L'opera di Paolo Sorrentino. Tra le immagini di Federico Fellini e di Martin Scorsese. Affinità e dissonanze nell'intreccio delle influenze 8857580741, 9788857580746

Paolo Sorrentino ha spesso parlato di Federico Fellini e di Martin Scorsese come fonti di ispirazione per il proprio cin

117 21 7MB

Italian Pages 394 [448] Year 2021

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

L'opera di Paolo Sorrentino. Tra le immagini di Federico Fellini e di Martin Scorsese. Affinità e dissonanze nell'intreccio delle influenze
 8857580741, 9788857580746

Table of contents :
Prefazione La sottile linea rossa che lega Paolo Sorrentino a Fellini, Scorsese e Maradonadi A. Catolfi
Introduzione
Capitolo I Indebolimento e ambivalenza dell’individuo
I.1. Fragilità dell’azione
I.2 La precarietà del potere
I.3 Verticalità e orizzontalità
I.4. Il grottesco e l’individuo
Capitolo II Aspetti strutturali: schemi e irregolarità
II.1. Il frammento e la totalità
II.2. La composizione eterogenea
II.3. Lo slancio vitale: dalla pesantezza alla leggerezza
II.4. Dalla privazione negativa (il “non dire”) alla privazione affermativa (il “privarsi”)
Capitolo III Straripamenti: l’apprendimento, il passato e il mondo contemporaneo
III.1. L’apprendimento e la mancanza di punti di riferimento
III.2. Il passato e il presente: la spinta storiografica
III.3. L’immagine del mondo contemporaneo
III.4. Il regno dell’illusione
III.5. L’artificio
Conclusione
Postfazione
Bibliografia
Opere di Paolo Sorrentino
Opere di Federico Fellini
Opere di Martin Scorsese
Contributi critici

Citation preview

n. 107 COMITATO SCIENTIFICO: Mariapia Comand (Università di Udine), Raffaele De Berti (Università degli Studi di Milano), Massimo Donà (Università Vita-Salute San Raffaele), Roy Menarini (Università degli Studi di Bologna), Pietro Montani (Università “La Sapienza” di Roma), Elena Mosconi (Università Cattolica di Milano), Pierre Sorlin (Università Paris-Sorbonne), Franco Prono (Università degli Studi di Torino), Andrea Rabbito (Università degli Studi di Enna “Kore”)

V

G

L’OPERA DI PAOLO SORRENTINO TRA LE IMMAGINI DI FEDERICO FELLINI E DI MARTIN SCORSESE A nità e dissonanze nell’intreccio delle in uenze

© 2021 – M I

E

(Milano – Udine)

2420-9570

Collana: Cinema, n. 107 www.mimesisedizioni.it Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 E-mail: [email protected] In copertina: La grande bellezza - 01404, © Fotogra a di Gianni Fiorito.

A mia madre

PREFAZIONE La sottile linea rossa che lega Paolo Sorrentino a Fellini, Scorsese e Maradona A. C

1

Quando un lm diventa capolavoro? Di cile dirlo. Probabilmente quando una vicenda personale e dolorosa di un autore diventa un gran lm forse si può parlare di un possibile capolavoro. Paolo Sorrentino, dopo aver vinto l’Oscar nel 2014 con La grande bellezza, nel ringraziare il pubblico, non senza un pizzico d’emozione, cita le sue fonti d’ispirazione: Federico Fellini, i Talking Heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona ma anche Roma e Napoli. Temi e soggetti – a parte Fellini e Scorsese – molto distanti tra loro. Una sottile linea rossa tra sogni, luoghi, esperienze personali, fatti di cronaca e considerazioni critiche sulla società lega le intuizioni cinematogra che di Paolo Sorrentino, congiunge così in diversi modi il suo cinema con quello di Fellini e di Scorsese ma anche con il grande calcio di Maradona e la musica dei Talking Heads. La gura di Maradona ci riporta all’esperienza personale che se messa in scena può costituire la chiave di un capolavoro. Sorrentino è molto legato al suo passato e in molte forme ha avuto la possibilità di portarlo sullo schermo, come nel suo ultimo lungometraggio È stata la mano di Dio, lm italiano candidato ai prossimi premi Oscar, che ha vinto alla Mostra del Cinema di Venezia 78 del 2021 il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria. Il titolo evoca il primo goal di Maradona contro l’Inghilterra ai quarti di nale nel Mondiale di calcio del 1986, ma narra principalmente gli anni Ottanta a Napoli, l’arrivo di Maradona in città, e tutto quello che è successo all’autore partenopeo in quel periodo, in un intreccio familiare e molto personale. Se guardiamo, ad esempio, all’esperienza di un autore come Scorsese, Mean streets (1973) è il lm

che lo lancia sul panorama internazionale e rivela tutta la sua capacità di raccontare una generazione di ragazzi italo-americani combattuti tra Chiesa e Ma a. È la sua esperienza di strada a New York, la sua vita familiare che viene messa in scena. Il lm viene presentato al Festival di New York, riesce ad arrivare in Europa e inaugura le sezione Quinzaine des realisateurs al Festival di Cannes nel maggio 1974. Prodotto con soli 330 mila dollari viene girato in parte a New York, anche durante la Festa di San Gennaro a Little Italy, e parte a Los Angeles per motivi di budget. O re la possibilità a Scorsese di entrare nel mondo di Hollywood a pieno titolo. Il regista italoamericano, sin dai suoi primi lavori negli anni Sessanta-Settanta, ha inserito all’interno dei suoi lm dei temi ricorrenti legati al suo passato, all’italianità quali il rito della famiglia, il cibo e la religiosità, piani che spesso si incrociano in una esplorazione profonda delle radici culturali italiane consolidate negli Stati Uniti2. E’ stata la mano di Dio, l’ultimo lm di Paolo Sorrentino, ripropone nello stesso modo l’argomento dei ricordi familiari, un viaggio a ritroso nel tempo degli eterni contrasti e della narrazione a due livelli, temi che quando sono messi in scena in un certo modo possono costituire le basi per un capolavoro. Siamo negli anni Ottanta a Napoli e il lm parte da un sogno familiare, un sogno della Zia Patrizia (Luisa Ranieri) per poi giungere alla realtà familiare, nella gioia e nel dolore, del nipote Fabietto Schisa (Filippo Scotti) che crede nel potere semidivino di Maradona3. La forza del racconto nei lm di Sorrentino risiede probabilmente nei personaggi, nel loro lento uire verso un cambiamento, tanto che la stabilità della struttura narrativa di tutti i lm del regista napoletano è costituita proprio dall’incertezza, da una doppia possibilità di quello che succederà ai protagonisti della storia. L’esitazione e il declino dei suoi attori diventano la centralità della narrazione. Nel suo volume Vittoriano Gallico parte proprio dalle similitudini e dalle dissonanze dei personaggi costruiti da Sorrentino, Scorsese, Fellini e ne

mette in luce in modo puntuale gli aspetti più importanti confrontandoli tra di loro. Travis (Robert De Niro), il protagonista di Taxi driver (1976), ricorda in qualche modo due personaggi costruiti da Sorrentino come Titta di Girolamo ne Le conseguenze dell’amore (2004) e Toni Pisapia ne L’uomo in più (2001). Toni, come Travis, vuole vendicarsi e decide di uccidere il presidente della squadra a cui apparteneva il suo omonimo. Siamo a Napoli nel 1980, un calciatore e un cantante che si dividono il destino. Travis invece vuole uccidere il candidato alle elezioni il senatore Charles Palantine. Tutti e due i protagonisti sono in bilico tra la morte e la salvezza di qualcuno. E la stessa cosa accade in altro modo con i protagonisti di Mean street (1973) John “Johnny Boy” Civello (Robert De Niro) e Charlie Cappa (Harvey Keitel). In bilico sempre tra la vita e la morte di notte per le strade di New York. In questo modo certamente possiamo rintracciare delle similitudini tra Scorsese e Sorrentino. Per quanto riguarda Fellini possiamo individuare alcuni temi comuni in questa sottile linea rossa che lega i diversi autori, ad esempio in uno dei suoi lm più autobiogra ci come I vitelloni (1953). Qui il tema del declino dei personaggi diventa ancora centrale, una parabola di una vita che si conclude con una scelta, rimanere o andare via, e come ricorda Vittoriano Gallico il «declino è una tematica che attraversa il cinema di Fellini e Scorsese o rendoci una porta di accesso a una speci cità dei lavori di Sorrentino». Nel gennaio del 1939 Federico Fellini parte da Rimini per trasferirsi a Roma. Una sorta di fuga dalla città natale per lasciarsi alle spalle il passato, come fa Moraldo (Franco Interlenghi) ne I vitelloni una mattina molto presto senza dire niente a nessuno. Il protagonista del lm lascia tutti in silenzio e solo il piccolo ferroviere Guido riesce a salutarlo incidentalmente. In questo nale ritroviamo la parte più autobiogra ca di un personaggio in cambiamento, che deve scegliere che strada prendere nella vita, e quindi va via dalla sua città natale per non

ritornare mai più. Qui si esprime anche la duplice veste di Fellini, regista che diventa anche attore e protagonista del suo passato nel momento in cui dice “Addio Guido” con la sua stessa voce sostituendola con quella di Interlenghi al doppiaggio solo per il nale del lm. In questo modo Fellini attua una sorta di trasformazione di tutti i suoi personaggi, dice addio alla sua giovinezza tra chi rimane nella città natale e chi decide di andare via4. Anche nel caso di Fellini le città fonti d’ispirazione sono due: Rimini da cui fugge e Roma dove arriva. Come nel caso di Sorrentino che parte da Napoli per andare a Roma e fa dire ad Antonio Capuano in È stata la mano di Dio che nessuno se ne va mai davvero da Napoli, neppure coloro che sono andati a Roma de niti “i strunz”. I personaggi, molto cari a Fellini e a Sorrentino, vanno verso delle “discese” inesorabili della vita come ne La dolce vita (1960) e in Casanova (1976), un aspetto che ritroviamo non solo in chi è più sfortunato ma anche in personaggi in uenti “sull’orlo del declino colti in un momento di abbandono” che ritroviamo ad esempio ne Il divo (2008) e Loro (2018). L’azione non è più necessaria, come in Scorsese, per de nire la sorte dei protagonisti. Fellini preferisce la successione di alcune sequenze che dimostrano la regressione del personaggio di turno come sostiene giustamente Vittoriano Gallico nel suo pregevole libro su queste relazioni tra i tre grandi autori. Sorrentino invece, in una sorta di dissonanza, inserisce delle bolle narrative dove i protagonisti si ritrovano solo davanti a loro stessi, alla loro eterna solitudine, come nel caso di Berlusconi e di Andreotti rispettivamente in Loro e ne Il divo che fanno diventare il cinema del regista partenopeo un cinema politico seppur in una visione del tutto personale. I bravi ragazzi di Scorsese, a di erenza dei protagonisti di Sorrentino, sono semplicemente dei “testimoni oculari della disgregazione del potere e dell’e cacia dell’azione” che porta quasi sempre alla morte di molti personaggi o alla loro completa discesa agli

inferi per poi poter ricominciare, in alcuni casi, come i protagonisti Henry Hill (Ray Liotta) e Ace Rothstein (Robert De Niro) rispettivamente in Goodfellas (1990) e Casinò (1995). Altra similitudine rintracciabile tra i lm Sorrentino e quelli di Scorsese è sul tema della vecchiaia. Una progressione dei nostri personaggi verso un’altra età della vita. Scorsese nel suo ultimo lm The Irishman ci propone un personaggio, Frank Sheeran (Robert De Niro), un sicario irlandese che non ha più speranze a causa del suo passato ma soprattutto anche dell’età. È un passaggio conclusivo che forse non lascia più spazio ad altro tipo di racconto se non un sogno nell’aldilà. È la storia di un anziano che ha paura di morire, che ha tradito il suo migliore amico ed è un padre che ha perso la ducia di sua glia. Pertanto come opportunamente ci dice Vittoriano Gallico nel suo libro “l’indebolimento dell’azione va, pertanto, di pari passo con quello dei personaggi e permette all’immagine di svelare un'altra storia: non più quella del sicario irlandese che conquista il rispetto dei ma osi italoamericani” ma bensì, aggiungiamo noi, di una semplice persona anziana che si pente di molte azioni sbagliate della sua vita. Sorrentino esplora in modo simile la vecchiaia in Youth (2015) dove ritrova uno degli attori preferiti di Scorsese, Harvey Keitel nel ruolo del regista Mick Boyle, che non sopporta l’invecchiamento e l’insuccesso e decide di compiere il passo estremo della totale discesa verso l’aldilà. Pertanto il declino del personaggio e l’indebolimento dell’azione permettono la rivelazione di un aspetto del ruolo totalmente imprevedibile, come ad esempio i sensi di colpa di Andreotti, che forse gli causano le continue emicranie, ma anche della vita sentimentale di Berlusconi, raccontata in una semplice cucina. Tali scene sono in qualche modo paragonabili alle ri essioni e ai dilemmi esistenziali messi in scena da Fellini con i personaggi di Marcello Rubini (Marcello Mastroianni) e Giacomo

Casanova (Donald Sutherland), ne La dolce vita (1960) e in Il Casanova di Federico Fellini (1976). Sicuramente, per avviarci a delle conclusioni provvisorie, possiamo a ermare che per Sorrentino delineare i personaggi e parlare delle loro vite diventa un elemento essenziale della sua narrazione cinematogra ca riscontrabile, ad esempio, quando da grande sceneggiatore si dedica esclusivamente a scrivere romanzi (Hanno tutti ragione, 2010), liberandosi dalla sovrastruttura della trama, delle inquadrature e del piano di produzione come farebbe da regista o da sceneggiatore5. Ogni autore ha la sua complessità e un modo di esprimersi del tutto unico, per questo motivo, come a erma Vittoriano Gallico, lasciamo che le immagini di Fellini e di Scorsese siano “un’apertura vitale” ad alcuni temi complessi introdotti da Sorrentino in forme diverse, come ad esempio la gura di Lenny Belardo in The Young Pope, dove probabilmente vince la complessità del personaggio onirico in un tipo di racconto seriale che continua ad a ascinare. Per tutti questi motivi lo studio di Vittoriano Gallico risulta una lettura importante per l’interpretazione del cinema di Paolo Sorrentino alla luce di grandi maestri come Fellini e Scorsese che hanno fatto grande il cinema italiano nel mondo. Antonio Catol è Presidente del Corso di laurea magistrale in Comunicazione pubblicitaria, storytelling e cultura dell’immagine presso l’Università per Stranieri di Perugia, professore associato di Cinema, fotogra a e televisione insegna Storia e critica del cinema, Fotogra a digitale e produzione multimediale, Linguaggi e tecniche dei media digitali. M. Scorsese, M. H. Wilson, Martin Scorsese conversazioni con Michael Henry Wilson, Rizzoli, Milano, 2006, p. 287. È lo stesso Sorrentino che dice di credere nel potere semidivino di Maradona, in Conferenza stampa a Venezia 78 con Paolo Sorrentino, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Luisa Ranieri e Filippo Scotti: https://www.youtube.com/watch?v=WnGaaN8dgKo (min. 00.40). A. Catol , Doppio Fellini. I luoghi e le bugie, il concetto di doppio in Fellini, in “Nuova Corvina”, n.7, 2021, p. 59. A. D’Orrico, Viaggio al termine dell’Italia, terra di lacrime e mozzarelle, in P.

De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), Divi e Antidivi. Il cinema di Paolo Sorrentino, Laboratorio Gutenberg, Roma, 2010, p. 138, “Il Corriere della sera”, 15 febbraio 2010).

INTRODUZIONE Nel discorso che rivolse all’Accademia degli Oscar dopo aver vinto la statuetta per il miglior lm straniero nel 2014, Paolo Sorrentino citò e ringraziò le sue fonti di ispirazione: Federico Fellini, i Talking Heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona6. La selezione delle quattro gure non è il frutto casuale di un’improvvisazione fatta dinanzi alla platea hollywoodiana, ma una scelta che il regista ha confermato in più di un’intervista, dedicando un’attenzione particolare ai due cineasti. È questo il suggerimento da cui trae origine lo studio che ci accingiamo a intraprendere, in cui esploreremo le in uenze del cinema di Federico Fellini e di Martin Scorsese sull’opera di Paolo Sorrentino. Più profondamente, l’idea di questo lavoro nasce dalla volontà di riconsiderare l’accostamento critico tra Sorrentino e Fellini, talvolta impreciso e diventato ricorrente specie dopo il successo de La grande bellezza. La volontà, spinta da un legittimo entusiasmo, di iscrivere l’immagine di un autore contemporaneo come Sorrentino nella continuità di un cineasta culturalmente emblematico come Fellini ha in alcuni casi mostrato di coltà analitiche, prestandosi talora all’esercizio del paragone ostinato talora a sentenziosi commenti di disappunto, entrambi frutto dell’inevitabile disparità fra i due registi. Il cinema di Scorsese ci viene in aiuto in tal senso invitandoci a inserire l’opera di Sorrentino in un più ampio intreccio di immagini. La tensione tra due punti di riferimento tra loro dissimili quali Fellini e Scorsese, sebbene il secondo sia un grande ammiratore del primo, è un aspetto già di per sé su ciente per spiegare l’originalità dell’opera di Sorrentino. Ma, è nell’ambivalenza tra a nità e dissonanza che le peculiarità appaiono più nitidamente. La dichiarata distanza rispetto alle proprie fonti di ispirazione, il cui paragone è sempre stato trattato con

cautela se non addirittura con imbarazzo da Sorrentino, è una prima signi cativa testimonianza di come la disparità sia un parametro indispensabile nel gioco delle in uenze. Quando, dopo il successo de La grande bellezza, Sorrentino dovette a più riprese ridimensionare il parallelo con Fellini – in un contesto critico in cui il riferimento a Scorsese veniva evocato con eccessiva parsimonia – la doverosa modestia del regista partenopeo7 suggeriva già uno spunto d’indagine critica, ossia la necessità di leggere al contempo un’analogia e una dissonanza nei confronti dei propri maestri cinematogra ci. Sorrentino ha sicuramente ragione nel frapporre uno scarto con Fellini e Scorsese, sostenendo di non avere ambizioni di imitarli8, raccontando di avere involontariamente riscoperto un’inquadratura di Taxi driver rivedendo Il divo, oppure puntualizzando come l’omaggio a La dolce vita ne La grande bellezza fosse “tematico” ma non “visivo”9. Ciononostante, l’ammissione di una discrepanza non ha a atto attenuato l’impatto dei maestri sull’opera del più giovane autore, bensì ne ha rigenerato l’in uenza conferendole uno spessore inedito. Nelle pagine che seguono si tenterà di far emergere l’intreccio delle principali in uenze che sorreggono l’opera di Sorrentino. Di quest’ultimo si esamineranno in particolar modo i lavori cinematogra ci senza, tuttavia, trascurare i lavori in prosa nei confronti dei quali i contributi critici sono più rari. Il nostro studio sarà, dunque, scandito dal duplice sforzo di de nire alcune speci cità dell’opera di Sorrentino tentando, contemporaneamente, di rilevarne l’eredità felliniana e scorsesiana. L’ipotesi da cui partiamo, e che le pagine seguenti non mancheranno di avvalorare, risiede nell’idea secondo cui la traccia delle immagini dei maestri si nutre in egual misura della spinta dell’analogia e del distacco della dissonanza. Il distacco, per l’appunto, si rivelerà progressivamente uno spazio fecondo in cui non troverà posto il semplice rimpianto di un’aspettativa estetica mancata (quella, spesso fonte di delusione, dell’allievo

incapace di emulare i propri mentori). Piuttosto, alla dissonanza si chiederà di custodire e di rivelare l’originalità di un’opera che si a accia a una pluralità di immagini riprendendole e trasformandole, segnalandone, talvolta, l’impossibile sopravvivenza. https://www.youtube.com/watch?v=Zdu-Tqa2udk 17/02/2020].

[ultima

consultazione:

Nell’intervista a Larry Rohter del 04/12/2013 Sorrentino a erma: “Sentire così tanti paragoni con Fellini è molto lusinghiero. Sono anche un po’ in imbarazzo, perché credo che lui abbia fatto dei capolavori, io invece no”. https://carpetbagger.blogs.nytimes.com/2013/12/04/paolo-sorrentino-onthe-great-beauty-and-italian-alienation/ [ultima consultazione: 17/02/2020] [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi per le citazioni seguenti della stessa intervista]. Intervista a cura di Paola Zanuttini (20/05/2015) http://www.minimaetmoralia.it/wp/youth-la-giovinezza-di-paolosorrentino/ [ultima consultazione: 17/02/2020]. Ibidem.

CAPITOLO I INDEBOLIMENTO E AMBIVALENZA DELL’INDIVIDUO I.1. Fragilità dell’azione I.1.a Il caso e la contingenza: continuità e discontinuità tra Sorrentino e Scorsese Il valore estatico o contemplativo più volte riconosciuto come marchio di fabbrica dell’immagine di Sorrentino10 non esclude la presenza di una trama più tradizionale dettata dal susseguirsi di situazioni da cui dipende l’evoluzione dei personaggi. Se è vero, come si avrà modo di vedere più dettagliatamente nel secondo capitolo, che la stabilità della struttura narrativa è una costante del cinema di Sorrentino, torna con frequenza l’idea secondo cui la storia da raccontare nasce da una situazione in bilico sin dal principio. Il regista ha più volte insistito sull’importanza di raccontare storie, a condizione, però, che le gure che vi agiscono siano colte in un momento di esitazione, se non addirittura in pieno declino11. Il primo dei tre capitoli del nostro lavoro sarà, dunque, dedicato alla dimensione individuale, ciò che, al termine del nostro discorso, de niremo come unità di misura fondamentale del cinema di Sorrentino. Per far ciò, e per meglio cogliere il destino dei personaggi sorrentiniani, converrà, in primo luogo, so ermarsi sull’azione e sulla messa a repentaglio di quest’ultima come motore responsabile dell’evoluzione del racconto. Il motivo sorrentiniano della casualità dell’azione rimanda a un’in uenza scorsesiana, attraverso la quale è possibile scorgere un primo aspetto della centralità dell’individuo nel cinema di Sorrentino, punto di approdo del nostro primo capitolo che tenteremo di dimostrare gradualmente. Decisive, in tal senso, sono le analogie e le dissonanze tra l’immagine di Sorrentino e un lm

culturalmente emblematico come Taxi driver. La contingenza dell’azione è un elemento chiave nella storia del protagonista Travis, un tassista veterano del Vietnam che prepara un attentato contro un noto senatore. L’incidente di percorso che ostacola del tutto casualmente l’assassinio porta a una seconda azione che non risulta essere una semplice scelta di ripiego rispetto al primo progetto fallito, ma un’immagine radicalmente diversa su cui si fonda la complessità del lm di Scorsese. Travis si reca, dunque, in una casa di tolleranza clandestina dove uccide i prosseneti di una minorenne (Iris), salvando quest’ultima prima di tentare invano di suicidarsi. Il parallelismo inconsueto tra l’attentato fallito e il sacri cio portato a buon ne è uno degli elementi che ha destato maggiore attenzione critica dal momento che la successione delle immagini congiunge la questione complessa della rottura narrativa con quella altrettanto problematica della morale. In tal senso, Aeon J. Skoble sottolinea come Travis sia un personaggio in grado di accostare due atti in cui soltanto il secondo (salvare Iris) è “moralmente ovvio”, operando, quindi, una distinzione tra “il male e il male percepito” all’interno di una serie di frammenti che seguono il percorso di un personaggio “costretto ad agire”12. Skoble sottolinea giustamente come la questione della morale in Taxi driver sia sottomessa alla logica difettosa dell’azione, sicché ciò che il lm compie in de nitiva non è un elogio dell’eroismo sempre possibile, nonostante il suo autore sia un uomo violento lasciato ai margini della società dopo il trauma della guerra in Vietnam, bensì l’a ermazione della contingenza come unico principio applicabile all’agire. L’avanzare incontrollabile dell’azione ha un impatto diretto sulla caratterizzazione ambivalente del personaggio di Travis: l’oscillazione tra l’attentato e il sacri cio contribuisce a disegnare un personaggio doppio e paradossale, una “contraddizione ambulante”, come lo de nisce Betsy, la donna di cui il protagonista è innamorato. A tal proposito, Joan Marcel mette in evidenza che Taxi driver propone la

“complessità” di un processo “il cui termine non è mai dato in anticipo”, tanto che diventa impossibile “cogliere linearmente” il movimento di Travis13. Pertanto, se è vero che quest’ultimo non è un personaggio doppio quanto, piuttosto, una gura che elimina la contraddizione in quella che Marcel de nisce la “pluralità delle verità”, tale possibilità dipende dal fatto che la gura umana perde consistenza nella serie di casualità e di indi erenze che regolano l’azione del lm. È probabilmente per questo motivo che Taxi driver ha qualcosa da dire alla sociologia, come suggerisce il titolo del contributo di Marcel, nella misura in cui, seguendo l’analisi di quest’ultimo, “l’ambivalenza a cui è sottomessa la condizione di singolarità […] restituisce la pluralità delle verità su cui si fonda la costruzione dell’individuo”14. La gura di Travis ricorda due personaggi di Sorrentino: Tony Pisapia ne L’uomo in più e Titta Di Girolamo ne Le conseguenze dell’amore. Il primo dei due lm racconta la storia di due omonimi – Tony e Antonio Pisapia – che vivono due insuccessi paralleli incontrandosi soltanto alla ne. Non a caso, Sorrentino ha spesso insistito sull’aneddoto delle due storie che aveva in mente per quello che sarebbe stato il suo primo lungometraggio, due sceneggiature abbozzate che sono a uite in una sola per timore di non potere realizzare un secondo lm15. I due protagonisti condividono a distanza due scon tte personali: quella di Tony, cantante di successo la cui fama è infangata da una denuncia di abuso su minore, e quella di Antonio, il calciatore giusto che ri uta di corrompere una partita e che ha capito come funzionerà il calcio del futuro, ma che viene messo ai margini della squadra dopo un infortunio. Alla ne del lm, Antonio partecipa a una trasmissione televisiva che Tony guarda per caso; i due personaggi si erano incrociati poco prima, sempre casualmente, scambiandosi uno sguardo che lasciava intendere una mutua e inattesa complicità. Davanti al televisore, una frase del calciatore (“oggi ho visto una persona”16) attira l’attenzione del cantante il quale

coglierà, nel seguito del monologo, che l’intervistato sta preannunciando il proprio suicidio. Tony tenterà, dunque, di intervenire ma sarà troppo tardi. Ma è proprio questo vano tentativo che ci consente di individuare un punto di contatto con Taxi driver, sebbene il rapporto tra i gesti sia invertito nel passaggio da un lavoro all’altro: data l’impossibilità di salvare Antonio, Tony decide di vendicarsi e di uccidere il presidente della squadra in cui militava il suo omonimo, punendo l’uomo che ne boicottava la carriera. Riuscirà, allora, a farsi invitare alla stessa trasmissione a cui Antonio aveva partecipato, lasciandosi andare a un lungo monologo sul valore della vita17. In Taxi driver, Scorsese pone la contingenza come condizione del passaggio tra uccidere e salvare, così come sottrae il talento dal successo di Pupkin in The king of comedy, diventato il beniamino del pubblico per aver rapito il proprio idolo, nonché star del piccolo schermo. Diversamente dal monologo nale di Pupkin, l’intervista di Tony Pisapia è tutto fuorché un discorso insigni cante, il che ci dà molte informazioni sulla discontinuità che esiste tra i due cineasti, malgrado una somiglianza iniziale. Infatti, se è vero che il Travis di Scorsese scompariva come individuo dietro la contingenza tanto da diventare un personaggio sociologicamente esatto, una costruzione “plurale” come dice Marcel, Sorrentino lascia sempre ai propri personaggi il diritto di scegliere. Si prenda l’esempio di Tony, quando capisce che lui e Antonio non condividono soltanto il nome ma anche una so erenza più profonda. Come il tassista di Scorsese, anche il cantante di Sorrentino subisce un cambiamento sico alla ne del lm, rasandosi i capelli a zero dopo esser stato operato alla testa. Eppure, tra i due lungometraggi non esiste soltanto una prima e grande a nità sul piano dell’evoluzione dei personaggi e su quello dell’impossibilità di realizzare il piano inizialmente immaginato, ma anche una dissonanza radicale collocabile altrove. Se Scorsese conserva la contingenza e fa diventare Travis l’eroe del giorno poiché non ha più

pallottole per suicidarsi, Tony prende realmente il controllo del piano sostitutivo che ha in mente e che porta a termine no a pagarne le conseguenze, dal momento che verrà arrestato e portato in carcere. Si tratta di un aspetto che riprenderemo in seguito ma che possiamo formulare sin da adesso: in Sorrentino, ogni personaggio in grado di liberarsi dal cinismo e dall’indi erenza fa in modo che i suoi gesti diventino a ermativi, quand’anche si trattasse di un’azione in apparenza controproducente18. Quanto a Le conseguenze dell’amore, invece, il protagonista – Titta Di Girolamo, come detto – passa da una prima condizione in cui l’azione sembra immutabile a una seconda tappa in cui i sentimenti che prova per la barista So a riattivano la volontà di capovolgere la situazione iniziale. Titta compie un’acrobazia dando spazio ai propri sentimenti dopo una prima sollecitazione da parte di So a che lo aveva rimproverato di non salutarla mai, in maniera simile a ciò che succede in Taxi driver quando è un imprevisto esterno a rovinare il piano di Travis contro Palantine19. La routine di Titta e il progetto di Travis sono diametralmente opposti ma entrambi vengono rovinati da un fattore esterno inatteso che spinge entrambi i personaggi a mettersi in pericolo pur di ribaltare la situazione di partenza, un rischio che Titta riassume nella prima frase rivolta alla giovane donna: “sedermi a questo tavolo è la cosa più rischiosa che abbia mai fatto nella mia vita”20. Come per L’uomo in più, troviamo in questo frangente una prima assonanza tra l’immagine dei due registi, analogia seguita, ancora una volta, da una dissomiglianza. Sorrentino lascia sempre l’ultima parola all’individuo, quand’anche dovesse elaborare un piano fallimentare come nei due lm in questione, poiché la prigione di Tony Pisapia e la morte che attende Titta Di Girolamo si rivelano due momenti a ermativi, due gesti protesi verso la vita. Al contrario, Scorsese non lascia margine di manovra al suo protagonista perché l’ultima decisione ricade nelle mani del caso. In tal senso, rispetto alla successione dei

frammenti di Taxi driver, Deleuze sottolinea come “l’attualità” e la “virtualità” dell’immagine possono “tanto meglio intercambiarsi in quanto sono cadute nella stessa condizione indi erente”21, sicché il legame tra il progetto iniziale e le soluzioni che l’individuo pre gura per risolverlo si perde nella contingenza dell’azione. È proprio in questo punto che risiede una dissonanza tra Sorrentino e Scorsese: nelle storie di Tony e Titta abbiamo un ritorno alla volontà anche a costo di confrontarla con il fallimento del piano, laddove ciò che prevale in Scorsese è la ripetizione della casualità paradossalmente camu ata da trionfo. Non a caso, la scon tta dei protagonisti de L’uomo in più e de Le conseguenze dell’amore è tanto più autentica quanto più essa mostra che entrambi sono guariti dell’immobilismo iniziale e hanno trovato una via d’uscita, diversamente da quanto accade in Taxi driver. Ecco perché, dopo un periodo di convalescenza in ospedale, il ritorno di Travis nel mondo reale è segnato dalla ripresa dei medesimi viaggi notturni che avevano scandito la narrazione lmica no ad allora. I.1.b Il declino Sorrentino ha più volte ribadito, oltre che messo in pratica in alcuni dei suoi lavori, di prediligere “i lm che raccontano le discese anziché le ascese”22. Nella lmogra a del regista, la caduta è un movimento che riguarda tutti i personaggi che partono da una posizione di in uenza e di successo, il che spiega perché questo tipo di struttura si addice particolarmente agli uomini di potere. Basti pensare a Tony Pisapia, Titta Di Girolamo e Geremia De Geremei, ma anche e soprattutto a Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi e Lenny Belardo, personaggi in cui riecheggia la teoria di Sorrentino secondo cui “stare al mondo” diventa di coltoso “all’apice della bellezza e del potere”23. Il quinto episodio di The young pope esempli ca l’impatto del declino coniugando la storia di Belardo con quella dei personaggi che lo circondano. Nella scena d’apertura, un primo insuccesso estraneo agli

eventi di cui si narrerà in seguito dà il via alla serie fallimentare: la telecronaca di una partita di calcio introduce Voiello, il Segretario di Stato della Santa Sede, che ascolta la scon tta sportiva della propria squadra preferita (il Napoli). Nella scena seguente, lo stesso Voiello annuncerà ad un altro cardinale la decisione di non portare a termine la messa in scena che aveva architettato per compromettere il papa e costringerlo a dimettersi; le foto scandalose che ritraggono Belardo mentre pone la mano sul seno di Esther saranno, allora, riposte in un tiretto. Il successivo piano fallimentare riguarda il tentativo da parte di Suor Mary, la suora che ha accudito Belardo da piccolo, di rincuorare la solitudine di quest’ultimo presentandogli dei sosia dei suoi genitori con l’obiettivo di fargli credere di non essere stato abbandonato. Tuttavia, anche in questo caso, lo stratagemma viene immediatamente smascherato dal papa. A fronte della politica deleteria che papa Pio XIII porta avanti, Voiello tenta di limitare i danni facendogli rmare una lettera di dimissioni spacciata per una pratica amministrativa di scarsa importanza ma, per l’ennesima volta, il piano non viene portato a termine e la situazione resta immutata24. La serie di insuccessi è manifesta e impoverisce l’impatto dell’azione procrastinando la soluzione di ogni problema o portandolo al fallimento. Tuttavia, mentre i progetti svaniscono, l’immagine si espone ad altre soluzioni visive: le immagini mentali del papa che sogna ripetutamente i genitori che l’hanno abbandonato e due immagini pittoriche, un quadro di Tiziano e uno di José de Ribera, che il protagonista osserva insieme al cardinale Gutierrez, un personaggio che occuperà un ruolo di rilievo alla ne della serie25. La tragica morte del miglior amico del papa, il cardinale Dussolier, prolunga la catena fallimentare e ne sancisce l’ineluttabile declino. Prete missionario alle prese con problemi di alcolismo, amante nascosto di un giovane uomo e della moglie di un boss honduregno, Dussolier viene ucciso brutalmente da quest’ultimo dopo essere

tornato in Honduras. Così, negli episodi sei e sette di The young pope, non vediamo soltanto il papa alle prese con i dubbi sulla sincerità della propria fede ma anche le incertezze di altri personaggi colti in un momento di fragilità. È il momento in cui si perde il controllo della situazione e in cui gli errori o gli insuccessi si protraggono in epiloghi infausti: un aspirante seminarista si suicida perché i nuovi test psicologici introdotti da Belardo gli impediscono di seguire la propria vocazione mentre Dussolier trova la morte proprio quando cercava di ritrovare la vita tanto amata, lontano dall’opprimente Vaticano26. La vicinanza tra il declino e l’incertezza funge da cardine nella descrizione che Sorrentino fa di Andreotti e Berlusconi, nella misura in cui il primo come il secondo sono colti nella fase calante di una lunga carriera politica che ha consegnato loro un potere egemone. Ne Il divo, la crisi politica e l’imminente processo che vedrà coinvolto il leader della Democrazia Cristiana in tribunale si coniuga con i suoi tormenti e il senso di colpa emersi dopo la morte di Aldo Moro. In maniera simile, l’instabilità dell’ultimo governo Berlusconi non viene descritta da Sorrentino senza aggiungervi una crisi melodrammatica tra il protagonista e sua moglie Veronica Lario. La parabola declinante è un disegno di uso anche in Scorsese. Non si tratta soltanto di lm come Goodfellas, Casino e, più recentemente, The Irishman, dove il gruppo di ma osi nisce sempre dietro le sbarre perché l’eccesso di denaro e di potere si rivela controproducente, bensì di una tendenza tanto radicata da coinvolgere persino la forma del documentario. In The last waltz, No direction home: Bob Dylan e George Harrison: living in the material world siamo ben lontani dal semplice omaggio lmico nei confronti di icone musicali. Nel primo, le riprese dell’ultimo concerto del gruppo The Band fanno subito dimenticare il proposito iniziale di riunire, attorno ai musicisti, i cantanti e gli autori con cui avevano

collaborato nel corso degli anni, con lo scopo di lasciare il segno in un’ultima ed indimenticabile performance. Sebbene sia uno sguardo lusinghiero ad alternare le immagini riprese in diretta durante il concerto e le interviste ai membri del gruppo, bisognerà ammettere che, tra le scene dell’ultimo spettacolo e gli aneddoti del passato, si interpongono le ammissioni sull’impossibilità di continuare a suonare insieme. Qualcosa di simile accade nel secondo documentario citato poiché, come George Harrison con la Beatlemania, anche Bob Dylan viene presentato come un artista imprigionato nel paradosso del proprio successo: scrivere canzoni per allontanarsi dalla musica di consumo per poi constatare che le cosiddette “canzoni di protesta” sono diventate a loro volta oggetto di consumo. Il paradosso dell’artista viene sintetizzato in una delle ultime battute del documentario pronunciata dallo stesso Bob Dylan, frase che fa eco per contrasto al titolo del lavoro di Scorsese: “voglio soltanto tornare a casa”27. Quanto a Harrison, quest’ultimo cerca una spiritualità nella musica indù ma si rende conto, in ultima analisi, che il suo tentativo è controproducente, sicché non è la musica pop a sublimarsi con le in uenze di brani religiosi ma l’esatto contrario, il che lo spinge a prendere atto della materialità della musica, seguendo quanto suggerisce il titolo. Molti personaggi di Scorsese si tradiscono da soli, a dispetto del genio e dell’arguzia: che siano icone musicali, gangster o imbroglioni cronici come Jonathan Belfort in The wolf of Wall Street, arrivano tutti a un punto di stallo in cui si rendono conto che il crollo è vicino. L’unica di erenza risiede nel fatto che i musicisti ne prendono atto, mentre gli avidi di denaro non riescono ad accorgersene. Non senza ironia, Belfort aveva pre gurato il futuro naufragio a sua insaputa quando motivava i suoi broker paragonandosi al capitano Achab di Moby Dick, ignorando presumibilmente il tu o negli abissi con cui si chiude il romanzo di Herman Melville28. Sarà lo stesso Belfort a provarlo sulla propria pelle quando vedrà la sua barca

andare alla deriva dopo l’ennesimo tentativo ostinato a s dare il tempo per recuperare del denaro29. Malgrado l’astuzia o il genio, i personaggi di Scorsese non riescono a raggiungere il successo senza, contemporaneamente, subire un ineluttabile declino. Prima di Scorsese, Fellini aveva fatto del declino la traiettoria prediletta per i propri personaggi maschili. Oltre agli adulti infantili che prolungano ed esasperano alcuni comportamenti de I vitelloni, come Guido di Otto e mezzo o Snaporaz ne La città della donne, e prima di passare alla descrizione non più di un individuo ma di una coralità di personaggi caricaturali in Roma, Amarcord o La voce della Luna, il regista di Rimini ha accompagnato la caduta di gure maschili più tradizionali: Zampanò (La strada), Augusto (Il bidone), Marcello Rubini (La dolce vita) e Giacomo Casanova nell’omonimo lm del 1976. De La dolce vita, ricordiamo le immagini salienti di un lm scandito da scenette che evolvono cronologicamente costruendo fra di loro un rapporto geometrico lineare. La serie delle sequenze disegna gradualmente la caduta dell’eroe enumerandone i fallimenti e le scon tte. Diverse sono le relazioni umane di cui il lm mostra la stabilità precaria: quella con la danzata Emma da cui Marcello non riesce a separarsi pur essendole infedele, quella con suo padre, venuto a Roma per qualche giorno e tornato in paese anzitempo dopo una serata eccessivamente movimentata, e quella con Steiner, l’intellettuale modello che uccide i propri gli prima di darsi la morte. L’epilogo della vicenda mostra il protagonista de nitivamente corrotto dal mondo dei paparazzi da cui all’inizio tentava invano di allontanarsi e che adesso ha sposato manifestamente lasciando il giornalismo per fare l’agente di pubblicità. Alcolizzato e aggressivo, alla ne del lm Marcello spinge un gruppo di mondani a fare irruzione a casa di un amico per festeggiare l’annullamento del matrimonio di una donna. Il lungometraggio si conclude con un ennesimo scambio verbale fallimentare che

coinvolge il personaggio di Paola, una giovane cameriera dall’aspetto angelico che Marcello aveva incontrato fuori Roma in una scena precedente. Il declino di tutte le relazioni in cui è coinvolto il protagonista diventa esplicito e viene cristallizzato nel celebre fotogramma conclusivo che lo ritrae in ginocchio sulla sabbia dinanzi all’adolescente di cui non riesce a sentire l’invito, preferendo seguire i mondani che lasciano la spiaggia30. La situazione è molto simile nella rilettura felliniana delle memorie di Casanova, lm in cui dominano le questioni del piacere e del godimento e mero che Sorrentino a ronterà esplicitamente ne La grande bellezza. Il Casanova di Fellini viene descritto nel movimento che lo conduce da una prima solitudine ricca e fastosa in cui compie vere e proprie esibizioni erotiche ad una seconda segnata dalla sporcizia e dalla disperazione. In maniera simile a Marcello Rubini, anche il seduttore veneziano perde la giovane di cui era innamorato (Henriette) e successivamente anche sua madre, la quale lo ignora dopo averlo incontrato all’Opera. Come il protagonista de La dolce vita, anche Casanova vede svanire con il passare del tempo qualsiasi riconoscimento intellettuale nei propri confronti: all’inizio del lm viene trascurato dall’ambasciatore francese che non sta ad ascoltare le sue competenze scienti che pur avendolo appena osservato esibirsi in una coreogra a erotica e, alla ne, viene deriso dai cortigiani nel castello di Dux dopo aver recitato dei versi della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. Marcello abbandona e si lascia corrompere mentre Casanova va inesorabilmente incontro agli impedimenti che il tempo impone al piacere, perpetuando una “battaglia contro la notte senza sapere che la notte è la più forte”31. Che sia La dolce vita o Il Casanova, il declino del personaggio principale agisce indebolendo la portata di qualsiasi sua azione no ad arrivare – specie nel secondo lavoro – a una forma secondo cui tutti i gesti vengono ricondotti all’atto rituale del sesso. In tal senso, ci ricorderemo dell’uccello meccanico che accompagna le

conquiste del seduttore veneziano oppure della donnaautoma che tanto a ascina il protagonista alla ne del lm. Tuttavia, né Marcello Rubini né Casanova riescono a vedersi riconosciute le qualità intellettuali a cui aspirano ma vengono rinchiusi dalla trappola delle mondanità e da quella dell’autocompiacimento ingannevole. Entrambi sono ritratti come personaggi ine cienti, a dimostrazione di come l’azione sia un parametro trascurato ed indebolito in Fellini. Poc’anzi, abbiamo sottolineato come, in Sorrentino, gli uomini di potere siano colti in una fase calante della loro parabola, in maniera simile a quello che succede con Casanova o altri personaggi felliniani. In realtà, è possibile osservare come l’a nità che esiste tra i personaggi dei due cineasti risieda nel ruolo marginale che viene a dato all’azione, il che ci spinge a studiare più da vicino una sequenza de Il bidone. Il lm racconta la storia di quattro imbroglioni costretti ad a rontare le delusioni della vita, dai problemi del mestiere a quelli del cuore. La vicenda che porta il protagonista – un uomo di nome Augusto – alla reiterazione dell’errore e alla scon tta nale è resa tramite un percorso in cui l’immagine non smette mai di respingere il centro dell’azione. In tal senso, bisogna riconoscere l’impatto della festa e osservare come Il bidone sia ritmato da alcune scene che ritraggono i protagonisti in luoghi mondani. Dopo il primo colpo riuscito, i “bidonisti” si radunano in un bar notturno; le mondanità li separano nello spazio ristretto della sala dove vediamo susseguirsi questa serie di azioni: Augusto discute con una ballerina, il suo amico Roberto parla con un’americana tentando un po’ di sedurla e un po’ di imbrogliarla, e, in ne, assistiamo alla danza della prima ballerina che si avvicina pian piano alla macchina da presa concludendo la scena con uno sguardo in camera32. Il successo della tru a si perde nei festeggiamenti sicché non è il risultato raggiunto a occupare il primo piano dell’immagine quanto, piuttosto, la solitudine di Augusto e la danza della ballerina. L’indebolimento dell’azione, benché

quest’ultima possa portare talvolta al raggiungimento dei risultati sperati, va dunque di pari passo con quello dei personaggi che vengono colti in un momento di solitudine. La festa interviene in maniera analoga accostando l’euforia iniziale con la malinconia nale, preannunciando “amarezza e scoraggiamento per l’indomani”33. La sequenza successiva della serata di San Silvestro mostra un comportamento analogo nella misura in cui l’entusiasmo iniziale svanisce nei lunghi movimenti della macchina da presa che si concentra sulla serata stessa. Il progetto di uno dei “bidonisti” di rubare un posacenere d’oro si rivela fallimentare e coglie subito dopo i personaggi in un momento di tristezza e di umiliazione dal momento in cui vengono malamente cacciati dal padrone di casa34. L’associazione geometrica tra lo spettacolo e la conseguente solitudine, il tutto sotto l’egida dell’indebolimento dell’azione, è un aspetto ravvisabile anche nel racconto del Berlusconi sorrentiniano. Difatti, quando si concede ad un’esibizione canora di Malafemmena35, Berlusconi non riprende soltanto con un capovolgimento ironico la sorte a cui le sue infedeltà hanno condannato sua moglie, ma anticipa involontariamente il seguito della propria storia personale “innesc[ando] nel dramma una componente ironica” secondo l’adagio dell’umorismo pirandelliano36. In realtà, una volta datosi il diritto di mettersi in scena, il Berlusconi di Sorrentino non riesce a atto a eludere la solitudine tanto temuta e la resa teatrale non può che fungere da preludio per il triste epilogo a cui è destinato. Non a caso, la licenza drammatica di Sorrentino non sta nel mettere la telecamera nel luogo in cui Berlusconi avrebbe appro ttato di una delle giovani ospiti di Villa Certosa, come se la nzione dovesse fungere da testimone oculare del Rubygate. È interessante notare che il regista compie l’esatto contrario nella scena in cui la macchina da presa entra in una delle camere della villa dove Berlusconi tenta di sedurre una giovane di cui si è invaghito. Ciò che ritrae la sequenza in questione non è l’uomo che viola l’intimità

e che appro tta della propria posizione di superiorità, ma l’anziano i cui poteri di seduzione si rivelano obsoleti e patetici. Tanto “bidonista” quanto Casanova secondo le due accezioni felliniane, il Berlusconi di Sorrentino non è soltanto l’uomo che fa sparire la politica dietro la vita mondana ma anche colui che condanna e spegne l’energia dello spettacolo ambulante confrontandola con la realtà. In ne, sarà allontanato dalla ragazza che ribadirà più volte l’incongruenza del suo comportamento e chiuderà il dialogo facendogli osservare che utilizza lo stesso prodotto per la dentiera di suo nonno37. Il declino è una tematica che attraversa il cinema di Fellini e Scorsese o rendoci una porta di accesso a una speci cità dei lavori di Sorrentino. Per completare il discorso elaborato nelle pagine precedenti, è opportuno accogliere il riferimento lmogra co più recente del regista di Little Italy, ovvero The Irishman (2019). Iscrivendosi al genere dei lm di gangster, il lungometraggio in questione presenta una serie di procedimenti tipici dei modelli che l’hanno preceduto, specie Goodfellas e Casino, lavori in cui una prima tendenza teatrale viene coniugata con una seconda più documentaria, come vedremo più attentamente nel secondo capitolo del nostro lavoro38. Adesso, occorre so ermarsi su un’osservazione maggiormente legata alla questione sorrentiniana del declino e alle in uenze felliniane. Poc’anzi, abbiamo studiato la problematica della caduta in Scorsese prendendo come punti di riferimento i documentari. I lungometraggi di nzione sono stati evocati soltanto di sfuggita, benché trattino anch’essi la tematica in questione. In un certo qual modo, la scarsa attenzione che abbiamo precedentemente dedicato ai lm di gangster dipende dalla considerazione implicita secondo cui i personaggi di Sorrentino rimandano più manifestamente ad alcune gure felliniane, benché la tematica della perdita di potere enunciata dallo stesso regista napoletano determini un punto di contatto con i ma osi scorsesiani. Altrettanto

implicita è stata un’a ermazione a cui occorre dare più precisione e che, adesso, possiamo formulare come segue: le “discese” di cui parla Sorrentino ricordano l’immagine di Fellini più di quella di Scorsese, per via dell’a nità tra personaggi che ri ettono su come opporsi alla parabola decrescente a cui sembrano condannati e dinanzi alla quale si scoprono inermi (La dolce vita, Il Casanova), e uomini in uenti sull’orlo del declino colti in un momento di abbandono (Il divo, Loro). In entrambi i casi, l’azione diventa un parametro marginale: Fellini predilige la successione di sequenze che scandiscono la regressione inevitabile della parabola piuttosto che una vera e propria evoluzione del racconto, laddove Sorrentino introduce parentesi narrative in cui i protagonisti vengono posti dinanzi alla loro solitudine, come nel monologo andreottiano sul potere (Il divo)39 o nella già menzionata scena dell’incontro tra Berlusconi e la giovane studentessa (Loro). Al contrario, pur essendo coinvolti da percorsi declinanti in cui l’azione perde gradualmente la propria in uenza, i gangster di Scorsese non si pongono domande sulla natura del potere o sul valore della vita da ma oso. Più semplicemente, come osserveremo nel secondo capitolo del nostro lavoro, i ma osi di Scorsese non sono altro che testimoni oculari della disgregazione del potere e dell’e cacia dell’azione. L’a nità con Sorrentino esiste su quest’ultimo punto, ma viene controbilanciata da una discrepanza quanto alla drammaticità dei personaggi stessi, trovando, così, una più grande assonanza con alcune gure felliniane, nonché con le personalità del mondo della musica a cui Scorsese ha dedicato documentari (Bob Dylan, George Harrison e i musicisti di The Band), come osservato poco fa. Il principio appena formulato risulta valido in Goodfellas e in Casino, ma non in The Irishman. Per buona parte della trama, il lungometraggio riprende tutto ciò che aveva reso noti i lavori precedenti appartenenti allo stesso genere: le lunghe carrellate, le successioni musicali tra rock e jazz, i va e vieni cronologici che interrompono una prima

narrazione in ashback aprendo parentesi e facendo digressioni. La maniera in cui la macchina da presa di Scorsese sfrutta gli arti ci cinematogra ci risulta qui particolarmente rilevante poiché, da un lato, la telecamera esplora una serie di tecniche che le permettono di arrogarsi pieni poteri sull’immagine, dall’altro, però, le stesse tecniche vengono utilizzate per narrare la storia di un personaggio sempre più debole e, in n dei conti, solo. Da un capo all’altro della storia, osserviamo una serie di movimenti vertiginosi, con il piano sequenza che diventa l’emblema di tale tendenza visiva. Il lm si apre con un lungo movimento che attraversa i corridoi di una casa di riposo rivelando, in ne, il protagonista (Frank Sheeran) su una sedia a rotelle, e riprende un movimento analogo nella sequenza nale inquadrandolo per l’ultima volta. La scena di chiusura presenta un ulteriore arti cio, poiché un e etto di sfasamento temporale viene aggiunto al piano sequenza, come se lo spostamento della macchina da presa avesse accelerato il tempo della narrazione40. L’apparecchio lmico riesce ad attraversare lo spazio e il tempo senza vincoli come nella scena che ritrae i personaggi principali in automobile, in cui la telecamera, inizialmente posizionata fuori dal veicolo, si introduce lentamente al suo interno, superando anche l’ostacolo del parabrezza41. Tuttavia, nella parte nale della fabula, l’onnipotenza del movimento conosce una battuta di arresto nel preciso momento in cui Frank Sheeran viene incaricato dai capiclan di commettere l’omicidio del suo amico Jimmy Ho a. Di lì in poi, la frenesia che aveva contraddistinto il ritmo delle immagini fa spazio a una cadenza più lenta, come nella lunga e silenziosa scena in cui il protagonista percorre in automobile le strade deserte di Detroit prima dell’appuntamento con i complici del crimine42: a quasi cinquant’anni da Taxi driver, i viaggi in macchina di Robert De Niro non hanno smesso di condurre i personaggi da lui interpretati a esperienze dolorose. Il rallentamento della parte conclusiva della storia consente all’immagine di esplorare un terreno

inedito nei lm di gangster di Scorsese. È proprio nel momento in cui ci si avvicina maggiormente al personaggio che riscopriamo la tematica del declino con una sfumatura cara a Fellini e a Sorrentino. Chi è, allora, Frank Sheeran, l’uomo che tutti soprannominano l’irlandese? A dispetto di alcune di erenze caratteriali, i gangster visti precedentemente in Goodfellas e in Casino erano tutti accumunati dalla volontà o, quantomeno, dalla possibilità di arricchirsi. Il denaro e il potere erano i privilegi che spettavano ai personaggi scorsesiani più ambiziosi e, al contempo, il punto di partenza della loro caduta. Il caso di Sheeran è diverso poiché in lui non v’è né il sogno dell’opulenza, né il desiderio della supremazia, ma il bisogno, quasi proletario, della stabilità nanziaria. Camionista specializzato nel trasporto di carne, l’irlandese entra a far parte dell’associazione ma osa che collabora con il sindacato dell’IBT43, svolgendo occasionalmente la funzione di sicario, un impiego che gli permette di arrotondare il basso stipendio che percepisce44. Tuttavia, pur facendo carriera all’interno del sindacato, Sheeran non cerca in alcun modo di occupare un ruolo dominante e non lascia mai la missione con cui era entrato a far parte nel clan. All’apice della fama, non ottiene altro che la presidenza di una sede locale dello stesso sindacato e una medaglia celebrativa con la quale viene grati cato per lo zelo mostrato nel corso degli anni. La cerimonia in cui viene premiato da Jimmy Ho a in presenza di alcuni boss non ha nessuna valenza politica e non permette a Sheeran di salire di grado nel clan. La scena si presenta come una sorta di festa per il miglior impiegato ricompensato da un’azienda, il tutto esasperato dal cattivo gusto e dallo sfarzo dell’ambiente ma oso. L’unico privilegio che il protagonista ottiene, un anello che solo altre due persone posseggono, ha una valenza prettamente simbolica, nella misura in cui Sheeran continua ad essere sempre e soltanto il protetto di Russell Bufalino. Veterano della seconda guerra mondiale, il cui ricordo gli permette di sottolineare un’analogia con la vita da sicario45, Frank

Sheeran è il ma oso di origine operaia la cui vita viene stravolta il giorno in cui è chiamato a uccidere un amico che aveva tentato di proteggere (Jimmy Ho a) per ordine del suo mentore (Russell Bufalino). È in questo istante che l’azione e la volontà dell’individuo perdono qualsiasi in uenza facendo posto al senso di abbandono tipico di alcuni personaggi di Fellini e Sorrentino. Come sottolinea Florence Maillard, “Scorsese conserva ostinatamente il prisma angusto della traiettoria senza onore né gloria seguita da Sheeran. Questa traiettoria non costruisce niente e non porta da nessuna parte”46. Arriviamo, così, all’ultima parte di The Irishman che ci mostra l’invecchiamento di Sheeran e dove scopriamo, dunque, il padre rinnegato dalla propria glia47, l’anziano che fa cadere le medicine settimanali e che, poco dopo, si accascia a terra perché sta perdendo l’uso degli arti inferiori. A queste scene si aggiungono quella in cui Frank recita le preghiere insieme a un prete e quella in cui guarda vecchie fotogra e in bianco e nero so ermandosi sull’immagine che ritrae sua glia Peggy in compagnia di Jimmy Ho a48. D’altra parte, tutta la narrazione in ashback, inaugurata da un primo piano sull’anziano Sheeran nella scena di apertura del lm, rivela, successivamente, lo stesso personaggio solo nel bel mezzo della sala comune della casa di riposo49. L’invecchiamento è un’idea centrale del lm che trova riscontro nell’innovazione tecnologica del deaging, una sorta di trucco informatico con il quale il volto dei personaggi viene invecchiato o ringiovanito. La tecnica in questione, il cui perfezionamento formale conoscerà probabilmente cambiamenti nei suoi prossimi utilizzi, crea qui un “miscuglio ambiguo che mette in di coltà l’apprensione cronologica” in favore di un “movimento contrastato, ben più profondo, […] quello di una vasta collezione della memoria circoscritta dalla morte, dalla vecchiaia e dall’oblio, e forse dall’impossibilità piuttosto che dal rimorso di percepire quest’ultimo come un sollievo”50. Con The Irishman, Scorsese inaugura una nuova fase nella

parabola decrescente che avevano seguito i personaggi di Goodfellas e Casino. Infatti, se, alla ne del primo Henry Hill si accinge a cominciare una nuova vita da pentito, in maniera simile a Ace Rothstein che, al termine del secondo, si ritrova al punto di partenza tornando truccare scommesse sportive51, Sheeran non ha più nessuna prospettiva di vita davanti a sé. La tappa che Scorsese aggiunge nel suo più recente lungometraggio è dunque quella della vecchiaia, intesa come momento in cui il crollo del potere conclude il disegno della parabola declinante tramite il ritratto dell’uomo fragile e solo. L’indebolimento dell’azione va, pertanto, di pari passo con quello dei personaggi e permette all’immagine di svelare un’altra storia: non più quella del sicario irlandese che conquista il rispetto dei ma osi italoamericani, ma quella del padre che ha perso la ducia di sua glia, dell’uomo che ha tradito il proprio amico e dell’anziano che teme di morire. La compatibilità tra la formula declino e l’indebolimento dell’azione permette all’immagine di svelare una sfumatura inedita del personaggio, in maniera simile a ciò che compie Sorrentino quando ci parla della vita sentimentale di Berlusconi o dei sensi di colpa di Andreotti, in linea con gli interrogativi di Marcello Rubini e Casanova. I.2 La precarietà del potere I.2.a La so erenza dell’uomo onesto In un’immagine in cui l’azione è nelle mani della contingenza o protesa verso il declino, non saremo sorpresi nell’osservare che esiste una tendenza a inserire i personaggi in un cammino di so erenza. In questo punto del nostro lavoro, ci concentreremo su quelle gure che, in Scorsese come in Sorrentino, subiscono un martirio pur partendo da una scelta saggia o ragionevole. Per il momento, metteremo da parte gli altri personaggi so erenti di Sorrentino, ossia gli uomini di potere cinici e altezzosi che s orano la condizione divina e prenderemo in considerazione personaggi in cui, diversamente dalla

categoria appena menzionata, i dubbi e le debolezze restano puramente umane. In The last temptation of Christ, Scorsese descrive il personaggio di Gesù come un martire già prima della Passione. Ma Gesù non è l’unica gura scorsesiana costretta a passare per il cammino della croce. In un contesto diverso e con interrogativi in apparenza meno trascendenti, uno dei primi martiri del cinema di Scorsese è forse Jake La Motta, il pugile di Raging Bull, rispetto al quale possiamo notare un certo numero di a nità con Antonio Pisapia (L’uomo in più). La questione della pena è un caposaldo del cinema di Scorsese e possiede profonde radici etnogra che nella cultura italoamericana. In tal senso, Robert Casillo rileva come il “masochismo” preponderante dell’opera scorsesiana derivi da una concezione della “cultura meridionale” secondo cui Cristo è “il glio martire per il quale piange la Madonna”, il che spiegherebbe perché il regista concepisce la so erenza in chiave cattolica, come “incarnazione” fondata sulla “colpa”52. Le parole del critico ci rimandano a un’immagine emblematica del cinema di Scorsese, quella di un cortometraggio di pochi minuti intitolato The big shave, dove un uomo in procinto di radersi si s gura rimanendo impassibile dinanzi alla scena autolesionistica. Chi sono, allora, i martiri di Scorsese? Travis è forse un martire in Taxi driver quando decide di salvare Iris? Se è vero che i personaggi di potere sono coloro che sperimentano letteralmente la commistione di piacere e dolore, è per un male minore che altri uomini subiscono so erenze degne del cammino della Croce: da un lato ci sono i masochisti, dall’altro, invece, dei semplici testardi. La perseveranza ostinata è un male che il pugile di Raging Bull condivide con il protagonista de L’uomo in più, sicché in entrambi i lm la lotta viene creata associando una situazione sportiva e una dimensione distinta che la prolunga. In Raging Bull, viene a determinarsi una formula secondo la quale il combattimento passa dal ring

alla vita reale, dalle scon tte a suon di pugni a quelle nate da un’incontrollabile gelosia. La prossimità tra lo spettacolo e lo sport di cui Sorrentino ci dà un’ennesima conferma con i due protagonisti omonimi de L’uomo in più trova radici profonde nella storia del cinema, come illustra la ri essione di Jean Mitry su Ėjzenštejn in Esthétique et psychologie du cinéma. Secondo Mitry, il regista sovietico ha il merito introdurre “scene di combattimento o di esercizi pericolosi” mettendole in relazione con altri contesti narrativi e con le scene principali dei suoi lm. Ora, in maniera simile a quanto si vedrà in Sorrentino, Mitry mette in evidenza come nel “montaggio delle attrazioni” di Ėjzenštejn, l’immagine non risieda “né negli avvenimenti, né nell’espressione drammatica ma nei rapporti tra i primi e la seconda”. Non è un caso che Mitry citi al contempo la boxe e gli spettacoli di varietà come spazi visivi in grado di creare questa forma associativa nei confronti di un’immagine centrale53. Prendendo insieme sia il terreno di gioco sia il palcoscenico, Raging Bull e L’uomo in più inseriscono la gura del so erente nell’intervallo che distingue il mondo dell’esibizione da quello reale proponendola come unica immagine in grado di abitare lo spazio mediano che si interpone, almeno inizialmente, tra la vita e tutte le varianti del palcoscenico. Oltre al martire, una seconda gura potrà venire in aiuto alla prima permettendole di a rancarsi dallo stato di chiusura. In seguito, la si annovererà tra le forme liberatorie dell’immagine di Sorrentino, sfruttando proprio la complementarità dei due omonimi de L’uomo in più. Nel suddetto lungometraggio, il legame tra la so erenza e lo sport è rintracciabile sin dalla seconda sequenza: l’allenatore della squadra rimprovera severamente i giocatori per una prestazione deludente, benché il problema reale non dipenda dal campo ma da un aspetto extra-sportivo, se non addirittura antisportivo. Antonio Pisapia segna il gol della vittoria ma non fa altro che localizzare la scon tta altrove aumentando la posta in gioco. Così, nita la

partita, Pisapia si vedrà costretto a declinare l’o erta dei propri compagni di quadra che vorrebbero corrompere il risultato dell’incontro seguente per incassare del denaro scommesso sul risultato negativo, attirando contemporaneamente l’antipatia del presidente che contava di partecipare alla combine. Nel seguito della vicenda, Antonio Pisapia si impunta e tenta di continuare sulla retta via studiando alacremente per diventare allenatore, ma le porte del successo si chiudono una dopo l’altra e il personaggio sarà punito proprio per esser stato corretto. In maniera simile, in Raging Bull, La Motta si ostina a non collaborare con la ma a ri utando di andare al tappeto e quando, a malincuore, accetterà sarà subito colto in agrante e punito dalla federazione. Convinti di poter difendere dei principi di onestà, Antonio Pisapia e Jake La Motta scoprono, invece, soltanto il rovescio della medaglia, il risultato controproducente. L’insuccesso diventa, dunque, sinonimo di punizione, a dispetto del talento che ne aveva garantito l’iniziale popolarità. Ne L’uomo in più, il calcio viene ra gurato come un mondo in cui i più innocui vengono divorati dai più astuti, diventando lo specchio del mondo acquatico a cui il lm fa costantemente riferimento (il fratello del Pisapia cantante è morto in seguito all’attacco di una piovra durante un’immersione, trasformando l’animale in un vero e proprio mostro marino, piuttosto che in una pietanza appetibile per il divoratore di pesce che è Tony). Nel primo lungometraggio di Sorrentino, il calcio funziona dunque come un’associazione ma osa da cui Antonio avrebbe dovuto prendere le distanze per la propria incolumità, assimilazione spaziale che rimanda a un atteggiamento di uso in Scorsese dove l’ambiente criminale prolunga i propri tratti distintivi in contesti disparati, sicché persino l’aristocrazia in The age of innocence si rivela un ambiente tanto in uente e claustrofobico quanto il clan di Charlie in Mean streets, come sottolineano René Marx e Deborah Knight54. Lo stesso accade per il calciatore de L’uomo in più che

continua per la propria strada e nisce col dire addio alla carriera di atleta quando un compagno di squadra lo infortuna volontariamente in allenamento a causa del suo ri uto categorico di collaborare alle partite truccate55. L’uomo che aveva difeso a spada tratta la giustizia si trova, adesso, condannato da una serie di iniquità e di angherie, analogamente a quanto accade in Raging Bull dove il so erente non è il criminale che paga per le proprie malefatte, bensì l’uomo talentuoso e moralmente integro. Nel mondo del calcio come in quello del pugilato, le buone azioni si rivelano controproducenti, probabilmente perché, nel loro rispettivo “montaggio delle attrazioni”, entrambi gli sport tendono verso un’altra immagine che è quella della so erenza. Ciò che accomuna l’immagine di Scorsese a quella di Sorrentino non è soltanto un trattamento tematico della so erenza ma la ragione da cui essa deriva. Per i due cineasti, il dolore dell’uomo giusto nasce da una confusione che l’immagine crea tra due spazi inizialmente distinti, per cui si passa dalla disfatta sul ring a quella sentimentale, no a giungere alla scon tta umana in senso lato, a dimostrazione di come il so erente sia, in realtà, l’uomo che confonde la vita e lo sport senza volerlo. Difatti, quando, in Raging bull e ne L’uomo in più, i protagonisti vedono andar via le rispettive compagne e vengono gradualmente messi da parte dallo stesso mondo che poco prima li aveva adulati, la scon tta sportiva viene traslata e confusa con quella della vita, con la so erenza a fungere da mediatrice tra la prima e la seconda. Possiamo ricordare due frammenti emblematici in tal senso: La Motta in prigione che scaraventa pugni violenti contro il muro e Pisapia che tenta scrupolosamente di disegnare schemi di gioco utilizzando i personaggi del Subbuteo nel salone di casa sua56. Parlando di Ėjzenštejn, Mitry spiegava come le immagini dello spettacolo potessero articolarsi rispetto a quelle principali no a proporre un’immagine unica come relazione tra le due sfere. Invece, con Scorsese e Sorrentino, è la confusione degli spazi a rompere una

relazione che all’inizio legava il campo da gioco e la vita e che, in seguito, confonde entrambi i luoghi nel segno della so erenza che gli uomini e gli atleti sono costretti a portare. Dato il dolore come confusione, una distinzione ulteriore sarà necessaria per superarlo. Come vedremo in seguito, sarà il palcoscenico ad aiutare La Motta, così come sarà la rinascita dell’uomo di spettacolo che ha abbandonato il palcoscenico a o rire uno spiraglio di leggerezza dopo l’uscita di scena e la so erenza di Antonio Pisapia57. I.2.b La fragilità del potere: anticipazione del problema storiogra co Per rispondere all’esigenza del primo capitolo del nostro studio, ossia delineare la costruzione dell’individuo nell’immagine e nella scrittura di Sorrentino evidenziandone le ispirazioni felliniane e scorsesiane, ci so ermiamo adesso sulla questione della fragilità del potere. Per rispondere dettagliatamente al quesito appena sollevato, condenseremo adesso le nostre fonti quasi esclusivamente sulle opere di Sorrentino. Tra le parabole declinanti che Sorrentino ha messo in scena spiccano due gure di rilievo della storia politica contemporanea, ovvero Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi. Ne Il divo e in Loro, il primo grande legame che l’immagine stabilisce con il personaggio attiene alla questione della scrittura della storia, il che ci induce ad aprire una parentesi teorica sul lavoro storiogra co. Per far ciò e senza aver la pretesa di esprimerci esaustivamente sull’argomento, ci so ermeremo su alcune nozioni de La memoria, la storia, l’oblio di Paul Ricœur. In primo luogo, guarderemo più da vicino in che modo il lavoro del losofo francese ci permette di de nire un approccio per lo studio dei politici sorrentiniani. In seguito, nel terzo capitolo del nostro lavoro, faremo tesoro del discorso che ci accingiamo a presentare e ci concentreremo sulla presenza di quesiti storiogra ci nel cinema e nella letteratura di Sorrentino. Una delle questioni che animano la ri essione di Ricœur

ne La memoria, la storia, l’oblio attiene al confronto con l’aporia. Si tratta di un quesito essenziale in quanto la posizione dello storico ne è pienamente coinvolta in ogni tappa del proprio lavoro, dalla fase documentaria d’archivio a quella letteraria passando da quella esplicativa58. Tutte e tre fanno parte dell’operazione di scrittura sicché quest’ultima non è più soltanto una pratica performativa ma una ricerca costante. Ciò che coinvolge integralmente la ricerca dello storico e che ne costituisce il dilemma essenziale è la necessità di dare una lettura attuale del passato, nonostante lo scontro tra le due fasi cronologiche e a dispetto della modalità che contraddistingue il tempo trascorso il quale, nella contemporaneità, non è che “presenza dell’assente”59. La minaccia che interpella lo studioso dandogli lo da torcere è tanto più rischiosa quanto l’antinomia in questione s ora costantemente l’impossibilità aporetica. La ragione per cui la questione del parlare al presente del passato torna ripetutamente in Ricœur dipende dal fatto che, qualora si ponesse il discorso sul tempo come una formulazione aporetica, il lavoro dello storico perderebbe la propria credibilità e utilità. Mettendo a fuoco la portata ontologica della storiogra a, nonché la vicinanza tra la ri essione del losofo e quella dello storico, quest’ultimo rischierebbe di arrendersi dinanzi all’incapacità di spiegare il passato, concedendo alla verità una posizione limite per la conoscenza, punto noumenico sempre al di fuori del presente dell’indagine. Se la Storia consistesse nel celare una verità, allora lo storico dovrebbe fermarsi dinanzi all’aporia e cominciare a fare il lavoro nzionale del romanziere. D’altra parte, secondo tale prospettiva, il romanziere e lo storico si ritroverebbero a compiere due lavori dissonanti, con il primo che perseguirebbe l’autenticità tramite la memoria o il ricordo laddove il secondo inventerebbe guidato da un’evasione immaginativa. Tuttavia, questo sistema si terrebbe in piedi su un errore di fondo ed è in questo senso che opera Ricœur. Anticipando un po’ sul seguito del nostro lavoro e

su una qualità che il protagonista de La grande bellezza scopre rispetto al romanzo che si accinge a scrivere, diremo che con il losofo francese scopriamo la storiogra a come processo in atto: non si tratta di rivelare il segreto passato ma, piuttosto, di pensare il discorso dello storico e l’opera dell’artista come operazioni coinvolte nella de nizione del rapporto con un’epoca precisa. Né il primo né il secondo danno una mera versione personale dei fatti ma rinnovano in prima persona il rapporto con il tempo trascorso de nendo, così, una posizione rispetto alla storia. Ne consegue che l’aporia della presenza dell’assenza con na sia con la questione della “portata veritativa” della storia60 che con quella della possibilità di un’unità “ricordo-immagine” capace di smuovere la dicotomia tra i due termini del binomio, per poi sciogliere l’opposizione tra “memoria individuale” e “memoria collettiva”61. Tra le piste elaborate da Ricœur, le nozioni di “riconoscimento” e di “rappresentanza” si rivelano di grande interesse per il nostro discorso su Sorrentino. Inteso nel senso stretto del termine, il “riconoscimento” di un evento passato è ciò che permette di mostrare la dicotomia tra memoria e immaginazione sotto un’altra luce, in quanto, secondo Ricœur, riconoscere che qualcosa si è svolto vale già come implicazione del lavoro mnemonico62. Pertanto, l’esigenza di verità che guida lo storico si attiva nella ricerca della cosa passata, il che porta il losofo a vedere il ricordo non soltanto come il momento in cui si accoglie un’immagine anteriore ma come l’istante in cui quest’ultima subisce un’azione del presente. Contro un sistema che polarizza memoria e immaginazione in un’opposizione contrastiva, Ricœur suggerisce l’esistenza di una serie di termini mediani, tra cui appunto il “riconoscimento”. Ciò che viene riconosciuto è tutto il movimento del rivolgersi verso il passato, spinta che viene pienamente integrata nel rapporto tra il presente e la storia. Tuttavia, con ciò non si intende a ermare che scrivere sul passato corrisponde a darne banalmente una visione soggettiva, ma piuttosto

che il movimento per il quale un presente guarda il passato vale immediatamente come elemento attivo nella scrittura di quest’ultimo. Il risultato è che non c’è più una contemporaneità immobile che interpella la storia poiché riconoscere vuol dire “spezzare” il presente imponendogli una decisione, seguendo un suggerimento di Bergson63. Il primo punto di approdo contro il potere dell’aporia chiama in causa il “riconoscimento” come ciò che rinnova il rapporto che il presente instaura con il passato. Diversa e, per certi versi, più complessa è la pista della “rappresentanza”. Le di coltà di quest’ultima non riguardano la maniera in cui la nozione viene de nita ma soprattutto ciò che essa implica. Rispetto ai tratti che la contraddistinguono, la “rappresentanza” sembra aggiungere poco rispetto a quanto osservavamo in partenza. Si tratta, cioè, di una condensazione di “tutte le esigenze e di tutte le aporie” legate al lavoro storiogra co e all’ambizione dello storico di dire la verità sul passato, con tutte le complessità che tale operazione comporta 64. Ma l’aspetto più interessante della nozione in questione si trova forse al limite delle proprie possibilità, ossia quando la “rappresentanza” come categoria della conoscenza s ora la sfera ontologica. Al con ne con l’ontologia, Ricœur mette in evidenza un punto fondamentale tanto per il lavoro dello storico quanto per quello più libero dello scrittore o del cineasta. Possiamo riassumerlo come segue: se è vero che la scrittura del passato possiede un primo referente che linguisticamente si chiama “n’être plus (non essere più)”, ci accorgiamo che lo stesso termine ne possiede un secondo che è quello dell’“avoir été (essere stato)”, come se il momento trascorso possedesse tanto un’assenza al presente quanto anche un’esistenza al passato65. Alimentando la ri essione ontologica, il losofo smuove il momento passato dal proprio ruolo di custode della verità conferendogli una modalità vitale, ossia la modalità dell’esistenza: al con ne tra “un’epistemologia della storia e un’ontologia dell’essere-al-mondo”66, la rappresentanza diventa necessaria per rammentare che il

tempo anteriore non possiede soltanto il carattere della scomparsa ma anche quello dell’esistenza, seppure esclusivamente al passato. Al contempo, però, abbiamo visto come il “riconoscimento” agisca sui limiti della stessa asserzione riferita al momento trascorso, compiendo una nuova azione al presente. Prendendo in considerazione entrambe le componenti, il compito dello storico si rivela un’attività che possiede una temporalità propria non più limitata a una successione cronologica. Tale particolarità è dovuta al fatto che egli percorre il passato in un movimento che smuove il tempo, senza che la scossa impressa si traduca nel riportare il tempo trascorso al presente. L’esistenza del momento accaduto rimane al passato, mentre ciò che va al presente è la fase anteriore animata da un gesto di ripresa. Così, studiando l’istante avvenuto, è il momento attuale a cambiare in prima persona, a condizione che quest’ultimo sia un presente in cui il passato rimane attivo. Con la strada spianata da Ricœur la storiogra a tende, dunque, verso la pratica discorsiva foucaldiana, mettendo al centro la ri essione che la contemporaneità fa per studiare l’anteriorità e considerando le ripercussioni di quest’ultima su una linea temporale in cambiamento. È come se la storia lasciasse spazio ad un interesse nei confronti dei mezzi e delle modalità di indagine sul passato, a scapito di una visione del passato come oggetto da svelare. In questa maniera agisce anche l’immagine cinematogra ca, talvolta con più disinvoltura e prendendo più rischi rispetto al rigore accademico che guida lo sguardo dello storico. Il divo e Loro di Sorrentino ci o rono un esempio signi cativo in tal senso, nella misura in cui testimoniano della capacità o della volontà per il presente di rivolgersi a due momenti della storia recente, proponendo un’immagine la cui libertà nzionale condensa una lettura speci ca del passato. Non v’è alcun dubbio che gli adattamenti cinematogra ci di una parte della carriera politica di Andreotti e di Berlusconi siano ricchi di elementi ttizi che il cineasta ha aggiunto liberamente. Tuttavia, il

discorso sulle nozioni di “riconoscimento” e di “rappresentanza” ci permette di a rontare diversamente il problema della mancata coincidenza tra l’opera cinematogra ca e la realtà. La questione è complessa e riguarda la possibilità di indagare il passato prendendo in considerazione la distanza che ci separa da esso, distanza spesso colmata da parentesi nzionali. Seguendo l’ispirazione di Ricœur e ritrovando uno spunto più vicino all’immagine, la ri essione di Georges Didi-Huberman ci permette di rivedere positivamente gli svantaggi della distanza. In Davanti all’immagine, il losofo sottolinea con precisione il problema della perdita esplorando la categoria di “medesimezza” nello studio della storia, a ermando che esiste un rischio nell’indagine del passato a causa di un’identità che si vorrebbe cercare rispetto alle categorie dell’epoca trascorsa. Pertanto, tentare di leggere un momento storico svelando delle chiavi di lettura che gli sono proprie si rivelerebbe una conquista illusoria, una volontà di controllo che mostra immediatamente la propria natura di “fantasma”. Il problema della “medesimezza” è dunque quello della distanza ancora intesa come divario da colmare con un’operazione bellica (la “conquista”) ma che, in realtà, possiede tutti i tratti di una “vittoria fragile”. Da qui nasce l’esigenza di difendere la perdita come “spazio fecondo” e l’anacronismo come elemento fondatore rispetto allo studio del passato, che si tratti di storia o di storia dell’arte67. La premessa teorica appena formulata ci permette di a rontare con più mezzi critici il dibattito attuale sulla lettura del passato da parte di alcuni cineasti contemporanei, tra cui per l’appunto Sorrentino68. In reazione al timore della mancanza di rigore da parte del cinema, rileviamo l’idea di Barbara Klinger secondo cui la diacronia diventa un criterio fondamentale nella promozione della lettura del tempo trascorso da parte di un lm. Secondo l’autrice, l’evoluzione delle analisi lmiche attinenti a un determinato periodo storico permette di compensare gli errori che rischierebbe di

commettere un unico studio mirato a svelare il valore storiogra co di un lungometraggio69. Nell’idea della lettura diacronica avanzata da Klinger, gli scambi sincronici tra il “testo cinematogra co” e “il contesto” in cui quest’ultimo viene realizzato e accolto si protraggono per una durata all’interno della quale il risultato analitico ottenuto è l’insieme di due movimenti: un primo gesto che porta il lm verso l’esterno come immagine della propria contemporaneità e il gesto contrario secondo cui è un determinato contesto a modellarne la valutazione, il tutto iscritto in una lettura dinamica che permette di mettere in prospettiva l’accoglienza critica di un’opera70. Ciò che attira la nostra attenzione rispetto allo studio di Klinger riguarda soprattutto il tentativo da parte dell’autrice di evitare l’ostacolo aporetico del lm come fonte inattendibile e della storia come oggetto inconoscibile tramite esso. Il divo di Sorrentino è un lm problematico in tal senso e la critica gli ha rimproverato talora un eccesso della forma sui contenuti, talora la semplicità del tono accusatorio con cui viene trattato il personaggio di Andreotti. Il combinarsi di entrambi i tratti non ha attenuato il giudizio negativo di alcuni articoli che, di fatto, mostrano una certa confusione rispetto all’approccio di Sorrentino. In una recensione pubblicata l’anno dell’uscita in sala del lm, il regista Pasquale Squitieri minimizza l’impegno civile de Il divo attribuendoli il torto di giocare, come il coetaneo Gomorra di Matteo Garrone, al gioco della “brutta Italia che piace”71. In realtà, il commento negativo di Squitieri sembra basarsi su un errore di fondo, nella misura in cui la sua analisi esclude l’idea secondo cui Il divo non è soltanto un lm politicamente impegnato nello svelare il retroscena dell’ultimo governo Andreotti, ma un’opera più ambigua rispetto alla personalità che mette in scena. Seguendo la prospettiva teorica precedentemente tracciata con riferimento a Ricœur, si dirà che è proprio da questo atteggiamento ambivalente che emerge la lettura del passato da parte di Sorrentino. Si avrebbe torto nel

considerare Il divo come un semplice lm di denuncia dimenticando che questo primo comportamento va di pari passo con la presentazione di un personaggio più complesso. È precisamente in questo punto che ritroviamo la dimensione individuale nonché il problema della precarietà del potere tanto caro a Sorrentino. Nel lungometraggio è possibile individuare due tendenze contrarie e compresenti: un primo movimento porta verso l’esterno e rende tangibile la rete dei rapporti segreti mentre un secondo sguardo si dirige verso l’interno mostrando le incertezze e gli spettri di Andreotti. Da un lato, osserviamo un’inclinazione per l’esplicitazione, dall’altro una tendenza a interiorizzare, consegnando i mali esposti precedentemente all’ambiguità di un soggetto alle prese con le di coltà della propria posizione gerarchica. Il primo gesto è quello della nominazione e si declina secondo diverse modalità. Il principio di base è quello di speci care il quando, il dove ed il chi, sicché, sin dall’inizio, lo schermo accoglie varie didascalie che danno il contesto della vicenda: il personaggio di Andreotti, i suoi soprannomi, gli anni passati al potere, gli anni di piombo, il rapimento Moro, l’omicidio Falcone no ad arrivare al Maxi Processo. Ora, oltre alla localizzazione spazio-temporale, esiste un raggio di nominazione altrettanto speci co che è quello più problematico del chi. La macchina da presa attraversa spazi e momenti distinti per farci vedere la morte degli uomini in uenti, nonché possibili minacce per il potere (Roberto Calvi, Michele Sindona, Mino Pecorelli, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giorgio Ambrosoli, Aldo Moro e Giovanni Falcone)72. Da un lato, disseminate in tempi diversi e avvenute in contesti poco chiari, le morti vengono riunite dallo stesso movimento della telecamera: una serie di micro-sequenze le mette in scena racchiudendole nella durata di un brano musicale come in un videoclip. D’altra parte, un movimento più lento raduna i mandanti tutti nello stesso luogo emblematico alla luce del sole. Una serie di inquadrature e carrellate al rallentatore ci presentano la

corrente andreottiana della Democrazia Cristiana, dando il nome e il soprannome di ciascun politico (Paolo Cirino Pomicino, Franco Evangelisti, Giuseppe Ciarrapico, Vittorio Sbardella, Fiorenzo Angelini)73. Tuttavia, ciò che accade con la nominazione umana di erisce in parte da quanto osserviamo con la nominazione spazio-temporale, nella misura in cui il raggio che tiene insieme i nomi degli uomini nisce per dar vita ad una vera e propria rete. Sorrentino crea, dunque, un intreccio in espansione che genera gradualmente un campo di interconnessioni le quali permettono, a loro volta, la presentazione del giudizio dell’autore che si traduce nell’elucidazione di una situazione di collusione tra politica e ma a. Se è innegabile, dunque, che Il divo dà una lettura assertiva degli eventi storici presentati, allora il momento del giudizio di cui la macchina da presa si fa portavoce passa necessariamente attraverso una rete nominale. I nominabili – politici, ma osi e giornalisti, vittime come carne ci – vengono dunque inseriti in una successione di sequenze che costruiscono relazioni di vario tipo: complicità tra potere politico e ma a, antagonismo tra giornalismo di inchiesta e politica-ma a, collaborazione tra ma osi pentiti e rappresentanti istituzionali. Mentre dei nuclei di potere interagiscono nascondendosi, la telecamera fa di tutto per mostrare ciò che sfugge allo sguardo dello storico. A tal proposito, Pierpaolo Antonello evidenzia l’ambivalenza tra la strategia politica andreottiana di “neutralizzazione della realtà storica” e la posterità del giudizio a cui Sorrentino espone la gura di Andreotti74. Ri utando di rilegare il passato in immagini fuori campo e integrando tutte le esagerazioni nello spazio visivo, l’immagine lavora sul proprio eccesso, donde la compatibilità naturale tra lo stile di Sorrentino e la vicenda andreottiana. Una sequenza primordiale del lm presenta questa doppia valenza75: i pentiti parlano di ciò che nessuno ha mai potuto osservare e la storia che a ora poco per volta dalle loro parole dispiega la rete in tutte le sue diramazioni76. La varietà confusionaria degli eventi

presentatici è contenuta in un unico blocco la cui coerenza interna rende udibile il tono accusatorio del lm, ossia la de nizione di una vera e propria collusione dei poteri. Tuttavia, nonostante l’apparizione eclatante dell’accusa e l’esposizione degli intrecci illeciti, non bisognerebbe trascurare il secondo sguardo che la macchina da presa elabora sul personaggio di Andreotti. È qui che entra in gioco il principio di fragilità che Sorrentino applica a tutti i suoi uomini in uenti. Per quanto cinico e per do, pur accusandolo della morte di Moro, si dovrà riconoscere che l’Andreotti de Il divo vive nel rimorso, sognando Moro a occhi chiusi come a occhi aperti. Di conseguenza, osserviamo che, in un lm dallo spiccato tono accusatorio, la superiorità gerarchica non eleva al cielo un Andreotti già onnipotente ma lo fa traballare in cima alla piramide. Se la rete assertiva riuniva i punti disseminati dando loro una coerenza interna, la fragilità del potere ci presenta la faccia opaca e con ittuale dello stesso problema. Senza controbilanciare l’accusa, la condizione precaria agisce come turbamento coestensivo e necessario al giudizio. È per questo che, se è vero, seguendo il giudizio di Squitieri, che Il divo è annoverabile tra i lm di impegno civile, converrebbe associarlo anche a un secondo genere di immagini, ossia a quei lm che lavorano sull’umanizzazione di cile delle creature divine, sulla di cile discesa in terra degli esseri superiori, come il personaggio dell’angelo ne Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. Pertanto, è proprio nel momento in cui viene conservata l’ambiguità del personaggio di Andreotti che l’immagine di Sorrentino rinnova il rapporto che la contemporaneità stabilisce con il tempo passato, senza polarizzare verità e nzione ma facendole operare insieme. Ne Il divo si fa strada l’idea secondo cui una lettura storica non può passare dall’asserzione senza sfociare nel proprio eccesso. Sorrentino ci o re dunque la testimonianza di una visione del passato che non

necessita di allontanarsi dalla nzione per raggiungere la realtà poiché sono proprio gli arti ci della macchina da presa a determinare direttamente un nuovo rapporto tra il presente e la storia. Pur prendendo le distanze dall’idea secondo cui esiste una compensazione storiogra ca nel lm, Pierpaolo Antonello propone un’idea simile quando a erma che, ne Il divo, “rimangono solo i lacerti immaginari di una narrazione fantasmatica di carattere compensativo” in assenza “[del]la ‘realtà’ di una verità storica condivisa”77. In un certo qual modo, Franco Vigni ha ragione nel dire che qualcosa ne Il divo rimane nella “sfera dell’inestricabilità”, a immagine del bacio d’onore tra Andreotti e Riina che si realizza soltanto come visione soggettiva del pentito con nando la sequenza “tra il reale e la rêverie”78. D’altra parte, però, non è sull’accusa che il regista lascia trapelare qualche incertezza, ma sul rapporto che si viene a creare tra la fragilità umana del protagonista e il potere esercitato. I trattamenti che si possono riservare alle ambiguità del lm producono risultati diversi rispetto alla validità storiogra ca. Compatibilmente con la nostra prospettiva di analisi, Rossana Vaccaro ritiene che “l’indignazione e la denuncia vanno cercate nell’energia, nell’incisività e nella vitalità, ovvero nello stile”79, facendo involontariamente eco per contrasto ad un articolo scritto da Alessandro Giacone nello stesso anno in cui l’autore dubita della credibilità dei fatti narrati da Sorrentino, reo di utilizzare alcune frasi reali di Andreotti non curandosi del contesto in cui vengono pronunciate80. In realtà, lo studio sulle nozioni di “riconoscimento” e di “rappresentanza” in Ricœur ci permette di non considerare la “ nzionalizzazione” come un intoppo nella scrittura della storia ma di tradurla in un elemento a ermativo. Così facendo, l’interesse non ricadrebbe su come un lm riesce ad elucidare un passato opaco ma su come l’opacità del tempo trascorso può tradursi in un’ambigua lettura che propone una fonte lmica contemporanea, il che per Il divo corrisponde al

doppio gesto che tiene insieme l’asserzione dell’illecito e la precarietà della gura di Andreotti. La difesa di un approccio storiogra co per l’analisi de Il divo ci spinge a riprendere alcuni spunti del dibattito animato dalla critica anglofona sulla dialettica tra mimesis e poesis nel cinema italiano contemporaneo. Il rinnovamento di quella che può sembrare una distinzione binaria tra due polarità incompatibili e il conseguente dialogo esortato dalla critica passa spesso da una rilettura del lm di Sorrentino al di là delle apparenze della forma. Il contesto del dibattito in questione nasce da un articolo di Catherine O’Rawe e da un volume che quest’ultima ha diretto insieme ad Alan O’Leary81. Nel secondo, i due autori difendono l’idea secondo cui è necessario “fare a damento” ad un “(neo)realismo descrittivo” piuttosto che “prescrittivo” in modo da vedere la grande corrente lmica italiana come “un’operazione culturale ed identitaria” e non semplicemente “formale”, come invece un certo accademismo vorrebbe far credere82. L’esortazione ad estendere l’immagine “(neo)realista” a forme apparentemente estranee ha incitato altri critici ad esplorare la questione dell’apporto storiogra co de Il divo. Secondo Millicent Marcus83, è possibile parlare di “postrealismo” nel lm di Sorrentino nella misura in cui, seguendo l’ispirazione di O’Rawe e O’Leary, “(neo)realismo” e “postmodernismo” non sono dei veri e propri momenti della storia del cinema ma dei generi che “invadono l’immagine” lasciando tracce in maniera discontinua. Con ciò si spiega l’importanza, secondo Antonello, di evidenziare questo punto dell’analisi di Marcus, in sostegno all’idea secondo cui esiste uno spessore storiogra co nel lm di Sorrentino: Marcus sottolinea giustamente che l’Andreotti di Sorrentino diventa l’incarnazione non soltanto di un’estetica postmoderna ma anche di un’epistemologia, particolarmente per la sua mancanza di ducia in qualsiasi azione o progetto che miri a superare la

conservazione dello status quo.84 Come già anticipato, seguendo l’analisi di Marcus e di Antonello, la funzione storiogra ca de Il divo è signi cativa e contiene alcune rivendicazioni tipiche degli approcci realisti nella misura in cui “la ri-cognizione e la ri-scoperta” (“re-cognition and re-knowing”) sono al centro del lavoro di Sorrentino85. In tal senso, leggiamo con più facilità la posizione di Dom Holdaway86 secondo cui “il realismo performativo” di Gomorra e la “metanzione storiogra ca” de Il divo contengono entrambi mimesis e poesis pur privilegiando una qualità rispetto all’altra, con il secondo che andrebbe situato più sul versante della libertà poetica. Seguendo la conclusione di Holdaway, leggiamo che “la nzionalizzazione e il racconto storico non si escludono rispettivamente” e “un’analisi gerarchica della prima o del secondo non porterebbe a nessun risultato”87. Sfruttando una cera vicinanza con il fantasmagorico, sembrerebbe, dunque, che Il divo lavori sulla commistione tra l’asserzione della colpa e la precarietà del potere inserendo entrambi gli aspetti in un involucro di immagini teatralizzate che fanno fronte a un periodo storico in cui il vero è di cilmente determinabile. Le uniche immagini autentiche sono quelle delle conseguenze dell’azione politica, i fotogrammi che il regista inserisce nell’introduzione evocando gli omicidi di Moro e di Falcone, mentre le immagini delle cause sono a date contemporaneamente all’a ermazione dell’accusa e all’instabilità dell’imputato. In de nitiva, si viene a formare un duplice approccio applicato a un contesto di complessa elucidazione degli eventi, laddove, come si vedrà in seguito88, a rontando la gura di Berlusconi in Loro, Sorrentino sviluppa l’atteggiamento opposto, ossia la creazione del procedimento falso, la messa in scena in presenza del falsario per de nizione, l’uomo che mente agli altri e a se stesso. Ma in un caso come nell’altro è la destabilizzazione del potere del singolo a permettere alla

