. Renzo De Felice, conoscitore impareggiabile del periodo fascista, che con i suoi suggerimenti ha permesso il ritrovamento dei copioni inediti, di cui nemmeno Eduardo aveva più copia. Sentiti ringraziamenti anche a Gabriella Bartoli, Elizabeth e Emery Feyer, alla dott.ssa Vanda Lamm e alla dott.ssa Lucia Fauci Moro dell'Archivio Centrale di Stato.

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INTRODUZIONE

Il teatro di Eduardo ricopre un lungo atco di tempo che va dal 1920, quando appena ventenne scrisse il suo primo atto unico, al 1982, quando ormai ottantaduenne per le molte attività che continua

a svolgere malgrado l’avanzata età, non riuscendo a trovare il tempo per comporre le sue commedie, fa sviluppare agli studenti dei suoi corsi di drammaturgia i soggetti che porta da anni nella mente. Figlio d’arte — per la biografia rimando al mio libro Eduardo, da scugnizzo a senatore! — cresciuto praticamente sulle tavole del palcoscenico, apprende del teatro l’artigianato ancor prima dell’arte. Racconta:

« Portavo

i caffè nei camerini, non

me

ne sono mai ver-

gognato! Poi sono stato attrezzista, trovavo cioè i mobili di scena quando la compagnia si trasferiva in altre città » ?, e infine suggeritore. Legge nel contempo moltissimo di teatro e di opere teatrali. Eduardo Scarpetta che curò la sua prima formazione teatrale aveva un metodo tutto suo per fargli conoscere l’arte di Melpomene e di Talia: « Mi chiudeva in una stanzetta e mi obbligava a copiare i copioni, parola per parola. E io copiavo, copiavo, con i calli sulle dita macchiate di inchiostro. Ma in quel modo imparavo a cogliere

anche le sfumature di un testo teatrale » }. Ma già bambino recita quando sono richieste tali parti nella compagnia di Eduardo Scarpetta, e nel 1914 entra in pianta stabile in quella di Vincenzo Scarpetta. Attraverso queste molteplici attività, sempre legate al teatro, riesce a conoscere e ad apprendere tutti i segreti più reconditi dell’arte teatrale che gli permetteranno di costruire in modo impeccabile i suoi testi ai quali egli stesso richiederà come primo presupposto

1 F. Di Franco, Eduardo, da scugnizzo a senatore, Laterza, Roma-Bari 1983. 2 Anonimo, Una grande lezione di teatro invuna platea troppo piccola, « Corriere della Sera », 5 aprile 1981. 3 N. Fallaci, AI dolore di Napoli ha dato la voce dell’arte, « Oggi », n. 21, 25 maggio 1983.

VIII

Introduzione

la rappresentabilità*. Per raggiungere questo scopo segue tecniche tradizionali. Le sue commedie, o almeno la maggioranza di esse, seguono un'impostazione regolare e tradizionale con un’azione quasi

sempre lineare che ha inizio con l’esposizione della situazione assimilata nella tessitura quotidiana del dialogo; un intrigo dalla trama accurata e che si dipana attraverso un avviamento, un nodo e uno scioglimento. Il tutto arricchito da qualche colpo teatrale e da elementi farseschi derivanti dal teatro popolare, più numerosi nella sua prima produzione. Fanno eccezione Tommaso d’Amalfi, che è una commedia musicale o melodramma moderno, De Pretore Vincenzo, Il figlio di Pulcinella, Gli esami non finiscono mai e Mettiti al passo,

dove il giovane Brachino si è forse ispirato alla costruzione degli Esami del suo maestro. Queste ultime opere procedono attraverso un insieme di scenette che illustrano la trama della commedia. Eduardo, però, non considera questa struttura una innovazione o «un capriccio modernistico », anzi, si richiama alle antiche commedie del teatro napoletano che mettevano in scena Pulcinella. Testi come Le cento disgrazie di Pulcinella, Pulcinella sulla luna ed altri già funzionavano a siparietti che danno più libertà all’autore nello

svolgimento dell’azione *. Nel teatro di Eduardo non solo la forma è tradizionale, ma anche

il contenuto delle commedie, perché il loro autore è convinto che non si possa fare a meno della tradizione, anzi sottolinea che « la forza della tradizione non si può distruggere ». Confidandosi con Antonio Ghirelli spiega il suo pensiero: In teatro non s’inventa niente, se parliamo di situazioni e di personaggi. Chi dice che inventa il teatro, dice una bugia: è un vanitpso o uno sbruffone. Naturalmente, la tradizione non basta. Devi sapertene servite, con la fantasia, con l’osservazione, con la riflessione: diversamente, la Commedia dell'Arte avrebbe avuto il solo merito di divertirci, di farci ridere superficialmente.

Conclude affermando: « Senza la Commedia dell’Arte non ci sarebbe stato il mio teatro » ‘. . Anche durante una « lezione spettacolo » per inaugurare la prima edizione di « Montalcino Teatro Stage 83 », Eduardo esprime le sue i Scuola di drammaturgia di Firenze diretta da Eduardo De Filippo, SirDe tai Torino 1981, p. x. . Prosperi, Sette domande a Eduardo, « Il Tempo ». 17 febbraio 1974 6 Ghirell A. i, Eduardo: « Tradurrò Shakespe i polo) Corriere

della Sera »,\10 luglio 1983.

be

Introduzione

IX

idee sulla tradizione teatrale che per lui, che vive di teatro e per il teatro, diventa pure una concezione originale della vita e della morte: La morte, la scomparsa di qualcuno che di solito viene considerata come un punto di arrivo è, invece, un punto di partenza. Per altri. Altri, che vengono dopo e raccolgono un patrimonio, un’esperienza, una somma di risultati, rivivendoli e trasformandoli a loro modo. Così « passa la mano » da una generazione all’altra. Persino per confutare un’esperienza del passato e negarla, quest'esperienza bisogna averla approfondita e persino amata. Se si usa nel modo giusto la vita che continua, la tradizione, essa può darci le ali. Certo, se ci si ferma al passato diventa un fatto negativo ma se ce ne serviamo come di un trampolino salteremo molto più in alto che se partissimo da terra”.

Il noto critico teatrale americano Eric Bentley giudica questa fedeltà di Eduardo alla tradizione sia nella tecnica che nel pensiero come un fatto più che positivo: Cerchiamo di capire cosa significa vivere in una tradizione in contrapposizione a credere a malapena nella tradizione, in un tradizionalismo professionale. Eduardo De Filippo ha cominciato a Napoli, in un ambiente infinitamente suggestivo e drammatico, e in un teatro che anche se non grande, ha una esistenza reale nel senso in cui i nostri teatri di « Broadway » e dei « Boulevards » o del « West End » sono invece dei deserti di irrealtà. Queste circostanze hanno condotto a una concentrazione di energia che sta in contrasto diretto con la dispersione di energie alla quale altrove i talenti sono esposti. Esse hanno condotto a una crescita così costante e vigorosa, che nel raffronto, la maggior parte dei teatri d’arte sembra un prodotto di serra. In breve, esse hanno portato Eduardo alle soglie del grande teatro, che ha varcato con i suoi straordinari talenti, diventando lui, uno degli artisti più tradizionali del nostro tempo, il più originale 8.

Eduardo ha diviso il suo teatro in due parti. La prima l’ha intitolata Cantata dei giorni pari, e comprende le commedie scritte dal 1920 al 1942, la seconda Cantata dei giorni dispari, e va dal 1945 al 1982, se includiamo anche i lavori che Eduardo ha scritto insieme ai suoi studenti dei corsi di drammaturgia che ha tenuto a Firenze e all’università della Sapienza a Roma. Le opere pubblicate nella Cantata dei giorni pari sono venti. Grazie al mio ritrovamento di 14 copioni inediti nel « Fondo censura teatrale » conservato all'Archivio Centrale di Stato a Roma, 7 R. Tian, La tradizione? È un trampolino, « Il Messaggeto », 11 luglio 1983. $ E. Beniley, The Genius of the Italian Theater, The New American Library, New York 1964, pp. 265, 278.

Introduzione

x

esse salgono a trentaquattro. I lavori della Cantata dei giorni dispari sono ventidue, più uno sceneggiato televisivo che l’autore considera una commedia a più ampio respiro «in sei atti invece che a tre ». A questi testi vanno aggiunti i due scritti in collaborazione con gli studenti: Simpatia e Mettiti al passo. La Cantata dei giorni pari corrisponde alla produzione drammatica messa in scena dalla compagnia « Teatro Umoristico i De De Filippo » che Eduardo fondò con i suoi fratelli Titina e Peppino, che inizia la sua attività nel 1930. Lo spirito che animava questa compagnia era quello di fare un teatro nuovo, diverso da quello esistente all’epoca. Doveva differire dal teatro dialettale napoletano che a quel tempo seguiva più filoni: quello comico scarpettiano, quello anti-scarpettiano detto « d’Arte », quello populista di Federico Stella che metteva in scena i drammoni di Francesco Mastriani e il teatro di Viviani. L’umotismo, come il nome stesso della compagnia lo indica, doveva essere alla base di questo nuovo teatro, umorismo che Peppino De Filippo definisce: Quel nostro senso teatrale d’humour mai fino allora conosciuto sufficientemente sui palcoscenici italiani, quel parlare, cioè, con il sorriso amaro di cose affatto liete, quel presentare con un velo di comicità ciò x che in realtà è triste e penoso, deludente e doloroso?.

e che per Eduardo nell’episodio ridicolo delusione dell’uomo La novità stava,

consiste « del vivere che è per a detta di

nella parte amara della risata, non quotidiano. Esso è determinato dalla natura ottimista » !°. Peppino De Filippo, nel

saper esprimere difetti e valori della Napoli borghese. Quella dolente e dignitosa, e per questo sempre sopraffatta dalla « miseria », materiale e morale. Quella Napoli sempre

in lotta con la vita di tutti i giorni, im-

pregnata di mille problemi sociali grandi e meschini. Quella Napoli nella quale popolo e piccola borghesia, l'uno per un verso, l’altra per un altro, ma con l’unico scopo di voler sopravvivere, sapevano di poter andare a braccetto lungo le strade del loro destino... tra un temporale... e una giornata di sole! Noi avevamo compreso che «il teatro napoletano » essendo alla base essenzialmente comico e più spesso « grottesco », aveva bisogno, per questo, in alternativa sapientemente equilibrata, di riflessi seri tra quelli buffi: dal bianco al nero insomma e viceversa !!.

° Pi De Filippo, Una famiglia difficile, Marotta, Napoli 1977, pp. 254-5. 10 G. Sarno, Intervista con Eduardo De Filippo, « Roma », 31 marzo 1940. 1! P. De Filippo, op. ciz., pp. 225-6.

Introduzione

XI

L’ispirazione doveva nascere dall’osservazione della società del tempo per poi riprodurre sulla scena questa realtà vivente, unita ad annotazioni critiche. Nelle commedie che Eduardo scrisse in collaborazione con Maria Scarpetta, detta Mascaria, la critica sfocia nel sociale, mentre. in quelle che compose da solo egli sottolinea di più i difetti degli uomini, dando così ai lavori un indirizzo moralistico. In questi testi, anche nei più comici, c'era un risvolto drammatico che Eduardo però non poteva approfondire. La ragione era d’ordine pratico: La compagnia con quei grandi attori che erano Peppino e Titina aveva un grande successo. La loro vena era precisa, quella di Peppino prepotentemente comica. Scrivere i ruoli per lui e per Titina mi sembrava un obbligo e un dovere. Così sono andato avanti per anni. Se fossi stato solo avrei incominciato prima. Fu dopo la guerra, con Napoli milionaria! che avvenne la svolta. Ricordo che a Roma, alla fine del primo atto, mi diressi verso la ribalta e dissi al pubblico: « Questo primo atto umoristico è legato al vecchio teatro fatto finora. Dal secondo atto nasce il mio nuovo teatro » !2.

Sempre alla stessa epoca, e cioè nel ’45, Eduardo esprimeva un giudizio piuttosto severo su tutti i suoi lavori raccolti nella Cantata dei giorni pari, che poi il tempo s’incaricò di smentite. Di queste commedie diceva: Non credo che possano essere più rappresentate. Quel che voglio dire è che non ve ne sarebbe più una vera ragione. In quelle commedie volevo mostrare il mondo dell’intreccio e dell’intrigo e dell’interesse: l’adultero, il giocatore, il superstizioso, l’indolente, l’imbroglione. Tutte componenti di un riconoscibile e definibile modo di vivere napoletano appartenente al XIX secolo. In quelle commedie ho tenuto in vita una Napoli che era già morta in parte e in parte era coperta e nascosta dalla paternalistica premura del regime fascista e che se dovesse rinascere oggi sarebbe vista in maniera differente, e sotto un aspetto differente. Il nuovo secolo, questo XX secolo non è giunto a Napoli che con l’arrivo degli Alleati: la seconda guerra mondiale, qui, mi sembra ha fatto passare cento anni in una notte. E se così tanto tempo è passato, allora ho bisogno di scrivere di altre cose. [...] Sento questo bisogno di cambiare, di raccogliere la sfida dell’oggi; se non lo facessi, mi sembrerebbe di essere diventato inutile. Il tipo di teatro che mi attira adesso, riduce l’abituale intreccio, l’intrigo e la meccanica al minimo, e cerca di toccare i fatti della vita, della vita di tutti i giorni; e forse mi permetterà di buttarci dentro ogni sera qualcosa di nuovo, qualunque cosa

12 L. Madeo, L'attore, tradizione e teatro raccontato « La Stampa », 5 aprile 1981.

dal grande Eduardo,

Introduzione

XII

che durante il giorno mi abbia sufficientemente impressionato. In questo senso Napoli milionaria! è il mio primo passo in questa direzione !.

La Cantata dei giorni dispari nasce dunque da un duplice mutamento oggettivo e soggettivo. La seconda guerra mondiale effetti vamente ha portato un’epoca nuova, e non solo a Napoli, come dice Eduardo. Si è venuta a creare una vera e propria rottura fra il mondo di prima e quello di adesso. I valori tradizionali quali Dio, religione, autorità, famiglia vengono posti sotto accusa e contestati. L'umanità uscita dal conflitto non è più la stessa e le nuove generazioni ne hanno subìto le conseguenze. L’uomo si è trovato solo davanti alla vita senza saper dare un significato ad essa, solo in mezzo agli uomini con i quali è incapace di comunicare non trovando più nessun punto in comune. All’abbattimento dei vecchi valori non è seguita automaticamente la nascita di nuovi, ma piuttosto un barcollamento nel dubbio, da cui è difficile uscire. La ricerca della verità delle cose diventa un’impresa difficile sia per l’individuo, sia per la società organizzata.

Eduardo stesso è cambiato, ha raggiunto la maturità. Con una visione nuova affronta il mondo, l’uomo e la società in crisi, reagendo alle sue manchevolezze con più vigore e alacrità di come aveva fatto nelle sue opere giovanili. Egli stesso puntualizza che alla base del suo teatro, quello più impegnato, « c'è sempre il conflitto tra individuo e società », e specifica: Voglio dire che tutto ha inizio, sempre, da uno stimolo emotivo: reazione a un’ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi, sgomento di fronte a fatti che, come le guerre, sconvolgono la vita dei popoli !4.

La fonte a cui attinge per scrivere è la vita: Occhi e orecchie mie sono stati assertviti da sempre — e non esagero — a uno spirito di osservazione instancabile, ossessivo, che mi ha tenuto e mi tiene inchiodato al mio prossimo e che mi porta a lasciarmi affascinare dal modo di essere e di esprimersi dell’umanità. [...] Solo perché ho assorbito avidamente, e con pietà, la vita di tanta gente, ho potuto creare un linguaggio che, sebbene elaborato teatralmente, diventa

mezzo di espressione dei vari personaggi e non del solo autore 5. 13 R. Iacobbi, Napoli milionaria!, « Il Cosmopolita », 1945, riportato in inglese in un libretto di presentazione di Napoli milionaria! in occasione della rappresentazione della commedia al Teatro Aldwych di Londra. 14 I capolavori di Eduardo, vol. I, Einaudi, Torino 1973, p. vir.

15 Ivi, pp. VII-VII.

i

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XIII

Lo scopo del teatro di Eduardo è sempre la verità, come fa dire al protagonista dell'Arte della Commedia, che può essere considerata come la summa della sua concezione teatrale: È un fatto scontato che il teatro deve essere lo specchio della vita umana, riproduzione esatta del costume e immagine palpitante di verità; di una verità che abbia dentro pure qualcosa di profetico 9.

A detta di Carlo Muscetta, che ha tessuto il suo elogio al momento del conferimento della laurea honoris causa dell’università di Roma, Eduardo è riuscito a rendere i fatti nel suo teatro « più veri del vero », realizzando così « la ricerca del vero congiunta allo scrivere vero » !. Questa preoccupazione dell’autore si esteriorizza anche in accorgimenti pratici: fa agire i suoi personaggi sulla scena esattamente come nella vita. Si svegliano assonnati, si alzano malvolentieri dal letto, si vestono, cucinano e mangiano, spandendo per tutta la sala teatrale magari l’odore di cipolla tagliata, o di ragù come in Sabato, domenica e lunedì. Eduardo stesso ce ne dice la ragione: « I personaggi mangiano spesso in scena, non perché sono morti di fame, anche se talvolta lo sono, ma per dare meglio il senso della vita » "3. L’ambientazione dei suoi testi è quasi ogni volta Napoli, ma non per questo i temi trattati sono legati all'uomo napoletano. « Studiando a fondo i napoletani — dice Eduardo — io ho scritto le mie commedie e quanto più ho approfondito questo studio, tanto maggiore è stato fuori Napoli e fuori d’Italia il successo della commedia » !?. La ragione, ce la dice sempre lui: « La gente al di fuori è diversa, ma dentro, nell’intimo, ci assomigliamo tutti » ?°. Eduardo scrive le sue commedie in napoletano che però col passare degli anni si è sempre più italianizzato. Sceglie questo mezzo di espressione per ragioni personali, raggiungendo scopi che vanno ben al di là di Napoli: Io mi servo del dialetto perché sono di natura dialettale, perché non saprei recitare in lingua. È questo rapporto fra attore e autore che debbo risolvere. Io mi sono accorto che più le commedie sono in dialetto e più 16 E, De Filippo, Cantata dei giorni dispari, vol. III, Einaudi, Torino 1973, 39995: di 17 A. Ghirelli, Sono finiti con una laurea gli « esami di Eduardo », « Cotriere della Sera », 19 novembre 1980. 18 N. Fallaci, art. cit. 19 V. Pandolfi, Intervista a quattrocchi con Eduardo De Filippo, « Sipario »,

i IUS L95G, 20 R, Nissim, Eduardo: « Come ho scritto una commedia in una settimana », « Il Tempo », 13 luglio 1983.

XIV

Introduzione

diventano

universali.

Filumena

Marturano

è stata

tradotta

in tutti

i

paesi 21, Secondo Andrea Bisicchia che recentemente ha scritto uno studio

sullo scrittore napoletano, Eduardo si avvale del dialetto come strumento di creazione poetica in lingua, per comunicare dalla provincia alla nazione, e sia nel lessico sia nella sintassi va oltre la mediazione tra lingua e dialetto, dato che il linguaggio diventa adesione interna, fedeltà ad un mondo reale che nasce direttamente dal fondo dell’anima dei protagonisti.

Bisicchia poi insiste nel dire che: La lingua di Eduardo trova la sua linfa vitale in una realtà vissuta interiormente per essere trasferita sulle pagine e sul palcoscenico ed è una lingua che sfrutta le risorse del parlato, che si adegua a penetrare, con distacco, la mediocrità della vita borghese o la fantasia della vita popolare che scandaglia, con un tono discorsivo ed urbano, l’ambigua psicologia dei personaggi.

E conclude con l’affermare che è « una lingua che si fa forma e stile » 22.

Spesso a proposito del teatro di Eduardo si è parlato di pirandellismo. L’influenza di Pirandello, quando c’è, non può essere considerato come un fattore negativo, ma positivo, perché conferma l’alto livello della: produzione eduardiana. Nel XX secolo non vi è autore drammatico che non sia stato influenzato in qualche modo dal grande scrittore siciliano. Vi è poi un’affinità fra Eduardo e Pirandello. Eduardo stesso ci illumina a questo proposito: « Le conclusioni che traggo io non sono affatto pirandelliane. Siamo vicini come mentalità: sofistici sono i napoletani e sofistici sono i siciliani » 3. E precisa:

Io credo che esistano radici sotterranee che uniscono la Sicilia e Napoli. Ma diverso è il modo d’esprimersi. Il suo è un teatro delle ragioni. Il mio è un teatro delle cose quotidiane, dei fatti, vedi Napoli milionaria!, vedi Filumena Marturano. Sempre davanti ai fatti io mi sono trovato. Davanti ai fatti, cioè davanti ai problemi concreti, pratici d’una società che non regge, che crolla 24, 21 V. Pandolfi, art. ci. 2 A. Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, Mursia, Milano 1982, pp. 28-9.

23 V. Pandolfi, art. cit. 2 R. De Monticelli, Eduardo imprendibile scappa monumento, « Corriere della Sera », 24 maggio 1980.

sempre

via dal

suo

Introduzione

XV

Arriviamo così alla tematica del teatro di Eduardo. Anche se l’autore ha diviso in due parti la sua produzione drammatica, non vi è contrapposizione o drastica divisione fra di loro. I testi della Cantata dei giorni pari — i giorni che si credevano sereni — contengono già gli annunci e i semi dell’amarezza della Cantata dei giorni dispari. Nel mio precedente libro sul teatro di Eduardo” ho dimostrato quanto vivo sia questo legame, collegando le commedie del primo periodo con quelle del secondo. In questa sede intendo sottolineare a grandi linee i principali temi. La maggior parte delle commedie di Eduardo hanno come argomento la famiglia. La sua visione del nucleo della società è allo stesso tempo tradizionale e moderna. Denuncia i disordini, le incomprensioni fra i coniugi, fra i genitori e i figli. Sostiene l’importanza della famiglia, sottolinea la necessità della solidarietà fra i vari membri, puntualizza il ruolo di ciascuno con le proprie responsabilità, ma si oppone a ogni forma di legalismo. Solo l’amore può tenere insieme il nucleo della società, l’amore fra i coniugi, la reciproca comprensione, non i figli o il giudizio della gente. Specificamente per il rapporto fra genitori e figli, al sindaco del Rione Sanità fa dire una frase molto originale: « I figli prima si fanno e poi si comprano » ©. Questo per evitare che questioni d’interesse offuschino l’affetto del figli verso i genitori. Dimostra d’altra parte in più commedie la sua fiducia nei giovani, capaci di dare lezioni ai propri padri. Fa questo perché è convinto che sapranno mutare il mondo: I giovani capiscono, e le generazioni non si susseguono ogni vent’anni, o quindici, ma con maggiore rapidità. Due o tre fanno già differenza. I più piccoli vengono su con idee molto avanzate, in meglio, credo. Il futuro, secondo me, verrà salvato dai ragazzini, come dice Elsa Morante, e dalle donne che al contrario dei maschi, esercitano una politica indipendente da qualunque tradizione 77.

Le sue idee sull’indipendenza di scelta della donna e sulla sua ribellione al giogo maschile Eduardo le dimostrò con Filumena Marturano, una commedia femminista ancor prima che i vari movimenti per la liberazione della donna esistessero. Eduardo si fa prendere dal pessimismo solo quando vede, come nelle Voci di dentro, la sua commedia la più disperata, lo sfacelo 1975. 26 E. De Filippo, op. cit., p. 177. 27 E, Biagi, Eduardo tragico anche se ride, « Corriere della Sera », 6 marzo

25 F. Di Franco, I/ teatro di Eduardo, Laterza, Roma-Bari

1976.

XVI

Introduzione

della famiglia. Si erge allora a giudice e fa il processo all’umanità intera. Altrettanto fa nel Contratto, dimostrando come gli interessi siano al di sopra del vero amore. Nel Sindaco del Rione Sanità, invece, sempre da giudice, mette sotto accusa la società per l’errata amministrazione della giustizia. In più testi dimostra poi l’assurdità di certe leggi — invero abrogate o corrette da quando li ha scritti — che per esempio punivano i figli nati al di fuori del matrimonio, o che trasformavano il matrimonio stesso in una catena più pesante di quella che una volta portavano i forzati. Per Eduardo la vera legge è quella umana della vita universale che spesso si trova in contrasto con quella dello Stato e lui la difende a costo di sembrare anarchico o sovversivo. Il « pare brutto » non lo ferma mai, anzi mette a nudo le piaghe senza alcun ritegno perché convinto che: Avevamo una realtà da fermare, nel quadro della nostra letteratura: una realtà chiusa fra le quattro mura e che per il famoso « pare brutto » dei napoletani non è venuta mai fuori. Nel mio teatro, io ho voluto distruggere questo « pare brutto », dimostrare che la’ dignità, quand’è spinta all’esagerazione, può essere anche una colpa... Ecco, diciamo ch’io ho fatto un teatro che facesse venir fuori questa verità... 8

Quando critica la famiglia, per estensione critica lo Stato per le sue manchevolezze. Con coraggio si rivolge anche ai suoi concittadini napoletani nel Figlio di Pulcinella, pur avendoli difesi in altri testi come De Pretore Vincenzo, per invitarli a buttare, come fa il giovane protagonista della commedia, la maschera che permette loro di vivere di espedienti e di imbrogli ed assumere apertamente e consapevolmente i propri diritti e doveri, essere uomini veri, un popolo maturo. Odoardo Bertani dà una definizione del teatro di Eduardo secondo me molto valida. Egli ritiene che sia « un colloquio sulla terra, dal quale è escluso ogni ammiccamento o compromesso ». É prosegue spiegando: C'è una drammaticità delle cose, che pretende severità, mediana

ma

non ovvia, di scrittura. Sotto, sotto, un amato pesare l’uomo, e pur credergli. La fatica di vivere viene dai difetti della società e dall’egoismo (anche dalla stupidità) degli uomini. E chi è messo con le spalle al muro, trova soccorso nelle recondite armi dell’astuzia, o della follia. La vitalità dei suoi personaggi non è vitalismo, bensì la puntuale dimostrazione di un «credo » che esclude il soprannaturale, e che però non lascia gli 2 M. Prisco, Auguri dal mio sindaco, « Oggi », 20 aprile 1979.

Introduzione

XVII

uomini in balia all’assurdo. Essi posseggono, anche quando —

spesso —

non lo sanno, « una tabella umanistica », sono un esito e un cominciamento, un'eredità e una responsabilità: sarà una partita che si giocheranno tra loro, ma giocare la devono. Destini non incombono, né scacchi esistenziali, gli altri non sono l’inferno; i tunnel bui finiscono; lo scora-

mento

è dei giorni, la speranza

è degli anni?

Il suo dunque è un teatro didattico e moralista, al quale però ha saputo dare una veste tale da permettere allo spettatore di divertirsi. Ha realizzato quello che lui ritiene sia il vero teatro: Il teatro non è un libro, non è un’opera letteraria: deve essere vivo e quindi per un’ora e mezzo, due ore, deve avere sempre un aspetto di sorpresa. Perciò il pubblico viene a vedere le mie commedie perché si diverte e intanto porta a casa qualcosa ®,

Quel qualcosa su cui meditare, Eduardo ce lo offre attraverso il suo umorismo che, come già scrissi nello studio citato, è il filo

conduttore del suo teatro. Umorismo

concepito non solo come tec-

nica del comico, ma come visione di vita. Per lui esso nasce « dalla

delusione dell’uomo che per natura è ottimista » #. Diventa dunque un modo di reagire davanti alle brutture della vita siano esse causate dall'uomo o dalla società. Si è tanto parlato del pessimismo di Eduardo, della sua visione amara della condizione umana, della sua condanna della società, ma non si è mai cercata l’origine di questi suoi atteggiamenti. Anzi si è

arrivati ad identificare questo pessimismo con Eduardo stesso, attribuendo questa qualità all'uomo. Invece già nel 1940 egli aveva rivelato la sua vera personalità che si rispecchia fedelmente nel suo teatro prettamente

soggettivo e pure universale

nei contenuti:

una

natura ottimista nell’intimo, ma delusa in continuazione dalle ipocrisie, dalle ingiustizie, dai conformismi, dagli anacronismi, dalle altre storture che lo circondano. Come conseguenza diretta dèl « pessimismo » attribuito a Eduardo, i critici denunciano la sua misantropia che viene sottolineata non solo nel suo carattere ma anche nelle sue opere, e più precisamente nel « personaggio Eduardo ». L’autore si difende da questa accusa e dichiara: « Io non sono affatto come qualcuno crede, un freddo misantropo », e precisa che proprio l’indignazione, ben contraria alla

29 O. Bertani, L’arte della commedia ricerca galantuomini, « Avvenire », 23 maggio 1980. 30 V. Pandolfi, art. cit.

31 G. Sarno, art. cit.

Introduzione

XVIII

misantropia,

è un lato del proprio carattere #. Non si aliena dal

mondo, sente di farne parte e lo vuole migliorare, « perché malgrado tutto — dichiara — ho fiducia nell'uomo, anche se devono passare anni, forse secoli, per vederlo raddrizzato questo nostro mondo » # che dovrebbe diventare « un poco meno rotondo e più quadrato » *. Eduardo non accetta il « mettiti al passo », col mondo di oggi, come troppi fanno. Se misantropo è, lo è come Roberto De Monti-

celli lo definisce: « un misantropo che crede nel futuro » ®. Il suo « pessimismo » è voler aprire gli occhi ai suoi simili, perché è convinto che « verrà il meglio, ma quest’alba non mi sarà data di vederla; ci vorrà molto tempo. Mi è stato riservato di combattere i mulini a vento come un don Chisciotte » *. Certo per questo, nel 1977, toglie ogni speranza a Napoli milionaria! trasformata in opera lirica, quando nel finale sostituisce la famosa frase « ha da passa’ la nuttata » con la tragica battuta: « la guerra non è ancora finita ». Vede che gli uomini e la società hanno tradito le speranze che erano nate così prepotenti nell'immediato dopoguerra. Le sue parole diventano un testamento, anche se gli dispiace che sia tanto triste ””. Contemporaneamente però sono un monito e un invito a ravvedersi. Ed ecco che sotto il pessimismo riaffiora l'ottimismo di fondo di Eduardo che si serve della disperazione per incitare gli uomini e la società a cambiare. Giustamente dice Fantasio Piccoli: « Se esiste una disperazione non disperata, questa è la disperazione di Eduardo: consapevolezza della nostra condizione umana, ma con lo sguardo rivolto verso un cielo luminoso. Lotta, non rassegnazione » * .

32 G. 33 M. 3 E. 8 R. della Sera 36 E. 3 E. della Sera | 38 F. giugno

Prosperi, art. cit. Prisco, art. cit. De Filippo, op. cif., p. 191. De Monticelli, Eduardo entra in scena a Palazzo Madama, « Corriere », 27 settembre 1981. Biagi, art. cit. Mo, Eduardo cambia il finale del testo: Napoli milionaria!, « Corriere », 19 giugno 1977. Piccoli, La musica segreta del teatro di Eduardo, « Oggi », n. 26, 25

1977.

CANTATA

DEI

GIORNI

PARI

Le opere pubblicate della Cantata dei giorni pari sono venti. A queste vanno aggiunte altri quattordici lavori inediti i cui copioni sono stati da me rinvenuti nel « Fondo censura teatrale » conservato nell’Archivio Centrale di Stato. Le opere scritte da Eduardo, solo o in collaborazione, in questo primo periodo della sua attività sono dunque complessivamente

trentaquattro.

1,

Farmacia

di turno

. Atto unico, 1920. Rappresentata per la prima volta da Eduardo con la sua prima compagnia chiamata « Ribalta gaia », a Napoli, al Teatro Nuovo, il 16 aprile 1931.

L’azione si svolge nell’interno di una farmacia. Il farmacista Saverio mentre serve i clienti conversa con l’amico medico che seduto in poltrona sta dando un’occhiata al giornale. Ad un certo punto Teodoro, colpito da un fatto di cronaca, commenta l’uxoricidio di un marito che ha ammazzato la moglie « per semplice sospetto sulla sua onestà ».

Saverio trova stupido quest'uomo: Mo’ va ngalera e ti saluto! La vera risoluzione del problema la trovai io. Tu con me non puoi vivere felice? Preferisci l’altro, e sia!... Vatténne cu isso în santa pace e non ne parlammo cchiù!...!. Racconta poi che il suo matrimonio non fu felice; mentre lui cercava di rimettere a nuovo la farmacia lasciatagli dal padre, la moglie non pensava ad altro che al teatro, ai vestiti, ai cappelli: « il suo cozzava con il mio carattere ». Conclude: « Un bel giorno, la mia signora sparì... Dotto”... chillu iuorno manco si avesse pigliato na quaterna secca... » 2. Però non vuole acconsentire all'annullamento del matrimonio richiesto dall’avvocato della moglie per sua impo«E che figura faciarrfe dint’ ’o quartiere... » ?. tenza: Saverio tiene molto alla sua reputazione, malgrado la sua affermazione di aver preso con filosofia il tradimento. Infatti vuole che la sua farmacia sia « di primo ordine », ha appena fatto mettere la cassa, ma non può permettersi di pagare una cassiera. Così dopo aver servito i clienti, suona il campanello dicendo: « cassa », e poi va alla cassa pet prendere i soldi. Teodoro continuando a leggere il giornale, nota la pubblicità di un preparato topicida di Saverio. Gliene chiede una scatola, ma il

4

Cantata dei giorni pari

farmacista consiglia all'amico di non sobbarcarsi la spesa di quattro lire e cinquanta. Gli preparerà due cartine d’arsenico che potrà mettere con dello zucchero in una patata calda, raggiungendo il medesimo risultato. Dopo altri clienti, arriva Carmela, la nuova cameriera della moglie fedifraga di Saverio. Chiede qualcosa che dia sollievo alla sua padrona che ha la febbre. Il farmacista dice che ci vorrà un po’ di tempo per preparare la pozione, così la ragazza va a imbucare una lettera. Teodoro si meraviglia che venga proprio lì a comprare le medicine, ma la farmacia è di turno ed è l’unica aperta. Il medico comodamente seduto nella poltrona si addormenta e non vede tornare Carmela seguita da Enrico, il suo corteggiatore, che rivela alla ragazza ignara di tutto che il farmacista è colui al quale la sua padrona « cumbinaie ’o servizio » con l’uomo con cui

convive ora,

Saverio sentendo le loro chiacchiere s’inquieta anche perché i due giovani si mettono ad amoreggiare: Mo aggi’ ’a tene’ pure ‘a cannela... Chill’ato ca dorme comme si stesse ‘a casa soia... Ma vuie ‘a farmacia mia pe’ che l’avite pigliata? Ma che ve credite ’e sta’ dint’ ’a villa comunale? *.

Enrico per fare il grande davanti alla sua ragazza dice che pagherà lui le medicine, ma poi quando Carmela esce rivela che non ha una lira. Entra un altro cliente che risulterà spiantato pure lui. Ha visto che c’è il medico e vuole fargli visitare la moglie che dice malata di nervi. La donna fa un po’ di storie, ma poi si fa auscultare. Quando però è il momento di pagare, il marito si rifiuta di farlo perché il dottore ha fatto la stessa diagnosi di altre volte e gli dà solo due lire per comprarsi i sigari. Teodoro fa lo scandalizzato: « Due lire a me?... Io ci sputo sopra! » 5, però poi intasca i soldi, non essendo molto più ricco dei suoi clienti. . Viene anche il portiere del palazzo perché ha un forte mal di denti. Saverio, dentista dilettante, lo fa andare nel retrobottega, gli tira un molare e lo lascia a fare gli sciacqui. . Teodoro decide di andare a pranzo e chiede all'amico le bustine di arsenico. Saverio, occupato ad aggiustare alcune cose in vetrina, gli dice di prenderle sulla cassa. Ma quelle sono di aspirina , bianche e non rosse come dovrebbero essere, così il medico se ne va dicendo che ritornerà a prenderle. Poco dopo entra un brigadiere seguito dalle guardie che invita

il farmacista in Questura. Saverio sbalordito dice di non aver

niente, ma subito dopo, tradendosi domanda: « Ma forse mugliè fatto rema

2. Uomo

e galantuomo

5

è morta? », parole che il brigadiere prende per una confessione: Che d’è, mo’ ‘o ssaie ch'e’ fatte... L'hanno purtata ’o spitale, nun se sape niente ancora... Mo’ s° ’a spicce cu’ ’o Cummissario, tanto già ha confessato... *. Inutilmente il farmacista protesta che non è stato lui, viene portato via. Cala il sipario sul portiere che uscito dal retrobottega si dispera perché l'hanno chiuso in farmacia. A prima vista, questo breve atto unico sembra essere la vicenda di un pover’uomo vittima dell’ironia della sorte. Molti critici l'hanno interpretato così, attribuendo a uno scambio di bustine da parte della cameriera l’avvelenamento della moglie. Ma alcune battute, oltre alla domanda al brigadiere, tradiscono Saverio. Infatti parlando a Teodoro che ha trovato le bustine dell’aspirina invece di quelle di arsenico, domanda: «E st’aspirina pe’ cchi l’aggio fatto? ». Il medico gli risponde: « Pe? chella giovine che vuie avite ditto ch’era ’a cammarera d’’a mugliera vosta... Nun se l’è venuto a piglia’ ancora... ». Ed ecco le parole che lo tradiscono: « No, nun se l’è venuto a piglia’ ancora... ’e cartine voste forse nun l’aggio fatte ancora... me saraggio distratto! » 7, quando invece Carmela era tornata solo Teodoro non lo sapeva perché s’era addormentato.

La filosofia di Saverio era soltanto parolaia di fronte alla moglie fedifraga. Quando si presenta l’occasione tenta anche lui di ucciderla. Proprio in questo inatteso comportamento che contraddice parole dette apparentemente con tanta convinzione, si manifesta l'umorismo di Eduardo che concluderà altre commedie con la stessa tecnica. Forse in questa è la mano inesperta dell’autore ventenne — è la sua prima opera — a non aver saputo rendere chiaramente la sua idea. Ma potrebbe anche darsi che l’autore abbia giuocato intenzionalmente sull’equivoco. Interessante è il coro dei personaggi che si avvicendano nella farmacia. Danno un quadro realistico della Napoli dei meno abbienti, la cui comicità potrebbe anche essere non fine a se stessa, ma una velata denuncia sociale.

Uomo

Zi e galantuomo

Tre atti, 1922. Eduardo scrisse questa commedia mentre recitava nella compagnia di Vincenzo Scarpetta. La sottopose al capocomico che la mise in scena, ma prima successe un malinteso che l’autore ricorda così: «Il titolo era origi-

6

Cantata dei giorni pari

nariamente Fatto il guaio riparerò. Questo titolo venne trovato fra le carte di Scarpetta dalla moglie che andò su tutte le furie pensando che il marito avesse combinato qualche guaio e soltanto dopo che venne chiarito l’equivoco tornò la pace in famiglia » 1. La prima di Uomo e galantuomo con la compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo » è il 23 febbraio 1933, a Napoli, al Teatro Sannazaro.

Il primo atto si svolge nell’atrio di un albergo di Bagnoli dove ha preso alloggio una compagnia di guitti, chiamata da Alberto De Stefano, amico di Vincenzo, uno degli attori. Sono così poveri che devono lavare e cucinare di nascosto nelle loro stanze. Mentre sbrigano queste faccende provano anche le loro parti per la rappresentazione della sera, mischiando teatro e vita, che per loro diventa un tutt'uno. Alberto viene a raccomandare a Gennaro, il capocomico, di comportarsi un po’ meglio in albergo. Il proprietario si è lamentato con lui che si è fatto garante per loro. Mentre Alberto sta lì, incontra Bice, la donna che ama. Gli annuncia di essere incinta. Lui vorrebbe fare subito il suo dovere di galantuomo e andare dalla madre per chiederla in sposa, ma Bice inventa mille scuse: la malattia di cuore della madre, un fratello terribile che potrebbe ucciderlo. Malgrado le insistenze di Alberto, rifiuta di dargli il suo indirizzo: « Questo fu il patto: tu non devi sapere io chi sono e dove abito! »?. Alberto non si dà per vinto. Per scoprire dove abita la giovane, la fa seguire dal suo amico Vincenzo. Mentre aspetta il suo ritorno, arriva Salvatore, il fratello di Viola, una delle attrici che è incinta di Gennaro il capocomico. L'uomo è piuttosto agitato: vuole parlare col seduttore, per convincerlo a sposare la sorella, ma nasce un equivoco. Alberto lo scambia per il fratello di Bice e lo rassicura, dicendo che vuole sposarla. A Salvatore sembra strano: « Ve la sposate voi?.... È... mettete una pietra sul passato? ». E Alberto: « Io già l'ho messa. Mo” la dovete mettere voi ». Al suo interlocutore non sembra vero: « Ma io ce la metto. Mo” parlo cu essa e lestu lestu cumbina mmo tutte cose » È. Alberto s’allontana e durante la sua assenza Salvatore annunci a la lieta notizia alla sorella e minaccia Gennaro se questi non acconsentirà al matrimonio di Viola con quel ricco signore. Se ne va per ritornare poco dopo mentre gli attori provano le scene per la sera. Gennaro e Viola si stanno abbracciando. Salvatore minaccioso si scaglia contto Gennaro che scappa nella camera dove stanno cucinando, inciampa nel fornello e si rovescia tutta l’acqua bollente su un piede. La tela cala sugli urli del povero capocom ico.

Nel ssecondo atto, ci troviamo nella ticca casa del conte Carlo Tolentano, un uomo sulla cinquantina, marito della giovane Bice.

2. Uomo

e galantuomo

7

È medico, ma non esercita la professione. Però avendo incontrato Gennaro che si lamentava per il piede bruciato, l’ha invitato a casa sua per medicarlo. Mentre si allontana per curarlo, arriva Alberto. Ha finalmente scoperto l’indirizzo di Bice e viene a fare il suo dovere e parlare con sua madre Matilde. La donna casca dalle nuvole e gli dice che sua figlia è già maritata. Arriva Bice. Vedendola, Alberto le dice che non può credere quello che ha scoperto: « Dimme ca nun è overo, dimme ca mme vuo’ bene quanto io te ne voglio! » ‘. Il conte Carlo, non visto, sente le parole di Alberto, si scaglia contro di lui e chiede spiegazioni alla moglie. Alberto, per salvare l’onore di Bice, si finge pazzo. Parla a vanvera, recita così bene la sua parte che il conte si convince e chiama la Questura perché le guardie lo portino al manicomio. Quando arriva il brigadiere con le guardie, Alberto vorrebbe dirgli della sua finzione, ma il sottofficiale non gli crede. Così viene portato via.

L’azione del terzo atto si svolge nell’ufficio di P.S. Il conte Carlo, dichiarandosi medico di Alberto, ottiene di parlargli. Dicendogli che la moglie ha confessato tutto, riesce a scoprire la verità sulla loro tresca. A questo punto però esige da Alberto di continuare la finzione. Anzi lo minaccia di morte estraendo la sua pistola: Oggi tutti vi credono pazzo, dunque è salvo il mio onore. Nonostante tutto mia moglie resterà sempre presso di me... Grazie alla vostra geniale trovata, lo scandalo non è avvenuto. Ed era quello che soprattutto mi spaventava. Voi non troverete onesta questa mia soluzione... Potreste, però, comprenderne la necessità, occupando il posto che io occupo in società e aggiungendo ai vostri altri vent'anni. Signor Alberto, convincetevi, io riuscirei a spezzarvi in due... ma...

non lo faccio. Crepo, prima di provocare uno scandalo. Ora per evitarlo del tutto c'è un unico mezzo che v’'impongo: dovete rimanere pazzo, dovete farvi rinchiudere in manicomio senza ribellarvi e senza cercare di giustificarvi come ieri tentaste in casa mia e che fortunatamente

non

vi credettero.

Alberto si arrende e il conte soddisfatto si allontana. Le guardie portano via il giovane. Subito dopo arriva Bice per parlare col brigadiere. Giustifica il suo tradimento accusando suo marito: Io, mi sposai per essere una moglie onesta, ma quando dopo un anno di matrimonio mi accorsi del tradimento, quando vidi distrutto il mio sogno, diventai una vipera e decisi di fare lo stesso con uno

qualunque, anche brutto, anche vecchio. Ebbi occasione di conoscere

3

Cantata dei giorni pari

Alberton

era un simpatico giovane, allora m’accorsi° che De Stefano, è . È . » 6

pensai: meglio questo che mi piace pure! Ed ecco il mio dramma!

°.

Porta come prova la corrispondenza amorosa tra suo marito e una donna sposata. Il brigadiere le promette di aggiustare ogni cosa, ma prima deve sbrigare altri casi. Infatti si trovano al Commissariato Gennaro e i suoi attori in-

sieme alla cameriera dell’albergo in rappresentanza del proprietario. La donna reclama il pagamento immediato delle camere dal capocomico, ora che Alberto è impazzito. Il brigadiere assicura che il giovane verrà rilasciato, anzi, lo mette subito in libertà. Alberto, felice, prende la fuga, abbandonando gli attori alla loro sorte. Ritorna invece il conte avendo saputo della presenza della moglie al Commissariato. Il brigadiere mantiene la promessa data a Bice e gli dice: Voi giungete a proposito, la vostra signora è venuta per dirmi che ha voluto punirvi con questa finzione, per il modo di come l’avete tradita.

[...] Ringraziate

Iddio che questo

giovanotto

si è prestato

a questa finzione per darvi solamente la sensazione del tradimento.

Il conte nega, ma poi, vedendo la sua corrispondenza, si finge lui pazzo per evitare complicazioni. Si unisce a lui Gennaro che, partito Alberto, non ha i soldi per pagare l’albergatore. Tutti e due ripetono il ritornello di Alberto: « La Ilà ra Ilà rì...la Ilà ra Ilà rà! » È. Su questa pazzia generale cala il sipario. È ditticile riassumere questa commedia, degna discendente della Commedia dell'Arte, perché ricca di lazzi, quo, pazzie finte, tutti elementi della datole da Eduardo agli inizi della sua propriato: « Colore, umorismo e farsa » senti in egual misura.

_ Questa commedia

gesti comici, malintesi farsa tradizionale. Il rappresentazione suona °. Infatti i tre elementi

e qui pro sottotitolo molto apsono pre-

può dare spunto a diverse interpretazioni.

vi è realismo, con la descrizione del modo

Infatti

di vivere delle piccole com-

pagnie teatrali dell’epoca, vita che i De Filippo conobbero

lero imporre il loro « Teatro Umoristico ». Uno

spunto

quando vol-

di critica sociale

è dato dall’arroganza del conte, che gli deriva dalla classe sociale alla

quale appartiene. importanti della moralismo della fronti delluomo

Vi è critica pure alle convenzioni sociali, ritenute più vita di un uomo. Vi è rivolta contro l’ingiustizia del società, che usa un doppio metro di giudizio nei cone della donna. Per finire, il tema della finta pazzia ha suggerito accostamenti a Pirandello, che qui però non sembrano giustificati. Il ricorso alla piazza in Uomo e galantuomo è un espediente che sfrutta il comico e non ha niente

di esistenziale e di tragico, Nell’insieme però questa commedia è qualcosa

3. Ditegli sempre di sì

9

di più che una farsa scacciapensieri, come Eduardo l’ha definita 19 ripresentandola al pubblico quarant'anni dopo che l’aveva scritta.

Sk Ditegli sempre di sì Due atti, 1927. Anche questa commedia

viene messa in scena prima dalla

compagnia di Vincenzo Scarpetta e poi il 10 novembre 1932, a Napoli, al Teatro Nuovo, dal « Teatro Umoristico i De Filippo ». Eduardo spiega così il titolo di quest'opera: « Siccome il protagonista è un matto, e siccome Mussolini era al potere, la intitolai Ditegli sempre di sì ». Anzi aggiunge che quando la riprese a Torino, essendo proprio il giorno della proclamazione dell’Impero, l’impresario gli chiese di parlare dell’avvenimento, e lui, con allusione ironica, affacciandosi alla ribalta disse: « Commedia fortunata, signori miei, è cominciata sotto un regno e finisce con un impero » !.

Michele Murri accompagnato dal dottore torna a casa. Esce dopo un anno dal manicomio perché la sorella Teresa ha assunto la responsabilità di tenerlo con sé. Non è guarito, ma si è molto calmato. Il dottore è convinto che assecondandolo, trattandolo con gentilezza, non darà nessun grattacapo. Teresa ha tenuto nascosta la pazzia di Michele così ora tutti lo accolgono come se fosse tornato da un viaggio di affari. Michele si crede guarito, pensa addirittura di sposarsi. Invita la sorella vedova a fare altrettanto. Teresa si sposerebbe ma solo a certe condizioni:

Pe’ me nce vularria n’ommo ‘e na mezza età... anziano... L'età . > ) ; ) 3 e don Giuvanne, ’o pate d’Evelina. Avarria. essere pure nu bell’ommo: allora me maretasse n’ata vota. Sì proprio nu don Giuvanni Altamura?. y

Le parole della sorella colpiscono Michele che rimane pensieroso. La sua pazzia che si manifesta sotto una forma di « logicità », comincia a mettersi in moto.

Accetta il significato letterale delle frasi pronunciate da Teresa, semplifica tutto e non coglie la metafora. Si fa premura di parlare con Evelina per dirle che Teresa vuole sposare suo padre. Viene Ettore, amico di Michele, e poco dopo Luigi, un attore spiantato, locatario in casa di Teresa. Dalla loro conversazione si scopre ancor meglio in che cosa consiste la pazzia del giovane. Ettore ha commesso un’appropriazione indebita e ora cerca di trovare i soldi

10

Cantata dei giorni pari

per coprire l’ammanco. Michele per spiegare a Luigi che cosa è successo, dice: « Qua l’amico ha passato nu guaio [...] Ha rubato trentamila lire ». Ettore si ribella di sentire la cruda verità enunciata così esplicitamente: « Rubato, mo’... che c’entta? Mi sono servito dei depositi dei miei clienti ». Ma Michele non si arrende, non capisce « le convenzioni sociali del caso » e insiste: « Ma ’e solde erano d’ ’e tuoie? ». Al no di Ettore, seguendo la logica conclude: « E allora li hai rubati. C’è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare » È. Dunque Michele non comprende le mezze verità e vorrebbe che si dicessero chiaramente le cose. Rivedendo Vincenzo, un amico di famiglia che viene ad invitarli per l'indomani a festeggiare il suo compleanno, Michele chiede se è sempre in urto col fratello Attilio. La risposta è sì. Il giovane perseguendo la sua « logica » non riesce a capire come due fratelli non si parlino e si odino addirittura. Cerca di convincere Vincenzo a fare la pace e rivedere Attilio, ma inutilmente. La sua risposta è: L’aggio ditto e basta. Allora ’ave ‘o piacere ‘e me vede’, quanno le mannano a dicere ca so’ muorto. E io, quanno dico na cosa, chell’è. Sulo muorto! Statte buono, ce vedimmo dimane. Miche’, so’ muorto! *

Michele lo prende cenzo: « Ah, quanto la cameriera per far Le sue ultime parole l’atto.

in parola ed esclama, dopo la partenza di Vinmi dispiace! Chello mo’ steva ccà! ». Chiama spedire un telegramma che ha appena scritto. sono « Pace all’anima sua! » 5, che chiudono

Il secondo atto si svolge nella sala da pranzo di Vincenzo. Si sta festeggiando il suo compleanno. Sono presenti tutti i personaggi del primo atto, eccetto Teresa. Luigi, l’attore che è anche poeta, per farsi bello davanti a Evelina, che ama riamato, recita una sua poesia

« dalla formula ermetica », che però « si aggancia alla corrente realistica ed impressionistica, fatta di chiazze opache e di spiragli allucinanti, il cui filone trova larvati riscontri in tutta la letteratura valida avanguardistica degli ultimi vent'anni » £. Michele interrompe continuamente il giovane perché non riesce a comprendere le allucinazioni, le incoerenze e le visioni che la poesia rinchiude in*sé. Inutilmente cerca di trovarci degli agsanci alla realtà. pae Proprio quando i convitati sono artivati al brindisi di auguri, viene un facchino con una corona di fiori funeraria; sul nastro c'è scritto: «A Vincenzo Gallucci. L’inconsolabile fratello Attilio »?. Vincenzo lo interpreta come uno scherzo di cattivo gusto del fratello. Poco dopo però arriva Attilio vestito a lutto. I due fratelli

3. Ditegli sempre di sì

11

rivedendosi fanno pace senza scoprite chi ha mandato il telegramma. La pazzia di Michele è riuscita a correggere l’incongruenza dei sani, capaci di vivere nell’assurdità di un odio fraterno. Ma non sempre le sue lodevoli intenzioni vanno a buon fine. Michele rimane molto scosso sentendo che il padre di Evelina dà del pazzo a Luigi: « Chillo è nu stravagante, chiagne, ride... Dice che vo’ fa’ l’artista! Chillo se n’addà j ’o manicomio! [...] È pazzo, è pazzo! » 8, perché il giovane vorrebbe sposare Evelina. Queste parole confermano i dubbi che Michele aveva avuto il giorno prima. Infatti era rimasto colpito nel vedere Luigi che per dimostrare la sua bravura di attore faceva delle grandi risate con varie modulazioni per poi passare a delle crisi di pianto; gli ritornavano alla mente le risate che sentiva in manicomio. Anche la poesia recitata a tavola da Luigi aveva contribuito ad aumentare i suoi dubbi, che ora diventano certezza. Dice a tutti che il giovane è pazzo, scongiurando di assecondarlo e non contraddirlo. Finalmente prende un coltello per « guarirlo ». Si investe nella parte di un professore indiano e vuole operarlo: Noi in India, sottoponiamo

il paziente ad un trattamento

stico, è vero, ma che dà dei risultati sorprendenti.

dra-

Mi chiedete in

che cosa consiste questa nuova terapta? È l'uovo di colombo. È questione di sede. La sede del male qual è? La testa. Possiamo not asportare il male dalla testa? No, non lo possiamo. Qual è dunque il metodo che stiamo praticando in India? È quello di isolare il male nella sua sede, e renderlo così inoffensivo al rimanente del corpo umano: il taglio della testa. E passiamo alla dimostrazione pratica della mia afermazione?.

Solo l’arrivo di Teresa, che da ventiquattro ore cerca Michele, salva il malcapitato. Alla povera donna non resta che svelare il segreto della pazzia del fratello e portarselo via. Rinuncia al matrimonio con Giovanni che Michele aveva combinato, per dedicarsi solamente a lui. Ma che lo faccia per sempre, è messo in dubbio dalle parole di Michele rivolte a Luigi, che lui crede pazzo: « Tu sei un pericolo per la società. La gente ha paura di te, hai capito. Gli amici, i parenti, ’a famiglia ti possono compatire, ma a un certo i punto si rassegnano e ti abbandonano... » !°. La pazzia « logica » di Michele, divertentissimo filo conduttore della

commedia, nasce dalla sua volontà di « sembrare normale a tutti i costi » !!. Ha visto l’irrazionalità, le stranezze, i deliri, le allucinazioni degli ospiti del manicomio e ora, ritornando nel mondo dei sani, è convinto che per esserne parte bisogna essere coerenti e logici. Ma proprio

12

Cantata dei giorni pari

qui si scontra con il linguaggio convenzionale degli uomini, pieno di metafore, finzioni e mezze verità, che lo confondono. Reclama inutilmente un po’ di precisione: « C'è la parola adatta perché non la dobbiamo usare? Parliamo co’ ’e parole iuste ca si no m’imbroglio » !2. Il suo voler essere troppo razionale lo condanna al manicomio, di fronte a un’umanità che vive assurdamente: i fratelli si odiano, i pregiudizi borghesi di un padre portano a ritenere pazzo un uomo perché attore e quindi non degno di sua figlia. Questa « normalità » dei sani alimenta la sua pazzia. Ecco che le parti si invertono: i veri pazzi sono fuori, liberi, e i normali devono essere rinchiusi, perché il mondo è il vero manicomio. È un’amara verità che Eduardo col suo umorismo proclama in questa commedia che solo apparentemente è un'allegra farsa. Naturalmente il tema della pazzia fa subito pensare a Pirandello, ma il personaggio eduardiano non ha niente dell’ambiguità tra realtà e finzione che è propria di Pirandello. Il protagonista è semplicemente pazzo e fa di tutto per non esserlo. Il suo dramma si manifesta attraverso un meccanismo comico tale, da annientare e travolgere ogni tragicità.

4. Filosoficamente Atto unico, 1928. Eduardo riceve dalla censura la richiesta autorizzazione alla rappresentazione il 16 settembre 1932, mentre si trova a Napoli al Teatro Sannazaro. Non risulta però che abbia messo in scena la commedia.

Sulla terrazza di casa, Gaetano Piscopo, un modesto impiegato, si sta godendo il fresco in compagnia dell’amico Peppino Cardaia, dottore. Gli confida i suoi problemi che sono quelli classici di un piccolo borghese: Vi perché e nun lunque

giuro che certe volte invidio ‘0 scupatore, ‘o mondezzaio... non hanno esigenze. Chello che se guadagnano s’ ‘o mangiano hann'’a penza’ a niente cchiù. Dormono in una topaia quaed ecco risolto il problema! ‘O guaio chi ’o passa? L’im-

piegato! Deve vestire decente, nun

voglia maie ‘o cielo se presenta

cu’ ‘e scarpe rotte... Si tene figlie; l’ha dda fa cumpari’, naturalmente quel poco che guadagna serve per mantenere come meglio può le apparenze... e ’a panza soffre. Soffre don Peppi. E come! Non ho vergogna a dirlo, ccà, cu’ chello che guadagno [...] a stento

pago ‘o padrone ‘e casa e riesco a cucinare un piatto a mezzogiorno

e n'ato a sera. Un piatto don Pepi’... Senza vino, senza frutta... niente... E pure se fanno ‘e capille bianche... *.

4. Filosoficamente

13

Lo assilla anche la sorte delle due figlie, Margherita e Maria, che sono da maritare senza dote. Così, sono ancora sacrifici perché le ragazze possano organizzare delle festicciole in casa a base di pizza, frutta e granita di caffè. È l’unico mezzo che può offrire loro perché incontrino dei giovani. Anche quel giorno, infatti, le ragazze hanno invitato alcuni amici: Gemma, la figlia del dottore e il suo ragazzo, e Vincenzino e Arturo. Maria ha un debole per il primo e Margherita per il secondo. Malgrado i loro difetti fisici, Arturo è cieco e Vincenzino talmente miope da non vederci nemmeno con gli occhiali spessi che porta, sono due giovani allegri. Infatti solo dopo il lorc arrivo la festicciola comincia ad avere un po’ di vita. Vincenzino, approfittando che gli altri sono andati a prendere i rinfreschi, chiede a Gaetano di poter sposare Maria. Al povero travet non pare vero. La sua risposta è indicativa: « Quanno t’ ’a viene a piglia’? » ?. Felice, il giovane sprona Arturo a decidersi di parlare pure lui con Margherita e col padre. Ma Arturo esita a farlo: Nun pozzo parla’; Vicenzi’, nun pozzo parla’, cu tutto che capisco che Margherita me vo’ bene, che s'è annammurata ‘e me, io nun tengo ‘o curaggio ‘e parla’. [...] Avarria essere essa a parla’, avarria essere

essa a menarse dint ‘e braccia meie... essa po’ dicere: me voglio spusa’ a nu cecato... Ma io pozzo dicere: spusateve a nu cecato? è Alla fine, però, incitato da Vincenzo, decide di fare una mezza dichiarazione pur sottolineando di non nutrire speranze a causa della sua cecità. Margherita, dimostrando che l’amore è cieco pure lui, gli si butta fra le braccia. Col suo gesto impulsivo e sincero fa « riacquistare » la vista ad Arturo, che felice lo annuncia a Vincenzino che stava avendo scrupoli a sposarsi, e a Gaetano:

Puo’ spusa’ senza rimorsi, pecché io nun aggio bisogno cchiù d’accompagnatore... Don Gaeta’, io ce veco! [...] A me me mancavano

ll’uocchie e mm'ha Questo

breve

dato Margherita,

atto unico

sembra

non

mm’ha dato ‘a figlia vosta!* avere

un

vero

e proprio

svol-

gimento. Pare un quadro statico e patetico che vuol dipingere la vita della piccola borghesia. Nemmeno gli intramezzi buffi creati dal cieco e dal mezzo cieco riescono a ravvivarne il tono. Il titolo impegnativo viene illustrato da poche battute, da personaggi appena delineati, che non hanno consistenza. Per Gaetano la filosofia della vita si traduce nel mantenere un decoro fittizio, per il dottore con « pazienza... bisogna lottare », per Maria bisogna vivere oggi, al domani « Dio ci pensa » 5; il solo ad avere una vera e propria filosofia che l’aiuta a vivere, è il giovane cieco: >?

14

Cantata dei giorni pari

Quacched’un ‘ato ‘o posto mio s'’a pigliarria a duro... Io invece so’ cuntento pecché nun vedenno niente, niente desidero. Vuie per esempio vedite nu bell’oggetto dint’ °a nu negozio, ve n’annammurate, ve vene ‘0 gulio e si nun v’’o putite acatta’ ve dispiace; io invece stu dispiacere nun ll’aggio, pecché nun ‘o veco e o’ gulio nun me vene. Uocchie ca nun vede, core ca nun desidera... ©.

Sembra significativo che proprio in bocca a un cieco Eduardo abbia voluto mettere la sua filosofia dell’accettazione della vita, un cieco che dichiara di vedere, in contrasto con i veri vedenti che ciecamente conti-

nuano ad atrabattarsi nella vita per avere quello che non hanno.

DI

Sik-Sik, l’artefice magico Atto unico, 1929. La prima volta è rappresentato nel giugno del 1929, a Napoli, al Teatro Nuovo, sotto forma di sketch della rivista Pulcinella principe în sogno di Kokasse e Tricot (Mario Mangini e Eduardo De Filippo). Eduardo

aveva

finito la stagione teatrale

a Roma

con Vincenzo

Scarpetta,

e ricevette l’invito a collaborare, a Napoli, con Mario Mangini alla stesura della rivista e a recitarvi insieme ai fratelli. Accetta, e mentre viaggia in treno scrive Sik-Sik, il cui protagonista divenne il più fortunato dei suoi primi personaggi. Eduardo stesso lo dice ed aggiunge: «Ero in un vagone di terza classe e avevo portato con me, pet colazione, un cartoccio di pane, formaggio e pere: sulla carta di quel cartoccio cominciai appunto a far vivere Sik-Sik» 1. La Compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo », a sua volta, mette in scena Sik-Sik, come atto unico, a Napoli, al Teatro Kursaal, il 4 gennaio 1932.

Sik-Sik, il prestigiatore, arriva davanti alla porta posteriore del teatrino in cui si esibirà, con tutto « l’armamentario » che gli servirà per i suoi trucchi: una piccola valigia e una gabbia con due colombi uguali. Il suo nome, che suona molto vicino al « sicco » napoletano che vuol dire magro, è confermato dalle sue fattezze fisiche. La didascalia lo descrive come « il tipo tradizionale dell’artista guitto povero, tormentato e... filosofo ». Sik-Sik ha come assistente la moglie Giorgetta, incinta, che lo segue con « una certa aria scoraggiata » “, simile a quella del marito. Il prestigiatore per i suoi numeri ha bisogno di un compare che però deve fingere di essere uno spettatore qualsiasi. Ma poiché questi prima della rappresentazione non si presenta, Sik-Sik ingaggia un altro poveretto, come lui pronto a far qualunque mestiere pur di guadagnare qualche lira. All’ultimo momento però si presenta il

5. Sik-Sik, l'artefice magico

5

primo compare e sorge una lite fra i due « aiutanti », che causa la perdita del colombo bianco e del lucchetto che dovrebbero servire ai numeri di Sik-Sik. Nella seconda parte della commedia la scena rappresenta il palcoscenico del teatro di varietà di terz’ordine. Sik-Sik con cilindro e kimono cinese sul frak, viene alla ribalta, saluta il pubblico col classico gesto degli illusionisti e con aria di importanza dice: Pubblico rispettabile. È ormai nota in tutto il mondo la mia grande fame di illusionista. Sik-Sik che ha strabiliato tutti i popoli, questa sera si trova finalmente davanti a voi. La mia vita è stata quasi rumanzesca.

Avevo sette anni, quando cominciai a far sparire

le cose. Il Giappone accolse i miei dodici anni ed a tredici mi baciò

in fronte il sole d'Uriente. Il miracolo famoso lo feci in Girmania: feci sparire una collana di perle d’una signora e non furono più cristiani di trovarla. In Turchia feci sparire una donna, un’udalisca e dopo tre giorni la feci trovare a Napoli... dietro al teatro Fiorentini. E là sta! Questa sera alla vostra prisenza eseguirò gli esperimenti più famusissimiÈ.

Dopo il primo esperimento riuscito a metà, viene quello più importante. Deve rinchiudere la moglie in una cassa e far mettere il lucchetto al compare che invece del vero deve usarne uno finto. Non sa del litigio fra i due compari e così Giorgetta rimane veramente prigioniera.

Sik-Sik che fino ad allora, prima coi compari poi col pubblico aveva tenuto a sottolineare la sua grandezza, la sua fama conosciuta in tutto il mondo, — forse lui stesso si concede di credere a questa illusione per ignorare la realtà della sua situazione — ora dimostra che non gliene importa più niente. Gli preme solo di liberare la moglie e il suo nascituro. La didascalia rende il suo stato d’animo:

Il dramma di Sik-Sik è un altro, più vasto, più grande, più intimo. L'illusionista pensa alla povera moglie prossima a diventar madre, chiusa là dentro. Ed allora l'esperimento, il pubblico, il teatro, tutto scolora nel suo cuore tormentato. che possa portare a Giorgetta un aiuto*.

Ha un'idea, la sola

Ricorre a un martello per rompere il lucchetto, e quando finalmente la povera donna esce, sforzandosi a sorridere — « ma il sorriso si tramuta in una misera smorfia di sofferenza » — l’unica preoccupazione di Sik-Sik è per il figlio: « Intertoga con lo sguardo la moglie e la sua mano esitante si poggia, paterna e timorosa sul

16

Cantata dei giorni pari

grembo di lei »°. Solo a questo punto si ricorda di essere attore, ed alla presenza di un pubblico davanti al quale deve salvare il suo fiasco. Si rivolge agli spettatori e dice: « Questo è un esperimento che feci anca in America. Uno spettatore disse che c’era l’imbroglio. Allora io ci risposi: ‘“ Dopo lo spettacolo ti aspetto fuori” »°. L’ultima frase naturalmente è anche una minaccia lanciata al compare che ha causato non solo il fallimento del suo trucco, ma ha messo a repentaglio la vita di sua moglie e della creatura che pottava in grembo. Finalmente riesce a far finire in una risata ciò che poteva concludersi in una tragedia. Il successivo esperimento di Sik-Sik non ha migliore fortuna: invece di una colomba bianca nel cappello di Rafele appare un pollastro nero, sempre per colpa del litigio fra i compari. La didascalia descrive la sofferenza dei due e la reazione di Sik-Sik:

Sik-Sik e Giorgetta sono costernati, affranti, senza parole. Si scambiano delle occhiate di avvilimento e di interrogazione. Ma SikSik non si avvilisce mai e anche questa volta risolve come solamente lui può risolvere. Difatti dice al pubblico:

Il culombo che si trovava in quella gabbia l'ho fatto sparire, l'ho fatto trovare nel cappello del signore... (Una breve pausa che basta a ridargli la sua abituale audacia). E l’ho fatto diventare pollastro!...?. Questo

atto unico

sembra

una

farsa che dovrebbe

solo far ridere,

ma Sik-Sik non è solo un personaggio comico; dietro alla maschera che egli assume per divertire il pubblico traspare il tragico dell’uomo che lotta per non essere sopraffatto dalla vita, dalle difficoltà. È una battaglia ardua. Lo testimonia il fatto che, malgrado abbia cercato fino all’ultimo di conservare la sua audacia, i suoi singhiozzi devono essere coperti dal suono della tromba finale. Ma lui non s’arrende lo stesso. Giustamente Magliulo afferma che Sik-Sik, l'artefice magico « contiene già l'intuizione eduardiana di una condizione umana e sociale opprimente e anche l’intuizione dell’atteggiamento che l’bomzo neapolitanus è abituato ad assumere nei confronti di quella condizione »8. Nella contrapposizione delle battute comiche con la situazione miserevole e dolorosa di Sik-Sik, si manifesta già l'umorismo tragico di Eduardo che accompagnerà tutto il suo teatro.

6. Chi è cchiù felice ’e me!

17

6.

Chi è cchiù felice ’e me! Due atti, 1929. Rappresentato per la prima volta dalla compagni a « Teatro Umoristico i De Filippo » il 9 ottobre 1932, a Napoli, al Teatro Sannazaro.

La commedia è ambientata in campagna, nei dintorni di Napoli, in casa della coppia Vincenzo e Margherita. Nella sala da pranzo si nota ordine e pulizia, frutto della mano della massaia descritta dagli amici del marito come « bella, bona e affezionata ». Gli stessi riten-

gono che « Don Vicienzo è n’ommo fortunato ». E alla moglie dicono che « pe’ tutt’ ’o munno nun se trova na femmena comme a vuie » 1. Naturalmente anche il marito apprezza le qualità della moglie: Nun c’è che dicere, si’ completa. Nun te manca niente, fenamena ‘e casa, economica, senza vizie e ssi’ pure bella Margari’... °A casa m'’a faie pare’ nu Paraviso. ‘O sole ce trase pecché ce staie tu?.

Gli amici di Vincenzo sono venuti per proporgli un affare, ma lui non vuole prendere dei rischi: Io voglio sta’ c'’a pace mia, le linee l’aggio tirate, chello che tengo non me superchia, ma m’abbasta?.

Per lui la sola cosa importante nella vita é: « Io aggi’ ’a essere felice ». Convinto che «’o destino ce ’o facimmo cu’ ’e mmane noste » *, calcola tutto perché non gli succedano degli imprevisti. È sicuro che proprio per questo può dire: « ncoppo ’o munno nun nce po’ essere n’omme cchit felice ’e me » 5. Per evitare imprevisti, non esce nemmeno di casa: Tu vaie a mangia’ °a casa ‘e uno? E che ne saie chello ca te po’ succedere? E si dint’ a chella famiglia ce pratica nu mariuolo? E tu senza vule’ ce faie cunuscenza e che saccio doppo qualche tiempo l’arrestano. [...] Quante vote siente ’e dicere: « E’ ghiuto tizzio sotto ‘o trammo ». « Ah... overo e comme è stato? ». « Mentre ieve ‘a casa ‘e n’amico suio ». « Pover'ommo? Che disgrazia... ». Qua’ disgrazia? Qua’ disgrazia? Se l’ha voluto isso, si nun se muveva ‘a dint’ ‘a casa soia non le succedeva.

Non accetta l’ipotesi che gli fa la moglie:

18

Cantata dei giorni pari

Va bene, ma si per esempio st'amico te manna a chiamma’ e tu nun ce vate, rieste dint’ ’a casa, doppo nu poco cade nu trave ‘a coppa e te scamazza, è disgrazia. Si ive ‘a casa ’e l’amico ‘o travo nun te

ieve ncapo È. E proprio quello che teme che possa accadere fuori, gli arriva stando a casa. Riccardo, un giovane che in una lite ha ferito un creditore, si rifugia da lui che lo deve nascondere dai carabinieri sotto la minaccia di una pistola. Questa incursione nel « castello di felicità » che si era costruito segna la fine della sua pace domestica. Infatti due mesi dopo l’accaduto, nel secondo atto, la sua casa non è più ordinata e linda come prima, tutti i lavori domestici sono trascurati da Margherita, il cui cambiamento è descritto così dal marito allibito:

Jo t'assicuro che nun ‘a cunosco parola che zompa nfaccia, nun le pozzo nierve... Stammattina per esempio ce pe’ nu buttone? E po’ che d’è, fino a

cchiù. Non le può dìcere na fa’ na cerimonia che se tocca ’e azzeccava tutta chella ammuina poco tiempo fa nun l’ha fatto?

[...] E po’, tiene mente pure ‘a casa nun ’a tene cchiù comme na vota... Primma faceva nu sacco ‘e pranzette sapurite... mo’ invece ‘0 mangia’ fa schifo...

Inutilmente Nicola, il suo factotum, lo mette in guardia: « Mu-

gliérema accuss’ accumminciaie. Mo” me mancava nu bottone... mo’ truvavo a’ giacchetta scusuta, [...] e po’ se ne fuiette ». Vincenzo

è convinto che queste cose a lui non possono succedere e giustifica la moglie: « Chella è quistione che nun se sente bbona » È.

Le malelingue, i suoi amici stessi dicono che vi è del tenero fra Margherita e Riccardo, che dopo l’intrusione nella casa dei coniugi,

una volta assolto perché aveva agito per legittima difesa, ha continuato a frequentarli. Riccardo ha destato in lei, che pensava solo alla bellezza della

casa, la femminilità, la sensualità, non solo con la sua presenza, ma

regalandole anche calze di seta, rossetto, cose che lei aveva ammirato sulle altre donne, pur senza confessarselo. Margherita lotta contro i suoi nuovi sentimenti. Quando Riccardo viene in casa a cercarla, si difende dicendo che è sposata, e al marito che sopraggiunge chiede di mandarlo via perché « Io te

voglio bene pecché me si’ marito e t’aggi” ‘a rispetta’ »?. i Riccardo rassicura tutti e due dicendo che partirà per Milano. Vincenzo soddisfatto del comportamento della moglia riferisce

agli amici quel che è appena successo. Ma Riccardo torna. Marghe-

7.

Quei figuri di trent'anni fa

19

rita a parole lo caccia, ma poi si getta fra le sue braccia. La tela cala sulla costernazione di Vincenzo e dei suoi amici. La commedia ha il fondo dell’infedelià coniugale e della con cui vengono sottolineati i Eduardo abbia voluto andare un tipo. Mettendo

delle vecchie farse sul ‘tema tradizionale cecità del marito tradito. Ma l’accuratezza tratti del protagonista fanno pensare che oltre alla presentazione caricaturale di

in risalto l’individualismo

di Vincenzo,

la sua sete di me-

schina felicità, il suo isolarsi nel suo piccolo mondo, suggerisce una critica alla borghesia italiana — certamente non recepita all’epoca — che proprio con questo modo di concepire la vita ha permesso l’avvento del fascismo e il suo progressivo rafforzamento. Il colpo di scena finale, in questo contesto, diventa una messa in guardia sui pericoli di questo comportamento. I documenti da me trovati sull’atteggiamento antifascista di Eduardo più volte denunciato alla polizia politica, potrebbero giustificare questa interpretazione. Se poi prendiamo in considerazione il personaggio femminile, meno ben delineato di quello maschile, vediamo che Margherita esprime dei concetti che l’autore svilupperà con maggiore arte e chiarezza in commedie successive — vedi, per esempio, Sabato, domenica e lunedì — e che all’epoca erano troppo audaci e moderni per essere compresi. Un matrimonio non può sussistere solo sul senso dell’onore e sulle convenzioni. Margherita, pur affermando questi valori sociali a parole, si butta poi nelle braccia di Riccardo. Forse tutte queste osservazioni nascono dal senno del poi, mentre negli anni Trenta anche critici di fama come Renato Simoni non sottolineavano che la vena d’ilarità della commedia, ricercandone la sorgente in Pulcinella o il Magnifico, e facevano risaltare il « misto di grazia rustica e di ironia sapida, di affettuosità, di gentilezza sentimentale e di cinismo » !°.

JE

Quei figuri di trent'anni fa Atto unico, 1929. Rappresentato per la prima volta dalla compagnia «Teatro Umoristico i De Filippo » il 2 gennaio 1932, a Napoli, al Teatro Kursaal. Eduardo voleva intitolare questa commedia Le bische, ma la censura fascista gli fece cambiare il titolo e lo costrinse a rappresentarla in costume di trent'anni prima. Essendo stato proibito il gioco d’azzardo, per il regime fascista le bische clandestine non esistevano più!. Infatti anche i giornali dell’epoca, facendo la recensione dell’atto unico, sottolineavano questo fatto: «In Quei figuri di ‘trent'anni fa l’autore ha voluto descrivere un ambiente

della malavita

napoletana

di un

tempo

(fortunatamente

tramontato) » 2.

20

Cantata dei giorni pari

L’atto unico ambientato in una bisca napoletana che si cela sotto il prestigioso nome di « Circolo della caccia », comincia con l'iniziazione di Luigi Poveretti scelto come nuovo palo per la sua « faccia ingenua e primitiva ». Dovrà aiutare a « spellare i polli », Gennaro, il proprietario della casa da gioco, detto anche « Punto e virgola ». Le spiegazioni sono piuttosto complicate e Luigi fa fatica a capire, ha paura di imbrogliarsi. Quasi quasi ci rinuncia, ma poi la possibilità di guadagnare tanti soldi, essendo « poveretto », non solo di nome ma anche di fatto, lo fanno rimanere. Il suo compito è di porgere a Gennaro certe carte che corrispondono a delle parole convenzionali e a dei gesti prestabiliti. Prima che arrivino le « vittime », Gennaro fa un ultimo interrogatorio a Luigi per assicurarsi che abbia ben capito le istruzioni, ma dalle sue risposte risulta il contrario:

GENNARO

LUIGI GennaRO LUIGI Gennaro LUIGI GenNARO Luci

GennARO

Véneno ‘e muonice, i giocatori, pirciò statte quanno me scioscio ‘o naso che voglio? Aspettate... ‘a lente. Bravo. Quanno me ratto ncapo? Vulite ‘o pettine»

attiento:

No, ‘o nove. Quanno faccio nu sternuto, che m’'he? ‘a da’?

°O fazzuletto. Ma che staie mbriaco? Voglio ’o otto. Quanno «mannaggia buba' », voglio ’o settè, e quanno « corpo di diavolo? ». Mette ‘a lente ‘o palummo. Voglio ’o sei, tu nun the? ‘a mbruglia’3.

dico: dico:

Arriva il barone, l’adescatore delle vittime. Porta Peppino. Gennaro dopo essersi assicurato che ha « l’urganetto », che in gergo vuol dire il portafoglio, lo invita a giocare insieme agli altri ambigui frequentatori della bisca. Luigi si mette all’opera, ma non ne combina una giusta, confonde le istruzioni ricevute, capisce fischi per fiaschi. La conclusione è che Peppino invece di perdere, stravince. Mentre Luigi viene chiamato fuori da Gennaro, che gli dà una scarica di calci. Il gioco riprende, ma ad un tratto si sefte un fischio prolungato seguìto da un altro subito dopo. È l’altro palo che segnala l’arrivo delle guardie. Escono fuori dalle tasche pistole, coltelli e lunghi chiodi che vengono dati in mano a Luigi e a Peppino perché sono « ’e bbona condotta ». Gennaro preme un bottone e il tavolo da gioco diventa « tavolo da pranzo con tappeto turco e vaso di

8. È arrivato

’o trentuno

- Ogni anno punto e da capo

fiori nel mezzo, mentre le fiches, le carte e il tavolo ». Entra il brigadiere seguito dalle guardie. d’azzardo non ci sono, ma riesce ad arrestare Luigi a darle, spingendo il bottone premuto Riappaiono così le carte, i soldi e le fiches. scono pure in galera per detenzione di armi.

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denaro spariscono nel

Le prove del gioco tutti perché ci pensa prima da Gennaro. Peppino e Luigi fini-

Questo atto unico è più giusto definirlo una farsa commedia. Tutto si regge sulla comicità delle battute comprendendo i doppisensi del gergo della malavita, è un tocco di realismo nell’ambientazione: si sente Eduardo riproduceva una bisca dal vero.

piuttosto che una di Luigi, che non causa equivoci. Vi che probabilmente

8.

È arrivato ’o trent’uno - Ogni anno punto e da capo Rivista in due tempi, 1930-1971. Nel dicembre del 1930 la compagnia Molinari, di cui facevano parte i tre fratelli De Filippo, mette in scena a Napoli, al Teatro Nuovo, la rivista È arrivato ’o trentuno di Tricot, pseudonimo di Eduardo. Nel 1971 Eduardo ricostruisce a memoria questo spettacolo e lo intitola: Ogni anno punto e da capo. Specifica che è una « Cicalata » del tempo e del luogo tratta da pagine disperse o distrutte dei Giorni pari!. La nuova rivista è rappresentata per la prima volta il 5 ottobre 1971 al

Teatro Piccolo di Milano, per la regia dell’autore. Questo spettacolo riportò alla memoria di Eduardo i teatri di varietà di Napoli e gli spettatori degli anni Trenta che egli descrive così: «I sogni erotici dei commendatori delle prime file di poltrone maturavano al tepore della vasta collezione di seni e gambe che fino a quel momento era stato patrimonio esclusivo di tutte le passerelle dei cinema-teatri di periferia. Napoli non fu da meno. Pure il paese dei vermicelli adeguò i suoi spettacoli all’altezza dei tempi. Lo fece in forma ridotta è vero, con l’abituale ristrettezza dei mezzi, sissignore, in un teatrino ‘“ casareccio ”, dove lo spettacolo si veniva a trovare naso a naso con l'arrangiamento della scenografia, coi colori stinti dei costumi lisi, con la goffagine della subrettina improvvisata, sì: ma con tale consapevolezza della

realtà sociale, da elevare i limiti di quei polpettoni alla napoletana al rango di autentica denunzia, che all’attenzione dello spettatore accorto assunîeva valore di aperta polemica nei confronti del preteso benessere propagandato dal fascismo » 2.

Lo spettacolo è costruito alla maniera delle vecchie riviste di un tempo con un nutrito incalzare di trovate, di parodie, di scenette, intrammezzate da canti e balletti. Il filo conduttore è l’idea che un anno non è migliore o peggiore dell’altro, perché gli anni, i secoli, i millenni « non sono che gli

22

Cantata dei giorni pari

avallanti di tutto ciò che di bene o di male commette l’uomo » *. Il primo tempo ha inizio col refrain cantato dalla soubrette e dalle « girls » che introduce la tematica della rivista: Punto

e a capo!

Il successo se l’afferri può durare una giornata e più come pure una nottata tutta una mesata tutto un anno

ma però... è soltanto una vampata un bagliore che t'investirà poi precipitosamente

ti riduce a niente: si fa buio intorno a te. [...] Punto Punto

e a capo e a capo...

Punto e basta non ci sta!* Segue la prima

scenetta

È venuto

‘o trent’uno!

In casa Sardella si « festeggia » la notte di San Silvestro 1930-31. La madre Rosa, abituata « a privazioni durissime e ad attese sner-

vanti, siede accanto al tavolo rammendando calzini con un distacco esasperante » e « un’incondizionata rassegnazione » 5. Maddalena, la figlia, una graziosa ragazza di diciotto anni, non

riesce ancora ad accettare la loro misera condizione:

Che bella fine d'anno che facciamo. È sempre ‘a stessa cosa: così Natale, così Pasqua, così nascita, battesimo e morte! [...] Domani comincia l’anno nuovo...

Un altro anno

di miseria e privazioni! Per

noi non c'è luce, non c’è speranza di miglioramento °.

« Ingrugnita » guarda dalla finestra come se aspetta sse qualcuno. Arrivano infreddoliti da fuori Gennaro, il padre, e Pasquale, il fratello. Sono contenti di poter almeno portare, l’uno quattro porzioni di spaghetti al pomodoro e l’altro una bottigl ia di vino. Gennaro è disoccupato e malato, ma proprio in questo periodo festivo è più diflicile trovare un' aiure:

Quando arrivano questi giorni di festa, la gente impazzisce; come mozzi

se venisse

cata

dalla tarantola...

intolleranti,

non

ti stanno

a

S. È arrivato

’o trentuno

- Ogni anno

punto e da capo

25

sentire, si fanno negare al telefono... Se poi arrivi a bloccarne UNO, per la rabbia d'essere stato bloccato, diventa addirittura un OSSEsso, ti manda al diavolo con tali parole offensive che devi avere buon carattere come ce l’ho io per non finire in Questura”.

Maddalena vede arrivare il fidanzato. Si vergogna che la loro cena consista nel solo primo e vuol fare sparire i maccheroni, addirittura buttandoli nel gabinetto o dalla finestra. Il tragico della situazione si trasforma in una lotta comica in difesa del « cenone » di San Silvestro. Finalmente i maccheroni finiscono sotto il letto. Entra il fidanzato seguito da un facchino che porta un pacco. Dice di essere venuto a fare gli auguri e per portare « in casa il cibo... Prima colazione, pranzo e cena ». Alla famiglia Sardella non sembra vero, diventano raggianti. Ma poi le loro facce si allungano quando il pacco viene aperto: è una radio « cibo dello spirito »*. Il fidanzato manovra le manopole e la voce dello speaker annuncia la messa in onda del prossimo programma: Fra pochi istanti, in collegamento con il Teatro Nuovo di Napoli, con la partecipazione del Trio De Filippo, gli astri più fulgidi della schietta comicità partenopea, trasmetteremo i due tempi della rivista Ogni anno punto e da capo, di Tricot. Lo spettacolo ha inizio con una divertente satira del varietà, negli anni in cui questo genere cominciava già a declinare?. Lo squallido stanzone della famiglia Sardella sparisce e al suo posto appare il palcoscenico del Teatro Nuovo e comincia il primo tempo dello spettacolo annunciato. I primi quattro numeri sono effettivamente la parodia della « divetta eccentrica », del « cantante napoletano », della « cantante di voce (romanzista) », di « duettisti internazionali ». Sik-Sik, V’artefice magico, l’unico testo già pubblicato nella Cantata dei giorni pari (vedi p. 14) conclude il primo tempo.

Il secondo tempo dopo un canto iniziale è introdotto dall’intervista dell'Anno Vecchio da parte della Signora Stampa. Il Signor Millenovecentotrenta, riprendendo il tema della rivista, mette in guardia il 1931: Non s'illuda, il Signor Millenovecentotrentuno, non accetti per moneta contante tutte le belle accoglienze che gli stanno preparando, non si lasci confondere dalle fantare, dai fuochi d'artificio e dai ponti d’oro sotto cui lo fanno passare. Fra trecentosessantacinque giorni,

Cantata dei giorni pari

24

allo scoccare della mezzanotte, ci saranno per lui le stesse pedate nel sedere che ci saranno questa notte per me. « Il colpo mancino della fatalità », « Il caso

dannato », « La fortuna

destino », « L’anno

vecchio »... Di tutto

avversa », il « Bieco

si serve

l’uomo

per aff-

dare il suo quieto vivere all’ignavia! !° Seguono poi cinque scenette. La prima prende il nome dal suo protagonista, il marchese Eleuterio Benincasa, il « Cerimoniere », che con due giovani sposi americani entra nel classico ristorante napoletano con vista sul porto e sul Vesuvio. È un poveraccio che fingendosi marchese si offre di aiutare i turisti stranieri in difficoltà, li accompagna nelle loro visite per usufruire di un pasto gratis. Con uno stratagemma riesce a far sfamare anche la sua numerosa tamiglia. Mentre stanno al ristorante fa arrivare la moglie e i figli in gramaglie per la morte del capofamiglia. Vengono a chiedere l’elemosina al tavolo dove sta il « Marchese » che scandalizzato si rivolge al proprietario del ristorante — con cui però è d’accordo — per farli cacciare via:

Neanche da te si può più venire, Antonio mio, neanche da te! Bella figura facciamo con gli stranieri! Ogni passo un pezzente, ogni due un monaco cercante con la cassetta... Alle fermate dei « tramv », a quelle degli autobus... I ristoranti poi non ne parliamo: più pezzenti che clienti. Chiamate la polizia, chiamate i fascisti! (Alla donna) Fuori di qui! Non vedi che ti trovi in un ristorante pieno di stranieri? Sei italiana, tu? Italiana sei? !!

Immancabilmente i turisti si impietosiscono vedendo quei poveretti scacciati via e li invitano a mangiare a loro spese al ristorante. Così succede anche questa volta. Quando però la giovane coppia americana se ne va, Eleuterio si spoglia dei suoi panni di « marchese » e affronta la moglie « con auterovole intimità »: « Ho perduto mio marito: è morto!» Da un poco di tempo a questa parte lo dici con un tono che non si arriva a capire bene se

la perdita di questo tuo marito ti ha lasciata addolorata o ti ha fatto guadagnare un terno secco. La donna indifferente alle parole del marito pensa solo a impacchettare il contenuto dei piatti per portarli a casa. Eleuterio insiste:

8. È arrivato ’o trent'uno - Ogni anno punto e da capo

735)

Hai capito Mari’? Quel tono freddo, distaccato, con cui dici: « Ho perduto mio marito: è morto », senza un minimo di partecipazione... sentirselo dire continuamente, a un certo punto diventa

agghiacciante! *

Dopo questa scenetta che finisce sul patetico, segue uno sketch comico: La scommessa. Un dipendente napoletano di una grande ditta è mandato a Milano per punizione. In sei mesi con la sua fissazione per le scommesse ha trasformato la filiale di Napoli in una specie di sala corse. Ora il direttore della sede centrale di Milano ha tutta. l’intenzione

di guarirlo; sotto la sua « sferza si sono piegati gli elementi più ribelli » . Si sbaglia. L’impiegato non solo riesce a fargli fare una scommessa, ma anche a costringerlo ad abbassarsi i pantaloni, insinuando che ha una grande voglia sul di dietro. Vince così un’altra scommessa che aveva fatto con un collega prima di partire da Napoli. Il numero seguente è una scenetta sentimentale da teatro intimista. Carolina, una signora legalmente separata dal marito da dieci anni, spera ancora che lui torni da lei. La sua unica arma è un dolce che sa preparare solo lei. Il suo ex compagno viene a trovarla proprio per gustarlo ancora. La notte di San Silvestro Carolina è in trepida attesa di questa visita non del tutto disinteressata. Spera che sia la volta buona, che il marito riprenda i rapporti con lei. Rimarrà delusa perché l’uomo, dopo aver mangiato e brindato al nuovo anno, se ne va. Le chiede di rivelare il segreto della ricetta, ma Carolina sentendo una « gelosia feroce » per la donna « che le ha portato via il marito » !, rifiuta. Con la quarta scenetta, I/ pezzente, si ritorna al comico. Arturo e Ermete, due amici, parlano del teatro. Il primo voleva fare l’artista, mentre l’altro è diventato attore. Arturo chiede a Érmete, « un portento nel sapersi trasformare » !, di aiutarlo in una

certa faccenda. Ha sposato una donna anziana per i suoi soldi. Ora la moglie lo vuole lasciare perché invaghita di un giovane. Per seguirlo all’estero ha bisogno del passaporto con l’autorizzazione di Arturo. Quest’ultimo ha promesso di darglierlo in cambio di una forte somma. Non vuole però sembrare un ricattatore. Chiede a Ermete di trasformarsi in un vecchio mendicante lacero e malato e di passare dove ha appuntamento con la moglie. Gli regalerà i soldi davanti alla donna, e dopo gli elargirà una ricca percentuale. L’amico accetta. Effettivamente passa al momento pattuito. La didascalia descrive la perfezione del suo travestimento: « L’arte

del trucco ha reso impossibile a chiunque di riconoscere le vere sem-

26

Cantata dei giorni pari

bianze dell'attore Ermete Flavis sotto le spoglie di quel mendicante vecchio e paralitico » !". Recitando la parte del marito infelice per l'abbandono della moglie, e mostrando il suo altruismo Arturo dà i soldi al « poveretto », che scappa col « malloppo ». Pochi minuti dopo passa un altro mendicante, questa volta la didascalia specifica: « sotto un trucco approssimativo e banale possiamo riconoscere facilmente le sembianze di Ermete Flavis » !°. Arturo convinto di aver sbagliato a dare i soldi al primo mendicante, gli corre dietro inutilmente, gridando: « Fermate! Fermate il paralitico! » « senza badare al disorientamento di Gilda » !, sua moglie. Lo sketch finisce col gabbatore gabbato. Il quinto e ultimo numero è La vedova allegra, una parodia dell’operetta dallo stesso titolo. (Eduardo l’ha messo in scena come atto unico il 21 febbraio 1934, a Napoli, al Teatro titolo Sintetici a qualunque costo.)

Sanazzaro, col

Un « raccogliticcio gruppo di cantanti da strapazzo » ®, guidati dal Maestro, si presenta dall’impresario che sta allestendo proprio Ogni anno punto e da capo. Insistono per farsi assumere, sostenendo che nello spettacolo ci può essere posto anche per la « ‘ Cenerentola ’ delle arti » 2: l’operetta. L’impresario dice che è impossibile inserire in uno spettacolo già definito, un fuori programma che dura quasi tre ore. Il maestro prontamente risponde che la loro Vedova allegra, senza trascurare nulla, dura dieci minuti. L’impresario si arrende e li scrittura. Dopo questo prologo ha inizio l’operetta « sintetica », però sul palcoscenico ci sono due sedie che impediscono i movimenti degli attori. Per un continuo malinteso ogni volta che le portano via, altre ne vengono portate finché il palcoscenico viene invaso da sedie. « Gli attori cercano di liberare la ribalta, ammucchiando le sedie al centro del palcoscenico, formando così una improvvisata piramide ». Fanno credere al pubblico che tutto quel parapiglia era previsto. « E così, a conclusione del galoppo finale, per gli atteggiamenti plastici d’ognuno, quel miracolo d’equilibrio assume l'aspetto di un elaborato monumento ai caduti » ?, simbolo della morte di questo genere di spettacolo. Questa fine simbolica coincide con un dato autobiografico dell’autore. Segna, proprio alla chiusura di questa stagione teatrale, il distacco di Eduardo dall’avanspettacolo, dal varietà, che avevano contribuito alla sua formazione di drammaturgo. Ma in questo genere definito leggero vi era

già abbozzato l’umorismo tragico, il riso amaro di Eduardo;

basta pensare

a Sik-Stk, l’artefice magico, o alle scenette come È arrivato ‘o trent’uno o il Cerimoniere. Sotto la stessa comicità agra, nascondono denuncie sociali, mettono a nudo la miseria e gli espedienti della povera gente, una realtà che esisteva malgrado il « nazional-socialismo » di Mussolini. È da domandarsi se il pubblico del tempo recepiva «il messaggi o » di

9. Natale in casa Cupiello

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Eduardo, o se solo si divertiva e rideva dell’arte di arrangiarsi dei napoletani. Per Eduardo ogni genere teatrale ha una sua validità. Proprio con uno degli sketches più divertenti, Il pezzente, esprime la sua concezione del teatro e della vita. Fa dire a Arturo: « Il vero teatro è questa nostra vita, questo nostro cosiddetto ‘“ soggiorno ” sulla terra » 2. Lo dimostra poi con l’azione della scenetta. Arturo non vuole apparire quello che è veramente e recita nella vita, come effettivamente fanno tanti. Con l’episodio dei due pezzenti prova quanto sia difficile distinguere il teatro dalla vita, quando il teatro è concepito come lo intende lui. Raul Radice, recensendo Ogni anzo punto e da capo, rileva che in esso circola « una ricorrente, seppure discreta ironia ». Secondo lui «in uno spettacolo che in definitiva assume valore di capitolo autobiografico, tutto ricreato secondo una legge della memoria che non sempre, e non necessariamente combacia con le leggi della cronologia, l’ironia diventa un’arma di difesa dietro la quale si nasconde, non è difficile avvertirlo, uno struggimento più profondo. Il quale, si deve tuttavia dire, non impedisce a Ogni anno punto e da capo di essere spettacolo godibile, sapientemente colorito e ottimamente ritmato » ?4.

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Natale in casa Cupiello Tre atti, 1931-34. Rappresentato per la prima volta come atto unico dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo » il 25 dicembre 1931, a Napoli, al Teatro Kursaal. La commedia ebbe una laboriosa genesi che Eduardo racconta così nel 1936: «Questo mio lavoro è stato la fortuna della compagnia, dopo Sik-Sik, s'intende. Ebbe la sua prima rappresentazione al Kursaal di Napoli; allora non era che un atto unico, ed è tanto strana la sua storia che vale la pena di raccontarla. L’anno seguente, al Sannazaro, teatro della stessa città, scrissi il primo atto, e diventò in due. Immaginate un autore che scrive prima il secondo atto e, a distanza di un anno, il primo. Due anni fa venne alla luce il terzo; parto trigemino con una gravidanza di quattro anni! Quest'ultimo non ebbi mai il coraggio di recitarlo a Napoli perché è pieno di amarezza dolorosa, ed è particolarmente commovente per me, che in realtà conobbi quella famiglia. Non si chiamava Cupiello, ma la conobbi »!.

Il primo atto è ambientato nella camera da letto dei Cupiello. Sono le ore 9 del mattino del 23 dicembre. Luca dorme nel letto matrimoniale, la moglie Concetta con una tazza di caffè cerca di svegliarlo. Quando finalmente apre gli occhi, il suo primo pensiero corre al presepe. Chiede a Concetta di sciogliere la colla perché appena si alza vuol mettersi all'opera per prepararlo.