“ nzionalizzazione” di entrare in stretto contatto con la storia senza opporvisi, dissuadendo l’elaborazione di una lettura critica irrigidita tra le polarità di realtà e nzione, rispettando, così, l’esortazione di Holdaway riportata poc’anzi. I.3 Verticalità e orizzontalità I.3.a Il problema della trascendenza in Scorsese La situazione degli uomini di potere di cui si è trattato nora era precedentemente stata distinta da un discorso complementare che ci eravamo promessi di elaborare su altri personaggi alle prese con problemi che oltrepassano la sfera esclusivamente umana. In questo punto del nostro lavoro, esploreremo con maggiore attenzione il doppio rapporto che esiste tra il gesto divino (verticalità) e quello materiale (orizzontalità) facendo riferimento alle in uenze di Scorsese e di Fellini. In primo luogo, converrà fare il punto sulla questione della trascendenza che Scorsese a ronta in diversi lavori e nella quale possiamo trovare a nità con il ponte ce di The young pope. La trascendenza si rivela una condizione problematica nel cinema del regista di Little Italy che si è spesso interrogato sul rapporto tra la verticalità divina e l’orizzontalità materiale, sia tramite personaggi direttamente legati alla fede, sia attraverso gure più atipiche quali musicisti, banditi e ma osi. La frequenza con cui il cineasta tratta la tematica della so erenza e della salvezza provoca una strana vicinanza tra il Dalai Lama di Kundun, i preti missionari di Silence e lo stesso Gesù in The last temptation of Christ, personaggi ai quali viene chiesto di condividere il palcoscenico con Charlie Cappa (Mean streets) e Jake La Motta (Raging Bull). In Mean streets, il regista fa oscillare le esitazioni di Charlie tra i problemi della strada e quelli della fede sicché, mentre la narrazione dispiega la propria trama orizzontale, ossia l’intrecciarsi delle cattive conseguenze dovute ai debiti di Johnny Boy di cui Charlie è garante, una profondità

diversa si viene a formare rispetto all’ambivalenza del personaggio principale. In questo contesto, osserviamo l’indecisione del protagonista nel doppio rapporto che si crea tra l’inevitabile appartenenza al clan – ciò che Casillo chiama “indi erenziazione”89 – e i sentimenti che prova per Teresa che è costretto a dissimulare per difendere la propria reputazione. Teresa, la giovane donna che so re di attacchi di epilessia, erroneamente considerata come una posseduta dai membri del clan di Charlie, è l’emblema dell’incapacità di quest’ultimo nel respingere la volontà della massa a dispetto dei propri sentimenti. Non a caso, le persone che gli sono più vicine sono due personaggi esclusi oppure ostili alla famiglia ma osa: la stessa Teresa e Johnny Boy, l’irrequieto che ha contratto debiti con tutti gli scagnozzi. Tra i paradossi che caratterizzano l’animo del protagonista, il più agrante resta probabilmente la capacità di far coesistere il fascino per la religiosità di San Francesco d’Assisi con la tanto desiderata carriera da gangster, il tutto esacerbato dal senso di colpa dovuto all’attrazione sica per la giovane Teresa. Pertanto, in Mean streets, i problemi del quartiere rinviano costantemente a quelli più intimi del protagonista senza che i primi vengano subordinati ai secondi, come se entrambi fossero due facce della stessa medaglia. Ne consegue che la salvezza non è più appannaggio della Chiesa ma dipende da una compartecipazione della religione con la strada, così come qualche anno dopo in Raging Bull, il ring trasformerà La Motta nella “parodia del Cristo, esempio di impulso trascendentale deviato verso gli ingannevoli simboli terrestri della violenza e del potere”90. Per cogliere il duplice piano di orizzontalità e di verticalità in Scorsese basterebbe so ermarsi su una scena signi cativa di Taxi driver. Dopo l’omicidio che Travis commette per salvare la giovane prostituta (Iris), la macchina da presa sale in alto e indietreggia in una lunga sequenza in cui le dissolvenze incrociate fungono da raccordo tra gli spazi esplorati. Il movimento verticale percorre la scena del crimine a ritroso mentre il tempo

dell’azione procede in senso contrario, come dimostra l’arrivo dei poliziotti che vediamo alla ne della lunga traiettoria della telecamera91. Con questo primo gesto, tocca al mondo materiale del peccato innalzarsi al cielo cercando “il punto di vista di Dio”92 e chiedendogli di prolungare l’azione smisurata di Travis. Tuttavia, come già osservato in precedenza, il gesto che compie Scorsese in Taxi driver è doppio nella misura in cui il tassista è anche l’uomo dell’attentato mancato, il personaggio che si perde nell’indi erenza delle proprie intenzioni. L’azione indebolita nisce nella contingenza tra il fallimento del piano funesto e il successo del sacri cio attribuendo, dunque, la stessa variabilità alla valenza del gesto, come se nella trascendenza nale non potessero dissociarsi le componenti umane del peccato da cui deriva misteriosamente. Pertanto, non saremo sorpresi nell’osservare la coesistenza dei due disegni seguenti, ossia un indietreggiamento arti ciale della carrellata che ripercorre la scena del crimine in senso contrario nello stesso istante in cui vediamo nascere l’immagine del sacri cio come risultato illogico di una vendetta fallita per puro caso: l’inquadratura si eleva verso il cielo ma la carrellata scende al livello della strada. Il raggiungimento del divino come prodotto di un’azione difettosa è una costante nel cinema di Scorsese e la trama di Boxcar Bertha tenderebbe a confermare questa ipotesi. La storia rocambolesca scandita da piccoli e grandi crimini nisce con un’immagine supplementare che interviene sulla geometria bidimensionale della trama proponendovi un livello aggiuntivo. Si tratta del tableau-vivant della croci ssione in cui i due protagonisti prendono il posto di Gesù e della Vergine, con Bill morto in croce e Bertha accasciata ai suoi piedi. La scena conferisce, allora, una dimensione sacra ai fotogrammi conclusivi, sublimando il sacri cio dei ribelli che si erano opposti al governatore schiavista. Tuttavia, l’operazione di Scorsese non nisce nella scoperta del gesto verticale, bensì trova un punto ulteriore che testimonia una più completa coalescenza tra

l’umano e il divino. Si noterà, dunque, che il lm non termina con la ripresa umana della croci ssione ma con l’immagine dissonante della vendetta poiché, in ne, un altro personaggio interviene improvvisamente uccidendo gli assassini che avevano croci sso Bill93. In Taxi driver e in Boxcar Bertha, Scorsese traccia un disegno che Sorrentino riprenderà punto per punto in The young pope e che possiamo riassumere come segue: non è consentito innalzare gli uomini al cielo senza saper situare Dio al livello della materialità umana. Non esiste più nessuna frontiera in grado di separare la sfera umana da quella divina, bensì si passa facilmente dall’una all’altra. Come vedremo con Sorrentino, anche in Scorsese il gesto divino verticale e quello umano orizzontale sono due operazioni sincroniche e reciproche. Se, in Taxi driver, l’attentato sventato era necessario per aprire l’immagine al sacri cio senza de nire il legame tra il primo e il secondo, ci accorgiamo che la situazione non è molto diversa in un lavoro che tratta più direttamente il sacro. In The last temptation of Christ, prima di accettare il sacri cio della croce, il Cristo deve passare attraverso l’inganno del Diavolo: vestitosi da angelo custode, Satana proietta Gesù in un’esistenza in cui ha scelto di vivere come un uomo qualunque, portando così la specie umana al giorno dell’apocalisse. Tuttavia, dopo questa parentesi apocrifa, il lm riprende la storia del Vangelo con Gesù che torna al punto della tentazione senza cedervi e accetta de nitivamente la propria natura divina. A tal proposito, Karen Ho man presenta bene il carattere del Cristo scorsesiano quando a erma che si tratta di un personaggio che necessita di “vivere come un uomo” prima di accogliere la propria “trascendenza umana” e morire sulla croce94. Anche nella sfera del sacro, notiamo che Scorsese associa inevitabilmente il gesto umano della debolezza a quello divino e verticale che resta intatto a dispetto di ciò che potrebbe vani carlo. Il sacri cio rimane come tale anche dopo il peccato sventato (Taxi

driver), il tableau-vivant della croci ssione non preclude la vendetta (Boxcar Bertha) e la riconciliazione con la scrittura evangelica può avvenire malgrado una digressione apocrifa (The last temptation of Christ). Poco fa, proponevamo le parole di Casillo sulla “parodia del Cristo” in Raging Bull. Adesso, siamo in grado di a ermare che se l’immagine sacra viene preservata da un qualsiasi intento caricaturale in Scorsese è proprio perché la sfera umana da cui potrebbe nascere la parodia non viene opposta al sacro ma fa tutt’uno con esso. In realtà, la via della trascendenza non scaturisce dall’abbandono della materialità, ma nasce dal bisogno di far passare l’umano dal divino a condizione che il secondo riesca a fare lo stesso nei confronti del primo. Secondo i presupposti di questa compresenza è possibile studiare con più attenzione il personaggio di Lenny Belardo in The young pope. I.3.b La duplice natura del papa di Sorrentino Abbiamo appena visto che in Scorsese la trascendenza non è una possibilità autosu ciente così come la condizione divina è uno stato precario che necessita costantemente l’apporto del materiale. La mancata autarchia di ciascuna delle due polarità trova un ri esso nel cinema di Sorrentino. L’umanizzazione di Gesù di cui parla Graham Holderness95 a proposito del romanzo di Nikos Kazantzakis, da cui è tratto The last temptation of Christ, sembra suggerirci una lettura valida anche per il ponte ce di The young pope, nella misura in cui in entrambi i personaggi il miracolo divino con na con un’incertezza profondamente umana che li spinge a mettere in dubbio la loro fede, una so erenza che rimanda alla de nizione di “Gesù Prometeo” che Jerold J. Abrams attribuisce al Cristo “terri cato” di Scorsese96. In maniera simile, nella serie TV di Sorrentino l’attesa vicinanza tra il papa e Dio è tutto fuorché ovvia, nonché ripetutamente messa in discussione e indebolita. Anche in questo caso, però, i dubbi spirituali inerenti ai traumi del

papa non sono trattati unicamente come quesiti verticali poiché Sorrentino li intreccia con un secondo genere di problematiche prettamente orizzontali. In un certo qual modo, il risultato doppio a cui il cineasta giunge rispetto al proprio personaggio ci viene suggerito dal continuo alternarsi delle vicende politiche della curia ponti cia con scene che colgono Belardo in momenti di sincera intimità. I con itti dell’anima procedono, allora, di pari passo con altre rivalità esclusivamente politiche che vedono agire un altro personaggio centrale nella serie, il cardinale Angelo Voiello. Questi è lo stratega politico, il Segretario di Stato della Santa Sede che tenta di in uenzare il ponte ce dirigendo la Chiesa dietro le quinte del potere. Voiello è colui che agisce di nascosto, dal basso verso l’alto, ossia l’uomo che vuole garantirsi il buon andamento delle faccende materiali con lo scopo di raggiungere la sfera spirituale (il bene della Chiesa di cui parla spesso nei suoi scambi di vedute con Belardo), governando, cioè, il Vaticano in nome di Dio ma con i mezzi esclusivamente umani dello statista. Voiello è de nibile linearmente come cardinale appartenente all’ala sinistra del clero, laddove il cardinale Michael Spencer è la gura di spicco dei conservatori. Pur avendo due approcci diversi e pur possedendo una profondità psicologica che gli episodi ci svelano gradualmente – dall’alcolismo del secondo ai sentimenti paterni che il primo nutre nei confronti di un ragazzo trisomico – entrambi i personaggi non si contraddicono nel loro modo di coniugare la fede con la carica politica che spetta loro. A dispetto delle incertezze e delle debolezze personali, in entrambe le gure le coordinate orizzontali dell’in uenza politica e quelle verticali del rapporto con Dio de niscono un equilibrio ed escludono la contraddizione sicché, nell’uno come nell’altro, il ruolo materiale del potere è concepito come necessario per l’incarico spirituale. Pur essendo colti in un momento di di coltà, i due cardinali coniugano ragion di Stato e fede come guidati da un principio di omeostasi: contradditori e complessi ma non completamente

paradossali. Diversamente dai suoi colleghi, invece, Belardo salta all’occhio per la dissonanza che lo caratterizza: è un papa retrogrado, un orfano alle prese con l’eterna ricerca dei propri genitori, ma anche un santo in grado di fare miracoli, un misto tra Geremia (L’amico di famiglia) e Andreotti (Il divo) ma con un’inedita capacità nel portare in sé il miracolo divino. Se i cardinali conservano un equilibrio nonostante le contraddizioni e le fragilità dell’animo, papa Pio XIII spicca per il paradosso che lo contraddistingue: i primi sono omeostatici, il secondo è anti-omeostatico. Voiello agisce orizzontalmente sfruttando la rete di spie e messaggeri di cui è il responsabile, mentre il problema di Belardo risiede in uno spazio amorfo tra il materiale e il divino, poiché è proprio in corrispondenza dell’oscurantismo politico e della chiusura mentale che trova una grande vicinanza con Dio. Belardo diventa il personaggio del paradosso nella misura in cui a da alla più grande incertezza spirituale il peso di una creatura divina, facendo coesistere non soltanto la precarietà e l’arroganza nello stesso essere umano ma anche questi due tratti in una gura molto vicina a Dio. Nel quarto e nel quinto episodio il confronto tra le componenti orizzontali e verticali è particolarmente visibile. Contestualizzando l’azione, Voiello vuole sbarazzarsi di Belardo e ha progettato di incastrarlo fotografandolo in compagnia di Esther, la moglie di una guardia svizzera di cui il papa sembra essersi innamorato. Ma qualcosa spinge Voiello ad abbandonare il piano iniziale, un fattore imponderabile che attiene al complesso confronto tra umano e divino. Pur avendo curato il tranello in ogni suo minimo dettaglio – il cardinale spia Belardo di nascosto in compagnia di un sacerdote che ne legge il labiale – Voiello si sentirà costretto a cambiare parere quando sentirà il papa pronunciare un’intima ammissione di debolezza. Dinanzi alla bellezza di Esther, Pio XIII rivelerà che teme di amare una donna come farebbe un uomo qualunque, de nendosi un “codardo” poiché ri uta l’amore materiale

per paura di essere abbandonato una seconda volta97: Voiello aspettava impazientemente il peccatore ma trova soltanto l’orfano. Secondo queste modalità viene a crearsi il confronto tra le coordinate verticali ed orizzontali: il piano politico viene sventato attraverso una rivelazione divina con quest’ultima che è a sua volta racchiusa nell’ammissione di una debolezza interamente umana, quella dell’orfano che deve fare i conti con la solitudine e che adesso può soltanto allontanare delicatamente la mano dal seno della donna che gli sta di fronte. Un primo intreccio tra le componenti materiali e divine a ora nel momento in cui l’immagine si articola neutralizzando un complotto orizzontale tramite un’inattesa profondità ultraterrena a condizione, però, che quest’ultima riveli un comportamento esclusivamente umano. Non è un caso che nella sequenza in questione Sorrentino accentui il bianco dei vestiti e del volto del papa e di Esther, come se indicasse la presenza di una luce celeste che circonda i personaggi, diversamente dal controcampo occupato da Voiello e dai suoi due complici98. La composizione della fotogra a può tendere liberamente verso la stilizzazione del divino perché, al contempo, l’immagine si munisce di un contrappeso dialogico nella misura in cui sono la paura, la debolezza e la vigliaccheria ad occupare il centro del discorso del papa: “sono un uomo triste come tutti i preti”, a erma il protagonista il cui abito bianco risplende come invaso da una luce ultraterrena99. La scena appena studiata ci o re una testimonianza dell’intreccio tra l’umano e il divino, atteggiamento rispetto al quale possiamo notare la forte ispirazione di Scorsese. Per quest’ultimo, abbiamo visto come il materiale e il trascendente fossero mutualmente indispensabili tanto da rendere di cile l’identi cazione della frontiera che li separa come nel rapporto tra vendetta e sacri cio in Taxi driver e Boxcar Bertha. The young pope instaura un principio analogo quando fa passare dalla parola “codardo” la sincera rivelazione delle fede del papa che colpisce nel segno la sensibilità di

Voiello. Tuttavia, ci sembra che l’ispirazione scorsesiana si manifesti più profondamente in un secondo aspetto paradossale del protagonista di The young pope. Belardo fa coesistere l’oscurantismo politico, la fragilità umana e il gesto divino, così come in Taxi driver e Boxcar Bertha la vendetta e il sacri cio venivano posti sullo stesso livello e nella stessa indi erenza, senza che il secondo risolvesse il peccato della prima. Poco fa, abbiamo visto come, nella scena con Esther, Pio XIII facesse sfociare la debolezza umana nel divino pur attribuendo a quest’ultimo la capacità propriamente materiale di annullare il complotto politico. In maniera simile, notiamo altre ambivalenze che determinano le sfaccettature del personaggio. Possiamo identi care tre livelli della caratterizzazione di Belardo sui quali è richiesto l’intervento del paradosso: la funzione della parola, il ruolo degli oggetti nell’esercizio del potere e l’impatto del desiderio. Siamo dinanzi a tre piani signi cativi secondo un valore prettamente cinematogra co nella misura in cui essi contengono tre immagini o momenti fondatori della storia della settima arte: l’e cacia della parola ovvero il ruolo del parlato rispetto al muto, i giochi di potere come componente strutturante del cinema occidentale, seguendo 100 un’indicazione dello stesso Scorsese e, in ne, la componente dell’erotismo che Jean-Luc Godard classi ca tra le forme ricorrenti del grande schermo, una di quelle “immagini che funzionano” nella sala di proiezione101. Per quanto riguarda la questione della parola, è signi cativo osservare che, in The last temptation of Christ, Gesù resiste al Diavolo liberandosi in commenti solitari mentre per la gente che lo circonda prevale il “mutismo”, alimentando una serie di opposizioni su cui si fonda il lm (“anima contro corpo”, “spirituale contro materiale”)102. Tuttavia, malgrado gli scambi e le conversazioni con il personaggio di Giuda, il Cristo di Scorsese non riesce ad evitare la tentazione vani cando, di fatto, il potere della parola come accesso alla salvezza. Pertanto, se è vero che il parlato non è uno strumento di

potere, ciò che rimane è una parola divina esposta alla so erenza, quel “perché devo morire?” che Gesù rivolgerà al Padre mentre piange nel giardino del Getsemani103. In The young pope, uno statuto altrettanto fragile è attribuito alla voce di Belardo. Nella scena con Esther abbiamo visto come fosse il timore a far nascere il gesto verticale, ma esistono altre incertezze che espongono la precarietà del ponte ce. Basti pensare al valore attribuito a una frase che torna con frequenza nella serie televisiva: “io non credo in Dio”, pronunciata per la prima volta dal protagonista in una confessione che lascia sbigottito un padre francescano, costringendo il papa a ngere di scherzare per evitare lo scandalo104. In realtà, la sincerità della fede è uno dei dubbi che tormenta l’animo di Pio XIII aggiungendo, così, una sfumatura paradossale alla gura del santo che nasce episodio dopo episodio. Ancora una volta e compatibilmente con quanto osservato nella scena con Esther, la parola viene sublimata nel momento in cui espone la propria fragilità interna raggiungendo un valore divino nel momento in cui trasforma in a ermazione quella che sembrava essere una proposizione negativa, ossia un’ammissione di debolezza105. Ragion per cui, ci sentiamo di poter attribuire a The young pope un commento che Yannick Lemarié ha formulato in merito The last temptation of Christ e che recita come segue: “riappropriarsi degli eventi tramite la parola vuol dire, allora, dare un esempio di umanità”106. Se, sul piano verbale, si apre lo scenario per una concezione a ermativa della privazione con la fragilità che diventa un accesso diretto al divino, osserviamo un comportamento antitetico nei confronti del secondo livello che abbiamo identi cato, ossia la materialità del potere. In Scorsese, la reciprocità tra umano e divino si ri ette anche nel ruolo che gli oggetti occupano rispetto al sacro. In linea di principio, non sarebbe azzardoso vedere una continuità tra il modo in cui vengono trattati gli spazi interni delle case degli abitanti di Little Italy in Italianamerican e in Mean streets, oppure le dimore

dell’aristocrazia newyorchese in The age of innocence e un lm impregnato in un’atmosfera religiosa come Kundun. Nel primo capitolo di Gangster priest, Casillo insiste sull’importanza dell’arredo e sul ruolo della salsa di pomodoro che accompagna la narrazione documentaria di Italianamerican107. In maniera simile, Lemarié evidenzia la tangibilità del divino che in Kundun passa da piccoli oggetti quali “gli occhiali e la ciotola”108, a dimostrazione di quanto il materiale partecipi alla de nizione del sacro. A partire da due oggetti ben diversi, in Italianamerican e in Kundun, notiamo come Scorsese attribuisca all’elemento concreto uno stato ibrido, che si tratti del misto tra tradizione italiana e produzione industriale americana nei barattoli che Catherine Scorsese utilizza in cucina109 o del recupero del sacro tramite gli utensili del quotidiano del Dalai Lama. Se Scorsese lavora sullo statuto eterogeneo di alcuni oggetti, Sorrentino attribuisce un simile principio di variabilità alla sfera materiale per de nire la duplice natura del suo papa. Difatti, se inizialmente Belardo sembra voler dissociare la Chiesa cattolica da ogni possibile merci cazione delle fede, ritirandosi in prima persona dallo sguardo dei fedeli, egli adotta un approccio molto diverso nella maniera di presentarsi dinanzi al clero. Una scena del quinto episodio lo ritrae come un monarca nel tanto atteso giorno del discorso alla congregazione cardinalizia. Dopo una sorprendente parentesi in cui prova una serie di paramenti liturgici al ritmo di una canzone il cui ritornello recita “I’m sexy and I know it”110, Belardo viene portato nella Cappella Sistina sulla sedia gestatoria da alcuni sacerdoti in palese di coltà, presentandosi come una vera e propria celebrità davanti agli sguardi increduli dei cardinali111. Poco dopo darà voce ad un discorso oscurantista che recita frasi quali: “il fanatismo è Dio” oppure “la volontà del papa è quella della Chiesa ma anche quella di Dio”112. Il paradosso risiede, allora, nel doppio rapporto tra la parola e gli oggetti, poiché nello stesso episodio avevamo ascoltato Belardo pronunciare un

discorso ben diverso di fronte ad Esther con grande sorpresa di Voiello. Così come il verbo passa dalla nobiltà della debolezza all’arroganza del potere, anche la sfera materiale oscilla tra il ri uto della merci cazione della fede e l’appariscenza come forma di dominazione, il tutto racchiuso nel medesimo episodio narrativo. Se è vero, come sostiene Eugenio Ruggeri, che “la componente visuale irrinunciabile” del potere è resa tramite “l’esibizione del travestimento e dell’indi erenza”113, è forse perché nel personaggio di Pio XIII le coordinate orizzontali del gesto umano e quelle verticali del trascendente non si incontrano per determinare un qualsivoglia equilibrio ma mostrano la forma plurale del paradosso. È proprio in questo punto che risiede la speci cità del papa di Sorrentino nei confronti delle gure lmiche che lo precedono: non è soltanto un uomo cinico e altezzoso la cui superiorità si rivela una condizione e mera nonché attigua alla più grande precarietà, né esclusivamente un so erente che si avvicina a Dio, ma un individuo in cui entrambe le contraddizioni appena citate si alternano senza soluzione di continuità. Arriviamo, dunque, al terzo carattere, ossia quello del desiderio di cui abbiamo già parzialmente discusso. Le varie scene che vedono Pio XIII in compagnia di Esther espongono il protagonista alla complessa questione del rapporto tra l’amore umano e quello divino. Nella scena del quinto episodio precedentemente citata abbiamo osservato come l’ammissione della debolezza trovasse un’iniziale sublimazione prima di vedere la variante antitetica della parola agire nella sua forma più orizzontale di imposizione del potere dinanzi ai cardinali. Sul piano del desiderio sono distinguibili due livelli contrastanti che sembrano annullarsi reciprocamente, così come per l’espressione orale e per la materialità degli oggetti. Difatti, Belardo non è soltanto l’uomo di Dio che ri uta di cedere alla tentazione per Esther, ma anche il santo vero e proprio in grado di provocare la gravidanza della giovane donna. Così, nella sequenza in cui implora

con insistenza la Madonna a nché Esther rimanga incinta a dispetto della sua presunta sterilità, Belardo incarna contemporaneamente la gura del santo ma anche, in compenso, quella del marito e del padre che non può essere114. Si viene, allora, a creare un’ennesima dissonanza tra il distanziarsi dai sentimenti puramente umani nei confronti della donna e la successiva gravidanza di cui il papa è indirettamente responsabile e che viene presentata alla Vergine come una richiesta speci ca. Non a caso, la scena del miracolo alterna frammenti in cui Peter ed Esther fanno l’amore con un’immagine estranea alla narrazione in cui vediamo la seconda in preghiera accompagnata dal papa che le pone una mano sulla spalla, il tutto preceduto da un breve frammento rappresentante la Vergine Maria. In questo rapidissimo tableau-vivant una luce arti ciale spicca nell’oscurità dell’immagine illuminando le pieghe del manto della Vergine in corrispondenza del ventre, indicando pittoricamente quel punto in cui “l’essenziale è sottratto agli occhi”115. Così come nella Visitazione di Carmignano di Pontormo, seguendo lo studio di Jean-Luc Nancy, la presenza divina non è da rappresentare ma da indicare come “mistero che risplende” e come presenza di ciò che per de nizione è assente116, in The young pope il paradosso non sembra de nire un ostacolo da risolvere ma viene legittimato come tratto distintivo del personaggio di Belardo. Pertanto, a partire dal consolidamento dell’antitesi è possibile creare una successione tra la paternità indiretta e il ri uto di un desiderio esclusivamente umano. Il passaggio da una componente all’altra avvicina le coordinate orizzontali e verticali orientandole controcorrente, sicché la sublimazione del gesto umano non esiste senza prima aver visto la materializzazione del sacro, con il miracolo che si rivela un’esigenza personale del ponte ce. A ciò si aggiunge una terza scena dal tono prettamente comico: recatosi in ospedale, Belardo chiamerà il glio di Esther Pio XIV, prima di farselo scivolare dalle mani facendolo

cadere su un letto che ne attutisce provvidenzialmente l’urto117. I.3.c Lenny Belardo e il testo letterario Per cogliere l’intreccio tra le coordinate umane (orizzontalità) e divine (verticalità) che Sorrentino elabora in The young pope possiamo prendere in considerazione uno spunto della ri essione di Maurice Blanchot in merito al rapporto tra ricerca ed errore nel confronto con il testo letterario. Ne La conversazione in nita si legge come non sia legittimo a ermare semplicemente che la prima attiene al vero mentre il secondo al falso, poiché l’una come l’altro delineano un processo di avvicinamento pur operando in due maniere distinte. Ciò che conta, in realtà, è il momento dell’incontro il quale, a sua volta, non può che avvenire tramite l’apporto di un distacco. Esiste uno spazio intervallare che non funge da mediatore ma da “immediatore”, ossia da rapporto che istantaneamente fa apparire l’immagine a distanza invece di condurci lentamente verso la comprensione di essa, una “immediatezza”118 che sembra con nare con il comportamento del “sintomo” di cui parla DidiHuberman su cui torneremo successivamente. Ne La conversazione in nita, l’intervallo letterario opera secondo la formula del vedere immediatamente a patto di vedere ciò che scappa alla visione piuttosto che conferire un ordine schematico a un’immagine con cui si è confrontati. D’altra parte, Blanchot insiste sulla distinzione essenziale tra, da un lato, la visione della globalità e dell’unità adatta per uno sguardo in campo lungo (“l’Uno”) e, dall’altro, la parola che, per l’appunto, “trasgredisce questa visione”. Con che tipo di espressione abbiamo a che fare? Siamo dinanzi ad un dire che inquieta, che di erisce, che devia volgendosi altrove, un aspetto che ricorda il paradosso del papa di Sorrentino. Arriviamo all’idea di un discorso letterario fondato sul giro di parole, per riprendere un’espressione che traduce bene il termine francese

détour119. Ora, se questa parola che non può essere visione schematica e ordinata si allarga girandosi, sarebbe lecito chiedersi da cosa sfugga precisamente, cosa coinvolga il moto di questa espressione che trasgredisce la linearità. In un primo momento, potremmo pensare a un vortice nel quale il gioco di parole sarebbe coinvolto con l’andamento di un discorso che sprofonda e si allontana. Ma, nonostante l’avvicinarsi a una di coltà vorticosa non sia a atto da escludere, l’impossibilità non sembra essere l’unica direzione del moto in questione. Blanchot sembra suggerirci che, invece di sprofondare de nitivamente verso l’irrealizzabile, la parola recupera un movimento che prende in considerazione l’in uenza della turbolenza e, una volta all’interno, coglie la possibilità della spirale. Tuttavia, anche in questo caso si tratta di una scoperta che richiede una condizione di validità, nella misura in cui la spirale non deve vedersi rispetto al centro irraggiungibile dal quale si dissocia. La struttura spiraliforme è un disegno tutto sommato semplice e rischierebbe di dare una somiglianza impropria tra la ricerca e l’errore. Da un lato, leggendo che “trovare” è sinonimo di “girare” ed “errore” sinonimo di “errare”, saremmo tentati di a ermare che entrambi i movimenti sono acentrici. Eppure, un aspetto fondamentale di erisce tra il primo e il secondo termine in quanto, a nché ci sia errore, è necessario che il centro della ricerca venga de nitivamente smarrito. Seguendo il discorso di Blanchot, l’errore non dipende dal fatto che ci si distanzia da un ipotetico signi cato da svelare, poiché è la volontà stessa di attribuirsi un signi cato da svelare a costituire un errore. La natura erratica dipende dal fatto che se vaghiamo nella lettura di un testo è soltanto perché ne cerchiamo invano il signi cato, sicché, in n dei conti, è l’incontro con la di erenza della scrittura letteraria a sottrarsi all’errore120. Come vedremo nelle pagine successive del nostro studio, l’abbaglio iniziale del protagonista de La grande bellezza è proprio quello di conservare, volente o nolente, una verità o un ricordo da cogliere verticalmente come immagini di

una bellezza ormai lontana. Il superamento dell’errore nasce, allora, dall’abbandono della rivelazione, ossia dalla rinuncia dell’idea secondo cui l’arte e la memoria sono oggetti da preservare e da svelare nella loro purezza. In de nitiva, La grande bellezza promuoverà il gesto esclusivamente orizzontale della scrittura da elaborare progressivamente e, in questa inedita processualità, troveremo un ri esso del giro di parole (o détour) secondo l’accezione di Blanchot. Anticipando alcuni elementi che elaboreremo tra poco, si dirà che il personaggio di Jep Gambardella riesce a superare questa di coltà, mentre Lenny Belardo la incarna: il primo fa luce sulla natura e sulla complessità dell’opera d’arte abbandonando il gesto verticale della de nizione immacolata della bellezza, il secondo la personi ca nell’intreccio tra l’umano e il divino. Il protagonista di The young pope erra nelle proprie incertezze, cerca il problema che pensa invano di poter cogliere, mentre qualche anno prima ne La grande bellezza, Jep Gambardella aveva già sostituito la ricerca verticale con un gesto di scrittura interamente orizzontale. In un certo qual modo, il secondo fa svanire la contraddizione, mentre il primo fa persistere il paradosso no all’ultima immagine, no all’inquadratura di chiusura che mette per l’ennesima volta a confronto il gesto umano della ricerca dei genitori e quello divino dell’estasi, accogliendo letteralmente la prospettiva ultraterrena nell’ultimo movimento di telecamera121. Invece dell’equilibrio come cura del paradosso secondo una possibilità che si fa strada nella seconda parte della narrazione lmica, incontriamo, in ne, l’inconciliabile. Si passa, dunque, dalla de nizione di un personaggio che sembrava aver risolto le proprie ambiguità alla riscoperta dell’incommensurabile, conseguenza dello scontro tra la prospettiva trascendente e quella materiale. Inoltre, la scena nale di The young pope determina una novità signi cativa nell’immagine del regista, aspetto che possiede un risuono anche sul piano della composizione dell’immagine, nella misura in cui, come si vedrà nel

secondo capitolo del nostro lavoro, l’epilogo della serie televisiva o re una rara variante allo schema dell’ordine che spesso si impone in Sorrentino. Il personaggio di Belardo è l’emblema della volontà di conservare la contraddizione confrontandola con l’umano e con il divino no all’ultimo fotogramma. L’impossibilità, in The young pope, di portare a buon ne l’armonia che era stata costruita negli ultimi episodi ci ricorda un’altra immagine che Blanchot utilizza per parlare del testo letterario, quella del velo che, una volta tolto, non può che rivelarne un secondo122. In Sorrentino, l’evoluzione del personaggio di Pio XIII può avvenire a patto che, no all’ultimo, venga conservato il movimento acentrico del paradosso, ciò che per Blanchot costituisce una speci cità della scrittura. The young pope si conclude, dunque, con questo quesito: e se Belardo non incarnasse semplicemente la contraddizione ecclesiastica di un papa ateo ma anche la crisi umana e profonda che coniuga la miscredenza clericale e la divinità autentica? È proprio in questa dissimmetria sempre possibile, generata da un confondersi continuo dei gesti orizzontali e verticali, che incontriamo il paradosso di Lenny Belardo, donde l’idea secondo cui il personaggio di Sorrentino incarna la speci cità della scrittura e dell’immagine. I.3.d Il problema del gesto verticale e la necessità di un processo orizzontale Gli incroci paradossali tra l’umano e il divino che contraddistinguono il personaggio di Pio XIII non sono l’unica organizzazione possibile del rapporto fra orizzontalità e verticalità. Come anticipato pocanzi, la con gurazione che presenta La grande bellezza di erisce da quella di The young pope. Pertanto, tenteremo adesso di esplicitare l’a ermazione formulata in precedenza secondo cui il personaggio di Jep Gambardella fa luce sulla natura dell’opera d’arte laddove Lenny Belardo ne incarna la speci cità. Al di là dell’ormai nota in uenza de La dolce vita su cui torneremo in seguito, La grande

bellezza è un lm che contiene altre ispirazioni felliniane attinenti a un periodo successivo dell’opera del regista di Rimini. Se è vero che i riferimenti visivi e l’atmosfera del lm di Sorrentino ci invitano a fare un paragone con quell’a resco con cui Fellini dipinse la società italiana della ne degli anni Cinquanta, non è da escludervi la presenza di altre immagini di riferimento. Difatti, la semplice osservazione secondo cui La dolce vita si conclude pessimisticamente a di erenza de La grande bellezza è una ragione su ciente per interrogarci sulle altre potenziali idee felliniane situabili nello scarto che separa la partenza de nitiva di Marcello Rubini con i mondani dopo non essere riuscito a comunicare con la ragazza dall’altro lato del ruscello123 dalla ritrovata volontà di scrivere da parte di Jep Gambardella. Lo studio che ci accingiamo ad elaborare è un aspetto complementare a quanto si vedrà nel secondo capitolo del nostro lavoro dove ci concentreremo maggiormente sulle forme di liberazione. Tuttavia, ci sembra opportuno anticiparne alcuni aspetti nella misura in cui la ri essione estetica de La grande bellezza è strettamente legata a un discorso sul legame tra verticalità ed orizzontalità, rapporto grazie al quale abbiamo potuto osservare una speci ca e più complessa caratterizzazione dell’individuo in Sorrentino. La novità della gura di Lenny Belardo e il legame che quest’ultimo stabilisce con l’enigma della scrittura ci invitano a seguire l’esempio più manifesto di ri essione estetica dell’opera di Sorrentino che leggiamo attraverso la vicenda di Jep Gambardella. La grande bellezza racconta la storia di uno scrittore noto per il suo primo e unico romanzo il cui successo lo ha spinto nel “vortice delle mondanità”124 di Roma, città che adesso presiede dall’alto del suo attico situato di fronte al Colosseo. Al di là del dandysmo che ostenta, Jep Gambardella è un uomo profondamente nostalgico del passato e della bellezza del suo primo amore giovanile per una donna di nome Elisa di cui si apprende la scomparsa all’inizio del lm. Ennesima gura contradditoria del cinema di Sorrentino,

Gambardella è un mondano che denuncia la vacuità delle proprie frequentazioni tramite confessioni fuori campo oppure mostrandosi sprezzante nei confronti dei suoi amici. Tuttavia, scopriremo ben presto che la sfera verbale risulta fuorviante nel lm: Gambardella disprezza un mondo in cui è pienamente integrato, sicché la bruttezza che constata o rigetta a parole fa fatica a trovare un contrappeso positivo in un’autentica de nizione del bello, almeno nella prima metà della narrazione lmica. La volontà da parte del protagonista di preservare il ricordo di Elisa innalzandola a bellezza immacolata di un tempo passato non fa altro che provocare in lui un senso continuo di mestizia. Lo stesso immobilismo coinvolge l’ispirazione letteraria, bloccata a quel romanzo intitolato L’apparato umano in cui si racconta proprio la scoperta di un amore giovanile. Di conseguenza, il romanzo e la bellezza sono cristallizzati nell’involucro malinconico che li protegge, preservati da un’attualità in cui a dominare è solo la bruttezza mondana. Tra le due estremità si situa un personaggio incapace di scovare l’incanto nel tempo presente, uno scrittore privo di idee in cui si congiungono due gesti verticali complementari ed ugualmente statici: la preservazione della bellezza ormai perduta e la vana ricerca di ritrovarne una equivalente nel mondo attuale. Da ciò deriva l’abbandono e l’adesione del protagonista a una volgarità mondana da cui non è in grado di venir fuori. Tuttavia, a dispetto dei presupposti iniziali, La grande bellezza racconta la storia di un uomo che riesce ad imprimere un cambio di rotta alla propria vita. Per far ciò, gli è necessario adottare una prospettiva diversa nei confronti degli oggetti fondamentali che tornano nel lm e quasi coincidono: la scrittura e, per l'appunto, la bellezza. Da questi primi due, scaturisce un terzo carattere altrettanto determinante, ossia l’immagine lmica che avvolge i primi due aspetti e li modi ca facendoli incrociare a più riprese. Nella fattispecie, nell’intreccio dei tre elementi appena citati, ciò che scopre il protagonista alla ne della vicenda è un gesto

orizzontale che iscrive la ricerca del bello in un processo da rinnovare e in un lavoro da compiere. In tal senso, Mori sottolinea che nel lm “la bellezza fantasmagorica” tanto attesa di cui si vorrebbe cogliere la purezza è “un’entità illusoria che trova una continuità in Roma, […] la città dei sentimenti nostalgici e degli oggetti perduti”125. È per questo motivo che i personaggi principali de La grande bellezza e di Youth (lungometraggio seguente di Sorrentino), rispettivamente uno scrittore ed un compositore riconosciuti per quanto compiuto nel passato, scoprono la necessità di rilanciare la loro vita e il loro talento costruendo al presente invece di cercare invano di recuperare un tempo trascorso di cui si rimpiange la perfezione. In Youth, Fred Ballinger passa dal ri uto della musica alla riproposizione del brano che più lo legava a sua moglie, cantante lirica e interprete dei brani del protagonista che adesso si è ammalata e ha perso la voce. Nel lavoro ancora successivo, ovvero The young pope, la prospettiva sarà diversa rispetto all’organizzazione dei due lm che lo precedono. Per il nostro studio, tale discrepanza si rivela un tratto signi cativo nella misura in cui il risultato a cui si giunge con Lenny Belardo ha origine nel lavoro già compiuto in Youth e, soprattutto, ne La grande bellezza. L’operazione in questione consiste nel passaggio dal gesto verticale che preservava nel ricordo una bellezza inattuabile al presente, a un approccio esclusivamente orizzontale secondo cui il bello non è da svelare ma da costruire gradualmente. A tal proposito, potremmo seguire il suggerimento di Mori: L’epifania di Jep risiede, infatti, nella rivelazione per cui l’assoluto, nel suo caso ciò che de nisce come la grande bellezza, non può essere subordinato al contenuto materiale, ciò che gli occhi vedono concretamente, quanto a una credenza che può originarsi interiormente solo in modo retroattivo e come risultato di un atto rituale, di una forma costante di ricerca.126

Il punto di approdo de La grande bellezza propone una profonda ri essione estetica nella misura in cui il risultato a cui giunge Gambardella consiste nel far combaciare il bello con la temporalità della scrittura, ossia con la costruzione progressiva di un senso che si sostituisce alla rivelazione del signi cato. Il cambio di rotta da una prima prospettiva verticale a una seconda prettamente orizzontale è tanto più radicale quanto in esso risiede un reale approccio teorico per lo studio dell’arte. In tal senso, possiamo chiamare in causa le nozioni di “lembo” e “sintomo” che Didi-Huberman sviluppa in Davanti all’immagine. Opponendosi a una visione programmatica o prescrittiva dell’arte, il “lembo” e il “sintomo” pongono sullo stesso piano “il signi cato” e “l’accidente” dando alla luce l’idea secondo cui l’enigma dell’opera non viene nascosto nel dettaglio da cogliere come soluzione del mistero, bensì viene dato come strato manifesto, come “giacimento” per riprendere un vocabolo caro allo “spessore della pittura”127. Didi-Huberman difende per l’arte la presenza sintomatica di una singolarità – il “paradigma” invece del “programma”128 – a condizione che la modalità di apparizione sia quella dell’irraggiamento e dello splendore. La maniera di manifestarsi dell’opera come ciò che sfugge alla presentazione lineare ci ricorda l’importanza che occupa il frammento ne La grande bellezza. Alla ne del lm, quando la voce fuori campo del protagonista a erma che “altrove c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove”, la concezione del bello si scopre radicalmente mutata rispetto alla situazione iniziale, dal momento in cui Jep sostituisce la ssità del ricordo da lasciare intatto con la visione degli “sparuti incostanti sprazzi di bellezza” che rimandano alle parole dell’anziano regista, colui che prepara un lm su una ragazza “alla quale cambia il colore degli occhi ogni volta che li riapre e li richiude”129. Come il romanzo per Gambardella, anche il lm in preparazione dell’anziano regista è legato ad un fotogramma della memoria che, nella fattispecie, corrisponde al ricordo di una folla radunata dinanzi ad

uno dei primi semafori del centro di Milano. Un’unica e profonda dissonanza separa i due personaggi nella scena in cui si incontrano: il maestro di cinema è in grado di trasformare al presente un’immagine del passato a di erenza del romanziere che la blocca in un ricordo nostalgico. La conclusione de La grande bellezza presenta, dunque, due disposizioni compatibili, quella del frammento e della visione eccessiva che si conservano tra la prima e la seconda parte del lm – come vedremo più dettagliatamente in un punto successivo del nostro lavoro130 – e quella della scrittura in costruzione, dello scrivere nella gradualità che gli è propria. Quest’ultima congiunge i due oggetti a cui si interessa il lungometraggio che, come osservato pocanzi, coincidono con il romanzo e la bellezza. Ad accomunarli, allora, è il processo creativo concepito dall’interno, visto attraverso l’elemento che ne de nisce la speci cità, ovvero la progressiva fabbricazione di un senso a scapito dell’idea di un signi cato da svelare, un’idea di cui Sorrentino ci dà una testimonianza concreta a dando a La grande bellezza un compito quasi pedagogico. È per questo motivo che nella seconda parte del lm, proprio quando il protagonista scopre forme estetiche autentiche, l’immagine conquista una profondità interna. Nella scena in cui Jep incontra Ron Sweet, artista che ha concepito un’installazione di ritratti e autoritratti fotogra ci giornalieri che vanno dall’infanzia no all’età adulta per poi essere messi in successione sulle pareti di Villa Giulia131, l’immagine lmica, il terzo elemento che avvolge il romanzo e la bellezza, compie due gesti in uno: da un lato, la telecamera riprende una pratica creativa basata sul lavoro graduale da completare ogni giorno in opposizione alla variante concettuale proposta dalle performance di Talia Concept, alter ego di Marina Abramović che il protagonista incontra all’inizio della storia132; d’altro canto, però, il gesto della processualità nisce direttamente nelle mani del protagonista sicché l’ispirazione letteraria che Jep trova alla ne della storia si baserà proprio sull’idea

secondo cui la bellezza non va rivelata ma costruita. Da un punto di vista cinematogra co, la scoperta del protagonista viene resa facendo in modo che l’immagine lmica si apra verso il gesto della scrittura, in quel “e dunque, che questo romanzo abbia inizio” che Gambardella pronuncia nella scena di chiusura133. In seguito, dopo aver studiato le in uenze felliniane, potremo anche vedere come sia la prosa stessa a inserirsi letteralmente nell’immagine de La grande bellezza. Nella stessa scena, dunque, due immagini sono messe in parallelo: quella di Jep che torna da adulto sul luogo dei propri ricordi con la giovane Elisabetta e quella del personaggio della suora missionaria che sale i gradini della Scala Santa134. In precedenza, la suora aveva ammesso di fronte a Jep di aver amato il suo primo romanzo e di essersi sempre chiesta per quale motivo non ne avesse scritto un secondo, parole alle quali il protagonista aveva risposto dicendo di aver cercato “la grande bellezza” senza esser riuscito a trovarla. L’epilogo sembra paragonare i due personaggi mentre compiono lo sforzo più grande, la scalinata da salire in ginocchio per la suora e l’abbandono della ssità del ricordo per Jep. In realtà, pur disponendosi in parallelo, le due scene non sono necessariamente coincidenti come se lo sforzo di entrambi i personaggi andasse a con uire in una rinnovata ricerca della semplicità ascetica, seguendo un suggerimento di Vigni135. Piuttosto, ci accosteremo all’analisi proposta da Mori secondo cui la conclusione a cui giunge il protagonista non è la stessa della suora missionaria136. Infatti, se quest’ultima sale le scale sublimando la propria umiltà – non a caso nel lm la suora è una candidata potenziale alla canonizzazione – Jep deve, al contrario, abbandonare ogni pretesa di verticalità per tornare a scrivere, sicché egli si rende conto che la sua bellezza è da attualizzare al presente: che si tratti del romanzo o del bello, l’immagine di Sorrentino opera una scomposizione mostrando e, in un certo senso, insegnando la natura del lavoro artistico. Qualche anno

dopo La grande bellezza, l’espressione creativa potrà accogliere al contempo un gesto verticale ed uno orizzontale, come dimostra la caratterizzazione di Belardo in The young pope, ma in un lm in cui ci si chiede più esplicitamente in cosa consistano cosa la bellezza e l’arte, Sorrentino risponde con la costruzione progressiva del senso. Non a caso il romanzo di Jep è ancora da scrivere pur essendo ispirato a quello che il lm ha appena mostrato. La processualità fa in modo che il bello dell’arte coincida con la propria costruzione, donde il lavoro quasi pedagogico da parte del lm nel riprendere sia esempi negativi che positivi dell’atto creativo. Il lavoro strutturale de La grande bellezza e il conseguente esempio di The young pope ci mostrano in che modo la verticalità e l’orizzontalità in uiscono sulla ri essione estetica di Sorrentino. Il motivo per cui abbiamo inserito una parentesi sulla portata estetica di questi due lavori nel capitolo iniziale della nostra analisi dipende dal fatto che lo studio sul lavoro creativo e sulla complessità della scrittura che vediamo ne La grande bellezza e in Youth dipende dai due personaggi principali, due individui simili altre gure sorrentiniane ma allo stesso tempo inediti per l’a nità che stabiliscono con una certa visione dell’arte. Tra Jep Gambardella e Lenny Belardo, il personaggio di Fred Ballinger in Youth prolunga alcuni tratti del protagonista de La grande bellezza e tiene viva la concezione del lavoro creativo come qualcosa da smuovere dalla ssità del passato. Non a caso, torneremo su Youth nella parte del nostro studio in cui si parlerà dello sforzo storiogra co dei lavori di Sorrentino (capitolo III). Qual è, allora, la portata della costruzione orizzontale de La grande bellezza? Poc’anzi, La conversazione in nita ci è stata di aiuto per lo studio di Lenny Belardo, il personaggio che incarna il paradosso della scrittura. Adesso, le parole di Blanchot ci tornano utili per cogliere la tappa precedente del percorso di Sorrentino, la scomposizione che egli opera ne La grande

bellezza. Riprendendo la dialettica tra “errare” ed “errore”, il losofo spiega che “la distanza” e “l’attesa” possono intervenire tra le due polarità a condizione che né la prima né la seconda fungano da mediatore per accedere ad un traguardo. Così come attendere non porta a una “rivelazione”137, il fenomeno della “manifestazione” che viene attribuito al testo letterario non coincide con la scoperta di un aspetto nascosto all’interno di esso138. In realtà, sono proprio la mancanza di un signi cato da svelare e l’abbandono di una visione totalizzante in favore di una parola in atto ad eliminare qualsiasi teleologia per La conversazione in nita. Seguendo questa logica, non v’è semplicemente un traguardo che viene pian piano smarrito ma, più profondamente, l’a ermazione dell’assenza di obiettivi da cui deriva una forma processuale pura, un senso in costruzione invece di un signi cato da raggiungere. È in tal senso che sia La conversazione in nita che La grande bellezza elaborano un confronto con l’arte agli antipodi di qualsiasi sistema fondato sulla nalità. Con Blanchot, vediamo nascere un’estetica per la quale la perdita del ne dà vita a una forma in movimento. Un’espressione di Blanchot già riportata in precedenza concentra bene la genesi motoria: la lettura dell’opera non consiste nel “togliere il velo” ma nel “velare rivelando”139. Ecco la formula in due tempi scandita dall’immagine, così come ciò che si attende si apre all’attesa soltanto per restarvi nascosto140. In questo preciso contesto può farsi strada una con gurazione che a erma l’assenza di traguardi rimanendo costantemente in formazione come osservato ne La grande bellezza. In realtà, quando il protagonista giunge alla conclusione di non volersi occupare dell’altrove si veri ca un evento paradossale che è quello della scoperta senza scoperta. Si tratta di una rivelazione che va contro se stessa a ermando che l’unica operazione dell’arte è un gesto di scrittura in corso, così come l’unico tratto della scrittura è il frammento, inteso come ciò che sfugge alla spiegazione totalizzante del senso e della bellezza141. Si arriva, dunque,

alla de nizione di un senso che man mano si de nisce senza tuttavia trovare una forma lineare, sicché il signi cato dell’opera può assumere il carattere paradossale di Belardo, come dimostra lo sforzo che Sorrentino farà nella sua prima serie televisiva. È questo il motivo per cui non siamo sorpresi nel constatare che La grande bellezza precede The young pope: non esiste una regressione tra il lm e la serie, come se la seconda avesse disappreso quanto il primo aveva appreso, bensì è proprio in questo disapprendere da parte della serie che vediamo emergere il tratto saliente dell’opera d’arte, ossia il confondersi delle coordinate orizzontali e verticali e di gesti antinomici umani e divini nella dissimmetria del “rapporto neutro”142. Pertanto, La grande bellezza a erma la necessità di un genere di fotogrammi che The young pope riprende e mette in pratica. Si tratta dell’immagine paradossale che non oppone divinità e materialità, un’immagine che non si scompone dinanzi al paradosso ma che lo a erma no all’ultima inquadratura. In qualità di visione propedeutica, La grande bellezza privilegia il gesto orizzontale, denunciando la volontà della scoperta verticale della verità e della bellezza, mettendo in guardia proprio Lenny Belardo, il personaggio da cui per de nizione ci si aspetterebbe un gesto divino. La ricerca estetica de La grande bellezza consiste nella de nizione di una processualità intesa come scoperta paradossale dell’assenza di rivelazione nella ricerca del bello. Per vedere con più precisione la maniera in cui si presenta l’orizzontalità sorrentiniana sarà opportuno studiare più da vicino le in uenze felliniane da cui deriva, tanto più che il discorso elaborato nora fa difetto di un aspetto che abbiamo formulato senza fornirvi una spiegazione adeguata. In precedenza, si diceva che le in uenze felliniane mostrano come in Sorrentino la prosa vada direttamente a nire nell’immagine lmica in maniera analoga a ciò che compie La grande bellezza facendo combaciare il bello e la scrittura. Secondo quali

modalità, allora, la scrittura in prosa si articola rispetto all’immagine in movimento? Alla ne del lm, il protagonista decide di scrivere il suo secondo romanzo dopo anni di silenzio. Riconosciuta l’impossibilità di elaborare un racconto sulla falsa riga di quello prodotto anni prima e, una volta constatata l’assenza della passata bellezza nel presente, Jep Gambardella decide di scrivere sul nulla della mondanità in cui è stato prigioniero per così tanto tempo. È interessante notare come il romanzo in questione riguarderà proprio le immagini del lm che ormai volge al termine, come se Sorrentino attribuisse al lavoro cinematogra co un seguito letterario. Il tempo viene, quindi, stravolto arti cialmente tramite il gesto che annuncia per il futuro ciò che è già successo, creando un’equivalenza tra la scrittura a venire e l’immagine appena trascorsa. È questa la prima modalità secondo cui il romanzo accoglie l’invito dell’immagine, ma ne esiste anche una seconda, per certi versi più concreta di quello che potrebbe sembrare un semplice arti cio narrativo. Difatti, un anno prima della presentazione u ciale de La grande bellezza, Sorrentino pubblica il romanzo intitolato Tony Pagoda e i suoi amici. Siamo nel 2012 e si tratta del secondo lavoro in prosa del regista napoletano dopo Hanno tutti ragione, edito nel 2010. La più recente delle due storie dà un seguito alla narrazione del romanzo che lo precede di due anni e traspone in vari scenari urbani una vicenda che si era svolta tra Napoli e il Brasile. In Tony Pagoda e i suoi amici, il protagonista è un cantante napoletano ormai in pieno declino che gode di una certa nomea grazie ai successi del passato, un uomo cinico che si imbatte in personaggi reali o ttizi che lo spingono a ri ettere tanto sulla bellezza quanto sulla bruttezza in maniera simile a ciò che farà Jep Gambardella sul grande schermo. Alla ne de La grande bellezza, tramite la continuità tra il lm e il romanzo da scrivere, Sorrentino mette nelle mani del suo protagonista la processualità orizzontale che quest’ultimo aveva scoperto nel corso della narrazione lmica. Come già ribadito a più riprese,

se in The young pope l’umano sarà compresente e indispensabile per il divino, qualche anno prima, ne La grande bellezza, l’arte e il bello vengono dissociati dalle prerogative dei gesti trascendenti e verticali. Il lungometraggio riscopre qualcosa di concreto, un elemento attinente alla sfera materiale, iscrivendolo in un lavoro che prolunga il lm nel romanzo no a invertire i ruoli dei due mezzi espressivi: il racconto che Jep si accinge a scrivere sarà il lm che abbiamo appena visto ma anche una reale storia in prosa che ha funto da lavoro preparatorio per lo stesso lungometraggio. La possibilità di un lm che si apre proprio nel suo punto culminante procedendo verso un’altra scrittura o un’altra immagine costituisce un’idea fondatrice del cinema di Fellini. Una parte consistente dell’opera del regista di Rimini è segnata da una serie di movimenti verticali, come le parabole declinanti di cui si è già fatta menzione. Come sottolinea Jean Collet, nel primo Fellini esiste una vera e propria “tentazione del vuoto” che ritroviamo nella “ingenuità angelica” del funambolo de La strada (il Matto) opposta alla fermezza materiale del nemico Zampanò che vorrebbe riportarlo con i piedi per terra, oppure nell’insicuro Picasso in opposizione al “pesante Augusto” ne Il bidone143. Tuttavia, le coordinate felliniane cambiano nel corso della sua lmogra a. A tal proposito, Otto e mezzo si rivela un lm signi cativo perché in esso vediamo con precisione la nascita della disposizione orizzontale. All’inizio, la componente verticale è ancora presente e diventa visibile nel volo onirico che Guido Anselmi compie cadendo dall’alto del cielo. Ciononostante, il lm non riuscirà a completare o invertire il tu o iniziale poiché il movimento di rilancio, il decollo dell’astronave preparata per il meta- lm, non si veri cherà e l’immensa impalcatura verrà smontata con l’annullamento delle riprese144. In assenza di movimenti verticali, il nale di Otto e mezzo si apre dunque su uno spazio profondamente diverso in cui vengono a

confondersi sogni, incubi, visioni e ricordi nel girotondo circense che li raduna e che li tiene insieme presieduto dal mago Maurice. Se è vero, come sostiene Mireille Latil-Le Dantec, che il tendone del circo non è altro che “un qualcosa che si alza da terra per arrivare al cielo”, con in basso “la forza” e in alto la “leggerezza”, l’assimilazione dell’immagine all’arena dei funamboli è possibile perché, da cima a fondo, il circo è attraversato da un solo elemento, ossia la festa che confonde ogni strato impedisce la distinzione tra due o più forme visive145. Cosa succede, allora, nel cinema di Fellini dopo Otto e mezzo? Nel meta- lm una delle due opere deve essere sacri cata per rilanciare il proprio binomio sicché, come appena rilevato, l’astronave del regista ttizio non riesce a decollare privando l’immagine di qualsiasi pretesa di liberazione verticale. In realtà, il fallimento del progetto di Guido Anselmi è solo parziale perché da esso scaturisce un nuovo modo di concepire la struttura meta- lmica. Non a caso, è proprio a partire dall’insuccesso del lm ttizio che Fellini può canalizzare l’immagine in una disposizione orizzontale simile a ciò che abbiamo sottolineato ne La grande bellezza146. È interessante, allora, notare che a partire dagli anni Settanta il regista di Rimini lavora sempre più spesso sul genere del documentario e del falso documentario, mettendosi in scena in prima persona. In un certo qual modo, la confusione con cui Guido Anselmi accetta di convivere nel girotondo nale di Otto e mezzo possiede più a nità con i lavori successivi che con quelli precedenti del cineasta di Rimini. Possiamo citare tre opere in grado di fornirci un’ispirazione rilevante per lo studio de La grande bellezza: I clowns, Roma e Intervista. Nei tre lungometraggi, Fellini sperimenta la coesistenza di un’eterogeneità di livelli visivi che coinvolgono almeno questi tre caratteri: delle visioni onirico-mnemoniche, un falso documentario e la messa in scena di riprese cinematogra che. A titolo d’esempio, ne I clowns il regista rielabora i propri ricordi personali e le prime esperienze da spettatore nel circo, prepara

un’indagine ttizia sull’evoluzione e la scomparsa della gura del pagliaccio della seconda metà del Novecento, viene ripreso dietro la telecamera mentre riprende delle scene di uno spettacolo circense. Il tutto viene concluso dal ricordo di un clown che si materializza come frammento autonomo nell’epilogo del lm. In Roma, cambia lo scenario ma non il procedimento con Fellini che ricorda, lma e viene lmato passando dalla lunga sequenza iniziale che si svolge in Emilia-Romagna ai vari spazi della capitale con particolare attenzione per il Grande Raccordo Anulare e per gli scavi della metropolitana. Quanto a Intervista, una serie di set cinematogra ci si alternano e si confondono: le interviste che turisti e giornalisti vogliono fare al Maestro, il set di un lm di quest’ultimo a Cinecittà, il contenuto del lungometraggio in questione147 che diventa un’immagine a sé stante, le apparizioni di Marcello Mastroianni e Anita Ekberg, la riproposizione di una selezione di attori improvvisata in un vagone della metropolitana. Per ogni immagine di Intervista esiste una telecamera che la riprende sicché alla ne scopriamo che il lm non è altro che una grande messa in scena orchestrata dalla voce di Fellini. Ciò che accomuna questi tre lavori e un lm come La grande bellezza sta nel fatto che la mise en abyme non è verticale o gerarchica come si tenderebbe a credere, bensì puramente orizzontale nella misura in cui, benché le riprese cinematogra che felliniane si accavallino, rimane impossibile determinare quale sia lo strato che le avvolge tutte. Non a caso, la scena nale non si traduce nello svelamento dello sguardo totalizzante – la rivelazione del set padrone delle altre riprese – ma diventa un’immagine aggiuntiva e no ad allora ignota: lo spettacolo immaginario raccontato da uno dei pagliacci ne I clowns, la s lata dei motociclisti in Roma, delle ennesime riprese nello Studio 5 di Cinecittà in Intervista. Qui, un movimento panoramico chiude ciò che si credeva fosse la macrostruttura lmica e che viene smentita quando l’immagine si ssa su un tecnico che esclama con il ciak in

mano: “uno, prima!”148. Pertanto, se è vero che è La dolce vita ad essere stata più comunemente accostata a La grande bellezza e senza nulla togliere a questo giusto paragone, si farebbe un errore nel trascurare la forma visiva che, in Fellini, si serve del falso documentario per far coesistere una pluralità di immagini. In entrambi i cineasti, i fotogrammi possono conoscere un’apertura inattesa in corrispondenza dei frammenti conclusivi impedendo al lm di conquistare una struttura compiuta in favore di un’immagine ancora da costruire. Ne La grande bellezza, abbiamo già sottolineato come questo spiraglio nale corrispondesse con l’intervento del romanzo nell’immagine cinematogra ca, mentre ne I clowns, Roma e Intervista vediamo emergere un’ennesima forma visiva che impedisce la chiusura del meta- lm in un sistema gerarchico. In Fellini, il nale istituisce un principio secondo cui esiste ancora una scena da girare riallacciandosi, così, alla prospettiva estetica di Sorrentino secondo cui la scoperta della “grande bellezza” è proprio quella della processualità o della costruzione in corso, rivelazione che sfocia nell’idea secondo cui dopo il lm esiste un romanzo da scrivere, quale proiezione delle immagini lmiche in un futuro testo in prosa. In Fellini, il lungometraggio diventa un’unità sempre più voluminosa149 che si prende gioco della propria genesi evitando di identi care un creatore invisibile all’origine di tutte le immagini, con il regista di Rimini che nisce inevitabilmente nella lunga lista di comparse e di attori secondari. Analogamente, Sorrentino gioca sull’ambivalenza del romanzo di Jep Gambardella inserendolo sia nella narrazione lmica sia in due lavori in prosa di cui è egli stesso l’autore. Il tutto sembra, allora, possibile perché entrambi i cineasti a ermano il principio secondo cui l’immagine nale è ancora in piena costruzione. Per concludere, ci sembra opportuno fare una precisazione sul ruolo degli elementi evocati nora

rispetto al piano generale del nostro studio. Siamo coscienti che il discorso appena elaborato si situa in parte al di là del campo di indagine del primo capitolo del nostro lavoro, introducendo già un aspetto della ri essione sulla composizione dell’immagine e della scrittura di Sorrentino di cui si parlerà nella seconda parte. La ragione per cui abbiamo scelto di anticipare la questione dell’apertura nale de La grande bellezza, identi cando, in tal senso, un’ispirazione felliniana, attiene alla possibilità da parte del lungometraggio di Sorrentino di far emergere una ri essione sulla bellezza e sulla scrittura attraverso il personaggio di Jep Gambardella. Quest’ultimo spiana la strada alla complessità che, come rilevato in precedenza, contraddistingue Lenny Belardo in The young pope150. I.4. Il grottesco e l’individuo Per concludere il nostro discorso sulla dimensione dell’individuo in Sorrentino guarderemo più da vicino la tendenza al grottesco spesso rilevata dalla critica. La concezione sorrentiniana del grottesco ci dice molto sul ruolo dell’individuo nel suo cinema, suggerendoci contemporaneamente un’a nità con Scorsese e una dissonanza con Fellini. Analizzando le sequenze delle serate mondane de La grande bellezza, Mori osserva giustamente come i nottambuli di Sorrentino non siano portatori di una voce satirica ma di “un’autoironia”, in quanto “pienamente coscienti della propria oscenità e di quella del sistema di cui prendono parte”, il che spiega perché il loro parlare ironico non è attinente al riso ma al pianto e al disgusto151. Basterebbe pensare al personaggio di Lello Cava, grossista di giocattoli dotato di uno spiccato senso dell’umorismo, ma anche cliente sso di prostitute romane che oramai lo chiamano per nome, provocando l’imbarazzo e la sconsolatezza di sua moglie152. Sovente, i personaggi sorrentiniani non portano la battuta a compimento ma ne svelano la familiarità con la faccia triste della vicenda, sicché i loro frequenti tratti grotteschi

mostrano una pericolosa profondità tragica. L’ambivalenza che il grottesco possiede nell’opera di Sorrentino trova una prima grande a nità con due personaggi di Scorsese, ovvero Steven Prince e Howard Hughes, a cui il regista si è interessato rispettivamente con un documentario intitolato American boy: a pro le of Steven Prince153 e con il lm biogra co The aviator. Nel primo, la telecamera del giovane Scorsese si mette all’ascolto delle storie inverosimili raccontate dal suo amico che qualche anno prima aveva recitato la parte del venditore d’armi in Taxi driver. Benché diverso dal tipo di caricatura che vedremo in The aviator, il cui protagonista mostra una serie di manie più simili a quelle degli eroi sorrentiniani, Steven Prince mostra un procedimento che troveremo spesso nelle opere di Sorrentino, ossia l’a ermazione graduale di una tragicità nata nel cuore della comicità iniziale. Il documentario organizza le peripezie del protagonista in diversi capitoli scandendo la narrazione con le immagini di un bambino che dovrebbe ra gurarlo, benché il Prince adulto non sembri essersi sbarazzato dei comportamenti infantili, come dimostra la scena in cui fa a botte con l’amico presso cui si svolge l’intervista154. I quattro capitoli iniziali sono dedicati alla famiglia e descrivono un’America di conservatori, chiusi e legati indissolubilmente alla propria terra e ai propri valori. Ora, più ci si inoltra in un’intervista soltanto apparentemente improvvisata, più le storie raccontate associano aspetti tragici alla successione di eventi comici e rocamboleschi. Agli iniziali aneddoti tragicomici seguono racconti di abusi di potere e di violenze di cui Steven Prince è stato suo malgrado testimone e la risata iniziale si fa sempre più cupa, mostrando istericamente i traumi dell’uomo nonché la brutalità del mondo in cui vive (non è un caso che l’ultimo capitolo del documentario si intitoli “Sopravvivere”). In Steven Prince, Scorsese rende dunque caduca l’autonomia della risata, ormai incompleta senza una controparte drammatica. Quanto a Howard Hughes, una serie di aspetti contribuiscono a rendere grottesco il

personaggio: la passione per i biscotti e per il latte che insieme all’intolleranza al fumo lo riportano in una condizione perennemente infantile, l’ossessione per la pulizia, l’agorafobia, l’orrore per il sangue proveniente dagli alimenti, l’udito difettoso, l’ossessione per il seno che rischia di far censurare alcuni suoi lm. Ora, è interessante notare come tutte le manie del personaggio lascino progressivamente la disposizione comica prendendo una piega sempre più tragica, accompagnando Hughes verso la malattia. The aviator è costruito su una serie di riferimenti interni che danno una testimonianza dell’incupimento della vicenda: la luce rossa della sala di proiezione del lm con cui Hughes avrà successo (Hell’s Angels) viene riproposta durante il processo in cui è coinvolto, così come i ash dei fotogra che vediamo all’inizio tornano quando il protagonista, in piena depressione, decide di isolarsi nella propria sala cinematogra ca155. Scorsese determina un processo di inasprimento della comicità presentata inizialmente tramite il grottesco no a mostrare per quest’ultimo un secondo volto radicalmente diverso. Si pensi alla crudeltà con cui il destino si fa be e del protagonista: l’uomo creativo che passa dagli aerei alla macchina da presa, il genio visionario costantemente proteso al di là dei limiti tecnologici che conoscevano sia l’aviazione sia il cinema, è in ne condannato a reiterare la stessa frase senza rendersene conto: “il mezzo del futuro…il mezzo del futuro” ripete Hughes mentre esce di scena dinanzi allo sguardo incredulo dei suoi collaboratori156. Pur appartenendo a due immagini lontane nella lmogra a di Scorsese, Steven Prince e The aviator mostrano in che modo gli aspetti grotteschi rivelano una profondità tragica. Non si può dire lo stesso del cinema di Fellini. Ne I clowns, la voce fuori campo del regista fa notare che molti numeri dei pagliacci della prima metà del Novecento si fondano sulla distinzione tra il Clown bianco e l’Augusto, con il primo “arrogante e perfetto” che

martirizza il go o collega157. È curioso, allora, notare che il cinema di Sorrentino presenta regolarmente una gura ibrida in cui si scontrano i due clowns cari a Fellini, un incrocio che ci permette di comprendere con più precisione la speci cità del suo grottesco. I protagonisti maschili del cineasta napoletano detengono tutti i parametri tipici del pagliaccio autoritario (il “bianco”), situazione che spesso coincide con una reale posizione di superiorità. Al contempo, però, ognuno di loro possiede una go aggine comica che controbilancia la posizione di forza e che spiana la strada all’ambivalenza caratteriale, nonché alla drammaticità. Il grottesco sorrentiniano protende verso una profondità tragica nella misura in cui, esclusi due cortometraggi (L’amore non ha con ni e La fortuna), esiste una reciprocità tra l’arroganza e la debolezza, tra la perfezione e la go aggine, tra il Clown bianco e l’Augusto. Andreotti ci fornisce un esempio esplicito di Clown bianco rivolto contro se stesso: da un lato, come indica Vigni, abbiamo un “personaggio sovradis-umano” dalla natura vampiresca che non fa altro che “[nutrirsi] dell’essenza vitale degli altri”158; dall’altro, però, occorre rammentare che Il divo racconta la storia di un potere in declino e di un politico alle prese con i propri incubi. Il personaggio di Cheyenne (This must be the place) non è da meno quando, dopo aver mostrato tutte le manie di cui è vittima nelle battute iniziali del lm, rivela progressivamente un malessere più profondo che riguarda la sua incapacità di stare al mondo. In un primo momento, possiamo forse ridere della rockstar che non riesce a scrollarsi di dosso il trucco degli anni d’oro, che ha sostituito la passione per la musica con investimenti in borsa, che non si interessa agli oggetti che lo circondano, compreso il cane di cui si occupa soltanto sua moglie159. Tuttavia, il seguito della vicenda ci farà conoscere anche il suo senso di colpa per avere provocato il suicidio di un giovane fan con una delle sue canzoni. In Sorrentino, gli uomini di potere e i protagonisti maschili associano costantemente tratti comici e tragici, orientando il

grottesco verso entrambe le sfumature. In Loro, possiamo notare come anche i personaggi secondari posseggano le stesse caratteristiche dell’uomo di potere su cui è centrato il lm. Non a caso, la prima parte del lungometraggio, presentata nelle sale cinematogra che italiane con il titolo Loro 1, è dedicata quasi esclusivamente all’entourage di Berlusconi. D’altra parte, la possibilità di allontanarsi dalla gura del politico è un’idea che Sorrentino aveva preannunciato già nel 2011 quando ammetteva non soltanto un interesse lmico per l’allora Presidente del Consiglio ma anche per “l’a etto” che doveva esistere tra le persone che lo circondavano160. Così, i personaggi di Veronica Lario, Sergio Morra, Tamara e Kira sono anch’essi coinvolti dai mali che a iggono Berlusconi e che ruotano attorno all’impossibilità del pieno successo e all’inevitabile fallimento: Veronica Lario è la donna che ha perso la propria dignità tra i tradimenti di suo marito, Sergio e Tamara sono gli arrivisti troppo ambiziosi che subiscono le conseguenze del loro opportunismo, il primo coinvolto in uno scandalo di prostituzione, la seconda poiché costretta ad andare a letto con un politico. La vicenda di Kira è altresì signi cativa perché con lei prendono voce tutte le comparse femminili che vediamo nel lm. È l’accompagnatrice che scopre la caducità del proprio ruolo e le conseguenze della merci cazione, l’amante che invecchia e che teme di essere sostituita da donne più giovani. In maniera simile agisce Stella, studentessa di lettere che ri uta le avances di Berlusconi e che lo mette dinanzi alla realtà della vecchiaia161. Il personaggio della giovane donna è la prova che, in Sorrentino, esiste sempre una distinzione tra quelle comparse che rimangono anonime e caricaturali, come alcune giovani soubrette, e personaggi veri e propri che hanno una storia da raccontare o che in uiscono sulla narrazione principale. Su questo punto la di erenza con Fellini è radicale, nella misura in cui nel suo cinema sono i personaggi secondari ad adeguarsi a una de nizione caricaturale senza mostrare nessuna singolarità

drammatica. In Amarcord, gli abitanti del villaggio riprendono tutti le stesse ossessioni per il corpo femminile sull’esempio del gruppo dei liceali che seguiamo per tutta la narrazione. Questo “grande a resco” deve molto poco all’introspezione o al recupero fedele di personaggi reali e si orienta spontaneamente verso una forma parodica in cui si mescolano la “freschezza dei disegni di Secondo Liceo”, pubblicati anni prima nella rivista Marc’Aurelio, e una “visione malinconica” ereditata da I vitelloni162. Celato sotto il velo della caricatura è, dunque, lo sketch ad alimentare l’immagine felliniana. Lo stesso dicasi per i nobili e i musicisti di E la nave va, lm in cui si susseguono le scenette comiche, dall’ipnosi della gallina alla seduta spiritica per richiamare il fantasma della cantante defunta163. Pertanto, se è vero che Sorrentino ha difeso l’ispirazione della Roma di Fellini per L’amico di famiglia a scapito del frequente accostamento con Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, bisogna forse fare una precisazione sul trattamento che il regista riminese riserva a quella che Sorrentino stesso ha de nito una “galleria di mostri”164. In realtà, le comparse che compongono la coralità delle gure felliniane – dai pagliacci, ai fenomeni da baraccone, passando dai provinciali eccentrici e dal pubblico dei teatrini romani – perdono progressivamente caratteri reali in favore di una forma sempre più stilizzata da cui consegue la mancata profondità psicologica. Ne La dolce vita i mondani possedevano ancora tratti reali ed erano distinguibili per una storia personale, quella che Paparazzo racconta al padre di Marcello, quelle dei nobili decaduti che il rampollo della famiglia spiega al protagonista nella lussuosa villa di Bassano di Sutri, quella della donna che festeggia l’annullamento del matrimonio alla ne del lm. Con Otto e mezzo e Giulietta degli spiriti, la situazione è già molto diversa perché non è più possibile distinguere ciò che appartiene alla realtà e ciò che spetta al sogno, sancendo un principio di indiscernibilità che invade anche

il grottesco e la caricatura. Non è un caso che nei lm seguenti il regista romagnolo abbia messo da parte gli aristocratici e i mondani per dedicarsi a personaggi interscambiabili con i saltimbanchi del circo, situandoli a Rimini come a Roma, attingendo dai propri ricordi o dalla realtà contemporanea (Amarcord, Roma e Intervista). In tal senso, potremmo seguire l’idea di Barthélemy Amengual secondo cui, in Fellini, non abbiamo soltanto un’esasperazione del mito della “mamma puttana”, ossia della donna che ricopre al contempo le funzioni di “Venere volgare e Venere genitrice”; cioè, non esiste soltanto un essere femminile che gradualmente si trasforma in un “mostro gigante”, balena-vagina come ne Il Casanova, “scivolo o tunnel” che accoglie il treno fallico de La città delle donne, ma anche e allo stesso tempo una s lata di “persone orripilanti” che ne accompagnano la disumanizzazione 165. Analogamente, è curioso leggere come il cast d’eccezione annunciato per Satyricon166 sia stato sostituito da perfetti sconosciuti selezionati da Fellini in quella che Robert Benayoun ha de nito “un’odissea nello spazio tra i freaks”167. Sorrentino si situa agli antipodi della depersonalizzazione dei personaggi che opera Fellini, discontinuità che può essere letta seguendo la pista del grottesco nei due registi. In Loro, notiamo come Stella, gura che rischiava di confondersi tra le tante comparse femminili delle serate berlusconiane, venga invece messa in primo piano in una scena emblematica. Parallelamente, altri ruoli secondari vengono collocati in una posizione sempre più centrale, specie nella prima metà del lungometraggio. In tal senso, possiamo leggere nel personaggio di Sergio una sintesi della costruzione e del disfacimento del sogno berlusconiano nella misura in cui l’opportunismo e l’investimento iniziale vengono annullati dallo scandalo della prostituzione. Dando una profondità a personaggi marginali, Sorrentino estende la portata della deformazione caricaturale a ciò che Flavio De

Bernardinis de nisce una “chiave di lettura della contemporaneità” poiché è proprio “il grottesco [a] intercettarne la libido, […] il desiderio” concentrandosi sulla “deformazione psichica della realtà”168. Seguendo l’ambivalenza del grottesco in Loro, si potrebbe, allora, ravvisare una continuità tra, da un lato, le accuse che coinvolgono Berlusconi e i tradimenti che gli vengono rimproverati da sua moglie e, dall’altro, i personaggi che lo circondano e che vivono il suo stesso declino. Se è vero che il berlusconismo si estende nei suoi eccessi e nei suoi insuccessi ai personaggi secondari, si noterà come questa operazione non sia una prerogativa del protagonista di Loro ma una tendenza presente già da tempo in Sorrentino. In tal senso, Vigni sottolinea come ne L’amico di famiglia non esista soltanto un usuraio spietato e portatore delle manie più grottesche ma anche una “società animalesca e brutale”169, pronta a tutto per assecondare bisogni vacui ed illusori: comprare un titolo di nobiltà, regalare un matrimonio costoso alla propria glia per una questione di onore, alimentare la propria dipendenza dal gioco d’azzardo. Dal creditore ai debitori, dal protagonista alle gure marginali, dall’individuo al mondo, esiste in Sorrentino un’inclinazione a far emergere la tragicità propria alla caricatura. Il trattamento delle gure secondarie rivela la funzione di unità di misura che l’individuo ricopre in Sorrentino, funzione che si concretizza nel riavvicinamento al singolo partendo da personaggi che sembravano aver perso qualsiasi contatto con la vita (Titta Di Girolamo, Cheyenne, Jep Gambardella, Fred Ballinger), anche a costo di descrivere gure ambigue o contradditorie. Una certa tendenza che congiunge disumanizzazione e stilizzazione occupa un posto sempre più di rilievo nell’opera di Fellini, come dimostra il discorso sull’importanza dei guranti che viene formulato e messo in scena in Intervista e in A director’s notebook170, in due sequenze dove vediamo il regista selezionare attori e attrici dall’aspetto grottesco. Tale inclinazione non scompare del tutto in Sorrentino

ma viene riallacciata a un altro tipo di fotogrammi altrettanto felliniani: pur tradendo l’evoluzione del grottesco che riscontriamo da I clowns in poi, Sorrentino resta pienamente ancorato all’immagine del regista di Rimini nella misura in cui i suoi protagonisti maschili combinano i personaggi del declino (da Il bidone a Il Casanova) e le stravaganze delle comparse che vediamo sempre più spesso a partire dagli anni Settanta. Congiungendo due immagini lontane nell’opera di Fellini, Sorrentino crea personaggi ibridi in cui sono sempre le stranezze grottesche a condurre verso la gura e non quest’ultima a scomporsi o a perdersi nella stramberia di guranti anonimi o caricaturali, sicché sono proprio i protagonisti a incarnare le stranezze più inverosimili. È in questo frangente che l’immagine del più giovane regista incontra quella di Scorsese nella misura in cui entrambe concepiscono la comicità soltanto se accompagnata da un aspetto che le sia antitetico ma che, al contempo, le consenta di conferire una profondità drammatica o narrativa ai personaggi in questione. Il trattamento del grottesco mostra, dunque, in che misura Sorrentino tende a conservare il riferimento individuale tanto che, nei suoi lavori, è sempre necessario costruire il personaggio invece di disfarlo o scomporlo come accade in Fellini. Il processo di costruzione è doppiamente articolato e, come sottolinea Mimmo Cangiano, “la ricerca di un’identità stabile” va di pari passo con la tendenza degli individui sorrentiniani a “dare senso alla vita e alla realtà”171. Le gure grottesche del regista napoletano mostrano, allora, più a nità con alcuni personaggi del cinema di Scorsese le cui rocambolesche vicende personali rendono pian piano tangibile una profondità tragica. Alla luce di quanto osservato nelle pagine precedenti, è lecito sostenere che, a dispetto delle debolezze e delle so erenze che è costretto a subire, l’individuo non scompare mai come punto di riferimento nel cinema di Sorrentino. La posizione centrale del personaggio è una situazione diversa da ciò

che vediamo in Fellini, come se in questo frangente il regista partenopeo privilegiasse l’insegnamento del cinema di Scorsese, a dimostrazione di quanto emerge da uno studio più approfondito del grottesco nei tre autori. In Sorrentino, la sfera individuale è composta dai due momenti ambivalenti dell’indebolimento e della costruzione: la fragilità dell’azione e del potere ci dicono che il regista mette in seria di coltà il soggetto, laddove il rapporto tra umanità e divinità insieme al grottesco ci rammentano che, pur a evolendo il singolo, la sua immagine non lo perde mai di vista e continua a de nirlo. Ci sembra, dunque, lecito concludere che, in Sorrentino, non viene sancita una crisi de nitiva dell’uomo, nella misura in cui l’indebolimento non porta al disfacimento ma, inaspettatamente, alla costruzione del personaggio in tutte le sue ambiguità, no a raggiungere il paradosso con la gura di Lenny Belardo in The young pope. In de nitiva, si dirà che il turbamento del soggetto è un’operazione volta alla de nizione in Sorrentino. Nel secondo capitolo del nostro lavoro vedremo che il contrappeso della crisi dell’uomo si traduce spesso nella determinazione della modalità grazie a cui questi può liberarsi dalle pene che lo a iggono. È per questo motivo che riteniamo opportuno sottolineare che l’autore partenopeo coniuga un primo gesto di indebolimento con un secondo sempre possibile di edi cazione dell’identità. A tal proposito e senza escludere le altre a nità che abbiamo sottolineato tra l’allievo e i due mentori, siamo in grado di stabilire una più grande vicinanza con l’insegnamento di Scorsese rispetto a quello di Fellini. Una volta approdati a questi risultati rispetto alla dimensione individuale, possiamo adesso approfondire ciò che si situa al di là di essa studiando più da vicino le caratteristiche formali delle opere di Sorrentino attraverso la lente delle immagini di Fellini e Scorsese. J. Luzzi, Italian cinema: from the silent screen to the digital image, Bloomsbury Academics, Londra, 2020, pp. 107-109. F. Vigni, La maschera il potere, la solitudine. Il cinema di Paolo Sorrentino,

Aska Edizioni, Firenze, 2014, p. 34. A. J. Skoble, God’s Lonely Man. Taxi Driver and the Ethics of Vigilantism, in M.T. Conrad (a cura di), The philosophy of Martin Scorsese, The University Press of Kentucky, Lexington, 2007. p. 26. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso articolo]. J. Marcel, Ce que Taxi Driver a fait à la sociologie, in “Idées économiques et sociales”, n°151, 2008, pp. 54-55. [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso articolo]. Ivi, p. 54. D. Monetti., L. Pallanch, P. Sorrentino, Conversazione con Paolo Sorrentino, in P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), Divi e antidivi. Il cinema di Paolo Sorrentino, Laboratorio Gutenberg, Roma, 2010, p. 145. P. Sorrentino, L’uomo in più [2001] [DVD], Mustang Entertainment, 2019, 1h13’-1h15’. Ivi, 1h24’-1h27’. Torneremo sull’importanza dell’a ermazione in Sorrentino nel secondo capitolo del nostro lavoro. Personaggio del senatore di New York candidato alle elezioni presidenziali, che promette grandi cambiamenti sociali. P. Sorrentino, Le conseguenze dell’amore [2004] [DVD], Medusa, 2013, 41’. G. Deleuze, L’immagine-tempo [1985], tr. it. di Liliana Rampello, Einaudi, Torino, 2017, p. 250. Per cogliere con più esattezza la citazione del losofo, bisogna tener presente che nel pensiero di Deleuze “l’attuale e il virtuale” vengono chiamati in causa in sostituzione dei binomi “possibile-reale” o “virtuale-reale”. Nella prima coppia, il “virtuale” appartiene al reale pur rimanendo in una sfera propria di virtualità, sicché un oggetto può in parte risiedervi conservando allo stesso tempo la propria realtà. Il rapporto con “l’attuale” si e ettua tramite un’operazione di di erenziazione che si veri ca in due momenti consecutivi dati da due termini omofoni: la “di erentiazione” che “determina il contenuto virtuale dell’Idea come problema” e la “di erenziazione” che “determina l’attualizzazione di detto virtuale e la costituzione delle soluzioni”. In francese, Deleuze distingue i due omofoni “di érenciation” che è sinonimo di “attualizzazione” e “di érentiation” come “contenuto virtuale”. Per l’edizione in lingua originale, prendiamo in considerazione il riferimento seguente: G. Deleuze, Di érence et répétition [1968], Presses Universitaires de France, Parigi, 2015, p. 271. Salvo precisazione, per le note seguenti prenderemo in considerazione l’edizione italiana seguente: G. Deleuze, Di erenza e ripetizione [1968], tr. it. di Giuseppe Guglielmi, Ra aello Cortina, Milano, 1997, p. 343. F. Vigni, op. cit., p. 34. S. Salvestroni, La grande bellezza e il cinema di Paolo Sorrentino, Clueb, Bologna, 2017, p. 97.