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Cantata dei giorni pari

La moglie lo accontenta, ma, donna pratica, non approva la mania del marito: « Io nun capisco c’ ‘o faie a fa’ ’stu presebbio... Na casa nguaiata, denare ca se ne spénneno e almeno venesse buono... » ?. Quando può si sfoga sentendosi una martire vicino a Luca: °O cielo m'ha vuluto castiga’ cu’ nu marito ca nun ha vuluto e nun ha saputo fa maie niente. In venticinque anni di matrimonio

mha nguaiata na casa. [...] Vedite si è pussibile: n'ommo a chell’età se mette a fa’ ’o presebbio. So’ ghiuta pe’ dicere: « Ma ch’ ‘o faie a fa? Nuie nun tenimmo criature... Me pare na spesa e nu perdimiento ‘e tempo inutile! »?.

L’incomprensione della moglie non disarma Luca. Anzi, forse è proprio nel presepio che cerca consolazione. 1 Abita con loro Pasqualino, il fratello di Luca. Dopo sette giorni di malattia si alza dal letto e non trova più le sue scarpe. Nennillo, il figlio un po’ mariuolo di Luca, credendo che lo zio dovesse morire da un momento all’altro, ha venduto non solo le scarpe ma anche il

suo cappotto. Luca, malgrado in famiglia nessuno lo tenga in considerazione, difende il figlio nei confronti del fratello, e poi se la prende con la moglie che lo vizia: « Per la galera lo stai crescendo » “ dice, ma sono parole al vento. Allora torna al presepe. Vorrebbe che almeno al figlio piacesse, ma la sua immancabile risposta è: « Nun me piace » 5. Nemmeno con un ricatto, promettendogli di comprare un vestito,

un paio di scarpe, delle cravatte, riesce a fargli dire il contrario. Questa volta indispettito lo caccia di casa, dicendo: « Iesce, vatténne ’a dint’ ’a casa mia! Va’ fatica’, va’, nun putimmo tene’ nu magnafranco dint’ ’a casa! » ©. Naturalmente interviene Concett a in difesa del figlio e dà uno spintone a Luca mandandolo addosso al

presepe. Il povero Luca si ribella, ma la discussione finisce per l’arrivo di Ninuccia, la loro figlia sposata. Il padre capisce subito che qualcosa non va fra lei e il marito. Inutilmente glielo chiede, le sue domande restano senza risposta. La giovane, come gli altri, lo ignora. Concetta e Ninuccia si mettono a parlare sottovoce, Luca al-

lunga le orecchie ma non può sentire niente. « Le due donne, senza mostrarlo, lo escludono dalle loro confidenze ». Luca protesta, la moglie di rimando gli dice: « Ma ch’ ‘he ‘a sape’? Che vuo’ sape??... Fa ’o presebbio... » 7. Ninuccia è decisa a lasciare il marito, Nicola, perché innamo rata di Vittorio. Il suo matrimonio combinato dai genitor i fu un errore. Ha una lettera pronta per suo marito con la quale gli annuncia la fuga. La madre gliela strappa di mano, minacciandola di non volerla

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più vedere. E comunque, è sposata e non può cambiare. Ninuccia presa da un accesso di collera, gira per la camera rompendo tutto quello che trova, butta per aria anche il presepe che Luca allontanatosi ha lasciato incustodito. Luca torna, vede quel disastro e se la prende con la moglie: « I figli non l’hai saputi educare! » 3. La donna disperata, sentendo sempre tutto sulle sue spalle, dopo aver pronunciato delle frasi sconnesse, sviene, lasciandosi sfuggire dalle dita la lettera. Ninuccia e Luca si spaventano, ma Concetta rinviene e si fa promettere sotto giuramento dalla figlia che non farà pazzie. A questo punto arriva proprio il marito di Ninuccia. Luca approfitta per sapere qualcosa da lui di tutto quel trambusto che sta succedendo. « Cu’ me può parla’... Chelle ’e femmene, sa’... Tu a me m’’o può dicere. Ma ch'è stato? ». Ma nemmeno Nicola si sbottona. Luca fra sé commenta: « Chisto è della stessa chenca! È una società... »°. Insiste perché gli sposi facciano la pace. Ninuccia, per mantenere la promessa

fatta alla madre, ricambia malvolentieri

il bacio del marito.

Il padre è soddisfatto, pensa che sia stato lui a rappacificare la coppia e li invita per l’indomani al pranzo della vigilia di Natale. Quando stanno per andare vede la lettera di Ninuccia per terra, l’alza, ne legge l'indirizzo e la consegna a Nicola, non immaginando certo il disastro che sta combinando. Il genero se la mette in tasca ed esce. Luca felice torna al suo presepio.

Al secondo atto siamo nella camera da pranzo. Il presepe troneggia da un lato della stanza. Concetta sta facendo i preparativi per la cena. Viene Nennillo accompagnato dal suo amico Vittorio, del quale non sa che è l’uomo che sua sorella ama. Concetta invece, che non lo ignora, lo fissa atterrita. Fra poco arriveranno sua figlia col genero. Gli fa capire che deve andarsene subito, ma quando sta per uscire, arriva Luca. Non gli par vero di poter mostrare a qualcuno il suo presepe e lo blocca. Il giovane per compiacerlo lo guarda distrattamente, finge di interessarsi. Luca tutto felice si vanta di averlo fatto tutto da solo:

E contrastato in famiglia. Qua non mi capiscono... Io faccio il presepio perché quando avevo i figli piccoli, lo facevo... Sapete era un’allegrezza... E anche adesso che sono grandi, io ogni anno debbo farlo... Mi sembra di avere sempre i figli miei piccoli... Sapete... anche per religione. È bello fare il presepio..."

Parla a Vittorio di Ninuccia, ignorando chi egli sia, del Natale quando ogni anno la sua famiglia si riunisce. Però le parole « ci

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Cantata dei giorni pari

riuniamo » non riescono a uscire dalla sua bocca e si trasformano in suoni sconnessi come: « Noi ci... rinu... rinu... Ci rinuniamo... Ci... riomeriamo... Ci... rinuneiamo... Ci... rinuniniamo... Ci... » !!, Questo

balbettare è molto significativo. Dimostra che il subconscio di Luca sente che quell'incontro familiare non rappresenta la vera unione di persone che si dovrebbero amare. Sentito che Vittorio passerà la vigilia in un ristorante perché la sua famiglia è fuori, lo invita a cena. Concetta, che prevede i guai che causerà la presenza di Vittorio, commenta rivolta al marito: « Puozze scula’!... Ne facisse una bona! » !. Povero Luca, non ne combina una buona. Infatti la situazione dopo l’arrivo di Ninuccia e del marito,

diventa tesa. I due uomini, Vittorio ostilità. Ma il peggio succede quando

e Nicola, si guardano con Vittorio, approfittando dell'assenza momentanea del marito e degli altri andati ad aiutare Concetta in cucina, nonostante la debole difesa di Ninuccia, la stringe fra le sue braccia appassionatamente. Nicola, non visto, assiste alla scena. Si lancia su Vittorio, gli dà

uno schiafto con violenza e lo invita a scendere a battersi con lui. Nicola prima di uscire, dà della ruffiana alla suocera, che arriva ton la zuppiera fumante. Concetta affranta, si siede al tavolo come paralizzata, mentre Ninuccia corre dietro ai due uomini per separali. Luca invece, come sempre ignaro di tutto, immerso nello spirito natalizio, arriva con un lungo tappeto sulle spalle che fa le veci di un manto regale, con una corona di carta dorata sulla testa. Lo seguono Nennillo e Pasquale, anche loro camuffati da Re Magi. La tela cala sui tre che inginocchiati davanti a Concetta cantano Tu scendi dalle stelle e le offrono i loro regali. Nel terzo atto troviamo Luca paralizzato e morib ondo

nel letto, circondato dai familiari e dai vicini. Il tragico scontro verificatosi tre giorni prima gli ha provocato un collasso. La didascalia spiega così la ragione del suo stato: « La realtà dei fatti ha piegato come un giunco il provato fisico dell’uomo che ber anni aveva vissuto nell’ingenuo candore della sua ignoranza » 8, Ora che è troppo tardi, tutti i membri della famiglia Cupiello mostrano a Luca l’affetto e la sollecitudine che prima gli avevano negato, malgrado egli li avesse mendicati in ogni maniera: la moglie lo veglia, la figlia gli prepara il brodo, il figlio scende anche venti volte al giorno per far commissioni. Ma tutto è inutile. Il dottore, che ben conosce l’infermo, lo spiega alla figlia:

9. Natale in casa Cupiello

Cara Ninuccia,

io ti conosco

Su

bambina...

Luca Cupiello è stato sempre un grande mondo un enorme giocattolo... quando giocattolo si doveva scherzare non più non ha potuto. L'uomo in Luca Cupiello vissuto già troppo **.

non

ti posso ingannare.

bambino che considerava il ha capito che con questo da bambino ma da uomo... non c'è. E il bambino aveva

Luca vedeva il mondo attraverso gli occhi della sua innocenza: quando l’hanno costretto ad accorgersi che non era come lui lo immaginava, si è sentito annientato. Il suo corpo ne ha subìto immediatamente le conseguenze, anche se il suo spirito continua a combattere per rendere il mondo più buono. È una lotta però contro i mulini a vento come quella di Don Chisciotte. Luca ad ogni costo vuole rappacificare la figlia col marito, il quale nel frattempo aveva lasciato Napoli, e riparare così la rottura che si era prodotta nella sua famiglia, che per lui è il suo mondo. Non fa che chiamare il genero, che viene avvertito telegraficamente. Invece, si presenta Vittorio sinceramente addolorato per ciò che ha causato. Luca « nel delirio della febbre » lo scambia per il marito della figlia e « con un lampo di gioia negli occhi » afferra la sua mano e riesce a dire con fatica: « Me credevo ca nun facive a tiempo... » e traendolo a sé « il più che può per parlargli con tenera intimità » continua: « Chillo me vo’ bene a me, Niculino, è overo? ». Vuole essere amato, ma per indurre ad amare gli altri attraverso questo amore. Difatti, sempre scambiando Vittorio per Nicola, unisce la sua mano con quella di Ninuccia, e per la prima volta da quando il male lo ha colpito « riesce a parlare con più forza e più chiarezza » e a dire: « Fate pace in presenza mia e giurate che non vi lasciate più. (E visto che i due non parlano, insiste testardo) Giurate, giu-

rate! » e prosegue: « Voi siete nati l’uno per l’altro. Vi dovete voler bene... Non fate prender collera a Concetta, che ha sofferto assai... » !,

dimostrando così di pensare anche alla moglie. La didascalia lo mostra « soddisfatto, felice di aver contribuito alla conciliazione di sua figlia con quello che egli crede sia suo genero » 1, ma ancora una volta è ignaro del trionfo del male. E questa volta vi ha contribuito lui stesso con la sua cieca innocenza. Ora cerca con lo sguardo il figlio. Chiede anche a lui il suo amore e la sua solidarietà, ripetendo la solita domanda: «Te piace ’o presebbio? ». Questa volta Nennillo, che secondo la didascalia era stato «il solo a comprendere tutta la tragedia » quando il padre aveva creduto di rappacificare i due sposi, e « sul cui volto passa il dolore, e di tanto in tanto la collera », questa volta risponde:

32

Cantata dei giorni pari

« Sì » !”. È l’unico a rendersi conto della sconfitta del padre. Il suo « sì » è il riconoscimento della bontà, dell'amore, dell’innocenza padre, ma con la consapevolezza che queste virtù difficilmente vano il loro posto nel mondo. Luca muore felice dicendo: « Che bel Presepe! Quanto è bello cioè la visione di quell’universo in cui aveva creduto, dominato l’amore. Ma è un miracolo visto solo da lui.

del tro» !, dal-

Eduardo, nel ’36, commentando il modo di comportarsi della famiglia napoletana che aveva ispirato Natale in casa Cupiello, scrive: « Il nostro sole fa risplendere persino le crude miserie della loro triste vita di tutti i giorni. Ed allora, per un bisogno istintivo di liberazione, vivono urtandosi, ferendosi a sangue, giungendo fino all'odio, perché il nostro sole ingigantisce anche la loro puerilità. Ma si adorano. Essi stessi non sanno quanto si adorano » !9. Tutto questo poi l’ha trodotto sapientemente nella commedia che inoltre ha arricchito con temi di portata universale. All'epoca in cui Eduardo ha scritto Natale in casa Cupiello ancora non si parlava di alienazione, di incomunicabilità, eppure Luca soffre di questi mali. La famiglia lo condanna all’isolamento e poi non capisce il suo volersi dedicare a qualcosa di così puerile come il presepe. Ma proprio l’incomprensione di tutti è la molla segreta che lo spinge a fare quel suo lavoro infantile, nel quale può mettere tutto il suo amore che gli altri respingono. Il presepe inoltre rappresenta la Sacra Famiglia, il prototipo unico e irripetibile dell'amore soprannaturale. Forse è proprio questo che attira Luca, perché vorrebbe che questo stesso amore unisse i membri della sua famiglia. Eduardo stesso, in uno scritto intitolato ‘O presebbio, spiega quel che rappresenta per l’innocente Luca il presepe: « Luca Cupiello, nell’infinita purezza della sua innocenza [...] costruisce il presepe. [...] Egli considera il suo “ presebbio ”’ grandioso, ricco, animato e lo stima ben degno del compiacimento benevolo del Figlio di Dio. [...] Con la stessa inno-

cenza del Poverello d’Assisi [...] Luca Cupiello compie il rito religioso.

Intorno a lui, però non si leva alto commosso, un coro di fraticelli ammirati... Intorno a Luca si va creando un’atmosfera indifferente e gelida, man mano che le montagne di cartapesta si popolano di capanne e di ‘“ casarelle”’ e diventa addirittura ostile quando, a opera compiuta, egli chiede timidamente alla famiglia un po’ di adesione » 20, Ma la famiglia gli nega questo riconoscimento: « Quei ‘no’ martellano il cuore di Luca e glielo fanno sanguinare, ma le sue mani esperte si agitano lo stesso ogni anno, puntualmente, nei giorni che precedono il Natale, fra cortecce di sughero, carta colorata, pennelli, chiodi, forbici,

colla cerbione » 21,

In questo rifiuto del presepio da parte dei familiari di Luca si è por-

tati a vedere un rifiuto dell’umanità intera, e cioè il rifiuto del mistero dell'amore che proprio il Cristo incarnandosi ha voluto portare agli uomini. Solo gli innocenti come Luca — condannati all’isolamento dal

9. Natale in casa Cupiello

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resto degli uomini — sembrano accettarlo, dimostrando così il fallimento per colpa dell'umanità del principale insegnamento di Cristo. Anche Eduardo in uno slancio di ottimismo finisce il suo scritto con un invito a far felici coloro che malgrado il male dilagante sanno ancora credere al bene. «Quest'anno quando Luca Cupiello ci mostrerà ancora una volta, sfiduciato il minuscolo, misero, ridicolo presepe che avrà costruito con tanta fede e tanta pazienza, diciamogli tutti in coro che solo per gioco affermiamo che la sua opera ci fa ridere, ma che, al contrario, ci sentiamo commossi di fronte a quella manifestazione di amore e di fede, e che il suo minuscolo presepe ci piace assai, proprio perché è miserello, puerile e semplice come quello di San Francesco. Vedrete, vedrete come lampeggeranno di gioia e si veleranno di lagrime gli occhi degli innumerevoli Luca Cupiello sparsi nelle case di tutto il mondo! » 2. L’ottimismo di Eduardo doveva essere stato ispirato da ricorrenze di Natale trascorse lietamente in famiglia — illustra il suo scritto con un disegno di Luisella, la sua amata figliola morta a soli dieci anni. Ma più tardi la sua visione di Luca muterà. Non crederà più alla sua innocenza. Nell'edizione televisiva del ‘77, toglie la battuta del dottore che giudica inevitabile la morte di Luca come conseguenza della sua innocenza di bambino mai cresciuto. In un’intervista a Mario Mignone chiarisce così la sua nuova interpretazione: « Luca muore e deve morire, anche se suscita pietà. [...] Egli è vittima di essersi prestato al giuoco di illusioni infantili. Il presepe che egli costruisce è una specie di droga (i Borboni ne costruivano di grandiosi) che paralizza la fantasia e distoglie dalla realtà del vivere quotidiano ». Luca diventa colpevole « perché non si dà conto della situazione precaria in cui si trova ». Il suo presepe diventa « il simbolo del popolo incosciente dei propri problemi » e come tale « simboleggia qualunque cosa che non ha nessuna attinenza con i problemi veri di un uomo e di un popolo ed è incoraggiata dalle autorità per tenersi in piedi » 73, Nel mondo dove il male sia umano sia sociale dilaga non ci possono essere innocenti, si diventa tutti colpevoli o complici. Si potrebbe ricordare, in proposito, la spiegazione che Eduardo darà quando, trascrivendo Napoli milionaria! in libretto d’opera, ne cambierà il finale da ottimista in pessimista (vedi p. 129). Era in buona fede quando vedeva Luca innocente ed è altrettanto in buona fede ora che lo vede colpevole. Sono i tempi che gli hanno fatto mutare l’interpretazione del personaggio. Natale in casa Cupiello è stato il primo capolavoro di Eduardo e gli ha aperto la via al successo. Giovanni Antonucci, riferendosi alle prime

scene della commedia, scrive: « È difficile trovare nella drammaturgia italiana di quegli anni, una scrittura teatrale così sapiente [...] nel fondere elementi umoristici, grotteschi, crepuscolari e drammatici, senza dimenticare mai il rapporto fra la parola e la sua trasposizione scenica » 4. Io sono convinta che questo giudizio si possa estendere a tutta la commedia.

34

Cantata dei giorni pari

to;

Ogni anno punto e da capo Atto unico, 1931 (inedito). Rappresentato per la prima volta il 6 aprile 1932 dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo », a Napoli, al Teatro Kursaal. Il manoscritto, che porta scritto sul frontespizio — dopo il titolo — « Pretesto breve di Eduardo De Filippo. Per l’audizione della casa Editrice Santa Lucia, 1931 », l’ho trovato insieme ad altri 13 inediti di Eduardo degli anni ‘30 nel « Fondo censura teatrale » recentemente rinvenuto in uno scantinato del Ministero della Pubblica Istruzione e che ora è conservato nell’Archivio Centrale di Stato. Eduardo, che aveva smarrito questo manoscritto, ha dato nel 1971 lo stesso titoto a uno spetiacolo rievocativo degli anni Trenta (vedi p. 21).

La scena rappresenta l’interno d’un « salone ». Il barbiere è assente mentre arriva un cliente per farsi tagliare la barba e i capelli. Alle sue ripetute chiamate risponde Filomena, la sorella di Rafele, il titolare del negozio: Avete ragione ma che ci volete fare. Quando si avvicina Piedigrotta, viene la distruzione della casa nostra, perché mio fratello

invece di pensare alla Bottega, scrive canzoni e ’nguacchia carte d’a

matina “a sera perché dice che lui è poeta. [...] Invece di pensare a

cose più serie... scrive canzoni... Figuratevi che ‘a mugliera, mia cugnata è asciuta ‘e cunto ‘a 15 giorni, deve partorire. Sta con la

levatrice vicino, e che ve saccio dicere quello che sta soffrendo, primo

figlio... E mio fratello non so’ fa passa’ manco p'a capa. Si non fosse per me che stongo dinto ’a casa, chella puverella avesse voglia e murì dint’o’ lietto*.

AI cliente tutte queste storie non interessano, insiste per essere servito. Ma nemmeno il garzone, arrivato nel contempo, può accontentarlo. È più bravo a suonare il mandolino che a fare il barbiere . Si limita ad insaponarlo vantando le sue prodezze: Io sono musichista e modestamente senza conoscere il petegramma faccio cose da pazzi con le recchie. Ma aggio miso la musica a na canzona del Principale che fa azzellire la carne ?.

Finalmente entra nella bottega Rafele, non degna di uno sguardo il malcapitato cliente, e si mette a discutere con la sorella che lo rimprovera. Cerca di zittirla dicendo minaccioso: « Ti ho detto tante

10.

Ogni anno punto e da capo

DD

volte, o Filomena, non trattosi il fratello in tal maniera. Io sono anziano per di più maschile e quinginquando di rispetto degno » *. Filomena non si mette paura e continua a dire la sua, mentre il

cliente protesta:

« Questo

è un reparto del manicomio » 4. Final-

mente, dopo la partenza della sorella, Rafele si avvicina al poveruomo

che impazientemente l’aspetta. Per rabbonitlo lo chiama prima conte, poi marchese e gli dice che prima gli taglierà i capelli e lo raderà solo dopo. Alla richiesta di spiegazione risponde: « Perché se vi faccio prima la barba è capace che quando ho finito di tagliare i capelli la barba è cresciuta un’altra volta » °. Il malcapitato cliente non immagina certamente la vera ragione che si cela dietro a questa affermazione. Rafele nemmeno comincia il suo lavoro che già lo smette. Sono arrivati Giorgetta la manicure, aspirante cantante e il poeta moderno. Si mettono subito a parlare di musica e di canzoni, Giorgetta accenna il ritornello d’una canzone nuova a tutti, meno il cliente addormentatosi nel frattempo, fanno il coro. Rafele approfitta per presentare la sua ultima fatica di poeta, la sua canzone musicata dal garzone che canta « con le mosse », per avere il parere del poeta. A questo punto si sveglia il cliente, fa una sfuriata contro i presenti, rimproverandoli di cantare invece di pensare a guadagnarsi da vivere:

°E finitela non fate il Pulcinella penzate a’ fa’ ’o barbiere. [...] Va a’ ferni' che cantanno cantanno vi murite ‘e famme. Tutte quante scrivene

canzone,

tutte quante

vonno

cantà, tutte quante

vonno

scri

vere poesia, accusì succede che ‘a povera gente s’adda sentere a’ canzone d'è panzarotte ‘a cutalette [la canzone mangiareccia di Rafele]. Finitela una buona volta. Nun vedete che per causa vostra la can-

zone è caduta, non è più quella di una volta®. Il poeta moderno ribatte:

si ribella a quest’ultima

affermazione

e gli

Questa frase ormai è diventata di moda. Si ripete per forza di abitudine. Tante volte l’ho sentita che non mi fa più impressione. Mi dispiace profondamente sentirla ripetere da voi che siete Napoletano. La canzone, egregio signore, l’ha creata il popolo. Questo popolo naturalmente non sa esprimerla in una forma corretta perché talvolta gli manca la cuitiva ma non può sottrarsi alla smania di comporre, di cantare perché nel suo cuore di Napoletano palpita la poesia. E allora noi poeti, padroni della letteratura facciamo il possibile per realizzare in versi il sentimento del popolo nostro.

[...] Avete detto

36

Cantata dei giorni pari

la canzone non è più quella di una volta. Il popolo si rinnova e con il popolo si rinnova il poeta.

Continua poi il suo panegirico rivolgendosi al popolo: Cantate non fate tacere questo sentimento che è nato con voi. Cantate, cantate. È Napoli che vuole così. Canzone significa popolo. Popolo significa Napoli, Napoli significa poesia!

Finalmente conclude indirizzandosi al cliente: « Convincetevi egregio signore. La canzone non ha fine: ogni Napoletano che nasce, nasce un poeta » 7. Proprio a proposito arriva Filomena e annuncia che la moglie di Rafele finalmente ha partorito ed è nato un maschio. Questa volta è il barbiere a rivolgersi al cliente: Egregio signore la canzone

non ha fine. È nato un altro conti-

nuatore delle orme paterne e adda canta’, adda canta’. Si nun canta isso chi adda canta’? È Napolitano, figlio ’e Napulitano verace. Il

padre poeta, è nato a settembre ’o mese ’e Pierrotte. Mo vaco a casa

e si nun ‘o trovo cantando le scioglie ’o vellicolo.

Tutti lo seguono anche il cliente insaponato, non si sa se con-

vinto o rassegnato.

Rafele poi torna in scena, togliendosi il trucco, parla al pubblico: Questo

è il popolo Napoletano.

Semplice

e buono,

la canzone

per loro non ha tramonto. Ogni anno punto e da capo. Vediamo quest'anno i poeti come hanno interpretato il sentimento di questo popolo 8. Mai così apertamente Eduardo ha espresso i suoi sentimenti verso il popolo napoletano, se non forse in Tommaso d’Amalfi trent'anni dopo. Ha sempre escluso dalle sue commedie la musica, il folclore della sua città, forse per timore

di essere

mal

interpretato,

ma

qui chiarame

nte afferma quello che la canzone napoletana rappresenta: il cuore e l’anima di Napoli. Ma anche ora, forse per pudore, si cela dietro ai lazzi e alle battute comiche. Solo nel finale, spogliandosi dalla finzione teatrale come il protagonista, manifesta apertamente il suo pensiero . Nell’insieme, l’atto unico è un lavoro senza troppe pretese, che ha interesse come documento.

11.

Requie all'anima soia - I morti non fanno paura

DI

41

Requie all'anima soia - I morti non fanno paura Atto unico,

1932

(1952).

Rappresentato per la prima volta col titolo Teatro Umoristico i De Filippo », 1932. paura, con la data 1952. Con questo al Piccolo Eliseo il 9 maggio 1952 recitazione.

Requie all'anima soia dalla compagnia « a Napoli, al Teatro Kursaal il 12 gennaio È pubblicato come I morti non fanno nuovo titolo viene messo in scena a Roma per la regia di Eduardo, ma senza la sua

In una misera stanza senza disimpegno, con la porta d’ingresso che dà direttamente sulle scale, infreddolita e stanca, sprofondata in una traballante poltrona imbottita, ravvolta in uno scialle nero, [...] vediamo Amalia, denutrita figura di donna sui cinquant'anni, la recentissima vedova di Gennaro Acampora, operaio manovale della Compagnia del Gas: quello che schizza salute dall’ovale in cornice. Accanto ad Amalia, meno infreddolita, seduta in un atteggiamento apparentemente indispettito, — come se la morte avesse dovuto chiedere permesso a lei prima di pigliarsi don Gennaro, — è la signora del quarto piano, che si è fatta in quattro per l’occasione, donna Carmela. [...] Sinceramente addolorati, siedono l’uno accanto all’altro due colleghi del defunto.

I presenti non riescono ancora a rendersi ragione della morte improvvisa di Gennaro, così pieno di salute, il cui funerale si è appena svolto. Sono tutti lì per consolare la vedova, ma dalle parole che si scambiano nella triste circostanza traspare che le lacrime versate non sono proprio per la perdita del morto, quanto per l’amarezza sui casi propri. Il portiere, unitosi a loro, ripete ben due volte che questo decesso è incredibile perché proprio pochi minuti prima che succedesse, Gennaro gli aveva promesso di saldare i suoi debiti pet l’acquisto di giornali e sigari. Il suo timore è che ora non vedrà più quei soldi. La vedova stessa che aveva già tentato di suicidarsi, rivolgendosi al ritratto-ingrandimento del marito, tradisce la vera ragione della sua disperazione: « Hai fatto una bella azione! Hai pensato solo a te! Non ti sei ricordato che eri ammogliato e che lasciavi una povera donna sola. Così hai lasciato Amalia? »?. Arriva inatteso Enrico, un commesso viaggiatore che affitta l’unica altra stanza della misera casa. Non ci abita regolarmente, ma solo quando viene a Napoli. « Batte i denti dal freddo. È in preda a uno

38

Cantata dei giorni pari

stato febbrile » *. Si butta su una sedia senza accorgersi di niente. Quando percepisce l’atmosfera insolita che lo circonda, chiede spiegazioni. I vicini cercano di fargli capire a cenni cosa è successo, ma non comprende. Si rivolge ad Amalia: « Donna Amalia, che succede? Perché piangete? Dove

sta vostto marito? ». La donna

« con voce

selvaggia da belva ferita » risponde: Non ci sta più... Non esiste più... Don Errico, abbiamo perduto il nostro angelo... Ci ha lasciati soli... Quanto vi voleva bene, e quanto

vi stimava. Diceva sempre « Tienitelo caro a don Errico... non ho visto mai un galantuomo più puntuale di lui nei pagamenti. Tienitelo caro... ». Quanto vi voleva bene! Non mi lasciate pure voi! Non l’abbandonate questa povera infelice che è rimasta priva di marito e di risorse. Marito mio...*.

Piangendo si accascia sulla poltrona. Pronunciate le frasi di circostanza, Enrico annuncia di voler andare a letto perché non si regge in piedi. Il dolore dei presenti si trasforma in imbarazzo poiché la stanza del locatario era stata trasformata in camera ardente e ci si trovano ancora i candelabri, il crocifisso, i fiori sparsi. Carmela, la vicina che già prima aveva preso nelle sue mani la situazione, risolve i problemi. Porta via Amalia da sua sorella e poi torna insieme al portiere per mettere

tutto a posto.

Quando finalmente Enrico potrebbe andare a letto, dalla paura non riesce ad entrare nella sua stanza. Si sente sollevato solo quando arriva il medico che aveva fatto chiamare. Dopo la visita cerca di trattenerlo e gli svela la propria preoccupazione di dover andare a dormire dove era stato un morto. Il dottore

gli racconta

di essersi trovato

in circostanze

simili:

aveva sentito lo stesso disagio, ma poi si era reso conto che « il morto non è altro che un uomo disarmato sul serio, è il combattente della guerra eterna, al quale la natura ha tolto per sempre la vera arma segreta: l’anima ». Quest’arma funziona attraverso « la furbizia, l’astuzia, la calunnia, la diffamazione, la vendetta, l’aggressione » 5 verso

il prossimo,

pertanto

veramente

pericolosi

sono

solo i vivi.

Lo invita ad andarsene a letto « felice » di trovarsi « solo con l’ombra di un disarmato » °.

Le affermazioni del dottore vengono provate dai fatti. Si sentono

delle grida e il medico viene chiamato perché due uomini si sono

accoltellati per futili motivi d’interesse. A Enrico a questo punto non resta che chiedere scusa al morto

“et lo .fa-rivolgendosi ‘al: suo*rittatto te

barricarsitin casa per

12.

L'ultimo Bottone - Tre mesi dopo

39

difendersi dai vivi. Non solo chiude la porta a doppia mandata, ma vi addossa come sbarramento due spalliere di letto e due comodini. È significativo che Eduardo dopo aver messo in scena questa commedia nel ’32, non l'abbia più ripresa fino agli anni Cinquanta. Requie all'anima soia mostra con troppo realismo le ragioni per cui i vivi rimpiangono i propri morti. Rivela come il dolore non era altro che un compiangere se stessi anche se nel caso specifico l’estrema povertà dei personaggi poteva offrire una giustificazione. Il pessimismo poi dell’autore sulla natura umana non si limita a questa già cruda denuncia ma arriva, come abbiamo visto, ad affermare che bisogna

temere i vivi. Pur mettendo questa tematica in una cornice umoristica, certamente il pubblico dell’epoca non poteva accettarla. È una commedia amara che trova meglio il suo posto nella Cantata dei giorni dispari, dove Eduardo giustamente ha deciso di metterla, col suo nuovo titolo I morti non fanno paura.

2)

L’ultimo Bottone - Tre mesi dopo L'ultimo Bottone, atto unico, 1932 (inedito), è rappresentato per la prima volta dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo » il 16 gennaio 1932, a Napoli, al Teatro Kursaal. Eduardo si è ispirato ai Milioni dello zio Petrof di Pedro Mufioz Seca (1881-1936) per scrivere questo atto unico, che non pubblicò nella Cantata dei giorni pari. Il manoscritto l’ho trovato insieme ad altri — come già detto in precedenza — nel « Fondo censura teatrale » conservato all'Archivio Centrale di Stato. Tre mesi dopo, atto unico, 1934 (inedito), è la continuazione dell’Ultizo Bottone. È messo in scena per la prima volta dai De Filippo il 4 febbraio 194, a Napoli, al Teatro Sannazaro.

Siamo in casa di Eduardo Bottone, marchese di Villafranca. Arriva il dottor Pietro Sciarretta, amico del nobiluomo, ma il cameriere non vorrebbe farlo entrare perché ha avuto ordine di dire a

tutti che il suo padrone non c’è. Il medico insiste per rimanere, il portiere gli ha detto che Eduardo non era uscito. Si mette a sedere vicino a un tavolo dove scorge delle lettere. Una indirizzata all’Onorevole Signor Procuratore del Re lo incuriosisce e la legge: « Quando questa lettera, dopo la mia morte, sarà nelle vostre mani, sappiate che volontariamente lascio questa vita per ragioni che non

Cantata dei giorni pari

40

Vostro v'interessano. Non accusate nessuno della mia morte. Mi dico

Af.° cadavere —

Eduardo Bottone... Marchese

di Villafranca... » !.

Pietro fa accorrere il cameriere e insieme buttano giù la porta del bagno. Trovano Eduardo che respira ancora. Aveva aperto il gas. Gli prodigano le prime cure e il giovane rinviene ma non è affatto contento di essere stato salvato. Dice all’amicoi E ti ringrazio tanto, tanto... chi ti aveva pregato... Non capisci, che salvandomi la vita, mi hai ucciso...

Spiega poi la ragione del suo suicidio:

Un debito di cinquantamila lire da dare oggi alle cinque... Debito d'onore... capisci? [...] Ho impegnato la mia parola d'onore... Le cinquantamila lire, le devo pagare ad un certo Trapani, che ’o cunosco buono... Chillo ‘e quatte

e mmeza stà ccà. E io comme

faccio,

che le dico? Posso mancare alla mia parola? Mai è caduta una macchia sullo stemma della mia famiglia... Che dirà la gente? Dove andrà a finire l'onore dei Bottone? ? A Pietro viene un’idea: Eduardo dovrà fingere di essere stato colpito da amnesia « parosistica »; così il creditore dovrà aspettare la sua guarigione per riavere i soldi, non essendoci alcuna carta firmata dal marchese. Il cameriere e il portiere faranno spargere la voce della malattia nel quartiere. Si presentano con valigia due morti di fame, richiamati da questa notizia. Dicono di essere rispettivamente lo zio Giacomo e il cugino Carlino del marchese. Pensano di poter trarre vantaggio dell’amnesia del padrone di casa: Chisto è nu Marchese...

sà comme

sta ricco?

[...] È sulo, nun

tene ’a nisciuno... Allora bo pensato che questo sarebbe stato l’unico mezzo per mangiare na quindicina di giorni di seguito... Come vedimmo che comincia a guarire, allora sparimmo...È. Non immaginano certo che il nobiluomo si trovi nelle loro stesse condizioni. Ma presto lo vengono a sapere da Giulia, la fidanzata di Eduardo, che invita Giacomo a pagare tutti i creditori del nipote. Lo zio ha pronta una sua storia, è appena tornato da Parigi perché il suo stabilimento di medicinali è fallito. Giulia che è ricca vorrebbe aiutare il fidanzato, ma sa quanto è orgoglioso. Ora però ha trovato il modo di non offenderlo. Mette a disposizione dello « zio » Giacomo tutta la sua fortuna e gli dà

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L'ultimo Bottone - Tre mesi dopo

4l

subito diecimila lire per far curare Eduardo e per pagare i primi debiti. A questo punto viene il marchese rimessosi dal tentato suicidio. Il falso zio lo circonda di premure e si rivolge al dottor Pietro supplicante: Dotto’, guarite mio nipote... se me lo guarite, io vi faccio una

statua d’oro... Come io ero venuto in Italia con l’idea di dividere le mie ricchezze con lui, e invece lo trovo in questo stato. Io sono ric-

perc ed ho già fatto il testamento dividendo le mie ricchezze a oro due...*. Eduardo, pur essendo sicuro di essere l’ultimo Bottone, vedendo questa manifestazione di affetto comincia ad avere dei dubbi: « Io avevo perduta ’a memotia veramente... »Î. I fatti sembrano confermarlo perché lo « zio » con grande generosità paga il primo creditore che si presenta.

Il dottore però non è troppo convinto uomini e parlando di Eduardo dice:

dell’identità

dei due

Potrebbe guarire da un momento all’altro con una forte emozione, che sò io... un incendio... un allagamento... Io per esempio ho pensato di preparargli un'emozione facendogli vedere delle guardie

che arrestano delle persone a lui care.

I due lestofanti intuendo l’allusione vanno intanto a rifocillarsi. Durante la loro assenza Giulia ritornata dalla cucina rivela a Pietro di aver dato lei i soldi a quei due che paiono veramente degli affamati per come si sono buttati sul mangiare. Ecco che arriva una guardia per elevare contravvenzione perché il cameriere, annaffiando i fiori, ha fatto cadere l’acqua in strada. Carlino, il falso cugino, rientrando dalla cucina vede il poliziotto. Convinto che sia venuto per loro perché è stato scoperto il loro imbroglio, accusa il compare per discopalrsi: « Per carità, io sono innocente... È stato isso... » 7. Su questo qui pro quo cala la tela. Quest’atto unico più che una commedia è una farsa, definita comicissima dai critici che la videro. Una delle recensioni nel 1935 così ne parla: « Motivo sempliciotto. Ma Edoardo e Peppino riuscirono in questa farsa a trovare un tono di così spassosa originalità, che il lavoretto fu ascoltato in mezzo ad una ilarità incontenibile e continua. Superbo fu Edoardo nel gioco del falso zio; inimitabile apparve Peppino nella smarrita fissità degli sguardi, nel terreo colorito del volto, nella voce che veniva di non so dove, dell’affamato che è anche perdutamente sciocco » 8.

Cantata dei giorni pari

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L’ultimo Bottone fece parte del repertorio del « Teatro Umoristico » fino al 1943, anzi nel 1934 Eduardo scrisse una continuazione dell’atto unico, intitolandola Tre mesi dopo. Di questo lavoro di Eduardo non è stato trovato, finora, il copione. Dalle recensioni dell’epoca si apprende che i protagonisti sono sempre gli stessi due imbroglioni famelici, Giacomo e Carlino. Il primo pieno di fantasia, organizza le imprese ladresche, mentre il

secondo, stupido e goffo, gliele rovina come

nell’Ultizzo Bottone.

Durante il loro vagabondare vengono per caso in possesso di lettere compromettenti di una signora. Si presentano da lei e chiedono, per restituirle, cinquemila lire. Quando però arriva il marito gelosissimo, i due si spaventano più della signora. Per impedire che le lettere vadano in mano al marito e perdere così le cinquemila lire, combinano un sacco di equivoci fino a consegnarsi senza volerlo nelle imani di una guardia. Così finiscono in galera ancor prima di aver consumato il reato. Renato

Simone,

nella

sua

recensione,

definisce

la commedia:

« Un

riuscito saggio di teatro farsesco, secondo la tradizione, con due tipi che sono già maschere in formazione. Ogni particolare, anche, secondario, ed ogni parola tendono all’effetto comico, e lo raggiungono, suscitando il riso ». Il critico, descrivendo i due fratelli De Filippo, Eduardo quale Giacomo e Peppino come Carlino, aggiunge: « Si può facilmente indovinare quale ilarità abbiano provocato la furberia ingenua e la delinquenza bonacciona del primo e il continuo sbalordimento ruinosamente attivo dell’altro »?. Forse proprio perché sia L’ultimo Bottone sia Tre mesi dopo erano commedie troppo legate alla recitazione dei due fratelli, e si reggevano sulla loro interpretazione, Eduardo non le ha incluse nella Cantata dei giorni pari.

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La voce del padrone - Il successo del giorno Atto unico, 1932 (inedito). La voce del padrone è rappresentata per la prima volta dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo », a Napoli, al Teatro Kursaal, il 21 gennaio 1932. Il manoscritto di questo spettacolo si trova nel « Fondo censura teatrale » nell'Archivio Centrale di Stato. Eduardo ammoderna l’atto unico e lo mette in scena con il titolo Il successo del giorno il 9 maggio 1952, a Roma, al Piccolo Eliseo. Ne cura la regia,

13.

La voce del padrone - Il successo

del giorno

43

ma non vi recita. Ho potuto leggere anche questo secondo manoscritto perché Eduardo gentilmente me lo ha prestato.

La « camera per l’incisione dei dischi » è pronta per la cantante Mariella Floramy che deve registrare Adduorzzete cu me!, una canzonetta in voga del maestro Tagliaferri. Il direttore della casa discografica attende impazientemente i membri dell’orchestra e la cantante. Il primo ad arrivare è il maestro direttore d’orchestra, che però non è quello atteso. Il direttore comincia a recriminare perché il maestro da lui scritturato non è venuto e ha mandato un sostituto. Si calma solo quando viene a sapere che questo nuovo maestro ha collaborato con Puccini. Viene Attilio, il professore di violino con la testa fasciata, ma non è accompagnato dalla moglie Mariella, la cantante. Al direttore che gli chiede dov'è, risponde:

Lasciatemi stare, non mi parlate di mia moglie se mi stimate... Stanotte ce simmo fatto manch’e cane... Non m’ha fatto chiudere occhio per quistione di gelosia, dice che io me l’intendo cu ‘a guardaporta... Vedete se è possibile... e quanno appicceco è arrivato al massimo ha pigliata na scupetta e me l’ha menata nfronte a rischio di uccidermi... Io sono venuto per non mancare, ma vi giuro che nun

me fido e tene l’uocchie apierte... e tengo ‘a freva ncuollo!.

AI direttore queste chiacchiere interessano poco vuol solo sapere se la cantante viene o non viene. Attilio lo ignora perché non si parlano. S’intromette il maestro per presentarsi e mettere in guardia il violino: « Badate di suonare bene perché io non sò doce ’e sale... Io sò sempe quel tale che a Milano menaje ne seggia ncapo a nu Professore d’orchestra » ?. Poco alla volta arrivano tutti: Camillo, il suonatore di tromba, con la tosse « convulsiva », Nicola, il clarino. Non sa se potrà suonare: « Io sto quà, ma non credo che pozzo servì... Mò proprio vengo da ’o dentista ’o quale m'ha tirato tre denti giusto davanti, e finché nun me fà ’o piezzo finto comme ’o sono ’o clarino? »®. Finalmente giunge anche Mariella. La lampada rossa per l’incisione si accende e si comincia. Il primo disco viene rovinato perché l’assonnato Attilio s'addormenta e si mette a russare. Poi è Nicola a sciupare un altro disco, tossendo. Ne rimangono solo due. Si riprende, ma si ripetono gli stessi incidenti. Finalmente riescono a incidere la prima parte dell’ultimo disco, arrivati però alla seconda, si sente uno squillo di campanello. Il direttore è fuori di sé. Scoprono che è la sveglia del maestro che

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Cantata dei giorni pari

l’ha comprata prima di venire. La tela cala sulle scuse del maestro. Nell’edizione del ’52 Eduardo fa alcuni cambiamenti. La canzone diventa Papaveri e papere. Nell'ultima incisione la cantante invece di attaccare il refrain: « Lo sai che i papaveri... » canta una canzone napoletana: Carzze” quanno te veco. Si uniscono a lei tutti i musicanti, perfino il direttore in un coro disperato e stonato. Più che una commedia, è uno scherzo divertente, imbastito sugli incidenti imprevisti e ameni che turbano l’incisione del disco. Un farsesco gioco scaturisce dalle zuffe e dalle impennate per un niente dei vari componenti dell’orchestra, la cantante e il direttore. Lo scopo è solo di far ridere.

14.

Una bella trovata

Atto unico,

1932 (inedito).

Scritta in collaborazione

con

Maria

Scarpetta,

detta Mascaria (1890-1949), Una bella trovata è rappresentata per la prima volta dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo » il 27 gennaio 1932, a Napoli, al Teatro Kursaal. Come « quadro comico » è stato però messo in

scena il 26 aprile 1931, a Napoli, al Teatro Nuovo quando i fratelli De Filippo x facevano parte della Compagnia Molinari. Il copione è il primo dei cinque, che Eduardo scrisse con Maria Scarpetta, da me rinvenuti nel « Fondo censura teatrale » dell'Archivio Centrale di Stato.

Siamo nella stanzetta da pranzo in casa di Pasqualino e Marietta,

sposati da appena tre mesi. Vive con loro Olimpia, la madre di Marietta, una donna energica abituata a comandare tutti. Non corre buon sangue fra suocera e genero, perché Olimpia, vedova di un colonnello, avrebbe voluto che la figlia sposasse un militare invece di un borghese che lei apertamente disprezza. Pasqualino quando può evita Olimpia e si chiude nel suo studio con la scusa di dover finire dei lavori. Alla suocera dà fastidio anche questo perché si sente offesa che il genero non le tenga compagnia. Lo fa chiamare dalla figlia. Svogliato e seccato il giovane viene e dice: « Voi dice che mi volevate ». Olimpia, giudicandolo ineducato, ironicamente gli risponde: « Embé... vorrei morire quel giorno che ci compiacete di chiamarmi mammà!... vorrei morire quel giorno! ». La risposta immediata del giovane è: « Mammà... Sapete che cos'è? Non mi sono abituato ancora » !.

14.

Una

bella trovata

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La suocera protesta che lui se ne sta nello studio e gli chiede se preferirebbe uscire, andare magari al teatro. Pasqualino replica che ci andrebbe volentieri insieme a Marietta per farla divertire. Olimpia si scandalizza: « E questo ci mancherebbe. Portare Marietta in uno di questi spettacoli moderni dove le donne arrossiscono di vergogna. A Pasqua con l’aiuto di Dio la porterete al cinematografo a vedere la Morte e Passione... » ?. Infatti i « suoi » princìpi morali sono molto saldi. Ha fatto educare la figlia dalle suore, tenendola in collegio fino a vent'anni, non ha mai permesso al proprio marito di uscire alla sera, e ora impone alla figlia di fare altrettanto con Pasqualino. Viene a salvare la situazione Alberto, un amico di Pasqualino, che si sente sollevato al vederlo. I giovani cominciano a parlottare allegramente. Questa volta è Olimpia offesa a ritirarsi nella sua camera,

sentendosi

esclusa dalla conversazione.

Pasquale, approfittando dell’assenza della suocera, dice alla moglie di voler uscire per un’oretta con l’amico. Marietta però si oppone: « No Pasqualì... non cominciamo... Pò me faie contrastà cu mammà... Tu lo sai... quella si dispiace assai quando tu esci solo ». Fa una controproposta che certo non arride al marito: « Se vuoi fare due passi... che ne senti proprio il bisogno [...] mi vesto ed andiamo a trovare zì Michele, “a cummara, ‘o nonno... he capito... Mamma dice che di sera, dobbiamo uscire sempre io e te... solo mai... o a tre... o a due... »£. Rimasto solo con l’amico, Pasquale si sfoga: Hai visto l’amico tuo che sta passanno? Ecco quà... questa è la vita che sto facendo da tre mesi... nun me fido cchiù. E tutto pé causa ‘e chella vecchia. Và a fennì c'a manne a fà friggere e buona notte... E già... la mando a far friggere... chella stà bbona... tene ‘a pensione

d’o marito

e pensa

essa a tutto...

Sarria arrivato

10... CU

chello che m'abbusco... Non è che io e a Marietta nun a vulesse bene... perché poi m’adora... è veramente un angelo... sarebbe un peccato. Ma capisci è una ragazza educata molto severamente, molto incasa..i* Giungono gli amici abituali di Olimpia con cui ogni sera gioca a carte. Un maggiore con la figlia e un capitano. Anche loro trattano con un certo disprezzo Pasquale, e ora anche Alberto, appena saputo che non è un militare. Quando gli ospiti si allontanano per andare ad ammirare nella camera dei cimeli le medaglie del colonnello che Olimpia ha fatto appena incorniciare, Pasquale chiede all'amico di scrivere una lettera anonima che denuncia il tradimento di Marietta. Chiama l’ordinanza

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Cantata dei giorni pari

del colonnello-che è rimasto in casa dopo la morte del suo superiore e gli dice di consegnargli la lettera quando la moglie verrà a portare il caffè. Dovrà dire che l’ha portata un ragazzo. L’uomo esegue e Pasqualino dopo aver letto la lettera, fingendo il massimo dello sdegno, si mette a gridare: « Io voglio far rivoltare la casa!... E brava... Brava... la mogliettina ingenua. La ragazza di collegio... Alberto mio... non m’immaginavo mai una cosa simile... ». Sopraggiunge Olimpia per zittirlo, ma il genero continua a urlare: « Ah... a voi vi volevo quà... Volevo voi per gridarvi tutto lo sdegno di cui è capace don Pasqualino... il povero borghese... colui che non è nemmeno caporale... ». La suocera è imbarazzata che i suoi amici sentano ed infatti arrivano tutti per vedere che cosa è successo. Ma Pasqualino imperterrito le dice porgendole la lettera: « Leggete questa lettera che ho ricevuto poco prima... Signore... Vostra moglie vi tradisce... state in guardia... Un amico ». E aggiunge:

« Niente,

niente. Non voglio sentir ragione, me ne vado », poi rivolto ad Alberto: « Mò ce ne scennimmo ». La trovata che doveva permettere a Pasqualino di uscire un po’ di casa, è invece l’incredibile realtà: Marietta con uno scatto scivolando in ginocchio, dice al marito: « Pasqualino mio, perdonami,

è stato un momento di debolezza! » 5. Cala la tela sulle risa di Alberto che invita l’amico ad uscire.

La satira sociale di Eduardo e di Maria Scarpetta prende di mira i militari che all’epoca si consideravano una casta superiore. Contemporaneamente critica la morale borghese che si manifestava col perbenismo e

si basava sulle apparenze: mariti che non potevano uscire soli la sera, mogli che dovevano essere dedite alla casa, come Marietta, che però, alla prima occasione, buttavano questa maschera, per poi riprendere tranquil-

lamente il ruolo della perfetta donna di casa. Risalta l'umorismo di Eduardo nell’ultima scena, col capovolgimento della situazione iniziale. Finale che ha delle analogie con Chi è cchiù felice ‘e me! La commedia è divertente, basato sul classico rapporto suocera-genero, reso più comico dal militarismo di Olimpia. In questo copione, come negli altri inediti di questo primo periodo, nati dalla necessità di rappresentare sempre nuovi spettacoli, molto è lasciato all’estro e all’improvvisazione degli interpreti. Spesso vi si trovano le annotazioni «a soggetto», «lazzi», a indicare i luoghi in cui era previsto l'intervento improvvisato dell’attore per arricchire la comicità della situazione.

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Gennareniello

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Gennareniello Atto unico, 1932. Rappresentato per la prima volta dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo » 1°11 marzo 1932, a Napoli, al Teatro Kursaal.

L’azione si svolge su un vasto terrazzo dove Concetta, una donna di mezza età, sta stendendo il bucato. Mentre lavora, si sfoga con

Anna, una giovane dattilografa, piuttosto spregiudicata, affacciata alla sua finestra. i Concetta si lamenta che deve mandare avanti la casa e provve- dere a tutto perché Gennaro, suo marito, vive al di fuori della realtà. ‘ Non pensa che alle sue strambe invenzioni e ultimamente si è messo pure a scrivere poesie durante la notte: Che ve pozzo dicere, io credo che n’altro poco ’o purtammo ‘o manicomio; stammattina ha fatto arrevota’ ‘a casa pecché nun ha truvato ‘e pantofole vicino ‘o lietto... po’ ha sbattuta ‘a porta e se n'è ghiuto dicenno: «Tu non mi hai mai compreso! »®. Raggiunge la madre il figlio diciottenne Tommasino, che è in età per star dietro alle ragazze, ma che invece pensa solo a mangiare in continuazione. Anche ora viene a reclamare qualcosa pet riempire il suo stomaco sfondato. La madre, che lo vizia, lo accontenta sempre. Vive con loro come pensionante, Matteo, un maestro di disegno, che malgrado non paghi da tre mesi una lira, vuole che gli si cucini la pasta in un modo speciale. Concetta lo vorrebbe mandare via, ma suo marito si oppone dicendo che gli fa pena. Però la ragione vera è un’altra, gli fa i disegni per le sue invenzioni. Infatti Gennaro rientrato nel frattempo gli chiede se ha terminato quello della sua ul tima ideazione: Dunque don Matte’, ci dobbiamo interessare molto di questa mia invenzione... mi devo arricchire e v’aggi ‘a fa° guadagna’ belli solde... [...] Ho

trovato

anche la persona

che caccia i soldi.

Don

Matte’,

diventeremo ricchi... ve faccio ferni’ ‘e i ‘a scola municipale ‘a mattina... e io fernesco ‘e stregnere ’a currea cu’ chellu poco ‘e pensione ca tengo”.

Gennaro ha invitato l’ingegnere Michele Aiello con la speranza che finanzi il progetto. Quando arriva, con l’ausilio del disegno di

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Cantata dei giorni pari

Matteo gli spiega in che cosa consiste il « Parapannabuco », l’apparecchio per evitare le bucature di gomma alle automobili: Ecco qua... Vicino alle ruote e precisamente ai due lati dell’asse, vengono applicate queste due spazzole, che sono una specie di scope di piccoli fili di acciaio... Quando l'automobile si mette in moto, mediante un semplice ingranaggio si muovono... L’automobile cammina e queste due spazzole avanti alle ruote fanno così... in modo che se c'è un chiodo, un pezzo di vetro qualunque viene spazzato immediatamente È.

Michele non segue con troppa attenzione perchè viene distratto dalla presenza di Anna che nuovamente si è affacciata alla finestra. Gennaro se ne accorge e lo fa capire all'ingegnere, ma la giovane interviene dicendo: Don Genna’, con me non c'è niente da fare... e poi io sono innamorata

di voi... e non

farei certamente

il cambio.

Aggiunge poi, rivolgendosi agli altri presenti, dopo che Gennaro ha sottolineato che scherzava solo: No... io dico seriamente... E quando siamo a questo vi dico che don Gennaro mi fa soffrire perché non mi ha voluto dare mai un bacio... * Matteo e Michele si uniscono ad Anna per convincere il povero Gennaro ad accontentarla. Si arrampica un po’ trepidante e la bacia proprio quando Concetta ritorna sulla terrazza. Scoppia una lite fra gli sposi, però dalle parole di Concetta traspare più il buonsenso della donna che la gelosia. Infatti cerca di ricordargli l’età che ha, ma il marito continua a illudersi, anzi, se ne va anche di casa. Matteo e Michele lo riportano indietro e seguitano a prenderlo in giro. Gli dicono che ha proprio l’apparenza di un dongiovanni, gli mettono un cappello in testa e un bastone in mano, lo incitano a tingersi i capelli e a frequentare il Trocadero. Concetta che, malgrado i borbottamenti, vuole veramente bene a Gennaro, viene in sua difesa: Ma vuie a chi credite ‘e sfruculia... ma ’o sapite ca io tengo ‘o ‘e ve piglia’ a pàcchere a tutt'e duie... Maritemo è n'ommo serio... Maritemo è d’’o mio e ghiatevenne! 5 core

16.

Noi siamo navigatori

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Gennaro guarda con riconoscenza la moglie. Ha vergogna di avvicinarsi, poi si fa animo, le si avvicina e canta: « Nun me dicite no... Uocchie che raggiunate... senza parla’... senza parla’ » 9. Parole che prima aveva canticchiato per galanteria ad Anna, ma che ora canta col cuore alla moglie. Concetta commossa lo guarda e i due si abbracciano. L’epilogo sentimentale del ritrovamento dei due vecchi coniugi è temperato dalla battuta comica di Tommasino che è meno tonto di quello che sembra: « Papà... te piaceva ’a signurina?... Si guarda e non si tocca! » ?.

Quest’atto unico ha chiare analogie con Natale in casa Cupiello. Il capofamiglia vive in un mondo di sogni come Luca. È Concetta (significativo che abbia lo stesso nome della protagonista della precedente commedia) che deve mandare avanti la famiglia. Perfino il figlio dispettoso ha lo stesso nome e si comporta in modo analogo. La differenza sta nello sviluppo successivo che Natale in casa Cupiello ha avuto: si è arricchita la trama, son diventati più complessi i personaggi. Gennareniello

è rimasto,

invece,

bozzetto

comico-sentimentale

che

era,

una testimonianza giovanile dell’arte di Eduardo. Lo sottolinea giustamente Renato Simoni, nel 1935: « È cara e buon’arte di commediografo quella che, senza dare nell’astratto, e anche senza tradurle in teatralità manifeste, fa trasparire le sensibilità tormentate, i moti indistinti dell’anima » È.

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Noi siamo navigatori Atto unico, 1932 (inedito). Scritto in collaborazione con Maria Scarpetta, è rappresentato per la prima volta dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo » il 12 aprile 1932, a Napoli, al Teatro Kursaal. Il copione si trova nel « Fondo censura teatrale » dell'Archivio Centrale di Stato.

La scena rappresenta un bar vicino al porto. S*intravvede il mare con qualche nave ancorata. Luisella con la figlia Concetta manda avanti il locale in assenza del marito Giovanni, rinchiuso da ben quindici anni in carcere per avere ammazzato durante una lite Naso ’e Barracche. l Il bar è frequentato soprattutto da marinai. Uno di questi, Gennarino, da tre mesi corteggia Concetta. La madre teme che il marito, che dovrebbe uscire da un momento all’altro dalla prigione, non

50

Cantata dei giorni pari

veda di buon occhio « nu spilapippe int’ a puteca », un giovane che gira intorno alla figlia. Messo alle strette da Luisella, Gennarino decide di non imbarcarsi il pomeriggio e di rimanere per sposare Concetta. Entrano Carmeniello e Salvatore, altri due marinai. Sono di casa nel locale perché la loro nave « ha avuto un piccolo guasto al motore », ma sta ancorata in porto da ben tre anni. Danno una mano a Luisella. Con la scusa però di aver messo il bar sotto la loro protezione spadroneggiano dietro al banco ogni volta che vengono. Non godono delle simpatie di Gennarino, che se ne va con Concetta. Rimasti soli, Carmeniello, innamorato della ragazza, confida i suoi timori all'amico: « Aggio appaura che chillu curiuso me sta luvanno a purpetta a dinto ’o piatto » !. Ma poi confessa di non aver il coraggio di dichiararsi. Salvatore lo incoraggia: E che marenaro sì? Ma te ne miette scuorno? Chist'è 0 mumento [...] parlece: quattro e quattro fanno otto: ‘onna Concetta io ve voglio bene e ve voglio spusà! Sott’ ’o colpo. Nun te perdere — iammo, fatte curaggio, io stongo ccà fora. E° capito — [...] Lanzete —

Chelle ‘e femmene quanno vedene l’ommo timido lo schifano — essere risoluto ?.

ja

Ritornata Concetta, Carmeniello, comincia a fare un discorso che

non ha né capo né coda; la ragazza lo interrompe per annunciargli il fidanzamento con Gennaro. Carmeniello si dispera, ma l’amico Salvatore trova un rimedio alla situazione e gli suggerisce un piano elaborato:

Tu te vuò spusà ’a Cuncettina? Te avvelenà. [...] Ti debbo avvelenare, chesto ‘a ‘e femmene fa effetto assaie te piglio na cosa planda, planda. Tiene mente, nuje facimmo accussì: quanno vide che essa sta p’ascì ccà fore tu te piglie na mezza pezzettella ’e sublimato dinto a tre dete d’acqua. Questo intruglio per fare effetto anna passà almeno cinche seje minute. Questo tempo basta per ottenere il tuo scopo. Essa te parle e tu faje avvededé che nun ‘a stente, po’ trabbale nu poco [...] Te faje ascì nu poco ‘e scumma d’ ‘a vocca... ’a mpressione nu poco — poi faje avvede che te venesse ’e dulure e te struzzille tuttu quanto — però nun cunfessà maje che te si avvelenato, si no faje na brutta figura. Io faccio ‘a spiata Quanno po jesce d’ ‘o spitale vide che chella lassa a don Gen-

narino e se sposa a te?.

16.

Noi siamo navigatori

51

Il giovane accetta il finto suicidio e lo ringrazia. Entra Mimì un loro amico. Anche lui ha dei problemi, ma il suo è l’inverso di quello di Carmeniello. È perseguitato dalle donne, tutte gli si buttano ai piedi. Anche ora sta scappando via da una. Cava dalle tasche dei calzoni, dal petto della giubba, fotografie, lettere, fiori secchi, capelli, medaglioni, « tutti ricordi ’e femmene... Ce ne stanno lacreme dint’ ’a sti lettere » ‘, dice. Salvatore e Carmeniello se ne vanno in farmacia. Mimì rimasto solo, viene avvicinato da Concetta che ha intuito quali sentimenti nutre per lei Carmeniello. Gli chiede di dissuaderlo di pensare a lei « pecché... al cuore non si comanda... Ch’aggia fa... Io voglio bene ‘a n’ato » °. Naturalmente Mimì crede che la giovane voglia bene a lui e già si dispera. Concetta non si rende conto dell’equivoco e se ne va, non senza prima raccomandargli di parlare al suo amico. Entra un uomo pallido dallo sguardo cupo. È Giovanni, il marito di Luisella. Si guarda in giro come per riconoscere il luogo e si mette a fissare Mimì che si spaventa. È uscito dopo tanti anni dalla galera, né la moglie, né la figlia lo accolgono con entusiasmo. Mimì vorrebbe addirittura darsi alla fuga, ma Giovanni glielo impedisce. Saputo che da tre anni frequenta il locale, vuol sapere da lui se conosce un certo Peppe ’o Sorice, amico dell’uomo che ha ammazzato. Ora vuole uccidere anche quello. Costringe poi Mimì a seguirlo perché gli vuol far vedere i tatuaggi che si è fatto fare in prigione.

Ritornati nel frattempo i due marinai dalla farmacia, Giovanni per un equivoco li scambia per amici dell’uomo che vuol uccidere, e li rincorre gridando: « Vuie site na maniate ’e carogne, v’aggia spaccà “e ccape a quante ne site! » ©. Viene arrestato con gran sol-

lievo di tutti, anche della moglie. Carmeniello finalmente può recitare la sua scena dell’avvelenamento. Non riesce troppo bene perché Salvatore non entra nel momento stabilito, ma Concetta viene presa lo stesso da rimorsi e ha paura che muoia veramente. Sopraggiunge Gennarino, che vedendola così abbattuta pensa che voglia bene a Carmeniello, decide di lasciarla senza darle alcuna possibilità di spiegarsi. Concetta scoppia in singhiozzi e si butta al collo di Mimì che arriva in quel momento dicendo: « Ah... io nun me fido cchiù... don Mimì, nun me ne fido cchiù » 7. Mimì che è all’oscuro di quello che è appena successo si dispera a sua volta: « Ma tu o vire... neh Sal. vatò... tu o vire... Io nun me voglio nzurà... nu, me voglio nzurà...

Ma quante vote l’aggia dicere! » £. La tela cala sullo svenimento di Concetta.

52

Cantata dei giorni pari

È divertente il continuo movimento, l’incessante andare e venire dei personaggi che insieme agli equivoci anima l’azione dell’atto unico. Certamente avrà suscitato le risa degli spettatori al Teatro Kursaal, ma nell'insieme è un canovaccio comico senza troppe pretese. Forse ha l’interesse del colore locale,, ma dà l'impressione di essere più di maniera, che vero. Sappiamo che in quella fortunata prima stagione del « Teatro Umoristico », i tre fratelli De Filippo, Eduardo, Titina, Peppino e Maria Scarpetta, « scrivono con la costante preoccupazione dello spettacolo che deve essere cambiato » 9. Non tutto poteva diventare un capolavoro. Ma tutte queste primissime fatiche hanno valore di documento, di testimonianza di come Eduardo e i fratelli si-siano fatti le ossa e abbiano saputo aprirsi la strada del successo.

10 Thè delle cinque Atto unico, 1932 (inedito). Scritto in collaborazione con Maria Scarpetta, è rappresentato per la prima volta dalla compagnia «Teatro Umoristico i De Filippo » il 23 aprile 1932, a Napoli, al Teatro Kursaal. Il copione si trova nel « Fondo censura teatrale » dell'Archivio Centrale di Stato.

L’azione si svolge nel salottino in casa del dottor Nicola Paturzo. Emilia, sua figlia, è tutta indaffarata a sistemare la stanza per un tè al quale parteciperanno alcuni nobili, pazienti di suo padre, invitati per far fare bella figura di fronte al suo blasonato fidanzato, il duca Ruggero di Trezzo. Si fa aiutare dalla cameriera che ha preso in prestito da una vicina. La donna rimarrà poi per annunciare l’arrivo degli ospiti di sangue blu.

La sua graride preoccupazione è di non sfigurare e non vuole assolutamente che il fratello Gennaro, che veste e si comporta come un ragazzaccio, sia presente al ricevimento. Gennaro, che è molto

dispettoso, si piazza in salotto e non vuole andare ‘via finché anche

lui non avrà il suo tè. Arriva in aiuto di Emilia suo padre, che, pur volendo bene al figlio, è deluso del suo comportamento: Il ragazzo è stato un poco ottuso di mente, e non è colpa sua... La natura ha distrutto il mio sogno che era quello di farne un medico

stimato e quotato come lo sono io...

Gennaro alle parole del padre ha la risposta pronta:

17.

Thè delle cinque

55

E già... me mettevo ‘a fa ’o miedeco... Accussì tenevo pur'io ll’aneme d’’e muorte ncopp’’a cuscienza comme ’e tenite vuie. [....] Io ve sento ’e notte... Vuie nun putite durmì pecché veneno ‘e spirite attuorno ‘o lietto.

Questa volta è il padre a perdere la pazienza e a cacciarlo via: No... mò se ne deve andare...

mò, mò e non

lo voglio vedere,

se nò oggi non rispondo di me... Disutile... Vagabondo... Dice che deve fare il fuochista? Ma che fai per sapé! Botte, botte, solo botte!... Non ti permettere di fare invenzioni oggi, che ti spacco la testa... Va, vattene fora).

Ma nemmeno il dottor Paturzo è all’altezza degli ospiti che devono arrivare. Infatti è andato a comprare « freselline e tarallini freschissimi con la sugna e senza » e vuol offrire « quattro ghiacciate di limone e di caffè », anzi dice alla figlia di far grattare il ghiaccio: « costa di più », ma « in queste occasioni... non si bada a spese... » ?. Emilia è scandalizzata che voglia offrire questi rinfreschi borghesi a un « five ’o clock », ma naturalmente pronuncia come è scritto dimostrando di non essere per nulla superiore al padre. Arriva il primo ospite, il conte Febo di Colletorto, paziente del dottore. È stato invitato prima degli altri per poter consigliare i Paturzo su come comportarsi. Mentre i tre conversano, Gennaro dalla finestra, senza essere visto, passa i bengala e poi li fa partire facendo fare il botto seguito da fischio. Questi rumori fanno equivocare il dottore, che sa che il conte soffre di stomaco. « L’avete

fatto voi? Che compitezza, eh? Che Annunciato dalla cameriera che ne fidanzato di Emilia, il duca Ruggero. Nicola guida la conversazione, ma sia fare delle gaffes: Conte

NicoLA Duca EmiLia Duca NicoLa Duca

signorilità... » ?. storpia il nome entra l’atteso Il conte dietro preghiera di lui sia la figlia non fanno che

Io ho sentito molto parlare del suo illustre casato. Duca... Dicevo al sig. Dottore, poco prima, che mi pare che il suo albero genealogico abbia origine nel Piemonte. Avanti... Mia madre discendeva dal ramo dei Medici di Toscana. Ah... mammà era dottoressa?

Discendeva dal ramo. Come le scimmie. No... no... macché Signorina... Discendeva dai Medici, che vissero a Firenze nel secolo XV...*

54

Cantata dei giorni pari

A questo punto il duca accenna di voler parlare a quattrocchi col dottore, che subito pensa che vorrà « parlare d’interesse... E la stretta dei sacchi », dice sottovoce alla figlia. Si allontanano da una parte della stanza, e il duca comincia un discorso che non pare troppo chiaro al principio: Come vede, io non ho badato alla differenza di classe, e bo chiesto senz'altro la mano di sua figlia... sfidando l’ira di tutta la nobiltà italiana...

Nicola esprime la sua gratitudine e il giovane prosegue: È perciò che lei, come medico... mi deve aiutare... [...] E aiutando

me, lei si coopera a salvare l’onore dell'intero casato dei Duchi di Trezzo. [...] Un mio cugino... si è testé ucciso per ragioni finanziarie... debiti di giuoco... circa due milioni... [...] È stamane si è im-

piccato... nel suo palazzo... Ora siccome questo mio nobile parente era un po’ ammalato... un poco giù di salute...

Finalmente arriva al nocciolo della questione:

Noi congiunti abbiamo

pensato

di mascherare

con... con un falso certificato medico...

questo

capisce, Dottore?

suicidio (Marcato)

Quando non c'è sangue... si può mascherare la causa che ha portato la morte... Io vorrei che lei, nel certificato dicesse che il sig. Barone

di Trezzo, è morto di malattia... come vede, una cosa da nulla.

Il dottore accenna a un « Ma... ». Il futuro genero non lo lascia

proseguire e aggiunge:

Caro suocero... io la ringrazio del fastidio... Grazie, ma dato che

nella nostra famiglia accadono sempre di queste cose per la passione del giuoco... lei avrà spesso di questi... diciamo piccoli disturbi... Ecco sono stato lieto che il padre della mia fidanzata fosse medico... 5

Il discorso viene interrotto dall’arrivo del barone e della baronessa Stelo. Sono in ritardo perché la nobildonna è patronessa del Comitato per l’assistenza dei poveri infermi e ha dovuto fare il suo solito « giretto per gli ospedali ». È stata trattenuta da uno dei malati. Gennaro intanto continua a fare i suoi dispetti: prima fa andare

via la luce, poi si presenta semisvestito in salotto con grande disappunto del padre che dicendo: « è un gran sportivo », cerca di mandarlo via a « cambiarsi », ma poi è costretto a fare le presentazioni.

17.

Thè delle cinque

55

Entra la cameriera per annunciare che le guardie stanno nell’appartamento vicino e ora vengono anche da loro: « Vanno truvanno nu certo Salvatore Esposito ch’è sagliuto ccà ncoppa, n’assassino che se fa passà pe nobile » °. Emilia pensa subito al fratello, invece è proprio il suo fidanzato nobile che cercano. Infatti il « duca », dimenticando le sue origini astigiane, in perfetto dialetto napoletano chiede: « Ditemi una cosa... c'è un’altra uscita? Pe d’o s’esce? Sulo pe sta porta ccà? Sanghe d’ ’a Marina... ce sta n’ata porta? ». Scorgendo poi la finestra, aggiunge: « Ah... pa finesta, nè-ca i’ ccà ncoppo non ce so venuto, vuie a me nun m’avite visto » 7, e fugge. La tela cala sulla battuta dispettosa di Gennaro che uscendo dice: « Col latte, col cognac, col limone » f. Dopo Natale in casa Cupiello, Gennareniello, ritroviamo anche qui il figlio dispettoso mezzo scemo, che all’epoca veniva interpretato da Peppino. Questo personaggio nasce dalla diretta osservazione di Eduardo e di Peppino che, seduti al Caffè Gambrinus, in piazza San Ferdinando, studiavano « il comportamento, le piccole manie, il modo di esprimersi, il vanitoso quasi clownesco atteggiarsi » dei vitelloni cittadini. « E tornando a casa o in teatro» — secondo la testimonianza di Magliulo — ripetevano « quei gesti, quegli atteggiamenti, come una lezione da mandare a memoria. Soprattutto Peppino, ‘ mimo ’ congenito e versione attualistica della tradizione pulcinellesca », riusciva «a ricostruire un ‘tipo’ che già è divenuto famoso: quello del giovinastro — ‘ figlio di mammà o cafone suburbano — becero e ottuso, che della propria ottusaggine usa ed abusa non solo per difendere la propria impossibile tranquillità ma per offendere, in modo addirittura cattivo e spietato, quella degli altri » ?. È quanto succede anche in questa commedia dove Eduardo e Maria Scarpetta questa volta fanno una aspra satira della piccola borghesia così piena di ammirazione, di rispetto e di adulazione verso la nobiltà. Quasi con crudeltà nei confronti della povera Emilia illusa di poter sposare un blasonato, creano il colpo di scena finale. È interessante anche la trovata dei certificati di morte falsi richiesti dal nobiluomo finto, ma delinquente vero, per i membri della sua « famiglia ». Fa pensare ad una allusione >

alla camotra,

che certamente

sarà esistita anche

allora.

Nel complesso Thè delle cinque è una commedia divertente e sarebbe da augurarsi che Eduardo,

avendo

la mettesse di nuovo in scena.

ora copia del manoscritto

ritrovato,

56

Cantata dei giorni pari

18.

Cuoco

della mala cucina

Atto unico, 1932 (inedito). Scritto in collaborazione con Maria Scarpetta, è rappresentato per la prima volta dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo » il 20 ottobre 1932, a Napoli, al Teatro Sannazaro. Il copione si trova nel « Fondo censura teatrale » conservato nell'Archivio Centrale di Stato.

La cucina del barone Croce è in pieno subbuglio. I tre sottocuochi, Salvatore, Gliummariello e Peppino discutono col resto della servitù del licenziamento su due piedi di Monzù Aniello, il capocuoco, e del prossimo arrivo del suo sostituto. Conoscendone la bravura non riescono a accettare che sia stato mandato via per avere sbagliato la besciamella. Sono anche sorpresi e meravigliati delle raccomandazioni del maestro di casa fatte a uno di loro: « Peppino, oggi atriva il cuoco nuovo, mi raccomando, trattatelo come un mio fratello, il signor barone ci tiene. Guai se mi fate sentire qualche lagnanza » !. Il personale di cucina decide di fare proprio il contrario degli ordini ricevuti, dichiarando guerra al nuovo capocuoco: Ma chillo Monzù Aniello torna... non nce penzate... torna... ’0 facimmo turnà nuje. Tanta dispiette avvimma fa ‘a stu cuoco nuovo che se n’adda 1 pe disperazione. Comme arriva se n'adda 1°.

Ratificano la risoluzione con un solenne giuramento. L’arrivo di Gennarino, il nuovo capocuoco, è salutato con freddezza. Non gli rivolgono nemmeno la parola, gli voltano le spalle e si mettono a parlare fra di loro. Non sono convinti che sia un vero cuoco per la sua magrezza: Guarda Ilà gué... vedite comme

sta sicco... che affidamento

te

pò dà nu cuoco sicco, e che addà tuccà chisto nun s'arrobba manco

na mullica ’e pane}.

Tutti lo fissano con aria di commiserazione, e decidono di sottoporlo a un esame culinario. Scoprono così che prima di essere assunto dal barone era cuoco nella Trattoria « Naso ’e cane ». Pensano che il loro padrone sia uscito di senno, non potendo immaginare come Gennarino possa cucinare i piatti sofisticati della casa. Peppino passa al piano di guerra e si presenta al nuovo capocuoco

come capocamotra per incutergli timore:

18.

Cuoco

della mala cucina

Amico, voi non ci conoscete.

57)

Qui vedete è come se fosse riunita

una onorata società. Io sono il caporione, per farla breve, io sono il protettore. Dite perché? Perché so quappo. Qualunque cosa succede l’omertà v’impone di tacere — Omertò significa persona dotata di austera saggezza — chiunque affiliato deve umilmente sottostare alla volontà dei superiori e alla legge interna di non rivelare ad anima viva le mosse, le sommosse e le imprese notturne del sodalizio... Se no si mette il mordacchio cioè a questa persona turbolenta si fa tacere per sempre *. Interrompe il complotto il maestro di casa, che porta il menù del giorno scritto naturalmente in francese. Gennarino ovviamente non ci capisce niente, ma gli viene tradotto. Prima di andarsene, il maggiordomo raccomanda di nuovo di non fare pettegolezzi e di obbedire al nuovo capocuoco. Gennarino incoraggiato dalle sue parole lo richiama per chiedergli se veramente Peppirio è un guappo. La risposta pronta è: « Qua non ci sono guapperie, don Peppino mi farà il piacere ‘e nun fa ’o cammutristo, se no lo licenzio senz'altro » 5. Pochi minuti dopo i tre sottocuochi vengono chiamati a rapporto dal barone molto inquieto per il loro comportamento. Rincuorato, Gennarino si mette a comandarli a bacchetta, ma la besciamella, la salsa preferita del padrone di casa la deve preparare lui. Si fa dire quali sono gli ingredienti e poi li butta tutti insieme nella casseruola. Su richiesta del barone manda un assaggio di questa « fetenzia », che con grande sorpresa di tutti non solo viene lodata, ma Gennarino stesso è chiamato dal barone per ricevere di persona i suoi complimenti. Il personale di cucina rimane allibito. Il mistero è chiarito da Monzù Aniello, l’ex capocuoco, venuto a ritirare dei coltelli che ha dimenticato: Ma comme vuie nun avite capito ancora Monzùà Gennarino pecché stà ccà? Monzà Gennarino tene na bella mugliera, ‘o barone ’a cunuscette, le fuie simpatica®.

Gennarino ritorna tutto ringalluzzito dallo studio del barone. Vedendo che i suoi atuti stanno conversando invece di lavorare li

riprende: « Neh, neh, guagliù... e che significa questo? vulite faticà o no? », e rivolto all’ex capocuoco: « Monzù Aniè, aggiate pacienza mo è l’ora d’ ’a colezione e io dint’ ’a eucina nun ce voglio a nisciuno. °E secondarie se distraiene e ccà... avimma marcià ». Monzù Aniello gli dà ragione e si congeda dicendo: « Lavotate, lavorate. Voi siete il re dei cuochi! E chi ve scozzecu cchiù ’a ccà! Guagliù, stateve buone » ”.

58

Cantata dei giorni pari

Gennarino

tutto orgoglioso si rivolge ai suoi cuochi senza ren-

dersi conto del doppio senso delle sue parole: Ob, l’avite capito finalmente io pecché stò ccà. Monzà Aniello ha ditto buono: io stò ccà pecché sono il re dei cuochi. [...] Sono il dio della besciamella, perciò il barone m’ha chiamato. [...] ’E pranzo

fine ’o saccio fa sulo io... perciò ‘a ccà nun

me

smovene

manco ‘e cannunate. Ogni frase del capocuoco è accolta dagli « Ah, mbè! » significativi ora degli uni ora degli altri. Ma l’ultima: « E ’o barone ha ditto che dimane dint’ ’a sta casa impiega pure a muglierema coma dama di compagnia », riscuote il core degli « Ah, mbè! »® di tutti su cui cala la tela. La trama della commedia è molto esile. Tutto ruota intorno al «sicco» Gennarino, interpretato all’epoca da Eduardo la cui magrezza risulta dalle cronache. Gennarino è il convenzionale personaggio del « cornuto », le cui disavventure sono note a tutti eccetto che a lui, e che si bea dei privilegi ottenuti, credendoli meritati. Sicuramente la recitazione di Eduardo avrà dato più corpo al lavoro, che è intramezzato da lazzi e da episodi farseschi, come, per fare un esempio, la scena movimentata di gelosia della moglie di Peppino. La donna rincorre il marito con un coltello perché corteggia una delle cameriere invece di pensare a lei e ai figli.

19),

Il dono di Natale Atto unico, 1932. Tratto dalla novella The Gift of the Magi di O. Henry, pseudonimo di William Sidney Porter (1862-1910), l’atto unico è rappresentato per la prima volta il 4 febbraio 1934 dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo », a Napoli, al Teatro Sannazaro.

Nella camera da letto poveramente ammobiliata due giovani sposi, Emilia e Attilio, si scambiano delle battute dalle quali si deduce quanto si vogliono bene. Sono sposati da appena tre mesi. Attilio, disoccupato, pensa che è stato un egoista a voler dividere la sua miseria con Emilia, ma la giovane si ribella: « Atti’, mo’ t’ ’o dico pe’ ll’ultima vota, ’sti parole nun ’e voglio sentere cchiù. Io sapevo chello che facevo, nuie quanno facevamo ’ammore tu nun tenive l'automobile, tu stive cchiù disperato ’e mo » !. Lei è fiduciosa nella

19.

Il dono

di Natale

59

vita: « Sulo ’a morte nun c’è rimedio. E po’ basta che stammo ’nzieme e ce vulimmo bene tutto è niente » ?. Domenico, il loro padrone di casa, oltre a essere povero come loro, non ha la fortuna di avere una moglie comprensiva come Emilia. Viene a sfogarsi da Attilio: Beato voi, avete una moglie invidiabile. Guarda Ilà, nun se vede e nun se sente. Invece, mugliérema va truvanno chi ll’accide. Io se mi trovo

in queste

tristi condizioni

è stato

per causa

sua,

e già,

perché dopo due mesi sposati ebbi il posto di ragioniere a Milano: non ci volle stare, Milano non le piaceva, faceva troppo friddo, la nostalgia di Napoli... ‘a sera quanno me ritiravo ’a truvavo chiagnenno,

uno lamiento,

tutt’ ’e tre mise che stettemo Ila... [...] Dun-

que, me facette tanto ’na capa: pane e cipolle ma ‘o paese mio. Mo’

si deve contentare... nun m'ha dda zuca’ l’esistenza. Perciò vi dicevo voi siete un uomo fortunato. Mentre Sofia, la moglie di Domenico, si preoccupa di non poter avere un pranzo decente per la vigilia di Natale, e naturalmente rimprovera il marito, il cruccio degli sposini è di non poter fare un regalo l’uno all’altro. Emilia, piangendo, prende una drastica decisione, si farà tagliare i lunghi capelli per venderli e col ricavato comprare un regalo per il marito, anche se Sofia ritiene che non valga la pena di fare un sacrificio così grande: Fatene a meno,

sentite a me, gli uomini non apprezzano

niente.

Io pure, il primo anno sposati, regalai a mio marito un paio di pantofole, ‘a matina c’’e regalaie, ‘a sera m’’e menaie appriesso*. Mentre i due giovani sono usciti, ognuno

per conto

suo, viene

il cavaliere Cerenza per parlare con Domenico. Vuole offrire un posto di segretario a Attilio, ma le sue vere intenzioni sono rivolte verso Emilia. Il padrone di casa, conoscendo bene la giovane, vuol giocare un tiro a questo uomo ricco che pensa di poter comprare tutto con i soldi: La ragazza è abbordabile, però se non vi regolate come dico io, non ne cacciate niente. Voi mo’ aspettate qua, chella sta tanto allegra perché s'è andata a tagliare i capelli, e la trovate proprio di buon umore,

io vi presento

e me

ne

vado.

A

questo

punto

vot dovete

essere all'altezza della situazione; appena rimasti soli la dovete commuovere, poi siccome è una donna che adora l'avventura, dite che siete venuto per uccidere il marito; lei questo va trovando... Non vi

60

Cantata dei giorni pari

risponderà, farà una faccia di collera, allora è il momento buono, allora senza fa né alto né basso l’afferrate e Ile date ’nu muorzo vicino ‘o braccio: adora l’uomo violento *. Il cavaliere fa esattamente quanto gli ha consigliato Domenico quando Emilia ritorna. Si prende un fortissimo schiaffo dalla giovane e viene cacciato via brutalmente. i Attilio arriva proprio in questo momento. La moglie appena lo vede si calma, gli chiede però perdono di essersi fatta tagliare i capelli. Gli confessa che l’ha fatto per comprargli un regalo: «Io te voglio bene, Atti’, e tu sulamente può capi’ ’stu mumento ccà. °E capille crisciarranno » ‘. Il marito senza poter aprire bocca le porge il suo regalo: dei pettini di tartaruga e oro per tenere i capelli. Emilia con il groppo alla gola gli dice:

Ma i capelli cresceranno presto vedrai. Però ho avuto la soddisfazione ‘e te fa’ “nu regalo. Tu l’orologio di papà tuo nun ‘0 putive maie mettere pecché nun tenive ’a catena? Eccola qua. Te l’ha regalata tua moglie. Attilio mio, buon Natale.

Attilio osserva la la moglie, e le dice: « taruga e oro mme so’ Su questo assurdo

catenina Grazie, vennuto scambio

commosso, poi guarda teneramente ma io pe’ t’accatta’ ’e pettene ’e tarl’orologio »7. di regali, cala la tela.

In The Gift of the Magi, come in tutti i racconti dello scrittore statunitense, risalta un particolare senso di grottesca casualità che regola le vicende umane. Forse proprio questa visione particolare della vita, vicina all’umorismo tragico di Eduardo, ha suscitato il suo interesse e l’ha indotto a farne la riduzione teatrale. Non si è però limitato a tradurre la novella in commedia, ha ampliato l'originale brevissimo racconto e vi ha aggiunto anche tre personaggi nuovi. Facendo così ha rotto il patetico della vicenda dei due giovani sposi contrapponendola a quella tragicomica dei due anziani coniugi, che ormai vivono solo per beccarsi. Secondo le recensioni scritte al momento della rappresentazione, i personaggi di contorno furono « più vivi e campeggianti dei due protagonisti » 3. Nell’insieme, la commedia piacque, ma non suscitò entusiasm i. Forse questa è una delle ragioni che indussero Eduardo a toglierla dalla Cantata dei giorni pari nelle edizioni successive alla prima.

20.

Parlate al portiere

61

20.

Parlate al portiere Due

atti, 1933 (inedito).

Scritta in collaborazione

con Maria

Scarpetta, la

commedia è rappresentata per la prima volta dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo » il 17 gennaio 1933, a Napoli, al Teatro Sannazaro. Il copione si trova nel « Fondo censura teatrale » conservato nell'Archivio Centrale di Stato.

Nell’interno di un palazzo, Peppino, il pottiere, seduto davanti al suo casotto, legge il giornale. Viene a parlargli Pascalino, un giovane operaio ebanista innamorato della figlia Nannina. La ragazza l’ha lasciato per un giovane ricco, ma non riesce a mettersi l’animo in pace. Aveva chiesto a Peppino di convincere la figlia di ritornare a lui, ma il padre non ci è riuscito. Pare anzi che il nuovo pretendente si presenti da un momento all’altro per chiederla in sposa. Mentre Peppino non approva questo matrimonio per la differenza di condizione sociale dei due, che potrebbe portare a lungo andare a degli attriti, la moglie Concetta, donna ambiziosa, è felice che la figlia abbia trovato un così buon partito. Infatti interviene nella conversazione fra il marito e Pascalino e caccia via quest’ultimo in malo modo, malgrado le proteste di Peppino. Sopraggiunge Nannina per annunciare l’arrivo di Luigi. Anche lei come la madre pensa alle comodità, al lusso che l’aspettano sposandolo, e non capisce perché il padre non condivida il loro entusiasmo:

Papà chillo ha ditto ca me mette na bella automobile... po’ me fa pelliccie... oggetti... Ce pigliamo na bella casa ‘e nu quartiere nobile... ascensore... stanza da bagno. Ma commè? Nun ve fa piacere ca io aggia avuta chesta furtuna? Sarrisseve stato cchiù cuntento si me spusavo a Pascalino. Bella cosa!... nu masterascio, dint'a na puteca

d’a matina a sera!. Peppino fra le chiacchiere di Pascalino prima, della moglie e della figlia dopo, si dimentica dei suoi doveri di portiere e si fa rimproverare aspramente da un inquilino proprio in presenza di Luigi venuto a parlargli, con grande imbarazzo di tutti. Nannina fa le presentazioni e Peppino trovandosi di fronte a un signore, automaticamente si leva il berretto di portiere e si confonde quando il giovane gli porge la mano. Non è capace di rimettersi il berretto, malgrado il giovane lo inviti a farlo e gli dice:

62

Cantata dei giorni pari

Ecco... ‘o vvedite? E io cu ‘o berretto ncapa nnanze a vuie nun ce pozzo sta... nun me trovo... Vuie pe’ me nun sarrate maie ‘0 marito ‘e figliema... ma sarrate sempe ‘0 signorino ch’appena ’o veco m'aggia levà ‘a coppola. Ve pare possibile?

Luigi replica: « Ma che c'entra... ». Il portiere però insiste: Centra,

c'entra, sentite a me.

Vuie



ve site allumato... ve ne site iuto ‘e capa...

ve piace ’a piccirella...

e conclude malgrado la protesta del giovane che dice che l’ama: « ...la volete bene... vi credo. Ma è nu matrimonio scombin ato » ?. Luigi non si arrende. Pensa di conquistare con le sue ricchez ze Peppino come ha già fatto con Nannina e Concetta: Don Peppino, io vi giuro che farò felice vostra figlia. Ma Non vi fa piacere che Nannina non lavorerà più... [...] Non piacere di vederla in una Isotta Fraschini alla passeggiata? Di che ha il suo abbonamento al S. Carlo, che ogni anno va in giatura a Vallombrosa, a Viareggio? *

comè? vi fa sapere villeg-

Il portiere non si dà per vinto. Interviene la moglie che gli dà del pazzo. Cede solo quando Luigi chiamandolo « papà » chiede la sua benedizione. Tutti sono felici, eccetto Pascalino che dalla strada aveva seguito la scena e si fa vedere minaccioso. Peppino gli dice piano: « Eh... ma ch’aveva fa? » *. Finalmente il giovane annuncia che l’indomani porter à l’anello di fidanzamento. Il futuro suocero lo invita a pranzo per celebrare l’avvenimento. Dopo la partenza di Luigi, viene avanti Pascal ino. Inveisce contro Peppino che gli aveva promesso che non avrebbe acconsentito a quel matrimonio. Gli si butta contro, le donne cercano di trattenerlo, finalmente arriva Ciccillo, il figlio del portie re, che li separa.

Nel secondo atto siamo nella cucina del casott o dove fervono i preparativi per il pranzo. Concetta per fare bella figura si è fatta prestare una tovaglia dalla cameriera di una signora momentaneamente

assente.

Luigi, accompagnato dallo zio Nicola, arriva in anticipo per dare l’anello alla fidanzata. Peppino e Concetta li accolgono con familiarità, una volta assicurati che pure lo zio è « democratico ». Ma si vede subito che né l’uno né l’altro gradiscono la confidenza con cui vengono trattati non solo dai genitori di Nannina ma anche dai

20.

Parlate al portiere

63

parenti, la zia Filomena, la « bizzoca » tutta chiesa, lo zio Vincenzo, « l’ogliararo » dai modi bruschi. Peppino, all’insaputa della moglie, ha invitato pure loro al pranzo di fidanzamento. Spiega a Concett a che pareva brutto non avvertirli, forse però le sue intenzioni erano altre. La situazione già tesa per la brutta figura che fanno fate con i loro discorsi e le maniere rozze i parenti, precipita quando arriva Ciccillo, il fratello di Nannina. È un conducente di taxi e proprio poco prima ha avuto un diverbio con Luigi, che l’ha pure offeso. Vedendolo là e non sapendo chi sia, lo apostrofa violentemente: Eh?... Chillo don frannellicco ’è W'automobile? Ca staie?... E tu si stato cristiano ’e dicere nfaccia a me: va tira ‘a carretta! Eb... mò Sstammo nterra... nun stamma int’e machine... Carugnò... jesce ‘a via 2 e-fora...3,S

Nel parapiglia generale che nasce, Ciccillo riesce a dare uno schiaffo

sonoro a Luigi. Seguono improperi. Finalmente Nannina, piangendo, riesce a separarli. Dice al fratello chi è Luigi. Subito il ragazzo chiede scusa. Si mettono a tavola, ma anche il pranzo è un vero disastro. Il ragù ha uno strano odore e sapore. Luigi non riesce a tagliare la sua carne. Si scopre che è la pipa di Peppino che la mette nei posti più impensati e poi la cerca. Stanno al brindisi quando arriva la padrona della tovaglia che era stata prestata a sua insaputa. Strappa i tovaglioli dal collo dei convitati e al massimo dell’ira tira via la tovaglia dal tavolo rovesciando per terra tutto quello che c’era sopra. È di nuovo il caos, e peggiore di prima, perché Concetta vuol prendere per i capelli la donna. Tutti ridendo le corrono dietro per trattenerla eccetto Luigi e lo zio Nicola. Quest'ultimo dopo aver dichiarato: « Mamma mia... io mò moro... questa è una bolgia infernale. Io me ne fuje. Statte buono: ’a casa mia non ci accosti più, questa è gente degna di te » °, fugge veramente. Luigi rimasto solo e pensieroso viene raggiunto da Nannina avvilita. La ragazza ha capito che il suo sogno è svanito. Il giovane vuole rassicurarla, ma non lo fa con troppa convinzione. Le promette che si vedranno ogni tanto, ma non può fare il fidanzato ufficiale in casa sua. Con la scusa poi di un appuntamento se ne va. Nannina rimane pensierosa, petò quando rientra il padre se la prende con lui. Lo accusa di aver organizzato tutto lui: Vuie l’avite fatto apposta a invità a tutte quante ogge. [...] ’O sapiveve ca si chille vedeva ’e pariente nuoste se scuraggiava, se spoetizzava. E già, pecché io m’aggia spusà a Pascalino ’o maste-

dascio... Chillo è ‘o marito ca fa pe mmè.

Pecché vuie me vulite

64

Cantata dei giorni pari

vedé sempre dinta ‘a stu casotto... ccà sotto sacrificata a fa ’a figlia d’o guardaporta. Ma io me ne vaco. Me so stancata e fa sta vita. Nun me vedite cchiù. Io tengo ventitré anne e ‘o pozzo fa, vuie site stato, è colpa vosta.

Peppino non si aspettava lo scatto della figlia. Dopo un momento di riflessione, dice come parlando a se stesso: Io? Io l’aggiu fatto apposta? Io me so sacrificato pe te fa cuntenta? Pecché chi se sacrificava ero io... era pateto capisce, era pateto che aveva fa ’a faccia rossa ogni mumento. A figlia s'era spusata a nu signore, e isso era un guardaporta. Avarria potuto parlà? Avarria potuto comparì vicino a vuie? Nanz'a vuie? E chi era? Nu povero ommo. E pure dicette: nun mporta, nun fa niente, abbasta ch'è figlia mia è ricca, e cuntenta, nun mporta si chiano chiano a poc’a vota ‘0 marito a fa scurdà ‘e me, e forse nu juorno... si ‘a vaco ‘a truvà... trovo °a porta chiusa.

Finisce il suo discorso preso dalla commozione, ma anche la figlia si è intenerita nel frattempo e gli è andato vicino per dirgli: Papà che cosa? Ave ragione troppa differenza e po sa che te dico: si me vuleva bene veramente, non l’avarria fatte mbressione. Avarria passato l’urdemo guaio pirciò è meglio ca se ne ghiuto?.

Cala la tela sul ritrovato equilibrio della ragazza e sulla vicendevole comprensione. Parlate al portiere è la più elaborata delle commedie scritte da Maria Scarpetta con Eduardo. Vi si trovano episodi comici e farseschi, ma la componente umana e sociale la trasforma in qualche cosa che è molto più di un puro divertimento. Il portiere, interpretato all’epoca da Eduardo, è già un personaggio ben sviluppato. Uomo semplice, ma guidato dal suo buonsenso, ha una chiara visione della vita e della società. Intuisce dove possono condurre gli errori di coloro che s’illudono di poter infrangere le crude leggi del consorzio umano. Solo il suo amore paterno lo fa arrendere. Però proprio perché ama profondamente la figlia e per timore che il suo avvenire non risulti così roseo come tutti lo vedevano, mette alla prova l’amore del giovane ricco per appurare se effettivamente sia al di sopra delle differenze di classe. Se si fosse sbagliato nei suoi confronti, era pronto a sacrificarsi, pur prevedendo le umiliazioni che l’aspettavano. Peppino con la sua chiaroveggenza e con la sua umanità ha già qualcosa del personaggio eduardiano delle commedie dei Giorzi dispari.

21.

Quinto piano, ti saluto!

65

21 Quinto piano, ti saluto! Atto unico, 1934. Rappresentato per la prima volta dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo » il 25 giugno 1936, a Roma, al Teatro Eliseo. Dopo la seconda guerra mondiale, Eduardo, riprendendo la commedia, l’ambienta in un palazzo bombardato invece che in una casa in demolizione.

In un appartamento completamente scoperchiato al quinto piano di un palazzo in demolizione, i manovali stanno abbattendo i muri.

Mentre lavorano, scherzano, ridono, cantano, si pigliano in giro. La

loro allegria e il loro operare, simbolo di vita, contrasta con l’agonia e la morte della casa. In una parete mentre battono col piccone sentono un vuoto, pensano subito che ci sia una nicchia magari con un tesoro dentro. Il capomastro li avverte di non farsi delle illusioni: Io faccio ‘o fravecatore ’a trentacinch’anne, nn’aggio menato pa-

lazze nterra, ma nun aggio truvato maie niente. Gatte e cane muorte

quante ne vuò' tu... ma denare ‘a dinte ‘è mure ’e Napule nun ne

iéscene !.

Ha ragione. Infatti trovano una scatolina con un dente di bambino. Scoraggiati, riprendono il lavoro mentre arriva Roberto, « un tipo di elegantone da pochi soldi » figlio dell'ingegnere che cura i lavori. Con lui è un negoziante di paese che vuole acquistare il materiale recuperabile dalla demolizione. Nasce fra loro una discussione sul prezzo e Roberto dà del « cafone » all’altro che offeso gli dà uno spintone. Il giovane « perde l’equilibrio e cade seduto in una mezza botte piena d’acqua ». Uno dei muratori « per guardare in basso lascia cadere un cofano di calcinaccio che lo copre ed imbianca completamente » ?. Suscita naturalmente le risa di tutti, e Roberto se ne va fuori di sé. Entra un uomo sui cinquant’anni, affannato per le scale che ha fatto, si ferma a guardare intorno. Dice ai muratori, che chiama becchini: « Questo palazzo è un morto che state chiudendo in una bara », e aggiunge di avervi abitato da bambino e da giovane. La sua mamma che poi morì proprio in quell’appartamento, lo aspettava trepidante ogni sera sul balcone. Si meraviglia che nessuno di quelli che per generazioni vi hanno abitato, sia venuto a vedere la sua agonia. Ma poi ammette che anche lui è venuto per caso. Con-

clude finalmente:

66

Cantata dei giorni pari

Ma già, la vera casa non sono le mura, la vera casa la fa il respiro e forse i mobili, i quadri, basta traslocare tutte le cose, gli oggetti, per credere di portarsi appresso la casa?.

Strappa dal muro quattro o cinque carte da parati, finché trova quella che era della sua casa, ne prende un pezzo e se ne va. Probabilmente questo breve atto unico fu ispirato a Eduardo dalla demolizione avvenuta proprio nel 1934 del palazzo a cinque piani sito in via Monteoliveto

56, dove

la sua

mamma

visse nella

seconda

metà

degli anni Venti. Mettendo in scena il contrasto tra vita e morte, l’autore rivela nella lunga didascalia la sua intenzione: Risvegliare immediatamente in tutti gli spettatori quel senso di rimpianto e di pena che abbiamo per tutte quelle cose che scompaiono dalla vita, cose forse anche brutte, ma che morendo

lasciano sempre

un vuoto

nel mondo dei ricordi e della nostalgia*.

Ma con le parole del visitatore sottolinea che la vita continua perché la portiamo in noi e con noi. D'altra parte, distruggere comporta ricostruire, morire rinascere. Pensieri che questo atto unico non rende completamente. Il comico poi della prima parte contrasta troppo col patetico della conclusione.

223

Uno coi capelli bianchi Tre atti, 1935. Commedia rappresentata per la prima volta dalla compagnia «Teatro Umoristico i De Filippo » il 26 gennaio 1938, a Roma, al Teatro Quirino.

Siamo in casa di Giambattista Grossi. Il gusto discutibile con cui è arredata la stanza da pranzo tradisce «la ricchezza sfrontata degli industriali arricchiti » !. L'azione è già in medias res. Giuseppina viene a sfogarsi e a piangere dalla mamma per la discussione avuta col marito che arriva pure lui infuriato. Continua la sua scenata di gelosia perché la moglie, andata la sera prima a una festa da un’amica, vi ha incontrato, senza sapere però in precedenza che ci fosse, il suo primo amore. Teresa, la madre della giovane, appreso che era stato suo marito Battista ad accompagnarla, capisce subito chi ha rivelato al genero

22.

Uno cot capelli bianchi

67

Giuliano questo particolare. Infatti Battista non perde mai un’occasione per seminare zizzania, anche se poi lo nega come fa ora: « Vi prego di non fare insinuazioni, specie per delle bassezze che non possono interessarmi... ». Al genero che dichiara come effettivamente fosse stato lui, replica: Picceri’,

ma

tu ti senti bene?

Io te venevo

a dìcere

una

cosa

simile? Io sono un uomo serio, tengo un'età!... Ricordati bene chi te lo ha detto, figlio mio! E vi prego, quando volete dar vita alle ombre create dalle vostre piccinerie, non tirate in ballo me. Queste so’ piccinerie! ? Siccome Giuliano insiste, gli dà del pazzo. con lui, spiega perché ha agito così:

Rimasto

però solo

Giulia’, io devo salvaguardare la mia serietà di uomo che sta vicino alla sessantina! [ ...] Ho l’esperienza... n’aggio visto che n’aggio visto... vuo’ vede’ che all’ultimo aggi’ ‘a fa’ ’a figura d’ ’o chiachiello per aver voluto renderti edotto di una situazione... Naturalmente io te l’ho negato in faccia, perché nun songo na criatura e nun pozzo

fa ‘a figura d’’o pulicenella?. Il genero si convince che il suocero ha ragione, anche se gli dispiace di aver litigato con la moglie. Fa per andare da lei, quando si accorge di avere in tasca un reggipetto. Persuaso ormai della buona fede di Battista, lo consegna proprio a lui per paura che la moglie lo trovi. Gli racconta che la sera prima con degli amici era andato al circolo e aveva ballato con una tedesca ubriaca che dopo essersi denudata gli aveva messo in tasca il reggipetto. Non immagina le conseguenze di questa sua confidenza. Infatti il suocero appena si presenta l’occasione consegna l’indumento intimo alla figlia riferendole tutto, raccomandando però di non tirarlo in ballo: « Giuseppi’, io non voglio essere nominato! [...] Io ho un’età; cheste so’ buffonate! » *. Battista non si limita a rovinare i rapporti dei suoi familiari, ma fa lo stesso con gli estranei. Al suo avvocato dice — inventando tutto di sana pianta — che il barone Pauselli, di cui sta curando gli interessi, ha fatto delle insinuazioni sulla morale dei membri della sua famiglia. La reazione del legale è violenta, vuol addirittura sparare al suo cliente. Battista sembra spaventarsi, ma non riesce a togliersi il vizio. Alla prima occasione ricomincia. Le sue prossime vittime sono la nipote Bianca e il marito Francesco, arrivati da Torino. Francesco appena riesce a rimanere solo con lui gli confida di essere venuto a Napoli per sistemare una faccenda delicata che non vorrebbe che sua moglie scoprisse. Quand’era studente di medicina

68

Cantata dei giorni pari

a Napoli, aveva avuto una relazione con « una disgraziata, poco di buono » dalla quale nacque un figlio. Ha sempre pensato al ragazzo e intende continuare così, ma da quando si è fatto una posizione la donna lo ricatta. Chiede a Battista di consegnare alla donna un assegno di cinquantamila lire in cambio di una dichiarazione nella quale riconosce di non avere nulla in comune con lui e che il figlio non lo riguarda. Gli raccomanda di non dire che è a Napoli. Battista tradisce anche la sua fiducia. Telefona alla donna per dirle che Francesco è a Napoli. Ma fa di peggio pure. Racconta tutto a Bianca rovinando così il loro matrimonio.

Il secondo atto si svolge in casa di Giuliano, che a differenza di quella dei Grossi è ammobiliata con gusto. Per una fusione con un’altra ditta deve riunirsi il consiglio di amministrazione della fabbrica che il giovane dirige insieme al suocero. Il primo ad arrivare è il nuovo socio. Discorrendo con Giuliano loda le qualità di Battista che ha conosciuto il giorno prima. Lo trova serio e soprattutto modesto nell’attribuire al genero la felice idea della fusione e il modo in cui sono state condotte a termine le trattative. Aggiunge: « È meritevole di ammirazione questo, perché si nota il proposito

di spingere avanti i giovani. Lui, magari, lancia l’idea, dà il con-

siglio, e poi si ritira tranquillo in disparte... Questo è bello... È ammirevole veramente » 5. Il socio ignora che l’idea era stata veramente di Giuliano che, infastidito dalla falsa modestia del suocero, si lascia andare a uno sfogo:

Caro Commendatore, sarebbe ora di finirla col fatto dei giovani e dei vecchi. A parte il fatto che qualunque cosa fai: « Sì, è grazioso; ma io tengo un’altra esperienza... Nella mia vita ho visto ben altro... ». E.vuie agliuttite, agliuttite... a parte questo, ci sono dei casi singolari. Ce sta ’o viecchio ca nun è viecchio e nun è giovane, che al suo attivo tiene solamente gli anni... E come se li fa valere! Con l’esasperarti, sapendo che ti esaspera; col deridere la tua giovinezza, avendo l’aria di fartene una colpa; e te stuzzica, te pogne; e tu zitto, perché lo devi considerare: è viecchio! Tene ’e capille

ianche! Ma ch° e tene a ffà? Questo tizio profana i capelli bianchi: è un trucco, credete a me. A questo tizio, l’ha truccato ‘o Pateterno! © Quando la riunione è in corso e stanno pet brindare all’avvenimento, attiva un telegramma con cattive notizie. L’avvenuta fusione comporta gravi perdite alla ditta di Battista e di Giuliano. Il vecchio è gongolante. Ora può attribuire al giovane questa responsabilità e tira fuori il solito ritornello dei suoi capelli bianchi e della sua esperienza. Il giovane questa volta si ribella in nome dei suoi capelli neri

22. Uno coi capelli bianchi

69

contro i soprusi del vecchio e mette in chiaro quali dovrebbero essere i rapporti fra i giovani e vecchi: Finché prende parte attiva nella vita e pretende di muovere i fili di un’azienda, non deve essere vecchio; anzi deve saper ringiovanire. Deve decidersi: o vecchio o giovane. Se è vecchio, se chiude dint ‘a casa e nun scoccia cchiù; ma non deve a suo comodo trincerarsi dietro la sua età e, al momento buono, pretendere il rispetto che si

deve ai vecchi. Solo il vecchio che ha prodotto e che trascorre gli anni di vecchiaia a riposo è degno di rispetto; ma quello che sta ancora negli affari e pretende di produrre ancora, deve lottare con i giovani, da collega, da coetaneo! Con gli stessi diritti, con gli stessi

doveri! Si no, ‘o giovane esce pazzo! Decide di non occuparsi più dello stabilimento e conclude: E siccome non siamo più in rapporti di affari, sento il dovere di riconoscere che siete un uomo di età, che avete i capelli bianchi, che siete mio suocero e vi bacio la mano, vi rispetto e vi rispetterò sempre; ma lo farò con il cappio alla gola! ?.

Giuliano ancora non sa cos’altro ha fatto Battista nei suoi confronti. Lo scopre poco dopo quando un fattorino gli consegna un pacchettino e un biglietto che spiega l’assenza di sua moglie: « Ho ballato tutta la sera e ballerò tutta la notte. Divertiti. Giuseppina ». Nel pacchettino trova due reggipetti, uno dei quali è quello che aveva dato al suocero. Sul principio rimane come istupidito e comincia a dire a denti stretti e con odio: « Papà! Papà! ». Poi « lo guarda con disprezzo e negli occhi gli brilla la vendetta » ®. Si avvicina ad un mobile, ma non riesce ad aprire. Battista, intuendone le intenzioni del genero, si nasconde. E infatti Giuliano, tornato con la chiave, estrae dal mobile una rivoltella.

Nel terzo atto siamo di nuovo in casa di Battista. È notte. Il portiere, la cameriera e la mamma sorreggono Giuseppina « apparentemente ubriaca, ma, non al punto da smarrire la ragione. Pallida sconvolta, il suo abito da sera è strappato »; quando il mantello di pelliccia che ha sulle spalle si apre, « si intravvede appena attraverso la velatissima stoffa del suo abito, il seno nudo » ?. La adagiano su una poltrona. Viene Battista e ha il coraggio di dire: Pazzi! Due pazzi! Marito e moglie, due pazzi! Già, io l'ho detto sempre; quella è un’avventata.. e il marito un ofàno permaloso!...

70

Cantata dei giorni pari

E questa volta non

ci voglio rispondere

in mezzo...

Noro... Io cu’ e pazze nun ce voglio ave’ che fa'!!°

s' ‘o sbrigano

Sua moglie, che lo conosce bene, capisce subito che è lui la causa

di questo nuovo disastro. Infatti Giuseppina spiega di essere andata

al Quisisana a ballare, a fare scandalo denundandosi

il petto come

aveva fatto la tedesca. Però, più che vendetta, dalla sua voce trapela rammarico per quel che ha fatto. Anche Giuliano, giunto nel contempo, è sconvolto. Quando Teresa porta via la figlia, lui non sa che fare, ma poi appoggia il revolver sul tavolo e chiama il suocero. Gli dice di venire tranquillo perché sono passate due ore da quando gli voleva sparare; ora a sangue freddo non può farlo. Sfoga tutta l'amarezza che ha in cuore. Chiede a Battista se crede in Dio e poi gli spiega la sua teoria sugli uomini: Io invece ho sempre pensato che noi rappresentiamo il diverti mento delle ore di riposo del Padreterno. Voi mi avete fatto pensare

questo. Infatti noi, senza volerlo, ci trucchiamo per diventare ridicoli

il più possibile... [...] diventiamo macchiette; tipi buffi o tragici che devono prendere parte alla commedia scritta per noi prodigiosamente. [...] Voi per esempio prodigiosamente siete stato truccato: capelli bianchi, baffi, vestito scuro, pallido, sereno, sguardo dolce... il trucco dell’uomo serio. E che ti combina il Padreterno nelle ore di ozio? Piglia questo scherzo e lo mette tra i piedi di un povero disgraziato

che non

si è truccato

ancora.

Naturalmente

avviene

un

urto,

un

contrasto... st sviluppa la comicità... e il Padreterno si diverte Io, si ve sparo, passo nu guaio, distruggo la mia vita, quella di mia

moglie,

la mia

casa:

guardie,

tribunale,

corte

d’assise,

carcere...

Vedete che grande spettacolo può nascere da questo scherzo lanciato sulla terra! Ma io non mi presto. Io non dò spettacolo; io me piglio a mia moglie e me ne vaco! Parto. Rifaccio la mia vita, e voi per conto vostro continuerete a truffare l'umanità truccato da uomo

serio per questi altri pochi giorni di vita che vi restano! !!

Dopo aver ascoltato le parole accorate del genero, Battista ha il coraggio di trovare ancora una giustificazione alla sua vile azione: ha agito come padre, dopo una strenua lotta interna fra l’uomo e il padre. Giuliano sta per convincersi della ragione addotta dal suocero e quasi si commuove di fronte a questo « padre esemplare », ma poi scorge lo sguardo di sufficienza e di commis erazione di Battista, che rivela la sua falsità, e si lascia andare all’ira: afterrandolo per il bavero della giacca lo attira a sé e gli grida: « E io sono stato distrutto da questa faccia! Da questo sguardo paterno! Da questo

_22.

Uno coi capelli bianchi

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trucco. E lo voglio cancellare io! » !?. E mette in atto le sue parole, schiaffeggiandolo ripetutamente. Questo finale violento ma coraggioso lasciò gli spettatori sconcertati e perfino ostili, secondo la testimonianza di Gennaro Magliulo. Solo i giovani del loggione vennero a congratularsi con Eduardo 3. L’autore allora scrisse un altro finale, secondo il quale Giuliano accetta le giustificazioni del suocero, se ne va con la moglie e tutto ritorna come prima. Però Eduardo non poteva accettare questo secondo finale perché falsava il senso della sua commedia, così la rappresentava con tutte e due le conclusioni, annunciando fra le due la sua preferenza 44, Quando poi pubblica Uro coi capelli bianchi nella Cantata dei giorni pari, fa inserire solo il primo finale che è la logica conclusione della commedia, conclusione coraggiosa che colpisce per la sua modernità, se si pensa al tempo in cui Eduardo ha scritto la commedia. Epoca in cui certamente doveva essere considerato quasi sacrilego criticare «uno coi capelli bianchi » e denunciare la maturità come un falso privilegio di coloro che ne approfittano per sentirsi in diritto di guidare la vita degli altri e di giudicarli; oppure si nascondono dietro a questa maschera di rispettabilità per portare a termine le proprie macchinazioni e azioni meschine. La modernità sta anche nella definizione coraggiosa del ruolo dell’uomo di una certa età, che deve avere la forza di ritirarsi per dare posto ai giovani, oppure sapere competere con loro alla pari. Magliulo sottolinea questo aspetto della commedia collegandola agli anni in cui viene rappresentata: « Battista Grossi, pur essendo la esemplificazione di un atteggiamento diffusissimo in ogni tempo, ha riferimenti precisi nell’epoca e nella società italiana, dove individui superatissimi dallo svolgersi della realtà che non riescono ad inseguire, mantengono ‘“ posizioni chiave” e, abilissimamente sfruttando la politica della propria autorità, tentano di fiaccare la resistenza e la vitalità degli altri » !5. Credo che questa sua interpretazione valga anche oggi, più che mai. Per Eduardo — secondo quanto riporta Mignone — Battista « sarebbe un prodotto preciso del capitalismo: suo padre e suo nonno hanno creato benessere, lui invece non ha fatto niente, ha vissuto e vive di rendita ed è invidioso di chi sta soppiantandolo col lavoro » !‘. Finalmente, quando Giuliano parla del trucco o meglio della maschera che Dio ci impone per poi divertirsi dello scontro fra gli uomini, più che fare riferimento

al pirandelliano

essere

ed apparire,

a me

sembra

che ci

troviamo di fronte a un espediente metaforico di cui Eduardo si è servito per esprimere la sua convinzione che la vita è un grande spettacolo, del quale tutti gli uomini sono interpreti.

Cantata dei giorni pari

72

20

Occhio alle ragazze! Atto unico, 1936 (inedito). Eduardo ha dato come sottotitolo a questa commedia « Residuo dell’800 napoletano ». Il copione si trova nel « Fondo censura teatrale » dell’Arthivio Centrale di Stato. Il nulla osta alla rappresentazione porta la data del 25 marzo 1936. Dalla mia ricostruzione dell’attività della compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo », non risulta che sia stata messa in scena!.

La scena meticolosamente descritta dal copione rappresenta un salotto-studio di buon gusto, dell’alta borghesia napoletana. Su una delle pareti vi è un grande ritratto del defunto marito della signora Anastasia Cardelli, che, seduta accanto alla finestra, legge un libro. Ogni tanto smette per rivolgere qualche frase di circostanza a Roberto, fidanzato della figlia Giuseppina, che insieme a Riccardo e Giacomo, pretendenti delle altre sue figlie, Olimpia e Carolina, stanno in attesa delle ragazze per andare a messa. Anastasia, dopo la morte del ‘marito, vive in continua apprensione per le figlie, apprensione che diventa angoscia, al punto da renderla invalida e impedirle di uscire di casa. I suoi continui interrogativi sulla sorte delle ragazze sono senza fine. Non si fida delle profusioni d’amore di Roberto per Giuseppina, né delle attenzioni di Riccardo e di Giacomo per Olimpia e Carolina: E chi vi crede! Chi può indovinare quello che voi ‘pensate di mia figlia... V’a spusate, non v’a spusate? Non è un dolore, questo? O per lo meno, per una madre, non è un tormento? Don Robé, la verità dolorosamente, me sò ’mparata ca s'adda tuccà cu ‘e mmane! Voi forse la sposerete; voi forse le vorrete bene; voi riuscirete a

farla felice; ma per toccare questa verità, hanno a passà per lo meno diece anne... E fra diece anne... io nun ce stò cchiù! Non è dolore, questo? Le altre due mie figlie, giovani, istruite, che faranno? I vostri

due amici... Venite avanti!... sono amabilissimi... ma chi sa che pensano.

Certo, da quindici giorni vengono

qua,

frequentano

la casa,

ma non si decidono! ? Un'altra croce è la figlia maggiore Maria, ormai trentacinquenne e zitella. L’unico che le procura gioia e solo qualche volta dispiaceri, è il figlio Gerolamo, dal quale però pretende che accompagni sempre e ovunque le sorelle quando escono con i rispettivi innamorati.

23.

Occhio alle ragazze!

73

Naturalmente né lui ama farlo, né le ragazze lo apprezz ano veramente. Giuseppina parla con stizza del fratello: Chillo è n’imbecille! Dice ca se mette scuorno! E per causa sua,

siamo privi di una gita. Dice ca quanno ascimmo ’nzieme pare ‘a prucessione... E non vuole capire che noi a lui teniamo... Mammò

nun pò ascì; soli non è possibile perché la casta, le tradizioni... ’a gente parla... E noi, nel 1936, avimmo a sta suggette al fratello

schizzinoso pe mettere

’o pede fore d’a casa! *

Anastasia sgrida la figlia che si esprime così sul fratello invece di essergli grata, perché «le ragazze alle volte non sanno quando muovono un passo falso... se ne accorgono dopo! »‘. La risposta di Giuseppina è piuttosto coraggiosa e moderna per i tempi: Questo sai che significa? mammà? Mancanza di fiducia; e siccome siamo figlie a te, è una mancanza di fiducia a te stessa; alla casta e alle tradizioni! 5

La madre però non si arrende e Gerolamo « con aria sconfortata e avvilita » sta già per uscire dietro alle sorelle e i rispettivi amorosi, quando gli prende un impeto di ribellione e di rabbia. Butta il cappello per terra e grida: No! Quanto è certo Iddio, no! È più forte di me. Chiammateme pazzo, ma io di accompagnarvi non ne voglio sapere più. [...] Qua siamo diventati la favola del quartiere; ce cunusceno tutte quante... Insomma voi il ridicolo lo contate per niente? Ccà, me chiammano ‘o frate d’e quatte sore! Quanno cammenammo p'a strata, se fa ’a folla appriesso! Gli amici mme pigliano in giro. È una situazione insostenibile! Loro se ne vanno nnanze e filano: uno due e tre... e io resto areto cu Maria cumbinata ‘e chesta manera, che ogni passo dà nu suspiro! Roba da giornale umoristico... Pigliate nu provvedimento; pigliate voi ’na strata, pecché io ’o guardiano nun ‘o voglio fa... °

Insomma « le candele » non le vuole più tenere. Che le sorelle si trovino « ’na guvernante, nu guardiano; nu paro ’e metropolitane » 7. Giuseppina, Olimpia e Carolina scoppiano a piangere. La loro disperazione aumenta quando Maria ricorda loro che resteranno zitelle come lei, che ha perso un paio di partiti proprio per i sistemi inquisitori della madre. Anastasia non si arrende alle loro lacrime: « O fuori con vostro fratello o in casa, ccà sott’a ll’uocchie miei! » *. I giovani si rassegnano a rimanere tutti in salotto, si dispongono

74

Cantata dei giorni pari

a coppie e cominciamo a parlottare fra loro. Raggiunto il suo scopo, la mamma si ritira a riposare non senza raccomandare al figlio di fare buona guardia: Gerò, agge pacienza; io ti capisco, ma non c'è che fare... Le ragazze sono pericolose, incoscienti, e possono dare dei dispiaceri seri... [...] Mi raccomando... nun ’e lassà sole...°

Gerolamo, dopo aver accompagnato la madre alla porta, ritorna in salotto. « Scambia qualche parola ora con l’uno ora con l’altro, parole senza interesse specialmente da parte dei giovanotti, che naturalmente sono desiderosi di appartarsi ». La situazione diventa sempre più imbarazzante — la didascalia sottolinea che l’attore avrà cura di trasmetterla al pubblico !°. Finalmente Roberto offre di andarsene con gli amici e di ritornare più tardi. Però prima di partire dice a Gérolamo che dovrebbe compgtirli, perché anche lui è fidanzato. Il giovane risponde che la situazione della sua fidanzata è differente perché ha tre fratelli, che quindi hanno la possibilità di darsi il cambio: Il riposo c’è! Si uno °e chilli frate se vò j a bere nu poco d’acqua, ‘o tene ‘o tiempo, ‘e capito? E quando a uno di quei fratelli capita il suo turno, sta bello frisco; e infatti riescono a guardarla come si deve! Io sono fidanzato con Luisa da un mese

circa; sai, all’epoca

d’oggi, essere fidanzato un mese con una ragazza, significa festeggiare pure un battesimo,

nemmeno

e invece, Robé,

ti giuro che non

sono

riuscito

a darle un bacio. Chilli tre frate, sò tre carabiniere!

Il giovane rimasto

solo, siede a uno

scrittoio, scrive e riscrive

la stessa lettera. Lo interrompe l’apparizione di Olga, l’amica del cuore della sua fidanzata Luisa. Ha un aspetto triste, un’aria da funerale, da tragedia. Gerolamo gliene chiede la ragione. La ragazza senza rispondere gli consegna una lettera che lui legge ad alta voce: « Gerolamo, lascia ch'io ti dia ancora del tu, almeno solo per quest'ultima mia lettera; sarà la goccia di balsamo che mi aiuterà

ancora a vivere, forse per poco. Non pensare più a mej avrei dovuto

dirtelo prima, che mi volevi martirio... Se amica Olga...

ma non ebbi il coraggio, un mese fa quando mi dicesti bene. Non farmi dire troppo; non infliggermi questo vuoi la verità più nuda, coglila negli occhi della mia Luisa » !°

Infatti Olga piangente « con un cenno del capo gli rivela l’orrore della povera Luisa » e aggiunge: « Due anni fa, Luisa è tanto

23.

Occhio alle ragazze!

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buona... sentimentale e sensibile... una sera... » *. Gerolamo comprende la verità, ma gli sembra incredibile: « Con tre fratelli... Santo Dio, cu tre gendarmi... ». Al che Olga spiega: « Proprio per questo... Troppa severità... troppa sorveglianza... Luisa era esasperata. Due anni fa ancora più giovane... quasi per dispetto... come per vincere

una scommessa... » !*. La reazione del fidanzato dapprima è violenta, strappa la lettera che aveva appena scritto a Luisa. Non sa che fare, se rivederla o meno. Pensa alla sua assurda posizione di « guardiano » delle sorelle. I suoi pensieri vengono interrotti dal ritorno dei tre corteggiatori. Vedendoli, la sua rabbia aumenta. Chiama a gran voce la madre e le sorelle. Apostrofa quest'ultime: « Sole! Jatevenne sole! È venuto Roberto,

Riccardo, Giacomo.

domanda

di Giuseppina

È na bella giornata... Uscite! ». Alla

se le accompagna,

risponde:

No. Accompagnarvi? E perché per sollecitare il vostro gusto di farmi scemo? Per farvi venire il desiderio, mentre io senza volerlo giro gli occhi dall'altra parte, di darvi un bacio? No. Sole. Da sole, questo gusto non vo putite piglià perché prendereste in giro la vostra coscienza. Siete ragazze di oggi e avete il diritto di tutelare il vostro onore perché l’onore è vostro! Rivolto poi alla madre e a Roberto prosegue: Mammà, la mancanza di fiducia è un’umiliazione puré perché, caro Roberto, quando un carabiniere di fratello ve l’ha portata onesta fino all'altare quale garanzia è la tua per l'avvenire? Portate a Giuseppina. Ascite ’nzieme sule; così quando sarete sposati, essa ti potrà guardare sinceramente negli occhi e ti potrà dire: — « Sono onesta perché l’ho voluto io; no pecché m'hanno fatto ’a sentinella fino all'ultimo! » *

La madre non comprendendo il comportamento del figlio, lo richiama, ma lui le porge la lettera della fidanzata aggiungendo: « Liegge, mammà; liegge... Tre carabiniere, nu pate; nu guardaporte » !. Anastasia, letta la lettera, fa cenno alle figlie di uscire. Partite le tre coppie, Gerolamo fa mettere il cappello per forza a Maria la spinge fuori dicendo: « Va cammina; sei ancora in tempo » !”. Con questo atto unico Eduardo ritorna alla satira sociale delle prime commedie. Mette a nudo i sistemi ipocriti della società non solo degli anni Trenta, ma anche degli anni a venire fino alla soglia dei nostri tempi. Altro che «Residuo dell’800 napoletano », come ha voluto definirlo. Forse proprio nella sua audacia sta la ragione per cui non la mise in scena.

76

Cantata dei giorni pari

Solo le generazioni dei nostri tempi sono consapevoli e libere di seguire la propria coscienza, alla quale la commedia fa appello, con responsabilità per le proprie scelte, invece di agire magari per ripicca o perché il frutto proibito fa sempre più gola. Usd Occhio alle ragazze! è ben costruita, passa dalla situazione comica iniziale alla tensione drammatica finale senza alcuna artificiosità. Il dialogo è vivace e porta senza indugi alla conclusione prefissa. Rende con efficacia il pensiero dell’autore.

DAL

L’abito nuovo

Tre atti, 1936. Tratta dalla novella omonima di Pirandello, la commedia è rappresentata per la prima volta dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo » il 1° aprile 1937, a Milano, al Teatro Manzoni. La commedia sarebbe dovuta andare in scena nel 1936 e le prove iniziare il 10 dicembre di quell’anno in presenza di Pirandello, ma la sua improvvisa morte fece sospendere ogni cosa. Eduardo ebbe il coraggio di riprendere in mano il copione solo dopo tre mesi. Si sentiva in colpa per non aver rappresentato prima la commedia, malgrado le insistenze di Pirandello. Nel marzo del ’37, durante le prove, Eduardo sente la presenza di Pirandello, gli sembra perfino di vedere i suoi occhi. Si rivolge a lui come se fosse vivo: « Lei è qui; giuro, anche nei giorni scorsi, lei era qui. Mi suggeriva le intonazioni; l’ho visto vibrare e vivere la parte insieme a me. Qualche volta mi ha detto pure: Bravo! Non c'è dubbio; ci credo fermamente; lei è qui. Ora mi guarda sorridendo. Non è più uno sguardo di rimprovero. Grazie! Ed allora mi ha perdonato. [...] Maestro, per amor di Dio, venga a tutte le prove; ho bisogno della sua assistenza; e, per carità, non mi manchi alla prima rappresentazione »1. Eduardo scrive queste parole in un «suo» Giuoco delle parti, indirizzato al grande scrittore siciliano, in cui ricostruisce i suoi rapporti con lui. Ricorda quindi la genesi dell’Abito nuovo. Già durante il loro primo incontro, nel ’33, Eduardo propose a Pirandello di trasformare la novella in commedia. Poi gliene riparlò nel 1935 dopo aver messo in scena con gran successo Liolà tradotto in napoletano. L’inattesa risposta di Pirandello questa volta fu: «Facciamola insieme! ». Eduardo rimase di stucco: « Mi parve enorme, e dovetti mostrare tanto il mio sgomento, che lei credette opportuno ripetere: ‘Perché no? Facciamola insieme!’. ‘Se io scrivo la commedia in italiano, lei poi la dovrà tradurre. Se invece i dialoghi li scriviamo insieme, il personaggio centrale parlerà con le sue parole, e allora sarà più vivo, più reale! ’. A Roma, durante l'ultima stagione che feci al Valle, dicembre °35, pet quindici giorni, dalle cinque del pomeriggio alle otto di sera, sono stato al suo scrittoio. Lei era seduto di fronte a me, in un’ampia poltròna, e ogni tanto mi passava dei pezzettini di carta con le battute segnate da lei, che davano il via alle scene principali. E per quindici giorni, dalle cinque del pomeriggio alle otto di sera, io tradu-

cevo in vernacolo il suo pensiero. Così è nato L'abito nuovo » 2.

24.

L'abito

nuovo

Do

Nello studio dell’avvocato Boccanera, il titolare sta raccogliendo le confidenze del giovane Concettino, figlio di un suo collega e amico. Fidanzatosi contro la volontà del proprio padre con Assunta, la figlia di Crispucci, uno degli scrivani di Boccanera, ora vuole tirarsi indietro. Concettino, nonostante la differenza di classe, — la ragione dell'opposizione di suo padre — era pronto-a sposarla perché « ragazza di casa, onesta e virtuosa », ma ora si è verificato un fatto nuovo che gli ha fatto capire « il baratro nel quale » stava « per cadere » 5. E ritornata a Napoli Celie Bouton, la madre di Assunta, una donna prodiga delle bellezze del proprio corpo. Diciotto anni prima aveva abbandonato il marito Crispucci e la figlia di pochi mesi. È diventata proprietaria di un circo e ora a suon di tromba va girando per le strade di Napoli in calzamaglia con un mantello che apre per far mostra di sé. Su un phaeton tirato da quattro cavalli lancia manifesti e sorrisi a destra e a sinistra. La seguono tutti gli animali del circo. La città intera si sta buttando ai suoi piedi conquistata dalla sua bellezza. Per Concettino tutto questo è scandaloso. Giunge Crispucci che non solo deve subire i commenti salaci dei colleghi, ma ha anche una guancia sanguinante per uno sfregio che la moglie gli ha fatto, pur senza volere, frustando i cavalli. Boccanera gli comunica l’intenzione di Concettino di rompere il fidanzamento con sua figlia, specificandone le ragioni. Crispucci non può accettare questo nuovo dolore e si ribella: La parola data a me, va bene, la potete anche ritirare; ma quello

che la vostra parola ha fatto nascere nel cuore di mia figlia?... Voi

non ci pensate a questo? Avete gli occhi per guardare solo quello che si vede fuori... E dint’ ‘a casa mia... addo’ ce sta figliema, nun ce vulite guarda’?... Ce sto pur'io! Ce sta l'onestà mia, e tutta una vita sana... Voi pensate solamente a chella...

Concettino però, che bada solo alle apparenze, gli ribatte: Noi ammiriamo,

rispettiamo,

caro don Michele, la vostra onestà,

quella della vostra casa... ma è una onestà chiusa, mi spiego?, privata... di fronte a una vergogna pubblica*.

Inutilmente il padre insiste: « E nun ve pare na nfamità a fa’ scunta’ a na poverta creatura innocente la vergogna di una madre che non la riguarda? » °. Visto che il giovane è irremovibile, è Crispucci a cacciarlo via. Intanto dalla strada arrivano delle grida e accorrono delle donne, insieme a sua figlia Assunta e la nonna. Raccontano la disgrazia che

78

Cantata dei giorni pari

è appena successa: Celie Bouton è morta « sfracellata!... sott’ ’e stesse cavalle suoie » °. " Lo squillo del telefono interrompe i commenti. È il commissario che chiama in Questura Crispucci. I presenti subito pensano all’eredità: la ricchezza della donna è nota a tutti. Nel secondo atto siamo nella villa di Celie Bouton, a Posillipo, in « un salone fantastico di luci e sete », che dà « l’impressione di un tempio d’amore » 7. È lì che la moglie di Crispucci riceveva i suoi amanti di alto rango. Arrivano Crispucci e l’avvocato Boccanera, che ha preso in mano tutte le pratiche concernenti la cospicua eredità. Crispucci non ne vuole sapere. Il poveruomo continua a ripetere che non vuole accettarla né per sé né per la figlia. Non vuole che la purezza di Assunta sia contaminata da essa e lotta con tutte le sue forze per respingerla. L'avvocato Boccanera arriva a giudicare la sua onestà una colpa: Insomma fatevi coscienza Crispucci, e ragionate... Sta povera figlia, da quella ne deve avere solo la vergogna? Perché voi avete l’orgoglio della vostra onestà, deve essere la vittima non solo della vergogna della madre, ma anche la vittima della vostra onestà?

Conclude poi, che è inutile il suo dibattersi: Crispw', io so’ avvocato E, come

avvocato

vi dichiaro

e ve faccio leva’ sti pazziella ’a capo. che l'erede legittima per la massima

parte è vostra figlia; la roba è sua, e voi non

vi potete opporre.

Crispucci prima di arrendersi fa un ultimo tentativo per convincere delle sue ragioni gli altri, che tutti concordi lo spingono ad accettare l'eredità. Iniziando proprio con l’avvocato, gli offre per la moglie uno dei preziosi di cui è entrato in possesso. Boccanera insorge sdegnoso. Fa lo stesso con gli altri, colleghi e amici, che ha invitato apposta, accompagnati dalle figlie, dalle sorelle e dalle fidanzate. « Comincia ad aprire i tiretti ed estrarne la biancheria: combinazioni, camicie da notte aperte davanti, di tutti i colori, reggipetti, mutandine, calze ecc. », «e man mano distribuisce a destra e a sinistra la biancheria che ha tra le mani. Tutti lo guardano intontiti. Le donne osservano le camicie con meraviglia ed avidità mal celata ». Offre loro tutto: « Pigliatevella! È rrobba vosta! È rrobba ’e tutt’ ’o munno! Ma io a figliema, no, no! ». « A_ queste parole tutti allargano le mani e lasciano cadere per terra la biancheria che avevano preso avidamente »?. Crispucci continua incalzante:

24.

L'abito

nuovo

79

E vuie ’o ssapiveve ca nun era robba onesta... tanto è vero ca m'avile dato °e turture pe’ tant'anne. Dunque, ‘o ssapiveve! E quanno io v’aggio ditto ca v’’o vulevo da’, vuie nun avite ditto no... Site venute ccà, cu ’e piede vuoste... state ccà... e mo’ nun v'’o vulite piglia’ cchiù. Tenite ccà, pigliate! Io songo pronto a darvela. .. pecché nun aggi’ ’a essere spurcato

quante... 9.

to sulo... v’aggia a spurca’ a tutte

L’azione del terzo atto si svolge nella poverissima casa di Crispucci, il quale è a Venezia trascinatovi dall'avvocato Boccanera per prendere possesso di altri beni ereditati. Stanche della povertà in cui hanno sempre vissuto sia Rosa, la madre dello scrivano, sia la figlia, non comprendono il suo comportamento.

La prima

si lamenta:

« Nun

tocca

niente

isso, nun

tuc-

cammo niente nuie, intanto ’a rrobba sta sigillata Ilà, e ccà nuie ce murimmo ’e famma ». La seconda le fa eco: « Ha giurato ca nun me fa tucca’ niente d’ ’a rrobba ’e mammà. Chillo sarrà capace d’a fa tarla’ dint’ “e casce. E nun è na nfamità? Chella seta... chilli merlette!... » !, Proprio quando nonna Rosa conclude: « Miserabili stevemo, e miserabili rimanimmo... Facce na bella croce ncoppo e nun ce penza’ cchiù. Dint’'’a

sta casa,

’e tutta chella rrobba,

nun

trasarrà

maie

niente! » ‘, arrivano i bauli dell’eredità portati su dai facchini. Li accompagna Concettino, l’ex fidanzato di Assunta incaricato dal Boccanera, che fa la consegna a Rosa. Annuncia l’imminente arrivo di Crispucci e un proprio piano da

eseguire prima del suo

ritorno.

Ora è pronto

a sposare

Assunta:

non solo lo scandalo della madre non è più attuale, ma ci sono anche i soldi che cancellano la differenza di classe. Suo padre adesso è d’accordo per il matrimonio, ma teme Crispucci. Lo vuole perciò mettere davanti al fatto compiuto. Convince la nonna a permettere la fuga della nipote e, dopo aver forzato i bauli, fa rivestire la ragazza degli abiti, delle pellicce e dei gioielli della madre. Pochi minuti dopo la partenza dei giovani, appare Crispucci « col cappello e l’abito nuovo che gli si sgonfia da tutte le parti. Un grosso sigaro in bocca. [...] È ubriaco, ma fa di tutto per tenersi fermo sulle gambe » !. Racconta di aver mangiato e bevuto nel vagone-ristorante e di aver offerto da bere a tutti dicendo: °E ccorne a me chi m'ha fatto? M’ha fatto tutto ‘o munno... E io, dal momento che ho accettato e m’aggio miso stu vestito nuovo ncuollo, non posso fare eccezioni! Bevo ringraziando alla salute di tutto il mondo!”

Cava di tasca una manciata di biglietti di banca e manda a comprare dello champagne per brindare con tutti gli inquilini del palazzo.

80

Cantata dei giorni pari

Guarda in giro e non vedendo la figlia, chiede dov’è. Gli nascondono la verità, ma la scopre presto perché arriva il padre di Concettino riportando i due fuggitivi. Crispucci con amarezza constata: « Se n’era fuiuta?! Appena arrivata ’a rrobba... Comme ’a mamma... Ma che tene sta rrobba, ’o ncantesemo? » *., Nella figlia vede la madre; malgrado i suoi sacrifici e gli sforzi per cancellare dalla sua vita e da quella di Assunta la figura della moglie, questa non era morta diciotto anni fa, come aveva voluto credere lui stesso e cercato di far

credere alla figlia. Continuava

ancora

a vivere:

No! Nun è morta... nun è overo... ‘A vvedite Ilà; è viva! Sta Ilà! (Indica la figlia) ‘A vulite ancora cchié viva... (Afferrandola) Comme te l’he miso sti perle? Nun se portene accussì! (Intanto le strappa

l’abito accollato scoprendole il seno) Cca, a carne annuda se porteno °e_ perle... Assunta « tremante cerca di impedire i gesti del padre, intervengono anche gli altri », ma lui continua: Levatevi!... A voglio aparà io, mo’, ’a figlia soia!... Ma no cu sti perle sulamente!... Cu’ tutte ‘e gioie, cu’ tutte ’e brillante... Na vota che tutte quante ve site mise d'accordo pe’ Me fa’ piglia’ sta rrobba... m'avite fatto piglia” pure a me... Nun ‘o vvedite come stongo vestuto? Ha dda essere viva, essa sulamente! Quanno v’ ’o dicett’io, era morta veramente! Ma mo’ no!... Mo’ ’o muorto songh’io!... E nun avit’ ’a chiagnere... Avit ’a ridere tutte e quante... È muorte nu curnuto! È muorto un imbecille... Don Ferdina’, ‘o champagne! Avimm’ a vévere tutte quante... Redite...! Forte, forte! Accussì!... (Ride) A5/ Ab! Ab! Chiù forte! Chiù forte! (Ride sempre più forte, ad un tratto si arresta come per improvvisa paralisi cardiaca, piomba a sedere sulla sedia, balbettando) ’A morte d’ ‘o curnuto!

Non accetta la forma che gli altri gli impongono. Crolla e muore quando si rende conto che agli occhi degli uomini egli non è mai stato quello che credeva di essere, un onest'uomo, ma solo quello che gli altri hanno veduto in lui: un « cornuto ». Naturalmente anche la delusione che gli ha inferto la figlia ha avuto la sua parte. Crispucci è il classico personaggio pirandelliano, solo in lotta contro l'assurdità della vita e contro la società. Egli ha inutilmente provato ad imporre la sua vera personalità contro le apparenze che gli altri vedevano in lui e la sua integrità contro la concezione borghese del denaro. Muore sconfitto anche nel suo amore paterno che avrebbe voluto fare di sua figlia una donna diversa dalla madre.

25.

Il coraggio

i

81

Ci sono alcune ben delineate differenze fra la novella e la sua trasposizione teatrale. Pirandello con pochi tratti, molto sinteticamente esprime il dramma più metafisico che sociale di Crispuc ci, mentre la commedia, nell’esteriorizzare i sentimenti dello scrivano, dà più risalto all’aspetto sociale — secondo lo stile di Eduardo. Si arricch isce pertanto di nuovi episodi e personaggi, e persino di un coro che commenta le vicende. La differenza maggiore è nel finale. La novella termin a con il ritorno di Crispucci da Venezia e con l'accettazione anche se con tono beffardo della nuova vita simboleggiata dall’abito nuovo. Nella commedia, che più propriamente si dovrebbe chiamare dramma malgra do gli episodi comici che spezzano la tensione drammatica, lo scrivano muore, a simboleggiare la sconfitta di coloro che si rivoltano contro la società e le sue leggi.

25:

Il coraggio Riduzione

dall'’omonima

commedia

di Augusto

Novelli

(1867-1927);

atto unico, 1932 (inedito). Rappresentata per la prima volta il 18 febbraio 19575 dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo », a Napoli, al Teatro Politeama. Il copione si trova nel « Fondo censura teatrale » dell'Arch ivio Centrale di Stato.

In un salotto elegante Anna legge i biglietti e le lettere con i complimenti della gente per l’azione coraggiosa di suo figlio Mario che, gettatosi dal parapetto del lungomare Caracciolo, tre mesi prima aveva salvato la vita di un uomo. Li passa poi ai nipoti, Gina, Maria e Giovanni che commentano l’azione eroica del cugino che sta ricevendo proprio adesso una medaglia d’argento dalle autorità municipali. Mario è socio effettivo della Rari Nantes e ha l'obbligo di compiere dei salvataggi, mentre i membri aggregati come suo cugino Giovanni sostengono finanziariamente il circolo. Le due ragazze, che ammirano Mario, prendono in giro il fratello: « Bella fatica pagare le tasse ». Ma lui ribatte: E non è forse un eroismo anche quello? Sono due forme di eroismo, una compensa l’altra. Ce sta chillo che rischia ’a vita ma nun caccia nu soldo ‘e beneficenza manco si ‘o sparano, io pago le tasse alla Rari Nantes, e così concorro a stipendiare i professori di nuoto. Senza questi professori il tuo caro Mario nun se sarria pututo

menà ‘e capa pe salvà a chillu disgraziato che se vuliva accidere, e

non avrebbe avuto la medaglia al valore civile con la quale a quest'ora

già gli avranno fregiato il petto!.

82

Cantata dei giorni pari

Arriva finalmente Mario reduce dalla cerimonia;

fa il modesto:

infatti non ha voluto né prendere la carrozza del Municipio, né appuntarsi la medaglia sul petto. Lo accolgono le acclamazioni dei presenti, ma lui si schernisce. Vanno tutti nella sala accanto per festeggiarlo con lo champagne, eccetto Giovanni fermato dalla cameriera che gli dice che c’è un uomo strano, con una brutta faccia, che insiste per vedere Mario. : Senza aspettare il ritorno della cameriera, il visitatore entra. È « vestito miseramente col cappello a cencio in mano, la faccia smunta ed emaciata, l’aria piuttosto timida, ma il linguaggio benché lento, fermo e sicuro come chi è convinto di quello che fa e quello che dice » 2. Non vuole dire il suo nome, chiede che annunzino a Mario «uno ». Giovanni gli risponde che « uno non significa niente ». L’uomo, che si chiama Pilade, è d’accordo con lui: Difatti. Io non significo niente, io non sono più nessuno. Una volta sì. Na vota ero quacche cosa, ma poi pigliaie quella risoluzione. Misi il « chiuso » per cessazione, io lo so, non

ci sono più. [...] È

il signor Mario che mi deve dire chi sono... anzi, appena mò dice me fa nu piacere accussì me accumence arracapezzà pure io. Giovanni lo crede pazzo. Pilade continua a fare dei discorsi che sembrano dar ragione al giovane. Si sdraia sul sofà dicendo: « Tanto io e questi mobili siamo compagni, siamo tutta roba che appartiene a lui », intendendo Mario che circa tre mesi fa l’ha acquistato. Ma poi l’ha abbandonato: « Uno se vede na cosa, si desidera, la si piglia e poi si abbandona così come fosse niente » *. Giovanni rimane sempre più allibito dalle frasi senza senso. Viene Mario per chiamarlo per il brindisi e riconosce subito Pilade. È l’uomo che ha salvato. Lo ringrazia di esser venuto. Aggiunge che non sarebbe stato necessario perché lui aveva fatto solo il suo dovere. Pilade non è affatto d’accordo con questa affermazione e continua a fare i suoi discorsi considerati strani dai due giovani. Avrebbe voluto dire queste cose prima a Mario, ma il giovane dopo averlo salvato era scappato via per non dire il suo nome. Solo ora l’ha saputo dai giornali. Annuncia di essere venuto per non andare più via e spiega pure il perché: Vuie chillu juorne chi v'aveva chiammate? con i fatti miei? Se io mi ero buttato a mare,

Che c’entravate

voi

a voi che ve ne im-

portava? [...] A voi chi aveva chiamato? Io no. Pecché nun dicette nemmeno

25.

Il coraggio

83

« Aiuto ». Naturalmente voi dovevate capire che io non avevo bisogno di niente e m’aviveva fa ’i sotto. Non vi pare? [°..] Voi dite che questo è bestiale, io non lo nego, ma primme e ve menà a coppo a nu parapetto pe salvà a uno, informatevi bene, io primme e me menà ce penzai, io nun facette comme fanne tant'ate ca nun arrivane a mettere o pere a fore ’o parapetto e già sono belli e pentiti. No; no. Io mi ero persuaso mi ero convinto che per me non c’era altra via di uscita, ma vuie arrivaste a tiempe, ve menasteve

ncuollo e me chiudisteve pure chella strada! Vi pare che avete fatto na bella cosa? *

Di fronte

alla calma

con

cui parla quest'uomo

delle proprie

disgrazie, le parti si invertono. È Mario ad andare in escandescenze,

e dando dei pugni sulla tavola grida: « Ma la vita è sacra, la vita è fatta per viverla » °. La risposta di Pilade è pronta: Siamo d'accordo egregio signore. E appunto per questo tentai di

levarmela, perché non vivevo più. Prima di venirmi a salvare dovevate informarvi

e sentire

quanto

avevo

sofferto e lottato.

Si vuie

sapiveve quello che io ho patito invece ’e me venì a tirà [...] m’avisseve

menato

pare

‘e cate d’acqua”.

Mario insiste che avrebbe sempre fatto il suo dovere. Anche questa volta l’uomo è d’accordo con lui, ma per arrivare alla conclusione che lui non accetta: Ecco benissimo. Questo ho pensato anch'io. Si vuie avisseve cunisciuto “a storia mia avisseve fatto il vostro dovere no a metà, ma per intero. Fortunatamente oggi vi hanno decretato cittadino corag-

gioso per cui io resto ccà e vuie pensate a me. [...] Non credo che mi avete salvato ’a vita pe me fa murì ‘e famme? Pensate che io avevo scelto una morte che mi dava una tortura molto più breve. I’ n'atu pare ’e calatelle e m’ero sbrigato. Ma ‘a morte ‘e famme vuie scherzate. È lenta, è scocciante,

è tremenda?*.

A questo punto Mario vuol chiamare la Questura. Giovanni ha un’altra idea, porge a Pilade un revolver: « sei colpi in due secondi garantito ». Gli raccomandano però di usarla in strada, non a casa loro. L'uomo sempre con la sua calma spiega che non può farlo: Già. Ma mò mo date vuie ’o curaggio pe fa n’ata vota! Se fossi socio delia Rari Nantes potrebbe darsi perché voi lo tenete sempre pronto, ma io lo ho avuto una volta sola e ce vulette ‘o bello e ‘0

buono. Sacce io e Dio!?

84

Cantata dei giorni pari

Aggiunge che sicuramente Mario non è cambiato in questi tre mesi, quindi non si ammazza anche per non fargli dispiacere. Mario non sa più che rispondere, toglie nervoso cento lire dal portafoglio e le porge a Pilade che intasca tranquillo, annunciando che gli dureranno ben poco e ritornerà presto. Il suo salvatore gli ribatte che lo prenderà a calci se si presenterà. L’uomo se ne va, senza però ridare la pistola che considera sua, anzi, puntandola verso i due giovani prima di varcare la soglia, ridendo dice: « Io ho visto che il signor Mario è molto nervoso e siccome ha dimostrato pure del coraggio devo garentirmi la pelle quanne ve vengo a cercà ’e solde

n’ata volta » !°. Eduardo, durante gli anni Trenta e Quaranta, ha messo in scena riduzioni anche di altri autori drammatici come Pirandello, Lucio d’Ambra,

Gino Rocca, Luigi Antonelli, Ugo Betti, che non vengono analizzate in questa sede. Ho voluto includere Il coraggio, perché ritengo che abbia ispirato

a Eduardo

Io, l’erede (vedi p. 110).

L’atto unico, come la commedia, mette a nudo lo stesso atteggiamento di certa borghesia dell’epoca, che faceva il bene non per gli altri ma per propria soddisfazione. In questo caso specifico, avere la sensazione di essere degli eroi, riducendo così la carità a uno sport, per poi arrivare a negarla/ all'uomo salvato perché possa effettivamente vivere. Arche nel comportamento calmo del protagonista, nel suo ragionare che segue un suo filo logico, vi è qualcosa che fa pensare a quello del personaggio principale di Io, l'erede. Pilade, come Ludovico Ribera, reclama pistola alla mano dei diritti acquisiti proprio per la «carità » egoista dei propri benefattori. Ma vi è certamente grande differenza nell’elaborazione dei due lavori teatrali. Il coraggio manca di vera e propria drammaticità: tutto si basa sul dialogo o meglio monologo di Pilade, intercalato da brevi battute di Giovanni e Mario. Io, l'erede, che Eduardo scriverà qualche anno più tardi, ha un ampio respiro drammatico e l’autore sviluppa l’idea comune con l'originalità sua propria.

26. Il mio primo amore Radiotrasmissione, 1937 (inedito). Il copione risulta dei fratelli De Filippo, che lo lessero probabilmente alla radio il 6 marzo 1937, data del nulla osta per la radiodiffusione. Si trova insieme agli altri copioni nel « Fondo censura teatrale » dell’Archivio Centrale di Stato.

Eduardo spiega al fratello Peppino che davanti al microfono devono « raccontare in maniera il più che sia possibile simpatica e

26.

Il mio primo amore

85

brillante in che modo si è svolto l’episodio » ! del loro primo amore. Peppino, interpretando il suo solito personaggio di molte commedie dell’epoca, fa il tonto e finge di non comprendere le indica-

zioni e le spiegazioni del fratello. Ripete parola per parola quello che Eduardo dice invece di eseguire, oppure fa delle domande assurde. Finalmente dopo i battibecchi, Eduardo può cominciare la sua storia, che viene interrotta in continuazione

dal fratello:

Dunque, egregi radioascoltatori, dovete sapere che il mio primo vero amore lo ebbi a vent'anni. Allora abitavo a Napoli e recitavo in un teatrino situato nei pressi del quartiere Vasto. Il pubblico napoletano mi apprezzava moltissimo per le mie uscite... Peppino Mi ricordo. [...] Tutte le volte che uscivi diceva: « Ob, meno male che è uscito. Speriamo che non rientri troppo presto ».

Epuarpo

Peppino EpuarDo

Queste sono storie. Fatto sta che il pubblico napoletano mi apprezzava moltissimo per le mie uscite spiritose, quando recitavo nelle commedie, ma dove mi apprezzava di più era nelle tragedie. Quando recitavo nell’Amleto per esempio, tutti piangevano. [...] ma chi piangeva più

di tutti... Era l’impresario che aveva incassato due lire soltanto. Chi piangeva più di tutti era Ofelia, ossia l’attrice che faceva la parte di Ofelia”.

Fu proprio lei il primo amore di Eduardo. Una sera, recitando, si slogò una caviglia e dovette essere sostituita, con grande dolore del coprotagonista. Eduardo, « appena terminato di recitare, ancora truccato » ogni sera andava a trovarla perché, figlia del custode, abitava nel teatro: « Così, la prima sera mi amò vestito da Amleto, la seconda sera truccato da Padrone delle Ferriere, la terza sera da

D'Artagnan » È. Quando guarì successe la tragedia vera, perché a Eduardo che le chiedeva sotto quali spoglie le era piaciuto di più, l’attrice rispose: vestito da Pulcinella. Peppino come al solito non capisce, il fratello è costretto a dargli delle spiegazioni: Come non mi capisci? Un infame, un lazzarone, approfittando del fatto che Concettina era abituata a vedermi ogni sera con una faccia nuova, si era travestito da Pulcinella, sostituendosi a me... e così la lasciai *.

Eduardo a questo punto invita il fratello a raccontare la sua storia. Peppino imbarazzato comincia:

86

Cantata dei giorni pari

Ab... già... io, a quei tempi, come ricorderai, facevo la farsa nello stesso

teatro

dove

lavoravi

tu. Una

volta

avevo

sete,

avevo

appena

finito di recitare, entrai nella stanza del custode del teatro per farmi dare un bicchiere d’acqua quando mi vidi acchiappato e baciato da una donna che mi disse: « Quanto sei bello, vestito da Pulcinella ». E io non lo sapevo che quella credeva che fossi tu... tu mi devi perdonare... Edoardo...

Eduardo lo apostrofa: « Ma allora... sei stato tu! » e Peppino conclude: « Sì, ma tu capisci... ero giovane... inesperto... Edoardo tu mi devi capire... È stato quello il mio primo amore »*. Questa scenetta comica ha l’interesse e il valore di documento storico dell’attività dei due fratelli che non solo avevano accesso a tutti i teatri d’Italia, ma potevano esibirsi anche sul programma nazionale della radio. È da notare che mentre nei teatri era tollerata la loro recitazione in dialetto, qui si esprimono in italiano e perfino il nome di Eduardo è italianizzato in Edoardo.

29

Che scemenza Atto unico, 1937 (inedito). Scritto in collaborazione con Titina De Filippo (1898-1963), l'atto unico non risulta rappresentato. Il nulla osta della censura alla rappresentazione porta la data del 23 dicembre 1937.

L’azione della commedia consiste in una conversazione fra cinque amici sul contenuto di una commedia che hanno appena visto a teatro. I commenti di Maria e Stefano, che sono amanti, sono decisamente negativi; Luigi invece insiste nell’enumerare i pregi del lavoro e vuol convincere gli altri a condividere le sue idee;stIole e Gaetano cercano invano di cambiare discorso. Alla fine dell’atto unico si scopre il perché dei loro diversi atteggiamenti. Stefano e Maria sono concordi nel giudicare la commedia « una scemenza », « una cretinata ». Luigi ritiene che gli amici non abbiano seguito bene la trama. Decide di narrarla:

Due coppie si sono divise le mogli, si sono divisi i mariti. Stop. Uno s'è ghiuto cu ‘a mugliera “e uno e n'ato se n'è ghiuto cu ‘a

mugliera ’e nato. sieme, si accorge

[...] Dopo mesi [...] facendo vita comune asdi amare follemente la propria moglie... [...].

27.

Che scemenza

87

Quell’uomo si trova in una posizione delicatissima: si può tradire una prima volta ma una seconda no. Ti pare? Ed ecco la cosa bellissima di questo lavoro: i due che si amano di nascosto, come due amanti colpevoli... e lo sono difatti... come mai fossero marito e moglie. È una cosa bellissima... Per carità!... In America succede

tutti i giorni... ®.

Luigi non sa quanto sia inopportuna la sua insistenza sull’argomento. Infatti il lavoro teatrale rispecchia esattamente la situazione di Stefano e Maria. Il primo aveva detto a Luigi al teatro che si era

commosso per quanto era vera la commedia, ma ora davanti a Maria lo nega, dice di aver parlato in tono caricaturale. Continua a denigrare il lavoro, ma si vede che « è ossessionato da un pensiero fisso che cerca di simulare » ?. Infatti ad un certo momento non riesce più a nascondere i propri sentimenti. « Trascinato suo malgrado dalle parole di Luigi », che continua ad illustrare i pregi del contenuto della commedia, « s’infervora e parla come di un fatto che riguardasse lui stesso direttamente »:

Dopo mesi che sono stati insieme questi amanti, che hanno vissuto come marito e moglie... tutto ad un tratto si sentono divisi, staccati. Lui, il marito, amante della moglie dell'amico, si accorge con terrore di essere innamorato cotto della propria moglie, di desiderarla come se non l’avesse mai avuta, di essere geloso fino allo spasimo dell'altro, di colui al quale egli l’ha ceduta quasi con cinismo, con un senso di liberazione. E allora quest'uomo soffre. Soffre non come soffrono gli altri, come può soffrire un marito tradito comunemente dalla propria moglie, no. Soffre solo, comme ’a nu cane. Non ha il coraggio di confidarsi con anima viva, con il terrore che qualcuno possa sospettare la sua sofferenza, temendo il più atroce del ridicolo, il ridicolo che può coprire un uomo che volontariamente ha ceduto la propria moglie come si fa nella quadriglia e che poi si permette il lusso di addolorarsene, di piangere lagrime di coccodrillo sull’errore commesso ma che sa di non poter sperare niente, mai,

nessuna pietà}.

Stefano « è agitato, commosso. Sono uscite le parole dalle sue labbra senza poterle trattenere, s’accorge che tutti lo guardano un poco smarriti meno Luigi che è sorridente e lieto che sia della sua opinione » . È costretto a riprendersi e aggiunge: «In fondo, la commedia non poteva divertire. Nessuno si diverte a vedere un altro che piange anche se questo tale ci è completamente indifferente, la malinconia dev'essere falsa per interessare, se è vera, sentita, secca » 5. Partiti gli amici, Stefano chiama di nascosto la moglie, esatta-

Cantata dei giorni pari

88

mente come succedeva nella commedia. Le professa il suo eterno amore e le dice di raggiungerla fra poco. Maria non protesta che come ogni sera lui se ne vada. Stefano si meraviglia, ma non sa che la donna vive la sua stessa assurda situazione. Infatti Maria, con la complicità di Iole, l'indomani s’incontrerà col marito, che è inna-

morato di lei più di prima. L’atto unico rende con sufficiente realismo una vicenda umana e grottesca nello stesso tempo. L’idea sembra originale per l’epoca; nella commedia stessa si definisce come « azzardatatissimo » © il lavoro teatrale che rispecchia la situazione dei protagonisti. Nel complesso, però, Che scemenza rientra nel filone intimista e si distingue sia per contenuto che per stile dagli altri lavori di Eduardo di questo periodo, dove o umorismo o critica sociale prevalgono. Probabilmente ciò è dovuto ai differenti interessi artistici della coautrice, Titina De Filippo.

28.

Il ciclone Atto unico, 1938 (inedito). Tratto da una novella di Arcadio (Arkadij) Avercenko (1885-1925). Riceve il nulla osta alla rappresentazione il 17 aprile 1938 e l'indomani è spedito per posta al Teatro Mercadante di Napoli, ma non risulta che sia stato messo in scena. Il copione si trova nel « Fondo censura teatrale » conservato nell’Archivio Centrale di Stato.

In casa Loreto, la scena rappresenta un salotto di famiglia benestante. Carmela, la cuoca, scusandosi perché la cameriera è ammalata, introduce

Pasquale

Cirillino,

un

uomo

piuttosto

basso,

con

« voce squillante e festosa, un viso gaio, aperto, ornato di un nasetto rosso, lucente e di un paio d’occhi brillanti come stelle ». La didascalia ha cura di specificare che

basta guardarlo

un istante per capire che Pasquale Cirillino

vive

senza un pensiero al mondo allegramente, mangiando a quattro ganasce, ciarlando moltissimo, trovando ovunque argomento di buon

umore e spargendo su tutti i casi della vita un riso spensierato e ; 1 felice !.

Questa descrizione giustifica solo in parte gli scherzi che quest'uomo giuoca al prossimo, perché non accenna alle conseguenze di questi suoi tiri. Pasquale comincia subito con la cuoca, prendendo fra le mani il

28.

Il ciclone

89

suo viso infiammato dal fuoco e rivoltandolo verso la luce: « Povera Carmela! Giesù... quanto è certa la morte ti sei fatta irriconoscibile! Ma staie malata? [...] Tu sei pallida come una morta. Si direbbe che ti restano poche ore di vita! » 2. La donna suggestionata dalle sue parole rabbrividisce e scappa piangendo. Pensa alle sue tre creature già orfane di padre. La prossima vittima è Giovanna, una ragazzina di tredici anni che viene a dirgli che il papà sta arrivando. Pasqualino le domanda se ha confessato al padre di essere stata riprovata agli esami. La ragazza si meraviglia e gli chiede: « Quali esami? Ma se sono stata ammessa! ». L’uomo con tono ironico replica: « Lo credete proprio? Complimenti, allora! Beato chi ci crede! Ah, povera Giovannella, quanto mi dispiace!... Soprattutto per vostro padre, che il pane se lo toglie di bocca, per farvi studiare » 3. Le dice di aver parlato con il suo insegnante che in via confidenziale gli ha fatto sapere che il consiglio dei professori ha deciso di non ammetterla agli esami. Anche Giovanna scappa piangendo. Viene finalmente Paolo e dopo i convenevoli si lamenta con l’amico che la moglie Anna dopo quindici anni di matrimonio continua ad essere « gelosa come una gatta! ». Anche ora, ritornata da Roma dove era stata per assistere la sorella malata, aveva fatto scenate di gelosia al marito immaginando chissà che cosa avesse fatto durante la sua assenza. Paolo invece non si era mosso da casa, aveva fatto « casa e ufficio ». Hanno appena fatto pace. Anna raggiunge i due amici. Il suo aspetto minuziosamente descritto nella didascalia tradisce la sua fissazione: È modesta, tutta chiusa in labbra sottili e un’acconciatura inquieta. La gelosia la rende letto fra le mani, e non riesce attimo su di un oggetto*.

un accollatissimo abito scuro; pallida, alla vergine su di una fronte bassa e nevrastenica; agita sempre un fazzoa fermare il suo sguardo più di un

A Pasquale non sembra vero di poter prendere la palla al balzo e di soddisfare il suo gusto di scherzare. Fa credere alla povera donna che durante la sua assenza lui e il marito ne hanno combinate di tutti i colori con polacche, spagnole. Porge pure all'amico un biglietto da cinquanta lire, dicendo di aver perso la scommessa: effettivamente la spagnola aveva la piccola voglia di cioccolata sull’anca sinistra. Questo per far parere ancora più vere le storie che racconta. Paolo all’inizio ci sta allo scherzo, fa solo dei cenni alla moglie per farle capire che è tutto inventato, ma poi vedendo che Anna è furibonda e sta credendo ogni parola di Pasquale, si ribella. L'amico,

Cantata dei giorni pari

90

se così si può chiamare, non si dà per vinto e continua ad insistere peggiorando la situazione. Dice infatti: Scusa, Paulù, noi siamo troppo amici, ti voglio troppo bene... °A signora mi deve perdonare; ma ‘a sta facenno pesante assaie! Alla fine dei conti che ce sta ’e male? Tutti i mariti fanno questo ed altro!, pur rimanendo buoni e affezionati con la moglie... Non vale proprio la pena avvelenarvi il sangue per un fugacissimo incontro con una spagnola, danzatrice di tabarin... E voi così a stu povero

Pauluccio gli rendete la vita un inferno?.

La povera moglie, fuori di sé, se ne va sbattendo l’uscio. Pasquale « sprofonda in una poltrona, ride alle lagrime come un fanciullo » °. Inutilmente Paolo chiede ad Anna di aprire la porta. Fra i singhiozzi gli dice che tutto è finito tra loro, e poco dopo si presenta con le valigie. Se ne va dalla zia e «l’avvocato farà il resto » ”. Anche la cuoca viene con le valigie e involti vari, piangendo accusa i padroni di averla distrutta con tutto il lavoro che le facevano fare. Paolo, disperato per la partenza della moglie, la paga e la manda via in malo modo. I guai non sono ancora finiti, perché si presenta anche Giovanna con molti pacchi e diversi oggetti che ultimamente ha ricevuto in regalo. Li butta tutti per terra, pestandoli, e fra le lagrime dice che non merita niente perché non è la figlia studiosa come tutti credono: « Voglio murì... Me ne vaco a da nonna... Povera me... povera me... ». Paolo non ci capisce più niente: « Ma ch’è succiesso? S'è scemunuta pure chella! » ®. Prende il cappello ed esce appresso alla figlia. Pasquale rimasto solo, « gira per la scena, ogni tanto ripensa a quello che è successo e ride; dopo poco comincia a sbadigliare; dà uno sguardo alla camera; gli viene un’idea e comincia a riderne; va in fondo, si attacca al telefono interno del palazzo »? e chiama su il portiere. L’uomo entrando chiede se i signori Loreto sono tutti partiti dato che li ha visti uscire con le valigie. Pasquale che ha già ordito il suo nuovo scherzo gli risponde che si sono trasferiti perché hanno avuto una fortissima eredità da uno zio milionario che è appena morto in America e aggiunge: « tutt’ a rrobba d’a casa te l’hanno regalata a te. Chiamma ‘e facchine, e scinnete tuttecosa! » 19. Il portiere trabocca di felicità e si guarda intorno, mentre Pasquale tutto soddisfatto dei suoi scherzi se ne va ridendo. Eduardo

ha ben tradotto nell’atto unico

l’umotismo

contenuto

nella

novella dell’autore sovietico, ma gli ha dato anche una interpretazione sua personale.

29.

Pericolosamente

SH

Sotto l'apparenza gioviale e scherzosa del protagonista — sottolineata anche dalle didascalie che in questo atto unico sono molto elaborate e precise — fa risaltare il suo cinismo più che il suo senso dell’humour. Infatti la sua non è altro che cattiveria, che approfitta della buona fede degli altri e produce solo lagrime e dispiaceri, distrugge veramente tutti, come un ciclone. Vien da domandarsi se Eduardo abbia letto questa novella prima di scrivere Uro coi capelli bianchi (vedi p. 66). Vi è una certa affinità fra Battista e Pasquale, anche se il ruolo di quest’ultimo è molto più limitato.

DIS)

Pericolosamente Atto novembre al Teatro Nel aprile col nel 1959

unico, 1938. Rappresentato col sottotitolo « Scherzo comico », il 20 1938 dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo », a Roma, Eliseo. 1947 Eduardo riprende questo atto unico e lo mette in scena il 5 titolo Sax Carlino a Milano, al Teatro Mediolanum. Lo pubblica però col titolo originale.

Dorotea, una donna sulla quarantina, di cui si nota « subito la mancanza assoluta di intelligenza », introduce Michele, un amico di suo marito Arturo, momentaneamente assente. Michele dopo tanti anni di permanenza in America è appena ritornato a Napoli e ha incontrato per caso Arturo, che, saputo che cercava una camera ammobiliata, l’ha invitato a casa sua. Ritorna Arturo, e Dorotea fa subito conoscere il suo carattere « infame ». Qualunque cosa che le dica il marito, ha pronta una risposta sgarbata come: « Io nun songo ’a serva ’e nisciuno », « Tu viene frisco frisco dall’ufficio e te miette a cummanna’ » !. Quando poi le domanda di portare il caffè, Dorotea replica: « Ha ordinato il signorino: due caffè uno per lord Strong e un altro per il Kedivé. °O cafè v’’o ghiate a piglia’ ’o bar! », e aggiunge ancor più villana: «O cafè, nun t’’o voglio piglia’, schiatta! ». Arturo di rimando le grida: « Dorote’, nun me mettere cu’ ’e spalle nfaccia ’o muro » 7. Estrae una rivoltella dalla tasca, le spara, inutilmente Michele cerca di trattenerlo. Dorotea si abbatte su una sedia. Pochi minuti dopo riesce a dire: « Aggio avuto n’atu miracolo! ». Si alza e con dolcezza va vicino al marito e diventa gentilissima, si preoccupa per lui che lavora troppo. Ma dopo aver portato il caffè ridiventa come prima. Scoperto che il marito si è fatto uno strappo alla giacca, gli dà del « baccalà » e

92

Cantata dei giorni pari

si rifiuta di rammendarlo. Arturo tira fuori di nuovo la rivoltella, Michele cerca di calmare l’amico, non ci riesce e spaventato si nasconde sotto il tavolo, mentre Arturo spara di nuovo. La moglie cade mezza svenuta sulla sedia: « Madonna! Ll’aggio scanzata pure stavota! » ®. Prende la giacca e va ad aggiustarla. Michele viene fuori da sotto il tavolo, asciugandosi il sudore, e minaccia di andare alla polizia per denunciare l’amico, ma Arturo che non vuole perdere la sua amicizia gli spiega il mistero di quei colpi di pistola:

Ma vieni qua, bestia. Qua’ delinquente... Io faccio apposta. Quando sposai mia moglie, la quale è una buonissima donna, ma tene nu carattere infame, per una piccola cosa fa rivoltare la casa e soprattutto — e questo è quello che maggiormente me fa perdere

‘a capa —

ti dà cierti risposte che ti esasperano talmente che uno

veramente l’accedesse... il primo giorno di matrimonio avemmo una di queste discussioni animate. Stavamo a tavola. Io tenevo in tasca uno di quei revolver scacciacani; nu poco pecché me facette piglia’

’e nierve, nu poco pe’ pazzia’, le sparai na botta ’e chella. Immediatamente vidi il cambiamento: diventò dolce, sorridente e gentile.

Insomma aggio capito che pe’ sta cuieto, ‘e mugliere s'hann' a spara’. Da allora in poi si nun ’a’sparo nun stongo cuieto*.

Naturalmente l’arma è caricata a salve. I due uomini decidono di uscire insieme. Siccome l’effetto del precedente sparo è già svanito, Dorotea ricomincia e vuole impedire al marito di andare fuori con l’amico. Arturo tira un altro colpo, al quale segue la solita scena di ringraziamento ai santi e il mutamento della donna. Quando stanno per uscire, il marito si ferma come preso da un’idea e tira tre colpi di rivoltella alla moglie. Michele si meraviglia, perché « chella mo’ nun aveva fatto niente... ». Arturo gli ribatte: « Mo’

no,

dutmi’ » }.

ma

io quanno

torno

stanotte,

tengo

suonno

e voglio

Giustamente Eduardo, quando riprende questo atto unico, poco più

di uno sketch, lo intitola Sar Carlino. Infatti è una farsa nella tradizione

delle pulcinellate di quel teatro. La maschera napoletana spesso si serviva della mazza, che faceva più rumore che male, per farsi obbedire dalla moglie. Arturo vivendo nei nostri tempi la sostituisce con la pistola e con i colpi sparati a salve, e vi aggiunge un minimo di suspense presto svelato. Pericolosamente è un titolo un po’ impegnativo per una farsa con reminiscenze della Bisbetica domata di Shakespeare. Secondo Carlo Filosa riecheggia, « non senza ironica intenzione », « uno dei motti programma-

30.

La parte di Amleto

DS

tici dell’etica eroica degli anni del fascismo — Vivere pericolosamente — durante i quali fu scritto » £ questo, che l’autore stesso chiama « scherzo comico ».

30. La parte di Amleto Atto unico, 1940. Rappresentato per la prima volta dalla compagnia ;Lao Umoristico i De Filippo » il 19 gennaio 1940, a Milano, al Teatro eon.

L’azione si svolge sul palcoscenico di un teatro, con i camerini

su due piani sul fondo. Manca poco alla rappresentazione serale dell’Azzleto. Alcuni attori sono già nei camerini, altri stanno arrivando. Fervono i preparativi, interrotti dai battibecchi fra il primo attore e la prima attrice. Uno crede di essere migliore dell’altro, e viceversa.

Gli attori giovani assistono divertiti e chiedono a Franco, « un vecchio attore di provincia, ormai ridotto, per gli anni e gli acciacchi, a servire » la compagnia, se era così anche ai suoi tempi. Risponde di sì: « Non mancavano di queste gelosie fra gli attori ». Ma precisa: « Però si recitava bene, si incassavano quattrini. Queste beghe non intaccavano il successo del lavoro, anche perché alla testa di una compagnia c’era sempre un maestro sul serio... » !. Giunge l’impresario con Rita, una giovane aspirante attrice. Deve

« cominciare a vivere un po’ fra gli attori » per ambientarsi, « per prendere aria di palcoscenico » che « in fondo è la casa degli attori » ?. Fa amicizia col vecchio Franco. S’intavola un dialogo fra « l’alba e il tramonto », la cui pateticità viene interrotta dalle battute comiche e rozze del vecchio custode che non risparmia l’ex attore: « Signuri” questo è stato un grande artista. Quando recitava lui aumentava il prezzo dei pernacchi. Non si trovava una pummarola, se la volevate pagare mille lire » ®. Franco non si fa scoraggiare, ama la sua vecchia professione e il teatro, nonostante abbia fallito per mancanza di genio artistico, e vuole trasmettere il suo amore alla giovane Rita. Dimentica le sue traversie di capocomico di provincia e si sforza di prepararla alla vita di teatro non priva di difficoltà, ma anche prodiga di soddisfazioni: L’arte vi prenderà. Quando avrete i primi successi... Comincerete in qualche piccola parte con un batticuore che vi parrà di morire;

94

Cantata dei giorni pari

e poi le parti più importanti, che non vi lasceranno il tempo nem-

meno di pranzare. Poi prima attrice... Gli applausi del pubblico! [...] Poi la serata d’onore... il palcoscenico pieno di fiori... doni da tutte le parti... un gran pubblico elegante, quello delle grandi occastont... Dopo teatro, la cena nel ristorante di prim'ordine... brindisi... champagne... E poi... per la strada tutti vi riconosceranno... Eccola! E parlano tra loro... Poi avrete la vostra compagnia, con il vostro nome alto così sui cartelli e a lettere luminose sull’ingresso del teatro. [...] E poi qualche insuccesso... Bisogna tener presente: il

pubblico è un po’ volubile... Non pensa più magari agli applausi del primo atto; al secondo fischia. Ma quei fischi ti danno forza e fede. Ti dicono: lotta! E tu lotti per migliorarti e per la rivincita *. Durante questa lezione di vita nel teatro, scoppia una vera e propria guerra fra il primo attore e la prima attrice. E quando il primo attore dichiara che non reciterà quella sera, perfino l’impresario perde la pazienza. Gli attori giovani ne approfittano per fare una burla al povero Franco. Gli fanno credere che l’impresario ha deciso di affidargli la parte di Amleto per sostituire il primo attore. Il vecchio artista teme che sia uno scherzo, ma l’idea di ritornare sul palcoscenico lo esalta. Va a vestirsi e a truccarsi. Quando, pronto, scende le scale che portano al palcoscenico lo spettacolo è veramente penoso. Sembra «un morto imbalsamato »: «il maglione nero è troppo largo per le sue gambette stecchite. Anche la giubba è troppo grande per lui. Sui suoi capelli bianchissimi ha messo una parrucca a buccoli, il suo volto è spalmato di cerone troppo rosa » 5. Gli autori dello scherzo sentono ora una profonda pena. Franco si presenta all’impresario dicendo: « Eccomi signor Felta. Ecco Franco Selva di una volta » £. Quello capisce subito cosa è successo e rimprovera i giovani attori. Non vuole umiliare ancora di più il povero vecchio e gli dice: « Vi ringrazio tanto della buona volontà, Franco, ma non occorre più che vi disturbiate. Mi sono riconciliato con Cartis ». Gli porge cinquanta lire. Franco « guarda gli altri e comprende. Non stende la mano ». E risponde: « Signor

Felta, no... Me le darete più tardi, per un caffè o un pacchetto di sigarette che andrò a prendervi; ma ora no. Franco Selva, vestito da Amleto non vale neanche cinquanta lire »?. I giovani non riescono a staccare il loro sguardo pieno di umana pietà da Franco. Solo il campanello che li chiama in scena riesce a farli muovere. Il vecchio attore rimane solo con Rita. « Guarda dalla parte

dove, fra pochi istanti, si svolgerà lo spettacolo. I suoi occhi quasi

non vedono ». Rita si fa coraggio e chiamandolo con l’appellativo affettuoso degli altri gli dice: « Nonno! Spogliatevi! ». Ma Franco

31.

Basta il succo

di limone!

95

< non l’ascolta, forse non ode neanche le prime battute dell’Azz/eto che arrivano dall’interno » *, rapito da un sogno anche se non realizzato. Eduardo in questo atto unico ci fa conoscere «il rovescio » del teatro, le quinte, i camerini e il comportamento degli attori dietro alle scene. Nessuno come lui, cresciuto sulle tavole del palcoscenico, poteva darci un quadro più realistico di questo ambiente e l’ha fatto senza falsi pudori. In questa cornice racchiude la storia patetica del vecchio attore che nonostante il suo fallimento, senza alcuna amarezza, sa trasmettere i suoi sogni non realizzati alla giovane che sta agli inizi della carriera artistica. Sottolinea pure, come già altre volte — vedi Uomo e galantuomo Po —, che non vi è alcuna differenza tra vita e teatro. Fa dire all’impresario che il palcoscenico è la casa degli attori che sono « inquilini come gli altri »?. Mostra pure che la vita dell’attore è uguale a quella degli altri uomini, con le beghe, le gelosie, i problemi economici delle nuove leve. Fa risaltare l’analogia fra il vecchio attore che vive dei suoi sogni non realizzati e il vecchio custode, che, rimasto solo dopo la morte per tumore della moglie, cerca nel vino come l’altro nel teatro un certo qual sollievo. Infatti il guardiano mostrando la bottiglia dice: « Parlando con crianza, mi vado a menare questo nella panza; così tengo la speranza che mi addormo e mi sonno l’abbondanza. Voi mangiate Arte e puisia; io no! Io mi vado a bere questo litro di vino... » 1°. Giustamente Leonida Repaci scriveva al momento della prima rappresentazione della Parte di Amleto, che « l'eterna delusione dei trascurati è il senso della commedia, la quale trova il suo equilibrio in una mescolanza di riso e di commozione quasi perfetta » !!,

Sul

Basta il succo

di limone!

Rivista in due tempi, 1940 (inedito). Scritta in collaborazione con Armando

Curcio (1900-1957),

è rappresentata

prima volta, ed ultima, il 25 novembre

dalla compagnia

«La

Serie d’oro » per la

1940, al Teatro Quattro Fontane,

a Roma.

Eduardo ricorda che i fischi dei fascisti costrinsero la compagnia ad interrompere lo spettacolo prima della fine del secondo tempo. Nella produzione artistica di Eduardo questa rivista satirica, realizzata in collaborazione con Armando Curcio, esprime più apertamente l’atteggiamento di opposizione al regime fascista del nostro autore e la sua convinzione che quel regime doveva cadere perché il popolo italiano potesse ritrovare la libertà di vivere e di progredire secondo la sua indole e la sua cultura. Il copione si trova nel « Fondo censura teatrale » dell'Archivio Centrale

di Stato.

Cantata dei giorni pari

96

Lo spettacolo è introdotto dall’inchiostro nero simboleggiato da una donna in maglia nera seduta su un enorme calamaio. Annuncia che la rivista finalmente è finita: Cosa

sia stato

scritto

non

lo so.

IAC hsalra da quanti e quanti inchiostri venne fuori? da quanti, quanti e quanti calamai? da quanti diversissimi colori? Il nero, il rosso, il verde, l’azzurrino...

e l'inchiostro simpatico perfino. Lo conoscete?

È furbo, accorto,

astuto...

predilige l’ambiguo e l’inespresso, e parla molto, pur essendo muto, è bianco, ma puoi leggere lo stesso, spargendo tra le righe del copione un po’ di succo di limone®.

Con questo invito a leggere fra le righe e dopo il balletto dei vari inchiostri compreso quello dell’« Intelligence Service », ha inizio la rivista che ruota intorno a due temi. Il primo è di attualità, illustra con tono scherzoso, ma troppo audace per l’epoca, le conseguenze della dichiarazione di guerra dell’Italia. Il secondo presenta la concezione del teatro di Eduardo, che per lui si identifica con la vita. Il filo conduttore dello spettacolo è il desiderio di due contadini,

Anacleto e Veronica, di divertirsi in un giorno di festa. Insieme ad altri campagnoli fanno « festa all’arrivo di una pittoresca carretta dipinta a colori vari e tirata da un asino, che Beppe, in abito d’Arlecchino, guida a mano ». Sul davanti del baroccio c'è Nedda in un costume tra zingara e l’acrobata. Sul di dietro la grancassa. Segue a piedi Canio, vestito da pagliaccio. Con la tromba, battendo sulla grancassa e cantando, annuncia il grande spettacolo all’aperto che rappresenteranno alle ventitré. Interviene subito un vigile energico: Ma voi siete pazzo! A ventitré ore, non potete far niente all’aperto. Vi possiamo tollerare dalle quindici e trenta alle diciassette e trenta. Le luci come le accendi? Il permesso chi te lo dà? E poi... fammi vedere... Questa carretta non è a posto! Sei in multa per parecchie ragioni! Dopo averla ispezionata aggiunge: Manca il fanale anteriore e posteriore, regolarmente

Come ti permetti di circolare in queste condizioni?

mascherati.

31.

Basta il succo

di limone!

97

Tonio, uno degli artisti per tutta risposta gli mostra per fanale il classico « coppo » dei carrettieri. Il vigile immediatamente lo arresta, malgrado le sue proteste: Tu, per ora, non

fare resistenza

e vieni con

acchiappare spettatori, io cerco di acchiappare muovere, se no ti sparo?.

me.

Tu cerchi di

segnalatori.

Non

ti

Tornando poi alla carretta, ordina che venga dipinta di bianco di dietro e davanti. Inutilmente protesta Canio che è impossibile dipingere tutto l’asino di bianco, il vigile è irremovibile e si porta via pure Tonio. Gli altri si allontanano. Rimangono soli Anacleto e Veronica, che commentano lo strano orario dello spettacolo dovuto all’oscuramento. Ad Anacleto non va lo spettacolo al pomeriggio. Vorrebbe tornarsene a casa, così la moglie gli suonerà la fisarmonica. Veronica gli annuncia che le « signore della buona società » gliela hanno tolta. « Pare che fanno uno studio particolare per rubarsi tutte le cose nostre:

ci hanno tolto il fazzolettone, gli zoccoletti, le

borse di paglia, i cappelli di paglia, [...] »?. Il secondo quadro, infatti, rappresenta un

molto elegante, dove il maestro

Manticetti,

salottino intimo, « riccamente vestito e

adorno di oro e di gioielli », il più richiesto professore di fisarmonica, sta terminando la sua lezione alla signora Veronica Veronichetti. Spiega la diffusione di questa mania della fisarmonica in tutti i quartieri di Roma. « Capirete: uno strumento che s'impara con poche lezioni; che si mette facilmente a tracolla... e che dà un lucro sicuro... ». Dà poi i consigli del caso alla sua allieva: Anzi tutto, fornitevi di regolare permesso, per non aver fastidio... [...] E poi scegliete bene il punto! Posti frequentati, ma non affollati! [...] Un altro segreto è quello di suonare musiche facili: La donna è mobile, Alfredo Alfredo di questo cuore... [...] Quanto al pappagallo... posso darvi io stesso l'indirizzo d’un negozio in cui li vendono belli ed ammaestrati. E se ne stanno lì tranquilli nella gabbia ed al minimo cenno sono subito pronti col beccuccio a tirare fuori il biglietto della fortuna.

Estrae dal portafoglio due biglietti e poi li legge commentandoli:

« Voi state per concludere un grande affare »... Veramente « un grande affare » è meglio modificarlo... « Voi state per concludere un affaruccio... il quale sarà ostacolato da persone che vi vogliono male... Ma alla fine trionferete! Fra un po’ di tempo farete un grande

Cantata dei giorni pari

98

viaggio ».. E questo pure bisogna modificarlo, perché per il momento... Beh, mettiamo « Roma Frosinone, Napoli Caserta »...*. La signora che non ha di queste intenzioni non pensando che la guerra potrà ridurre al lastrico anche i ricchi, caccia via in malo modo il maestro. Finito lo sketch i soliti due contadini sono in scena e incontrano l'« Accaparratore con tre eleganti donnine tenute al guinzaglio ». Anacleto si meraviglia di vedere queste tre donne tenute al laccio e chiede spiegazioni all'uomo che gli risponde: Egregio signore, chi ha tempo

non aspetti tempo!

Io sono

pre-

vidente! (Con aria misteriosa) Fra pochi giorni, se non si aggiustano le cose, mancheranno le donne. [...] Voi credete che quando io vado a letto dorma? No!... Io penso! Io penso a tutto a tutto quello che potrà mancare se non si aggiustano le cose!... Vedete... Questa è la chiave... Ho già affittato un gran deposito, e per ora sono riuscito ad accaparrare due tram... Consiglia poi ad Anacleto di fare come lui: Fatevi una buona provvista di guai... [...] Sono riuscito a farne una discreta provvista... Per circa tre anni non me ne mancheranno!

[...] Almeno

mi posso lamentare

stano le cose, ditemi voi come

un po’, perché qua se si aggiu-

faremo a lamentarci un po’? E, capi-

rete, abituati da tanti anni al lamento, come

si potrebbe vivere?

Naturalmente pensa ad accaparrare generi alimentari pure. Infatti arriva la moglie dell’accaparratore che tiene tre giovanotti al guinzaglio ed è seguita dal cameriere carico di involti: prosciutti, olio, formaggio, zucchero, sapone... che vanno nei loro vari magazzini. L’accaparratore rimasto solo intona la sua canzone sul motivo di Sulla carrozzella:

Oggi occorre tutto prevedere tutto

accaparrare

con abilità Qui nessuno

mai potrà sapere

né profetizzare quello che avverrà! Io non sono affatto pessimista. Giuro, son sicuro:

tutto cambierà.

31.

Basta il succo

di limone!

DI

Ma però mi faccio la provvista: non m'importa un corno

dell'Umanità! * Anacleto e Veronica vorrebbero accaparrare un po’ di divertimento ma temono che sia già tutto finito da un pezzo. Qualunque tipo di spettacolo, dalla rivista alla prosa, dal varietà alla lirica. Entra però Turno, della « Domenica del Corriere », « portando una gran quantità di serrature infilzate ad un fil di ferro », che li rassicura che non è così: Ti sbagli caro... Io, vedi, in fondo in fondo gli spettacoli allegri e interessanti, li osservo per le vie del vecchio mondo, sfrutto le fesserie di tutti quanti... Occhio alla serratura e, in modo uguale,

le riproduco in versi sul giornale. [...] Occorre

astuzia

ed io son

molto

astuto

nell'arte del vedere e del sapere [...] [...] Rincorro,

osservo,

spio

m'affanno per scoprire qualche cosa. Quando non c'è, l’invento a modo mio.

Offre a Anacleto un numero di serrature e spiega: Se tu avrai la pazienza di passarle in rivista una alla volta, avrai di che divertirti! Ce n’è per tutti i gusti. Divertiti come vuoi e come puoi. Potrai scoprire mille segreti, penetrare in mille intimità...

Lo invita a cominciare con la serratura del capo di casa: Qua

ti puoi

divertire

veramente...

Assisterai

ai mezzucci,

alle

trovate, alle acrobazie di questo poveruomo che da secoli dice di non poter andare più avanti, ma invece in qualche modo se la cava sempre... È. Il seguito del primo tempo è dedicato alla critica di un certo tipo di teatro lontano dalla vita e dalla realtà, dove perfino la messa in scena è astratta e surreale. Infatti i due contadini, avendo accettato di guardare attraverso il buco della serratura nella casa del capofamiglia, al posto di mobili, tappeti e quadri vedono dei cartelli indicanti gli oggetti assenti. Lo stesso capofamiglia svela l’arcano ad Anacleto. Dopo aver portato la famiglia per venti sere di seguito a vedere La piccola città di

100

Cantata dei giorni pari

Thornton Wilder nell’interpretazione di Elsa Merlini, si accorse dell’esito favorevole che aveva raggiunto: Non più liti con mia moglie, non più malumori coi miei figli, non più richiami all'economia domestica, non più desideri inappagati... Ho vinto! Viva La piccola città! Viva il Regista! ? La sua famiglia è felice. Nella sua casa tutto è diventato immaginario, compresi i regali che fa alla moglie o ai figli, che sono entusiasti di riceverli. A tavola mangiano immaginarie bistecche e pollo. Il tutto però viene guastato dalla cameriera che mentre serve gli invisibili piatti deliziosi, si sta mangiando un pezzo di pane con prosciutto vero. Tutti i componenti della famiglia si precipitano su di lei per strapparglielo di mano. Interviene il regista demiurgo della Piccola città per commentare l’accaduto. Ogni sua parola è l’opposto della concezione di Eduardo che satireggia per l'appunto su queste sperimentazioni moderne e critica autori e operatori teatrali che non tengono in considerazione il pubblico:

Avete visto? Sono bastati duecento grammi di prosciutto, per rovinare

ogni cosa.

Ecco il pericolo dell’eccessiva

verosomiglianza,

dei banali elementi realistici che turbano la spiritualità di un’opera d’arte. È tempo di finirla con questo vecchio teatro borghese, da cui si pretenderebbe niente di meno che soltanto i vivi dovessero parlare. E poi il pubblico pretende del nuovo!... Andateglielo a dare del

nuovo!... Ecco per esempio, io ho avuto la scintilla, l'ispirazione geniale di svolgere l’azione in un cimitero, di far parlare i morti... Più novità di questa?... Dicono che nen va bene, dicono che è difficile che i morti possano conversare fra di loro. Mentalità superata, fuori del nostro clima. Io odio il pubblico! Io disprezzo questa massa grigia ignorante e cafona. Ab! Ab! (ghignando) Vorrebbero divertirsi

a teatro? Ah! Perdio no! Dopo una giornata di lavoro pretendereb-

bero di andare a ridere, a passare qualche ora di svago... No, no; e no!!! Io ne faccio un fatto personale! Io ho eliminato tutto! Io faccio a meno di tutto! I miei spettacoli sono senza scene, senza attrezzi, senza vestiario, senza pubblico... Ed ora faccio a meno del

teatro! Il prossimo spettacolo l’ho allestito direttamente al cimitero! *°

Altrove non poteva allestirlo, perché uno spettacolo così concepito segna la morte del teatro. AI regista della morte si oppone il regista della vita, che incontra una adolescente che cerca marito e gli chiede aiuto e consiglio. Il regista le risponde che non può darglielo perché tanto lo rifiuterebbe, come tutti i giovani che cercano di affermare la propria in-

31.

Basta il succo

di limone!

101

dipendenza, e si piegano solamente all’esperienza personale duramente acquisita attraverso le delusioni. Talvolta ne escono vittoriosi, ma talvolta addirittura spezzati. Ciò nonostante, decide lo stesso di fare qualcosa per lei: Farò vivere in breve la tua giovinezza, perché tu possa rapidamente trarne le esperienze che ti renderanno saggia". L’adolescente,

che sembra

impersonare

il teatro,

comincia

col-

l’atteggiarsi a intellettuale. In libreria discute coi giovani degli scrittori più importanti, dei romanzi italiani e stranieri in voga. Per tutta risposta le danno della pazza. Nella scena seguente si trova in un istituto di bellezza dove per farsi notare dai giovani si fa tingere i capelli di giallo, indossa abiti vistosi, caricaturali e si mette delle scarpe ortopediche. Ma nemmeno conciata così riesce a conquistare nessuno.

Fa un terzo tentativo al mare dove gira in costume così succinto da rimanere quasi completamente nuda, si è perfino fatta tingere i capelli di verde da una parte e di rosso dall’altra. Questa volta scoraggiata, dato che il risultato è sempre lo stesso, scoppia a piangere, sentendo che continuano a darle della pazza. Finalmente torna ad essere naturale, vestita semplicemente, con pettinatura virginale, poco truccata. Quando ormai crede di dover rinunciare al marito, lo trova proprio in un giovane che è stufo di tutte le artificiosità delle altre ragazze.

Il secondo tempo ha inizio come il primo col tema dell’oscuramento. « Tre grotteschi personaggi, tipi di perfetti imbecilli malinconici » mettono in scena gli Eterni scontenti. Si lamentano dei loro guai causati dal buio. Il primo ha battuto la testa, il secondo non trova il suo debitore che approfitta della mancanza d’illuminazione per nascondersi, il terzo subisce, a causa del buio, i tradimenti della moglie. Segue la scenetta del solito commendatore che assume le dattilografe, mirando; però, a ben altro che dettare lettere. La descrizione che fa questo personaggio di se stesso fa pensare che gli autori alludessero a Mussolini: Io, per esempio, vengo dal niente... [...] Mi sono costruito una fortuna da me... Mi sono fatta una cultura, una posizione sociale ..

sempre da me... Tutto da me... Mi sono fatto pure commendatore da me... [...] Anzi, appena ne avrò la possibilità mi farò Grande Ufficiale... [..] E poi ne ho il diritto! Io sono

molto

autorevole...

102

Cantata dei giorni pari

[...] I miei maestri si accorsero subito della grande inclinazione che avevo per l'essere autorevole... !. Il quadro successivo è annunciato dal direttore di scena che puntualizza che non sarà il solito quadro spagnolo «con siviglianti, boleri, tamburelle e nacchere ». « Ormai la Spagna convenzionale dei toreri, delle pulci e delle rivoluzioni è scomparsa, e la si può rievocare soltanto come immagine grottesca d’un tempo trascorso » !.

Molto coraggiosamente i toreri contro il regime fascista:

cantano

parole fin troppo

chiare

Non più tamburelli, scialli e nacchere, non più coltellate e scene tragiche... Tutti san perché né di toreador, né di bandoleri già da qualche po’ nelle rime non se ne parla più... Per le serenate si va in carcere [...] nella notte blu non ci resta più che parlar pian... [....] Silenzio! Ci ascolta la guardias! Silenzio! Si salvi chi può!

Ora nella Spagna non c'è più cuccagna! *

L'ambientazione è spagnola, ma le parole si riferiscono all’Italia. Tornano di scena Anacleto e Veronica e questa volta guardano attraverso la serratura di un salotto di intellettuali. Con loro ritorna l’altro tema della rivista: il teatro, con nuovi cenni critici contro i cosiddetti autori teatrali moderni. Fra i vari filosofi, scrittori, poeti vi è anche il drammaturgo che come gli altri presenta la sua ultima fatica. È un dramma « psicointimista-froidiano » che ha pure «un pizzico di pirandellismo ». Ma ecco la spiegazione « chiarissima » dell’autore:

Nello stesso pe sonaggio vi sono due personaggi. Tutti e due i

personaggi sono innamorati della stessa donna. Anche nel personaggio

donna, vi sono due personaggi. Solamente che, nel personaggio donna, uno solo dei due personaggi è innamorato di uno dei due personaggi che vi sono nel personaggio uomo, mentre Valtro personaggio prova nel subconsciente, per quelle misteriose cause che Freud chiama il complesso di Edipo, un senso di ripugnanza per il secondo dei due

personaggi che vi sono nel personaggio

uomo.

I presenti, malgrado siano dei luminari, non capiscono la spiegazione del « genio » teatrale che deve ricorrere a una lavagna scolastica con treppiede, per la dimostrazione geometrica del « teorema » dei personaggi, usando le lettere A B C e A’ B’ C?.

31.

Basta il succo

di limone!

103

L’autore è convinto che il suo « problema di trigonometria » non piacerà al pubblico, ma « mancherebbe altro che dovesse piacere! Per conto mio quando un autore si comincia ad allontanare dall’insuccesso, è finito » 55. La scenetta seguente si svolge davanti a un tabarin, in una piazza. Un giovane vorrebbe suonare la chitarta per fare una serenata, ma la finestra della sua bella non si illumina. Né è possibile, a causa dell’oscuramento: « le disposizioni sono severissime », dice il custode del tabarin. Finalmente la sua fidanzata si affaccia e anche lei lo mette in guardia: « Vedi siamo sorvegliati, arrivano ». Infatti entrano « quattro della Unpa (Unità nazionale protezione antiaerea) in fila indiana, con le braccia ben serrate dietro la schiena e guardano in alto e un po’ dappertutto » e poi cantano: Unpa, ssamo agenti autorizzati della Unpa perlustriamo la città. Bombe! Il dovere sacrosanto a noi ci incombe di non farle fare bù! E non temiam, l'umidità...