P. Sorrentino, The young pope [2016] [DVD], Fox Home Entertainment, 2017, episodio 7. Ivi, episodio 5, 4’-5’. I due dipinti sono: Festa degli amorini (1518-1519) di Tiziano e Maddalena Ventura con marito e glio (1631) di José de Ribera. Torneremo sulle stesse scene nel secondo capitolo del nostro lavoro. M. Scorsese, No direction home: Bob Dylan, Universal Home Video, 2005, DVD 2, 1h22’. H. Melville, Moby Dick [1851], tr. it. di Cesare Pavese, Adelphi, Milano, 1994, capitolo CXXXV. M. Scorsese, The wolf of Wall Street [2013] [DVD], RAI Cinema, 2014, 32’ e 2h25’. F. Fellini, La dolce vita [1960] [DVD], Medusa, 2013, 2h29’, 2h42’-2h46’ e 2h51’. J. Collet, La création selon Fellini, José Corti, Parigi, 1990, p. 97 [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le note successive dello stesso lavoro]. F. Fellini, Il bidone [1955] [DVD], Carlotta, 2009, 21’-27’. M. Latil-Le Dantec, Le monde du cirque et le monde comme cirque: Les clowns, in M. Estève (a cura di), Federico Fellini aux sources de l’imaginaire, Lettres Modernes Minard, Parigi, 1981, p. 55. [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso articolo]. F. Fellini, Il bidone, cit., 42’-57’. P. Sorrentino, Loro 2, Indigo Film – Universal Pictures Italy, 2018, 14’-16’. L. Pirandello, L’umorismo [1908], Luigi Battistelli Editore, Firenze, 1920, pp. 141-142. P. Sorrentino, Loro 2, cit., 51’-55’. Cfr. capitolo II, sezione 2. P. Sorrentino, Il divo [2008] [DVD], Koch Media, 2013, 1h14’-1h17’. Studieremo più dettagliatamente la scena in questione in un punto successivo. M. Scorsese, The Irishman, Net ix, 2019, 2’-3’ e 3h18’. Ivi, 19’. Ivi, 2h34’-2h41’. International Brotherhood of Teamsters. M. Scorsese, The Irishman, cit., 38’. Ivi, 40’. In entrambi i lavori, spiega Frank, si ubbidisce agli ordini e si viene pagati. F. Maillard, L’âme en peine, in “Les Cahiers du Cinéma”, n°760, 2019, p. 36. [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le citazioni seguenti dello stesso articolo]. M. Scorsese, The Irishman, cit., 2h52’. Franck Sheeran ricorda con precisione

la data del 3 agosto 1975 come ultimo giorno in cui sua glia Peggy gli ha rivolto la parola. Ivi, 3h07’-3h15’. Ivi, 1h35’. F. Maillard, op. cit., p. 36. M. Scorsese, Casino [1995] [DVD], Universal Home Video, 2015, 2h51’. R. Casillo, Gangster priest. The Italian American cinema of Martin Scorsese, Toronto University Press, Toronto, 2006, p. 91. In maniera simile, JeanPhilippe Domecq parla di “auto-processo” per il supplizio degli eroi scorsesiani, in J.-P. Domecq, Martin Scorsese. Un rêve italo-américain, Hatier, Parigi, 1986, p. 51. [traduzione personale dall’inglese e dal francese. Lo stesso dicasi per le note seguenti degli stessi contributi]. J. Mitry, Esthétique et psychologie du cinéma [1965], Éditions du Cerf, Parigi, 2001, p. 198. [traduzione personale dal francese]. R. Marx, Martin Scorsese. Regards sur la trahison, Henri Berger, Parigi, 2003, p. 37 e D. Knight, The age of innocence. Social Semiotics, Desire, and Constraint, in M.T. Conrad (a cura di), op. cit., p. 97. P. Sorrentino, L’uomo in più, cit., 23’. M. Scorsese, Raging Bull [1980] [DVD], Fox Home Entertainment, 2001, 1h43’-1h55’ e P. Sorrentino, L’uomo in più, cit., 26’-27’. Cfr. capitolo II, sezione 3. Ricœur P., La memoria, la storia, l’oblio [2000], tr. it. di Daniele Iannotta, Ra aello Cortina, Milano, p. 195. Ibidem. Ivi, p. 81. Ivi, pp. 185-187. Ivi, p. 81. Ivi, p. 616. L’opera di Bergson citata in questo segmento è Materia e memoria. Ivi p. 396 e pp. 517-519. Ivi, pp. 404-405. Ivi, p. 405. G. Didi-Huberman, Davanti all’immagine [1990], tr. it. di Matteo Spadoni, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 64-65. Più generalmente, Christian Uva sottolinea come esista attualmente un dibattito in corso riguardo alle forme del nuovo cinema politico italiano, in C. Uva, Appunti per una de nizione del (nuovo) cinema politico, in “The Italianist”, n° 33/2, 2013, pp. 240–320. B. Klinger, Film history terminable and interminable: recovering the past in reception studies, in “Screen”, n° 38/2, p. 107.

Ivi, pp. 124-127. L’articolo di Pasquale Squitieri pubblicato su “La Stampa” il 29 maggio 2008 è citato da Domenico Monetti, in D. Monetti, À rebours: viaggio nella spettralità critica sul cinema di Paolo Sorrentino, in P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), op. cit., p. 131. P. Sorrentino, Il divo, cit., 3’-5’. Ivi, 12’. P. Antonello, The ambiguity of realism and its posts: A response to Millicent Marcus, “The Italianist”, n° 30, pp. 259-260. P. Sorrentino, Il divo, cit., 1h05’. Come sottolinea Salvestroni, Sorrentino ha preso spunto dal lavoro di Alexander Stille per la scena delle dichiarazioni dei pentiti, in S. Salvestroni, op. cit., p. 123 e A. Stille, Andreotti, Mondadori, Milano, 1995. P. Antonello, Di crisi in meglio. Realismo, impegno postmoderno e cinema politico nell’Italia degli anni zero: da Nanni Moretti a Paolo Sorrentino, in “Italian studies”, n° 67/2, 2012, p. 186. F. Vigni, op.cit., p. 145. R. Vaccaro, Il Divo ou les mystères d’Italie, in “Fondation Nationale des Sciences Politiques”, 2009, p.182. [traduzione personale dal francese]. A. Giacone, Il divo de Paolo Sorrentino (03/06/2009), http://www.histoirepolitique.fr/ [ultima consultazione: 06/03/2020] [traduzione personale dal francese]. C. O’Rawe, I padri e i maestri: Genre, Auteurs, and Absences in Italian Film Studies, in “Italian Studies”, n° 63/2, 2012, pp. 173-194 e A. O’Leary, C. O’Rawe, Against Realism: On a “Certain Tendency” in Italian Film Criticism, in “Journal of Modern Italian Studies”, n° 16/1, 2011, pp. 107–128. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi delle note seguenti dei medesimi contributi]. Ivi, pp. 107-108. M. Marcus, The Ironist and the Auteur: Post-Realism in Paolo Sorrentino’s Il divo, in “The Italianist”, n° 30/2, 2010, p. 253. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi delle note seguenti dello stesso articolo]. P. Antonello, The ambiguity of realism and its posts: A response to Millicent Marcus, cit., pp. 259-260. Ibidem. D.

Holdaway, Da fatti realmente accaduti: Performing History in Contemporary Italian Cinema, in “New Readings”, n° ٢٠١١ ,١١, pp. 17–36. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi delle note seguenti dello stesso articolo].

Ivi, p. 33. Cfr. capitolo III, sezione 5.

R. Casillo, Gangster priest, cit., p. 213, passim. R. Casillo., Moments in Italian-American Cinema: From Little Ceasar to Coppola and Scorsese, in F. L. Gardaphé, P. A. Giordano, A. J. Tamburri, From the Margin: Writings in Italian Americana, Perdue University Press, West Lafayette, 2000, p. 411 [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi per le note seguenti del medesimo contributo]. M. Scorsese, Taxi driver [1976] [DVD], Universal Home Video, 2016, 1h42’-1h45’. G. Grugeau, Jésus, Travis, Jake et les autres, in “24 images”, n° 41, 1988, p. 67. [traduzione personale dal francese]. M. Scorsese, Boxcar Bertha [1972] [DVD], MGM Home Video, 2004, 1h20-1h24. K. Ho man, The Last Temptation of Christ and Bringing Out the Dead. Scorsese’s Reluctant Saviors, in M.T. Conrad (a cura di), op. cit., pp. 150-151. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi delle note seguenti dello stesso articolo]. G. HOLDERNESS, Half God, half man: Kazantzakis, Scorsese, and The Last Temptation, in “The Harvard Theological Review”, n° 100/1, 2007, pp. 6596. J.J. Abrams, The Cinema of Madness. Friedrich Nietzsche and the lms of Martin Scorese, in M.T. Conrad (a cura di), op. cit., p. 76. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi delle note seguenti dello stesso articolo]. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 5, 9’. Ivi, 7’. Ivi, 8’-9’. M. Scorsese, A personal journey with Martin Scorsese through American movies, British Film Institute, 1995, DVD 1, 44’-46’. D’ora in poi ci riferiremo al lm prendendo solo la prima parte del lungo titolo: A personal journey. Conferenza di Jean-Luc Godard a La http://www.femis.fr/conferences [ultima [traduzione personale dal francese].

Fémis (26/04/1998), 1h10’. consultazione: 03/03/2020]

Y. Lemarié., La voix o dans l’œuvre de Scorsese, in Estève M. (a cura di), Martin Scorsese, Lettres Modernes Minard, Parigi, p. 110. [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso articolo]. M. Scorsese, The last temptation of Christ, [1988] [DVD], Universal Home Video, 2005, 1h50’. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 1, 51’-52’. Torneremo sul ruolo della privazione nel secondo capitolo del nostro studio. Y. Lemarié., op. cit., p. 110.

R. Casillo, Gangster priest, cit., pp. 36-39. Y. Lemarié., op. cit., p. 114. R. Casillo, Gangster priest, cit., p. 39. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 5, 34’-36’. Anna Manzato e Antonella Mascio applicano la nozione di “celevisione” (“celevision”), neologismo nato dalla fusione dei vocaboli “celebrità” (“celebrity”) e “televisione” (“television”), al personaggio di Lenny Belardo. Secondo le critiche, la scelta di Jude Law per la parte di Pio XIII non è a atto casuale nella misura in cui Sorrentino attribuisce a una stella del cinema il ruolo di un papa che si comporta come una celebrità e che “organizza strategicamente le propria notorietà”, in A. Manzato, A. Mascio, The young pope: an Italian “celevison” case study, in A. Mariani (a cura di), Paolo Sorrentino: A Trans-Cultural and Post-National Auteur, Intellect, Bristol, 2019, pp. 411-414 e 420. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi per le citazioni successive del medesimo articolo]. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 5, 37’-45’. R. Eugeni, The young pope: sull’ottusità del potere, in “Fata Morgana”, n° 1, 2017, p. 18. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 4, 43’-45’. J.-L. Nancy, Visitazione (della pittura cristiana) [2001], tr. it. di Alfonso Cariolato e Federico Ferrari, Abscondita, Milano, 2002, p. 14. Così come in The young pope Esther è una donna sterile, anche la scena della visitazione di cui parla Nancy facendo riferimento alla pittura cristiana segna l’incontro tra le due donne sterili che portano in grembo il miracolo della nascita: la Vergine Maria ed Elisabetta. Ivi, p. 26. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 6, 16’-19’. M. Blanchot, La conversazione in nita [1969], tr. it. di Roberta Ferrara, Einaudi, Torino, 2015, p. 35. Ivi, p. 36. A proposito di giochi di parole e di parole che sfuggono, Blanchot gioca sulla consonanza dei termini “tour” e “se tourner” e i corrispettivi “détour” e “se détourner”, creando non pochi problemi di traduzione. Roberta Ferrara, traduttrice dell’edizione italiana, rende “détour” con il termine “percorso”. In questo passaggio del nostro lavoro, ci permettiamo di riprendere il testo originale e di rendere “détour” con le due espressioni “giro di parole” e “voltarsi altrove”. Per l’edizione francese il riferimento è il seguente: M. Blanchot, L’entretien in ni [1969], Gallimard, Parigi, 2016, p. 40. Salvo precisazioni, le note successive dello stesso lavoro si riferiscono all’edizione italiana già citata. M. Blanchot, op. cit., pp. 36-40. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 10, 53’-57’. Ricontestualizzando la sequenza: una volta fatta chiarezza rispetto alla propria fede, Belardo si reca a Venezia per parlare ai fedeli che da tempo aspettano di vederlo dal vivo. Nonostante il discorso profondo che rivolge al pubblico, il papa torna

a cercare i propri genitori, tentando di identi carli tra la folla con l’aiuto di un binocolo. In questo frangente è il gesto umano a prendere il sopravvento ma il momento immediatamente successivo opera in senso contrario. La scena si conclude con lo svenimento estatico del papa seguito dal progressivo allontanamento della macchina da presa che vediamo innalzarsi al cielo. L’espressione utilizzata da Blanchot è “velare rivelando”, in M. Blanchot, op. cit., p.37. F. Fellini, La dolce vita, cit., 2h51’-2h52’. P. Sorrentino, La grande bellezza [2013] [DVD], Medusa, 2014, 35’. G. Mori, Del desiderio e del godimento. Viaggio al termine dell’ideologia ne La grande bellezza di Paolo Sorrentino, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 6667. Ivi, p. 164. G. Didi-Huberman, op. cit., pp. 327-330. Ivi, p. 330. P. Sorrentino, La grande bellezza. Versione integrale [2013] [DVD], Medusa, 2016, 1h04’-1h08’. Si tratta di una sequenza inizialmente tagliata per la copia di usa nelle sale cinematogra che, poi ripresa in una delle edizioni in DVD, nonché in alcune proiezioni speciali. Cfr. capitolo III, sezione 5. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 1h43’-1h45’. Ivi, 20’-23’. Ivi, 2h11’-2h12’. C. D’Orazio, La Roma segreta del lm La grande bellezza, Sperling & Kupfer, Segrate, 2014, p. 92. F. Vigni, op. cit., pp. 214-215. G. Mori, op. cit., p. 164. M. Decout, Maurice Blanchot: une phénoménologie du récit, in “Cahiers de Narratologie”, n° 22, 2012, pp. 3-4. [Traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le citazioni successive dello stesso articolo]. M. Blanchot, op. cit., p. 37. Ibidem. M. Decout, op. cit., p. 5. Rispetto al frammento, unità visiva che contraddistingue il cinema di Sorrentino, si osserverà che la temporalità dell’istante non preclude l’intervento di un secondo gesto contrario in grado di indebolirne gli e etti. Si tratta dell’“ordine” di cui ci occuperemo nel secondo capitolo del nostro studio. M. Blanchot, op. cit., p. 88.

J. Collet, Le plus long chemin, in Estève M. (a cura di), Huit et demi, Lettres Modernes Minard, Parigi, 1963, pp. 59-60. [traduzione personale dal francese]. F. Fellini, Otto e mezzo [1963] [DVD], Mustang Entertainment, 2014, 2h09’. M. Latil-Le Dantec, op. cit., p. 52. Nel secondo capitolo del nostro lavoro torneremo sulla complementarità tra il fallimento del lm ttizio e lo slancio della macrostruttura lmica in Otto e mezzo. Questa tendenza felliniana ci permetterà di de nire un’a nità con la successione di pesantezza e leggerezza che torna spesso nelle storie di Sorrentino. Nella fattispecie, si tratta di una libera trasposizione di America di Franz Ka a. F. Fellini, I clowns [1970] [DVD], MK2 Vidéo, 2010, 1h24’-1h27’; Id., Roma [1972] [DVD], MGM Home Video, 2003, 1h49-1h53’; Id., Intervista [1987] [DVD], RAI Cinema, 2004, 1h37’-1h40’. G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., pp. 102-105. Faremo tesoro di quanto osservato sull’orizzontalità de La grande bellezza nel secondo capitolo del nostro studio, nella sezione dedicata allo “slancio vitale”. G. Mori, op. cit., pp. 51-52. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 30’-31’. D’ora in poi, ci riferiremo a questo lavoro riportando un titolo più breve: Steven Prince. M. Scorsese, American boy: a pro le of Steven Prince [1978] [DVD], Wildside, 2013, 3’. Id., The aviator [2004] [DVD], RAI Cinema, 2009, 21’-24’e 2h10’-2h11’. Ivi, 2h41’. F. Fellini, I clowns, cit., 37’-38’. F. Vigni, op. cit., pp. 132-133. P. Sorrentino, This must be the place [2011] [DVD], Medusa, 2013, 8’-9’ e 24’. M. Pagani, P. Sorrentino, Alla ricerca del sogno. Paolo Sorrentino in conversazione con Malcom Pagani, in “Micromega”, n°6, 2011, p. 29. Sorrentino a erma: “Potrei fare un lm su Berlusconi. Non lo voto, non mi piace e tutto mi separa da lui. Ma potrei trovarne un’origine, persino comprenderlo forse”. P. Sorrentino, Loro 2, cit., 51’-55’. F. Piéri, Aux sources d’Amarcord: les récits felliniens du Marc’Aurelio, in Estève M. (a cura di), Federico Fellini aux sources de l’imaginaire, cit., pp. 34-35. [traduzione personale dal francese]. F. Federico, E la nave va [1983] [DVD], Gaumont, 2017, 1h01’-1h03’ e 1h10’-1h14’.

G. Mara a, Facciamo i cattivi, in P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), op. cit., p. 64. B. Amengual, Une mythologie fertile: “Mamma Puttana”, in G. Ciment (a cura di), Federico Fellini, Positif-Rivages, Parigi 1988, pp. 33-36. [traduzione personale dal francese]. R. De Berti, Ri essi di Fellini-Satyricon nella stampa periodica illustrata contemporanea, in R. De Berti, E. Gagetti, F. Slavazzi (a cura di), FelliniSatyricon. L’immaginario dell’antico, Quaderni di Acme, Milano, 2009 p. 261. R. Benayoun, La conquête de la planète mère, in G. Ciment (a cura di), op. cit., pp. 66-67. [traduzione personale dal francese]. F. De Bernardinis, La poetica della solitudine e dei rapporti di forza, in P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), op. cit., p. 15. F. Vigni, op. cit., pp. 108-115. F. Fellini, Intervista, cit., 53’-1h05’ e Id., A director’s notebook [1969] [DVD], Carlotta, 2009, 35’-49’. M. Cangiano, Against postmodernism: Paolo Sorrentino and the search for authenticity, in A. Mariani (a cura di), op. cit., pp. 339-340. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi per le citazioni successive del medesimo articolo].

CAPITOLO II ASPETTI STRUTTURALI: SCHEMI E IRREGOLARITÀ II.1. Il frammento e la totalità II.1.a Il frammento in Fellini: il volume e il disordine Tra gli aspetti più singolari dell’immagine di Sorrentino è opportuno ricordare il frequente utilizzo di immagini frammentarie. A tal proposito, Vigni fa notare come uno dei pochi punti di continuità fra le tonalità grottescofumettistiche de L’amore non ha con ni172 e il seguito della produzione del cineasta dipenda da una tendenza a vedere il mondo “con la lente di ingrandimento”: [F]a subito irruzione nella sua struttura narrativa la componente della deformazione, dell’abnorme, presentandosi n dall’inizio come motivo dominante, lente di ingrandimento attraverso cui è osservata una realtà essa stessa deformata, “innaturale”, per meglio coglierne le deviazioni e le alterazioni, per volerla ritrovare poi, attraverso l’iperbole e l’esagerazione, più rivelata.173 La citazione appena riportata contiene un aspetto signi cativo che comprenderemo con più chiarezza al termine di questo punto del nostro lavoro. Si tratta dell’idea secondo cui, nell’immagine di Sorrentino, non esiste soltanto una tendenza alla deformazione e allo zoom – in senso stretto o gurato – su un elemento della visione, ma anche una seconda inclinazione che fa svolgere all’avvicinamento in questione una funzione rivelatoria. Anticipando una delle conclusioni a cui giungeremo, sarà opportuno leggere nello studio di Vigni la possibilità di un doppio rapporto tra il frammento (ingrandimento o alterazione) e lo svelamento di un senso proprio per la realtà deformata. Analogamente, Salvestroni insiste sulla rilevanza della “frammentazione”

nell’apprendimento di Jep ne La grande bellezza, prima di osservare come gli intrighi politici de Il divo vengano scanditi dalla breve e ripetuta apparizione della “sagoma [di un] ma oso ammanettato”174. Queste prime indicazioni ci spingono a dedicare un’attenzione particolare al ruolo della visione istantanea. Nel primo capitolo, abbiamo visto ciò che caratterizza i personaggi di Sorrentino passando dalla serie di fragilità all’inattesa costruzione dell’individuo. In questo percorso, abbiamo rilevato una discrepanza nel trattamento della coralità tra Fellini e il regista partenopeo, con il secondo che conserva un interesse per l’unità attraverso la presenza sistematica di un personaggio principale e, soprattutto, per via della necessaria determinazione del singolo. Adesso, converrà abbandonare la dimensione individuale per far posto ad una prospettiva diversa attraverso la quale tenteremo di capire come il frammento si comporta nei confronti della totalità, ossia come la parte minima dell’immagine si confronta con l’insieme più vasto e comprensivo della fabula. Più generalmente, si proverà a de nire in che modo lo stesso incidente che sfugge alla successione di immagini (il frammento) riesce a riconquistare la struttura narrativa e quali conseguenze scaturiscono dalla disparità tra i due elementi. La tendenza verso immagini segnate dalla messa a fuoco di un particolare colto nel susseguirsi dei fotogrammi può facilmente, e talvolta frettolosamente, essere intesa come un omaggio visivo che Sorrentino porge spesso e volentieri a Fellini. Considerata la rilevanza dell’istante nei lm del regista di Rimini, è legittimo chiedersi se questa somiglianza apparente non nasconda, in realtà, una dissonanza più profonda tra i due autori. In primo luogo, sarà dunque opportuno concentrarci sulla portata delle immagini frammentarie in Fellini con lo scopo di paragonarle con più facilità a quelle di Sorrentino di cui si discuterà successivamente. Per cogliere la speci cità dei frammenti visivi felliniani, occorre rilevare un’altra peculiarità della sua immagine, ovvero l’impossibilità del cerchio come forma narrativa

compiuta. Si pensi alla trama de Il bidone: Augusto, il falsario, prende gradualmente atto della precarietà del proprio mestiere nonché delle so erenze che ne scaturiscono. La vita lo punisce una prima volta quando, dopo essersi riavvicinato a sua glia, viene smascherato pubblicamente da un uomo che aveva incastrato precedentemente. Allo stesso tempo, però, gli viene lasciata una possibilità di riscatto che si materializza quando il protagonista si imbatte in una giovane paralitica. Vestito da prete come previsto dall’ennesimo numero organizzato a spese di una povera famiglia di contadini, Augusto ha l’occasione di rompere la catena degli errori lasciandosi commuovere dall’autentica miseria che ha davanti agli occhi. Tuttavia, invece di seguire l’esempio di umiltà dell’adolescente, il falsario reitera lo sbaglio, modi cando soltanto le vittime della tru a. Quando annuncia ai suoi soci di voler farla nita con gli imbrogli, si potrebbe pensare che l’incontro precedente abbia fatto maturare in Augusto la necessità di mettere da parte gli errori del passato, ma il protagonista non riuscirà a evitare l’ultima occasione utile per raggirare il prossimo poiché, proprio mentre annuncia il suo congedo, tenta contemporaneamente di rubare tutto il denaro appena guadagnato. Così, l’imbroglione che tenta di “bidonare” i suoi simili non fa altro che attirare i sospetti prima di essere a sua volta ingannato dalla sorte. Il protagonista verrà, quindi, pestato e abbandonato in una strada deserta proprio da coloro che, no a pochi istanti prima, erano i suoi complici d’a ari disonesti175. L’epilogo de Il bidone ci rivela già come, in Fellini, la chiusura del cerchio sia un’operazione irrealizzabile. Augusto avrebbe potuto accogliere il messaggio rivelatorio della ragazza paralitica, lasciare il denaro guadagnato e, quindi, cambiare vita, ma non fa altro che improvvisare un secondo imbroglio contro i propri complici. Nessuna via d’uscita viene trovata e il “bidonista”, ormai moribondo, si accascia per terra dopo essersi rivolto in questi termini a due bambini scorti in lontananza: “aspettatemi, vengo con voi”176. Nella

vicenda di Augusto, la soluzione narrativa si rivela impossibile, mentre la reiterazione dell’errore si pro la all’orizzonte. Di conseguenza, il cerchio rimane una gura incompleta, un disegno che non viene portato a termine nella misura in cui né viene riproposta l’immagine iniziale dell’imbroglio portato a buon ne, né viene suggerita una cura per il personaggio principale. Ne La dolce vita l’operazione è ancora più esplicita: il lm si apre con la famosa scena del sorvolo di Roma in elicottero in cui Marcello Rubini riesce a farsi capire da un gruppo di giovani donne in bikini a dispetto del rumore assordante delle eliche. Al contrario, nella sequenza di chiusura, basterà il so o del vento in riva al mare a impedire la comunicazione tra il protagonista e l’adolescente che lo invita ad allontanarsi dai mondani177. Lo stesso vento, oggetto tipico della “mitologia interiore” felliniana178, risulterà inutile nelle battute nali de Il bidone nel dialogo tra Augusto e la giovane paralitica. La situazione è simile ne La strada se pensiamo all’ultimo numero di Zampanò: dopo esser venuto a conoscenza della morte di Gelsomina, sentitosi in colpa per averla abbandonata, il saltimbanco è colto da un momento di sconforto. L’esibizione che segue propone per l’ennesima volta l’unica prodezza che il protagonista è in grado di compiere (spezzare una catena legata attorno al petto gon ando il torace), ma l’inquadratura si dissolve poco prima dell’esecuzione del numero che, di fatto, viene escluso dal campo visivo, rendendo impossibile la circolarità di un racconto scandito proprio dagli spettacoli dei due protagonisti. In compenso della realizzazione dell’esibizione circense, l’immagine nale conquista una drammaticità inedita mostrandoci la disperazione e il rimpianto di Zampanò179. Ne La strada, la circolarità dello spettacolo viene interrotta, a nché un’immagine inedita subentri, benché lo sconforto nale del protagonista non abbandoni il piano delle soluzioni narrative. La prospettiva cambia radicalmente quando il riferimento del racconto viene messo da parte. In tal senso, se è vero che, nel seguito

della sua opera, Fellini conserverà la formula già abbozzata ne La strada e ne Il bidone secondo cui l’impossibile struttura circolare permette al lm di generare un’immagine nuova nel punto nale, il regista non farà nulla per conservare il controllo delle forme visive aggiuntive, moltiplicandole all’in nito, come sottolinea Deleuze ne L’immagine-tempo: Fellini aveva cominciato con lm di vagabondaggio che allentavano i legami sensori-motori e facevano spuntare immagini ottiche e sonore pure, fotoromanzo, fotoinchiesta, music-hall, festa…Ma si trattava ancora di partire, di fuggire, di andarsene. […] Da una parte, le immagini puramente ottiche e sonore si cristallizzano: attirano il proprio contenuto, lo fanno cristallizzare, lo compongono di un’immagine attuale e della sua immagine virtuale, della sua immagine allo specchio. Ma dall’altro, entrando in coalescenza, esse costituiscono un solo e medesimo cristallo in via di sviluppo in nito. Di fatto, l’intero cristallo è soltanto l’insieme ordinato dei propri germi o la trasversale di tutti gli ingressi. […] È un cristallo sempre in formazione, in espansione, che fa cristallizzare tutto quello che tocca e al quale i propri germi danno un potere di crescita inde nito. La vita come spettacolo e tuttavia nella sua spontaneità.180 La posizione di Deleuze, in linea con quella di Amengual181, sta nel dire che la funzione magnetica della festa in Fellini, ossia quella forza che attira varie componenti visive adeguandole a un unico principio, è al contempo ciò che permette ai vari frammenti o “ingressi” di aumentare il volume dell’immagine. Da qui nasce il “cristallo” felliniano inteso come capacità del lm di prediligere l’inserimento di componenti visive senza fornire loro una struttura propriamente in grado di contenerle o di spiegarle. Di fatto, quando il losofo parla di “insieme ordinato dei propri germi”, egli non fa altro che sancire la regola secondo cui l’unico schema possibile delle visioni felliniani (i “germi” per l’appunto) sta nel

fatto di poterne aggiungere un nuovo frammento all’immagine precedente. Si prenda il contesto onirico di Otto e mezzo in cui Guido Anselmi è alle prese con immagini di qualsiasi genere: l’incubo iniziale in cui cade dall’alto dopo una parentesi claustrofobica in macchina, le visioni di Claudia che gli porta la presunta acqua miracolosa, il sogno dei genitori in compagnia del produttore del proprio lm, la fantasticheria ad occhi aperti dell’harem dove tutte le donne che ha desirato si ritrovano per accudirlo come un bambino, senza dimenticare i ricordi di infanzia, dalla scena del bagno al corpo formoso della Saraghina. Ma, al termine di questa s lza di immagini mentali, a quale soluzione giunge il protagonista? Tra il rimprovero del produttore che recita disperato: “io l’ho comprato il tuo disordine” e il “voglio fare ordine” con cui Claudia lo rincuora182 cosa fa il regista sprovvisto di ispirazione? Guido si lascia andare e il suicidio già in parte irreale con cui si chiude una delle ultime sequenze porta al girotondo onirico che sancisce l’assenza di linearità tra i frammenti visti in precedenza nei confronti dei quali si ri uta l’intervento di un principio risolutivo. Pertanto, alla ne di Otto e mezzo è la proliferazione delle visioni immaginarie a formare l’ultimo strato ottico del lm, rimuovendo qualsiasi pretesa nell’assestare la diversità delle unità visive, il tutto sotto l’egida del circo. In Fellini, la condizione delle immagini frammentarie è sovrapponibile a quella dell’istante, apparizione immediata di un elemento inatteso dinanzi alla macchina da presa in pieno movimento, elmento colto nella “tensione creatrice tra usso e sso”, come direbbe Patrice Lajus183. In Otto e mezzo, nella scena in cui i pazienti delle terme fanno la la per ricevere l’acqua curativa, la carrellata riprende alcuni personaggi immobili che guardano l’obiettivo mentre altri guranti attraversano il campo visivo allontanandosi o avvicinandosi. Nonostante la lentezza dei movimenti, un e etto di agitazione si instaura nella sequenza sicché ci accorgiamo che il legame

usso- sso non è regolato da un rapporto lineare che fa apparire e scomparire i soggetti ripresi, poiché qualsiasi elemento può subentrare nel campo visivo o sottrarvisi da un momento all’altro: due donne camminano da destra a sinistra e liberano il primo piano per un anziano signore che si siede aiutato da due suore quando un altro volto femminile spunta all’improvviso184. Ciò che scompare con l’unità frammentaria in Fellini è la possibilità di attribuire a ciascun elemento una funzione speci ca e un risultato univoco nei confronti dell’insieme. È, forse, per questo motivo che Amengual non lo de nisce né un regista della “totalità”, né propriamente del “dettaglio” ma, piuttosto, del “cosmico”, nella misura in cui “se la parte è più grande del tutto, se l’uomo è più alto delle sue case, non è perché domina il reale ma perché è sommerso da esso”. Da qui deriva la sostituzione del più tradizionale accostamento tra i lm di Fellini e il barocco con una meno usuale analogia con “le città della pittura gotica”185. Seguendo questo approccio, si dirà che nell’opera del regista di Rimini il frammento non si rivela un elemento distintivo senza essere, allo stesso tempo, parte di un insieme organico che continua a de nire ingrandendolo: che si tratti degli “ingressi” visivi di cui parla Deleuze o dei dettagli che emergono nei lunghi movimenti della macchina da presa, in entrambi i casi l’istante non primeggia sul usso delle immagini per rivelarne emblematicamente o simbolicamente il senso, ma soltanto per aumentarne il disordine globale, a patto che lo spettacolo sia in grado di raggruppare tutte le componenti visive. È per questo motivo che Amengual ha ragione nel dire che il “montaggio sincopato” di Otto e mezzo conferisce “ordine al disordine […] toccando il meno possibile il secondo”186, come se Fellini avesse chiesto al proprio personaggio di convivere con il caos delle immagini che lo tormentano. Sin dai primi lavori di Fellini, l’impossibilità della struttura circolare rende caduca qualsiasi aspirazione alla quadratura per la trama lmica. Già ne La strada, il regista

destituisce l’ordine come principio valido per l’evoluzione delle immagini, non soltanto per mezzo dell’erranza che le attraversa da cima a fondo ma anche a causa dell’impossibilità di riproporre una situazione nale identica a quella di partenza, come rilevato poc’anzi. Questo primo atteggiamento verrà progressivamente esasperato nell’opera del cineasta di Rimini e resterà valido anche in un lm dalla struttura circolare come La città delle donne. Con Otto e mezzo, avevamo già visto un viaggio interiore in cui, per raggiungere il traguardo, bisognava aprire tutte le visioni possibili e farle coesistere nel girotondo nale. A questo punto, il lm svelava uno spazio inedito di ispirazione circense, trovando così nel disordine l’unico traguardo possibile del percorso del protagonista. Quasi vent’anni dopo Otto e mezzo, La città delle donne riprende la struttura itinerante situando l’individuo e, di conseguenza, la scoperta di sé in una dimensione ben più confusionaria. D’altra parte, occorre prendere in considerazione che nel secondo dei due lungometraggi Marcello Mastroianni non interpreta più il personaggio del regista poco ispirato per il proprio lm e spesso occupato nel ricordare o immaginare le donne della sua vita, ma la parodia stessa di Guido Anselmi, adesso ridotto al soprannome fumettistico di Snaporaz con cui viene talvolta chiamato in Otto e mezzo. Lo spazio inedito de La città delle donne è proprio quello della caricatura dei fantasmi che già esistevano all’epoca di Otto e mezzo e la successione delle scenette di cui il lm è composto ne risente, inserendo dunque il frammento in una forma labirintica. Difatti, se la volontà di scoprire i tormenti del personaggio principale è de nitivamente messa da parte nel più recente dei due lavori, è grazie a questo atteggiamento che assistiamo alla de nitiva liberazione dell’imprevedibile associarsi di ogni genere di visioni. Il viaggio onirico di Snaporaz è scandito da variazioni spaziali casuali, che si tratti di porte che si aprono per caso o di luoghi dove si ritrova senza volerlo. Ma il disordine che crea Fellini è tanto più grande quanto,

in realtà, fa ruotare la varietà degli scenari soltanto attorno a due gure: quella del protagonista che vaga tra la ricerca di una via d’uscita e il desiderio di rimanere in questa ignota città femminile e quella di una donna in cui si alternano o si confondono tratti materni e una sensualità più ostile. In tal senso, Michel Mesnil suggerisce che l’abbandono del “cerchio” in favore della “spirale” ne La città delle donne favorisce un tipo di costruzione in cui “il ume di immagini” conduce sistematicamente alla stessa gura, quella della “Donna che regna al posto del Minotauro” che non fa altro che riportare Snaporaz “nei so ocanti sentieri del labirinto”187. La città delle donne sembra dunque esempli care una concezione presente in buona parte della lmogra a di Fellini, specie a partire da La dolce vita, quella del cinema come “luogo femminile […], come sorta di placenta in cui i sogni e le rêveries hanno libero corso”, seguendo un suggerimento di Walter Zidarič188. Non è un caso che il lm nasca proprio dal momento in cui il protagonista smarrisce la strada e si ritrova inaspettatamente in una comunità di femministe, imbattendosi, da lì in poi, in ogni sorta di esseri femminili spesso terri canti per l’ego maschile. Ora, è interessante notare che dopo una serie di peripezie conclusesi con il fallimentare volo in mongol era che Snaporaz avrebbe dovuto condividere con la donna ideale (una bambola gon abile), ritorniamo al medesimo vagone in cui il lm era cominciato. Tuttavia, come abbiamo già avuto modo di vedere, il cerchio non è una forma realizzabile in Fellini e il ritorno all’immagine di partenza non è altro che una falsa chiusura: Snaporaz si sveglia di fronte a sua moglie prima di vedere entrare le donne che lo avevano accompagnato nel suo lungo sogno. Ciononostante, il lm si conclude con sguardi e risate di complicità tra i personaggi che non dovrebbero conoscersi mostrando che la scena nale non è slegata da quanto visto in precedenza ma, piuttosto, che essa costituisce un nuovo frammento o ingresso visivo. A conferma di questa lettura, basterebbe notare come gli abiti di Snaporaz siano

impolverati e rovinati esattamente come li avevamo lasciati alla ne della sequenza precedente. Il viaggio de La città delle donne non si rivela liberatorio ma ribadisce nella lunga serie di variazioni visive dello stesso tema una struttura caotica secondo cui la giunzione delle immagini frammentarie non va di pari passo con la costruzione di un ordine ma con l’a ermazione del disordine189. È proprio rispetto a questa possibilità caotica dell’immagine di Fellini che possiamo leggere per contrasto un atteggiamento di Sorrentino. II.1.b L’istante e l’ordine in Sorrentino Prima di addentrarci nella problematica dell’istante in Sorrentino è opportuno aprire una parentesi sul rapporto che il frammento instaura con la bellezza, questione ricorrente nei suoi primi due romanzi i quali, come osservato precedentemente, hanno di poco anticipato l’uscita nelle sale de La grande bellezza. Partiremo proprio da una citazione del lm seguita da una seconda tratta da Tony Pagoda e i suoi amici: Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla. Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco.190 Quanto è vero la Madonna c’è poesia, volgarità e tenerezza dappertutto. Finanche nelle case dei sottosegretari. Bisogna credermi. Tutt’è disporsi come al mattino in controluce dentro al letto. Tonnellate di pulviscoli che ltrano, se avete la nestra contro l’alba. Questo ha visto Tony Pagoda quando si è svegliato di colpo, senza motivo, il tre marzo 2011. Tony Pagoda sono

io. Anche se era meglio dormire un altro pochino. Ettari di volgarità e tenerezza da raccontare.191 I due passaggi rivelano una somiglianza rispetto alla visione della bellezza. Da un lato, è vero che la scoperta di Jep Gambardella sta nel dire che la dimensione speci ca del bello è quella dell’istante, degli “sparuti e incostanti sprazzi”. Tuttavia, questa prima a ermazione andrebbe completata con una seconda che troviamo in entrambe le citazioni benché appaia più manifestamente nella seconda. In e etti, la bellezza di cui parlano Pagoda e Gambardella non è esattamente l’antitesi né propriamente l’antidoto degli “[e]ttari di volgarità” che la circondano ma qualcosa che si costruisce in funzione di essi. In altri termini, se è vero che Sorrentino attribuisce al bello la temporalità dell’istante, allora va sottolineato come la bruttezza non venga messa da parte ma conservata, diventando, così, necessaria al proprio opposto: “poesia, volgarità e tenerezza” fanno parte di un unico insieme secondo la visione di Pagoda. Questa reciproca presenza di splendore e orrore diventa, allora, l’oggetto da raccontare nel romanzo, confermando quanto già notato sulla processualità de La grande bellezza che si conclude con un invito alla scrittura (“Dunque, che questo romanzo abbia inizio”). In Sorrentino, il bello e il brutto vanno di pari passo, confermando una tendenza all’ambiguità e alla contraddizione già rilevata in numerosi personaggi, dai grotteschi uomini di potere ai tormenti di Lenny Belardo. Di sicuro, nella concezione sorrentiniana, c’è che la copresenza di poesia e volgarità si ottiene attribuendo alla prima una forma frammentaria che interviene dando un taglio alla consuetudine della seconda: una possiede la temporalità fulgorante dell’istante, l’altra si dispiega in un tempo più lungo e de nisce la condizione indispensabile per farlo apparire fulmineamente. Tra le due esiste una reciprocità simile a quella “tensione creatrice tra usso e sso” che Lajus evoca in merito a Fellini192, anche se, paragonando i due cineasti, si riscontrano alcune di erenze nel rapporto che il frammento stabilisce con la

totalità, dissonanze che emergono particolarmente se ci si concentra sulla questione dell’ordine. Il secondo capitolo di Tony Pagoda e i suoi amici mostra bene il procedimento sorrentiniano alternando la descrizione di Luigi Amitrano con una serata mondana che il narratore passa a Vienna in compagnia di Tonino Paziente, personaggio che dà il titolo all’episodio. Il primo è un cartolibraio che ama sinceramente il proprio mestiere; non a caso, egli possiede un tratto tipico di alcune gure della prosa e del cinema di Sorrentino, ossia la capacità di rivelare un insegnamento vitale per il protagonista a dispetto della brevità della loro apparizione. L’espressione tipica di questi personaggi è quella del “Sai perché?”: alla ne de La grande bellezza quando la Santa chiede a Jep se sa perché lei ha scelto di mangiare solo radici, gli spiega che “le radici sono importanti”, evocando per contrasto la vacuità mondana di cui il protagonista è prigioniero193. In maniera simile, Luigi Amitrano si rivolge a Pagoda come segue: “Lo sai perché da trent’anni ho una cartolibreria?”. “L’hai ereditata da tuo padre”, azzardo io prevedibile. “Da mio padre ho ereditato soltanto la piorrea e i calci in culo. No, ho aperto una cartolibreria perché mi piacciono gli inizi. Settembre è il mio bunga bunga. Figli e madri arrivano qua, luccicanti, comincia l’avventura della scuola. Scelgono per la prima volta penne e pennarelli e così s’illudono di scegliere il futuro. E poi si sa come va a nire. Perciò gli inizi Pagoda, soltanto gli inizi hanno senso. Il resto è roba sconclusionata, cioè senza conclusione”.194 La lezione di vita del cartolibraio, sebbene lasci intendere un più triste risvolto dopo l’incanto degli “inizi”, è strettamente legata alla vicenda che la segue nel capitolo e che si svolge lontano nel tempo e nello spazio. Pertanto, il “bunga bunga” con cui Amitrano descrive l’euforia del mese di settembre fa eco a ciò di cui Tony Pagoda e Tonino Paziente sono testimoni a Vienna quando

partecipano all’evento mondano del Ballo delle debuttanti. È interessante, allora, notare che tra le comparse dell’episodio viennese ci sia proprio una delle gure emblematiche dei festini berlusconiani: “scintilla, in un palco invaso dai fotogra , una tizia che si chiama Ruby, viene dal Marocco, e che tiene banco di questi tempi. È assalita prevalentemente da un riccone che se l’abbraccia di continuo come l’alga con lo scoglio”195. Come ne La grande bellezza, anche in Tony Pagoda e suoi amici la bruttezza può distendersi su un tempo più lungo, de nendo il usso delle immagini più comuni del mondo. Ora, nel lm come nel romanzo, il mondo esterno a cui si fa riferimento non può che essere quello della contemporaneità da cui derivano visioni autentiche. In realtà, se Sorrentino ha scelto proprio uno dei fatti di cronaca più seguiti all’epoca della pubblicazione del romanzo, non è soltanto per speci care il contesto dello sviluppo narrativo, ma perché la bruttezza e il mondo vengono concepiti come immagini in pieno svolgimento. Non sono soltanto elementi autentici in opposizione ad altre eventuali varianti arti ciali, bensì descrizioni la cui natura è quella di cogliere un’attualità in corso. È proprio in questo punto che ritroviamo la temporalità del usso nella misura in cui non si vuole creare nessuna interruzione tra le immagini della realtà e quelle della vicenda ttizia ma, piuttosto, si tenta di conservare una continuità facendo in modo che le seconde attingano dalle prime. D’altra parte, però, le immagini sse o frammentarie non vengono escluse, ma semplicemente presentante per la speci cità che le distingue dallo scorrimento della totalità. Pertanto, pur de nendo un movimento continuo, il usso della volgarità non riesce a evitare la comparsa improvvisa di una visione del bello. Nascono, quindi, le condizioni per far apparire l’istante. Quali sono, allora, le possibilità della bellezza? Nel secondo capitolo di Tony Pagoda e i suoi amici possiamo identi care due momenti decisivi. Il primo evidenzia la

necessaria istantaneità consuetudine:

in

opposizione

alla

banale

Cala di nuovo il silenzio. Finché Tonino non compie il gesto. Il gesto piccolo, impreciso e sbilenco che me lo fa ammirare senza più riserve. Questo: tira fuori un antico ventaglio nero, lo apre e prende a sventolarsi svogliato, come se ci fossero quaranta gradi all’ombra, mentre, con la nonchalance di una poetessa di valore, guarda distrattamente il paesaggio all’esterno. Sembriamo una coppia di danzati a dir poco stravaganti. Io lo guardo a bocca aperta. Lui scorge il mio stupore e, senza scomporsi, continuando ad agitare il ventaglio, dice: “Fa molto Vienna” Questo, è il genio. 196 Tonino Paziente compie un movimento inaspettato, aprendo il ventaglio nonostante il freddo viennese di cui si era parlato in precedenza. Adesso, lo splendore è quello dell’istante che rompe la monotonia della situazione abituale e che stona con banalità della parentesi mondana di cui si tratterà subito dopo. Inoltre, in questo passaggio si viene a creare un contrasto tra la “roba sconclusionata” con cui Luigi Amitrano de niva il triste seguito dell’euforia di settembre e l’azione estemporanea e imprevedibile che fa sì che l’apertura del ventaglio sia annoverabile tra le immagini del bello, come se il narratore suggerisse una predilezione per un movimento privo di qualsiasi nalità, una mossa esterna alla portata dell’azione. Come si vedrà successivamente, il passaggio dall’azione – di cui conosciamo già la precarietà – alla sfera del gesto si rivela un momento indispensabile per la liberazione dei personaggi di Sorrentino. Ora, è signi cativo osservare che il gesto di Paziente non è

soltanto descritto come inconsueto ma anche “piccolo, impreciso e sbilenco”, anticipando la seconda visione positiva presente nel capitolo. Senza mezze misure, in conformità con il tono della prosa sorrentiniana, il narratore parla di “dignità inaudita, solenne, elegante, oggettiva” quando vede un gruppo di ragazzi che si divertono “[c]on niente. Con sei birre da un euro e tre panini che si dividono”197. Da un lato abbiamo la rottura della prevedibilità, dall’altro il ritorno alla semplicità: è secondo questi parametri che, in Tony Pagoda e i suoi amici, Sorrentino spiega come il frammento si articola con il usso. In tal senso, è necessario rilevare che questo tipo di risposta da parte del narratore coincide con la costruzione di un ordine rispetto al quale è possibile collocare i due elementi antitetici. Poc’anzi, si diceva come il bello non servisse ad eliminare il brutto e come le due polarità fossero reciprocamente indispensabili considerando la concezione secondo cui la storia da raccontare nasce proprio dalle ceneri del vuoto e della volgarità, come il romanzo di Jep ne La grande bellezza. In tal senso, collegando il lm al racconto che l’ha preceduto in prosa, ci accorgiamo che il rapporto tra la bellezza e la bruttezza non è soltanto l’equivalente dell’opposizione tra il frammento ( sso) e la totalità ( usso) ma anche una vera e propria struttura simmetrica che determina come le due componenti antitetiche possono coesistere. Nell’equilibrio che viene a crearsi, scopriamo una prima declinazione dell’ordine, elemento strutturante del cinema di Sorrentino. Nella fattispecie, la misura ordinata del secondo capitolo di Tony Pagoda e i suoi amici si ottiene alternando gli elementi seguenti: un primo frammento in cui si narra dell’entusiasmo del cartolibraio, un secondo episodio in cui si racconta della volgarità del Ballo delle debuttanti a Vienna e, in ne, la riscoperta degli sprazzi di bellezza all’interno del quadro dove a prevalere era il brutto. La prima componente suggerisce il modello, la seconda inserisce l’esatto opposto nel usso delle immagini del mondo (Ruby e il miliardario), la terza o re

una via d’uscita concreta basata sul primo esempio portato, però, nel contesto che accoglie le visioni della volgarità. Con ciò si spiega dunque la distanza spaziotemporale che esiste tra il primo dei tre momenti e i due successivi. Il usso e l’istantaneità sono entrambi necessari ma, di fatto, è al secondo che spetta il compito di far apparire la bellezza. Nel passo di Tony Pagoda e i suoi amici la scrittura in prosa mostra una spiccata a nità con la presentazione di visioni fulgoranti. Senza troppe sorprese, si noterà che questa stessa tendenza visiva costituisce un contesto propizio per l’immagine in movimento. Basterebbe seguire le indicazioni dello stesso regista per rendersene conto. Si prendano queste due visioni che hanno ispirato Le conseguenze dell’amore e L’amico di famiglia: Mi trovavo a San Paolo, in un albergo che aveva un bar tutto di legno, molto atipico per il Brasile: c’erano 50°, dentro era Tirolo. Gli uomini che erano seduti lì mi incuriosivano e allo stesso tempo mi disorientavano perché non avrei saputo dire da dove venivano, se trattavano a ari loschi o erano normalissimi manager. […] Mi hanno colpito questi uomini d’a ari, un po’ gli stessi ovunque. Li trovavo a Stoccolma come in Brasile. […] Sono partito da uno spunto minimo, un gesto colto di sfuggita, per inventare la biogra a di un personaggio che vive in situazioni molto lontane da me.198 Una volta, in Siberia c’erano decine di gradi sottozero, durante una gita che somigliava ad una deportazione. Io me ne stavo aggrappato all’autobus con 38 di febbre. Ma loro no. L’autobus s’è fermato e loro non hanno battuto ciglio, lei molto anziana, il glio anziano quanto lei. Se ne sono fottuti di tutto. Volevano fare una passeggiata nella tundra. […] Quando solo risaliti sull’autobus, allegri e congelati, lui si è messo a parlare con un’altra gitante, un’altra disperata come lui. Allora io ho guardato la madre. Si era chiusa in un tetro

risentimento. Una mummia gelosa e densa di rabbia. Stava pensando, ne sono sicuro, di aver perso in un colpo solo il glio e il danzato. Questo lm è nato così, guardando di sbieco, per un attimo, un rapporto morboso, malato, degenerato e allo stesso tempo comico.199 È curioso notare come, per due lavori distinti, Sorrentino utilizzi un linguaggio simile nel descrivere l’attimo da cui è scaturita l’ispirazione. In entrambe le dichiarazioni, in sintonia con il tono dei romanzi, il regista esordisce presentando una situazione farsesca legata a una caricatura del contesto spaziale in cui si svolge (l’albergo dall’aspetto tirolese in Brasile o il freddo ostile della Siberia). Soprattutto, in entrambi casi, Sorrentino ssa nella memoria un istante preciso: “uno spunto minimo, un gesto colto di sfuggita” per Le conseguenze dell’amore e uno sguardo “di sbieco” per L’amico di famiglia. I frammenti risultano porzioni selezionate nello svolgimento di una scena e funzionano come due dettagli prelevati da un’inquadratura in campo largo. In maniera simile, l’ispirazione di Youth ripropone due ricordi dissociati nel tempo: Uno era un fatto di cronaca: la regina Elisabetta aveva invitato Riccardo Muti a Buckingham Palace, ma non si erano accordati sul repertorio e lui non andò. La cosa mi colpì, perché da buon provinciale pensavo che alla regina non si potesse dire di no, ma Muti, napoletano come me, evidentemente si era sprovincializzato prima. La seconda era il ricordo di una cena con due uomini anziani che si erano messi a parlare di una ragazza di sessant’anni prima, ognuno voleva sapere se l’altro c’era stato. Non è che litigassero, ma si avvertiva una certa frizione.200 Tuttavia, in Youth, il frammento non rimane semplicemente nella sfera degli stimoli visivi che hanno funto da ispirazione per il lm, bensì trova conferma nell’immagine stessa. L’ambientazione a porte chiuse del

lungometraggio ricorda quella delle terme in cui si svolge Otto e mezzo, con un personaggio principale che in entrambi i casi è un autore famoso in piena crisi con la propria arte. Non a caso, per ragioni diverse, l’eventuale progetto futuro incontra una certa reticenza da parte del protagonista e diventa di cile da realizzare: Guido Anselmi è alle prese con un lm per il quale non ha ancora le idee chiare, Fred Ballinger ri uta di eseguire le sue Canzoni Semplici per la regina Elisabetta, celando dietro un cinismo apparente una di coltà più profonda nata da un mancato ricongiungimento con il passato, come si vedrà successivamente. In aggiunta, come sottolinea Sandra Waters, la scelta onomastica di Sorrentino non è a atto casuale, nella misura in cui è a Federico (Fellini) che Fred (Ballinger) rimanda201. In un lm come nell’altro, l’ambientazione a huis-clos favorisce la concentrazione di storie e personaggi marginali, pur riconoscendo, come dimostrato nel primo capitolo, che le gure secondarie in Fellini posseggono una profondità tragica trascurabile se paragonate a quelle di Sorrentino. In Youth, sono molti i personaggi che ruotano attorno al protagonista: la glia Lena tradita dal marito, Mick, l’amico regista che si ostina a voler dirigere un lmtestamento, Jimmy, l’attore di lm di supereroi che si cimenta nello studio di Hitler per una parte che gli permetterebbe di scrollarsi di dosso l’immagine di attore mediocre. A loro volta, i personaggi secondari posseggono una o più comparse che si rivolgono alla loro storia speci ca: l’alpinista con Lena, l’attrice Brenda Morel con cui Mick aveva lavorato da giovane o ancora Miss Universo per Jimmy. Come si osserverà in seguito, questa organizzazione concentrica con cui Sorrentino crea un equilibrio, procedendo da una gura centrale ad una secondaria, è molto vicina alla questione dell’apprendimento, nella misura in cui persino le comparse hanno spesso qualcosa da insegnare ai protagonisti202. A questa prima disposizione si aggiungono altre immagini più enigmatiche che colgono in pieno la

temporalità del frammento: le scene estatiche in cui la giovane massaggiatrice fa esercizi ginnici, i primi piani sulla prostituta delle terme, gli anziani coniugi che non si parlano e che vengono visti interagire soltanto quando la moglie dà uno schia o al marito oppure mentre fanno l’amore furtivamente nel bosco. Lo stesso dicasi del bambino che impara la famosa Canzone Semplice n.3 al violino, oppure del corpo nudo di Miss Universo nella piscina che contrasta con il frammento delle donne velate nell’ascensore203. Alla lista potremmo aggiungere anche il personaggio di Maradona, prima ritratto alle prese con crisi respiratorie poi colto mentre si destreggia palleggiando con una pallina da tennis, parentesi visiva che fa eco ad un celebre lmato dell’epoca in cui il calciatore militava nella squadra del Napoli nonché ad un ricordo personale di Sorrentino che da giovane lo aveva visto allenarsi di nascosto204. Ora, nel mosaico del lm esiste una forza di coesione decisiva che permette di tenere insieme tutte le trame e tutti i frammenti. In tal senso, i personaggi di Jimmy e della giovane massaggiatrice svolgono un ruolo signi cativo dovuto alla loro capacità nel partecipare alle vicende delle altre gure. La seconda preferisce un contatto tattile laddove il ruolo di osservatore silente attribuito al primo lo fa lavorare essenzialmente sulla vista. La coesione deriva, allora, dal fatto che i frammenti hanno una funzione formativa e rivelatoria, questione il cui impatto verrà trattato in un punto seguente del nostro studio. Tuttavia, è possibile a ermare sin da adesso una conseguenza del ruolo assegnato agli istanti: dovendo ritornare in più punti della storia per rilanciare la narrazione, essi fanno in modo che la situazione dispersiva dell’inizio verta, in de nitiva, sulla formazione di una totalità in equilibrio. Si prenda il tema della vecchiaia che, facendo eco per contrasto con il titolo, è la questione che più tormenta i protagonisti. Due frasi tornano frequentemente nei dialoghi fra Fred e Mick: la prima è una domanda sull’orinazione con cui i due amici propongono scherzosamente il problema del tempo che

passa, la seconda è un aneddoto meno esplicito che rivela con maggiore chiarezza il rapporto tra il frammento e l’ordine. La successione di elementi è, dunque, la seguente: i due personaggi passeggiano chiacchierando quando, all’improvviso, vedono arrivare un giovane in bicicletta che fa un’impennata davanti a loro. Tuttavia, l’evento sorprendente non viene preso in considerazione, come se l’episodio appena visto non fosse realmente accaduto, benché entrambi gli uomini guardino sorpresi la scena. Ciononostante, pur esistendo soltanto parzialmente, il frammento visivo in questione viene prolungato da una frase di Mick che evoca gli unici momenti della sua infanzia che ricorda nitidamente, il giorno in cui ha imparato ad andare in bicicletta e la conseguente ed inevitabile prima caduta. Questo scambio di battute resta in sospeso no a quando, dopo il suicidio di Mick, Fred troverà una spiegazione all’ossessione che quest’ultimo aveva per la bicicletta: ascoltando le parole del dottore della clinica, scoprirà che il suo amico utilizzava la similitudine della bicicletta per descrivere l’entusiasmo del suo amore giovanile per una certa Gilda Black, ragazza di cui lo stesso Fred si era invaghito e rispetto alla quale era nata una piacevole diatriba tra i due personaggi su chi di loro l’avesse conquistata per primo, come nel ricordo di Sorrentino riportato poc’anzi. Proprio nel momento in cui il dottore rivela il segreto al protagonista, il personaggio della massaggiatrice appare fornendo un controcampo per lo sguardo di Fred che, da qualche secondo, non era più rivolto al proprio interlocutore ma al paesaggio fuori dalla nestra. La giovane, presente sin dall’inizio della sequenza e distinguibile in lontananza, viene adesso colta in primo piano mentre accenna un sorriso facendo una smor a di complicità al protagonista205. È secondo questa modalità che il frammento e l’ordine trovano un’articolazione possibile in Sorrentino: quand’anche un istante visivo, come quello dell’impennata in bicicletta, non dovesse essere riconosciuto come elemento decisivo sul piano

della storia, è comunque possibile assegnargli un posto di rilievo nel racconto dei personaggi. A sua volta, il ricordo scelto da Mick viene completato da una spiegazione – quella del dottore – che lo collega a un altro dialogo frammentario e ricorrente tra i due protagonisti maschili, sicché sia la visione improvvisa sia la battuta estemporanea raggiungono un insieme più grande che li contiene e che li chiari ca. La tensione del frammento nei confronti di una totalità con cui, prima o poi, dovrebbe congiungersi è ravvisabile anche ne L’amico di famiglia. Qui, oltre allo sviluppo narrativo che segue le vicende dei personaggi segnando un punto di svolta con il tranello che Rosalba tende a Geremia, ciò che appare sempre più manifestamente è l’idea secondo cui qualsiasi istante visivo inizialmente incompleto o equivoco occuperà, prima o poi, un posto signi cativo nella storia dei protagonisti. Ad esempio, l’uomo che vuole comprare un titolo nobiliare interviene nello stesso momento in cui Geremia parla della sua di cile relazione con il padre che l’ha rinnegato206. Lo stesso dicasi per altre visioni a cui è inizialmente di cile attribuire un ruolo speci co ma che troveranno una collocazione precisa nella narrazione riferendosi ad uno dei personaggi principali: la scena delle giocatrici di pallavolo sarà legata alla cattiveria di Geremia che recupera e nasconde i palloni che arrivano nel suo cortile, così come della donna che appare inizialmente immersa nella sabbia sarà successivamente mostrato l’omicidio ad opera degli scagnozzi del protagonista207. Ciò che nell’immagine in movimento viene colto come visione incongruente trova una corrispondenza in quelli che la prosa ha intitolato Gli aspetti irrilevanti. Signi cante in tal senso è il primo ritratto della raccolta in cui si narra la vicenda di Elsina Marone, una donna dalla vita rocambolesca che si innamora di un giovane pilota di Formula 1. Nella loro forma frammentaria i brevi paragra del racconto si articolano andando di palo in frasca. Così, il narratore pone a poca distanza l’uno dall’altro la sindrome di Morris, le comunità Amish e il ricordo del

primo citofono da parte della protagonista208. Gli elementi sono disseminati e descrivono il personaggio alternando momenti marcanti della sua vita e aneddoti che, almeno in un primo momento, non possono sembrare che trascurabili: l’avarizia, la scarsa salute dei denti, la liaison con un ma oso italoamericano prima e con il principe di Monaco poi, la pressione bassa, la passione per la moquette, l’aerofagia incontrollabile209. Ora, in maniera analoga agli esempi cinematogra ci, tutti gli elementi frammentari vengono ricollegati o risolti in un momento successivo del racconto: la pressione bassa diventa alta quando Elsina, sessantasettenne, ha un rapporto con il più giovane pilota di Formula 1, la passione per le macchine da corsa ricompare alla ne quando la protagonista porta lo stesso pilota a fare un giro in Rolls Royce, i denti tornano a farle male quando, dopo anni, viene a sapere che il principe di Monaco l’aveva nominata presidentessa della Croce Rossa per evitare che lei confessasse alla stampa la loro relazione segreta. In maniera simile, il problema intestinale e l’avarizia riappaiono in un passo successivo del racconto: presa dal panico mentre tenta di nuotare in apnea sotto una barca, Elsina viene colta da una crisi di meteorismo e il marinaio che la salva non recupera altro se non “un servizio di tovagliolini”210. Pur avendo messo da parte la prospettiva dell’individuo, ci sembra opportuno rilevare la compatibilità tra la descrizione caratteriale e la proliferazione nel racconto di aneddoti frammentari, poiché, a dispetto del titolo della raccolta, nei ritratti di Sorrentino i dettagli sono tutto fuorché irrilevanti. Gli aspetti presentati dal narratore sono invece elementi sintomatici di una personalità e, sebbene ritraggano gure contradditorie o tragicomiche, sposano comunque una forma schematica. Pertanto, il discorso della voce narrante si costruisce proprio sulla possibilità di poter riprendere un frammento inizialmente scollegato e trascurabile rendendolo decisivo in un secondo momento. Non è un caso che tra la prima apparizione del dettaglio e la sua successiva attivazione

narrativa venga spesso a crearsi un rapporto di causae etto. Nel racconto di Elsina Marone, o è la peripezia a essere dovuta all’impatto di un aspetto trascurabile oppure è quest’ultimo a riemergere al termine di una disavventura, come nell’esempio della nuotata in apnea appena citata. Si potrebbe aggiungere il caso del personaggio di Linda Giugiù le cui caratteristiche sconnesse sono la dipendenza dal gioco d’azzardo e la congiuntivite, no poi a svelare che la seconda è provocata dal fumo delle sigarette che la donna fuma proprio durante le sue frequenti partite di poker211. Nonostante la distanza che separa il tono comico di alcune storie della raccolta dall’atmosfera più cupa dei lm, ciò che condividono i frammenti della prosa e del cinema di Sorrentino risiede nell’osservazione secondo cui, benché la situazione di partenza o l’azione non riescano a spiegare la funzione del particolare, esiste sempre un secondo gesto in grado di collocarlo in un insieme più vasto. Non a caso, anche “gli aspetti irrilevanti” possono trovare una completezza in un secondo momento della vicenda narrata, rispedendo l’istante alla propria condizione di elemento temporaneo rispetto al quale l’ordine della totalità sarà chiamato ad intervenire. La di erenza con Fellini sta proprio nel fatto che nel regista di Rimini la temporalità dell’attimo può essere prolungata in un tempo illimitato no ad essere de nitivamente dissociata da uno schema in grado di contenerla. È per questo motivo che abbiamo evidenziato come, a partire da Otto e mezzo, la pratica felliniana consista proprio nell’accumulare una serie di livelli visivi senza ordinarli. Al contrario, in Sorrentino, possiamo ancora notare una predilezione per la determinazione del signi cato e della valenza delle immagini frammentarie. L’osservazione di Mori sul valore degli animali nel cinema del regista partenopeo suggerisce uno spunto signi cativo in tal senso, nella misura in cui essi posseggono un valore simbolico o iconico rispetto alla trama a cui si riferiscono. In This must be the place, il bisonte che vediamo poco

prima che il protagonista incontri il nazista che ha torturato suo padre rimanda proprio alla Shoah nella misura in cui si tratta di una specie in via di estinzione a causa di una violenta caccia di cui fu vittima negli Stati Uniti all’epoca della colonizzazione. Analogamente, si penserà al gatto, “nell’antichità ritenuto simbolo ed incarnazione del diavolo che si para davanti ad Andreotti”, ma anche ai fenicotteri che rinviano alla “ gura mitologica dell’araba fenice” sulla terrazza di Jep Gambardella ne La grande bellezza, no ai più espliciti campanacci delle mucche che in Youth fungono da “orchestra sinfonica immaginaria” per Fred Ballinger212. Alla lista di Mori si potrebbe aggiungere il canguro, l’animale che trasporta il proprio cucciolo nel marsupio, che in The young pope fa una comparsa anticipando la scena in cui Belardo compirà il miracolo della gravidanza di Esther213. In maniera simile, ne Il divo ricorderemo due apparizioni tanto brevi quanto signi cative, quella dello skateboard che viaggia dalla sequenza iniziale in cui viene mostrata, tra le altre, la morte di Giovanni Falcone, no ad arrivare ai piedi di Ciro Pomicino a Palazzo Chigi214, o ancora, come suggerisce Salvestroni, “lo scaricamento di un furgone di carne macellata” che appare dinanzi agli occhi del protagonista “poco prima del processo nale”215. Ne L’amico di famiglia, invece, uno spaventapasseri appare subito dopo una scena che aveva visto il protagonista rubare i gioielli di una debitrice appro ttando dell’occasione per accarezzarle l’inguine216. Lo stesso dicasi per l’insistenza de L’uomo in più per l’oggetto dell’acquario, “spazio ovattato nel quale uttuare annullando la percezione dell’esterno”, ma anche riferimento interno alla morte del fratello del Pisapia cantante, nonché primo oggetto che egli vede sparire dal ristorante che avrebbe voluto comprare e che nisce in mano ai ma osi217. In ognuno di questi esempi, un elemento inconsueto integra il campo visivo come vera e propria “apparizione”, termine che Mori giudica particolarmente appropriato data “l’impossibilità dell’evento”, che si tratti dello stormo di fenicotteri ne La

grande bellezza o dello skateboard ne Il divo218. Il manifestarsi improvviso di un particolare incongruo destabilizza l’equilibrio della visione deformandola a suo piacimento in maniera simile alla sovrabbondanza di immagini che riempiono le inquadrature dei lm di Fellini. Tuttavia, come già dimostrato in precedenza, se il regista di Rimini aggiunge fotogrammi onirici e immaginari che non fanno altro che aumentare il volume di un’immagine ormai protesa al solo principio di disordine, con Sorrentino, siamo dinanzi a immagini reali che valgono come esplorazioni interiori. La funzione allegorica spesso presente tramite gli animali, si generalizza dunque in una più ampia varietà di oggetti e decreta il principio secondo cui dietro una visione frammentaria c’è sempre un progetto più grande che la sostiene, una funzione “semioticamente signi cante” per riprendere una terminologia cara a Umberto Eco219. Secondo questi presupposti ci sembra possibile confermare l’intuizione secondo cui Sorrentino risolve il rapporto tra frammento e totalità in favore dell’ordine. II.1.c L’elucidazione, la riunione e le loro eccezioni I racconti de Gli aspetti irrilevanti così come i lungometraggi o rono una testimonianza signi cativa della capacità sorrentiniana nel de nire uno schema coniugando immagini frammentarie con un’evoluzione più tradizionale della fabula, facendo emergere una struttura narrativa a partire da dettagli che potrebbero risultare ostili al racconto. Questa tendenza non scompare se ci spostiamo sul più lungo formato di The young pope, sia per quanto riguarda il ruolo degli oggetti, sia sul piano delle vicende interne alla trama. La prima scena del primo episodio è molto signi cativa. Sin da Il divo prima ancora de La grande bellezza, sappiamo che Sorrentino dedica un’attenzione particolare all’incipit dei propri lavori lmici. Nel primo sono le zone opache e le morti celebri avvenute durante l’epoca andreottiana a introdurre il tono critico del lungometraggio, mentre nel secondo è la

commistione tra sacro e profano a essere subito annunciata220. Analogamente, si osserverà come le battute iniziali di The young pope siano tutto fuorché casuali dal momento che contengono le piste narrative e visive che incontreremo nel seguito della vicenda. La serie televisiva comincia con una scena onirica in cui viene ra gurata una montagna di neonati da cui fuoriesce Lenny Belardo già vestito con i paramenti papali. Il sogno si svolge a Piazza San Marco a Venezia, luogo che tornerà ripetutamente poiché associato al ricordo traumatico dell’abbandono. Subito dopo, la suoneria di un cellulare ci riporta nel mondo reale; le immagini si susseguono, allora, in questa maniera: un piano ravvicinato sull’occhio di Belardo, un secondo identico sul croci sso, un’inquadratura simmetrica con il protagonista in primo piano e il croci sso appeso perfettamente al centro sul muro dietro di lui, il corpo nudo del papa visto attraverso la cabina della doccia, la ricezione incerta della radio che oscilla tra la trasmissione del Requiem di Fauré a quella di un brano di musica elettronica221. Vediamo allora una lenta carrellata che introduce il ponte ce nella sala dove lo aspettano i cardinali. Il movimento della telecamera viene interrotto una sola volta quando la macchina da presa ci riporta nel passato mostrandoci il piccolo Lenny in un giardino paradisiaco mentre ssa il corpo nudo della madre, il tutto avvolto da una luce bianca innaturale222. Ora, benché fulminei e disconnessi all’inizio, questi stessi fotogrammi verranno ricollegati ai temi dell’abbandono e della vanità ampiamente trattati negli episodi successivi. Lo stesso dicasi per la successione tra il fotogramma del croci sso e quello delle ciabatte che anticipa il frequente passaggio tra il drammatico e il comico a cui assisteremo nella serie televisiva. L’incipit del primo episodio ribadisce dunque la continuità tra frammento e totalità che contraddistingue l’immagine di Sorrentino. Tuttavia, un’altra maniera di ordinare i frammenti emerge negli ultimi due episodi. Nella fattispecie, si tratta di un tipo di organizzazione che rammenta come l’ordine

sorrentiniano, che abbiamo già più volte distinto dal principio caotico che caratterizza i livelli visivi felliniani, nasca dalla prossimità con un’immagine fondamentale nel cinema del regista di Rimini, ossia il girotondo. Per meglio cogliere questo paragone, metteremo a confronto i segmenti conclusivi di The young pope e la celebre sequenza che chiude Otto e mezzo. Il nono capitolo della serie televisiva segue da vicino la vicenda del cardinale Gutierrez, recatosi a New York per seguire un caso spinoso di pedo lia in cui è coinvolto il vescovo Kurtwell. È interessante, allora, notare come questo punto della trama di The young pope serva a fare chiarezza su eventi lontani appartenenti a due personaggi distinti – Belardo e lo stesso Gutierrez – sicché l’elucidazione del caso Kurtwell viene accompagnata da un’altra rivelazione radicalmente diversa. Nella parentesi newyorkese, il porporato inviato da Belardo è alle prese con una serie di complicazioni dovute alla reticenza e al potere del vescovo imputato, nonché ad alcune debolezze personali dovute alla dipendenza da alcool. Tuttavia, se è vero che la maggior parte delle scene girate negli Stati Uniti ruotano attorno ad una questione principale su cui si tenta di fare luce, esiste un’altra gura estranea all’indagine che svolge un ruolo sempre più determinante. Si tratta di Rose, la proprietaria dell’hotel in cui alloggia Gutierrez che aiuta quest’ultimo nei momenti di sconforto. Obesa e costretta a rimanere sdraiata sul proprio letto, Rose è un personaggio simile al cardinale nella misura in cui entrambi lottano per sopravvivere: la prima vuole sottoporsi ad un intervento chirurgico per perdere peso anche a rischio di morire, il secondo è sensibilmente provato dalla sua permanenza a New York, dal momento che l’inchiesta sul caso di pedo lia fa ria orare gli incubi di uno stupro subito nel passato, accentuando peraltro le di coltà del presente (l’alcolismo). Ora, se è vero che Sorrentino raddoppia le piste narrative, aggiungendo la storia di Rose a partire dalla vicenda principale in cui la questione politica già si

confondeva con quella più personale di Gutierrez, è opportuno evidenziare come la conclusione del capitolo newyorkese organizzi una sostanziale convergenza tra i due racconti. Difatti, il momento in cui il cardinale ha la meglio sul vescovo pedo lo corrisponde anche a quello in cui la proprietaria dell’hotel fa una scelta decisiva e liberatoria decidendo all’ultimo momento di non operarsi223. Così, Sorrentino fa dipendere l’esito narrativo della storia secondaria dal gesto che chiari ca l’esito di quella principale, facendo evolvere il frammento alla stessa stregua dell’immagine più grande da cui deriva. In primo luogo, seguiamo le mosse di Gutierrez che incontra l’uomo che anni prima aveva subito le molestie di Kurtwell, riuscendo poi a tendere una trappola a quest’ultimo con la complicità del giovane indiziato per diventare la sua prossima vittima. In seguito, tocca a Rose ritornare sui suoi passi e ritrovare la voglia di vivere a dispetto degli impedimenti della malattia. Di per sé, l’episodio dell’elucidazione del caso Kurtwell riprende il principio di equilibrio tipico delle storie di Sorrentino. Non è un caso il regista opti per alcune scelte stilistiche esplicite nei momenti in cui viene fatta chiarezza sugli eventi, come se rendesse manifesto il passo del racconto in cui Gutierrez vede meglio e riprende ato. Un fascio di luce appare, allora, sulle sue mani mentre mostra a Kurtwell la foto di una delle prime vittime di quest’ultimo. Alterando la fotogra a delle inquadrature, Sorrentino mostra la luce alla ne del tunnel, termine delle so erenze di Gutierrez il quale, nella sequenza seguente, respirerà letteralmente e metaforicamente condividendo con Rose un ventilatore portatile, strumento che permette alla donna di sopravvivere224. In entrambe le scene il risvolto narrativo cerca una conferma nel campo visivo il quale, a sua volta, non gli restituisce altro se non l’esempli cazione gurativa di ciò che l’azione sta per provocare. Lungi dallo svolgere una funzione puramente simbolica, il fascio di luce e il ventilatore sono la cristallizzazione gurativa di un punto decisivo della

narrazione, doppiamente chiari catori perché sottolineano come la scena a cui si riferiscono sia fonte di chiarimento per l’insieme della fabula. Inoltre, è interessante notare che all’ordine ritrovato rispetto alla situazione principale corrisponde un secondo genere di equilibrio, quello della convergenza di loni narrativi più o meno lontani. Nella fattispecie, la storia di Gutierrez si trova al centro tra il racconto principale da cui deriva (quello di Belardo) e quello di Rose che determina: se la seconda decide di non sottoporsi a un rischioso intervento chirurgico proprio mentre una gru la sta trasferendo fuori dall’hotel per portarla in ospedale, con il primo otteniamo due rivelazioni contemporaneamente. Intervallando l’azione che si svolge negli Stati Uniti, la morte del cardinale Spencer in Vaticano diventa l’occasione per far luce su due elementi narrativi fondamentali nella stessa scena: mentre Belardo annuncia al suo mentore di aver realmente compiuto un miracolo salvando una donna a etta da un male incurabile (rivelazione anticipata dalla visione del momento in ashback), Spencer annuncia al papa che sua madre, la donna che l’ha abbandonato da piccolo, è ancora viva225. Siamo, quindi, dinanzi ad una prima forma di riunione dei frammenti per la quale noteremo, senza troppe sorprese, una compatibilità con lo sforzo fondamentale dell’elucidazione. La soluzione dell’a are Kurtwell si ottiene, da un lato, facendo convergere la storia di Gutierrez con quella di Rose e, dall’altro, collegandola all’altra doppia rilevazione a cui assistiamo tramite Belardo. Una volta fatta chiarezza, diventa possibile organizzare riunioni di frammenti sempre più lontani nello spazio come dimostra la sequenza nale dello stesso episodio. Qui, mentre la voce fuori campo del papa legge le lettere d’amore che aveva scritto da giovane per una ragazza incontrata su una spiaggia californiana – lettere che il vescovo Kurtwell aveva tentato invano di utilizzare contro Pio XIII in risposta all’inchiesta per pedo lia ordinata dal Vaticano – la macchina da presa attraversa luoghi distanti e collega

immagini frammentarie. Si comincia con una spiaggia di Ostia dove viene ripresa Esther, fuggita dalla Santa Sede senza avvisare il papa, mentre raccoglie nella sabbia una fotogra a che Belardo ha lasciato di persona. Si continua, allora, con i personaggi della parentesi newyorkese, da Rose, alla prima vittima di Kurtwell al giovane che ha aiutato Gutierrez a risolvere il caso fungendo da esca. Scandita dal ritornello di una canzone pop, la sequenza si conclude con una nuova comparsa, una donna che legge le lettere del papa e che viene facilmente identi cata come destinataria del discorso dell’allora giovane Lenny226. Un procedimento analogo viene utilizzato alla ne del decimo capitolo nella scena del discorso del papa a Venezia: disseminati in ogni angolo del mondo, dagli Stati Uniti all’Honduras passando dall’Alaska e dall’Africa, i personaggi degli episodi precedenti vengono congiunti dall’omelia ponti cia che svolge lo stesso ruolo delle lettere d’amore lette poco prima dalla voce fuori campo. Quanto alla distanza geogra ca, se essa può intervenire tra i frammenti senza porvi intralci, lo si deve al fatto che la riunione e l’ordine sono due operazioni simultanee nel girotondo di immagini di The young pope: gli istanti visivi possono svolgersi in tempi e luoghi diversi perché un principio di coesione interviene per tenerli insieme. D’altra parte, in un contesto meno ttizio rispetto alla storia di Belardo, Il divo aveva già mostrato la sintonia tra il ricongiungimento delle immagini e la capacità di far chiarezza sulla vicenda narrata quando, scanditi dalle parole di un pentito e dalle note della Danse macabre di Camille Saint-Saëns, gli intrecci illeciti tra lo Stato e Cosa Nostra avevano composto un’unica sequenza illustrando come eventi apparentemente sconnessi fossero, in realtà, legati tra loro227. Tuttavia, malgrado l’equilibrio che interviene nella seconda parte di The young pope risolvendo buona parte delle incertezze degli episodi iniziali, è necessario sottolineare che l’epilogo della vicenda narrata ristabilisce l’inconciliabilità tipica del personaggio di Belardo poiché

l’omelia a Piazza San Marco nisce con lo svenimento estatico del papa, come osservato nel primo capitolo. Ad oggi, il ritorno della confusione nelle battute nali della serie televisiva costituisce una possibilità rara nella lmogra a di Sorrentino nella misura in cui il regista partenopeo predilige gesti liberatori per concludere i propri racconti228. A raddoppiare l’eccezione dell’epilogo di The young pope va aggiunta la conclusione di The new pope, seconda stagione della medesima serie televisiva. Nell’ultimo episodio, tutte le di coltà sembrano essersi risolte: Pio XIII si risveglia miracolosamente dal coma vegetativo, Giovanni Paolo III (John Brannox) abdica in favore del papa che aveva temporaneamente sostituito; quest’ultimo omaggia, a sua volta, Giovanni Paolo III riprendendo pubblicamente le parole commoventi dell’angelus dedicato ai più deboli e alle minoranze. Brannox torna, allora, nella sua amata Inghilterra dove può nalmente dedicarsi alla donna che ama (So a) nel momento stesso in cui, sorprendentemente, si riavvicina ai genitori che lo avevano rinnegato anni prima. Eppure, dopo aver messo ordine alle complessità narrative, è un’immagine più complessa che mette la parola ne alla storia. Belardo parla ai fedeli riuniti in Piazza San Pietro, scende tra la folla e si lascia trasportare da una moltitudine di braccia che lo conducono no alla Basilica. Alcune suore subentrano all’interno dell’edi cio e continuano a sorreggere il papa, il quale, però, ha già esalato l’ultimo respiro. La scena si chiude con l’immagine del corpo del protagonista adagiato dinanzi alla Pietà in una posa simile a quella del Gesù di Michelangelo229. Alla luce di quanto osservato, è lecito a ermare che, tra Fellini e Sorrentino, una forte dissonanza emerge proprio da quelle immagini che, di primo acchito, sembravano segnalare a nità estetiche tra i due registi: le visioni istantanee che sorgono da lunghi movimenti della macchina da presa, la de nizione di spazi chiusi per lo svolgimento della storia, l’interesse per la gura dell’artista in piena crisi, la tendenza a raggruppare i

frammenti in spazi di riunione, specie alla ne della trama lmica. Sono tutte somiglianze che brulicano in super cie ma che celano una discontinuità fondamentale in profondità. Pertanto, fatta eccezione del ritorno dell’ambiguità negli epiloghi di The young pope e The new pope, è possibile comunque sostenere che la possibilità di un disordine nale sia generalmente estranea ai lm di Sorrentino. Non è un caso che la maggior parte delle dissonanze tra i due cineasti sono precedentemente emerse paragonando due lavori dalla struttura simile, ossia Otto e mezzo e Youth230. Le due sequenze nali sono emblematiche in tal senso: in Otto e mezzo, Guido Anselmi è sì convocato a dirigere il girotondo in compagnia del mago Maurice, ma Fellini non gli chiede di ricomporre la disposizione confusionaria delle gure che si tengono per mano. Il contrasto con Youth è agrante nella misura in cui l’ultima direzione d’orchestra di Fred Ballinger non mette soltanto ne all’inerzia e al cinismo del protagonista ma, al contempo, permette a tutti gli altri personaggi in di coltà di liberarsi. Il compositore di Sorrentino non dirige soltanto i musicisti ma anche le immagini che prolungano il concerto e che riguardano le vicende di sua glia, di sua moglie, di Jimmy e persino della massaggiatrice e del defunto Mick, tutti colti in una ssità estranea allo svolgimento della scena principale da cui dipendono, presentati con una successione di rallenty et di espressioni estatiche231. In Sorrentino, i frammenti possono essere cristallizzati no a diventare quasi letteralmente immagini fotogra che perché, in compenso, una forza magnetica interviene mettendoli in movimento l’uno rispetto all’altro. In questo punto diventa palese come il paradigma sorrentiniano dell’ordine stia proprio nel creare i legami, laddove Fellini allenta le relazioni preesistenti tra quelle che erano immagini reali, mentali e mnemoniche rendendole tutte equivalenti. In Otto e mezzo, le visioni ruotano attorno a Guido ma sono tutte illusorie, nate da un lm ttizio abbandonato precocemente, non soltanto meta- lm ma “sogno del lm

nel sogno”232. È per questo motivo che Fred riesce a dirigere e in uenzare i personaggi secondari, laddove Guido non può esercitare alcun controllo, né sugli altri né su se stesso. Pertanto, se è vero che Sorrentino si avvicina al gesto del girotondo, non è in senso felliniano che egli lo concepisce. Alla ne di Youth, la macchina da presa raduna una serie di gure facendo perno su quella del protagonista per a rancarle tutte, da quella centrale a quelle secondarie. Ciononostante, c’è qualcosa da cui Sorrentino non libera i propri personaggi, ossia l’individualità stessa, compatibilmente con la tendenza alla determinazione del singolo osservata nel primo capitolo del nostro lavoro. Adesso, possiamo aggiungervi un particolare che ci tornerà d’aiuto in un punto successivo che dedicheremo alla questione dello “slancio vitale”. Difatti, se in Youth le gure marginali e le immagini frammentarie comunicano con il personaggio principale, sia in qualità di interlocutori reali (il medico) o svolgendo un ruolo prevalentemente mentale (la massaggiatrice), ciò è reso possibile dall’esistenza di uno schema verso il quale le immagini frammentarie tendono e che diventa spesso una tappa indispensabile verso la liberazione, benché, come si vedrà in seguito, la spinta verso la vita nasca da un’immagine più complessa e ambivalente. Si tratta del compromesso dell’ordine che Sorrentino accetta e da cui Fellini non ha mai smesso di prendere le distanze nella misura in cui, nel suo cinema, la festa è un’immagine realmente priva di vincoli, l’unica in grado di assorbire tutte le altre visioni e di aumentare costantemente il proprio volume, “solo e medesimo cristallo in via di sviluppo”233. In Fellini, lo spettacolo è inteso come spazio in cui manca la soluzione, luogo di compresenza di vita e morte in cui “il contrasto” perde la propria natura “sociale” e diventa “assoluto”, “misterioso”, “puramente e semplicemente meta sico”, seguendo un’osservazione di Pier Paolo Pasolini sull’atmosfera de Le notti di Cabiria234. Potremmo dunque delineare i tratti della discontinuità tra i due cineasti in questi termini. Il

cinema di Fellini è animato da una forza centrifuga: le visioni immaginarie prima e i livelli visivi poi235 creano un’accumulazione di immagini frammentarie. Queste ultime raggiungono, ad un tratto, uno spazio in grado di riunirle, come l’harem e il girotondo in Otto e mezzo alla stessa stregua dello spettacolo nale de I clowns. Tuttavia, la totalità ottenuta viene successivamente abbandonata in favore della dispersione, sicché l’unica operazione che resta all’immagine consiste nell’aggiungere un ennesimo ingresso visivo. Quanto a Sorrentino, è la forza centripeta a dettare lo schema dell’immagine, poiché più aumentano le piste visive o narrative, dai personaggi di Youth alle storie di The young pope, più si manifesta la necessità di determinare uno schema in grado di contenerle. Compatibilmente con quanto osservato per la necessaria de nizione per l’individuo, l’istante in Sorrentino è l’elemento che, dopo essersi allontanato, deve ritrovare la propria unità. Il frammento segue lo stesso cammino del bambino che deve ritrovare i propri genitori, come Cheyenne, il protagonista adulto di This must be the place che, dopo la morte del padre, sente il bisogno di dare la caccia al nazista che lo aveva torturato nei campi di sterminio. È forse questa la ragione per cui The young pope costituisce un’eccezione nella lmogra a di Sorrentino: se Cheyenne si riscopre glio cercando nel passato di suo padre, Belardo rimane orfano quando, dopo aver scorto i propri genitori nella folla di Piazza San Marco, li vede nuovamente andare via. Rimanendo orfano, non trovando la strada di casa, Belardo rimette in gioco l’ordine delle sequenze precedenti opponendovi, più problematicamente, il paradosso che contraddistingue la propria natura236. II.1.d Parziale discontinuità con Scorsese: le riunioni distruttive In Youth e in The young pope l’immagine è costruita sull’idea secondo la quale, a dispetto di un’iniziale dispersione, i personaggi o i loni narrativi possono

incontrarsi. Come visto in precedenza, il primo dei due lavori nisce con un ravvicinamento di immagini collocate in luoghi e momenti diversi, mentre il secondo fa chiarezza sulle vicende in corso prima di aprirsi a un nale più ambiguo. In un caso come nell’altro, riscontriamo la tendenza da parte dell’immagine nel trovare una forma di ricomposizione nelle battute conclusive. È proprio su questa speci cità che rileviamo un’a nità con il cinema di Scorsese, specie se riduciamo il campo di indagine ai lm di gangster. Considerati i personaggi e le storie dei lungometraggi in questione, saremo poco sorpresi nel constatare che l’incontro nale corrisponde spesso con un’infelice resa dei conti. A partire da questa osservazione, porteremo avanti l’idea secondo cui tra Scorsese e Sorrentino esiste una parziale discontinuità quanto alla funzione della riunione. Nel primo capitolo del nostro lavoro, abbiamo messo in evidenza come, nonostante la serie di debolezze e di so erenze che in igge ai propri personaggi, Sorrentino privilegiasse il gesto della costruzione, anche a costo di modellare individui sempre più contraddittori. La discontinuità fondamentale osservata con le gure di Fellini veniva, allora, controbilanciata da una più grande vicinanza con quelle di Scorsese. Nel cinema di quest’ultimo, la presenza di personaggi costretti a subire sulla propria pelle di coltà dovute alla posizione di cile che occupano o agli errori che loro stessi commettono è in stretto legame con la possibilità di esacerbare la so erenza iniziale nelle scene conclusive. È proprio in questo punto che incontriamo il principio della resa dei conti: da un lato l’evoluzione della storia favorisce la riunione delle gure che vi hanno preso parte; d’altro canto, però, il ritrovo stesso diventa un momento distruttivo. Abbiamo già rilevato come, in Taxi driver, la contingenza dell’azione si addicesse ad un personaggio paradossale che oscilla tra l’attentato e il sacri cio, in maniera simile allo spirito francescano che Charlie Cappa deve coniugare con la dedizione da apprendista gangster in Mean Street. Esiste,

quindi, un’a nità tra un certo genere di personaggi e un’immagine che fa combaciare la riunione e la disfatta. Nella prima categoria si annoverano: una gura combattuta tra l’amicizia, il lavoro e l’amore che stenta a far coesistere progetti poco compatibili tra loro (Mean streets), un uomo a cui sfugge di mano il consumo di droga e la fame di denaro (Goodfellas) ma anche doppiogiochisti in costante pericolo di morte (The departed). Per tutti loro vale il principio secondo cui l’evoluzione della vicenda provoca un crescente stato di solitudine, a dispetto delle apparenze, quand’anche riuscissero a interagire con i propri complici. Contemporaneamente, spostandoci al di là della sfera individuale, vediamo nascere un’inclinazione a non concepire la riunione come l’occasione per una liberazione ma come una scena di disfacimento. A tal proposito, conviene precisare che, ad eccezione di The departed dove una delle due spie perde progressivamente le coperture e le gure di riferimento, l’abbandono che vivono i protagonisti di Mean streets e di Goodfellas avviene benché questi ultimi siano in compagnia di altri personaggi, a dimostrazione di come l’irrealizzabile non risieda nel ritrovo in sé ma nel fatto che quest’ultimo sia un momento di coesione. Nelle storie in questione, i personaggi possono anche aiutarsi reciprocamente o, quantomeno, essere coinvolti nel progetto che uno di loro porta avanti, ma ciò non preclude l’intervento di una forza che smantella l’armonia iniziale spianando una strada a un epilogo infausto. In un certo qual modo, se è vero che anche in Scorsese esiste il momento del girotondo, che si tratti di un gesto simile al disordine felliniano oppure di una forma di equilibrio come in Sorrentino, è necessario sottolineare che l’incontro nale diventa possibile all’interno dello spazio del duello, come scioglimento di un’unione precaria piuttosto che come consolidamento di legami preesistenti. D’altra parte, se il personaggio si isola dalla persona a cui deve rendere conto, è perché egli sa

che la resa dei conti che lo attende all’orizzonte prende una forma sempre più minacciosa. L’impossibilità di una piena adesione con il gruppo fa da tramite tra la possibilità di un incontro nale e la visione di quest’ultimo come un atto deleterio. In tal senso, Anthony J. Tamburri mostra come, in Mean streets, una delle prime situazioni conviviali contenga già il germe della solitudine del protagonista. Da un lato, il codeswitching nato dalle espressioni di mazzacrist e melinjan che Charlie utilizza per designare due ragazze ebree e una di colore, sottolinea la sua integrazione nella cerchia di “amici vitelloni” a cui l’espressione è rivolta237; pochi istanti dopo, però, una seconda immagine lo coglie in disparte. D’altra parte, seguendo Carol Meyers Scotton e William Ury, lo stesso Tamburri sottolinea che le “commutazioni di codice” del protagonista di Mean streets attengono alla “sfera del potere”238, nella misura i cui i quali cativi peggiorativi sono indirizzati a persone che non ne colgono il signi cato. Ora, abbiamo già avuto modo di vedere come, in Scorsese, il potere sia concepito come uno stato e mero e spesso illusorio, sicché, anche in questo caso, l’adesione al gruppo che Charlie crea con l’esclusività del proprio codice linguistico non esclude il successivo subentrare di un sentimento contrario. A tal proposito, possiamo leggere un passo precedente dell’articolo di Tamburri in cui vengono analizzati i personaggi maschili e una comparsa femminile: Sebbene questi giovani siano spesso assieme al bar, in pratica si trovano da soli nella folla. Ciò si percepisce, a mio parere, quando Johnny Boy entra nel bar con le sue due “amiche”. In questa scena, il concetto di essere accompagnati o meno è in e etti problematizzato in diversi modi. Innanzitutto, abbiamo Johnny Boy e le sue due amiche, con le quali apparentemente (o potenzialmente, potremmo dire) fa coppia. Una di loro, come presto si scoprirà, è destinata a Charlie. Ma, in verità, non c’è

nessuna coppia. […] Sono perfetti sconosciuti, sentimentalmente inappagati e in cerca di una qualunque compagnia che possa, almeno temporaneamente, attenuare la loro deprivazione a ettiva. […] Nella sua unica apparizione in Mean Streets la donna incarna la condizione stessa della solitudine. È seduta in fondo al bancone e occupa uno spazio sico distante da tutti gli altri; tuttavia notiamo che si trova proprio dietro a Charlie, con lo sguardo sso davanti a sé. Quando la telecamera si avvicina a Charlie, per un secondo l’immagine della donna viene del tutto schermata da lui, nel momento in cui porta il bicchiere alla bocca. Non è di cile presumere, specialmente col senno di poi, che i due diventino momentaneamente una cosa sola, ora uniti nel concorrere alla potenziale signi cazione di questa scena.239 Nella lettura di Tamburri, la scena del bar in Mean streets rivela un tratto essenziale della personalità di Charlie tramite un’immagine che fa apparire la solitudine a dispetto della complicità iniziale che traspariva dalla relazione con i suoi amici. La mancanza di totale coesione tra il protagonista e il gruppo è un aspetto che troveremo anche nell’ultima sequenza del lm in cui possiamo apprezzare una costruzione in parallelo cara a Sorrentino. Nel nale, dunque, osserviamo un primo momento di riunione quando vediamo Charlie, Teresa e Johnny Boy discutere uno accanto all’altro dei guai del terzo di cui il primo deve indirettamente rispondere. Tuttavia, compatibilmente con l’impossibilità di una piena unione evocata per la sequenza del bar, anche adesso l’armonia fra i personaggi viene messa a repentaglio, seppur in una maniera diversa, benché il gruppo non dia segni di cedimento dall’interno. Nella fattispecie, a rompere la sintonia iniziale è Michael, uno dei quattro ma osi che seguiamo n dall’inizio, nei confronti del quale Johnny Boy ha contratto un debito cospicuo e che, adesso, si vendica uccidendo brutalmente quest’ultimo (dopo aver accostato la macchina di Charlie, chiede al suo complice

di sparare sul collo della vittima, aspettando poi che il veicolo si schianti su un ostacolo). È proprio in questo punto che incontriamo un procedimento simile a quanto rilevato in Youth e in The young pope. Cosa fa, allora, l’immagine di Scorsese una volta raggiunto l’atto distruttivo? Dopo aver mostrato il corpo moribondo di Johnny Boy che stenta a tenersi in piedi, oltre al braccio di Teresa colto mentre si agita fuori dal nestrino della macchina, in più del fotogramma di Charlie in stato di shock in ginocchio sul lastrico, alcuni frammenti visivi si interpongono alla sequenza principale chiamando in causa personaggi lontani nello spazio. Nascono, allora, i presupposti per creare una riunione di immagini: il boss del clan viene ripreso mentre si siede sulla poltrona e accende la televisione, Tony (il quarto amico) mentre va in bagno, la ballerina di colore vista all’inizio appare per qualche istante mentre fuma una sigaretta in un bar. Persino Micheal, appena allontanatosi dalla scena del crimine, viene lmato nuovamente. Il tutto è coronato dal ritornello di ’O marenariello che appartiene logicamente a un’altra immagine frammentaria, quella della festa di Little Italy, ma che risuona attraversando tutti gli spazi della sequenza nale240. Nella scena di chiusura di Mean streets, una canzone copre la diversità dei frammenti e li tiene insieme come in un girotondo il cui parossismo narrativo coincide con la morte di Johnny Boy. Fino ad allora, il lm aveva privilegiato la successione di brani musicali all’interno della stessa scena o tra una sequenza e l’altra, poi optando per un trattamento diverso al termine della vicenda. In realtà, nella maggior parte dei suoi lavori successivi – specie se si tratta di storie di crimini e di tru e – Scorsese adotterà entrambe le tendenze musicali, talvolta trattando l’immagine come mordente di una successione di piste melodiche, talvolta chiedendo alla musica di ssare insieme una varietà di fotogrammi. Casino è un esempio emblematico della coesistenza di entrambe le opzioni,

poiché, prima del momento della crisi tra Ace e Ginger e della conseguente follia di Nicky, il lm è costruito, per quasi un’ora, su una successione rapida di scene che illustrano teatralmente quanto annunciato dalle voci fuori campo241. Ora, nell’avvicendarsi delle sequenze osserviamo contemporaneamente due operazioni: lo stesso brano attraversa luoghi e momenti diversi e, quando si cambia traccia sonora, il passaggio melodico non coincide con la transizione tra una scenetta e l’altra, ma avviene all’interno dello stesso breve episodio, come nel racconto del primo incontro tra Ace e Ginger. Quest’ultima crea scompiglio nel casinò poi si de la recuperando del denaro mentre ascoltiamo in successione Slippin’ and Slidin’ di Little Richard e Love is strange di Micky and Sylvia. Lo straripamento musicale è un procedimento frequente anche in Goodfellas dove la vita frenetica dei personaggi e lo svolgimento dei loro a ari sporchi vengono spesso associati: la voce del cantante del concerto a cui Henry Hill partecipa in compagnia di sua moglie si di onde nella sequenza successiva che lo ritrae mentre recupera i guadagni della cosiddetta “tru a del secolo”, il colpo che il suo clan ha preparato per recuperare il denaro di alcuni aerei da trasporto della Air France242. Il procedimento è lo stesso che osserviamo in Casino: una canzone collega due frammenti fungendo da tramite, poi svanisce alla ne del secondo sketch, sicché in ogni parentesi visiva esistono due tracce sonore diverse e, al contempo, la stessa traccia sonora può muoversi tra due o più parentesi visive. Ciò che accade sul piano musicale non è altro che un doppio gesto che collega e che distanzia nello stesso tempo, sicché invece di creare un perfetto accordo tra lo svolgimento dell’immagine e la durata del brano, Scorsese impone una discontinuità sia facendo straripare il ritornello nell’immagine seguente, sia di ondendo una seconda traccia all’interno della stessa scena. È interessante notare che questo sfasamento continuo tra la successione musicale e il usso visivo rispecchia quella doppia tendenza che rivolge contro se stesso ogni

momento di ritrovo. Pertanto, in Goodfellas come in Mean streets, è vero il principio secondo cui la stessa forza che congiunge nisce, poi, col creare l’e etto opposto, dividendo o facendo scoppiare – talvolta in senso letterale243 – gli elementi che si ricongiungono. In Goodfellas, il raduno delle componenti nasce da un sovrapporsi di azioni disparate che il protagonista è chiamato a far conciliare: andare a prendere suo fratello dall’ospedale e una parente che arriva all’aeroporto, preparare ragù e cotolette per festeggiare l’evento, recuperare delle armi, ritirare pacchi di cocaina e portarle in un aereo preposto alla spedizione, conservare una dose per prenderne in compagnia della sua amante, il tutto evitando l’elicottero dell’FBI che lo pedina dall’alto. Per un concorso di circostanze da cui, peraltro, deriva la vena comica della scena, tutte le storie in cui è coinvolto con uiscono nello stesso punto e portano ad un risultato identico a quanto rilevato in Mean streets e che potremmo riassumere come segue: se riunite, le componenti narrative sono inconciliabili e la loro incompatibilità provoca la scon tta del personaggio attorno al quale ruotavano. Così, senza troppe sorprese, la sequenza termina con l’arresto di Henry Hill244. In Scorsese, l’incontro o il ritrovo sono momenti distruttivi che di eriscono dalle varianti sorrentiniane in cui i frammenti vengono congiunti per conferire un nuovo ordine. Ciononostante, occorre sottolineare che in entrambi i cineasti la riunione non interviene per disperdere le immagini ma per farle convergere in un punto narrativamente rilevante in grado di racchiuderle, sebbene la conclusione della vicenda sia spesso infausta nei lm del regista di Little Italy. Per completare il quadro degli intrecci tra gli autori converrebbe sottolineare che, contrariamente a Sorrentino, Scorsese non organizza propriamente uno scontro tra le visioni frammentarie e lo scorrimento più rapido delle immagini a cui le prime si riferiscono, come succede nel rapporto tra “ usso” e “ sso” che evidenziavamo per il regista partenopeo tramite