Giriam nella notte e pigliamo ognor il raffreddor, con i dolor... Unpa, siamo agenti autorizzati della Unpa coi dolor articolar. Bombe! Sta facendo veramente un ecatombe il catarro bronchial BecidiNHecigl® Dopo

un

numero

di balletto

nel tabarin

riappaiono

Veronica,

Anacleto e Turno con in mano un’altra serratura. I due contadini insistono per darci un’occhiata. Vedono il mondo dimenticato dei giocattoli antichi. Vorrebbero entrarci, ma Turno dice che la chiave è smarrita. Arriva però Parpignol della Bohème, l'eterno fanciullone allegro, che Ja possiede, perché « nel fondo del cuore di ognuno rimane sempre quel tanto di fanciullo che l’aiuta a vivere. Vedi, io raccolgo intorno, attraverso i secoli, ogni sorta di giocattoli e li serbo ben chiusi nel mio mondo. Così, anche il vecchio Parpignol, con il

104

Cantata dei giorni pari

suo mondo

superficiale, attraverso mille tristi vicende, in un attimo

fuggevole, in una piccola patte delle grigie ventiquattrore, magari per una sera, può essere utile a quella minima parte di fanciullo che resta nel fondo del cuore di ognuno » ”. Entrano tutti, anche « gli uomini seri e dignitosi », professionisti in redingote e cilindro. Al loro sguardo i giocattoli si animano e ballano e offrono quel divertimento che farà loro dimenticare almeno per una sera le difficoltà della vita. Ed è questo anche lo scopo della rivista. Eduardo doveva prevedere che la rivista era troppo audace per i tempi. Infatti scrisse di suo pugno una lettera il 22 settembre 1940 al censore Leopoldo Zurlo, cosa che non faceva normalmente sottoponendo le commedie alla censura, per sollecitare la sua benevolenza: « Eccellenza! Sottopongo al Vostro Autorevole esame: Basta il succo di limone! Spero molto, Eccellenza, che quelle tali forbici (le ho qui, sul mio tavolo

da

lavoro!) seguiteranno a far parte dell’inerte mondo minerale... » !8. Il nulla osta venne concesso, ma durante la prima, all’insaputa di Eduardo, era presente in sala il « Cav. Grella della Questura » — come risulta dal fascicolo della censura —, che aveva ritirato dall’ufficio del censore Zurlo un quadro aggiunto per fare i controlli durante lo spettacolo !, Proprio in questo quadro c’è la scenetta dell’Unpa, un corpo formato dai gerarchetti fascisti, secondo i ricordi di Magliulo 0. Io immagino che la rappresentazione dovette interrompersi durante questo sketch, perché i membri di questa formazione paramilitare erano molto sensibili a qualunque accenno poco riguardoso, anche se detto in tono scherzoso, nei loro confronti. Infatti, sempre dai fascicoli della censura risulta che due anni più tardi, nel ‘42, — vedi, sotto, La fortuna con l’effe maiuscola, p. 114 — poco mancò che i fratelli De Filippo non subissero un pestaggio sul palcoscenico per una semplice battuta comica

sull’Unpa 21. Ma tutta la rivista nel suo insieme era tale da provocare i fischi dei fascisti. Troppo apertamente critica le ordinanze, le leggi del momento, ma più di tutto la dichiarazione di guerra. L’unico accenno positivo, ma negativo per il regime, è la speranza che la guerra porti alla fine del regime fascista. Vedi lo sketch dell’« accaparratore che accaparra guai » ‘perché non manchino alla gente che li ha subiti per tanti anni. Per non parlare poi della scenetta ambientata in Spagna, ma con aperto riferimento alla situazione italiana. In conclusione, in quasi tutti i quadri le allusioni sono chiarissime, non vi è bisogno di ricorrere al succo di limone per leggere ciò che è scritto con l’inchiostro simpatico. Per quanto riguarda l’altro tema della rivista, quello del teatro, sicuramente l’idea di guardare attraverso la serratura per spiare la vita degli uomini, per poi riprodurla sulle scene, è di Eduardo. Infatti riprende questo

stesso

concetto

nell’Arze

della

Commedia

(vedi

p. 227)

dove,

sotto forma di commedia, ci dà il suo credo teatrale. Così pure è sua la critica al ricorso ad astrazioni, sofisticherie, teorie psicoanalitiche da

32.

Non ti pago!

105

parte dei nuovi autori per soddisfare la propria smania di originalità, con risultati, però, poco apprezzati dal pubblico. Per Eduardo il vero scopo del teatro è interpretare, in forma piacevole e fruibile per il pub-

blico, le multiformi

sfaccettature della vita umana.

Ds Non ti pago! Tre atti, 1940. Rappresentata per la prima volta l'’8 dicembre 1940 dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo », a Roma, al Teatro Quirino.

Siamo in casa di Ferdinando Quagliolo che ha la passione del lotto. Non solo gestisce un banco lotto ereditato dal padre, ma tutto quello che guadagna lo spende in giocate. Ha un consigliere di fiducia, Aglietello, suo servitore, che per guadagnarsi da vivere interpreta i sogni, le visioni del padrone, traducendoli in numeri che però non escono mai. Durante la notte i due vanno addirittura sui tetti per studiare il firmamento, perché Quando le nuvole si accomenciano a intricciare fra di loro, si formano una specie di quadri plastici: figure, cape animale, albere, muntagne... E quando c'è la persona che conosce il trattato della composizione e della combinazione fumogena, fa la storia perfetta della volontà dei vivi e dei morti; ne caccia il così detto costrutto

e dal costrutto i numeri per i terni e le quaterne®.

Concetta, la moglie di Ferdinando, non condivide la passione del marito e rimprovera Aglietello che la alimenta. Interrompe la discussione l’arrivo di due vicini che accusano Ferdinando Quagliolo di aver avvelenato il loro cane perché gli dava fastidio. Il padrone di casa, descritto minuziosamente dalla didascalia « sui quarantacinque anni, alto, robusto, capelli e baffi nerissimi, sguardo acuto e diffidente, vero tipo di popolano napoletano » î, impulsivo e testardo, giunge proprio in tempo per respingere le accuse: Ma che soppresso? Ho pregato la Madenna di Pompei che lo facesse crepare, questo sì. Anzi, dal momento che abbiamo ottenuto la grazia, domani senza meno, mando il pacco di candele in chiesa che avevo promesso. Ma io non l’ho toccato proprio.

Cantata dei giorni pari

106

Queste parole mostrano già la sua credulità negli influssi soprannaturali nelle varie vicende della vita e non solo nel gioco del lotto. La croce di Ferdinando è Bertolini, il suo impiegato nel banco lotto, che al contrario del padrone, vince sempre:

Nun ’o pozzo vede’! È troppo fortunato! Quanno ‘a bon’aneme ‘e mio padre ‘o facette veni’ a ffatica’ dint'’o banco lotto nuosto, nun teneva piezze ‘e scarpe ’o pede, se mureva ‘e famma. Accumminciaie a giuca’, e d'allora nun c’è sabato ca nun pizzeca ll’ambo, ’0 situato, ‘o sicondo estratto, ’o terno... [...] Mo’ se sonna ‘a mamma, mo’ se sonna ‘0 pate, ’a sora, ‘o frato, °e nepute, ‘e cugnate, ‘a nun-

narella... L'ha distrutte a tutte quante... È rimasto vivo isso sulo. Comme mette ’a capa ncopp’’o cuscino s'’e sonna... Quanno s’addorme, accummencia

‘a Settimana Incom*.

Il peggio è che Bertolini è ben accetto in casa sua: Concetta vede nel giovane un buon partito per la figlia Stella, che peraltro lo ama. Anche adesso viene a prendere la ragazza. Ferdinando diventa addirittura violento, schiaffeggia la figlia che vuol uscire con lui e minaccia al giovane il licenziamento. Siccome l’impiegato gli ricorda che dovrà pagare una forte liquidazione e tutti i contributi arretrati, si accontenta di cacciarlo via. Ritorna però poco dopo, e con voce rotta dalla commozione annuncia di aver vinto quattro milioni con i numeri suggeritigli in sogno niente di meno che dal defunto padre di Ferdinando, e consegna il biglietto al principale doppiamente furente perché lui ha perso una grossa somma malgrado le divinazioni di Aglietello. La reazione di Ferdinando lascia tutti allibiti: °A quaterna è ‘a mia, ‘e nummere te l’ha dato mio padre, ‘e solde

spettano a me. [ ...] Non ti pago! Non ti pago! °O biglietto è ’o mio! Manco

nu squadrone

’e cavalleria m°’o leva ‘a dint’ ’a sacca.

T’ 0

vienne a piglia’ ncopp’’o Tribunale... * Nel secondo atto, dopo sei giorni, la situazione è immutata, Ferdinando non vuole né pagare né ridare il biglietto a Bertolini. La moglie ha chiamato il parroco, don Raffaele, perché faccia ragionare il marito, ma il prete che lo conosce bene le fa capire che non sarà una cosa facile: Ci vuole pazienza signora Concetta. Io conosco il carattere di don Ferdinando, si farebbe uccidere prima di riconoscere un suo errore. Prodigo, cuore d’oro, tutto amore per la famiglia; ma perdonatemi l'apprezzamento, capo tuosto, testardo 5.

32.

Non ti pago!

107

Ferdinando infatti è deciso a far valere le sue ragioni in tribunale. È convinto che il padre si è sbagliato nel dare i numeri a Bertolini. Intendeva darli a lui, ma non sapeva che il figlio aveva cambiato casa dopo la sua morte, e che nel vecchio appartamento ora ci abita l’impiegato. Spiega questi fatti sia al prete, sia all'avvocato Strumillo che ha convocato.

Quest'ultimo, saputo come

cose, gli dice che è con testimoni morti Ferdinando non prete. Egli pretende anche per « diritto

sono andate veramente le

impossibile impiantare una causa su queste basi, da un pezzo. si arrende, chiede l'appoggio per la sua tesi al che non solo legalmente la vincita sia sua, ma religioso ». Dice infatti a don Raffaele:

Voi sapete se io faccio mai mancare le candele ed il lumino davanti alla nicchia di mio padre, voi sapete che io ogni venerdì vado al Camposanto, e ce vonno cinquecento lire ‘e taxi a gghi’, e cinquecento

a veni’, e metteteci

due o trecento

lire di fiori, sono

mille-

duecento lire. Quattro messe al mese a duecento lire l'una, so’ n'ati ottocento lire; da che è morto, nun im’ *0 scordo mate [...]. Io spendo

cinquemilaseicento lire al mese, per candele, trasporto, fiori e messe per mio padre defunto, e il defunto, padre legittimo mio, piglia na quaterna sicura ‘e quattro milioni e ‘a porta a n’estraneo??

Se il mondo dell’al di là esiste, la vincita era diretta a lui, conclude. Il prete, pur lodando le opere buone di Ferdinando, gli dice che « non è consentito farne una speculazione », tanto più che i sogni

sono frutto della fantasia. Il prete e l’avvocato se ne vanno. Poco dopo viene Bertolini accompagnato dall’avvocato Strumillo, che ha ben pensato di cambiare cliente. Questa volta Ferdinando è pronto a difendere le sue ragioni con la pistola, scaricandola prima, però, per precauzione. Pretende dal suo impiegato che firmi un documento in cui dichiara che la vincita spetta a lui, « perché padrone e dominatore assoluto », e che per ragioni di salute lascia il suo posto di lavoro rinunciando ad ogni pretesa di liquidazione e di contributi. Bertolini naturalmente dà del pazzo a Ferdinando, il quale lo minaccia con la pistola e, in uno scatto d’ira, lo colpisce col calcio alla testa. L'avvocato, non visto, assiste alla scena. Subito interviene

e minaccia di denunciarlo a nome del suo nuovo cliente per « appropriazione indebita, diffamazione, estorsione, minaccia

a mano

armata

e ferimento, se entro domani non restituirà il biglietto ». Ferdinando si difende dicendo che la pistola è scarica, e tira il grilletto puntando la rivoltella verso terra. Ne parte invece un colpo. Il poveruomo impallidisce pensando a quello che sarebbe potuto succedere. Rivolto

108

Cantata dei giorni pari

al Bertolini dice: « Vatte”... vattene! Tu si’ ’a iettatura d’ ’a casa mia. Io pe’ causa toia stevo perdenno ’a libertà ». Gli dà il biglietto, ma in un estremo tentativo di difesa delle proprie ragioni si rivolge al quadro del padre: Papà, ‘o ‘i’ ccanno ‘o biglietto... Io ce ‘o dongo. Però si ’e sorde nun

le spettano,

si ‘o suonno

era

‘o mio,

tu staie

‘o munno

‘a

verità... Nun se n'ha da vede’ bene... l’he' a fa passa’ quattro milioni di guai... Ogni soldo na disgrazia, comprese malattie insignificanti, malattie mortali, rotture e perdite di arti superiori e inferiori; peste e culera, friddo e miseria, scaienza e famma dint ‘a casa ‘e Bertolini fino ’a settima generazione... [ ...] Papà... mi raccomando... * A un mese di distanza da questi fatti, nel terzo atto, davanti al quadro del padre di Ferdinando, su di una mensola ci sono due candele accese e molti fiori in piccoli vasi. Viene a parlare con Concetta Erminia, la zia di Bertolini. È disperata. Dopo la « preghiera » di Ferdinando al proprio padre, il nipote, caduto per le scale, si è rotto un braccio. Mentre stava all'ospedale i ladri non solo gli hanno derubato la casa, ma gli hanno dato fuoco. È perseguitato dai creditori e ogni volta che tenta di incassare il biglietto gli capita una nuova disgrazia. Si presenta Ferdinando in grembiule da cucina. Sta preparando il pranzo per festeggiare l’anniversario dello scampato pericolo: « Per l'incidente di un mese fa, a quest’ora, io avarri’ ’a sta’ ngalera e vostro nipote al camposanto » °. Sia la moglie sia la figlia si sono rifiutate di aiutarlo, sono schierate tutte e due dalla parte di Bertolini, che poveretto sta subendo l’ultima avversità. L'hanno appena arrestato, perché, mentre viaggiava in autobus diretto a ritirare la famosa vincita, un mariuolo, dopo aver rubato il portafoglio a uno dei passeggeri, l’ha fatto scivolare nella sua tasca dove era stato poi trovato. L'avvocato Strumillo viene a riferire questi avvenimenti e a convincere Ferdinando di ritirare «la maledizione ». Ma ormai è troppo tardi perché arriva il giovane appena rilasciato dalla Questura, « pallido, capelli in disordine, e col braccio ingessato », e ridà il biglietto al suo principale dicendo: « Mi sono convinto che ho sbagliato, che i quattro milioni spettano a voi. [....] Servitevene, stracciatelo, regalatelo, è vostro! » !°. Ora però, Ferdinando non lo vuole più. Concetta e la figlia Stella si rivoltano contro di lui. La ragazza gli dà del padre snaturato per aver assistito impassibile alle sue lacrime per l’uomo che ama e che soffre per causa sua; la moglie ribadisce le stesse accuse. Viene toccato nel suo amore per la famiglia, che ora deve conciliare con la

32.

Non ti pago!

109

sua testardaggine. Risolve il conflitto interiore dando la figlia in sposa al Bertolini e facendole portare in dote la vincita del fidanzato. Rimane così vincitore due volte: la fede nella propria ragione ha trionfato, il biglietto è in suo possesso e ne può disporre; il suo amore paterno è anche soddisfatto perché fa felice sua figlia. Anzi vuole essere proprio sicuro della felicità della sua creatura, pet cui dice al Bertolini: Bertoli’, però ricordete ca tu l’he' ‘a fa’ felice a Stella... Tu V’he' a vule' bene assaie, pecché Stella è ’a vita mia... No, pecché si no... (mostra il ritratto del padre) due paroline a mio padre...

e fa il segno come dire: « Ti spedisco all’altro mondo » !!. Nella testardaggine e nella dialettica dei ragionamenti di Ferdinando Quagliolo, commentatori e critici sia del passato che di epoche più recenti hanno individuato un'influenza pirandelliana. Eduardo la respinge dicendo: « Sofistici sono i Napoletani e sofistici sono i Siciliani. Il personaggio di Non ti pago deve vincere per la sua forza di volontà, per questa sua testardaggine che è simile a quella dei Siciliani » 12. Effettivamente, il protagonista della commedia è un vero prototipo dell’uomo napoletano in tutto, a cominciare dal suo amore verso la famiglia, alla sua fede mista di religiosità e di superstizione negli interventi soprannaturali, perché quelli terreni gli sono negati. Il suo non arrendersi mai è caratteristico di tutto il popolo napoletano, che sempre nella storia ha dovuto, fare assegnamento solo sulle proprie forze, poiché le autorità civili e religiose l'hanno trascurato o sfruttato. Un accenno a questo fatto potrebbe essere la presenza nella commedia del prete e dell’avvocato che non aiutano Ferdinando, nonostante la sua esplicita richiesta. A differenza di altre opere del primo periodo, fatta eccezione naturalmente per Natale in casa Cupiello, Eduardo ha spesso ripreso Now ti pago, fino agli anni Settanta. La ragione di questo successo la si trova già nelle primissime recensioni della commedia. Prendiamo come esempio quella di Renato Simoni, che si esprime in questi termini: « Lo spunto è apertamente farsesco. Eduardo De Filippo l’ha svolto, complicato, concitato con un crescendo di fantasie paradossali, di contrasti, di logiche squinternate, di litigi, di trovate spiritose, di lazzi sfrenati, fondendo le

invenzioni fresche con i più tradizionali soggetti sancarliniani, i tratti di vigoroso realismo con le buffonerie più sciolte, talora conducendo la commedia verso una specie di dolorosa esasperazione della comicità, talora lasciandola alla ricerca vittoriosa della più folle ilarità. Un soggetto grottesco trattato però, in più scene, con i modi del buon teatro d’osservazione e di carattere, poi rituffato in una clamorosità che mescola insieme l'imitazione della naturalezza e qualche cosa di simile a una sfrenata improvvisazione » 1.

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Cantata dei giorni pari

93% Io, l’erede

Tre atti, 1942. Rappresentata per la prima volta il 5 marzo 1942 dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo », a Firenze, al Teatro La Pergola.

In una ricca camera da pranzo i vari membri della famiglia Selciano e il loro amministratore sono in cordiale conversazione. Dalle loro parole si ricava che tutti si dedicano alle opere di carità. Amedeo, il capofamiglia, afferma addirittura che « si tratta di sangue. Noi, noi tutti, dai bisnonni fino a mio padre, ci siamo sempre spogliati per dare agli altri. Ed è bello

[...] Voi la notte

mettete

la testa

sopra ‘o cuscino e dormite tranquillo » !. Chi non apprezza questi discorsi, anzi se ne sente mortificata, è Bice, una ragazza di diciassette anni, per l’appunto beneficata della famiglia. Rimasta orfana all’età di sei anni, è stata cresciuta da loro. Con la scusa di un mal di testa, ma in realtà per le stoccate allusive che riceve, si rifugia piangendo in camera sua. Viene la zia Dorotea sbuffando, reduce dal suo giro di beneficenza. Le hanno rubato una spilla d’oro a forma di cuore con un brillante. Dichiara che certa gente, anzi « gentaglia », fa passare la voglia di fare del bene. Le ricordano Prospero Ribera, un altro beneficato che per 37 anni ha vissuto con loro; allora cambia idea, perché costui ha sempre dimostrato riconoscenza per il bene ricevuto, a differenza degli altri poveri che mal celavano il disprezzo e l’invidia. Prospero Ribera, morto da poco, era un ex compagno di ginnasio del padre di Amedeo. Quest'ultimo l’aveva trovato in totale miseria e l'aveva preso con sé. Si sapeva poco di lui: solo che era diviso dalla moglie. Qualcosa si era sentito di un figlio, che si era rivelato solo durante il recente funerale di Prospero. A lui Amedeo aveva pensato, dopo essersi informato, di mandare gli effetti personali del padre. Proprio mentre i Selciano fanno questi discorsi, arriva Ludovico Ribera. « È un uomo sui quarantadue anni, il suo volto è segnato da solchi profondissimi. Colorito bronzeo e capelli grigi. Dimesso nel vestire ma lindo, i suoi occhi hanno un'espressione triste, sono di una fissità [...] quasi testarda: non chiedono ma sanno quello che vogliono. » « Il suo apparire genera una specie di sgomento interrogativo » ?,

tanto più che porta con sé una valigia e una cassetta.

33.

Io, l’erede

111

Senza bisogno di presentazioni l’uomo riconosce tutti i membri della famiglia, persino l'amministratore. Dice che ha appreso tutto dal diario di suo padre, anche quello che faceva in cambio dell’osp italità che gli avevano dato. Prospero Ribera, uomo molto colto, con interessi moltepli ci, si era dimostrato utile per i Selciano con i suoi servigi: aveva aiutato Selciano padre, avvocato, a preparare le sue cause facendogli da contraddittorio, aveva consigliato la famiglia negli investimenti aumen-

tandone

così la ricchezza.

Da beneficato

era diventato

benefattore,

anche se questo la famiglia non l’aveva mai riconosciuto, esigend o anzi da lui dimostrazioni di gratitudine. Per poco non era stato mandato via quattro anni prima per non aver ceduto il passo nell'ascensore al padre di Amedeo. I Selciano sono sorpresi di sentire questi discorsi, ma rimangono sgomenti e senza parole quando Ludovico Ribera rivela lo scopo della sua venuta: prendere possesso dell’eredità del padre, essendone come figlio legittimo l’unico erede. Qust’eredità per l'appunto è la famiglia Selciano: Voi rappresentate tutto il patrimonio affettivo e sentimentale accumulato e tenuto gelosamente in serbo da mio padre il quale, per trentasette anni, si è prestato a far sostenere

prima a vostro padre

e poi a vot l’eroica e importante parte del benefattore, riservando per lui quella meschina e avvilente del beneficato. Che cosa ha

costruito

in trentasette

anni

vissuti

tra benefattori?

Le risorse

di

mio padre in che cosa consistevano? Tutti i sentimenti che vi spingevano a fargli del bene non appartenevano a lui? E un figlio non eredita tutto ciò che costruisce e che possiede il padre? Mio padre ha costruito un patrimonio di sentimenti ma non ne ha disposto. Io, quale suo legittimo figlio sono il suo legittimo erede: io, a voi come

state, vi ho ereditati. Sarà un patrimonio

di sentimenti,

cioè

astratto... d'accordo: impalpabile... giustissimo; ma definibile. E per gli uomini di cuore un patrimonio di sentimenti definibili deve diventare patrimonio di cose, e un patrimonio di cose è trasferibilissimo! 3 Senza aspettare una qualsiasi reazione, dichiarandosi stanco, Ludovico si ritira nella camera che fu di suo padre. L’indomani mattina, nel secondo atto, Ludovico Ribera incontra

Bice. Anche di lei sa tutto, sempre dal diario di Prospero. Le fa notare subito che i suoi « diciassette anni fanno pietà »: «la riconoscenza che voi sentite — aggiunge — per i signori Selciano vi fa diventare infelice, vi rende meschina... perfino brutta... E voi non lo siete ». La posizione della ragazza è differente dalla sua: « voi

Ii

Cantata dei giorni pari

non ereditate, voi create una situazione ». La incita alla ribellione,

comprandosi vestiti e scarpe a spese dei Selciano e facendosi bella perché: « Voi non potete essere beneficata e collaboratrice del benefattore contemporaneamente... Lui deve raccogliere ingratitudine » ‘. Bice accoglie i suoi suggerimenti e come primo passo si rifiuta di portare i pacchi della zia Dorotea durante il suo consueto giro di beneficenza. La famiglia capisce subito che il comportamento della giovane è opera di Ludovico. Amedeo decide di parlargli a quattrocchi per mettere in chiaro i fatti, ma più di tutto per mandarlo via, trovando assurda l’eredità che lui reclama. Ogni suo ragionamento però viene controbattuto dal figlio del beneficato che attribuisce ai Selciano anche la responsabilità del suo abbandono all’età di quattro anni: E sapete perché? Perché trovò benessere e vita comoda in casa vostra! E sfido, io... Qui non gli mancava niente: [...] perché avrebbe dovuto crearsi dei grattacapi, chiedendo notizie mie? L'uomo è più felice quanno sta senza fa’ niente, ca quanno fatica... Lavora per ragionamento, non per istinto... Il fatto, adesso, è questo: mio padre, con la complicità di vostro padre, non ha lavorato, non ha prodotto... Ha disertato la vita... Agevolando questa diserzione, il danno chi l’ha

subìto?... Io}.

Se essi avessero esercitato la vera carità cristiana questa sarebbe stata differente: Un

aiuto,

un soccorso,

avrebbe

potuto

ridargli fiducia per la

lotta, ma un aiuto, un soccorso. [...] Non possiamo essere noi i distri-

butori del bene e del male, non conosciamo le proporzioni... Vostro padre ebbe la boria di mettersi al di sopra di una legge distributrice che probabilmente esiste.

Infine, conclude Ludovico, Prospero si era dimostrato prezioso per il padre di Amedeo. Infatti gli aveva fatto vincere la causa che gli aveva procurato la gloria, fornendogli l'impostazione e gli argomenti. Amedeo ribatte che, malgrado tutto ciò; Ludovico non può avvalersi di alcun diritto legale che sostenga la sua richiesta. In questo l’uomo è d’accordo, ma dice che il suo è un « diritto umano e sentimentale ». Siccome il suo interlocutore non è d’accordo, anzi lo minaccia di cacciarlo via a calci, Ludovico tita fuori una pistola,

anch’essa appartenuta al padre, per difendere quelli che ritiene suoi

diritti:

33.

Io, l’erede

Te

Io vi sparo... Non appena ci sarà scappato il morto, mi si apriranno le vie legali; la mia tesi verrà discussa [...] e alla fine probabilmente troveranno opportuno di aggiungere un nuovo articolo nel Codice che potrebbe essere presso a poco questo: « Colui il quale, per dormire tranquillo la notte e per accaparrarsi il posto in Paradiso, benefica più del normale un suo simile, sottraendo e lasciando infruttifero, in tal caso, un capitale umano e, per giustificare a sé medesimo tale atto di egoistico profitto, ne incolpa la carità cristiana, è punito con la reclusione da tanti a tanti anni ».

Più, che i ragionamenti, è la vista della pistola che convince Amedeo ad accogliere Ludovico Ribera come un secondo Prospero. Ma come contropartita, esige che agisca esattamente come il padre e permetta ai Selciano di burlarsi di lui come già avevano fatto col suo genitore. L’uomo acconsente, e si sottomette subito ai loro scherzi, quando la famiglia si riunisce per il pranzo. Nel terzo atto, dopo due mesi, Ludovico pur non tradendo l’ac-

cordo con Amedeo, non perde l’occasione per denunciare quanto « pelosa » sia la loro carità, che non ha niente a che fare con la carità cristiana, anzi è solo un « barbaro

senso

di dominio

che ha

l’uomo sull’altro uomo » £. Anche Bice, sotto l’influenza di Ludovico, è cambiata al punto da farsi cacciare dai Selciano. Se ne va a cercare la sua vera strada,

incitata da Ludovico che dichiara, però, di non poterla seguire: « Io non posso andarmene. Ve l’ho già detto: io sono la conseguenza. E non devo far niente per modificarla: sono l’erede » ?. E come erede, fa esattamente quello che aveva fatto suo padre: diventa l’amante di una delle donne della famiglia Selciano, regalandole una spilla d’oro a forma di cuore con un brillante, uguale a quella data da Prospero alla zia Dorotea. Questa commedia, pur con i suoi episodi comici, è fra le più aspre, se non la più aspra del primo periodo di Eduardo. Rappresentata durante la guerra, quando il pubblico veniva a teatro per svagarsi e dimenticare gli orrori della guerra, resse il cartellone solo pochi giorni. Venne sostituita lo stesso mese di marzo con un’altra novità La fortuna con l’effe maiuscola, scritta da Eduardo in collaborazione con Armando Curcio, dove la comicità aveva il sopravvento e poteva offrire agli spettatori quel divertimento che essi cercavano. Ripresa con il titolo di L’erede nel ’68, e col suo titolo originale nella stagione ’80-81, incontrò il consueto successo delle commedie di Eduardo, anche se l’autore non

vi recitò. Ne curò solamente

1 casi. Il pubblico, più maturo, poté comprendere

la regia, in entrambi

il vero senso della com-

114

Cantata dei giorni pari

media: il diritto e il dovere di ciascun uomo di farsi la propria strada attraverso la lotta quotidiana della vita e la condanna di coloro che, celandosi dietro degli alibi, in questo caso la carità, per raggiungere i propri scopi meschini, ostacolano o negano addirittura agli altri l’inserimento attivo nella società. Questo significato è accompagnato dalla condanna aperta di coloro, come la famiglia Selciano, che secondo le parole dello stesso Eduardo « pretende di fare il bene a una sola persona e andare a letto tranquilla come se avesse fatto bene a tutto il prossimo ». É soggiunge ancora Eduardo: « È quello che succedeva nella società di ieri, succede oggi, si ripeterà domani e speriamo di no per dopodomani » !°, Forse oggi, allargando il significato della commedia, si arriverebbe a vedervi una condanna dello Stato assistenziale, che con sussidi e aiuti toglie all’uomo la volontà di fare, di combattere, di trovarsi la -propria strada. I critici sono concordi nel riconoscere l’influenza di Pirandello in Io l’erede. Laura Coen-Pizer la ‘individua nella « tecnica del dialogo » e nel « ragionamento incalzante » del protagonista !!.

345 La fortuna con ‘l’effe maiuscola

Tre atti, 1942. Scritta in collaborazione con Armando Curcio, la commedia è rappresentata per la prima volta dalla compagnia « Teatro Umoristico i De Filippo » il 24 marzo 1942, a Torino, al Teatro Alfieri.

L’azione si svolge in una delle due stanze della casa di Giovanni Ruòppolo, un modesto scrivano. È una povera, gelida camera, con un finestrone in fondo che lascia vedere la rampa delle scale. Concetta, la portinaia dello stabile, chiacchiera con Cristina Ruòppolo affacciata al finestrone. Le dice che è sicura che don Vincenzo, l'inquilino del piano di sopra, ha intenzione di fare una falsa partenza per sorprendere la moglie con l’amante. Anzi, raccomanda di avvisare Erricuccio, nipote dei Ruòppolo «che nun se mettesse mmiezo a sti rrotole scarze » !, perché è proprio lui a portare i messaggi all'amante. Cristina si dispera perché continua a passare dei guai per questo giovane che, rimasto orfano, ha cresciuto lei. Ha ormai ventisei anni, ma non lavora. Secondo Giovanni, suo marito, è uno sfaticato; lei però lo difende:

34.

La fortuna con l’effe maiuscola

115

Ma che fa? Chillu povero guaglione nun tene salute pe’ n'ora, nun Sha pututo ’mparà manco a leggere e a scrivere... Nun pò sta applicato... È nervuso, capite... ?

Anche ora ne ha combinata una delle sue. La madre adottiva l'aveva mandato ad avvisare il marito di non venire a casa a pranzo perché non c’era niente da mangiare, e Erricuccio ha riferito il tutto davanti a persone estranee facendo morire di vergogna Giovanni. Quando poi lo si rimprovera, il giovane si difende come sempre dicendo: « Io so’ malatiello » *. Finalmente arriva l'avvocato che deve pagare dei lavori di copiatura di Giovanni; Cristina lo attendeva, infatti, per scendere a fare la spesa. Questa volta, però, l'avvocato ha anche una proposta da fare a Giovanni: se legittimerà un giovane, dichiarando che è suo figlio, riceverà subito 3000 lire e altre 7000 lire al momento della stesura "dell’atto notorio. Al povero scrivano non pare vero, finalmente potrà mangiare. Scende subito per raggiungere la moglie con i soldi. Mentre Erricuccio è solo in casa, viene un notaio per annunciare

che Federico, il fratello di Giovanni emigrato a suo tempo in America, gli ha lasciato tutti i suoi averi. Il testamento però specifica « che se don Giovanni ha un figlio legittimo, l’eredità passa a lui, cioè al nipote della buon’anima di don Federico » *. Il giovane mezzo scemo questa volta capisce tutto e racconta al notaio che lo zio sta legittimando un figlio in cambio di soldi. Gli viene raccomandato di impedire che questo succeda, ma non potrà farlo. La portinaia, infatti, ha avuto ragione nei suoi sospetti: l’inquilino geloso coglie in flagrante la moglie, rincorre con la pistola l'amante, gli spara, senza però colpirlo, in presenza di Erricuccio, e finalmente minaccia pure quest’ultimo perché sa che lui è complice dell’adulterio. Il povero Erricuccio per la paura e lo shock riportato perde la parola. Questa è la diagnosi del dottore, nel secondo atto: Non c'è dubbio! Si tratta d’un trauma di origine nervosa... Il ragazzo è indubbiamente di natura epilettoide... E gli esseri bacati sono facilmente predisposti a queste manifestazioni di infantilismo. Quello mò il ragazzo, vedete, è ritornato allo stato in cui si trovava quando non aveva ancora appreso l’uso della parola... Bisognerà rieducarlo, cominciando dai primi elementi...?.

Cantata dei giorni pari

116

Così, quando viene l’avvocato e il giovane che Giovanni dovrebbe legittimare, Erricuccio a segni fa capire allo zio che non deve farlo. Questi crede che si opponga per gelosia e cerca di tranquillizzarlo: « E va buo”! Calmete, bell’ ’e papà... Papà, ’a carta ’a straccia... Dal notaio non ci va e il figlio non lo riconosce... » °. Si meraviglia che gli voglia così bene, perché di solito lui lo tratta piuttosto male. Ma dal notaio ci va lo stesso e, pur sapendo del rischio che corre, cinque anni di galera per falso in atto pubblico, firma le carte. La troppa fame arretrata lo spinge a farlo. Durante la sua assenza ritorna il marito geloso. Ha fatto la pace con la moglie, ma ha paura che Erricuccio riferisca alla polizia i fatti del giorno prima. Con la pistola puntata lo minaccia e gli dice: Fermete, galiota! E sienteme bbuono! Tu, durante quel piccolo incidente che c’è stato ajere, sei stato l’unico testimone... E io saccio che ‘a Questura sta cercanno ’e sape’ chi ha sparato! Tu aviss’ ‘a parla’? Ricordete buono ca si parle, ‘a vi’ ’sta rivultella? Ce stanno sei colpi ‘a dinto... A mme me sanno ’int’’o quartiere... Io nun me faccio passa’ ‘a mosca p’0 naso... Si tu parle, quant'è certo Dio, io te spurtuoso comme a na scolamaccarone! Hé capito?

Ma non basta, fa partire un colpo senza volere, agitando la rivoltella. Impaurito scappa. Erricuccio come aveva perso la parola ora la riacquista. Finalmente può riferire a Giovanni, ritornato tutto felice con i soldi, dopo aver fitmato le carte, il messaggio del notaio. Questa volta è lo zio a perdere la parola. L’indomani,

nel terzo

testamento. Giovanni nel rala, ma è « rabbuiato e diecimila lire perderà un Il notaio gli consiglia

atto, viene

il notaio

per la lettura

del

frattempo ha riacquistato l’uso della pastravolto ». Si dispera al pensiero che per patrimonio. di parlare al giovane legittimato che, se-

condo Giovanni, non solo è nobile, ma anche ricco. Il nome gli ser-

viva per sposare una’ ricca nobildonna sua pari: « Un gentiluomo non potrà che riconoscere lealmente che, ad onta delle apparenze, la sostanza spetta a voi... » È. Il giovane, però, che si dava tante arie e si era dimostrato in-

soddisfatto

dei padre che l’avvocato

gli aveva

trovato, venuto

a

conoscenza della consistenza dell’eredità, non firma l’atto di rinuncia. Anzi dà ordini molto secchi al notaio: Signor notato,

voi siete l’esecutore

testamentario,

non

è vero?

Quindi il vostro dovere è quello di espletare tutte le pratiche legali

34.

La fortuna con l’effe maiuscola

117

perchè la volontà del defunto sia rispettata... Non ho altro da dirvi... Signori, buon giorno! Fermandosi, aggiunge rivolto a Giovanni:

Ah, dimenticavo! Al matrimonio potete anche fare a meno d’intervenire, pecché quasi certamente io nun me sposo cchiù...° Il notaio consiglia a Giovanni di rassegnarsi, ma lui non può darsi vinto. Prende una drastica decisione: andare in prigione per cinque anni:

°O barone se credeva d’ave’ truvato ‘o pachiochio! Te faccio vede’ io addo sta ‘o pachiochio! Tu invochi la Legge? E la invoco pur'io! Mi denunzio,

il riconoscimento

viene annullato,

e io eredito

un mi-

lione e cinquecentomila lire con annessi e connessi... Totale: tre milioni e rotti... Hé capito? E lui rimane senza un soldo e senza

padre... !° Fa chiamare la polizia e si consegna alla giustizia. Il brigadiere che lo arresta si meraviglia che sia così felice di andare in prigione, ma Giovanni gli spiega: Brigadie’, ma nun era carcere chisto? Lietto tuosto, nu padrone ’e casa ch'era peggio ’e nu secundino! Stu fenestone ca trase viento

pe’ tutte parte... °E mmane ‘int’ ’e capille pe’ ffa na lira... La miseria che genera il dissidio con la moglie... Vuie pazziate? Io pe’ cinch’anne nun ‘a veco cchiù... Stongo IUlà ’ngrazia ‘e Ddio! Io vaco carcerato

’a milionario... Brigadie’, ‘o vero carcere è ‘a miseria!...!! Cala la tela sugli evviva e gli applausi dei vicini, più o meno poveri come lui, che approvano quel che dice e di conseguenza la sua saggia decisione. Visto che il pubblico nel ‘42 non aveva voluto accettare « l’eredità » di Io, l’erede (vedi p. 110), Eduardo e Armando Curcio gli hanno offerto un’altra forma di eredità, forse più convenzionale, e in una cornice più comica. È vero che hanno lasciato sullo sfondo della commedia il tema della miseria e della fame, la realtà sociale di Napoli. Ma forse gli spettatori, assetati di evasione e di divertimento, non l’avranno nemmeno notato. Desideravano solo dimenticare per alcune ore le angosce della guerra. I due scrittori hanno cercato di accontentarli. Nella Fortuna con l’efe maiuscola, ultima commedia della Cantata dei giorni pari!, si ritrovano personaggi e temi delle prime opere di Eduardo: il giovane mezzo scemo e dispettoso, interpretato magistral-

118

Cantata dei giorni pari

mente da Peppino, di Natale in casa Cupiello e di Gennareniello, che approfitta della debolezza che ha per lui la madre — qui adottiva— per non fare niente; il pretendente nobile di Thè delle cinque, che poi si tradisce e dimostra di essere un furfante; infine, l'andamento farsesco che nel secondo atto raggiunge l’apice. In Giovanni poi si riconosce il personaggio eduardiano, grottesco in apparenza, ma nel fondo carico di amarezza e di malinconia. Le sue mezze parole, le sue frasi appena accennate, assumono il tono di una critica alle ingiustizie della vita e della società. È difficile dire, in una commedia scritta in collaborazione, quali parti siano dell’uno o dell’altro autore, ma il protagonista della Fortuna con l’effe maiuscola, che a suo modo si vendica della vita e delle leggi della società, è molto vicino alle idee manifestate in altri lavori da Eduardo. Ludovico Ribera, in Io l’erede, fa altrettanto, ma il pubblico del ‘42 non l’ha saputo accettare, come invece succederà nel dopoguerra quando personaggi ben più aspri del drammaturgo napoletano troveranno accoglienze trionfali.

C'è da aggiungere una nota significativa legata ai tempi — regime fascista — in cui questa commedia fu rappresentata. Poco mancò che Eduardo non venisse bastonato sulla scena insieme al fratello Peppino!

È certo interessante vedere il perché. La fortuna con l’effe maiuscola, come ogni lavoro teatrale, dovette essere sottoposto alla censura. Ebbe il nulla osta alla rappresentazione, ma dal fascicolo del Ministero della Cultura Popolare risulta che ci furono delle complicazioni per una battuta di Peppino. Infatti nella pratica si trova l’intercettazione di una telefonata del 16 maggio 1942, ore 17,50, fra un ufficiale comandante e un privato, dal numero 41258 dell’Unpa (Unità nazionale protezione antiaerea). « [Corzandante] Mi è stato riferito che, in una delle commedie che i fratelli De Filippo recitano al Quirino, a un certo momento fra i due attori della compagnia si svolge il seguente dialogo: “ Tu che fai? ”’, “ Mi son messo a posto: sono diventato capofabbricato! E tu? ”, “Io mi sono sistemato meglio di te! ”, “Tu? Così stupido come sei?...”’, “ Faccio parte dell’Unpa”. Ora, domando se sia opportuno aspettare la conferma disciò a deferirli al Que store, o se non sia il caso di andare una di queste sere con quattro o cinque persone sul palcoscenico e pestarli un po’. [Risposta] Non credo consigliabile mettersi contro questa gente. Il fatto è tanto più volgare in quanto i De Filippo, napoletani, sanno bene ciò che l’Unpa ha fatto per Napoli. [Corzandante] Non si deve lasciar passare inosservata questa cosa. M’informerò meglio e, poi, ne parlerò al Questore ». Chissà se i fratelli De Filippo seppero del pericolo corso. Comunque, il censore Zurlo, cui fu recapitata l’intercettazione della telefonata, scrisse una relazione (intitolata Per una

battuta dei De Filippo nella commedia

« La fortuna con l’effe maiuscola »), di cui vale la pena riportare alcuni brani perché indicativi dell’epoca. « Decisamente i Corpi Armati e non armati sono contro il teatro e la censura. [...] Ora è la volta dell’Unpa.

Un suo Comandante

X si adira per un breve dialogo che, come

diremo,

gli è stato riferito male, e isolato dal testo potrebbe apparire tinto di un lieve dileggio. Sta di fatto che esso mon si trova nel copione e, quando

34.

La fortuna con l’effe maiuscola

119

anche, non avrebbe significato offensivo. Perché un adolescente non ancora chiamato alle armi avrebbe detto alla portinaia di essere entrato, grazie al capofabbricato, nell’Unpa, ma ha mentito, egli non fa parte dell’Unpa, né di questa si parla mai nel corso della commedia. Quelle parole scapparono dette a Peppino De Filippo una sola sera; ma i De Filippo stessi, signori autentici del comico, le trovarono scialbe e le abbandonarono subito. E il Comandante X vorrebbe recarsi con altri quattro o cinque sul palcoscenico per bastonarli? Iehova era meno vendicativo ». In calce alla relazione di Zurlo vi è un’aggiunta a mano: « Letto dal Duce con grande ilarità » 8. L’annotazione sulla reazione di Mussolini è significativa. Lo conferma anche un altro fatto che risulta a Eduardo. Il dittatore avrebbe ordinato al capo della censura: «I De Filippo non si toccano,

sono

monumenti

nazionali » !4. Effettivamente

le commedie

‘sottoposte alla censura non incontrarono eccessive difficoltà, eccetto per i ritardi dell’autorizzazione che costringeva i De Filippo a sollecitare il nulla osta per la rappresentazione.

CANTATA

DEI GIORNI

DISPARI

Le opere pubblicate della Cantata dei giorni dispari ammontano a ventidue, alle quali vanno aggiunte due commedie scritte in collaborazione, uno sceneggiato televisivo e\la trasformazione di Napoli milionaria! in libretto lirico. Le opere scritte da Eduardo ‘in questo secondo periodo della sua carriera sono dunque complessivamente ventisei.

DO: Napoli milionaria! Tre atti, 1945. Commedia rappresentata per la prima volta il 25 marzo 1945 dalla nuova compagnia « Il teatro di Eduardo con Titina De Filippo », | a Napoli, al Teatro San Carlo. L’incasso fu devoluto a favore dei bambini poveri della città. Alla prima di Roma,

al Salone Margherita, il 31 marzo dello stesso anno, Eduardo si affacciò alla ribalta prima dello spettacolo per dire che le vecchie commedie dei fratelli De Filippo, quelle che avevano tanto divertito fino ad allora, lui non le avrebbe recitate più, e aggiunse: « Ogni anno di guerra, Signore e Signori, ha contato come un secolo della nostra vita di prima. Davvero non è più il caso di tornare a quelle vecchie storie » 1. Infatti fu proprio la guerra l’ispiratrice di questa commedia. Eduardo ricorda: « Poche settimane dopo la liberazione mi affacciai al balcone della mia casa di Parco Grifeo, e detti uno sguardo al panorama di questa città martoriata: così mi venne in mente in embrione la commedia e la scrissi tutta d’un fiato, come un lungo articolo sulla guerra e sulle sue deleterie conseguenze » 2.

L’azione del primo atto si svolge nel ’42, alla fine del secondo anno di guerra. Siamo nel basso della famiglia Jovine, affacciato sul vicolo,

« un enorme stanzone lercio e affumicato », ammobiliato con

vecchi mobili « brutto Ottocento ». Sul tavolo si trovano diverse tazzine da caffè di forma e colori differenti, che servono

al commercio

clandestiao

di donna

Amalia

Jovine. È mattina e gli uomini della famiglia, Gennaro, il padre, e Amedeo, il figlio, si stanno alzando. Maria Rosaria, la figlia maggiore, sta già lavando le tazzine da caffè per i clienti che fra poco arriveranno. Amalia ha messo su un commercio di borsa nera di caffè e di derrate alimentari perché il marito, tramviere, è ora disoccupato a causa della guerra. Gennaro, profondamente onesto, non approva questo traffico e lo critica. Ma sia la moglie, donna pratica, sia i figli non sono d’accordo col padre. Amalia lo giudica un inetto, Amedeo e Maria Rosaria lo ritengono in ritardo rispetto ai tempi. Persino

Rituccia, la figlioletta di cinque anni, imitando gli atteggiamenti del resto della famiglia e suscitando il loro compiacimento, dice del padre che è « fesso ».

124

Cantata dei giorni dispari

Gennaro non è per niente « stonato » e « rimbambito », come lo definisce il figlio per difendere l’attività della madre. È vero che dimentica facilmente le cose per una ferita ricevuta nella prima guerra mondiale, ma i ragionamenti che fa con i suoi amici dimostrano che le cose le capisce molto bene. Attribuisce la mancanza di generi alimentari al calmiere che lui ritiene « una delle forme di avvilimento che tiene il popolo in soggezione ed in istato di inferiorità »°. I governanti l’hanno inventato con la scusa che « il popolo è indolente, analfabeta, e non maturo », ma, nella pratica significa:

« siccome tu nun saie campa’, lèvate se campa! ». « E tanto fanno e tanto mmano e addeventano ‘e padrune » nare dei fascisti che, dati i tempi, per

’a miezo ca te mpar'io comme diceno, ca se pigliano ’e rrètene *. Denuncia il modo di goverprudenza, chiama « prufessure »:

« Chi ha voluto ‘a guerra? ». « Il popolo », diceno ’e prufessure. « Ma chi l’ha dichiarata? ». «’E prufessure », dice ‘0 popolo. Si ‘a guerra se perde l’ha perduta ‘o popolo; e si se vence, l'hanno vinciuta °e prufessure®. Avrebbe anche una soluzione allo stato attuale delle cose:

Il mio disegno di legge sarebbe quello di dare a ognuno una piccola responsabilità che, messe insieme, diventerebbero una responsabilità sola, in modo che sarebbero divisi in parti uguali, onori e dolori, vantaggi e svantaggi, morte e vita. Senza dire: io sono maturo e tu no! °

La famiglia di Gennaro non tiene in nessuna considerazione i suoi ragionamenti, va per la sua strada, ma non per questo Gennaro si esime dall’aiutarla quando se ne presenta la necessità. Per la denuncia di una concorrente di Amalia, la famiglia insieme a degli amici è costretta a inscenare una veglia grottesca in cui Gennaro si finge morto. Egli accetta con rassegnazione di distendersi sul letto sotto il quale è nascosta la merce della borsa nera. Le cose si complicano perché suona l’allarme e tutti scappano in cantina. Rimangono solo i suoi familiari. Al povero Gennaro che ha una gran paura dei bombardamenti tocca rimanere immobile sul letto, questa volta veramente più morto che vivo. Il brigadiere, venuto per la perquisizione, da buon napoletano che non vuole passare « per fesso », pure sente nascere in lui del-

l'ammirazione per quel poveruomo pronto a sacrificarsi per la famiglia, e dice:

35.

Napoli milionaria!

125

Bravo! Overamente bravo! Tu non si’ muorto, ‘0 ssaccio. Ne so’ sicuro. Sott' ’o lietto tiene ‘o contrabbando. Ma nun t'arresto. È sacrilegio a tucca’ nu muorto, ma è cchiù sacrilegio a mettere ‘e mmane ncuollo a uno vivo comme a te. Nun t'arresto! (Pausa) Ma damme ’a suddisfazione ’e te mòvere

e gli dà la parola d’onore di non fare nemmeno la perquisizione. Al che Gennaro si mette seduto sul letto « di morte » e insieme ai suoi familiari ringrazia il generoso brigadiere.

Nel secondo atto gli Alleati sono già sbarcati. La situazione della famiglia Jovine è molto mutata. Lo si vede dalla « sciccheria » fastosa della casa completamente trasformata. Amalia è tutta in « ghingheri », ingioiellata. Continua a fare la borsa nera, ma questa volta in grande e in regime di libertà. È sempre suo socio Errico « Settebellizze », che però vorrebbe essere qualcosa di più per lei. L'uomo ha sempre avuta una passione per Amalia, vuol vincere la sua tenue resistenza e, soprattutto ora che Gennaro è misteriosamente scomparso da più di quattordici mesi e non si hanno più sue notizie. La donna lo asseconda, ma non fino in fondo, vuol conoscere prima la sorte del marito che, uscito un giorno per andare a cercare del pane, non è più ritornato. Dai compleanno di Errico e fervono i preparativi per il banSA a cui sono invitati i nuovi ricchi del quartiere. Prima degli ospiti, arriva inaspettato Gennaro. Indossa un paio di pantaloni

americani, una giacca a vento mimetizzata dei tedeschi e un berretto militare italiano. Il suo abbigliamento sembra che rispecchi l’attuale situazione dell’Italia. È dimagrito, stanco. Ma il suo aspetto è « vivificato soltanto dalla gioia che ha negli occhi di rivedere finalmente la sua famiglia, e la sua casa » È. Dapprima non riconosce la moglie vestita così lussuosamente e sta per andarsene, ma poi finalmente la riabbraccia commosso. Riabbraccia pure Amedeo e Maria Rosaria, dopo essere andato a vedere la figlia piccola che è a letto malata. Comincia il racconto della sua lunga odissea: mentre tornava col pane ci fu un bombardamento dal mare, venne ferito e, senza sapere come, si ritrovò deportato dai tedeschi in un campo di lavoro. Fuggì dopo un po’ e visse nascosto finché poté attraversare le linee e ritornare a casa. Le sue esperienze erano state terribili, ben differenti da quelle della prima guerra mondiale, ma quando cerca di raccontarle dicendo: « Che sacrileggio, Ama’... Paise distrutte, creature sperze, fucilazione... E quanta muorte... °E Iloro e ’e nuoste... E quante n’aggio viste... ’E muorte so’ tutte eguale... » °, nessuno lo vuole più ascoltare. Parla di cose dolorose che la moglie arricchita

126

Cantata dei giorni dispari

e i suoi amici vogliono ignorare, per pensare solo a godere la fortuna e i beni che la guerra ha portato loro. Lo considerano un guastafeste, il denaro li ha disumanizzati tutti. Inutilmente Gennaro insiste nel dire: «’A guerra non è fernuta... E nun è fernuto niente! » !°. Loro sono convinti di sì. Amalia non solo non vuole sentire gli orrori che il marito vor-

rebbe raccontare, ma accecata dalla ricchezza, ignora anche le tragedie di casa sua: la figlia piccola è gravemente malata e lei continua a dire: « nu poco ’e frevicciolla... Roba ‘e criature » !; l’altra figlia, Maria Rosaria, frequenta i soldati americani ed è pure rimasta incinta, mentre il figlio Amedeo è diventato un ladro di automobili e di pneumatici. Un tempo questa donna era stata diversa, molto severa e preoccupata per i figli. Ma se prima arrivava a schiaffeg-

giare Maria Rosaria per un nonpulla, ora invece la lascia fare, ricat-

tata per il suo debole per Errico. È questo il quadro della famiglia che si svela presto davanti agli occhi di Gennaro ritornato a casa dalla prigionia. Ma l’esperienza terribile della guerra l’ha fatto crescere ed ora è pronto ad affrontare anche la distruzione della propria pace domestica: Ama’...

io so’ turnato

’e n’ata manera,

‘o ssa?

Tu te ricuorde

quann’io turnaie ‘a ll’ata guerra, ca ghievo truvanno chi m'accedeva?

Nevrastenico,

m’appiccecavo

cu

tuttu

quante...

Ma

sta

vota,

no!

Chesta, Ama’, nun è guerra, è n’ata cosa. È na cosa ca nun putimmo capi’ nuie... Io tengo cinquantaduie anne, ma sulamente mo’ me sent'ommo overamente. ’A sta guerra ccà se torna buone... Ca nun se vo’ fa male a nisciuno *.

Difatti sarà capace, maturato dalla sofferenza, non solo di comprendere tutti, ma anche di non giudicarli. La sera successiva, nel terzo atto, lo stesso brigadiere che non aveva arrestato Gennaro quando aveva fatto il morto per salvare la famiglia, viene a dirgli che il figlio e il suo complice hanno preparato un colpo per quella notte e verranno arrestati. Anche lui ha dei figli e sente solidarietà nei confronti di quell'uomo che ha già tanto sofferto. Gennato, nella sua onestà, non vuole compromettere il brigadiere, informando di quanto sa Amedeo. Cerca però di ricondurlo sulla retta via, facendogli capire che la guerra non offre giustificazione per quello che intende fare: Nun s'addeventa mariuolo pe’ via d' ‘a guerra. Mo’ qualunque cosa damme colpa ‘a guerra. Mariuolo se.nasce. E nun se po’ dicere

35.

Napoli milionaria!

ca

‘o mariuolo

è napulitano.

127

Oppure

romano.

Milanese.

Inglese.

Francese. Tedesco. Americano... '’O mariuolo è mariuolo sulamente *. Il giovane ammette che è giusto quello che il padre dice, ma esce lo stesso. Forse ripensando alle sue patole, rinuncia, però, a partecipare al colpo. Anche con Maria Rosaria, Gennaro dimostra la sua comprensione dopo che lei gli ha confessato di essere incinta. Non la butta fuori di casa, sapendo che così la spingerebbe alla prostituzione. Intanto Amalia e tutti i suoi amici sono in giro alla ricerca della sola medicina che potrebbe salvare Rituccia. È introvabile. Nemmeno

con tutti i soldi che ha, la madre riesce a comprarla. Ritorna disfatta, aftranta, completamente cambiata. Viene ad offrire gratis la medicina proprio un impiegato che Amalia aveva spogliato di tutti i suoi beni, compresa la casa, vendendogli i generi alimentari a prezzi esorbitanti. La donna non aveva sentito nessuna compassione per lui e per la sua famiglia. Ma vi era stata anche un’altra ragione — al di là dei soldi — a spingerla ad

agire così: il desiderio di rivincita e di vendetta su di un ceto sociale che stava meglio di lei, quando lei era povera. Amalia, scossa dagli avvenimenti degli ultimi due giorni, si siede accanto al tavolo. « Sente profondamente nel suo cuore tutta la responsabilità del momento, tutta la sua colpa » !“. Gennaro invece di condannarla riesce ad offrirle una giustificazione:

Prima ‘e tutto perché nun è colpa toia, ‘a guerra nun l’hè vuluta tu, e po’ pecché ‘e ccarte ’e mille lire fanno perdere ’a capa... Tu ll’he accuminciate a vede’ a poco ‘a vota, po’ cchiù assaie, po’ cientomila, po’ nu milione... E nun he’ capito niente cchiù [...] Si stevo cca, forse perdevo ’a capa puro...

Ripensando poi alle parole del dottore, dopo che la medicina finalmente era arrivata, le ripete alla moglie: «S’ha da aspetta’, Ama’. Ha da passa’ ’a nuttata » *, risponde così agli angosciosi interrogativi che agitano la donna. Napoli milionaria! come Natale in casa Cupiello, entrambe giudicate come capolavori dai critici, segnano un punto di partenza significativo non solo della produzione artistica di Eduardo, ma anche della sua interpretazione di due epoche differenti. Le due commedie si accomunano anche nella trattazione di problemi umani, oltre che di quelli sociali e politici. In Natale in casa Cupiello l’autore mette in risalto la solitudine, la sete d’amore, l’aspirazione alla bontà, e l’impotenza dell’uomo buono ma sprovveduto di fronte al male. Se però vogliamo collegare la commedia

128

Cantata dei giorni dispari

al suo tempo, cioè all'Italia sotto il fascismo, questo atteggiamento diventa negativo se interpretato in chiave di evasione dalla realtà. In Napoli milionaria! il protagonista nel primo atto è ancora come Luca, soffre degli stessi mali e ha le stesse aspirazioni. Ma negli atti seguenti, maturato dall’esperienza della guerra, reagisce positivamente davanti alla vita e alle sue brutture. Non si fa sopraffare, ma accetta la lotta. Vince la solitudine con la solidarietà, perché solo così l’amore non è più egoismo. Aiuta i membri della sua famiglia a rinascere migliori di prima attraverso esperienze dolorose che, secondo lui, redimono. Eduardo, sempre in questa seconda commedia, dà anche un suggerimento a tutti gli italiani: solo con la solidarietà si arriverà alla formazione della nuova Italia democratica. I rancori sociali e le divisioni di classe devono finire. Lo fa capire chiaramente con l’episodio dell’impiegato che, spogliato di tutto da Amalia, offre ugualmente la medicina indispensabile a Rituccia, la bimba nella quale Gennaro dice di vedere «0 paese nuosto » 1. Eduardo esorta pure lo Stato e i governanti ad assumersi le proprie responsabilità con le parole che mette in bocca al protagonista: « Cchiù ’a famiglia se sta perdenno e cchiù ’o pate ’e famiglia ha da piglia’ ’a responsabilità » !" perché solo così potrà passare «’a nuttata ». « Nuttata » che per primo, coraggiosamente e senza falsi pudori, rappresentò sulla scena. Verranno dopo i film neorealistici di De Sica e Rossellini. Consapevole della « difficoltà » della commedia, temeva la reazione del pubblico, specialmente di quello napoletano. Ma fu ricompensato del suo ardimento. Questa, nei suoi ricordi, la prima a Napoli: « È nella mia città che ho provato la più profonda commozione della mia vita. Fu alla prima di Napoli milionaria!. Quasi tutti i teatri erano requisiti. C'era il fronte fermo verso Firenze. C’era la fame, e tanta gente disperata. Ottenni il “ San Carlo ”’ per una sera. I professori dell’orchestra, per assistere allo spettacolo, si erano infilati nel golfo mistico. ‘ Vedrete che ci diffamerà’, pensava qualcuno allarmato. [...] Arrivai al terzo atto con sgomento. Recitavo e sentivo attorno a me un silenzio assoluto, terribile. Quando dissi l’ultima battuta, la battuta finale: ‘ Deve passare la notte’, e scese il pesante velario, ci fu un silenzio ancora, per otto, dieci secondi, poi scoppiò un applauso furioso, e anche un pianto irrefrenabile, tutti avevano in mano un fazzoletto, gli orchestrali del golfo mistico che si erano alzati in piedi, i macchinisti che avevano invaso la scena, il pubblico che era salito sul palco, tutti piangevano, e anch’io piangevo, e piangeva Raffaele Viviani che era corso ad abbracciarmi. Io avevo detto il dolore di tutti » !8. Ma anche la speranza di tutti. Questa speranza di Eduardo presto fu delusa. Le sue opere successive testimonieranno della sua amarezza nel rendersi conto che gli uomini non sono diventati migliori attraverso la sofferenza, ma si sono inaspriti, al punto che niente più riesce ad unirli, niente può incoraggiarli a sentimenti di umanità e solidarietà.

36.

Napoli milionaria!

(opera lirica)

120

36.

Napoli milionaria! (opera lirica)

Opera lirica in tre atti. Musica di Nino Rota. Rappresentata per la prima

volta alla XX edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto, il 22 giugno 1977.

Eduardo, trasformando Napoli milionaria! in libretto per opera, ha eliminato ogni nota di speranza. Ha fatto dei cambiamenti che rispecchiano il suo pessimismo di fronte alla società attuale. Ma lasciamo la parola a lui per dircene le ragioni: Io non sono più d'accordo con la conclusione di Napoli milionaria! alla sua nascita, cioè negli anni ‘44-45, quando i tedeschi ancora combattevano a Firenze. Un’epoca, quella, in cui vivevamo di esaltazioni e di speranze dopo il ventennio fascista. Credevamo, allora che ci sarebbe stata una schiarita, un ravvedimento da parte dei popoli. Ma solo pochi ebbero quel ravvedimento.

E così, via via l'entusiasmo,

la speranza

crollarono...

Se diamo uno sguardo indietro, dovremmo essere ben ciechi per non accorgerci di come fu illusoria quella speranza. Ci fu, è vero, una ripresa grossa — troppo grossa — ma questo lo stiamo pagando a caro prezzo. Sarebbe stato non dico anacronistico ma ridicolo mantenere la stessa conclusione della Napoli milionaria! del ‘44-45, quando era necessario e doveroso da parte di uno scrittore dare speranza alla gente. Perciò adesso, nel concludere il libretto, ho preferito un’altra soluzione, la più disperata, che del resto avevo già affermato nella commedia in prosa. Invece, di « Ha da passa’ ‘a nuttata », l’ultima battuta dell’opera è: « La guerra non è finita ». L’ho fatto con la stessa disperazione con cui nel ‘47-48 scrissi Voci di dentro, dove lo zio Nicola si rifiuta di parlare affermando che «se l'umanità è sorda io posso essere muto ». Il libretto dell’opera è più amaro della commedia anche nel rapporto fra la moglie di Gennaro, Amalia, ed Errico Settebellizze: la reciproca attrazione non sfociava nell’adulterio, qui invece sono amanti belli e buoni. Insomma: allora io ci credevo, volli addolcire la situazione con la voce della speranza. Ero in buona fede. Oggi non ci credo più. Sono in buona fede come allora.

Altro cambiamento che tispecchia il pessimismo dell’autore è la morte violenta per mano della polizia di Amedeo, che non si ravvede come nella commedia. Eduardo trova riscontto alla sua nuova interpretazione di quegli anni ?44-45, nella situazione dell’Italia di oggi. Accennando agli attentati, ai rapimenti, a piazza Fontana, al momento della rappresentazione ne dà la colpa al governo e alle istituzioni ed aggiunge:

130

Cantata dei giorni dispari

La commedia poteva essere datata, il libretto non lo è più. Chi è datato è il governo non io, non Rota che con la sua arte ha nobilitato la canzone napoletana. L’opera è il seguito della Napoli milionaria! commedia. Specialmente nel terzo atto la musica [...] è una musica tragica che finisce in un oratorio che è una preghiera. E questo potrebbe essere un messaggio ottimistico?.

Ecco, Eduardo nella disperazione trova una nota positiva, una speranza. Credo che sia giusto il commento all’opera di Fantasio Piccoli: « Se esiste una disperazione non disperata, questa è la disperazione di Eduardo, consapevolezza della nostra condizione umana, ma con lo sguardo rivolto verso un cielo luminoso. Lotta, non rassegnazione » 3.

37 Occhiali neri Atto unico,

1945.

Non

è stato mai

rappresentato.

Siamo nell'immediato dopoguerra e i fratelli Spelta che prima venivano solo in villeggiatura nella loro villa di Torre del Greco, ora ci vivono. Maria, vedova, ci si trova bene perché qua ritroviamo un poco di quello che è stata la nostra vita passata. [...] Questa guerra ci ha sconvolti. Io nun me fido cchiù ’e vede’ ’a gente. Dovunque vi voltate trovate guai. Certe volte mi vergogno di raccontare i miei perché mi sembrano sempre inferiori a quelli degli altri.

È quel che dice all’amica che è venuta a trovarla. Lo stesso è per suo fratello Mario, anche se per ragioni diverse. Ritornato cieco dall'Africa settentrionale, non ha voluto rimanere a

Napoli, sentendosi solo, triste. Qui invece

per lui, è un grande conforto. Conosce ogni angolo della casa, ogni camera ha un ricordo di infanzia... tanto è vero che cammina tran-

quillo, pure da solo... per il giardino, per la masseria*.

In questo voler vivere isolati, nelle reminiscenze del passato, vi è la paura della nuova situazione politica da parte della borghesia abituata dal fascismo a non prendere decisioni o posizioni. È quello che dice Rafele, un robusto contadino sui sessant'anni, uomo di fatica degli Spelta:

37.

Occhiali

neri

131

Questa è la carognaggine che si è formata nella mente umana: la paura. Voi, allora, vi mettete paura dei fascisti, vi mettete paura dei comunisti, vi mettete paura dei liberali, vi mettete paura dei democristiani... E vuie campate ’e pàlpite?.

Le sue parole sono — secondo la didascalia — « frutto di una esperienza amara fatta di anni vissuti intensamente dall’altra guerra a questa » È. Questo sentimento di paura è alla base della vicenda umana di questo breve atto unico. Il dottore è venuto per controllare se la cura sperimentale che ha adottato è riuscita a ridare la vista a Mario. Ma il giovane prima di levarsi la benda, vuol rendersi conto di quali sono i veri sentimenti della sua fidanzata che gli è rimasta vicino dopo il suo ritorno dalla guerra e durante l’esperimento. Parla con Assunta e comprende che è completamente fiduciosa nella sua guarigione. Così quando gli tolgono la benda, malgrado il fallimento dell’esperimento, finge di vedere, dichiara di non essere pronto al matrimonio perché vuol godersi la vita ora che ci vede, e ridà la libertà alla fidanzata. Dopo che la ragazza è scappata piangendo, Mario rivela alla sorella la verità e il perché del suo comportamento: Non volevo elemosina da nessuno. Mari’, io ce aggio parlato prima. Ho capito che se rimanevo cieco mi avrebbe sposato per beneficenza, non per orgoglio. A beneficenza ‘a facesse a n’ato. Mari’, fino all'ultimo momento

ha sperato ca me turnasse ‘a vista. E si nun

me fosse turnata, forse, chello ch’aggio ditto io a essa, m° o diceva essa a me. Siente a me, dopo il matrimonio chissà quante volte mi avrebbe rinfacciato che avevo perduto gli occhi inutilmente, che chi me l'aveva fatto fa’, che potevo benissimo imboscarmi. Non avrebbe avuto per me quella fierezza, quell’orgoglio che ha la potenza di

sostenere la rinunzia*. Sceglie di continuare a vivere nei suoi sogni, perché ora nemmeno l’essere stato ferito in guerra gli dà una posizione privilegiata: «’E cecate ’e l’ata guerra si chiamavano mutilati... Mo’ no. Mo’ so’ cecate » °. Si consola dicendo: °A vita mia me l’aggio accunciata comme me piace a me. ‘A notte ce veco... quanno dormo. Dint° o suonno veco ‘o munno comme

vogl’io, ‘a gente comme piace a me.

152

Cantata dei giorni dispari

Più che una commedia Occhiali neri è uno sfogo contro la classe borghese dell’epoca, che vive di rimpianti per avere perso i propri privilegi, e che non sa adattarsi ai nuovi tempi. Forse un momento di malumore ha ispirato a Eduardo questo atto unico che, pur essendo contemtemporaneo a Napoli milionaria!, non ne ha né l’alito di speranza, né la forza drammatica. Probabilmente queste ragioni hanno spinto l’autore a non metterlo in scena.

bIsà

Questi fantasmi! Tre atti, 1946. La commedia fu rappresentata per la prima volta il 7 gennaio 1946 dalla compagnia «Il teatro di Eduardo con Titina De Filippo », a Roma, al Teatro Eliseo. Spesso succede che nelle commedie di Eduardo lo spunto iniziale nasca o da fatti realmente accaduti, o da persone da lui conosciute. Così è per Questi fantasmi! «C'era un vecchio con la barba — ricorda Eduardo — che veniva a casa quando ci trovavamo fra amici perché raccontava di essere uno specialista di sedute spiritiche. Per convincermi, mi diceva che spesso, tornando a casa sua, trovava un tipo che usciva e lo salutava. Diceva di essere un fantasma. Io gli chiesi: ‘Lei è sposato? E sua moglie non dice nulla? ’. ‘Non se ne accorge — mi rispose — non lo vede’. Così nacquero Questi fantasmi! » 1.

La vicenda è ambientata nell'immediato dopoguerra in un grande stanzone d’ingresso di un antico appartamento, in un palazzo seicentesco, a Napoli. Pasquale Lojacono, carico delle ultime masserizie rimaste indietro nel trasloco, viene a prendere possesso dell'abitazione che gli è stata ceduta gratuitamente per cinque anni perché sfati le voci che la

vogliono frequentata da fantasmi.

Pasquale è un uomo sui quarantacinque anni, « un’anima in pena », in questa commedia dove tutti i personaggi sono altrettante anime che, secondo il caso, sono « perdute», «irrequiete», «tristi», «innocenti», «nere» o «dannate». La didascalia rende il suo stato d’animo:

Ha

un

viso tormentato,

forse per la continua

ricerca

di una

svolta, d’una soluzione che gli permetta di vivere un po’ di vita tranquilla e di offrire a sua moglie qualche agio. Ha lo sguardo irrequieto dell’uomo scontento, ma che non si è dato per vinto. Insomma, i guai non lo sorprendono mai. È sempre pronto al « punto e a capo » ?.

38.

Questi fantasmi!

133

Da buon napoletano, è superstizioso ed ha un certo timore dei fantasmi, ma cerca di vincersi. Trasformando in pensione l’appartamento,

che ha ben

diciotto

stanze,

spera

di liberarsi

dalla

sua

eterna disoccupazione e di assicurare finalmente un avvenire migliore alla moglie che ama teneramente. Pasquale viene accolto da Raffaele, il portiere, l’anima nera della casa, che, con la « complicità » dei fantasmi, ruba, facendo sparire tutto quello che può. Ci sono anche i facchini che portano gli ultimi mobili, fra cui un armadio. Come prima cosa, il portiere ricorda al nuovo inquilino che, per poter abitare in quella casa, dovrà scrupolosamente osservare le condizioni imposte dal proprietario: Un'ora la mattina e un'ora la sera vi dovete affacciare a tutti i balconi dell’appartamento per far vedere alla gente che abita di fronte che la casa è abitata. I balconi sono sessantotto. [...] La mattina, per lo meno da due o tre balconi di ognuno dei quattro lati del palazzo, dovete battere quattro o cinque tappeti. ’A ggente sente ‘o rummore, vi vede, e si mette l’animo in pace. [...] Quando state affacciato, o dovete fischiare o dovete cantare: avit’ ’a sta allegro. Infine:

La cosa più importante, poi, è questa: caso mai siete costretto a scappare per la paura, non dovete mai dire a nessuno quello che avete visto e sentito in questa casa’.

Dopo l’arrivo della moglie Maria, un’« anima perduta » che ha un amante da un anno e mezzo, Pasquale scende per una commissione. Ne approfitta Alfredo, « anima irrequieta », per uscire dall’armadio e dare il benvenuto nella nuova casa all'amante con un mazzo di fiori e un pollo arrosto. Non fa in tempo, però, a sparire prima del ritorno di Pasquale. « Si ferma come per mimetizzarsi con l’armadio » £. Rimane immobile. Pasquale prima nota i fiori e pensando agli spiriti dice: « Vuol dire che mi hanno preso in simpatia... Mi accolgono con i fiori »?. Vede il pollo e il suo pensiero corre subito alla gallina morta appesa sul balcone. Va al balcone e non la trova più. Non sa che il portiere l’ha rubata e ritorna al tavolo, « facendo gesti di stupore e descrivendo il miracolo della trasformazione ». Scorge Alfredo sempre lì impalato. « Non crede ai suoi occhi ». « Cerca di distrarsi, sperando che la prossima volta che guarderà, la visione scompaia ». Ma non succede così. Finalmente Alfredo decide di andarsene dopo aver accennato un sorriso e un lieve inchino, che Pasquale ricambia.

134

Cantata dei giorni dispari

Dopo la scomparsa del « fantasma », il poveruomo si sente mancare. « Tremante di spavento, impallidisce fino all'inverosimile, balbetta qualche cosa d’incomprensibile e, sedendo {...] comincia a segnarsi ripetutamente, assumendo l’aspetto dell’ispirato, dell’asceta, del predestinato. Di colui che ha visto il fantasma » ‘.

Sono passati sei mesi. L’ingresso dell’appartamento, nel secondo atto, è stato trasformato nel soggiorno di una pensione decorosa. Pasquale conversando sul balcone col suo dirimpettaio, « anima utile », si sta preparando il caffè. Il vicino certamente accenna ai fantasmi perché lui risponde: Non metto in dubbio quello che voi mi dite, ma in questa casa,

posso garantirvi che regna la vera tranquillità. Tutto quello che voi vedete sul terrazzo, sul cornicione, fuori ai balconi...

a me non risulta.

Sì, quello che posso dire è che, da quando sono venuto ad abitare qua, le mie cose si sono

aggiustate,

che questa casa mi ha portato

fortuna, che se avessi richieste di camere, la pensione potrebbe già funzionare, ma fantasmi, come fantasmi, è proprio il caso di dire: neanche l'ombra!

Invece il professor Santanna — così si chiama l’interlocutore fuori campo — ha ragione. L'amante di Maria ha preso in affitto un

appartamento in una casa vicina e proprio attraverso il terrazzo e il

cornicione viene a trovarla. Anzi, lascia ogni volta dei soldi nella giacca di casa di Pasquale, che così ha potuto ammobiliare tutte le diciotto camere. Pasquale è convinto che i fantasmi siano i suoi benefat tori, ma, per non perdere l’appartamento, ne nega l’esistenza al professore. Al portiere, però, l’ammette: Non ci volevo credere, ma mi sono dovuto convinc ere...

Che so

to: rumori, dispetti, manifestazioni sinistre, niente; ma cose benigne,

sì. Si vede che mi hanno preso in simpatia 8.

La sua contentezza è rovinata dalla tensione che si è creata tra lui e la moglie. Maria sembra che si sia chiusa come un riccio. Le rare volte che la donna parla è per accusare il marito di sfruttare la situazione, di accettare vergognosamente quei soldi. Pasquale risponde con parole che potrebbero essere anche ambigue, ma in sostanza insiste che c'è un'anima buona « che ci aiuta, e speriamo che ci aiuti sempre più per l’avvenire. Tu sei felice, io son

contento: tiriamo avanti e chi vo’ a Dio, ca s’’o prega » ?. Maria rimane disgustata; Alfredo vorrebbe approfittare pet con-

38.

Questi fantasmi!

135

vincerla a fuggire con lui, ma non ci riesce. Maria ha paura, perché anche l'amante è sposato ed ha figli. Infatti, poco dopo, la moglie e i figli di Alfredo, insieme ai nonni, si presentano davanti a Pasquale che li scambia per altri fantasmi. Un temporale contribuisce con lampi e tuoni a rendere quella che l’uomo crede una visione terribile al punto da farlo rifugiare sul balcone, malgrado la pioggia scrosciante. Nel frattempo, si è unito al gruppo anche Alfredo, la moglie minaccia di avvelenarsi, i figli reclamano il padre: insomma tutti « gridano e gesticolano come anime dannate ». Pasquale è atterrito, ma cerca lo stesso di mostrarsi disinvolto e di buon umore davanti al professore Santanna, che attirato dalle grida si è affacciato al balcone. Si rivolge a lui « con risate isteriche e battimani infantili »: « Ah... ah... ah... Non è vero niente, professo”: ah... ah... ah... Non è vero! I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi, siamo noi i fantasmi... Ah... ah... ah». Per mostrarsi sempre più disinvolto canta: « Ah... l'’ammore che fa fa’... » !°.

Sono passati due mesi — siamo nel terzo atto — dalla scena allucinante dei « fantasmi ». Alfredo è ritornato in seno alla sua famiglia e Pasquale si trova nell’impossibilità di pagare gli acquisti che aveva fatto per la pensione. Molta roba se la sono ripresa i fornitori e i creditori lo perseguitano. Dietro consiglio del professor Santanna, si prepara a partire per far tornare il fantasma. Quando, però, saluta la moglie che non lo degna nemmeno di uno sguardo, non riesce più a trattenere quello che sente:

Mari’... come ci riduciamo... Che tristezza... Come finisce tutto l'entusiasmo, tutto l’amore. Mesi e mesi senza scambiare una parola, un pensiero. [...] Nun ce facimmo capace... E ‘a quanto tiempo nun te sento parla’... Te ricuorde, Mari’ quanno facevamo ammore? Ce

guardàvemo dint’ all’uocchie e nun parlavemo per timidezza, ma cu Il’uocchie ce dicevemo tanta cose... [...]. E invece no s'ha da mantene o punto. E forse, ci portiamo un cuore gonfio di amarezza, di tristezze, di tenerezze, che, se solamente per un attimo, riuscissimo ad aprire l'uno con

l’altro... Ma

niente...

Ha da sta’ chiuso,

« rebazzato »...

A nu certo punto se perde ’a chiave e va t' ‘a pesca! Avimmo perza ’a chiave, Mari!!!

Il suo sfogo rivela come la mancanza di comunicazione abbia incrinato irrimediabilmente la loro unione. Ma la donna non reagisce. Lo lascia andare senza una parola. Pasquale fa solo finta di partire, ritorna per nascondersi sul

136

Cantata dei giorni dispari

balcone in attesa del « buon fantasma » che effettivamente

viene.

Si tratta di Alfredo che, non potendo più vivere lontano da Maria,

vuol costringerla a fuggire con lui. Ha con sé una forte somma di denaro. Mentre aspetta l'amante, esce sul balcone. Pasquale « riconoscendo nella figura di Alfredo, illuminata dalla luna, quella del fantasma del primo atto, vince con tutte le sue forze il timore che lo invade e riesce a gridare: ‘ Fermate... T’aggi’ ’a parla”! ’. Però non regge all’emozione e scoppia in pianto dirotto comico e tragico insieme, si accascia, cade in ginocchio, con la faccia a terra ». Si «riprende e ricomincia a parlare all'amante che lo guarda perplesso: °O ssapevo... lo sapevo che non mi avresti abbandonato. Quando venni in questa casa mi dissero che c'erano i fantasmi, ma io non ci

credevo... E te cerco perdono. Ma mo’ ce credo [...]. Dal momento che pozzo credere me sento forte e la forza mi dà fiducia, speranza. [...] Aiutami!... Con una somma di denaro posso mandare avanti la pensione. [...] Tu sei un'anima buona e me puo’ capi’... Non ho mat potuto regalare a mia moglie un bracciale, un anello [...]. E se

tu sapessi quanto è triste, per un uomo, nascondere la propria umiliazione con una risata, una barzelletta. Il lavoro onesto è doloroso

e misero... e non sempre si trova. E allora la perdo, la perdo ogni giorno di più... E nun ’a pozzo perdere! Maria è ’a vita mia!... E tu capisci che nun tengo ’o curaggio ’e ce ’o ddicere... perché il coraggio te lo dà il denaro... e senza il denaro si diventa timidi, paurosi... senza denaro si diventa carogna! La perdo!

Spiega perché può confidarsi a lui col cuore in mano:

Tu sei al disopra di tutti i sentimenti che ci condannano «a non aprire i nostri cuori l’uno con l’altro: orgoglio, invidia, superiorità, ‘ finzione, egoismo, doppiezza... Con te non ne sento. Parlanno cu te me sento vicino a Dio, me sento piccirillo piccirillo... me sento niente... e me fa piacere di sentirmi niente, così posso liberarmi del peso del mio essere che mi opprime!...

Alfredo, che lo « ha ascoltato a testa bassa, comincia

a parlare

come a se stesso: ‘ Grazie. Hai sciolto la mia condanna. Io fui condannato a vagare in questa casa fino a che un uomo non mi avesse parlato come mi stai parlando tu. Sul tavolo, guarda sul tavolo!’ » !. La fede dell’impossibile trionfa. L'amante se ne va lasciando un pacco di biglietti da mille. La commedia però non termina su questa nota positiva. Eduardo non sa credere ai miracoli. Pasquale, ripetendo le parole del professor

38.

Questi fantasmi!

137

Santanna, al quale felice ha appena raccontato quello che è successo, prevede inconsapevole un triste futuro: il fantasma ritornerà sotto altre sembianze. i Questi fantasmi! è un lavoro teatrale costruito molto abilmente sull'ambiguità. Non lascia mai vedere chiaramente se Pasquale per raggiungere il suo scopo agisca in buona o in mala fede, se la sua scelta di non voler vedere il male sia cosciente o meno. In questa ambiguità alcuni critici hanno identificato l’influenza del relativismo pirandelliano, Eduardo invece più semplicemente la fa risalire ai qui pro quo della Commedia dell'Arte, e dà una sua interpretazione al contenuto di Questi fantasmi!: « Scrissi Ja commedia di Pasquale Lojacono per dire che i fantasmi non esistono, i fantasmi siamo noi, ridotti così dalla società che ci vuole ambigui, ci vuole lacerati, insieme bugiardi e sinceri, generosi e vili » 18. Il lato notevole di questa commedia è che, pur mettendo in scena il classico triangolo, con trovate tragicomiche e grottesche, può nello stesso tempo dare adito a diverse interpretazioni. In essa possiamo anche vedere il dramma dell’uomo che lotta con qualsiasi mezzo per riconquistare la donna amata; oppure il dramma dell’uomo incapace di accettare la realtà e che sceglie di abbandonarsi all’illusione. Se poi vogliamo pensare a quando Eduardo l’ha scritta, all'immediato dopoguerra, allora Pasquale diventa il simbolo dell’uomo che, pur essendo consapevole delle brutture del momento, vuol trasformare i fantasmi cattivi in buoni, perché vuole avere fiducia in un avvenire migliore. E questo lo spinge a spogliarsi di tutti

i suoi

attributi

negativi,

« orgoglio,

invidia,

superiorità,

finzione,

egoismo, doppiezza » !4, per arrivare a quella solidarietà, auspicata in Napoli milionaria!, che sola poteva far rinascere l’Italia. Ma l’ultima battuta sui fantasmi che torneranno sotto altre sembianze, fa già presagire che il suo sforzo sarà inutile. Pare che Eduardo accrediti questa interpretazione quando nel ’56 dice che si ride a questa commedia, ma « probabilmente fra cinquant'anni riprenderanno Questi fantasmi! e non tideranno più, perché sarà la ricostruzione di un’epoca, perché potranno vedere, in quell'uomo che crede ai fantasmi per non credere alla realtà, la vita degli uomini » ®. Nel 1981 questa commedia è stata ripresa, non più con Eduardo come protagonista, ma con Enrico Maria Salerno. La domanda di tutti fu se la commedia avrebbe retto anche senza Eduardo. Questa la risposta del critico Giorgio Prosperi: « L’esito della serata, pur considerando i coefficienti di eccezionalità di una ‘ prima”, è stato talmente favorevole, con applausi e chiamate a tutti gli interpreti, [...] che la risposta non può che essere affermativa. Ma la critica, come avverte l’origine stessa della parola è cernita, analisi, distinzione. Vediamo dunque di distinguere. Per quanto riguarda la commedia, così come è scritta, mi pare che essa, pur giovandosi ovviamente della presenza di Eduardo, possa pretendere a una vita autonoma, anche in una lingua straniera, a condizione di trovare ragionevoli equivalenti delle componenti del testo. È chiaro che l’humour di Eduardo può essere trasferito meglio in un paese, in cui la commedia si rifà a Gogol, che in un altro, dove si rifà a Sheridan. La prova migliore dell’autonomia della commedia è nel fatto di essere

138

Cantata dei giorni dispari

portata al successo da un attore che, a mio giudizio, non ne è l’interprete

testuale.

[...]

ALE

n

1

Venuto meno [...] il paesaggio tra poetico e superstizioso, cioè magico in cui matura il protagonista, la commedia si ispessisce in una crudeltà quasi autodistruttiva, Pasquale Lojacono fatto da Salerno con la sua grinta da “ cummenda ” non ispira più una superiore tenerezza. [....] Ma il successo, allora? È qui il punto: artisticamente meno coerente ed affascinante di quello di Eduardo, non è detto che il Pasquale Lojacono di Salerno non abbia una sua aspra spettacolarità. [...] Non siamo più del tutto sicuri che il personaggio sia innocente. Se lo è, manca della

favolosa sublimità, che redime il suo rivale. Insomma la commedia si incattivisce » 16, Anche questa « aspra » interpretazione dî Questi fantasmi! è la prova, a distanza di trentaquattro anni dalla sua composizione, della sua continua

vitalità.

39. Filumena

Marturano

Tre atti, 1946. La commedia fu rappresentata pet la prima volta il 7 novembre 1946 dalla compagnia « Il teatro di Eduardo con Titina De Filippo », a Napoli, al Teatro Politeama. La commedia «è stata scritta, per confessione dello stesso autore, in pochissimo tempo: avrebbe dovuto rappresentare la ‘copertura’ nel caso di un insuccesso dei Fantasmi »!, un insuccesso che non ci fu. Lo spunto Eduardo lo prese da un fatto di cronaca: «L’idea di Filumena Marturano [...] mi nacque alla lettura. di una notizia: una donna, a Napoli, che conviveva con un uomo senza esserne la moglie, era riuscita a farsi sposare soltanto fingendosi moribonda. Questo era il fatterello piccante, ma minuscolo : da esso trassi la vicenda ben più vasta e patetica di Filumena, la più cara fra le mie creature » 2.

L'azione incomincia ir medias res dopo che Filumena Martur ano, fingendosi moribonda e fattasi sposare ix extremis da Domenico Soriano, si è alzata dal letto « guarita » con aria di sfida, pronta ad affrontare l’ira del « marito ». I tratti del volto di questa donna di quarantotto anni tradiscono « un passato di lotte e di tristezze ». «Non ha un aspetto grossolano, ma non può nascon dere la sua origine pleblea ». « Il tono della sua voce è sempre franco e deciso, da

donna

cosciente,

ricca

d’intelligenza

istintiva

e di forza

morale,

da donna che conosce le leggi della vita a modo suo e a modo suo le affronta » ®. Sta ferma in piedi da un lato della stanza da pranzo, mentre nell’altro angolo vi è l’uomo con cui ha conviss uto per venticinque anni dopo che questi l’aveva tolta da un lupana re. Domenico Soriano

39.

Filumena

Marturano

139

affronta la donna con la decisa volontà di colui il quale non vede limiti né ostacoli, pur di far trionfare la sua sacrosanta ragione, pur di spezzare l’infamia e mettere a nudo, di fronte al mondo, la bassezza con cui fu possibile ingannarlo. Si sente offeso, oltraggiato, colpito in qualche cosa, secondo lui di sacro, che non può né intende confessare. Il fatto poi, che egli possa apparire un vinto al cospetto della gente, gli sconvolge addirittura il cervello, gli fa perdere i lumi della ragione. Si trova ora « pallido e convulso », offeso nella sua dignità di uomo che si sente proprio per questo superiore «a quella donna ‘da niente’ che per tanti anni è stata da lui trattata come una schiava, e che ora lo tiene in pugno, per schiacciarlo come un pulcino » ‘. Niente meglio della didascalia poteva rivelare lo stato d’animo di questi due esseri che ora rinfacciano l’uno all’altro, secondo il proprio punto di vista, il passato. Domenico, furioso, pensa addirittura di uccidere quella « malafemmena »: Ma nun te credere ch’hè vinciuto ‘o punto: 9° punto nun ll’hè vinciuto! Io t'accido e te pavo tre sorde. Na femmena comm'’a tte, tanto se pava: tre sorde! [...] ’O rivolvere... Dateme o’ rivolvere! [...] Quann’aggio fatto sape’ chi si’ stata tu, e ’a copp’ ‘a qua casa te venette a piglia’, m’hann' ‘a da’ ragione afforza! E te distruggo, Filume’, te distruggo!° Filumena non disarma. Gli ribatte: « Quello che ho fatto, me lo piango io e la mia coscienza. Mo’ te so’ mugliera. E ’a cca nun me moveno manco ‘e carabiniere! ». Gli ricorda poi in base a quali fatti può reclamare il suo diritto:

T’aggio fatto ‘a serva! ’A serva ll’aggio fatta pe’ vinticinc'anne. [...] Quanno isso parteva pe se spassa’: Londra, Parigge, ‘e ccorse, io facevo ‘a carabbiniera: d’ ’a fabbrica a Furcella, a chella d’ ‘e Virgene e dint'’e magazzine a Tuledo e a Furia, pecché si no ‘e dipendente suoie Il’avarrieno spugliato vivo! [...] Ll’aggio purtata ‘a casa nnanze, meglio ‘e na mugliera! Ll’aggio lavate ’e piede! E no mo’ ca so’ vecchia, ma quann’ero figliola. E maie ca me fosse sentuta vicin’a isso apprezzata, ricunusciuta, maie! Sempe comm’a na cammarera C'’a nu mumento all’ato se po’ mettere for ‘a porta! Quest'uomo anche impedito

non solo non l’aveva mai apprezzata, ma aveva ad un certo momento della loro convivenza che

140

essa si rifacesse una vita sposandosi

Cantata dei giorni dispari

con un

altro giovane.

Allora

Domenico, con le lacrime agli occhi, l'aveva supplicata di non abbandonarlo, promettendo che l’avrebbe sposata appena gli fosse stato possibile. A quell'epoca era sposato con una donna inferma, ma, rimasto vedovo, non aveva mantenuto mai la promessa. Si era tenuto Filumena per i propri comodi, e intanto correva appresso a tutte le altre donne, portando poi a casa i fazzoletti sporchi di rossetto, convinto del suo buon diritto, perché « si chella ’e ttrova, e che ffa? Chi è essa? Che diritto tene? » 7. Filumena aveva sempre sopportato tutto nella speranza che, prima o poi, l’uomo sarebbe tornato definitivamente a lei. Invece ora, a cinquantadue anni, lui ha perso la testa per una ventiduenne e vuole sposarla. Non sono i denari che Domenico le offrirebbe come « liquidazione » che Filumena vuole, ma il suo nome, per poterlo dare ai suoi tre figli. Ha rubato i soldi a Domenico per crescerli, e ormai sono grandi: uno è idraulico ed è sposato, l’altro camiciaio, il terzo è impiegato ma ha ambizioni letterarie. Ha scelto di sua volontà di essere madre: infatti la prima volta che era rimasta incinta, quando era nel lupanare, sebbene le compagne le consigliassero di liberarsi del bambino, non lo aveva fatto. Veramente lei attribuisce Ja sua decisione alla « Madonna d’’e rrose ». Proprio quando si dibatteva sul da farsi, si era ritrovata davanti all’altarino della Vergine, Si era rivolta a lei, da buona popolana, puntando i « pugni sui fianchi » e sollevando «lo sguardo verso la sua effige, come per parlare alla Vergine da donna a donna », con questa preghiera originale e genuina: « C’aggi” ’a fa’? Tu saie tutto... Saie pure perché me trovo int’ ’o peccato. C’aggi ’a fa’? ». Siccome la Madonna non rispondeva, Filumena eccitata aveva proseguito: « E accussi” ffaie, è ove’. Cchiù nun parle e cchiù ’a gente te crede?... Sto parlanno cu te! Rispunne! ». Improvvisamente nel vicolo dove si trovava l’immagine della Vergine si era levata una voce: « ’E figlie so’ ffiglie! » *. Filumena aveva prese queste parole come una risposta alla sua preghiera e si era tenuto il figlio e poi gli altri successivi. Filumena ha fatto ricorso alla finzione del matrimonio în extremis perché i figli « nun s’hann’ ’a mettere scuorno vicino all’attuommene: nun s’hann’’a senti’ avvilite quanno vanno pe’ caccia’ na catta, nu documento: ’a famiglia, ’a casa... ’a famiglia ca s’aunisce pe’ nu cunziglio, pe’ nu sfogo... S'hann” ’a chiamma’ comm’’a mme! » Si, ed intende dire col cognome di Soriano, ora che finalmente Dome. nico l’ha sposata. Per tutta risposta il marito sta per giurare che quei figli di... non potranno mai mettere piede nella sua casa. Filumena glielo impedisce. Più tardi gli rivelerà il perché. Ora gli dice solo che non potrebbe mantenere il giuramento. Domenico non si dà per vinto,

39.

Filumena

Marturano

141

esce avvertendola che ricorrerà alla legge: « Tengo ’e testimone... E si ’a legge m’avess’ ’a da’ tuorto, t’accido Filume?! Te levo d’ ’o munno! » !°. L’indomani, nel secondo atto, Filumena crede di aver vinto la sua battaglia, malgrado le minacce di Domenico. Manda a chiamare i tre figli che non si conoscono fra di loro, né sanno che lei è la loro madre. Ha provveduto a loro tramite un notaio. I tre, mentre aspettano, stanno per azzuftarsi per futili motivi ed è lei a separarli. Quando sta per rivelare loro la verità, vede Domenico con l’avvocato. Li allontana perché « ha compreso che qualcosa di serio è avvenuto, per cui l'andamento delle cose è completamente mutato. Il tono calmo della voce di Domenico le ha dato conferma di ciò » !!. Infatti l’avvocato, citando vari articoli del codice, dice che il matrimonio potrà essere annullato. Filumena accetta la procedura ammettendo: « Vulevo fa na truffa! Me vulevo arrubba’ nu cugnome! Ma cunuscevo sulo ’a legge mia » !. Riconosce che la « sua legge » prettamente umana non ha valore nella società. Chiama i figli, e non solo rivela chi è, ma spiega anche come è finita nel lupanare. Fra nata e vissuta in un « basso », quelle case buie a pianoterra che a Napoli si,aprono sui vicoli:

Chilli vascie [...] Nire, affumecate... addò ’a stagione nun se rispira po calore pecché ‘a gente è assaie, e ’e vierno ‘o friddo fa sbattere ’e diente. [...] Dint'’a nu vascio ‘e chille, ‘o vico San Liborio, ce stev’io c’ ‘a famiglia mia. Quant'èramo? Na folla! Io ‘a famiglia mia nun saccio che fine ha fatto. Nun ’o voglio sape’. [...] Sempe ch ‘e faccie avutate, sempe in urto ll’uno cu ll’ato... [...] Una

parola bbona, me ricordo ca m° ‘a dicette pàtemo... e quanno m'arricordo trenmo mo’ pe’ tanno. Tenevo trìdece anne. Me dicette: «Te staie facenno grossa, e ccà nun ce sta che magna’, 0 ssa’? [....]».

A sera ce mettévemo attuorno ‘a tavula... Unu piatto gruosso e nun saccio

quanta

furchette.

Forse

nun

era

overo,

ma

ogni vota

ca met-

tevo ‘a furchetta dint’ ‘0 piatto, me sentevo ‘e guarda’. Pareva comme si m'avesse arrubbato, chellu magna’!... Tenevo diciassett’anne. [...] Na sera ncuntraie na cumpagna d’’a mia, che manco ‘a cunuscette talmente steva vestuta bona... Forse, allora, me pareva cchiù bello

tutte cose... Me dicette: « Così... così... così... ». Nun durmette tutt ’a notte...

E ‘o calore...

‘o calore... E cunuscette

trasale) Là, te ricuorde?...

Chella « casa » me

a tte! (Domenico

pareva

na reggia...

Turnaie na sera ‘o vico San Liborio, ‘o core me sbatteva. « Forse nun

me guardaranno

nfaccia, me

mettarranno

Pensavo:

for’ ‘a porta! »

Nessuno mi disse niente; chi me deva ‘a seggia, chi m’accarezzava... E me guardavano comm’ ’a una superiore a loro, che dà suggezione...

142

Cantata dei giorni dispari

Conclude la sua drammatica confessione quasi gridando: Nun ll’aggio accise ‘e figlie! ‘A famiglia... ‘a famiglia! Vinticinc'anne ce aggio penzato! E v’aggio crisciuto, v’aggio fatto uommene, aggio arrubbato a isso (mostra Domenico) pe’ ve crescere! *

I figli si commuovono, e Michele, l’idraulico, la invita a vivere con lui. Ma prima di seguirlo, Filumena deve ancora dire qualcosa a Domenico che non ha voluto rilevare davanti ai tre giovani. Gli svela che uno dei tre figli è suo, senza dirgli però quale: « Te putevo dicere ca tutt’e tre t’erano figlie, ce avarisse creduto... T° ’o facevo credere! Ma nun è overo. T’’o pputevo dicere primma? ma tu Il’avarisse disprezzate all’ati duie... E io ’e vvulevo tutte eguale, senza particularità » !*. Una sera Domenico era andato a trovarla nella casa chiusa e le aveva detto: « Filume’,, facimm’ avvede ca ce vulimmo bene » Bee lei gli aveva voluto bene veramente. Ma lui la pagò lo stesso con la solita carta da cento. Filumena vi segnò la data, e la conservò in un medaglione. Non gli disse niente della sua maternità perché temeva: « Me l’avarrisse fatto accidere... Comm’’a penzave tu, al-

lora...