Fellini. Con ciò si intende sottolineare che, in Scorsese, non esiste una vera e propria discontinuità tra gli espedienti utilizzati per presentare le varie faccende che coinvolgono i personaggi e la maniera di mostrare le conseguenze di ogni azione al termine del racconto lmico, considerando che l’epilogo è, come anche in Sorrentino, il momento prediletto per mettere ordine. Difatti, il ritmo scorsesiano non accelera soltanto in prossimità del parossismo narrativo, ma cresce in intensità qualsiasi sia l’attività in cui sono impegnati i personaggi. In Goodfellas e Casino, le parentesi visive e musicali che si susseguono incessantemente componendo lunghe sequenze narrative sono frammentarie soltanto per quanto riguarda la loro durata ma, in realtà, compongono un usso di immagini a cui è di cile mettere un termine. L’utilizzo del sonoro ci dà un’indicazione signi cativa in tal senso, nella misura in cui, come osservato poc’anzi, il brano musicale collega le scenette fra di loro ricordando come il compito di ciascuna sia quello di condurre alla successiva, creando un movimento ininterrotto. Pertanto, è possibile a ermare che, in Scorsese, il frammento ubbidisce alla necessità di creare una uidità visiva piuttosto che alla possibilità di interromperla. Ora, se tra Sorrentino e Fellini, a dispetto di alcune somiglianze super ciali, la discrepanza tra l’ordine e il disordine mostrava un diverso rapporto tra l’istante e la totalità, nel confronto con Scorsese succede il contrario, poiché è a partire da una divergenza che rileviamo un’analogia tra i due cineasti. Se è vero che il regista di Little Italy non concepisce il frammento come fonte di interruzione ma come parte integrante di un usso visivo inarrestabile che esso stesso scandisce ritmicamente, le riunioni di Sorrentino sembrano proprio riproporre quella tendenza scorsesiana a raggruppare musicalmente immagini lontane. Lo abbiamo visto nell’epilogo di Youth e alla ne del nono episodio di The young pope quando due tracce musicali – una sinfonia e una canzone pop – riavvicinano elementi disseminati

o rendo loro un nuovo ordine. In un certo qual modo, quando chiede al frammento di soddisfare le esigenze del usso, creando una continuità tra lo sviluppo iniziale e l’esito della vicenda lmica, Scorsese non mente sull’imprevedibilità e sui rischi del mestiere dei suoi personaggi – che si tratti di ma osi, di in ltrati o, più generalmente, di imbroglioni – e gli e etti che ne derivano, creando un principio secondo cui il parossismo della trama di erisce di poco dagli imprevisti che l’avevano preceduto. Se è vero che, in Goodfellas, ripercorriamo in ashback la storia dei tre protagonisti a partire da un evento scatenante (l’omicidio di Batts), le situazioni che precedono questo momento della fabula non sono meno imprudenti o meno illecite di ciò che vedremo in seguito, compatibilmente con la tendenza documentaria dei lm di gangster di cui parleremo successivamente. Così, piuttosto che sull’opposizione tra una prima immagine frammentaria e una seconda più uida, il regista di Little Italy lavora sull’a evolimento della frontiera che separa, da un lato, il gesto altruistico rivolto in favore del gruppo e, dall’altro, la combinazione di due situazioni egoistiche, quella del personaggio che agisce solo contro tutti e quella del clan che gli si avventa contro. La violenza viene, allora, chiamata in causa per garantire la continuità tra due mosse che dovrebbero situarsi agli antipodi. È forse per questo motivo che le sequenze in cui le immagini o i personaggi si radunano si trasformano sempre in brutali sparatorie. D’altra parte, con Tamburri abbiamo già avuto modo di vedere come, in una delle scene iniziali di Mean streets, la coesione tra Charlie e la cerchia di amici fosse ingannevole o, quantomeno, come essa non precludesse un successivo momento di solitudine. In realtà, è la visione stessa della ma a a reggersi sul principio secondo cui la delimitazione di una “sfera del potere” necessaria all’esclusività del clan si rivela un’operazione illusoria. Di conseguenza, l’atto violento può scagliarsi contro le stesse persone che inizialmente creavano o difendevano il gruppo, quella

s lza di arrivisti che da Mean streets a The wolf of Wall Street, passando da Goodfellas a Casino, fanno di tutto per ottenere il posto più alto della gerarchia. Nella scalata al potere, esse perdono progressivamente il controllo della situazione provocando la vendetta dei membri del loro stesso clan. È il triste destino dei ma osi scorsesiani: Johnny Boy viene ucciso da Michael (Mean streets), Henry Hill collabora con l’FBI dopo che i boss hanno ingannato e assassinato Tommy (Goodfellas), Ace e Nicky si a rontano contendendosi la stessa donna (Casino), Jonathan Belfort viene denunciato dal suo socio in a ari (The wolf of Wall Street), Frank Sheeran è costretto a uccidere il suo amico Jimmy Ho a (The Irishman). In de nitiva, si dirà che, diversamente da Sorrentino, la de nizione di un’immagine culminante in Scorsese avviene senza un vero e proprio apporto del frammento visivo. Allo stesso tempo, come si vedrà successivamente, l’atto distruttivo che prevale nei lm del cineasta di Little Italy, viene sostituito da un gesto liberatorio nei lavori del più giovane regista napoletano, benché la liberazione non sia una prospettiva estranea al cinema di Scorsese. Ora, a dispetto di questa prima discontinuità, è possibile identi care un’a nità quanto alla qualità organica che la riunione assume nei due cineasti. In tal senso, è interessante guardare più da vicino la struttura narrativa di The departed, lm costruito sull’evoluzione simultanea di due gure e due azioni inconciliabili, un poliziotto in ltrato nel clan ma oso del boss Costello (Billy) e un ma oso dello stesso Costello nella polizia (Colin). Le strade dei due protagonisti si incrociano una prima volta, indirettamente, tramite il personaggio di Madolyn, la psicologa della polizia promessa sposa di Colin ma che, ironia della sorte, si innamora di Billy che ha tra i suoi pazienti. Scorsese gioca con gli oggetti per creare legami tra le vicende dando l’impressione di riavvicinare i personaggi anche se, prima dell’epilogo del lm, si tratta solo di richiami visivi che non rompono la costruzione in

parallelo: un’immagine ci mostra una busta di Costello posta sulla scrivania di Colin, poi vediamo Billy consegnare un pacchetto dalla stessa forma a Madolyn, in ne quest’ultima estrarre da un terzo involucro simile, davanti agli occhi di Colin, la prima ecogra a del glio che hanno concepito insieme245. Il vero duello arriverà soltanto nel nale, quando le due talpe verranno scoperte. È in questo punto che incontriamo la peculiarità degli epiloghi sorrentiniani secondo cui l’elucidazione della verità va di pari passo con la riunione dei personaggi e la de nizione di una soluzione alla situazione dispersiva presentata inizialmente. L’unica di erenza con Sorrentino sta nel fatto che la soluzione di Scorsese è distruttiva diversamente da quelle del più giovane regista. Così, il nale di The departed, si riassume in una lunga sequenza in cui i protagonisti muoiono uno dopo l’altro, ognuno di loro tradito da una persona che credevano fosse dalla loro parte. Colin è l’unico a sopravvivere ma verrà ucciso nell’ultima immagine del lm da un u ciale di polizia che lui stesso aveva fatto licenziare in precedenza246. II.2. La composizione eterogenea II.2.a Dall’intervallo alla molteplicità Anticipando ciò che osserveremo nelle pagine seguenti e facendo tesoro di quanto riscontrato nel primo capitolo rispetto alla de nizione grottesca dell’individuo, si dirà che in Sorrentino esiste una propensione a far coesistere delle componenti eterogenee. In assenza di una de nizione più dettagliata che ci promettiamo di elaborare gradualmente, possiamo già preannunciare che per composizione eterogena si intende un’inclinazione ad associare visioni e registri discordanti nei confronti dei quali non viene applicato un principio di continuità in grado di colmare la distanza che li separa. Al contrario, il procedimento sorrentiniano fa saltare all’occhio lo scarto tra una componente e l’altra, sicché a emergere non sono un’immagine e una scrittura protese verso l’unità, bensì una duplice forma fondata sull’ambivalenza e sulla

dissonanza. Su quetso punto, ci sembra che i lavori di Sorrentino risentano dell’in uenza di Fellini e di Scorsese. Per fornire una base teorica più solida all’idea di eterogeneità di cui tratteremo in questa parte del lavoro converrà rifarci ad alcuni spunti di Gillo Dor es e di Gilles Deleuze. La ri essione di Dor es ne L’intervallo perduto nasce dal bisogno di segnare un distacco rispetto a un certo approccio critico dell’arte, cambio di rotta dovuto al confronto tra il “tutto organico” come principio di analisi dell’opera e una generale “perdita di ducia” suggerita dal panorama artistico tardo novecentesco247. L’osservazione di partenza di Dor es è una domanda rivolta a quelle che vengono de nite come le correnti critiche a ermate sul territorio italiano: la semiotica, la psicologia gestaltista e la fenomenologia husserliana. Nella fattispecie, ne L’intervallo perduto ci si chiede se le tendenze critiche fondate sulla continuità e sul lo logico siano in grado di proporre un discorso su un’arte in cui ciò che conta sono la discontinuità e il “fattore diastematico”, con quest’ultimo che va inteso come distanza non “graduale” ma “strutturale”248. In una parte successiva dell’opera, Dor es mostra una predilezione per la tendenza gestaltica, dal momento che, se si ammette che il lavoro dell’artista viene scandito dallo scarto, il rapporto gurasfondo della gestaltpsychologie appare immediatamente come un approccio in grado di accoglierne la misura. Ma, più generalmente, ciò che emerge ne L’intervallo perduto è il bisogno di de nire un piano iniziale da cui l’arte si muove per contrasto. Il discorso sull’intervallo che sviluppiamo adesso a partire da Dor es si rivela determinante dal momento che le costruzioni eterogene sorrentiniane sono fondate sulla possibilità di inserire e di rendere visibile uno scarto tra due elementi visivi nei confronti dei quali la continuità si rivela inadatta. In tal senso, l’allontanamento dallo sfondo di partenza di cui leggiamo ne L’intervallo perduto si rivela particolarmente

signi cativo poiché tale idea permette di pensare una speci cità dell’espressione artistica. In Deleuze come in Dor es, rileviamo la necessità di esplicitare un piano di sistematicità per poi dar voce alla discrepanza prodotta dal lavoro creativo. Qui è concentrata la speci cità dell’immagine-tempo deleuziana: l’intervallo cinematogra co non è più una linea di con ne o un raccordo tra due termini ma un elemento libero e autonomo. A questo proposito, Jacques Rancière osserva giustamente come ciò che si promuove nei due volumi sul cinema di Deleuze sia la restituzione di un tempo proprio alle immagini del mondo, con queste ultime che si a rancano dalle struttura di causalità e nalità imposte dal cervello, ciò che Rancière chiama “redenzione contrastata”. In Dor es, la questione è analoga ma soltanto rispetto alla spinta del movimento di distacco249. Ciò che di erisce tra Dor es e Deleuze è l’identi cazione del piano di partenza, nella misura in cui il secondo promuove l’abbandono di linearità schematiche, laddove il primo trova nel piano antropologico una spinta per il proprio approccio estetico. Gli elementi che compongono il riferimento iniziale de L’intervallo perduto sono esseri umani inclusi nell’insieme del mondo senza intervallo, “un usso di eventi inarrestabile e tumultuoso”250 che l’autore fa corrispondere alla civiltà dei consumi. Tale osservazione costituisce precisamente il punto di raccordo tra le due parti che si sovrappongono ne L’intervallo perduto. In Dor es, cioè, il livello contestuale della società senza pausa non è soltanto ciò contro cui si muove l’opera d’arte, bensì l’unica strada percorribile per il lavoro creativo: se l’arte vuol dire intervallo, allora il suo compito consiste nel farlo apparire. Pertanto, l’unica soluzione possibile diventa la via della compensazione e si veri ca con il recupero da parte dell’artista di quello scarto inghiottito dalla quotidianità. Per completare una certa tendenza normativa nella de nizione dor esiana di intervallo, converrà so ermarci su alcuni passaggi di Che cos’è la loso a?, opera che Deleuze pubblica con Félix

Guattari nel 1991. Altri elementi signi cativi a tal proposito rintracciabili nella conferenza che lo stesso Deleuze aveva pronunciato a La Fémis nel 1987 poi pubblicata con il titolo Che cos’è l’atto di creazione?251. Nel primo lavoro, la questione della relazione tra loso a, scienza e arte diventa un unico insieme rilevante che propone una risposta alla questione sollevata nel titolo. In maniera simile a quanto osservato ne L’immagine-tempo, in Deleuze – con e senza Guattari – appare chiara l’esigenza di tenere insieme le tre discipline appena citate. La questione non sta tanto nel sapere se le tre unità hanno una natura analoga; esse de niscono le “grandi forme del pensiero” ma non per questo operano nello stesso modo252. La questione è molto complessa e meriterebbe un tempo e un’attenzione a parte. Tuttavia, possiamo rilevare almeno l’elemento seguente: rispetto a ciò che producono, le tre componenti de niscono rispettivamente un piano; ognuno dei tre livelli si incarica di gestire un rapporto sia con “il caos” e con “l’in nito”, creando dunque tre tendenze: il “piano di immanenza” delineato dal losofo porta all’in nito la consistenza delle “componenti eterogenee” che fabbricano il concetto253, quello del matematico rinuncia all’in nito per ottenere un riferimento, quello dell’artista crea un nito in grado, poi, di riportare a un in nito, come nell’immagine-tempo cinematogra ca254. Seppure contraddistinte da tre coordinate diverse, le tre discipline riescono ad intrecciarsi, benché, al contempo una sintesi dei tre livelli rimanga impossibile (ognuno di essi resta autonomo pur disegnando legami con gli altri). Tra le conseguenze di quanto appena presentato, ciò su cui vogliamo attirare l’attenzione è che la doppia tendenza non contradditoria tra indipendenza e connessione si spiega con l’intervento della “creazione”, parametro comune a tutte e tre le discipline eppure diversa in ciascuna di esse. Senza consistenza benché attiva in ciò che viene prodotto, la creazione permette il dinamismo del piano e determina il movimento tra le varie componenti formando “serie

eterogenee”255. È una conseguenza della questione del limite che percorre il pensiero deleuziano sin da Di erenza e ripetizione: la loso a mette da parte l’organizzazione di un concetto rispetto ai con ni di identità e di rappresentazione per liberarsi secondo uno sviluppo orizzontale, rispetto a un cambiamento costante. Lo stesso accade per l’arte nella misura in cui l’artista non è più imprigionato nell’antitesi o nella sintesi tra due unità ma può renderle compresenti e indiscernibili256. Pertanto, in una loso a del divenire costante e in una visione dell’arte come possibilità con ittuale, l’interesse non ricade né sull’origine né sulla conclusione di una successione tra due o più elementi, ma sulla di erenza che li separa. È proprio in questo spazio intervallare che interviene la creazione. Alla luce di quanto osservato in Dor es e Deleuze, sarà possibile cogliere come l’intervallo e la composizione eterogenea permettano a Sorrentino di controbilanciare una certa schematicità di cui l’ordine dei frammenti ci ha fornito un esempio concreto. Con l’eterogeneità si potrà, dunque, superare la linearità della costruzione narrativa tipica dei lavori del regista partenopeo dove, nonostante la generale debolezza dell’azione, possiamo sempre identi care una situazione di partenza, un’evoluzione e una conclusione della vicenda. Per completare il nostro preambolo teorico, è opportuno guardare più da vicino la nozione di “di erenza” in Deleuze. In Di erenza e ripetizione, il losofo si dà come obiettivo quello di “de nire la di erenza in sé”, ossia “indipendentemente dalle forme della 257 rappresentazione” . L’allontanamento da quest’ultima è un’operazione complessa poiché essa svolge un ruolo determinante rispetto al sistema dello “Stesso” e dell’“Identico” da cui la “di erenza” e la “ripetizione” prendono le distanze. Per eludere tali rischi, Deleuze fa perno sulla nozione di “negativo” a cui viene dedicata un’attenzione particolare. Il losofo osserva che una logica che distingue gli elementi gli uni dagli altri applica una

dicotomia in cui “positivo” e “negativo” non possono che disporsi specularmente. L’ostacolo nasce, allora, dalla constatazione che in molti casi questa disposizione contrastiva perde di vista la realtà. L’esempio che Deleuze propone è quello della lingua: la fonologia e la linguistica – specie quella di tradizione saussuriana – sbagliano nel fornire un esempio di pluralità ponendo la varietà degli elementi soltanto rispetto all’opposizione258. Il problema che si crea in una con gurazione di questo genere sta nel fatto che anche un’entità popolata da di erenze come la lingua sarebbe costretta a relegare queste ultime in una sfera astratta di virtualità. L’esempio dei fonemi, che Deleuze riprende da Gustave Guillaume, illustra bene questo comportamento: se posti in una sfera di possibilità, in una virtualità solo possibile, essi appaiono esclusivamente rispetto alla distinzione che li contraddistingue, come punti tenuti a distanza. Potenzialmente possono agire mettendosi in contatto ma, in una logica in cui il “virtuale” coincide con il “possibile”, essi sono inattivi prima di avere un’applicazione reale. Tutto il sistema cambia e con esso il ruolo del negativo quando dal binomio “possibile-reale” si passa al binomio “virtuale-attuale”. Adesso, non si distingue più tra un fonema potenziale e un fonema in azione in una parola costruita, ma si osserveranno fonemi disposti secondo “un principio di posizione di erenziale”259, principio che mette in risalto una rete plurale: “rapporti reciproci”, elementi che “si incarnano in termini e forme variate”, senza “funzione assegnabile” e privi di un “signi cato concettuale”260. Parallelamente, Deleuze ritiene opportuno sottolineare che, in Guillaume, il rapporto tra morfologia e fonologia viene de nito come di erenza problematica e non come dissonanza. La parentesi sulla linguistica permette al losofo di a rontare diversamente la questione del negativo, sicché, alla domanda su come criticarlo e cacemente, Deleuze risponde proponendo “un’a ermazione multipla”, ossia introducendo “la molteplicità” come modalità dell’Idea. Si arriva dunque a

una visione dell’Idea non più come varietà ma come una molteplicità in cui nessun termine è dato in anticipo e ciascun elemento determinabile secondo la relazione che stabilisce con gli altri. In una struttura di questo tipo, diventa più agevole capire come Deleuze faccia scomparire il negativo261 in favore della “di erenza”, in favore cioè di un’Idea che si dirama invece di convergere verso una de nizione. Al contempo, l’operazione stessa del losofo non consiste più nello svelare un contenuto nascosto nella forma ideale ma nell’esplorarne il tessuto e l’articolazione. La possibilità di una diramazione per l’Idea a scapito della tendenza verso una de nizione univoca in campo loso co e linguistico mostra alcune a nità con un aspetto dei lavori di Sorrentino, nonché con alcuni punti della lmogra a di Fellini e Scorsese. L’analogia che esiste tra “l’intervallo” dor esiano e, d’altro canto, “la creazione” e “la molteplicità” deleuziane ci permette di a rontare con più strumenti critici la questione della composizione eterogenea in Sorrentino. II.2.b Le cacofonie felliniane e il superamento della narrazione in The young pope Nella scena della festa di carnevale ne I vitelloni, alla saturazione delle inquadrature con la folla che occupa tutto il campo visivo corrisponde un aumento del livello sonoro dovuto alla musica del ballo e al vociare dei festaioli. Tuttavia, a dispetto del rumore, le voci dei personaggi principali rimangono perfettamente identi cabili tanto da permetterci di seguire le vicende personali di ciascun vitellone, tra un tentativo di seduzione, una lite tra coniugi e un walzer tra amici262. In un lavoro di gioventù come I vitelloni, il sovraccarico sonoro non è un intralcio allo sviluppo del racconto ma lo accompagna de nendo un punto di snodo sotto l’egida dello spettacolo. La situazione dell’accavallamento delle voci è molto diversa a partire da La dolce vita. In quest’ultimo lm e nei due successivi (Otto e mezzo e Giulietta degli spiriti) Fellini lavora su un tipo di cacofonia

che non segue più la linearità narrativa ma vale come elemento dissonate in sé, o rendo uno spunto interessante per cogliere l’eterogeneità sorrentiniana. In Otto e mezzo, Guido Anselmi partecipa a una cena in compagnia del suo produttore e di altri collaboratori del lm; allo stesso tavolo sono seduti: un amico del protagonista chiamato Mario Mezzabotta, la danzata di quest’ultimo (Gloria), un’attrice francese che ancora non conosce il personaggio che interpreterà nel lm in preparazione e la giovanissima compagna del produttore, mentre al tavolo accanto vediamo Carla, l’amante di Guido. La riunione di personaggi in contesti mondani è un terreno fertile per mettere in piedi il procedimento della dispersione delle voci. Difatti, sebbene gli scambi di battute ruotino attorno a una gura principale (Guido in questo caso), non esiste nessuna coerenza tra le frasi che vengono pronunciate, come se i dialoganti fossero allo stesso tempo tutti insieme e ognuno per conto proprio. Il risultato è un susseguirsi di proposizioni incongrue: “Lei è di destra o di sinistra?” chiede un giornalista a Guido, mentre ascoltiamo Gloria rivolgersi all’attrice francese per sapere se le piacciono gli asparagi. In maniera simile, la domanda del giornalista sul numero di pose previste per il lm viene seguita da quella di Mezzabotta che confessa a Guido di amare Gloria malgrado i suoi numerosi difetti. Il tutto viene coronato da una battuta del protagonista che, guardando il cerchietto dell’attrice francese, a erma: “lumachina, petit escargot”263. A immagine dell’epilogo del lm, nella scena in questione sono compiuti due gesti contrari: vengono disseminate frasi incongrue in un contesto di riunione, mentre battute dai registri radicalmente diversi si articolano fra di loro. La cacofonia si costruisce, dunque, tenendo insieme sia la divisione che si crea in uno spazio di aggregazione sia il ricongiungimento che viene a generarsi a dispetto della distanza fra le battute. La situazione è analoga nella scena di apertura di Giulietta degli spiriti in cui la protagonista aspetta il ritorno a casa di suo marito per festeggiare

romanticamente il loro anniversario di matrimonio. Contrariamente alle aspettative iniziali, l’arrivo improvviso di amici e conoscenti costringerà Giulietta a stravolgere i piani della serata. La cacofonia entra in scena insieme all’inattesa dimensione mondana e ogni forma di armonia sonora viene meno nella confusione che i festaioli creano inopportunamente a casa della protagonista: “è spaventato questo cane. Non so, sono due giorni che è così nervoso. […] Ah Giulietta, non te l’ho presentato, quello è Genius, il più grande radioestesista del mondo”. La telecamera si muove senza soluzione di continuità e passa da un personaggio all’altro lasciando a ciascuno una battuta: “Giulietta è sempre una gioia rivederti”, dice un uomo mentre un altro personaggio a erma quasi in contemporanea: “l’astrologia, mi creda, è proprio una scienza a ascinante”264. Ora, a dispetto dell’accumulo delle frasi, non abbiamo quasi nessuna replica da parte dei diretti interessati: Giulietta si rifugia nelle proprie immagini mentali, mentre Guido si limita a sorrisi distratti o frasi vaghe con cui, nella migliore delle ipotesi, informa il proprio interlocutore che risponderà alla sua domanda in un secondo momento, in quell’eterno procrastinare in un futuro per cui, in realtà, non è previsto niente, compreso il lm che dovrebbe girare. Nel mescolarsi di immagini reali e frammenti mentali sempre più indistinguibili tra di loro, la conferenza stampa del nale di Otto e mezzo265 mostra con precisione l’impossibilità dello scambio che comporta la cacofonia, nonché la necessità di concepire l’accavallamento sonoro come una componente valida al di là della reciprocità dialogica. In tal senso, l’esempio de La dolce vita è ancora più esplicito poiché si veri ca prima di qualsiasi confusione tra la realtà e il sogno. La sequenza della conferenza stampa organizzata per l’arrivo della famosa attrice americana (Sylvia) è emblematica della scomposizione sonora delle mondanità felliniane. Da un lato, osserviamo l’e etto ironico già riscontrato in Otto e mezzo con l’incongruenza nella successione delle

domande: “que pensez-vous, Madame, de la Nouvelle Vague?” e “please Miss, le piacciono gli uomini con la barba?” pronunciate a pochi secondi di distanza una dall’altra. Inoltre, notiamo che la risposta giunge raramente e viene formulata soltanto per quesiti aneddotici: “le piace la cucina italiana?”, “cosa preferisce nella vita?”266. Perché, allora, queste tre sequenze di Fellini si rivelano così importanti per il nostro discorso sulle composizioni eterogenee in Sorrentino? La risposta risiede nel fatto che nel regista di Rimini la cacofonia mondana si dissocia da qualsiasi tentativo di far emergere un dialogo all’interno della confusione sonora, se non fosse per pochi cliché che ancora sopravvivono come appena visto ne La dolce vita. Al contrario, il principio delle cacofonie felliniane consiste proprio nel prendere una pluralità di voci senza farle convergere nel momento culminante del dialogo. La successione vocale non richiede in alcun modo l’intervento di un principio di armonia, poiché l’unica volontà è quella di far emergere lo scontro tramite la confusione che caratterizza il parlato. Pertanto, si dirà che in queste scene Fellini rende udibile ciò che separa le frasi invece di indicare ciò che potrebbe congiungerle e riportarle all’unità. In tal senso, ricorderemo delle associazioni tipiche del disordine sonoro felliniano: una battuta ironica e una confessione drammatica, una domanda banale e un interrogativo complesso, una frase in dialetto ed un’altra in lingua straniera. Privato di uno scambio vero e proprio, lo scompiglio vocale delle mondanità trova uno spazio fecondo nell’intervallo, secondo l’accezione di Dor es precedentemente evocata, inteso come spazio diastematico grazie al quale l’immagine si allontana dall’unità, nonché dalla convergenza di domanda e risposta verso un obiettivo unico che coinciderebbe con il tanto atteso dialogo. In assenza di una vera e propria reciprocità, il ruolo della parola è orientato agli antipodi della comunicazione, sicché ciò che si propone come mezzo dialogico non è altro che la sua antitesi. Tutto ciò

avviene a una condizione, tratto che ci riporta al cinema di Sorrentino e che potremmo formulare come segue: la cacofonia non va considerata come difetto della dimensione sonora, bensì come una doppia possibilità simultanea. L’accavallamento vocale diventa, allora, un’autentica modalità verbale pur restando in quella che, in apparenza, sembrerebbe la sfera dell’incomunicabile. Pertanto, se nei suddetti lm il caos sonoro non è una dimensione da cui ricavare una frase in particolare, rendendola in un certo senso più rilevante rispetto alle altre, diventa lecito sostenere che Fellini non concepisce il disordine sonoro come privazione di uno scambio non avvenuto. Al contrario, il cineasta organizza un’immagine in cui l’ascolto si compone allo stesso tempo di due aspetti antitetici, nella misura in cui il dialogo viene costruito da ciò che ne impedisce la realizzazione. È in questo punto che le cacofonie felliniane si compongono in maniera eterogenea, ricordando come, in Deleuze, “la di erenza in sé” e “l’a ermazione multipla” non siano fondate né sul negativo né sull’opposizione. La “di erenza” delle cacofonie è strettamente legata a un trattamento sonoro, ma il procedimento felliniano è trascrivibile sul piano più ampio della costruzione visiva. Tra le speci cità di buona parte delle serie televisive attuali vi è, forse, quella di far evolvere più storie contemporaneamente sfruttando un formato più esteso rispetto a quello di un lungometraggio destinato al grande schermo. Tale tendenza è ravvisabile in The young pope dal momento in cui, oltre alle vicende di Pio XIII, veniamo progressivamente a conoscenza delle storie delle gure secondarie le quali, analogamente ai protagonisti del cinema di Sorrentino, posseggono una profondità drammatica a cui viene attribuito un posto narrativamente rilevante. Sono personaggi alle prese con problemi attuali o traumi del passato, persone a cui manca qualcosa o che nascondono un segreto. In The young pope, questa regola vale per quasi tutti i cardinali: Spencer è consumato dalla gelosia nei confronti del

proprio allievo diventato papa al posto suo, Voiello si occupa di Girolamo, un adolescente a etto da sindrome di Down, Gutierrez è alcolizzato, Dussolier combatte la ma a honduregna e ha una relazione bisessuale libertina. Anche Suor Mary, che ha accudito il trovatello Lenny, vede la propria gura materna respinta dal giovane papa, quel glio adottivo che adesso è diventato un leader autoritario e, per certi versi, indecifrabile. Nei momenti di sconforto o di apprensione, la vediamo giocare da sola a basket, immagine che rimanda alla memoria di Belardo in cui la donna viene spesso ricordata per la sua destrezza sul campo da pallacanestro267. Inoltre, come i cardinali, anche Suor Mary custodisce un segreto, di cui solo Dussolier viene messo a conoscenza, poiché è orfana proprio come il papa268. Ora, sebbene una serie di narrazioni evolvano autonomamente intrecciandosi talvolta con altri loni speci ci, una seconda tendenza tiene a distanza le componenti della fabula. In tal senso, il discorso precedente sull’eterogeneità delle cacofonie felliniane può rivelarsi di grande aiuto. L’ipotesi che vogliamo esplorare nasce, in parte, da un suggerimento dello stesso Sorrentino che in un’intervista ringrazia i propri produttori per la libertà o ertagli nella costruzione e nella regia di The young pope, de nendo il suo lavoro come un’opera unica, “un lm di dieci ore” piuttosto che una storia suddivisa in altrettanti capitoli269. Pensando la serie televisiva come un blocco unitario, il regista tenta di liberala dai vincoli narrativi ricorrenti che subordinano l’immagine a una costruzione progressiva basata sull’evoluzione e l’intersezione delle storie. Senza negare la presenza di questa inclinazione più tradizionale in The young pope, è opportuno osservare come Sorrentino promuova anche una tendenza contraria fondata sull’interruzione. Diversi loni narrativi sono portati avanti nel quinto e sesto episodio: il senso di abbandono che appare sin dal primo fotogramma dell’episodio cinque quando Belardo immagina se stesso adulto a Venezia costretto a guardare i genitori che lo lasciano in una

Piazza San Marco deserta270, la storia di Gutierrez, il cardinale fragile e tormentato di cui il papa ha scoperto l’alcolismo e che viene designato per occuparsi di un caso di pedo lia a New York271, ma anche la vita libertina e l’impegno politico di Dussolier a cui vengono dedicati due frammenti all’inizio del sesto capitolo272. In aggiunta, riscontriamo una continuità tra i due episodi rispetto alla questione del potere politico che il papa a erma con arroganza prima dinanzi ai cardinali, poi di fronte al Presidente del Consiglio italiano e, in ne, più ironicamente, davanti a una congregazione di francescani273. A ciò si aggiunge il tema del miracolo declinato con immagini disparate, tra la gravidanza della sterile Esther, le visioni del passato riguardanti il primo miracolo del giovane Lenny 274, oppure, per contrasto, alla presunta apparizione della Vergine dinanzi agli occhi di un certo Tonino Pettola. Da un lato, osserviamo una continuità narrativa che, come spesso accade nelle serie televisive, si protrae da un capitolo all’altro permettendo alle vicende personali di incrociarsi in alcuni punti del racconto attraverso scoperte o confessioni di vario genere (basti pensare alla scena in cui Suor Mary scruta Voiello mentre parla con Girolamo275, tenendo a mente che tutta la rivalità politica tra il suddetto cardinale e Belardo è costruita come un gioco di spionaggio e controspionaggio). D’altro canto, però, osservando l’evoluzione dei loni del racconto, è lecito chiedersi se ognuna di queste storie parallele conduce soltanto verso la propria conclusione narrativa in uenzando, strada facendo, la vicenda di un altro personaggio, oppure se un intervallo viene conservato tra i frammenti della fabula, quand’anche l’evoluzione del racconto dovesse farli incontrare. Cosa succede, dunque, alla ne del sesto episodio? Nell’ultima scena vediamo due personaggi: Lenny Belardo che fa esercizi ginnici e, lontano dai suoi occhi, l’adolescente che è stato cacciato dal seminario per le sue presunte tendenze omosessuali. Il giovane si reca sul tetto della basilica di San Pietro e si suicida lasciandosi

cadere. Un secondo dopo, vediamo Belardo accendere una sigaretta e guardare l’accendino su cui è riportata in maiuscolo la scritta Venezia, città a cui, come detto, è associato il ricordo dei genitori276. A prima vista, l’epilogo del sesto episodio sembra riprendere due dei loni narrativi sviluppati in precedenza, quello del seminarista che viene espulso a causa dei nuovi test psicologici omofobi di Belardo e quello più frequente del senso di abbandono di un papa che non ha mai smesso di sentirsi orfano. In un primo momento, si potrebbe pensare a una collisione tra il ponte ce reazionario e il seminarista di cui provoca indirettamente la morte, ma è forse opportuno pensare che le due componenti della sequenza siano più vicine di quanto la relazione causa-e etto e il binomio carne ce-vittima lascino presagire. Qualora si volesse descrivere l’andamento degli eventi, non sarebbe a atto erroneo a ermare che Belardo è all’origine della scomparsa del giovane. D’altro canto, però, la scena in questione possiede una portata visiva che supera la linearità narrativa. Si prenda il momento del suicidio in cui vengono messi a confronto due movimenti contrari: il seminarista compie un tu o verso il basso mentre la telecamera si so erma sul lancio verso l’alto di lanterne volanti da parte dei venditori ambulanti in Piazza San Pietro. L’immagine contiene qualcosa che supera la successione lineare degli eventi precedentemente riportati e la sorprendente vicinanza che esiste tra i due gesti – quello del suicidio del seminarista e quello del papa che osserva a itto l’accendino – dipende proprio dal rapporto che questi due frammenti visivi stabiliscono con i loni narrativi anteriori. Pertanto, più che individuare nel papa il motivo dell’azione del suicidio, ci accorgiamo che si viene a creare un’a nità imprevista fra i due fotogrammi nella misura in cui entrambe le tristezze si rivelano imparagonabili a quanto osservato in precedenza. In altri termini, l’apparente rapporto causa-e etto della ne del sesto episodio genera, in realtà, un’immagine coesa la cui speci cità sta nel de nire un intervallo e una dissonanza

con qualsiasi altro frammento narrativo costruito anteriormente: che si tratti della visione mentale dell’abbandono, dei giochi di potere, dei tormenti dei cardinali e delle apprensioni di Suor Mary, l’epilogo del sesto episodio non si collega alle scene che l’hanno anticipato ma appare per l’incommensurabilità che lo distingue da esse. Il susseguirsi delle azioni si ferma e l’immagine si cristallizza in una sfumatura ottica e in una plastica: Belardo non può fare altro che guardare un piccolo oggetto, il seminarista compie un gesto senza ritorno che viene raddoppiato da un movimento uguale e contrario (quello delle lanterne volanti), che lo ssa nello spazio in un’asse verticale invisibile e che lo scosta dalle vicissitudini della trama lmica. È in tal senso che ritroviamo un comportamento simile all’intervallo di Dor es nella misura in cui il concatenarsi delle immagini predilige l’interruzione alla coerenza o, quantomeno, lo schema narrativamente coerente secondo cui Belardo è responsabile della morte del giovane viene raddoppiato da un’a nità tra i due personaggi che situa la scena in questione al di là delle esigenze della fabula. È per questo motivo che, tra il quinto e il sesto episodio di The young pope notiamo un comportamento simile alle cacofonie felliniane. Nel sesto episodio, il punto culminante delle sequenze narrative non è ciò che le accomuna, diversamente dal nono episodio, ma una scena che si distingue da qualsiasi altra immagine. Questa maniera di procedere per contrasto ci riporta alla capacità di Fellini di rendere manifesto ciò che tiene a distanza le battute invece di costruire un dialogo in grado di uni carle: Fellini rende udibile la distanza tra le battute, Sorrentino rende visibile il divario incommensurabile tra una scena e le storie che l’hanno preceduta. Cosa comporta, allora, la scena di The young pope riportata poc’anzi? Siamo dinanzi a una sequenza che di erisce dalle altre e che, invece di contenerle in una struttura ordinata, fa emergere un’immagine dall’intensità inedita, come se una so erenza latente trovasse un terreno fertile per

manifestarsi nel suicidio del seminarista e nell’avvilimento del papa. È per questo motivo che l’immagine può diventare ottica e plastica. Al termine di una pluralità di storie che vengono costruite nei primi sei capitoli della serie, la narrazione si ferma e crea contemporaneamente nuovi punti di partenza, in senso gurato o letterale: Esther va via dal Vaticano senza avvisare il papa, Dussolier riparte in Honduras e non tornerà più, Gutierrez esce per la prima volta dopo anni passati tra le mura del Vaticano creando, di fatto, l’unica parentesi lontano dalla gura del papa. Le partenze e gli imprevisti che ne derivano non sono un’estensione delle situazioni che le hanno precedute, bensì il punto in cui l’immagine è costretta a fermarsi per raggiungere un valore no ad allora inedito. Pertanto, non saremo sorpresi nel notare che anche l’altra scena della morte, quella causata dalla vendetta del boss honduregno su Dussolier che vedremo nell’episodio successivo, non conduce a una nuova complicazione sul piano narrativo ma ripropone la stessa visione che abbiamo alla ne del sesto episodio, ossia, per l’appunto, l’impossibilità di cambiare l’andamento degli eventi, come indicano il gesto disperato del seminarista e lo sguardo rassegnato del papa. In questo momento di The young pope vengono a formarsi immagini la cui portata va ben oltre le esigenze dello story-telling introducendo, così, un frammento visivo che vi si dissocia: la so erenza nella sua massima espressione e in prossimità della morte. È forse per questo motivo che né il suicidio del seminarista né l’omicidio di Dussolier verranno propriamente discussi negli episodi successivi. Se le cacofonie felliniane determinano una sfera sonora tramite l’assenza di dialogo concependo la dispersione delle voci come componente vocale valida in sé, qualcosa di analogo accade sul piano della costruzione del racconto in The young pope. Come detto, nel sesto episodio, l’immagine della so erenza è ben distinta dai vari loni narrativi che la precedono: non siamo più dinanzi alle

azioni fallimentari e rocambolesche che indebolivano il potere d’azione dei protagonisti maschili277, ma a visioni profonde e contemplative che si oppongono alla costruzione e agli intrecci degli episodi anteriori, divergenza dovuta al fatto che l’azione lascia il posto a una composizione essenzialmente ottica e plastica. Tuttavia, l’arresto narrativo in Sorrentino non entra in con itto con la fabula ma le permette di proseguire proprio in virtù dell’e etto della visione inedita. Lo scontro tra, da un lato, il dinamismo narrativo di una trama sempre più avvincente e, dall’altro, la ssità plastica di una scena speci ca diventa, dunque, il motore di un’immagine che necessita ancora di essere prolungata, creando una successione tra opposizione e rilancio. Se è vero, dunque, come è stato più volte sottolineato dalla critica, che Sorrentino è un cineasta dalle immagini estatiche e stravaganti, la portata contemplativa di alcune sue scene non entra in contraddizione con il delinearsi di una trama ben de nita. Di conseguenza, l’istante di matrice felliniana che riscontriamo in molte sequenze di Sorrentino – si pensi, a titolo d’esempio, allo sguardo in camera della bambina che fa action painting ne La grande bellezza278 – non è sinonimo di dispersione della vicenda narrata ma un frammento perfettamente integrato in un susseguirsi di immagini di cui si mostrerà l’esito o l’evoluzione. Si prenda la scena della prima serata mondana nel lm appena citato: dopo aver ripreso la calca che balla sul terrazzo di Jep Gambardella, la macchina da presa si dirige verso uno spazio adiacente e isolato dalla festa. Qui, in una vetrina chiusa, esclusa dal chiasso della musica e del vociare dei personaggi, vediamo una ballerina di burlesque che si muove al ritmo di una dolce melodia. Dal frastuono si passa alla leggerezza sonora ma, un attimo dopo, si ritorna alla confusione della pista da ballo dove vediamo apparire il protagonista279. Muovendosi da un’estremità all’altra per poi tornare al punto di partenza, l’immagine di Sorrentino non perde di vista la situazione principale, ma procede dal racconto alla

visione contemplativa per poi tornare al primo dei due. Tuttavia, questo ritorno alla scena iniziale dopo la parentesi extra-narrativa avviene a condizione di far subire alla diegesi il peso di un’immagine antinomica. Questo doppio atteggiamento non è casuale se si pensa alla volontà da parte del regista di “entrare nei multiplex” con le sue storie piuttosto che aderire a “un cinema di nicchia”280 privo di qualsiasi punto di riferimento narrativo. D’altra parte, abbiamo già avuto modo di vedere come la struttura in grado di accogliere i frammenti sorrentiniani fosse quella dell’ordine e non quella della confusione. Ora, se questa scena de La grande bellezza rivela come l’antinomia resti legata allo sviluppo del racconto lmico tramite la successione tra a ermazione e opposizione, in The young pope osserviamo l’intervento di un terzo atto che potremmo de nire “rilancio”. Nell’ottavo episodio, il papa sembra aver superato l’iniziale chiusura mentale decidendo di recarsi in Africa dove una suora missionaria (Suor Antonia) ha aperto una struttura caritativa. L’entourage di Belardo spera anche che il viaggio al di fuori delle mura del Vaticano induca il ponte ce a parlare in pubblico, esercizio escluso dopo l’allocuzione oscurantista rivolta ai fedeli in Piazza San Pietro, momento in cui, per giunta, non aveva mostrato il proprio volto alla folla accorsa ad ascoltarlo. L’ottavo capitolo è un momento chiave in The young pope perché qui Belardo compie un miracolo dinanzi agli occhi increduli dei suoi più stretti collaboratori. Nella sequenza in cui il protagonista pronuncia un discorso sull’amore e sulla pace, accogliendo persino il riferimento a Sant’Agostino che Voiello gli aveva suggerito nel secondo episodio281, la serie televisiva sembra trovare una soluzione ad alcune questioni presenti all’inizio della storia: la negazione dell’amore nella visione ponti cale della fede cattolica, la consacrazione della gura di Belardo come quella di un santo, il riavvicinamento con gli altri cardinali, l’accettazione di Suor Mary come gura materna. Tuttavia, la scoperta della soluzione è una strada

tortuosa in The young pope ed è proprio in questo punto che interviene un contrappeso rispetto all’a ermazione iniziale. Cosa succede, allora, nell’ottavo episodio? In un primo momento vediamo il papa rivolgere una confessione molto intima sulle proprie debolezze e sulla propria fede a un prete africano, ma, alla ne della scena, il protagonista scoprirà che il sacerdote non parla italiano, creando un e etto tragicomico rispetto a quanto visto poco prima282. Ora, se la confessione da sola non è una via percorribile, una seconda strada si propone a Pio XIII: lo stesso prete che l’ha lasciato parlare inutilmente gli consegnerà un foglio su cui è scritto che Suor Antonia, responsabile della struttura caritativa, ottiene i favori degli abitanti gestendo il tra co di acqua potabile. Fatta questa scoperta e constatata la miseria che lo circonda, Belardo farà corrispondere il miracolo nale con un gesto punitivo, ossia con la morte della suora missionaria283. In precedenza, abbiamo visto come l’epilogo del sesto episodio proponesse un’immagine incommensurabile rispetto alle precedenti, mentre adesso riscopriamo l’opposizione all’interno della narrazione stessa. Con la confessione si sarebbe potuta creare un’immagine in cui il ponte ce si riavvicina alla fede grazie alla comprensione di un umile sacerdote africano, ma le parole del papa non vengono comprese. In compenso, però, siamo testimoni del miracolo: anche questa volta, però, il gesto divino può avvenire a condizione che si presenti nella sua versione più politica e materiale, a dimostrazione della doppia natura spirituale ed umana di cui abbiamo parlato rispetto al personaggio di Belardo nel primo capitolo del nostro lavoro284. Lo stesso dicasi per il discorso che il protagonista rivolge ai fedeli: le sue parole sono profonde e commoventi ma egli ri uta nuovamente di mostrarsi in pubblico. Pertanto, in maniera simile a quanto osservato nel sesto episodio, sebbene esista una conclusione narrativa alla situazione iniziale, soluzione che coincide con la morte di Suor Antonia e la successiva designazione di Suor Mary per la direzione della struttura caritativa, si

tratta di una conclusione che la struttura diegetica paga a caro prezzo, sicché il risultato a cui giungiamo è tutto fuorché lineare. Arriviamo, dunque, a due immagini complesse in cui il miracolo si confonde con l’omicidio (morte della suora) e in cui la visione viene disgiunta dalla parola e rilegata in un fuori campo non identi cabile (discorso del papa). In maniera simile alla sequenza del suicidio del seminarista, il risultato ambivalente a cui si giunge tramite queste due scene è articolato in due gesti consecutivi: da un lato l’immagine accoglie il contrasto senza risolverlo, dall’altro a da all’ambivalenza un ruolo chiari catore che non possiede. Il primo gesto crea l’equivocità nel passaggio dall’a ermazione al contrappeso, mentre il secondo attualizza il racconto proprio in virtù dell’ambivalenza creata, risolvendo un punto della trama attraverso un gesto che si situa agli antipodi della soluzione, poiché segnato dall’ambiguità. La speci cità del “rilancio” sta proprio nel suo doppio carattere di elemento in grado di prolungare il racconto tramite un’immagine che non sia propriamente diegetica. Ne La grande bellezza, la storia di Jep Gambardella inizia dopo lo scontro visivo iniziale tra frastuono e silenzio, nonché in virtù dell’opposizione creata in questo punto. Analogamente, in The young pope i due capitoli che seguono l’ottavo permetteranno di risolvere alcuni punti della trama (dall’apertura mentale del papa alla parentesi newyorkese che vede agire Gutierrez). L’opposizione visiva prolunga la narrazione invece di ostacolarla, ma nella maniera più singolare: se la ne del sesto episodio segnava una pausa ai loni del racconto attraverso un’immagine incommensurabile, l’ottavo si conclude con una scelta che non è a atto chiari catrice e che si traduce nella conservazione dell’ambiguità. Risolvendo mediante un’immagine che aggiunge una complessità, completando un episodio attraverso una scena che va al di là della conclusione narrativa, il rilancio sorrentiniano opera dunque nel segno dell’ambivalenza. II.2.c La questione dei generi in Scorsese e la vicinanza

con l’eterogeneità di Sorrentino Mediante le cacofonie felliniane abbiamo visto come l’immagine di Sorrentino riuscisse talvolta a rompere la linearità di soluzioni narrative e descrittive in favore di una composizione che prevede la compresenza di elementi eterogenei. Quest'ultimi riescono a far procedere il corso degli eventi narrati agendo come punto di snodo della diegesi pur non essendole propriamente funzionali. È proprio in questo contesto che abbiamo visto l’azione del rilancio, inteso come possibilità di presentare elementi disparati in virtù dello scarto che li separa senza ricorrere a una qualsiasi forma sintetica. Questa inclinazione a privilegiare la costruzione doppia piuttosto che la de nizione univoca è un aspetto che incontriamo spesso in Scorsese. Difatti, se la questione della composizione eterogenea è un elemento centrale nel cinema del regista italoamericano, non è soltanto perché egli ha saputo variare da un genere all’altro nel corso della propria opera, esplorando il documentario e il musical, passando dai lm di gangster e dalla commedia, ma perché registri provenienti da forme visive disparate sono spesso rintracciabili all’interno dello stesso lavoro lmico. Sicché, in n dei conti, è proprio il termine genere a diventare problematico nello studio di alcuni lm di Scorsese. In un articolo intitolato Rethinking genre, Christine Gledhill individua i limiti delle classi cazioni dell’immagine in movimento basate sulla suddivisione in generi. Considerandolo in stretto legame con il contesto sociale da cui deriva e ponendolo in opposizione ai lm d’autore285, il genere deve tradizionalmente la propria speci cità alla “demarcazione” che viene a crearsi con altre categorie di lavori cinematogra ci286. Rispondendo a una di usa tendenza critica fondata sulla suddivisione, Gledhill sottolinea come tanto le immagini lmiche quanto il contesto di produzione trovino un vincolo nel termine di genere, in quanto la “produttività” di quest’ultimo risiede proprio nella ride nizione delle frontiere che gli vengono imposte inizialmente287. Un

punto di particolare rilievo per il nostro studio riguarda il discorso sul melodramma cinematogra co. Secondo l’autrice, l’etichetta di melodramma è l’emblema della rigida suddivisione che la classi cazione dei generi impone all’immagine in movimento, nella misura in cui i lm coinvolti nella categoria in questione contengono soltanto raramente un’unica forma visiva: “il melodramma non è né è mai stato un genere al singolare (singular genre)” e la “svolta noir” del cinema americano tra gli anni Quaranta e la prima metà degli anni Cinquanta ne è un esempio manifesto288. Con ciò si spiega il bisogno di pensare una nozione di erente in grado di superare la staticità della demarcazione. Gledhill parla di “modalità”, intesa nella continuità del “registro nella sociolinguistica”, come ciò che “de nisce una forma speci ca di circolazione estetica compatibile con una varietà di generi, da un decennio all’altro, a dispetto delle culture nazionali”289. Per via dell’apertura che la caratterizza, “la modalità melodrammatica non genera soltanto una grande varietà di generi ma coinvolge altre forme nel proprio processo di articolazione”290. È in questo punto che troviamo una speci cità del cinema di Scorsese: la “doppia articolazione” che determina la “modernità” del melodramma dipende dal fatto che esso produce “formule generiche ed inconfondibilmente diverse e, al contempo, [crea] un luogo di scambio e di sovrapposizione tra i generi”291. In A letter to Elia, documentario co-diretto con Kent Jones, la ricostruzione dell’opera di Elia Kazan operata da Scorsese rivela un aspetto signi cativo rispetto alla questione dei generi lmici. In pieno maccartismo, più che mai integrato in un sistema di cui aveva denunciato i possibili sovversivi, Kazan non cavalcò l’onda del successo dei suoi primi lm ma cambiò radicalmente la maniera di concepire il melodramma, costruendo le proprie storie in un terreno ostile al genere in questione. Ripercorrendo retrospettivamente il cinema di Scorsese, non saremo a atto sorpresi nell’osservare che la qualità attribuita alla seconda parte della lmogra a di Kazan

consiste proprio nella capacità di creare personaggi con cui nessuno vorrebbe identi carsi ma che tutti comprendono. La gura del delinquente o dell’emarginato determina il mutamento dell’immagine di Kazan e anticipa, ispirandola, quella del ma oso che vedremo evolvere nella lmogra a di Scorsese. Adottando un approccio “quasi documentario”292, pur escludendo i propri criminali da “universo machiavellico del potere”293, Scorsese sembra aver preso in prestito da Kazan qualcosa in più della simpatia per gli antagonisti della società. Seguendo la de nizione di Gledhill, possiamo parlare di un gesto attinente al sistema melodrammatico, inteso come possibilità del melodramma di superare i limiti che la classi cazione dei generi gli impone, aprendosi a un’immagine in cui si incontrano più forme visive. In Kazan, si tratta della scoperta di uno spazio e di storie inconsuete rispetto ai suoi primi lavori, laddove, in Scorsese, sono i generi stessi a incontrarsi o scontrarsi. In precedenza, abbiamo evocato come il personaggio di Jake La Motta in Raging Bull facesse da tramite tra il ring e il palcoscenico, così come, in The king of comedy, Rupert Pupkin incarna lo strano incontro tra un imbranato e un sequestratore. In realtà, nel cinema di Scorsese esiste una tendenza più di usa a confondere i ruoli, inclinazione che rende poco visibile la demarcazione tra artisti e criminali, come sottolinea George Privet294. Si tratta di gure in grado di destabilizzare la prevedibilità dell’azione, di trasformare il fallimento in successo e viceversa: musicisti, comici e ma osi fanno tutti parte della categoria degli attaccabrighe che confondono i propri ruoli, a dimostrazione di come Scorsese lavori sulla compresenza di registri visivi disparati. Si pensi a Jimmy Doyle da cui dipende la mutazione del musical in New York, New York. Lo scarso successo del lungometraggio, risultato che Scorsese visse come un fallimento personale che, a detta sua, lo a isse no a Raging Bull295, è probabilmente dovuto alla natura ibrida del lm. Sin dalla scena di apertura, vengono mostrate due strade che verranno

percorse in parallelo nelle sequenze successive: da un lato, abbiamo quella più leggera del musical e della commedia romantica, dall’altro, quella più cupa prodotta dalla degenerazione del protagonista. Nella scena di apertura, un movimento aereo ci introduce in un jazz-club dove si festeggia la ne della seconda guerra mondiale. Tra i personaggi scorgiamo un uomo con una camicia hawaiana – Jimmy per l’appunto – che abborda una donna dopo l’altra nella speranza di passare la serata in compagnia. La vicenda del protagonista maschile andrà di pari passo con quella di Francine, cantante della United Service Organisations che conoscerà il successo dopo la ne della guerra. Ora, sin dall’incipit e a dispetto dell’atmosfera gioiosa, Jimmy pone le basi per la nascita di un aspetto che diventerà sempre più incontrollabile nel corso del racconto e che viene inizialmente presentato in chiave comica tramite un uomo la cui insistenza possiede tratti caricaturali296. Da lì in poi, New York, New York sarà costruito come un lm in cui il musical e la storia d’amore devono fare i conti con un personaggio che ne ostacola la piena autonomia tanto da produrre due tendenze opposte nello stesso usso di immagini. Una prima forma segue i due generi appena citati mentre una seconda sfumatura più tetra irrompe attraverso il musicista dalle passioni incontenibili e dalle ambizioni smisurate. È proprio in questo punto che incontriamo il gesto melodrammatico di Scorsese, con Jimmy Doyle a fungere da mediatore tra un genere e l’altro. La prima forma è gioviale e riprende parodicamente alcuni cliché da romanzo rosa: dalla scena del bacio teatralmente prolungato con Francine a quella in cui il protagonista improvvisa una serie di frottole per non pagare il conto dell’hotel, no alle sequenze in esterna in cui vengono utilizzati elementi scenici manifestamente falsi, con paesaggi dipinti o riprodotti grossolanamente297. Si pensi ancora al momento in cui i due innamorati si sposano nel bel mezzo della notte, con Jimmy che va alla ricerca di un giudice di pace che vive in una casa su cui notiamo un’insegna che recita: “Giudice di Pace”,

recuperando così un procedimento degno delle “commedie strampalate degli anni Trenta”298. Anche in queste scene è possibile apprezzare la caparbietà del protagonista la cui azione rimane, però, nei limiti dell’ironia e della gag. Al contrario, il seguito della storia rivelerà la perseveranza di Jimmy sotto un’altra luce facendolo passare dal “rompiscatole” – per riprendere una de nizione provvisoria del direttore d’orchestra di cui prenderà il posto299 – all’uomo aggressivo e ambizioso, in pieno con itto con la gente che lo circonda. Jimmy consente il passaggio tra le due forme visive proprio quando l’immagine riduce al minimo la distinzione tra la realtà e il musical, come testimoniano le entrate in scena canore di Francine o le coincidenze tra il testo del brano musicale e la narrazione (“sei il mio portafortuna” canta la protagonista facendo apparire colui che diventerà il suo futuro marito300). Di conseguenza, inserendo un personaggio da lm di gangster in un musical, Scorsese non compie soltanto un lavoro parodico, ma compone una vera e propria immagine dissonante proprio nell’intervallo che si crea tra un genere e l’altro. Se è vero, come sottolinea Domecq, che in New York, New York “le leggi del genere [del musical] si scoprono perfettamente integrate alle problematiche tipiche di Scorsese”301, lo si deve al fatto che il ritmo visivamente discontinuo dell’immagine non tenta di creare una vera e propria armonia tra le forme esplorate. Qualcosa di simile succede in Cape Fear con il passaggio dalla “crisi famigliare” al “ lm dell’orrore”302, con l’unica di erenza che i due generi scelti in New York, New York non convergono in una forma sintetica ma appaiono in virtù dello scarto che li separa. È proprio in questo punto che riscontriamo un’a nità con Sorrentino nella misura in cui siamo dinanzi a un’immagine in cui l’intervallo può conservarsi senza risolversi in una de nizione univoca o sintetica, in maniera simile a quanto rilevato in The young pope. Qui, abbiamo osservato come, nel sesto episodio, il punto culminante degli intrecci del racconto fosse proprio

un’immagine in cui a dominare sono la sfera ottica e plastica. Ciononostante, a dispetto dell’incommensurabilità con le sequenze precedenti, la scena in questione riesce comunque a rilanciare la trama lmica, sicché lo scarto viene mostrato come vero e proprio raccordo, benché singolare nella sua forma, e non come ostacolo per una narrazione in pieno sviluppo. Rispetto al medesimo comportamento visivo scopriamo, sotto un’altra luce, la formula del “prete gangster” che Casillo utilizza come titolo e punto cardine della propria analisi. Contro un approccio puramente etnologico che coglierebbe di cilmente “l’ibridità” dei lavori di Scorsese303, converrebbe leggere nel usso di immagini del cineasta il tentativo di integrare registri e personaggi estranei al genere apparentemente dominante in ciascun lm. Non a caso, Casillo mette spesso in evidenza che le tematiche della redenzione e del tradimento non devono abbandonare la loro portata autenticamente religiosa per sopravvivere tra le tru e e le azioni violente dei ma osi, ma che, al contrario, possono presentarsi proprio in virtù di ciò che le tiene a distanza dagli altri fotogrammi. È in tal senso che possiamo leggere l’espressione di “redenzione tramite la violenza” che torna a più riprese in Gangster priest. Facendo leva su aspetti tipici della cultura italoamericana che costituiscono lo sfondo di alcuni lavori di Scorsese, Casillo disegna dunque un piano in cui il codice ma oso si intreccia con quello religioso, sicché il rispetto su cui si basa la tanto frequente rivalità si estende sino alla sua forma più estrema, ossia la s da a Dio condannata dalla concezione dell’“orgoglio come peccato mortale”304. La questione della composizione eterogenea sorrentiniana trova riscontro in un secondo aspetto dello studio di Casillo, riassunto nella nozione di “bella gura”. Tradizionalmente appannaggio dell’etnogra a tanto da essere un vero e proprio argomento di discussione tra i genitori di Scorsese in una scena di Italianamerican305, il “fare bella gura” si trova al centro di molti antagonismi

dovuti all’onore e all’orgoglio nel cinema del regista di Little Italy306. Prendendo spunto dalla ri essione etnologica a cui Casillo si rifà, potremmo traslare la suddetta nozione su un piano maggiormente estetico. Difatti, notiamo una coincidenza signi cativa tra la costruzione verticale doppia della “bella gura”, in cui ciò che emerge in super cie di erisce dallo strato sottostante, e la strati cazione dell’immagine in un lm come New York, New York. Nel primo caso ci sono storie d’amore e di tradimenti in cui è l’onore a dover essere salvato a tutti i costi, come nell’impulso che spinge La Motta a dubitare di suo fratello in Raging Bull oppure nella bigotteria che, in Who’s that knocking at my door, induce J.R. a respingere la giovane donna una volta scoperto che quest’ultima aveva subito uno stupro. Secondo la stessa logica operano i numerosi stratagemmi ma osi il cui sforzo maggiore consiste nel trovare una copertura alle losche attività portate avanti di nascosto. Analogamente, New York, New York dispone sullo strato super ciale il musical e la storia d’amore, mentre una seconda “ gura” più cupa si prepara dietro le quinte ed è pronta ad esplodere da un momento all’altro. Lo stesso dicasi per il già citato Raging Bull: una volta messo al tappeto il pugile, sia dall’avversario sul ring che dal fratello che ha sedotto la donna amata, una volta abbandonata la lotta per la gloria e per il rispetto, la “bella gura” scompare facendone subentrare una seconda ben più profonda che è quella per la sopravvivenza e per la salvezza. Si passa, cioè, da una prima battaglia secondo cui “qualsiasi forma di violenza è un riconoscimento di divinità”307 a una “lotta per la vita” degna di un lm di serie B americano308. Pertanto, nelle varie sfaccettature che la caratterizzano, che si tratti del passaggio da un genere all’altro o da una disposizione che distingue sfondo e super cie, la “bella gura” dei lm di Scorsese rende espliciti i due caratteri eterogenei di cui è composta. In tal senso opera il gesto melodrammatico in cui l’esasperazione di uno primo genere cinematogra co permette l’ingresso di un secondo registro visivo. Quanto

alla questione etnogra ca riportata poc’anzi, la nostra posizione sul duplice carattere dell’immagine di Scorsese trova conferma nella conclusione di un articolo di Casillo che riassumiamo come segue: insieme a Francis F. Coppola, Scorsese ha messo da parte “gli esercizi ingenui del sentimento e della nostalgia” nei confronti della cultura italiana, in favore di una “doppia coscienza americana-italiana” che tiene insieme “virtù e difetti” rispettando una giusta “dignità estetica e culturale”309. Alla luce di quanto osservato poc’anzi in merito al passaggio tra i generi, possiamo concentrarci su un caso speci co della doppia composizione dell’immagine, ossia il trattamento del documentario nei lm di gangster di Scorsese. Goodfellas e Casino vengono spesso menzionati come esempi di una “versione documentaria” dell’universo ma oso diversamente dalla visione “romanzata” che prevale in altri noti lavori sulla ma a come la trilogia di Coppola310. Ora, la speci cità che vogliamo mettere in risalto rispetto a Scorsese sta nel fatto che la sua cosiddetta variante documentaria non esclude l’inserimento di una forma più teatrale. Anche se, come la trilogia del Padrino, Goodfellas e Casino sono tratti da due romanzi – nella fattispecie Wiseguy e Casino: love and honor in Las Vegas di Nicholas Pileggi – a loro volta ispirati a fatti di cronaca reali, ciò non preclude la presenza di scelte visive tradizionalmente associate a lavori di nzione. Così, osserviamo la compresenza di due orientamenti dissimili: da un lato, l’immagine conserva alcuni tratti tipici del documentario, dall’altro, però, integra continuamente gesti in grado di esasperarlo, in un insieme di scene in cui la voce fuori campo e la steadicam possono coesistere con carrellate, piani sequenza e sguardi in camera311. In Goodfellas e Casino oscilliamo tra queste due componenti appro ttando del loro indebolimento reciproco e il lm non passa mai esplicitamente a una forma documentaria ma lascia che tutto, persino il rischio di un complotto segreto

indirizzato ai protagonisti, venga spiegato con estrema chiarezza da questi ultimi312. In tal senso, Morpelli ha ragione nel dire che “la nuova razza di delinquenti” ci viene presentata rispetto ad una gerarchia ma osa in cui è pienamente integrata tanto da spingere l’immagine a descrivere il funzionamento del sistema in questione313. Si prendano i quindici minuti iniziali di Casino: fuori campo, le due voci dei protagonisti (Ace e Nicky) commentano tutti i dettagli della tru a che si susseguono fotogramma dopo fotogramma. Così, vediamo i boss che dirigono le operazioni da Kansas City, Ace e il prestanome che gli permette di passare inosservato, così come ci viene spiegato il meccanismo con cui le tangenti per i capi vengono fatte sparire dalla cassaforte del casinò314. Ora, è interessante notare che le stesse immagini incaricate di illustrare i processi su cui si basa il sistema criminale contengono a loro volta una serie di elementi cinematogra ci che si situano agli antipodi dello sguardo documentario. A titolo esempli cativo, si prenda il momento in cui la voce fuori campo di Ace menziona Ginger per la prima volta e il montaggio la fa apparire per un secondo sullo schermo. Il fotogramma in questione non appartiene né al commentatore, né agli eventi in corso, ma viene consegnato alla conoscenza di un interlocutore esterno che si accinge a prendere visione della vicenda315. In e etti, questo rivolgersi allo spettatore – con quest’ultimo che va inteso nella maniera più generale possibile senza cadere in un approccio che vorrebbe spiegare il lm rispetto alle reazioni provocate sul proprio pubblico di riferimento – si veri ca attraverso un’immagine che oltrepassa il proprio ruolo meramente esplicativo, sposando, di fatto, una maniera arti ciosa di rivelarsi. Lo stesso discorso vale per la presentazione del clan in Goodfellas, scena che coincide con il momento in cui la macchina da presa si autorizza un lungo piano sequenza316. Tuttavia, in un caso come nell’altro, il procedimento descrittivo non viene de nitivamente escluso da quello teatrale ma torna nelle sequenze

successive del lm, a dimostrazione di come Scorsese insista sul ruolo ambiguo dato al commento fuori campo la cui funzione consiste, in un certo qual modo, nell’illustrare superando la semplice descrizione. La fragilità della componente documentaria, ovvero, se vista al contrario, quella della componente romanzata317, dipende dal fatto che l’immagine nasce dallo scontro della prima con la seconda. La voce fuori campo o re una dimostrazione interessante in tal senso: raramente critica nei confronti del sistema a cui appartiene il locutore, essa tende a evidenziarne i meriti piuttosto che le disfunzioni e, nonostante sia al corrente della globalità degli eventi, costituisce un punto di vista poco a dabile. In The wolf of Wall Street, arrivato al culmine della delucidazione dell’imbroglio, Belfort si ferma ed esclama: “ma chi se ne fotte?”318, evidenziando come la descrizione del meccanismo e dei rischi che ne conseguono diventi un aspetto trascurabile rispetto al risultato ottenuto, cioè il guadagno facile. Analogamente, in Casinò, il sistema delle due voci fuori campo di Ace e di Nicky viene bruscamente scomposto dall’arrivo di un terzo commentatore inatteso e secondario, il mediatore incaricato di portare i soldi da Las Vegas a Kansas City319. In maniera simile, in The Irishman, la descrizione della voce fuori campo del protagonista (Franck Sheeran) viene completata da un commento del personaggio di cui si sta parlando (Russell Bufalino), commento che, per giunta, non interviene fuori dal campo visivo ma all’interno dello stesso320. Procedimento tipico del documentario e strumento in grado di dilungarsi in spiegazioni, la voce fuori campo nei lm di gangster di Scorsese è già al di là delle competenze del genere di partenza e sfocia nella propria parodia consegnando la descrizione a una serie di movimenti arti ciosi321. Pertanto, nei lm citati, la domanda del come trova una doppia risposta nella coabitazione tra la versione documentaria e quella romanzata: più si decide di precisare un aspetto reale più si chiede alla telecamera di teatralizzare il commento. La prossimità tra il

documentario e la teatralizzazione crea un punto di scontro mettendo in contatto immagini che tenderebbero a respingersi. Ora, è interessante notare che è proprio forzando questa vicinanza che Scorsese crea un raccordo (o falso-raccordo). Ciò accade nel punto stesso in cui viene indicata la dissonanza tra le due componenti, in maniera simile a quanto osservato in Sorrentino con il doppio rapporto generato tra l’immagine che arresta la narrazione (il frammento contemplativo o incommensurabile) e il prolungamento di quest’ultima tramite una forma visiva complessa e situabile oltre la diegesi. Nel cineasta napoletano, abbiamo visto che il rilancio opera escludendo la scelta sintetica in favore di una presenza doppia e non risolutiva, come nel passaggio da un genere all’altro in Scorsese. La sequenza del processo nale di Goodfellas ci o re uno spunto determinante in tal senso nella misura in cui la voce fuori campo di Henry Hill e l’azione coincidono, con il personaggio che si dissocia dalla diegesi rivolgendosi direttamente al pubblico322. Ora, giunti al culmine della confusione tra narrazione e documentario con una scena che rende ttizia la voce esplicativa facendole perdere qualsiasi credibilità, a dando parallelamente un valore esplicativo al procedimento estremamente scenico del monologo in cui Hill si cimenta, il risultato ottenuto non consiste in una chiari cazione dei ruoli delle due componenti ma nel prolungamento della loro dissonanza. Non a caso, nel suo discorso nale, pur agendo da pentito, il protagonista non presenterà alcuna osservazione aggiuntiva a quanto aveva annunciato all’inizio del lm, mettendo in evidenza esclusivamente il problema personale della perdita di denaro per il progressivo declassamento all’interno del clan, piuttosto che un parere critico sulla disfunzione del sistema ma oso323. È proprio qui che troviamo un’analogia con quanto rilevato in The young pope: al termine dei loni narrativi (Sorrentino) e dei generi duplici (Scorsese) non è la

soluzione univoca ad attendere l’immagine ma una costruzione doppia che non scioglie la di coltà iniziale. II.3. Lo slancio vitale: dalla pesantezza alla leggerezza II.3.a La punizione degli spiriti pesanti in Scorsese Finora abbiamo esplorato due composizioni dell’immagine e della scrittura di Sorrentino rispetto alle quali abbiamo de nito un certo numero di assonanze e dissonanze con Fellini e Scorsese. Insieme, l’ordine e l’eterogeneità o rono una testimonianza di due tendenze dissimili ma non per questo incompatibili nei lavori del regista partenopeo. Così, abbiamo scoperto la coesistenza tra un primo gesto proteso a organizzare e a contenere le immagini, e un secondo disposto a rimettere in gioco la schematicità in favore di una costruzione più complessa e ambigua. In quest’ultima, il contrasto diventa il motore di un’immagine ancora da completare, ciò che abbiamo de nito rilancio come tappa conclusiva della successione tra l’a ermazione e il contrappeso. È proprio la questione dell’apertura nale che ci suggerisce la strada da percorrere per esaminare un altro aspetto decisivo del cinema e della prosa di Sorrentino. Lo de niamo “slancio vitale” e ne distinguiamo due sfumature: va inteso sia come facoltà per i personaggi di liberarsi dal peso del loro cinismo, sia come possibilità per la struttura narrativa di lasciare uno spiraglio in corrispondenza del proprio epilogo, suggerendo, talvolta, che per la storia raccontata esiste un seguito che oltrepassa la sua ultima immagine. Ne abbiamo già evocato alcune caratteristiche trattando il rapporto tra verticalità e orizzontalità con particolare riferimento alla processualità promossa da La grande bellezza. Adesso, approfondiremo il quesito sollevato in precedenza passando in rassegna un numero maggiore di lavori. Ci concentreremo, dunque, sulla maniera in cui il cinema e la prosa di Sorrentino compiono gesti in grado di riaprire una composizione della fabula che l’ordine aveva tentato di chiudere, opponendovi una resistenza simile a quanto osservato con l’eterogeneità.

Anticipando quanto vedremo più approfonditamente nelle pagine seguenti, si dirà che la questione dello slancio vitale in Sorrentino deriva dallo scontro tra uno stato iniziale di pesantezza e una successiva conquista della leggerezza. Nel cinema di Scorsese rileviamo frequentemente immagini di questo genere tramite una lunga lista di personaggi avidi di ricchezze e di potere. Rispetto alla vicenda di queste gure, sappiamo già che il regista di Little Italy considera la fortuna soltanto come la prima tappa di una traiettoria che prosegue volgendo verso il basso. In realtà, il declino che prolunga il trionfo iniziale non è altro che la conseguenza ineluttabile di un comportamento che, nel momento stesso dell’ascesa, contiene già il principio del proprio crollo. Pertanto, se qualcosa va storto nelle storie di Scorsese, si tratta di un aspetto legato a un desiderio iperbolico di successo, sicché osserviamo come, a dispetto delle di erenti esigenze e dei contesti in cui agiscono, è il volo di Icaro a penalizzare gran parte dei suoi protagonisti. Confondendo la necessità con l’ambizione, le gure scorsesiane abbandonano progressivamente la loro vitalità iniziale e sostituiscono la leggerezza dello slancio con il fardello della dipendenza o della presunzione. Secondo queste coordinate è possibile fornire una de nizione degli spiriti pesanti nel suo cinema. Si prenda la trama dell’episodio che il cineasta realizzò per la prima stagione di Amazing Stories. Mirror, mirror racconta di un autore di romanzi best-seller che deve la propria fama a storie dell’orrore che ha scritto senza attribuire un qualsivoglia valore al genere fantastico. Abile manipolatore di un pubblico di lettori poco dotti, il protagonista si crogiola nel lusso della propria dimora, frutto del suo successo editoriale. È interessante, allora, notare che, a dispetto della brevità del cortometraggio e della de nizione caricaturale del personaggio, Scorsese elabora un principio valido per un altro suo lavoro in cui vediamo agire una gura più drammaticamente complessa. Difatti, non sarebbe azzardoso a ermare che esiste una continuità tra il trattamento che il regista

riserva allo scrittore di Mirror, mirror e ciò che accadrà anni dopo con Howard Hughes in The aviator. Nell’uno come nell’altro è valida una punizione ispirata alla ben nota legge dantesca del contrappasso secondo la quale i tratti dell’errore vengono riportati nella pena in itta al colpevole. Nel cortometraggio, per un personaggio che sottovaluta il mistero e che lo sfrutta come mera fonte di guadagno, la pena in itta consiste nel fargli subire il terrore dei propri racconti trasformatisi in visioni terri canti. La maniera in cui le immagini orripilanti appaiono è tutto fuorché casuale nella misura in cui esse si manifestano ogni qual volta il protagonista si guarda allo specchio, come se lo schermo narcisistico della popolarità si ritorcesse contro il celebre scrittore. La notorietà nociva diventa un oggetto concreto così come concreto è il fantasma che perseguita l’autore e che lo trasforma, agli occhi degli altri, nel personaggio che aveva sempre evitato di essere, lo scrittore realmente tormentato dalle proprie storie. Non a caso, l’ultimo sguardo nello specchio sarà fatale e porterà l’uomo al gesto suicidario (l’auto-defenestrazione) compatibilmente con la tendenza “auto-distruttiva” che, secondo Casillo, caratterizza la gura del “gangster-martire” nel cinema di Scorsese324. La situazione non è molto diversa dalla successione che crea il personaggio di Nicky Santoro in Casino: colui il quale è mosso da un desiderio estremo di autocompiacimento e coniuga una costruzione convenzionale di se stesso (“self-fashioning”) con la fame di potere paga con la so erenza gli e etti della propria vanità325. Se Mirror, mirror fa eco al mito di Narciso, in The aviator i riferimenti principali riguardano i le cadute di Icaro e Fetonte, il primo colpevole di essersi avvicinato troppo al Sole, il secondo reo di aver perso il controllo del carro di Elio. In realtà, Scorsese ha inventato poco rispetto a quella che fu la sorte di Howard Hughes, uomo di ingegno ammalatosi della propria megalomania che ha lasciato in eredità alcuni dei progetti più ambiziosi del ventesimo secolo tanto per il cinema quanto per

l’aviazione. Il binomio formato dai due ambiti in cui operò Hughes è meno insolito di quanto sembri se si considera che entrambe le discipline nascono dal rapporto di coltoso tra l’idea del creatore e i mezzi per realizzarla, stando al suggerimento dello stesso Scorsese secondo il quale l’età d’oro del cinema hollywoodiano ha visto spesso la produzione di lm che raccontavano storie di aspiranti attori e di registi al lavoro proprio a Hollywood326. Qual è, allora, il volo che si avvicina maggiormente al Sole tra il lm di guerra più costoso della storia e l’idrovolante da trasporto più grande mai progettato? Entrambi spiccano il volo: Hell’s angels esce nelle sale cinematogra che nel 1930 contro ogni previsione, così come l’idrovolante si solleva in aria nel 1947. Ma, in Scorsese, il decollo prevede sempre una discesa, come se la frase di On the waterfront formulata da La Motta alla ne di Raging Bull (“ero arrivato in cima a una montagna e sono nito a valle”327) risuonasse attraverso tutta l’opera del regista italoamericano, pur ammettendo, come si vedrà tra poco, che il declino non è necessariamente l’ultima tappa della traiettoria dei suoi personaggi. In e etti, una ripresa è spesso possibile, a condizione però che essa non avvenga con il gesto iperbolico del volo verso il Sole. Pertanto, il talentoso Howard Hughes non fallisce perché abbandona i progetti ambiziosi in cui si era cimentato ma perché conosce esclusivamente il gesto smisurato, il volo per raggiungere l’Olimpo ignorando o trascurando lo sforzo necessario per difendere la vita. Il decollo dell’idrovolante Hercules non cura il protagonista dalle manie che lo a ggevano sin dall’inizio della trama e che, in conclusione, si trasformano in un vero e proprio stato patologico. In tal senso, le battute con cui egli esce di scena sono tutto fuorché casuali. Come visto in precedenza, Hughes chiude il lm ripetendo più volte le frasi seguenti: “dobbiamo lavorare sugli aerei a reazione” e “questo è il mezzo del futuro”. Il perfezionismo maniacale gli fa perdere di vista l’obiettivo raggiunto e, in un certo qual modo, la prodezza sovraumana compiuta con il volo

dell’Hercules, vani cando il gesto iperbolico, ormai sottomesso a un perpetuo stato di insoddisfazione. Contemporaneamente, vediamo subentrare la punizione dantesca del contrappasso che costringe l’uomo di ingegno a reiterare la stessa formula. Eppure, per un attimo, Hughes aveva ritrovato quello stesso slancio che permette ad altre gure scorsesiane di riprendere un pieno contatto con la vita. Nella lunga sequenza in cui il protagonista si rinchiude in una sala di proiezione, benché il suo stato di salute peggiori, egli riesce a compiere un vero e proprio lavoro sulla follia. Sperimenta la quarantena – parola legata al ricordo della madre, ossessionata dal timore che suo glio potesse contrarre il tifo – si trasforma sicamente rendendosi irriconoscibile, guarda ripetutamente scene del proprio lm che lo riportano agli insuccessi della vita: le immagini di una coppia che si bacia gli ricordano la sua separazione con Katharine Hepburn, mentre gli aerei distrutti gli fanno tornare in mente le sue più grandi paure quanto ai progetti grandiosi che ha intrapreso328. La terapia violenta che impone a se stesso lo costringe a confrontarsi con il proprio trauma, un’auto agellazione che, in maniera simile a quanto osserviamo in Raging Bull, porta successivamente al risveglio del personaggio. Nella fattispecie, vediamo il protagonista di The aviator difendersi davanti alla Commissione del Sentato Americano che lo accusava di non aver consegnato gli aerei per i quali aveva ricevuto ingenti somme di denaro pubblico durante la seconda guerra mondiale. Hughes fa valere le proprie ragioni e viene assolto, così come i suoi aerei volano a dispetto dei numerosi ostacoli materiali. La successione tra l’immagine del crollo e quella del risveglio viene spesso riproposta nel lungometraggio, come nella scena in cui il protagonista sopravvive a un violento incidente provocato da un atterraggio di fortuna329. Tuttavia, Hughes ripropone lo stesso errore tentando sistematicamente di puntare più in alto no a perdere ogni contatto con la terra. D’altra parte, era stato lui stesso

a dire a Katharine Hepburn di essere tormentato dalla paura di “volare alla cieca” e di “perdere la testa”330, sicché nel lm di Scorsese come nella realtà, Hughes cade subendo la più crudele delle pene, morendo, come direbbe Godard, “come Daniel Defoe non osò far morire Robinson”331. II.3.b “L’economia” tramite Derrida In Scorsese, dunque, l’ambizione iperbolica non è sinonimo di slancio verso la vita ma, piuttosto, una strada spianata verso l’impossibilità di vivere, modalità che contraddistingue gli spiriti pesanti, coloro i quali non riescono a svincolarsi dalla morsa della fama e dalle manie di grandezza. Tuttavia, a dispetto di questa prima tendenza, il suo cinema ha saputo indicare la strada da seguire per ritrovare uno slancio vitale. La pesantezza del successo quanto la leggerezza ritrovata sono aspetti che osserviamo anche nei lavori di Sorrentino. Ora, per cogliere con più chiarezza la portata dell’in uenza di Scorsese sul regista partenopeo, converrà prima so ermarci sul rapporto tra il volo impossibile e la discesa necessaria che leggiamo in Derrida. In questo segmento del nostro studio approfondiremo la questione del volo impossibile sfruttando uno spunto de La scrittura e la di erenza. La nozione di “economia” che ci accingiamo ad esplorare ci permetterà di leggere con più precisione il rapporto tra pesantezza e leggerezza nei lavori di Sorrentino, nonché l’in uenza del cinema di Scorsese rispetto a tale tendenza. Lo studio di Derrida trae origine dalla posizione di Foucault che, in Storia della follia nell’età classica, non si rivolge alla follia come oggetto irrazionale a cui dare una spiegazione, ma muove l’asse della ricerca sulla maniera in cui è stata de nita nel corso dei secoli e in quali luoghi è stata collocata. Secondo la lettura di Derrida, la speci cità dell’approccio di Foucault dipende proprio dal fatto che il losofo non cerca tanto di capire come il linguaggio razionale possa adattarsi a un oggetto che non lo è a atto,

ma promuove un interesse inedito per la maniera in cui ci si è avvicinati alla follia. Come è possibile, allora, parlare di qualcosa in grado di mettere il linguaggio fuori gioco? Se ne La scrittura e la di erenza viene suggerita la possibilità di una parola “che ri uta […] di articolarsi in una sintassi della ragione”, in Storia della follia nell’età classica ci si chiede quali siano le conseguenze di un discorso che opera in questa direzione, elaborando un linguaggio che non nasconde in alcun modo la mancanza che lo caratterizza, donde l’idea secondo cui “necessità e impossibilità” si scoprono impiegate nella medesima operazione332. L’ambivalenza nasce, dunque, dall’osservazione secondo cui l’enunciazione dell’impedimento non può risiedere né nel “silenzio [del] folle” né nel linguaggio lineare del “carceriere”333, poiché la distinzione tra il mutismo della pazzia e la geometria della ragionevolezza è una scelta imposta dall’alto, una “Decisione” per riprendere il termine utilizzato da Foucault334. In questo contesto, Derrida spiega bene che il discorso foucaltiano non è spinto dalla volontà di annullare il contrasto, ma nasce proprio nel punto in cui la separazione viene a formarsi, nel momento costitutivo della composizione binaria. In e etti, il problema della pazzia è ben lontano da essere soltanto competenza della psichiatria poiché attraversa più profondamente tutta la possibilità del pensiero. Non si tratta, cioè, di dare un resoconto dell’irragionevolezza ma di capire cosa succede quando il linguaggio si avvicina ad essa. Ne La scrittura e la di erenza, Derrida insiste su questo aspetto precisando come, in Foucault, la follia non sia un elemento speci co a una o più epoche del passato ma un qualcosa di più strutturale. Non si tratta di “storia” ma di “storicità”, ossia della pazzia come silenzio che apre il linguaggio, “limite e risorsa profonda” per la parola, un “non-senso” rivelatosi indispensabile al “senso”335, sicché il problema dell’insensatezza è automaticamente quello del linguaggio e il mutismo quello della parola. Derrida lo ribadisce quando spiega che, in Foucault e nella lettura che questi

dà di Cartesio, la follia non è la semplice negazione di ciò che potrebbe essere detto. Non si tratta semplicemente di una questione di inaccessibilità per il discorso, oppure, quantomeno, se si tratta davvero di impossibilità, si deve rammentare che l’indicibile non ha vita autonoma e che esso si rivolge a una ragione e a un dicibile proponendosi come condizione limite. Ne La scrittura e la di erenza viene mostrata una grande sensibilità rispetto alla problematica del limite senza avere la pretesa illusoria di escluderlo. D’altra parte, nella ri essione di Derrida leggiamo che l’apertura riscontrata in Foucault consiste nell’ipotesi secondo cui la follia non è altro che uno dei “casi del pensiero” e non l’annullamento dello stesso. Così, la contraddizione tra pazzia e ragione viene subito smascherata come posizione illusoria poiché, in verità, esiste qualcosa di più grande che ne permette la coesistenza. Derrida sottolinea questo punto presentandolo come caposaldo della loso a di Foucault e precisando che grazie a tale assioma la follia viene studiata come insieme di “tutte le forme possibili degli scambi” con la ragione336. Non si deve scegliere né la fazione della prima né quella della seconda perché l’interesse ricade sulla giuntura che si trova all’origine della distinzione necessaria operata tra i due termini. Se non altro, ne La scrittura e la di erenza, ci si accorge dell’importanza di porre un silenzio necessario per la parola, condizione compatibile con quelle che pre gurano l’impensato come indispensabile al pensiero. Perché, allora, è importante passare dal problema della follia in Foucault tramite Derrida? La questione dell’iperbole, cara sia a Scorsese che a Sorrentino, è contigua a quanto riportato nora. Seguendo lo studio di Derrida, il Cogito cartesiano è ciò che legittima la dicotomia “ragione-follia” come possibilità “di pensare la totalità, sfuggendole”, nella misura in cui “che io sia folle o meno, Cogito, sum”337. È qui che incontriamo “l’audacia iperbolica” che il più giovane losofo legge in Cartesio tramite Foucault: se mettiamo la follia nel pensiero, come

caso di quest’ultimo, allora la dicotomia diventa “invulnerabile alla contraddizione”. Secondo Derrida, l’iperbole cartesiana sta proprio nella volontà di includere l’insensatezza nel pensiero, ossia nel tentativo di non escludere dalla “totalità” ciò che per de nizione le si sottrae338. In risposta a questa posizione nasce “l’archeologia del silenzio”, il dialogo tra follia e ragione che Foucault promuove a scapito della conoscenza o dell’inconoscibilità della prima proprio perché l’irragionevolezza non è posizionata al di fuori del pensiero. Non saremo sorpresi, allora, nel notare come l’archeologia nasconda un progetto “di erente”, ovvero, per essere più precisi, un piano mosso dalla “di erenza” per il quale non ci si può privare della parola339. Il discorso e il silenzio sono coinvolti nell’ambivalenza tra “totalità” (“storia”) ed “eccesso” (“storicità”), tra la capacità di “rinchiudere” il linguaggio in una ragionevolezza e la parola che eccede e che “conserva la traccia” dell’abuso del proprio utilizzo tra totalità positiva ed eccedente. Ora, ciò che è importante sottolineare per il nostro studio su Sorrentino e Scorsese è che, in Derrida, si fa strada l’idea secondo cui non esiste soltanto il parlare, ma un discorso che scopre entrambi gli aspetti insieme, tanto il dire (“totalità”) quanto l’impossibilità di quest’ultimo (“eccesso”) nel ritmo scandito dalla successione “crisirisveglio”. È nel tempo ritmico che il losofo scopre la lettura del limite e la dissoluzione della struttura binaria che era apparsa con la “contraddizione determinata” indispensabile e, al contempo, irrisolvibile tra ragione e follia. All’inizio avevamo “l’iperbole”, “la parola audace” che “si era misurata alla follia” o “che si era lasciata misurare da essa”; il discorso iperbolico è il gesto irrealizzabile che va al di là delle proprie condizioni di validità. È proprio in questo punto che “l’atto loso co” viene sorpreso a sua volta: quando raggiunge “l’apertura assoluta”, quando, cioè, è misurabile alla follia, il “volerdire-l’iperbole-demoniaca […] spaventa se stesso e si rassicura al suo vertice contro l’annientamento o il

naufragio nella follia e nella morte”. Ma questo salvataggio in extremis ha un prezzo, sicché la parola audace deve fare i conti con un nuovo bisogno dettato dalla certezza. Ne La scrittura e la di erenza, il gesto che conduce dall’iperbole al successivo ridimensionamento viene chiamato “atto loso co”. Ora, attraverso Foucault, Derrida aggiunge un’osservazione decisiva nella misura in cui egli mette in evidenza che i due tempi del discorso del losofo fanno in modo che nasca un’“economia” tra, da un lato, la “ragione” e, dall’altro, la “follia” o la “morte”. Si tratta di quello che l’autore de nisce come “di eranza” insistendo sulla gra a distinta dal termine di erenza340. Nulla è realmente modi cato rispetto alle condizioni cartesiane se non fosse che, adesso, viene sottolineato come l’iperbole e il ridimensionamento non siano in contrasto poiché tra di loro esiste un rapporto dinamico, un raccordo che prende il nome di “economia” e che “sorprende” il primo dei due gesti inizialmente isolatosi nel proprio volo di Icaro341. In sintesi, ciò che in Derrida viene presentato come l’atto loso co non è altro che il gesto del pensiero, un’operazione scandita dai gesti seguenti: il primo volo verso la follia o la morte scopre il proprio insuccesso; ma il successivo ridimensionamento dell’iperbole della follia non si rivela né come una scon tta né come un ostacolo per il pensiero, bensì viene congiunto al primo atto generando un’“economia”. Alla luce di quanto osservato ne La scrittura e la di erenza, possiamo anticipare un aspetto che abbiamo già rilevato in Scorsese e che ci accingiamo ad approfondire per il cinema di Sorrentino. Si tratta dell’idea secondo cui la pesantezza sta nella convinzione ostinata secondo cui l’iperbole è l’unica strada percorribile. In tal senso, The aviator mostra bene come la volontà di grandezza e l’insuccesso ineluttabile siano due facce della stessa medaglia nella misura in cui, malgrado i vari tentativi di risorgere, l’Howard Hughes di Scorsese non crea una vera e propria giunzione tra il volo

impossibile e l’atterraggio necessario. Al contrario, egli reitera i tentativi dell’iperbole sollevando in aria il marchingegno più grosso – e per l’appunto più pesante – della storia dell’aviazione. Tuttavia, nella lmogra a del regista italoamericano, altri personaggi riescono a cogliere l’articolazione propria all’economia derridiana. Nella parte che segue, studieremo più da vicino queste gure in Scorsese e in Sorrentino, concentrandoci sulla maniera in cui le immagini segnano il passaggio dalla pesantezza alla leggerezza. II.3.c Necessità della caduta in Sorrentino e in Scorsese Seguendo l’ispirazione di Derrida e osservando alcuni esempi di Scorsese, abbiamo avanzato un’ipotesi sul cinema di Sorrentino che proveremo a confermare nelle pagine che seguono. Possiamo formularla come segue: a nché possano dissociarsi dal torpore che li contraddistingue, i personaggi sorrentiniani non possono compiere uno slancio meramente iperbolico ma devono scoprire il movimento diametralmente opposto. Così, la spinta non si traduce in un movimento che cerca l’altezza del cielo ma in un gesto che tende verso il basso e che, a dispetto dei rischi della caduta, diventa l’occasione per un nuovo contatto con la vita. La nostra ipotesi consiste, dunque, nel dire che la discesa è un’operazione privilegiata tanto in Scorsese quanto Sorrentino, benché possegga una valenza maggiormente spirituale nel primo dei due cineasti. Ci so ermeremo su alcune immagini de L’uomo in più prima di passare ad alcuni lavori del regista italoamericano. Come già evocato in precedenza, la vicenda dei due omonimi de L’uomo in più nisce con il suicidio dell’aspirante allenatore (Antonio) e con l’arresto dell’eccentrico cantante (Tony), reo di aver ucciso l’uomo che aveva negato proprio ad Antonio l’opportunità di diventare un allenatore di calcio, spingendolo, così, a togliersi la vita. Visto in prospettiva, il primo lungometraggio di Sorrentino propone già uno degli elementi ricorrenti della sua opera, ossia la possibilità di

convertire l’indi erenza e il cinismo in un inedito e inatteso contatto con la vita. È il principio che guida la storia di Titta Di Girolamo ne Le conseguenze dell’amore e di Cheyenne in This must be the place, prima ancora di Tony Pagoda nei due lavori in prosa in cui lo vediamo agire, anticipando Jep Gambardella, Fred Ballinger e Lenny Belardo rispettivamente ne La grande bellezza, Youth e The young pope. In tal senso, la presenza di un’“economia” secondo l’accezione derridiana del termine si rivela un aspetto determinante nella misura in cui lo slancio vitale sorrentiniano non può prescindere dal confronto tra due gesti apparentemente incompatibili, come succede tra la follia e la ragione nelle pagine de La scrittura e la di erenza dedicate a Foucault e a Cartesio. Si tratta del passaggio dall’ostinatezza del volo alla libertà del tu o proprio durante il crollo. La prima è una forma che attiene all’ordine, la seconda è protesta verso l’eterogeneità, compatibilmente con le due tendenze precedentemente riscontrate nei lavori del regista partenopeo. Non è un caso che il cinismo, quel senso di superiorità che personaggi di Sorrentino ostentano per dissimulare un’intima fragilità e che fa spesso rima con il gesto iperbolico, sia compresente e indispensabile a una disposizione profondamente diversa. Infatti, la monotonia dei personaggi altezzosi e l’equilibrio su cui si fonda la loro vita niscono sempre con lo sgretolarsi, costringendoli ad a rontare le proprie debolezze. È qui che lo schema dell’ordine viene scomposto e l’immagine trova uno sbocco inedito nel suo punto culminante. D’altra parte, abbiamo già avuto modo di osservare entrambi gli aspetti in The young pope, a dimostrazione del fatto che, quindici anni dopo L’uomo in più, in Sorrentino persiste la tendenza ad articolare insieme due inclinazioni antitetiche che possiamo, adesso, de nire nel segno dell’“economia” di Derrida. Che si tratti dell’arroganza di personaggi maschili a itti dalle delusioni della vita, oppure di una composizione visiva che ricongiunge immagini distanti nello spazio e nel

tempo, come riscontrato nella seconda parte di The young pope, in entrambi i casi non osserviamo una struttura compiuta e de nitiva ma soltanto una tappa provvisoria che precede l’arrivo di uno spiraglio inatteso. Ora, la speci cità dei lavori di Sorrentino sta proprio nel fatto che l’epilogo non possiede semplicemente i caratteri dell’equilibrio ma tratti più complessi, benché l’idea di una liberazione nale del personaggio faccia pensare a una sempli cazione risolutiva della trama. In realtà, l’esito positivo a cui si giunge alla ne della fabula possiede tratti ambigui o, quantomeno, non risolve le problematiche presentate all’inizio del racconto. Piuttosto, ciò che osserviamo negli epiloghi sorrentiniani sono scon tte e ammissioni di debolezza oppure immagini che suggeriscono un cambio di rotta da attuare in uno spazio extra-narrativo di cui non saremo testimoni. Le prime vanno incontro all’impossibilità, come accade nella scena della morte di Titta ne Le conseguenze dell’amore, prima dell’estasi di Belardo in The young pope, laddove le seconde attengono alla sfera della processualità, come osservato per La grande bellezza. Pertanto, pur ammettendo, come sostenuto in precedenza, che più di ogni altro lavoro, The young pope si conclude con un’immagine ambivalente in grado di smantellare le soluzioni narrative ottenute negli episodi precedenti, occorre ribadire più generalmente che gli epiloghi sorrentiniani non rispettano le regole dell’ordine. Al contrario, la nascita di una possibilità inedita in corrispondenza della conclusione narrativa non fa altro che condurre una prima mossa falsamente risolutiva verso il proprio ridimensionamento. È in questo punto che l’iperbole incontra la discesa e dal decollo si passa – spesso letteralmente – al tu o. Così, nell’economia che viene a crearsi tra le due fasi antitetiche, si ottiene l’idea secondo cui non c’è altra via d’uscita se non quella che consiste nell’a dare a un gesto incompiuto e non risolutivo il compito di mettere la parola ne all’immagine. Paradossalmente, ciò che si oppone all’epifania del

rimedio diventa l’unica conclusione possibile, destituendo l’iperbole in favore del ridimensionamento. Non è un caso che le storie de L’uomo in più, di Youth ma anche, in minore misura, de La grande bellezza siano costruite su una coppia di personaggi in cui soltanto uno dei due riesce a salvarsi: Antonio Pisapia e Mick Boyle si suicidano, mentre Tony Pisapia e Fred Ballinger riscoprono un motivo valido per continuare a vivere, così come Romano lascia Roma a causa dell’eccesso mondano, laddove Jep decide di restare e scrivere un libro sulla vacuità della festa. Uno dei due individui, colui che scappa o che muore, funge da spinta per la seconda gura del binomio che sopravvive e che porta a termine lo slancio vitale. Tuttavia, entrambi i personaggi, il perdente come il vincitore, sono costretti a lavorare in coppia, sicché soltanto insieme riescono a costruire una vera e propria economia, come suggerisce Tony Pisapia nelle battute nali de L’uomo in più: Poi mi ricordo un amico. Si chiamava Antonio Pisapia. Era un grande calciatore. Voleva fare l’allenatore e non gliel’hanno fatto fare. E si è suicidato. Ma io non mi suiciderò mai. E che un’altra cosa mi ricordo io. Io ho sempre amato la libertà. E voi non sapete manco che cazzo signi ca. Io ho sempre amato la libertà. Io sono un uomo libero.342 Come si articola allora l’economia de L’uomo in più? Antonio Pisapia è l’uomo di talento che non avrà mai successo, Tony Pisapia il cantante la cui fama non corrisponde in alcun modo al suo scarso ingegno musicale. Ora, Sorrentino non si concentra soltanto sull’idea secondo cui gli uomini giusti e meritevoli sono puniti dalle iniquità di un mondo dominato da imbroglioni e da appro ttatori, benché la trama lmica sembri orientarsi in questa direzione (bisogna tenere a mente che le sventure di Antonio cominciano proprio quando ri uta di truccare una partita di calcio)343. Al contrario, più del luogo comune dell’ingiustizia sociale ed

umana, ciò su cui si concentra il regista è l’immagine dell’impossibilità di spiccare il volo proprio da parte del personaggio conscio del sopruso che sta subendo. Antonio può anche studiare senza tregua schemi di gioco innovativi sperimentati sul tavolo da gioco del Subbuteo o sul bancone di un bar con delle tazzine da ca è344, così come può convincersi che la causa del proprio insuccesso sia la mancata partecipazione alla tru a della sua squadra di calcio, ma non riesce comunque a trovare la spinta necessaria per continuare a vivere. Sorrentino non esclude l’aspirante allenatore dalla categoria delle vittime, ma non per questo lo accompagna verso la strada della liberazione. Rinchiuso nella prospettiva del giusto, Antonio Pisapia crede che, prima o poi, la buona sorte lo ricompenserà per gli sforzi fatti nel passato. Ma ciò non accade e il protagonista non può fare altro che osservare movimenti protesi verso la vita senza realmente prendervi parte. Invitato da una donna a seguirla a Capri, l’ex calciatore non si presenterà all’appuntamento; l’immagine dell’aliscafo che parte senza nessuno dei due personaggi a bordo conduce a quella del decollo degli aerei che Antonio osserva ogni giorno recandosi nei pressi dell’aeroporto. Estraneo alla leggerezza dello slancio, aspettando invano un’occasione che non arriverà, Antonio Pisapia cade sotto il peso del proprio sogno. Come sottolinea Fernando Acitelli, il personaggio dell’aspirante allenatore è paradossale nella misura in cui egli promuove e studia l’idea di un gioco spregiudicato, l’uomo in più che immagina per il calcio del futuro ma, allo stesso tempo, vive nascondendosi come un “bambino” che preferisce “cullarsi […] con il Subbuteo: vera trasgressione quell’uomo in più, l’unica possibilità di stordire la timidezza e stupire tutti coloro che non credono in lui”345. La situazione del secondo protagonista è radicalmente diversa, lui che gioca d’attacco laddove il suo omonimo sa soltanto difendersi346. Perché, allora, a togliersi la vita non è l’uomo che ha perso tutto e che non ha meritato niente? Perché a morire non è il cocainomane, il glio disprezzato

dalla madre e assente al funerale del padre, il genitore accusato di abuso sessuale su minore? Ciò che salva Tony e che, qualche anno dopo, salverà Titta Di Girolamo è proprio la tendenza da parte del personaggio ad accogliere l’imminente fallimento personale, rovesciando ciò che l’azione non riesce a correggere o a modi care, in linea con quanto osservato nel primo capitolo del nostro lavoro. Al di fuori di qualsiasi piano premeditato, estraneo alla dicotomia tra successo e insuccesso, nasce la possibilità del “tu o”, gesto che interviene contemporaneamente al crollo e che lo accompagna verso il proprio epilogo. Ricorderemo la maniera per niente casuale in cui Titta muore ne Le conseguenze dell’amore, nella scena in cui è appeso a una gru e viene immerso in un barile di cemento. Ora, nel momento stesso in cui il suo corpo scompare verso il basso, un attimo prima di esalare l’ultimo respiro, egli riesce a morire da uomo vivo ribaltando l’indolenza iniziale che gli impediva di provare un qualsivoglia desiderio di stare al mondo347. Se è vero, come scrive Guido Morselli, che “suicida è chi ri uta di vivere”348, non è consegnandosi alla Camorra che Titta provoca la propria morte, nella misura in cui è il suo iniziale cinismo ad avvicinarlo maggiormente al comportamento del suicida. Pertanto, il movimento verso il basso ha una valenza speci ca nella misura in cui esso segna il momento in cui l’individuo, il cinico arrogante in pieno declino, abbandona la falsa superiorità, spesso celata sotto il velo dell’indi erenza, per riscoprire un reale contatto con ciò che lo circonda in un gesto liberatorio. L’uomo libero sostituisce il volo iperbolico con il tu o, seguendo il suggerimento di Tony Pisapia alla ne de L’uomo in più, come se Sorrentino avesse preannunciato un’idea fondatrice del proprio cinema. Inseguito dalla polizia dopo aver ammesso pubblicamente di aver ucciso il presidente della squadra di Antonio, Tony Pisapia sale su una piccola barca da pesca e, allontanatosi un po’ dalla riva, si tu a in acqua. L’immagine successiva lo mostra in carcere sorridente mentre fa ciò che ama di più, ossia

cucinare del pesce e condividerlo con altri tre detenuti349. La qualità del protagonista dello slancio è quella di liberare l’altro dal fallimento, nonché di salvare se stesso da una prospettiva analoga. Per far ciò, L’uomo in più indica che la strada da seguire è quella della debolezza, con il tu o che diventa il gesto prediletto in tal senso. Nella fattispecie, Tony Pisapia trova la libertà tanto difesa (“Io ho sempre amato la liberta”) consegnandosi alla polizia, cioè, paradossalmente, facendosi rinchiudere in prigione. È secondo questa modalità che il salto in acqua si coniuga con il crollo: nel momento culminante del declino, il protagonista non vi oppone più nessuna resistenza ma decide di lasciarsi cadere. Così, Tony Pisapia, il cantante che per anni aveva vissuto nell’illusione del successo, può nalmente rinnovare il contatto con la terra, a condizione, però, di passare dallo strato sottostante, dalle profondità marine che riscopre per la prima volta dopo il trauma della morte del fratello attaccato e ucciso da una piovra. Non si tratta semplicemente di riscoprire la semplicità e l’umiltà tornando con i piedi per terra, ma lo sforzo consiste nello spingersi più in là, scoprendo il contrario dell’iperbole, orientando il volo di Icaro verso gli abissi. Il gesto del tu o torna spesso nei lavori successivi del regista napoletano: ne La grande bellezza, il ricordo di gioventù di Jep Gambardella lo ritrae in mare mentre si nasconde sott’acqua nel tentativo di evitare l’onda provocata da una barca, così come la mondana Stefania si tu a nuda in piscina dopo una serata particolarmente spiacevole a casa di Jep350. In precedenza, in This must be the place, Cheyenne aveva fatto costruire una piscina da esterno nel cortile di una giovane donna a nché il glio di quest’ultima potesse imparare a nuotare. Così, aiutando il bambino a liberarsi della paura dell’acqua, Cheyenne segnava un punto di snodo nel proprio viaggio, riempendo a distanza la grande piscina vuota che avevamo visto nel suo giardino all’inizio del lm351. In maniera simile, in The young pope, Belardo viene ripreso mentre prega in apnea

in piscina dopo esser venuto a conoscenza della morte dell’amico Dussolier352. Il volo rimane un’operazione impossibile e il sognatore (Antonio Pisapia) non può fare altro che osservare aerei che decollano senza mai riuscire a spiccare il volo in prima persona. Invece, è lo slancio a essere possibile, se non addirittura necessario, a condizione che lo si consideri come una traiettoria volta verso il basso. La spinta nasce dall’impossibilità dell’ascesa iperbolica e si articola con essa, generando, di fatto, una vera e propria economia. È qui che il movimento diventa letteralmente vitale, pur essendo orientato verso una forma di debolezza, a immagine della possibilità per Tony Pisapia di trovare la libertà facendosi arrestare. Pertanto, a nché nasca un’economia tra i due momenti, è opportuno che l’iperbole impossibile e la discesa inevitabile costituiscano una terza tappa che fa in modo che le prime due non siano antitetiche ma compartecipi. In tal senso, Vigni osserva attentamente come L’uomo in più giochi con i numeri tre e quattro, passando da quattro oggetti a tre, come nella scena in cui Tony prepara quattro strisce di cocaina e ne assume soltanto tre, oppure aggiungendo una quarta unità alle tre iniziali, come nella scena nale in cui il protagonista prepara da mangiare per tre compagni di cella rispetto ai quali egli è il quarto uomo, “l’uomo in più”353. Qualcosa di simile accade con i due personaggi: inizialmente concepiti come i protagonisti di due storie distinte prima di convergere in un unico lungometraggio, i Pisapia non sono soltanto lo sdoppiamento di un individuo ma due gure che, pur incrociandosi soltanto due volte nel racconto lmico354, lavorano insieme passando, di fatto, da due a tre. Non c’è soltanto il volo di Icaro che compie Antonio e il tu o del riscatto di Tony ma un qualcosa che ci suggerisce come la spinta del secondo non sia la soluzione all’insuccesso del primo. Come indica Alberto Zanetti, la natura “[del]l’uomo in più” è quella “[del]l’altro che trasforma”, con Tony che deve portare avanti il progetto a cui Antonio è venuto meno,

convertendo la pesantezza in leggerezza, operazione di cui Sorrentino non mette in rilievo soltanto la vittoria del cantante ma, proprio perché Tony va incontro alla propria caduta, la maniera in cui i due gesti si articolano insieme. Ne L’uomo in più, siamo dinanzi all’idea secondo cui l’impossibilità è contemporanea e indispensabile alla possibilità, a condizione, però, che la strada verso la liberazione sia un fallimento e che quella verso il fallimento un momento liberatorio. È in questo coniugarsi e intrecciarsi che i due personaggi formano un terzo oggetto, il loro rapporto, ciò che tramite Derrida abbiamo chiamato “economia”. Poc’anzi abbiamo osservato come, in The aviator, Howard Hughes non riesca realmente a rinascere a causa della sua ostinazione nel compiere esclusivamente un gesto iperbolico, in maniera simile all’errore commesso da Antonio Pisapia. Al contempo, però, il cinema di Scorsese ci presenta anche l’altra faccia della medaglia tramite gure paragonabili al secondo protagonista de L’uomo in più. In Bringing out the dead, Frank Pierce è alle prese con un quesito più grande delle di coltà materiali e siche del lavoro di paramedico. Nel ritmo frenetico delle sequenze lmiche veniamo gradualmente a conoscenza di tutti gli imprevisti del mestiere e dello sforzo sovraumano necessario per soccorrere e salvare il prossimo. Contemporaneamente, però, diventa sempre più complesso immaginare una via d’uscita per il protagonista. Frank assiste pazienti in n di vita o persone le cui dipendenze da droga e alcool sembrano precludere ogni speranza di guarigione ma nessuno riesce ad aiutarlo a guarire dalle manie, dai traumi e dall’insonnia che lo logorano sempre di più ogni notte. Ora, in maniera simile a ciò che accade in Sorrentino, Scorsese lascia spesso un’ultima possibilità di salvezza ai propri personaggi. Alcuni di loro la ignorano, spinti dalla fame di successo e ingannati dai giochi di potere, altri la colgono e riescono a liberarsi. A tal proposito, è interessante notare che, come in Sorrentino, i personaggi scorsesiani che riescono a

trovare un nuovo respiro sono proprio coloro che scendono nello strato in mo della parabola infernale. Infatti, è proprio nel momento in cui toccano il fondo che essi scoprono una ragione valida per tornare a vivere nonché una forza inedita per compiere lo slancio. È forse per questo che, in Scorsese come in Sorrentino, la struttura narrativa de nisce manifestamente un punto di snodo a partire dal quale è possibile invertire la parabola decrescente in un inatteso movimento ascendente. Ne La grande bellezza, è a partire dall’incontro con Ramona, la spogliarellista che difende una nudità elegante e che Jep incontra in un night-club in cui aveva immaginato di passare un’ennesima e insigni cante nottata mondana, che nascono i presupposti a nché il cinismo mondano e inconcludente del protagonista lasci il posto alla voglia di tornare a scrivere. In Bringing out the dead, il cambio di rotta è ancora più esplicito nella misura in cui le coordinate che Scorsese sceglie come punti di riferimento sono quelle del peccato e della redenzione. Possiamo prendere in considerazione la successione visiva seguente per capire come, sebbene il protagonista perda gradualmente il controllo dei propri atti, l’ultima azione, quella che coincide con l’esplosione dell’ira repressa, ribalti il movimento di discesa e apra alla salvezza: esausto ed esasperato dall’ennesima notte segnata da imprevisti violenti, mentre soccorre un tossicodipendente che aveva tentato di suicidarsi, Frank lascia intendere all’uomo che avrebbe preferito vederlo morto spiegandogli, per giunta, come provocare un’overdose realmente letale. In seguito, dopo una sequenza nell’ambulanza segnata da un’accelerazione del ritmo visivo e musicale, il protagonista rischia di morire salvando proprio il tra cante di droga da cui dipendono la maggior parte dei problemi del quartiere. A chiudere la successione frenetica, è un personaggio già noto alla fabula, un certo Noel, un ennesimo tossicodipendente la cui malattia è accentuata da una ferita cerebrale subita anni prima, paziente di cui i paramedici sono costretti a occuparsi

ripetutamente benché il suo caso sembri irrisolvibile. È qui che osserviamo il punto di snodo: assecondando l’isteria di Frank, il suo collega paramedico decide di non soccorrere Noel ma, al contrario, di pestarlo violentemente. Ora, il protagonista, che poco prima aveva parlato di “voglia di distruzione”, non segue la veemenza del suo compagno di lavoro e gli impedisce di continuare la sua azione brutale portando, invece, il 355 tossicodipendente moribondo in ospedale . La svolta decisiva coincide con il momento in cui il personaggio inverte la traiettoria declinante spianando la strada per la propria liberazione il che, nella lmogra a di Scorsese, è spesso sinonimo di redenzione divina. Così, l’ultima scena di Bringing out the dead mette la parola ne alle tinte tenebrose che avevano contraddistinto i tragitti notturni dei paramedici tramite un fotogramma in cui un raggio di luce subentra inaspettatamente nell’inquadratura accompagnando un gesto a ettuoso tra Frank e la sua amica Mary. Se in precedenza le uniche fonti luminose erano state reverberi abbaglianti, dai lampeggianti delle macchine ai semafori passando per la sirena dell’ambulanza, il frammento nale del lm introduce un chiarore di uso e dolce che avvolge i due personaggi principali proprio mentre l’uomo appoggia la testa sul seno della donna356. Tuttavia, riprendendo un’osservazione fatta nel primo capitolo del nostro lavoro in merito alla questione della trascendenza in Scorsese, conviene precisare che la redenzione di Frank non viene compiuta soltanto tramite il gesto verticale e divino del recupero della vita (salvare Noel), con tanto di riferimento onomastico alla parola Natale e, presumibilmente, al suo signi cato di nascita357. Invece, come per l’ambivalenza delle azioni di Travis Bickle in Taxi driver, in Bringing out the dead, Scorsese estende la valenza della liberazione all’a rancamento dai dolori materiali, nonché all’eutanasia. Infatti, dopo aver soccorso il tossicodipendente in n di vita, il protagonista decide di

porre ne all’agonia del padre di Mary, ormai condannato a un lungo e doloroso stato di coma. Se la somiglianza tra Frank Pierce e Tony Pisapia risiede nel fatto che entrambi trovano la leggerezza dello slancio nel momento in cui toccano il fondo, una più forte analogia rispetto alla valenza del tu o e del crollo è riscontrabile con il pugile Raging Bull. Jake La Motta non ha soltanto il merito, seppur temporaneo, di eccellere sul ring ma anche e soprattutto quello di riconoscere la propria scon tta, sicché la sua ultima s da non è protesa verso il successo ma verso la possibilità di uno slancio vitale. È curioso, allora, osservare come il personaggio non sia soltanto una gura simile al cantante de L’uomo in più nella misura in cui la vicenda che lo coinvolge illustra sia la trappola della pesantezza in cui cade Antonio Pisapia sia la leggerezza a cui giunge il suo omonimo. Cosa succede, allora, in Raging Bull? La prima tappa del racconto è quella del successo sportivo e personale del pugile, attraverso il titolo mondiale e il matrimonio con Vicky. Si tratta del momento che precede il gesto iperbolico, lo stato e mero della fama, in maniera simile a ciò che accade a buona parte dei protagonisti sorrentiniani, seguendo quanto osservato anteriormente sulla precarietà del potere. Ora, in Raging Bull e ne L’uomo in più, il trionfo non è altro che il preludio per l’impossibile volo di Icaro. È al termine del successo che sia La Motta che Antonio Pisapia danno prova di ostinatezza, il primo tentando di riconquistare il titolo perso sul ring, il secondo sognando di diventare allenatore con un’idea di gioco rivoluzionaria. Il seguito della vicenda mostra un’a nità altrettanto agrante dal momento che, dopo l’ineluttabile scon tta, entrambi i personaggi reagiscono in iggendo a se stessi una pena. In tal senso, ci sembra di poter estendere all’ex calciatore de L’uomo in più un comportamento che Casillo attribuisce a La Motta quando spiega che il pugile oscilla tra le due polarità della “presunzione divina” e del “sadismo” (o

“abiezione masochistica”), sempre seguendo l’ipotesi secondo cui la maggior parte dei personaggi di Scorsese cercano la salvezza “tramite la violenza”358. Così, l’incontro di boxe tra Jake La Motta e Ray Robinson si trasforma subito in una dimostrazione di so erenza da parte del primo duellante, incapace di vincere ma ostinato a rimanere sul ring per dimostrare al proprio avversario di riuscire a sopportare i colpi più brutali senza mai andare al tappeto359. Il gesto sadico di La Motta continua anche al di fuori dell’ambito sportivo attraverso le frasi sarcastiche che egli rivolge a se stesso quando, nel night-club di cui è da poco diventato proprietario, si presenta dinanzi al pubblico facendo battute sui matrimoni infelici e sui tradimenti coniugali, rimandando alla propria storia personale con Vicky. Per confermare la correlazione tra la pesantezza e la punizione basterebbe rivedere l’immagine in cui La Motta, palesemente ingrassato rispetto alla prima parte del lm, scaraventa violentemente pugni contro la parete della cella in cui è stato rinchiuso360. In maniera simile, Antonio Pisapia si autopunisce quando ri uta di partire a Capri con una donna di cui è innamorato, anticipando così il gesto radicale del suicidio. A un tratto, però, proprio in prossimità del baratro, il crollo del pugile di Scorsese si trasforma in una spinta vitale, come per il cantante de L’uomo in più. Mettendo a paragone le traiettorie declinanti di Jake La Motta e Tony Pisapia, non saremo sorpresi nel constatare in entrambe un episodio analogo, un reato in cui è coinvolta la presenza di una minorenne: il primo accetta e serve da bere a delle giovani ragazze recatesi nel suo bar notturno, il secondo viene denunciato per abuso sessuale su minore361. In ambedue i casi, la malefatta non è l’occasione per sottolineare una condizione di superiorità e, in un certo qual modo, di dominazione del personaggio ma, piuttosto, è ciò che fa apparire manifestamente la sua l’ingenuità. L’errore potenzialmente fatale è commesso dall’uomo debole ed è proprio a partire da questo momento che egli può trovare la leggerezza necessaria per

rinnovare un contatto con la vita. Se, come visto in precedenza, per il cantante di Sorrentino è necessario accompagnare il crollo inevitabile con il gesto del tu o, qualcosa di simile succede con la riconversione di La Motta. Senza risolvere i problemi del passato, dal divorzio con Vicky alle ostilità irrisolte con suo fratello che lo ignora vedendolo passare per strada362, il pugile di Scorsese sostituisce il ring con il palcoscenico, preparando un monologo proprio sulla valenza della scon tta. Pertanto, sovrapponendo il teatro al fallimento personale, ormai lontano dal sarcasmo caricaturale con cui aveva precedentemente trattato gli errori del passato, La Motta compie un atto simile a quello che contraddistingue la rinascita di Tony Pisapia. Si tratta della sostituzione del vano tentativo di opporsi alla caduta con un movimento in grado di accompagnarla verso il basso, ciò che poc’anzi abbiamo chiamato “tu o” in riferimento a un fotogramma de L’uomo in più. Il salto in acqua e il teatro vanno di pari passo in entrambi i lm, come se la liberazione di Tony Pisapia che segue il suo monologo televisivo rimandasse al percorso di La Motta, il cui fallimento sportivo spiana la strada a una nuova vita da commediante. II.3.d I gesti non risolutivi: ripresa della questione dell’ordine e dell’eterogeneità Nelle pagine precedenti, abbiamo introdotto l’ordine e l’eterogeneità come strutture ricorrenti dell’immagine di Sorrentino. Giunti a questo punto della nostra analisi, alla luce di quanto rilevato in merito al passaggio dalla pesantezza alla leggerezza, è opportuno osservare con più attenzione secondo quali modalità lo slancio vitale predilige l’ambivalenza dell’eterogeneità piuttosto che lo schema dell’ordine. Per far ciò, facendo tesoro delle considerazioni fatte su L’uomo in più, passeremo in rassegna i gesti liberatori che osserviamo nei lungometraggi di Sorrentino. Ne La maschera, il potere, la solitudine, Vigni sottolinea che, superando “ciò che Antonio solo subisce”, Tony Pisapia “scopre la forza di

s dare la mediocrità e il cinismo, di reagire all’indi erenza e alla morale comune, di a ermare la propria libertà”363. Tuttavia, se è vero che è di libertà che si tratta nel lungometraggio di Sorrentino, è necessario precisare che il gesto del riscatto non è ciò che risolve i problemi che a iggevano l’animo del personaggio che si a ranca ma, paradossalmente, ciò che permette di lasciarli irrisolti. Tony si tu a per ricordarsi il luogo dove ha visto morire suo fratello senza pretendere di annullare il peso del trauma ma, più profondamente, rendendosi disponibile ad accoglierlo nuovamente. È per questo motivo che il gesto del cantante di Sorrentino non è soltanto un ri uto della contemporaneità, ciò che gli permette di prendere le distanze dal “berlusconismo latente” benché mai pronunciato, di “quell’Italia tutta di sponde in cui ciascuno scruta e attende”, seguendo l’osservazione di Flavio De Bernardinis364. Piuttosto, se è vero, come sottolinea il critico, che Tony Pisapia “fa saltare l’ultimo schema” è perché l’immagine nale non assegna al gesto liberatorio la responsabilità dell’ordine ma descrive la libertà stessa nel segno della soluzione impossibile. È qui che il cinema di Sorrentino inaugura la possibilità di sostituire il piano dell’azione con quello del gesto, sicché quest’ultimo non è più soltanto una prerogativa dell’individuo ma appartiene più profondamente all’organizzazione dell’immagine lmica. L’azione era il piano rispetto al quale il personaggio cadeva sotto il peso delle proprie debolezze, a dispetto della condizione di superiorità ostentata in partenza. Al contrario, la sfera del gesto è ciò che permette all’individuo di accogliere la fragilità tu andosi con essa, riuscendo, così, ad aprire l’immagine alla propria ambivalenza al di là di qualsiasi velleità o progetto individuale: chiedendo al racconto di chiudersi con un epilogo non risolutivo, il gesto allontana l’immagine dallo schema dell’ordine e le permette di aprirsi verso l’ambivalenza, ciò che abbiamo de nito eterogeneità. Dando uno sguardo globale alla lmogra a del cineasta

partenopeo, si dirà che il suo primo lungometraggio compone già un’immagine complessa, nella misura in cui l’economia che si crea tra i due Pisapia porta alla proposta di una soluzione che non è un punto di chiusura del racconto ma un’immagine in cui ciò che viene messo in rilievo è precisamente qualcosa che sfugge allo schema narrativo: la fabula porta alla carcerazione di Tony ma ciò che conta realmente è il tu o, il gesto di ricongiungimento con la vita. Lo stesso dicasi per i lungometraggi successivi di Sorrentino. Come già anticipato in precedenza, per arrivare a personaggi quali Cheyenne, Jep Gambardella e Fred Ballinger, occorre passare da Titta Di Girolamo e dal suo salvataggio in extremis ne Le conseguenze dell’amore: “parente dell’uomo fallito” ma “già a un passo successivo, perché rischia di salvarsi”365, il protagonista del secondo lungometraggio di Sorrentino scopre la vita tramite la scon tta. Se Titta trova la salvezza è perché, in punto di morte, vede una ragione valida per essere al mondo il che, paradossalmente, non è altro che la rivelazione secondo cui vivere vuole anche dire rischiare di perdere e che qualsiasi scon tta, persino quella dettata dalla cattiva sorte, come succede per lo sfortunato incidente stradale che lo allontana dalla donna amata (So a), vale più dell’eterna disfatta di un’esistenza passata recluso in un albergo. Nel lungometraggio seguente, il regista delinea un’ennesima gura maschile cinica e arrogante, condannandola però a subire il peso della propria superiorità. Così, ne L’amico di famiglia, Geremia non riesce in alcun modo a cogliere la leggerezza dello slancio, anticipando una sorte comune ad Andreotti e a Berlusconi, rispettivamente ne Il divo e in Loro. La spinta vitale torna con This must be the place e avviene nuovamente sul piano incompleto del gesto, proprio in virtù del fatto che l’azione non è in grado di risolvere il tormento del personaggio. Cosa fa, allora, Cheyenne quando trova Aloise Lange, il nazista che perseguitò suo padre nei campi di sterminio? Il protagonista sarà anche arrivato nel deserto polare con l’intento di vendicare suo

padre ma, in conclusione, ciò che compie oltrepassa la portata della rivalsa. Se, da un lato, è vero che Cheyenne spinge il nazista a uscire nudo dalla sua dimora costringendolo a sopportare la temperatura glaciale del deserto, non è su questo fotogramma che si conclude il lm. Ce ne vorranno altri due: il primo è il momento in cui il protagonista fotografa il volto di Lange, il secondo ci mostra lo stesso cantante palesemente cambiato. Sul suo volto sereno e sorridente è stato rimosso il trucco arti cioso da rockstar, lo strato più visibile dell’immobilità che il personaggio continuava a curare sebbene avesse abbandonato il mondo della musica366. Il primo dei due gesti ha una valenza signi cativa poiché rimanda a uno sforzo storiogra co che riscontriamo in gran parte dei lavori di Sorrentino, come si vedrà successivamente367. Quanto al secondo, esso testimonia come, nel cinema del regista napoletano, i gesti protesi verso la vita non sposino la struttura chiusa dell’ordine sicché la scena in questione non è un’immagine che porta realmente a termine l’azione precedente. This must be the place è un esempio emblematico in tal senso, poiché, pur trattandosi dell’unico lm di Sorrentino in cui il personaggio principale raggiunge l’obiettivo ssato inizialmente (ritrovare Aloise Lange), non è sull’adempimento del progetto che la storia si conclude. Pertanto, dieci anni dopo L’uomo in più, persiste l’idea secondo cui, se si giunge ad un epilogo narrativo, tenendo a mente che le immagini dello slancio vitale intervengono sempre nelle battute nali del racconto, allora la conclusione non può né deve delineare l’ultimo tratto di una forma chiusa. Cheyenne pone le basi a nché il seguito della vicenda possa aprirsi verso una nuova immagine ma, come per Jep Gambardella ne La grande bellezza, questa visione nisce fuori campo, sicché rimane soltanto un gesto che suggerisce il cambiamento. D’altra parte, nella scena di chiusura di This must be the place, il protagonista non ci o re uno sguardo, soltanto un cenno del capo, che nella sua istantaneità è già su ciente per

aprire l’immagine verso una serie di visioni migliori appartenenti a un futuro di cui non saremo testimoni? Così, nella rapidità estrema del gesto non si creano forse le condizioni a nché la soluzione, ciò che all’azione era risultata impossibile, possa esistere in un avvenire extranarrativo di cui ci è permesso di vedere soltanto l’embrione? La temporalità della spinta verso la vita è quella del germe, senza che il lm si concentri sulla crescita di quest’ultimo, lasciando così un’ultima fessura in corrispondenza dell’epilogo. Difatti, in This must be the place, l’ultima persona che Cheyenne incontra non è il tanto ricercato Aloise Lange, bensì la donna il cui glio si era suicidato proprio a causa di una vecchia canzone del cantante. Dopo aver visto il volto del passato, è al futuro che si rivolge il protagonista, sicché l’immagine e lo slancio vitale tendono verso un momento e un fotogramma che sfuggono alla struttura lmica. È in tal senso che la liberazione dei personaggi di Sorrentino può avvenire soltanto rispetto alle coordinate ambigue dell’eterogeneità, soltanto dopo aver preso le distanze dall’illusione dell’ordine. Retrospettivamente, riprendendo un’osservazione fatta in precedenza, saremo poco sorpresi nel vedere che, in The young pope, Lenny Belardo conosce allo stesso tempo l’ordine politico e spirituale di un papa che ha ritrovato la fede e il senso di abbandono dell’orfano che non smette di cercare i propri genitori. Analogamente, in Youth, benché l’immagine raduni attorno al protagonista una serie di personaggi secondari delineando una struttura concentrica e ordinata che lo accompagna verso il proprio slancio, occorre rammentare che il brano nale che Fred Ballinger accetta di dirigere rimane un gesto aperto verso un futuro ancora da determinare, così come accade nel frammento in cui vediamo sua glia (Lena) mentre si lascia andare tra le braccia del suo nuovo compagno, uno scalatore che le fa provare l’ebrezza di rimanere in sospeso, appesa ad un gancio sulla cima di una montagna368: “a ottant’anni non si deve per forza rinunciare a un’idea di domani. Col passato non si è liberi

perché è andato, col presente lo si è poco, ma il futuro, anche se breve, è la più grande prospettiva di libertà che abbiamo”, seguendo un consiglio che lo stesso Sorrentino dà al proprio personaggio369. Sia Fred che Lena compiono uno slancio, la seconda in maniera più esplicita rispetto al primo, ma per l’uno come per l’altra l’a rancamento dal dolore iniziale necessita uno spazio che l’immagine può soltanto suggerirci. Ora, la necessità di una dimensione extra-narrativa è dovuta al fatto che nessuna cura è stata trovata nell’arco delle immagini lmiche, il che corrisponde a dire che l’immagine non contiene il rimedio al tormento iniziale, ma lascia ai personaggi un’ultima possibilità di vivere con esso. È secondo queste condizioni che lo slancio vitale sorrentiniano trova le proprie radici nell’idea scorsesiana secondo cui convivere con la scon tta, come Jake La Motta in Raging Bull, stabilisce il contatto più intimo con la vita. Quand’anche un gesto liberatorio sorrentiniano dovesse condurre l’individuo verso l’a rancamento dai mali che lo tormentano, non è rispetto allo schema dell’ordine che agisce lo slancio vitale. Non vi è alcun dubbio sul fatto che i personaggi che scoprono la leggerezza riescono a modi care in positivo la loro situazione di partenza. Tuttavia, benché la loro graduale liberazione sembri dirigersi verso la de nizione di un nuovo equilibrio, l’epilogo lmico ci riserva un’immagine che rompe la compattezza dell’ordine. Questa crepa che viene a crearsi nei frammenti conclusivi è l’unica disposizione visiva in grado di accogliere lo slancio vitale, un’immagine che ci rammenta che ne esisteranno altre senza renderle visibili. È proprio in questo punto che la sfera dell’azione si fa da parte, ormai destituita da quella del gesto. A partire da questa ipotesi è possibile identi care una giuntura tra il cinema di Sorrentino e quello di Scorsese: l’immagine non si ferma sul gesto iperbolico in grado di superare il trauma, ma prosegue dirigendosi verso un altro fotogramma che attesta l’esatto contrario, una visione che non pretende più di trovare un rimedio al turbamento

iniziale ma che lo accoglie diversamente, a condizione di poter lasciare uno spiraglio per un futuro di nuove immagini. È per questo che lo slancio vitale è un gesto proteso verso l’avvenire, come se la rivelazione di Youth secondo cui la vita può rinascere in qualsiasi momento risuonasse in tutti i lm di Sorrentino: “Lei sa cosa la attende fuori di qui? […] La giovinezza”, spiega il medico dell’hotel a Fred Ballinger370. II.3.e La leggerezza dello slancio e il meta- lm: Otto e mezzo e La grande bellezza Il nostro discorso sullo slancio vitale nel cinema di Sorrentino ci invita a mettere a confronto Otto e mezzo e La grande bellezza, due opere che presentano l’espediente della meta- nzione. Una distinzione va, tuttavia, operata sin da adesso, dal momento che il lungometraggio di Fellini è costruito esplicitamente sulla struttura del lm nel lm, mentre quello di Sorrentino gioca sul passaggio tra l’immagine cinematogra ca e la scrittura in prosa per suggerire, in conclusione, la stesura di un romanzo che dovrebbe coincidere con le immagini in movimento appena visionate. A dispetto di questa iniziale discrepanza, osserviamo che le due strutture metareferenziali o rono un terreno fertile per la leggerezza dello slancio vitale. In Otto e mezzo, l’astronave che Guido Anselmi ha fatto costruire dal suo produttore è un oggetto emblematico: mostro paragonabile alla creatura acquatica che vediamo alla ne de La dolce vita, struttura imponente da cui dipende la porosità tra i due lm, quello che il regista ttizio abbandonerà e quello della macrostruttura, ossia il lavoro di Fellini che, invece, proseguirà generando l’ultima immagine del girotondo. In maniera simile a quanto riscontrato con l’economia tra i due omonimi de L’uomo in più, anche in Otto e mezzo uno dei due progetti deve fallire a nché il secondo possa spiccare il volo. Così come, in Sorrentino, il personaggio che sogna il successo non può fare altro che contemplare gli aerei che volano, anche in Fellini il marchingegno

preposto al decollo è quello che non parte e che viene de nitivamente smontato371. Così, in Otto e mezzo, è necessario che il lm ttizio venga abbandonato, come suggerisce il personaggio di Claudia, colei che Guido sembra amare più di ogni altra donna. Figura dalla consistenza irreale, le sue sembianze rimangono oniriche sia nella visione da cui il protagonista si sveglia all’inizio del racconto, sia in quella da cui non uscirà più e che anticipa la sequenza della conferenza stampa nelle battute nali372. Claudia è un personaggio assente nel mondo reale – benché gli sprazzi di realtà siano sempre più di cili da individuare scena dopo scena – e dissociata dal lm della microstruttura, tanto da essere l’unico gurante di cui manca il provino. La ragione per cui alla giovane donna non tocca partecipare al progetto fallimentare delle riprese è dovuta al fatto che il suo compito consiste nell’esatto contrario, ossia nel rivelare che “non c’è nessun lm, non c’è niente di niente”, mentre Guido, in controcampo, annuisce in segno di complicità373. Del lm del protagonista svaniscono anche le scene a sfondo autobiogra co ra guranti i personaggi ttizi di sua moglie e della sua amante, così come scompaiono i fotogrammi che ripercorrono i suoi ricordi d’infanzia e che resteranno esclusivamente negli archivi di un lungometraggio mai portato a termine374. Eppure, le stesse scene sopravvivono nella macrostruttura di Otto e mezzo, sicché, nel lungometraggio di Fellini come ne L’uomo in più, qualcosa o qualcuno riesce a spiccare il volo. Nella sequenza della conferenza stampa, Guido deve dire che il suo lm non si farà; ora, questa prima proposizione negativa spiana la strada ad una seconda, questa volta positiva, grazie alla quale vediamo nascere un’immagine inedita. Così, dal “no” di Guido nasce il “sì” di Fellini che riesce a dirigere il suo lm sulla mancanza di ispirazione, sullo scompiglio di immagini mentali ed oniriche, con ricordi, visioni ad occhi aperti e sogni erotici che diventano sempre più indistinguibili. È curioso, allora, notare che il regista di Rimini ha bisogno di disfare la

struttura meta- lmica per portare avanti i fotogrammi della macrostruttura, a dimostrazione di come il fallimento del primo volo non escluda la possibilità di un secondo decollo, tanto da poter iscrivere i due movimenti in un’unica successione, ciò che tramite Derrida abbiamo chiamato economia. Analogamente alla spinta vitale del secondo dei due Pisapia ne L’uomo in più, anche in Otto e mezzo la nascita di un’ultima immagine dipende da un primo insuccesso: bisogna prima smontare l’impalcatura colossale che sorregge l’astronave per costruire la passerella che inaugurerà il girotondo. Innanzitutto, Fellini deve cadere nell’impossibilità di dirigere un lm e, soltanto in seguito, può generare dalle ceneri del fallimento ciò che Christian Jacotey ha de nito un “ lm al terzo livello”375. Se è vero, come sostiene Frédéric Vitoux, che il suo cinema si regge sul “paradosso” di cercare “l’impossibilità di ripetersi” no a commettere l’errore di “ribadire” questa volontà a più riprese376, qualcosa di simile accade con il trattamento del meta- lm in Otto e mezzo. L’impossibilità di ripetere la propria vita in un lm è ciò che costringe Guido ad abbandonare il proprio progetto ma diventa, al contempo, l’immagine in grado di rilanciare il lm di Fellini rendendolo, se non autobiogra co, quantomeno “onesto”, secondo l’auspicio del cineasta377. Chi compie, allora, lo slancio in Otto e mezzo? Non propriamente Guido Anselmi, poiché al regista ttizio è riservato il compito diverso, e non meno complesso, di mediare tra i due lm e di ridare attualità a quello della macrostruttura. In realtà, a essere liberata è una scena aggiuntiva, un’ennesima immagine in grado di riunire tutti i frammenti precedenti. Si tratta di quella tendenza già evocata anteriormente che consiste a privilegiare il volume piuttosto che la linearità dell’ordine e che, in Otto e mezzo, conduce al girotondo e allo spazio del circo. È interessante, dunque, notare che anche La grande bellezza si conclude con un’apertura nale, benché quest’ultima non sia della stessa natura di quanto rilevato nel lungometraggio di Fellini. Difatti, Sorrentino inverte

l’equazione felliniana secondo cui un’immagine inedita nasce dalla dissoluzione del lm ttizio, nella misura in cui il lavoro di Jep Gambardella sta proprio nel capire come scrivere sul vuoto delle mondanità, ossia come rendere vivo quel nulla in cui era sprofondato. Eppure, il risultato non cambia poiché, sebbene il primo debba distruggere laddove il secondo impara a comporre, sia Guido che Jep sono coinvolti in uno sforzo in cui qualcosa di vuoto va convertito in un’espressione piena e a ermativa. Pertanto, se ci si interroga sulla natura dell’epilogo de La grande bellezza, ci si accorge che il lm si conclude con una visione retroattiva, a sua volta presentatasi come possibilità di osservare sotto un’altra luce le scene che l’hanno preceduta, tanto da poterle rilanciare e prolungare in un altro lavoro. Fra le intersezioni che si creano tra Otto e mezzo e de La grande bellezza appare con chiarezza che disfare e attivare non sono necessariamente due operazioni antitetiche ma che, al contrario, entrambe conducono alla leggerezza dello slancio. Fellini inserisce la spinta vitale direttamente nell’immagine, in un frammento supplementare, senza curarsi del progetto del suo personaggio, mentre Sorrentino inverte la rotta facendo passare lo slancio dalla rinnovata ispirazione del suo protagonista. Tuttavia, egli limita la rinascita alla portata del gesto senza poter creare altre immagini, sicché l’epilogo lmico non può fare altro che rivalutare quelle precedenti. Ciononostante, in Fellini come in Sorrentino, le strutture meta-referenziali si rivelano compatibili con la nascita di una leggerezza nale. Basterebbe, in tal senso, rivedere le scene di chiusura di Otto e mezzo e La grande bellezza: la La passerella d’addio di Nino Rota conduce lentamente il ritmo della marcia verso una cadenza più dolce, con gli strumenti a ato che accompagnano il brano verso un nale in sordina. In maniera simile, le note di The beatitudes di Vladimir Martynov, eseguito dalle corde del Kronos Quartet, poi quelle di I lie di David Lang

accompagnano la telecamera di Sorrentino in un ultimo e lento viaggio che, dal Tevere, ci lascia ammirare una Roma deserta alle prime luci dell’alba378. II.4. Dalla privazione negativa (il “non dire”) alla privazione a ermativa (il “privarsi”) II.4.a Nietzsche il problema della contro-morale L’importanza dello slancio vitale nel cinema di Sorrentino sta nel fatto che esso segna il passaggio da una prima prospettiva vincolata alle esigenze dell’individuo a una seconda in grado di aprirsi all’ambivalenza dell’immagine. In tal senso, la liberazione o erta ai personaggi sorrentiniani coincide con la nascita di un’immagine in cui le prerogative dell’azione vengono sostituite da una nuova sfera di possibilità appartenenti alla portata del gesto. Di conseguenza, a nché la spinta verso la vita possa compiersi, diventa necessario far saltare lo schema dell’ordine spianando la strada per l’eterogeneità. Una questione attigua allo slancio è quella della privazione e delle due sfumature che essa possiede in Sorrentino. Dedicheremo le pagine seguenti a tale problematica intercettando le a nità e le dissonanze con il cinema di Fellini e di Scorsese. In un primo momento, accogliendo un suggerimento dello stesso Sorrentino il quale, in un’intervista del 2009, aveva ammesso la libera rielaborazione del motivo nietzschiano della “potenza” nel suo cinema379, introdurremo la questione della privazione rileggendo, per l’appunto, alcune pagine di Così parlò Zarathustra. In precedenza, abbiamo rilevato come Deleuze escludesse il problema della negazione dall’idea. Quest’ultima non veniva più de nita attraverso la varietà ma secondo un criterio (la “molteplicità”) per cui ciascun termine è determinabile rispetto alla relazione che stabilisce con gli altri. La “molteplicità” è una nozione che ci ha permesso di osservare una tendenza visiva tipica del cinema di Sorrentino. L’abbiamo de nita eterogeneità e le

abbiamo attribuito la capacità di controbilanciare l’altrettanto presente struttura dell’ordine. Nella continuità della questione dello slancio vitale per la quale, come osservato poc’anzi, la composizione eterogenea svolge una funzione determinante, è interessante leggere alcuni passi di Così parlò Zarathustra integrandovi alcuni commenti dello stesso Deleuze e di Blanchot. Nella suddetta opera di Nietzsche rileviamo due tematiche care al cineasta napoletano: la presenza di gure di potere portatrici di una fallimentare morale della privazione (in Nietzsche sono gli “uomini sublimi” o “superiori”, in Sorrentino è un destino comune a tutti i personaggi che godono di una posizione preminente, come osservato nel primo capitolo380) e, d’altro canto, la possibilità di una leggerezza nale che si oppone alla logica negativa attraverso una revisione di quest’ultima. Così parlò Zarathustra presenta un primo contro-discorso che cerca l’insu cienza della morale tradizionale. La contro-morale si articola con frammenti di questo genere: ri utare la conoscenza degli ipocriti per dirigersi verso il sole incandescente del grande meriggio che si scaglia contro l’amore che l’uomo dona alla terra o che riceve dalla luna; rigettare l’atteggiamento dei “contemplativi” di quest’ultima in favore di quelli del sole il quale, a sua volta, ama il mare ma soltanto per aspirarlo dall’alto, forte della propria superiorità381. Due inclinazioni vanno di pari passo, da un lato quella dell’annientamento, dall’altro quella del vuoto. Una proposizione di Zarathustra proclama: “amare e tramontare: vanno congiunti da che mondo è mondo. Volontà d’amore: cioè avere anche volontà di morte”. Segue, poi, il Profeta la cui dottrina recita: “tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto è stato”, spianando la strada a una teoria ciclica spesso imprecisamente confusa con l’Eterno Ritorno382. Infatti, Così parlò Zarathustra è un caso letterario perché la formula dell’Eterno Ritorno si rivela fuorviante sia per il protagonista all’interno del testo sia per alcuni lettori di Nietzsche che l’hanno intesa come ripetizione all’in nito

dell’identico, come insieme di eventi che si ripropongono secondo un rimprovero che la storiogra a fa alla lettura ciclica della storia383. Così, a ingannare Zarathustra è l’accezione comune di nichilismo come imposizione di una negazione. In realtà, seguendo le parole di Nietzsche, sono gli “uomini superiori” – da non confondere con il “superuomo” – a rivelare a Zarathustra la via della contromorale, la strada per il fuoco del “grande meriggio”. Ora, il problema del personaggio nietzschiano è che la contromorale da lui stesso scoperta si rivela insu ciente. Ciò che la sostituisce è, allora, la possibilità di una compresenza: un meriggio che è anche mezzanotte, un dolore che è anche gioia, una saggezza che è anche pazzia384. In de nitiva, è Zarathustra a smascherare gli impostori della contro-morale, per l’appunto gli uomini sublimi o superiori. In un primo momento, egli aveva scoperto l’antinomia: era andato controcorrente seguendo una logica che metteva insieme “volontà negativa” e “forza reattiva”385. Aveva visto apparire il secondo termine, il polo avversativo (la morte e il dolore contro la vita e la gioia) chiedendogli di de nire nuovi valori in grado di schiacciare la morale tradizionale. Credendo di eliminare quest’ultima con una logica rovesciata era andato incontro all’illusione. Aveva, dunque, concepito l’Eterno Ritorno come so ocamento provocato da una costante invariabilità. Alla ne, però, riesce a cambiare rotta, ribaltando sorprendentemente il rovesciamento iniziale. Cosa succede, allora, se proiettiamo l’antinomia lontano dal piano della negazione? A tal proposito, Blanchot suggerisce un paradosso interessante quando sostiene che “il nichilismo” è “l’impossibilità del nichilismo”, poiché per no il “nulla” appartiene all’“essere”386. Con ciò il losofo sottolinea che la contro-morale non può evitare l’a ermazione e che il “nulla” non può condurre al “nulla” senza a ermare qualcosa, senza dire “l’essere”, compatibilmente a quanto osservavamo prima con l’illusione del negativo nella “molteplicità” di Deleuze. La speci cità del nichilismo, la sua “punta” come la chiama

Blanchot, si traduce proprio nella necessità di un capovolgimento nale dopo una prima revisione dei valori tradizionali. Non a caso, Deleuze spiega che nell’Eterno Ritorno bisogna a ermare due volte a nché ciò che si a erma possa realmente tornare387. Il percorso di Zarathustra è dunque scandito dalle tappe seguenti: in primo luogo, egli sperimenta una morale rovesciata scoprendo un’antinomia sempre possibile, il che peraltro corrisponderebbe a una cattiva lettura dell’Eterno Ritorno e alla visione di Nietzsche stesso come portavoce di un’esaltazione della forza e della morte388. Tuttavia, non è questo l’ultimo sforzo del nichilismo poiché, in conclusione, invece della pesantezza di un’antitesi ormai normalizzata, emerge la leggerezza della compresenza. Rispetto alla distinzione tra uomini superiori e superuomo, Deleuze sottolinea che i primi presentano l’“a ermazione [come] pesante”, eccessivamente carica nella propria potenza, mentre il secondo si libera per la “leggerezza” che lo contraddistingue, donde la presenza in Nietzsche della musica e del canto. Dunque, con un colpo di scena nale nell’epilogo del testo, Zarathustra scopre che sono stati proprio gli uomini superiori ad emettere il “grido d’aiuto”, cogliendo l’illusione della loro dottrina389. Zarathustra deve prima orientarsi verso la negazione, verso il “sole incandescente”, per poi rendersi conto che sono le stesse gure della contro-morale ad aver gridato per disperazione. Deleuze insiste sul problema dell’a ermazione degli uomini superiori: la loro parola è caricaturale, un misto tra “nichilismo, […] cattiva coscienza [e] risentimento”390. Questa prima fase dà vita ad una logica controllata dall’antitesi in cui ad imporsi è la gravosità della morale del negativo. Infatti, secondo il losofo francese, un nichilismo improprio si de nisce precisamente attraverso i termini di “negazione e reazione” che Zarathustra ha il compito di trasformare in “a ermazione pura”391. Da un punto di vista sonoro, il cambio di rotta disegnato da Nietzsche coincide con l’apparizione del canto al posto della parola schematica e

autoritaria. Si tratta dello smascheramento dell’illusorietà dell’uomo sublime in favore dell’emergere del superuomo: se il primo era un dominatore, una gura mossa dal proprio desiderio di in uenza, il secondo non si pone né secondo la debolezza né secondo la forza, né rispetto al vero né rispetto al falso. Diversamente da questi sistemi, costui avrà scoperto l’opposizione senza mai dominarla, l’antinomia senza dare privilegi a nessuno dei due termini. Da qui nasce la sua capacità di far apparire un nuovo principio e Zarathustra conclude esclamando: “il mio giorno incomincia”392. Alla luce di quanto osservato, possiamo individuare due aspetti in merito all’ispirazione nietzschiana in Sorrentino. Il primo è un elemento che abbiamo già rilevato, il secondo sarà al centro delle pagine che seguono. Anzitutto, in Nietzsche come in Sorrentino, rileviamo l’idea secondo cui esiste una prima morale della pesantezza e una seconda più di cile da adottare che attiene alla leggerezza. Grazie a Scorsese e Fellini, abbiamo notato come, da L’uomo in più a La grande bellezza, uno “slancio vitale” diventa possibile con il “tu o” o con la musica. Quanto alla seconda a nità, possiamo preannunciarla come segue: in Sorrentino esiste una contro-morale fondata su una visione erronea della privazione. Ora, questa stessa logica si rivela ingannevole e si sgretola facendo posto a una possibilità inedita in cui la mancanza passa da negativa ad a ermativa. La “potenza” di cui parla Sorrentino in merito a Nietzsche sembra, dunque, dipendere tanto da una sostituzione della pesantezza dell’iperbole con la leggerezza dello slancio, quanto dalla capacità di rileggere il gesto di privarsi e la volontà di astenersi. II.4.b Frasi negative e aforismi In Sorrentino, il canale prediletto della contro-morale è quello della parola. Se è vero che i personaggi sorrentiniani sanno rinchiudersi in un mondo retto dalla privazione, lo si deve principalmente a una certa destrezza

retorica tanto che, nei lm come nei romanzi, l’autore partenopeo sembra conservare un principio valido per tutte le sue gure maschili. Potremmo formularlo come segue: salvo uno sforzo da parte del personaggio per invertire la situazione iniziale, l’espressione orale è naturalmente protesa verso una morale negativa che la frase è chiamata a difendere e a tenere in vita. Tra poco osserveremo l’impatto del linguaggio laconico e dell’aforisma in tale operazione. Per adesso, ci concentreremo sulla capacità da parte della parola di sottrarsi e di introdurre una logica della negazione. Per far ciò, metteremo a confronto alcuni fotogrammi signi cativi de Il divo e di Goodfellas. Partendo dalla dissonanza tra i due lm identi cheremo con più precisione una speci cità del protagonista sorrentiniano. Tra il personaggio di Henry Hill e quello di Giulio Andreotti esistono almeno due analogie: la prima riguarda lo spazio del tribunale che chiude entrambe le vicende lmiche, la seconda attiene all’impiego di espedienti teatrali da parte dei personaggi che, in due scene chiave, si rivolgono direttamente alla macchina da presa. L’epilogo di entrambe le vicende si svolge nell’aula di un tribunale. Ci riferiamo al monologo di Andreotti nella scena in cui spiega la sua concezione del potere politico e che precede la prima udienza del processo in cui fu coinvolto nel 1993393. In maniera simile, in Goodfellas, ricordiamo il momento in cui la voce narrante di Hill passa all’interno del campo visivo per continuare le sue considerazioni sulla vita da pentito. Tuttavia, una distanza signi cativa separa la parola dei due personaggi, discrepanza da cui dipende il piano della privazione degli uomini sorrentiniani. Cosa succede, allora, in Scorsese? Hill fa i nomi dei suoi ex complici e li denuncia davanti al giudice. Collabora con l’FBI e permette la delucidazione di una vicenda no ad allora opaca agli occhi delle istituzioni, benché nel racconto lmico la voce fuori campo avesse cominciato a spiegare tutto sin dalla scena di apertura. Tuttavia, l’operazione di Scorsese è meno semplice di

quanto non sembri. In tal senso, Lemarié osserva che la “potenza organizzatrice” della voce fuori campo non consiste propriamente nel risolvere il “caos” dovuto agli a ari sporchi e alla successiva perdita di controllo da parte dei personaggi, nella misura in cui la parola del narratore può soltanto rendere il disordine “abitabile”. Nella fattispecie, ad abitare un mondo in piena confusione non sono gure in grado di contrastarlo e di proporvi un’alternativa valida ma persone che hanno trovato uno stratagemma per sopravvivervi394, il che spiega perché i criminali scorsesiani non abbandonano mai completamente la vita da gangster. È la situazione che coinvolge Hill e che, invece, verrà ribaltata da Andreotti ne Il divo: il personaggio di Scorsese è mosso da una voglia di documentare e fa di tutto per agevolare le istituzioni, ma non per questo coglie realmente la portata di ciò che sta compiendo, facendo scomparire la giustizia in secondo piano a favore dei propri interessi personali. Il pentito conserva lo stesso sentimento di egoismo che, da criminale, lo aveva spinto ad accumulare le ricchezze e a moltiplicare i vizi e che adesso lo induce a denunciare soltanto per evitare la prigione. D’altra parte, più che sul pentirsi, il discorso di Hill si concentra essenzialmente sul rimorso di un tenore di vita ormai perduto: La cosa più dura per me fu lasciare quella che noi chiamavamo la vita. Ci trattavano come delle stelle del cinema ma eravamo più potenti […]. Mi bastava una telefonata per avere tutto quello che volevo: macchine gratis, le chiavi di una dozzina di appartamentini in città […]. Noi gestivamo tutto. Pagavamo gli sbirri, pagavamo gli avvocati, pagavamo i giudici […]. E adesso è tutto nito.395 Il monologo di Hill è così poco centrato sulla denuncia del sistema che, persino quando il personaggio ne spiega il funzionamento, lo fa esclusivamente per sottolineare nostalgicamente l’opulenza e il potere del passato. In tal senso, è valida l’a ermazione di Anne-Françoise Lesuisse

secondo cui il compito della voce fuori campo sta tanto nell’“illustrare” quanto nell’“evitare” instaurando una “tensione” tra il parlare e il vedere396. Se è vero che il protagonista di Goodfellas tenta invano di risolvere il disordine non è perché nasconde altri a ari illeciti, ma proprio per via del fatto che, pur rendendoli noti alle istituzioni, non integra in alcun modo i precetti della giustizia con cui collabora. È forse perché non tenta minimamente di aderire al terzo potere che Hill mette entrambe le espressioni orali dalla parte dell’a ermazione: da un lato rivela la tru a per evitare la pena, dall’altro ammette, altrettanto onestamente, di rimpiangere i vantaggi del potere ma oso. In un caso come nell’altro, Hill rimane il criminale integro che tradisce gli altri senza tradire se stesso e il proprio egoismo. La situazione è diametralmente opposta ne Il divo. Qui, il personaggio di Andreotti compie il gesto contrario all’operazione di Sorrentino, come se le zone opache della parola del primo fossero le denunce trasparenti dell’immagine del secondo. Se Hill era un abitante di quel caos scorsesiano irriducibile all’ordine, Andreotti è maestro dell’equilibrio precario di cui è lui stesso l’ideatore. L’espressione orale risente della peculiarità del personaggio e tende verso la negazione, come dimostrano le sequenze evocate poc’anzi. La scena del processo è uno dei pochi momenti del lm in cui il protagonista non prende la parola: dopo averlo accompagnato nell’aula dell’udienza con un lungo piano sequenza, la macchina da presa si ssa sul volto del politico avvicinandovisi progressivamente. Tuttavia, le ultime parole non spettano all’allora Presidente del Consiglio ma alla voce fuori campo di Aldo Moro costretto a dichiarare che l’imputato “è restato indi erente, livido, assente”397. L’immagine viene privata della riposta del protagonista, in parte perché il tono accusatorio del lm ha già fornito la sua, e, al contempo, perché Andreotti incarna la negazione. Infatti, a dispetto dell’in uenza politica che gli viene attribuita, il premier democristiano è al centro di un progetto governativo di cui, a detta sua,

non è il diretto responsabile. Se Henry Hill è il criminale che a erma due volte la propria ingenuità, Andreotti è il politico che nega doppiamente le proprie azioni, non solo dinanzi alla giustizia ma anche nello spazio più intimo del monologo. In una scena precedente, la telecamera aveva ripreso teatralmente il protagonista il quale, seduto su una sedia con un ri ettore puntato su di sé, aveva esposto la propria teoria del potere: Livia […] gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea. Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene […]. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. A tutti i familiari delle vittime io dico: sì, confesso. Confesso: è stato anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve […]. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la ne del mondo, e noi non possiamo consentire la ne del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa e lo so anch’io.398 Il discorso, scritto dallo stesso Sorrentino, unico sceneggiatore accreditato del lm399, illustra bene il metodo privativo del personaggio: immaginandosi giudicato dalla moglie Livia, Giulio Andreotti confessa i delitti in cui è coinvolto; tuttavia, sceglie di farlo in una maniera singolare nella misura in cui colloca la propria persona al contempo al centro e al di fuori del male, riconoscendo le “malefatte” del potere e, subito dopo, giusti candole come “necessarie per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese”. L’Andreotti de Il divo è,

seguendo le sue parole, il responsabile diretto o indiretto di “tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984” e contemporaneamente l’uomo di Stato eletto per “mandato divino”, il cui compito è segnato dalla “mostruosa [e] inconfessabile contraddizione” che consiste nel “perpetuare il male per garantire il bene”400. Piegando la propria funzione (“il potere sono stato io”) alla volontà di Dio, Andreotti mette a punto una perfetta e paradossale morale negativa che prevede non solo l’adesione al diritto divino dei monarchi, ma anche un allontanamento del politico dalla sfera della volontà e dalle responsabilità del potere. È secondo questa singolare esclusione di se stesso che il personaggio risponde in anticipo alle domande dei giudici che schiverà alla ne del lm. Il premier democristiano si sottrae dal potere nel momento stesso in cui ammette di averlo accentrato nelle proprie mani. Tuttavia, il sistema del negare non tarda a mostrare i propri limiti sicché, se il piano andreottiano può parzialmente sfuggire alle grin e della giustizia, è nel confronto con se stesso che il politico capitola. È interessante, allora, osservare come la sua caduta sia dovuta alla spinta di forze esclusivamente negative. Il protagonista non a erma mai in cosa consiste il proprio potere ma lascia che la propria concezione dell’autorità lo allontani dagli errori che ha commesso, accentrando e de landosi in una logica in cui il mandato divino è solo lo strato super ciale, la menzogna dell’“uomo superiore” nietzschiano, mentre in profondità si agitano gli accordi illeciti e i tormenti autentici dell’uomo di Stato. In Goodfellas, Hill è libero di essere il pentito che non ha compreso la giustizia nella misura in cui, a dispetto del testardo attaccamento alle ricchezze materiali, non mente mai a se stesso perseguendo soltanto ciò da cui può trarre pro tto. È secondo questi parametri che il pentito egoista risulta una gura in grado di vivere in ciò che Lemarié ha de nito “caos” scorsesiano: il disordine rimane intatto e ad abitarlo è una gura onesta con se stessa seppur lontana da qualsiasi idea di giustizia, nonché

opportunisticamente sleale con il proprio clan. La proposizione a ermativa è, invece, completamente assente in Andreotti. Il mandato divino serve a recuperare in extremis l’ordine formale, ma si tratta di un equilibrio ttizio e retto da una morale ingannevole: l’uomo di Stato che si sottrae dalla propria in uenza e che agisce perpetuando il male per garantire il bene è l’impostore dietro cui si nasconde un’altra gura, quella del sovrano avido di potere costretto a celare i compromessi e i crimini necessari per conservarlo. Non è un caso che, in Goodfellas, la parentesi teatrale di Hill sia integrata allo sviluppo narrativo principale quando, nel bel mezzo del discorso, la voce del narratore passa all’interno del campo visivo. Il procedimento falso può anche essere segnalato come tale opponendosi alla parola documentaria, ma ciò non in uisce con la capacità del personaggio, sia dentro che fuori dal campo, di scegliere esclusivamente l’a ermazione. Al contrario, ne Il divo, la macchina da presa ha bisogno di ritagliarsi uno spazio drammatico senza integrarlo all’evoluzione della vicenda. È lo specchio della volontà negativa: Sorrentino isola il monologo del suo personaggio producendo doppiamente il falso401, tanto nella de nizione della parentesi teatrale quanto nel contenuto del discorso402, mentre Scorsese piega l’arti cio della voce narrante alla produzione di una parola autentica. Non vi sono dubbi sul fatto che la scrittura di Sorrentino, tanto nelle sceneggiature quanto nei romanzi, spinga i personaggi a pronunciare frasi fatte e massime di ogni genere. Analogamente, non vi è alcun dubbio sul fatto che il laconismo sorrentinano sia all’origine di una certa antipatia da parte della critica403. In e etti, da L’uomo in più a Loro, gli aforismi abbondano e si trasmettono da un personaggio all’altro indipendentemente dalla loro appartenenza geogra ca o dalla loro vicenda personale. L’espressione laconica funziona come un gene caricaturale che si sposa con la vena grottesca tipica degli individui

sorrentiniani. D’altro canto, va considerato che l’aforisma si coniuga alla perfezione con alcune espressioni altrettanto brevi proferite dalle gure a cui viene concessa una liberazione nale. Basti pensare all’ epilogo de L’uomo in più quando, poco prima di tu arsi, Tony Pisapia esclama che “la vita è ‘na strunzata”404, come fosse la morale della propria esistenza rocambolesca. Tuttavia, esiste una di erenza sostanziale tra i due generi di frasi nella misura in cui gli aforismi iniziali sono concepiti nel segno della privazione. A titolo esempli cativo, possiamo rammentare le battute seguenti: “la verità è noiosa” (Titta ne Le conseguenze dell’amore)405; “siete qui tutti in a tto. Il mondo vi è stato dato in prestito. Io vi presto il mondo quando ogni tanto lo perdete” (Geremia ne L’amico di famiglia)406; “gli alberi per crescere hanno bisogno di concime” (Andreotti ne Il divo)407; “le monarchie mi fanno sempre tenerezza perché sono vulnerabili: basta eliminare una sola persona e all’improvviso ecco che il mondo cambia, come nei matrimoni” (Fred in Youth)408. Da dove nasce, allora, la privazione dell’aforisma sorrentiniano? Si tratta ancora una volta di un’operazione che dissocia la frase dalla propria funzione a ermativa in favore di una maggiore e pericolosa vicinanza con la negazione. Siamo dinanzi a proposizioni che nascondono una debolezza più profonda oppure formule che eludono invece di asserire: la battuta di Titta si riferisce sarcasticamente al suo passato inconfessabile, quella di Andreotti maschera le malefatte dell’uomo di Stato, mentre Geremia pronuncia “prestito” invece di usura. In maniera simile, Fred parla della fragilità della monarchia facendo allusione al matrimonio quando, in realtà, è lui stesso a non riuscire più a dirigere musica, proprio a causa della malattia di sua moglie, ex soprano interprete dei suoi brani, da tempo ricoverata in un ospedale psichiatrico. Ciononostante, gli aforismi sorrentiniani si rivelano inconcludenti nella maggior parte dei casi, disfunzione dovuta al fatto che la contro-morale di cui si fanno portavoce indica una lezione di vita ingannevole. Eludendo il problema, allontanandosi

dalla realtà, schivando, in de nitiva, qualsiasi a ermazione, le massime sorrentiniane sono l’espressione concreta di una privazione esclusivamente negativa e destinata al fallimento. L’intoppo non è dovuto a un’eventuale impossibilità per la parola di ricondurre il particolare alla formula generale, lavoro che spetta per de nizione alla formula aforistica, ma nasce dall’incapacità per l’espressione orale di cogliere la realtà. Il problema della sussunzione in Sorrentino è tanto più di cile da risolvere quanto l’operazione in questione è articolata in maniera circolare: l’aforisma non è valido a causa di una cattiva comprensione della vita e, al contempo, il malinteso con la realtà è dovuto al fatto che la frase con cui si tenta di coglierla è estranea all’a ermazione. Di conseguenza, ciò che ci lasciano i personaggi sorrentiniani non sono altro che espressioni negative: la verità è diventata noiosa, la vita non appartiene più all’uomo che è costretto a rimanervi in a tto, il potere ha bisogno del proprio concime, il matrimonio è tanto vulnerabile quanto la monarchia dopo la morte del sovrano. Benché presentata in varie declinazioni, la frase fatta è raramente portatrice di una verità generale poiché la contro-morale fondata sulla privazione si sottrae, in primo luogo, a un vero e proprio rapporto con il mondo. Non è un caso che Toni Servillo sottolinei il lavoro di “sottrazione” impostogli dai personaggi di Titta Di Girolamo e di Giulio Andreotti: “da un lato la solitudine forzata di Titta imponeva di a dare al silenzio un’eloquenza fortissima […] dall’altro, Il divo è segnato invece da una forma di elusività che viene ottenuta attraverso il motto di spirito, l’abilità nel non rispondere a domande dirette o il non guardare direttamente il proprio interlocutore negli occhi”409. Ne Le conseguenze dell’amore, quando Titta sostiene di preferire che siano i bancari piuttosto che i macchinari a contare il denaro da inviare al clan ma oso, la battuta che recita “non bisogna mai smettere di avere ducia nel genero umano” riecheggia come una be a per lo stesso

protagonista. In realtà, a causa del sarcasmo del locutore, la frase a ermativa diventa l’esatto contrario di ciò che asserisce, svelando, così, la propria valenza privativa. La tendenza a ribaltare la forma delle proposizioni viene confermata alla ne del lm quando sarà una formula negativa di Titta ad aprire la strada verso il gesto liberatorio: “progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore”, espressione che, diversamente dai laconismi iniziali, non possiede una dimensione orale ma rimane scritta su un foglio di carta410. Pertanto, quando Servillo parla di “senso di disappartenenza”411 in merito al percorso che l’ha condotto dal teatro al grande schermo, spiegando come i personaggi cinematogra ci appartengano al regista diversamente da quelli teatrali che restano nelle mani dell’attore, egli coglie una speci cità delle gure sorrentiniane nella misura in cui la “disappartenenza” di cui parla rimanda alla posizione di quei personaggi che ri utano l’a ermazione. Pertanto, se è vero, come è stato più volte sottolineato, che le interpretazioni di Servillo si addicono perfettamente al cinema di Sorrentino412 è perché il distacco che l’attore cinematogra co intuisce nel proprio lavoro è presente a sua volta nei personaggi assegnatigli dal regista. Si tratta, cioè, di quell’inclinazione degli individui nel porre una distanza con la vita, de landosi e decentrandosi, sfruttando tutti i mezzi che impediscono loro di accedere alla volontà e all’a ermazione. La disappartenenza evocata da Servillo è annoverabile tra questi strumenti e coinvolge personaggi in grado di imporre una morale negativa, una logica che cela dietro un “non dire” una più profonda incapacità nel “dire no”. Eppure, come si vedrà in seguito, alcune gure sorrentiniane riescono a lavorare sulla mancanza ribaltando l’iniziale e pesante “privazione” in un più leggero “privarsi”. II.4.c Il piano della negazione e i suoi limiti Compatibilmente con il potere negativo dell’aforisma, le gure sorrentiniane si mostrano spesso in grado di

elaborare un piano della privazione da cui dipende la de nizione di un vero e proprio rapporto con il mondo. Nelle pagine che seguono, ci so ermeremo sul personaggio di Lenny Belardo mettendolo a confronto con J.R. in Who’s that knocking at my door e con Marcello Rubini ne La dolce vita. All’inizio di The young pope nessun personaggio sa cosa aspettarsi dal nuovo ponte ce. Voiello, che aveva spinto per la sua elezione a scapito del più esperto cardinale Spencer, immaginava che il giovane papa sarebbe stato più facile da manipolare, ma è ben presto costretto a ricredersi. I primi a scoprire il conservatorismo di Belardo sono proprio gli ecclesiastici della Curia Romana a cui viene concesso il privilegio considerevole di vedere il volto del papa, a dispetto della reticenza di quest’ultimo nel mostrarsi di fronte ai fedeli. Da questo distacco esasperato conseguono una serie di direttive che regolano un programma totalizzante della negazione. È dinanzi agli occhi del proprio mentore, Spencer per l’appunto, che Belardo speci ca i dettagli del progetto dell’assenza: L’assenza è presenza. Sono le fondamenta del mistero. Quel mistero che voglio sia al centro della mia Chiesa. Là fuori, tutti devono imparare che sono necessari il sacri cio e la so erenza per trovare Dio. Troppo facile accomodarsi con Dio all’ora del tramonto. Lo devono trovare nel freddo, nel buio della notte, come ho fatto io.413 Nel secondo episodio, Belardo aggiunge un tassello a ciò che potrebbe confondersi con una strategia di marketing atipica, come testimoniano le parole del protagonista nel confronto con la direttrice della comunicazione della Santa Sede. Nella scena in questione, partendo da frasi quali “io non sono nessuno” e “solo Gesù esiste”, Pio XIII coniuga una prima concezione privativa del mistero della fede con una lezione improvvisata sull’e cacia mediatica ottenuta per contrasto, iscrivendo se stesso nella scia di quei personaggi che hanno destato una “curiosità

morbosa” – da Salinger a Kubrick, passando da Banksy, Mina, e i Daft Punk – perché “nessuno di loro si fa vedere”: “Il Vaticano sopravvive grazie alle iperboli quindi noi dobbiamo generare l’iperbole, ma questa volta rovesciata”, recita l’ennesima massima di Belardo414. Sappiamo già che, in Sorrentino, l’iperbole si rivela spesso un’operazione fallimentare, a meno che non esista un gesto che la accompagni verso il proprio crollo (il “tu o” come detto). In tal senso, non saremo sorpresi nel constatare che la contro-morale di Pio XIII deriva da una confusione in merito alla privazione. Intesa come difetto dell’uomo rispetto a Dio, la mancanza materiale è un quesito rispetto al quale il papa non fa che mostrare la via negativa, un approccio della fede in cui è il primo ad escludersi da qualsiasi comunione con i credenti, in maniera simile al ponte ce che Morselli descrive in Roma senza papa415. Il discorso di insediamento che Belardo rivolge alla comunità cattolica è emblematico in tal senso. Possiamo ripercorrerne i tratti salienti: Ci siamo dimenticati di Dio. Voi vi siete dimenticati di Dio […]. Io sono più vicino a Dio di quanto sia vicino a voi. Io non vi sarò mai vicino, questo lo dovete sapere perché tutti noi siamo soli davanti a Dio. Io non ho nulla da dire a quelli che hanno anche il minimo dubbio riguardo a Dio. Posso soltanto ricordare loro il mio disprezzo e la loro miseria […]. Dio esiste e non si occupa di noi nché noi non ci occuperemo di Lui […]. Non c’è posto per il libero arbitrio, non c’è posto per la libertà, non c’è posto per l’emancipazione […]. Senza Dio si diventa morti. Morti, randagi e abbandonati a vagare per le strade […]. Dovete passare da Dio prima. Io non vi aiuterò, non vi indicherò nessuna strada. Cercatela voi. Trovate. E quando avrete trovato Dio, forse vedrete anche me.416 Al di là delle peculiarità dell’ambientazione di The young pope, la morale della privazione che viene enunciata da Pio XIII è un atteggiamento generalmente di uso nei

personaggi di Sorrentino. Si tratta di una tendenza pienamente compatibile con l’aforisma che si regge sul postulato secondo cui l’individuo è in grado di rendere onnicomprensiva la conoscenza della realtà a condizione, però, che la morale che ne consegue concepisca la vita come una scon tta. Un passo di Hanno tutti ragione illustra bene tale procedimento. Situando gli eventi nel racconto, il narratore (Tony Pagoda) ha appena menzionato la dipendenza da eroina del suo manager Jenny. Pagoda si esprime, dunque, in questi termini: Questa cosa di Jenny ci traumatizza e ci fa sentire più piccoli di quelli che siamo. Più poveri. Nutriamo un rispetto non perché tiene un problema, ma solo perché ha un mondo suo, Jenny, che non è il nostro. Questo ci fa sentire sempre più soli e stronzi. Ci mette fuorigioco. Non riusciamo a metterci in comunicazione con lui ed è questa la base di tutte le tristezze. Il non poter comunicare è l’unico grande a anno dell’uomo, pensateci. Tutto quello che facciamo tende verso questo, ma le fatiche per farlo sono immani e mastodontiche, le montagne da superare e tutti i tentativi di comunicazione in cui ci adoperiamo alla n ne ci sembrano go , elementari e moribondi, nché muori e solo lì forse te ne vai contento perché al momento di farla nita, per la prima volta, con la tua morte sei stato capace di mettere in atto la prima grande suprema forma di comunicazione. È per questo che da quando è tornato non abbiamo più avuto il coraggio di guardarlo in faccia a Jenny. Il suo mondo ci schifa, appollaiato un paio di gradini più su. Ci tiene in pugno e fa di noi quel che vuole facendo una cosa che non ci dice.417 Il passo appena riportato si rivela signi cativo poiché presenta la stessa articolazione della morale negativa di The young pope. In tal senso, possiamo identi care tre tappe e altrettante proposizioni formulate dai due personaggi: l’enunciazione del problema, l’impossibilità di risolverlo e la determinazione dell’atto distruttivo (o