E pure mo”! Tu non te si’ cagnato!

No una, ma ciento vote,

me l’avarrisse fatto accidere! Me mettette appaura ’e t° ’o ddicere! Sulo per me, è vivo ’o figlio tuio! » Inutilmente Domenico gli chiede di dire quale dei tre è suo, lei si rifiuta di rivelarlo: « Hann'’a essere eguale tutt’ ’e tre! ». Questa volta è lei a minacciare di ucciderlo se farà parola ai figli. Finalmente tira fuori dal medaglione il biglietto da cento, ne strappa la data, lo poggia sul tavolo « e, con tono quasi allegro, ma profondamente sprezzante, gli dice: ‘’E figlie nun se pàvano!? » !. Dopo la drammatica partenza di Filumena passano dieci mesi. Al terzo atto ritroviamo Domenico profondamente cambiato. Non ha più quell’atteggiamento autoritario che lo caratterizzava prima. « E divenuto mite, quasi umile. I capelli sono un po’ più bianchi » !8. Ha deciso di risposare Filumena — il primo matrimonio nel frattempo era stato annullato. Due sentimenti si sono risvegliati contemporaneamente in lui: l’amore per la donna che ha sempre ignorato, pur avendola tenuta per il proprio comodo al suo fianco, e l’amore per il figlio. Vorrebbe scoprire quale dei tre è veramente il suo, il camiciaio, l'idraulico o l’impiegato-scrittore. Non gli riesce, perché ognuno dei tre ha delle caratteristiche che potrebbero essere ereditate da lui. Fa un ultimo tentativo con Filumena, ma lei rifiuta di dargli soddisfazione:

39.

Filumena

Marturano

143

Tu capisci che l'interesse li metterebbe l’uno contro l’altro... Sono tre uomini nun so’ tre guagliune. Sarriano capace ’e s’accidere fra di loro... Nun penza’ a te, nun penza’ a mme... pienz’ a loro. Dummi', ‘o bello d’’e figlie l’avimmo perduto!... E figlie so chille che se teneno mbraccia, quanno so’ piccerille, ca te dànno preoccupazione. [...] Ma quanno so’ gruosse, quanno song'uommene, 0 so’

figlie tutte quante, o so’ nemice...” Filumena gli offre di lasciare le cose come stanno, e Domenico sta per accettare, quando i figli lo chiamano « papà ». Avevo chiesto loro di farlo, ma finora non ci erano riusciti. Questa parola lo commuove. Il matrimonio viene celebrato. Dopo la funzione e un brindisi in « famiglia », gli sposi restano soli. Filumena, che non aveva mai saputo piangere perché il bene non l’aveva mai conosciuto «e quanno se cunosce sulo ’o mmale nun se chiagne » ‘°, finalmente riesce a sciogliere il groppo che le stringe la gola e il « volto le si riga di lagrime come acqua pura sulla ghiaia pulita e levigata ». Felice può dire: « Quant'è bello a chiagnere... ». Dopo tutte le sofferenze inflittele dalla vita, dalla società e dall'uomo che amava, ha conosciuto infine il bene, e la « sua legge », quella della vera giustizia umana, ha trionfato. La tela

cala sulle parole di Domenico che ne danno conferma: « E figlie so’ ffiglie... E so’ tutte eguale... Hai ragione, Filume’, ) hai ragione tu! » 2. g 8 g 8 Il dramma di Filumena ha commosso le platee di tutto il mondo e continua a farlo. È l’opera di Eduardo che da più vicino tocca i cuori di tutti gli uomini per la sua umanità, per la drammaticità dei suoi temi. È la commedia che, a detta di Silvio d'Amico nel 1947, ha elevato il suo autore al rango dei commediografi europei ??. Giulio Trevisani giustamente ravvisa in Filumena Marturano: « V’apoteosi del sentimento della maternità, che vince la miseria, redime dall’abiezione, supera gli egoismi umani; afferma il diritto all’uguaglianza tra fratelli; stimola il sentimento della paternità come purificatore di tutte le brutture sociali ». Sempre lo stesso critico vede nella protagonista, « quella donna che si leva, per forza della maternità, dalla bassura in cui la società borghese l’aveva ricacciata, un personaggio potente e di alta statura morale », mentre, « nella mediocre ed egoistica personalità di Domenico l’istinto della paternità ha forza redentrice, che, sola, può portare quel piccolo uomo al livello morale della sua antagonista » 2. Questa

commedia

è anche una

denuncia

senza

veli contro

la società

che non combatte la miseria degradante che costringe gli uomini a vivere come

bestie —

in Italia, come

in tutto il mondo

—,

e di conseguenza

spinge alla delinquenza e alla prostituzione. AI tempo della sua rappresentazione, e per molti anni, in Filumzena Marturano c'era anche un richiamo critico allo Stato italiano per la triste situazione dei figli illegittimi. Infatti, ricorda l’autore, « dopo Filumzena

144

Cantata dei giorni dispari

Marturano c’è stata una interpellanza alla Camera e hanno fatto qualcosa per i figli di ignoti » 4, ma solo recentemente le leggi sono state perfezionate con il nuovo diritto di famiglia. Nelle intenzioni di Eduardo Filumena Marturano doveva essere una continuazione di Napoli milionaria!, una commedia simbolica che portava in sé un messaggio ai governanti: « Filumena rappresenta la sete eterna di giustizia degli uomini, Domenico è lo Stato costituito e i figli sono i suoi prodotti, cioè le varie classi sociali. Con Filumena il popolo prende coscienza di sé, dei suoi diritti, dell’inganno di cui è vittima, e si ribella, tenta di scuotere con la sua carica di amore e di odio lo Stato incallito nella sua indifferenza e nella difesa dei privilegiati. Il Domenico che poi accetta la paternità collettiva, è lo Stato che solo con l’uguaglianza di tutte le forze sociali (simboleggiate dai tre figli di Filumena che sono rispettivamente: operaio, commerciante e scrittore) può trovare il suo equilibrio, la piattaforma di lancio del proprio progresso ». « L’atto di solidarietà e di comprensione di Domenico nei confronti di Filumena e dei suoi figli che è amore fra le categorie sociali — scrive Mario B. Mignone — è la soluzione che Eduardo indica e auspica per la società italiana dopo tanti anni di oppressione e disuguaglianza e ingiustizie sociali » 5. Oggi si è portati a vedere in Filumena Marturano i temi universali più di quelli contingenti che si riferiscono a un’epoca precisa, anche se la loro validità è innegabile. A tutti quelli già presi in considerazione, si potrebbe aggiungere quello della scelta consapevole della maternità con tutte le responsabilità e i sacrifici che essa comporta. La commedia, essendo un capolavoro, continua a vivere e dà adito a nuove interpretazioni. Infine, questa opera ha fatto capire a Eduardo di avere raggiunto la maturità: « Ho tentato Filumena Marturano non senza una certa trepidazione. Era un mio collaudo. Mi spiego. Dopo Napoli milionaria! ho cominciato a credere in me, anche se il dubbio sottile che quel successo fosse dovuto più a fortuna che a maturazione mi rese guardingo. Dopo Questi fantasmi! la mia speranza si avviò a diventare certezza e i successi [...] mi fecero convincere che qualcosa di veramente concreto era nato; ora dopo Filumena Marturano ritengo che quell’imponderabile che matura in SL aatista, di regola dopo la quarantina, è veramente divenuto intima realtà » 29.

40.

Le bugie con le gambe lunghe Tre atti, 1947. Commedia rappresentata per la prima volta il 14 gennaio 1948 dalla compagnia « Il teatro di Eduardo con Titina De Filippo », a Roma, al Teatro Eliseo. La trama, come per le precedenti commedie, nasce da un fatto veramente accaduto. Il personaggio di Benedetto, il marito tradito, è realmente esistito:

40.

Le bugie con le gambe lunghe

145

la guerra gli aveva dato in un primo tempo la ricchezza, poi gli aveva tolto la moglie, innamoratasi di un ufficiale americano. Quando è venuto a sapere che la sua storia era stata messa in scena (la fortuna gli aveva già voltato le spalle),

non ha intentato causa, come gli amici gli avevano consigliato, non ne ha fatto una speculazione, ha chiesto a Eduardo solo una poltrona al teatro!.

Siamo nel modesto appartamento dei fratelli Incoronato, nell'immediato dopoguerra. Libero Incoronato «è un uomo sui quarantasette anni, modesto e dignitoso » 2, che si occupa di filatelia e offre la sua consulenza in un negozio, consigliando i clienti sugli acquisti da fare. Abita con la sorella quarantenne «di carattere docile, umile, mite » *, che ogni tanto fa lavori di sartoria. Vivono con dignità la loro miseria, vanno d’accordo con tutti gli inquilini, « tanto io quanto mio fratello, di quello che succede nel palazzo non ne vogliamo sapere niente » ‘, e invece questi scelgono la loro casa per mettere in piazza i loro problemi. Graziella, una loro vicina sui venticinque anni, dal nome indicativo perché ha distribuito le sue « grazie » prima di perdere il bambino che aspettava, ama Libero e ne è riamata. Lei vorrebbe sposarlo, ma lui esita per diverse ragioni: tutti conoscono il passato della donna e come si è procurata l’agio in cui vive, e non vorrebbe che la gente dicesse: « Libero Incoronato, per fare onore al suo cognome, s’è aggiustato quatt’ova dint’ ’a nu piatto! » 5. E poi c'è in vista il matrimonio di sua sorella con un coinquilino, un uomo che si preoccupa sempre di ciò che gli altri pensano. La loro unione potrebbe mandarlo a monte. Graziella vede chiaramente il motivo per cui Costanza e il vicino si sposano. Abituata a non avere peli sulla lingua ribatte a Libero: Vedi, tu mi hai detto sinceramente:

il nome di Graziella all’oriz-

zonte manderebbe a monte il matrimonio di mia sorella. Ecco che io ti domando se, con la stessa sincerità, tua sorella abbia detto al signor Perretti: « Io ti sposo per avere la sicurezza di un piatto di minestra, per liberare mio fratello dal peso della mia presenza » e se, a sua volta, il signor Perretti sia stato altrettanto sincero da dire

a tua sorella: « Ti sposo per avere in casa la più fedele delle serve » °.

Interrompe la discussione l’arrivo del maturo fidanzato di Costanza. Dimostra subito la sua contrarietà per la presenza di Graziella. Ma quest’ultima non si era sbagliata nei suoi confronti. Ancora non si è sposato con la sorella di Libero e già le porta le camicie da rammendare, confezionate però in un elegante pacchettino perché la gente non possa intuire cosa ci sia dentro. Quando finalmente tutti i visitatori sono andati via, i due fratelli si mettono a tavola per mangiare la loto misera cena, mezz’etto di

146

Cantata dei giorni dispari

formaggio in due, una frittata, il tutto accompagnato da un po’ di vino che Libero ha avuto l’accortezza di allungare con molta acqua. Vengono petò subito interrotti da un’altra visita, Olga Cigolella, seguita subito dopo dal marito Benedetto con il quale ha appena litigato. L'uomo dice di essere affamato perché è appena rientrato da Grosseto, e senza fare complimenti attacca il frugale pasto dei due fratelli. Costanza fa solo in tempo a salvare la frittata. Benedetto senza alcun ritegno — forse proprio per la riservatezza degli Incoronato — racconta la ragione del suo litigio con la moglie. Arricchitosi durante la guerra a Grosseto dove ha rilevato

alcune sale cinematografiche, chiede, da più di un anno, alla moglie di raggiungerlo in quella città. Olga si è sempre rifiutata con la scusa che era abituata a vivere a Napoli e non se la sentiva di andare ad abitare in una città di provincia. Ora proprio per colpa della moglie, non potendo più sopportare la solitudine, ha messo incinta la cameriera. Pensa di poter sistemare la donna con dei soldi, e continua a insistere che Olga vada a vivere con lui. La moglie ritiene di avere una ragione di più per non seguirlo. Dice di « essere una ragazza inesperta » e di voler discutere della questione con qualcuno che abbia più esperienza di lei, e allude alla madre. Il marito sempre più arrabbiato e stanco se ne va a dormire a casa, mentre Olga si trattiene dagli Incoronato e rivela di non essere tanto inesperta come pretendeva di essere: ha un amante, un capitano americano che ha promesso di sposarla se fosse riuscita a separarsi dal marito. Questa è la ragione per la quale non vuole andare a Grosseto. Ora, però, con la storia della cameriera incinta vuole assicurarsi i soldi del marito e prega Libero di convincere Benedetto a farle donazione della casa e a mettere tre milioni in banca a nome suo. La scusa sarebbe di salvaguardare la proprietà e il denaro, da eventuali pretese della cameriera, ma le vere ragioni, sfacciatamente rivelate, sono altre:

Così, se viene a sapere del fatto del capitano, mettiamo, in modo

che si ofende e se ne va, io perdo mio marito, ma tengo il capitano, la casa di proprietà e tre milioni. Se sparisce pure il capitano, io tengo sempre tre milioni e la casa di proprietà".

Qualche

settimana

più tardi, nel secondo

atto, Olga mezza

di-

scinta sale da Libero, approfittando del fatto che è rimasto solo in casa. Ha di nuovo un piano prestabilito. I soldi e la casa erano già suoi, perché il marito li aveva fatti comparire a suo nome pet frodare il fisco. È incinta del capitano che, saputolo, se n’è tornato

40.

Le bugie con le gambe lunghe

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in America per sottrarsi alle sue responsabilità. Non può attribuire la paternità al marito, perché l’ultima volta che era stato a Napoli non c’era stato nulla tra loro. Pensa dunque di coinvolgere Libero. Gli dice di amarlo segretamente e che la storia del capitano era un'invenzione per ingelosirlo. Il poveruomo sta per cadere nella trappola, quando arriva la madre di Olga con una terribile rivelazione: Benedetto, la mattina, nascosto dietro la porta, aveva sentito Olga mentre confidava di essere rimasta incinta dell’ufficiale americano. Olga si fa prendere da una crisi di nervi perché la madre le ha rotto le uova nel paniere e morde un dito al povero Libero. Il suo morso è talmente velenoso che sopravverranno infezioni e alla vittima dovranno perfino amputare una falange. Nel frattempo arriva Benedetto, furibondo verso la moglie — Olga e la madre si nascondono nella camera accanto. È accompagnato da una delle sue maschere di Grosseto, disposto a sposare la cameriera incinta pur di diventare direttore del cinema e incassare una forte somma di denaro. Pensa solo alla vendetta contro Olga. Ma intanto la moglie ha trovato un’altrettanto « onorevole » soluzione per l’attribuzione della propria maternità. Spalleggiata dalla madre, afferma che il discorso che Benedetto ha sentito è un’invenzione servita pet ingelosirlo, e che il figlio è suo, concepito dopo l’ultimo litigio che avevano avuto da Libero: se lui non se ne ricorda, è dovuto al fatto che quella sera si era sbronzato dal vicino. Siccome questa storia in fin dei conti fa comodo a Benedetto, egli l’accetta. A Libero non resta che constatare che le menzogne si aggrovigliano, s’intrecciano e diventano altrettante verità, perché « per quelli che sanno e non hanno interesse di smentire, la bugia cammina. Per quelli che non sanno » È, il tempo fa il resto. Queste riflessioni sono confermate nel terzo atto, durante la festa per il battesimo del figlio di Olga, in casa Cigolella. Nessuno più ricorda niente. Benedetto (il cui nome è significativo: è benedetto da paternità non sue, perché nemmeno il figlio della cameriera era suo: la donna gliel’aveva attribuito perché il suo fidanzato era motto), non solo nega tutto l’accaduto, ma dà del pazzo all’allibito Libero che insiste nel ricordare i fatti di cui era stato testimone. E le menzogne non finiscono qui. La maschera del cinema, ora direttore, non solo non riconosce Libero, ma nega di essere mai stato maschera; sua moglie, Angelina, agisce alla stessa maniera: dice di non essere mai stata cameriera, ma solo e sempre casalinga. Il « direttore », poi, è orgoglioso della « sua paternità » come lo è Benedetto. La reazione di Libero a tutte queste menzogne diventate altrettante verità si legge nella didascalia:

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Cantata dei giorni dispari

Libero, rimasto solo, siede a destra con evidente nausea per tutto quello che lo circonda. Forse pensa a tutta la sua vita trascorsa in

miseria, a tutte le buone occasioni che gli si presentarono negli anni

della sua gioventù e che, onestamente, mise da parte, perché ognuna di esse presentava aspetti morali poco puliti. Rimpiange, forse, quei tempi e si rammarica

per non

aver saputo,

allora, transigendo

sui

suoi sentimenti retti, cogliere «il momento » [...] e china il capo come per piegarsi ad un destino scelto con le sue stesse mani?.

Sente solo un momento di sollievo quando Olga, redenta dalla maternità, « ricorda » la verità e parla onestamente con lui: Ero come avvelenata. Non riesco a riconoscermi. Vi giuro che le cose più assurde mi sembravano facili, realizzabili. Quanti progetti fantastici! I valori più belli li consideravo trascurabili, inutili.

Libero attribuisce tutto alla guerra, ma la giovane ribatte: Non lo so, non so niente. Saccio sulo ca tengo nu figlio... E sapeste il bisogno che ho di parlarne con voi. Ditemi quello che volete, ma io non vedo l'aspetto ridicolo della situazione. Quando mio marito prende tra le braccia il bambino e ci giuoca, sento una grande tenerezza e gli voglio bene... (Si ferma, timida, come chi sta per dire una enormità) Gli voglio bene, più che se fosse realmente il padre di mio figlio.

Olga, vedendo la mano ancora fasciata di Libero per il suo morso e saputo che gli fa ancora male, « con una mosset tina vezzosa » la bacia ripetutamente come per la « bua » dei bimbi. Effettivamente il dolore passa e alla donna che gli chiede se le serba rancore Libero risponde: E vvuie site mamma!

Si può serbare

rancore

a na

mamma? Vedete, avete dato i bacetti che hanno fatto chiudere la ferita e calmare il dolore! !.

Ma poi vedendo la falsità di tutti i presen ti che pensano una cosa, ma poi ne dicono un’altra, apostrofa il neonato con parole amare prospettandogli il futuro nella societ à:

Se vuoi trovarti bene, saie c'he' ‘a fa? Devi legare l’asino dove vuole il padrone. Il padrone sai chi è? È luomo nero. È il mammone, quello più forte di te, che ti può far paura se non leghi l'asino dove vuole lui. L'asino invece è il tuo orgog lio, il tuo onore, e quasi

40.

Le bugie con le gambe lunghe

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sempre il tuo diritto. Non dire mai una verità, lasciala in fondo al pozzo, e quando dici le bugie, le devi scegliere fra quelle che sono di gradimento del tuo padrone, perché se non piacciono a lui, sai che fa? Llle spezza ‘e gamme e dice ca so’ ccorte e tu, con il tuo povero asino corri sperduto e svergognato per il mondo. Se, al contrario, sono interessanti per lui, le aiuta, le fa correre e non le fa fermare più. Pensa che ce ne sono certe che camminano da quando è nato

il mondo". Si prende quindi una piccola rivincita sull’ipocrisia della società. Usando le sue stesse armi, la menzogna, dice di aver accumulato una discreta fortuna e di aver deciso di sposare una giovane ereditiera di una grande famiglia aristocratica del Nord, che non è altro che l’ex prostituta Graziella. La presenta agli invitati, imponendo loro di accettare questa « verità » e costringendoli ad applaudire fino a trasformare l’applauso in « un’ovazione mista a com-

plimenti striscianti all’indirizzo dei due fidanzati » !. Poi, però, quando gli ospiti si sono avviati al rinfresco, Libero

mostra a Benedetto il simbolo della sua vera scelta nella vita: la sua camicia rattoppata sulla schiena con tela di risulta, con due belle scritte stampate in inchiostro indelebile: « Madapolam » ed « Excelsior ». La sua camicia rappresenta « una verità con le gambe corte,

una verità sacrosanta, con cette gambette piccole piccole, costretta a camminare lentamente, a passettini impercettibili. Per arrivare, impiega Dio sa quanto, ma... arriva! » 5. Libero sceglie dunque la verità, anche se la sua scelta comporta la povertà, la preferisce alla ricchezza che invece è legata alla menzogna. Se ne va con Graziella. Lui, morto di fame, con l’ex prostituta, dopo aver dato una lezione ai membri onorati e rispettati della società, se ne va per la sua strada, emarginato ma libero, di nome e di fatto, dalle menzogne e dalle falsità. Libero — ed evidentemente anche Eduardo — è un personaggio che si è, per un momento, illuso che la guerra abbia cambiato la mentalità della società, che il perbenismo e i privilegi siano tramontati. Infatti afferma: Mia sorella è rimasta con la mentalità di trent'anni fa: « Pare brutto! ». Non vuole capire che c’è stata una guerra; una guerra che ha distrutte tutte le illusioni, tutte le apparenze. Qua viviamo di realtà ora per ora, minuto per minuto. Voi, adesso, per la strada, incontrate ‘e meglie signure ca se vanno a ffa' ’a spesa pe’ cunto loro. [...] L’altro giorno, l'ho vista io, una signora anziana: s'era comprata na scopa e S'’a purtava sott’’o braccio. In altra epoca ne avrebbe avuti fischi e pernacchi dai ragazzi. Oggi, invece, niente: i ragazzi per conto loro e ‘a signora, cu’a scopa,

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Cantata dei giorni dispari

indisturbata. [...] Oggi tutto èx chiaro. Le illusioni nun s'’e fa nisciuno cchiù. Il signor « pare brutto » è morto sott'’a nu bumbardamento. La signora « dignità » è stata fucilata**. Invece solo in parte Eduardo e Libero hanno avuto ragione. La morale delle apparenze, residuo dell’etica borghese, il falso moralismo, sì, erano finiti, ma venivano sostituiti da una nuova mentalità altrettanto meschina, secondo la quale contano solo l’interesse e il posto da conquistare o da mantenere nella società. Qui il sentimento della paternità non è una forza redentrice come nella precedente commedia, ma un mezzo come un altro per curare i propri interessi, non è accettazione spontanea, ma ripiego per salvare la faccia di fronte alla gente. Solo la maternità si salva ancora come forza purificatrice. Non vi sono più note positive nelle Bugie con le gambe lunghe: l'amara conclusione di Eduardo, è che, in un mondo dove le menzogne diventano sacrosante verità per tacito consenso generale, non vi può es-

sere speranza.

Questa commedia, nonostante la validità del suo messaggio, non è tra le migliori per meccanismo narrativo. Eduardo stesso Îa considera un’opera minore, e non l’ha nemmeno registrata per la television e, come ha fatto per la maggior pafte dei lavori che intende lasciare ai posteri.

41. La grande magia Tre atti, 1948. Commedia rappresentata per la prima volta il

12 dicembre 1949 dalla compagnia « Il teatro di Eduardo con Titina De Filippo », a Napoli, al Teatro Mercadante. La commedia doveva andare in scena nella stagione precedente, ma un’improvvisa malattia di Titina fece rimandare di un anno la sua rappresentazione.

Il primo atto si svolge nel giardino prospiciente il mare del grande Albergo Metropole. I clienti seduti a godersi il fresco pettegolano sulla coppia Di Spelta, « l’attrazione princip ale » di quella stagione balneare. Calogero, il marito, è gelosissimo, non lascia fare due passi alla moglie da sola e la chiude in camera quando esce. Marta è una bellissima giovane donna, ma appare nervosa. A vederli insieme, rassomigliano, lei a « una condannata a morte, e lui a un funerale ’e terza classe ». Questa è l’opini one di un’ospite dell’albergo. La didascalia però rivela che tutti e due sono « tormentati da un intimo ragionamento che li tiene immer si in un profondo sconforto » !.

41.

La grande magia

5g

Calogero non ha tutti i torti. Infatti Marta ha un amante che non riesce ad avvicinarla proprio per i sistemi adottati dal marito. L’uomo ha fatto venire all’albergo Otto Marvuglia, « professore di scienze occulte: celebre illusionista », al quale paga una forte somma perché durante la sua esibizione egli possa avere un colloquio di almeno un quarto d’ora con la sua amata. Lo spettacolo sta per incominciare nel giardino stesso. Marvuglia è un uomo nell’insieme « rassegnato e stanco, ma che eleva a dignità grottesca ogni sua manifestazione istrionica; un lestofante, un ciarlatano simpatico, guitto e intelligente » ?. Si vanta di possedere il terzo occhio, acquisito dopo i cinquant’anni, «l’occhio del pensiero », ma nello stesso tempo afferma di aver perso per sempre « gli altri due, quelli visibili, quelli che durante gli anni della mia giovinezza vedevano tutto grande, enorme, sorprendente » *. Si serve del suo terzo occhio per dare delle piccole illusioni, ma avverte gli spettatori:

« io non posso suggestionarvi, se non vi lasciate suggestionare. Io non posso trasmettervi il mio pensiero se non siete pronti a riceverlo » ‘.

Per il suo esperimento del sarcofago egiziano chiede la collaborazione di una signora. Secondo l’accordo preesistente, si presenta Marta e Otto la rinchiude dentro. Sua moglie Zaira, che gli fa da assistente, fa uscire la giovane donna dalla parte posteriore. Marta raggiunge l’amante che l’aspetta su un motoscafo. Questi però non mantiene la promessa fatta all’illusionista e si porta via Marta a Venezia. Nel frattempo Otto fa vedere al pubblico il sarcofago vuoto. Richiamato però dal rombo del motore, guarda un po’ smarrito l’allontanarsi del motoscafo e capisce quello che è successo. Cerca di distrarre gli spettatori con altri esperimenti e di calmare Calogero che reclama la riapparizione della moglie. Alle sue sempre più pressanti insistenze, cerca di fargli capire che non è stato il sarcofago a far sparire la moglie: Che c'entra il sarcofago! Che può fare un sarcofago? E voi siete tanto ingenuo da credere che un affare di legno dipinto abbia la

potenza di far sparire le persone,

ed in questo caso vostra moglie?

Insomma, non pensate nemmeno per un attimo che vostra moglie l'avete fatta sparire voi? [...] Senza volerlo, d'accordo: voi l’avete fatto in buona fede. E siete pienamente convinto che vostra moglie sia sparita un attimo fa? [...] Ma quando mai! [...] Vostra moglie vicino a voi non c'era. Probabilmente non è mai venuta in albergo con voi. Vostra moglie chissà quando è sparita, e tutto quello che avviene davanti ai vostri

occhi è solamente illusione.

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Cantata dei giorni dispari

E conclude: « Voi avete fatto spartire vostra moglie e voi dovete farla riapparire ». Dopo avere fatto alcune domande a Calogero sulla sua gelosia, che lui nega, sulla fedeltà della moglie, che secondo lui è al disopra di ogni sospetto, gli porge una scatola giapponese affermando: « Vostra moglie è in questa scatola ». Ma lo avverte che deve aprirla solo a una condizione: « Se voi aprite la scatola con fede, rivedrete vostra moglie, al contrario, se l’aprite senza fede, non la vedrete mai più » °. Per fede Otto intende fiducia nella fedeltà della moglie. Calogero è dibattuto. Non sa se aprire o no la scatola. « Finalmente, dopo una lunga pausa, egli decide: lentamente si mette la scatola sotto il braccio sinistro e, mogio mogio, come un cane bastonato — ci dice la didascalia — riprende posto al suo tavolo » 7, e Otto continua i suoi esperimenti. Nel secondo atto, siamo nella misera casa di Otto Marvuglia che sta provando un altro dei suoi trucchi, quando arriva Calogero seguito da un brigadiere di polizia e due agenti. Il marito abbandonato ha denunciato l’illusionista di avere derubato e soppresso la moglie. Otto dice al sottufficiale di aver già spiegato al signor Di Spelta

che si è trattato di un semplice giuoco di prestidigitazione. E che, per giunta, fu lui a iniziarlo chissà quando. Il fatto poi che io l’abbia messo di fronte all’illusione, fermando per un attimo in forma concreta le immagini mnemoniche della sua coscienza atavica, son comporta responsabilità da parte mia*. Ma poi preso da parte il brigadiere gli dice più semplicemente come sono andate le cose: Marta è fuggita con l’amante. Produce, come prova, la lettera che ha appena ricevuto, in cui la giovane chiede scusa per quel che era successo quattro giorni prima. Otto invita il brigadiere, che acconsente, ad entrare nel giuoco e a lasciare « quel disgraziato di marito nella sua illusione » ?. Il povero Calogero capisce la verità: «un singhiozzo inaspettato lo costringe ad abbandonarsi ad un pianto infantile » !°. L’illusionista ne ha compassione e lo convince che il tempo oggettivo non esiste,

ma solo quello soggettivo: « Il tempo sei tu » !. I quattro giorni dalla sparizione della moglie non sono passati e lui si trova ancora nell’albergo sul mare. Calogero sta per crederci, quando arriva un creditore di Otto per reclamare centomila lire che gli ha prestato. Lo minaccia pure con la pistola. L’illusionista è pronto a spiegare anche questo episodio come facente parte di un altro giuoco iniziato tempo prima, e dice pure perché non può essere soppresso con un colpo di pistola:

41.

La grande magia

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Io muoio e finisce il mio mondo. Nessuno ba il diritto di distruggere un mondo. Il mio mondo è collegato al tuo. Se il mio finisce, chi sa per quale strada precipita il tuo. È una catena. Non possiamo sottrarci, dobbiamo prestarci. Lui deve sparire. Per farlo sparire, non ci vuole niente.

Dopo di che « comincia a parlare con la classica voce dell’imbonitore nel.momento che presenta al pubblico un esperimento d’illusione »: « Ora per questo giuoco, io ho bisogno di centomila lire. Chi è disposto a darmi centomila lire per questo esperimento? » !. E, come se Calogero gliele avesse offerte, lo ringrazia e lo costringe a fare un assegno per quell’ammontare. Intanto nella stanza accanto avviene un fatto doloroso. La figlia di un amico e compare di Otto, muore improvvisamente. Era nata con un difetto al cuore, la tragedia era nell’aria, ma il padre non ci si rassegna. Calogero ne viene a conoscenza e chiede all’illusionista se questa morte fa parte di un altro giuoco. Otto, questa volta « assumendo un’aria sincera quanto sconfortata », ammette di sì, ma il giuoco non è suo, ma di un prestigiatore più importante di lui. È la grande magia, mentre lui esercita la piccola magia, che è un riflesso di quella immensa e misteriosa della vita umana, il cui trucco non si può

conoscere. Piccola magia è la morte dei canarini negli esperimenti di Otto

— gli uccellini, a differenza degli uomini, non sanno niente, « illusioni non se ne possono fare » !! —, grande magia è la morte, l’ultimo giuoco per l’uomo, che, indipendente dalla sua volontà, pone

termine a tutto quello che con le sue illusioni ha costruito. Otto, « osservando il volto triste di Calogero, muta di umore in

un attimo. Ridiventa allegro e superficiale » !*. Lo riporta nel mondo dell’illusione facendogli credere che davanti a lui non c'è il muro della stanza in cui riposa la morticina, ma il lido del grande albergo Metropole. Dopo quattro anni, nel terzo atto, Calogero, nella sua ricca casa continua a vivere nell’illusione in cui Otto gli ha fatto credere. I suoi parenti sono pronti a farlo interdire, giudicandolo pazzo. La vera ragione è che vorrebbero spogliarlo dei suoi beni. Calogero è molto mutato, è invecchiato, pallido, i capelli e i baffi sono diventati grigi. Stringe gelosamente la scatola giapponese dalla quale è otmai inseparabile. Si guarda negli specchietti incastonati su di essa e, rendendosi conto che la sua illusione non è perfetta, rimprovera Otto:

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Cantata dei giorni dispari

Tu ti prendi giuoco di me, ed io ti odio. Vedi, ti sorrido e ti odio. E resisto. Ho deciso di resistere, caro. Tu mi hai reso in parte compartecipe del tuo esperimento:

ma

non

vuoi svelarmene

il mistero.

E resisto. Non mangio più, non bevo, non vado al gabinetto. [...] Il tempo non passa... e il giuoco dura un attimo. Perché allora mi viene appetito? Perché mi viene sete? [...] Smettila! Non vedi che soffro? Non vedi che non posso sopportare oltre questo giuoco diabolico. Aiutami. Abbi pietà di me. Fai terminare il giuoco. Guarda... sono invecchiato, sono diventato grigio. Ho l’impressione che siano passati degli anni, e tu mi dici che non è vero. Ti uccido sai... Avevo pensato di ucciderti, ma non posso. Se ti uccido, finisce il tuo mondo,

e con il tuo precipiterebbe il mio chissà come”. Otto lo invita ad aprire la scatola, gli dice di lasciarsi andare, di abbandonarsi al proprio istinto per arrivare alla fede. Calogero sta per farlo: finalmente riconosce i propri totti verso la moglie e, mostrando la scatola, dice: Mia moglie sta qui dentro. E l’ho rinchiusa io, in questa scatola! Ero diventato insopportabile, egoista, indifferente: ero diventato « marito »! [...] Si era stabilito un gelo, fra me e lei. Io non parlavo. Lei nemmeno. Non le facevo più un complimento, una tenerezza. Non riuscivamo più ad essere sinceri, semplici. Non eravamo

più amanti! *6,

Ritrova quella fede in Marta che l’illusionista gli aveva detto necessaria per riaverla. E la sua compagna effettivamente riappare pentita. Ma in lui prende il sopravvento il rancore, l’odio, la gelosia e il disprezzo, quando sente le parole di Marta: Tutto è successo per puntiglio, per incomprensione, per un senso

di libertà. Nella mia vita c’è stato un altro uomo”.

La giovane non ha voluto stare al giuoco di Otto Marvuglia. Calogero riprende il tono svagato che aveva avuto prima della fuga della moglie — dietro al quale nascondeva i suoi sentimenti —, per dire che non conosce quella donna. « Forse fa parte di un esperimento che non mi riguarda ». Rivolgendosi a Otto continua: « Diglielo che il suo mondo è legato a tanti altri, e che deve prestarsi, non può sottrarsi. Portala via questa immagine mnemonica di ‘ moglie che torna’. Due esperimenti in uno non li sopporterei ». Caccia via l’illusionista e la propria moglie. Sentendosi isolato dal mondo, « stringe più che mai la scatola al cuore e dice quasi 2

se stesso »:

41.

La grande magia

1159)

Chiusa! Chiusa! Non guardarci dentro. Tienila con te ben chiusa, e cammina.

Il terzo occhio ti accompagna...

ai piedi dell'arcobaleno,

e forse troverai il tesoro

se la porterai con te ben chiusa, sempre!

« Rimane estatico nel gesto e fermo nella sua illusione che ormai è la sua certezza **. La grande magia è una commedia enigmatica che ha lasciato perplessi critici e spettatori, abituati ad uno stile più chiaro, ad una impostazione più realistica ed umoristica di Eduardo. Avevano accettato il surrealismo di Questi

fantasmi!,

ma

di fronte

a quest'opera

rimasero

sconcertati.

Durante la prima rappresentazione a Roma, « tutti gridarono Pirandello » !°, secondo la testimonianza di Eric Bentley, un noto critico teatrale americano. E queste reazioni del pubblico sembrano giustificate. Troppe annotazioni ricordano commedie dello scrittore siciliano. Nei pettegolezzi dei clienti sulla coppia si poteva riconoscere Così è (se vi pare), nel voler fermare il tempo, Errico IV, e, secondo Leonida Repaci I gi ganti della montagna « nel voler sostituire alla realtà, la capacità creativa della fantasia », e voler creare

« un mondo

evaso

dai limiti del naturale

e del possibile per assumere le forme estreme dell’illusione, quando la fede regge; un mondo che dà come cose concrete le immagini della memoria, ‘ certe sensazioni che possono semplicemente definirsi, fenomeni della coscienza atavica’ » 0. Solo Eric Bentley si oppone a queste « interpretazioni pirandelliane » della commedia, scrivendo: « Malgrado tutto l’apparente ‘ pirandellismo’ della Grande magia, la commedia è realmente molto più semplice, è una vicenda basata sul semplice buon senso. [...] In Eduardo, se uno ha un'illusione, gli altri la vedono come illusione, e non come realtà. [...] Infine La grande magia non tratta della natura della realtà, ma della fiducia che uno ha della propria moglie » 21. Eduardo stesso, vedendo queste varie congetture che si facevano sulla sua opera, sentì il bisogno di spiegarla e di chiarire il pensiero su cui si basava: « Questo ho voluto dire, che la vita è un giuoco, e questo giuoco ha bisogno di essere sorretto dall’illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede. Ed ho voluto dire che ogni destino è legato al filo di altri destini in un giuoco eterno: un gran giuoco del quale non ci è dato di scorgere se non particolari irrilevanti » 22. Finalmente, La grande magia sembra essere la continuazione di Questi fantasmi! in senso negativo. Sia Pasquale Lojacono che Calogero Di Spelta scelgono nella vita l’illusione, ma quest’ultimo la sceglie per rifiutare apertamente il male del mondo condannandosi all’isolamento. Soluzione amara e piena di misantropia. A causa della dibattuta accoglienza della commedia, Eduardo non l’ha più ripresa e nelle opere successive non ha più tradotto le sue idee in termini tanto complessi, preferendo dar loro una veste più congeniale ai propri mezzi espressivi e al gusto del grande pubblico.

156

Cantata dei giorni dispari

ADI

Le voci di dentro Tre atti, 1948. Commedia

rappresentata per la prima volta 1°11 dicembre

1948 dalla compagnia « Il teatro di Eduardo con Titina De Filippo » 1, a Milano,

al Teatro Nuovo.

Questa commedia fu scritta in una sola settimana. Eduardo ricorda così questo suo «tour de force »: « Si doveva debuttare a Milano al Teatro Nuovo con La grande magia, in cui Titina aveva un ruolo dominante, ma si ammalò improvvisamente e fui costretto e pensare ad una nuova commedia in cui la sua presenza non fosse indispensabile. Avevo solo sette giorni di tempo, alloggiavo all’albergo Continentale, vicino alla Scala. Mi chiusi nel mio appartamen to al n. 1 davanti a una risma di cartelle bianche. La stanza divenne un vero campo di battaglia: fogli sparsi dappertutto, persino sotto il letto e nella vasca da bagno. Appena finita una scena, la segretaria della compagnia la portava a una vicina copisteria e poi me la riportava per gli ultimi ritocchi. Nel giro di due ore le pagine erano al Teatro Nuovo dove si provava senza neppure una lettura preliminare, per risparmiare tempo, e, naturalmente, senza il personaggio principale che ero io, costretto a tavolino per quella massacrante maratona. Avevo vietato di entrare persino alla donna delle pulizie per non essere distratto e per il timore che mettesse confusione nelle pagine già completate. Scritta la parola ‘ fine’, mi precipitai al teatro per le prove generali, alle quali finalmente partecipavo, e due giorni dopo andammo in scena con un immediato successo » 2, Anche nelle Voci di dentro c'è un legame con la realtà. Eduardo ammette che due dei personaggi della commedia si ispirano a persone veramente vissute. La zia Rosa ha come modello la celebre « saponificatrice di Correggio », che nell’immediato dopoguerra attirava nella sua casa le vittime, le ammazzava e poi le smembrava per farci il sapone 3. Il personaggio di zio Nicola invece l’autore l’ha conosciu to veramente: «Lo zio Nicola [...] esiste. Infatti in una vecchia raccolta di articoli c'è un pezzo di Ferdinando Russo che parla di un fuochista napoletano e descrive con precisione questa specialità, questa arte. Era un poeta dei fuochi artificiali. Quando s’innamorava, i suoi razzi e le sue girandole erano bellissimi, tutti di colori teneri. Se era triste invece, si sentiva anche dai colori, dagli scoppi. Aveva un suo modo di esprimersi attraverso questa forma. Siccome io avevo bisogno di un personaggio che rappresentasse la saggezza (e la saggezza non può parlare), allora mi ricordai di zio Nicola, vedevo questo personag gio e poi lo avevo impresso dentro di me perché anche lo conoscevo. E nella commedia lo faccio parlare solo quando muore » 4.

L’azione si svolge nelle primissime ore del mattino, nella cucina in casa Cimmatruta. La zia Rosa constata la buona riuscita delle candele e del sapone fatto da lei: « ’A guerra quacche cosa ’e buono l’ha fatto. Chi avrebbe mai pensato, prima della guerra, di fabbricare in casa candele e sapone... » °. Maria, la cameriera, ancora mezza addorm entata, rac-

conta a zia Rosa il brutto sogno che ha avuto nella notte. Aizzata

42.

Le voci di dentro

157

da un verme uscito dai broccoli che stava pulendo, aveva sparato a un pezzente che subito si era trasformato in fontana sgorgante sangue. Sempre per consiglio di quell’animale strisciante, aveva bevuto il sangue. Tutto questo era successo dopo che il suo cuore le si era strappato via dal petto. Il portiere che ha sentito l’incubo della giovane, lo giustifica con i tempi che stanno vivendo: Vedite che razza ’e suonno! Si uno vulesse sta a sèntere i sogni... Io per esempio, non mi sogno mai niente... Ragazzo sì. [...] Ma sogni belli. [...] Ma allora la vita era un’altra cosa. Era diciamo tutto più facile; e la gente era pura, genuina. Uno si sentiva la coscienza a posto perché anche se un amico ti dava un consiglio, tu l’accettavi con piacere. Non c’era, come fosse, la malafede. Mo’ si sono imbrogliate le lingue. Ecco che la notte ti fai la fetenzia dei sogni*.

Un sogno simile, se non peggiore, l’ha fatto Alberto Saporito, il vicino dei Cimmarruta. Gli è sembrato talmente vero che è andato al Commissariato per denunciare la famiglia Cimmarruta come colpevole di un delitto, seguito dall’occultamento del cadavere e degli effetti personali della vittima. Ha mandato anche il fratello Carlo con una scusa dai vicini perché li trattenga fino all’arrivo della polizia. Secondo il suo sogno, dovrebbero fuggire da un momento all’altro. Poi lo stesso Alberto si presenta dai Cimmarruta, con la scusa di cercare il fratello. È « un uomo piegato sotto il peso dei suoi travagliati cinguant’anni, pallido, cadaverico. È in preda ad una interna agitazione che gli vieta di mostrarsi disinvolto. Consulta spessissimo l’orologio » 7, perché sta aspettando i poliziotti. Cerca di impostare una conversazione sul sonno e sui» sogni. Pare che i Cimmarruta non abbiano alcun problema; Alberto invece lamenta che, per i molti pensieri che ha, non riesce a dormire la notte e il nervosismo lo distrugge. Arrivano le attese guardie col brigadiere che, pistole alla mano, radunano tutti i componenti della famiglia, sommariamente vestiti, nella cucina. Prima che li trascinino via, Alberto li apostrofa con violenza: Assassini! Signor brigadiere, la denuncia che ho fatto è precisa e documentabile. Questa è una famiglia di degenerati criminali. (Indicando Pasquale) Questo immondo

individuo,

con due figli, di

fronte ai quali avrebbe dovuto sacrificare ogni sua aspirazione per educarli al bene, assiste sereno e contento alle tresche provvisorie e occasionali di sua moglie, la quale, con la scusa di leggere le carte riceve clienti di giorno e di notte. [...] Ho le prove, perciò parlo.

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Cantata dei giorni dispari

Vi ho seguiti, v’aggio fatta ’a spia. E il sospetto è stato coronato dall’autenticità dei fatti. Ma ora la vostra miserabile esistenza è finita. Brigadie’, questo branco di iene, questi vermi schifosi, hanno commesso il più atroce e raccapricciante dei delitti. Dopo aver attirato in casa il mio fraterno amico Aniello Amitrano, con l’arma della seduzione di questa donna, l’hanno sgozzato, derubato, e hanno fatto sparire il cadavere.

Promette poi al brigadiere di raggiungerlo al Commissariato con le prove evidenti del delitto. Rimasto solo col portiere, Alberto rimuove i mobili per cercare le famose prove. Ma non trova niente. Deve ammettere, « avvilito, passandosi una mano sulla fronte: Miche”, io me lo sono sognato... » ?. Nel secondo atto siamo in casa Saporito. « Uno stanzone enorme ingombro di ogni rifiuto e cianfrusaglie. Colonne di sedie, l'una sull’altra, ammassate negli angoli, ai lati, al centro e nei posti più impensati; perfino dal soffitto pendono grappoli di sedie. Spezzoni di tappeti arrotolati [...]. Stendardi, pennacchi, lampioncini piedigrotteschi, fiori di carta, santi e immagini sacre d’ogni genere » !. I due fratelli Alberto e Carlo sono organizzatori di feste e hanno ereditato dal loro padre tutto quel materiale che ingombra la loro misera casa. Alberto è reduce dal Commissariato.

« Siede affranto sotto l’in-.

cubo di qualche cosa di grave che può avvenire da un momento all’altro » !. Non avendo egli potuto produrre le prove, hanno rilasciato la famiglia Cimmarruta, ma ora pende su di lui l’arresto per la denuncia infondata. Lo zio Nicola, che vive su una specie di mezzanino dal quale di tanto in tanto si affaccia per sputare giù, chiede ad Alberto cosa sta succedendo col suo linguaggio speciale: botti, girandole, fuochi artificiali. « Non parla perché non vuol parlare. Ci ha rinunziato [...] Dice che parlare è inutile. Che siccome l’umanità è sorda, lui può essere muto. Allora, non volendo esprimere i suoi pensieri con la parola... [...] sfoga i sentimenti dell’animo suo con le ‘ granate ’, le ‘ botte” e le ‘ girandole ’ » !°. Il nipote, il solo che sappia interpretare le sue « parole », gli spiega la situazione. Suona il campanello, e Alberto temendo i Cimmarruta, va ad aprire con un bastone

nodoso

nascosto

sotto

la giacca. Non

si è

sbagliato. È la zia Rosa. Ma il suo atteggiamento è tutto il contrario di quello che si aspettava, è bonaria, cerimoniosa. Reca una tazza di latte. Da buona vicina pensa che anche a lui farà piacere dopo la faticosa mattinata passata al Commissariato. Lo scopo della sua visita però è ben altro. Comincia la vergognosa processione o « tarantella », secondo il sottotitolo dato alla commedia da Eduardo, dei vari membri della famiglia Cimmarruta

42.

Le voci di dentro

159

che si accusano a vicenda del delitto. Infatti zia Rosa incolpa il nipote, pur ammettendo di avere per lui una speciale predilezione. Lo vede sbandato. Secondo lei « fa dei discorsi così sfiduciati! Sarà questa gioventù moderna — aggiunge — che non crede più a niente... ». Alberto cerca di difenderlo: « Non è colpa loro, donna Ro’... Poveri ragazzi... hanno vissuto un’epoca tremenda » 8. Appena la donna se ne va, viene il nipote Luigi, che accusa proprio la zia dell’omicidio: Ho dei sospetti, sento il dovere di parlare perché, ove mai vi decideste a presentare le prove, non sarebbe giusto che venisse coinvolta tutta la famiglia. Il vostro amico l’ha ucciso mia zia. [...] Mia

zia tiene una camera chiusa dove non fa entrare nessuno.

Una specie

di laboratorio. Là dentro fabbrica sapone e candele... Le conseguenze e le conclusioni,

traetele

voi. [...] E una

mano

ce l’ha messa

pure

mia sorella, perché mia zia solo a lei permette di entrare in quella

camera **.

Alberto inutilmente insiste che prove non ne ha, mentre il giovine insiste perché le produca. Pensa che, impaurito, abbia fatto marcia indietro. Quando Luigi esce, Alberto « siede affranto, coprendosi il volto con le due mani ». Parlando allo zio Nicola dice: Zi Nico’, hai ragione tu, che nun

vuo’ parla’ cchiù... L'umanità

ha perduto ogni ritegno. Ma allora io veramente ho fatto la spia a questa gente. Il sogno non esiste? Quello che ho detto è la verità? *5 Il campanello interrompe le sue parole accorate. È Pasquale Cimmarruta, il padre di Luigi, che viene ad accusare del delitto la moglie. Sono anni che si tormenta, senza avere il coraggio di appurare se la consorte effettivamente legga le carte ai clienti, per lo più uomini, o eserciti un altro mestiere, mentre lui davanti alla porta con un turbante in testa « fa l’indiano » per introdurli con la solita frase: « Avanti, avanti signori! Rispettate il turno. Madama Omarbey è stata oggi illuminata di nuova luce! » !°. I due uomini vengono interrotti da Matilde, la moglie di Pasquale. Ha così poca stima del marito che davanti a lui afferma che lo considera capace dell’assassinio. Pasquale ritorce le accuse. Ma poi Elvira, la loro figlia, si fa vedere per incolpare il fratello. Quando finalmente tutti i membri di questa esemplare famiglia se ne sono andati, Alberto dice di non capite più niente. Lo zio Nicola invece ha compreso fin troppo bene l’amara realtà. Per lui

160

Cantata deîì giorni dispari

i sentimenti che accomunano i Cimmarruta, odio, invidia, gelosia, sospetto, sono al di sopra di ogni sopportazione. Non gli bastano più i suoi sputi per esprimere tutta la sua riprovazione. La sua silenziosa condanna dell'umanità non gli è più sufficiente per continuare a vivere, si lascia andare a quella che sembra l’unica strada aperta all'uomo giusto: la morte. Dopo aver rotto la propria consegna di non parlare, « rivolgendosi un po’ a tutti con voce chiara », dice: « Per favore, un poco di pace » ”. Accende un bengala verde, lui che si esprime con i fuochi d'artificio, per dare via libera alla morte che lo coglie subito. L’indomani mattina, la scena del terzo atto è la stessa del secondo. Alberto deve fare scoperte ancor peggiori di quelle che hanno portato lo zio Nicola alla tomba. La prima è la spiegazione dell’insistenza del fratello Carlo, tutto chiesa, per fargli firmare una delega ad amministrare tutto il patrimonio familiare in caso di sua assenza. Il portiere gli riferisce di avere assistito alla conversazione di Carlo con un individuo disposto ad acquistare tutte le cianfrusaglie di casa Saporito. Sicuro dell’arresto di Alberto, Carlo aveva già contattato un acquirente. La cameriera dei vicini gli rivela poi che i Cimmarruta, dopa ore di discussioni durante le quali si sono accusati reciprocamente, finalmente si sono messi d’accordo per ammazzarlo, per evitare che egli possa produrre le prove della colpevolezza di uno di loro: tutti continuano ad essere convinti della possibilità che vi sia un omicida in famiglia. Infatti poco dopo, tutta la famiglia al completo si presenta per invitare Alberto a fare una gita in barca. Viene pure il brigadiere per annunciare che è stato spiccato

mandato

di cattura

contro

Alberto,

perché

effettivamente

il suo

amico è sparito, ma lui non è ancora in grado di esibire le prove del presunto omicidio. Alberto a questo punto lancia la controffensiva. Al fratello Carlo firma l’autorizzazione a disporre del patrimonio. Al brigadiere dice che ora è disposto a dargli soddisfazione. Dalla stanza vicina fa entrare Aniello Amitrano. L'amico scomparso, dopo tre giorni di as-

senza, era riapparso. Si era ammalato mentre stava da una zia e, siccome aveva litigato con la moglie, non le aveva fatto sapere niente. Malgrado l’uomo sia vivo, Alberto accusa i Cimmarruta di essere degli assassini e spiega loro « di qual crimine si sono macchiati e si macchiano giorno per giorno »: Mo’ volete sapere perché siete assassini? E che v° ‘0 dico a fa?

Che parlo a fa? Chisto mo’, è 0 fatto ‘e zi° Nicola... Parlo inutil-

42.

Le voci di dentro

161

mente? In mezzo a voi, forse, ci sono ancb’io, e non me ne rendo conto. Avete sospettato l’uno dell’altro. [...] Io vi ho accusati e non vi siete ribellati, eppure eravate innocenti tutti quanti... Lo avete creduto possibile. Un assassinio lo avete messo nelle cose normali di tutti i giorni... il delitto lo avete messo nel bilancio di famiglia! La stima, don Pasqua’, la stima reciproca che ci mette a posto con la coscienza, che ci appacia con noi stessi, l’abbiamo uccisa... E vi sembra un assassinio da niente? Senza la stima si può arrivare al delitto. E ci stavamo arrivando. Pure la cameriera aveva sospettato di voi... La gita in campagna, la passeggiata in barca... Come facciamo a vivere, a guardarci in faccia? *8

Alberto tira un sonoro ceffone al fratello che lo voleva spogliare. Quindi, esaltato ed implorante nello stesso tempo, si rivolge allo zio Nicola morto, per chiedere il suo aiuto: « Ch’aggia fa’, zi’ Nico”? Tu che hai campato tanti anni e che avevi capito tante cose, dammi tu nu cunziglio... Dimmi tu: c’aggia ffa’? Parlami tu... ». Lo zio gli risponde dall’aldilà con «la solita chiacchierata pirotecnica, questa volta prolungata e più ritmata » !, ma il nipote che sempre aveva saputo interpretare i suoi botti, ora non li capisce più. Ad Alberto disperato non rimane che comprimere fortemente le mani aperte sul volto per non

prorompere

in lacrime.

Prima

però cerca

con

uno

sguardo pietoso il fratello, dimostrando così la sua bontà e compassione verso quell’essere abietto. L’unico segno positivo in questa conclusione tragica è un raggio di sole che inaspettatamente « taglia l’aria ammorbata dello stanzone e, pietosamente, vivifica le stremenzite figure dei due fratelli » ?9, rimasti soli. Indica simbolicamente che malgrado tutto vi è una speranza per l’uomo di riabilitarsi. Forse è proprio lo sguardo pietoso di Alberto a far nascere quel raggio di sole e a indicare agli uomini la via giusta, perché « le voci di dentro » cambino e sappiano dettare ancora sogni belli e pensieri buoni. Così anche in una delle più tragiche commedie di Eduardo, dove l’autore con grande amarezza e perfino con un certo accanimento ha processato uomini, è possibile avvertire una nota positiva, che dà adito a una speranza nella disperazione. Eduardo pur vedendo con lucidità le brutture del mondo e denunciandole senza falsi pudori, non si arrende. Si ostina a credere che la vita deve continuare malgrado tutto, e forse un giorno il bene potrà trionfare. Le voci di dentro è una commedia che afferma durevolmente un’atroce verità: se nel mondo il male è generalizzato — e purtroppo lo è — siamo tutti responsabili; gli innocenti come Alberto devono sentirsi colpevoli pure loro. L’uomo, secondo il messaggio di Eduardo, deve avere la forza di vincere il male da solo, senza chiedere aiuti soprannaturali.

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Cantata dei giorni dispari

Questa commedia chiude il ciclo delle opere dell’immediato dopoguerra, in cui Eduardo ha voluto esprimere il suo pensiero in stretto collegamento alla situazione del tempo. Infatti, in un’intervista nel ’56, dichiara: «Da Napoli milionaria! fino alla Voci di dentro c'è un linguaggio preciso. Se legge tutte quelle commedie in ordine, lei trova che c'è una coerenza, a parte tutte le pagliuzze. Ricorda che in Napoli milionaria! si chiude il sipario su Gennaro che dice: ‘“ S’ha da aspetta’, Ama’. Ha da passa’ ’a nuttata”. Dopo ho scritto Filumzena Marturano. Secondo me non si è entrati nello spirito, si sono fermati al fatto della commedia. È sfuggito quello che era il mio proposito. I tre figli di Filumena Marturano rappresentano le tre forze dell’Italia: l’operaio, il commerciante, lo scrittore. ‘“ ‘E figlie so chille che se teneno mbraccia, quanno sò piccerille... Ma quanno so’ gruosse, quanno song’uommene, 0 so’ figlie tutte quante, o so” nemice”. Pensavo, con quella commedia, di aver messo in evidenza questa situazione ai governanti, pensavo che avrebbero preso dei provvedimenti. Poi scrissi Questi fantasmi!, poi Le bugie con le gambe lunghe, ma le cose rimasero stazionarie e allora ho scritto Le voci di dentro, dove il personaggio non parla più perché è inutile parlare quando nessuno ascolta. Forse il pubblico non l’ha afferrata bene ed il secondo atto è sembrato un po’ rigido. Secondo me invece Le voci di dentro avtà molta vitalità in avvenire. In quelle cinque commedie lei può trovare la storia dell’umanità » 21. Le commedie che Eduardo ha citato sono rimaste vive. Veri e propri capolavori, hanno continuato a vivere al di là degli intenti e dei propositi del loro autore che le voleva legate ai tempi in cui furono scritte. Solo per citare Le voci di dentro, e in questo caso la previsione di Eduardo è stata giusta, la sua ultima rappresentazione risale alla primavera-estate del 1983, a Londra, col titolo di Inmzer voices. Tornando in Italia, alla sua ultima rappresentazione nel ’77 a Roma, Renzo Tian fra l’altro rilevava: « Rivedere dopo molti anni Le voci di dentro vuol dire accorgersi che il grande Eduardo, quello più profondo e segreto (a cui questa commedia certamente appartiene) è un visionario che solo incidentalmente si esprime in termini realistici. La grande metafora delle Voci di dentro è appunto quella della visione. E una visione, più che un sogno, è quella di Alberto Saporito che ‘ vede’ un delitto accaduto nella casa dei vicini. [...] E quel che succede dopo non è tanto la vittoria della visione o della realtà, ma il nodo dialettico e drammatico che si accende fra i due poli. È qualcosa che va visto fuori dal profilo dell’intreccio: il fatto che la famiglia accusata imprudentemente, invece di scagliarsi contro il calunniatore, si rechi alla spicciolata da lui come da un confidente per accusarsi l’un l’altro sulla scia di antichi odi e rancori, non è un capovolgimento di situazione, ma al contrario la dimostrazione che attraverso la visione scatta il movimento verso una verità che altrimenti sarebbe rimasta a dormire sordamente tra ipocrisie e finzioni. Questa verità concerne non soltanto la famiglia, e i tagli che nella cellula-famiglia si annidano, ma molto più largamente riguarda il nostro modo e le nostre ragioni di vivere.»2. Le voci di dentro fa parte delle commedie che Eduardo ha registrato ultimamente in televisione e che la RAI ha già trasmesso più di una volta.

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1950

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Tre atti, 1950. Commedia rappresentata per la prima volta il 29 luglio dalla compagnia «Il teatro di Eduardo con Titina De Filippo », all'XI

Festival del Teatro,

a Venezia,

al Teatro La Fenice.

La commedia prende lo spunto da due importanti eventi dell’epoca, l’esplosione della guerra fredda fra le due superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e la celebrazione dell'Anno Santo.

Siamo nel soggiorno di casa Generoso. In fondo alla stanza c’è un ampio finestrone dal quale si scorge la ringhiera del cortile e gli altri appartamenti, nonché le scale che portano ai piani supetiori. Virginia Generoso ha fatto venire il fratello Arturo da Bari per chiedere il suo aiuto. Non ne può più della follia del marito. Matteo infatti è fissato che da un momento all’altro debba scoppiare la terza guerra mondiale e sta distruggendo tutta la famiglia. Trascura gli affari perché « per lui tutto è diventato inutile », non permette il matrimonio alla figlia Evelina perché « aprire famiglia, in questo momento, è da pazzi ». Come amministratore del palazzo si rifiuta di indire le riunioni, malgrado le proteste dei condomini, perché tanto fra poco « non saremo nemmeno in grado di amministrare le macerie del palazzo ». Si autodistrugge pure, « non mangia niente... è ridotto uno straccio » !. L’aspetto di Matteo tradisce «i segni di una lotta interna, la duale giorno per giorno lo rende sempre più esaltato » ?. Dice, per giustificare il suo stato d’animo: «Io n’ata guerra nun ’a faccio! Nun'’a faccio! Noi si può dire che da poco ci siamo ripresi, ci siamo messi un poco a posto... [...] Accumenciamo n’ata vota » *. Chiama a testimonianza dell’incombere di una nuova guerra i giornali, la radio, ma anche l’atteggiamento della folla

che percorre le strade gesticolando disordinatamente,

chiacchierando

con un tono di voce sproporzionato, isterico. E si riversano nei ristoranti, nelle rosticcerie, nei cinematografi, nei teatri, nei ritrovi not-

turni... [...] Con una furia avida di chi capisce il baratro che gli si spalancherà davanti, da un attimo all’altro... [...] E che soprattutto cerca di stordirsi, di distrarsi perché non vuole pensare 4. Insomma considera pazzi i suoi familiari che non si rendono conto dell'imminente pericolo. Arturo per accontentare la sorella, tenta un esperimento pet

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guarire Matteo. Con una trasmissione truccata alla radio gli fa credere che la guerra è effettivamente scoppiata, ma è un conflitto singolare, poiché è il mondo ch'e dichiara guerra a se stesso e tutti i popoli sono chiamati in causa. In questa conflagrazione mondiale la vita cittadina si svolgerà su di un piano normale. Il trucco funziona. Il cognato reagisce positivamente a questo annuncio. Accetta il fatto avvenuto, che non è paralizzante per lui quanto il terrore che finora lo ha oppresso, e abbandonata l’inerzia e l’inattività: « Ormai la guerra è scoppiata, bisogna pensare seriamente all’avvenire » ?, dice, e agisce di conseguenza. Ora Matteo permette il matrimonio della figlia Evelina con Mariano, figlio di Luisa, una loro vicina. Lo stesso fa per la nipote Maria che vive con loro. Quest'ultima è fidanzata con Antonio

che

ha la mania di controllare tutto e di rendersi conto di persona di tutte le cose. Ha già fatto il militare per dodici anni, fra guerra e prigionia, ma avendo sentito da Matteo della nuova guerra, decide di correre al Distretto per informarsi se verrà richiamato, prima di fissare la data del matrimonio. Luisa assiste agghiacciata alla conversazione e alla partenza del giovane che, sentendosi già un « eroe », saluta la fidanzata. Ha perso il marito nella prima guerra mondiale e un figlio nella seconda. Non vuole perdere, ora, il figlio che le è rimasto. A sentire di una nuova guerra, « rimane impietrita, non osa parlare. Raggiunge una sedia e siede, fissando lo sguardo nel vuoto » °. Mentre la notizia della guerra aveva guarito Matteo, ora fa impazzire questa donna, attaccata morbosamente all’unico figlio rimastole. Prende parte alla riunione del condominio che Matteo, guarito dalla sua « paura » ha finalmente indetto, dove di nuovo si parla della guerra. Infatti l'amministratore in nome della guerra appena dichiarata cerca di mettere fine alle discussioni e ai litigi fra i vari condomini. Fa capire loro quanto siano ridicoli. Non lo contraddicono perché anche loro hanno letto sui giornali di bombe atomiche, di missili, ecc. Alla fine, riscosso l’assenso generale, Matteo approfitta per applicare al condominio la sua nuova visione della vita. Incita i condomini ad accettare la sopraelevazione che una signora ha fatto per aprire una pensione per i pellegrini dell’Anno Santo. Per lui è un atto di coraggio: La signora Bravaccino [...] capisce che la guerra può sofhare e disperdere quelle poche pietre che è riuscita a mettere l'una sull’altra, ma dice « Io me ne infischio. Costruisco lo stesso ». [...] Pensatela come volete voi, per me dico che si è regolata benissimo. Stringiamoci fraternamente la mano e guardiamoci negli occhi per scambiarci un

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segno di fede e troveremo parole di indulgenza e ammirazione chi sprezzante del pericolo costruisce, invece di demolire.

per

L’atto finisce fra gli evviva di tutti, suggestionati dal discorso di Matteo, e con l’invocazione alla Madonna del Carmine perché dia loro la forza di affrontare la nuova guerra. Dopo due mesi, nel secondo atto, Luisa accusa in casa Generoso

una certa Vera di Lorenzo per la sparizione del figlio Mariano, avvenuta quindici giorni prima. Questa donna l’aveva nascosto durante la guerra, e ne era diventata l’amante. Ora la madre è sicura che è tornato da lei, proprio quando doveva sposarsi con Evelina. Vera, rintracciata da Matteo, si presenta dai Generoso. Dice che Mariano non è da lei, anzi non se lo ricorda nemmeno.

Ha cercato

di rifarsi una vita e scordare gli anni della guerra. Luisa, vedendola, fa una scenata. È talmente fuori di sé che la devono portare via a forza. Ma è la pazzia che la fa agire così. Sebbene le avessero detto che la storia della guerra era stata inventata per Matteo, lei ha continuato a crederci. Infatti è lei che ha murato Mariano in uno stanzino, e lo tiene prigioniero, per impedire che glielo portino via, come era successo per il marito e per l’altro figlio. Solo ora, dopo quindici giorni di prigionia, Mariano è riuscito a scappare, praticando un foro nel muro esterno, e si presenta in casa Generoso. Per Matteo, che continua a credere imperterrito nello stato di guerra, le conseguenze sono meno drammatiche. Infatti scambia per invasori stranieri un gruppo di pellegrini che si avvicinano al finestrone della stanza per chiedere informazioni. Rimane paralizzato dal terrore nel vederli, « e non riuscendo ad articolar parole si limita ad esprimersi con inchini e riverenze » ® per dare il benvenuto all’invasore. Il terzo atto si svolge in casa di Luisa ed è tutto dedicato al dramma di questa donna-madre. Finalmente Mariano ed Evelina si

sono sposati. Luisa ha assistito alla cerimonia, ma dopo il pranzo nuziale, con la scusa di essere stanca, si è ritirata in casa. Le tiene

compagnia Maria che non si è potuta sposare con Antonio che è stato trattenuto in caserma, accusato di essere una spia e un propagatore di notizie false. Dai discorsi di Luisa si deduce che nella sua mente guerra e matrimonio si sono confusi perché entrambi i casi — secondo il suo modo di vedere — comportano l’allontanamento di suo figlio. Non a caso ha murato il figlio alla vigilia del matrimonio, dopo la finta trasmissione radiofonica.

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Lei stessa lo ammette a Virginia e a Matteo che, saliti insieme agli sposi, dopo la loro partenza per il viaggio di nozze, sono rimasti con lei: Don Matte’, ho tolto il respiro ai miei figli. Da quando cominciarono ad avere uso di ragione. Se tardavano mezz'ora per tornare a casa pensavo subito ad una disgrazia. Per non farli uscire organizzavo trattenimenti in casa [...] niente, non li potevo frenare. [...] Scappavano, se ne andavano. Me dicevano nu sacco ’e buscie per vivere per conto loro una vita che non mi doveva riguardare. Don

Matte’,

a Mariano

l’ho' chiuso

dentro

con un

muro

di mattoni

e

cemento. E nun se n'é scappato?... E se uno di voi andava a denun-

ziare il fatto, le autorità non mi avrebbero chiusa in un manicomio?

«A pazza ». [...] « Ha chiuso ‘o figlio dint’ ’a na stanza, e ha costruito nu muro nnanz° ‘a porta! ». [...] « Pecché s° ‘o vuleva tene’ vicino, nun ’o vuleva perdere!... »? e conclude:

Don Matte’, vi giuro davanti a Dio che non sono pentita di quello che ho fatto, no! No, sono felice! Per quindici giorni l’ho sentito

un’altra volta figlio mio, come quando ce l'avevo qua. (Con tutte e due le mani aperte si batte ripetutamente sul ventre) Come quando,

durante i nove mesi di gravidanza, trovavo modo di rimanere sola con lui sdraiata sulla poltrona, con le mani come le tengo adessa per parlarci. E lui si muoveva dentro e mi rispondeva; mi rispondeva dandomi una dolcezza che voi non potrete mai immaginare! Io capivo lui; e lui capiva me, poi non ci siamo capiti più.

Luisa non si rende conto che il suo sentimento possessivo non

è stato mai vero amore ed è stata lei, semmai, ad allontanare il figlio.

Anche ora è spinta dal bisogno di sentire quella « dolcezza » del figlio in grembo. E la troverà nelle marmellate che prepara con le sue mani. Le considera come creature sue: « È robba mia [....] nessuno me la tocca. E po’ io tengo ’a chiave. E non commetto

reato se la chiudo dentro » !.

un

Quando La paura numero uno fu rappresentata nella stagione ’50-51 — non fu più ripresa — i critici, e fra questi Ermanno Contini !°, si sono trovati d'accordo nel notare la discontinuità e frammentarietà dell’opera, dove l’intreccio ha uno sviluppo più associativo che consegue nte. Eduardo ha voluto concatenare troppi temi sotto questa paura numero uno, senza saperli fondere insieme e trovare un vero e proprio equilibri o fra loro. Anche dal punto di vista strutturale i passaggi dal drammat ico,

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al comico, dal farsesco al melodrammatico, sono troppo bruschi e non trovano una vera e propria giustificazione. Che cosa è dunque questa paura numero uno? Paura della guerra vera e propria sì, alla quale la guerra fredda di quegli anni ha dato lo spunto, ma solo come punto di partenza. Qui si tratta della conflag razione generalizzata in cui « il mondo dichiara guerra a se stesso nel senso che ognuno combatte la sua » !3. È l’umanità che combatte contro se stessa, l’uomo contro l’altro uomo. Matteo lo nota dicendo: « Io sta guerra nun ‘a capisco. Si svolge in un modo strano... ditei addirittura: contro natura. [...] La gente ne parla, sì, ma con indifferenza che rasenta l’incosc ienza. Come di una cosa che facesse parte degli elementi indispensabili per vivere » !4. Rivelatori di questo stato di cose sono: continui litigi dei condomini a cui si assiste attraverso il finestrone del soggiorno dei Generoso. Il palazzo diventa così un microcosmo che rispecchia una realtà generale. Le strade vengono viste come campi di battaglia dove « si combatte a corpo. Voi uscite di casa e trovate i fucili spianati: chi ti vuol dare la fregatura, chi ti vuole vendere la stilografica, ‘a lente americana... che poi è una bassa imitazione fabbricata in Italia... ’e pezziente ca te cercano l'elemosina, il frastuono degli autobus ca ’o Padreterno li dovrebb e distruggere » 5. C'è una lotta senza quartiere fra gli uomini: e non ti puoi fidare di nessuno... Perché mentre credi nella buona fede di uno, ti devi ricredere immediatamente, quando meno te l'aspetti ti sferra la fregatura. Uno in mezzo deve essere guardingo; ti devi difendere, devi lottare. O devi imbrogliare pure tu e ti metti all’altezza, 0 vieni sopraffatto completamente. È diventato un problema tragico, che veramente ti tiene inchiodato al muro, e che ti fa sentire la nausea di tutto, persino della vita *, Tutto questo succede fra estranei, anche se condannati a vivere sullo stesso pianeta, e potrebbe trovare una giustificazione. Ma Eduardo è voluto andare oltre. Ha fatto vedere la guerra fra coloro che dovrebbero volersi bene. Qui le armi diventano egoismo, incomprensione, e l’ha dimostrato attraverso l’amore materno sbagliato e che invece dovrebbe essere il prototipo di ogni amore, se vero. In Filumena Marturano e Le bugie con le gambe lunghe ha rilevato come tale sentimento può redimere; qui invece indica a quali estremi esso può arrivare se vissuto male. E guerra credere di avere il diritto di possedere la propria creatura per il semplice fatto di averla messa al mondo. Luisa, dopo il matrimonio del figlio, deve trovare qualcos’altro che sia suo, perché fatto da lei, e sceglie di vivere « rintanata » !”, come nota anche Matteo. Invece della lotta preferisce l’alienazione. Opposta è la reazione del suo vicino. Mentre prima di rendersi conto che la vita era una battaglia si sentiva paralizzato, ora, consapevole della « guetra », ha trovato la pace, e l’amore. Che la figlia si sia sposata e vada via di casa, gli costa, ma sa essere partecipe della sua felicità.

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44, Amicizia

Atto unico, 1952. Rappresentato pet la prima volta il 9 maggio la regia di Eduardo, a Roma, al Piccolo Eliseo.

1952 per

In un grande stanzone di una rustica casa di montagna, « sprofondato in una poltrona, col capo riverso sullo schienale e con la schiena incastrata fra cinque cuscini da letto, boccheggia il sessantenne Bartolomeo Ciaccia, possidente. Ormai costui non connette più; la morte si è già mezzo impossessata dell’uomo » !. Quando a Napoli aveva cominciato a stare veramente male, ed era già spacciato, il dottore aveva consigliato di portarlo in montagna per fare un tentativo in cui lui stesso rion nutriva eccessiva fiducia. i Ha accompagnato Bartolomeo, per assisterlo, la sorella Carolina. Ora, però, dopo venti giorni non ne può più perché il fratello non reagisce al cambiamento d’aria, né guarisce, né muore. Lei d’altra parte ha lasciato la famiglia a Napoli e vorrebbe tornare. Siamo in agosto e fa un caldo torrido. Arriva tutto accaldato Alberto Califano, l’amico fraterno della prima giovinezza e della maturità di Bartolomeo. Si è sentito in dovere di venirlo a trovare malgrado l’afa e i disagi del cammino. Carolina, temendo che l’emozione di rivedere l’amico faccia male

al fratello, si limita a preannunciarne la visita. Bartolomeo « a quel nome rimane come freddato da una pallottola alla nuca. Raccoglie tutte le sue forze per formulare un lamento: « No... no... non lo voglio vedere... » 2.Comincia invece a invocare la zia Matilde. Sono dieci giorni che chiede di rivedere questa parente. La zia, però, saputo che il suo prediletto nipote stava morendo, era morta sul colpo. A Bartolomeo, naturalmente, non gliel’hanno detto. A Carolina viene un'idea. Per accontentare il moribondo, convince Alberto a travestirsi e a farsi passare per la zia. Per amore dell'amico, malgrado il caldo, l’uomo accetta. Il volto di Bartolomeo s’illumina di gioia. Ricordando la sua infanzia passata dalla zia Matilde chiede che gli reciti la poesia della pecorella. Alberto lo accontenta anche in questo, e con altri travestimenti, si presta a impersonare

il carabiniere

e il negro

che l’in-

fermo delirante vuol rivedere. Infine Alberto insiste che vuole rivolgersi a Bartolomeo con le proprie parole, vuol avere la gioia di sentirsi riconosciuto dall’amico. Carolina accenna di nuovo ad Alberto e ad una sua possibile venuta.

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Mia famiglia

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La reazione di Bartolomeo è sempre la stessa, anzi questa volta « s'irrigidisce, straluna gli occhi e fa cenno di no col capo » 3. In compenso, chiama il notaio. Alberto si presta ancora una volta e si traveste. Bartolomeo raccoglie tutte le sue forze per dire: « Sono un misero peccatore ». Si è confessato, ma non gli basta, ha bisogno del notaio. « Da una scatola che aveva tenuta sempre accanto, cava un pacchetto abbastanza voluminoso, legato con un nastro e lo mostra a colui che crede essere l’uomo di legge che ha chiamato » e gli dice: « Dovete consegnare queste lettere alla moglie di Alberto Califano... ». Aggiunge poi: « Sono stato il suo amante per molti anni. Da queste lettere risulta pure che il primo figlio dei coniugi è mio » *. Il povero marito tradito si alza in piedi, completamente inebetito. Non sa che fare. Imita la mitragliatrice, come ha dovuto fare quando ha impersonato il carabiniere, e grida a squarciagola il primo verso della poesia della pecorella. Questo atto unico sembra essere uno di quelli scritti da Eduardo negli anni Trenta. Una farsa ispirata a Fregoli, con l’umorismo cattivo e grottesco delle primissime commedie. Se effettivamente l’autore l’ha scritta nel ’52, si è « imitato » molto bene. Amicizia è stata messa in scena insieme ai Morti non fanno paura, che porta pure la data del ’52, ma che fu composta nel ’32 con il titolo Requie all'anima soia (vedi p. 37). Potrebbe però darsi che Eduardo abbia veramente scritto Amicizia nel ’52 per fare da « pendant » all’altra commedia, il cui tema principale è che bisogna avere paura dei vivi, non dei morti.

45. Mia famiglia Tre atti, 1955. Commedia rappresentata per la prima volta il 16 gennaio 1955 dalla compagnia « Il teatro di Eduardo » (Titina, con suo immenso dolore, aveva dovuto rinunciare alla recitazione per ragioni di salute), a Perugia, al

Teatro Morlacchi. Quando nel ’56 Eduardo pubblica la commedia, Silvio d'Amico (1887-1955) da poco scomparso:

È la dedica al noto critico

Caro Silvio, questa commedia che leggemmo insieme, alla vigilia della prima prova, con la mia Compagnia, all’Eliseo di Roma, e che è l'ultima recensita da te, lho conclusa come volevi tu. E la dedico con tutto il cuore alla tua memoria. Eduardo !

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:

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Infatti Silvio d'Amico in una lettera datata 11 gennaio 1955 dava i suggerimenti che poi l’autore adottò: Carissimo Eduardo, ieri sera ho ripensato lungamente a te e alla tua commedia. [...] Per conto mio [...] non insisterei sulle osservazioni che i miei colleghi ti hanno fatto circa la conclusiva pacificazione fra i due vecchi coniugi. Oggi c'è, contro il lieto fine, una pregiudiziale altrettanto falsa e convenzionale quanto era quella che, fra i nostri nonni, lo rendeva obbligatorio. Se tu hai concepito l’opera tua, dopo tante aspre denuncie, in modo da portarla a una finale, pudica consolazione, perché rinunziarvi? Se proprio si abbia paura d'essere troppo ottimisti, si potrà ricorrere a un'espressione ancora più attenuata; rinunciare alla « sicurezza » che dà la consegna di quelle tali chiavi, e mantenere la conclusione in un clima di semplice «speranza », facendo calare il sipario sulle parole « più tardi ». Ma non vedo perché la commedia debba sboccare ad ogni costo in un'amarezza che l’autore aveva invece, di proposito, addolcito.

Fa’ di queste mie osservazioni il conto che credi; e voglimi bene. Il tuo fedelissimo Silvio d'Amico 2

l’azione si svolge in casa Stigliano in una stanza di passaggio, luogo in cui la famiglia s'incontra e si intrattiene. Ha molta importanza l'arredamento di questa stanza, perché in ogni atto rispecchia il modo di vivere e lo stato di salute spirituale del nucleo familiare. Nel primo atto regna il disordine: mobili « mal disposti e mal curati », qualche poltrona zoppicante, « del sediame malfermo », « cumuli di giornali cinematografici, sparsi un po’ dappertutto »È. l’ambiente rende il clima interiore dell’azione. La famiglia Stigliano vive le conseguenze della guerra e risente degli effetti negativi del periodo postbellico. I valori tradizionali, tra i quali la famiglia, l’autorità, la morale, sono stati scossi alle basi o addirittura sono crollati. Alberto, il capofamiglia, vede così la situazione che si è venuta a creare: Con il fascismo caddero illusioni, idoli e miti. E l'umanità, giovani e vecchi compresi, capì che gli incrollabili e i potenti si reggono in piedi fino a quando « sono le nove e tutto va bene ». E questo non è successo solo da noi, ma in tutto il mondo. Allora non crediamo più a niente, ed ecco che si vive all’arrembaggio... alla giornata: minuto per minuto [...] Qua nun ce stanno denari che bastano.

Si spende appresso, di fronte non crede

quello che guadagni nel mese in corso, quello e quello che forse guadagnerai. Ed allora, noi ci a due specie di disordini: finanziario e morale. più a niente... Vive alla giornata: minuto per

del mese troviamo La gente minuto*.

Nella sua famiglia sia i figli sia la moglie, ma anche lui stesso, sono tormentati dal dubbio, soffrono dello stesso turbamento e si

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Mia famiglia

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sentono sconcertati. Ognuno di loro reagisce in maniera differente, senza però trovare una vera strada. Beppe Stigliano, il figlio di Alberto, è attirato. dalle facili ricchezze e critica il padre: Questo signore non s’accorge che la vita è cambiata. Che ti credi, che si preoccupa di dare uno sguardo intorno, per vedere con quali mezzi e per quali vie la gente di oggi riesce a sfondare e vincere? Individui che nun te putevano pulezza” nemmeno ‘e scarpe, oggi marciano in automobile e comandano i milioni; con qualunque arma, buona o cattiva, ricattatoria o disonesta: sfondano! E i milioni li comandano,

e in automobile

marciano.

Alberto avrebbe voluto che il figlio entrasse alla Radio raccomandato da lui e prendesse il posto di speaker come ce l’aveva lui, ma Beppe aveva rifiutato: « Sai che avvenire luminoso... Non basta un fesso in famiglia, ce ne vogliono due » 5. La vicendevole comprensione era crollata quando il giovane aveva detto: Papà, io e te siamo due cervelli differenti. Ti ringrazio di avermi messo al mondo... e accontentati che ti dico: ti ringrazio. Ma non mi devi scocciare più. Quello che farò nella vita dipenderà esclusivamente dalla mia volontà: me nguaio, m’arruvino, nun aggi’ a’ da’ cunto a nisciuno °. Beppe ora è pronto a partire per la Francia, dove con l’aiuto del suo amico Guidone e grazie alla propria prestanza fisica, ha ottenuto un contratto cinematografico. È proprio a questo amico Beppe parla dei suoi rapporti col padre, quando la loro conversazione viene interrotta dall’arrivo di Corrado, il fidanzato di sua sorella Rosaria.

La ragazza li raggiunge. Ha vent’anni. Il suo aspetto esteriore minuziosamente descritto dalla didascalia tradisce la sua scelta di fronte la vita: L’esile corpicino della ragazza appare ancor più minuto e fragile per l’ampiezza del giubbotto che indossa a dispetto di un paio di pantaloni striminziti e lisi, che le fasciano le gambe. [...] Il residuo dei capelli, nel loro disordinato taglio « a candela », le hanno tolto ogni affinità col sesso cui appartiene conferendole invece l'aspetto malsano di un ragazzaccio avvizzito, dal volto pallido e malaticcio. E come un maschio gestisce e come tale dimostra di pensare e di esprimersi.

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Solo i suoi occhi spalancati e imploranti tradiscono «i segni di uno smarrimento rassegnato » ?. Riprendono a parlare della partenza di Beppe e della reazione che il padre avrà, quando costui entra. I giovani ammutoliscono, ma Alberto non li degna nemmeno di uno sguardo o di un saluto. È un uomo « sui cinquant’anni: simpatico, gioviale. Parla poco, ma in compenso — dice di lui la didascalia — prodiga cenni del capo e abbozzi di sorrisi, ogniqualvolta gli si chiede d’intervenire in una discussione. Ad osservarlo bene, però, si scorge in quei cenni ed in quei sorrisi una rassegnazione distaccata da ogni cosa che gli fu cara e sacra » È. Prova del risentimento verso i figli, e soprattutto verso Rosaria, i cui atteggiamenti spregiudicati gli hanno fatto perdere ogni stima nei suoi confronti. Rimasto solo con Corrado, quando gli altri se ne sono andati, Alberto esprime il suo pensiero sulla ragazza: Tu puoi capire con quanta amarezza io te ne parli... Una figlia che ti costa quello che costa una figlia... la quale inizia una vita per conto suo. Naturalmente fuoco e fiamme in famiglia, e previsioni catastrofiche da parte mia... Perché non era difficile prevedere la fine che ha fatto! Incontra il mascalzone... mascalzone poi perché, chiunque al suo posto avrebbe fatto lo stesso... E non se ne vergogna: niente affatto. Quale vergogna? Lo dice a tutti... se ne fa vanto, come

se avesse commesso

un eroismo.

Lo ha detto pure a te?.

Il fidanzato, che fa mostra anche lui di essere al passo coi tempi o, secondo il giudizio di Alberto, è « scombinato », gli ribatte che la vita passata di Rosaria non gli interessa, riguarda solo lei e aggiunge: Non possiamo pretendere di andare in giro con il campanello della parrocchia, cercando il candore, l’innocenza, la verginità, senza fare un bagno di ridicolo. C'è stata una evoluzione, un riscatto, una messa a punto. E non mi potete credere in mala fede. Se non fossi

convinto di quello che vi dico, non avrei scelto Rosaria per moglie !.

Quando anche Corrado se n’è andato, Alberto vorrebbe mangiare, è tornato a casa dopo una giornata faticosa di lavoro. Ma di pranzo non se ne parla. La cameriera non ha avuto ordine di prepararlo. Finalmente arriva sua moglie Elena. « Con la consueta agitazione entra dalla porta [...] e si dirige svelta verso il tavolo centrale, senza degnare di un cenno di saluto Alberto, il quale è fermo lì, e la osserva con accorato compatimento » !!. La donna è reduce da una partita a carte. Ormai la sua vita si

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svolge ai tavoli di gioco, la casa per lei praticamente non esiste. Sentendosi inutile nella famiglia, ha trovato in questa forma di evasione una ragione di vita. Elena ha comprato il pranzo in rtosticceria, ma poi deve aver scambiato il suo pacco con quello di una sua compagna di gioco. Infatti invece del pollo e dei supplì, ne esce una camicia da smoking, una cravatta nera a fiocco e altri accessori per un abito da sera. Alberto propone di andare al ristorante, quando arrivano tre

amiche di Elena. Sono, a dire il vero, ex amiche, perché Elena da

tre mesi le evita dopo aver perso una grossa somma al circolo. Non può saldare il suo debito. Vengono per l’appunto a reclamare i soldi, e le danno perfino della ladra. Il marito interviene per calmare le tre scalmanate e assicura che l’indomani saranno pagate. Dopo la loro partenza, scopre l’entità della somma: novecentocinquantamila lire. « Rimane pietrificato ». L’ammontare è sproporzionato alle sue disponibilità. Dice a Elena che è lei che dovrà pagare e va a prendere la sua cassetta portagioielli, ma vi trova solo polizze del Monte di Pietà. I gioielli sono serviti a coprire altre perdite al gioco della moglie. Elena piange e « questa volta con abbandono sincero », dice la didascalia. Ma Alberto più irritato che commosso, reagisce al pianto di lei con uno scatto rabbioso, come se imprecasse contro se stesso »: Presentati al mondo chiudendoti nello stomaco

tutta la bile e il

veleno che te ne viene da tutto quello che, con sacrifici e rinunce,

hai creato con le tue mani, e che pensavi ti dovesse dare in cambio soltanto gioia. La casa... i figli... la famiglia.

« Ora è preso da una disperazione intima, cattiva e inesternabile che lo costringe a comprimersi le mani sul volto, come per contenere lo scoppio dei tessuti », e aggiunge: « Ma che ho creduto io??? e chi me l’ha fatto credere?... Perché ho insistito nel credere? » !. Per il trauma perde la parola.

Dopo quattro mesi, nel secondo atto, la stanza è completamente trasformata. È diventato un laboratorio per la confezione di vestiti per bambini. Dopo l’incidente che ha colpito Alberto, Elena ha preso in mano le redini della famiglia, e col suo lavoro la manda avanti. Si presenta un giornalista con un fotoreporter per intervistare Elena. Dice che il suo giornale conduce « un’inchiesta sull’attività della donna moderna: capacità di lavoro, scopi pratici e psicologici

dell’industria scelta e aspirazioni future » !. Il giornalista però invece di interessarsi al lavoro di Elena fa scivolare il discorso sui figli. Come ogni madre, la donna è contenta

174

i

Cantata dei giorni dispari

di parlarne. Fa vedere delle loro foto che attirano l’attenzione dell’intervistatore, che rivolge molte domande sull’attività artistica di Beppe a Parigi e conclude che farà un articolo su tutta la famiglia. Ma l’improvviso ritorno di Beppe farà scoprire le vere ragioni della visita del giornalista. Il giovane è « pallido e affranto. Sul suo volto sono impressi i segni di un timore interno che lo mantiene in uno stato di orgasmo e sovraeccitazione » !*. È scappato da Parigi per paura di essere accusato dell’assassinio del produttore cinematografico che lo ospitava. Il giorno prima l'aveva trovato steso a terra in un lago di sangue. Dice di essere innocente, ma sa di poter essere sospettato. La famiglia è sconvolta dal dolore, la madre piange, la sorella singhiozza. Solo il padre, « chiuso nel suo dolore, è fermo in un proponimento ». « Prende l'elenco telefonico e lo sfoglia cercando un numero. Dopo averlo trovato lo compone all’apparecchio » !. Tutti seguono la sua azione con il respiro sospeso. Alberto da quattro mesi non parla, da quando ha scoperto le grandi perdite al gioco della moglie. Ha sempre fatto credere di non poter parlare, ma è stata una finzione. Ha constatato che il suo mutismo ha giovato alla moglie che, rinsavita, si è messa a lavorare invece di pensare alle carte. Ora, fra la meraviglia dei presenti, Alberto parla. Chiama il Commissariato e chiede che mandino due guardie per arrestare il figlio. Ma non si accontenta di dire solo questo. Per anni è stato in silenzio ad assistere allo sfacelo della sua famiglia. Adesso vuol trovarne le cause dopo aver riconosciuto che « gli errori sono stati assai, e ognuno di noi ha la sua colpa. E ognuno di noi ha sbagliato credendo di indovinare ». La convinzione di Alberto è che « non possiamo disporre egoisticamente della nostra vita. Siamo agganciati come una catena: una maglia cede, e tutte le altre appresso » !. Se uno in una famiglia cade, si trascina dietro tutti quanti. Finalmente riconosce che i primi colpevoli sono lui stesso e la moglie. C'è stata lotta fra di loro e i figli l'hanno avvertita. Lui si era disamorato della famiglia e aveva cercato consolazione altrove — infatti ha un'amante —; d’altra parte, Elena ogni volta che lui voleva intervenire nella vita familiare lo bloccava con la solita frase: « Albe’, ma ti sembra il momento? » !‘”. Ora, malgrado la moglie abbia già pronunziato di nuovo queste stesse parole, decide di non ascoltarla più. Parla anche se non sa veramente cosa dire di fronte alla tragedia che sta per abbattersi sulla sua famiglia. Sciorina una sequela di proverbi che rispecchiano l’antica saggezza e constata che un passo in avanti è stato fatto dalla sua famiglia: « voi mi sentite dire queste cose rancide e non ridete » !8, La situazione è troppo

45.

Mia famiglia

175

tragica. Infatti le guardie portano generale.

via Beppe fra la costernazione

« È passato un anno dall’ultimo avvenimento che funestò la famiglia » Stigliano. Siamo nel terzo atto. « La stanza è sempre la

stessa. Soltanto un significativo miglioramento si nota nell’ordine e nella pulizia » !’. Rispecchia il ritrovato equilibrio della famiglia. Gli affari del laboratorio di Elena vanno a gonfie vele. Beppe è stato riconosciuto innocente e lavora alla Radio. Rosaria, quella stessa mattina, si è sposata con Corrado.

Sono le nove di sera, Elena ed Alberto intrattengono i genitori di Corrado. Sono venuti da Benevento a Napoli, ma il figlio non li ha voluti presenti in chiesa durante la cerimonia. Carmela, la madre di Corrado, è molto dispiaciuta, mentre Michele, il padre, cerca di capire il figlio anche adesso, come ha sempre fatto. Non l’ha mai abbandonato e ha cercato sempre il dialogo con lui, a differenza di Alberto che col suo silenzio pieno di disprezzo aveva allontanati da sé i figli. Corrado, come tutti i giovani della sua generazione, si dibatteva

per trovare un senso alla vita e, non trovandolo, si voleva suicidare. È stato il padre a salvarlo. Per ore gli ha parlato per impedirgli il tragico gesto. Michele non è istruito, è un piccolo possidente, ma ha spiegato a Corrado il significato della vita e della morte attraverso le leggi della natura: °A vita secondo me, significa tutto. [...] ‘A morte nun significa niente, pecché ’a morte

nun

esiste. Guarda sta furmica —

e con un

fiammifero la stuzzicavo — A furmicola scappava [ ...] — Guarda, se mette paura e scappa pecché vo’ campa’. Certo, ‘a furmicola nun fa tanta ragiunamente che putimmo fa’ nuie; ma ‘a vita ’a capisce, nun

capisce ‘a morte. [...] Perciò ‘a furmicola vo’ campa’. Quando po’ sta furmicola finisce di vivere naturalmente, nun se mette paura e nun scappa. E pecché? Pecché ‘a morte nun esiste.

Sempre Michele, al figlio che insisteva ancora per sapere quale è la speranza degli uomini, ha risposto spazientito: Corra’, si tu nun capisce ch' ’a speranza mia si tu, e che ’a spe-

ranza toia hann' ’a essere ‘e figlie tuoie, fa chello che vuo’ tu... Sparati, scannati, menate ‘a coppa abbascio... speranze pe te nun ce ne

stanno ©. E Michele non si è limitato a parlare, ha dato al figlio la parte di patrimonio che gli sarebbe spettata dopo la sua morte, per metterlo in condizione di sposarsi.

176

Cantata dei giorni dispari

Mentre i quattro genitori stanno ancora insieme, ecco che arri-

vano Corrado e Rosaria. « L’abbigliamento della giovane è sommario. Ha la camicia da notte sotto il cappotto. Corrado che ha sempre sfoggiato idee moderne nei confronti di Rosaria e delle donne in generale, ora è costretto a dire: « È più forte di me ». « Non mi sarà possibile portare questo matrimonio fino in fondo » ?. E se ne va. Rosaria chiede di parlare al padre, che continua a non rivolgerle la parola, per le stesse ragioni per le quali Corrado l’ha riportata a casa. Alberto proprio pet questo non l’ha voluta nemmeno accompagnare all’altare. La giovane gli fa capire come i giovani si dibattono per trovare la propria strada, un posto nella vita, in un’epoca in cui tutte le certezze di un tempo sono tramontate e le nuove ancora non sono nate. Gli confida che i suoi atteggiamenti spregiudicati sono solo una maschera dietro alla quale si è celata per essere meglio accetta ai suoi coetanei: in realtà non ha mai « conosciuto » un uomo. Ha rifiutato i consigli del padre perché lui non poteva aiutarla: « Che ne sai tu della nostra generazione? E credi che l’astuzia della tua esperienza poteva essere utile a me come lo fu a te all’epoca tua? » ?. Quasi a riprova della veridicità del discorso di Rosaria sulla insicurezza dei giovani, Corrado ritorna sulla sua decisione e viene a riprenderla. Questa volta Alfredo offre il braccio alla figlia e, « come per compiere un rito insieme desiderato e auspicato » ?, l’accompagna al marito. La figlia ha aperto gli occhi al padre. Finalmente Alberto si rende conto di aver sbagliato, perde la sua sicurezza, riconosce di essere confuso e lo ammette davanti alla moglie:

Poveri figli! Tu capisci in quale situazione si trovano i giovani di oggi... [...] E noi, forse con il nostro atteggiamento ostile, li abbiamo disorientati ancora di più. Non bisogna confondere momenti con momenti e fatti con fatti. La confusione c'è stata per loro e pure per noi. Ma questo non ci deve far credere che se n'è caduto ‘0 munno. Può cadere una pietra, due ma ‘e muntagne so’ muntagne, e ‘o munno

è ‘o munno*.

Ritrova, così, il dialogo con Elena. La scena termina con Alberto che esce per raggiungere l’amante con la quale convive da un anno, ma «con un ammiccare degli occhi e un breve cenno del capo che vuol significare un promettente ‘si’ » 5, fa capire alla moglie, che tornerà da lei. AI momento della rappresentazione di Mia farziglia, i critici % furono

concordi nel vedere in Alberto un secondo zio Nicola delle Voci di dentro

45.

Mia famiglia

177

(vedi p. 156) che sceglie di non parlare perché tanto la sua voce, la voce del buonsenso non viene ascoltata. Nel suo insieme, la commedia , come anche la scena in cui Alberto decide di non parlare — e lo fa per «una disperazione cattiva » non avendo trovato nessuna soddisfaz ione personale nella famiglia —, dimostrano invece che anche lui è come gli altri, non è migliore. Eduardo mi raccontò che il pubblico pure travisò il suo pensiero e la commedia, quando applaudì il protagonista mentre sciorina la serie di proverbi. Gli spettatori ricordando Gennaro di Napoli milionaria! (vedi p. 123), identificarono con lui Alberto, vedendolo come il capofamiglia

che salva i suoi congiunti dallo sfacelo. Invece le patole di Alberto non risolvono nulla e né la sua denuncia ai danni del figlio può essere sicuramente interpretata come una coraggiosa manifestazione di desiderio di giustizia. Infatti, subito dopo, egli invita il fotografo, che è ritornato insieme al giornalista, a riprendere la famiglia « esemplare », chiedendo di mettere fra virgolette l’aggettivo. La vera ragione della sua azione potrebbe essere stata la volontà di provare quanto egli abbia avuto ragione nel condannare silenziosamente i suoi familiari. Anche in un'intervista Eduardo ha puntualizzato come questa commedia sia stata male interpretata, poiché tutti hanno preso come suo

portavoce il protagonista, mentre l’autore non si riconosce in lui « perché è coinvolto anche lui, anche lui ha il suo egoismo, dice una cosa e ne pensa un’altra ». Aggiunge poi: « Rileggendo le critiche di Mia famiglia trovo che nessuno ha raccolto il vero significato. Hanno raccontato il fatto e il fatto in Mia famiglia non ha importanza. Il punto base della commedia è un dibattersi inutile. Io vorrei che i figli avessero una autonomia maggiore, che i genitori venissero sollevati dalle più gravi responsabilità. Invece queste cose non si raccolgono, resta tutta acqua stagna » 77.