autodistruttivo) come unica via d’uscita. In Belardo, i quesiti del cattolicesimo contemporaneo vengono messi da parte in favore di una dottrina che parla dell’incapacità umana di raggiungere Dio come condizione di una fede fondata sulla so erenza. Un simile senso di gravità è rintracciabile nel discorso di Pagoda quando quest’ultimo segna il passaggio dall’impossibile relazione tra gli esseri umani alla soluzione del suicidio come “prima grande suprema forma di comunicazione”, con gli aggettivi “grande” e “suprema” che si accavallano senza punteggiatura quasi a sottolineare l’incommensurabilità del gesto. Quanto a Scorsese, in Raging Bull, abbiamo già osservato come il ring diventi lo spazio adatto per la punizione che Jake La Motta si autoin igge, specie nella scena in cui si lascia andare sotto i colpi violenti del pugile rivale (Ray Robinson). Questa stessa tendenza autolesionistica possiede una continuità sul piano della privazione, nonché un’a nità con il progetto elaborato dagli individui sorrentiniani. In tal senso, un primo paragone può essere fatto tra Titta Di Girolamo ne Le conseguenze dell’amore e Frank Pierce in Bringing out the dead dal momento che entrambi i protagonisti si condannano per un errore commesso nel passato: il primo ri uta qualsiasi contatto umano nella reclusione impostagli dalla Camorra, il secondo continua il lavoro estenuante di paramedico per rimediare alla morte di una bambina che non era riuscito a soccorrere e che aveva visto morire dinanzi ai propri occhi. Il castigo è la conclusione a cui giungono alcuni personaggi di Scorsese e di Sorrentino e, seppur temporaneamente, né gli uni né gli altri riescono a trovare la leggerezza e la volontà di rinnovare un contatto con la vita. Nel cinema del regista italoamericano, il perosnaggio di J.R. in Who’s that knocking at my door è posto manifestamente dinanzi alla questione del ri uto. Qui, la presenza e l’impatto di un vero e proprio gruppo ma oso è ancora allo stato embrionale e la narrazione, pur sfruttando un’ambientazione simile a ciò che vedremo

qualche anno dopo con Mean streets, non presenta la gura del capoclan in uente, come succederà con lo zio di Charlie Cappa nel lm appena citato. In realtà, in Who’s that knocking at my door, il più tradizionale genere del lm di gangster è parzialmente trascurato e compensato da altre due tendenze, una prima maggiormente etnologica e una seconda prettamente cinematogra ca. In primo luogo, osserviamo un sentimento dominante di pudicizia, attribuibile all’educazione famigliare o all’insieme di norme tacitamente inculcate dall’ambiente cattolico in cui vive J.R., che interviene in assenza della parola perentoria delle alte autorità ma ose come accadrà in Mean streets. Infatti, già nel secondo lungometraggio girato a Little Italy, il protagonista non riesce a vivere pienamente la sua storia d’amore con Teresa perché l’epilessia di cui so re quest’ultima viene considerata come una malattia diabolica nell’ignoranza collettiva dei membri del clan. In Who’s that knocking at my door la situazione contestuale è diversa ma il risultato non è meno radicale di ciò vedremo con Charlie Cappa. Così, dopo aver frequentato per qualche tempo una giovane donna, giunto al punto culminante dell’intimità, J.R. ri uta di fare l’amore con lei418. Ora, questo primo ri uto dovuto all’ingerenza della morale religiosa porta a un secondo fenomeno per il quale l’impossibile adempimento etero lo sfocia in una più frequente e rassicurante omo lia con la comunità dei giovani uomini del quartiere. Secondo Casillo, l’adesione al gruppo da parte di J.R., prima ancora di Charlie Cappa, è un aspetto riconducibile all’in uenza de I vitelloni nei primi lavori di Scorsese419. È interessante, allora, notare come entrambi gli aspetti convergano in un’unica formula della privazione. Riprendendo le parole di un articolo ulteriore di Casillo leggiamo che, in Who’s that knocking at my door, “il puritanesimo cattolico non produce soltanto una sessualità immatura, […] ma anche un senso di solitudine, frustrazione e violenza” nel personaggio di J.R.420. Che cosa fa, allora, il protagonista dopo aver ri utato il

rapporto con la giovane donna? Si reca in un bar in compagnia dei suoi amici; la macchina da presa coglie la scena con un lungo movimento al rallentatore: in primo piano le bottiglie di alcolici, in secondo piano gli aspiranti gangster in giacca e cravatta; uno di loro scherza con una pistola tra le mani, un altro utilizza l’arma per minacciare un suo amico. Un brano musicale (El Watusi di Ray Barreto) e una serie di dissolvenze rapide tra i fotogrammi che ripercorrono l’evoluzione della serata creano una coesione confusionaria tra la virilità desiderata, la pudicizia difesa e la violenza come risultante tra le prime due. In seguito, utilizzando il rimbombo di alcuni colpi di pistola come raccordo sonoro, Scorsese passa immediatamente dalla sequenza al rallentatore appena citata alle immagini di Rio Bravo che J.R. e la sua ragazza vanno vedere al cinema. In questa morale curiosa in cui convivono la verecondia nei confronti del sesso, il modello maschile del cowboy (John Wayne è l’attore preferito di Charlie) e l’identi cazione con le regole di un gruppo esclusivamente maschile – nonché maschilista – J.R. è libero di diventare un personaggio della privazione simile alle gure sorrentiniane. Tuttavia, una di erenza sostanziale separa il protagonista di Scorsese da Lenny Belardo e Tony Pagoda. Infatti, se l’arroganza e il cinismo spingono i secondi a formulare un vero e proprio progetto mirato alla sottrazione di sé, Belardo quando ri uta il proprio ruolo di intercessore di Dio, Pagoda perché evita di aiutare il suo amico con la dipendenza da eroina, l’aspirante gangster di Scorsese è il primo di una serie di uomini irresoluti le cui esitazioni nascono proprio dalla cieca e necessaria adesione a un sistema di regole che, in n dei conti, non condividono pienamente. Scorsese descrive un personaggio simile in Mean streets per poi prendere una strada sempre più apertamente spirituale con il Dalai Lama in Kundun, Gesù in The last temptation of Christ e i preti missionari in Silence. Il piano della privazione scorsesiano va, dunque, di pari passo con quello del dilemma e con la confusione, come testimonia

la storia di J.R. in Who’s that knocking at my door. Qui, il protagonista non è soltanto il pudico che ri uta di fare l’amore con la sua ragazza dopo aver scoperto che quest’ultima ha già perso la verginità, per giunta subendo uno stupro, ma anche l’aspirante gangster che alza subito la mano davanti ai suoi amici per andare a letto con una prostituta prima di loro. Non a caso, il titolo I call rst inizialmente previsto per il lm421, fa proprio riferimento alla scena in questione quando J.R. chiama per primo nel tentativo di anticipare gli altri pretendenti. Tuttavia, in un caso come nell’altro, il rapporto intimo rimane relegato nella sfera della negazione e del mancato adempimento. Scorsese si mostra esplicito a tal proposito quando associa due generi di immagini analoghe, una serie di primi piani che riprendono talora porte e lucchetti chiusi, talora parti del corpo legate alla nudità come nella sequenza del sogno erotico del protagonista422. Ora, a dispetto di questa discrepanza, una più grande continuità accomuna i due registi, nella misura in cui i loro personaggi – da J.R. a Belardo, passando da La Motta e da Pagoda – sono tutti coinvolti in una cattiva comprensione della privazione. Così, il castigo pudico che J.R. impone a se stesso rimanda a una posizione ampiamente di usa nelle gure sorrentiniane che associano privazione e punizione. In e etti, come l’aspirante gangster di Who’s that knocking at my door, anche il ponte ce di The young pope adotta il principio errato secondo cui privarsi è sinonimo di punire: J.R. nega a se stesso l’atto erotico e insulta la giovane donna chiamandola “puttana” nella scena di chiusura del lm423; analogamente Belardo esclude la funzione papale da qualsiasi comunione con i fedeli attribuendo a questi ultimi il peso del peccato. In de nitiva, l’uno come l’altro si privano in modo sbagliato. Questa visione imprecisa della rinuncia coinvolge anche due personaggi del cinema di Fellini. È curioso, allora, notare che, così come Scorsese inserisce l’eccesso di pudore nella gura di un aspirante gangster e Sorrentino quella del cattolico retrogrado nel corpo del più giovane dei ponte ci, Fellini lavora sulla

questione della privazione proprio attraverso due tra i personaggi più mondani del suo cinema: Marcello Rubini e Giacomo Casanova. In un certo senso, se c’è qualcosa che il giornalista scandalistico de La dolce vita paga a caro prezzo non è soltanto l’errore di aver condotto una vita frivola girovagando tra i night-club e le feste romane ma un eccessivo entusiasmo accompagnato da una certa ingenuità. Si pensi alla questione amorosa: Emma, la sua danzata, non è la persona di cui Marcello è realmente innamorato. Il protagonista si invaghisce, come del resto tutti gli uomini del lm, della bella attrice americana a cui sussurra senza mezze misure le frasi seguenti: “Sylvia tu per me sei tutto. […] Tu sei la prima donna del primo giorno della creazione. Sei la madre, la sorella, l’amante, l’amica, l’angelo e il diavolo, la Terra, la casa”424. Ma la donna amata non capisce le parole che Marcello pronuncia in una lingua per lei straniera, sicché il messaggio del protagonista si perde nel vuoto, così come succederà con la seconda dichiarazione d’amore rivolta a Maddalena. Nella scena della serata decadente dai nobili di Bassano di Sutri, Marcello e Maddalena sono in una camera vuota che la donna ha appena ribattezzato “stanza dei discorsi seri”: il primo è seduto al centro della sala, la seconda si allontana e gli parla da una fonte battesimale. Maddalena dichiara al protagonista di essere innamorata di lui pur ammettendo, al contempo, di non potergli essere fedele. Marcello le risponde con lo stesso a etto ma, nel medesimo istante, la donna è già tra le braccia di uno sconosciuto appena sedutosi accanto a lei425. Entrambi ne escono scon tti, si perdono di vista e continuano a perdere ducia nell’amore, come sottolinea la stessa Anouk Aimée, interprete del personaggio di Maddalena: [Maddalena] non si contenta di poco. Le manca solo la forza di lottare. Ha una speranza di salvarsi con Marcello ma lui è ancora più debole. Questo è il senso della scena

al castello di Sutri: parole d’amore che sono puro suono, da una parte e dall’altra. Maddalena e Marcello si parlano senza vedersi, nella stanza degli echi. Ma per Marcello è un’avventura come un’altra e Maddalena, intanto, si fa abbracciare da un estraneo.426 Ne La dolce vita, in maniera simile a ciò che succederà ne La grande bellezza, il protagonista mostra un certo scetticismo nei confronti dell’ambiente mondano che frequenta abitualmente, benché Jep Gambardella si consideri ormai condannato a restarvi, laddove Marcello Rubini spera ancora di potervi sfuggire. Non a caso, come già rilevato, i risultati a cui giungiamo sono diametralmente opposti dal momento che il personaggio di Sorrentino riesce a liberarsi mentre quello di Fellini sprofonda nelle frivolezze mondane. Ora, la stessa divergenza nale potrebbe essere letta secondo le coordinate della privazione: se ne La grande bellezza, come si vedrà tra poco, il protagonista scopre l’importanza dell’astenersi e decide di scrivere sul vuoto delle feste a cui ha partecipato, ne La dolce vita Fellini delinea il crollo di un uomo che non oppone alcuna resistenza al vuoto che crea attorno a sé. Privo di idee e scoraggiato della scomparsa di ogni punto di riferimento, Marcello Rubini sembra accentuare il proprio declino senza, tuttavia, essere in grado di compiere il gesto liberatorio del “tu o” come accade con alcune gure sorrentiniane. Pertanto, non solo egli perde gradualmente tutti coloro che lo circondano, ma si lascia andare nella propria caduta no a trasformare la mancanza del necessario nell’a ermazione negativa del super uo. A tal proposito, ricorderemo il be ardo “che bello annullarsi” con cui Marcello suggella l’ultima serata mondana del lm in cui si festeggia, per l’appunto, l’annullamento del matrimonio di una donna427. Il giornalista de La dolce vita vede allontanarsi tutte le gure che gli sono più care: tutte le donne, da Emma a Sylvia passando da Maddalena, che si aggiungono a suo padre che precipita la partenza da Roma dopo aver

provato gli eccessi di una notte mondana428. Ma, soprattutto, assiste con sgomento alla distruzione di un’altra gura premurosa, quella del “padre spirituale”429 che egli vedeva in Steiner. Questi è un personaggio dalla “compostezza ieratica”430 che, non a caso, appare per la prima volta in una chiesa dove si reca per suonare l’organo431. È l’intellettuale di successo, lo scrittore che ha evitato il compromesso dei rotocalchi scandalistici, che ha amici intellettuali e una moglie colta da cui ha avuto due gli. Materializzazione di un ideale di vita, nonché modello irraggiungibile per Marcello, quella di Steiner si rivela però una perfezione illusoria. Infatti, l’intellettuale de La dolce vita esce di scena nella maniera più atroce, dandosi la morte dopo aver ucciso i propri bambini432. Dinanzi a questa serie di scomparse, Marcello non può e non riesce a fare altro che abbandonarsi nella propria scon tta, sposando integralmente il vuoto delle mondanità, completando, così, il proprio “viaggio al termine della vigliaccheria”433. Dopo aver visto partire uno dopo l’altro tutte le persone care spetta, dunque, al protagonista andar via, lasciando la fanciulla innocente sull’altra sponda del ruscello nell’ultima immagine del lm434. Agli antipodi di Gambardella, Rubini non sa convertire il vuoto delle frivolezze in qualcosa di pieno tanto che, diversamente dal romanziere de La grande bellezza, il suo libro in preparazione rimarrà soltanto una promessa fatta a Steiner e mai portata a termine435. Se il protagonista di Fellini “viene chiamato” dall’“architettura urbana” senza, però, riuscire a rispondere, tocca al romanziere di Sorrentino “reagire” alla “voce” di Roma436, e dunque scrivere. Per il protagonista de La dolce vita la vacuità diventa lo strumento adatto per escludere se stesso da qualsiasi possibilità di salvezza, mezzo privilegiato per declinare l’invito della fanciulla che lo incitava ad abbandonare i mondani e a seguirla nella direzione opposta. In tal senso, conviene rammentare un’importante variazione sul nale de La dolce vita: nella stesura iniziale, il lm sarebbe dovuto terminare con

l’immagine di Marcello che si avvicina alla fanciulla e raccoglie le sue “graziose scarpine da poche lire”437, ma un copione oggi conservato a Rimini mostra bene che le parti che suggerivano una possibile salvezza del protagonista furono poi cancellate da Fellini438. Marcello Rubini coniuga l’impossibilità di astenersi con la nascita di un senso di abbandono anticipando il triste destino di Giacomo Casanova. Ripercorrendo l’andamento delle sequenze de Il Casanova, osserviamo come Fellini segni il passaggio dalla sessualità ripetitiva alla degradazione della stessa, costringendo il proprio personaggio a subire ogni genere di alterazione del sesso, il tutto presieduto dall’uccello meccanico che accompagna le sue prestazioni erotiche (dalla pratica esoterica con la marchesa d’Urfè alla gara di orgasmi a casa dell’ambasciatore inglese, senza dimenticare l’orgia con donne deformi). Si giungerà in ne all’apparizione di donna dalle sembianze irreali, un misto tra una bambola gon abile e un automa439, un personaggio simile all’Olympia di cui Nathanael si innamora ne I racconti di Ho mann di Jacques O enbach440. Lavorando nella continuità dell’immagine del declino già delineata ai tempi de La dolce vita, Il Casanova mostra bene una delle ragioni per cui Marcello Rubini non riesce a trovare una via d’uscita alla ne del lm. In mancanza di una vera e propria volontà di astenersi, il vuoto riveste una mera funzione negativa. Così, perpetuando un’inarrestabile ricerca del piacere, Casanova crea le condizioni per la propria solitudine che coincide con l’arrivo della malattia e della vecchiaia e che conduce a una scena nale nostalgica. Da un lato vediamo un primissimo piano sugli occhi arrossati e sulle guance rugose dell’anziano seduttore, dall’altro, il suo giovane corpo mentre danza con la donna-automa in una Piazza San Marco deserta441. Tuttavia, senza troppe sorprese, nell’alternanza tra l’immagine reale della senilità e quella onirica della giovinezza è il ballo a dire l’ultima parola a nché il rimpianto per un tempo ormai lasciato alle spalle crei uno

spiraglio per una visione atemporale442: la danza, sotto l’egida della festa che attraversa tutto il cinema di Fellini. In maniera simile benché non sovrapponibile con la scena di chiusura de Il Casanova, in altri lavori del regista di Rimini lo spettacolo riesce pienamente a sorpassare l’opposizione tra vita e morte, intercettando, così, una tendenza di alcuni lm di Sorrentino a trasformare il vuoto in qualcosa di a ermativo. II.4.d A ermare il vuoto Una delle idee che abbiamo proposto su La grande bellezza sta nel dire che lo sforzo di Jep Gambardella non consiste soltanto nel distanziarsi dalla Roma mondana ma, più profondamente, nel fare in modo che il tempo perso nelle banalità festive possa diventare qualcosa di pieno e di a ermativo nel futuro. La nostra posizione si iscrive nella continuità dell’analisi che Mori ha dedicato al lm di Sorrentino impostando il proprio studio sulla questione del godimento e del desiderio. Recuperando alcuni suggerimenti dell’approccio psicanalitico e di quello politico-ideologico con l’appoggio, tra gli altri, di Jacques Lacan e di Slavoj Žižek e partendo dall’ipotesi secondo cui il cinema di Sorrentino “ci pone di fronte a problemi mai completamente risolti” quali “il rapporto fra signi cante e signi cato” e fra “soggetto e potere”, Mori vede il regista partenopeo come l’autore di opere che “oggi più che mai” ci suggeriscono come “lo scontro fra il soggetto e il potere si giochi attorno alla capacità dei signi canti di ssare un determinato campo ideologico e con esso una percezione del Sé e della realtà”. In particolare, il critico individua ne La grande bellezza un “invito alla dimensione personale ed etica del desiderio”443. Cosa succede, allora, con l’ideologia e perché Mori ne parla in merito al lungometraggio di Sorrentino? Una delle ipotesi iniziali dell’autore sta nel dire che il lm in questione è contestualmente immerso nell’“ideologia postmoderna”, de nizione per la quale egli prende ampiamente spunto da Žižek. È qui che incontriamo una

problematica attigua al nostro discorso sul vuoto. Riprendiamo una citazione dello stesso Žižek riportata da Mori: Il procedimento fondamentale [dell’ideologia] è quello di dare la precedenza alla negatività rispetto alla positività: la proibizione non è un ostacolo secondario che impedisce il mio desiderio; il desiderio stesso è un tentativo di riempire la distanza introdotta dalla proibizione.444 La rilevanza dell’idea appena citata e l’importanza dell’uso che ne fa Mori risiedono nell’osservazione secondo cui La grande bellezza è un lavoro che prova a trovare un’alternativa alla de nizione del desiderio come bisogno o tentativo di colmare “la distanza introdotta dalla proibizione”. Di conseguenza, se seguiamo la prospettiva indicata dal critico italiano, sarà lecito sostenere che lo sforzo di Sorrentino consiste precisamente nell’a ermare tale distanza evitando di riempire il vuoto o, per essere più precisi, astenendosi da qualsiasi velleità di colmarlo. Così facendo, risulta possibile l’operazione pre gurata da Mori secondo cui il lm permette di riconsiderare l’espressione de L’apparato umano, titolo del primo romanzo ttizio scritto Jep Gambardella, con il termine apparato che viene, in ne, concepito come “sublimazione del vuoto costitutivo” a dispetto dell’iniziale accezione di “monotonia del godimento”445. In sintesi, si dirà che un approccio diverso nei confronti della privazione determina il cambio di rotta de La grande bellezza. In realtà, è proprio grazie a questa revisione che Sorrentino modi ca ciò che l’azione dava esclusivamente come una serie di impedimenti, seguendo quanto rilevato nel primo capitolo del nostro lavoro. Secondo quali modalità è, allora, possibile ripensare il vuoto nell’immagine di Sorrentino? Per proporre una risposta conviene, forse, mettere in discussione una dichiarazione dello stesso regista che nel 2011 parlava in

questi termini della “perdita di sé” ispirandosi alla dépense di George Bataille446: Sono a ascinato dall’idea che una persona possa dilapidare gratuitamente la propria vita, e la mia ambizione è di fotografare il momento esatto in cui questa dispersione prende forma. A volte è il caso a dominare, altre la scelta del singolo, ma non cambia molto. Non sono mai controllabili le ragioni per cui si manda tutto a monte, quello che accade avviene e basta.447 La nostra obiezione consiste nell’ipotizzare che oltre all’accezione di “mandare tutto a monte” esiste un’altra visione della perdita e della perdita di sé in Sorrentino. In tal senso, possiamo prendere in considerazione le battute nali de Le conseguenze dell’amore: Titta elabora il piano per ingannare i tirapiedi del boss e perde a causa di un imprevisto. Questi sono gli elementi che ci giungono da una prospettiva fondata sull’azione. Tuttavia, dopo il fallimento del progetto accade qualcos’altro. In tal senso, Roberto Curti osserva due fasi nella “ribellione” del protagonista: “un’asserzione di volontà negativa (‘Io questa valigetta non ve la do’)”, frase che Titta rivolge ai ma osi e che non costituisce il suo ultimo gesto, nella misura in cui viene completata da un secondo atto radicalmente diverso. Si tratta di un’“opera d’immaginazione” che determina la scoperta della libertà di un “uomo in ascolto”448. Così, proprio nell’istante in cui Titta esala l’ultimo sospiro, un’immagine ulteriore viene generata. Si tratta di una visione mentale, una scena che può appartenere soltanto al protagonista poiché la persona che vi gura è nota soltanto a lui449, anche se va considerato che nel momento in cui l’immagine si manifesta egli è in punto di morte. Fotogramma limite per il soggetto, ultima scena gurabile per uno sguardo coperto dal cemento, oppure visione già distante da parte di un osservatore quasi incapace di produrla, la sequenza che chiude Le conseguenze dell’amore è un primo esempio

di apertura del cinema di Sorrentino nei confronti della distanza450. La conquista del vuoto ne Le conseguenze dell’amore non va intesa al livello esclusivamente metaforico ma, anzitutto, come presenza concreta e tangibile, nella misura in cui i due personaggi – Titta nella realtà lmica e il suo amico di infanzia (Dino Giu rè) nella scena mentale – sono soli e sospesi in aria, il primo tenuto in alto da una gru, il secondo perché ripara tralicci guasti in montagna. Tuttavia, la morte e il vuoto non sono più di coltà insormontabili in un sistema basato sulla leggerezza dello slancio vitale, così come la lontananza non subisce più il peso dettato dal bisogno di colmarla. Se è vero che esiste un desiderio per Titta, che si prenda l’accezione che ne dà Mori tramite Žižek o quella, più comune, di ultima volontà prima di morire, esso coincide con un’immagine in cui il volere stesso non è più condizionato dallo scarto con l’oggetto desiderato ma riesce a coniugarsi con quest’ultimo. La lontananza non viene più azzerata dal tentativo di appropriarsi di una visione, come se quest’ultima fosse un’immagine-oggetto di cui fruire, ma emerge una seconda possibilità di unione tra i fotogrammi al di là della sfera del possesso. In tal senso, nella sequenza nale de Le conseguenze dell’amore, la paura del vuoto viene sostituita dall’a ermazione dello stesso, a ermazione nella quale la distanza non è più un elemento che fa difetto ma, al contrario, ciò che anima il desiderio, nonché ciò da cui nasce l’immagine. Non a caso, Titta non si esprime al condizionale rimpiangendo un allontanamento spazio-temporale dal suo amico, ma asserisce al presente un’ultima complicità con quest’ultimo: Una cosa sola è certa. Io lo so. Ogni tanto, in cima a un palo della luce, in mezzo a una distesa di neve, contro un vento gelido e tagliente, Dino Giu rè si ferma, la malinconia lo aggredisce e allora si mette a pensare. E pensa che io, Titta Di Girolamo, sono il suo migliore amico.451

Riprendendo un punto del nostro lavoro elaborato anteriormente, si dirà che ne Le conseguenze dell’amore, lo “slancio vitale” viene compiuto tramite una revisione del rapporto con il vuoto: superata la paura della caduta, come nel tu o di Tony Pisapia ne L’uomo in più, per l’individuo diventa possibile cogliere la vita a dispetto della morte, abbandonando quindi la contro-morale della negazione che promuove l’assenza come unica forma di presenza (The young pope). È questo il gesto nietzschiano di Sorrentino, ciò che apre l’immagine verso la propria ambiguità, abbandonando i vincoli imposti dall’ordine in favore di una disposizione eterogenea. Parallelamente a quanto osservato per Le conseguenze dell’amore, possiamo citare l’esempio che Mori propone alla ne del suo studio su La grande bellezza quando, parlando del personaggio della suora missionaria nella scena in cui rivela a Jep di conoscere i nomi di tutti i fenicotteri appena apparsi sul suo terrazzo, suggerisce il recupero della “ gura biblica del pastore che sa riconoscere e chiamare le sue pecore una per una”. Allo stesso tempo, si assiste al ricongiungimento del “precetto cristiano ‘ama il prossimo tuo come te stesso’” con un “senso di accettazione per l’Alterità”. Da ciò deriva l’idea secondo cui l’epilogo del lm sancisce la sostituzione di un primo sistema formato dal “desiderio”, dalla “proibizione” e dalla “distanza” frapposta tra di loro, con un nuovo legame in cui il desiderio si unisce all’oggetto e in cui la proibizione non è più coercitiva raggiungendo, così, il proprio “valore di Legge”452. In de nitiva, tanto ne Le conseguenze dell’amore quanto ne La grande bellezza, scompare la necessità di azzerare il distacco dal momento che nella nuova concezione del vuoto la lontananza non ha più niente a che fare con il divieto. È per questo che, in conclusione, nascono le condizioni per la congiunzione del soggetto desiderante con l’oggetto desiderato. La possibilità di concepire la distanza senza passare dal bisogno di azzerarla è una speci cità di alcune immagini

di Fellini. Nella grande famiglia di saltimbanchi che si avvicendano nell’opera di Fellini, un personaggio in particolare viene presentato come colui che non teme il vuoto. Si tratta del Matto, il funambolo de La strada, che appare per la prima volta mentre cammina su una fune tesa tra due palazzi, suscitando lo stupore di Gelsomina che lo guarda dal basso453. Ma, il Matto perde l’equilibrio per ben due volte, la prima salvandosi in extremis dopo essere scivolato sulla fune, la seconda senza riuscire a trovare un rimedio quando perirà per mano di Zampanò454. Spirito n troppo leggero, acrobata sotto il tendone da circo e nella vita, il Matto non è in grado di a rontare il vuoto senza passare dal dolore. Toccherà, quindi, ad altre immagini felliniane a rontare l’impresa del funambolo, convertendo la negazione della vita nell’a ermazione della stessa. Nei frammenti conclusivi de Le notti di Cabiria, dopo esser stata ingannata dall’uomo che l’aveva corteggiata, la protagonista vede svanire la speranza di a rancarsi dalla vita di sacri ci portata avanti vendendo il proprio corpo. Sola e disperata, la prostituta giace sull’orlo di un precipizio dove pochi istanti prima aveva chiesto all’impostore di ucciderla e dove adesso grida a squarciagola: “voglio morire!”. Decide, in ne, di rialzarsi ritrovando la strada da cui proveniva455. Ora, sebbene gli eventi della trama lmica conoscano un punto d’arresto nella scena dello svelamento della tru a, la solitudine della protagonista non è il punto culminante del lm nella misura in cui Fellini ci presenta un’ultima immagine la cui speci cità è quella di situarsi al di là della narrazione. Estranea al tempo del racconto, sorge, allora, la festa: un gruppo di giovani suonano e intonano una canzone gioviale che accompagna i passi di Cabiria. Guardando la protagonista senza che quest’ultima li ssi un solo istante, i guranti sopraggiunti all’improvviso posseggono tutti i requisiti di una manifestazione mentale. Tuttavia, l’immagine di Fellini oltrepassa la semplice visione del soggetto permettendo alla festa di acquisire una doppia valenza. Qual è, allora, l’e etto che

produce questa presunta scena immaginaria? Pur non essendo riuscita a evitare il proprio naufragio sentimentale, dopo aver vinto, però, la tentazione negativa e autopunitiva del suicidio, Cabiria scopre il “punto in cui la realtà e il sogno non si escludono”456. La protagonista trova una nuova spinta vitale benché conservi in volto la tristezza della donna che ha perso tutto in pochi attimi, donde l’ambivalenza dell’immagine: non solo l’immaginario integra il reale, ma ciò accade con una scena in cui la gioia della musica e della danza nascono contemporaneamente alla tristezza della perdita senza pretendere di sostituirla. Questo comportamento diventa possibile perché, come ne Le conseguenze dell’amore, la distanza che distingue la vita dalla morte viene inserita in una scena in grado di ricongiungere la prima con la seconda, sicché la festa non interviene per superare la so erenza ma per esserle compresente. Per le serate mondane, dal carnevale de I vitelloni ai night-club de La dolce vita, senza dimenticare la notte di San Silvestro de Il bidone, come già evocato nel primo capitolo del nostro studio, l’euforia iniziale conduce inevitabilmente a un momento segnato dal silenzio e dalla malinconia. Tuttavia, la successione in questione prevede sempre e comunque una divisione tra le fasi dello spettacolo laddove la sequenza nale de Le notti di Cabiria inaugura la presenza simultanea di due elementi antitetici. La gioia può, allora, germogliare proprio all’interno dello sconforto, così come ne Le conseguenze dell’amore è in punto di morte che Titta scopre una spinta vitale457. Nella continuità di quanto suggeritoci dalla sequenza nale de Le notti di Cabiria possiamo rivedere il lungo epilogo de I clowns458. Se, nel primo dei due lavori, la leggerezza musicale nasceva in corrispondenza del dolore, nel secondo l’articolazione dell’immagine è doppia. In un primo momento, assistiamo alla festa della morte, con i pagliacci che celebrano allegramente il funerale di uno di loro (l’Augusto), il tutto ripreso dalla telecamera di Fellini

presente in qualità di regista ttizio. In seguito, uno spazio ulteriore viene generato attraverso il ricordo di un clown. Si apre, allora, lo scenario per un nuovo spettacolo appartenente alla memoria e colto in un momento signi cativo. Si tratta dell’istante in cui il pagliaccio in questione si ricorda del numero che faceva in compagnia di un suo amico, esercizio nel quale il secondo si ngeva morto mentre il primo lo richiamava con il suono dolce di una tromba. Poco prima, con il funerale dell’Augusto, l’esibizione circense era nata in occasione della morte e la scomparsa del saltimbanco si era trasformata in un momento gioioso, il tutto sotto l’egida di un altro spettacolo, quello che Fellini stesso riprendeva. Invece, nella scena di chiusura, tocca allo spettacolo andare incontro all’assenza passando prima da un vecchio ricordo e, in seguito, dall’evocazione della morte tramite il numero dei pagliacci. In un caso come nell’altro, viene meno la distanza tra la vita e la mancanza di quest’ultima, a immagine dell’ultimo frammento del lm che vede i due trombettisti avvicinarsi gradualmente al centro della pista del circo per poi uscire di scena insieme459. Iscrivendosi nella tradizione della festa popolare, la qualità intrinseca della festa felliniana è forse quella di “incorporare nella loro unità contradditoria i due poli del divenire” no a creare un sistema in cui “non esiste la negazione pura e astratta”, per riprendere una considerazione di Michail Bachtin sull’opera di François Rabelais460. In questo mondo “bicorporeo” in cui non si celebra né la scomparsa né la rinascita ma un’unica “festa della morteresurrezione”461, il vuoto e la mancanza non sono più le componenti negative della pienezza e della presenza ma ciò che insieme a queste ultime anima un’unica immagine. Alla luce di quanto rilevato, possiamo esprimere con più chiarezza il legame con il cinema di Sorrentino: così come in Fellini è l’unità dei contrari ad essere promossa dalla festa, in alcuni lavori del regista napoletano sono il ricongiungimento dell’osservatore con la visione assente

(Le conseguenze dell’amore) e l’unione del desiderio con la proibizione (La grande bellezza) a rinnovare al contempo lo slancio verso la vita e l’ambivalenza dell’immagine. In un caso come nell’altro, il vuoto non è più l’ostacolo che separa le due componenti dell’immagine, né ciò che ne impedisce il ricongiungimento. II.4.e L’astenersi Il punto culminante della revisione del vuoto in Sorrentino consiste nella de nizione di una concezione, per così dire, a ermativa della privazione, ossia nella conversione della privazione da momento negativo ad a ermazione di una volontà. Come già accennato in precedenza, i lavori di Sorrentino sono sempre costruiti attorno a una gura maschile, con il ruolo di protagonista che nora non è mai stato a dato a una donna, con la sola e parziale eccezione di Rosalba ne L’amico di famiglia, benché quest’ultima non riesca realmente a rubare la scena al grottesco e spregevole Geremia462. Eppure, le donne sono tutt’altro che assenti nelle storie di Sorrentino, tanto da permetterci facilmente di identi care due rappresentazioni tipiche dei corpi femminili: una prima tendenza tende a presentarli secondo tratti caricaturali e una seconda ne valorizza la forte carica sensuale. Si pensi all’apparizione di Lorena ne La grande bellezza: la donna emerge dalla torta preparata per il compleanno di Jep Gambardella rivelando l’immagine di una bellezza decaduta benché l’età venga ostinatamente ignorata a suon di operazioni chirurgiche. Non a caso, ritroveremo la stessa donna nella scena che si svolge dal medico-guru che guarisce le proprie pazienti con un’iniezione magica 463. Altrettanto signi cativa è la scelta di a dare il ruolo di Lorena a Serena Grandi, attrice emblematica del cinema erotico italiano degli anni Ottanta e Novanta, allontanatasi dal grande schermo con il passare degli anni per partecipare a produzioni e programmi televisivi. Non meno caricaturali sono i personaggi delle amiche di Jep che quest’ultimo non esita

a mettere in ridicolo, come nella scena del lungo monologo che rivolge a Stefania criticandola per il suo scarso impegno politico, oppure nello scambio con Viola, la quale, preoccupata per la depressione del glio, viene esortata dal protagonista ad “assaggia[re] la pizza di scarola”464. Questa prima tendenza parodica che frappone una distanza tra la prospettiva dell’uomo schernitore e quella della donna schernita non di erisce considerevolmente da una seconda maniera più contemplativa di rappresentare il corpo femminile come visione fuori portata per l’osservatore maschile. A tal proposito, ricorderemo la scena di Youth in cui Miss Universo entra nuda in piscina apparendo come una creatura di un altro pianeta di fronte allo sguardo incredulo e meravigliato di Fred e Mick465. In un caso come nell’altro, l’atteggiamento del regista ha provocato un certo numero di reazioni negative da parte del pubblico, spingendo alcuni critici a parlare di misoginia466. D’altra parte, lo stesso Sorrentino si è protetto da questo genere di accuse de nendosi ironicamente “più misantropo che misogino”467, frase integrata nella sceneggiatura de La grande bellezza e pronunciata da Jep proprio nei confronti di una donna (Stefania)468. Di sicuro, il tema e l’ambientazione di Loro non hanno a atto convinto la critica a rivedere un certo scetticismo quanto all’immagine della donna nei suoi lm, come spiega Adriano Ercolani: Loro 1 è un’in nita carrellata di corpi femminili [che Sorrentino] non sa come inquadrare: […] mai sensuali, tutti allo stesso modo, lontani, algidi, irraggiungibili, ripresi a mezzo busto o a gura intera. Mai un dettaglio, mai in macro. […] In Sorrentino, la gura femminile o è un’apparizione intoccabile, e quindi da osservare a rispettosa distanza, come la Miss Mondo di Youth, o è oggetto da consumare/compatire (il personaggio di Isabella Ferrari ne La Grande Bellezza o tutte le ragazze di Loro) oppure è un essere non più interessato al sesso,

perché innocente o semplicemente distaccato, come sono rispettivamente Stella e Veronica Lario in quest’ultima pellicola (come in precedenza la spogliarellista Ramona interpretata da Sabrina Ferilli nel suo lm più premiato era accessibile emotivamente solo attraverso una desessualizzazione).469 Prendendo in considerazione il commento appena riportato, riteniamo opportuno indagare l’osservazione di Ercolani secondo cui alcuni personaggi femminili sorrentiniani risultano inaccessibili per l’uomo a causa di una certa tendenza alla “desessualizzazione”. La questione spinosa della rappresentazione della donna in Sorrentino, problematica rispetto alla quale non pretendiamo di formulare una risposta esauriente, ci sembra strettamente legata alla maniera in cui il cineasta concepisce il vuoto e la privazione. Il quesito che solleviamo è, dunque, il seguente: se è vero, come abbiamo ipotizzato in precedenza, che alcuni personaggi superano la paura del vuoto (L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore) convertendo la vacuità delle frivolezze in qualcosa di pieno (La grande bellezza), l’inaccessibilità del corpo femminile non è forse dovuta a una cattiva comprensione della mancanza e della rinuncia? Di conseguenza, un ricongiungimento con la presenza femminile non diventa possibile trasformando la privazione nella volontà a ermativa di astenersi? Conviene sottolineare che la spinta alla desessualizzazione di cui parla Ercolani trova conferma nella frequente svalutazione dell’atto erotico che osserviamo nei lavori di Sorrentino e che provoca spesso il rimorso degli uomini che ne sono coinvolti: Tony Pisapia viene accusato di abuso su minore dopo aver consumato un amplesso furtivo con una ragazza incontrata in discoteca470, Cheyenne continua a essere a itto dai propri tormenti dopo aver fatto l’amore con sua moglie471, Jep va via di nascosto dalla lussuosa dimora di una donna borghese con cui era andato a letto lasciando che la propria voce fuori campo mediti sul tempo perso472. Il valore del sesso non viene a atto riconsiderato in Loro,

come dimostra una delle prima scene del lm quando Sergio Morra, a letto con una prostituta, scorge sul fondoschiena della donna un tatuaggio ra gurante il volto di Berlusconi473. La ne della scena suggerisce come il fervore edonistico del personaggio maschile sia dovuto all’intuizione su come arricchirsi piuttosto che all’atto sico in sé. Più grave di una semplice azione insigni cante, il sesso è il pretesto per condurre a qualcun altro e a qualcos’altro, a un problema più profondo che risiede nella merci cazione del corpo femminile e nel prossenetismo e che, nella sequenza in questione, non è altro che un’idea concretizzatasi sotto gli occhi di Morra. La svalutazione del rapporto intimo è un elemento ricorrente nel cinema di Sorrentino, come se il regista volesse compensare una prima attrazione per il corpo femminile con un secondo gesto di chiusura nei confronti del congiungimento con quello maschile. Una scena di The young pope spiega questa ambivalenza: in un dialogo con il suo scrittore preferito (Elmore Coen), romanziere che parla del sesso come “motore che fa girare il mondo”, Pio XIII spiega al proprio interlocutore che la qualità delle sue storie sta nel saper parlare di “motori che si inceppano continuamente”474. Ora, se la tendenza visiva che consiste nel mettere in evidenza l’ine cienza e l’inconsistenza del sesso de nisce una prima inclinazione negativa, il cinema e la prosa di Sorrentino lasciano alcuni spiragli per la conversione a ermativa di quella che sembrerebbe una pudicizia conquistata a suon di denunce nei confronti degli eccessi mondani. Un primo gesto che opera in tal senso è racchiuso in una scena di This must be the place: recatosi a casa della nipote dell’u ciale nazista, Cheyenne ri uta di andare a letto con lei per puro amore nei confronti di sua moglie. Ciononostante, il protagonista regala una piscina da esterno al glio della giovane donna a nché il fanciullo possa imparare a nuotare475. Questo passo narrativo di This must be the place anticipa un’immagine de La grande bellezza in cui il ri uto viene esplicitamente presentato come espressione di una

volontà a ermativa. Agli antipodi dei numeri di lap dance, Ramona è la spogliarellista che si esibisce per difendere l’eleganza della performance senza cadere nella volgarità e, in linea con il principio che regge la sua concezione della nudità, diventa la persona con cui Jep non farà l’amore. Lo scambio di battute tra i due personaggi ci fa capire come la scelta dell’astinenza sia l’a ermazione di una volontà condivisa. Entrambi giacciono seminudi sul letto quando il protagonista a erma: “è stato bello non fare l’amore”, frase a cui la donna risponde: “è stato bello volersi bene”476. La privazione diventa, dunque, un gesto di unione tra due corpi mossi da un desiderio comune, suggerendo un’armonia attribuibile al rapporto intimo benché situabile al di fuori del sesso, ribaltando, così, il ritornello della canzone del compleanno di Jep in cui si poteva udire: “a far l’amore comincia tu”477. Qualcosa di simile accade in Hanno tutti ragione. Così come, ne La grande bellezza, Jep si riconcilia con Stefania dopo un diverbio iniziale invitandola a ballare478, anche nel romanzo Tony Pagoda torna da una donna nei confronti della quale aveva avuto un atteggiamento violento479. Durante la conversazione con una certa Rita Palmisano, il narratore si mostra particolarmente interessato alla storia che quest’ultima le racconta e che ricorda in parte quella di Filumena Marturano. Lasciando intuire di aver un passato da prostituta, Rita spiega a Tony di non conoscere l’identità del padre di suo glio, diversamente dalla Filumena di Eduardo che conosce la paternità dei suoi gli e non vuole rivelare a Domenico Soriano quale dei tre è stato concepito con lui480. In Hanno tutti ragione, il dialogo sincero tra Tony Pagoda e Rita Palmisano crea un sentimento di reciproca attrazione che viene, però, improvvisamente interrotto da un gesto troppo esplicito da parte della donna. Il protagonista dunque la respinge, incapace di associare intimità e sesso, come gli altri uomini sorrentiniani. Tuttavia, il ri uto non rimane sul piano della negazione, seguendo le parole dello stesso Pagoda che, oltre a rinunciare al sesso, formula nella

stessa frase un secondo desiderio questa volta positivo: “tutto quello che desidero in questo momento è negarmi e recuperare la strada. La libertà”481. La libertà in questione viene trovata con un gesto di apertura che presenta inizialmente le sembianze di un’epifania insolita: “io che invece ho scoperto il valore dell’amicizia con lei. Ma che cazzo vai dicendo Tonino?” è la battuta che segue la frase in cui il rapporto sessuale è de nito come “[n]iente, poca cosa”482. Pertanto, l’impossibilità di un’unione erotica tra i due personaggi non preclude l’avvento di un secondo congiungimento spinto dal ri uto del sesso. Mentre Rita racconta i suoi traumi del passato – da suo padre che scappa di casa a suo fratello alcolizzato – Tony la abbraccia, cogliendo le so erenze che la tormentano e immaginando la visione che sta avendo in quel preciso istante: Le passo una mano sulla nuca e porto lento e dolce il suo viso sul mio petto. Allora chiude gli occhi rivede suo padre che sbuca in casa alle sette di sera con un grande pacco. Le ha comprato scontatissimi, all’ingrosso, sulla circonvallazione vicino Casoria, degli stivali sospesi tra il rosso e l’amaranto che lei desiderava più di un glio. E realizza, dopo pochi istanti, che quegli stivali sono il primo e l’unico regalo che il padre le farà.483 Io che chiudo gli occhi. Lei che chiude gli occhi. Noi che chiudiamo gli occhi. E quasi insieme, io e Rita, che vediamo il funerale del fratello alcolizzato.484 In questo passo di Hanno tutti ragione Sorrentino sperimenta un’idea su cui si fonderanno i ritratti in prosa de Gli aspetti irrilevanti e che consiste nell’immaginare una voce narrante eterodiegetica – in questo caso ancora coincidente con il narratore interno del romanzo (Tony Pagoda) – che conosce e narra la storia di personaggi i quali, dietro una serie di tratti insigni canti, celano un passato spesso traumatico. È secondo queste modalità che

il protagonista di Hanno tutti ragione ribalta l’iniziale distacco dalla presenza femminile in qualcosa che non è soltanto la privazione del sesso ma la costruzione di una seconda intimità. In tal senso, il gesto dell’abbraccio è emblematico poiché diventa un atto di compassione e di comprensione nei confronti del passato e del trauma, rovesciando un lungo e fasullo esercizio di lettura dell’animo femminile in cui Pagoda si era cimentato in un capito precedente intitolato “LEZIONE NUMERO UNO SULLA SEDUZIONE”485. Qui, Pagoda compie un’operazione ingannevole orientando la sua presunta sensibilità maschile verso la conquista vana del corpo femminile, laddove nell’abbraccio con Rita egli coglie la so erenza della donna che gli sta accanto sostituendo sia l’adempimento del piacere sia la privazione del sesso con un gesto signi cativo di unione che, ne La grande bellezza, verrà riproposto in una variante più religiosa con la comunione tra il personaggio della suora missionaria e i fenicotteri di cui conosce il nome. Osserviamo una scena simile in Tony Pagoda e i suoi amici quando, parlando dei propri sentimenti per una donna incontrata a Stromboli, il protagonista elogia “il supremo strumento di felicità [della] risata” a scapito di qualsiasi rapporto sico486. Mettendo a confronto gli esempi in prosa con una scena de La grande bellezza evocata poc’anzi, ossia il momento in cui Jep e Ramona si astengono dal fare l’amore, si dirà che la volontà di privarsi, ciò che possiamo de nire con l’ossimoro privazione a ermativa, trova uno spazio fecondo in un aspetto ricorrente nei lavori di Sorrentino su cui ci concentreremo in seguito. Si tratta del ricordo, fulcro dello sforzo storiogra co che si colloca proprio in corrispondenza del mancato rapporto sessuale a cui o re un’alternativa: Jep e Ramona guardano il so tto immaginando il mare dell’infanzia del protagonista487, così come Tony e Rita si abbracciano ripercorrendo la giovinezza di quest’ultima. L’astenersi diventa, dunque, ciò che permette la nascita di un legame in cui il “non fare” non è più un ri uto subito, bensì il bisogno o la

volontà di fare qualcosa di più importante che, nella fattispecie, coincide con il ricordo. Sorrentino sembra dunque trarre una lezione dal Casanova di Fellini e dal personaggio di J.R. di Scorsese ribaltando il rapporto al sesso che imprigionava entrambi: da un lato, i personaggi sorrentiniani devono dissociarsi dalla seduzione come atto rituale (Il Casanova), dall’altro annullare la distanza che creano con la presenza femminile, superando ciò che costringe il protagonista di Who’s that knocking at my door a vedere la donna come una creatura irraggiungibile, cristallizzata tra la gura della peccatrice e quella dell’immacolata488. Visto da una prospettiva maschile e eterosessuale – prospettiva dominante in Sorrentino – l’astenersi dall’atto erotico diventa sinonimo di ricongiungersi con una donna, suggellando così il passaggio dall’erotizzazione alla desessualizzazione del corpo femminile. Contemporaneamente, il bisogno di astenersi appare profondamente legato a una rilettura progressiva del vuoto, nonché alla possibilità di sostituire l’assenza del rapporto carnale con l’a etto e con la memoria. L’intreccio delle in uenze ci ha permesso di osservare alcune peculiarità visive e narrative delle opere sorrentiniene. La ri essione del secondo capitolo farà da preludio a tre spunti che porteremo avanti nell’ultima parte del nostro studio in cui ci occuperemo di ciò che circonda l’immagine e la prosa di Sorrentino, ossia, in un certo senso, del loro straripamento. Parleremo, allora, di questioni che si situano al di là delle speci cità formali dei suoi lavori pur appartenendo loro intimamente: il discorso sulla mancanza e sul vuoto ci introdurrà alla questione dell’apprendimento e della mancanza di punti di riferimento; la presenza del ricordo nel rapporto intimo ci permetterà di a rontare un discorso più ampio sulla storiogra a; il valore ingannevole della parola ci condurrà alla problematica dell’arti cio. Si tratta del primo cortometraggio che Sorrentino realizzò da solo nel 1998. Quattro anni prima il regista aveva codiretto con Stefano Russo un

brevissimo corto della durata di due minuti intitolato Un paradiso. F. Vigni, op. cit., p. 25. Ivi, pp. 25 e 119. F. Fellini, Il bidone, cit., 1h38’-1h50’. Ivi, 1h51’. F. Fellini, La dolce vita, cit., 5’ e 2h50’-2h51’. G. Agel, Les chemins de Fellini, Éditions du Cerf, Parigi, 1956, p. 19 [traduzione personale dal francese] e F. Fellini, Il bidone, cit., 1h29’ -1h33’. Id., La strada [1954] [DVD], Filmauro, 2003, 1h30’-1h34’. G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., pp. 104-105. B. Amengual, Itinéraire de Fellini: du spectacle au spectaculaire, in M. Estève (a cura di), Huit et demi, cit., pp. 3-26. F. Fellini, Otto e mezzo, cit., 1h48’ e 2h01’. P. Lajus, Federico Fellini ou la vision partagée, Les Cahiers du Tournefeuille, Tournefeuille, 1993, p. 59. [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso contributo]. F. Fellini, Otto e mezzo, cit., 6’-8’. B. Amengual, Itinéraire de Fellini: du spectacle au spectaculaire, cit., p. 20. Ivi, p. 21. M. Mesnil, Casanova. Le vieil homme et la mort, in G. Ciment (a cura di), op. cit., pp. 116-117. W. Zidarič, Alla ricerca della città che non c’è nella Città delle donne di Federico Fellini, in G. Paganini, W. Zidarič (a cura di), Città italiane al cinema, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 174-175. Nel terzo capitolo del nostro studio si osserverà come, rispetto alla questione dell’apprendimento, l’immagine di Satyricon presenti una composizione labirintica simile a quanto rilevato ne La città delle donne. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 2h10’-2h11’. Id. Tony Pagoda e i suoi amici, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 28. P. Lajus, op. cit., pp. 59-60. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 2h07’. Id., Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 30 Ivi, p. 36. Ivi, pp. 34-35. Ivi, p. 37. F. Vigni, op. cit., p. 63 e B. Corsi, La vita fuori dalla porta, in “Vivilcinema” n°3, 2004.

F. Vigni, op. cit., p. 97. Intervista a cura di Paola Zanuttini, op. cit. S. Waters, Anxiety (of in uence) and (absent) fathers in Sorrentino’s English language narratives, in A. Mariani (a cura di), op. cit., p. 403. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi per le citazioni successive del medesimo articolo]. Cfr. capitolo III, sezione 1. Nell’ordine evocato nel testo principale: P. Sorrentino, Youth [2015] [DVD], Medusa, 2016, 38’, 45’, 48’-49’, 1h22’, 43’. https://www.youtube.com/watch?v=aYoRcnmz6ZE [ultima consultazione: 03/06/2019] e Intervista a cura di Concita De Gregorio (07/03/2014), 24’. https://video.repubblica.it/videoforum/concita-de-gregorio-intervistapaolo-sorrentino-l-integrale/158475/156968 [ultima consultazione: 17/02/2020]. P. Sorrentino, Youth, cit., 41’-43’ e 1h41’-1h44’. Id., L’amico di famiglia [2006] [DVD], Medusa, 2013, 1h12’. Ivi, 44’-47’. Id., Gli aspetti irrilevanti, Mondadori, Milano, p. 19. Ivi, pp. 9-20. Ivi, pp. 23-25. Ivi, pp. 143-144. G. Mori, op. cit., p. 162. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 4, 39’. Id., Il divo, 5’ e 50’. S. Salvestroni, op. cit., p. 129. P. Sorrentino, cit., L’amico di famiglia, 27’. F. Vigni, op. cit., pp. 47-48. G. Mori, op. cit., p. 162. La commistione tra sacro e profano è una delle chiavi di lettura de La grande bellezza. Mori rileva che il lm anticipa questa tematica sin dalla prima scena montando insieme due immagini disparate: una “soggettiva divina” rivolge verso il cielo lo sguardo di una gurante; quest’ultima viene subito dopo ripresa mentre legge un quotidiano sportivo. U. Eco, Trattato di semiotica generale [1975], Garzanti, Milano, 2013, pp. 19-21. G. Mori, op. cit., p. 155. P. Sorrentino, Il peso di Dio. Il vangelo di Lenny Belardo, Einaudi, Torino, p.4. Il contributo appena citato è una selezione di alcuni brani tratti dalla sceneggiatura di The young pope. Id., The Young Pope, cit., episodio 1, 1’-4’.

Ivi, episodio 9, 45’. Ivi, 31’ e 35’. Rose dice a Gutierrez: “respiriamo la stessa aria”. Ivi, 36’-42’. Ivi, 51’-54’. Id., Il divo, cit., 1h05’-1h08’. Cfr. capitolo II, sezione 4. P. Sorrentino, The new pope, Sky Atlantic – Canal Plus, 2020, episodio 9, 54’-58’. A tal proposito, la nostra posizione diverge dall’idea di Alan O’Leary secondo cui esiste una continuità tra i due lm, in A. O’Leary, What is italian cinema?, in “Californian Italian studies”, n°7, 2017, p. 19. P. Sorrentino, Youth, cit., 1h51’-1h57’. B. Amengual, Itinéraire de Fellini: du spectacle au spectaculaire, cit., pp. 10-13. G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 105. P. P. Pasolini, Note su Le Notti, in L. Del Fra (a cura di), Federico Fellini: Le notti di Cabiria, Cappelli Editore, Bologna, 1981, p. 152. Con ciò si intende quella tendenza felliniana di cui abbiamo parlato nel primo capitolo, facendo riferimento ai lavori del cineasta in cui esiste una strati cazione dell’immagine. Si tratta di una disposizione particolarmente visibile ne I clowns, Roma e Intervista in cui le più tradizionali visioni mnemoniche e oniriche vengono accompagnate da un falso documentario e da un meta- lm. La forma del falso documentario è ravvisabile anche nel mediometraggio che Fellini realizzò per la NBC il cui titolo è A director’s notebook (1969). Nel terzo capitolo del nostro lavoro, tratteremo più dettagliatamente la questione dell’orfanità. A. J. Tamburri, Il sistema di segni del cinema italiano/americano: codeswitching e la signi cabilità di Mean Streets di Martin Scorsese, tr. it. di Danilo Pucci e Alberto Rebecchi, in “Rivista Internazionale di Studi Nordamericani”, n° ٢٠١٧ ,١٣, pp. 116-117. Nell’articolo in questione, Tamburri fa riferimento ai dialoghi della versione originale del lm. Ivi, p. 116 e C. Myers-Scotton, W. Ury, Bilingual Strategies: The Social Functions of Code-switching [1977], in “Journal of the Sociology of Language”, n°13, 2009, p. 5. A. J. Tamburri, op. cit., pp. 111-112. M. Scorsese, Mean streets [1973] [DVD], Raro Video, 2012, 1h43’- 1h50’. Nel secondo capitolo torneremo sulla compresenza di procedimenti teatrali e documentaristici in Scorsese. M. Scorsese, Goodfellas [1990] [DVD], Warner Home Video, 2005, 31’-34’. Il racconto in ashback di Casino comincia proprio dall’esplosione della macchina di Ace.

M. Scorsese, Goodfellas, cit., 1h55’-2h04’. M. Scorsese, The departed [2006] [DVD], Medusa, 2012, 2h12’. Ivi, 2h24’. G. Dor es, L’intervallo perduto [1980], Skira, Milano, 2006, pp. 7-8. Ivi, pp. 9 e 31. J. Rancière, La favola cinematogra ca [2001], tr. it. di Bruno Besana, Edizioni ETS, Pisa, 2006, pp. 156-157 e 164. G. Dor es, op. cit., p. 17. G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione? [1987], tr. it. di Antonella Moscati, Cronopio, Napoli, 2003. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la loso a? [1991], tr. it. di Angela De Lorenzis, Einaudi, Torino, 2002, pp. 85-86 e p. 199. Ivi, pp. 10-11. Ivi, p. 199. G. Deleuze, Di erenza e ripetizione, cit. p. 155. P. Criton, Bords à bords: vers une pensée-musique, in “Le Portique”, n°20, 2007, pp. 3-4. Con un’espressione sintetica ed e cace, Pascale Criton de nisce in questi termini il legame tra loso a e arte in Deleuze: il problema “dell’espressione dell’oggetto”, il problema di “che cosa vuol dire scrivere, dipingere, ecc.” è un’operazione di “attualizzazione dell’Idea”. [traduzione personale dal francese]. G. Deleuze, Di erenza e ripetizione, cit., p. 2. Ivi, p. 263. Ivi, p. 265. Ivi, p. 238. G. Didi-Huberman, op. cit., pp. 188-189. Non a caso, in una dialettica non sintetica come quella di Didi-Huberman in cui la perdita è data come elemento fecondo, il “negativo” viene integrato come “forza attiva” e non come termine privativo. F. Fellini, I vitelloni [1953] [DVD], Medusa, 2013, 42’-53’. Id., Otto e mezzo, cit., 27’-30’. Id., Giulietta degli spiriti [1965] [DVD], Carlotta, 2009, 4’-5’. Il Professor Genius è un personaggio reale a cui viene dedicata una scena di A director’s notebook, in Id., A director’s notebook, cit., 14’-18’. Id., Otto e mezzo, cit., 2h03’-2h08’. Id., La dolce vita, cit., 26’-30’. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 6, 39’-40’. Ivi, 51’. Intervista

a

cura

della

redazione:

https://www.giornalettismo.com/archives/2172645/paolo-sorrentino-theyoung-pope-intervista. [ultima consultazione: 04/03/2020]. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 5, 1’-2’. Ivi, 28’-29’ e episodio 6, 3’-5’. Ivi, episodio 6, 5’. Ivi, 21’-34’ e 40’-42’. Ivi, episodio 9, 37’-42’. Ivi, episodio 2, 21’-22’. Ivi, episodio 6, 52’-55’. Cfr. capitolo I, sezione 1. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 1h14’-1h17’. Ivi, 4’-8’. M. Pagani, P. Sorrentino, op. cit., pp. 25-26. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 8, 44’-48’. Il prete africano non parla né italiano né inglese, precisazione che occorre fare dal momento in cui la lingua originale delle riprese è l’inglese, tranne per le sequenze in cui i personaggi che vanno in scena sono tutti italiani. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 8, 32’-35’ e 52’-53’. Cfr. capitolo I, sezione 3. C. Gledhill, Rethinking Genre, in C. Gledhill, L. Williams, Reinventing Film Studies, Arnold, Londra, 2000. Il termine più giusto sarebbe “autorismo”, calcando il neologismo inglese auteurism derivante dal francese auteur che Gledhill utilizza nel suo articolo. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso contributo]. Ivi, pp. 221-222. Ivi, p. 240. Ivi, p. 227 e 221. Ivi, p. 229. Ivi, p. 234. Gledhill parla spesso di “sistema del genere” (“genre system”) e utilizza una sola volta la de nizione di “sistema melodrammatico” (“melodrama’s system”). Ivi, p. 229 e 232. N. Saada, M. Scorsese, Entretien avec Martin Scorsese, in “Les Cahiers du Cinéma”, n° 500, 1996, p. 10 [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le note seguenti della stessa intervista]. S. Morpelli, La représentation lmique du criminel Italo-américain par F. Ford Coppola et M. Scorsese, in “Criminocorpus”, n° 2, 2007, pp. 1-16. [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso articolo].

G. Privet, This lm should be played loud: quelques notes sur la musique dans les lms de Martin Scorsese, in “24 images”, n°67, 1993, p. 38. [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso articolo]. M. Scorsese et al., Mes plaisirs de cinéphile, Éditions des Cahiers du Cinéma, Parigi, 1998, pp. 28-29. Id., New York, New York [1977] [DVD], Fox Home Entertainment, 2011, 2’-11’. Ivi, 35’, 21’-26’ e 1h18’. A. Grunert, Mémoires génériques, thème et variations. New York, New York et The last waltz, in M. Estève (a cura di), Martin Scorsese, cit., p. 174. [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso articolo]. M. Scorsese, New York, New York, cit., 57’ e 1h32’-1h41’. Ivi, 31’ e 44’. J.-P. Domecq, op. cit., p. 103. C. Del Rio Alvaro, Genre and fantasy: Melodrama, Horror and the gothic in Martin Scorsese’ Cape Fear, in “Atlantis”, n° 26/1, pp. 63-64. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso articolo]. R. Casillo, Gangster priest, cit., pp. 64-65. Ivi, pp. 111-118. Id., Moments in Italian-American Cinema: From Little Ceasar to Coppola and Scorsese, cit., pp. 409-410. Id., Gangster priest, cit., 114, passim. Più precisamente, Casillo parla di “fare gura”, espressione riportata in italiano. Id., Moments in Italian-American Cinema: From Little Ceasar to Coppola and Scorsese, cit., p. 411. J.-P. Domecq, op. cit., p. 84 e M. Cieutat, Le ministère de Martin Scorsese, in M. Estève, Martin Scorsese, cit., p. 16. Cieutat individua nella domanda del “Come sopravvivere?” un interrogativo costante dei personaggi di Scorsese. R. Casillo, Moments in Italian-American Cinema: From Little Ceasar to Coppola and Scorsese, cit., p. 410. È un’idea che possiamo rintracciare nel lavoro seguente: F. Gardaphé, From Wiseguys to Wise Men: the Gangster and Italianamerican masculinities, Routledge, Abingdon-on-Thames, 2006. Y. Mouren, La trilogie des gangsters, in Estève M. (a cura di), Martin Scorsese, cit., pp. 90-91. Secondo Mouren, la carrellata condensa l’idea centrale dei tre lm, ossia la possibilità di arricchirsi facilmente e velocemente. [traduzione personale dal francese]. R. Marx, op. cit., p. 6.

S. Morpelli, op. cit., p. 10. M. Scorsese, Casino, cit., 3’-16’. Ivi, 4’. Id., Goodfellas, cit., 17’-18’. Id., The Irishman, cit., 58’-1h01’, passim. L’intervento della componente documentaria su quella romanzata è facilmente rintracciabile in The Irishman. Qui, il racconto di Sheeran e i movimenti teatrali della macchina da presa di Scorsese coabitano con immagini e video di repertorio: fotogra e di omicidi commessi dal clan, spezzoni di discorsi dei fratelli Kennedy e di Fidel Castro. Id., The wolf of Wall Street, cit., 1h25’. Id., Casino, cit., 2h23’. Id., The Irishman, cit., 23’. R. Casillo, Gangster priest, cit., p. 269. M. Scorsese, Goodfellas, cit., 2h19’. R. Casillo, Gangster priest, cit., p. 380. In tal senso, Casillo osserva giustamente che una delle frasi ricorrenti che i ma osi pronunciano quando vengono incastrati è “punto e basta” (“that’s that”), escludendo qualsiasi forma di autocritica rispetto alla loro storia personale. Dopo l’uscita di The Irishman, una formula simile al “that’s that”, ossia “it is what it is” (che in italiano potrebbe tradursi “va così”) è stata riproposta nel preludio dell’intervista che Scorsese ha rilasciato a “Les Cahiers du Cinéma”, titolo dovuto alla ricorrenza della frase nelle dichiarazioni del cineasta, in N. Eliott, It is what it is, in “Les Cahiers du Cinéma”, n°763, 2020, pp. 8-9. R. Casillo, Gangster priest, cit., p. 354. B. Palmer, Scorsese and the Trascendental, in M. T. Conrad, op. cit., p. 238. M. Scorsese, A personal journey, cit., DVD 1, 1’-7’. Basti pensare a Show people (1928) di King Vidor e What price Hollywood? di George Cukor (1932). Id., Raging Bull, cit., 2h01’-2h03’. Id., The aviator, cit., 1h05’-1h17’. Ivi, 45’-47’ e 1h50’. Ivi, 50’. J.-L. Godard, Histoire(s) du cinéma, Gallimard, Parigi, 1998, p. 63. [traduzione personale dal francese]. J. Derrida, La scrittura e la di erenza [1977], tr. it. di Gianni Vattimo, Einaudi, Torino, 2002, p. 46. Ivi, p. 47. Ibidem e M. Foucault., Storia della follia nell’età classica [1961], tr. it. di Franco Ferrucci, Rizzoli, Milano, 2011, pp. 74-75, passim.

J. Derrida, op. cit., pp. 68-69. Ivi, p. 70. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 48. Ivi, pp. 75-78. Ibidem. P. Sorrentino, L’uomo in più, cit., 1h24’-1h27’. Come osservato nel primo capitolo del nostro lavoro, la punizione degli uomini giusti rimane comunque una pista esplorata da L’uomo in più, nonché un aspetto che de nisce la fragilità degli individui sorrentiniani. Il desiderio del volo iperbolico ne costituisce l’aspetto complementare che, insieme al gesto del tu o, permette di coniugare le due vicende dei protagonisti e di creare un’apertura nale per l’immagine. P. Sorrentino, L’uomo in più, cit., 26’-27’ e 30’-32’. F. Acitelli, Fasi difensive e altri a anni, in P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), op. cit., p. 50. Ivi, p. 51. A tal proposito, lo slancio nale di Titta ricorda la ra gurazione della lastra di copertura della Tomba del Tu atore (480-470 a.C. circa) dove il passaggio al mondo ultraterreno è segnato proprio dal tu o. L’insieme delle lastre che compongono il monumento funebre è conservato al Museo archeologico nazionale di Paestum. G. Morselli, Il suicidio e Capitolo breve sul suicidio, Edizioni Via del Vento, Pistoia, 2004, pp. 17-18. Morselli esclude dal novero dei suicidi coloro che si tolgono la vita per cause esterne ineluttabili. Al contempo egli estende la de nizione di suicida a un più generale ri uto della vita, donde l’a nità con alcuni personaggi sorrentiniani. P. Sorrentino, L’uomo in più, cit., 1h30’-1h32’. Id., La grande bellezza, cit., 40’ e 52’-53’. Id., This must be the place, cit., 1h15’-1h16’. Id., The young pope, cit., episodio 8, 1’-2’. F. Vigni, op. cit., pp. 51-52. P. Sorrentino, L’uomo in più, cit., 1h11’-1h15’. La prima volta si scorgono involontariamente al mercato mentre la seconda volta si incontrano indirettamente, tramite lo schermo televisivo, nella scena in cui Tony guarda e ascolta la storia di Antonio. M. Scorsese, Bringing out the dead [1999] [DVD], Walt Disney Home Video, 2001,1h26’-1h46’. Ivi, 1h53’-1h55’.

http://www.treccani.it/vocabolario/natale [ultima consultazione: 02/09/ 2019]. R. Casillo, Gangster priest, cit., p. 249. M. Scorsese, Raging Bull, cit., 1h37’-1h41’. Ivi, 1h43’-1h46’ e 1h55’. P. Sorrentino, L’uomo in più, cit., 20’-23’ e M. Scorsese, Raging Bull, cit., 1h51’-1h53’. M. Scorsese, Raging Bull, cit., 1h59’. F. Vigni, op. cit., p. 54. F. Be Bernardinis, L’uomo in più di Paolo Sorrentino, in “Segnocinema”, n° 112, pp. 36-37. F. Filetti, Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, in “Film”, n° 71, p. 60. P. Sorrentino, This must be the place, cit., 1h52’-1h53’. Cfr. capitolo III, sezione 2. P. Sorrentino, Youth, cit., 1h44’-1h45’. Intervista a cura di Paola Zanuttini, op. cit. P. Sorrentino, Youth, cit., 1h42’. D’altra parte, del progetto che Fellini dovette realmente abbandonare (Il viaggio di G. Mastorna), A director’s notebook ci mostra proprio una struttura metallica simile all’astronave di Otto e mezzo, in F. Fellini, A director’s notebook, cit., 3’-5’. Id., Otto e mezzo, cit., 9’-10’ e 2h02’. Ivi, 2h04’. Ivi, 1h50’-1h53’. C. Jacotey, Bilan critique, in M. Estève (a cura di), Huit et demi, cit., p. 67. [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso articolo]. F. Vitoux, Federico Fellini après Les clowns, in G. Ciment (a cura di), op. cit., p. 71. C. Jacotey, op. cit., p. 66. F. Fellini, Otto e mezzo, cit., 2h13’-2h15’ e P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 2h13’-2h18’. I crediti musicali del lm di Sorrentino sono consultabili alla pagina seguente: https://www.imdb.com/title/tt2358891/soundtrack? ref_=tt_trv_snd [ultima consultazione: 29/02/2020]. P. Sorrentino, D. Zonta, Paolo Sorrentino. La scena del potere: incontro con Dario Zonta, in E. Morreale, D. Zonta (a cura di), Cinema vivo. Quindici registi a confronto, Edizioni dell’Asino, Roma, 2009, p. 227. Cfr. capitolo I, sezione 2.

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra [1885], tr. it. di Anna Maria Carpi, Newton Compton, Roma, 2017, pp. 125-127. L’espressione “grande meriggio” viene utilizzata in seguito, nella terza parte dell’opera, in Ivi, p. 161. Ivi, pp. 127 e 135. P. Ricœur, op. cit. Con Ricœur ritroviamo una preoccupazione cara anche a Foucault, dal momento in cui entrambi gli autori fanno notare la schematicità delle grandi categorie di continuità e progresso per la lettura dei fenomeni storici. F. Nietzsche, op. cit., p. 279. G. Deleuze, Critica e clinica, [1993], tr. it. di Alberto Panaro, Ra aello Cortina, Milano, 1996, p. 133. M. Blanchot, op. cit., p. 185. G. Deleuze, Critica e clinica, cit., pp. 138-139. M. Blanchot, op. cit., p. 184. Blanchot fa notare come la teoria dell’Eterno Ritorno fosse stata eliminata dall’interpretazione nazista u ciale ad opera di A. Bäumler per l’incompatibilità di tale concetto nietzschiano con l’idea di esaltazione dell’uomo promossa dalla propaganda hitleriana. F. Nietzsche, op. cit., p. 282. G. Deleuze, Critica e clinica, cit., p. 133. Ivi, p. 134. F. Nietzsche, op. cit., p. 283. P. Sorrentino, Il divo, cit. 1h14’-1h17’ e 1h44’-1h48’. Y. Lemarié, op. cit., p. 109. M. Scorsese, Goodfellas, cit., 2h17’-2h19’. A.-F. Lesuisse, Du lm noir au “noir”. Traces gurales dans le cinéma hollywoodien, De Boeck Université, Bruxelles, 2001. p. 122. [traduzione personale dal francese]. P. Sorrentino, Il divo, cit., 1h46’. Ivi, 1h14’-1h17’. https://www.imdb.com/title/tt1023490/ [ultima consultazione: 17/09/2019]. Seppur meno enigmatiche, le parole dell’Andreotti di Sorrentino ricordano quelle di Me stofele che nel Faust di Goethe si de nisce in questi termini: “Una parte di quella forza che vuole sempre il Male ed opera sempre il Bene”, in J. W. Goethe, Faust e Urfaust (Volume I), tr. it. di Giovanni V. Amoretti, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 67. Approfondiremo le questioni del falso e dell’arti cio nel terzo capitolo del nostro lavoro. In tal senso Margherita Dore raccoglie un dato signi cativo: paragonando i sottotitoli della sceneggiatura originale e quelli della traduzione inglese de Il divo, ci accorgiamo che la seconda perde poco meno del 10% delle parole

contenute nella prima. Dore spiega questa scarsa di erenza tra i due testi con la “l’andatura lenta” delle battute dei personaggi, specie di Andreotti, ad immagine di come la tendenza teatrale sia di usa nel lm, in Dore M., Subtitling Italian politics and culture in Paolo Sorrentino’s Il divo, in “Cultus”, n° 11, 2018, pp. 131-132. [traduzione personale dall’inglese]. G. Robertini, Loro 1, Sorrentino ci prende tutti per il culo [online] (23/04/2018) https://www.rollingstone.it/cinema/news-cinema/loro-1-sorrentino-ciprende-tutti-per-il-culo/409529/ [ultima consultazione: 18/09/2019]. P. Sorrentino, L’uomo in più, cit., 1h30’. Id., Le conseguenze dell’amore, cit., 8’. F. Vigni, op. cit., p. 65. S. Salvestroni, op. cit., p. 118. P. Sorrentino, Youth, cit., 3’. P. De Sanctis, M. Sesti, T. Servillo, Conversazione con Toni Servillo, in P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), op. cit., pp. 179-180. P. Sorrentino, Le conseguenze dell’amore, cit., 31’. P. De Sanctis, M. Sesti, T. Servillo, op. cit., pp. 178-179. C. Babuin, R. Ercolani, Dieci anni da Il divo: quello che funzionava nel cinema di Sorrentino [online] (02/06/18) http://www.minimaetmoralia.it/wp/dieci-anni-divo-quello-funzionavanel-cinema-sorrentino/. [ultima consultazione: 29/02/2019]. Si pensi anche alla dichiarazione seguente di Umberto Contarello, co-sceneggiatore de La grande bellezza: “Non ho mai detto che il ruolo di Jep Gambardella fosse stato pensato per Roberto Benigni e che da lui fosse stato ri utato: il personaggio è stato immaginato e costruito sin dall’inizio per Toni Servillo” (08/12/2018). https://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2014/03/14/news/la_grande_ bellezza_rivelazioni_di_contarello_roberto_benigni_ri ut_la_parte_di_jep -80956457/?ref=search [ultima consultazione: 19/09/2019]. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 3, 26’-27’. Ivi, episodio 2, 10’-13’. G. Morselli, Roma senza Papa. Cronache romane di ne secolo ventesimo, Adelphi, Milano, 1975. Altra curiosa coincidenza con Sorrentino, il papa di Morselli è un uomo dal fascino sorprendente. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 2, 49’-52’. Id., Hanno tutti ragione, Feltrinelli, Milano, 2010, pp. 104-105. M. Scorsese, Who’s that knocking at my door [1967] [DVD], Warner Home Video, 2004, 29’-36’. R. Casillo, Gangster priest, cit., pp. 144 e 153-155. Id., Moments in Italian-American Cinema: From Little Ceasar to Coppola and Scorsese, cit., p. 409.

https://www.imdb.com/title/tt0063803/?ref_=nm_ mg_dr_57 consultazione: 23/09/2019].

[ultima

M. Scorsese, Who’s that knocking at my door, cit., 1h25’; 30’; 42’-46’. Ivi, 1h23’. F. Fellini, La dolce vita, cit., 32’-33’. Ivi, 2h05’-2h09’. T. Kezich., Su La Dolce Vita con Federico Fellini, Marsilio, Venezia, 1996, p. 77. F. Fellini, La dolce vita, cit., 2h29’. Ivi, 1h51’. J. Collet, La création selon Fellini, cit., p. 54. A. Costa, Federico Fellini: La Dolce Vita, Lindau, Torino, 2010, p. 137. F. Fellini, La dolce vita, cit., 56’-59’. Ivi, 2h24’-2h28’. J. Collet, La création selon Fellini, cit., p. 66. F. Fellini, La dolce vita, cit., 2h50’-2h53’. Ivi, 57’. A. Gammon, Interpolating the “blah, blah, blah”: The great beauty’s vocal Rome, in A. Mariani (a cura di), op. cit., p. 374. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi per le citazioni successive del medesimo articolo]. T. Kezich (a cura di), La dolce vita di Federico Fellini, Cappelli Editore, Bologna, 1960, pp. 242-243. T. Subini, Il caso de La dolce vita, in R. Eugeni, D. Viganò, Attraverso lo schermo: cinema e cultura cattolica in Italia, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma, p. 186. F. Fellini, Il Casanova di Federico Fellini [1976] [DVD], Carlotta, 2013, 40’; 1h37’; 1h45’; 2h07’. Il racconto originale del 1815 è di E. T. A. Ho mann e si intitola L’uomo della sabbia. L’opera è tratta da una pièce di Jules Barbier e Michel Carré scritta nel 1851. Lo stesso Barbier fu il librettista dell’opera di O enbach che conobbe la sua prima rappresentazione nel 1881 all’Opéra-Comique di Parigi. http://musicologia.unipv.it/collezionidigitali/ghisi/pdf/ghisi200.pdf [ultima consultazione: 14/11/2019]. F. Fellini, Il Casanova, cit., 2h25’-2h27’. Sulla portata atemporale della festa possiamo riprendere la citazione seguente di D. S. Vagata sul nale di Otto e mezzo: “[…] tutti i personaggi, compreso il protagonista, sono segni che racchiudono dentro tutto un mondo e che si sovrappongono in un presente che annulla sia il passato sia il futuro – adreazione, ossia sovrapposizione di immagini e suoni”, in D. S. Vagata., Guido, la Saraghina e la signora Carla: studio sulle immagini di 8

½, in “Contemporanea. Rivista di studi sulla letteratura e sulla comunicazione”, n° 4, 2006, p. 139. G. Mori, op. cit., pp. 10-12. Ivi, p. 46 e S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario, Meltelmi, Roma, 2004, p. 18. G. Mori, op. cit., p. 101. G. Bataille, La parte maledetta. La nozione di dépense [1949], tr. it. di F. Serna, Bollati Boringhieri, Torino, 2015. Titolo originale: La part maudite. A. Iannotta, Le immagini del potere. Note sull’identità italiana nel cinema di Paolo Sorrentino, in “California Italian Studies”, n° 6/2, 2016, p. 5. R. Curti, Crudel tiranno amor, P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), op. cit., p. 57. Si tratta del suo amico di infanzia, un certo Dino Giu rè. P. Sorrentino, Le conseguenze dell’amore, cit., 1h31’-1h35’. Ivi, 1h35’. G. Mori, op. cit., p. 163. F. Fellini, La strada, cit., 39’-41’. Ivi, 1h20’-1h21’. F. Fellini, Le notti di Cabiria [1957] [DVD], Filmauro, 2003, 1h52’-1h54’. J. Collet, La création selon Fellini, cit., p. 88. L’epilogo de Le notti di Cabiria e l’osservazione secondo la scena in questione è animata dalla compresenza di elementi antitetici ci torneranno utili nel terzo capitolo del nostro lavoro dove tratteremo la questione dell’inganno. F. Fellini, I clowns, cit., 1h05’-1h27’. Ivi, 1h27’. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare [1965], tr. it. di Mili Romano, Einaudi, Torino, 1999, p. 222. Ivi, p. 224. Questa considerazione potrebbe essere smentita da uno dei prossimi lungometraggi di Sorrentino, adesso annunciato con il titolo The mob girl, la cui protagonista è una donna. https://www.mymovies.it/ lm/2020/mob-girl/news/overview/ [ultima consultazione: 01/03/2020]. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 9’ e 59’-1h03’. Ivi, 48’-51’ e 28’. P. Sorrentino, Youth, cit., 1h21’-1h22’. G. Origgi, La grande bellezza e le donne aggressive di Sorrentino [online] (03/06/2013) https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/03/la-grandebellezza-donne-aggressive-sorrentino/614167/ [ultima consultazione: 27/09/2019].

K. Fitoussi, Silvio et les autres. Paolo Sorrentino le provocateur [online] (01/11/2018) https://www.parismatch.com/Culture/Cinema/Silvio-et-lesautres-Paolo-Sorrentino-le-provocateur-1584673 [ultima consultazione: 27/09/2019] [traduzione personale dal francese]. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 51’. A. Ercolani, Loro 1 e 2. La fascinazione ambigua di un Sorrentino innamorato [online] (19/05/2018) http://www.minimaetmoralia.it/wp/loro-2-paolosorrentino/ [ultima consultazione: 27/09/2019]. P. Sorrentino, L’uomo in più, cit., 20’-22’. Id., This must be the place, cit., 26’-27’. Id., La grande bellezza, cit., 31’-34’. Id., Loro 1, Indigo Film – Universal Pictures Italy, 2018, 6’-7’. Id., The young pope, cit., episodio 8, 17’-18’. Id., This must be the place, cit., 1h16’-1h21’. Id., La grande bellezza, cit., 1h29’. Ivi, 4’-12’. Ivi, 1h47’-1h48’. Id., Hanno tutti ragione, cit., p. 113. “[…] l’a erro per i capelli a Rita Formisano e ai suoi cinquant’anni portati male e a cazzo”. Ricorderemo che Sorrentino ha ripreso per il piccolo schermo due commedie di Eduardo De Filippo di cui Tony Servillo ha curato la regia teatrale: Sabato, domenica e lunedì nel 2004 e Le voci di dentro nel 2014. P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, cit., p 151. Ibidem. Ivi, p. 153. Ivi, p. 155. Ivi, pp. 66-72. P. Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 104. “Non abbiamo sentito l’esigenza di baciarci o di fare l’amore”, a erma il narratore. Id., La grande bellezza, cit., 1h29’. R. Casillo, Moments in Italian-American Cinema: From Little Ceasar to Coppola and Scorsese, cit., p. 409. Casillo sottolinea come J.R. de nisca la giovane donna che frequenta soltanto con i termini di “puttana” (“whore”) e “Madonna”. Rispetto a una visione maggiormente spirituale della donna nella cultura italoamericana, possiamo ricordare il personaggio di Angelica nell’opera lirica The Saint of Bleecker Street (1954) di Gian Carlo Menotti. Qui, la giovane donna incarna il miracolo divino attraverso le stimmate e le visioni di cui è oggetto. Al contempo, però, Angelica è una donna malata, gura che ricorda il personaggio di Teresa in Mean streets.

CAPITOLO III STRARIPAMENTI: L’APPRENDIMENTO, IL PASSATO E IL MONDO CONTEMPORANEO III.1. L’apprendimento e la mancanza di punti di riferimento III.1.a Possibilità dell’apprendimento in Sorrentino Poc’anzi abbiamo sollevato la questione del vuoto analizzando la revisione della privazione. Quest’ultima viene concepita inizialmente come volontà negativa e, in ne, riscoperta come scelta a ermativa. Il bisogno positivo di astenersi ci ha, dunque, permesso di associare il vuoto al rapporto intimo, con quest’ultimo che diventa l’atto a cui rinunciare. Tuttavia, il sesso non è l’unica sfera che viene coinvolta dalla ri essione sulla privazione, poiché ne esiste una seconda, altrettanto rilevante, che entra direttamente in contatto con un episodio decisivo della storia personale di Sorrentino. Si tratta di un’osservazione che torna spesso nel discorso dei critici, i quali non hanno potuto sottovalutare il lutto che il regista subì all’età di diciassette anni quando rimase orfano di entrambi i genitori, morti accidentalmente e tragicamente per una fuga di gas489. Ciononostante, nelle pagine che seguono non proveremo a giusti care rimandi all’evento funesto, in parte perché la presenza di personaggi distanti dai propri genitori nelle storie di Sorrentino è stata già rilevata490. Al contrario, partendo da questa osservazione, tenteremo di esplorare la questione dell’apprendimento e dell’assenza di punti di riferimento per arrivare, soltanto in ultima analisi, a determinare cosa può prendere il nome di condizione orfana. A dispetto di una certa somiglianza con Otto e mezzo, Youth è un lm dalla struttura atipica in cui il racconto a porte chiuse (huis-clos) non è l’unico riferimento

cinematogra co. Ne esiste un secondo meno esplicito ma altrettanto determinante che attinge da alcuni elementi del road movie, genere che il regista aveva sperimentato qualche anno prima con This must be the place. Se è vero, cioè, che Youth racconta la storia di una coralità di gure fragili in cerca di un rimedio per il proprio dolore, lo spazio limitato del centro termale in cui si svolge la vicenda diventa l’occasione per una serie di incontri inattesi che fanno maturare i personaggi, come accade nella vastità della strada. Si prenda l’esempio di Miss Universo la quale, a dispetto della scena in cui appare nuda in piscina di fronte a Fred e Mick, non è presentata né esclusivamente come una visione estasiante, né come la parodia della bellezza decaduta in cerca di una cura. Il suo compito è, come già detto, quello di rimproverare Jimmy Tree, l’attore di successo che vuole ribaltare la propria notorietà interpretando il personaggio di Hitler. Dopo l’incontro con la donna, il giovane commediante a ermerà: “devo scegliere cosa vale la pena raccontare, se l’orrore o il desiderio. E ho scelto il desiderio. Il mio desiderio così impuro, così impossibile, così immorale, ma non importa. Perché è quello che ci rende vivi”491. Come rilevato anteriormente, Fred Ballinger è il primo ad essere coinvolto in una serie di quesiti profondi che rimandano tanto al proprio ruolo di padre quanto a quello di marito, problemi che riesce a smuovere dalla loro immobilità accettando di tornare a dirigere un ultimo concerto. Tuttavia, nel suo percorso verso ciò che abbiamo de nito “slancio vitale”, il protagonista non incontra nessuna persona in grado di condurlo verso la liberazione ma soltanto gure altrettanto malate e fragili: sua glia Lena gli rimprovera di essere stato un padre assente e il suo amico Mick si suicida dopo essersi reso conto di non riuscire a portare a termine il proprio lm-testamento. Lo stesso dicasi per Maradona e per il monaco buddista che attirano la curiosità di Fred senza riuscire realmente a interagire con lui. Eppure, in n dei conti, Sorrentino concede al protagonista il privilegio di raggiungere il

traguardo del viaggio, liberandolo nella scena conclusiva. In Youth, dunque, il percorso di formazione, in cui il dialogo e l’incontro permettono al personaggio di scoprire se stesso, si rivela perfettamente compatibile con l’ambientazione chiusa della narrazione. In aggiunta, è rilevante osservare che Fred riesce a realizzare il proprio percorso formativo a dispetto dell’assenza di gure guida. A conservare una funzione istruttiva rimane soltanto la frase rivelatoria che il medico rivolge al protagonista quando, però, quest’ultimo è già al termine della propria maturazione, sicché riesce a cogliere con precisione l’idea secondo cui la giovinezza è ancora possibile492. Benché manchino punti di riferimento validi, il viaggio viene comunque portato a termine e l’apprendimento dà i propri frutti sfociando in un ultimo gesto liberatorio. In tal senso, Youth riprende un’idea già presente in This must be the place. Il viaggio in auto di Cheyenne attraverso gli Stati Uniti è scandito dall’incontro con personaggi marginali, per lo più strampalati, “facce veritiere e assurde dell’immensa provincia americana”. Che si tratti della visione improvvisa del sosia di Hitler o di quella del “tatuatore tatuato”493, degli scambi con il presunto inventore della valigia a rotelle494 o con il venditore d’armi che gli consiglia una pistola con cui uccidere “impunemente”495, Cheyenne non può né deve trarre nessuna lezione di vita dai guranti in cui si imbatte durante il proprio viaggio. Non è un caso che la gura dell’insegnante che il protagonista incontra è situabile agli antipodi della funzione che dovrebbe svolgere, nella misura in cui si tratta della moglie di Aloise Lange, l’u ciale nazista a cui la rockstar dà la caccia. La signora Lange non ha niente da insegnare al protagonista il quale entra di nascosto a casa di quest’ultima per recuperare informazioni sul conto di suo marito. Lo stesso dicasi per lo scambio di battute con David Byrne nella scena che segue l’esecuzione del brano che dà il titolo al lm. Cheyenne osserva con meraviglia un pianoforte sperimentale le cui corde si prolungano al di fuori della

tavola armonica collegandosi ad altri marchingegni che producono un suono rauco. Si rivolge, poi, a Byrne de nendolo un artista, cogliendo l’occasione per criticare la propria carriera di musicista, limitatasi al successo commerciale e macchiata dal suicidio di un giovane ammiratore. La macchina da presa si avvicina gradualmente al volto di Cheyenne seguendo il parossismo di un discorso sincero e scoraggiante al quale, però, l’interlocutore appena rivelato in controcampo non sa rispondere496. In This must be the place, il viaggio viene compiuto dal bambino che “assist[e] impotentemente all’autocombustione del [proprio] veicolo” e che vince una partita di ping-pong ingannando l’avversario con un vecchio trucco497, ma alla ne colui che torna è l’adulto. Il personaggio che porta a termine la caccia al nazista non è ancora l’uomo maturo, bensì una gura infantile la quale, per giunta, non è riuscita a trovare alcun punto di riferimento sostitutivo della gura paterna durante il lungo percorso che ha intrapreso. Ma, a dispetto dell’assenza più volte ribadita di vere e proprie guide, il cantante di This must be the place conclude il viaggio alla scoperta di se stesso traendone giovamento, sicché è una persona completamente diversa che fa ritorno in Irlanda, il nuovo Cheyenne, de nitivamente passato all’età adulta. In This must be the place e in Youth, vige il principio secondo cui l’apprendimento rimane possibile in assenza di modelli e a dispetto della distanza tra i personaggi e la gura del genitore. Se Cheyenne compie un viaggio per un padre già assente prima di morire, in Youth basterebbe adottare la prospettiva di Lena, la glia che non può realmente contare sull’aiuto di suo padre Fred per trovare una spinta vitale. Non è un caso, allora, che a svolgere la funzione di guida siano personaggi atipici o inattesi, come Miss Universo per Jimmy, l’alpinista per la stessa Lena e i compagni di viaggio occasionali per Cheyenne. La situazione è già diversa ne La grande bellezza dove è più facile individuare incontri edi canti nella vicenda di Jep Gambardella498, specie se si pensa al personaggio di

Ramona o all’artista che copre intere pareti di ritratti e autoritratti fotogra ci, senza dimenticare l’anziano regista e la Santa. La divisione binaria più nitida che La grande bellezza opera tra cattivi esempi e maestri autentici sfrutta, in parte, un procedimento già elaborato in prosa poco tempo prima con Tony Pagoda e i suoi amici. Qui, la narrazione scandita dal ritmo di incontri perlopiù fortuiti si situa tra, da un lato, l’apprendimento atipico che abbiamo rilevato in This must be the place e Youth e, dall’altro, un procedimento più simile a La grande bellezza. In tal senso, basterebbe confrontare la descrizione di due gure che intervengono nella narrazione, ossia Antonello Venditti e Maurizio Costanzo. Personaggio ancora ambiguo, il primo rivela le conseguenze del berlusconismo sull’Italia contemporanea con la “bella frase” che recita: “Berlusconi ha dato un riscatto estetico all’ignoranza”, senza tuttavia rispondere alla domanda di Pagoda quando questi gli chiede: “[m]a quando intitolavi quell’album Che fantastica storia è la vita ci credevi veramente?”499. Venditti è simile a Pagoda e a Gambardella nella misura in cui sono personaggi in grado di enunciare le complessità della cultura postmoderna500 senza realmente prenderne le distanze. Non a caso, il cantautore romano sarà presente in uno dei luoghi mondani de La grande bellezza, ma la sua sarà una comparsa rapida e quasi muta501. Il discorso cambia con la seconda delle due gure del mondo dello spettacolo, probabilmente perché, nel discorso di Pagoda, Maurizio Costanzo non è soltanto parte integrante del mondo del piccolo schermo ma “un precursore, pacato e senza fronzoli del mezzo televisivo”502. In de nitiva, possiamo rilevare due aspetti in merito alla questione dell’apprendimento in Sorrentino. Il primo, nonché il più manifesto, riguarda la possibilità per i personaggi di portare a buon ne un percorso di formazione. Da questo primo punto ne deriva indirettamente un secondo che coinvolge la gura della

guida. La mancanza di un vero e proprio punto di riferimento e la sostituzione di quest’ultimo con una serie di gure generalmente incapaci di formulare un insegnamento – categoria a cui si sottraggono alcune comparse de La grande bellezza – rivela, in compenso, la capacità da parte degli individui sorrentiniani di apprendere autonomamente. Senza tentare di giusti care la storia personale del regista, pur essendone intimamente legata, la possibilità di apprendere a dispetto della mancanza di gure edi canti è un primo tratto della condizione orfana che viene costruita nei lavori di Sorrentino, nonché prima sfumatura dello straripamento dell’immagine e della scrittura nella sfera biogra ca. Le condizioni dell’apprendere mettono in luce l’ambivalenza seguente: se è vero che la formazione opera all’insegna dell’autosu cienza dell’allievo, a dimostrazione di come l’individuo sia l’unità di misura fondamentale nei lavori di Sorrentino, un’altra componente interviene per compensare l’assenza di modelli. Si tratta dello schema narrativo che, a dispetto delle singolarità del percorso formativo, conduce comunque i personaggi a un punto di snodo nale, consentendo loro di trarre giovamento dal viaggio intrapreso. Così, in mancanza di una gura paterna in grado di fungere da guida, sono la narrazione lmica e prosastica a indicare la strada da seguire tramite epiloghi il cui scopo è di ribaltare la situazione iniziale. Pertanto, racconti segnati dall’evoluzione graduale della situazione iniziale e dalla possibilità di un nale aperto – ciò da cui dipende lo slancio vitale – diventano un punto di riferimento decisivo per individui a cui non viene concesso il privilegio di conoscere un personaggio che funga da modello. Sono il concatenarsi di situazioni sempre distinguibili, l’elucidazione di visioni frammentarie – tendenza di cui si è parlato in merito alla questione dell’ordine503 – e il ribaltamento nale della situazione di partenza a sostituire la gura della guida in carne e ossa. Su questo aspetto individuiamo una di erenza sostanziale con il cinema di Fellini.