Se c'è un padre che Eduardo vuole additare come esempio in Mia famiglia è Michele sia con le sue idee sulla vita, che sono pure quelle di Eduardo, sia col suo modo di agire nei confronti del figlio. Non solo Michele non ha mai abbandonato Corrado a se stesso, ma gli ha offerto anche i mezzi per costruire subito le basi per una felice esistenza futura. Questo stesso tipo di padre lo ritroveremo nel Sindaco del Rione Sanità (vedi p. 209), per non parlare di Eduardo stesso che ha fatto ‘altrettanto col figlio Luca, mettendolo in condizione di avere subito una sua compagnia teatrale. i Siccome Eduardo ha dedicato questa commedia a Silvio d'Amico, mi sento in dovere di citare alcune parti della sua recensione che fu, come abbiamo visto, l’ultima dedicata alle opere di Eduardo. Faccio questo anche se il noto critico non ha reso completamente il pensiero dell’autore: « Non condividiamo l’opinione dei buontemponi che, ricordandosi le belle risate fatte al tempo delle farse via via spicciate dalla felicissima vena comica di Eduardo attore-autore, mostrarono qualche disappunto quand’egli, non più pago al folclore e alla macchietta locale, ebbe maggiori ambizioni .di commediografo.

È un fatto che le sue conquiste vere, non cancellabili,

di scrittore non più legato alle sue personali virtù dell’attore, ma proposte anche ad interpretazioni altrui, si chiamano Questi fantasmi!, Filumena Marturano; a cui si possono aggiungere Le bugie con le gambe

178

Cantata dei giorni dispari

lunghe e Le voci di dentro. Nobilissima è, per noi, questa sua scontentezza, questo suo inquieto desiderio di non posarsi sui successi già conseguiti, d’uscire dal campo già battuto. Sicché prendiamo atto con simpatia d’una altra svolta dell’arte sua: questa indicata dalla sua nuova fatica, Mia famiglia, dov’egli è sì tornato al più antico, eterno tema della commedia universale, il conflitto tra padri e figli, ma trattandolo con una visione sua, con forze sue, con ingenua e potente adesione sua. Commedia d’intenti sociali, denuncia derivata da un senso tradizionale: e si potrebbe dire addirittura patriarcale, pensando ai vecchi del-

l'Antico Testamento, e al loro modo di riporre le supreme speranze della vita nei figli che per essi rappresentavano l’indefinita continuità della loro personalità nel tempo, la loro immortalità terrena. Qui è infatti il punto essenziale della commedia d’Eduardo: storia d’un uomo, [...] che aveva vagheggiato la prole come il suo stesso io proiettato nel futuro: e invece costoro non sono lui, sono due a/fri: non mai un contrasto fra due generazioni fu così totale, aspro, irriducibile come, secondo Eduardo,

è l’attuale: due figli non solo diversi da lui ma in violenta contraddizione con lui, con la sua probità, con la sua semplicità, col suo attaccamento

al lavoro e al focolare domestico » ?,

46. Bene

mio

e core

mio

Tre atti, 1955. Commedia rappresentata per la prima volta 111 novembre 1955 dalla compagnia « Teatro di Eduardo », a Roma, al Teatro Eliseo. Eduardo stesso riconosce il carattere prettamente partenopeo della commedia che lo porta ad affermare: « Credo meno alla realizzazione di Bene mio e core mio all’estero. È talmente napoletana nei tipi, non ho mai scritto una commedia napoletana come quella. [...] Quando durò la commedia a Napoli, i Napoletani si vedranno scoperti » 1. A Roma no, ma già a Milano, senza andare all’estero, l’autore sentì il bisogno di spiegare l’espressione napoletana del titolo, che è anche il tema del lavoro. Fece distribuire un volantino su cui era scritto: «‘Bene mio e core mio’ è l’espressione abituale con la quale la gente del mio paese diagnostica e sintetizza ironicamente il tiro mancino che di sovente viene praticato ai suoi danni da una insospettabile persona di famiglia che, valendosi ipoctitamente dei legami di sangue, nell’assestare il colpo non solo si fa attenta nel prodigare tenerezza, affetto e bene ‘disinteressato’: ma riesce altresì a far risultare lo spirito di sacrificio che determinò il suo gesto, nonché la colpa totale e l’intera responsabilità delle conseguenze che ne deriveranno a carico del congiunto danneggiato » 2,

Siamo in casa di Lorenzo Savastano, un restauratore d’arte che vive con la sorella nubile, Chiarina.

di oggetti

La commedia ha inizio in una atmosfera di piena crisi. Chiarina, che ha più di quarant'anni, ma ne dimostra qualcuno in meno, è

46.

Bene mio e core mio

INS)

arrampicata sul davanzale della finestra e minaccia di buttarsi, se il fratello persiste nel voler eseguire alcuni lavori di ammodernamento dell’appartamento. La didascalia rivela i pensieri reconditi della donna:

In un impeto di disperato sconforto, e tutta fremente di sdegno da lungo represso, la donna vuole compiere il gesto folle del suicidio. — e questo sarebbe più attendibile —

sta minacciando

di farlo,

per ricattare e piegare la volontà di qualcuno, ad uno scopo preciso, dal quale — secondo lei — dipende tutto il suo avvenire: è questione di vita e morte?.

Il suo gesto, o’ meglio la minaccia di esso, è dettato dalla paura di essere estromessa dalle sue mansioni di padrona di casa, dopo aver sacrificato tutta la sua vita prima per i vecchi genitori e poi per il fratello: infatti, Lorenzo vuole mettere a nuovo la casa in vista del matrimonio con la sua fidanzata tedesca. Per non rivelare i propri veri sentimenti, Chiarina attribuisce la sua opposizione allo spirito di famiglia: quella casa è stata la culla della loro infanzia; trasformandola in un ambiente estraneo, andrebbero distrutti i sani princìpi che hanno tenuto legati i due fratelli nella buona e nella cattiva sorte. Per un momento, però, la donna si lascia andare e confessa i suoi veri timori: trovarsi in mezzo a una

strada, una volta che Lorenzo si sposi. Siccome il fratello attribuisce il suo atteggiamento alla zitellaggine, colpita nel vivo, Chiarina cambia le carte in tavola. È per amore del fratello che si oppone al matrimonio con una straniera: « Spose e buoi dei paesi tuoi », dice, e proseguendo accenna alla situazione che potrebbe determinarsi proprio per la differenza di vedute: Ah sì? E io che faccio? Devo assistere alla sua infelicità e me ne devo stare con le mani in mano? Schiavo delle abitudini, com'è lui e con la forma di dispotismo che si ritrova, alla prima contrarietà, quello commette qualunque sciocchezza *. Cela il suo egoismo dietro un amore

disinteressato,

secondo

la

spiegazione di Eduardo del detto napoletano «Bene mio e core mio». Questa assurda situazione spinge Lorenzo a decidersi ad andare in America dove ha avuto una vantaggiosa offerta di lavoro. Partirà l'indomani. Le nuove proteste di Chiarina non servono a fermarlo. A questo punto entra in scena e nella vita di Chiarina, Filuccio, il verdumaio del quartiere. È un giovane spavaldo, vanesio e invadente, che sa bene il fatto suo e come ottenere quello che vuole. In questo caso vorrebbe in affitto il magazzino di Lorenzo, accanto alla sua bottega, perché vuole impiantare un grande negozio di pri-

180

Cantata dei giorni dispari

mizie. Così circuisce Chiarina perché lei ne parli al fratello. Dopo una serenata napoletana col mandolino le dà anche un bacio « perché il sorriso della .donna da quello dipende: dal primo bacio che vi disegna sopra l’uomo » ® e, secondo lui, questa è la ragione per la quale Chiarina non conosceva il sorriso. Filuccio le toglie pure gli occhiali che la invecchiano, ed effettivamente Chiarina viene presa da un’ilarità sincera e spontanea, frenetica e senza riserve. Dopo che il giovane si è allontanato, si sente però sconvolta. Filuccio l’ha turbata profondamente. Alla fine, per la tensione nervosa scoppia a piangere, coprendosi il volto con le mani. Così la trova Lorenzo che teme altri guai. Invece Chiarina, inaspettatamente docile, accetta di preparargli le camicie e i vestiti che dovrà portare in viaggio. Lo fa intonando il ritornello della canzone che le ha cantato Filuccio. Nel secondo atto sono passati dieci mesi e Chiarina è al quinto mese di gravidanza. In un primo momento cerca di giustificare il suo stato alla vicina Matilde, dando la colpa al diavolo: Tutto parato da successo. un attimo naturale

ha congiurato. Tutto ha coinciso come se fosse stato prequalcuno che aveva interesse a far succedere quello che è La partenza di mio fratello... Donna Mati’, decisa così da all’altro. [...] Vi sembra una cosa normale? E vi sembra

il fatto che Marietta,

la cameriera,

invece

di tornare

da

Caserta dopo due giorni, vi si ferma più di un mese perché la madre non vedeva la via di guarire? ©

Perfino la vicina era stata via per mesi, e così si è trovata sola,

ma poi ammette che il figlio l’ha desiderato anzi l’ha proprio voluto anche nell’incertezza di poterlo far riconoscere dal padre, che naturalmente è Filuccio. Invece il giovane, al quale essa ha rivelato il suo stato solo il giorno prima, è felice pure lui di diventare padre. Chiarina ha avuto paura di dirglielo prima, perché temeva di essere abbandonata. Ora il suo timore è il ritorno improvviso di Lorenzo. Ma viene

Filuccio che la rassicura, dicendo che vuole fare il suo dovere. Anzi

fa venire subito lo zio Gaetano per parlare quanto prima con Lorenzo. Ed ecco Lorenzo, che non dovrebbe sapere niente di quel che è successo, ma che invece è stato edotto di tutto dai pettegolezzi del quartiere. È pronto ad affrontare la situazione con calma, tranquillizzato dalla presenza di Filuccio e dello zio. Il giovane, che si era mostrato sempre spavaldo, ora fa il timido e giustifica così la presenza dello zio. Ha invece un piano ben architettato che dimostra la innata furbizia dei napoletani. Eduardo, fa-

46.

Bene mio e core mio

181

cendovi riferimento, ha detto: « Siccome Napoli l’abbiamo vista con mandolini e chitarre, non sappiamo credere che nel secondo atto si svolga una conversazione sottile, con tante riserve mentali » 7. Lorenzo, ignaro delle macchinazioni di Filuccio, attribuisce alla

serietà delle sue intenzioni la presenza dello zio. Presto dovrà ricredersi su questo e sulla natura dei « dettagli » che il parente del verdumaio gli deve esporre e che lui aveva immaginato riguardassero la cerimonia nuziale. Dunque lo zio Gaetano dice che Filuccio è pronto a sposare Chiarina, e lui proprio perché ama il nipote e di conseguenza Chiarina e pensa al loro bene, deve chiarire dei dettagli: Filuccio non ha beni di fortuna. La bottega è intestata a sua madre, e rappresenta l’unica fonte di guadagno che le lasciò la buonanima di suo marito, mio fratello. Con l’introito di questa bottega, [...] devono vivere mia cognata, Filuccio e il fratello [...] Finché Filuccio vive in casa di sua madre, sapete... dove mangiano due, mangiano tre: tutto va bene. Ma dal momento che si sposa, dal momento che apre famiglia... un figlio già sta per la strada... lui non può pretendere dalla madre più di quello che ha percepito fino adesso. [...] Ma mettendo su famiglia, con tutto quello che segue che fa? Se mòrene ‘e famma tutte ‘e tre? *

È su questa nota patetica ritorna, in ballo il magazzino di Lorenzo, ma questa volta esso viene richiesto insieme all'appartamento soprastante, come regalo di nozze per gli sposi. Filuccio ha ora in mano le carte per una soluzione ancor più vantaggiosa di quella che sperava di ottenere in principio, e cioè di prendere in affitto il

magazzino. Interviene

Chiarina, che sottolinea che Filuccio vuole lavorare. Né vogliono da Lorenzo soldi: « Ma tu non devi sborsare nemmeno una lira. Lore’, core d’ ’a sora toia, te pare ca io te voglio fa’ caccia’ danaro liquido? Ma neanche per sogno »?. E formula la richiesta. Lorenzo rimane allibito e cerca di guadagnare tempo prima di decidere di regalare quello che ha acquistato col proprio lavoro. Lo zio Gaetano è pronto al contrattacco o più precisamente al ricatto: « Sicché, voi vi rifiutate di aiutarli? ». « Ma scusate, voi così volete maritare una sorella? ». Al che Lorenzo ribatte: « Piano, don Gaeta’; vostro nipote non ha ricevuto nessun biglietto d’invito da parte mia. Filuccio, bontà sua, è venuto spontaneamente in casa mia, e si è servito a suo beneplacito, senza aspettare che il padrone di casa gli avesse detto: ‘ Posso offrire? ’ » !°. Il parente di Filuccio non si arrende, anzi prospetta che il nipote

182

Cantata dei giorni dispari

potrebbe cambiare idea sul matrimonio. Ma Filuccio interviene per dire che fra venti giorni si sposeranno. A questo punto Lorenzo cede. Offre in affitto il magazzino. Quanto all'appartamento, promette che se col suo lavoro Filuccio dimostrerà la sua serietà, glielo regalerà assieme al magazzino quando il figlio sarà nato. ù Ora Filuccio, per far vedere ancora di più che non vi è calcolo da parte sua, dice a Lorenzo di intestare, a suo tempo, la proprietà a sua madre, che rimane sola con un figlio scemo, poiché lui ha braccia per lavorare. Lorenzo non ha più dubbi sul conto della buona fede di Filuccio. Ma lo aspetta una sorpresa. Infatti arriva « la vicchiarella », la madre del giovane. Virginia, vecchia non lo è affatto, anzi è giovane e bella: « l’abito e lo scialle nero che indossa non riescono ad appesantire le curve armoniche del suo corpo prosperoso e slanciato » !. È la matrigna di Filuccio. Porta a Chiarina trenta candele che dovrà accendere davanti all’immagine di sant'Agostino, e una borsetta con delle reliquie da portarsi « sulla pancia in direzione della testa del bambino ». Questo per non avere sorprese durante la gravidanza. La tela cala sulla rabbia di Filuccio per questa inattesa visita. Nel terzo atto, il figlio di Chiarina è già nato. Mentre gli sposi stanno facendo il trasloco nella nuova casa, Lorenzo fa delle interessanti scoperte sul rapporto fra Filuccio e la matrigna.

Viene a sapere dall'uomo di fatica di Filuccio che Virginia è ricca di suo e possiede molte proprietà, mentre da Pasqualino, il fratello scemo del cognato, apprende che cosa ha escogitato Filuccio per impedire alla matrigna di sposarsi e poter poi così ereditare i suoi beni. Approfittando della religiosità superstiziosa della donna, Filuccio si è fatto portavoce del padre defunto. Ecco il racconto del fratello scemo sulla ingegnosa trovata: Papà sta al camposanto, ma sta pure dentro a Filuccio. Quando vuole parlare con mammà, Filuccio si addormenta e papà si sveglia... E quando si sveglia parla da dentro alla pancia di Filuccio. Poi, quando ha parlato, papà si addormenta e Filuccio si sveglia. E quando si sveglia non si èwx accorto di niente, e ‘nun sape nemmeno quello che papà ha detto a mammà.

Filuccio in trance ripete sempre lo stesso messaggio del padre: « Se ti mariti, io non esco dalle fiamme del Purgatorio » !°.

46.

Bene

mio

e core

mio

183

Lorenzo a questo punto vuol parlare con Virginia e la fa chiamare con la scusa che il figlio scemo si è tagliato la mano. Dopo che Pasqualino è stato portato al pronto soccorso, Virginia confida a Lorenzo che, da quando suo marito è morto, spesso sta male. Soffre di « soffocazioni, vampori, mancanza di respiro, pesantezza di testa e svenimenti » *. Due o tre volte al giorno scoppia

a piangere senza ragione. I dottori non sanno spiegare la natura del

suo male. Anche adesso comincia a versare lacrimoni. Lorenzo, sapendo quanto Virginia sia suggestionabile, trova il modo di guarirla. Le mette sulle spalle un drappo di broccato a cui attribuisce dei ‘poteri speciali contro le depressioni di cui la donna soffre. L'effetto è immediato. Allora l’uomo la chiede in sposa. Virginia accetta. Lorenzo però non se la sente di approfittare della sua credulità, come Filuccio, e le dice che sia i poteri del drappo, sia i discorsi del figliastro con la voce del padre sono pure invenzioni. Ma la donna preferisce vedere in tutto un segno del destino: Nun ne parlammo cchiù ’ e chesto. Io nun ’o voglio sape’ si Filuccio me mbrugliava o no. Può darsi pure che isso se credeva ’e me mbruglia’; ma che invece mio marito me parlava verainente. Pecché, guarda: se io non ci avessi creduto, le cose potevano andare diversamente... e a quest'ora io e te non parleremmo qua, come stiamo parlando. E a mme me fa tanto piacere ’e parla’ cu te. Tu dici che la storia della stoffa Vhai inventata? E che ne sai? ‘A cosa certa è ca to, cu’ sta stoffa sopr’ ‘e spalle, veramente me sento cchiù

allegra e cchiù felice **.

Dopo che Virginia se n’è andata, Filuccio affronta Lorenzo per sapere se deve pagare o meno l’affitto della casa. Questi, usando la stessa astuzia, gli risponde che sia la casa sia la bottega glieli avrebbe regalati e all'indomani avrebbe intestato la proprietà a Virginia, proprio come lui aveva chiesto. Ma poi aggiunge che Virginia e lui si sposeranno, lasciando di stucco il giovane. Finalmente Lorenzo conclude dicendogli: « Filu’, e mi raccomando: quando qualche volta andrai a trovare mammà, nun ‘o fa’ veni’ cchiù a papà: so’ geluso » !°. La tela cala su Filuccio e Chiarina che si guardano allibiti. Sono stati sconfitti con le loro stesse armi. Eduardo con Bene mio e core mio pare ritornato alla sua Napoli, con contenuti più attinenti alla realtà napoletana e con la ripresa dell’uso del dialetto, che nelle ultime opere aveva molto diluito, adottando per lo più la lingua nazionale. Pur avendo ricevuto le lodi da critici quali Silvio d'Amico per avere

abbandonato « il folclore e la macchietta locale » per maggiori ambizioni

Cantata dei giorni dispari

184

di commediografo !9 e pur avendo messo in scena commedie con intenti più seri, trattando problemi di portata universale quali il rapporto ‘fra gli uomini, oppure sociali soprattutto con la denuncia della decadenza dei valori familiari, l’autore, sentendo che il gran pubblico non era con lui come prima, ha voluto cambiare strada. Eduardo abbandona i discorsi complessi e la vena moralistica per riportare in scena alcuni dei più umoristici e caratteristici « tipi » partenopei. Con Virginia riprende la religiosità mista a superstizione e la fede negli influssi sovrannaturali che abbiamo già visto in Nor ti pago! (vedi p. 105). Con Filuccio mostra la furberia innata dei napoletani che si servono di tutti i mezzi più ingegnosi per migliorare la propria condizione economica. Di Chiarina, infine, fa vedere come attraverso il « bene mio e core mio », che dà il titolo alla commedia, sia possibile pensare solo al proprio tornaconto, nascondendolo molto bene sotto una vernice di puro altruismo. Anche il protagonista è diverso da quello delle commedie precedenti. Lorenzo non è uno dei soliti vinti che, pur essendo nel giusto sono sopraffatti dalla malvagità del prossimo, oppure, se riescono a farsi valere, non sono destinati a un successo duraturo — vedi gli spiriti di Questi fantasmi! (p. 132) che, benché cacciati, si prevede che possano tornare, magari sotto altre sembianze. Qui il protagonista non si fa sopraffare. Adotta le stesse armi di Filuccio e trionfa su tutti, sul cognato furbo e sulla sorella egoista. Ma proprio nel rapporto fra Lorenzo e Chiarina, questa commedia di sapore prettamente napoletano denuncia ancora una volta la labilità dei legami familiari di fronte all’egoismo individuale. Con una sola differenza: che il pensiero profondo di Eduardo non si manifesta più in discorsi prolungati ma con la vivacità dell’azione, e la serietà dell’argomento viene ricoperta con una patina di pura comicità di vena napoletana.

47. De Pretore

Vincenzo

Due parti, 1957. Commedia rappresentata per la prima volta a Roma, il 26 aprile 1957, dalla compagnia di Achille Millo e Valeria Moriconi, per la regia di Luciano Lucignani supervisionata da Eduardo, al Teatro dei Servi. La commedia, in due parti, è divisa in sei quadri, introdotti dalla musica di Renato Rossellini. De Pretore Vincenzo nasce originalmente come poemetto, nel 1948. Riportiamo alcune strofe che saranno poi anche i cardini della commedia: De Pretore Vincenzo s'arrangiava. Campav’ ‘a bona ‘e Dio, comme se dice. Figlio di padre ignoto, senz’ ‘amice,

facev’’o mariuolo pè campà. [...]

47.

De Pretore Vincenzo,

185

Pè na manovra ca fenette nfieto: — nu scippo a na bizzoca, — jett''’a dinto; nemmen'’o pizzo c'’o mustaccio finto chella vota ’o putètteno salvà. [...] Quanno ascette, « S'adda perder’ st nun trovo nu ca me prutegge

Vicienzo ce penzaje: ’'o nomm ‘e De Pretore, Santo prutettore nterra, e in al di là!

E chi sceglio? Chi piglio? » — Finalmente, chillo ca cerca trova, penza e penza: se scigliette nu Santo ‘e conseguenza, ca meglio d’isso ncielo nun ce stà. Pato a Giesù, marito d’’a Madonna, mparentat a Sant'Anna e a San Giacchino: «Si nun me pò pruteggere a puntino, quà San Giuseppe me prutiggiarrà? ». [...] A Piazza Municipio,

na matina,

sfilann’’o portafoglio a nu signore, chisto, cchiù lesto, ferm’ a De Pretore e ‘o ncatasta cu tant'abilità, nfacci ‘a nu camionne;

e nun cuntento

d’averle sbutecato na mascella, ‘o lassa, mette man’ ’a rivultella, e tira, senza scrupolo e piatà. [...]

Miezo stunato... ‘a man’‘e n’infermiere... nu fieto ‘e mmedicina l’afucava. E mentre nu chirurgo s'accustava, De Pretore già steva in al di ld. [...]

«E a chi volete? ». « Voglio a San Giuseppe... ». « Ma siete atteso?... Siete canusciuto? ». « Ma son addirittura

benvoluto,

San Giuseppe m°ha fatto sagli ccà! ». [...] Pò, quanno s'arapette tuttuquanto, vedette a San Giuseppe ca scenneva nu scalone ndurato, e ca diceva: « Ma chistu De Pretore, chi sarrà? ».

E De Pretore, cu na faccia tosta, ‘o jett'incontro, cu na mana

stesa:

« Sò De Pretore, ‘o figlio d’’a Turresa! M'’hanno

sparato na mez'ora fa». [...]

« Sicché, tu sì nu muorto mariuolo?! » « Guernò, mò ca sò muorto, song'onesto. Nu mariuolo vivo, si fa chesto, nun ’o fà pè murì, ma pè campà ». [...]

Cantata dei giorni dispari

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Mò tantu bello, nun facimmo storie, parlate in confidenza co Signore. Dicitele: « Vicienzo De Pretore ll’aggio prutetto, e ’o faccio restà ccà ». [...] Tutta Sacra Famiglia se fermaje, aspettanno ‘a parola d° ‘o Signore. «Va bene, fate entrare a De Pretore...

Almeno, m° ‘o facite interrogà! ». De Pretore trasette. « Vieni avanti. Tu ti chiami Vincenzo? ». « Sissignore ». «E di cognome? ». « Faccio De Pretore ». «Tuo padre? ». « De Pretore fuje mammà ». «Come sarebbe?! ». « Sò di padre ignoto ». « Non capisco. Ma ignoto di che cosa? ». «Che quando sulla terra non si sposa, ‘e figlie nun se ponno dichiarà ».

« Ma i figli sono figli! ». « Niente affatto. Vuje ve credite ca sò tutte eguale; ma ‘e figlie, nterra, si nun sò legale,

campano comme

ponno: c'hann’a fa? ». [...]

«Dove sei nato? ». « Sò Napoletano. Pure pè chesto stevo scumbinato... Pè Napule ogneduno ha studiato, pè vedè comm'avéven’

»

’a nguaid! ». [...]

Nu minuto ‘e silenzio. ‘O Pateterno, cu’ na santa pacienza se susette, e cu’ na voce ferma pò dicette: « Chistu

Napulitano

resta ccà! ». [...]

°E Sante se guardàjeno tutte nfaccia, e ntundjen’’a cchiù bella Pasturale, comma chella che cantano a Natale:

e pè Vicienzo, che felicità! A poco a poco tutto chistu coro, e tutta chesta musica fernette. °E bello De Pretore se sentette

’a stanchezza e ‘o delore d’’o ccampà. [...] N’ata voce dicette: « Con prudenza: tu ti chiami Vincenzo? ». « Sissignore ». «E di cognome? ». « Faccio De Pretore ». «Tuo padre? ». « Ve l'ho detto poco fa ». [....] Credenno ca parlava c' ’o Signore, nzerraje pè sempe ll’uocchie De Pretore.

47.

De Pretore Vincenzo

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Nel primo quadro siamo nella cameretta di Vincenzo De Pretore, dell’ultimo piano d’una casa popolare di Napoli. Dagli oggetti posti sui vari mobili e dal suo vestito si nota la ricercatezza con cui ama vivere. È convinto che presto la sua stanzetta diventerà un grande appartamento, con arredamento principesco. Pensa a migliorarsi perché non crede che esistano ricchi e poveri, ma solo « poveri ricchi e ricchi poveri » 7, e lui si annovera fra i ricchi. Alla portiera che vorrebbe sapere che mestiere fa, risponde che il suo è il più antico del mondo. « È un lavoro cristiano » *. Viene Ninuccia. Rappresenta un elemento nuovo rispetto al poemetto, sia come personaggio, sia come vicenda. È una ragazza nep-

pure ventenne innamorata di Vincenzo. Vuol sapere se il suo amore viene ricambiato e dichiara senza preamboli ‘che si avvelenerà se il giovane non la sposa. Vincenzo, colpito dalla serietà dell’affermazione, sente il bisogno di parlare con altrettanta serietà con Ninuccia, di rivelarle chi è veramente

e perché per il momento

non possono unirsi in matrimonio.

Le confida la sua convinzione di essere figlio di un gran signore, anche se non ha conosciuto i genitori. Fu abbandonato a Melizzano dove una poverissima coppia lo prese in casa e lo allevò. Lui, don Peppino, faceva il falegname e lei, Maria, la lavapiatti. Ambedue lavoravano alle dipendenze del signorotto del paese che viveva in un palazzo. Le spiega pure che non vuole sposarsi finché non potrà offrirle una vita agiata. Non vuole che diventi vecchia prima del tempo come la donna che lo ha allevato. Infatti Ninuccia fa il suo stesso mestiere, lava i piatti e le bottiglie per quattro soldi in un'osteria. Mostra alla ragazza anche un anello. È uno di quelli che si passano da padre in figlio; l’averlo trovato gli sembra una conferma di quello che ha sempre creduto: di avere sangue nobile. Ha fiducia che un giorno diventerà veramente un signore, si farà una posizione.

Finalmente allora si potranno sposare. I suoi sogni vengono interrotti dall’arrivo della polizia che lo arresta per avere rubato un orecchino a una donna. Così si viene a scoprire quale mestiere faccia e come pensi di arricchirsi. Nel secondo quadro, due anni dopo, in un caratteristico vicolo di Napoli, Ninuccia e Vincenzo si rittovano dopo che lui ha scontato la sua pena in prigione. La ragazza gli dice che tutto il tempo che è stato via ha pensato e capito perché le cose non gli vanno bene e non sa trovare una strada. Non ha un santo protettore. Senza un santo « non ti riesce mai niente nella vita ». E porta come esempio della protezione dei santi, gli aiuti che hanno ricevuto lei, suo padre e sua madre. In cambio, sempre secondo Ninuccia, bisogna dare

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Cantata dei giorni dispari

«una candela ogni tanto, un lumino, una lampada a olio. Olio vogliono i santi » ‘. De Pretore è convinto dai ragionamenti della ragazza e sceglie come protettore san Giuseppe, la cui immagine tutta sporca di polvere si trova nel vicolo. Il giovane lo ritiene un santo importante: «E dove lo trovo un protettore più influente di lui? Se mi faccio proteggere da lui, ho quasi tutto il Paradiso dalla parte mia »5. Dopo aver mandato via Ninuccia per potersi « intendere meglio, da uomo a uomo », col santo, si rivolge a lui chiacchierando come se veramente fosse una persona vivente. Fra l’altro gli dice:

La protezione che io vi chiedo consiste in questo fatto... Adesso non vi offendete, io non voglio stabilire « se tu mi dai questo, io ti

do questo e quest'altro »; per carità, posso fare dei patti con

voi?

Voglio anch'io, semplicemente, darvi un segno della mia riconoscenza: voi mi proteggete nel senso che vi dirò io, e io vi rimetto a nuovo interamente! [...] Insomma io non voglio rubare più senza sapere a chi rubo. Qui sulla terra, san Giuseppe mio, e questo tu lo devi sapere, c'è tanta gente che il bene se lo butta per la faccia, che non guarda se spende dieci o mille, che se spende mille, nel momento stesso che le ha spese, non ci pensa più. Allora, mi volete dire, se io tolgo cinquecento a quello che spende mille, quale può essere il male che gli faccio? Io

ho rubato, è vero, ma ho scontato pure due anni di carcere. Ma come ho rubato io? Così senza un orientamento, alla « come succede »,

ma se voi mi fate incontrare sulla mia strada persone come quelle che vi ho detto prima, io posso prendere da loro quello che mi serve senza avere nessuno

scrupolo di coscienza£.

San Giuseppe pare ascoltarlo, perché secondo la richiesta di Vincenzo, passa una turista straniera, con la borsetta aperta, e lui la può derubare tranquillamente del portafoglio.

Nella parte seconda, terzo quadro, gli « affari » del giovane vanno a meraviglia, e così gli « affari » di san Giuseppe, perché De Pretore ha mantenuto la sua promessa, gli ha fatto rinnovare il tabernacolo che è diventato meta di pellegrinaggi ed è sempre ornato di fiori e di candele. De Pretore ormai è talmente certo dell’indiscussa protezione del santo che con « sicurezza spudorata » s’impadronisce della borsa posata per tetra di un impiegato di banca che contiene cinque milioni. Gli sorride, perfino, allontanandosi, ma questi gli spara. Il giovane finisce al pronto soccorso morente.

47.

De Pretore Vincenzo

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Nel suo delirio, che è poi il quarto quadro, gli sembra di essere a Melizzano dove l’hanno cresciuto. Vorrebbe entrare nel palazzo e gli piacerebbe che il signore del luogo fosse suo padre: « Io entro, gli faccio vedere l’anello: se lo riconosce, neanche i carabinieri mi cacciano via da là dentro. Lì si mangia, si beve, si sta bene... »7. Lo raggiunge Ninuccia. È vestita elegantemente, « finalmente come Vincenzo voleva che fosse la sua donna: una vera signora » £. Gli dice però di non vedere né Melizzano, né il palazzo. Allora De Pretore capisce di essere morto e di stare davanti alla porta del paradiso. Trova difficoltà ad entrarci a causa della sua professione, ma spiega a san Giuseppe, che ha le stesse sembianze del falegname che l’ha allevato, che lui era ladro da vivo, ma:

Un uomo

« da morto sono onesto.

vivo non ruba per morire, ma ruba per vivere »?.

San Giuseppe si convince e va dal Signore. Così, nel quinto quadro, siamo nel salone del castello. I vari santi stanno intorno al Signore che indossa un vestito da cacciatore e che ha le sembianze del signore di Melizzano. « La composizione deve ricordare molto da vicino quei gruppi tipici del Presepio » !, dice la didascalia. Lo sposo di Maria — quest’ultima ha l'apparenza della donna che ha cresciuto Vincenzo — intercede presso il Signore per fare entrare il suo protetto. La risposta è: « E tu hai pensato che io avrei consentito che costui mettesse piede in casa mia? Giuseppe: un ladro! Sei svanito, Giuseppe... Sei vecchio » !!. San Giuseppe non si arrende, anzi minaccia di lasciare il paradiso seguito da Maria e da san Gioacchino. Il Signore, dicendo di non cedere al loro atteggiamento, ma per sola curiosità, perché vuole interrogarlo, permette che De Pretore entri.

Vincenzo entra esitante. Nella sua mente avviene una continua e confusa sovrapposizione « fra i personaggi che abitavano il paese della sua infanzia e le figure che, secondo la sua ingenua fantasia, popolano il Paradiso » !. Dalla conversazione fra il giovane e il Signore, si apprende che quest’ultimo, come nella poesia, ignora che sulla terra quelli come De Pretore sono chiamati figli di ignoti e che vi sono delle mamme che per non mettere al mondo questi infelici preferiscono non farli

nascere. Finalmente il Signore chiede a Vincenzo perché ha fatto il ladro. La sua risposta è: « Se avessi avuto un padre che m’avesse mandato a scuola... Non so scrivere... leggo appena... Lei capisce, Signore...

ho fatto il ladro per vivere. E tanti come me finiscono per fare i ladri ». Al che il Signore prende una decisione improvvisa: « De Pretore Vincenzo

rimarrà

in casa mia » !.

190

Cantata dei giorni dispari

Il sesto ed ultimo quadro si svolge in una squallida stanzetta del pronto soccorso. Un medico e due infermieri sono intorno a Vincenzo De Pretore che nel delirio della febbre, smania, vaneggia. Ninuccia sta in un angolo ignorata da tutti. Dopo che gli hanno estratto il proiettile Vincenzo riprende conoscenza, un agente prova ad interrogarlo e gli fa le stesse domande che il Signore gli aveva fatto sulle sue generalità. All’incresciosa domanda: « Tuo padre? », il giovane infastidito risponde: « Ve l’ho detto poco fa. Vi ho confessato tutto ». « Il respiro gli diventa sempre più pesante ». Riesce ancora a dire: « Vi ho detto che sono stato un ladro, e che mi hanno ucciso questa mattina... Ora sono in casa vostra... in questo resto » !, e muore.

Paradiso...

Ho

la vostra

promessa...

e ci

Ninuccia si avvicina al letto, « tocca il lenzuolo, aggiustandolo, poi come parlando a persona viva » dice: « ... E finisce tutto così? Non può finire... È vero, Vincenzo? Io ti aspetterò sempre, lo sai no? » ®. Non sa che fare, né Vincenzo può dirglielo. Chiede agli infermieri se può avere l’anello del giovane. L’infermiere le dice di ritornare dopo gli accertamenti e le chiede chi sia. La ragazza risponde: « Nessuno », « suggellando con una nota di amara constatazione, sociale ed insieme esistenziale — come giustamente rileva Carlo Filosa — il dramma, teneramente fiabesco e crudelmente realistico » 1°. Ninuccia se ne va con la sua disperazione. Nel delirio di Vincenzo, invece, non era disperata, sapeva come comportarsi dopo la morte del giovane che amava. Eduardo ha messo in bocca a questo personaggio la sua filosofia della vita che porta con sé l’accettazione della morte come un fatto naturale. Vincenzo chiedeva alla ragazza di rimanere vergine per amor suo, ma, ora che lui è morto, Ninuccia gli risponde: Per amor tuo se fossi vivo. Il sacrificio l’avrei fatto se tu, da vivo m'avessi abbandonata per un’altra donna. Allora sì, in convento me ne sarei andata... fra le sepolte vive sarei finita. E come avrei potuto vivere sapendoti felice con un’altra donna? La morte invece è un fatto definitivo che ti mette di fronte all’impossibilità di trovare qualsiasi via di mezzo. Tu oramai sei sistemato, e io mi sono messa l’anima in pace. Sei morto: sono tranquilla [...] Troverò uno che

mi sposerà, e finirò pure per volergli bene.

In questa commedia, definita da Giovanni Antonucci, «una fiaba napoletana » !8 dove realismo e surrealismo si integrano, vi è una denuncia di fatti purtroppo dolorosi e reali. La prima denuncia è contro la legislatura, vigente ancora all’epoca della messa in scena di De Pretore Vincenzo, che considerava alcuni cit-

48.

Il figlio di Pulcinella

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tadini di seconda classe e li bollava come figli di N.N. La risposta di Vincenzo alla domanda del Signore che significa figlio di padre ignoto, esprime il pensiero dell’autore: Non lo capisco nemmeno io. È un modo per indicare un figlio avuto da una donna che non sia la propria moglie legale. È uno sbaglio, secondo me. Perché un padre deve esistere per tutti. In nessun campo la parola « ignoto » dovrebbe trovare la sua applicazione. [...] Per questi figli particolari si dovrebbe dire « Figlio di un padre che si è nascosto per non andare in galera ». Il Signore trova la definizione un po’ prolissa, ma De Pretore pronto ribatte:

Lo credo anch'io. Ma non pensa lei che la versione più breve incida un po’ troppo sulla reputazione dei figli, mentre i padri con la scusa della brevità, riescono a conservare la loro illibata e pulita? !9 La seconda denuncia ha per oggetto una situazione peculiare di Napoli. Mostra come la miseria, l’ignoranza e l’abbandono a loro stessi portino tanti ragazzi napoletani a diventare ladri. Questo problema ha sempre assillato Eduardo, tanto da fargli fare il primo intervento al Senato proprio in favore dei ragazzi rinchiusi nell’istituto di rieducazione Filangieri. Non soddisfatto, poi, dalle assicurazioni ricevute, ora sta battendosi per la creazione di un « villaggio dell’artigiano » per togliere gli scugnizzi dalle strade. Là i ragazzi potranno imparare un mestiere che permetterà loro di vivere del proprio lavoro, non di attività criminose come De Pretore. Finalmente nel protagonista della commedia Eduardo ha voluto impersonare — e questo me lo ha detto lui stesso — tutto il popolo napoletano, considerato « figlio di nessuno » da sempre. Popolo che può vantare patenti nobiliari, come Vincenzo crede di avere, ma è abbandonato alla sua sorte da sempre, perché i potenti — il Signore — hanno in ogni tempo ignorato i suoi bisogni. Ecco come una favola, nelle mani di Eduardo, si trasforma in un lavoto impegnato.

48. Il figlio di Pulcinella Tre atti, 1958. Commedia rappresentata per la prima volta, in due tempi con diciotto quadri, il 20 ottobre 1962 dalla compagnia « Il teatro di Eduardo », a Roma, al Teatro Quirino. La versione data alle stampe è in tre atti.

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Cantata dei giorni dispari

L’azione della commedia non si svolge in un luogo solo: si sposta da un posto all’altro o avviene contemporaneamente in più luoghi. Eduardo, per superare le difficoltà che possono sorgere da questa molteplicità di scene e di quadri, si è servito della messa in scena simultanea cara alla Commedia dell'Arte. Adottando questa tecnica, sottolinea la discendenza del Figlio di Pulcinella da questa forma di teatro. Suggerisce perciò di dividere il palcoscenico in tre settori che rappresentano perlopiù tre ambienti della casa del barone de Pecorellis Vofà Vofà. Quello centrale, il più ampio, è il soggiorno con un terrazzo sovrastante. Attraverso un gioco di luci e di ombre i singoli ambienti si trasformano, quando è necessario, in altri luoghi. Nella prima scena, in una caratteristica pizzeria napoletana, assistiamo all’incontro di Renato Fuso, un giovane pittore squattrinato, con Nicola Sapore, un ricchissimo uomo d’affari ultrasessantenne. Il primo ama Mimmina, la figlia del barone de Pecorellis Vofà Vofà, che fino a poco tempo prima lo aveva ricambiato. Il secondo è invece il fidanzato ufficiale della ragazza. Mimmina ha lasciato improvvisamente Renato per il vecchio spasimante; questi si rende conto che è per i suoi soldi che la giovane lo sposa, ma è soddisfatto lo stesso. È abituato a comprare tutto quello che vuole. Ora vorrebbe pagare anche Renato perché si allontani dalla giovane e non interferisca con le sue nozze. In cambio gli offre non solo di aprirgli uno studio, di pagargli i debiti, di comprargli i quadri, ma perfino di chiudere un occhio su una futura relazione con Mimmina a matrimonio avvenuto. A Nicola ora interessa di comprare « la giovinezza della ragazza, l’ingenuità, l’inesperienza ». La risposta di Renato che non riesce a contenere il suo sdegno è: « Schifoso! ». Afferra l’uomo per il collo e lo scuote violentemente. Alludendo poi al fatto che Nicola ha l’esclusiva per l'importazione della benzina in Italia, aggiunge: « Nemmeno la benzina di tutto il mondo riuscirebbe a smacchiare la tua misera anima,

sporca di vizio e di corruzione » !. Il proprietario del locale deve intervenire per liberare l’uomo anziano dalla stretta del giovane. Mentre la scena della pizzeria si dissolve, la luna illumina il terrazzo del barone, dove in una misera baracchetta vive Pulcinella dal lontano 1944, in uno stato di completa trascuratezza. Gli viene dato il minimo indispensabile per restare in vita. Il padrone non vuole sentirsi colpevole della sua fine. Pulcinella è ridotto a un rudere: i capelli bianchi incolti, il capo cinto da un ciancicato e lercio « pan di zucchero », la casacca è un misero cencio sporco e rattoppato. Per rompere la solitudine, discorre con una lucertola che si arrampica sul terrazzo dove sta relegato. Crede che il rettile gli risponda e lo vede come una bella donna alla

quale dà il nome di Catarinella. Ma in realtà la conversazione è fra

48.

Il figlio di Pulcinella

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lui e la sua coscienza. La lucertola glielo dice: « Ma non sono io che ti parlo: sei tu stesso che ti interroghi. Tu mi hai dato una voce e un pensiero » , ma lui persiste nella sua illusione. La prima volta che l’ha vista è stato quando disperato si voleva uccidere. Fu lei che glielo aveva impedito. Da allora parla con lei, sfoga la sua disperazione: Perché mi hanno ridotto così... (Quasi singhiozzando) Quando hanno avuto bisogno di me non mi sono mai rihutato, né tampoco risparmiato: in tempo di carestia, di siccità, di epidemia... peste, colera... in tempo di guerra...

« Come preso da un’idea improvvisa per un attimo tace e rimane in meditazione, poi le chiede ingenuamente »: Overo, Catari’... perché quando i padroni hanno bisogno di me mi chiamano, mi fanno complimenti, cerimonie... tanto che certe volte dico: « Finalmente hanno capito che io sono un uomo, e non una bestia », e poi, da un momento

si è visto si è visto??.

all’altro, si ritirano i ponti e chi

La risposta è ovvia. I padroni sfruttano i servi, i potenti il popolo che Pulcinella impersona. Solo la resistenza e l'immaginazione e la fantasia hanno salvato Pulcinella, pur ridotto a vegetare nell’incertezza e nel dubbio: ormai ha persino perso la nozione del tempo e delle stagioni. Intanto le tre stanze che rappresentano la residenza del barone si illuminano: il padrone di casa è tornato da Positano con la moglie Cecilia e la figlia. È intento ad esporre animatamente la sua ultima idea, la fondazione di un partito, naturalmente monarchico. Nessuna delle due donne è entusiasta dell’idea. Sono convinte che tutto finirà come sempre. Infatti il barone Vofà-Vofà — il cui nome è significativo — ha cercato sempre di fare e strafare per tutta la vita, senza mai riuscire in niente. I suoi affari sono sempre andati male, inutilmente con essi ha sperato di arricchirsi e poter così mantenere il prestigio del suo casato. In più occasioni le grazie della moglie e la sua dote l’hanno salvato dalla rovina. Scopo della vita del barone è sempre stato il denaro: sulla stessa strada sembra essere la figlia Mimmina che ha deciso di sposare Nicola invece dell'amato Renato. La spingono a questo passo il timore della povertà, ma anche il profondo desiderio di poter finalmente disprezzare quei milioni di cui suo padre ha sempre parlato fino a farli diventare per lei un’ossessione: « Me li sento intorno come cose morte, ma che hanno volume, peso e voce. E sai come

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Cantata dei giorni dispari

me li rafiguro? — dice al padre — Come blocchi di marmo. Quando li fisso, le loro venature assumono sembianze umane. Qualche volta dolci e invitanti, qualche altra ostili e minacciose ». Le sembra di avere dei veri colloqui con i blocchi di marmo e di giocarci, come

faceva con i cubi di legno da bambina, a costruire una piramide per « poi distruggerla con un calcio » e « sputarvi addosso » £. Il barone

è inizialmente

contrario

al matrimonio

con

Nicola,

perché ha un debito verso il padre di Renato, un partigiano che l’ha salvato dal plotone di esecuzione durante la guerra. Ma si fa convincere presto dalla moglie che gli ricorda che Nicola Sapore ha promesso di finanziare la sua propaganda elettorale. Questa volta però i soldi non sono sufficienti per il suo nuovo progetto, ha bisogno del « consenso popolare ». Chi meglio potrà procurarglielo se non Pulcinella? Lo chiama, e questi al richiamo della sua voce scatta « come un militare », con un «Pronto padrone » ©.Continua a cadere nel tranello che si ripete perenne-

mente nella storia. Indossa la maschera e scende dal barone. Il padrone promette di rimetterlo a nuovo — ora che gli serve —, di ripulirlo, di fargli tingere i capelli in nero corvino, e s’impegna perfino a dargli metà dei suoi averi. Catarinella, che ha seguito Pulcinella, gli dice di non cedere alle profferte del barone, ma lui accetta lo stesso di aiutarlo. Spera finalmente di poter saziare la sua fame arretrata. Nel secondo atto fervono i preparativi per il matrimonio di Mimmina. La baracca di Pulcinella è sparita, e al suo posto ci sono piante e arredi da giardino in ferro battuto. Pulcinella ripulito e rinnovato aiuta il barone ad abbellire il terrazzo. Viene avvicinato

da Vincenzo, il cameriere aderire al proprio partito. finirà di soffrire, Pulcinella Gioisce anche più quando

comunista del padrone, che vuole farlo Saputo che con il suo assenso il popolo non ha più dubbi e accetta la proposta. Vincenzo gli dice che riceverà a Pasqua e a Natale dei pacchi dono dal partito. Poco dopo è Alfredo, l’autista democristiano del barone, a sollecitare Pulcinella perché firmi la tessera del suo partito. Naturalmente sempre per il bene del popolo. La maschera napoletana acconsente, tanto più che riceverà altri pacchi dono. Ma anche il barone vuole conquistare l’adesione di Pulcinella al proprio partito. Anche lui ha un programma per il bene del popolo. Ancora una volta Pulcinella capitola. Non segue, però, il consueto abbraccio di felicitazione: il suo padrone vuole continuare a mantenere le distanze: « Ma io sono sempre il barone Arrigo Carolis de Pecorellis Vofà Vofà. E tu sei sempre Pulcinella Cetrulo il mio servo » °, e gli ordina di togliersi dai piedi.

48.

Il figlio di Pulcinella

195;

Inutilmente si fa sentire la voce di Catarinella per rimproverare Pulcinella di essere « fesso » e per chiedergli perché non manda il barone all’inferno. La sua risposta è che non può farlo: Perché quando mi fa sentire la fermezza del tono padronale, si risveglia in me l’amore e la tenerezza antica per la livrea vassalesca; mi faccio « il paro e sparo », cioè: calcolo il pro e il contro e mi convinco sempre più che il detto popolare non può mai fallire et quis quiquiriquis, et quis et quiquiriquis... meglio essere coda di

cefalo che capa di sarda’. Sarà il figlio di Pulcinella a spezzare le catene paterne. L’avvocato del barone, che rassomiglia alla maschera Sancarliniana, don Anselmo Tartaglia, ne annuncia l’arrivo dall'America. L'hanno rimandato a Napoli perché ha un carattere impossibile: « è uno scostumato incorreggibile, impudente, spudorato: non ha delicatezza, non si sa tenere niente dentro, quello che pensa lo dice in faccia senza preoccuparsi, e poi la gente si trova nei pasticci per colpa sua »È. Pulcinella dapprima nega di avere un figlio, ma poi su incitamento di Catarinella, deve ammetterlo. « La sua grinta guardinga e sospettosa, ipocrita e opportunista, maligna e vendicativa di cui egli

da tempo immemorabile si vale come naturale mezzo di difesa, si distende e assume lentamente un’espressione tenera e ispirata »?. Si ricorda degli avvenimenti vissuti circa sedici anni prima, avvenimenti che lo terrorizzano e lo fanno gioire insieme. John, il suo figlio segreto, era nato durante la guerra da un cavolo che egli aveva abbracciato con veemenza mentre atterrito dai bombardamenti fuggiva dalla casa che il barone, mettendosi in salvo, gli aveva detto di custodire. Il terrore della morte gli aveva fatto concepire questo figlio in cui voleva continuare a vivere. L'indomani però, la fame arretrata lo aveva spinto a cederlo a un soldato americano in cambio di una scatoletta di carne. Eduardo, per giustificare questa condotta apparentemente snaturata, dopo l’abbraccio del padre col figlio, fa svanire nel buio la scena e riapparire la pizzeria del primo atto. Qui una giovane coppia si sta disperando. La miseria costringe i genitori a rinunciare al proprio unico figlio e a mandarlo in Sicilia presso il padrino, perché soffra di meno e possa avere un avvenire migliore. Nella scena successiva è in atto il matrimonio di Mimmina con Nicola. Durante il ricevimento, lo sposo accusa un malessere e, proprio mentre sta per dare il bacio alla sposa, viene colto da un vero e proprio malore. Lo portano nella stanza accanto dove spira. Il barone non è per niente dispiaciuto. Dice alla moglie: « Lui se n'è andato e pace all’anima sua... ma le sue sostanze restano qua...

196

Cantata dei giorni dispari

Mimmina è ricca » !°. Si sbaglia. Il banchiere di Nicola annuncia il crollo finanziario del suo cliente. I conti bancari vengono bloccati, il barone non può intascare nemmeno l’assegno di trenta milioni che Nicola gli aveva dato per la sua campagna elettorale. Pulcinella, interpretando male gli ordini del barone, ma forse intenzionalmente, dopo aver dato il via all’orchestra che si trova sul terrazzo, fa partire i fuochi d’artificio che dovevano festeggiare il matrimonio. Sbagliare non ha sbagliato: Mimmina attraversa il terrazzo nel suo abito da sposa e raggiunge la soffitta di Renato, l’uomo che non ha mai cessato di amare.

Nel terzo atto si apprende da una lettera indirizzata alla madre che Mimmina vive con Renato a Taormina dove Renato decora un night. Mimmina non solo si è accorta che si può vivere con poco, ma

prova

anche

esperienze

nuove,

mai conosciute

prima,

quando

viveva con la sua balorda famiglia. La più importante è l’esistenza di veri rapporti umani basati sulla solidarietà, specialmente fra i giovani. Afferma inoltre di aver ritrovato i sentimenti della sua infanzia da tanto tempo dimenticati. Sa piangere e ridere. Ha pure scoperto come sia possibile dividere gioie e dolori con l’uomo che si ama. Vorrebbe che anche i suoi genitori conoscessero queste realtà, pur dubitando che per loro sia possibile. I suoi dubbi sono fondati poiché dalle loro risposte apprende che la vita matrimoniale dei suoi è un inferno. Mimmina attribuisce la loro incomunicabilità al fatto che « non riescono a dirsi le cose in faccia belle, chiare chiare come sono » !. Renato invece la imputa « al sistema » di vita della vecchia generazione, che comporta anche la morale delle apparenze e il conformismo. Infatti Cecilia, invece di condividere la gioia della figlia di essere incinta, pensa solo che deve regolarizzare la sua posizione al più presto, perché « bastardelli per casa non ne voglio » !°. Le divergenze di vedute ci sono anche fra Pulcinella e suo figlio. John non ama i compromessi del padre e si rifiuta di indossare il costume che il barone gli ha fatto fare e che, secondo Pulcinella, avrebbe garantito « un pezzo di pane e companatico » 3. Non vuole essere servo anche lui e condannarsi a un così misero avvenire. Pulcinella, approfittando del fatto che il barone non lo porta più con sé ai comizi — l’ultimo glielo ha rovinato facendo vedere le sue mutande rattoppate che malgrado le promesse il barone non ha sostituito — invita tutte le maschere d’Italia per presentare suo figlio. John si rifiuta di rimanere al banchetto: « In mezzo a quella gente non mi ci trovo cu lu piacere mio. Gli amici tuoi che stanno sopra, sono tutti servitori, falsi e bugiardi, come sei falso e bugiardo tu » !*. Nella sicurezza del giovane, l’unica spina è la « mezza faccia

48.

Il figlio di Pulcinella

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nera » ereditata dal padre, che lo rende diverso da tutti. Pulcinella gli spiega l’utilità di quella maschera: Questa macchia nera ca tu tiene nfaccia, la tengo pure io... e me la tengo cara. Si sapisse quante volte questa macchia nun ha fatto capi’ quello ca io veramente vulevo e chello ca penzavo! Solo con questa macchia nfaccia tu puoi fregare a lu padrone più di quello che lui stesso ti volesse dare *.

Il giovane, nato simbolicamente nel corso della guerra che si è rivelata anche distruggitrice di falsi miti, non può accettare questo sistema di vita e si ribella. Pulcinella allora gli rivela il proprio segreto. La maschera si può levare, e lui se la toglie, mostrando così al figlio « il suo vero volto appassionato, dolente e tragico » ‘9, che è il volto di tutti gli oppressi e gli sfruttati. John, come rappresentante dei giovani del popolo, non accetta di ridursi in questo stato di degradazione e preferisce andare incontro a pericoli anche mortali, come Pulcinella premonisce, pur di « campa’ cu la faccia pulita e sincera ». Strappa la maschera e la getta ai piedi = padre. Pieno di allegria e di entusiasmo enuncia il suo programma

i vita: Io nun voglio frega’ a lu padrone, nun voglio campa’ de mbroglie e truffe, voglio guarda’ e voglio essere guardato dint’ all’uocchie e voglio dicere: Chest'è lu tuio e chest'è lu mio. Lu munno m'aspetta papà... m’aspetta, cu la faccia pulita e sincera. Addio, papà. Il Pulcinella che rimane al servizio del barone, obbediente al suo richiamo, diventa un « fantoccio di legno, pezza ’e stoffa » !, perché il suo posto nel mondo viene preso dal figlio che rappresenta il popolo maturo, consapevole dei suoi diritti e dei suoi doveri. Per una volta la tela cala su una nota ottimistica di Eduardo che rivela la sua fiducia nei giovani, che soli possono rimediare agli errori dei padri e creare così un mondo migliore. Eduardo esitò molto prima di mettere in scena Il figlio di Pulcinella. Scritta nel ’58, la fece pubblicare su «Sipario » nel ’60 e dovettero passare altri due anni prima che la rappresentasse. Federico Frascani scrive che l’autore « attendeva che una scossa profonda risvegliasse il pubblico dal suo torpore mettendolo in grado di comprendere l’autentico significato del lavoro »!8. Infatti è una commedia coraggiosa, piena di verità, con un esplicito appello per risolvere i problemi della società. Il figlio di Pulcinella ha come sottotitolo Racconto moderno da una favola antica. Difatti unisce in sé un mondo surreale, quello di Pulcinella, con quello reale degli altri protagonisti. Alcuni critici, come Fer-

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Cantata dei giorni dispari

dinando Virdia, hanno notato che i due piani non

si incontrano !, ma,

a mio avviso, questa divisione è più apparente che reale poiché i due filoni convergono nella comune rivolta dei figli, sia del barone sia di Pulcinella, al mondo dei loro padri, dando così un indirizzo unico all’azione della commedia. Il fulcro dell’opera è nella contrapposizione delle vecchie generazioni di ogni classe sociale a quelle nuove. Ognuno degli strati sociali è personificato da uno o più personaggi della vecchia generazione, al quale si oppone un esponente della nuova. Così ai baroni De Pecorellis si contrappone la loro figlia Mimmina; a Nicola Sapore, il rappresentante della borghesia affarista, il pittore Renato Fuso che crede nel proprio lavoro; a Pulcinella, l'eterno simbolo del popolo napoletano, ma per estensione di tutti i popoli del mondo, il figlio John. Non è la lotta di classe che l’autore auspica, ma una convergenza di ideali che lui vede possibile nei giovani. Certamente traspaiono pure le sue simpatie verso il popolo, e in particolare verso quello napoletano, che da secoli come Pulcinella ha dovuto arrangiarsi per potersi sfamare. L’ignoranza in cui l’hanno costretto a vivere, il suo atavico rispetto dell’autorità, ma forse ancor più la sua eterna fame lo hanno portato ad accettare le briciole dei potenti e a farsi accecare dalla polvere che essi da secoli gli buttano negli occhi. L’aderire di ‘Pulcinella a tre diversi partiti nasconde dietro gli accenti comici la ricerca affannosa di una soluzione ai suoi eterni problemi. Se Eduardo sembra rimproverare questo comportamento, la sua critica è certamente mitigata dalle condizioni in cui il popolo napoletano è costretto a vivere. Il figlio di Pulcinella contiene anche una satira politica legata ai tempi in cui è stata scritta. Vi sono chiare allusioni ai metodi usati dai candidati di Napoli per farsi eleggere: distribuzione di pasta e pomodori, promesse elettorali quali le fontane luminose in tutte le piazze, fondi illimitati per la festa di Piedigrotta, e fuochi artificiali dalla mattina a notte fonda. Mezzi per abbagliare il popolo, che poi rimarrà come Pulcinella privo del necessario malgrado le assicurazioni ricevute. Nella

commedia questa situazione viene esemplificata dalle mitiche mutande che il barone continua a promettere al suo servo ma poi non concede mai, perché tutto sommato, ritiene importante rinnovare solo l’abbigliamento visibile. Infine, Il figlio di Pulcinella vuole essere un esperimento originale di fusione fra la Commedia dell’Arte, con Pulcinella che non risparmia i suoi lazzi e le sue pantomime accompagnate dalla musica, e la tradizionale commedia borghese con alcuni dei suoi consueti temi: l’amore contrastato, il matrimonio d’interesse, il conflitto tra morale delle apparenze e sentimenti autentici. Il tutto nobilitato dalle preoccupazioni umane, sociali e, di conseguenza, anche politiche di Eduardo, che esprime attraverso questa commedia la sua speranza nel rinnovamento della società attraverso i giovani.

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Dolore sotto chiave

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49. Dolore

sotto chiave

Atto unico, 1958. Nato come originale radiofonico, questo atto unico è rappresentato per la prima volta il 3 novembre 1964 dalla compagnia « Il teatro di Eduardo », a Napoli, al Teatro San Ferdinando. Eduardo, sia in questa edizione sia nelle successive, non ha mai interpretato il ruolo del protagonista.

L’azione si svolge nel soggiorno dei fratelli Capasso. La loro descrizione minuziosa nella didascalia rivela la preoccupazione di Eduardo di far conoscere la diversa personalità dei due.

« Lucia ha cinquant'anni, ma ne dimostra quattro o cinque di meno. » « La sua espressione è distesa. » « Non c'è ombra di doppiezza nel suo carattere, e nel suo modo di agire si nota [...] un senso altruistico di carità cristiana spinto fino al sacrificio della propria persona, fino al fanatismo. » Tutto il suo carattere traspare dal suo « sorriso luminoso e rassicurante » !. Rocco, invece, viene presentato come l’opposto della sorella. « Ha quarantacinque anni, ma sembra un uomo sulla sessantina. Cammina a testa bassa come un condannato. » « Parla con tono di voce incolore e rassegnato. » Il suo modo di fare*tradisce il suo stato

d’animo. È « sopraffatto da una fatalità ineluttabile »?.

Da undici mesi Elena, la moglie di Rocco, è inchiodata a letto: è in condizioni talmente gravi che ogni mimima emozione potrebbe ucciderla. Il marito non può nemmeno entrare nella sua stanza. Ogni rumore deve essere evitato, perché secondo il dottore « la scuote »: «un colpo secco insolito, potrebbe essere la fine » ?, uno sprazzo di luce l’ammazzerebbe. In realtà, questo è quanto Lucia fa credere al fratello da quando è tornato dalla Sardegna, dopo un soggiorno di lavoro nell’isola. Elena è morta durante l’assenza di Rocco, ma Lucia non ha avuto il coraggio di rivelarlo al fratello, sapendo quanto fosse attaccato alla moglie. Quando Lucia gli aveva scritto che Elena stava male, la sua risposta era stata: « Se mia moglie muore, mi tiro un colpo di rivoltella » *. Impressionata da queste parole, Lucia ha inscenato la malattia irreversibile di Elena. Questa situazione senza uscita è la causa dell’esasperazione di Rocco. In cuor suo si augura la morte della moglie come una liberazione per entrambi. Ha trovato un’altra donna che gli ha saputo dare un conforto, ma ora anche lei lo sta lasciando. Ha appena ricevuto una sua lettera in cui gli comunica che quel giorno stesso

Cantata dei giorni dispari

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partirà per Londra con un uomo che l’ama. Lo sposerà per poter dare un nome alla creatura che aspetta da Rocco. La notizia scuote Rocco a tal punto che non riesce più a sopportare l’assurdità della propria condizione. Comincia col fare dei rumori e finisce con l’entrare nella stanza in cui crede che sia la moglie, lanciando « un urlo prolungato e bestiale » 3. Inutilmente la sorella supplicante in ginocchio tenta di fermarlo. Rocco scopre così che Elena è morta. Dopo che Lucia gli spiega il perché della messa in scena, la rimprovera e l’accusa di avere commesso un’ingiustizia anche se dettata da altruismo e carità cristiana: Chi sei tu che ti permetti di sostituirti ad una legge di natura comune

a tutti gli uomini,

e che tutti accettiamo,

per istinto, prima

ancora di venire al mondo? Il dolore era mio lo capisci, e lo avrei

sofferto tutto, tutto intero: fino in fondo. Mi sarei disperato, mi sarei strappato i capelli, avrei passato notti intere a piangere... e avrei as-

saporato anche la piccola gioia, se gioia si può chiamare, del conforto

che ti danno gli amici in casi simili. [...] Adesso come faccio a pian-

gere? dimmi tu come faccio? Non me ne sento né la disposizione né la voglia. E l’adoravo, povera Elena! Aveva diritto al mio pianto! Invece l’ho odiata come si odia il debito.

*La sorella ha fatto anche peggio:

l’ha spinto a diventare

un

assassino:

Quando poco fa ho spaccato piatti e bottiglie e ho spalancato la porta, l'ho fatto per ammazzarla. Ho provato l'ansia della premeditazione, il gustò della decisione e la gioia del gesto.

« In preda ad una crisi di coscienza, piegato dal rimorso e dal timore di Dio, Rocco cade in ginocchio » e si rivolge a Elena come « se ancora giacesse in quel letto tra la vita e la morte »: « Perdonami Elena! Soltanto col tuo perdono potrò muovere ancora qualche passo sulla scorza infuocata di questa terra. [...] Come potrò liberarmi di questo rimorso? » ”. Poi prega Dio perché gli risparmi la sua ira, tanto più che la responsabile del suo peccato è veramente la sorella. Pmmediatamente anche Lucia si butta in ginocchio per ritorcere la colpa su Rocco: se ha agito in quel modo è perché credeva che il fratello, sconvolto dalla morte di Elena, potesse veramente compiere una sciocchezza. Rocco, però, le ricorda che nessuno ha il diritto di regolare la vita degli altri: « pure la credulità, quando varca i limiti del lecito, diventa un peccato passibile di pena » ®. E poi ci sono le coniseguenze. Spiega così a Lucia in che situazione si trova con la donna

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Dolore sotto chiave

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che ama e con il figlio che dovrebbe nascergli. Inutilmente tenta di raggiungerla telefonicamente per impedirne la partenza. Al povero Rocco non basta la situazione drammatica in cui si trova, se ne aggiunge un’altra grottesca. I vicini, avendo saputo da Lucia che ha scoperto la verità, ora vengono a « consolarlo ». Queste condoglianze a « scoppio ritardato » lo esasperano ancora di più.

Quello che al momento giusto sarebbe stato un aiuto, un confort o, ora sortisce l’effetto opposto. Infatti caccia via tutti, malgrad o le loro insistenze a trattenersi per rincuorarlo. Solo la telefonata della cameriera della dona che ama gli ridà uno sprazzo di speranza: la padrona fra mezz’ora prenderà l’aereo per Londra. Corre per impedire questa partenza, e dice alla sorella: « Ricordati che se non riesco a fermarla mi tiro un colpo di rivoltella », ma poi, per prevenire le sue « probabili inconsiderate rea-

zioni », aggiunge:

No! Non me lo tiro il colpo di rivoltella! O meglio: non lo so. Come faccio a sapere... Forse penserò: « Ci sono i prati, i tramonti, i cieli stellati... ». Gli alberi mi diranno: « Ci siamo noi! ». Il mare mi farà sentire la sua voce... Dirò a me stesso: «Un'altra donna forse la trovo, un altro figlio lo faccio! ». Non lo so. Ad ogni modo, se deciderò di tirarmi un colpo di rivoltella: non te l'ho detto! Hai capito? Lo leggerai sui giornali’. Cala il sipario su Lucia che in ginocchio, « con infinita fede », implora l’aiuto della Madonna. Quest’atto unico unisce situazioni comiche e drammatiche che poi sfociano nel grottesco e dice chiaramente che il dolore non si può mettere sotto chiave. Sotto le apparenze di un lavoro poco impegnativo che sembra mettere in scena una situazione paradossale, Eduardo ha racchiuso la sua filosofia della vita. Per lui né la vita né la morte sono assurde. Bastano le ultime parole di Rocco per cogliere una visione della vita che accetta con coraggio le gioie e i dolori che essa riserva. La morte stessa va accettata — è sempre il protagonista che lo dice — come la naturale conseguenza della vita. Per Eduardo sono gli uomini a rendere la vita assurda a se stessi o agli altri — in questo caso specifico agli altri — quando vogliono andare contro le leggi che la regolano. Lucia ha voluto sovvertire questo ordine guidata da un amore che ritiene cristiano, ma in realtà non lo è. Il suo altruismo, anche se dettato dalla buona fede, ricorda «la carità pelosa » della famiglia Selciano di Io, l’erede (vedi p. 110), che invece in buona fede non era. Anche i Selciano si sono arrogati il diritto di regolare la vita degli altri, beneficandoli in nome di una carità che chiamavano cristiana. Per questa famiglia come

Cantata dei giorni dispari

202

per Lucia Eduardo reclama una condanna, mentre perdona l’inclinazione di Rocco a fare drammatiche dichiarazioni senza poi prestarvi fede. Questo è lo scotto che si deve pagare per poter vivere nella società: C'è gente che vive osservando le leggi di una società costituita: 0 bere o affogare. E allora? Se beve per non affogare ha il diritto di pigliarsi il buono e il cattivo di quelle leggi. Voglio dire che se da una parte ingota bocconi amari, angherie, tranelli, prepotenze che gli congestionano il fegato, dall'altra deve potersi giovare di una contropartita. Dire una cosa e pensarne un’altra è un vantaggio, è una difesa!%.

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Sabato domenica

1959

e lunedì

Tre atti, 1959. Commedia rappresentata per la prima volta il 6 novembre dalla compagnia «Il teatro di Eduardo », a Roma, al Teatro Quirino.

È sabato. Nell’ampia cucina della famiglia Priore, donna Rosa, la padrona di casa, aiutata dalla cameriera, « sta preparando il rituale ragù » che « dovrà allietare la mensa domenicale dell’indomani » !. Le previsioni però non sono buone. Fra i vari componenti di questa famiglia patriarcale sembra che vi siano incomprensioni, motivi, di urto, litigi.

Le primissime battute fra Peppino, descritto dalla didascalia come «'un uomo

anziano, ma

prestante », « onesto

e- simpatico

commer-

ciante », e la moglie Rosa, rivelano che i loro rapporti non sono dei migliori. Quando Peppino entra in cucina, Rosa non lo degna di uno sguardo né vuole ascoltare i suoi discorsi e le sue lamentele. Il rilievo amaro del protagonista è: « Siamo proprio agli antipodi io e te » 2. Ma poi non risparmia alla moglie il suo sarcasmo. La offende in quello a cui tiene di più, la sua cucina. Non le lascia la soddisfazione di pensare che Roberto, il loro figlio sposato, venga a pranzo l’indomani per mangiare il suo ragù. Le dice che il giovane ha ben altro da pensare che rimpiangere i piatti della madre, tanto più che la moglie cucina bene. Rosa ingoia, e Peppino continua il suo attacco. Non nasconde la sua contrarietà quando la moglie gli dice di aver invitato il ragionier Ianniello e la moglie. Non sopporta le gentilezze di questo vicino nei confronti di Rosa. Vedendo, però, che la moglie, stufa dei suoi discorsi sta per esplodere, cambia tono e argomento. Si lascia andare

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Sabato domenica

e lunedì

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a uno sfogo contro il figlio Rocco che col suo modo di fare gli ha fatto perdere la voglia di continuare a lavorare con l’entusiasmo degli anni passati: I sacrifici li ho fatti quando ne valeva la pena. Da un poco di tempo a questa parte mi sono accorto che a fare il ciuccio di carretta, c'è tutto da perdere e niente da guadagnare. Rocco che per il passato era un aiuto per me... [...] adesso entra in bottega con la puzza sotto il naso. L’interessamento suo si riduce a quei dieci minuti che si siede vicino alla cassa. Si fa portare un caffè, se lo piglia e se ne va. Il negozio per lui è antiquato, i clienti sono provinciali... *. Infatti Rocco col sostegno del nonno sta per aprire un nuovo negozio in tutt’altra zona per avere una clientela migliore. Peppino non approva il suo progetto e, quando il figlio gli chiede di andare a vedere i lavori per dargli qualche consiglio, si rifiuta di farlo. In assenza del padre, Rocco a sua volta lo critica, ma Rosa, che fino a pochi minuti prima mostrava di nutrire rancore per il marito, ora lo difende e proibisce al figlio di parlarne male. Sorge così una lite fra madre e figlio, e Rocco è costretto ad andare via. Rimane con Rosa Federico, il fidanzato di Giulianella, la figlia dei Priore. Le racconta del suo litigio con la ragazza. Giulianella incitata dalla zia Memè, sorella di Peppino, si era presentata alla televisione per fare un provino come annunciatrice. Federico non ne era troppo contento, specialmente perché la fidanzata l’aveva messo davanti al fatto compiuto senza consultarlo. Cerca di spiegare le sue ragioni a Giulianella che nel frattempo è sopraggiunta in

cucina: Io non dico che dopo il matrimonio la mia volontà debba nettamente prevalere sulla tua, ma un giudizio su quello che vuoi fare o non vuoi fare devo avere il diritto di esprimerlo. Con il ragionamento cercheremo il punto di contatto; ma il contraddittorio me lo devi concedere, se no la dittatrice della situazione diventi tu*. La ragazza si impermalisce ancora di più perché il fidanzato le dice di aver saputo da un amico che il provino è andato male. Rompe addirittura il fidanzamento. Tutte queste discussioni esasperano Rosa, già assillata dai suoi problemi col marito; la donna si lascia andare a uno sfogo violento: « Non voglio più combattere con i figli, i parenti, la pazienza ha un limite » 3. Prende e se ne esce sbraitando contro la sua famiglia. Però, quando tutti sono usciti dalla cucina, rientra « mogia, mogia e riaccende la luce. Poi si avvicina al fornello e rimette il tegame con

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Cantata dei giorni dispari

il ragù sul fuoco » 5. Si siede al tavolo a spezzare i maccheroni.

Il

sipario cala sui suoi singhiozzi repressi.

Nel secondo atto siamo nella camera da pranzo dei Priore. È domenica e la tavola è apparecchiata in mezzo alla stanza. Il giorno di festa non ha portato la pace in famiglia. L’aria tesa della vigilia continua ad avvelenare l’ambiente. Ora è la volta dell’anziano padre di Rosa, Antonio, a prendersela con la figlia e il genero. Pare che Rocco, dopo la lite con la madre, non abbia intenzione di venire a tavola. Il nonno, che ha un debole per questo nipote, lo reclama: se non verrà, nemmeno lui si metterà a tavola. Accusa i genitori di trattarlo male: « Quel povero ragazzo si sente oppresso in questa casa. Tu (indica Rosa) lo maltratti perché sei superba e ti credi una Padreterna, e lui (indica Peppino) lo sevizia in malafede » 7. Secondo Antonio, Peppino è geloso del figlio che vuol farsi strada aprendo un nuovo negozio. Il nonno, invece, è contento perché si sente vendicato dal nipote per quel che gli era successo ventisei anni prima, quando Peppino aveva trasformato da un giorno all’altro la sua « Cappelleria Piscopo » in « Piscopo e Priore - Abbigliamentoe cappelli », con la scusa che i cappelli non si vendevano più. Antonio non si è mai rassegnato a questo cambiamento e tuttora non accetta di essere diventato inutile. « Rimette a nuovo », con i vecchi ferri del mestiere che ha continuato a custodire con gelosia, tutti i cappelli che gli capitano a portata di mano, riducendoli a copricapi inservibili. Adesso sogna addirittura di lanciare il « totocappello », adeguandosi così ai tempi e di vendere cappelli legati a una vincita di gettoni d’oro. Peppino è proprio nero. Lo dice pure: « Se non era domenica

e non tenevo i figli me ne andavo a mangiare a Secondigliano » *. L’arrivo degli Ianniello certo non gli migliora l’umore. Dimostra tutta la sua antipatia per il ragioniere che invece è tutto gioviale ed euforico: la domenica gli mette addosso l’allegria. Come spesso succede, il vicino porta un dono a Rosa: questa volta è una cassata

siciliana, perché sa che le piace. Queste premure verso la moglie suscitano in Peppino un sentimento che non può dominare. Infatti poco dopo esplode la sua gelosia. Tutti si mettono a tavola. Chi con le buone, chi con le cattive, tutti si riuniscono intorno al ragù per consumare il rito domenicale. Fioccano i complimenti a Rosa per la squisitezza del piatto, solo Peppino tace. Dopo il « silenzio del ragù », il momento in cui il pasto viene religiosamente degustato, la conversazione riprende. Zia Memè parla del libro che sta scrivendo, dove racconta coraggiosamente la sua

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Sabato domenica

e lunedì

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storia. Ora ha già una certa età, e infatti ha un figlio di trentadu e anni. Ma quando era giovane, già sposata e madre, si era innamorata di un altro uomo. Non aveva esitato a dirlo al marito che aveva compreso: così ha potuto vivere contenta di aver saputo affronta re con onestà la situazione. Proprio questi discorsi sull’onestà dei rapporti fra marito e moglie spingono Peppino a manifestare tutta l’amarezza che sente in cuore: Io per questa donna non esisto più, mi tratta come se fossi un servitore. La mattina quando esco di casa per andare al negozio non se ne accorge nemmeno. Quando torno a casa io la saluto, sì e no mi risponde con la testa voltata dall'altra parte. Una volta era lei che mi preparava la camicia pulita, i pedalini, il fazzoletto... adesso me

la debbo

cercare

io questa roba.

[...] Da quattro

mesi donna

Rosa si è cambiata nei miei confronti. Non mi parla più. Se la interrogo, appena appena risponde. Tutto quello che faccio io è mal fatto, non mi posso muovere che le do fastidio. Insomma un insieme di

cose che mi dicono chiaramente quanto e come navighiamo io e lei in un mare torbido e infetto”,

Finalmente sputa il rospo che tiene in corpo. È convinto che ci sia una tresca fra le moglie e il ragioniere Ianniello. Attribuisce a questo il cambiamento di Rosa, fraintendendo le gentilezze del vicino per lei. La reazione di Rosa alle accuse infamanti del marito, partendo da un tono pacato, raggiunge, attraverso un continuo crescendo, una violenza tale da causare un collasso alla donna, offesa nel più vivo dei suoi sentimenti di moglie e di madre. Dopo che i familiari la portano via, Peppino si rende conto di aver sbagliato, « smaltisce la sua follia schiaffeggiandosi ripetutamente » ! e poi cade in un doloroso avvilimento.

Con il terzo atto siamo all’alba del lunedì. Tutti i componenti della famiglia hanno fatto più o meno nottata per vegliare Rosa febbricitante a causa del suo scatto di nervi. Peppino è sprofondato in una poltrona. Sente una gran stanchezza dovuta al suo abbattimento morale. Non visto dalla figlia Giulianella, ne sente le parole rivolte alla zia Memè: sia lei sia il fratello Rocco si sono sbellicati dalle risa di fronte alla scenata del giorno precedente e alla gelosia del padre, tragicomica considerata l’età dei genitori. Peppino rimprovera la figlia, ma la ragazza rimane convinta che la loro « famiglia è da teatro comico napoletano » !!. Ma poi è proprio lei ad aprire gli occhi al padre e a fargli capire che tutto quello

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Cantata dei giorni dispari

che è successo è dovuto al fatto che sia lui sia la madre non hanno senso della misura e capacità di rispettarsi reciprocamente. La vera causa di tutto, per Giulianella, sta nel fatto che i genitori non sono abbastanza franchi l’uno verso l’altra: State insieme da tanti anni e non avete saputo raggiungere un’in-

timità che vi possa permettere di dire pane al pane e vino al vino, l’uno con l’altra. Quando vi chiudete in camera per delle ore intere... io li conosco i vostri discorsi, perché quando ero piccola mi mettevo

dietro la porta a sentire; adesso non lo faccio più perché mi sono scocciata di sentire sempre le stesse cose:

vi raccontate i sogni che

vi siete fatti, le malattie che vi sentite, [...] pigliate a pretesto un motivo qualunque per litigare e il dito sulla piaga nessuno di voi

due lo vuole mettere ®. È sempre Giuliana a rivelare al padre l’origine dell’insofferenza della madre nei suoi confronti. Un fatto banale, che però per Rosa non era tale. Alcuni mesi prima, Peppino aveva elogiato i maccheroni alla siciliana della nuora e l’aveva invitata a cucinarli a casa loro. Non avrebbe potuto fare un affronto peggiore alla moglie: aveva offeso la sua femminilità e il suo orgoglio di donna. Rosa si era fatta « pianti di morte » !5, riferisce la figlia. Peppino commosso abbraccia la figlia per avergli fatto capire tante cose. Fa chiamare il ragioniere Ianniello e davanti a tutti i membri della sua famiglia gli chiede scusa. Promette poi a Rocco di andare quel giorno stesso a visitare il suo nuovo negozio. Infine, quando Rosa si alza dal letto, rimessa in sesto grazie alle cure amorevoli dei familiari, le si avvicina e tenendole le mani le spiega il perché del suo comportamento. Apre con la moglie un dialogo chiaro come gli aveva consigliato la figlia. Rosa trova pazzesca la « gelosia furibonda » !* di Peppino, come lui stesso la definisce, ma poi ammette di non avergli più preparato come un tempo il cambio della biancheria per un altro sentimento altrettanto assurdo: « il dispetto ». Ambedue però avevano la stessa

radice: l’amore.

E se tu mi domandi perché, io non ti posso rispondere, la ragione può essere insignificante e importante. Non sono bella, non sono giovane, ma so’ femmena pur'io. Io ti posso dire solamente che non ti ho preparata più la camicia per la stessa ragione che te la preparavo

prima: perché te voglio bene Peppi *.

Peppino ora vuole sapere dalla moglie il significato di una frase che lei aveva pronunciato, abbracciando il figlio maggiore, durante

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Sabato

domenica

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e lunedì

il suo sfogo di rabbia del giorno precedente. Rosa aveva detto: « Robe’, io e te siamo vivi per miracolo » !. La moglie gli confessa che questo figlio non era nato prematuro come lei aveva fatto credere a Peppino. Lei era rimasta incinta prima del matrimonio, ma aveva taciuto. Avrebbe preferito ammazzarsi piuttosto che farsi sposare per forza: « E tu mi avresti sposata solo perché avevamo fatto un figlio. E allora in questa casa tu non ti saresti accorto che io non ti preparavo più la camicia pulita, e forse io non te l'avrei mai preparata » !. Alla fine, dopo essersi parlati a cuore aperto, Rosa e Peppino « si guardano lungamente negli occhi e scoprono per la prima volta la vera natura dell'amore che li ha tenuti legati per tanti anni. Hanno insomma finalmente capito — dice la didascalia — il motivo per cui due persone che vivono insieme si tormentano in un’ansia fatta di bene, di male, di dubbi e perfino di disistima e rancori reciproci » a Dopo questo dialogo chiarificatore, come per un miracolo d’amore tornano le forze a Rosa che riprende con energia le redini della casa, ciò che per lei significa manifestare

concretamente

i propri senti-

menti. Non si scorda però di andare a salutare il marito dal balcone quando, dopo tutte le emozioni dei giorni precedenti, va al lavoro. Alla signora Ianniello che affacciata alla finestra esprime la sua gioia per il lieto fine della vicenda, Rosa con orgoglio risponde al» !. lusivamente: « No, signo’, io credo che è cominciato adesso abbiano Priore i come rivelano che parole queste su cala sipario Il il norveramente compreso che la comprensione e il dialogo sono d’amore. legame male sbocco di un sincero Sabato, Eduardo, in una didascalia, rivela qual è per lui il contenuto di » 20. Effettivadomenica e lunedì: « carattere, sentimenti umani, costume un perfetto mente ha saputo svolgere magistralmente questi tre temi in lavoro come equilibrio. I critici sono tutti concordi nel riconoscere questo uno dei migliori di Eduardo. quelli Cominciamo col prendere in considerazione i personaggi. Anche presenza minori come il nonno Antonio 0 la zia Memè sono di grande al mestiere con le loro manie: il primo con il suo morboso attaccamento la vita degli di cappellaio, la seconda con la fissazione di dover dirigere figlio, che ha altri, come fa con Giulianella e più ancora con il proprio materno. amore o eccessiv un di schiacciato sotto il peso drammatica I protagonisti poi, Peppino e Rosa, hanno una intensità commedie altre in come dialogo, il so attraver solo che non si esprime

Mia famiglia, eduardiane che trattano i medesimi temi (per esempio, trapela da ogni gi personag due dei interno o torment il Qui 169). p. (vedi iù che diventa gesto come dai silenzi. Le parole sono quasi un sovrapp alla catarsi finale. necessario per dare corpo allo scontro frontale che porterà abbia voluto È interessante notare come Eduardo ancora una volta , come Giovani adulti. agli occhi gli attribuire ai giovani il ruolo di aprire

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Giulianella, che non meno degli adulti devono affrontare i propri problemi. Non a caso la ragazza, dopo aver rotto con il fidanzato, corre a riappacificarsi dopo aver spiegato al padre il perché della incomprensione che regnava fra lui e la madre. Il chiarimento offerto al padre si dimostra salutare anche per la figlia. La quale, però, dimostra di averlo maturato già prima del matrimonio, e quindi di poter impostare meglio, il proprio rapporto coniugale, fondandolo sulla sincerità e sul dialogo. Eduardo in Sabato, domenica e lunedì ha voluto inneggiare all'amore

autentico, ma nello stesso tempo, attraverso il caso della zia Memè, ha espresso il suo pensiero sulle unioni sbagliate che non hanno ragione di rimanere in piedi, una volta che si sono dimostrate tali. L’ha fatto quando in Italia non c’era ancora il divorzio per risolvere questo problema umano e sociale. L’autore ha rappresentato la famiglia Priore al completo attraverso tre generazioni, con tutti i problemi inerenti ai rapporti fra i suoi componenti, dimostrando come la teoria dei corsi e ricorsi storici sia sostanzialmente applicabile anche al nucleo-base della società. Non sono solo i giovani di oggi a voler essere differenti dai loro padri, perché questi hanno fatto altrettanto ai loro tempi. Rocco agisce nei confronti di Peppino esattamente come questi ha agito nei confronti del suocero Antonio. Solo la memoria degli uomini è corta. Eduardo ha fatto un cenno anche al problema del tempo libero, una realtà dei nostri tempi, mettendo in bocca al ragionier Ianniello questa giustificazione per la condotta di Peppino: Per gente della nostra categoria, [...] le domeniche sono pericolose, [...] Non siamo abituati a stare senza far niente. Il fatto di ieri, per

esempio, non si sarebbe verificato in un giorno mana. Approfondite e vedrete che non mi sbaglio. cedono quasi sempre di domenica. Aspettiamo per giorno di festa, per distendere i nervi, per vivere

qualunque della settiLe cose spiacevoli suctutta la settimana quel quelle ventiquattro ore

beatamente e senza impegni, quando poi arriva ci sentiamo talmente spae-

sati che le preoccupazioni e i grattacapi li cerchiamo con il lanternino ®.

Quando con gran successo Sabato domenica e lunedì fu rappresentata a Londra con Joan Plowright e Laurence Olivier, la critica inglese ha visto proprio nel tema della « invivibilità » del tempo libero il filo conduttore della commedia, invece che nel rituale domenicale del ragù 22, Il che è perfettamente comprensibile in una società il cui costume non prevede il « mito » della famiglia riunita intorno al desco nel giorno di festa. Per concludere non resta da aggiungere che questa commedia intrisa di palpitante umanità, di reale drammaticità, tocca anche i vertici della più alta poesia nella scena del chiarimento fra i due anziani coniugi. Giustamente Eduardo annovera Sabato domenica e lunedì fra le sue commedie preferite. Spiega così la sua predilezione: « In Sabato, domenica e lunedì c'è dentro un fermento contestatario, c'è un’anticipazione dell’avvento del divorzio anche in Italia c'è, una apparente fusione di finti rapporti cordiali in una famiglia in cui convivono i rapprese ntanti di tre

51.

Il sindaco

del Rione Sanità

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generazioni: nonni, figli, nipoti, ma dietro la facciata bonaria si avverte un ammonimento a tutti i coniugi che non vanno d’accordo: spiegatevi, chiaritevi i vostri dubbi, i vostri tormenti. E alla fine della commedia non c'è chi non comprenda che soltanto l’amore può tenere insieme due esseri; non certo il matrimonio, e nemmeno i figli » 33.

Si

Il sindaco del Rione

Sanità

Tre atti, 1960. Commedia rappresentata per la prima volta il 9 dicembre 1960 dalla compagnia «Il teatro di Eduardo », a Roma, al Teatro Quirino. Come era successo in altre commedie, il protagonista del Sindaco del Rione Sanità si ispira a un personaggio veramente vissuto che Eduardo ha conosciuto: « Si chiamava Campolungo. Era un pezzo d’uomo, bruno, che veniva spesso alle mie prime: al Sannazaro, al Politeama. ‘ Volete un caffè ’. ‘ Volentieri ’. Teneva il quartiere in ordine. Venivano da lui a chiedere pareri, su come si dovevano comporre vertenze, nel rione Sanità. E lui andava. Una volta ebbe una lite, con Martino ’U Capraro, e questo gli mangiò il naso »!.

Nel primo atto siamo nel soggiorno della dimora estiva ai piedi del Vesuvio

di Antonio

Barracano,

conosciuto

da tutti

nel

suo

quartiere come il « sindaco » del Rione Sanità. È l’alba. Assistiamo a uno dei tanti interventi chirurgici del dottor Fabio Della Ragione, descritto dalla didascalia come « un uomo sui sessantacinque anni di aspetto piacevole: volto espressivo, occhi furbissimi, carattere freddo, fatalista »?. È coadiuvato dai due figli di Antonio, Geraldina e Gennarino. Il « paziente » è Palummiello che ha una ferita d’arma da fuoco alla gamba infertagli da ’O Nait, che poi l’ha soccorso sentendolo inutilmente invocare aiuto. L’ha portato dal « sindaco » invece che al pronto soccorso per evitare complicazioni con la giustizia. Estratta la pallottola, i due, il ferito e il feritore, chiedono

di ad continua che vertenza loro la risolvere per Antonio vedere don essere aperta. Vengono sistemati nel giardino in attesa che il padrone di casa si svegli. Poco dopo infatti la « potenza » del quartiere Sanità compare sulla soglia. Anche il suo aspetto fisico giustifica pienamente la sua fama:

anni dell’uomo sono invidiabili: I settantacinque tura,

sano,

asciutto,

nerboruto.

La

schiena

inarcata

è alto di stagli conferisce

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Cantata dei giorni dispari

un'andatura regale; il colorito bronzeo della sua pelle darebbe più risalto al bianco vivo degli occhi, se un senso di difesa istintiva non lo costringesse a sorvegliare, più che a guardare intorno

a sé,

appesantendogli le palpebre, come se avesse perennemente sonno; ma nei rari momenti in cui quegli occhi si aprono o si increspano ai lati per sorridere con voluta bonomia si scorge in essi uno sguardo agghiacciante che ricorda molto da vicino quello apparentemente mansueto della belva intristita perché costretta a vivere in cattività ?.

Il dottore scatta in piedi alla vista di don Antonio e lo saluta rispettosamente con un mezzo inchino. Si siede solo a un suo cenno. Lo informa dell’intervento che spera sia l’ultimo perché fra due giorni ha intenzione di partire per l'America. Don Antonio, che ha bisogno della sua collaborazione che dura ormai da trentadue anni, non è del parere di lasciarlo andare. Con minacce meno che velate gli fa capire che all’arrivo lo attenderanno i suoi amici, e non certo per dargli il benvenuto. Il dottore però insiste nel suo proposito, perché secondo lui l’operato suo e di don Antonio, quel voler « metter pace con giustizia » fra gli ignoranti, è un «girare a vuoto » *. Quelli continuano ad ammazzatsi come tanti conigli. Il diverso punto di vista dei due uomini viene illustrato dal seguente dialogo in cui il dottor Fabio « finalmente decide di vuotare il sacco una volta per tutte »:

FABIO

Don Anto’, finalmente ho capito. Ho capito chi siamo io e voi: io un incosciente fesso, e voi un demente. [...]

Siete un pazzo, un illuso. Questo siete. E io sono uno sventurato che a trentadue anni ha avuto la disgrazia d’incontrarvi, di credere in quello che dicevate, di seguirvi, di

aiutarvi, e che ora si trova, a sessantaquattro anni, vecchio,

deluso e rincoglionito; trent'anni rappresentano un uomo, e noi li abbiamo spesi per proteggere di delinquenti che fa vergogna al nostro paese; rischiato la galera, io e voi, non una ma milioni per agevolare una classe di uomini spregevole

che è poi la vera piaga di una società costituita.

la vita di una rete abbiamo di volte, e abietta,

AnTONIO

La vera vittima, volete dire.

FABIO Antonio

Vittima? È naturale. Perché si tratta di gente ignorante, e la società

mette a frutto l'ignoranza di questa gente. Professo’, sui delitti e sui reati che commettono gli ignoranti si muove e vive l’intera macchina mangereccia della società costi-

51.

Il sindaco del Rione Sanità

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tuita. L'ignoranza è un titolo di rendita. Mettetevi un ignorante vicino e campate bene per tutta la vita. Ma l’ignorante ha capito. Ha capito che chi « tiene santi va in Paradiso », e dice: « Se vado in tribunale per appianare questa vertenza, con tutto che ho ragione, può darsi che la parte avversaria o si serve dei ‘santi’ che probabilmente tiene in Paradiso, 0 presenta tre o quattro testimoni falsi... ». I quali si pagano, lo sapete: stanno all’entrata del tribunale stesso: si affittano. [...] Prove non ce ne sono, e se ce ne sono spariscono perché ’e denare teneno e piede, ‘e denare teneno ’e rote e l’ignorante non solo

perde la causa ma si piglia pure quattro querele per diffamazione*.

Nell’interpretazione di don Antonio, il proprio operato diventa un mezzo per evitare che l’ignorante, non fidandosi più dei tribunali, si faccia giustizia da sé. È quel che ha fatto lui da giovane. Picchiato a sangue dal guardiano di una tenuta perché le sue capre, mentre dormiva, avevano sconfinato, non poté ricorrere alla giustizia. Non aveva testimoni. Lo aveva ucciso, accecato dall’alterigia dell’uomo che gli negava in faccia di averlo picchiato. Fuggito in America, era ritornato con una discreta fortuna. Aveva potuto chiedere la revisione del processo che l’aveva condannato in contumacia, e, grazie a otto testimonianze prezzolate, era stato assolto per avere agito per legittima difesa. Questo fatto di sangue ha portato Antonio a diventare il « sindaco » e ad aiutare quelli che si trovano in condizioni analoghe a quella che fu la sua. Non è per disprezzo della legge scritta che ha deciso di difendere l'ignoranza: « La legge è fatta bene, sono gli uomini che si mangiano fra di loro [...] è l’astuzia che si mangia l’ignoranza » 5. L’amministrazione della giustizia viene fuorviata dagli uomini in mala fede. Anche ora che sta in campagna, pur con ritmo ridotto, Antonio Barracano svolge la sua attività: sistema il debito di un falegname nei confronti di un usuraio che si era già fatto strapagare con gli interessi carpiti; mette pace fra Palummiello e ’O Nait, dà ragione a quest’ultimo perché l’altro gli aveva rubato il lavoro mentre era ammalato, ma gli tira lo stesso un solenne ceffone per avere sparato invece di ricorrere subito a lui. Dopo di che si trova davanti a un caso di non facile soluzione: Rafiluccio Santaniello, ridotto in miseria dal padre, è pronto ad ammazzarlo. Arturo Santaniello, un ricco proprietario di due panetterie, non solo l’ha cacciato dal suo negozio, ma dà pure cattive informazioni sul suo conto, impedendogli di trovare un lavoro decoroso

DI

Cantata dei giorni dispari

per sfamare se stesso e la « sua femmena » incinta, la donna che ama teneramente. È il senso di giustizia che spinge il giovane verso il delitto, come era successo a suo tempo anche a don Antonio. Il « sindaco » non si accontenta di sentire una campana sola. Manda a chiamare Arturo Santaniello; al figlio chiede di ritornare dopo un paio di ore. Nel frattempo fa « giustizia » anche nei confronti di uno dei suoi cani da guardia che ha morso sua moglie. I figli vorrebbero ammazzarlo. Saputo però che il cane aveva agito per difendere il pollaio durante la notte, quando imprudentemente la moglie era andata a prendere le uova, gli risparmia la vita. Lo porta al canile municipale per i controlli del caso.

Nel secondo

atto Antonio

riceve il padre di Rafiluccio.

Que-

st'uomo, dallo « sguardo fisso degli ottusi » 7, dietro alla facciata di rispettabilità dell’onesto lavoratore nasconde egoismo ed ipocrisia.

Per fargli capire come il subire un’ingiustizia possa portare al delitto, il « sindaco » gli narra la vicenda che fece di lui un assassino. Porta poi il discorso sul figlio. Arturo non vuole né sentirne parlare né tanto meno aiutarlo. Per fargli capire che ha torto, Antonio parla del rapporto che ha con i figli. La sua convinzione è che «i figli prima si fanno e poi si comprano »*. Per evitare che gli interessi inquinino gli affetti, o che i figli aspettino con ansia la sua morte per l'eredità, quando erano ancora piccoli ha diviso la proprietà in tre parti e ha fatto loro donazione di tutto: « Adesso quando mi chiamano: ‘ Papà”, io e loro sappiamo veramente che significa questa parola » ?. Prova anche a mettere a confronto padre e figlio, ma la situazione peggiora solamente. Allontanatosi Arturo, Antonio cerca di convincere Rafiluccio a desistere dal suo proposito omicida — questa volta si tratta di un parricidio, delitto peggiore del suo. Gli dice che « l’ommo è ommo soltanto quando capisce che deve fare marcia indietro, e la fa » !°. Ma il giovane si dimostra irremovibile. Il « sindaco » decide allora che l’unica cosa da farsi è avvertire il padre delle intenzioni del figlio. Arturo Santaniello non gliene lascia il tempo: appena entra nel suo negozio, lo accoltella. Nel terzo atto, ritroviamo Antonio Barracano, mortalmente ferito, nella sua casa di Napoli. Fedele fino all’ultimo ai suoi ideali,

per evitare che i figli lo vendichino‘apprendendo la verità, organizza una cena d’addio in onore del dottore in partenza per l'America: così potrà avere dei testimoni della sua morte « naturale ». Mentre Antonio dà le sue ultime volontà al dottore, soppottando stoicamente il dolore, arriva Rafiluccio. Dice al « sindaco »

51.

Il sindaco

del Rione Sanità

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di aver ripensato alle parole che gli aveva detto e di aver deciso di essere « ommo »: desisterà dal suo proposito parricida. Antonio, invece di dirgli quel che è realmente successo, gli fa credere che la conversazione col padre ha avuto un esito positivo e gli consegna pure due milioni da parte sua. Andato via Rafiluccio, il prossimo personaggio ad arrivare è il falegname che il « sindaco » aveva liberato dall’usuraio. Don Antonio l’ha convocato perché ha assistito al suo ferimento. Vuol chiedergli di non riferire ad alcuno quello che ha visto. Ma l’uomo, che al mattino aveva voluto baciare le mani e i piedi del suo benefattore per dimostrare la sua riconoscenza, ora nega di essere stato presente. Arturo Santaniello l’ha già messo a tacere, ma per scopi ben diversi da quelli del « sindaco ». Il dottor Della Ragione, il cui cognome è significativo, coglie l’occasione per sottolineare l’inutilità degli sforzi di don Antonio, dettati più dal cuore che dalla ragione. Il « sindaco » anche in quest’ora suprema, davanti alla propria morte, non si arrende e gli ribatte: « Ho ragione io. Un don Antonio Barracano oggi, uno domani, un altro dopo domani... può darsi che i figli dei figli dei figli miei e di questo fetente (indica il falegname) trovano un mondo che gira lo stesso, ma un poco meno rotondo e più quadrato » !. Invita il Giuda traditore alla sua ultima cena perché faccia da testimone, « falso però », della sua morte per collasso. Altro invitato, ma portato a forza, è Arturo Santaniello. Cerca di comprare i due incaricati del « sindaco » perché lo lascino andare, ha già pronto il biglietto per partire per la Svizzera. Insiste di essere un uomo onesto che si faceva i fatti suoi e se la prende col figlio delinquente che l’ha ridotto così. Il dottore gli fa notare che la colpa è solo sua: « È questo il guaio, avete chiuso gli occhi, vi siete otturate le orecchie e avete vissuto come se al mondo ci foste stato voi solo » !. Antonio con grande sforzo si mette a tavola, e avverte di non sentirsi troppo bene, lanciando però una frecciata allusiva al suo feritore: « La natura umana così è. Il nemico sta sempre in agguato:

mentre staie bello e buono ti tira la pugnalata ». Annuncia la sua decisione di ritirarsi a vita privata: « Da questa sera il rione Sanità non dipende più da me ». Sottolinea che è felice che Arturo Santaniello abbia fatto pace col figlio e gli abbia regalato due milioni, che lui ha anticipato e che si fa ridare ora. Conclude con la speranza che « col tempo non vi sarà più bisogno di un Antonio Barracano » ! per spezzare la catena dei delitti e dei reati. Dopo lo sforzo compiuto, « strabuzza gli occhi e reclina il capo »: muore vittima di quegli uomini che ha voluto difendere e salvare, immolandosi, come Cristo duemila anni prima, nella certezza che

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Cantata dei giorni dispari

quello che ha fatto servirà a qualcosa. Il dottore, però, obbedendo alla sua visione razionale del mondo, non è dello stesso parere e si ribella all’ultima volontà del « sindaco »: non stilerà il certificato di morte per collasso cardiaco. Non può accettare che gli uomini in mala fede continuino ad avere la meglio sui giusti. Invita Arturo Santaniello a dire la verità; questi tace e altrettanto fa il falegname che nega di sapere alcunché. Della Ragione si scatena, allora, contro simili vigliacchi: Qua abbiamo preso l'abitudine di mandare continuamente la coscienza in lavanderia. Ma non soltanto noi: tutti senza salvare la faccia di nessuno, dal pezzo grosso fino all'ultima ruota del carro. E io dovrei eseguire scrupolosamente la volontà di don Antonio per salvare chi? Due carogne che hanno paura di dire la verità, due schi-

fosi che preferiscono

la bugia, l’ipocrisia,

la minaccia,

il ricatto...

Il dottore decide di non partire più e di combattere per il trionfo della verità; come primo passo redige un certificato medico che denuncia l’assassinio del « sindaco ». « Usciranno i figli di don Antonio, i parenti di don Arturo, i compari, i comparielli, gli amici, i protettori: una carneficina, una guerra fino alla distruzione totale. Meglio così. Può darsi che da questa distruzione viene fuori un mondo come lo sognava il povero don Antonio, ‘ meno rotondo ma un poco più quadrato’ » !*. Porterà avanti questa lotta a rischio della vita: « Scannatemi, uccidetemi, ma avrò la gioia di scrivere: in fede » in calce a un referto rispondente alla realtà. Su questa drammatica scena finale, nell'edizione televisiva della

commedia del. 1978, Eduardo ha inondato la scena con una luce fuori

campo, che si incrocia col rosso dell’interno, a significare che la vita e la speranza riprendono. Non è la prima volta che ricorre a questa tecnica per esprimere la sua speranza nella disperazione: l’aveva già fatto anche nelle Voci di dentro. Il sindaco del Rione Sanità, per ammissione dello stesso Eduardo, inaugura la terza fase della sua produzione artistica, il periodo in cui le sue speranze si sono affievolite ed egli si sente portato allo scoraggiamento ! senza piombare mai, però, nella disperazione. Non a caso questa commedia, che definisce « simbolica e non realistica » l’ha scritta con intenti positivi. Secondo lui, essa « parte da un personaggio vivo, vero, che affonda le proprie radici nella realtà, ma poi si sgancia da essa e si divinizza, si sublimizza, per dare una precisa indicazione alla giustizia » 16. I critici in generale sono rimasti perplessi nell’analizzare questo lavoro. Hanno visto una dicotomia fra le soluzioni auspicate e praticat e dal « sindaco », che però muore per portarle a termine e quella adottata dal

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Peppino Girella

ZIO)

dottore. Io stessa in un mio libro precedente !" ho notato l’ambigui tà fra le due strade proposte per migliorare il mondo, quella pacifica di don Antonio Barracano e quella « violenta » del dottore Della Ragione. Eduardo, quando ha registrato nel ’78 per la televisione la commedia e poi nel ’79 quando fu effettivamente trasmessa, in due diverse interviste sentì il bisogno di puntualizzare il pensiero insito nel Sindaco del Rione Sanità. Giustizia e verità sono i due grandi temi di questa parabola. La sete di giustizia è impersonata dal « sindaco », mentre la lotta per la verità dal dottore. Sembra dunque che l’autore si sia sdoppiato nei due personaggi, e non abbia fatto una scelta unilaterale. A Michele Prisco, Eduardo specifica che don Antonio *Batracano non è un padrino o il guappo che sembrerebbe essere a prima vista. A questo proposito ricorda che quando portò la commedia a Napoli « il pubblico si identificava con lui, lo scambiava per un ‘ mammasantissima” e non lo voleva morto ». Invece per lui è un personaggio attuale che rappresenta assai bene un momento di crisi e di confusione qual è quello che attraversa la nostra società, insistendo poi nel dire: « Non è forse per la mancanza di giustizia che ci troviamo in questa condizione? » 18, L’autore ha citato poi le lettere di consenso che ha ricevuto da avvocati di tutta Italia a conferma di quanto denuncia nella commedia: « Basta andare al tribunale, a Napoli, per vedere una pletora di ‘ testimoni’ in attesa d’essere chiamati a deporre dietro pagamento...». Ha aggiunto però: « Ma intendiamoci, don Antonio Barracano è napoletano ma può essere tedesco, inglese, francese ». Una via d’uscita all’ingiustizia, però, c'è. Eduardo la indica nella condotta del dottore Della Ragione, l’unico personaggio della commedia che giudica positivo. « Noi possiamo rivalutare le nostre azioni — sottolinea — solo dicendo la verità » !9. E allora non è la disperazione a spingere il dottore ad agire, nel

finale della

commedia,

come

alcuni

hanno

creduto

di vedere 20 mala

rabbia. Eduardo l’ha detto chiaramente a Gerardo Guerrieri 2!: è il dottore a raccogliere l'eredità di don Antonio Barracano, ma in nome della verità e della legalità; continuerà la sua lotta per un mondo che sia «meno rotondo e un poco più quadrato ». E Eduardo, infatti, corona il suo discorso dicendo a Michele Prisco: « Perché malgrado tutto io ho fiducia nell'uomo, anche se devono passare anni, forse secoli, per vederlo più raddrizzato questo nostro mondo » 2.

DE: Peppino Girella Originale televisivo in sei episodi, 1963. Tratto da una novella di Isabella Quarantotti, moglie di Eduardo, fu trasmesso in televisione per la prima volta dal 14 aprile al 19 maggio 1963.

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Cantata dei giorni dispari

Abbiamo incluso Peppino Girella fra le commedie, in quanto Eduardo la considera tale. Infatti, al momento della sua messa in onda dichiarò: « La gente, il pubblico, parlerà certo di romanzo sceneggiato, che è un taglio di spettacolo squisitamente televisivo per il numero di puntate e per l’ampiezza che viene ad assumere il racconto. Per me è stato soltanto come scrivere un lavoro in sei atti, anziché in tre: avere a disposizione una più vasta possibilità di stesura, di approfondimento di situazioni e una gamma naturalmente più ricca di personaggi. Considero l’esperienza molto positiva, proprio perché una volta tanto ho potuto lavorare senza limiti di tempo e di spazio, limiti spesso invalicabili sia a cinema che a teatro » 1. Eduardo cercò per settimane e settimane per le strade di Napoli, nei bar e nei mercatini, lo « scugnizzo » che potesse assumere le sembianze di Peppino Girella. Convocò anche una cinquantina di ragazzi negli studi televisivi di Napoli. «Gli sembravano tutti belli, tutti interessanti, chi per un verso chi per un altro », racconta il regista Stefano de Stefani che affiancò Eduardo nella regia, ma «non c’era quello che egli cercava ad ogni costo e che egli sapeva prima o poi di trovare »2. Finalmente lo trovò proprio in casa nel figlio di una donna che si occupava delle pulizie della sua casa di Positano. Arturo Fusco, nel 1973, dieci anni dopo essere stato Peppino Girella, ricorda così la sua esperienza con Eduardo: « Tutto mi è rimasto impresso nitidamente nella memoria, ma in particolare ricordo, come se si trattasse di una storia vista al cinema e non vissuta da me, i tre mesi di permanenza in casa di Eduardo. Lui voleva studiare me in ogni momento della giornata, ma io allora non lo capivo; avevo la sensazione di essere al centro di qualcosa, ma i contorni mi sfuggivano. Non si parlava mai o quasi. Lui taciturno come sempre, io un bambino di undici anni. Al mattino mi diceva: ‘Studia attentamente la parte, hai capito? ’. A sera, quando ci rivedevamo: ‘Come è andata? Tutto bene? ’. E nulla più. Rispondendo poi alla domanda di Gianni De Chiara, che lo intervistava, se Eduardo aveva mai perso le staffe, il giovane precisa: « Credo una sola volta e non sono neanche sicuro che fosse realmente arrabbiato. Ricordo che stavamo provando ed io sbagliavo a dargli la battuta. Allora, ad un certo punto, il maestro sbotta, ad alta voce: ‘Senti Arturo, ma che cavolo stai dicendo stamattina; vuoi fare l’attore o vuoi fare il bambino? ?. Io rimasi molto male per quello scatto, ricordo, ma poi riuscii a consolarmi pensando ai suoi occhi che sembrava mi sorridessero, mentre con la voce mi rimproverava » 3.

La famiglia Girella, composta dal padre Andrea, dalla madre Jolanda e da Peppino, un ragazzino di undici anni, vive in un basso poveramente ammobiliato. Andrea, che ha lavorato per trentacinque anni come guardiano di una villa di un signore milanese morto improvvisamente per un incidente automobilistico, si è rittovato disoccupato a 49 anni perché cacciato dagli eredi senza nemmeno la liquidazione. Così ora deve arrangiarsi per rimediare qualche lira. Non ha né arte né parte, ma sa fare mille mestieri. Già quando era militare — dice sfogandosi con gli amici disoccupati come lui — gli facevano fare di tutto, dai lavori più pesanti alle missioni più pericolose, ma all'ultimo dei conti, io ero sempre il napoletano che sapeva can-

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Peppino Girella

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tare le canzoni ma che un mestiere definito non lo sapeva fare. Ma allora, dico io, chiudiamo le porte della città, e facciamo un gran teatro, così tutta la popolazione può cantare dalla mattina alla sera. «Che sapete fare? ». « Sappiamo cantare ». « E quale canzone ci fate sentire? ». « La canzone del disoccupato » *.

Jolanda, sua moglie, fa la camiciaia, ma accetta anche di andare a servizio presso le famiglie quando la mandano a chiamare. Lavora dalla mattina alla sera per mandare avanti la famiglia e non risparmia i rimproveri al marito, sempre più avvilito perché non trova lavoro. Peppino, che assiste a queste scenate, soffre sia per il padre sia per la madre. Decide di accettare un posto di garzone che gli viene offerto dalla proprietaria del Bar Stella. Il salario è misero. Ma Peppino è un ragazzo sveglio e dotato di una innata furbizia. Con le mance e col commercio di accendini e sigarette di contrabbando arrotonda così bene il suo stipendio, da diventare lui il maggiore sostegno della famiglia. Suo padre si avvilisce ancora di più a vedere il figlio ancora bambino fare quello che dovrebbe fare lui. Comincia ad avvertire un profondo stato di prostrazione ed un senso di inferiorità nei suoi confronti. La moglie, poi, ora non ha occhi che per il figlio, gli prepara dei pranzi speciali, mentre ignora il marito, maltrattandolo, anzi, quando lui non fa le faccende di casa. Inutilmente Andrea, insieme a Rafele e Matteo, disoccupati cronici come lui, cerca di mettere in piedi un affare bislacco. Vogliono andare a vendere per le piazze un unguento contro le ustioni atomiche nell'eventualità di un nuovo conflitto mondiale. Ma per poterlo fare hanno bisogno di una automobile. Andrea pensa allora di chiedere un prestito al cognato Carmelo Dabbene, farmacista. I tre vanno a Torre del Greco, ma inutilmente; Carmelo non solo non dà loro i quattrini, ma li sfrutta, facendosi mettere a posto il magazzino, e non offre loro nemmeno un boccone da mangiare, mentre lui tranquillamente pranza. Un altro cognato di Andrea, Luigi Paternò, maresciallo della Guardia di Finanza, si comporta differentemente. Cerca di trovargli un posto, ma anche questo tentativo fallisce. Non solo Andrea è troppo anziano per ottenere lavoro, ma non ha nemmeno la patente. Lo sfortunato protagonista si consola con i suoi amici in un’osteria. Uno di essi, Matteo, ubriaco racconta di aver ottenuto la raccomandazione per un posto di guardiano presso una ditta grazie alla moglie che si è rovinata gli occhi per ricamare una tovaglia per la consorte di un deputato. Dovrebbe presentarsi l’indomani, ma non ne ha troppo voglia; ormai si è abituato a fare il disoccupato. Andrea, invece, disperato, pur di poter ottenere un lavoro, ruba la lettera di

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Cantata dei giorni dispari

raccomandazione

all’amico e si presenta al suo posto. Lo assumono,

ma la sua gioia non viene condivisa dalla moglie. Arriva poi il peggio quando Matteo, passata la sbornia, va a presentarsi alla ditta e scopre che l’amico gli ha soffiato il posto. Allora, insieme al ragioniere della società, va a svergognare Andrea in casa sua. Gli dà del ladro davanti alla moglie e al figlio, perché « chi ruba lavoro è come se rubasse denaro » °. Peppino si rende conto della terribile umiliazione subita dal padre. « Nei suoi occhi — dice la didascalia — si legge per la prima volta un vivo senso di solidarietà verso il padre, tale come la potrebbe sentire per qualsiasi uomo che si trovasse in queste condizioni, che questa volta, per puro caso, si trova ad essere suo padre » °. Anche Jolanda si avvicina al marito per consolarlo. È la prima volta, dopo tanto tempo, che mostra un gesto di comprensione verso di lui. « Va buò, che vuò fà, Andrè... è cosa ’e niente... ». Al che Andrea ribatte, come parlando a se stesso: « È cosa ’e niente... pure chesta è cosa ’e niente. Ci manca il necessario?... ‘ È cosa ’e niente’. Nun ce sta che mangià?... ‘ È cosa ’e niente... ’.

Ce levano l’aria: ‘ È cosa ’e niente...’ ». Guarda la moglie e poi fissandola negli occhi aggiunge: « Quando si’ bella... Quant'’eri bella... E guarda a me; guarda che so’ diventato... A furia di dire: ‘ È cosa “e niente...’ siamo addiventate ddue cose ’e niente... ». Le ingiuriose parole di Matteo gli bruciano dentro. « Ladro!... Chi ruba lavoro è come se rubasse denaro... »; ma se onestamente non si può vivere, che deve fare un povero disgraziato? Jolanda scoppia a piangere e Andrea le dice: « E non piangere, che è niente. E se vado in galera, è niente. E se esco pazzo e mi portano al manicomio, e ti domandano: ‘Ma perché ’e asciuto pazzo?...’ tu devi rispondere: ‘ Pe’ niente!...° ». « Peppino si avvicina al padre; gli mette una mano sulla spalla lo scuote dolcemente più volte », ma Andrea, disperato, non vuole la solidarietà dei suoi, esce di casa e alla moglie preoccupata che gli domanda dove vuole andare, risponde: « Di che ti preoccupi?

Qualunque

cosa succede, è cosa

’e niente » 7.

Si rifugia dalla sorella, la moglie del farmacista, che malvolentieri gli permette di dormire nel suo magazzino, su una branda, in

mezzo ai topi.

Luigi, il cognato maresciallo della Finanza, una settimana più tardi viene per convincere Andrea a tornare in famiglia, ma lui non vuole perché ormai il padrone di casa sua è Peppino. La moglie la sera aspetta Peppino non come si aspetta un figlio, ma come un marito che torna dal lavoro. E aggiunge: « Credi a me: chi tiene un posto serve il padrone, ma è padrone a casa sua. Il disoccupato diventa un peso per se stesso e per la famiglia » 5. Luigi approva

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Peppino Girella

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queste riflessioni, ma contesta che siano applicabili alla famiglia del cognato. Alla fine riesce a persuaderlo a tornare a casa. Rivedendosi, Andrea e Jolanda capiscono di volersi bene, ma di non saper esprimere i propri sentimenti a causa della disperata situazione in cui versano. Anche Peppino è felice del ritorno del padre, e per la prima volta Andrea ricambia le manifestazioni di affetto del figlio abbracciandolo e baciandolo ripetutamente. Quando poi il sarto porta il vestito nuovo che Peppino si è fatto fare, pur vedendolo così bello, Andrea non sente più la gelosia che lo rodeva prima, anzi scoppia a piangere, questa volta di gioia, per avere ritrovato la propria famiglia. Peppino riesce ad aiutare il padre. Ha sentito dal direttore della Banca d’Italia, al quale spesso porta il caffè, che deve essere assunto un guardiano per il posteggio e propone con successo il padre. Al quale, però, vuole evitare l'umiliazione di sapere che il posto gliel'ha procurato proprio lui. Chiede al direttore di non farglielo sapere. L’invito a presentarsi in banca, così, ad Andrea arriva tramite un fattorino e sta per andarci, quando viene un poliziotto che lo invita a seguirlo in Questura. Là si ritrova con i suoi due amici disoccupati, Matteo e Rafele, anche loro convocati, e viene a scoprire che suo cognato, il farmacista, li ha denunciati come sospetti di.un furto che ha subito. Il funzionario che li deve interrogare, al solo vedere il loro aspetto miserabile, li vorrebbe mandare in galera, con modi spicciativi. Per fortuna arriva una telefonata da Roma che gli fa cambiare atteggiamento nei loro confronti. La moglie di Matteo ha fatto intervenire il deputato marito della sua cliente. Ora il funzionario è pronto a rilasciarli se il farmacista non firmerà la denuncia. Anzi, gli ricorda quali saranno le conseguenze, se l’accusa si dimostrerà infondata. Impaurito, il cavalier Dabbene, « Dabbene » di nome ma non di fatto, si tira indietro. Ma Andrea lo affronta dicendogli che ha ragione, che la disoccupazione porta a pensare al furto quando tutte le porte ti si chiudono in faccia: « L’aggio pensato pure io... Ma tengo moglie e figlio. Un figlio e una moglie ti tengono così, con le mani attaccate; se no non solo commettevo

il furto ma ti scannavo

pure... »?. E gli molla due sonori ceffoni. Nel frattempo alla Questura sono arrivati amici e parenti dei tre, tutti pronti a garantire per loro, ribadendo la loro onestà. Testimoniano così la solidarietà che unisce questi uomini poveri di mezzi economici, ma ricchi di umanità.

Tutto finisce bene, anzi Andrea e Matteo, che non si parlavano più da quando il primo aveva tentato di rubare il posto all’altro, fanno la pace.

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L’indomani il papà di Peppino potrà infine presentarsi alla banca per il lavoro che otterrà senza alcuna difficoltà per quanto era successo, poiché il figlio ha già chiarito la situazione al direttore. Attorno a questa storia patetica, ma molto realistica, si snodano altre vicende di personaggi legati alla famiglia Girella, in un quadro corale di vita napoletana. S’intrecciano anche amori e passioni. Lo stesso Peppino si innamora di un’indossatrice molto più grande di lui. Inoltre, seguendo il ragazzo nei vari luoghi dove egli porta le consumazioni, si ha anche la visione di un campionario abbastanza vario di tipi umani. Eduardo in questo sceneggiato, o commedia ad ampio respiro, fa delle precise denunce di ordine sociale. Prima di tutto, richiama V’attenzione sul problema del lavoro minorile: ragazzi che ancora dovrebbero stare sui banchi di scuola sono costretti a mantenere o a contribuire al mantenimento della propria famiglia. È una realtà molto diffusa a Napoli. Eduardo stesso lo nota: « Basta girare per questa città, per vedere una folla di Peppini Girella; questi ragazzini in giacca bianca che entrano ovunque, che vedono tutto, che ascoltano i discorsi dei grandi, spesso senza comprenderli e senza che noi ce ne accorgiamo » 9, Altra gravissima piaga sociale denunciata nell’opera è la disoccupazione, anche se nel caso specifico di Andrea Girella è dovuta soprattutto alla mancanza di una formazione professionale e alla difficoltà di trovare lavoro a una certa età, dopo avere perso il posto precedente. La situazione rispecchia quella di molti napoletani che fin da ragazzi hanno dovuto imparare l’arte di arrangiarsi perché l’economia della città non offriva né a tutt'oggi offre, altri sbocchi. La disoccupazione, un grave problema a livello nazionale, a Napoli assume dimensioni catastrofiche. Nel denunciarla, Eduardo rivela ancora una volta il grande amore che nutre per la

propria città e per i suoi abitanti. La denuncia sociale non esaurisce la tematica di Peppino Girella. Serve da pedana di lancio per mettere a nudo una serie di importanti problemi d’ordine umano. La miseria avvilisce l’uomo, gli fa perdere la sua dignità. Ed ecco che assistiamo all’angoscia e al tormento di questo padre, che non solo non è in grado di offrire il sostentamento al proprio figlio, ma deve subire l’umiliazione di essere mantenuto da lui. In questo quadro anche il sentimento più naturale, l’amore paterno viene stravolto e diventa rancore, risentimento, che potrebbe distruggere per sempre il rapporto genitore-figlio. Nel caso di Peppino questo non succede, proprio perché l’autore ha voluto mostratcelo allegro e positivo, sicuro di sé, agli antipodi del padre distrutto dalla forzata inattività, eppure incapace di disprezzarlo. Peppino riesce, anzi, a capirne la sofferenza e a non offenderne ancor di più la dignità. Dimostra così una maturità certo superiore alla propria età. Ma non è solo il rapporto fra Andrea e il figlio ad essere sconvolt o dalla miseria e dalla disoccupazione. Anche quello fra marito e moglie viene messo a dura prova. L’esasperazione di entrambi, pur nascendo da

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presupposti diversi, porta allo stesso risultato, a intaccare i loro sentimenti, ad ergere quasi un muro di incomunicabilità e di freddezza. Alla fine, però, l’amore risulta più forte di ogni avversità. Il vedere a quale punto di disperazione sia giunto Andrea risveglia in Jolanda un senso di solidarietà che frantuma ogni barriera. Il finale, a differenza di altre commedie di Eduardo, è positivo. Vincono i familiari sentimenti più alti, prendono corpo e forza le dimostrazioni di solidarietà collettiva. La struttura dello sceneggiato è piuttosto irregolare, perché si passa da un ambiente all’altro, da una storia all’altra. Il filo conduttore è, però,

sempre mantenuto dalla vicenda patetica, che alle volte rasenta il tragico, della famiglia Girella. Certo, l’azione sul palcoscenico sarebbe stata più concentrata. Disponendo di una forma artistica di più ampio respiro, Eduardo ha potuto dare all’insieme un senso di coralità che porta fedelmente sullo schermo la vita di gran parte della popolazione napoletana, con tutto il suo patrimonio di miseria e nobiltà.

53, Tommaso

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Due tempi, 1963, musiche di Domenico Modugno. Rappresentata per la prima volta l’8 ottobre 1963 sotto forma di commedia musicale, con Modugno nella parte di protagonista, a Roma, al Teatro Sistina. Solo la regia fu di Eduardo. Le fonti principali dell’autore per scrivere questo dramma storico sono state Benedetto Croce, Luigi Capuana e Cesare Caravaglios. Non è stato per lui un compito facile: « Ho sudato freddo nel consultare e raffrontare testi, saggi e documenti storici » 1.

L’azione di questo dramma è articolata in venti quadri, che ne formano i due tempi. La maggior parte delle scene è ambientata in Piazza Mercato a Napoli o in casa di Tommaso d’Amalfi, detto Masaniello, o nel Palazzo Reale.

Il sipario si leva su un quadro corale che rappresenta « Piazza Mercato durante gli ultimi giorni che precedettero lo scoppio della

rivoluzione 1647-1648 ». « È l’ora del mercato » ?. La scena è animata dai venditori, dai passanti: popolani, suonatori ambulanti, scugnizzi, soldati spagnoli e tedeschi, beghine che vanno alla chiesa del Carmine che si trova sul fondo della piazza. Ai piedi della casa di Masaniello, sulla sinistra, vi è una pedana dove si esibiscono dei saltimbanchi. Il commento musicale accompagna « l’agitarsi della folla, l’euforia dell’ora di punta e il folclore locale »®. Si stanno facendo i preparativi per la festa del Carmine, durante la quale due squadre di giovani, i Lazzari, guidati da Masaniello,

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Cantata dei giorni dispari

gli Alarbi, capeggiati da Pione, si disputeranno il « possesso » del Castello. Da lontano giunge il canto di Masaniello « pieno di sentimento di vendetta, di aspirazione

alla libertà, di rivendicazione

dei sacri

diritti del popolo » £. Appare poi il giovane pescivendolo alla testa dei Lazzari, sporchi, laceri e malnutriti, ma pieni di entusiasmo.

Li

schiera di fronte agli Alarbi per fare la prova generale dell’assalto. Masaniello fa scandire ai suoi il grido di battaglia: « Viva il Re di Spagna, mora il mal governo! Senza gabelle! », un grido che, quando arrivano gli sbirri, diventa: « Viva la Madonna del Carmine e il Re di Spagna! » ?. Poi, armate di canne, le due squadre a turno vanno all’assalto del Castello. La festa del Carmine di quell’anno sarebbe stata eccezionale. Lo dice ai pescivendoli Marco Vitale, un giovane di famiglia agiata ma dalle idee rivoluzionarie: « I Lazzari combatteranno, [...] come mai combatterono. Masaniello si farà onore, vedrete. E se non lo

seguirete, se non prenderete parte ai festeggiamenti... significa ca site ‘a munnezza d’’a gente! » £. È un incitamento alla rivolta che capeggerà Masaniello. Il 7 luglio, gli amici di Masaniello concertano in piazza una lite su chi deve pagare le gabelle, il venditore o l’acquirente, per attirare gli sbirri, i soldati e l’Eletto del popolo. Quest'ultimo, invece di difendere gli interessi dei più umili, pensa solo ai propri per arricchirsi. Nasce un tafferuglio in cui i rappresentanti dell’ordine vengono sopraffatti dal popolo guidato da Masaniello. È la prima vittoria del giovane che in un comizio improvvisato arringa la folla, mostrando le mani aperte: « Popolo mio! Io tengo ’e mani pulite » 7. Si oppone in nome della sua purezza alla corruzione del potere che spoglia il popolo. Insieme a Marco Vitale impartisce gli ordini. Gli Alarbi e i Lazzari dovranno recarsi in tutti i quartieri della città per bruciare i caselli delle imposte, le case e i beni dei Gabellieri, salvando solo le immagini sacre e i ritratti del re. Ordina ai suoi di non toccare niente, « altrimenti si potrebbe credere che quello che stanno per compiere sia un atto di banditismo e non un atto di legittima protesta contro la esosità del governo del Viceré » ?. Si uniscono a Masaniello, Perrone, un « guappo » temuto dal popolo napoletano, e padre Genuino, un vecchio sacerdote, rivoluzionario di antica data. Il Viceré, pur scampando per un pelo all’ondata dei rivoluzionari, non prende sul serio la rivolta, convinto che per i napoletani è una forma di divertimento come un’altra. Riconosce che il popolo segue Masaniello, ma pensa di poterlo comprare. Il suo ministro

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Tommaso

d’Amalfi

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Zuffia non è dello stesso parere. Il banchiere Capoccione consiglia al Viceré di consegnare ai rivoltosi il Privilegio di Carlo V, « una pergamena concessa dall'Imperatore al fedele popolo napoletano [...] che limita il numero delle gabelle imponibili » e che specifica che, in caso di violazione della disposizione il popolo napoletano ha « diritto di prendere le armi per difendere i suoi privilegi, senza poter essere accusato di ribellione »?. Per il banchiere « la rivoluzione è frutto degli sbagli di un sistema economico. Gli sbagli si possono eliminare, la rivoluzione no ». Le gabelle, pur ridotte, sarebbero state sufficienti al re di Spagna, ma non « a soddisfare la fame dei commensali che siedono intorno alla mensa imbandita dai gabellieri » !°. Il ministro Zuffia non condivide la sua idea: « Il sistema da noi usato è l’unico per tenere a bada un popolo di natura ambigua, testarda, prepotente e disonesta come quello napoletano. Senza i gabellieri non si riscuoterebbe un solo carlino da questa razza fuorilegge » *. Il Viceré, però, decide di adottare la soluzione suggerita da Capoccione. Siccome la pergamena originale non si trova, ne fa fare una copia. La manda a Masaniello con il duca di Maddaloni, che si professa amico del popolo, e nello stesso tempo fa informare i rivoluzionari che è stato il nobiluomo a falsificare il documento. Spera così di seminare zizzania fra i nobili e il popolo. Il piano sta per riuscire, ma il duca, fatto prigioniero, compra il « guappo » Perrone che non solo lo libera, ma ordina ai suoi sgherri di sparare su Masaniello. Il giovane agitatore rimane illeso. Il popolo vede in questo un miracolo della Madonna del Carmine. Ancor più si stringono attorno al « miracolato », trattandolo « come una reliquia santa: gli baciano le mani, i vestiti e lo sollevano a braccia per portarlo in trionfo » !. Gli sparatori vengono catturati e giustiziati insieme al loro capo Perrone.

Il secondo tempo ha inizio in una sala del Castel Nuovo. Il cardinale Filomarini è dal Viceré per sollecitare il trattato di pace proposto da Masaniello, che chiede: « indulto generale, parità di voto tra popolo e nobiltà e abolizione di ogni gabella imposta dopo Carlo V » !. Il cardinale vuole soprattutto evitare una carneficina: Masaniello ritiene, infatti, che la flotta spagnola che si sta avvicinando a Napoli sia venuta in soccorso al Viceré ed è pronto ad attaccarla; le navi, in realtà, vengono solo a rifornirsi, ma questo Masaniello non lo sa: è dunque necessario che siano fermate prima che entrino nel porto. Il Viceré ancora non riesce a convincersi di non poter comprare

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Cantata dei giorni dispari

Masaniello e chiede al cardinale per quale ragione questo personaggio affascina tanto il popolo. Per il cardinale il punto di forza di Masaniello è nella determinazione a dire la verità: « Questo Masaniello si è guadagnata tanta autorità, rispetto e obbedienza in questi pochi giorni da far tremare tutta la città con i suoi ordini, che vengono eseguiti dai suoi seguaci rigorosamente. Egli ha dimostrato prudenza, giudizio e moderazione non comuni... Insomma, è diventato per la popolazione di Napoli il re più glorioso e capace del mondo » *. Un re che vuole solo il bene del popolo. Quest'ultima affermazione di Filomarini fa pensare al Viceré di avere di fronte un pazzo. Conoscendo le debolezze del popolo, escogita un piano. Invita Masaniello a palazzo ma a condizione che indossi gli abiti che gli manderà. Parlerà «con l’incontaminato, l’immacolato, l’illibato, l’incorruttibile »: Mi piegherò ad ogni suo volere. Gli conferirò ufficialmente quel potere assoluto che già ha saputo conquistarsi con la violenza... Voglio pararlo a festa, a guisa di tacchino natalizio, ricoprirlo di argento e di piume come un Re Mida, come un San Michele... « Ecco il tuo grande capo, popolo ribelle per natura! Non è più un fuorilegge: lo ami ancora? Non è più ricoperto di stracci come lo sei tu. Adoralo in ginocchio adesso, se l’invidia non ti fa schizzare gli occhi fuori dalle orbite... ». « Tengo ’e mane pulite!... ». Te le sporco io! *.

Incarica il cardinale di portare a Masaniello il trattato firmato, insieme al suo invito. Il giovane tribuno ricevendo il documento è fuori di sé dalla gioia e incita il popolo a ringraziare Dio, la Madonna e il cardinale e tutte le autorità compreso il Viceré. Alla vista dell’invito e degli abiti inviatigli, subodora, tuttavia, il tranello. Il cardinale, allora, facendo il gioco del potere civile, fa leva sulla sua autorità religiosa per convincere Masaniello: « Rifiuta pure l'invito, disprezza l’abito di cui il Viceré ha voluto farti omaggio, ma non potrai evitare la scomunica che il pastore del popolo farà

cadere sulla tua testa di pietra » !9. L’alto prelato raggiunge il suo

scopo poiché il giovane, profondamente religioso, pur presentendo la sua prossima fine, davanti alla minaccia della scomunica non ha altra scelta che piegarsi e accettare di andare a palazzo. Il tranello del Viceré funziona secondo i piani prestabiliti: il popolo, vedendo Masaniello vestito d’argento e a cavallo, comincia a mormorare. Scorge in lui un nobile, un rappresentante dei privilegiati. D'altra parte Masaniello stesso conferma questi sospetti col suo comportamento: commette abusi di potere, diventa scontroso e inavvicinabile. Il Viceré naturalmente approfitta di questa situazione per aiz-

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Tommaso

d’Amalfi

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zargli contro il popolo e spargere la voce che è impazzito: dovunque Masaniello vada riecheggia un grido che denuncia la sua follia. Anche i diretti collaboratori del capopopolo, ora Capitano Generale, non sono più d’accordo fra di loro. Padre Genuino, nonostante i suoi trascorsi rivoluzionari, in fondo è un moderato e per di più monarchico. Non sopportando che Marco Vitale spinga Masaniello all’estremismo con le sue idee repubblicane, a tradimento consegna al Viceré il proprio avversario, che viene ucciso. Rimasto solo, Masaniello, perseguitato dal grido che lo chiama pazzo, diventa violento. Lo legano. « Ormai il giovane non si ribella più. L’infelice capopopolo, battuto dall’astuzia del Viceré, si è ridotto a fissare il cielo con gli occhi sbarrati, impotente, sconfitto » !”, dice la didascalia. La moglie lo vuol riportare ad Amalfi, ma, proprio quando ha già consegnato al cardinale il suo atto di rinuncia al potere, gli sbirri del Viceré lo trucidano. Durante i funerali di Tommaso d’Amalfi, di fronte al suo corpo esanime il popolo piange. Troppo tardi capisce di avere perso il proprio liberatore e di essere stato giocato ancora una volta dai propri oppressori. Glielo ricorda «la voce di Masaniello, ancora umana e legata alle passioni umane, ma lontana, stanca » che attraverso uno sfogo lirico rivela l’eterna mala sorte dei napoletani: Lassateme durmi’ n’ati cient’anne, e n’ati ciento ancora... e n’ati mille!

Quante cchiù ne mettite ‘a copp’ ‘a chille, tanta pace me date. Gente! Popolo ’e scarpe rotte e mangia pane, folla d’uocchie arrussute e accatarrate... cheste miserie voste a chi ‘e cuntate? Io songo

morto

acciso, e chi m’ha acciso?

Gente! Popolo muorto ‘e famme e fosse nfaccia, quando strillate forte ’0 nomme mio e sentite presente... ron songh'io, stateve attiente.

Gente! E sento ‘e voce voste lamentose,

voce straziate ‘© mamme e de mugliere... lacreme ‘e sangue dint’ °a li galere... Lu tiempo passa e vola. Gente! Lu siente lu cannone?

Mò non so’ cchiù archibugie,

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Cantata dei giorni dispari

songo mitragliatrice... E la forca se spassa, e lu prievete te benedice. Gente! L’aeroplano lu siente? Gente! La mitraglia va a vento. Gente! Lu tiempo vola e passa. Gente! E la forca se spassa*. Eduardo ha messo in bocca a Masaniello tutta la sua amarezza di napoletano di fronte al destino amaro del popolo della sua città. Non vede salvezza per la sua gente, condannata da sempre a soffrire soprusi, miseria e sfruttamento, e per di più con la benedizione della Chiesa. L’autore, preso dall'amore per la sua città, in Tommaso d’Amalfi ha mostrato un Masaniello migliore di quello che fu veramente, perché ha voluto impersonificare in lui tutto il popolo napoletano, facendo ricadere

tutte le colpe sulle autorità che, secondo lui, hanno sempre approfittato, con l’astuzia o con la forza, della fede e dell’ignoranza dei napoletani. Perfino la pazzia del capopopolo risulta essere, in ultima analisi, l’espressione della rabbia impotente di un popolo che sente di essere beffato. Attraverso il coro poi, che impersona il popolo, l’autore ha voluto mostrare come la mancanza di coscienza di classe abbia contribuito al fallimento della rivolta. Infatti gli entusiasmi iniziali della folla presto si smorzano, per arrivare al tradimento finale di Masaniello nella cattedrale, quando i presenti con lo sguardo rivelano il luogo dove egli si

trova. La colpa però non viene attribuita alla incostanza del popolo. La condanna è rivolta al potere laico, rappresentato dal viceré, coadiuvato da quello religioso nella persona del cardinale. Potere che alimenta l'ignoranza, la superstizione e i pregiudizi, per poter sfruttare e strumentalizzare il popolo a proprio vantaggio. Eduardo nello scrivere Tomzzaso d’Amalfi ha dato prova della sua versatilità di autore teatrale. Ha infatti inquadrato perfettamente la vicenda storica servendosi di spunti e motivi dei più diversi. Nel lavoro confluiscono elementi propri dell’opera buffa, del dramma popolare mapoletano, della Commedia dell’Arte, e perfino il tema shakespeariano del teatro nel teatro nelle rappresentazioni dei saltimbanchi in piazza che mimano gli avvenimenti e rispecchiano gli umori del popolo. Nei venti quadri che compongono l’opera si alternano parti cantate e dialoghi.

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L'Arte della commedia

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S4; L’Arte della commedia Due tempi, 1964. Commedia rappresentata per la prima volta 1’8 gennaio 1965 dalla compagnia «Il teatro di Eduardo », a Napoli, al Teatro San Ferdinando. L’autore ha detto a Mario B. Mignone di avere preso lo spunto per scrivere questa commedia dalla trovata di fondo dei Corzici e l'avvocato di Morulliì, ma in realtà L'Arte della commedia si ricollega direttamente alla «lettera aperta» che Eduardo scrisse nel 1959 all’allora ministro del Turismo e dello Spettacolo Tupini, nella quale manifestò le sue apprensioni per le sorti del teatro in Italia. Non parlò a proprio nome, perché le sue opere erano favorevolmente accolte sia in Italia sia all’estero. « Ma non ci si può sentire paghi di una posizione di privilegio in mezzo alla terra bruciata — scrisse —; nella società moderna le torri d'avorio possono trovare posto solo nei musei ». Abituato 4 fare, denunciò i mali che affliggono il teatro in Italia, attribuendone la responsabilità per lo più alla posizione ambigua dello Stato, all'apparenza sensibile ai. valori dell’arte, ma in realtà « tirannico, che per sembrare mecenatesco e liberale non esita a fare il più largo uso dell’ipocrisia e della corruzione »?. Non pago di aver rotto «il cerchio di silenzio e di omertà — reso più impenetrabile dalla confusione delle idee e dei suggerimenti interessati —»3 scrivendo la lettera a chi doveva e poteva prendere dei provvedimenti, volle far conoscere al grande pubblico la situazione del teatro in Italia attraverso una commedia che lui stesso definì « strana, formalmente e sostanzialmente diversa dalle altre ». Proprio per questa ragione la fece pubblicare senza prefazione, e si rivolse direttamente al lettore perché giudichi con la propria testa, si formi una sua idea del lavoro, e decida da solo se la commedia

è valida o no,

teatrale o non

teatrale

(alcuni l’hanno

ritenuta

una « noiosa conferenza sul teatro »), pericolosa (al punto da meritare una censura televisiva) o no. Voglio farvi solo una raccomandazione: tenete presente che questa commedia non l’ho scritta solamente per la gente di teatro — come alcuni affermano —, ma per tutti noi, giacché i problemi di cui tratta riguardano la nostra vita e quella dei nostri figli*.

« Siamo nel Palazzo della Prefettura di un di provincia. Lo stanzone che vediamo è uno rappresentanza » 5 che il nuovo prefetto, Sua usa per svolgere la sua attività. Lui e il suo pena insediati, non

conoscono

nessuno

qualunque capoluogo degli antichi saloni di Eccellenza De Caro, segretario si sono ap-

e si trovano

praticamente

soli: tutti gli agenti di polizia, tranne uno spaesato piantone, sono accorsi sul luogo di un grave incidente ferroviario verificatosi durante la notte. Il programma del rappresentante governativo pet quel suo primo giorno nella nuova sede è di ricevere le personalità locali. Ma prima che queste arrivino, si fa ricevere per forza il capocomico di una compagnia ambulante, di nome Campese. È un uomo pieno di dignità, di circa cinquantacinque anni. « Veste abiti modestissimi e lisi ma

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Cantata dei giorni dispari

puliti e in ordine. Ha il viso segnato dagli stenti di una vita miserabile, gli occhi però sono dolcissimi e ancora pieni di speranze » £. Il prefetto, che da giovane ha recitato in una compagnia di dilettanti, sente simpatia per gli attori che definisce « degli uomini originali, stravaganti, un poco matti, ma brava gente... se ti fanno perdere del tempo in compenso guadagni un poco di buon umore » 7. Accetta perciò di vedere Campese, che vorrebbe esporgli il suo pro-

blema, ma il discorso scivola sulla crisi del teatro in Italia.

Secondo De Caro la ragione della crisi è che « un vero scrittore di teatro non esiste più. Il problema centrale, il messaggio, la denunzia... cosa c'entra tutto questo con uno spettacolo teatrale? ». Lo spettatore va a teatro « per disimpegnarsi dalle preoccupazioni di carattere privato e professionale, non per impegnarsi in un mare di simbolismi, allegorie, che alla fine ti danno solamente una soluzione ambigua della ‘ cosa scura ’, posta al centro del componimento. Si capisce che la gente non va a teatro » 8. Sottolinea poi che lo Stato sovvenziona gli spettacoli, offre premi, contributi, « c'è un Ministero apposta ». Vuol sapere infine l’opinione di Campese. Il capocomico, figlio d’arte, come tutti i membri della sua compagnia, puntualizza che il problema della natura dei testi teatrali lo riguarda soltanto di riflesso. Ciò non toglie che ha delle riserve sulla situazione del teatro, che gli vengono suggerite da un naturale senso critico. Dopo questa premessa, espone le sue idee che sono le stesse che Eduardo ha espresso nella « lettera aperta » al ministro:

Ritengo soltanto che il teatro si dibatte in un clima di assoluta confusione, la quale determina nel pubblico quel tale disorienta-

mento che viene poi interpretato, non sappiamo se in buona o in mala fede, come crisi teatrale. [...] Una vera crisi teatrale non ren-

derebbe

niente a nessuno,

mentre

la « confusione » fatta passare per

crisi teatrale diventa una cartella di rendita nelle mani dei confusionari. [...] Il Governo si fa in quattro per sollevare le sorti del teatro, ma gli uomini responsabili cui è demandato il compito, si sono sempre fermati ai margini del problema, non lo hanno mai affrontato fino alle radici. Le cose fatte a metà non banno mai dato buoni risultati”.

La discussione prosegue su argomenti più particolari: la funzione dell’attore nella società e la situazione dell’autore teatrale. Campese lamenta la crisi d’identità dell’attore: « l'attore svolge una attività utile al suo paese o no? » !°. Da bambino aveva scoperto che, nel sillabario, fra le arti e i mestieri, quello dell’att ore non c’era;

più tardi si era reso conto che non esisteva un albo profess ionale

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L’Arte della commedia

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pet la sua categoria. Rispondendo all’obiezione del prefetto che afferma che l’attore non è un escluso perché il governo sovvenziona l'Accademia d’arte drammatica, il capocomico afferma che il diploma conseguito perde valore senza l’iscrizione a un albo e che, per questa via, si creano solo degli sbandati. De Caro per tutta risposta esprime i pregiudizi tradizionali sugli attori: Il teatro è affascinante appunto per la possibilità che ha di offrire all’attore una vita spensierata, libera della tirannia dell'impiego monotono, assente da qualsiasi responsabilità e dovere cui si va incontro quando il proprio nome viene registrato in un Albo professionale. [...] Gli attori sono ribelli per natura, indipendenti, refrattari a qualunque forma di disciplina che li volesse inquadrare in un

determinato settore !, Secondo il prefetto la vera ragione della crisi del teatro è da attribuire alla carestia di opere di pregio. Campese ha una giustificazione a questo: « Eccellenza, secondo me l’autore ha paura di scrivere, e i Governi hanno paura di quello che può dire un autore quando scrive ». La ragione la fa risalire alla confusione menzionata prima, che impedisce agli autori di esprimere quello che vorrebbero fino all’autocensura nei propri confronti. Questo perché « il teatro deve essere lo specchio della vita umana, riproduzione esatta del costume e immagine palpitante di verità; di una verità che abbia dentro pure qualcosa di profetico » !. Aiutare il teatto — prosegue il capocomico, esprimendo sempre le idee di Eduardo — vuol dire dargli

vita stabile e libertà di esprimersi all'altezza culturale della platea di oggi, ma non tenerlo d’occhio come fanno le bambinaie nei confronti di un bambino deficiente. Il pubblico è maturo, vuole il suo autore, quello che gli racconta i fatti di casa sua, e che gli fa riconoscere se stesso fra i personaggi della commedia. L’autore riconosciuto per tale, entra dalla porta del palcoscenico ed esce insieme al

pubblico a braccetto, da quella della platea".

Il prefetto pur ammettendo che la conversazione l’ha interessato, comincia ad averne abbastanza e chiede al capocomico qual è la vera ragione della sua visita. Campese gli dice che vorrebbe invitarlo a vedere il suo prossimo spettacolo: Occhio al buco della serratura, che tratta di « quindici casi insoliti che al finale della rappresentazione danno al pubblico l'impressione di avere sorpreso l'intimità di quindici famiglie mettendo l’occhio al ‘Buco della ser-

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Cantata dei giorni dispari

ratura’ per quindici volte » !. Sono tutte storie « vere, casi crudeli, tragici, grotteschi, accaduti sul serio » , che la compagnia ha raccolto e annotato durante le sue peregrinazioni. La presenza del prefetto alla rappresentazione incoraggerebbe la gente a venire, poiché da quando il fuoco ha distrutto il « Capannone »* di Campese e le recite si danno al teatro comunale, gli spettatori non sono numerosi come prima. I signori non vengono perché non ritengono

gli spettacoli alla loro altezza e il popolo ha soggezione di quel luogo che normalmente non frequenta. De Caro rifiuta: « Ho delle responsabilità, ho da pensare a fatti seri, che riguardano il mio ufficio; non ho tempo per assistere alle sue... sì... alle sue rappresentazioni », che un po’ più in là definisce « buffonate » ‘9, Anche lui, come lo Stato, pare non prendere sul serio la funzione del teatro e si limita ad offrire un aiuto, un sussidio, e non un vero appoggio. Nella fattispecie, il prefetto dà un foglio di via che

consentirà a Campese e alla sua compagnia di viaggiare gratuitamente per raggiungere un’altra compagnia in Romagna, con la quale

lavorare insieme. Glielo fa consegnare dal segretario perché, stanco dei discorsi del capocomico, è unicamente desideroso di cacciarlo via. Campese si accorge che per errore gli è stato dato l’elenco delle persone che hanno chiesto udienza al prefetto. Di conseguenza, prima di partire fa una mezza minaccia al funzionario: se invece dei

personaggi attesi si fossero presentati i suoi attori travestiti, De Caro non avrebbe potuto riconoscerli né distinguere nelle loro pa-

role il vero dalla finzione. Conclude poi dicendo che, qualora si fosse deciso a realizzare la minaccia, lo avrebbe fatto « allo scopo di stabilire se il teatro svolge una funzione utile al proprio paese o no »: così i suoi personaggi non sarebbero stati in « cerca di autore », « ma in cerca di autorità » ”, perché quest’ultima porti rimedio dove ve ne è necessità.

Dopo due ore o tre ore, nella seconda parte, il prefetto e il

segretario attendono i personaggi preannunciati. Sanno ormai che Campese ha la lista e quindi cercano di ideare il modo per scoprire

se i visitatori sono gli attori della sua compania o no. Il primo a presentarsi è il medico condotto del Comune di Aceto. Il suo problema è molto simile a quello degli attori: la mancanza di riconoscimento del lavoro compiuto con grandi sacrifici e per onorari ridicoli. Anche lui lotta per la propria dignità professionale. Dice infatti al prefetto: « Non per vanità, Eccellenza, avanzo la pretesa, ma per inquadrare la figura del medico, nei confront i dell’opinione pubblica, in una luce di autentica dignità professionale » !8. La situazione è piuttosto grottesca, ma non per questo irreale.

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L'Arte della commedia

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Chiede aiuto per combattere « la concorrenza sleale » di un’immagine sacra — un Cristo — a cui vengono attrib uite le guarigioni che lui opera scientificamente, mentre i suoi insuccessi sono attribuiti ad incompetenza. Racconta poi un caso specifico che per l’appunto è sfociato in tragedia. Colpisce nella sua espressione il lingua ggio e la situazione che sono prettamente teatrali, eppure si applicano alla vita: Una bambina di cinque anni mi è morta fra le braccia ... mi chiamarono tardi: difterite! Non c'era più niente da fare. Operai con un temperino sterilizzato in fretta. [...] Avevo spaccato la gola di un cadaverino. Il sipario si chiuse prima del previsto e troppo

bruscamente !,

Ed ecco che la gente: Tutti seduti, fermi come paralizzati ein silenzio. Poi cominc ia rono quelli in piedi [...] col guardarsi in faccia e a chieder si: « Ma è finita? ». «È già finita? ». « Ma no! ». «Ma sì! ». « Se finita ». E allora urli bestiali: « Buffone », « Pagliaccio! », « Pagliaccio tu e tutti i tuoi colleghi! », « Recitate la parte a memori a, 74 siete degli assassini! » ®. Sembra il finale di una rappresentazione non gradita al pubblico, ma per il dottore non era finita qui. I parenti della piccola lo avevano raggiunto a casa dove si era rifugiato, e alcuni paesani « si misero a fischiare » sotto la sua finestra. Il medico si era affacciato e aveva ricordato alla gente tutte le guarigioni che aveva operato, remunerate con le misere trecento lire dalla cassa mutua, e, quindi, avvilito e distrutto, aveva sbattuto la finestra così forte da romperla. Ed ecco «il secondo finale » della vicenda: Lo spettacolo fragoroso scoppiò tro cinque volte, mi fece piangere

era finito. Un attimo di silenzio e poi un applauso unanime: « Bravo! », « Bene! ». Ringraziai quatma come in sogno. L'entusiasmo di quella gente per tutta la notte”.

Il prefetto durante tutto il racconto del dottore lancia frecciate che, interpretando i fatti come parte di una rappresentazione, denunciano la sua convinzione di avere di fronte un attore e non un vero medico. Chiede poi al visitatore se vuole che gli ex-voto dedicati al miracoloso Cristo siano trasferiti davanti alla sua abitazione. Il medico, che conosce la religiosità dei propri paesani, rifiuta questa soluzione. Chiede invece di poter appendere intorno al portone di-

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Cantata dei giorni dispari

chiarazioni, lettere, e telegrammi, debitamente incorniciati, che ha ricevuto da coloro che ha guarito. Il prefetto gli concede l’autorizzazione, ma mentre il medico sta uscendo lo apostrofa con le parole: « Istrione, buffone! » ??. Il visitatore successivo è padre Salviati, un sacerdote che ha l’aspetto del classico parroco di montagna. Il suo modo di fare è talmente rispondente al cliché che il prefetto si convince che si tratta di un falso prete, quindi un attore. Il sacerdote espone una vicenda che ha cercato di risolvere come uomo di Chiesa, ma richiede ora l’intervento delle autorità perché lui non può andare oltre. Una giovane, rimasta incinta di un uomo sposato, ha minacciato di partorire in chiesa per protesta. Il padre della sua creatura è stato lasciato libero dalla moglie di convivere con la ragazza, perché anche lei vorrebbe rifarsi la vita con un altro uomo. Ma alla ragazza non basta questa soluzione. Inutilmente padre Salviati le ha offerto di sistemare il bambino in un istituto di beneficenza, la giovane vuole suscitare uno scandalo per sollevare l’opinione pubblica in favore del divorzio. Il parroco, per quanto stanco di fare «il fabbro » e di incatenare mariti e mogli quando celebra matrimoni, non può aiutarla, vuole evitare lo scandalo, e perciò si rivolge al prefetto. De Caro non lo prende sul serio. Ma presto dovrà occuparsi di un altro caso, quello della maestrina di montagna che crede di avere ammazzato involontariamente un bambino. Da cinque anni, insegna in un ambiente che era servito da stazione della Finanza ed inutilmente si è rivolta al Comune per ottenere una sede meno disagiata. Il freddo che si soffre nell’edificio è tale che i bambini non riescono a trattenere i loro bisogni. La maestra ne aveva punito uno rinchiudendolo in uno stanzino dove, secondo lei, sarebbe morto di freddo. I genitori, venuti anche loro, dicono che il bambino è vivo, ma la maestrina è convinta che c’è stato uno scambio di bambini. La discussione è interrotta dal segretario del prefetto. Ha ricevuto un farmacista perché De Caro era occupato, e quello dopo avergli esposto il suo caso si è avvelenato in sua presenza. L’uomo aveva ereditato la farmacia del paese dal padre, che a sua volta l’aveva avuta dal nonno, ma, non avendo la laurea, gli avevano tolto la licenza. Ora la laurea ce l’ha, ma la farmacia è stata assegnata a un altro: inutilmente si è battuto per riaverla. Il segretario non è convinto che il farmacista si sia ammazzato veramente, perché ha raccolto da terra una delle presunte pasticche di veleno, ed è una mentina. Pensa che sia uno degli attori di Campese. Il farmacista, però, barcollando, viene a morire in scena. I presenti, compreso padre Salviati e il medico, nel frattempo sopraggiunti, ne confermano l’identità e per di più ne constatano la morte.

54.

L'Arte della commedia

233

A questo punto arriva il capocomico per restituire l’elenco che gli era stato dato per sbaglio. Il prefetto reclama da lui la verità, e cioè se effettivamente l’uomo morto sia un attore del « Capannone ». La sua risposta è: Eccellenza, ma che gliene importa a lei, se si è trovato di fronte a un farmacista vero o a un farmacista falso? A mio avviso dovrebbe essere più preoccupante un morto falso che un morto vero. Quando in un dramma teatrale c'è uno che muore per finzione scenica, significa che un morto vero in qualche parte del mondo 0 c'è già stato 0 ci sarà. Sono le circostanze che contano; vanno considerate e approfondite le particolari condizioni di vita di una persona umana, che ci permettono di chiarire le ragioni di quell’atto. Ecco perché le ho detto stamattina: «Venga a teatro, Eccellenza, venga a mettere ‘l’occhio al buco della serratura’ » ®. De Caro insiste, esasperato, per sapere se i presenti sono attori

o personaggi reali. Campese continua a rispondere che non ha importanza se lo siano o meno. Sottolinea invece l’utilità sociale del teatro: Se ritiene che i problemi di cui è venuto a conoscenza, siano di tale portata da richiedere tempestivi interventi dello Stato, agisca in proposito indipendentemente da quella che può essere la vera iden-

tità di questi signori *. La sciallo perché salone

suspense non viene risolta nemmeno dall’arrivo del maredei carabinieri che naturalmente conosce gli abitanti del posto, il sipario cala prima che, chiamato dal prefetto, entri nel di rappresentanza.

Il finale sembra pirandelliano ed invece non lo è. Qui lo scopo non è rappresentare l’impossibilità di distinguere fra « finzione e realtà », quanto di dimostrare l’inutilità di questa ricerca quando il teatro è fatto secondo

la concezione

di Eduardo.

Quel che conta

è la veritiera

tradu-

zione sulla scena della vita umana, perché solo così ci sarà identificazione fra vita e teatro. Per Eduardo: « Il mondo in fondo è un gran palcoscenico e la vita una commedia allegra o triste secondo i casi. Per vivere, gli uomini debbono adattarsi a recitare la commedia e debbono anche fingere di divertirsi » 2°, parole a cui fanno eco quelle pronunciate da Campese:

Eccellenza, quando cammino per le strade e mi capita di battere due o tre volte il piede in terra perché mi si è attaccato qualcosa sotto la scarpa, mi sorprende sempre il fatto che quei colpi battuti non producono

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Cantata dei giorni dispari

lo stesso rumore di quando batto il piede sulle tavole di un palcoscenico; se tocco con la mano il muro di un palazzo, un cancello di ferro, una statua di marmo, una quercia secolare, lo faccio sempre con estrema deli-

catezza e con la sensazione di avvertire sotto le dita la superficie della carta o della tela dipinta”. La ricerca della verità che caratterizza tutto il teatro di Eduardo si realizza con una finalità precisa: mettere in scena il rapporto dell’uomo con la società. Ne è un classico esempio questa Arte della commedia, che riassume tutte le sue idee sul teatro. Come Molière ci ha lasciato l’Impromptu de Versailles, così Eduardo ha voluto affidare a un lavoro teatrale la propria concezione del teatro. L'ha fatto in maniera originale: ha cominciato col parlare della situazione del teatro e di coloro che vi dedicano la loro esistenza per dimostrare poi che i problemi che la caratterizzano non sono legati ad una categoria specifica, ma coinvolgono tutti senza eccezioni. La prima parte della commedia, in questa prospettiva, non è quindi didascalica, come alcuni critici fra cui Raul Radice? l’hanno definita, perché vi è un immediato riscontro con i casi esposti nella seconda parte.

All’attore che cerca un riconoscimento della propria professionalità fa riscontro il medico che rivendica la dignità morale e scientifica della sua opera. All’attore che si sente socialmente emarginato, se non disprezzato, si ricollega la figura della maestrina di montagna la cui follia scaturisce dai disagi e dall’angoscioso isolamento. L’inutilità dei diplomi dell’Accademia è sottolineata dal dramma del farmacista, che non sa che farsene senza la farmacia. Infine, agli scrittori

che reclamano

la libertà

di esprimersi,

fa eco,

nella vicenda narrata da padre Salvirti, la richiesta di libertà dei coniugi che vogliono rifarsi una vita dopo il fallimento della prima esperienza matrimoniale (quando Eduardo scrisse la commedia, il divorzio ancora non era stato introdotto in Italia). Dunque, L'Arte della commedia prende forma di manifesto teatrale sia in teoria, nelle parole del capocomico, sia in: pratica, attraverso i casi umani che si susseguono sulla scena, e dimostra la funzione sociale del teatro. Funzione sociale che per Eduardo consiste nel mettere a nudo i problemi della società, perché chi ne ha il dovere possa provvedere, senza però dimenticare mai che il teatro deve anche divertire.

Dai Il cilindro Atto unico, 1965. Rappresentato per la prima volta il 14 gennaio 1966 dalla compagnia « Il teatro di Eduardo », a Roma, al Teatro Quirino. Eduardo spiega così il significato del cilindro: « Il cilindro è l’unico cap-

55.

Il cilindro

235

pello che nonè mai caduto in disuso. Un uomo in cilindro mette automaticamente gli altri in soggezione. Per me è chiaro, il cilindro ha una sua precisa ER certamente può essere considerato l’emblema di una società che non cambia » 1,

Siamo in uno dei due ambienti di un basso napoletano sotto il livello stradale, ricavato da un deposito o da una cantina. Una tenda tirata nasconde il letto matrimoniale di Rita e Rodolfo, una giovane coppia che vive in subaffitto in casa di Agostino Muscariello e della sua compagna Bettina. I quattro si trovano

in una situazione difficile: se entro dieci giorni non pagheranno trecentomila lire, cioè gli arretrati dell’affitto, saranno sfrattati anche da quel buco. D'altra parte, sia l’anziano Agostino sia il giovane Rodolfo sono disoccupati, non per colpa loro, però. In questa congiuntura, Agostino ha escogitato un metodo per procurarsi i soldi: Rita in vesti discinte si mette sul pianerottolo, trasformato in toilette. Il luogo prende luce da un balconcino all'altezza della strada: la giovane attira clienti lavandosi in continua zione, pettinandosi, profumandosi, incipriandosi abbondantemente. Quando questi abboccano, chiede diecimila lire per la sua prestazione. Una volta ottenuti i soldi, apre la tenda e appare il letto sul quale giace Rodolfo, finto morto, con un mazzo di fiori in mano. Il suo volto pallido è reso ancora più cadaverico dalla fiammella di un’unica candela accesa sul comodino. A questo punto Rita, piangendo, si butta in ginocchio, maledice la sorte che le ha fatto morire il marito durante la notte e racconta tutte le sue miserie che la costringono a fare quello che non vorrebbe. Nasconde poi i soldi sotto « il morto » e invita i clienti a sdraiarsi sul catafalco. Naturalmente, tutti da buoni napoletani superstiziosi, scappano, come fa anche il primo cliente della giornata. Ripensandoci, però, quest’ultimo ritorna per reclamare almeno i soldi. Rita gli dice di sfilarli da sotto al morto che è ancora caldo. A questo punto interviene Agostino col cilindro in capo. Il suo sguardo è pieno di fatalità, e con un’aria di veggente pronuncia delle parole senza senso ma che incutono un senso di oscuro timore. Prende per mano il cliente e lo accompagna alla porta senza lasciargli il tempo di aprire bocca, lo spinge fuori e rinchiude l’uscio dietro a lui. ; Il cilindro ha funzionato, come sempre, perché è il simbolo di potere e mette in soggezione gli ignoranti. Agostino ne spiega così

l’uso, che può facilmente diventare abuso: È un cappello che ha fatto il suo dovere attraverso i secoli, e lo sta facendo ancora oggi e continuerà a farlo nei confronti delle gene-

Cantata dei giorni dispari

236

razioni future, pure quando l’epoca dell'energia atomica sarà per gli uomini un ricordo lontanissimo. [...]E quello che lo inventò, chi sa

che accoglienza dovette avere dal re dell’epoca, quando gli presentò il progetto. [...] « Maestà. Questo è un cappello che in qualunque momento,

non

si sa mai come

vanno

le cose,

può salvare

il trono

di vostra Maestà. Prima di tutto, la potenza di questo cappello la potranno capire solamente gli uomini istruiti. Gli analfabeti lo troveranno esagerato per la loro condizione, e non si permetteranno mai non dico di portarlo abitualmente, ma nemmeno di metterselo in testa per un solo momento. Questo cappello a cilindro, Maestà, lo porteranno i ministri per le cerimonie ufficiali [...] l’esercito di Vostra Maestà, col cilindro in testa, diventa il doppio, spaventa il nemico e lo mette in fuga ». E conclude: « Insomma, caro Rodolfo, questo è un cappello eterno e miracoloso » 2. Portandolo in testa ha potuto evitare di fare pagamenti e di dare mance, ricevendo manifestazioni di rispetto invece che improperi. Rita riprende le abluzioni per adescare un altro cliente. Dopo uno che trova troppo esosa la sua richiesta, abbocca Attilio, un vecchio sessantenne ma « ben conservato: arzillo e di un aspetto gradevole ». I modi dell’uomo sono cortesi, ma quando increspa gli occhi per guardare in faccia le persone e giudicarle, il suo sguardo diventa vigile e diffdente » *, dice di lui la didascalia. Si ripete la stessa scena e il trucco sta per funzionare. Attilio se ne va, ma torna indietro perché ha dimenticato la cravatta. Per un’imprudenza dei giovani — Rodolfo bacia la mano di Rita — scopre che il « morto » è vivo. I due però non lo sanno. Si fa vedere e aumenta la posta fino a centomila lite. A questo punto Rita non sa che fare e chiede di poter pregare vicino al marito morto, per essere illuminata da lui. Chiede un segno, un rumore che le indichi se deve accettare o no. Agostino, che dall’alto del pianerottolo che porta all’altra stanza ha assistito a tutta la scena, si affretta a sbattere due volte i battenti del balcone. Rita si mette a piangere, ma questa volta sono lacrime sincere quelle che versa e chiede ad Attilio di riprendersi i soldi e di andare via. Anche Rodolfo smette di fare il « morto » e si alza per difendere la propria donna. Alla richiesta di spiegazioni di Attilio, il giovane risponde: « Ma perché non cercate di capire che certe volte la vita s’accanisce talmente contro un disgraziato da metterlo di fronte a due vie d’uscita:

o fare il morto finto o il morto vero? »‘. Agostino tenta di intervenire col cilindro, ma questa volta non gli resta che levarselo: il cliente non è un ignorante né un ingenuo.

55.

Il cilindro

237

Viene anche Bettina e tutti insieme spiegano in quale frangen te si trovano. Rodolfo ha frequentato la scuola per camerieri ed è anche risultato fra i primi in un concorso per lavorare sui vagoni-ristotante. Ma il posto non l’ha ottenuto ancora, per cui fa il lavapiatti stagionale o qualunque altro lavoro saltuario. Agostino, dopo trentasette anni di lavoro come custode per il Teatro Apollo, è stato licenziato perché al posto del teatro è stato costruito un albergo. Gli hanno dato la liquidazione, ma « con due guerre sulle spalle, con la svalutazione che c’è stata — dice — e il rincaro della vita... con le

autorità hai voglia di scrivere lettere e stendere domande, non ti rispondono... » ?, e così si trova in questa situazione disperata. Tutti fanno appello alla generosità di Attilio perché li aiuti. Il vecchio risponde che non può accontentarli senza una contropartita, « per ragioni di salute », essendo vedovo da venti mesi. Il dottore gli ha consigliato di riprendere una vita normale. Ora la questione per lui diventa di vita o di morte, e arriva ad offrire mezzo milione di lire. La gente del vicolo, attirata dalle grida di protesta di Rodolfo, prima parteggia per lui, ora però, di fronte all’enormità della somma offerta, passa a sostenere Attilio. Vedendo in lui «il vero eroe di quella vicenda piccante, compatto e immediato, scoppia un fragoroso applauso » ° in suo onore. Agostino e Bettina, anche se non lo ammettono apertamente, la pensano nella stessa maniera. Rodolfo « pallido come un morto vero, ormai vinto, schiacciato dalla crudeltà della realtà, con un filo di voce comincia a parlare a

se stesso »:

Ha vinto lui. E che, volevi vincere tu, pezzo di fesso? Lui doveva vincere, con la banda in testa e i fuochi d'artificio... E quando avrà

vinto completamente, pure la lapide si metterà su questa casa, e ogni anno ci sarà la cerimonia ufficiale con discorsi commemorativi e relativa corona d'alloro. Il primo discorsa lo farà don Agostino, col cilindro in testa. Quando gli abitanti del vicolo vi vedranno col cilindro in testa e con i fogli del discorso in mano... perché ve lo farete scrivere, il discorso... in una occasione simile non si può par lare a vanvera... gli abitanti del vicolo, suggestionati dal cilindro, vi faranno un applauso più forte di quello che hanno fatto al vecchio

pazzo. Il vecchio Attilio, che nel frattempo si è sdraiato sul letto in attesa di Rita, si è addormentato. Agostino ha una nuova idea delle sue. Ottenuta la collaborazione di tutti, compresa quella degli abitanti del vicolo, mette l’orologio a muro e quello di Attilio due ore

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Cantata dei giorni dispari

avanti, accorcia la candela che serviva per la veglia del « morto » e fa sdraiare Rita vicino al dormiente. Gli faranno credere che quello che lui desiderava, effettivamente è avvenuto e che poi si è addormentato. Il trucco funziona. Attilio al suo risveglio è tutto felice, crede di aver fatto effettivamente all'amore con Rita perché l’ha pure sognato. Prima di andare via lascia a Rita il suo indirizzo, dicendole che può venire da lui quando vuole. Esce dal basso, acclamato dalla folla che lo segue applaudendo. Le due coppie si mettono a tavola per festeggiare. Finalmente mangeranno un pasto con la carne e potranno bere anche il vino. Durante il pranzo, però, sorge una discussione. Rita vorrebbe spendere in vestiti e in un viaggio a Firenze, sua città d’origine, i soldi che non andranno al padrone di casa. Agostino non è di questo parere. Prima di tutto, lo stratagemma per giocare Attilio l’aveva ideato lui, e poi « si paga quello che si deve pagare e si tira a campare, come abbiamo fatto fino a ora »È. Rita non è di questo avviso. È convinta che, se il vecchio non si fosse addormentato, gli altri — compreso il marito — l’avrebbero costretta a vendersi per ottenere il mezzo milione; « e si sarebbero fatti i conti di ‘ questo è mio e questo è tuo’ senza nessuna differenza da come li abbiamo fatti adesso. Continuate a farli... Donna Bettina, vi ci mettete voi al balcone, con acgua, sapone e borotalco...

e vediamo se arrivano i milioni »?. Decide di andare da Attilio. Inutilmente il marito e Agostino cercano di fermarla. Il cilindro di Agostino non impressiona la giovane, che lo scansa dicendo: « Non mi fate paura, Don Agostino. Sono una ignorante, ma ho capito che il vero cilindro ce l’ha il vecchio pazzo » !°, e scappa. Il cilindro mette in scena l’arte di arrangiarsi dei napoletani, i mezzi a cui devono ricorrere per poter « tirare a campare ». L’eterno problema della disoccupazione — sentito più profondamente a Napoli che in ogni altra città italiana — li porta ad ingegnarsi per sopravvivere. In questo

caso, poi, il terrore che suscita il finto morto mette in rilievo un’altra tipica caratteristica napoletana, l’innata superstizione. Questo atto unico, dall’azione vivace e colorita e dalla vicenda boccaccesca e grottesca, sembra ricollegarsi ai lavori del primo periodo di Eduardo. Invece, se l’analizziamo con più attenzione, la commedia si

rivela impegnata, portatrice di un’aspra denuncia contro un ordine sociale ingiusto. Da una parte, essa fa vedere i ricchi che col potere del denaro possono comprare tutto e, dall’altra, gli emarginati, costretti dalla loro indigenza a vivere di espedienti, talvolta anche al limite del codice penale. Mostra poi, col coro formato dagli abitanti del vicolo che vivono nelle

56.

Il contratto

259)

medesime condizioni delle due coppie del basso, l’abbrutimento al quale può portare questa situazione. Ad eccezione di Rita e Rodolfo, tutti accettano un atto immorale purché pagato da una somma tale da vincere ogni

moto

di coscienza;

anzi, accecati

dal denaro,

in coro

plaudono

al

« generoso » donatore che reclama una degradante contropartita. Rita stessa, alla fine, viene abbagliata dal miraggio del denaro. Viene da domandarsi se il fatto che la giovane sia toscana nella versione originale e romana nella versione televisiva interpretata da Monica Vitti, sia un elemento significativo. Più in generale, si potrebbe, infatti, ipotizzare che Eduardo abbia volutamente sottolineato la differenza tra la protagonista femminile e gli altri interpreti, anche dal punto di vista del luogo (e dei costumi) di origine. I napoletani ricorrono agli espedienti per tirare avanti e si accontentano del necessario mentre la « straniera » cede alla tentazione di potersi concedere anche il superftuo. In ogni caso, è sempre la miseria a spingere ad agire sia lei sia i napoletani, le cui trovate per « fare fesso » il prossimo sono, tuttavia, stimolate da una inventiva generata dalla forza della disperazione. Il riso che suscita la commedia ha un sapore molto amaro.

56. Il contratto Tre atti, 1967. Commedia rappresentata per la prima volta il 12 ottobre 1967 dalla compagnia « Il teatro di Eduardo », al XXVI Festival Internazionale della Prosa, organizzato dalla Biennale di Venezia, al Teatro La Fenice.

Nel programma del festival Eduardo si esprime in questi termini sulla sua commedia: « Che cosa ho pensato di fare con questo Contratto? Quello che ognuno penserebbe di fare nel mettersi a scrivere una nuova commedia, dopo averne scritto un numero considerevole: finalmente ‘la’ commedia » !. Infatti nel 1970 la considerava come la più significativa del terzo periodo della sua produzione 2.

L’azione del primo atto si svolge nello stanzone di un casale rustico lungo la via collinosa che da Massa Lubrense porta a Positano. Vi abita Geronta Sebezio, un uomo sui cinquantacinque anni, insieme a Isidoro che ha più o meno la sua età. Sono cresciuti insieme perché il padre di Geronta, per assolvere a un voto, aveva tolto Isidoro dall’orfanotrofio di Pompei e l’aveva allevato in famiglia. Durante un sopralluogo per accertamenti del brigadiere di polizia, accompagnato da un giornalista e da un fotografo, si apprende la storia di Geronta Sebezio. Discendente da una famiglia ricca e nobile, ma non istruito, perché ha lasciato gli studi dopo la terza elementare, è stato inter-

detto dai suoi fratelli poco dopo la morte del padre. Era troppo

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Cantata dei giorni dispari

generoso, dava a chiunque aveva bisogno, si fidava di tutti, specialmente degli amici che gli proponevano affari sballati, speculazioni fallimentari. Non è stato fortunato nemmeno con il matrimonio. Contro la volontà dei fratelli aveva sposato una giovane orfana che trattò da regina. Dopo un mese l’aveva sorpresa a letto con un nipote; i due

erano poi scappati insieme, dopo avergli vuotato la cassaforte. Da allora sono passati dieci anni. Tre anni prima era successo il fatto che ha reso Geronta famoso: da allora è venerato come un santo, ma naturalmente si è fatto anche dei nemici che fanno delle denunce a causa delle quali, come questa volta, si fa vivo il brigadiere. La sua è però più una visita di cortesia che un sopralluogo perché è convinto della bontà e dell’altruismo di Geronta. Questi i fatti: Isidoro, che a quell’epoca si trovava in una tenuta della sorella di Geronta, fu preso da un improvviso malore e la gente lo credette morto. Quando ormai il medico stava stilando il certificato di morte e tutti intorno lo piangevano sul letto di morte, Geronta che, spinto dal sincero affetto che lo legava a quell’uomo, si era messo a gridare: « Che stai facendo? Qui ci sta il fratello tuo, Geronta Sebezio! Tu non sei morto! Alzati! » 3. Isidoro aveva aperto gli occhi e cominciato a parlare. I presenti gridarono al miracolo e il fatto finì sui giornali. Naturalmente la morte era solo apparente. Da allora i contadini, gli operai, gli artigiani dei dintorni chiedono di essere risuscitati da Geronta che in varie occasioni li ha fatti tornare in vita. Mostra infatti le prove di queste resurrezioni al giornalista. Sono grandi fotografie di personaggi che ridono, con tanto di dedica, « Mi hai ridato la vita » o « Mi hai fatto resuscitare », e la firma. Queste foto sono l’unica ricompensa che Geronta chiede, perché non accetta alcun compenso in denaro, come risulta dal contratto che fa firmare a coloro che gli chiedono di essere riportati in vita. Anzi precisa che lui di miracoli non ne fa: tutto è dovuto alla catena d’amore che si viene a formare intorno al morto, quando è amato da coloro che lascia, che lo fa ritornare in vita. Perché ciò si realizzi il firmatario del contratto deve mantenere fede alle seguenti clausole: a) di amare profondamente e sinceramente la propria famiglia; b) di non avere più rapporti né materiali né sentimentali con altre donne all'infuori della propria moglie; c) di accogliere î parenti in casa propria, con affetto e simpatia

anche se essi non furono, nel passato, da lui ritenuti meritevoli di attenzioni, per torti, abusi ed estorsioni da essi ricevuti;

d) di compilare il testamento con giustizia, vuoi verso la propria

56.

Il contratto

241

moglie, vuoi verso i figli, senza dimenticare chi lo ha servito e qualche bisognoso che per il passato egli ha fatto finta di non vedere; e) di riservare l’intera parte disponibile del proprio asse ereditario a quella persona, sia cognato, genero e sia pur esso un parente parassita che egli ha sopportato e persino odiato durante la vita*.

Appena i visitatori, soddisfatti dell’« accertamento » basato sulle spiegazioni fornite da Geronta e accompagnate da un bicchiere di vino genuino, se ne vanno, viene Napoleone, il suo colono, un uomo massiccio, sulla cinquantina. Da tempo supplica il padrone per un contratto, senza averlo finora ottenuto perché non ha né congiunti né amici che gli vogliono bene. Per tutta la vita non ha pensato che a se stesso: ha perfino spogliato i fratelli di Geronta di tutte le terre di cui era mezzadro, facendole risultare improduttive e comprandole per quattro soldi. Ora naturalmente è diventato ricco. Adesso, pur di avere il contratto, Napoleone è disposto a intestare le sue proprietà a Geronta, che potrebbe così vendicarsi dei fratelli che l'hanno interdetto. Geronta rifiuta di concedere il contratto finché Napoleone non ottempererà alle sue clausole, e imiterà Isidoro che sa farsi amare da tutti perché pensa sempre agli altri. Per Napoleone questo signi fica essere fessi, ma Geronta gli ribatte: E tu sei troppo diritto per avere il privilegio di tornare al mondo e fare di nuovo quello che hai fatto in una prima vita. Vuol dire che il mondo diventerà un vero paradiso quando saranno morti tutti i diritti come te e saranno rimasti solo i fessi come Isidoro, ma con la facoltà di morire e resuscitare a loro piacere’. Napoleone viene mandato via con la scusa che è tardi, ma Geronta non può andare a riposare. Arriva una telefonata. Sono i parenti di Gaetano Trocina, prima agricoltore e poi costruttore, che lo invitano ad andare da loro. Gaetano è appena deceduto. Insieme al testamento hanno trovato la disposizione di chiamare Geronta: infatti il morto è un firmatario di contratto. Nel secondo atto siamo in casa Trocina, pochi minuti dopo la telefonata a Geronta. « I quattro eredi di Gaetano Trocina, la moglie Silvia, il figlio maggiore Carmeluccio, sua sorella Palmira e Giacomino, il cugino del morto, seduti in angoli opposti della stanza, si scrutano a vicenda » 5. La tavola è ancora apparecchiata con la zuppiera piena di pasta e fagioli. Il padrone di casa si è sentito male proprio mentre la famiglia stava per mettersi a mangiare, si è messo

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Cantata dei giorni dispari

sul letto ed è subito morto. Il pasto viene ripreso; a tavola si discute del testamento e delle altre carte trovate. Silvia non riesce ancora a capacitarsi dell’improvvisa trasformazione del marito, avvenuta due anni prima. Dopo averla abbandonata per altre donne, quando ancora i figli erano piccoli, era ritornato a lei dopo dodici anni e diventato tutto casa e chiesa. Una cosa su cui sono d’accordo i diretti discendenti di Gaetano Trocina è che impugneranno il testamento, perché non vogliono dare il terzo disponibile a Giacomino Trocina. Non riescono a capacitarsi del cugino, da sempre odiato, sia stato così generosamente beneficato. Giacomino, invece, è convinto che nei due ultimi anni da lui trascorsi in casa Trocina, Gaetano abbia cambiato idea. Silvia gli legge prontamente una lettera del defunto dall’apparenza misteriosa, allegata al testamento, che dimostra il contrario: Carissima Silvia, mi devi scusare se me ne sono andato così affrettatamente ma non ti preoccupare di questa morte mia perché s'è

trattato di una falsa partenza. Come pure ti prego di non sentire angustia per il fatto che nel testamento ho lasciato la parte disponibile a quella carogna di Giacomino. Si è trattato di una convenienza momentanea. Ma stai tranquilla perché i cavalli devono tornare alla stalla e il grano nelle botti. Ti abbraccio con i figli, arrivederci presto, tuo affettuoso marito prima della morte, durante la morte e dopo la morte Gaetano Trocina”.

Dunque Gaetano Trocina, degno membro di quella famiglia che mangia, beve e discute di interessi, mentre il suo corpo inerte giace ancora caldo nell’altra stanza, firmando il contratto, aveva fatto il doppio gioco, o almeno sperava di farlo. AI figlio cominciano a venire dei dubbi che il padre sia ancora vivo. La madre lo assicura del contrario, perché lei stessa ha spogliato il cadavere del vestito nuovo che aveva addosso, della camicia di seta, dell’orologio d’oro e degli anelli di brillanti, « perché certamente non doveva andare alla festa da ballo » 8, e l’aveva vestito con roba più andante senza che protestasse. Doveva essere morto per forza. Ma quando vanno ad assicurarsene, vedono che ha cambiato posizione. La loro reazione si risolve in un «‘ balletto’ mimato di disperazione, quanto mai grottesco » ?. Tutti si mettono a recitare: la moglie il ruolo tragico della vedova inconsolabile, i figli quello del più sincero dolore, perfino il parente beneficato fa altrettanto. A questo punto arriva l’ufficiale sanitario chiamato dalla famiglia e, contemporaneamente, Geronta Sebezio. Il primo constata ufficialmente la morte del Trocina e se ne va, tranquillizzando momenta-

56.

Il contratto

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neamente la famiglia. Poco dopo, però, si scatena di nuovo il subbuglio perché Geronta rivela lo scopo della sua visita: far tornare in vita il defunto che,

dopo anni di amarezze, di pene, di scoraggiamento per non avere creduto più genuino e autentico il calore familiare, per aver messo in dubbio l’affetto dei figli e di sua moglie, come ogni essere umzano ha ceduto alla crisi e s'è rifugiato volontariamente in una sincope

che, se i suoi sospetti sono giusti, diventerà definitiva, se infondati può avere soltanto carattere di sincope provvisoria ! Il grido di amore dei suoi familiari insieme a quello di Geronta lo riporterà in vita. La moglie e i figli non sono troppo sicuri di volere questa resutrezione. Si decidono solo nella speranza di escludere Giacomino Trocina dall’eredità. Però, prima, devono rimettere a posto gli averi del loro congiunto, che hanno pensato bene di accaparrarsi. Mentre con un nuovo balletto macabro riportano valigie, pacchi, argenteria, soldi e perfino i gioielli sul morto, tutte cose che prima « come belve affamate » !! avevano arraffato, Geronta chiacchiera con Giacomino Trocina. Il parente beneficato vorrebbe dissuadere Geronta dal risuscitare il morto, ma quest’ultimo gli dice di non avere paura: se Gaetano fosse ritornato in vita avrebbe continuato a fargli del bene; da temere sono solo i parenti vivi, pronti a impugnare il testamento. Gli dice poi che il ricorrere alla giustizia non l’aiuterà, le cause « non si sa mai come vanno a finire. Non è la prima volta che un innocente finisce in galera. Chi tiene santi va in Paradiso e la gente cattiva i Santi, sai dove li tiene chiusi? In cassaforte » !. Insomma, come prima cosa Geronta suggerisce a Giacomino di chiedere al pretore di far mettere i sigilli sui beni mobili dopo averli inventariati. Partito Giacomino e rimesse a posto le cose del morto, Geronta invita i familiari a unirsi a lui per formare la catena d’amore pet richiamarlo in vita. Ma il suo grido non raggiunge il defunto, perché nel cuore dei suoi congiunti c'è più rancore che amore. Lo ammettono pure: ognuno di loro, chi per una ragione chi per un’altra, arriva anche ad odiarlo. Preferiscono l’eredità, a lui. Nel terzo atto l’azione si svolge di nuovo in casa di Geronta Sebezio che ha messo il proprio giardino a disposizione del suo colono. Napoleone, per adempiere alle condizioni del contratto, quel mattino stesso ha sposato una vedova con due figli. Lo stanzone del primo atto è decorato con festoni di fiori e frutta e con « trofei di

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Cantata dei giorni dispari

pennuti di ogni razza ». Dal giardino vengono le voci degli invitati al rinfresco, si odono i brindisi e i festeggiamenti. Geronta è assente, ma presto arriva. Con l’aiuto di un usuraio prima e di un notaio poi, risolve il caso di Giacomino Trocina. L’uomo è stato convinto a venire ad un compromesso con la famiglia, tanto più che la tassa di successione su 300 milioni gli avrebbe lasciato una cifra irrisoria. In cambio di un atto di rinuncia, i Tro-

cina gli danno i buoni del Tesoro che il capofamiglia ha lasciato, contenti anche loro di non dover dividere la proprietà. Il valore dei buoni del Tesoro ammonta sempre a 300 milioni, ma Giacomino non lo sa ed è felice di prendere i 140 milioni che Geronta gli dà, tenendosi il resto. Firma l’atto di rinuncia perché l’indomani parte per l’Argentina, e consegna a colui che crede il suo benefattore disinteressato la foto gigante che questi ha chiesto. Ammettendo che prima era un morto — « un morto di fame » — Giacomino pronuncia la fatidica frase rivolta a Geronta, che poi scriverà sulla fotografia come dedica: « Tu mi hai fatto risuscitare » !3. Così finalmente si scopre chi sono i resuscitati dal « taumaturgo », e qual è la procedura che usa per ridare la vita a coloro che erano privati di tutto « dagli avidi e dagli oppressori » !, e come

Geronta

stesso tragga vantaggio

dai « suoi miracoli ».

Partito felice e soddisfatto Giacomino, viene Napoleone seguito dalla sposa con i suoi due figli, nonché dal parente dimenticato che è riuscito a trovare tramite il casellario giudiziario, e infine vengono anche gli invitati. L'uomo è altrettanto felice perché finalmente potrà ottenere l’ambitissimo « contratto » da Geronta, al quale offre una mezza vitella. Alla firma segue un brindisi, che Geronta fa dal sediolone do-

rato, « il trono », col mantello di velluto sulle spalle, ultimi cimeli

della sua nobile famiglia. Pronuncia termina con un invito-all’amore:

un discorso

d’occasione

che

Io bevo alla salute, alla prosperità, alla felicità completa di questa nuova famiglia, augurando a Napoleone Botta che mai si sciolga dal suo spirito l'incantesimo di èui rimase pervaso, dopo

l'incontro

con

quello soave,

melato,

benigno,

mite,

di Maddalena

Triunfo. (Applausi) Come folgorato dal fluido di bontà che emana da questa donna, il cuore di Napoleone Botta si aprì alla commise-

razione, alla comprensione, alla misericordia, alla tenerezza, all'amore verso 1 genitori, i parenti, gli amici, il prossimo suo, la patria!

(Applausi e lagrimucce) Per la sua grettezza, spilorceria, pidocchieria, avidità, tutti odiavano Napoleone Botta, ma non era che un

circolo vizioso! Più egli si sentiva odiato, più raccoglieva e accumu-

lava, accatastava, ammassava,

immagazzinava,

assommava,

per difen-

56.

Il contratto

245

dersi dall'odio, e combatterlo. (Applausi) Napoleone Botta non combatte più. [...] Napoleone ha conosciuto l’amore: eccolo qui, rilasciato e indifeso, e pronto a dare, dare, dare, per avere in cambio da voi soltanto amore. Una catena d’amore che nemmeno la sua morte potrà spezzare. La catena d'amore che unisce tutti voi e vi tiene cristianamente legati nel rispetto dei comuni interessi. Amore puro, vero, sincero, disinteressato... *.

I presenti, invitati a prendere tutto il ben di Dio col quale Napoleone aveva riempito la casa di Geronta, si buttano « a strappare limoni ed arance dai festoni, ad ammucchiare a terra, ognuno per conto suo polli, galline, salami, formaggi » !° senza nemmeno aspettare la fine del brindisi. Su questo arraffare generale cala il

sipario. Il contratto, commedia molto abilmente costruita, solo all’ultimo atto rivela la vera personalità di Geronta e la natura dei suoi « miracoli ». Ma nemmeno allora si è sicuri di chi egli sia veramente. Ci si domanda se il suo nome, che significa « vecchio saggio » !”, abbia un significato preciso e se Geronta non sia un personaggio strettamente imparentato a don Antonio Barracano, « sindaco » del Rione Sanità (vedi p. 209). Ci sono delle affinità fra i due, che risaltano dalla commedia. Ambedue da giovani sono stati vittime di un’ingiustizia che ha cambiato la loro vita. Entrambi proprio per questo hanno poca fiducia nell’amministrazione della giustizia. Geronta ripete la stessa frase del « sindaco » sui « santi in paradiso » che sulla terra si manifestano con | soldi in cassaforte e possono fuorviare la giustizia. Tutti e due amministrano la giustizia secondo un proprio criterio, al di fuori dei tribunali. Geronta esercita una giustizia distributiva, prende dai ricchi per far avere ai poveri, siano questi spogliati dai propri familiari — fra quest'ultimi include se stesso, beneficandosi — o ridotti così dalla società che non ha offerto loro la possibilità di vincere la povertà e la miseria. A questi ultimi, i « veri resuscitati », dà la possibilità di rifarsi una vita. Finalmente il protagonista della commedia vuole fare giustizia anche nei confronti dello Stato che con leggi inique si appropria attraverso la tassa di successione di quasi tutta l'eredità, se l'erede non è un familiare

diretto.

Eppure Geronta non suscita le simpatie di don Antonio Barracano, che pur sempre era un « padrino », a modo suo. In Geronta i critici, per la maggior parte, hanno visto un personaggio negativo. Giorgio una Prosperi l’ha definito « un asceta dell’imbroglio » !8, Raul Radice « specie di moderno Tartufo » !?, Renzo Tian «un falso profeta » °, Rouna berto De Monticelli « un Tartufo protestatario » che porta avanti « di saldo personale un « », società la contro ritorsione », « una vendetta non conti con lo Stato che quella società esprime », ma che a conti fatti

è altro che un truffatore %.

246

Cantata dei giorni dispari

L’unico che abbia dato un giudizio più positivo su Geronta è stato Paolo Grassi, che nel programma della prima rappresentazione a Venezia, scriveva: « Chi è questo Geronta Sebezio, [...] protagonista della commedia — dei ‘giorni pari’ o dei ‘giorni dispari ’?: l’uno e l’altro insieme, credo. [...] Un profeta della bontà [...], un furbo mariuolo » 2. Eduardo, pur avendo costruito intorno a Geronta una vicenda che da adito a giudizi poco favorevoli, vede il protagonista sotto una luce diversa. Ha espresso il suo pensiero in occasione della messa in onda in televisione del Contratto, nell’81. Ma già dieci anni prima, a Mimi D’Aponte, una studiosa americana, aveva detto, per difendere le azioni di Geronta: « C'è un equilibrio fra il bene e il male nell’uomo. Noi non possiamo prevedere se l’azione umana porterà ad aiutare il bene o il male. Il male può portare al bene » 23. Nell'81, Eduardo è ancor più categorico: « Per me non è affatto un imbroglione, anche se infila l’una dopo l’altra parecchie ribalderie » 2, e prosegue ribadendo la sua idea a Giorgio Pillon: «Un imbroglione, scrissero tutti nel 1967 ed anche dopo. Invece no. Per me non è un imbroglione. È a suo modo, un benefattore. Lo è diventato anche per difendersi dalla legge, i cui ‘articoli’ del codice hanno età diverse e sono da sempre sotto accusa ma non vengono mai cambiati, se non quando su qualcuno di loro si pronuncia la Corte costituzionale. Ma l'atteso nuovo codice (specialmente quello di procedura penale) è ancora di là da venire. Dunque Geronta Sebezio non è un imbroglione. Questo voglio far sapere ai telespettatori. Tutti, al secondo atto, saranno convinti che Geronta sia un mariuolo. Ma alla fine del terzo atto spero che il mio ‘messaggio’ venga capito » 5. Prima di dire quale è questo messaggio, che è senz'altro positivo perché Eduatdo disfattista non lo è mai stato, dobbiamo però constatar e che l'umanità che egli mostra nel Contratto è malvagia e la società, impersonata nel suo nucleo base, la famiglia, è corrotta. Dalla commedia viene fuori che chi ama il prossimo ed è generoso , come lo era stato Geronta, non solo non viene capito e apprezzato, ma tischia l’interdizione per iniziative del parentado avido e gretto. Gli uomini, poi, per seguire gli insegnamenti di Cristo hanno bisogno di un contratto che li costringa ad amare il prossimo, 0, peggio ancora, i propri familiari. Quando poi lo firmano, lo fanno sempre con secondi fini. Non è tanto la paura della morte a spingerli ad accettarne le clausole, quanto il desiderio di allungare la vita per poter accumulare ancor più ricchezze. Ne è chiaro esempio Gaetano Trocina. Il secondo atto infine dimostra con maestria e arguzia come nella famiglia gli interessi siano al di sopra degli affetti. In un mondo siffatto, catene d’amore certamente non possono funzionare. La constatazione è triste anche se nasce da un imbroglio escogita to da Geronta. Il contratto però fa anche del bene. Costringe uomini come Napoleone, avidi e egoisti, a diventare generosi verso gli altri e a fare del bene ai diseredati. Maddalena, la sua sposa non è certo come la descrive Geronta: è brutta, vecchia e per di più torva, ma la miseria l’ha conosciuta, sa che « se tieni una posizione tutti ti salutano e ti fanno riverenza, se sei pezzente la gente ti abbandona e ti volta la faccia pure se stai morendo di fame » 26,

57.

Il monumento

247

Eduardo ha rinchiuso il suo messaggio di amore e di fratellanza nelle parole che Geronta pronuncia per il brindisi in onore di Napoleone. Parole che rasentano l’assurdo quando si pensa a chi vengono rivolte. Napoleone non sembra affatto differente da Gaetano Trocina, né la « sua » famiglia da quella del Trocina. Gli altri partecipanti alla festa, poi, non ascoltano nemmeno, in quanto sono occupati ognuno ad arraffare il più possibile. . Ed ecco il succo del messaggio eduardiano affidato al personaggio di Geronta: Cessino gli odii ed i rancori. Ritornino l’amore, la fratellanza, la bontà

in mezzo a noi. Per salvarci siamo ancora in tempo. Tutto non è perduto,

malgrado gli scandali ed il terrorismo. sua spicciola filosofia, Geronta

Ascoltate bene quanto dice, nella

Sebezio, alla fine della commedia...

Come

Geronta Sebezio io mi auguro che l’odio finisca, che il disordine cessi, che l'onestà torni ad essere oggetto di vanto e non di disprezzo. Perché questo ho voluto dire paradossalmente ne Il contratto 7.

Così, da una commedia prettamente pessimista, che Eduardo stesso ammette di aver scritto in un periodo di scoraggiamento 8, sgorga tutto un programma di rinnovamento per l’umanità e per la società. E allora il falso profeta possiamo considerarlo anche vero, ed accettare le sue parole.

bre Il monumento

Tre atti, 1970. Commedia rappresentata per la prima volta il 25 novembre 1970 dalla compagnia « Il teatro di Eduardo », a Firenze, al Teatro La Pergola. L’idea che in un monumento ci possa vivere della gente, venne ad Eduardo quando era ancora un ragazzo. « A volte vi entrava attraverso le porticine seminascoste imbattendosi in sedie impagliate, in scope, in secchi », riferisce Mario B. Mignone, riportando poi le parole dell’autore della commedia: « Ancora oggi passiamo accanto a questi monumenti e non sappiamo cosa vi succede dentro... Vent'anni fa, forse anche di più, mentre recitavo a Milano in Napoli milionaria! (era il 1946), la notte rincasando mi introducevo con l'immaginazione, nei monumenti della città. Fu così che mi venne in mente di trasferire in un monumento un grosso personaggio realmente esistito: quello di un maresciallo ausiliario che prestava il servizio nella caserma dove io ho fatto il servizio militare (Caserzza del II Reggimento Bersaglieri a Roma nel quartiere Trastevere) » 1. I monumenti che da ragazzo incuriosivano Eduardo diventano per lui adulto < oggetti notoriamente inutili », « testimonianza di una retorica dura a morire » ? ed è con questo spirito che scrive la sua opera.