III.1.b Fellini: il labirinto e l’acqua La strada introduce in maniera esplicita il tema dell’erranza nel cinema di Fellini benché Lo sceicco bianco avesse già presentato la storia di un personaggio (Wanda) che si allontana dal contesto di partenza e dalla situazione principale, sostituendo gli impegni famigliari e religiosi con la ricerca rocambolesca dell’eroe del suo fotoromanzo preferito. Tuttavia, sin da La strada risulta di cile determinare chi, durante il viaggio, può fungere da guida. Di certo, Gelsomina non trova in Zampanò una gura in grado di svolgere questo ruolo, specie se si considera che sarà proprio quest’ultimo ad abbandonarla provocandone la malattia e la morte. D’altro canto, il Matto non sembra poter far di meglio lasciando in eredità una frase che la protagonista non sa come utilizzare504. Dopo La dolce vita in cui, come si è visto in precedenza, Marcello Rubini vede uscire di scena una dopo l’altra tutte le gure su cui credeva di poter contare, da Maddalena a Steiner passando da suo padre, in Giulietta degli spiriti Fellini insiste sull’assenza di punti di riferimento sicché, a dispetto della moltitudine di guranti che ruotano attorno alla protagonista, non si riesce a individuare chi di loro possa realmente aiutarla. Non ne è capace il veggente, un certo Bishma, presentato come “l’uomo-donna che nasconde il segreto dei due sessi” che formula un discorso enigmatico sul desiderio e sull’importanza del Kamasutra, concludendo il suo intervento con una risata stridula che accresce il turbamento di Giulietta505. Lo stesso dicasi per Susy, la vicina libertina che invita la protagonista in un luogo in cui si confondono piacere e dolore, una dimora dove regna un’atmosfera di una casa di piaceri abitata, però, da personaggi malati, come una donna depressa con tendenze suicide di nome Arlette506. Ancora una volta, la strada suggerita da Susy non fa altro che aggiungere disordine alla confusione mentale di Giulietta. Nella stessa categoria si annoverano altre due false guide: l’investigatore privato, che mostra a Giulietta la prova del

tradimento di suo marito per poi concludere che “la realtà delle immagini [è] limitata”, e il personaggio di José, che la stessa protagonista non sa se de nire reale o immaginario507. Diversamente da ciò che osserviamo in Sorrentino, i guranti atipici di Fellini non si rivelano compatibili con un eventuale percorso di apprendimento dei personaggi principali. Se, per il più giovane regista, il viaggio è il momento in cui si impara autonomamente a dispetto della mancanza di punti di riferimento, in Fellini mancano contemporaneamente le guide e l’esito positivo del percorso formativo. D’altra parte, si noterà come il seguito della lmogra a felliniana presenti traiettorie sempre più labirintiche. Prima de La città delle donne di cui abbiamo già avuto modo di discutere, Satyricon aveva già trasformato il viaggio in un’erranza senza ne. Il lm comincia con la rivalità amorosa tra Encolpio e Ascilto che si contendono il giovane Gitone, con il primo che parte alla ricerca degli altri due. Ma la riconquista di Gitone è solo un pretesto per il viaggio dei due contendenti sicché, a un tratto, il giovane tanto desiderato scompare dalla narrazione lmica. La perdita di colui che sembrava poter de nire un punto di riferimento sancisce l’inizio di uno sviluppo prevalentemente labirintico. A tal proposito, facendo tesoro di quanto osservato nel secondo capitolo sulla tendenza felliniana a prediligere il volume all’ordine508, saremo poco sorpresi nel costatare come la capacità di espansione dell’immagine vada di pari passo con una visione confusionaria del viaggio rispetto al quale diventa di cile determinare un traguardo. In maniera simile, Deleuze rileva come l’accavallamento di ogni genere di immagini mentali e mnemoniche che osserviamo in Fellini a partire da Otto e mezzo faccia nascere “quella presentazione in alveoli, quelle immagini tramezzate, quelle caselle, nicchie, logge e nestre che contraddistinguono Fellini Satyricon, Giulietta degli spiriti, La città delle donne”509. La presenza di queste strutture è agrante nella trasposizione cinematogra ca del testo di Petronio. Basti pensare all’edi cio formato da una serie di

nicchie in cui Encolpio nasconde Ascilto, alle fessure della stiva della nave attraverso cui intravediamo schiavi e padroni, oppure agli spalti che si trovano di fronte al labirinto dove Encolpio a ronta il Minotauro, nonché all’architettura del labirinto stesso510. In questo errare senza meta, la successione delle immagini viene talvolta resa in maniera discontinua: nella scena in cui Encolpio si reca dalla maga Enotea, il volto di quest’ultima appare, cambia e, in ne, svanisce, in maniera simile al personaggio di Gitone. In un percorso privo di una reale conclusione numerose sono le azioni che si rivelano infruttuose. Si pensi al matrimonio tra Lica di Taranto e Encolpio che segue il duello tra gli stessi personaggi ma che viene vani cato dalla morte di Giulio Cesare annunciata subito dopo le nozze511. È forse nella continuità di questo procedimento che va iscritto l’utilizzo falsato della dissolvenza incrociata: la transizione tra due immagini avviene come se un lasso di tempo dovesse intervenire tra di loro mentre, in realtà, i due fotogrammi sono consecutivi512. Al contempo, per un viaggio che prende sembianze sempre più labirintiche, il labirinto stesso viene privato della propria funzione e si rivela una mera messa in scena, una s da che non si può né vincere né perdere. Quando Encolpio prega il Minotauro di non ucciderlo, quest’ultimo si toglie la machera mostrando un volto perfettamente umano mentre il pubblico commenta: “è una burla a uno straniero. […] è la festa del riso”513. In Satyricon come in This must be the place le situazioni possono rivelarsi inconcludenti e le gure di riferimento incapaci di proporre un reale insegnamento, come il poeta Eumolpo che viene abbandonato in punto di morte e riappare in un secondo momento come un uomo ricco e voluttuoso e ormai incurante dell’arte della poesia514. Tuttavia, una di erenza fondamentale va osservata tra i due cineasti, nella misura in cui se Cheyenne supera i difetti di un viaggio imprevedibile e raggiunge il traguardo nale, alla stessa stregua di Tony Pagoda e Fred Ballinger, dopo aver assistito alla morte di Ascilto, Encolpio, non

può che salpare nuovamente per “porti di città sconosciute”515. I viaggi di Fellini sono sempre più enigmatici e le vie di uscita si fanno sempre più rare favorendo, dunque, una composizione in cui a prevalere sono gli accessi verso spazi inediti. Una simile discrepanza è ravvisabile in merito al ruolo che l’acqua svolge nei due cineasti. Nel secondo capitolo del nostro studio, abbiamo rilevato come, nei lm di Sorrentino, il tu o fosse il gesto prediletto per rinnovare un contatto con la vita. Invece, ripercorrendo alcune scene felliniane, osserviamo che le sorgenti svolgono un ruolo diametralmente opposto. Si pensi alle due immagini seguenti: ne Il bidone, Picasso si disseta a una fontana al termine di una nottata passata con gli amici, in maniera simile a Jep Gambardella dopo la prima festa sfrenata de La grande bellezza. Tuttavia, se il protagonista di Sorrentino deve seguire la strada del mare ripensando e modi cando la propria concezione del bello a partire da un ricordo di gioventù che si svolge proprio su un’isola, il personaggio di Fellini non trae nessun nutrimento speciale dalla fonte da cui beve516. Analogamente, saremo poco sorpresi nel vedere che la prima delusione amorosa di Marcello Rubini ne La dolce vita si colloca proprio dopo la scena della Fontana di Trevi. Il protagonista accompagna Sylvia in hotel dove la aspetta suo marito Robert, i due coniugi hanno un diverbio al termine del quale Sylvia riceve uno schia o violento517, gesto che mette brutalmente la parola ne all’idillio notturno tra Marcello e l’attrice hollywoodiana. L’acqua non è un elemento vitale in Fellini, come se la goccia che cade dal so tto infastidendo la compagnia teatrale di Luci del varietà518 fosse nita nella bevanda curativa che vediamo in Otto e mezzo, rimedio che non aiuta a atto Guido Anselmi e che fa ammalare la sua amante Carla519. Non è l’acqua termale a curare Guido, né la sauna durante la quale chiede l’assoluzione dai peccati a un cardinale. L’unica presenza liquida che sopravvive è quella più incerta del bagno,

scena che appartiene alla sfera dell’immaginario, ripresa prima in un ricordo e, in seguito, nella sequenza mentale dell’harem520. L’impossibilità di puri carsi attraverso l’acqua si iscrive nella di coltà per i personaggi felliniani nel trovare punti di riferimento. Il cardinale a cui Guido si rivolge è tanto deludente quanto il suo omologo de La grande bellezza: il primo propone una morale troppo rigida secondo cui la felicità non esiste al di fuori della Chiesa521, laddove il secondo presta maggiore attenzione alle competenze culinarie tralasciando le questioni spirituali522, in maniera simile al cambio di vocazione che abbiamo appena osservato per Eumolpo in Satyricon. In de nitiva, se Sorrentino trova la strada dell’acqua per o rire una soluzione ai propri personaggi, nella sua concezione sempre più labirintica del viaggio, Fellini sostituisce gli e etti bene ci delle sorgenti con quelli più incerti del “fuoco” e dei “proiettori”, riprendendo un’osservazione di Collet secondo cui, in Otto e mezzo, “ci si vorrebbe abbandonare all’acqua ma si viene riconquistati dal fuoco”523. III.1.c Il termine del viaggio: un’a nità con Scorsese In Sorrentino, l’apprendimento viene portato a termine benché le conseguenze del cambiamento siano lasciate in uno spazio extra-narrativo di cui non si avrà altro che un suggerimento, come osservato in precedenza in merito all’apertura nale di This must be the place, La grande bellezza e Youth. Agli antipodi dei lm appena citati, abbiamo rilevato come l’erranza dei primi lavori felliniani prenda sempre più le sembianze di un viaggio labirintico in cui è di cile de nire una via d’uscita per i personaggi. La discrepanza tra Fellini e Sorrentino viene, dunque, a crearsi a dispetto di una parziale a nità quanto all’assenza in entrambi gli autori di gure in grado di fungere da modello. In tal senso, abbiamo messo in evidenza come, nel primo, la mancanza di punti di riferimento si coniughi con la de nizione di percorsi senza meta, laddove il secondo si sforza di delineare le

tappe del viaggio di apprendimento, pur in mancanza di una persona in grado di indicare la strada giusta. Per quanto riguarda l’in uenza di Scorsese, è possibile rilevare una maggiore assonanza con l’idea sorrentiniana appena formulata. Nel regista di Little Italy rileviamo due elementi cari all’autore partenopeo, ossia la possibilità per il viaggiatore di concludere il proprio cammino e la volontà di conservare la gura della guida anche a costo di associarla a un personaggio inatteso. This must be the place si ispira sicuramente al genere del lm on the road ma, in conclusione, Sorrentino ci dice che il suo protagonista deve lasciare la strada e i deserti statunitensi per tornare a casa. È, dunque, nella sua Dublino che Cheyenne potrà inaugurare una fase inedita della propria vita a rontando con mezzi inediti i traumi del passato. La caccia all’u ciale nazista avrà anche condotto la rockstar nel luogo più remoto, ma è sulla strada di casa che il suo viaggio può concludersi. Così, la forma erratica elaborata da Sorrentino viene ridimensionata da una struttura circolare che fa coincidere il traguardo del percorso con lo stesso luogo da cui era si era partiti. Qualcosa di simile accade in Alice doesn’t live here anymore, lm che racconta le peregrinazioni dal Nuovo Messico all’Arizona di una madre (Alice) e di suo glio (Tommy). La storia viene scandita dall’apparizione di tre personaggi maschili: Donald, il padre di Tommy con cui Alice vive a Socorro, Ben che la protagonista incontra a Phoenix e David che subentra nella parentesi a Tucson. I primi due sono presentati come uomini nocivi per Alice e Tom, diversamente da David che sembra poter coprire sia il ruolo di marito che quello di padre di famiglia. Tuttavia, quest’ultimo cade a sua volta nell’errore della violenza quando dà uno schia o a Tommy, suscitando la rabbia e la delusione di Alice524. Dinanzi all’ennesimo disinganno, alla protagonista non resta che rimpiangere l’ultima tappa di un viaggio lasciato incompiuto, prima di raggiungere la meta che avrebbe dovuto portare a termine il cammino intrapreso tra il Nuovo Messico e l’Arizona. La città di

Monterrey in California diventa, dunque, il luogo in cui convergono i suoi ricordi di infanzia e la speranza mai del tutto spenta di un futuro da cantante. Scorsese gioca sulla sovrapposizione tra il sogno puerile della musica e la volontà ancora viva di realizzarlo nel presente relegando entrambi in uno spazio mitizzato localizzabile proprio a Monterrey. La città di Monterrey, destinazione inizialmente ipotizzata per concludere il viaggio, conserva la stessa distanza della reminiscenza puerile e dal sogno del successo. Tuttavia, Alice doesn’t live here anymore non è la storia di una traiettoria interrotta prematuramente, ma quella di un percorso in cui, pur non raggiungendo l’obiettivo ssato in partenza, è comunque possibile determinare un traguardo nonché un lieto ne per la vicenda. Infatti, se nella scena in cui Alice e David tornano insieme quest’ultimo le promette di seguirla in California525, nell’immagine seguente vediamo la protagonista spiegare a suo glio Tommy di voler restare a Tucson, modi cando la meta geogra ca del proprio viaggio e, al contempo, portandolo a termine. Il lieto ne della scena di chiusura viene reso esplicito dalle parole del piccolo Tommy che dice a sua madre di non aver mai voluto andare in California. Inoltre, il cambio di inquadratura che interviene alla ne della sequenza rivela un’insegna con su scritto proprio Monterey, sovrapponendo, dunque, la destinazione reale e quella fantasticata526. This must be the place e Alice doesn’t live here anymore presentano un reale percorso di apprendimento, nella misura in cui è l’esperienza della strada a modi care la maniera in cui i personaggi a rontano il viaggio, sposando il traguardo rispettivamente ad di là e al di qua delle pretese iniziali: Cheyenne deve a rontare i rimorsi del presente persino dopo esser venuto a capo della caccia al nazista, andando oltre l’esito positivo delle sue peregrinazioni attraverso gli Stati Uniti, così come Alice deve anticipare la meta del percorso e ridimensionare i propri sogni di gloria. Per entrambi i personaggi l’apprendimento coincide con il

momento in cui viene scoperta la strada di casa, sicché l’abbandono del cammino si traduce nell’occasione di mettere in pratica quanto maturato durante il viaggio stesso. The last temptation of Christ presenta un disegno simile a quanto tracciato in Alice doesn’t live here anymore. Nel lungometraggio tratto dall’omonimo romanzo di Nikos Kazantzakis, dopo un’iniziale diversione apocrifa segnata dal ri uto del sacri cio della Croce, Gesù ritrova la retta via e accetta il proprio ruolo di salvatore. Se le scene della Passione culminano con l’apparizione ingannevole del Diavolo vestito da angelo custode, la visione apocalittica del futuro rinvia al punto della tentazione grazie all’aiuto di una guida inattesa. Si tratta di Giuda che, nel Vangelo, è colui che respinge la parola di Cristo tradendolo mentre, in The last temptation of Christ, diventa il personaggio con cui Gesù si confronta nonché colui che gli permetterà di comprendere il proprio sacri cio. Nella parentesi apocrifa, Giuda accusa Cristo di aver avuto paura della morte e di essersi comportato da uomo vile, scegliendo di vivere e di morire come una persona qualunque. La ne della digressione in questione, rivelata a posteriori come immagine mentale di Gesù croci sso, avviene grazie al monito di Giuda che spinge il Messia a tornare al momento della Passione e a riabbracciare il sacri cio divino527. Punto di riferimento inatteso nonché distorsione del testo canonico, il Giuda di Kazantzakis e di Scorsese non è soltanto il modello che Cristo sceglie di seguire ma una guida atipica poiché colta a sua volta nell’incertezza. Difatti, se è vero che l’ultima sequenza mentale ci mostra un apostolo in grado di redarguire e far pentire Gesù, le immagini precedenti ci avevano descritto un personaggio turbato e confuso dagli insegnamenti di Cristo, costretto ad ammettere di non riuscire a comprendere la volontà di Dio528. Modello atipico tanto per la rottura con la scrittura canonica del Vangelo, quanto perché possiede in egual misura i caratteri del maestro e quelli del discepolo incerto, il Giuda di Scorsese crea un’assonanza con le

guide sorrentiniane dal momento che l’uno come le altre permettono l’adempimento del viaggio formativo a dispetto della posizione che occupano all’inizio della storia, pur non essendo in grado di formulare veri e propri precetti. In aggiunta, l’insegnamento di Giuda nella distorsione apocrifa è racchiuso in una scena mentale il cui portatore è lo stesso Gesù, sicché, in Scorsese come in Sorrentino, è il personaggio principale a trarre autonomamente una conclusione dalla propria esperienza di apprendimento. III.1.d La condizione orfana Nelle pagine precedenti abbiamo rilevato un primo aspetto di ciò che abbiamo de nito condizione orfana. A tal proposito, facendo riferimento alla questione del viaggio, abbiamo messo in evidenza come i protagonisti di Sorrentino manifestino la necessità di trovare punti di riferimento anche a costo di andare incontro a personaggi atipici e incapaci di fornire loro veri e propri precetti. Al contempo, però, il passaggio dalle condizioni sfavorevoli dell’apprendimento all’esito positivo dello stesso ci permette di sostenere che gli individui sorrentiniani riescono a intraprendere autonomamente un viaggio formativo. Da qui nasce, dunque, la prima ambivalenza della condizione orfana che consiste nell’ammissione della necessità di trovare modelli e nell’a ermazione della possibilità di imparare da soli. Ora, se rispetto al viaggio l’assenza di gure paterne conduce al risultato appena riportato, altri quesiti sorgono al di là delle forme erratiche. I primi a essere coinvolti sono proprio i genitori, come suggerisce lo stesso Sorrentino: In questo lm [Youth] il tema forte non è la vecchiaia, la devastazione dei corpi spogliati alle terme, ma il rapporto tra genitori anziani e gli. Mi interessa raccontare la vecchiaia in funzione del rapporto con il futuro, quando ne hai poco davanti, e rispetto ai gli. Il fatto che i vecchi si avviliscono perché si disperde il patrimonio delle cose che hanno fatto per loro. Io

ricordo cose eclatanti della mia infanzia, ma non la quotidianità. I miei genitori sono morti quando avevo diciassette anni, una fuga di gas nella casa di montagna, ne sono passati ventisette: la memoria dei vecchi e dei gli si dissolve. È atroce che tutta la quantità e la qualità delle cose che hai fatto per stabilire un rapporto svaniscano. Non mi fa paura sparire dalla Terra, ma dagli occhi dei miei gli.529 Nella citazione appena riportata è interessante notare come l’evocazione della prematura scomparsa dei genitori non conduca Sorrentino a una ri essione sul passato da orfano, ma alla proiezione della stessa condizione per i propri gli. Senza avere la pretesa di addentrarci in un discorso psicologico, è opportuno sottolineare che l’immedesimazione del regista con la gura del padre piuttosto che quella del glio trova alcuni ri essi nel suo cinema e nella sua prosa. Un primo aspetto signi cativo in tal senso anticipa un punto successivo del nostro studio, ossia la portata storiogra ca dei lavori dell’autore partenopeo, qui ravvisabile attraverso la problematica della memoria e dell’impossibilità di lasciare la traccia della propria presenza per coloro che ne sono i destinatari e i depositari. L’amara osservazione secondo cui “la memoria dei vecchi e dei gli si dissolve” va di pari passo con l’idea secondo cui il problema dell’assenza del genitore non risiede soltanto nel dolore del glio ma nell’impossibilità, o nell’incapacità, di lasciargli qualcosa in eredità. Non a caso, secondo il cineasta, “i vecchi” di Youth “si avviliscono” poiché costretti a osservare il disfacimento di ciò che hanno costruito per i propri gli, probabilmente perché né Fred Ballinger né Mick Boyle sanno con certezza se sono realmente riusciti a lasciare qualcosa alla più giovane generazione: “il problema” – continua il regista – “non è quello dei ricordi, quanto la sproporzione fra le cose che facciamo e quello che rimane”530. In Sorrentino, non è soltanto l’orfano a chiedersi quale sia l’insegnamento lasciatogli dal padre, ma tocca al genitore capovolgere la domanda mettendosi

nella posizione di chi teme di lasciare un vuoto. Così, la domanda del glio che recita: “che cosa ci hanno lasciato?” viene spesso accompagnata da quella del genitore che si chiede: “che cosa lasceremo loro?”. I due quesiti si alternano accompagnando l’evoluzione della produzione del cineasta: ne L’uomo in più e L’amico di famiglia ci si interrogava ancora su come i gli potessero riparlare con i padri, con Tony Pisapia che ri utava di presentarsi al funerale del suo e Geremia De Geremei che veniva ripetutamente rinnegato, in maniera simile a Giovanni Paolo III in The new pope. Al contrario, già ne Il divo, Andreotti possiede i connotati di un padre politico costretto a rispondere delle proprie azioni dinanzi alla patria, pur sostituendo la parola rivolta alle istituzioni con quella più personale del monologo, no a giungere alla conclusione illusoria del mandato divino, come osservato in precedenza. Il cambio di rotta è manifesto in This must be the place: il viaggio non si conclude con l’esito positivo della caccia al nazista ma viene completato con il ritorno in patria di Cheyenne, nalmente pronto ad occuparsi della donna che ha perso un glio a causa di una delle sue canzoni. Lo stesso Jep Gambardella, ne La grande bellezza, non ha nessun ricordo particolare legato alla propria infanzia né un’immagine che giusti chi la sua passione per “l’odore delle case dei vecchi” di cui la voce fuori campo ci parla all’inizio, ma rimpiange di non aver avuto gli con Elisa, l’unica donna che ha amato. Di fronte al marito di costei che gli dirà di non aver potuto darle un glio, Jep formulerà una risposta tra l’inopportuno e lo spontaneo: “e io sì, io potevo”531. L’incertezza del genitore continua in Youth per poi lasciar posto alla prospettiva dell’orfano in The young pope. Sul versante della prosa, il quarto capitolo de Gli aspetti irrilevanti introduce Peppino Valletta, padre di un glio mentalmente disabile e violento (Antonio), nato da un’avventura con una donna che ha abbandonato la famiglia dopo il parto. A immagine degli altri adulti sorrentiniani, Valletta riesce a svolgere un

ruolo paterno autentico proprio nella misura in cui si interroga sul futuro di Antonio immaginando la propria scomparsa: Indisturbati fanno il bagno. Peppino mantiene Antonio supino nell’acqua. Gli fa fare il morto a galla. Qualche volta, Antonio si addormenta. Pure le braccia di Peppino si addormentano. Uno sforzo disumano per un settantenne che deve mantenere a galla un bambino di trentadue anni per un metro e ottanta. Fino a quando potrà farcela? Chi verrà in soccorso dopo? Nessuno. C’è un buio orrendo dietro la vecchiaia. Un buco nero dietro quella di Peppino. Un buco nero che lui si ri uta di scon ggere. “Io a mio glio in un istituto non lo porto”. Così conclude sgarbato a chi gli pone, di rado, il problema del domani.532 Il caso di Peppino Valletta è particolarmente interessante perché da lui passa il secondo rovesciamento dell’assenza paterna. Finora, in Sorrentino abbiamo osservato due prospettive della condizione orfana, quella vissuta dal glio (Geremia De Geremei, Lenny Belardo), invertita, poi, tramite la proiezione dal padre rispetto alla propria morte (Fred Ballinger). Nella seconda categoria va inserita anche la gura di Valletta, sebbene il seguito della narrazione aggiunga una speci cità inedita. L’illusione, termine su cui torneremo alla ne del nostro lavoro, è un quesito che coinvolge il personaggio de Gli aspetti irrilevanti, il quale tende ad attribuire alla notte sia l’inganno della seduzione femminile sia quello della musica, dal momento che le sue qualità di pianista gli vengono riconosciute soltanto nel night-club in cui lavora533, ricordando un motivo già presente nel brano di successo che Tony Pisapia canta ne L’uomo in più534. Il narratore spiega che l’illusione inaugurata dal tramonto si

manifesta come “un’allusione”, con quest’ultima che va intesa come movimento che conduce l’essenziale al super uo, che devia “la realtà” portandola in un e mero stato di piacere. Nella logica del narratore, il personaggio di Valletta schiva l’allusione e l’illusione evitando di portare il costante disincanto musicale a un secondo genere di delusione questa volta erotica (“un’allusione che porta alle cosce nude e sudate delle donne”). A questa tentazione ingannevole, Valletta impone la propria “realtà”, ossia “suo glio”535. Ora, la storia be arda del pianista de Gli aspetti irrilevanti nasce proprio dal capovolgimento del rapporto tra l’illusione femminile e la realtà paterna, nella misura in cui la seconda viene colpita dalle conseguenze funeste di un errore fortuito, mentre la prima rivela una piacevole sorpresa. È la notte a mettere una accanto all’altra la “perdita” e la “speranza”536: dopo aver causato involontariamente la morte di Antonio a ogato nei pressi della spiaggia dove il padre soleva portarlo poiché quest’ultimo aveva dimenticato di somministrargli i sonniferi, colei di cui Peppino si era innamorato ma che, no ad allora, si era mostrata distante (Ylenia), accoglie il dolore dell’uomo e decide di con dargli il suo. Così, piuttosto che distinguere l’inganno della notte e la realtà del dovere paterno, Valletta deve fare i conti con la confusione di quanto dava per certo. Antonio trova la strada della morte proprio sotto il cielo stellato, ribaltando la situazione pre gurata dal padre che si interrogava sulla potenziale futura orfanità di suo glio. In de nitiva, l’immagine che emerge è la variante paradossale del genitore orfano, quella del dolore del padre costretto ad osservare il corpo esanime del glio. Un’immagine analoga viene riproposta in The new pope con la morte di Girolamo, giovane disabile di cui Voiello si prende cura, lutto che l’adulto aveva pre gurato a parti invertite537. Il quarto racconto de Gli aspetti irrilevanti aggiunge, dunque, un tassello alla complessa questione dell’orfanità. In tal senso, è necessario ribadire che il cinema e la prosa

di Sorrentino non fronteggiano la problematica in questione esclusivamente tramite l’immagine del bambino che cerca i propri genitori, come Belardo nell’ultima scena di The young pope. D’altra parte, il turbamento di Pio XIII è dovuto alla conoscenza del fatto che suo padre e sua madre sono ancora vivi, donde la necessità e la speranza da parte del trovatello di colmare l’assenza parentale. Da un lato è vero che, in The young pope, la disposizione triangolare è spesso inconciliabile, come nella relazione tra Belardo, Dussolier e Suor Mary interrotta prima dalla di denza del papa nei confronti della donna poi dalla morte del secondo dei tre personaggi, o comicamente incompatibile come nel legame tra il protagonista, Esther e il piccolo Pio che formano una famiglia soltanto virtuale sotto gli occhi del quarto individuo, il padre biologico del bambino. D’altra parte, però, è opportuno sottolineare che esistono forme alternative di ricongiungimento famigliare, a dimostrazione di come, a dispetto della propria storia personale, Belardo non sia il personaggio più orfano del cinema di Sorrentino. In tal senso, possiamo pensare al ruolo svolto dagli uomini con la barba538: Spencer e Gutierrez proteggono e guidano il papa seguendo l’esempio della donna barbuta intenta ad allattare nel quadro di José de Ribera intitolato Maddalena Ventura con marito e glio539, immagine che appare a più riprese nella serie televisiva. Al di là di Lenny Belardo e, forse, più di quest’ultimo, il sentimento di assenza a cui l’orfano deve far fronte è una condizione che coinvolge altri personaggi ed è spesso a data ai padri delle storie di Sorrentino. Nel caso di Peppino Valletta, la perdita tradizionalmente subita dal glio viene traslata verso il genitore, sicché questi scopre l’orfanità vista paradossalmente dalla prospettiva dell’adulto. L’accostamento della gura paterna a quella dell’orfano trova conferma nel capitolo successivo de Gli aspetti irrilevanti dove interviene la già menzionata Ylenia. Come il personaggio del padre di Antonio, quest’ultima svolge una duplice funzione, quella

della bambina che ha vissuto un trauma e quella inedita della madre che viene in soccorso dell’uomo so erente, Peppino Valletta, altrettanto ambivalente nel suo ruolo di padre orfano. Unico racconto in prima persona de Gli aspetti irrilevanti, considerando che la voce narrante del quinto capitolo non coincide con il narratore degli altri che sappiamo essere di sesso maschile, Ylenia è il personaggio che va incontro al dolore di Peppino Valletta dando voce al proprio: la morte prematura di sua madre, la relazione segreta e illusoria con un padre di famiglia quando aveva solo diciotto anni. Abbracciando la so erenza di Peppino, Ylenia modi ca la visione della “schiena incarnata”, associata al traumatico ricordo di infanzia del padre che si masturbava “sul catalogo della Postal Market”, e che adesso rimanda al gesto dell’uomo premuroso che sorregge il glio disabile in acqua540. Aiutandosi a vicenda, svolgendo a turno il ruolo di adulto nel rapporto con l’altro, le “due anime so erenti”541 de Gli aspetti irrilevanti sono la testimonianza dell’a evolimento della frontiera tra genitore e glio, parametro indispensabile per l’estensione della condizione orfana ad entrambe le età. Nel secondo capitolo del nostro lavoro abbiamo a rontato la tematica della privazione spiegando che il vuoto e l’assenza diventano elementi a ermativi grazie alla volontà di astenersi. La revisione della privazione è una delle strade che permettono di superare l’approccio fondato sul godimento smisurato, come abbiamo potuto osservare attraverso lo studio di Mori. Partendo dalla questione dell’eccesso mondano ne La dolce vita e ne La grande bellezza, facendo riferimento a Zygmunt Bauman e Jacques Lacan, il critico ci suggerisce un aspetto determinante per il nostro discorso sulla condizione orfana: La società messa in scena da Sorrentino è quella […] in cui il principio di piacere, subordinato in epoca moderna al principio di realtà, cioè alle norme stabilite e

condivise in nome della civiltà, si innalza a valore sovrano “in base al quale ogni altro valore deve essere valutato e la misura con cui la saggezza di ogni norma e decisione sovra-individuale va confrontata”542. Una mutazione rilevata anche in ambito psicanalitico da Lacan con riferimento all’“evaporazione del Padre”543. Il passaggio da uno scenario in cui il soggetto si riferisce in relazione a “Le nom du Père”, l’e cacia orientativa e di interdizione che alimentava “il discorso del padrone”, a uno in cui il soggetto lo fa con “Les non dupes errants” (leggibile anche come les noms du père), per cui i rapporti fra l’individuo e la realtà sociale ruotano attorno alle promesse immaginarie di godimento incarnate dalla materialità degli oggetti promossi dal “discorso del capitalista”.544 Invece dello stato fattuale di orfanità che, come evocato in precedenza, Vigni passa in rassegna per i personaggi di Sorrentino, e partendo proprio da questo presupposto, Mori legge l’assenza paterna come mancanza di vincoli e di leggi, situazione che spiana la strada al godimento vuoto “sottratto alla tutela del simbolico”, nonché all’arrivo del “Padre osceno” da cui dipendono i con itti personali tra gli individui e alcune sfere del potere: il music business, il calcio (L’uomo in più, This must be the place) e la ma a (Le conseguenze dell’amore)545. Nella sezione che dedicheremo all’arti cio avremo modo di tornare sulle scelte visive adottate da Sorrentino per a rontare l’eccesso546; per adesso, possiamo a ermare che il godimento illimitato e insensato che anima la storia de La grande bellezza si rivela compatibile con una concezione del mondo e della cultura postmoderna in cui ad essere assenti sono proprio quei vincoli e quei divieti che, benché volti al tramonto, intervenivano ancora ne La dolce vita. Infatti, se Fellini poteva ancora attestare la genesi di uno stile di vita fondato sull’appagamento individuale, nato sostituendo alcune istituzioni tradizionali quali la Chiesa e la famiglia con “l’istanza […]

immaginaria dei mass-media”547, La grande bellezza concepisce il godimento senza alcun riferimento coercitivo. È questo il punto di giunzione tra la condizione orfana e il problema della frenesia mondana: il piacere non si manifesta come appagamento materiale conquistato infrangendo i limiti imposti da un sistema di leggi e convenzioni, ma viene presentato come un oggetto isolato proprio per via dell’assenza di proibizioni, vivendo, così, in un vuoto simile a ciò che sono costretti a subire gli orfani e i personaggi bisognosi di punti di riferimento che tornano con frequenza in Sorrentino. L’appagamento materiale è composto dalla stessa mancanza costitutiva delle gure solitarie, a dimostrazione di come lo stato di orfanità non sia limitato a una descrizione di personaggi che crescono senza genitori, né propriamente a un’identi cazione del regista con essi. Al contrario, si tratta del mezzo grazie al quale l’immagine e la scrittura passano dalla sfera biogra ca straripando in quella più ampia dello sguardo sul mondo contemporaneo. In un certo qual modo, le varie sfaccettature della condizione orfana in Sorrentino sono un invito a sostituire una prima prospettiva fondata sullo studio biogra co con una seconda che si concentra sul rapporto tra l’individuo e il mondo contemporaneo. Dopo aver avviato una ri essione sugli anni Ottanta ne L’uomo in più e in Hanno tutti ragione, il Sorrentino de La grande bellezza studia più da vicino le conseguenze di un’a ermazione da lui stesso formulata nel 2011, due anni prima dell’uscita del lm: “noi siamo culturalmente orfani e senza padri, si cammina più liberi ma su un sentiero in salita”548. A tal proposito, l’ispirazione di Mori e l’idea appena formulata ci invitano a leggere la ri essione di Rancière su Quando la città dorme di Fritz Lang: [All’]utopia della fraternità democratica americana Fritz Lang propone una contro-utopia: il mondo dei fratelli maggiori non è la “strada maestra” degli orfani emancipati. Al contrario, si tratta di un mondo senza vie

d’uscita. Ciò che viene a chiuderne le porte non è il padre, e neppure la legge, ma la loro assenza, la destituzione della mimesis sociale a favore del rapporto fra l’immagine che sa e che vede e l’immagine che è conosciuta e vista. Questa destituzione avviene a vantaggio dell’immagine televisiva, l’immagine recitata da colui che conosce la maturità e che la incarna, il fratello maggiore “sessualmente maturo”.549 This must be the place e Youth de niscono il percorso formativo con la gura dell’orfano alla ricerca di se stesso e con quella del padre che si interroga sul futuro dei propri gli. È la via dell’apprendimento che, in Sorrentino, non fa distinzioni tra il bambino e l’adulto, tra la strada e la struttura chiusa, tra road-movie e huis-clos. Tuttavia, la situazione cambia in un lm come La grande bellezza la cui speci cità sta nell’indagare più da vicino alcuni fenomeni della cultura contemporanea. È in questo contesto che ritroviamo un’a nità con le parole di Rancière e la contro-utopia di Quando la città dorme si rivela compatibile con il discorso di Mori sul lm di Sorrentino. Nel preambolo della sua ri essione, Rancière sottolinea che la “favola cinematogra ca” opera nel segno del “contrasto” (“contrariété”550) mettendo da parte “l’attesa infantile della ne del racconto con il suo seguito di matrimoni e bambini” e il suo “concatenarsi di situazioni necessarie e verosimili”551, nella misura in cui “l’arte delle immagini e il suo pensiero non smettono mai di nutrirsi di quel che li contrasta”. Agli antipodi dell’immagine del cinema, troviamo la televisione e la pubblicità che producono visioni in grado di “annulla[re] il lavoro di contrasto” della settima arte, donde la necessità per la gura del regista di “rovesciare nuovamente il gioco con cui la televisione ‘porta a compimento’ il cinema”552. In tal senso, l’osservazione di Rancière secondo cui, in Quando la città dorme, l’assenza del padre e della legge spianano la strada all’immagine televisiva ci suggerisce un’a nità tra l’azione del piccolo

schermo e la condizione orfana. In tal senso, la posta in gioco de La grande bellezza, nonché la conseguenza diretta dello stato di orfanità, attengono precisamente al confronto con un’immagine del mondo in uenzata dalla televisione e dalla pubblicità: la solitudine del glio abbandonato, alla stessa stregua di quella dell’adulto, è fatta della medesima materia di cui è composto il vuoto del godimento senza vincoli. Pertanto, il lavoro di Sorrentino ne La grande bellezza consiste nel capire come contrastare l’immagine televisiva, operazione che, come si vedrà in seguito, non viene a rontata con i mezzi della denuncia ma con quelli dell’assimilazione. Lo spunto di Rancière ci permette però di cogliere due aspetti ulteriori sullo stato di orfanità nei lavori di Sorrentino: il glio che ha perso i propri genitori vive nella stessa solitudine in cui è immerso il godimento sfrenato che non conosce né vincoli né leggi; al contempo, l’assenza di restrizioni, tipica della destituzione del “padre” – inteso sia nell’accezione che ne dà Rancière tramite Lang, sia in quella di garante della legge che troviamo in Mori553 – fa entrare l’immagine di Sorrentino in stretto contatto con l’eredità visiva della televisione e della pubblicità. In tal senso, converrà ricordare la sequenza del primo episodio di The young pope554 in cui Belardo immagina se stesso da bambino in un paesaggio irreale che ricorda il giardino dell’Eden. La scena allude alla trasformazione paradisiaca della costruzione mentale, presentando contemporaneamente caratteri tipici del video promozionale, specie per il candore dei corpi dei personaggi che sembra riprendere canoni gurativi di pubblicità di cosmetici555. È allora interessante notare come la dimensione pubblicitaria della scena non si manifesti tramite la volontà da parte del piccolo Lenny di entrare in possesso della visione paradisiaca, in questo caso coincidente con l’immagine sensuale della madre, bensì nella necessità di sentire la presenza materna come oggetto che lo guarda e che gli va incontro556. Pertanto, nel sogno di Belardo, il glio orfano si comporta come lo

spettatore-consumatore che desidera l’oggetto manifestatosi dinanzi al suo sguardo soltanto perché è l’oggetto in questione a proporgli un’identi cazione con esso, seguendo il principio commerciale secondo cui è il prodotto in vendita a creare un bisogno nel futuro acquirente. Il fenomeno televisivo-pubblicitario si manifesta quando è l’oggetto dell’immagine a chiedere allo spettatore di coglierlo, non il secondo a sforzarsi di raggiungere una visione fuori portata, a patto che la visione dell’oggetto sia di per sé una fonte di piacere557. Tuttavia, lungi dal ridurre la relazione madre- glio al rapporto commerciale tra prodotto e consumatore, Sorrentino relega l’arti cio pubblicitario in una scena di cui non si avrà di coltà a ravvisare l’illusorietà. Il seguito della vicenda mostrerà dunque esattamente il contrario, ossia il bisogno e l’impossibilità da parte dell’orfano nel ritrovare un oggetto sempre fuori portata, con Belardo che tenta invano di ritrovare i propri genitori. III.2. Il passato e il presente: la spinta storiogra ca III.2.a L’impatto del passato Il primo straripamento che abbiamo individuato per l’immagine e la prosa di Sorrentino riguarda il rapporto con un tratto biogra co della vita del regista, episodio che, a sua volta, diventa l’occasione per ri ettere su un aspetto del mondo attuale. Lungi dall’essere un mero richiamo autobiogra co, la condizione orfana viene de nita da Sorrentino come possibilità per il tempo trascorso di aprirsi all’attualità, che si tratti del presente in un racconto ttizio oppure di un presente condiviso, di un’immagine della cultura postmoderna. Il legame tra il tempo trascorso e il momento presente è una problematica ricorrente di cui abbiamo potuto osservare alcune declinazioni in due punti anteriori del nostro lavoro558. Nelle pagine che seguono, esploreremo con più attenzione questioni riguardanti il rapporto tra presente e passato, coinvolgendo la dimensione storiogra ca e prendendo in considerazione le in uenze visive di Fellini

e Scorsese. In un primo momento, esploreremo un riferimento al cinema di Jean Renoir. Nelle pagine che precedono lo studio del “cristallo felliniano”, Deleuze evoca Jean Renoir come regista in cui prende forma una variante del medesimo cristallo. L’analogia formulata dall’autore de L’immagine-tempo ci invita a so ermarci su una possibile assonanza tra Sorrentino e il regista francese. Nella fattispecie, si tratta dell’idea secondo cui, l’immagine di quest’ultimo concepisce “il tempo […] nel suo doppio movimento del far passare i presenti, sostituirli l’uno con l’altro andando verso l’avvenire, ma anche conservare tutto il passato [e] farlo cadere in un’oscurità profonda”. Secondo Deleuze, “il cristallo di Renoir” assegna al passato “ruoli raggelati, irrigiditi, confezionati”, rendendoli, al contempo, “indispensabil[i] a nché l’altra tendenza, quella dei presenti che passano e si sostituiscono, […] si lanci verso l’avvenire, crei questo avvenire come zampillo di vita”559. Pur non coincidendovi completamente, l’osservazione del losofo trova un certo risuono nel cinema di Sorrentino. Difatti, in entrambi i cineasti esiste l’idea secondo cui il futuro – lo “zampillo” di cui parla Deleuze o lo “slancio vitale” di cui abbiamo discusso in precedenza – viene generato parallelamente a un irrigidimento del passato. Come si vedrà tra poco, la di erenza sta nel fatto che, in Renoir, il momento trascorso si rivela spontaneamente come un tempo immobile, mentre Sorrentino chiede ai propri personaggi di renderlo statico delimitandolo. In precedenza, abbiamo già osservato come gli individui sorrentiniani subiscano spesso le ripercussioni di un errore o di un trauma anteriori: ne L’uomo in più, Tony Pisapia non mangia più il polipo perché ha visto suo fratello morire so ocato dai tentacoli di una piovra, mentre, ne Le conseguenze dell’amore, Titta Di Girolamo è un monumento umano e muto di un tempo fermatosi il giorno di una trattativa fallimentare con un gruppo ma oso. Benché venga inizialmente messo a tacere, il passato si ripresenta improvvisamente nella

contemporaneità e, in un caso come nell’altro, i protagonisti sono costretti ad a rontarlo per ravvivare un presente no ad allora morto o, quantomeno, letargico. Lo stesso principio vale per la rinascita di Cheyenne in This must be the place: il cammino verso il futuro parte da un viaggio nei meandri del passato, cogliendo con un solo gesto il tempo storico della deportazione degli ebrei e quello più personale della relazione di coltosa di un glio con suo padre. Ne La grande bellezza, Jep Gambardella è costantemente associato a un successo letterario avvenuto anni prima ed è lui stesso incapace di allontanarsi dal ricordo del suo primo amore giovanile per Elisa. In entrambi i lm, il passato ria ora nel presente e la morte viene chiamata in causa per darne l’annuncio: Cheyenne parte negli Stati Uniti in seguito al decesso di suo padre, mentre Jep comincia a sentire l’esigenza di scrivere dopo la scomparsa di Elisa, trovando un’ulteriore ispirazione per il suo nuovo romanzo dopo il decesso di Ramona. In Youth, Fred Ballinger non fa eccezione alla regola, nella misura in cui è a sua volta chiamato a incontrare nuovamente la moglie malata, un personaggio di cui, no ad allora, si era parlato esclusivamente al passato. Non a caso, Sorrentino crea un parziale colpo di scena nella sequenza in cui il protagonista si reca in un cimitero: ci si sarebbe aspettati di vedere la lapide della signora Ballinger ma quella su cui Fred si raccoglie è la tomba del suo amico Igor Stravinsky, mentre nell’immagine successiva vedremo il volto so erente della donna560. Ora, è interessante notare che, a dispetto delle conseguenze del tempo trascorso, Sorrentino inaugura la nascita di un presente o di futuro migliore proprio a partire dalla possibilità di arginare il passato e di concepirlo come una parentesi ormai conclusasi. Il tutto diventa possibile soltanto dopo aver creato un canale preferenziale tra l’immagine più recente e ciò che la precede. Lo sforzo indispensabile in tal senso consiste nel guardare negli occhi un passato doloroso, operazione necessaria a nché i personaggi di Sorrentino trovino uno

slancio per il futuro. D’altra parte, però, il metodo sorrentiniano fondato sul confronto con l’errore e il trauma anteriori funziona esclusivamente se questi ultimi non sono un episodio da cui prendere le distanze ma, piuttosto, un tempo a cui attribuire un’origine e una ne, un momento delimitato che si tenta di svincolare dal presente: al dolore viene imposto di rimanere immobile, a nché un’immagine più felice possa emergere. È il compromesso che trovano i personaggi sorrentiniani, laddove, in Renoir, è il passato stesso ad essere un compromesso, adesso abbandonato in favore di un gesto che, seppure “insensibilmente”561, si rivolge verso l’avvenire. Tuttavia, un aspetto di erisce nel passaggio da Renoir a Sorrentino, poiché il primo apre l’immagine al futuro chiedendole di uscire da un “cristallo” che a sua volta custodisce il passato, laddove i personaggi del secondo, dopo essere andati incontro a problemi lasciati irrisolti, non possono costruire l’avvenire ngendo di dimenticare il tempo trascorso. All’individuo, punto di riferimento dei lavori di Sorrentino, viene, invece, permesso di vivere al presente e di proiettarsi verso l’avvenire, soltanto una volta intrapreso quel lavoro faticoso che consiste nel tenere a bada un passato traumatico e trascurato no a pochi istanti prima. Pertanto, ciò che succede nell’articolazione tra passato e presente in Sorrentino è l’a ermazione della necessità per il secondo di recuperare l’errore o il trauma anteriori, senza provare realmente a superare il dolore che essi provocano, ma con il semplice obiettivo di delimitarne l’in uenza sull’attualità. L’idea, per certi versi schematica, di Sorrentino consiste dunque nel dire che è possibile modi care in meglio il presente e il futuro soltanto se si decide di fare i conti con il passato, circoscrivendo così gli e etti del trauma. In tal senso, è necessario che i personaggi sorrentiniani vedano il passato come un tempo statico, in quanto superato da un secondo gesto più importante e rivolto verso il futuro: per Tony Pisapia è la gioia ritrovata in carcere, per Titta Di

Girolamo una morte felice, per Cheyenne proprio stato depressivo, per Jep e Fred confronto con la letteratura e con la musica. queste possibilità inedite, il trauma e l’errore smettono di esercitare la loro in uenza.

la ne del un nuovo Di fronte a del passato

Il rimedio che Sorrentino trova per le proprie storie trae origine per contrasto da un atteggiamento che rileviamo ne Il bidone di Fellini e in Cape Fear di Scorsese, i quali, a dispetto di numerose discontinuità tematiche e visive, posseggono un’a nità quanto alla modalità con cui il passato ria ora nel presente. Del primo dei due lungometraggi rievochiamo una scena di cui si è fatta parzialmente menzione in precedenza, in merito alla questione del frammento in Fellini562. La sequenza dedicata al riavvicinamento tra il falsario Augusto e sua glia Patrizia viene vani cata da un incontro fortuito che riporta nell’attualità un conto che il passato aveva lasciato in sospeso: in una sala cinematogra ca, proprio quando il protagonista credeva di aver riconquistato la ducia di sua glia, una vecchia vittima dei suoi imbrogli entra in scena e rovina tutto. Dopo aver incrociato lo sguardo dell’uomo, Augusto è costretto a lasciare la sala, ma la sua è una fuga vana e senza via d’uscita. Da un lato, il protagonista non può scappare perché Patrizia lo aspetta ancora seduta in platea, dall’altro, l’uomo che vuole vendicarsi non gli permette di tornare a sedersi al suo anco. Il vicolo cieco tra l’abbandono e la permanenza in cui si ritrova Augusto è una situazione irrisolvibile nata dallo scontro tra due coordinate temporali inconciliabili: il passato irrompe in un presente in cui non ha più niente a che fare, costringendo l’uomo che si è riscoperto padre premuroso ad a rontare le responsabilità dell’impostore che non vorrebbe più essere. L’incongruenza tra la gura del genitore e quella dell’imbroglione attiene dunque all’impossibilità di scandire presente e passato in due fasi temporali separate, sicché, in mancanza di una delimitazione chiara, la seconda può ancora irrompere nella prima. L’immagine del ricongiungimento famigliare

si conclude con l’allontanamento dei due personaggi, tra la delusione impressa sul viso di Augusto e le lacrime di Patrizia563. Il contraccolpo dell’errore del passato sul presente è un aspetto rintracciabile anche in Cape Fear dove la suddivisione tra le fasi di anteriorità e attualità viene altresì messa a repentaglio da un personaggio che porta nel momento contemporaneo le conseguenze di un episodio avvenuto anni prima. La gura incaricata di compiere tale operazione è quella del vendicatore: reo di aver stuprato e pestato una donna, Max Cady è condannato a quattordici anni di reclusione, pena che non riesce a evitare nonostante la difesa del suo avocato, un certo Sam Bowden. Pur rimanendo potenzialmente colpevole della violenza di cui è accusato, Cady subisce una parziale ingiustizia, nella misura in cui Bowden occulta volontariamente un particolare dal suo fascicolo (l’informazione secondo cui la donna in questione aveva avuto altri rapporti sessuali nei giorni precedenti all’incontro con Cady), dettaglio che avrebbe potuto discolpare l’imputato dal reato di stupro. L’errore dell’avvocato sta, dunque, nell’aver giudicato da sé un crimine di cui il proprio cliente avrebbe potuto non essere colpevole. In maniera simile, è l’idea di una giustizia personale a guidare Cady nella vendetta privata che impone alla famiglia Bowden. Non a caso, la resa dei conti a cui assistiamo alla ne del lm coniuga l’immagine brutale del duello con una più teatrale generatasi quando Cady improvvisa una ricostruzione della propria sentenza: il vendicatore punta una pistola alla testa di Bowden, gli ordina di pronunciare la formula del giuramento solenne, chiede alla glia di quest’ultimo di formare la giuria, si rivolge direttamente alla macchina da presa chiamandola Vostro Onore564. Il momento del giudizio, che nel passato era stato falsato da un’omissione dell’avvocato, irrompe nell’attualità portando il con itto tra le due fasi cronologiche nella scena del duello tra l’imputato e l’avvocato: il passato irrefrenabile si sporge nel presente e quest’ultimo riesce a stento a contenerne l’impeto. Dopo

la morte di Cady, ascolteremo la voce fuori campo della glia di Bowden che, anni dopo, torna sulla vicenda a cui abbiamo appena assistito. La giovane spiega come la memoria famigliare abbia volutamente perso le tracce dell’evento traumatico, pur ammettendo che “la vita non tornerà mai ad essere quella che era prima della venuta [di Cady]”, concludendo, quindi, che “in fondo non è un male, perché se si resta attaccati al passato, si muore un po’ ogni giorno”565. Se, in Sorrentino, le possibilità dello slancio verso il futuro sono rette dal confronto con il trauma, a condizione che quest’ultimo venga relegato in un passato immobile e tenuto a distanza, in Fellini e in Scorsese, osserviamo due esempi contrastanti di irruzione del tempo trascorso sul presente. In tal senso, il tratto che di erisce in Sorrentino non risiede nella necessità da parte del personaggio di confrontarsi con l’errore o con il dolore di un’epoca trascorsa – aspetto comune ai tre cineasti – ma nella capacità di de nire la fase anteriore come un momento che non ha più nessuna in uenza sul presente, con quest’ultimo ormai rivolto esclusivamente verso l’avvenire. III.2.b La dolce vita e La grande bellezza rispetto alla questione del tempo Il passo precedente del nostro studio ci ha permesso di osservare l’importanza per il cinema di Sorrentino di de nire un punto in cui il passato non interferisce più nel presente, operazione da cui dipende la possibilità di un’apertura verso il futuro. L’esempio appena rilevato presenta, dunque, sia una suddivisione sia una coesione tra le fasi del tempo. A questa modalità Sorrentino alterna frequentemente una variante antitetica in cui le fasi della storia si articolano disarmonicamente presentando contrasti o incongruenze, come si vedrà a più riprese. A tal proposito, un primo rapporto con ittuale con il passato è rintracciabile nella maniera in cui La grande bellezza presenta riferimenti espliciti a La dolce vita. La questione della potenziale a nità tra i due lm, già

evocata nelle pagine precedenti nonché frequentemente rilevata da articoli critici, acquisirebbe un valore diverso se, invece di uno studio comparatistico orizzontale e parallelo tra i due lavori, questi venissero disposti su un piano verticale. Così facendo, piuttosto che leggere i punti di contatto e di discontinuità tra il lungometraggio di Fellini e quello di Sorrentino, ci si interesserebbe alle conseguenze di uno studio che li colloca in successione, partendo dall’idea che vede il lm del più giovane cineasta come un discendente del lavoro di Fellini: piuttosto che chiedersi se La grande bellezza meriti un accostamento a La dolce vita, ci chiediamo quali siano le conseguenze di ciò che agli occhi di molti è apparso come un omaggio esplicito566. Se inseriti in un rapporto genealogico, La dolce vita e La grande bellezza non fanno ricadere l’interesse su quali elementi del primo lm siano rimasti nel secondo, ma su come il più recente dei due attesti la sopravvivenza o la scomparsa di motivi del lavoro che l’ha preceduto. In un certo senso, ci si può anche indignare dinanzi alla presenza di evocazioni visive felliniane infedelmente riproposte, rimproverando a Sorrentino di non saper ricreare “il corto circuito tra [la propria] immaginazione […] e una Roma vera, viva [ed] esagerata”567 oppure, più radicalmente, accusandolo di “liquidare l’eredità felliniana nel segno della megalomania”568. Tuttavia, ogni analisi protesa a identi care le forti dissonanze tra i due lungometraggi rischia di perdere un’importante sfumatura critica qualora si dimenticasse di inserirli nella stessa successione. Molte problematicità andrebbero perse in favore di un giudizio perentorio sulla banalità del lavoro di Sorrentino rispetto a quello di Fellini, se si escludesse in linea di principio, di concepire La grande bellezza come un lm sull’impossibile riproposizione de La dolce vita nel ventunesimo secolo. In realtà, l’infedeltà nei confronti del maestro Fellini e l’incommensurabilità tra le due immagini sono meno un difetto estetico o una super cialità teorica quanto una fatalità dovuta all’irrealizzabile coabitazione tra presente e passato.

Facendo un lm che potrebbe assomigliare a La dolce vita ma che, invece, non riesce in tal proposito, Sorrentino a erma l’impossibilità di far emergere, a distanza di cinquantatré anni, gli interrogativi che animavano il lm di Fellini. È interessante, allora, leggere cosa lo stesso regista napoletano a ermava quando, in un articolo del 2009, parlava della “grande bellezza de La dolce vita” come ciò dietro cui Fellini si mimetizzava per sondare “la paura delle paure: l’impossibilità di costruzione di senso della vita”, vero “scandalo del lm”, diversamente dai commenti legati alla nudità o ai costumi, i quali non fecero altro che animare “una polemica per benpensanti”569. D’altra parte, va notato come furono proprio i gesuiti di Milano a invertire un certo scetticismo critico conservatore, sottolineando che nei protagonisti de La dolce vita “c’è l’ansia di qualcosa di autentico, […] di un’apparizione celeste”570, il che confermerebbe l’a ermazione di Pasolini secondo cui quello di Fellini è “un lm cattolico”571. Infatti, quel “processo” che Fellini porta avanti da “complice” piuttosto che da “giudice”572 determina una dissonanza rispetto all’esigenza sorrentiniana di salvare il proprio personaggio alla ne del lm. Tuttavia, non è soltanto studiando l’epilogo de La grande bellezza che possiamo discernere il rapporto genealogico con La dolce vita, ma, piuttosto, osservando la capacità da parte di Sorrentino di rendere caduchi alcuni riferimenti felliniani, il che ci permetterà, in un secondo momento, di cogliere con più chiarezza perché Jep Gambardella si salva diversamente da Marcello Rubini: Non era mia intenzione citare o imitare Fellini. So che l’idea [de La grande bellezza] è nata in un contesto simile ad alcuni suoi lm, ma cinquant’anni dopo. La dolce vita è un lm che prova a cogliere il senso della vita in un mondo che perde il proprio signi cato. Questo è quello che sento adesso a Roma: cioè che la vita è futile, che non le si trova un senso né un ne. Questa è la sensazione del mio lm, ma il paragone è

vero no a un certo punto. […] Credo che la volgarità sia più accentuata [oggi], così come lo sono la perdita del senso del pudore, della modestia e del riserbo. […] Berlusconi ha contribuito alla cultura del nulla ed è lui stesso un esempio di questo atteggiamento […]. Berlusconi ha contribuito molto alla cultura della distrazione dalle cose importanti, promuovendo una cultura dell’evasione.573 Abbiamo già rilevato come, ne La grande bellezza, siano ormai assenti le istituzioni tradizionali che La dolce vita poteva ancora concepire come limiti da infrangere. Adesso, siamo in misura di a ermare che questo cambio di rotta diventa particolarmente visibile in una prospettiva genealogica tra i due lm, approccio che ci permette di vedere come la discontinuità tra i due lavori sia dovuta all’impossibilità di proporre una lettura del presente con i mezzi del passato. È come se Sorrentino ci stesse suggerendo che, da un lato, la Roma e l’Italia del suo lm non sono più paragonabili a quelle di Fellini e, dall’altro, che le immagini emblematiche de La dolce vita sono esanimi nel ventunesimo secolo. Si pensi al ruolo di via Veneto, punto nevralgico delle mondanità felliniane, adesso trasformato in una strada desolata dove sono sopravvissuti soltanto pochi locali notturni574. A tal proposito, possiamo leggere un passo della ri essione di Mori quando a erma che “[i]l tempo postmoderno del lm di Sorrentino è un tempo morto, un presente eterno e assoluto in cui le vecchie istanze sopravvivono come simulacri privi di sostanza e le nuove forme destinate a sostituirle tardano ad emergere”575. In seguito, prendendo spunto da un articolo di Marco Senaldi, viene evocata la scena della seduta collettiva dal chirurgo plastico in cui s lano una serie di personaggi caricaturali che tentano, per l’appunto, di “fermare il tempo”576. In maniera simile, va letto l’utilizzo dell’insegna al neon Martini che vediamo alla ne della prima serata mondana da Jep: potenzialmente attribuibile alle strategie di auto nanziamento in qualità di pubblicità indiretta, la

presenza del marchio è, invece, rintracciabile già nella sceneggiatura iniziale, aspetto che, secondo Mori, rinforza la valenza visiva del fotogramma in questione. Situata nei pressi di via Veneto, l’insegna in questione non è soltanto lo spettro nostalgico del passato, ma la testimonianza di “un presente incapace di rimodellarsi in nuove forme”577. Tuttavia, piuttosto che mettere l’accento, come fa Mori, sull’idea di un tempo morto ne La grande bellezza, ci sembra importante proporre una prospettiva diversa quanto al rapporto che il lm instaura con il passato. Manifestando alcune tendenze visive tipicamente felliniane che la critica non ha indugiato a rilevare, Sorrentino fa del proprio lm un oggetto imprescindibile da un passato lmico rispetto al quale, però, non smette di segnalare la discontinuità. Così, piuttosto che fermare il tempo, Sorrentino suggerisce l’idea secondo cui l’immagine attuale non può fare a damento su quella del passato, quand’anche si trattasse di ereditarne i mali e le problematicità. L’aspetto in questione si rivela particolarmente signi cativo nella misura in cui ci ricorda la presenza ricorrente della condizione orfana nei lavori di Sorrentino segnalando, in aggiunta, come l’orfanità stessa sia una nestra aperta sul mondo contemporaneo. È per questo che, ne La grande bellezza, il riferimento a La dolce vita diventa tanto importante quanto la necessità di a ermare l’impossibilità di rendere pienamente omaggio al lm di Fellini con una storia ambientata al giorno d’oggi: il tempo non si è irrigidito ma, più profondamente, esso non riesce più a riallacciarsi al passato per trovare una spiegazione valida. Allo stesso tempo, però, se il lungometraggio di Fellini si conclude con l’inevitabile perdita del senso, quello di Sorrentino rovescia il cinismo del protagonista in “uno slancio sentimentale ed emotivo”: “alla decadenza io e il mio protagonista opponiamo uno sguardo che si vuole, in maniera pericolosa, poetico”578, spiega il regista. L’apertura nale del lavoro di Sorrentino ci invita a raddoppiare il più tradizionale paragone tra La grande

bellezza e La dolce vita con quello più insolito de I clowns, come già riscontrato nel primo capitolo del nostro lavoro. In precedenza, abbiamo osservato come La dolce vita e I clowns concorrano parallelamente in qualità di in uenze cinematogra che per La grande bellezza. Adesso, siamo in misura di sostenere che, se è al primo dei due lungometraggi che Sorrentino tenta invano di riallacciarsi, è il secondo che gli o re una reale via d’uscita. L’episodio centrale della composizione strati cata de I clowns è un’indagine che Fellini compie tra l’Italia e la Francia sulla scomparsa del vecchio circo. Con la troupe cinematogra ca di Fellini in visita a Parigi riscopriamo luoghi desolati e privi di vitalità, simili alla Roma di Jep Gambardella. Fellini è, dunque, costretto a constatare che il Cirque d’Hiver ha perso lo splendore di inizio secolo trasformandosi in un luogo più “simile a una birreria”, analogamente al Medrano, teatro in procinto di essere demolito in cui regna “un’atmosfera di festa nita”579. Il circo di un tempo si perde e la memoria risulta di cile da conservare: Mr. Houcke, anziano direttore circense, sostiene di non ricordarsi più niente, così come non si conservano più tracce di Rhum, pagliaccio emblematico della prima metà del Novecento580. Lo stesso dicasi per gli archivi della televisione transalpina che del vecchio circo custodiscono un video eccessivamente breve, immagine documentaria che fa coppia con la scena ttizia in cui una pellicola contenente un lmato d’archivio viene accidentalmente bruciata dalla famiglia Fratellini581. Rimangono soltanto le parole di un altro grande pagliaccio di nome Bario che a erma: “cerco di dimenticare, ma il circo non lo posso proprio dimenticare”582. Tuttavia, senza troppe sorprese, dinanzi al tempo perduto Fellini risponde rilanciando la festa: immagina il funerale clownesco dell’Augusto, esplora autonomamente i ricordi dei pagliacci e aggiunge le gag degli stessi nella formula del documentario ttizio. A dispetto di alcune discontinuità visive, questa vitalità felliniana torna anche in Sorrentino, nella misura in cui,

pur non potendo riprendere pienamente La dolce vita, La grande bellezza trova comunque uno sbocco a ermativo. Sorrentino non nega l’impossibilità per il presente di ancorarsi alle immagini del passato, ma, al contempo, o re all’attualità una seconda via d’uscita, allontanandosi proprio dalle visioni del tempo trascorso e dal riferimento de La dolce vita. Pertanto, viene a crearsi un fenomeno complementare a quanto rilevato in merito alla condizione orfana, nella misura in cui all’immagine viene concesso di proiettarsi verso il futuro, benché il passato non sia in grado di fornirle le fondamenta necessarie. Analogamente, si noterà come la relazione tra i tre lm rimandi a quanto osservato nella ricerca di modelli da parte di personaggi orfani o soli: è come se La dolce vita fosse una di quelle guide sorrentiniane incapaci di mostrare la strada da seguire e La grande bellezza uno di quei protagonisti bisognosi di punti di riferimento che riescono, in ultima analisi, a portare a termine il proprio viaggio formativo sfruttando modelli insoliti, come accade con l’in uenza de I clowns. III.2.c L’anacronismo Il discorso sul tempo ci permette di rilevare come, spesso, i tratti comici dei personaggi di Sorrentino attengano a una profonda incompatibilità con il presente. Se, sul piano individuale, è il grottesco che il regista napoletano chiama in causa attraverso queste gure, al di là della sfera personale, osserviamo come tali descrizioni straripino su una categoria storiogra ca, sollevando la questione dell’anacronismo. Quest’ultimo è un problema di uso nei lavori di Sorrentino, nella misura in cui attiene al complesso quesito del legame tra presente e passato. In tal senso, è possibile identi care tre personaggi che, più degli altri, presentano un’incompatibilità cronologica. Il primo di loro è Antonio Pisapia, aspirante allenatore coprotagonista de L’uomo in più, il cui difetto, come sottolinea Vigni, è racchiuso in una frase da lui stesso pronunciata (“nel calcio a zona bisogna farsi vedere e io

non so farmi vedere”), mostrandosi incapace di applicare alle proprie ambizioni professionali i precetti del gioco moderno da lui stesso formulati. A questo si aggiunge una seconda incongruenza che riguarda la volontà da parte del personaggio di “proporre un gioco di squadra in un mondo di egoismi”583. Ciò che Antonio Pisapia chiama “l’uomo in più” è il risultato di una complessa strategia collettiva in cui i giocatori si scambiano costantemente i ruoli in campo, laddove il calcio dei primi anni Ottanta concepisce il gioco come espressione di un’iniziativa individuale. In tal senso, l’acrobazia con cui Antonio regala la vittoria ai propri compagni e per cui viene inneggiato dai tifosi non di erisce dall’intuizione, altrettanto individualista benché meno prodigiosa, che spinge alcuni giocatori a scommettere sulla scon tta della squadra. Pertanto, l’attribuzione del fallimento personale dell’aspirante allenatore a un più generico indebolimento dell’individuo osservabile in Sorrentino584 è una posizione che va completata con l’idea secondo cui l’insuccesso del personaggio supera le competenze del singolo scoprendo un’incompatibilità più grande che è quella del tempo. Antonio Pisapia è un individuo fragile e non può far nulla per invertire il proprio crollo perché il male da cui è a etto coglie una più profonda disfunzione cronologica. Un simile straripamento temporale è ravvisabile in alcuni tratti del protagonista di This must be the place: all’inizio del lm, il look di Cheyenne provoca le risa dei clienti del supermercato in un’immagine in cui distinguiamo con facilità il contrasto creato fra il biancore arti ciale del reparto surgelati e gli indumenti interamente neri del cantante. Personaggio inattuale, dissociato dalla contemporaneità in cui vive, bloccato nel tempo del trucco che si ostina a curare, come nella scena in cui spiega ad alcune ragazze come applicare correttamente un rossetto a nché non svanisca con il passare delle ore585, Cheyenne è l’uomo che ripropone “all’in nito l’immagine di sé, […] proseguendo a dare vita al personaggio che era stato”586. In un certo senso, il protagonista di This must be

the place incarna la modalità storiogra ca dell’esistenza al passato, ciò che Ricœur de nisce “avoir été (essere stato)”, ignorando che quest’ultima implica necessariamente l’assenza al presente, il “n’être plus (non essere più)”587. Trascurando l’assioma secondo cui il tempo che passa crea una successione di assenze, contemporaneamente all’avvicendarsi dei momenti presenti, Cheyenne dirige i propri tratti caricaturali verso l’incongruenza cronologica di un bambino alle prese con gli interrogativi e le so erenze dell’adulto. Non è un caso che, nella scena in cui ammette a sua moglie di essere depresso, il protagonista si esprima con un tono di voce simile a quello di un bambino, creando un contrasto con lo scambio di battute precedente in cui la stessa donna lo aveva complimentato per le sue doti nel sesso orale588. L’idea di uno scontro tra due età diverse è rintracciabile anche in Loro dove Sorrentino fa passare in secondo piano l’immagine del politico in declino in favore di quella dell’uomo intimorito dalla vecchiaia. Una scena emblematica in tal senso è situata in uno dei segmenti nali del lm in cui un vecchio amico di Berlusconi, con cui quest’ultimo era stato cantante sulle navi da crociera, fa notare al protagonista questa particolarità: “sai una cosa, qualche giorno fa ho visto un settimanale che aveva pubblicato tutte le foto delle tue presunte danzate, e ho notato che somigliavano tutte a Veronica [Lario]”. A questa frase, Berlusconi risponderà ricordando l’aneddoto più recente dell’incontro con Stella, scena di cui si è già fatta menzione in precedenza, nella quale la giovane donna ammette con sincerità di non riuscire ad avvicinarsi al protagonista perché ha lo stesso alito di suo nonno589. Probabilmente, è questa una delle conclusioni a cui giunge Sorrentino rispetto al proprio personaggio: Berlusconi non è né l’uomo di Stato controverso, né l’imprenditore di successo e neanche esclusivamente il dongiovanni, se non si ammette allo stesso tempo l’immagine dell’uomo che non vuole invecchiare. Nel percorso introspettivo che il Berlusconi di Sorrentino

intraprende a rontando, uno dopo l’altro, i propri vizi, egli viene messo di fronte alla sua più grande debolezza, ossia il ri uto del tempo che passa, pervicacia da cui dipende il bisogno di cercare nelle soubrette sosia giovanili di sua moglie. Lo stesso dicasi per l’invecchiamento sico che passa dal ri uto della calvizie e dal trapianto di capelli a cui si fa riferimento in una scena del lm590. In realtà, basterebbe osservare una delle prime apparizioni di Berlusconi a Villa Certosa, luogo ben noto alla cronaca, qui trasformato in un parco giochi per adulti, con tanto di trampolino e di castello in miniatura. Ricorderemo anche un vulcano di cui lo stesso protagonista spiega il funzionamento, benché si tratti di un semplice giocattolo da cui fuoriesce lava nta591. La situazione non è molto diversa se si guarda la sequenza della vendita telefonica, scena in cui Berlusconi chiama un’anziana signora per venderle una casa che, in realtà, non esiste. Qui, con il pretesto di prepararsi alla corruzione dei senatori da cui dipende la stabilità del governo Prodi, Berlusconi si cimenta in un esercizio retorico e commerciale che si rivela un vero e proprio momento ludico: tramite il gioco, il politico riscopre il piacere dell’attività imprenditoriale edilizia che lo riporta indietro nel tempo, precisamente negli anni Settanta, periodo corrispondente alla costruzione del complesso di Milano 2. Il parco giochi infantile di Loro rimanda al parco giochi per adulti del night-club più volte messo in scena da Sorrentino. Il quinto capitolo di Tony Pagoda e i suoi amici anticipa la scena de La grande bellezza in cui l’allestimento decadente di un locale notturno diventa l’occasione per ricordare a Jep Gambardella che il tempo delle frivolezze giovanili è ormai volto al termine592. La scelta scenogra ca del locale notturno come dimensione che ospita l’anacronismo congiunge le immagini e la prosa di Sorrentino a uno spazio emblematico de La dolce vita, ovvero il night-club Caracalla dove si svolge una serata mondana a cui partecipano, fra gli altri, Marcello e Sylvia. Il luogo non indugia a mostrare alcune incongruenze

storiche sicché la struttura delle terme romane, con tanto di statue greche in secondo piano, convive con la musica più moderna del rock ‘n’ roll e del cha cha cha, il tutto animato dalla voce di un giovane musicista (Adriano Celentano) e dal girotondo inaugurato da Franckie Stout, un gurante travestito da statua greca, nonché perfetto conoscitore dei balli più in voga all’epoca593. III.2.d La nostalgia e la malinconia Nella prossimità che creano con gli interrogativi della storiogra a, l’immagine e la prosa di Sorrentino sollevano spesso la questione della nostalgia e della malinconia che torna con frequenza nei lavori dell’autore partenopeo, nonché in alcune interviste. L’inventario non esaustivo dei suddetti vocaboli ci invita a rileggere alcune pagine di Hanno tutti ragione. La nostalgia e la malinconia posseggono un’accezione esclusivamente negativa in alcuni passi del romanzo, come nelle parole con cui il narratore descrive gli italoamericani presenti a un suo concerto: “un pubblico nutrito a colpi di antenne direzionate sulla tv italiana, allevato a sciabolate di rigurgiti e di malinconia”594. Questa prima e lapidaria a ermazione fa coppia con una seconda sul valore delle canzoni d’amore negli anni Ottanta: “l’amore? Quello ormai ci sono rimasto solo io a cantarlo. Anche per questo mi vengono a sentire ai concerti. Per ricordarsi quello che non vivono da vent’anni a questa parte o che, più probabilmente, non hanno mai vissuto”595. Questa prima visione di Hanno tutti ragione viene, in parte, proseguita ne La grande bellezza. Identi cando a sua volta la malinconia e la nostalgia come tematiche ricorrenti nei lavori di Sorrentino, Mori sostiene che “è possibile […] riconoscere nello spirito nostalgico che contagia i personaggi” del regista partenopeo “una sorta di malinconia passiva che ci riconduce alle forme di godimento, quali l’ossessiva prossimità, l’insistenza, i continui tentativi dell’oggettivazione della mancanza”. Da quest’ultimo aspetto deriva “l’attrazione per gli oggetti-

gadget, proposti dal mercato come riempitivi [della] mancanza” propria alla nostalgia, donde l’a nità che La grande bellezza stabilisce tra il sentimento in questione e “il discorso capitalista”596. In tal senso, il critico evoca la coppia di nobili decaduti della famiglia Odescalchi, personaggi che esempli cano un “sentimento che attraversa tutto il lm: l’attaccamento ostinato a un’identità ormai ridotta a un simulacro vuoto, proiezione nostalgica privata del sostegno simbolico”, osservazione che acquisisce una prospettiva più ampia, sicché, secondo Mori, il lm propone la visione di una società italiana segnata dalla “di usa incapacità di elaborazione e distanziamento dal passato”597. In linea con l’analisi di Mori, rintracciamo un suggerimento di Umberto Contarello, co-sceneggiatore di Sorrentino in quasi tutti i suoi lavori a partire dal 2009598, che si esprime in questi termini in merito al rapporto tra kitsch e modernità nel cinema del regista napoletano: “[t]utte le cose che lavorano un po’ sul kitsch si mantengono su un livello adolescenziale. Paolo [Sorrentino], pur avendo un occhio sul fatto che la modernità comporta un elemento di degrado o di perdita di eleganza, non [è] compiaciuto su questo aspetto”599. Ciò che ci sembra importante sottolineare nelle parole di Contarello è che il declino della modernità non determina un punto di approdo nei lavori di Sorrentino, nella misura in cui la ri essione del cineasta si muove spontaneamente da un primo discorso sulle fragilità del presente a un secondo più complesso sul valore del passato. È qui che cogliamo un’ulteriore sfumatura riguardo alla nostalgia e alla malinconia in Hanno tutti ragione: la prima de nizione vuota e negativa dei due termini fa posto a una seconda accezione in cui la malinconia non è più un male che si teme di subire, ma un sentimento che si ha paura di perdere. Raccontando il suo primo incontro con la donna che ha amato e ucciso (Beatrice), il narratore si esprime come segue: Era di fronte a me e lo sentii forte e chiaro che io sarei

stato con quella donna, che tutta la gamma di sensazioni si sarebbe susseguita in me con l’inesorabile precisione di tutti i processi di vita. E poi sarebbe stata malinconia, che è uno stato di grazia, e poi neanche più quella perché poi il procedimento vuole che anche la malinconia diventi un obiettivo lungo e irraggiungibile. Ad un tratto, la malinconia ti fa ciao ciao con una molle manina da bambino. Ci vuole una calma interiore perché la malinconia alligni. Ma la si smarrisce ai semafori e ai negozi la calma interiore. È in quei casi, allora, che stai messo veramente male.600 De nita dall’autore come “ lo rosso di tutti i [suoi] personaggi”601, in Hanno tutti ragione, la malinconia diventa uno “stato di grazia”, un legame con il passato tanto vitale quanto fragile, sicché basta un gesto infantile, una “molle manina da bambino”, per smarrirla. È la stessa voce narrante a ribadirlo in un passo di Tony Pagoda e i suoi amici: la sua “nostalgia per gli anni migliori” della squadra di calcio del Napoli non è soltanto un sentimento relegato nel passato, bensì una qualità che de nisce la bellezza del presente e che quest’ultimo non vuole lasciarsi sfuggire. Basta la visione di un banale allenamento calcistico per riallacciare la contemporaneità narrativa a frammenti del passato: “la cioccolata scadente fuori lo stadio”, il “sale buttato sugli spettatori per scacciare la iella […] l’adrenalina dentro i capelli” di una “notte al San Paolo contro il Real Madrid”602. Di conseguenza, le visioni anteriori, qui esempli cate dalle immagini del Napoli di Maradona, non producono più un sentimento di attaccamento a ciò che l’attualità sembra aver perso, ma diventano l’occasione per cogliere la bellezza del passato, dandole una nuova esistenza in un presente che non nega più l’assenza che appartiene intimamente al tempo trascorso. È in questo contesto che interviene il ricordo, inteso adesso come gesto attuale che modi ca il valore della nostalgia e della malinconia: non siamo più dinanzi al rimorso nei confronti di un oggetto perduto, come succede con la ricchezza rimpianta dai

nobili decaduti de La grande bellezza, ma alla gioia per un’immagine che ritorna viva. In Sorrentino, l’intervento della memoria sulla malinconia e sulla nostalgia avviene con la consapevolezza che, nel momento in cui riappare, il ricordo non nega la distanza che lo separa dalla contemporaneità, ma mette alla prova il presente, lo stesso presente di cui si conosce la bruttezza, spingendolo a non rifugiarsi nell’idealità del passato: “uno fa nta che il mondo era meglio prima, ma non è vero, è un alibi eri tu che eri meglio prima”603. È per questo che il narratore conclude l’episodio del romanzo a ermando che “anche la nostalgia è una forma di bellezza”604. L’importanza del ricordo come parametro in grado di convertire il valore della nostalgia e della malinconia coinvolge un elemento che torna frequentemente nei lavori di Sorrentino, ossia la cocaina. Al di là del progetto de La notte lunga, cortometraggio del 2001 nanziato dal comune di Milano in occasione di una campagna di sensibilizzazione contro il consumo di droghe605, quella della cocaina non è una questione morale in Sorrentino. In verità, l’attenzione che viene dedicata alla droga è strettamente legata a uno dei mali più grandi di cui rischiano di so rire i personaggi sorrentiniani, ossia l’amnesia. È la malattia contro cui lottano i cocainomani di Sorrentino, specie Tony Pagoda e Tony Pisapia: “la cocaina, se te la fai per lungo tempo tutti i santi giorni, te la massacra la memoria. E io la coca me la prendo allegramente, senza tregua, da vent’anni”606. All’a ermazione del primo appena riportata, il secondo risponde nelle battute nali de L’uomo in più dinanzi alle telecamere televisive: “io me la ricordo tutta la coca che mi sono sni ato”607. In de nitiva, a dispetto dell’ambiguità nata dalla discrepanza di alcune de nizioni, i termini di nostalgia e di malinconia riescono ad acquisire una valenza positiva in Sorrentino grazie al ricordo: inizialmente relegati in un passato irraggiungibile e spesso idealizzato, essi trovano una continuità temporale grazie alla memoria. Quest’ultima non tenta più di

trasformare il presente all’insegna del tempo trascorso, né rimpiange il passato come realtà assente, ma coniuga la temporalità della mancanza con la possibilità di gesto attuale, portando, così, la nostalgia e la malinconia sulla strada della bellezza. Benché marginali in buona parte della sua lmogra a, la nostalgia e la malinconia non sono tematiche completamente assenti in Fellini. Tali sentimenti sono ravvisabili sin da I clowns (1970) tramite lo sguardo che il cineasta rivolge nei confronti del circo del primo Novecento. Tuttavia, il motivo nostalgico presentato dal lm viene ribaltato dalla possibilità sempre attuale di convertire il documentario ttizio in qualcosa di clownesco, sotto l’egida dello spettacolo pronto ad attraversare qualsiasi registro visivo. Seguendo la spinta de I clowns, i lavori seguenti di Fellini si rivelano sempre più disposti ad accogliere un senso di rammarico per il passato, benché esso determini raramente un punto d’approdo. Il Casanova (1976) dà il via a questa tendenza presentandone la sfumatura più malinconica, salvata in extremis e soltanto parzialmente dalla scena in cui il protagonista danza con la donna-automa608. Due anni dopo, in Prova d’orchestra, il cineasta avrebbe proposto ironicamente la gura del nostalgico tramite il personaggio del direttore d’orchestra, un uomo autode nitosi “prete […] in una chiesa di atei”609 che rimpiange l’epoca in cui la propria funzione era vista con deferenza dagli strumentisti. A quasi dieci anni dall’autunno caldo, i rapporti di forza sono profondamente cambiati e i musicisti ignorano gli ordini del proprio superiore, ri utando di suonare. Organizzano persino uno sciopero nella sala prove scandendo slogan rivoluzionari tra cui: “orchestra, terrore, a morte il direttore!”610. Eppure, alla ne del lm, a dispetto delle ultime rimostranze da parte del direttore, un’ultima e inattesa melodia verrà eseguita dall’orchestra 611 scioperante . In seguito, nel 1983, E la nave va pone

nuovamente le basi per un possibile discorso malinconico, immaginando il viaggio di una serie di guranti riunitisi in onore della defunta cantante lirica Edmea Tetua. Tuttavia, pur ruotando attorno a una gura assente, il lungometraggio mette da parte il sentimento prettamente nostalgico in favore di altre declinazioni visive spesso comiche e grottesche, includendo anche un riferimento storico alla prima guerra mondiale612. Le premesse de E la nave va vengono conservate ne La voce della Luna, ultimo lungometraggio di Fellini. Qui, i protagonisti presentano due rapporti antitetici nei confronti del tempo. Il primo (Ivo Salvini) è un giovane che si interroga costantemente sulla sorte dell’uomo dopo la morte, coniugando tratti della gura di Pinocchio con uno spirito leopardiano, stando ad alcuni indizi disseminati nel corso della narrazione613. Agli antipodi di quest’ultimo, Gonnella è un individuo astioso e ostile nei confronti della modernità. Il disprezzo per il mondo che lo circonda lo spinge a rifugiarsi nel rimpianto di una presunta nobiltà perduta, una credenza personale che gli vale la nomea di pazzo. Figure apparentemente incompatibili, Salvini e Gonnella sono, in realtà, due varianti dello stesso movimento da cui dipende la duplice articolazione della malinconia ne La voce della Luna. Nella scena in cui scoprono per caso una discoteca situata lontano dalle luci della città, le loro reazioni iniziali sono speculari: il primo corre sulla pista da ballo e regala dichiarazioni d’amore a tutte le ragazze presenti, mentre il secondo tenta di interrompere la musica. Tuttavia, è proprio il nostalgico Gonnella a o rire una seconda possibilità melodica alla scena, quando dopo aver dichiarato che “il ballo è un inno alla vita”, danza un walzer in compagnia della donna di cui è innamorato, una gurante che appare improvvisamente come se fosse una gura immaginaria. I più giovani formano, allora, un cerchio attorno ai due ballerini e li applaudono entusiasti, prima di tornare a scatenarsi al ritmo della canzone pop che avevamo udito in precedenza614. In de nitiva, piuttosto che lo scontro tra l’esuberanza di Salvini e il

cinismo di Gonnella, Fellini scandisce due melodie in un’unica danza: ritmo sfrenato del giovane che ri ette ingenuamente sulla morte e cadenza lenta del vecchio malinconico che teme di lasciare troppo presto il mondo degli uomini. A immagine di ciò che osserviamo ne I clowns e in maniera simile a quanto riscontrato precedentemente in Sorrentino, il discorso nostalgico non è né un gesto autonomo né una nalità per l’immagine di Fellini. Il discorso appena formulato sulla malinconia ci ha, dunque, permesso di osservare l’ambivalenza seguente: se, in primo luogo, è il rimpianto a emergere nello sguardo che i personaggi di Sorrentino rivolgono verso il passato, è talvolta possibile sostituire il sentimento nostalgico con un atteggiamento volto a recuperare la bellezza del tempo trascorso, senza negarne l’assenza al presente. Il fattore discriminante tra le due sfumature è il ruolo a dato al ricordo. Intervenendo contro il primato della malinconia, la memoria opera per de nire la continuità tra le fasi del tempo, come nel passo di Tony Pagoda e i suoi amici in cui la visione di un semplice allenamento calcistico riporta al presente una vecchia partita del Napoli di Maradona. Invece, nella concezione puramente nostalgica della storia, il ricordo è ancora vincolato al bisogno di preservare il passato, come succede per la coppia di nobili decaduti de La grande bellezza a cui non rimane altro che osservare gli oggetti appartenuti ai propri antenati esposti in un museo pubblico615. III.2.e Il ricongiungimento: Sorrentino e Fellini Nel primo capitolo del nostro studio si era discusso del lavoro storiogra co de Il divo prendendo in analisi le categorie di “riconoscimento” e di “rappresentanza” in Ricœur. Completando quanto rilevato precedentemente sulla precarietà degli uomini di potere, non saremo a atto sorpresi nel ritrovare alcuni spunti de La memoria, la storia, l’oblio nelle pagine che, adesso, dedichiamo allo