« Completamente immersa nella caligine di un’alba, invernale » s’intravvede « la sagoma sfocata di un monumento, dove, sulla savo-

Cantata dei giorni dispari

248

narola — dalla quale le bombe hanno divelto l’illustre personaggio cui era dedicato il monumento stesso — è seduto un uomo in carne e ossa » 3. È il maresciallo Ascanio Penna che insieme alla sua compagna Sabina ha scelto l’interno del basamento di quel monumento come dimora da ormai più di vent'anni. Vive con loro Paganini, un povero disoccupato, dal soprannome altisonante che « con la strappata » sul violino « strappa la vita » *. L’arredamento è raffazzonato con residuati di guerra, tende mimetiche e brande militari. Subito dopo la guerra, il maresciallo, fedele alla monarchia che aveva servito per ventidue anni, non ha voluto giurare fedeltà alla repubblica. Ha scelto come esilio volontario questo luogo dal quale non vuole uscire nemmeno quando ne ha veramente bisogno, come ora che ha un gran mal di denti. Sabina l’ha seguito anche se è molto più giovane di lui. Hanno ventisette anni di differenza. Lo conobbe nella caserma dove la zia dirigeva lo spaccio. Era giovanissima, « decisa, aperta, strafottente », eppure il maresciallo le metteva soggezione. Ma questa sensazione non le dispiaceva, anzi: « Mi piaceva quella soggezione che mi mettevi quando mi guardavi. Tutta la forza ce l’avevi negli occhi... Quella forza che-hanno negli occhi gli uomini quando sono dei veri soldati. Nero nero, eri, tutto nero di sole... ». Gli tinge i capelli, ora, perché continui ad essere come allora. Lo ama ancora e per lei quel ristretto spazio dove vivono « è tutto il mondo »: « Qua dentro ci siamo noi, io e te. E io e te siamo tutti » ?. È lei che pensa a provvedere a tutti e due. Quando Ascanio dorme esce e, a sua

insaputa, esercita il più vecchio mestiere del mondo. La sera, poi, ai frequentatori del monumento, venditori ambulanti, prostitute, magliari, reduci dell’ospizio, ecc., tutta gente che vive ai margini della società, offre intrattenimenti improvvisati e vende pagnotte e vino. È mattina, ma arrivano, nonostante l’ora insolita, due clienti pet le pagnottelle; Roberto porta un suo amico di passaggio, Arturo, che presenta al maresciallo e a Sabina. Il nuovo ospite, un magliaro napoletano, non poteva credere che si potesse vivere in questo basamento. Ascanio gli racconta che ci sono venuti nel ’45: Ci adattammo

al principio, e adesso ci viviamo

benissimo.

[...]

I primi tempi furono duri, specialmente per Sabina, ma poi, con la pazienza e una certa competenza di ogni mestiere [...] le cose camminarono,

arrivò

l'elettricità

[...].

Me

la sono

rubata

Velettricità,

come ho fatto con l’acqua e col gas. Per quello che ho dato in ventidue anni di servizio militare, e per l'amarezza che me ne è venuta in cambio

non sono stato esigente. Non

ho preteso altro che un poco

di luce, un poco di gas e un poco d’acqua*.

57.

Il monumento

249

Arturo con ironia aggiunge: « È un monumento ». Il maresciallo « accusa la frecciata, ma poi reagisce con durezza, dopo un attimo di silenzio »: « Sì l’ho voluto! ». Si domina però e aggiunge: « Ma per starci dentro, non sopra » ”. Ascanio si stanca facilmente delle chiacchiere dei visitatori, quando può si apparta sulla sua branda, spesso si addormenta pure, come adesso. Dopo la partenza di Arturo e Roberto, viene Rita, una giovane di sedici anni, che si fa insegnare l’arte dello spogliarello da Sabina. Vuol presentare il suo numero quel giorno stesso.

Nel secondo atto è sera, ci sono tutti i frequentatori del monumento. Il maresciallo sembra un po’ più loquace. Il vino lo rende più cordiale e comunicativo. « Racconta agli amici le alterne vicende vissute in tempo di guerra, gli atti eroici dei suoi soldati, e soprattutto, gli aspetti inediti della vita di caserma »8. Prima di rinchiudersi nel monumento

come in un libro di storia,

per rimanere fedele al passato e a dei valori in cui ha creduto fermamente — patria, monarchia e il servizio offerto al proprio paese —, il maresciallo ausiliare era «il vero responsabile della caserma ». Pensava lui a tutto, dal vestiario all’armeria, dal vettovagliamento alla cucina. Ma anche ai soldati. Se avevano bisogno di un aiuto, di una licenza, di un permesso,

di un condono

per una punizione,

tutti venivano da lui e poi se ne andavano dicendo: « Grazie, mamma »?. L’ultima volta che lo avevano chiamato con questo nomignolo era stata l’8 settembre 1943 davanti al plotone di esecuzione quando i tedeschi, occupata la caserma, non solo avevano imposto la resa ma avevano trucidato tutti quei ragazzi. Lo salutarono: « Addio mamma! » !°. Al maresciallo che era in borghese, la vita fu risparmiata, ricevette solo un calcio nel sedere come simbolica conclusione dei suoi ventidue anni di servizio alla patria. Sabina interrompe Ascanio perché sa che questi ricordi gli mettono malinconia. Mentre i presenti mangiano e bevono, il loro interesse viene attratto dal racconto delle vicende di Teodoro Guarnaschilli appena ritornato dalla Sicilia. È un frequentatore del monumento un po’ differente dagli altri. È un uomo istruito, discendente da famiglia nobile, e i soldi non gli mancano, non deve vivere alla giornata. Eppure ha dei punti in comune con tutti. Non è la povertà che ne fa un emarginato, ma la sua elevata classe sociale. Non è fanatico, anzi è un uomo molto lucido, eppure è una vittima come il maresciallo, la vittima della gretta pavidità del suo parentado.

250

Cantata dei giorni dispari

Dieci anni prima, quando aveva trentacinque anni, dopo aver goduto la vita e sperperato parte del patrimonio lasciatogli dalla madre, aveva pensato di intraprendere qualche attività con quanto gli rimaneva. Però avrebbe avuto bisogno dell’appoggio economico delle otto zie aristocratiche, di cui era l’unico erede. Ma quando si era rivolto a loro da ognuna aveva ricevuto la stessa risposta: « Che vuoi fare, Teodoro?

Un’industria,

un

commercio?

Pazzo

sei?

La

rivoluzione è alle porte, i comunisti ci tengono d’occhio... ». « E con questa lamentosa canzone, le otto vecchie nobili, chiuse nei loro appartamenti, sorde a tutti i ragionamenti » che faceva « per tranquillizzarle, stroncarono ogni » suo progetto di lavoro, negandogli «i capitali necessari per qualsiasi iniziativa » !!. Guarnaschilli, allora, ha pensato di trarre vantaggio dalle loro manie di persecuzione. Comprata una tipografia, stampa un giornale quotidiano, con una tiratura che corrisponde esattamente al numero delle zie; le copie diminuiscono ogni volta che ne muore una, come adesso. Vende alle zie « parole » che diventano verità sacrosante perché stampate su un giornale, parole che alimentano il loro terrore per il comunismo. Così le vecchie rimangono chiuse in casa e nel loro fanatismo, e quando muoiono lasciano il patrimonio al nipote. La novità della serata sarebbe lo spogliarello di Rita, ma il mal di denti del maresciallo sta diventando insopportabile. I presenti riescono a convincere Ascanio ad andare dal dentista. È notte, nessuno lo vedrà, né lui vedrà niente. Decidono di accompagnarlo tutti. Solo Sabina rimane nel monumento. Arturo, il nuovo cliente, lascia gli altri e si introduce nel monumento, approfittando del fatto che la donna è rimasta sola. Sabina rifiuta i suoi approcci amorosi. Per lei quel luogo è sacro in quanto vi abita il maresciallo. Lo manda via imbracciando un fucile. L’uomo minaccia di vendicarsi facendo cacciare tutti dal monumento.

Nel terzo atto sembra che Arturo abbia mantenuto la promessa, perché l'indomani sera, quando già tutti i frequentatori del monumento sono riuniti, arriva il brigadiere Delle Donne per consegnare l'ordinanza di sfratto dal monumento, con decorrenza immediata. Al mattino dovrà essere sgombro, altrimenti sarà costretto a ricor-

rere alla forza. Il maresciallo si rifiuta di andarsene. Tutti sono costernati e si accusano l’un l’altro dell’accaduto. Sono convinti che uno di loro abbia fatto una denuncia alle autorità. Naturalmente Sabina pensa che sia stato Arturo. Arriva Guarnaschilli che rivela la vera ragione dello sfratto. Non ci sono state denunce. L’Ente Olandese per lo sfruttamento della sorgente Acqua Rosaria, ha comprato a suo tempo tutta la zona

57.

Il monumento

251

bombardata, che comprende anche il monumento, ed ora vuole iniziare i lavori di costruzione del centro industriale. Il maresciallo continua ad insistere di non voler uscire dal monumento. Guarnaschilli chiede di parlargli da solo, da farlo ragionare, e per prima cosa gli dice: « Signor Maresciallo, che vogliamo fare, un’altra guerra? I cannoni vogliamo mettere? Le mitragliatrici? Lo sappiamo tutti che lei è stato un soldato, ma un soldato deve essere pure un uomo, con un cervello e una coscienza » !.

Sabina, che è voluta rimanere, difende Ascanio: « Bella riconoscenza per tutto quello che hai fatto! Maledette carogne! Dopo che ha servito la Patria come l’ha servita lui? ». E conclude dicendo: « La verità è che si stava meglio quando si stava peggio ». D’altra parte il maresciallo è convinto di essere nel giusto, è sempre stato fedele alla patria e al re, in guerra e in pace, senza voltafaccia e tradimenti: « Non ho mai chiesto niente, né a quelli che se ne andarono, né a quelli che li sostituirono, non ho voluto niente da nessuno. Io ho quel che ho donato » !. Guarnaschilli, che personalmente ha dovuto subire le conseguenze di mentalità simili a quelle dei due protagonisti, cerca di aprire loro gli occhi:

Stete personaggi fuori del tempo, pezzi da museo, oggi che di retorica ne abbiamo piene le tasche. Ve l’hanno ficcata in testa questa mentalità, e chi ve la toglie più? È finita l'epoca dell’eroismo a qualunque costo. Il mondo sta camminando... e gli occhi bendati non li vuole avere più nessuno. Si accontenti di avere sbagliato una volta, Maresciallo. Prosegue poi per denunciare a quali conseguenza può portare la retorica: Posso capire l’amarezza di un uomo

che si è visto crollare in-

torno tutti i miti in cui aveva creduto ciecamente, ma la testardaggine no. La testardaggine, senza ragionamento, trascinò, allora V’in-

tero paese in una tragedia spaventosa... e la stessa testardaggine ha costretto lei a chiudersi qua dentro e a viverci per tanti anni come

una talpa". Ma Ascanio cocciuto gli risponde: « Qua dentro non ci sono venuto a vivere, ci sono venuto a morire ». Al che Guarnaschilli gli ricorda di essere anche lui responsabile della morte in guerra di tanti giovani, incitati a combattere in nome del mito di un falso nazionalismo e di un mal interpretato amor patrio:

252

Cantata dei giorni dispari

Le sono sfuggiti i cimiteri militari. Ce ne stanno a milioni, sparsi per tutto il mondo, di antichi e moderni... In uno di quelli moderni potrebbe trovare riposo lei. Ma forse sarebbe imprudente da parte sua consegnarsi nelle mani di migliaia di ragazzi, ai quali non si stancava mai di ripetere: « Classe di ferro, la tua ». Tutte classi di ferro,

erano, ma di una strana qualità di ferro, che quando veniva colpita dal piombo si trasformava in carne umana macellata*. Il maresciallo non riesce ad accettare i ragionamenti dettati dal buon senso di Guarnaschilli. Fedele fino all’ultimo alla retorica che lui ha scambiato per valori veri, muore seduto sulla savonarola del monumento. Quando il brigadiere Delle Donne, all’alba, viene ad eseguire lo sfratto, trova Ascanio ricoperto da un lenzuolo. I frequentatori del monumento, circondati da valigie e pacchi, stanno attorno al basamento. Tutti aspettano il medico legale e il pretore per la rimozione del cadavere. A Sabina interessa solo se toglieranno il lenzuolo: questo per lei corrisponderà allo scoprimento di un monumento al maresciallo che era convinto di meritarlo. Infatti spesso diceva alla sua donna: « Per quello che ho dato alla patria, in ventidue anni di servizio militare, un monumento lo dovrebbero fare a me! » !°. Infatti, quando arrivano le autorità per le formalità

del caso, Sabina per l’ultima volta si rivolge ad Ascanio per dirgli che finalmente la ricompensa per la sua fedeltà gli veniva concessa: « Che te ne importa se non c’è la banda, il sindaco per il discorso... Il monumento tuo è più vero di quanti ce ne sono stati fino adesso, perché ci stai sopra tu, proprio tu, come sei diventato... ». Poi rivolta agli amici e al brigadiere li incita ad applaudire quando tolgono il

lenzuolo: « È stato un eroe, e se lo meritava il monumento » !. Cala la tela su questa scena allucinante con la quale Eduardo

vuol dissacrare i monumenti costruiti per inneggiare a falsi valori retorici o per esaltare guerre che distruggono uomini e cose. Il maresciallo morto sulla savonarola diventa così il simbolo di un vuoto e cieco militarismo, che porta solo alla morte;

il monumento

stesso diviene uno strumento di esaltazione della morte. Eduardo,

commentando

il finale

della

commedia,

si è espresso

in -

questi termini: « L’ex maresciallo Penna potrebbe essere il primo di una lunga serie di monumenti veri, che siano guardati non per come rappresentano una persona, ma per quello che la persona ha fatto, è stato: monumenti che non creino dei miti, ma li demoliscano; statue da guar-: dare non come opera d’arte ma come la conseguenza di ciò che ha portato uomini vivi a diventare dei morti. Con un vero morto sopra, un monumento diventa un’opera di distruzione, un modo per farci riflettere, e forse allora non faremmo più le guerre. Distruzione, s'intende,

57.

Il monumento

255

di tutte le strutture che portano gli uomini a dimenticare il valore della vita » 18.

L’autore però non si è voluto accanire contro il maresciallo, ma solo contro quello che rappresenta, perché in fondo è una vittima pure lui. Nel programma della commedia, e poi nella premessa dell’opera stampata, ha scritto: « Ci sono sentimenti basilari per l’umanità, come

l’amore

tra l’uomo e donna, l’amore per i figli, quello per il proprio paese sempre validi; l’intramontabile retorica di parte deforma i valori veri di questi sentimenti; l'umile, l’ignorante, lo ‘sprovveduto’ crede fermamente a tale soprastruttura, e spesso, a costo di distruggere se stesso, continua a crederci anche quando chi l’ha costruita la sconfessa per crearne un’altra che sembri nuova in apparenza ma che in sostanza è la stessa cosa. Pur denunciando i valori ‘ retorici’ in opposizione a quelli ‘ veri’, pur non salvando lo ‘ sprovveduto ’, non posso fare a meno di provare un moto di simpatia umana per chi rimane vittima della egoistica furbizia di coloro che hanno in mano il potere » !°. Nel Monumento, accanto alla denuncia delle ultime conseguenze a cui può portare la deformazione di sentimenti come l’amor patrio, vi è anche l’esaltazione di un altro sentimento che non ammette fraintendimenti: l’amore fra uomo e donna. Sabina ha sacrificato tutta la sua vita per questo moto del cuore, ma il suo sacrificio è valido ed ha permesso di tenere in vita l’uomo che ama. Ascanio, pur avendo scelto praticamente la morte seppellendosi vivo nel monumento, è costretto a riconoscere che è stata la sua donna a mantenerlo in vita: « Sai di che cosa vivo oggi? Del ricordo di quello che tu riuscivi a farmi essere fra le tue braccia fino a dieci anni fa » 20. La deformazione dell’amor patrio invece ha portato il maresciallo a rinnegare la vita, a morire psicologicamente prima, e fisicamente dopo. La costruzione circolare della commedia, o forse sarebbe più giusto dire del dramma, ben rende quest'idea. Sia nella prima scena che nell’ultima Ascanio

è seduto

sulla savonarola.

All’inizio

è vivo fisicamente,

ma

in

effetti è morto al mondo esteriore che contempla dal monumento che crede di essersi meritato, mentre alla fine è morto nel vero senso della parola. La morte finalmente l’ha liberato dai falsi ideali che si era creato. Insieme a lui finisce anche il monumento: verrà distrutto il simbolo della vuota retorica. Il tragico però è che l’abbattimento vien fatto per dare posto a nuovi simboli ancor più falsi: gli interessi economici, che diventano i soli valori della società dei consumi. Il monumento, opera ricca di significati e di temi che stanno a cuore all'autore, non è una commedia di facile interpretazione perché il protagonista non è il portavoce di Eduardo. Specialmente il pubblico è rimasto sconcertato. Questo atteggiamento degli spettatori ha condotto Eduardo a ritenere di dover apportare dei cambiamenti. Nel ’73, infatti, si esprime così: « Ho guardato la commedia a distanza di tempo con altri occhi, e ho visto che ha cose buone ma anche cose strane, che potevano far pensare all’esistenza di un doppio gioco. È stato un errore mio: ora la rivedrò, soprattutto nel terzo atto al quale darò la conclusione giusta, per cercare di far capire il vero significato della commedia e la patte che assumono i personaggi principali » 21. A tutt'oggi, però, non risulta che l’abbia fatto.

254

Cantata dei giorni dispari

58. Gli esami non

finiscono

mai

Un prologo e tre atti, 1973. Commedia rappresentata per la prima volta dalla compagnia « Il teatro di Eduardo » il 21 dicembre 1973, a Firenze, al Teatro La Pergola. Eduardo aveva già concepito questa commedia nel 1953, vent'anni prima della sua rappresentazione, e ne aveva narrato il contenuto, a Raul Radice!. Nel 1974 spiegò a Giorgio Prosperi perché aveva atteso tutti quegli anni per metterla in scena: « Il soggetto era pericoloso. Vi si rappresentava una famiglia senza tanti complimenti in modo negativo, e allora la morale era ancora chiusa, i gusti non erano evoluti come adesso » 2,

Nel Prologo, Guglielmo Speranza, il protagonista degli Esami non finiscono mai, tenendo in mano tre barbe, una nera, una grigia e una bianca, si rivolge direttamente al pubblico per un « discorso introduttivo » in cui spiega le intenzioni dell’autore nella creazione del suo personaggio:

L'eroe di questa commedia non è un « tipo », bensì il prototipo di noi tutti, un eroe la cui esistenza è caratterizzata dagli aspetti positivi e negativi della nostra stessa esistenza, e perciò sarebbe im-

possibile trovare un vestito che rispecchiasse la sua complessa personalità.

(Infatti non

cambierà

mai d’abito).

[...]

«Un simbolo

si

riconosce per ciò che pensa e dice, non per il vestito che indossa » 3. Presenta anche un’altra novità:

E poiché l’autore ha voluto risparmiarvi il personaggio

« como-

dino », cioè la spalla, ogni tanto, nel corso dell’azione, io verrò qui

a fare una chiacchieratina con voi, perché possiate apprendere dalla bocca stessa di Guglielmo Speranza il suo pensiero intimo sui fatti accaduti e le previsioni su quelli che dovranno accadere. In altri termini, la sua spalla sarete voi*.

L’azione ha inizio intorno al 1922-23. Guglielmo Speranza ha venticinque anni e si è appena laureato, non si sa in quale facoltà, infatti « il suo berretto goliardico è stato ricavato da un foglio di giornale » ®. La sua giovinezza verrà indicata dalla barba nera. I suoi compagni di corso con canti goliardici e libagioni lo festeggiano sulla « strada dove ci si incontra pet caso », luogo che marcherà i vari passaggi della vita di Guglielmo. Improv visano anche un consulto medico, diagnosticandogli dopo vari finti esami una serie

58.

Gli esami non finiscono mai

255.

di malattie il cui unico termine comprensibile è « ipersensibilismo ». Infatti, tutta la vita del protagonista sarà sempre contraddistinta da questo « male », che si tradurrà in « senso di responsabilità », « im-

pegno », « combattività », uniti al « rispetto degli altrui diritti » °. Passato questo secondo esame dai toni leggeri e scherzosi — dopo quello di laurea che Guglielmo riteneva l’ultimo della sua esistenza — quando va a presentarsi dai futuri suoceri, il protagonista scopre che i veri esami della sua vita cominciano ora. La famiglia Fortezza al completo lo accoglie « assumendo un atteggiamento secondo l’etica e lo stile e la moda dell’epoca » 7, che rispecchia il loro innato conformismo e convenzionalismo. Per voce dello zio Stanislao gli spiegano che d’ora in poi non sarà più il padrone o il giudice della sua esistenza, ma questo compito spetterà alla società ed egli dovrà adeguarvisi: Caro Speranza, mettetevi bene in mente

questo:

una volta lau-

reato bisogna dare alla società conto e ragione di questa laurea. Voi,

in fondo, laureandovi, non avete fatto altro che impiantare una regolare contabilità con tanto di libro mastro, nel quale gli altri, non voi,

si prenderanno la briga di segnare le entrate e le uscite dei meriti e demeriti che via via si verificheranno durante il vostro impegno di professionista, marito e padre di famiglia®.

Proprio in questa occasione cominciano le annotazioni nel libro mastro dei risultati degli esami a cui il consorzio umano lo sottoporrà durante tutta la vita. Difatti può sposarsi solo dopo aver superato quelli preliminari al matrimonio, ai quali il futuro suocero insieme al cognato medico lo assoggettano, dopo un periodo di fidanzamento consono ai dettami del perbenismo. Durante l’attesa per unirsi alla donna che ama, Guglielmo sgobba e si fa una posizione di responsabilità con la propria capacità, tenacia e intelligenza, ma l'invidia della gente — e fra questa anche del suo migliore amico, Furio La Spina, un fallito che si autonomina suo angelo custode — non ascrive i meriti a lui, ma li attribuisce all’appoggio del futuro suocero, ciò che è assolutamente falso. Nemmeno la vita privata del protagonista viene risparmiata dalla società, i cui membri non hanno nulla di meglio che malignare sul conto degli altri. È probabilmente Furio La Spina, confidente dell’ingenuo Guglielmo al quale si è imposto come compare, a diffondere la notizia dello stato interessante di Gigliola al momento del matrimonio. Così gli arrivano perfino «lettere anonime piene di allusioni ironiche di auguri per il prematuro lieto evento »? che presto avrà luogo. Gli invitati, poi, per il festeggiamento della nascita del primo figlio, si meravigliano, anzi, si scandalizzano che:

256

Cantata dei giorni dispari

« Questo bambino è il vostro ritratto. Cose da pazzi ». Al che al povero Guglielmo sconcertato non rimane che chiedersi: « Allora tutti questi signori non sono degli invitati, ma membri di una commissione di controllo? » !°. Con la nascita del secondo figlio le cose vanno ancor peggio per il protagonista, che viene messo in crisi. Questa volta la somiglianza viene rilevata con la madre. Anzi gli vien detto: « Voi non c’entrate proprio » !. Per un momento Guglielmo si lascia contaminare dalla società e diventa anche lui « il più pignolo e zelante membro della commissione di controllo » !®. Denuda il figlio per osservarlo e per trovare, ma invano, una rassomiglianza con se stesso. Però prende il sopravvento in lui il suo buonsenso e il suo rispetto per gli altri, e subito si vergogna della propria azione. Questi fatti si apprendono dal dialogo di Guglielmo col pubblico al quale racconta le vicende degli ultimi dieci anni — siamo nel 1935 —, facendone un bilancio che secondo lui risulta né in perdita né in profitto. Sottolinea il tempo passato mettendosi la barba grigia. La sua vita è stata rallegrata da vere gioie, ma anche rattristata da grosse amarezze, che per il momento non vuole rivelare. Dice che lo farà solo se si troverà « con l’acqua alla gola », e se lo metteranno « con le spalle al muro » !. Fra le gioie annovera l’incontro con una povera ragazza di nome

Bonaria, ricca di sentimenti auten-

tici, che gli offre un amore da lui ricambiato. Ma la sua felicità dura ben poco. Sempre per merito dell’« amico fraterno » Furio La Spina, il cui cognome è indicativo, la sua rela-

zione diventa di dominio pubblico. La moglie di Guglielmo, prima con vaghe allusioni gli fa una mezza scenata, poi messa su dalle sue amiche vuole affrontare Bonaria. Inutilmente Furio La Spina l’avverte che la giovane donna ha già deciso di troncare il rapporto e sta per partire per Milano. Nel secondo atto troviamo le due donne, Bonaria e Gigliola a colloquio in un'osteria periferica, luogo degli incontri segreti di Guglielmo con la giovane. « Gigliola è in ansia e divorata da livore », Bonaria invece, forte della decisione presa dopo aver lungamente meditato », «è serena e priva di rancori » !. Spiega con calma:

Vi ho detto e vi ripeto che fra me e vostro marito non esiste più niente: è finito tutto. Ma non perché ci siamo scocciati l’uno dell’altra: ci siamo messi paura della moglie, dei figli... abbiamo avuto paura della gente. La gente fa paura. Ci hanno messo sotto inchiesta,

a me e a quel povero Guglielmo *.,

58.

Gli esami non finiscono mai

259]

Partendo potrà ridare la pace a Guglielmo ed evitare la rovina che per un uomo può rappresentare un’amante in una società dove contano solo le apparenze e non i veri sentimenti. Sceglie di lasciarlo alla moglie che invece rappresenta la legalità, l’ordinata vita familiare. Gigliola teme di non poter riconquistare il marito amareggiato dalla partenza di Bonaria. Le chiede di accettare un compromesso, di rimanere fino a quando non si fosse riappacificata col marito. Bonaria, che da bambina proprio per l’ambiente pieno di miseria in cui era cresciuta aveva dovuto subire delle situazioni scabrose che però non avevano intaccato la sua bontà e onestà innata, rifiuta l’offerta di Gigliola. Le dice che il suo matrimonio era già fallito prima che Guglielmo l’incontrasse, altrimenti non l’avrebbe cercata. Gigliola per tutta risposta la schiaffeggia. Bonaria non reagisce. Sopravviene Guglielmo che afferra la moglie per le braccia e la costringe a schiaffeggiarsi. Chiede a Bonaria di andare via e lascia che la moglie se ne vada col suo risentimento. Arriva in quel momento Furio, e Guglielmo capisce che il suo « fraterno amico », l’unico a conoscere il luogo dei suoi appuntamenti segreti con la giovane, è un uomo spregevole. Dubbi ne aveva avuti già prima, ma li aveva cacciati perché aveva voluto credere nell’amicizia. Ora si ribella e affronta La Spina accusandolo di rappresentare degnamente quel tipo di uomini che si serve della vita degli altri per alimentare la propria fatua meschinità: I giorni amari, dolci, felici o dolorosi della nostra vita, nelle mani di gente come te diventano generi commerciabili che si vendono a metri e a scampoli nelle case, per le strade e le piazze della città”.

Furio per tutta risposta gli ricorda che la sua rivolta è inutile perché il mondo continuerà a giudicarlo secondo il proprio metro, senza mai considerare la verità dei fatti. AI che a Guglielmo non resta che rivolgersi al pubblico per chiederne la comprensione e la pietà, sentendosi con le spalle al muro. Racconta quello che gli aveva taciuto prima. Con un flash back fa vedere gli avvenimenti che l'avevano amareggiato. Sei anni prima era stata proprio sua moglie a distruggere il loro matrimonio. Gigliola, che del giglio aveva solo il nome, aveva ritrovato il suo primo amore e ne era diventata l’amante. Ma questo era stato solo il colpo di grazia. Già prima era venuta meno fra di loro la fiducia e la capacità di comunicare. Sotto l’influsso della contessa Maria delle Grazie Filippetti Ullera, Gigliola aveva preso ad agire contro i desideri del marito in difformità alle comuni decisioni che avevano preso durante il fidanzamento. Per esempio, durante una

258

Cantata dei giorni dispari

delle sue assenze di lavoro, aveva fatto battezzare e cresimare i figli,

quando invece lui avrebbe voluto che decidessero per conto proprio, una volta raggiunta l’età della ragione, se diventare cristiani o meno. La sua casa era passata sotto il controllo di questa amica di Gigliola, che la dirigeva senza che lui potesse avere « diritto a parlare, espri-

mere, discutere e contraddire » !. La sbandata stessa di Gigliola era stata risolta dalla contessa, che le aveva consigliato il ritorno all’ovile non per amore del marito, ma per salvare se stessa, la sua onorabilità, e salvaguardare il matri-

monio anche se era una « croce »: in poche parole, la facciata davanti alla società. Guglielmo conclude le sue rievocazioni, chiedendo ancora una volta al pubblico comprensione e pietà con voce velata e stanca. Continua però a vivere in queste condizioni per altri ventidue

anni. Ormai siamo nel 1957. Non si è arreso, anche se condannato alla solitudine per mancanza di vera amicizia e di vera comunicazione in seno alla famiglia. Ha continuato a combattere per i figli, per il suo senso di responsabilità e forse nella vaga speranza di essere un giorno compreso. Ha anche dei grandi progetti. « Vuol dare un colpo di timone alla situazione finanziaria della famiglia: vuole investire dei grossi capitali in un affare » !8 e, per fare questo, vendere la proprietà. La moglie è contraria ai disegni del marito perché segue i consigli della contessa Maria delle Grazie che, degna erede di Furio La Spina, è diventata lei l’« angelo custode » della casa. Gigliola arriva a voler far interdire il marito, e chiede l’appoggio dei figli ormai grandi e sposati. Guglielmo, intuendo che questi sono pronti a schierarsi con la madre, rinuncia ai sogni che gli danno la forza di tirare avanti in mezzo alla incomprensione che lo circonda. Proibisce ai figli di chiamarlo papà: « Ma che papà! Chiamatemi signor Coso, mazza, bastone, portafiori, candeliere, tutto fuori che papà! » !?. Tradito da tutti, prende la decisione finale per la sua vita:

Rinunzio a dare l'impulso che volevo dare alla nostra... ob, scusate... alla vostra posizione finanziaria. A morte mia, lascerò intatto il patrimonio che si divideranno in parti uguali i figli delle parole incrociate. E per farmi piacere... ho detto « farmi », badate non bo detto « farvi »... Per farmi piacere, me ne andrò al più presto all’altro mondo. Non intendo suicidarmi, non v'allarmate: non voglio lasciare

questa macchia infamante in famiglia. L'uomo sa che deve morire e

che non c'è niente da fare. Sa pure che non può ritardare la morte, è vero, ma sa con certezza che quando comincia a vivere come un

albero, quando passa le giornate sdraiato in poltrona a leggere libri

58.

Gli esami non finiscono mai

259

e giornali, la fine non può essere lontana. Di libri e di giornali si può morire ®.

Da questo momento Guglielmo Speranza si chiude nel silenzio, che durerà fino alla sua morte, nel 1972: siede in una poltrona immerso in libri e giornali. Una sola cosa è viva in lui: lo sguardo col quale segue coloro che lo circondano. Lo ritroviamo così, ammalato, con la barba bianca, nel terzo atto. Assume come espressione del viso una smorfia ambigua, che accompagna con ghigni che conserverà anche da morto. Guglielmo, rinchiuso nel suo esilio volontario, facilita il compito della contessa Maria delle Grazie, veramente libera di dirigere come un abile maestro di musica la famiglia Speranza, che d’altra parte non chiede di meglio. La contessa pensa al testamento, ma Guglielmo si rifiuta di farlo perché « un testamento scritto può essere impugnato dalla legge, ma quello pensato solamente rimane chiuso nella tomba insieme al morto » °!. Lascia solo una lettera firmata col significativo nome di « signor Coso, mazza, bastone, portafiori, candeliere » che aveva adottato dopo la prova inconfutabile di mancanza di comprensione e di fiducia dei suoi familiari. In questa missiva chiede di essere sepolto nudo, perché « nudo sono venuto al mondo, e nudo voglio essere sotterrato » ”°. Rifiuta i medici e si fa « curare » dal suo amico veterinario. La famiglia però fa venire tre luminari della scienza per un consulto. Le parole che pronunciano si confondono con quelle dello scherzoso esame al quale i suoi compagni di università lo avevano sottoposto dopo la sua laurea: registrate su nastro, fanno da eco a quanto dicono i professori. E la diagnosi è la stessa: « È questione di ipersensibilismo » ?, ma l’« obitus » è imminente. Sempre per l’insistenza della contessa Maria delle Grazie, Guglielmo deve sottoporsi anche all'esame del prete, che lui rifiuta perché dice di non avere peccati da confessare. Non risponde alle domande di padre Cicuzza. Il prete per costringerlo a parlare ricorre, anche lui, al giudizio della gente come incentivo: « Don Gugliè, il mondo non vuol essere deluso da un vostro atteggiamento ostile alla legge divina » ”. Padre Cicuzza lo assolve malgrado il suo mutismo e gli preannuncia il tribunale che lo aspetta in cielo. Guglielmo, « di fronte all’impossibilità di sfuggire a controlli arbitrari sia pure nell’aldilà, solleva in alto lo sguardo accorato, abbassando poi il capo e allargando le braccia in segno di accettazione dell’ineluttabile » È. Ep-

260

Cantata dei giorni dispari

pure la sua accettazione non è incondizionata. Anche da morto mantiene uno sguardo beffardo. (Eduardo, secondo un’usanza della Commedia dell’Arte, fa partecipare il defunto al corteo funebre). Le sue ultime volontà non sono state rispettate: invece di seppellirlo nudo, è rivestito di uno smoking dai vistosi risvolti di raso lucido; il suo viso è trasformato in una grottesca maschera con gli occhi bistrati e i pomelli arrossati. Nonostante ciò, durante il discorso funebre — capolavoro di falsità, di ipocrisia, denigratorio in ogni sua parola — continua a scambiare occhiate allusive e piene di sottintesi con Furio La Spina, che come compare d’anello e « amico » della famiglia ha voluto per sé l’onore di pronunciarlo. Ai presenti che per seguire le leggi della società, e non per vero cordoglio, singhiozzano, si abbracciano, piangono, si sorreggono a vicenda, attenti alla « buona riuscita d’ogni sfumatura che caratterizza il cerimoniale di rito nelle onoranze funebri », « dispensa sorrisi, ammiccamenti e

frivoli salutini » ”, Gli ultimi ritardatari, commentando il fatto che pochi erano stati presenti dicono: « Non ha saputo morire » ?. Secondo loro, avrebbe dovuto morire una quindicina di anni prima, « quando stava sulla cresta dell’onda e tutti i giornali si occupavano di lui » 8. ULtimo commento negativo della società su questo uomo che, secondo

i suoi dettami, non ha saputo né vivere né morire, perché non ha voluto accettarne i falsi princìpi per rimanere fedele a se stesso e non rinunciare alla propria autenticità. Il titolo della commedia potrebbe far pensare che il suo contenuto verta sulla necessità per l’uomo di superare continui esami nella vita. Invece questi esami consistono nell’intrusione della società che impone le proprie regole e, di conseguenza, il proprio giudizio a coloro che ne fanno parte. Arriva alla sopraffazione nei confronti di chi non vuole accettarne i falsi valori e si ribella al conformismo. La commedia lo dimostra chiaramente. Eduardo lo conferma parlandone a Giorgio Prosperi: « Rifare sempre gli esami agli altri è un vizio dell’uomo. Vedi, un autore spera sempre che una sua commedia serva a qualche cosa. In Gli esarzi non finiscono mai persino l'elogio funebre del protagonista fatto dal suo

più diretto

e instancabile

antagonista,

diventa

un

esame,

che

so, uno

scrutinio, una votazione. Perfino mentre ne fa un elogio funebre lo limita e gli toglie qualche cosa. L’elogio funebre è una cosa terribile. Io mi auguro che chi vede questa commedia non possa più pronunciare due parole di circostanza ad un funerale » 29, In quest'opera, nomi e cognomi non sono stati scelti a caso dall’autore. In parte già l'abbiamo visto. Viene da chiedersi se questo valga anche per il cognome del progatonista: Speranza. All’inizio della commedia viene ricordato il noto proverbio: « Chi di speranza campa, dispetato muore » °°. Si applica a Guglielmo? Secondo i fatti, no. Vive tutta la sua vita accettando le traversie che via via questa presenta. Si arrende

58.

Gli esami non finiscono mai

261

quando vede che non deve combattere solo contto la contro i propri cari, che tali non sono. Però la sua disperata. Agisce spinto da un atto di fede incrollabile tici, tra i quali la famiglia. Tutto quello che ha sempre ancora

fare, è stato per il loro bene. Quando

sere compreso,

si rinchiude

nel mutismo

fatto lo zio Nicola delle Voci di dentro

società, ma anche non è una scelta nei valori autenfatto, e intendeva

si rende conto

del saggio —

come

di non

es-

già aveva

(vedi p. 156). Il suo è un atto

di protesta, come giustamente dice Renzo Tian 3. È il suo « male », o forse è più giusto dire il suo « bene », 1°« ipersensibilismo » che lo spinge all’alienazione volontaria. Ora sarà lui a giudicare gli altri al di fuori e al di sopra della mischia. Solo contro tutti non poteva ribaltare tutto, specie quando è predominante nella società la volontà di falsare i valori autentici,

travisarli

al punto

di far perdere

la loro essenza.

Questo tipo di società è personificata dall’odiosa contessa Maria delle Grazie, la cui morale è basata sulle apparenze e le regole del perbenismo, la cui religione formalistica e ipocrita è ben lontana dalla vera pietà cristiana basata sul Vangelo. In nome della decenza non permette che Guglielmo venga sotterrato nudo come era suo desiderio, mentre proprio questa nudità simboleggia la sua autenticità, in contrapposizione alla società rivestita con i panni della falsa moralità e dell’ipocrisia. L’atteggiamento finale di Guglielmo durante il proprio funerale, al quale partecipa camminando in mezzo al corteo, rivela che egli « non avverte il senso del ridicolo che, da vivo, egli temeva gli sarebbe caduto addosso da morto, anzi si diverte » *. Non muore per niente disperato. In fondo è lui a vincere su quegli uomini, schiavi di consuetudini, che hanno trasformato perfino ciò che dovrebbe essere la manifestazione di un sentito dolore in una mascherata, in uno spettacolo da presentare agli altri, in cui non manca nemmeno

l’esame finale dell’esistenza del defunto

col giudizio definitivo: « Non ha saputo morire ». Anche in questa circostanza è palese come le sovrastrutture, i valori retorici abbiano preso il posto di quelli autentici. Contro questo si eleva l'indignazione di Eduardo, e non contro gli uomini come alcuni critici hanno detto, sottolineando che nella commedia risaltava la misantropia dell’autore. Infine una parola sulle innovazioni strutturali di questa commedia che hanno uno scopo specifico. La divisione è in tre atti come nelle altre — con in più un Prologo —, ma in realtà è un insieme di scenette legate da un dialogo diretto del personaggio col pubblico. È arricchita da flash back per mettere in giusta luce i fatti e gli avvenimenti narrati dal protagonista. Intermezzi musicali con canzoni di successo di varie epoche segnano il passare degli anni. Eduardo ha voluto spiegare il perché di questa impostazione degli Esami che non finiscono mai a Giorgio Prosperi: « Devo dire che questo mio nuovo stile di scenette non è un capriccio modernistico, deriva dalla struttura dell’antico teatro napoletano. Il teatro di Pulcinella è fatto così e ti cito testi come Le cento disgrazie di Pulcinella sulla luna, I cinque talismani, Le féeries di Pulcinella, Nu tesoro ’miez “e muorte, tutte funzionano a siparietti. Tra una scena e l’altra mi rivolgo al pubblico, ma non per arringarlo, per dare al pubblico la funzione di confidente, della spalla, e farlo partecipare più direttamente allo spettacolo. Questo modo

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Cantata dei giorni dispari

di costruire che non abbandonerò, mi dà maggiore senso di libertà. Comincio e termino la scena dove mi fa comodo, e non ho problemi di informazioni di antefatti; tutto ciò che occorre alla comprensione della commedia lo dico direttamente al pubblico, liberamente e semplicemente. Liberate da queste necessità, le scene corrono via più pure e più rapide. Gli stessi effetti di suspense diventano più veri e credibili » 83, i Questo procedimento — come dice in un'intervista raccolta da Sergio Lori — trasforma il pubblico in protagonista, «in quanto ogni spettatore si riconoscerà nel personaggio principale » #. Si arriva così al paradosso dell’inversione delle parti: « Negli Esazzi il pubblico sono io, perché mi presento agli spettatori come se parlassi a me stesso e in me gli spettatori si riconosceranno » #5. Questa volta Eduardo ha voluto parlare, prima di rinchiudersi nel mutismo del giusto, e dire tutto quello che gli stava a cuore sugli uomini e sulla società. È vero che in gran parte le sue parole racchiudono un’amara denuncia, ma contengono anche un invito a tutti noi a cambiare, a credere

nei veri valori, a non sacrificare la nostra autenticità per diventare schiavi della società.

59: Simpatia Tre atti, 1980. Scritta da Eduardo insieme agli allievi del primo corso della Scuola di Drammaturgia di Firenze, la commedia è pubblicata nel 1981. È il risultato delle ottanta ore di lezioni tenute da Eduardo dal gennaio del 1980 al settembre dello stesso anno. Nella Prefazione, il « maestro » racconta come si è arrivati a questa commedia: « Nel gennaio del 1980 decisi di fondare una scuola di drammaturg ia, che nel mio progetto originale doveva far parte di una più ampia e completa scuola di recitazione. [...] Il 15 gennaio ci riunimmo nel teatrino dell’Oriolo e io spiegai agli allievi [...] quanta importanza avesse, secondo me, che il teatro potesse disporre di scrittori contemporanei. Il teatto non può vivere di soli classici; come un albero che è, sì, alimentato dalle radici, ma non è vero albero se non porta foglie, fiori e frutti, il teatro affonda le sue radici nei classici ma deve dare sempre nuovi frutti se vuole rappresentare per la società umana non soltanto la cultura, ma anche e soprattutto un’offerta di scelta di vita. Ribadito questo concetto, raccontai ai ragazzi la trama di una commedia che per lunghi anni avevo ‘coccolato ’ nella mia mente senza mai scriverla perché, in genere, finché un’idea non è matura io non mi metto a scrivere, giacché durante la stesura si possono poi avere amare delusioni. ‘La commedia che vi propongo — dissi — è intitolata Simpatia. Voi la sentirete, e fate attenzione, perché i dialoghi e lo sviluppo dell’idea centrale saranno affidati a voi’ ». Passò a descrivere la trama e dopo «ci fu un dibattito aperto a tutti e insieme stabilimmo che ci saremmo rivisti dopo qualche mese, che ognuno di loro avrebbe lavorato a una scaletta della commedia e a una scena; che insieme avremmo letto il materiale ed avremmo scelto i pezzi migliori e da quelli, tutti insieme avremmo elaborato la stesura finale della commedi a »1,

59.

Simpatia

263

La vicenda ha inizio nell’interno di una gioiel leria al centro della città. È di proprietà di due cognati, Tullio Franchi e Alberto Bossi. Quest'ultimo ha sposato la sorella di Tullio. Sono due uomini completamente diversi. Mentre Alberto è simpatico a tutti, Tullio invece è antipatico. Proprio per questo tutto il perso nale della gioielleria ha deciso di licenziarsi in blocco. Non sopportano più i suoi modi scostanti. Tullio, d’altra parte, non muove un dito per trattenerli. Viene Giuliana, sua sorella, e vede subito che il fratell o è di umore nero. La giovane, al contrario, « è frizzante di una vivacit à

in parte sincera, in parte forzata » 2. È venuta a dare una mano nel negozio in assenza del marito che è appena tornato da un viaggio di affari € si sta riposando ancora. Tullio, però, fa scappare i clienti coi suoi modi bruschi. La sorella si meraviglia che si compor ti così, perché una volta era diverso, amava il suo lavoro e agiva differentemente. Il fratello riconosce che la sorella ha ragione, ma attribu isce la colpa alla clientela che il cognato si è procurato, gente che ama solo il lusso, che compra le cose belle perché sono costose, fanno figura € possono essere sfoggiate. Lui stesso resta colpito del suo cambia-

mento, si vede con « un viso lungo lungo, imbronciato. Una smorfia di disprezzo e di ripugnanza, ormai stampata e che si trasfo rma in tristezza ogni volta che cerco di nasconderla » 3. Proprio per questo ha lasciato la vendita al cognato, mentre lui cura l’amministra zione della ditta. i Giuliana è convinta che il fratello abbia « un rospo » che non è

capace di sputare e che costringe a comportarsi in maniera innaturale:

C'è qualcosa che ti spinge nell'ombra. E lè nell'ombra, hai imparato a invidiare gli altri, quelli che sono in vetrina. Ti metti in disparte a contemplare, ma dentro di te desideri che gli altri dalla penombra ti traggano nella zona di luce dove sono loro. Da solo non ce la fai. Tu ami la gente, ma celi il tuo amore perché hai paura

di non essere ricambiato *.

Tullio ammette che questo è vero, ma non se la sente di cambiare: E per essere apprezzato che cosa dovrei fare? Vendere ipocrisia a piene mani a tutti. Omaggio della ditta: oltre l'articolo acquistato vi sarà donato una confezione regali di vera ipocrisia! [...] Confezionare il nulla, ma confezionarlo bene, avvolgere la volgarità in un involucro che piace, attira, si vende... Vendere ipocritamente se stessi, affogare in un oceano di ipocrisia l'umanità pensante *.

Vuole rimanere se stesso e per questo si guadagna la fama di antipatico, che poi lo fa soffrire. Non se la sente di accettare come

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Cantata dei giorni dispari

gli altri, sua sorella inclusa, il compromesso con la società, non può « venerare i nuovi dèi » che si traducono in « accettazione, adattamento, malleabilità, ambientazione, abitudine » °. Viene Alberto a dare il cambio alla moglie. Racconta che si è trattenuto oltre il previsto nel suo viaggio perché si è lasciato at-

tirare dai favori delle signore della Casa Rossa di Amsterdam. Tullio naturalmente non approva la sua leggerezza, ma nemmeno gli acquisti che ha fatto: sono tutte pietre di seconda scelta, anche se il socio con la simpatia che suscita nei clienti e la sua parlantina, le saprà vendere. Disgustato va a rinchiudersi nel suo ufficio. Rimasto solo, Alberto, non essendoci più il « gorilla » che si è licenziato insieme agli altri, chiude la porta del negozio a chiave. Suona una ragazza, ma appena le viene aperto, « entra di botto come proiettata in avanti da una.spinta. Infatti dietro di lei c’è un bandito », che dopo essersene servito come scudo la getta da parte e grida: « Fermi tutti, mani in alto! È una rapina ». Entra un secondo bandito che corre al banco e si mette ad arraffare gioielli. « Alberto immediatamente alza le braccia e rimane impietrito ». Accorre Tullio con la pistola in pugno, prima spara per aria, ma avendo

uno dei banditi risposto al fuoco mira a loro. « Da tre punti i colpi di pistola si incrociano » 7. I banditi finalmente fuggono continuando a sparare. Dalla strada si odono sirene della polizia, e vocio di gente che si avvicina. Nel secondo atto ritroviamo Tullio, ricoverato in clinica per una ferita riportata nella sparatoria. Tutti i giornali mettono in risalto il suo atto di coraggio, ma lui considera questi articoli come le solite esagerazioni della stampa. A Giuliana che l’assiste amorevolmente esprime i suoi pensieri sulla vita, dopo essersi trovato di fronte alla morte: Oggi sono un re! Perché non sono morto. Tutto qui, eppure è meraviglioso. Posso alzarmi e uscire e se faccio presto sulla porta ci trovo la vita. Ma non posso arrivare tardi. Io ho visto la morte, me

la sono trovata davanti. Sai che c’è scritto in fronte alla morte? Ci sta scritto: difenditi, aggrappati! A chi, a che cosa? Non lo sai, ma tu ti aggrappi, stringi forte qualcosa, e quando

tutto è passato,

non c'è più pericolo e puoi riaprire gli occhi, ti ritrovi abbracciato a te stesso. Che cosa ho fatto in questi anni? Un bel giorno mi sono messo in cammino per arrivare in un luogo felice, mio — non so ancora qual è 0 se esiste —, ma voglio arrivarci intatto, puro come

quando sono partito. Voglio poter dire il giorno che ci sarò arrivato, eccomi a casa mia, datemi uno specchio che voglio guardarmi la faccia

59.

Simpatia

265

per vedere se è pulita, e davanti a me stesso avere la gioia di ripetermi: io, ‘î0, t0, 10...*.

Interrompono

i ragionamenti

Ù

di Tullio sul modo

autentico di

concepire l’esistenza, l’arrivo prima di un cronista, poi di Paola, la

ragazza costretta dai banditi ad entrare nel negozio. Viene a dimostrare la sua gratitudine al ferito che col suo coraggio ha salvato tutti quanti. Si sente una resuscitata dopo il fatto successo il giorno prima e che poteva finire in una tragedia. Tullio condivide i suoi sentimenti. L’essersi trovato davanti alla morte ha portato in lui un cambiamento: Mi sento un'altra persona. Più calmo e più agitato allo stesso tempo. Mi ha fatto ripensare, quello che è successo, a tanti progetti

della mia adolescenza, abbandonati prima ancora di provare che fossero irrealizzabili. Ora mi sembra di poter fare tutto. Ho più esperienza, non mi lascio scoraggiare dagli ostacoli. [...] Mi sento come un ciclone tranquillo, deciso a fare molta strada...?. Gli stessi ragionamenti non li può fare col cognato Alberto. Paola l’ha descritto più bianco del muro per la paura, durante la rapina. Ora invece fa il grande, minimizza l’azione di Tullio. Dice che stava per intervenire lui. Presto però una trasmissione alla radio lo smentisce e mostra la sua vigliaccheria. In preda allo shock aveva inveito contro il cognato e le sue parole erano state registrate: Ma non finisce così... mi sentirà se scampa... e sentirà pure le mie mani... Gli gonfio la faccia! [...] Pazzo! Pazzo! [...] A pedate lo prendo: a pedate lo caccio dalla gioielleria! Dio lo sa per mandarla avanti... arriva lui e spara! Cretino, imbecille... L'hanno portato in ospedale, speriamo che ci resti...

« Tullio malgrado il fastidio che gli procura la ferita riesce ad allungare il braccio sinistro verso la radio e la spegne » !°. Si mostra generoso verso quell’uomo che si era giudicato sempre migliore di lui, giudizio condiviso anche dagli altri fino a ieri. Ora però anche gli ex-dipendenti che erano venuti a trovare Tullio sono pieni di ammirazione per quest’ultimo e nello stesso tempo non nascondono il disprezzo che provano per Alberto. Giuliana si porta via il marito umiliato, mentre « gli altri, compreso Tullio, restano immobili, muti riflettendo ognuno per proprio conto sull’amara soluzione dei fatti accaduti ai due cognati » !.

266

Cantata dei giorni dispari

Nel terzo atto si è in casa di Tullio, un anno dopo la tentata rapina. La simpatia che era nata all’ospedale tra Paola e il gioielliere si è tramutata in amore. Vivono insieme. Arriva inaspettata Giulana,

malvestita, pallida. Il fratello intuisce immediatamente che qualcosa di grave è successo. I due cognati si sono divisi, dopo l’assalto dei banditi, e ognuno per conto suo ha proseguito gli affari che per Alberto si sono dimostrati disastrosi. Giuliana ha dovuto vendere tutto: negozio, mobili, casa. Viene dunque per chiedere aiuto al fratello. Tullio, al contrario, lontano da Alberto ha ritrovato se stesso, è tornato come era prima: umano e socievole. Ha ripreso ad amare

il suo lavoro. Non se la sente di riconciliarsi col cognato, teme di perdere di nuovo l’equilibrio riconquistato. Invita la sorella a fare altrettanto e a lasciare il marito. Giuliana si rende conto di aver sbagliato, ma non se la sente di imitarlo. Giudica che è troppo tardi per lei. Insiste invece nel difendere Alberto. Il fratello sta per commuoversi e pensare a una riconciliazione, ma il comportamento del cognato, venuto pure lui a parlargli, gli farà cambiare idea. Il suo modo di fare aumenterà il rancore di Tullio nei suoi confronti. Alberto, non sapendo che Giuliana aveva rivelato al fratello le condizioni in cui si trovano, racconta un sacco di bugie, per finire col proporre: al cognato, in nome dell’affetto che lo lega a lui, di riunite di nuovo le loto forze come avevano fatto dieci anni prima quando lui aveva sposato Giuliana. Suggerisce di aprite un negozio magari più grande, insieme. i Tullio ora vede chiaramente fino a che punto si spinga l’ipocrisia di Alberto. Prima lo aveva sopravvalutato e avrebbe voluto essere come lui; non riuscendoci, si era rinchiuso in se stesso come in un guscio. Credeva che il successo del cognato fosse la conseguenza di un salto di qualità « per il quale tu fossi arrivato dalla mia timidezza alla tua disinvoltura, dalla mia solitudine al tuo successo » !. Invece

si è reso conto che la sua brillantezza dipendeva non mento della mediocrità, ma dal crogiolarsi in essa:

dal supera-

Ti vedevo corteggiare spudoratamente certe clienti che io aborrivo... « Ma come fa? », mi chiedevo. « Come fa a non lasciare trasparire il disgusto? ». Come facevi... era semplice: il disgusto tu non lo provavi perché non lo potevi provare. Non provavi ripugnanza a identificarti col vizio, anzi ti ci divertivi.

[...] Vedevo

queste

tue

tare, ma era come se non le vedessi. [...] Perché queste tue tare sapevi rivestirle con grazia... avevi guizzi di pudore, sottigliezze improvvise e inaspettate che mi stupivano e mi rendevano schiavo...

59.

Simpatia

267

Adesso invece ha capito che il cognato è come un attore scena, ma non sulla scena di un teatro, su quella della vita:

in

Nella vita tu reciti benissimo e reciti con tutti, con me, con tua

moglie, con Paola, con chi ti trovi davanti. Tu non sei una persona vera, sei il personaggio

del momento:

mimi il cliente del momento,

peggio, ne mimi morbosamente i difetti, le perversioni: sei come la ii si forma dalle onde del mare: pura effervescenza senza radici... *. Prima di rendersi conto di tutto questo aveva tentato anche di imitare Alberto, voleva essere simpatico ed era stato peggio. Quando, dopo la rapina, si è staccato da lui, aveva passato un momento strano: « Mi sentivo solo, nudo. Non capivo, ero confuso. Avevo paura. Ero felice. Ero angosciato, però sentivo che avevo fatto una cosa giusta » !#. Infatti, i vecchi clienti sono ritornati ‘a lui, i clienti che trovavano « antipatico » proprio il « simpatico » cognato; i suoi affari vanno a meraviglia. Proprio così ha fatto la scoperta che non

esistono né la simpatia, né l’antipatia: Sono due etichette che abbiamo ereditato, e inconsapevoli ce ne serviamo quando ci fa comodo. Le ripetiamo da secoli, senza conoscerne l'origine... e in fondo, capovolte, assumono lo stesso

significato *.

Infatti si può essere antipatici agli uni e simpatici agli altri. Perché gli « altri », come entità unica, non esistono; “ci sono solo « tanti ‘io’, una

selva di ‘io’

»:

Se tutti lo capissero, che vita più ricca avremmo... La spontaneità

nascerebbe allora dall’audacia, dal coraggio di avventurarci nell’imprevidibile... saremmo degli avventurieri con un gusto sensuale della vita. Potremmo sentire la vera simpatia, ma quella vera, quella scientifica. Potremmo profumare, gioire per una persona, intristirci e piangere per un’altra, morire per una persona e per l’altra vivere! !

Dopo questa scoperta Tullio non soffre più né di complessi di inferiorità, né di solitudine. Tutti lo amano e lo apprezzano. Gli exdipendenti si sono fatti riassumere da lui e fanno a gara per accontentarlo, non solo nel negozio, ma anche a casa quando c’è bisogno di una mano. Pure il loro principale è cambiato, sa interessarsi a ognuno di loro, alla loro vita e famiglia. Rivedendo Alberto, questi stessi dipendenti, che prima lo consideravano simpatico, ora lo vedono proprio come fumo negli occhi.

268

Cantata dei giorni dispari

Tullio si è anche reso conto che esistono invece i professionisti della simpatia, che possono diventare uomini molto pericolosi. Il cognato è uno di essi, ma è un professionista da quattro soldi: Quello che è successo a noi è un episodio trascurabile di fronte ai danni che possono provocare i grandi professionisti... quelli, per esempio, che con gli stessi tuoi ferri del mestiere riescono a raggiun-

gere posti di comando, ad avere nelle mani il potere: per questo genere di professionisti. Pensa, allora, ai sono provocare all'umanità. Possono ridurre i paesi, continenti... a un cumulo di macerie. Tu sei una confronti... !?.

non c'è limite danni che posle montagne, i pulce nei loro

Anche se « pulce », Alberto decide di continuare a rimanere tale perché sicuro di trovare sulla sua strada dei simpatici « veri » che diventeranno antipatici vicino a lui, dei « fessi » come lo era a suo tempo Tullio che gli permetteranno di esercitare la sua professione di simpatico. Se ne va con la moglie che lo segue, non avendo il coraggio di fare lo stesso passo del fratello. Cala la tela sul brindisi alle meritate vacanze di Tullio e Paola, dopo un anno intenso di lavoro, ma anche di una nuova vita. Brindisi al quale partecipano tutti i dipendenti del negozio che si consi-

derano ormai parte della famiglia. Eduardo nella Prefazione esprime un giudizio su Simzpatia, definendola « una commedia indagine »; prosegue poi col dire: « Non so quanto valga sul piano propriamente artistico; so però che featralmente è valida, il che è quello che io ho sempre chiesto ai miei testi: che fossero rappresentabili. È stato appunto questo che ho cercato di far capire ai ragazzi e da questo scritto a me pare che mi abbiano ben compreso » !8. La commedia non è solo teatralmente valida, ma risponde al requisito profondo del teatro secondo la concezione di Eduardo, idea che ha ribadito ai suoi allievi: offrire alla società una scelta di vita. Infatti, Simpatia mette in scena proprio questa scelta che, come la intende Eduardo, non è certamente facile, ma è sicuramente condivisa dai giovani che hanno saputo tradurre in parole il pensiero del loro « Maestro

».

Che cosa richiede questo programma di vita? La risposta è semplice: essere se stessi. Ma l’attuazione è difficile in una società dove progrediscono i tipi come Alberto, pronti a qualsiasi compromesso, privi di ogni senso morale, la cui bandiera è l’ipocrisia. Uno dei personaggi, parlando di Tullio dopo che ha sventato la rapina, dice che è stato « coraggioso, generoso e forte » !9. E sono proprio queste tre virtù non comuni — coraggio, generosità e forza — che ci vogliono pet essere autentici, cioè veri uomini. Coraggio nella lotta contro il male

60.

Mettiti al passo

269

che può prendere anche la forma della violenza, generosità verso gli altri a costo del proprio sacrificio, e infine la forza di non arrendersi se il proprio modo di fare non è apprezzato dagli altri. Questo comporta saper vincere la tentazione dell’isolamento, della misantropia e del volersi rifugiare nel silenzio dei giusti. Sembra che Eduardo abbia fatto scrivere ai suoi allievi una commedia che si rivela la più autobiografica di tutte le sue opere. In Tullio, uomo rude, di modi bruschi, introverso, il più delle volte scostante, pieno di un amore che cela per paura di non essere ricambiato o perché teme che altri approfittino della sua disponibilità, bollato come antipatico, sembra proprio di riconoscere Eduardo. Lui stesso disse ai suoi allievi durante la prima lezione: « Io sono antipatico. Uh, non vi potete neanche immaginare a quante persone specialmente del mio ambiente, io risulto odioso » 2. Tullio poi rassomiglia a Eduardo anche nella concezione della vita che vede come una lotta nella quale l’uomo può contare solo sulle proprie forze. Dunque, Simpatia non è una commedia di carattere: il contrasto fra il simpatico e l’antipatico. Dimostra invece che simpatia e ‘antipatia non esistono in sé, sono sentimenti mutevoli e interscambiabili, e gli stessi simpatici possono diventare antipatici e viceversa. L’importante è quel che veramente rappresentano i personaggi messi in scena ed è attraverso loro che la commedia offre una lezione di vita degna di essere appresa.

60. Mettiti al passo Due tempi, 1982. Commedia rappresentata per la prima volta il 3 novembre 1982 dalla compagnia « Gruppo Arte della Commedia » sotto la direzione e per la regia di Eduardo, a Roma, al Teatro Valle. Il soggetto della commedia è di Eduardo, mentre la versione drammaturgica è di Claudio Brachini, uno degli studenti della Scuola di Drammaturgia dell'università di Roma, diretta da Eduardo De Filippo. È il primo risultato di rappresentazione teatrale dell’anno accademico 1981-82. Il testo è stato pubblicato da Einaudi nel 1982, come Simpatia, nella serie dedicata alle Scuole di

Drammaturgia di Eduardo. Claudio Brachini, un giovane intervistato

di 23 anni laureando in Lettere Moderne, da Paolo Conti, racconta come è nata la commedia: « Durante la

scuola di drammaturgia da lui tenuta all'università di Roma l'inverno scorso, De Filippo affidò ad alcuni allievi il compito di ‘elaborare’ un tema. Alla fine Eduardo scelse la mia stesura. Per questo nella locandina si legge che si tratta di un soggetto per commedia secondo la mia versione. De Filippo ed io siamo coautori a tutti gli effetti ». Parlando poi del testo dice: « Abbiamo svelato con semplicità le infinite possibilità poetiche offerte dalla vita quotidiana del 1982. Eduardo si cruccia continuamente di veder disperso tanto materiale perché nessuno lo utilizza. ‘Ma come — si chiede —, in un’epoca come la nostra così piena di contraddizioni nessuno trova una forma espressiva possibile?’ »!.,

270

Cantata dei giorni dispari

Il maestro anche in questo corso ha cercato di convincere i suoi allievi che «il teatro prende lezione dalla vita. I classici possono riempire gli scaffali, e vanno studiati, ma la vita di ogni giorno è quella che riempie le nostre biblioteche e il nostro teatro quotidiano »2. È interessante conoscete quale sia stata la reazione di questi giovani nell'avere Eduardo come professore, cosa è stata per loro quest’esperienza. Prendiamo come loro portavoce lo stesso Claudio Brachini: « Cos'è Eduardo per me? Probabilmente la metafora del padre. Ma non un padre-totem o un padre-mito: la disponibilità di De Filippo vieterebbe una simile operazione. Diciamo che è stato l’imprevisto incontro con un sublime uomo di teatro » 3.

I due tempi della commedia comprendono sette quadri che scandiscono un arco temporale di dieci anni. Nel primo quadro l’azione si svolge all’interno di una banca. Dietro gli sportelli ci sono gli impiegati e fra questi Alfredo Bonassiro, al quale si avvicina un giovane sui venticinque anni, Enrico Troiani. Chiede di chiudere un conto. Alfredo « rimane esterrefatto, sbianca » 4‘ nel vederlo. Infatti, si trova davanti il suo amico fraterno verso il quale però ha agito indegnamente. Gli ha rubato il posto di lavoro, l’impiego nella banca. È convinto che sia venuto con l’intenzione di vendicarsi, e si appella alla sua innata generosità, al suo animo poetico, per essere perdonato. Enrico gli dice che non ha deciso ancora come si comporterà, perché riconosce di essere stato sempre più poeta che guerriero: « E mettersi l'armatura, così da un giorno all’altro, non è facile. Se la indosserò, la mia forse sarà un’armatura invisibile, una sorta

di seconda pelle sotto cui la prima soffoca, raggrinzisce » 3. Chiede però all'amico perché abbia agito così. Alfredo si giustifica dicendo che stava con l’acqua alla gola, aveva timore di perdere la giovane che amava, con la quale si è potuto sposare grazie all’impiego. Enrico avrebbe preferito che l’amico al quale era legato fin dall'infanzia gli avesse chiesto di cedergli il posto, invece di appropriarsene « indebitamente come un bandito » ®. Ora, prima di prendere una risoluzione ha bisogno di meditare e decidere se mettersi l'armatura o lasciare che la sua pelle respiri aria pura e smaltisca definitivamente la sete di vendetta che l’inaridisce. Dette queste parole se ne va. Deciderà, infine, di non vendicarsi, ma Alfredo, preso dal rimorso, e inoltre ritenendo Enrico non migliore di se stesso, si forma la convinzione che l’amico abbia deliberato il contrario. Attribuirà d’ora in poi ogni cosa negativa che gli succederà nella vita, ogni contrarietà, ad Enrico:

il cambiamento

del turno di lavoro di sua

moglie che impédisce loro di vedersi durante il giorno, l’antipatia dei colleghi nei suoi confronti, il prolungamento del periodo di

60.

Mettiti al passo

271

prova in banca, e così via di seguito. Ma non basta: oltre al complesso di persecuzione, gli verranno veri e propri mali fisici, che si manifesteranno in diverse forme col passare del tempo. Il suo umore sarà sempre nero e così si guasteranno anche i rapporti con Beatrice, sua moglie.

Già nel secondo quadro Beatrice rimprovera ad Alfredo il suo modo di fare: Insomma! Da quando mi hanno cambiato il turno di lavoro in libreria, ci vediamo solo a cena e per tutto il tempo, cosa hai fatto? Hai detto tre parole ogni dieci grugniti, hai mangiato come un orso e ora mi rispondi fischi per fiaschi; mi scacci via se m’avvicino. [...] Lo sento che c’è qualcosa che non

va, non

dirmi di no, non

sono

cretina! ?. Il marito dapprima nega, poi ammette che lui c'è stato, ma lo attribuisce al lavoro; è nel non va, i colleghi ce l'hanno con lui, pensano anzi, peggio, un LADRO POTENZIALE, uno che l’altro può mettersi a rubare! »: È come

se

qualcuno

che

mi

conoscesse

un cambiamento in lavoro che qualcosa che « sia un LADRO, da un momento al-

gli avesse

detto

come

sono fatto di dentro e di fuori. E questi hanno capito fischi per fiaschi, o meglio, hanno capito benissimo, è quello che li ha informati male apposta! sciaGuRATO! Si abbassa a tutto pur di raggiungere il suo scopo! *. Alla moglie però non rivela che pensa ad Enrico, perché Beatrice lo stima molto. Era rimasta male perché lui non aveva partecipato al loro matrimonio. Ignora la ragione per la quale il marito non gli aveva fatto avere l’invito che lei gli aveva scritto personalmente. Continua a non capire i discorsi del marito che dice: « Certe volte ho paura che i miei colleghi abbiano ragione. Il naso, la bocca, gli occhi, le guance, mi sembrano proprio quelli di un ladro, di uno che ha rubato! È come se avessi rubato qualcosa d’ineffabile, di simile alla felicità »?. Il tempo passa, lo stato d’animo di Alfredo peggiora. Nel terzo quadro è notte, gli sposi stanno dormendo, ma il marito ha un incubo e parla nel sonno, anzi, poi, si mette anche a’camminare. Deve difendersi da Enrico che vede forte, con un’armatura invisibile. Si giustifica davanti a lui dicendo che « siamo tutti colpevoli! ». Vuole anche lui un’armatura ma nessuno gliela dà: comincia ad urlare per averla, vuol combattere il cavaliere a gavallo, strozzarlo, sttangolarlo, stritolarlo. Incarna in lui il rimorso che vuole sopraffare. Le sue grida

22.

Cantata dei giorni dispari

svegliano Beatrice che lo guarda esterefatta, è presa anche lei dal turbamento. Alla fine, però, la giovane si butta sul letto in preda ad una crisi di disperazione isterica che sveglia Alfredo. Gli chiede la ragione della sua paura, ma lui si rifiuta di dirgliela, anzi protesta: « Il sogno è mio e me lo gestisco io », e facendo il verso del manifestante aggiunge: « Viva il sogno libero! » !°. Poco dopo, però, a questi incubi, frutto dei fantasmi del subconscio, segue o corrisponde la violenza esteriore della vita dei nostri tempi. Appena i due sposi si calmano e si rimettono a dormire, vengono svegliati dagli spari provenienti dalla strada. Colpi di mitra si susseguono a grida di panico che si avvicinano sempre più. A_Beatrice e Alfredo non resta che rifugiarsi terrorizzati sotto il letto, mentre cala la tela. Nel secondo tempo i primi tre quadri mostrano il precipitare progressivo dello stato di logoramento dei nervi di Alfredo, contemporaneamente al completo deterioramento dei suoi rapporti con la moglie che porterà alla loro separazione definitiva. Alfredo zoppica con la gamba destra e mostra un tic non molto evidente ma continuo sulla spalla e sul braccio destri. Sono la conseguenza visibile della sua nevrosi. Non riesce più a lavorare nella banca per i crampi allo stomaco che sente appena vi si trova. Chiede il trasferimento in un’altra città, senza consultare la moglie. Beatrice lo segue controvoglia, sperando che effettivamente il cambiamento gli faccia bene. La situazione però non migliora. Il marito ora tartaglia e cammina con difficoltà. Nel nuovo posto di lavoro dà del ladro al cassiere senza alcun motivo apparente. È sempre il suo subconscio a farlo agire così irrazionalmente. Ritorce l’accusa che sente gravare continuamente su di sé: « Dovevo liberarmi di quest’accusa che anche qui mi tormenta » !!. Ne consegue il ritrasferimento al suo posto di lavoro iniziale. Il ritorno nella banca finisce in un vero e proprio disastro.

Credendo che i suoi colleghi lo accolgano con aria denigratoria e abbiano intenzione di prenderlo in giro, si scaglia contro uno di essi. Lo strattona, lo schiaffeggia, infine lo butta a terra. Gli altri impiegati cercano di fermare la sua violenza e con fatica riescono a immobilizzarlo. Alberto non solo viene licenziato in tronco, ma deve subire anche un processo dietro denuncia del collega che ha aggredito. Si salva dalla prigione, facendosi passare per pazzo. È libero, ma completamente rovinato. Attribuisce il suo stato al pieno compimento della vendetta di Enrico: « Ma io lo so, di chi è la colpa! Mi è tutto chiaro fin nei minimi particolari! Bastardo! Fin dalle accuse dei colleghi, fin dalle liti con Beatrice, fin dall’inizio di qualche sorta di felicità. Bastardo, mi ha voluto rovinare! » !,

60.

Mettiti al passo

273

Nell'ultimo quadro sono passati dieci anni dall’inizio della commedia. Alfredo precocemente invecchiato è diventato un barbone. La sua « espressione è quella di un uomo tanto addolorato da es-

sere indifferente verso se stesso e verso gli altri » #. Ha un breve incontro con la moglie che vorrebbe restituirlo alla vita normale. Beatrice ha come amante un uomo importante dal quale si fa dare una lettera di raccomandazione per un lavoro, ma il marito la strappa. Non ha la forza di rialzarsi dallo stato in cui si è ridotto con le sue proprie mani, nemmeno dopo che Enrico cercherà di convincerlo in ogni maniera di non essersi vendicato. I due ex-amici si rivedono per caso per la prima volta dopo tanti anni. Avviene fra di loro una chiarificazione, che però non muterà la sorte di Alfredo. Inutilmente Enrico gli dirà che, malgrado abbia sentito amarezza per avere ricevuto una pugnalata alle spalle da colui che rispettava come un fratello, non si era mai vendicato. Anzi si era scordato di tutto: « In fondo la mia dimenticanza non è che la dimenticanza che la vita porta con sé ». È stato ed è un uomo felice, « anche se manca sempre qualcosa per completare una felicità » !. Alfredo è incapace di accettare che Enrico non sia come gli altri uomini e che non segua le leggi della società. Per lui, « il perdono con il relativo oblio, se voluto, può diventare vendetta », per di più « vendetta e giustizia sono due sorelle terribili che camminano di pari passo e appena l’una fa il passo più lungo, l’altra subito si sforza di raggiungerla, e anzi la sopravanza e così via in una corsa senza fine » ®. È convinto che la vendetta l’abbiamo nel sangue special mente nel tempo in cui viviamo: « Oggi la vendetta è all’ordine del giorno, è diventata legge d’onore, luogo comune... è diventato un siero: si viene al mondo vaccinati » ‘9. Siccome Enrico continua ad insistere di non avere sentito più questo impulso negativo dopo quel primo momento di risentimento, Alfredo invece di apprezzare l’amico lo giudica male e lo invita a mettersi al passo con la società in cui viviamo: « Ti ritieni la mosca bianca? Ma dove vivi? Dove credi di vivere tu? Tu vivi con noi e con le nostre leggi! Sì, anche tu, caro Poeta, vivi nel cielo livido della terra... ». Se non vuole adattarsi ai tempi, l’invita ad andare a vivete su una stazione spaziale perché sulla terra uomini come lui diventano « un pericolo pubblico » !. Ad Enrico, « convinto ormai dell’impossibilità di liberare Alfredo dalla trappola in cui inconsapevolmente egli stesso si è cacciato », non resta che constatare che l’amico assomiglia « a quella categoria di uomini che vivono circondati da una nebbia intensa, anche quando il sole potrebbe baciarli di bellezza » !* e dirgli che non l’odia. Gli offre la sua carta da visita, invitandolo a farsi vivo, ma Alfredo la

274

strappa come la lettera di raccomandazione: proprie convinzioni e vittima della propria

Cantata dei giorni dispari

rimane schiavo delle furia autodistruttiva.

Claudio Brachini nella commedia ha usato una tecnica teatrale un po’ esitante, probabilmente dovuta alla sua inesperienza: i critici in generale hanno rilevato la mancanza di azione drammatica, e Giorgio Prosperi definisce Mettiti al passo un lungo monologo !. Quanto al linguaggio, Renzo Tian scrive che rispecchia « una colloquialità, per così dire, formale e burocratica dove qualche sparso isolato di ‘giovanilese’ si mescola a metafore di una letterarietà scontata », mentre la scrittura scenica di Eduardo consiste per lui in « un miscuglio di colloquialità spontanea e di letterarietà popolare » 20. Nonostante questi limiti, bisogna riconoscere che il discepolo ha saputo rendere con una certa efficacia le idee del suo maestro. Anzi ha dato loro una interpretazione personale in chiave psicoanalitica 2! Ha mostrato con perizia le varie fasi della nevrosi del protagonista, che risultano dall’oggettivarsi del suo senso di colpa. Ritroviamo dunque in Mettiti al passo la concezione basilare di Eduardo, secondo la quale ognuno di noi la vita la fa o la disfa con le proprie mani. Per lui il famoso principio sartriano « l’enfer c’est les autres » si ribalta e diventa « l’enfer c’est nous ». Siamo noi, con i nostri fantasmi, con i nostri pregiudizi, anche se giustificati dal male generalizzato che regna intorno a noi, a distruggerci. Nei nostri rapporti col prossimo non dobbiamo lasciarci contagiare dalla violenza: la vendetta, per esempio, non risponde alle naturali inclinazioni dell’uomo come, invece, l’oblio e il perdono: « I fatti ci sono, rimangono lì, indifferenti al corso delle cose, indifferenti anche alla nostra memoria che pure, come un’inflessibile clessidra, registra tutte le tappe di questa pazza corsa verso una fine indistinta ed inevitabile. Ma come se le annotasse su un registro che subito ridiviene bianco, quasi che l’inchiostro sprofondasse in un vuoto misterioso », dice Enrico ad Alfredo 2, Eduardo ha saputo mettere in bocca proprio a Brachini, un esponente di quelle giovani generazioni che così facilmente si lasciano prendere dalla violenza, un messaggio e un appello di pace. La violenza non è sorella della giustizia — come il protagonista afferma e come molti giovani credono che sia — perché porta non solo distruzione, ma anche autodistruzione. La critica ha accolto piuttosto freddamente questo lavoro. Secondo Eduardo l’errore dei critici è stato di andare «a vedere la commedia scritta dai ragazzi come se si trattasse di un mio lavoro » 3. Ma credo che sia giusta anche l’osservazione di Giorgio Prosperi sul « maestro ». Nella recensione intitolata Il candido Eduardo al passo con gli allievi sottolinea la generosità di Eduardo nei confronti dei suoi studenti: « Eduardo, il caro, candido Eduardo, lui così semplice, così umano, così umile (nonostante certe contrarie apparenze) nelle sue commedie, che oggi tengono il campo incontrastate, sembra quasi in stato di contemplazione dei suoi giovanissimi allievi, di rispetto e persino di soggezione: di che cosa? Della loro età così tenera, del loro impegno, anche della loro cul-

60.

Mettiti al passo

DID:

tura, forse senza stare a sottilizzare se la cultura è diventata sangue e fantasia, o se è un abito che all’occorrenza si può togliere e cambiare. Credo,

insomma,

che l’istinto

paterno,

così

forte negli vomini

creativi,

faccia di Eduardo un maestro premuroso e caritativo, quanto l’artista con se stesso è difficile e severo » 4. A me pare, però, che c'è da sottolineare un altro fatto notevole nel rapporto fra Eduardo e i suoi allievi, rivelato da Simpatia e da Mettiti al passo. È la vicinanza di pensiero fra l’uomo ottuagenario e queste giovanissime generazioni. Queste commedie non sarebbero potute nascere, se non ci fosse stata questa identità di vedute. Inoltre, questi lavori sono anche l’espressione tangibile di quello che Eduardo ha voluto raggiungere proprio con la Scuola di Drammaturgia: poter continuare a vivere nelle generazioni future. Nel °69, quando ancora non aveva potuto realizzare il suo sogno, aveva detto: « Bisogna lasciare qualcosa di noi altri agli altri, perché niente finisce con l’uomo, tutto continua. L’errore sta nel fatto che ci sono troppe persone convinte che invece tutto finisce con la loro morte. E si sbagliano assai » 2. Questa forma di eternità Eduardo l’ha già raggiunta.

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NOTE

1.

Farmacia

di turno

1 E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, Einaudi, Torino 1971, p. 12. Per la Cantata dei giorni pari la edizione Einaudi del 1971 rappresenta il testo base seguito in questo volume, Ivi, pp. 12-3. Mp5: Ivi: pe15. Ivi, p. 19. Ivi, p. 20. Ibidem. ua Ja

2.

Uomo

e galantuomo

1 Anonimo, Eduardo in Tv con 4 commedie,

« Il Messaggero », 16 luglio

1975; E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., p. 32. Ivi, p. 36. Ivi, p. 46. Ivi, p. 54. INLEp STE Ivi, pp. 61-2. Twiap-t62: S. P. (Saverio Procida), Uomo e galantuomo, « Roma », 24 febbraio 1933. 10 R. Tian, Uomo e galantuomo, « Il Messaggero », 18 marzo 1965.

0 UVUaLWwWN Ja

3. Ditegli sempre di sì 1 U. Ronfani, Luca De Filippo riporta in scena una satira del padre, « Il Giotno », 11 febbraio 1982. 2 E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., p. 76. 3 Ivi, pp. 79-80.

Ivi, p. 86. Ibidem. wp So: Nuaoauua Ilva, 92, SD 8 Ivi, pp. 97-8. 9 E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., ed. 1959, pp. 612-3. Nel l'edizione del 1971 il discorso di Michele si riduce a: « Povero giovane, sei

280

Cantata dei giorni pari, 4-7

pazzo. .. Ma adesso ti aiuto io. La malattia tua addo’ sta? Nella testa. E quindi, se ti taglio la testa elimino ’a malatia. Giusto? » (p. 101). Nell’ultima ripresa della commedia nel 1982, Eduardo fa dire al figlio Luca le parole dell’edizione

del 1959. IU yi, Ash IIS 4 02 ll

ivi a 76 Ivi, p. 78.

12

4. Filosoficamente 1

E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., p. 111.

Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,

p. 120. p. 121. pp. 125-6. p. 111.

VIP

U1AaWwWUN n

asiz4A:

5. Sik-Sik, V’artefice magico 1

V. Buttafava, Pensa per un anno a una commedia e la scrive in una set« Oggi », 5 gennaio 1956. (S) E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., p. 131. Ivi, p. 138. Ting io, dle8,, Ivi, p. 142. Ibidem. Ivi. p. 143. UL 0\0AaA 3 2 G. Magliulo, Eduardo De Filippo, Cappelli, Bologna 195925)

timana,

6. Chi è cchiù felice ’e me! E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., p. 150. Ivi, p. 160. IViipa 156. Ibidem.

Ivi, ivi Ivi, Ivi,

p. a pp. p.

160. 163 167-8. 168.

Ivi, p. 175. 10 R. Simoni, Chi è cchiù felice ’e me!, « Corriere della Sera », 16 marzo

UO aa N 02 a UN

1934.

7. Quei figuri di trent'anni fa 1 M.B. Mignone, I/ teatro di Eduardo De Filippo. Critica Sociale, Trevi, 1974, p. 48. 2 C. G., Quei figuri di trent'anni fa, « La Nazione », 4 marzo 1937. 3 E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., pp. 189-90.

Roma

Cantata dei giorni pari, 8-9

8.

È arrivato

281

’o trentuno

- Ogni anno

punto

e da capo

1 E. De Filippo, Ogni anno punto e da capo, Einaudi, Torino 1971, p. 5. 2 R. Radice, Ogni anno punto e da capo, « Corriere della Sera », 6 ottobre OZ

3 E. De Filippo, Ogni anno punto e da capo, cit., p. 49. CMEGE -10. S Ivi, 6 7 8 9

Ivi, Ivi, Ivi, Ivi, p.

10 Ivi, Il Ivi, Lv 13 Ivi,

p. 49. pro6. ep:059: pp. rt

14 Ivi, 15 Ivi,

p.

16 Wi

p.

P.

7 Ivi, P. 18 Ivi, p. 19 I bid em.

20 21 2 23 24

Ivi. p. Ivi, p. Ivi, p. Ivi, p. Radice,

6

78. 79. 84. 85. 86. 87. 97. 79. art. cit.

9. Natale in casa Cupiello 1 E. De Filippo, Primo...

secondo...

(Aspetto

il segnale),

« Il Dramma »,

n° 240,-1936.

2 E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., p. 209.

2203 DAR: 209. DI) 214. 216. 218. 226. 228.

CID: 248. 19 E. De Filippo, Primo... secondo... (Aspetto il segnale), cit. 20 E, De Filippo, ‘O Canisto, Edizioni Teatro San Ferdinando, Napoli 1971, pp. 48, 50. 21 Ivi, p. 50.

282

Cantata dei giorni pari, 10-13

2 Ivi, pp. 58.1. i 2 M. B. Mignone, I/ teatro di Eduardo De Filippo. Critica Sociale, cit., 52:3, PP. 2 G. Antonucci, Eduardo De Filippo, Le Monnier, Firenze 1980, p. 55.

10.

Ogni anno

punto e da capo

1 E. De Filippo, Ogni anno punto e da capo, Fondo censura teatrale, Busta n° 1961, Archivio Centrale di Stato, Roma, pp. 1-2. 2 Ivi, p. 4. 2 a

Db yo IS 3 1kyi, jd, Ie

11.

Requie q

all'anima

soia - I morti

non

fanno

aura

1 E. De Filippo, Cantata dei giorni dispari, vol. II, Einaudi, Torino pp. 734.

12.

IC7AL,

L'ultimo Bottone - Tre mesi dopo

1 E. De Filippo, L'ultimo Bottone, Fondo Archivio Centrale di Stato, Roma, PELA 202)

censura

teatrale, Busta n° 2271

ii, SI Tip aezi Ibidem.

155

Ivi, p. 8. Ii, pp DI S., L'ultimo Bottone, «Il Popolo d’Italia », 22 febbraio 1935. vo ql Uaww 0 i R. S. (Renato Simoni), Tre mesi dopo, « Corriere della Sera », 8 marzo

13.

La voce del padrone - Il successo del giorno

1 E. De Filippo, La voce del padrone, Fondo censura teatrale, Busta n° 205, Archivio Centrale di Stato, Roma, p. 2. WS IVIED_59: ivi epado

Cantata dei giorni pari, 14-17

283

14.

Una

bella trovata

1 E. De Filippo e M. Scarpetta, Una bella trovata, Fondo censura teatrale, Busta n° 209, Archivio Centrale di Stato, Roma, pp. 2-3.

Ivi, p.4. Ivi, pp. 5-6. Ivi, p. 6. Typ

BaUuUN U

15.

Gennareniello

1 E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., pp. 253-4.

2 Ivi, p. 256. 3 Ivi, p. 264.

4 Ibidem. S Ivi, p. 268.

6 Ibidem. 7 Ibidem. 8 R, S. (Renato Simoni), « Gennareniello », « Corriere della Sera », 15 febbraio 1935.

16.

Noi siamo navigatori

1 E. De Filippo e M. Scarpetta, Noi siamo navigatori, Fondo censura teatrale, Busta n° 224, Archivio Centrale di Stato, Roma, p. 4. IW0Eb=Di Ivi, pp. 6-7. msp 8. Wifepz. IvGtpsi5; Ivi, p. 16. Ibidem.

G. Magliulo, Eduardo De Filippo, cit., p. 26.

xv UpDWUN Ja 0

17.

Thè delle cinque

teatrale, 1 E. De Filippo e M. Scarpetta, Thè delle cinque, Fondo censura Busta n° 213, Archivio Centrale di Stato, Roma, p. 4. PD. 2 Tv, p. 6. Ivi, pp. 9-10. Ivi, pp. 10.1.

Ibidem. ? G. Magliulo, Eduardo De Filippo, cit., p. 2A,

284

Cantata dei giorni pari, 18-22

18.

Cuoco

della mala cucina

1 E. De Filippo e M. Scarpetta, Cuoco della mala cucina, Fondo censura teatrale, Busta n° 7176, Archivio Centrale di Stato, Roma, p. 2. N Ibidem. Ivi, p. 3 Ivi, p. 4 Ivi, p. 6 Ivi, p. 10. Ibidem. IVIMppANl051E co Aaw OU xa

19.

Il dono

di Natale

E. De Filippo, Cantata dei giorni WA

Ivi, p. 315.

li eb

MELO. jo, SUA

Ivittp. 23175

Ivi, p. 319. Ia o SL vita 278 NOaOaOUAWvNI Ivi, p. 328. 8 R. S. (Renato - maggio 1935.

Simoni),

20.

Il dono

di Natale,

«Corriere

della Sera », 16

Parlate al portiere

1 E. De Filippo e M. Scarpetta, Parlate al portiere, Fondo censura teatrale, Busta n° 211, Archivio Centrale di Stato, Roma, p. 5. 2 i 19 I2 Tita, dla. Tit 155 IS, IWimp:8257 Ivi, p. 28.

Uu o daw

7 Ivi, pp. 29-30.

21.

Quinto piano, ti saluto!

1 E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., p. 275. 2 1Ggt, 105 27/7. SMy(tp98278! 82751 divi

22.

Uno coi capelli bianchi

1 E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., p. 283. 2alvi tp 0286. Mi op e28%%

Cantata dei giorni pari, 23-24

285

Salvi, op 294. Mr e299! 6 Ivi, p. 300.

IMI, gp (309. Sly piosdle 9 Ivi, pabl23 l0*tyitp. 313 1 Ivi, pp. 317-8. 12 Ivi, p. 319. 13 G. Magliulo, Eduardo De Filippo, cit., p. 43. Ceschina, Milano 1967, pp. 51-2. 14 L. Repaci, Teatro di Ta o 15 G. Magliulo, op. cif., 43-4 16 M. B. Mignone, I/ 2: Poi Eduardo De Filippo. Critica sociale, cit., p. 69.

23.

Occhio alle ragazze!

1 F. Di Franco, Eduardo, Gremese, Roma 1978. 2 E. De Filippo, Occhio alle ragazze!, Fondo censura teatrale, Busta n° 1640, Archivio Centrale di Stato, Roma, p. 2 Seli 83: 4 Ibidem. S Ibidem. OIIvI; Dda 7 Ivi, p. 4. 8 Ibidem. 9 Ibidem. OT po). 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 8. 13 Ibidem. 14 Ibidem. 15 Ivi, p.9. 16 Ibidem. UT p.S10,

24.

L'abito

nuovo

San Ferdinando, 1 E, De Filippo, I/ giuoco delle parti, Eduardo e il Teatro Napoli 1954, p. 33. Ibidem. E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, CILSSDINOZIA Ii p.a350:

Thyih, 106 564 Ivi, p. 332.

IyEpMW355: Ivi Spae357e AWwWN YU 0o Ivi, p. 342. (ORORORSOnO 10 Ivi, p. 343. 11 Ivi, p. 345. 12 Ivi, p. 346. 13 Ivi, p. 354.

286

Cantata dei giorni pari, 25-28 ta di, 40, SO 15 Ivi, p. 356. LIVE ppias5 647?

25.

Il coraggio

1 A. Novelli, I/ coraggio, Riduzione di E. De Filippo, Fondo censura trale, Busta n° 4615, Archivio Centrale di Stato, Roma, p. 2. È Ill, jo, di Suo o CY

tea-

8 Ivi, pp. 8-9. SIVIMP1O! O Ti, po, DL

26.

Il mio primo amore

1 Fratelli De Filippo, I/ wi0 primo amore, Fondo n° 572, Archivio Centrale di Stato, Roma, p. 1. 2 dk ET 1 4 Ibidem. 5 Ibidem.

27.

censura

Che scemenza

1 E. De Filippo e T. De Filippo, Che scemen za, Fondo Busta n° 8012, Archivio Centrale di Stato, Roma, pp. 4-5. 2 Ii I. 3 Ivi, pp. 6-7. ERG

28.

(Ca

censura

teatrale,

Il ciclone

1 E. De Filippo, I/ ciclone, Fondo chivio Centrale di Stato, Roma, p. 1. Ibidem. IviMpa2) Ibidem. dI Sha vi Mp5: dPUWN

teatrale, Busta

censura

teatrale, Busta n° 10123, Ar-

Cantata dei giorni pari, 29-31

287

7 Ibidem. 8 Ivi, p. 6. 9 Ibidem. LOST VI pi 7:

29.

Pericolosamente

1 E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., p. 364. Sly: 365) 3 Ivi, p. 367. 4 Ivi, id 367-8. Ivi, p. 369. un o (E 'Fllosa, Eduardo De Filippo poeta comico del « tragico quotidiano », La Nuova Cultura, Napoli 1978, p. 126.

30.

La parte di Amleto

- E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., pp. 378-9. 2 Ivi, pp. 3812. 3 Ivi, pp. p 384-5. 4 Ivi, p. 386. Ivi p. 301. 6 Ibidem. Lea e3927 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 381. 10 Ivi, p. 385. li L. Repaci, Teatro d’ogni tempo, cit., p. 388.

31.

Basta il succo

di limone!

1 E. De Filippo e A. Curcio, Basta il succo di limone, Fondo censura teafrale, Busta n° 9036, Archivio Centrale di Stato, Roma, p. 1. 2 Ivi, pp. 3-4.

3 Ivi, p. 6. pp. 8-9. jo, 2: p. 14. pp. 15-6.

4 Ivi, yi 6 Ivi, ? Ivi,

10 11 2 13

14 15 16 17

Ivi, pp. 24-5. Ivi, p. 29. Ivi, pp. 43-4. Ivi, p. 48. Ibidem. Ivi, pp. 54-5. Ivi, Foglio aggiunto. Ivi, pp. 61-2.

Cantata dei giorni pari, 32-34

288

18 Ivi. Documentazione allegata al copione. 19 Ibidem. 20 G. Magliulo, Eduardo De Filippo, cit., p. 44. 21 E. De Filippo e A. Curcio, La fortuna con l’effe maiuscola, Fondo censura teatrale, Busta n° 2697, Archivio Centrale di Stato, Roma, documentazione allegata al copione.

32.

Non

ti pago!

1 E. De 2 Ivi, p. 3MIvintp 4 Ivi, p. S Ivi, p.

Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., pp. 398-9. 401. 402! 406. 408. Ivi, p. 410. Ivi, pp. 415-6. Ivi, pp. 425-6. a 60 0 Ivi, p. 429. 10 Ivi, p. 434. 11 Ivi, p. 436. 1 V. Pandolfi, Intervista a quattrocchi con Eduardo De Filippo, «Sipario», n° 119, marzo 1956. 13 R. Simone, « Nor ti pago », « Corriere della Sera », 31 gennaio 1941.

33.

Io, l’erede

E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, cit., p. 441. Ivi, p. 446. Ivi, pp. 449-50.

Ivi, p. 453. ivi db

x bo

7%

+.

n.

Rivd

Sa suite rs è da

ca

|

Introduzione

VII

CANTATA

DEI

GIORNI

PARI

Farmacia di turno Uomo e galantuomo Ditegli sempre di sì Filosoficamente Sik-Sik, l’artefice magico Chi è cchiù felice ’e me! Quei figuri di trent'anni fa È arrivato ’o trent'uno - Ogni anno punto e da capi

Natale in casa Cupiello Ogni anno punto e da capo (E fà 9

12:

Requie all'anima soia - I morti non fanno paura L’ultimo Bottone - Tre mesi dopo La voce del padrone - Il successo del giorno

Una bella trovata Gennareniello Noi siamo navigatori . Thè delle cinque HW _zp_ HAHN Cuoco della mala cucina Il dono di Natale

Parlate al portiere . Quinto piano, ti saluto! Uno coi capelli bianchi

. Occhio alle ragazze!

ooo PWL’abito

INSETTO EST

nuovo

Indice

306

2DE 26. Zio 28. 29: 30. 54, Dai 55: 34.

Il coraggio

381

Il mio primo amore

84

Che scemenza Il ciclone Pericolosamente La parte di Amleto Basta il succo di limone! Non ti pago! Io, l’erede La fortuna con l’effe maiuscola

CANTATA DDI 36. DL. 33. 39; 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. DI DI DI 54. De: DO: DI

Napoli milionaria! Napoli milionaria! Occhiali neri

86 88 A 93 95 105 110 114

DEI GIORNI DISPARI

(opera lirica)

Questi fantasmi! Filumena Marturano

Le bugie con le gambe lunghe La grande magia Le voci di dentro La paura numero uno Amicizia Mia famiglia Bene mio e core mio De Pretore Vincenzo Il figlio di Pulcinella Dolore sotto chiave Sabato domenica e lunedì Il sindaco del Rione Sanità Peppino Girella Tommaso d’Amalfi L’Arte della commedia Il cilindro Il contratto Il monumento

123 129 130 132 138 144 150 156 163 168

169 178 184

191 199 202 209 215 221 2251 234 239 247

Indice

307

58. 59.

Gli esami non finiscono mai Simpatia

254 262

60.

Mettiti al passo

269

Note

279

annotazioni

B) |

bÙ L

annotazioni

annotazioni

b) L

BU L

annotazioni

annotazioni

b) L

BUL

volumi pubblicati

L. Cammarota. Storia della musica G.W. F. Hegel. Scienza della logica, 2 voll. S. Turone. Storia del sindacato in Italia. 1943-1980 J. Laplanche - J.-B. Pontalis. Enciclopedia della psicanalisi i D.W. Fokkema - E..Kunne-Ibsch. Teorie della letteratura del XX secolo R. H. Robins. Idee e problemi della linguistica G. Duby.

L'arte e la società medievale

G. Bannock - R. E. Baxter - R. Rees.

i

Dizionario di economia

F. Gaeta. Il nazionalismo italiano R. De Maio. Michelangelo e la Controriforma C. Violante. La società milanese nell'età precomunale D.H. Aldcroft. L'economia europea dal 1914 a oggi Ph. Ariès. Padri e figli nell'Europa medievale e moderna G. Tucci. Storia della filosofia indiana R. Villari (a cura di). Il Sud nella storia d'Italia B. Chiarelli. L'origine dell'uomo. Introduzione all'antropologia M. Calvesi. Le due avanguardie. Dal Futurismo alla Pop

Art

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26. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone 27. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico 28. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro 29. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Gli amanti, Teage, Carmide, Lachete, Liside 30. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone, Ippia maggiore, Ippia minore, lone, Menesseno 31. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia 32. Minosse, Leggi, Epinomide 33. Lettere, Definizioni, Dialoghi spuri 34.

Indici

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62/63. 62. 63.

Trattato sulla natura umana

E. Rohde.

(2 voll.)

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H. Kamen. Il secolo di ferro. 1550/1660 G. Basile. Il Pentamerone (2 voll.) A. Schopenhauer. Il mondo come volontà e rappresentazione (2 voll.) A. Lyttelton. La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929 C.T. Smith. Geografia storica d'Europa

volumi pubblicati

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73.

70. 71. 72.

Acarnesi, Cavalieri, Nuvole Vespe, Pace, Uccelli, Tesmoforiazuse Lisistrata, Rane, Ecclesiazuse, Pluto

J.P. Diggins.

L'America

Mussolini e il fascismo

74. \. Kant. Scritti precritici 75/78. K. Vossler. La Divina Commedia 75. La 76. La 77. La 78. La

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79. 80. 81. 82. 83. 84. 85.

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Il concetto di religione La religione determinata La religione assoluta

97. E.A. Havelock. Dike. La nascita della coscienza 98/99. Diogene Laerzio. Vite dei filosofi (2 voll.) 100/101. H. Berve. Storia greca 100. 101.

102. 103. 104.

Dagli inizi fino a Pericle Da Pericle alla dissoluzione

politica

G.W.F. Hegel. Enciclopedia G. Duby. L'economia rurale nell'Europa S.J. Wolf. Il fascismo in Europa

medievale

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Biblioteca Universale Laterza CAINE

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SE

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E

MISIE

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EE

L'unico repertorio completo delle opere di Eduardo, dai primi esperimenti del giovane autore-attore dalla comicità pirotecnica alla lezione di umanità dei grandi capolavori della maturità.

ISB 88CL 20-

Fiorenza Di Franco, studiosa di di teatro, è autrice di numerosi cui ricordiamo, per i nostri tipi, Eduardo» (1975) e «Eduardo da senatore » (1981).

letteratura e contributi, fra... «Il teatro di scugnizzo a

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18000

(i. i.)

In copertina: foto di Marcello Mencarini