straripamento dell’immagine e della prosa di Sorrentino in quesiti storiogra ci. La prima delle due nozioni di Ricœur riveste un ruolo decisivo nel passaggio dall’incongruenza al ricongiungimento delle fasi del tempo. Possiamo riproporne una de nizione sintetica: il “riconoscimento” è un’operazione attuale che rinnova il rapporto tra presente e passato, facendo perno sulla considerazione secondo cui guardare il tempo trascorso determina già un primo passo nella scrittura della storia616. Come già osservato a più riprese, in This must be the place, il passato è un fardello pesante per Cheyenne, sia a causa della relazione interrotta con suo padre, sia per il suicidio di un suo giovane ammiratore. La via d’uscita che il personaggio trova alla ne del lm dipende proprio da un lavoro che rinnova lo sguardo sul tempo anteriore, operazione che gli concede la possibilità di un futuro migliore, come visto precedentemente con lo slancio vitale. Quali sono, allora, i gesti storiogra ci in This must be the place? Possiamo citare tre scene signi cative in tal senso: le prime due mettono in evidenza l’importanza della testimonianza del passato per il lavoro dello storico, laddove la terza chiede allo studioso stesso di lasciare una traccia del proprio sforzo nella contemporaneità. Lo storico in questione è proprio Cheyenne che non compie un viaggio terapeutico esclusivamente per se stesso, ma lavora, a sua insaputa, per una causa più vasta. Così, partito negli Stati Uniti con l’obiettivo di conoscere meglio la vita di suo padre, la rockstar di Sorrentino nisce per raccogliere una preziosa testimonianza sulla Shoah. Le prime due operazioni storiogra che consistono nel prendere atto delle testimonianze, operazione per la quale Sorrentino mette in parallelo due elementi, una prima immagine appartenente alla storia personale di Cheyenne e una seconda riconducibile alla Storia del Novecento. La scena in cui il protagonista sfoglia i diari personali di suo padre scoprendo il nome di Aloise Lange conduce, allora, a quella in cui consulta immagini di archivio dell’olocausto617. In entrambi i casi, notiamo alcuni oggetti

tradizionalmente associati alla ricerca di fonti scienti che, come la lente di ingrandimento attraverso cui leggiamo alcune frasi del padre di Cheyenne e il proiettore che permette la visione delle foto di repertorio. La terza scena si iscrive nella continuità delle due precedenti, rammentando l’estensione del termine di “scrittura” che Ricœur attribuisce tanto alla fase documentaria quanto quella esplicativa e letteraria618. La speci cità dell’epilogo di This must be the place rispetto alle due sequenze precedenti sta nel fatto che, adesso, lo studioso deve portare a termine il lavoro storiogra co lasciando la propria traccia. Cosa fa, dunque, Cheyenne al termine del suo lungo viaggio nelle terre deserte degli Stati Uniti, quando incontra Aloise Lange? Il protagonista ha una pistola e l’uomo che ha dinanzi è anziano e gracile; tuttavia, non sta alla vendetta determinare il punto di approdo del lm, poiché Sorrentino colloca nella stessa scena una piccola e simbolica punizione accompagnata da un gesto di apertura verso la scrittura della storia. Così, se è vero che Cheyenne costringe il nazista a uscire nudo nel freddo polare, in iggendogli una pena che allude a quelle subite dalle vittime dei campi di concentramento (benché le due so erenze siano profondamente incommensurabili), il fotogramma del corpo tremante di Lange è preceduto da un’altra immagine di cui non vediamo il risultato ma, esclusivamente, la messa in scena: Cheyenne si avvicina al nazista, rimuove delicatamente gli occhiali da sole dal volto di quest’ultimo e lo fotografa619. Piuttosto che esplorare sino in fondo la strada della vendetta, Cheyenne restituisce alla storia una traccia viva del passato, immortalando un colpevole no ad allora sfuggito alla giustizia del presente. L’operazione di Sorrentino risulta, allora, duplice: l’immagine del nazista umiliato e simbolicamente punito viene consegnata allo sguardo; al contempo, però, la scena in questione diventa imprescindibile da un altro fotogramma di cui non possiamo che osservare la preparazione. Da qui nascono i presupposti per una ricostruzione del tempo in cui

passato e presente sono, in n dei conti, ricongiunti. Non a caso, Sorrentino fa pronunciare a Lange alcune frasi di una lettera del padre di Cheyenne, lettura che verrà proseguita dalla voce fuori campo del defunto genitore nella scena nale: “poi, durante l’Inferno, anche noi, dall’altro lato del lo spinato, guardavamo la neve. E guardavamo Dio. Dio è così, una forma in nita che stordisce. Bella, pigra e ferma, che non ha voglia di fare nulla. Come certe donne che, da ragazzi, abbiamo solo sognato”620. La successione della voce del carne ce e di quella della vittima che condividono a distanza la lettura dello stesso testo permette a Sorrentino di sottolineare la volontà di coesione tra le due fasi temporali, come rileva anche Vigni: “il passato e il presente possono saldarsi in un ristabilimento cronologico del tempo, e la colpa trovare espiazione: la colpa di un glio nei confronti del padre, quella di un uomo verso se stesso, quella, anche, tra le più immani, inumani [e] innominabili perpetrate nella Storia”621. In This must be the place, che si tratti della vicenda personale del protagonista o della Storia recente, la strada che porta il presente verso il passato è segnata dal trauma. In entrambi i casi, il problema della giunzione tra attualità e anteriorità viene posto nonché risolto dal medesimo sforzo. Analogamente, a dimostrazione di come il quesito storiogra co del legame con il tempo trascorso attraversi i lavori di Sorrentino, osserviamo alcune somiglianze con la narrazione di Youth. In linea con quanto osservato su Cheyenne, Fred Ballinger viene posto dinanzi al problema del passato, benché la portata storica sia più contenuta rispetto alla vicenda del suo predecessore. Infatti, se la memoria del compositore è un fardello meno pesante di quella della rockstar, lo sforzo che Fred deve compiere per interpellare il passato include una di coltà notevole, nella misura in cui il punto in cui il tempo ha subito una battuta d’arresto coincide con la malattia di sua moglie. Adesso, uno dei due testimoni dell’uomo che il protagonista è stato, delle sue qualità o mancanze come padre e come marito, ha perso la voce e,

gradualmente, anche la salute mentale. L’altro personaggio in grado di spingere Fred verso la ricerca del passato è sua glia Lena, ma quest’ultima non è in grado di rispondere agli interrogativi che solleva al posto di sua madre poiché, per dirla come il protagonista, “i gli non conoscono la verità dei genitori” pur conoscendone le debolezze622. Dinanzi a un tempo che custodisce il proprio segreto, il “riconoscimento” storiogra co interviene ancora più e cacemente in Youth: Fred “spezza”623 l’immobilità di un presente che faceva di tutto per ignorare il trauma del passato e decide di andare a trovare sua moglie. Senza risolvere gli errori commessi anni prima, pur continuando a non poter confrontarsi pienamente con la voce del testimone, il protagonista riesce a riportare il dolore anteriore nel presente per il semplice fatto che ne ammette l’esistenza. In Sorrentino, dunque, la sostituzione della negazione con il “riconoscimento” è un’operazione su ciente a nché al personaggio che la intraprende venga concessa una possibilità futura, come rilevato precedentemente in merito alla spinta vitale dell’ultimo concerto di Youth. Per quanto pesante e doloroso, il tempo trascorso diventa un oggetto verso cui l’attualità può rivolgersi, a condizione che lo sguardo nei confronti di esso prenda in considerazione l’incommensurabilità dell’errore e l’impossibilità di risolverlo: Cheyenne non ha nessuna pretesa di portare all’u ciale nazista il perdono della comunità ebraica di cui suo padre faceva parte, così come, andando a trovare sua moglie, Fred Ballinger ammette implicitamente a se stesso di aver vissuto per anni come se quest’ultima fosse defunta624. Ciononostante, presente e passato vengono inseriti in una successione inedita in cui il primo si sforza di trovare un modo di guardare il secondo, conservandone, così, la traccia. Il ricongiungimento del tempo operato da Sorrentino si rivela compatibile con una speci cità dell’immagine di Fellini, a dispetto di alcune discrepanze rilevabili tra i due autori. Nel più giovane cineasta, abbiamo osservato come

il “riconoscimento” fungesse da giuntura tra presente e passato, creando, così, una coesione cronologica a scapito della staticità del cinismo, sentimento che tende a negare o, quantomeno, a trascurare l’anteriorità. Quanto a Fellini, sappiamo già come il passato sia un tempo spesso esplorato dal cineasta: Guido Anselmi cade nei propri ricordi di infanzia in Otto e mezzo e, prima ancora del più autobiogra co Amarcord, la sequenza iniziale de I clowns mette già in scena il primo incontro con il circo da parte del piccolo Federico625. In e etti, anche nel regista di Rimini assistiamo a una coesione cronologica, benché la modalità con cui essa si presenta di erisca dai lm di Sorrentino citati poc’anzi. Anticipando un po’ sull’idea che dimostreremo, si dirà che, in Fellini, ciò che attiene alla temporalità della mancanza – che si tratti della storia o dell’infanzia – è già orientato altrove, in una dimensione che sembra fuoriuscire dalla cronologia, uno spazio in cui gli elementi assenti vengono accompagnati da quanto più ricorrente ci sia nell’immagine di Fellini: lo spettacolo e la festa. A tal proposito, conviene prendere in considerazione alcune scene di Roma, facendo allusione a un noto segmento di Amarcord. La lunga sequenza che si svolge nella trattoria romana626 è concepita come la ricostruzione, in parte autobiogra ca, di uno dei primi incontri con la capitale da parte di un giovane provinciale. Nello sketch in questione ritroviamo i movimenti tipici della macchina da presa felliniana che avevamo potuto apprezzare nelle serate mondane de La dolce vita o nelle sequenze oniriche di Otto e mezzo. Una serie di carrellate accompagnano la composizione della scena e svelano lentamente i personaggi come se questi ultimi occupassero lo spazio di un palcoscenico teatrale, quando, improvvisamente, un altro gurante appare in primo piano recitando una breve battuta. Non siamo lontani dall’articolazione del movimento che Pasolini aveva osservato ne La dolce vita: “spesse volte, succede che, nel contesto dei movimenti di macchina sinuosamente e parenteticamente subordinati, si inserisca brutalmente

una inquadratura semplicissima, quasi documentaria: una citazione di lingua parlata”627. Le in essioni dialettali e l’immagine documentaria sono due componenti determinanti in Roma, ma sono entrambe sottomesse alle leggi dello spettacolo, tanto che Fellini crea una continuità tra i numeri dei personaggi della trattoria romana e quelli che nello stesso lm vedremo nel teatrino della Barafonda628. In Roma vige un principio analogo a quello che determina il fraseggio delle sequenze di Amarcord, principio secondo cui la maggior parte dei segmenti, compreso quello della parata fascista, risentono dell’in uenza dei primi sketch comici dei liceali629. In Roma, lo stesso movimento arti ciale si di onde dalle scene attuali del documentario ttizio e delle esplorazioni della metropolitana, giungendo no alle immagini mnemoniche. Così, la scena del ricordo della trattoria romana, cronologicamente situabile poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, presenta lo stesso registro visivo di una delle sequenze nali del lungometraggio. Si tratta di un segmento documentario dove appare lo stesso Fellini, il quale, dopo essere stato ripreso come un qualsiasi gurante, si posiziona dietro la macchina da presa e percorre le strade romane imbattendosi in Anna Magnani. I tempi sono cambiati rispetto al ricordo e le sirene del coprifuoco sono state sostituite da quelle della polizia che caccia gli hippies, così come il roborare delle moto da corsa ha preso il posto del rumore del tram630. Ciononostante, il tempo felliniano è rimasto identico a se stesso e alla propria natura bicorporea come nella festa popolare631. In Fellini e negli esempi di Sorrentino riportati poc’anzi, le fasi del tempo non sono più tenute a distanza ma vengono ricongiunte, benché i due cineasti intraprendano due strade diverse per arrivare alla coesione cronologica. Spinti dallo sforzo storiogra co di “riconoscimento”, presente e passato vengono riallacciati in alcuni lavori del regista napoletano, sforzo iscrivibile nella continuità di quanto osservato in precedenza sulla maniera in cui il ricordo modi ca la

valenza della malinconia. Quanto a Fellini, l’attualità e l’anteriorità vengono inserite in un’unica immagine in grado di abolire la distinzione tra le componenti del tempo, conservando presente e passato nella medesima unità attraversata dallo spettacolo e dalla festa. Questa stessa coesione del tempo, rintracciabile a partire da Otto e mezzo, ci consente di completare un’osservazione formulata dalla voce narrante di Tony Pagoda e i suoi amici: Sere prima, un attore che ha frequentato a lungo Fellini mi ha raccontato una bella storia. Il grande regista, in un momento non facile, aveva preso a incontrare psicanalisti. A ciascuno si presentava cortese, si sedeva di fronte, estraeva una foto di se stesso a tredici anni e, con la voce candida che ce lo ha fatto amare, diceva pacato mostrando la foto: “Dottore, io voglio tornare a questa foto. Lei mi può aiutare?”. Nessuno lo poteva aiutare. Sulle prime, mi sono detto che Fellini, con questo semplice gesto, aveva individuato la sintesi di tutto il fardello insopportabile di malesseri che l’uomo si porta appresso. Voleva tornare lì, in quel luogo ameno dove la felicità seduceva con la sua naturalezza, in maniera ineluttabile […]. Ma non basta prendere atto di questo pensiero. Non è su ciente e non è onesto. Fellini non voleva guardare le cose nella loro interezza. C’è una felicità successiva, adulta, rapsodica, faticosa ma c’è. Essa è legata alla possibilità di costruire dentro i con ni della responsabilità.632 Sebbene le parole di Pagoda rimandino alla terapia junghiana a cui Fellini si sottopose realmente633, ci sembra opportuno completare la posizione presentata dal narratore di Sorrentino secondo cui Fellini “non voleva guardare le cose nella loro interezza”. In realtà, dinanzi al bisogno di tornare bambino sicuramente attribuibile a un

periodo della vita del cineasta di Rimini, i suoi lm rispondono con un’immagine in cui la temporalità dei ricordi e dell’infanzia trova una seconda vitalità, apparentandosi al presente attraverso lo spettacolo. La festa attraversa entrambe le tappe cronologiche, impedendo che il passato resti fuori dalla portata del presente, risolvendo, così, il dilemma dell’aneddoto di Pagoda. È forse per questo che, come osservato in precedenza per La voce della Luna, la nostalgia non è un punto di approdo in Fellini, ma un gesto duplice, come nella successione tra il walzer lento di Gonnella e il ritmo sfrenato di Ivo Salvini, entrambi compresenti nella stessa danza. Oppure, riprendendo le parole di Deleuze: “Fellini cre[a] una parola, qualcosa come ‘procadenza’, per designare insieme l’inesorabile corso della decadenza e la possibilità di freschezza o di creazione che necessariamente l’accompagna”634. III.3. L’immagine del mondo contemporaneo III.3.a Da Andreotti a Berlusconi All’inizio del terzo capitolo, si diceva come l’interesse del nostro discorso sarebbe ricaduto sugli straripamenti del cinema e della prosa di Sorrentino. Nelle pagine precedenti, abbiamo osservato come la questione dell’apprendimento ci o risse una prima nestra sul mondo contemporaneo sottolineando la mancanza di gure guida e, al contempo, a ermando la necessità per i personaggi sorrentiniani di portare a buon ne il percorso formativo. Al termine del discorso sull’apprendimento, abbiamo visto delinearsi i tratti di ciò che abbiamo de nito condizione orfana per poi esplorare un secondo straripamento relativo a quesiti storiogra ci. In entrambi i casi, abbiamo individuato un certo numero di assonanze e di contrasti con le immagini di Fellini e di Scorsese. In corrispondenza dell’intersezione tra, da un lato, la possibilità per l’apprendimento di sporgersi sul mondo contemporaneo e, dall’altro, il ricongiungimento dell’attualità con il tempo trascorso risiede un aspetto

signi cativo dell’opera di Sorrentino. Si tratta di un discorso che coniuga le immagini de Il divo con quelle di Loro, passando dalle pagine di Hanno tutti ragione. Qui, Sorrentino si interroga sulla successione tra due segmenti dell’Italia contemporanea, passaggio presieduto dalle due gure politiche emblematiche di Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi. È su questo mutamento che ci concentreremo nelle pagine che seguono. Nella parte inizialmente dedicata al lavoro storiogra co de Il divo, uno spunto critico di Holdaway ci aveva permesso di vedere come la “ nzionalizzazione” fosse un’operazione compresente e complementare a quella del racconto storico635. Difatti, nel lungometraggio in questione, Sorrentino non esita a esplorare le diverse sfaccettature della gura di Andreotti, concedendosi numerose libertà visive e narrative, come dimostrano la scena del lungo monologo sulla natura del potere o quella in cui vediamo apparire il fantasma di Aldo Moro, senza dimenticare le parentesi più leggere che vedono protagonisti i due coniugi Andreotti. Con Loro, il regista ci o re una seconda testimonianza della necessità per la nzione di introdursi nella ricostruzione storica, operazione che possiamo riscontrare sin dalla dicitura che fa da preambolo al lungometraggio: Il lm che vedrete è il frutto dell’autonoma e libera creazione degli artisti. Il riferimento a persone e ettivamente esistenti e a fatti realmente accaduti è nalizzato ad una loro rielaborazione in chiave strettamente artistica. In quanto tale, del tutto priva di intenti cronachistici. Gli autori hanno liberamente tratto spunto da alcune vicende di cronaca per dar vita ad una creazione narrativa che fa interagire personaggi immaginari e persone reali in contesti di pura fantasia. Così generando un’opera artistica originale. Qualsiasi riferimento a persone, diverse da quelle espressamente individuate nel lm come reali, è puramente casuale.636

L’assenza di “intenti cronachistici” annunciata inizialmente trova un riscontro nelle immagini che seguono e che contano tra gli assenti illustri proprio gli episodi relativi agli intrighi politici di Berlusconi, diversamente da quanto accade ne Il divo. In quest’ultimo lavoro, Sorrentino mette in parallelo la descrizione di un uomo di potere in declino, tematica ricorrente nelle sue storie, e la ricostruzione di alcuni eventi signi cativi del passato recente. Non a caso, il lm si apre con una sequenza musicale in cui si susseguono gli omicidi di cui Andreotti sarebbe direttamente o indirettamente responsabile e si chiude nel giorno della prima udienza del processo che lo vide come principale imputato nell’anno 1993. Il confronto con la gura di Andreotti determina, dunque, un’inevitabile oscillazione tra un primo racconto maggiormente connesso agli eventi storici e un secondo più grottesco e teatrale legato al personaggio principale. Ora, la formula che Sorrentino mette a punto con Andreotti non viene a atto confermata nella vicenda di Berlusconi. In realtà, le discontinuità che separano Il divo e Loro determinano un cambio di registro tale da rendere la successione tra i due lungometraggi una testimonianza tangibile della mutazione politica e sociale dell’Italia contemporanea. Per cogliere con più precisione la portata del secondo dei due lm, possiamo ricordare una speci cità precedentemente rilevata in merito al lavoro storiogra co de Il divo. In quest’ultimo, il compito arduo della macchina da presa di Sorrentino consiste nell’indagare i segreti dello statista e le zone d’ombra di un potere che cela la propria in uenza. Dinanzi a tale realtà politica, Sorrentino risponde con due operazioni distinte: l’elucidazione della rete di collusione tra Stato e Ma a e la descrizione di un uomo di potere in preda al rimorso, esempli cazione della “solitudine dei rapporti di forza” dominanti nell’Italia dell’epoca637. Lo sforzo storiogra co de Il divo consiste nell’a rontare una di coltà ben precisa, quella dell’aporia della Storia che si sottrae allo sguardo dello storico e all’in uenza delle

autorità istituzionali. La situazione del potere è profondamente cambiata a quindici anni dall’inizio del processo Andreotti, nel lungometraggio che Sorrentino dirige dieci anni dopo Il divo. In Loro, non siamo più dinanzi a una lettura della Storia in cui l’indeterminabilità degli eventi spinge il regista a trovare un compenso nella nzione o nella “ nzionalizzazione” degli stessi. La situazione appare quasi invertita, nella misura in cui la cronaca delle vicende berlusconiane si rivela cosparsa di episodi scandalistici di cui non mancano le testimonianze, come sottolinea anche Ercolani: Andreotti rappresentava un Moloch indecifrabile, la S nge del Potere dietro la cui apparente austerità monacale si celavano abissi di inferno morale: per questo la tras gurazione grottesca è stata potente, poiché mostrava ciò che è fuori dalla scena (“osceno”, secondo un’etimologia un po’ fantasiosa ma suggestiva proposta da Carmelo Bene). In questo senso, Berlusconi non è osceno, è (nell’etimo) pura pornocrazia: lo scandalo, la trasgressione, la volgarità sono stati da lui esibiti a testa alta, le cronache sono state invase da intercettazioni, foto [e] testimonianze […].638 Nel tempo intercorso tra Il divo e Loro, si passa dall’aporia del racconto irrealizzabile al confronto tra l’apparato cinematogra co e un’immagine ormai estranea a qualsiasi struttura politica, seguendo un suggerimento dello stesso Sorrentino qualche anno prima dell’uscita del lm: Non c’è pettegolezzo su Berlusconi che non sia icastico. Quando si stila la lista delle arti a cui il cinema è debitore, il parente povero è sempre la coreogra a e lui, va detto, è un grande coreografo. […] [Berlusconi è] pericoloso sicuramente, spericolato pure. In una forma molto diversa da quella di Andreotti. Avere una misura precisa della spericolatezza di Andreotti, poi, è impossibile.

[…] Andreotti conosceva le leggi della Chiesa e sapeva cosa signi casse istituzione. Durante il suo regno sono accadute cose terribili e non è a atto escluso che lui ne fosse consapevole. Berlusconi è go o e ingenuo, padronale e sprovveduto, naïf e spregiudicato come nessun altro. Ma il mondo andreottiano è sospettato di connivenza con le stragi, quello berlusconiano, tutt’al più, di Sodome senza estetica e corruzioni da basso impero.639 Le parole del regista sono chiare quanto alla necessità di distinguere i due politici e trovano riscontro nella maniera in cui, qualche anno dopo, verrà costruito il personaggio di Berlusconi. Seguendo la prospettiva sorrentiniana, ciò che distingue i due uomini di Stato è l’assenza di qualsiasi valore istituzionale nella gura incarnata dal secondo. È rispetto all’idea seguente che il cineasta attribuisce due ruoli diversi alla macchina da presa, sicché se ne Il divo si poteva ancora mostrare come la politica si nascondesse, la politica stessa è de nitivamente assente in Loro. In compenso, attraverso i personaggi del lm, vediamo emergere un sistema fondato sul godimento, ciò che Sorrentino non esita a de nire una “Sodom[a] senza estetica” e che coinvolge tanto il personaggio di Berlusconi quanto coloro che gli sono attorno: non solo il politico ma gli altri, “Loro” per l’appunto, ossia il berlusconismo. Non è un caso che la prima parte del lm sia dedicata all’ascesa in qualità di prosseneta di escort di Sergio Morra, alter ego di Gianpaolo Tarantini, in una ricostruzione libera degli eventi che ha suscitato l’indignazione del diretto interessato640. In de nitiva, è la politica a perdersi nel passaggio da Andreotti a Berlusconi, quand’anche venisse intesa nella variante più corrotta e perniciosa, il tutto in favore di un mondo in cui a prevalere è il piacere ripetitivo e volgare. A tal proposito, ciò che Ercolani de nisce “pornocrazia” fa eco all’a ermazione di Massimo Recalcati secondo cui il “berlusconismo” non cerca soltanto di condurre i “comportamenti privati” del capo dello Stato a una “realizzazione del proprio godimento come capriccio

estemporaneo”, ma concepisce il godimento stesso come “diritto iscritto nella funzione istituzionale che egli ricopre”641. Non a caso, in Loro, dell’attualità politica sono rimaste poche immagini, quasi tutte relative al momento della caduta del governo Prodi e al successivo insediamento dell’ultimo governo Berlusconi nel maggio 2008642. Tra le poche tracce istituzionali presenti nel lm rimane quella del matrimonio, benché anche quest’ultimo sia ormai volto al tramonto, come dimostra la crescente rassegnazione del personaggio di Veronica Lario. Tanto le macchinazioni del potere quanto il contratto nuziale svaniscono dinanzi all’onnipresenza di ciò che si sviluppa al di là di qualsiasi vincolo politico, aspetto a cui vengono dedicate buona parte delle sequenze lmiche e che concerne la merci cazione del corpo femminile tramite il personaggio di Marra-Tarantini e il desiderio di possederlo tramite quello di Berlusconi. Il tutto mentre in sottofondo echeggia il motivo anacronistico dell’uomo che lotta invano contro il proprio invecchiamento. Il mutamento tra Andreotti e Berlusconi secondo Sorrentino viene operato nel segno dell’abbandono della politica. In sostituzione di quest’ultima a ora una seconda immagine più frivola e intimamente connessa a due tratti tra loro complementari, ossia il godimento e l’illusione. A breve, approfondiremo il primo dei due aspetti mettendo a confronto alcuni lm di Scorsese. Quanto al secondo, ne distingueremo varie sfumature nei punti seguenti del nostro lavoro, ma, sin da adesso, possiamo individuare un’assonanza visiva tra l’apparizione di Berlusconi in Loro e quella dello Sceicco Bianco nell’omonimo lm di Fellini643. Entrambi i personaggi entrano in scena in costume e vengono presentati accanto a un oggetto ludico legato all’infanzia: il protagonista di Sorrentino è travestito da danzatrice del ventre e possiede un castello e un vulcano di plastica, laddove quello di Fellini indossa gli abiti scenici per le riprese del fotoromanzo mentre dondola su un’altalena. Tuttavia, l’analogia tra i due personaggi va oltre il mero riferimento

estetico, poiché sia Berlusconi che lo Sceicco Bianco si rivelano gure mitizzate, immagini costruite lontano dalla realtà e poste in stretto contatto con l’illusione. Si pensi al protagonista di Sorrentino che, prima di apparire nella scena appena citata, viene designato con il pronome “Lui” che udiamo a più riprese e che vediamo persino sullo schermo del cellulare di Kira (alter-ego di Nicole Minetti)644. Quanto al personaggio di Fellini, il suo ruolo è vincolato allo sguardo ingenuo e incantato dell’ammiratrice che stravede per lui nonché alla nzione stessa del fotoromanzo. Non a caso, il breve idillio tra i due personaggi avviene in seguito alla sessione fotogra ca del romanzo d’appendice, scena in cui due presunti innamorati indossano ancora i costumi scenici645. L’allusione iconica al personaggio di Fellini non è a atto casuale e rimanda a un secondo aspetto tematico legato all’illusione. Chi è, dunque, lo Sceicco Bianco? È uno dei primi saltimbanchi del cinema di Fellini, l’imbroglione che seduce la giovane ammiratrice per poi implorare il perdono di sua moglie quando quest’ultima lo sorprende in agrante tradimento646, in maniera simile al protagonista maschile di Luci del varietà. I tratti dell’adultero go o sono ravvisabili sin dalla prima apparizione di Berlusconi in Loro. Qui, una serie di inquadrature riprendono una gura misteriosa di cui non si conosce il volto ma che diventa riconoscibile per gli oggetti e le immagini che la circondano e che Sorrentino passa in rassegna: una televisione accesa mostra un quiz diretto da Mike Bongiorno, un cellulare squilla e, dall’altro lato del ricevitore, risponde una giovane donna, mentre Veronica Lario è distesa sul letto e non riesce a ridere di fronte allo sketch che suo marito ha preparato per lei647. In questa articolazione visiva sono condensate buona parte delle questioni sollevate dal lungometraggio e che attengono all’immagine televisiva, all’insensato godimento maschile (nonché merci cazione del corpo femminile), e al decadimento dell’amore e del matrimonio. Denominatore comune dei suddetti loni visivi è

l’illusione che li attraversa tutti e che permette di delineare i tratti del personaggio di Berlusconi. Quest’ultimo, come già lo Sceicco Bianco di Fellini, si rivela una gura maldestra, un uomo intento a organizzare spettacoli privati e ricevimenti di ogni genere nella sua lussuosa villa 648, ostentando l’immagine scandalistica dei propri vizi, agli antipodi dei pericolosi giochi di potere che brulicavano dietro le quinte de Il divo. L’Andreotti di Sorrentino poteva ancora attribuirsi un progetto divino fondato sul male, anche con il rischio di convincere soltanto se stesso, preferendo il monologo al confronto con la giustizia, laddove Berlusconi predilige lo sfoggio della dissolutezza. Da quest’ultimo aspetto deriva la rivelazione dell’illusione, tanto manifesta quanto il trionfo dell’invecchiamento sulla volontà di nasconderlo: la fama di seduttore del protagonista si sgretola dinanzi alla coscienza del fatto che le giovani che desiderano incontrarlo sono semplicemente interessate a una carriera televisiva o politica. Nel passaggio da Andreotti a Berlusconi la politica viene sostituita da un sistema fondato sull’illusione e sull’appagamento edonistico, in un mondo in cui uno dei pochi vincoli istituzionali restanti è impersonato da una donna in procinto di chiedere il divorzio. Poc’anzi, abbiamo osservato come il riferimento visivo dell’inganno si materializzasse nel personaggio felliniano dello Sceicco Bianco con cui il Berlusconi di Loro determina un certo numero di a nità. Quanto alla questione del godimento, occorre guardare più da vicino il cinema di Scorsese e, nello speci co, la maniera in cui la gerarchia ma osa evolve nel corso della sua lmogra a. Per giungere alla seguente intersezione tra Sorrentino e Scorsese, riprendiamo una digressione teorica dell’analisi di Mori, il che ci permette, inoltre, di precisare la terminologia di alcuni passi del suo lavoro riportati anteriormente. Traendo spunto da J. Lacan, S. Žižek, e F. Carmagnola, Mori inaugura la propria ri essione sulle problematiche del desiderio e del godimento ne La grande bellezza

ripercorrendo sinteticamente le nozioni lacaniane di “Reale”, “Simbolico” e “Immaginario”. Il critico presenta il primo come qualcosa che si colloca “simultaneamente prima e dopo il Simbolico”, come “ciò che non appare mai direttamente” e che il soggetto può incontrare esclusivamente sotto forma di “trauma”. Al contrario, il “Simbolico” è “l’ordine tenuto insieme dalla catena signi cante e che include in sé tutto ciò che attiene al linguaggio, alla Legge e alle strutture sociali, sotto forma di parola […] o di archetipo”. Esso opera in un “processo di rimozione sempre incompleto” che tenta di arginare il “residuo del Reale”, benché quest’ultimo riesca nuovamente a presentarsi nelle “formazioni fantasmatiche dell’Immaginario perverso”, ossia negli “indici della jouissance”: “il godimento osceno e irriducibile al signi cato”. Tramite il Simbolico si arriva alla de nizione del “grande Altro”, inteso come “ciò che de nisce e regola il senso di realtà degli individui in una società”649. Secondo Mori, la “postmodernità”, a cui le immagini de La grande bellezza si riferiscono manifestamente, sancisce la crisi del buon funzionamento del grande Altro, spianando la strada allo scontro diretto tra Reale e Immaginario, nonché alla “rivendicazione del godimento come diritto”650. È interessante, allora, notare che uno dei lm contemporanei in cui Mori rileva un trattamento del godimento analogo a quanto accade ne La grande bellezza sia proprio The wolf of Wall Street, suggerimento questo che ci spinge a sollevare i quesiti seguenti: secondo quale evoluzione dell’immagine si giunge a un sistema fondato sul godimento in The wolf of Wall Street? Quale in uenza il lm di Scorsese esercita sulla sostituzione della politica con l’appagamento materiale che Sorrentino elabora tramite il personaggio di Berlusconi? A tal proposito, alcune pagine di Casillo sull’evoluzione dei lm di gangster del regista di Little Italy risultano di grande interesse. In Gangster priest, il critico traccia l’evoluzione del rapporto tra i personaggi principali e le istituzioni religiose e ma ose, con particolare riferimento a Who’s

that knocking at my door, Mean streets, Raging Bull, Goodfellas e Casino. Nel primo lavoro citato, il protagonista (J.R.) subisce ancora “un’attrazione mimetica […] alla violenza”, processo cha va di pari passo con la persistenza di una “visione masochistica del 651 cattolicesimo” . Charlie Civello dà una continuità alla storia di J.R. oscillando tra le richieste del clan e i propri scrupoli religiosi. Ora, pur essendo responsabili di una certa confusione nello spirito dei protagonisti, la religione e il gruppo delinquenziale del quartiere fungono ancora da punti di riferimento in Who’s that knocking at my door e in Mean streets. La situazione cambia con Raging Bull, nella misura in cui Jake La Motta è colui che ri uta, seppur temporaneamente, di sottomettersi agli ordini dei capiclan che gli avevano ordinato di truccare un incontro di boxe. Al contempo, il pugile di Scorsese è colui che inaugura un nuovo rapporto con la fede, esentando “l’autentica trascendenza spirituale del Vangelo” dalle prerogative dell’istituzione religiosa e attribuendosi, in compenso, una lettura più personale nonché “distorta” della “trascendenza”, adesso “elaborata tramite una mimesi violenta”652. Successivamente, Goodfellas avrebbe aperto le porte alla dissoluzione della ma a stessa come modello istituzionale, in un mondo dominato da “giovani ambiziosi e senza scrupoli” pronti a tradire chiunque per perseguire i propri scopi653. Dinanzi allo sgretolamento delle regole interne del clan, lo Stato è chiamato a intervenire per ristabilire la verità e punire i colpevoli, sicché, in Goodfellas, nascono i presupposti per introdurre l’inedita gura del pentito. Tuttavia, i rappresentanti della legge non sono immuni al principio distruttivo dei lm di gangster di Scorsese, ragion per cui Casino narra la storia di una collusione tra poteri statali e un’organizzazione ma osa sempre più rami cata. In mancanza di un ordine gerarchico interno e dinanzi alla corruzione delle istanze u ciali, l’unica possibilità che il clan possiede per disgregarsi è autoreferenziale. È in questo contesto che il contorto sistema di frode lascia spazio al problema più

rudimentale dell’infedeltà attraverso il triangolo amoroso che Ace e Ginger compongono rispettivamente con Lester e con Nicky654. Conclusasi per ragioni cronologiche con l’esempio di Casino, la lista di Casillo andrebbe completata con le immagini di The departed e The Irishman. Nel primo, le operazioni segrete degli in ltrati indeboliscono la linea di demarcazione tra Stato (FBI) e ma a (il clan del boss Costello), lasciandoli annientarsi a vicenda. Al contrario, riprendendo un’idea già presente in Goodfellas e Casino, The Irishman mostra al contempo la tendenza autodistruttiva del gruppo, esempli cata dall’immagine dell’omicidio di Jimmy Ho a par mano del suo amico Frank Sheeran, nonché l’intrusione del potere ma oso nelle istanze rappresentative dello Stato. Tuttavia, la novità del recente lungometraggio di Scorsese sta nell’aver reso caduca l’organizzazione criminale stessa, conservando l’ultimo baluardo dell’omertà nella gura del ma oso in n di vita655. In Scorsese, le leggi ma ose perdono progressivamente consistenza lasciando spazio a una generale anomia che annienta qualsiasi riferimento strutturale, quand’anche a scomparire fossero principi che regolamentano le azioni criminali. In questo contesto di a evolimento dell’in uenza del gruppo non saremo a atto sorpresi nel vedere che i lm di gangster sfociano nella storia di un broker che, oltre a elaborare metodi sempre più contorti per ingannare le autorità, ha sviluppato una dipendenza dalla droga e dal sesso. In mancanza di qualsiasi vincolo istituzionale, in presenza, cioè, di un personaggio che elimina il senso stesso della legge e del “Simbolico”, nascono i presupposti per il godimento sfrenato e illimitato. È secondo queste modalità che The wolf of Wall Street trova un punto di contatto con la storia di Loro, aprendo una nestra sul mondo contemporaneo alla stessa stregua del lm di Sorrentino. Si tratta di un’analogia ricca di spunti critici su cui avremo l’occasione di tornare in seguito quando tratteremo la questione dell’eccesso. Per adesso, possiamo a ermare che la mutazione degli intrighi illeciti della

politica in forme vuote di appagamento, ravvisabile nel passaggio da Il divo a Loro, segue un comportamento analogo alla disgregazione del clan e delle proprie leggi criminali di cui Scorsese ci o re una testimonianza sin da Who’s that knocking at my door. III.3.b La riscoperta dell’Italia in Hanno tutti ragione I capitoli undici e dodici di Hanno tutti ragione si allontanano dall’ambientazione napoletana del romanzo raccontando l’autoesilio di Pagoda a Manaus. La parentesi brasiliana del narratore copre un arco di tempo di circa vent’anni, che va dall’inizio degli anni Ottanta no al 31 dicembre 1999, periodo durante il quale Pagoda ri uta qualsiasi contatto con l’attualità italiana. La digressione geogra ca del romanzo agevola l’impiego di un arti cio narrativo che dissocia il protagonista dal corso degli eventi e che, in compenso, gli permette di entrare in scena proprio per prendere atto degli e etti del tempo, come se si fosse svegliato da un lungo sonno656. Lungi dal poter proporre una visione completa dei mutamenti a cui l’Italia è andata incontro negli ultimi due decenni del Novecento, a Pagoda non spetta che trarre le conclusioni sulla mutazione di un mondo che aveva lasciato all’inizio degli anni Ottanta. In questo frangente, riscontriamo una situazione simile al rapporto genealogico che lega per contrasto Il divo e Loro, due lm manifestamente connessi alla storia politica italiana i quali, pur non presentando lo stesso intervallo temporale del romanzo (la vicenda di Andreotti termina nel 1993 e quella di Berlusconi comincia nel 2008) danno testimonianza di una regressione politica complementare all’analisi del narratore di Hanno tutti ragione. L’Italia contemporanea irrompe nell’isolamento di Tony Pagoda attraverso il personaggio di Fabio, un ammiratore del protagonista che, nel momento stesso in cui bussa alla sua porta, fa entrare in scena una gura ancora estranea alla prospettiva del racconto. Si delineano, dunque, i tratti dell’imprenditore di successo che ha esteso la propria rete di in uenza

integrando la classe politica657. Fabio è chiamato a colmare lo scarto temporale portando la voce dell’Italia contemporanea al connazionale espatriato, confermando la tendenza narrativa che aveva già attribuito alle classi dirigenti il compito di o rire una testimonianza dell’evoluzione sociale del paese: un ricordo di gioventù del narratore ci aveva parlato della nobiltà autentica e decadente della baronessa Eleonora Fonseca, laddove gli anni Ottanta vengono descritti seguendo la prospettiva di una borghesia priva di ra natezza, la quale, a sua volta, passa il testimone al mondo della nanza 658 dell’“imponderabile Fabio” . La narrazione del dodicesimo e del tredicesimo capitolo del romanzo non indugia a far emergere una posizione critica nei confronti della contemporaneità, riassumendo i due decenni a cui Pagoda non ha assistito in una lunga enumerazione di oggetti ed eventi recitata dal suo manager Jenny Afrodite. Nell’elenco in questione spicca un riferimento che riassume la discrepanza tra l’Italia de Il divo e quella di Loro: “il cambio di una classe politica corrotta con una ugualmente corrotta ma più volgare”659. Ma la novità che il narratore osserva con più sconforto attiene alla maniera in cui il nuovo approccio politico sfocia nella sfera relazionale. Pagoda lo de nisce come passaggio dalla “solitudine” all’“abbandono”, scelta lessicale che ricorda la tendenza sorrentiniana a ri ettere sull’orfanità, rammentando, al contempo, come quest’ultima sia meno una questione biogra ca che una problematica essenzialmente legata all’analisi del mondo contemporaneo: “[m]entre la solitudine si presenta, in ultima analisi, come una cornice di sentimenti, l’abbandono, al contrario, possiede solo i contorni immodi cabili, statuari, della tragedia”660. Così, nelle pagine di Hanno tutti ragione, l’abbandono si traduce nell’insieme delle relazioni strumentali che si muovono dal livello puramente governativo invadendo lo spazio più intimo dell’amicizia: “Non voglio che canti soltanto qualche bella canzone

napoletana. Voglio che fai anche il mio amico”, chiede Fabio a Pagoda. […] La tragedia, basilica della morte in vita, non ci lascia vie di fuga. Di tutti gli a ari di Fabio, questo della sua tragedia personale è senza dubbio il meno riuscito. E ridicolizza tutti gli altri stipulati a colpi di assegni e di aste vinte al tavolino della nanza. Direttamente, dall’ano al cuore, mi esce una bellissima frase, semplice e disinteressata: “Ma non si comprano gli amici, Fabio”. Lui è severo e non ammette repliche, ora: “Sì, invece. Tutto si può comprare, Tony”.661 Ora, ciò che l’avvento del personaggio dell’imprenditore provoca nel racconto non si traduce in una ri essione sul ruolo del mondo degli a ari nella politica, benché il fenomeno possegga tratti nitidi nel segmento narrativo in questione. Piuttosto, l’attenzione ricade sulla trasformazione dell’amicizia in oggetto acquisibile, aspetto che rimanda alla merci cazione del corpo femminile che anima le immagini di Loro e che identi ca una speci cità dell’Italia contemporanea. In tal senso, secondo la prospettiva di Sorrentino, la “solitudine” già presente negli anni Ottanta degenera in un sentimento di “abbandono”, seguendo di pari passo la graduale scomparsa della politica e, al contempo, provocando come conseguenza la commercializzazione dei rapporti umani. D’altra parte, non saremo sorpresi nel constatare che sia il personaggio di Fabio in Hanno tutti ragione che Berlusconi in Loro sono legati a personalità appartenenti al mondo della musica nei confronti delle quali ngono un’apparente complicità, benché il primo come il secondo nascondano a stento il freddo rapporto contrattuale su cui si fondano tali amicizie: Fabio tenta invano di comprare la simpatia di Pagoda, laddove Berlusconi regala a sua moglie una serenata privata cantata da Fabio Concato,

servendosi parallelamente di Mariano Apicella come menestrello personale662. L’Italia che Pagoda impara progressivamente a conoscere dopo l’esilio in Brasile risente già degli e etti del berlusconismo e, benché il nome di Berlusconi non venga menzionato, il contesto in cui si svolge la vicenda e una frase pronunciata dal personaggio di Gegè Raja sembrano riferirsi ad alcuni scandali in cui è coinvolto l’ex Presidente del Consiglio, nonché al ritratto che Sorrentino ne farà in Loro663. Non saremo sorpresi, allora, nel vedere emergere una nuova gura, quella del cosiddetto “ristrutturatore di unghie”, ruolo assegnato a un certo Tonino Paziente. Inizialmente presentato come un “infaticabile procuratore di esseri umani femminili per l’imperatore Fabio”, in maniera simile al personaggio di Morra-Tarantini in Loro, Paziente è colui che frequenta ambienti frivoli, sforzandosi di essere accomodante con i mondani per mantenere una vasta rete di conoscenze, attaccando o difendendo una celebrità rispetto alla moda del momento664. Ora, è interessante notare che, a dispetto delle attività in cui è impegnato, pur occupando una funzione no ad allora estranea alle conoscenze della voce narrante, Paziente non viene a atto descritto come un personaggio negativo ma come un uomo particolarmente perspicace, come colui che, con il proprio parlare, “sintetizz[a] in un compendio preciso, […] tutto ciò che c’[è] da sapere sull’ombelico sporco di questo paese, sulla capitale di questa Italia maledetta”665. Non è un caso che sia una frase pronunciata dallo stesso “ristrutturatore di unghie” a dare il titolo al romanzo666. Al contempo, è altrettanto curioso rilevare come la nuova gura del prosseneta mondano entri in scena nel momento stesso in cui si fa da parte l’anziano scrittore Gegè Raja, “snocciolatore di concetti e di emozioni”667. Alternando la descrizione dei due personaggi nello stesso capitolo, la voce narrante nisce per determinare un paradossale punto di incontro tra di loro, nella misura in cui, secondo il narratore, entrambi forniscono una lettura esatta della

contemporaneità, benché il più anziano abbia deciso di de larsi, diversamente dal più giovane. Basti pensare alle parole che Raja utilizza per parlare dell’in uenza della nuova classe politica sull’Italia degli anni Duemila: L’appiattimento del pensiero autonomo sulle soglie dello zerbino di casa del nostro proprietario massimo ci ha un po’ azzoppati […]. L’uomo in questione ha reso precario il paese, facendoci obliterare gli ultimi scampoli di dignità. E ogni passo verso la precarietà è un ra orzamento della schiavitù mentale e materiale se non hai dei contrappesi di generosità democratica.668 Figura che tornerà nel secondo capitolo di Tony Pagoda e i suoi amici, Tonino Paziente è, invece, l’uomo che ha colto la predisposizione del mondo attuale nel seguire il modello della rivista di pettegolezzi. Privo di un vero e proprio “ruolo”, il prosseneta mondano è colui che svolge la mera “funzione” di “collante del piacere ttizio e frivolo”, aspetto che, in n dei conti, gli si ritorce contro669. Gegè Raja è, invece, l’intellettuale che denuncia i mali del “nuovo millennio”: “l’anoressia della parola” dettata dall’uso smodato del termine “ go”, l’incapacità dell’ironia e, soprattutto, in maniera simile a quanto osservato in Loro, la “sempli cazione del desiderio” amoroso ormai rivolto al solo obiettivo dell’appagamento, il tutto agevolato dalla possibilità sempre più generalizzata di commercializzare il sesso670. Tuttavia, il problema che il narratore pone attraverso Raja non attiene esclusivamente agli aspetti deleteri del nuovo mondo, ma all’impossibilità di farsi udire da quest’ultimo, il che ci spinge a guardare più da vicino la questione del rapporto tra oratore e pubblico, problematica che coinvolge la ri essione sorrentiniana sulla televisione. III.3.c Fellini, Scorsese e la televisione: lo sguardo sulla contemporaneità in Sorrentino In un certo qual modo, se, come dice Pagoda, Tonino Paziente ha conservato una “funzione” ma è sprovvisto di

“ruolo”, Gegè Raja custodisce il proprio “ruolo” di intellettuale senza che gli venga attribuita nessuna “funzione” precisa. In realtà, il successo del primo e il fallimento del secondo non dipendono dalle responsabilità dell’oratore ma dalle esigenze del pubblico. È ciò che succede nelle battute nali del romanzo quando il narratore e alcuni suoi conoscenti ascoltano un lungo monologo di Raja. Qui, lo scrittore riassume le problematiche delineatesi nell’ultima parte del racconto e che, in seguito, verranno riproposte nell’atmosfera decadente de La grande bellezza e in quella antipolitica di Loro: il godimento vuoto, la di coltà di raggiungere l’amore, la scon tta della parola dinanzi all’appagamento materiale671. Ora, al di là del tono risoluto delle parole impiegate, è interessante notare che il monologo dello scrittore identi ca una zona di fragilità nella vecchiaia. Quest’ultima non va intesa come terrore della morte, ma come sfasamento temporale rispetto alla sensibilità della giovinezza. Non a caso, l’aggettivo “vecchio” torna a più riprese nel discorso di Raja, testimonianza del timore sincero di un monologante che teme di essere sottovalutato: “commenterete: Gegè si è fatto vecchio. Non sa quello che dice e comunque quello che dice ce lo ha detto la settimana scorsa. L’arteriosclerosi…aggiungerà sospirante qualchedun altro”. L’impossibilità per i monologanti di essere ascoltati dai propri uditori è probabilmente l’aspetto più profondo del discorso di Raja o, quantomeno, la novità rispetto a ciò che Pagoda aveva autonomamente descritto dopo il proprio soggiorno in Brasile. Non a caso, l’unica persona che reagisce alle parole di Raja è il narratore stesso, colui che ha vissuto lontano dall’Italia per vent’anni672. Senza idealizzare in alcun modo l’immagine dell’Italia al momento della propria partenza in Brasile, Pagoda mette adesso in evidenza una condizione umana e sociale inedita che esprime con chiarezza il cambio di epoca rispetto agli anni Ottanta. Ora, ciò che mette in rilievo Raja nel suo ultimo discorso è proprio l’estinzione del monologo come

modalità della parola per via dell’assenza di un pubblico a cui rivolgerlo. Nella posizione elaborata dallo scrittore di Hanno tutti ragione risuonano, dunque, le parole che il narratore aveva impiegato per descrivere il passaggio dagli anni Ottanta agli anni Duemila, quando parlava del mutamento della “solitudine” in “abbandono”. Nell’ultimo capitolo del romanzo, siamo in pieno berlusconismo e personaggi cinici come Pagoda e Raja non hanno modi cato la loro espressione sprezzante, sibbene è la parola stessa ad aver perso valore, dal momento che i monologanti sono posti dinanzi a uditori irrimediabilmente insensibili. È in tal senso che il discorso di Raja si sposta dalla prospettiva del palcoscenico a quella della platea, benché i suoi ospiti rimangano impassibili, a eccezione di Pagoda. L’equipollenza che il narratore crea tra, da un lato, il contenuto del monologo di Raja e, dall’altro, la mancata reazione di coloro che lo ascoltano rimanda alla complessa questione della televisione. Lo scontro riguarda la presenza di una parola teatrale e di un’immagine cinematogra ca che zampillano all’interno di una moltitudine di visioni banali, adottando la stessa temporalità attribuita al bello ne La grande bellezza: “[c]ome è brusco tornare alla trivialità della quotidianità dopo aver assistito al teatro di Gegè, al cinema di Gegè. È per questo che non vado mai al cinema. Quando lo spettacolo nisce, fuori c’è la caducità della normalità”673. Da un lato, gli anni Duemila fanno a orare il problema della sensibilità del pubblico; d’altro canto, però, lo stesso contesto fa emergere quesiti prettamente estetici: quale immagine viene generata dal rapporto tra il monologo dell’anziano scrittore e il mondo circostante che lo sottovaluta? In che misura si può parlare, come fa Pagoda, di teatro e di cinema per il discorso di Raja? In realtà, ciò che Sorrentino costruisce nel passo in questione di Hanno tutti ragione non è soltanto l’idea, sicuramente ravvisabile, dell’inconciliabilità tra le parole dell’anziano scrittore e la banalità del pubblico, ma anche, contemporaneamente, quella dello scontro tra entrambe le componenti come

immagine autonoma. Se si prendesse in considerazione soltanto la prima delle due, la conclusione del romanzo suggerirebbe una vittoria mancata o, quantomeno, marginale della letteratura sulle immagini del mondo, ipotesi avallata dall’osservazione secondo cui il discorso di Raja si spegne con la sua morte senza che nessuno lo abbia realmente compreso. Tuttavia, il narratore è presente e ne coglie la rilevanza: la potenziale scon tta della parola viene ribaltata, sicché a diventare realmente teatrale o cinematogra co nella scena in questione è lo scontro stesso. Il contrasto tra la ri essione di Raja e “l’anoressia della parola” rimproverata alla contemporaneità è simultaneamente l’ammissione di una scon tta e la nascita di un trionfo. L’impossibilità per la letteratura di continuare a esistere nella società del godimento vuoto a erma, al contempo, la nascita di una nuova scrittura generata dalla collisione tra le due componenti contrastanti. Perciò, il monologo, rispetto a cui Pagoda non distingue tra teatro e cinema, pur dichiarandosi in n di vita, viene rinnovato in una nuova immagine, probabilmente attribuibile alle suddette arti e sicuramente assegnabile alla prosa. Pertanto, il trionfo della parola non è de nitivamente inghiottito dalla banalità del mondo, da quel pubblico ereditato dal piccolo schermo e ormai indi erente alla voce teatrale, ma viene ravvivato in una variante contrastata che fa emergere un’immagine e un discorso inediti, tanto che, se Raja muore, il contrasto provocato dal suo monologo sopravvivere comunque. Quella dell’ultimo capitolo di Hanno tutti ragione è un’idea che ricorda l’immagine di Ginger e Fred di Fellini. Nel confronto tra gli anziani ballerini di tiptap e il talent show televisivo, ciò che a ora è la collusione tra lo spettacolo e la televisione, immagine costruita in risposta all’impossibile vittoria del primo sulla seconda e presentata nel segno dell’indebolimento. Così come, in Hanno tutti ragione, Raja muore dopo il suo lungo

monologo, il numero che Ginger e Fred compiono di fronte alle telecamere è uno spettacolo estenuante: dopo il blackout che interrompe l’esercizio dei due protagonisti, Fred cade, si rialza e nisce l’esibizione a corto di ato, mentre Ginger sorride durante tutta la danza ma piange dietro le quinte674. Ciononostante, a dispetto della cornice televisiva che ne modi ca il valore, lo spettacolo si svolge comunque e, nel preciso istante in cui le luci si riaccendono, lo stesso personaggio “esangue, dal viso raggrinzito e […] sull’orlo dell’infarto” torna a essere il “Principe Azzurro, agile, a ascinante […] che prende il volo […] sulle ali della danza”. Il gesto con il quale Fellini, attraverso i suoi ballerini di tiptap, “rinuncia a rinunciare”675, decreta uno strano trionfo del cinema contro la televisione. Si tratta di una “vittoria contrastata”, nonché contrariata (“contrariée”), per riprendere uno spunto di Rancière riportato in precedenza676, che rammenta il valore del monologo di Gegè Raja in Hanno tutti ragione: a nché l’immagine cinematogra ca (Fellini) o la scrittura in prosa (Sorrentino) sopravvivano al confronto con la televisione e con la banale volgarità del mondo, esse devono rendere manifesto lo scontro stesso. A partire da questi presupposti, l’immagine felliniana dello spettacolo può emergere dinanzi alle telecamere del piccolo schermo, così come un monologo composto da frasi rivelatorie e da paragoni inverosimili, formula narrativa che torna in tutti i lavori in prosa di Sorrentino, può a orare dalle ceneri di un mondo che ha sostituito l’espressione con il godimento. Nei suoi lm e nei suoi romanzi Sorrentino non denuncia propriamente gli e etti del piccolo schermo ma, osservando più attentamente l’Italia contemporanea, lavora su una degenerazione dell’era berlusconiana che ha coinvolto anche l’immagine televisiva. L’involuzione in questione segue lo stesso schema della vacuità del godimento, a condizione di sostituire l’appagamento carnale con il bisogno ingiusti cato di notorietà. Nella prima fase della lmogra a di Sorrentino, i personaggi di Geremia e

Rosalba ne L’amico di famiglia posseggono manifestamente i tratti sici della televisione del nuovo millennio. A tal proposito, Fabio Zanello collega bene la scelta attoriale del regista con il modo in cui il corpo viene costruito per le suddette gure: In particolare, vorremmo so ermarci su questi segni del cinema basso, [Giacomo] Rizzo e [Laura] Chiatti appunto, che ra orzano la tesi di un cinema basato sulla tematizzazione dei corpi in agonia. Lavorando pertanto sui due protagonisti, il regista ha il merito di dialettizzare l’opposizione tra la bellezza esteriore e da algida ninfa di Rosalba e la bruttezza esteriore/interiore di Geremia, moderno Tersite. Anzi, il corpo, soprattutto per la Chiatti, è una frontiera interna al personaggio, in quanto la sua avvenenza nasconde i caratteri del cinismo, del calcolo, della spregiudicatezza, della bassezza morale e dell’arrivismo, visto che, come molte giovani donne dell’era berlusconiana, vuole diventare una star televisiva, magari tramite il veicolo promozionale del reality show.677 Non solo, come sottolinea Zanello, il personaggio di Rosalba incarna il sogno del successo televisivo, anticipando la maniera in cui le soubrette di Loro ambiscono una parte nelle ction di Mediaset, ma la coppia formata dall’usuraio e da Miss Agro Pontino rimanda a un’ulteriore immagine della contemporaneità presente in Hanno tutti ragione e, ancora una volta, in Loro: quella dell’uomo facoltoso e sgraziato accompagnato da una donna giovane e seducente. Se, come sottolinea Zanello, i protagonisti de L’amico di famiglia devono molto all’in uenza della televisione e all’era berlusconiana, la strana coppia di Sorrentino ci invita a guardare più da vicino due personaggi di Scorsese che rimandano direttamente ai mali del piccolo schermo. In The king of comedy, Rupert Pupkin è l’aspirante umorista che non riesce a far carriera nel mondo della televisione, a dispetto dei vari provini inviati al proprio idolo Jerry

Langford. La comicità di Pupkin non deriva dalle battute che prepara meticolosamente a casa sua, trasformando la propria camera da letto nel surrogato di uno studio televisivo con tanto di gigantogra e dei suoi presentatori preferiti, bensì dagli sketch che genera suo malgrado. Il suo cognome è quasi sempre storpiato e, dopo il rapimento di Langford, i poliziotti lo confondono con un bu o nome di scena678. Non è un caso che la maggior parte delle battute elaborate dal protagonista, inizialmente presentate in una scena mentale poi recitate in televisione, siano profondamente autoironiche679. La presenza del procedimento in questione è poco sorprendente, nella misura in cui rientra nella logica fondamentale del lm secondo cui Pupkin incarna il ruolo del comico nella vita reale, confondendo il mondo e l’immagine del piccolo schermo. In mancanza di un riconoscimento da parte dell’ambiente televisivo, il protagonista decide dunque di trasferire la televisione nella quotidianità. Basti pensare alla maniera in cui reitera i medesimi gesti che il suo idolo impiega monologando davanti alle telecamere, come nella scena in cui saluta la donna di cui è innamorato (Rita) dopo averla accompagnata a casa680. All’intromissione della televisione nella realtà replica l’immagine contraria che vede il vero beniamino del pubblico (Langford) incapace di dissociarsi dal proprio ruolo di umorista, facendosi prima lodare poi insultare da un’ammiratrice incontrata per strada, reo di aver ri utato di parlare al telefono con il nipote di costei681. A completare la coppia dei personaggi stregati dal piccolo schermo è Masha, ammiratrice fanatica di Langford che partecipa al rapimento di quest’ultimo con Pupkin, mettendo, poi, in scena una falsa cena romantica con il proprio idolo. Quanto a Pupkin, una scena in particolare ci mostra un’a nità con il Berlusconi di Sorrentino. Nella sequenza in cui si reca abusivamente a casa di Langford in compagnia di Rita, il protagonista parla del proprio umorista prediletto come se lo conoscesse realmente, inventando aneddoti sulle foto di

famiglia esposte in salotto, rivolgendosi poi allo stesso Langford come se fosse un suo amico682. Infatti, Pupkin non è un vero e proprio impostore, almeno non secondo l’accezione degli in ltrati di The departed ai quali è inassimilabile. Si tratta, invece, di un impostore al quadrato, un falso imbroglione che non inganna nessuno al di fuori di se stesso. Così, evitando la gura talora tragica talora comica del ciarlatano in favore della variante tragicomica del mitomane, Scorsese sposta il centro dell’immagine dal personaggio alla malattia da cui è a etto: The king of comedy non mostra esclusivamente l’umorista mediocre che nge nella vita reale, ma fa luce sul disturbo provocato dallo schermo televisivo. È per questo che nella scena citata poc’anzi, Pupkin ritrova talvolta un contatto con la realtà chiedendo a Langford di concedergli un provino o implorandolo di accettarlo nel proprio spettacolo. Gli sporadici momenti di realismo a ancano la più generale tendenza alla mitomania mettendone in evidenza la portata incontrollabile e, dunque, patologica. Quella di The king of comedy è un’immagine prelevata dalla televisione e costruita come un male autentico il cui e etto prende il nome di autoinganno. La regressione dell’impostore in una gura più ingenua e, al contempo, a etta da una malattia reale ci ricorda la riduzione apolitica che Sorrentino impone a Berlusconi. Lo stesso dicasi per le aspiranti vallette che sognano di diventare famose ma che, in n dei conti, conoscono un successo televisivo e mero, nonché una seconda fama più duratura ma controproducente, poiché legata alla cronaca scandalistica. Parallelamente, lo stesso Berlusconi è coinvolto da una simile illusione quando cerca giovani corpi femminili ignorando gli e etti del tempo, dirigendosi a sua volta verso una forma di godimento inconsistente, mai realmente compiuto e profondamente fallace. In n dei conti, “Lui” e “Loro” non so rono, forse, dello stesso male?683 S orando il paradosso cronologico che fa di Berlusconi la prima vittima del berlusconismo, Sorrentino modi ca l’immagine

dell’impostore plasmandola sul modello del credulone inguaribile mediante un personaggio paragonabile al Pupkin di Scorsese. È dunque sull’inganno che il protagonista subisce contro la propria volontà che ci sembra lecito determinare un punto di contatto tra Loro e The king of comedy. III.4. Il regno dell’illusione III.4.a L’illusione onirica e la realtà: la disgiunzione in Sorrentino La ri essione elaborata nella parte precedente del nostro lavoro sulla gura di Berlusconi ci ha condotti alla problematica dell’inganno, questione rispetto alla quale è stato opportuno sottolineare l’in uenza di The king of comedy di Scorsese. La questione dell’inganno è, dunque, emersa simultaneamente agli interrogativi inerenti alla maniera in cui l’immagine e la prosa di Sorrentino parlano dell’Italia contemporanea. Adesso, cogliendo lo spunto sviluppato poc’anzi, ci sembra opportuno approfondire la tematica dell’illusione, discorso che completeremo nel frammento conclusivo del nostro studio interrogandoci sulla presenza del falso. Partiremo con una semplice osservazione per la quale non tarderemo a fornire esempi concreti e che possiamo subito enunciare come segue: in Sorrentino, la dimensione onirica è perfettamente distinguibile da quella reale, sicché, quando un personaggio dà vita a una visione mentale, quest’ultima viene interrotta nel momento in cui lo stesso sognatore riapre gli occhi. In Youth, la sequenza del videoclip musicale, che si rivela essere un incubo di Lena, viene conclusa quando la donna si sveglia di sobbalzo nel cuore della notte684. Lo stesso dicasi per la sequenza inaugurale di The young pope che ritrae Lenny Belardo con un’immagine tenebrosa conclusa dal suono di una sveglia la quale, un attimo dopo, ci porta nell’alloggio del futuro papa685. Analogamente, possiamo rammentare la scena de La grande bellezza in cui Jep, disteso sul letto, ssa il

so tto nché quest’ultimo non assume il colore azzurro del mare, fotogramma che ci conduce, un istante dopo, a un ricordo di gioventù del protagonista686. Nel lungometraggio in questione, benché la quotidianità possegga sfumature cromatiche e luminose altresì attribuibili alle sequenze oniriche, seppure i raccordi sonori creino una continuità tra le scene mentali e quelle che sanciscono il ritorno alla realtà687, le due dimensioni rimangono perfettamente disgiunte. Al contrario, come è stato già rilevato, il sogno e la realtà tendono sempre più a confondersi in Fellini, con Otto e mezzo chiamato a fungere da spartiacque nella lmogra a del cineasta. Non a caso, nell’arco dello stesso lm, passiamo dagli incubi iniziali da cui, benché palesemente turbato, Guido Anselmi si risveglia a una lunga sequenza che porta, senza transizione, dall’apparizione di Claudia al girotondo nale. Nella fase successiva della lmogra a del regista di Rimini, la prima sovrapposizione tra il sogno e la realtà lascia il posto a una seconda che coinvolge la nzione e il documentario. Precedentemente, leggendo la descrizione dell’Italia berlusconiana da parte di Tony Pagoda, abbiamo potuto osservare come l’abbandono a orasse in corrispondenza della perdita di senso, ciò che il personaggio di Gegè Raja sintetizza con la consonanza tra i termini di “ go” e “ ga” esempli cazioni della povertà del linguaggio e del bisogno sfrenato di godimento688. Qualche anno dopo Hanno tutti ragione e Tony Pagoda e i suoi amici, il Berlusconi di Loro sarebbe caduto nella propria trappola, diventando, paradossalmente, vittima illustre del berlusconismo. È secondo queste coordinate che lo sguardo sulla contemporaneità mette in successione l’abbandono e l’illusione. Tuttavia, quest’ultima è una tematica già da tempo famigliare al cineasta partenopeo, come testimonia uno dei suoi primi lavori. Ne La notte lunga, cortometraggio già menzionato a proposito della questione della memoria e della cocaina, i personaggi direttamente legati alla droga sono due: Manolo, il

parrucchiere che sogna di lavorare con le stelle del cinema, e il suo spacciatore strampalato che si improvvisa veggente689. L’unica di erenza tra di loro sta nel fatto che il primo subisce gli e etti della tossicodipendenza nella vita reale e nel sogno, laddove il secondo fa semplicemente parte dello spazio onirico. In realtà, la distanza che separa l’immagine notturna da quella diurna è manifesta, nella misura in cui se nella fantasticheria Manolo compensa l’impotenza erotica con un riavvicinamento a ettuoso e altrettanto sensuale nei confronti della giovane attrice di cui è innamorato, la scena del risveglio dice l’esatto opposto, con una relazione sentimentale ormai prossima alla separazione. Ciò che è interessante osservare in questo lavoro giovanile di Sorrentino non è soltanto lo stereotipo visivo che situa la realtà agli antipodi del sogno, ma la possibilità di distinguere la prima dal secondo a dispetto di un personaggio che, a causa della cocaina, non sa discernere nettamente ciò che ha lasciato nel paesaggio immaginario da quanto ha ritrovato in quello reale. Pertanto, viene a crearsi un contrasto tra il riconoscimento degli e etti della droga nella sequenza notturna e l’impossibilità di dissociarsi dal sogno in quella diurna. Nella prima, Manolo ammette di non riuscire ad andare a letto con l’attrice a causa della cocaina, laddove nella seconda non supera le conseguenze deleterie della droga stessa690. Ora, a nché il sogno possa formulare una soluzione valida per la realtà e, al contempo, la realtà spiegare la ragione della malattia del sogno, è necessario che le due immagini restino disgiunte. Da qui nascono le condizioni per de nire l’illusione, come permanenza nella scena diurna di elementi appartenenti alla sequenza notturna, a patto, però, che la prima venga nettamente distinta dalla seconda. Così, mentre il protagonista rimane vittima dell’inganno della cocaina, la sua danzata può spiegare oggettivamente quanto appena osservato: Manolo non è a atto il parrucchiere preferito dalle attrici cinematogra che e, in aggiunta, il suo salone è sull’orlo

del fallimento, ragion per cui egli fa uso di droghe. L’idea dello svelamento è al centro della breve storia de La notte lunga, sicché, persino all’interno del sogno, è necessario smascherare un altro inganno, quello della pratica tru aldina dello spacciatore-veggente, la cui falsa identità è rivelata da Manolo stesso691. L’illusione risulta una tematica centrale ne La notte lunga, alla stessa stregua della sensibilizzazione contro l’uso di droghe, tanto da conoscere una certa eco nei lavori successivi del regista. Come sottolinea Vigni, il risveglio riporta Manolo in una “vita ambigua, […] in cui è sempre in agguato il momento della caduta: sica e reale, […] professionale ed esistenziale, come quella di tutti i protagonisti dei lm a venire di Sorrentino”692. In linea con i lavori seguenti del cineasta, La notte lunga promuove l’idea secondo cui l’illusione può essere trattata soltanto in opposizione a una scena autentica che la rivela come falsa. Nel momento stesso in cui l’inganno è smascherato, l’immagine viene concepita come un “regime organico”, struttura che Deleuze assegna alle “immagini indirette del tempo” fondate, fra gli altri, sul principio seguente: “[u]n intero lm potrà essere fatto di immagini-sogno, queste manterranno la propria capacità di sganciamento e di metamorfosi perpetui che le oppone alle immaginireale”693. D’altra parte, nello stesso anno de La notte lunga, Sorrentino a da a una sequenza de L’uomo in più il compito di annunciare ed esempli care uno schema visivo ricorrente nel proprio cinema. All’apice del successo personale, un istante prima di scoprirne la consistenza e mera, Tony Pisapia fa un’entrata trionfante in discoteca sulle note di una canzone il cui ritornello recita: “just an illusion”694. III.4.b L’illusione senza contrasto: Fellini Agli antipodi del “regime organico”, Deleuze de nisce quello “cristallino” includendovi anche i lavori di Fellini, specie a partire da Otto e mezzo695. Tuttavia, non è a queste immagini che paragoneremo la tendenza

inaugurata da La notte lunga, ma a due lungometraggi di gioventù del cineasta di Rimini in cui l’illusione possiede ancora tratti discernibili. La prima apparizione dell’inganno avviene lontano dai paesaggi onirici, in Luci del varietà. Qui incontriamo un personaggio intrappolato nella propria ingenuità, un uomo che, dopo aver subito gli e etti del miraggio, reitera l’errore alla prima occasione utile. Capocomico di una compagnia teatrale, Checco viene sedotto dal fascino della giovane Liliana per la quale è disposto ad abbandonare tutto, compresa la propria danzata Melina. Go o impostore, il protagonista di Luci del varietà è il bugiardo consapevole di mentire, l’uomo che sa di dover ngere una notorietà che non possiede per conquistare la donna amata e che, in mancanza di carisma, si vede costretto a scendere a patti con quest’ultima chiedendole di passare una notte in sua compagnia696. Ostinato a ignorare l’opportunismo di Liliana, il capocomico fabbrica le proprie illusioni, come nella scena in cui forma una troupe teatrale strampalata con guranti incontrati per caso (un trombettista afroamericano, un pianista sovietico, un pistolero sudamericano e delle ballerine di can-can) con l’obiettivo di convincere la sua giovane musa a restargli accanto. Senza troppe sorprese, quest’ultima lo tradisce per l’ennesima volta partendo con una seconda e più famosa compagnia di spettacoli di varietà697. Checco implora, allora, il perdono di Melina spiegandole di aver compreso i propri sbagli ma, una volta salito in treno con i comici della sua prima troupe, ricade immediatamente nella medesima trappola, lusingando un’altra giovane donna seduta nello stesso vagone698. In maniera meno esplicita di ciò che Sorrentino compie nella scena de L’uomo in più riportata poc’anzi, anche il protagonista di Luci del varietà evoca l’illusione tramite una frase proverbiale, un ritornello più poetico che canoro a cui dà voce declamando un verso de La pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio: “Piove sulle tamerici salmastre ed arse”699,

che seppure non pronunciata nel breve esercizio lirico, rinvia alla conclusione della stessa strofa che presenta esplicitamente la questione dell’inganno700. Primo protagonista felliniano inserito in una struttura circolare, il capocomico di Luci del varietà è anche una gura che non tornerà più nelle storie del regista di Rimini, nella misura in cui il cerchio si rivela un disegno incompleto, come rilevato precedentemente in merito all’aggravamento della situazione iniziale nell’epilogo de Il bidone701. In seguito a questa prima collaborazione con Alberto Lattuada, la tematica dell’illusione torna in Fellini entrando direttamente in contatto con la dimensione immaginaria. Si pensi a Le notti di Cabiria la cui vicenda è scandita da quattro inganni per mano di altrettanti uomini. In primo luogo, nella scena di apertura del lm, la protagonista viene derubata da uno sconosciuto che la spinge in un ume rischiando di provocarne la morte. Sebbene in maniera meno drammatica, l’inganno torna successivamente nella scena del dialogo tra Cabiria e un noto attore, il quale, dopo essersi con dato con la protagonista sulla propria delusione amorosa, la invita a nascondersi in bagno, non appena si accorge che la sua danzata è tornata a casa e ha deciso di perdonarlo702. Le ultime due sfumature del disinganno sono legate rispettivamente al personaggio del mago che ipnotizza Cabiria entrando n troppo intimamente nei suoi pensieri e all’uomo che, ngendo di volerla sposare, le sottrae tutti i suoi risparmi703. L’illusione possiede una prima sfumatura inerente al campo emotivo che sfocia nello svelamento della solitudine e del bisogno di amore, sentimenti verbalizzati da Cabiria durante l’ipnosi, nonché una seconda variazione esclusivamente materiale dovuta alla tru a dell’ultimo uomo. In una forma come nell’altra, l’inganno si traduce in un momento rivelatorio e possiede tratti nitidi, probabilmente perché tiene ancora a distanza lo spazio immaginario. Tuttavia, il lm conosce un cambio di rotta nelle battute nali, segnando una svolta nella lmogra a di Fellini sicché, per dirla come

Amengual, “con Le notti di Cabiria non si parte più; si torna”704. Infatti, nel punto più basso della propria parabola, la protagonista resiste alla tentazione del suicidio pur riconoscendo l’inganno di cui trae le tristi conclusioni. Al contrario, la protagonista di Fellini torna sulla strada percorsa pochi attimi prima no a scoprire uno spazio immaginario. Si tratta di una dimensione no ad allora inedita in cui, diversamente dalle immagini precedenti, l’illusione non è chiamata a intervenire come antitesi della realtà poiché viene a crearsi una nova e sorprendente coalescenza tra la prima e la seconda. Si arriva, dunque, all’ultimo miraggio del lm, un’immagine animata dall’apparizione improvvisa di musicisti e ballerini che riesce a ribaltare la funzione degli inganni anteriori. Nella precedente sequenza della processione della Madonna del Divino Amore, a dispetto della rabbia della protagonista per l’ine cacia delle proprie preghiere, la delusione materiale non aveva impedito al corteo stesso di conservare uno spazio visivo autonomo e di chiudere la scena705. Nel segmento appena menzionato è la festa, la “fascinazione per la religiosità popolare” e 706 “folklorizzazione di pratiche e valori cristiani” ad aggiungere una sfumatura estranea all’immagine a ettiva e materiale della frustrazione di Cabiria. In maniera più complessa, la speci cità della scena immaginaria che conclude il lm sta nel fatto che, in essa, non vi è più traccia di un disinganno rivolto verso il declino (dolore a ettivo, perdita pecuniaria), nella misura in cui l’epilogo de Le notti di Cabiria permette la riunione con la vita, a condizione che la vita stessa sia intesa come un’unità bicorporea emersa in corrispondenza della morte707. Benché la questione dell’inganno sia al centro della storia di Cabiria, uno sguardo globale sull’opera di Fellini ci permette di a ermare senza indugi che il regista di Rimini non punta il dito contro gli illusionisti. Al contrario, egli costruisce un’immagine che rende caduca l’opposizione tra miraggio e realtà, inaugurando tale scelta visiva proprio con la scena di chiusura de Le notti di

Cabiria. Così, trovando nell’immaginario il punto di contatto con l’inganno, situandosi, cioè, all’interno dell’illusione stessa, Fellini scopre che niente può contrastarla, donde la possibilità per l’immagine di non opporre la vita e la morte. È qui che risiede una discontinuità con il cinema di Sorrentino, il che ci permette di aggiungere un tassello al discorso precedentemente elaborato in merito allo slancio vitale. Distinguendo illusione e verità, il regista partenopeo opera indirettamente una scelta tra due strade inconciliabili che determinano altrettante soluzioni possibili per le sue storie: da un lato, il declino inevitabile che sancisce il trionfo dell’inganno (La notte lunga, Il divo, Loro) e, dall’altro, la spinta liberatoria che permette il ritorno della vita e della realtà (Le conseguenze dell’amore708, La grande bellezza, Youth). III.4.c L’illusione ottica: Scorsese La chiusura de Le notti di Cabiria presenta una scena attribuibile alla sfera dell’immaginario senza, tuttavia, farla apparire come un miraggio, nella misura in cui Fellini esclude l’opposizione binaria tra sogno e realtà. Rispetto a questo punto, abbiamo rilevato una discontinuità con la de nizione dell’illusione in Sorrentino, individuando una tendenza presente sin da La notte lunga. Osserviamo, invece, una maggiore a nità tra l’immagine del regista partenopeo e un segmento di New York, New York. Nella parte nale del musical di Scorsese, dopo la separazione dei due personaggi principali, una lunga sequenza musicale ci racconta il successo di Francine. Quest’ultima si trova in uno studio discogra co dove è intenta a registrare una canzone: la macchina da presa si avvicina al suo volto riducendo gradualmente il campo visivo producendo un falso raccordo (iris), prima di accendere i ri ettori e annunciare un lm la cui vedette è proprio la protagonista di Scorsese. Il lungometraggio ttizio si intitola Happy Endings e racconta una vicenda

molto simile a quella vissuta dai personaggi di New York, New York. Peggy e Donald formano una coppia nella vita e sul palcoscenico no alla partenza del secondo; questi ritrova Peggy successivamente, ma la scena del ritorno si rivela un semplice miraggio onirico; in ne, però, è il sogno stesso a diventare realtà, rispettando quanto suggerito dal titolo del musical ttizio. Tuttavia, il lieto ne viene subito smascherato come procedimento fasullo e limitato al meta- lm in cui recita Francine. Agli antipodi di quest’ultimo si situa la vicenda degli amanti di New York, New York, sicché, una volta conclusasi la parentesi melodica di Happy Endings, ritroviamo il protagonista maschile di Scorsese (Jimmy) in una sala 709 cinematogra ca . La lunga sequenza che aveva messo in successione colpi di scena e spettacoli ttizi viene svelata nella propria arti cialità, tanto da permettere alla realtà di a ermare subito il contrario. La vicenda di New York, New York viene, dunque, privata del proprio lieto ne, nella misura in cui il tentato riavvicinamento tra i due protagonisti non porta a nessun risultato concreto: dopo aver assistito a un suo concerto, Jimmy invita Francine a cena, ma quest’ultima non si presenta all’appuntamento710. Lungi dal ricalcare esclusivamente i tratti dello stereotipo visivo che oppone la vita ai sogni e la carriera all’amore, Scorsese compie un’operazione articolata per la quale è necessario distinguere ben due volte la verità dall’immaginario. In primo luogo, egli crea un contrasto tra il personaggio interpretato da Francine in Happy Endings (Peggy) e la delusione amorosa che la cantante di New York, New York subisce a causa di Jimmy: l’illusione è data dal risveglio nella vita reale, diversamente dalle tinte oniriche del meta- lm. D’altro canto, la sequenza melodica perde l’iniziale carattere prettamente visionario con cui aveva confuso e sovrapposto le gure di Francine e Peggy, rivelandosi, in n dei conti, un artefatto cinematogra co che Jimmy osserva sul grande schermo di una sala di proiezione. In de nitiva, la possibilità per la

storia di Happy Endings di sottrarre il lieto ne alla vicenda di New York, New York colloca il meta- lm in una sfera puramente chimerica. Parallelamente, il segmento immaginario viene ridimensionato e collocato nuovamente rispetto alla narrazione principale che prosegue tramite il personaggio di Jimmy, sottolineando come le immagini precedenti non fossero altro che un’illusione ottica. È in questa distinzione tra una prima variante autentica e una seconda ingannevole che l’immagine di New York, New York determina un’assonanza con il trattamento dell’illusione in Sorrentino. Difatti, al di là delle visioni immaginarie e degli spettacoli ttizi, il lm di Scorsese sancisce un principio valido da un capo all’altro della fabula secondo cui tutti gli sforzi diventano apparenti o e meri. Il successo artistico ne è direttamente coinvolto nella misura in cui né Jimmy né Francine godono pienamente della loro notorietà. Entrambi rimangono nostalgicamente legati al brano con cui avevano avuto successo insieme – per l’appunto New York, New York – e che adesso eseguono separatamente711 in due versioni che mostrano come la distanza che separa inesorabilmente i due amanti sia ravvisabile anche nelle due maniere in cui essi concepiscono il jazz712. Alla luce di quanto rilevato per i tre cineasti, possiamo riprendere una considerazione precedentemente formulata in merito a Il divo, con l’obiettivo di delineare con più chiarezza il funzionamento dell’illusione in Sorrentino. Osservando la sequenza del monologo di Andreotti, si diceva come l’immagine fosse falsa per due motivi: da un lato, la scena viene teatralizzata e collocata in uno spazio dissociato dallo sviluppo narrativo; dall’altro, udiamo l’uomo di Stato pronunciare un fantomatico progetto divino in cui il male servirebbe a garantire il bene713. Adesso, siamo in grado di a ermare che gli arti ci de Il divo si reggono sulla presenza di un’altra immagine che illustra e a erma il vero. Si tratta

della seconda tendenza visiva del lm che coincide con il tono accusatorio di alcuni segmenti protesi verso lo svelamento della collusione tra politica e ma a, come rilevato anteriormente. In tal senso, senza contraddire quanto già osservato, ci sembra importante sottolineare che la doppia struttura visiva del lungometraggio non permette soltanto di riconsiderare la perversità del potere rispetto a un personaggio fragile o ambiguo, né esclusivamente di inserire le malefatte politiche in un progetto fondato sulla privazione, come riscontrato nel primo e nel secondo capitolo del nostro lavoro. In aggiunta alla determinazione del personaggio (capitolo I) e al di là della predilezione per una struttura aperta o chiusa (capitolo II), gli stessi fotogrammi de Il divo ci dicono qualcosa su come il lm si rapporta a una realtà politica speci ca. È nel gesto che permette all’immagine di straripare nel tempo della storia che si iscrive la necessaria disgiunzione tra realtà e miraggio ne Il divo. Come in New York, New York, il procedimento sorrentiniano si regge sull’illusione ottica: in primo luogo, il regista propone una lettura delle dinamiche della politica andreottiana seguendo, tra le altre, la pista dell’arti cio visivo; ciononostante continua ad a ermare la necessità per la realtà di restare nel campo visivo, suggerendo come la morale andreottiana sia falsa e conservando una seconda variante visiva che a erma il vero denunciando i crimini dell’uomo di Stato. Quelli di Andreotti non sono altro che miraggi, fantasmi chiamati a intervenire e a scomparire un attimo dopo essersi materializzati dinanzi ai suoi occhi, come il gatto che simboleggia il male714 e lo spettro di Aldo Moro. Come vedremo successivamente, la visione dell’Italia berlusconiana a cui Sorrentino dà esplicitamente forma in Loro produce un trattamento disparato dell’arti cio e dell’illusione. Quanto alle in uenze di Scorsese e Fellini, possiamo a ermare che la maniera in cui la sequenza meta- lmica di New York, New York riconduce alla narrazione principale determina un punto di contatto con

la tendenza sorrentiniana a disgiungere il sogno dal risveglio (La notte lunga, La grande bellezza, Youth, The young pope) e l’illusione dalla verità (Il divo). La situazione è ben diversa in Fellini in cui l’immaginario è privo di qualsiasi congiunzione e qualsiasi contrasto con il vero, nella misura in cui tra l’uno e l’altro non vige che un principio di coalescenza. Pertanto, è nel gesto tipicamente felliniano che rende l’illusione indistinguibile dalla realtà che possiamo rintracciare un carattere che il cinema di Sorrentino non possiede né sembra voler elaborare. Tuttavia, tale tendenza cinematogra ca viene parzialmente attenuata da due aspetti su cui ci so ermeremo nel punto seguente del nostro lavoro. Il primo attiene al ri uto di opporre un’immagine ereditata dalla televisione a un’eventuale visione autentica del mondo, laddove il secondo riguarda la ri essione sul mistero e sul trucco che emerge in alcuni lavori del regista partenopeo. III.5. L’arti cio III.5.a Lo sguardo: reciprocità arti ciale In precedenza, abbiamo osservato come, a dispetto della ricorrenza di immagini frammentarie, l’istante non sfuggisse allo schema dell’ordine nei lavori di Sorrentino715. Al contrario, la temporalità del fotogramma contribuisce a un progetto totalizzante che coincide con la più tradizionale evoluzione narrativa e con la descrizione degli individui che vi partecipano. Ora, se è vero che, nel momento stesso in cui segue le prerogative dell’ordine, il frammento de nisce una falsa scomposizione visiva, Sorrentino compie un secondo gesto in grado di sfuggire maggiormente alla linearità. Tale cambio di rotta è ravvisabile sia nella costruzione della reciprocità ottica, sia nella maniera in cui la macchina da presa esplora il campo visivo. In entrambi i casi, il procedimento adottato dal regista partenopeo è segnato dall’eccesso, termine che avremo occasione di precisare nelle pagine seguenti. In seguito, completeremo il discorso elaborato

anteriormente in merito all’illusione so ermandoci su alcuni fotogrammi che risentono dell’in uenza del falso, concludendo con i motivi del trucco e del mistero. In tal senso, prima di addentrarci nelle suddette problematiche, conviene rammentare come la questione dell’arti cio attenga a una lettura che Sorrentino dà dell’Italia attuale, osservazione con cui abbiamo concluso lo studio su Loro elaborato nella terza sezione del terzo capitolo. Spesso, in Sorrentino, lo sguardo del soggetto e i movimenti della macchina da presa sono coinvolti in una serie di scelte visive che contribuiscono a creare e etti arti ciosi. In un certo qual modo, le speci cità della sfera ottica e del gesto motorio rivelano l’inclinazione sorrentiniana a costruire l’immagine tramite l’eccesso. È secondo questa tendenza nel ri utare schemi percettivi lineari che, per La grande bellezza, Mori opta per un approccio teorico di matrice lacaniana, scaturito da un contrasto con le scienze cognitive e con l’idea secondo cui “lo sguardo” è quel “veicolo attraverso cui il soggetto domina l’oggetto”716. Al contrario, rifacendosi a Lacan e a Merleau-Ponty, Mori mette in evidenza l’importanza del “punto mancante” nel confronto con l’immagine cinematogra ca: Lacan opera quindi un ribaltamento dell’idea ordinaria secondo cui il principio di percezione trarrebbe la sua origine da uno schema in cui vi sono un soggetto attivo, un oggetto passivo e un vettore neutrale e lineare che va dal primo al secondo. Un’inversione dalle profonde implicazioni, poiché ricon gura gli schemi attorno a cui è solitamente pensata la fruizione dell’opera d’arte. […] Diviene quindi possibile de nire lo sguardo oggetto come lacuna, entità negativa, punto in cui il desiderio del soggetto si manifesta in ciò che è visibile.717 Parallelamente, il critico sottolinea come l’idea lacaniana che include la lacuna nel movimento dello sguardo dipenda da una lettura dell’“esperienza tattile” rintracciabile in Merleau-Ponty:

Facendo esplicito riferimento a Il visibile e l’invisibile di Merleau-Ponty, dove si a erma che il cuore della visione è l’intoccabile, [Lacan] paragona infatti lo sguardo a un incavo. Per poter accogliere un oggetto nella propria mano718, è necessario prima prepararla, costruire un incavo che permetta di a errarlo. Questo vuoto intoccabile è ciò che permette di a errare l’oggetto, ma che sparisce in esso una volta che l’operazione è stata portata a termine.719 Nel preludio allo studio delle sequenze lmiche, Mori insiste sull’idea secondo cui l’esperienza visiva dell’opera d’arte non è a atto dettata dalla chiarezza ma viene contraddistinta dalla presenza di zone opache e lacunari. A tale spunto teorico va aggiunta la ri essione estetica che a ora dalle immagini de La grande bellezza. A tal proposito, nel primo capitolo del nostro lavoro, abbiamo sottolineato come il lm sostituisse la necessità verticale della bellezza da cogliere con la processualità orizzontale del senso in costruzione720. Il lavoro sullo sguardo fa parte delle speci cità visive del cinema di Sorrentino e ne costituisce uno dei tratti più spiccatamente estetici. In tal senso, oltre al riferimento lacaniano riportato da Mori, ci sembra opportuno riprendere un appunto di lavoro de Il visibile e l’invisibile di Merleau-Ponty in cui il problema dello sguardo occupa un posto di rilievo. Tenteremo di sciogliere la densità contenutistica della ri essione del losofo francese elucidandone alcuni passaggi. Nella fattispecie, converrà so ermarci sul ruolo del distacco nel rapporto tra il “vedente” e il “visibile”. Secondo MerleauPonty, per cogliere il “vedente” non è su ciente immaginare la prospettiva in cui due occhi osservano qualcosa, ma diventa indispensabile prendere in considerazione una distanza aggiuntiva721. Con ciò il losofo sottolinea che, se si concepisse il vedente come fonte ottica proveniente soltanto dall’interno e in grado di far derivare il mondo esclusivamente dalla propria vista, non si riuscirebbe a coglierne realmente la duplice natura.

Il termine in questione esiste come gura imposta dall’esterno ma, parallelamente, non si de nisce come una semplice entità del mondo, ipotesi che propenderebbe verso “una loso a del di fuori” sancendo il primato dell’oggetto sul soggetto722. La questione sollevata da Merleau-Ponty mette in rilievo l’analogia tra l’“idealismo [del] di dentro” e il “realismo del di fuori”723, nella misura in cui né una né l’altra sembrano poter accogliere la doppia possibilità che, al contrario, è necessaria per determinare colui che osserva come “vedente”. Come procedere allora? L’operazione è delicata poiché una fonte di visione soggettiva può entrare a far parte del campo ottico di un altro osservatore in qualità di oggetto del mondo, come è stato appena rilevato. È per questo che, in Merleau-Ponty, diventa decisiva la presa in considerazione di una distanza. In un certo qual modo, per cogliere il “vedente” è necessario immaginare una situazione in cui due osservatori A e B guardano da due punti di vista non coincidenti. A nché A emerga come “vedente”, è indispensabile avere un punto di vista B per il quale A non è semplicemente dato come oggetto del mondo ma, al contempo, come unità che possiede anche la particolarità di osservare il mondo. In altre parole, la doppia strada intrapresa dal losofo permette di rivolgere uno sguardo agli oggetti sapendo che una parte di questo insieme è formata da qualcuno che osserva e che vi è posto sopra “come un uccello”724. Pertanto, il “vedente” non è né sinonimo della visione che da esso dipende, né un’entità facente parte del paesaggio cosale in qualità di oggetto immerso in esso, bensì un osservatore “aggrappato al mondo”725. L’arti cio della doppia prospettiva illustra con maggiore chiarezza la duplice entrata della struttura chiasmatica: “non c’è coincidenza tra vedente e visibile” ma “ciascuno attinge all’altro, prende o sopravanza sull’altro, si incrocia con l’altro, è in chiasma con l’altro”726. A dispetto delle apparenze, però, questo mutuo accavallamento tra osservatore e osservato non è una prerogativa della vista ma, in linea con l’esempio

menzionato da Mori, l’organo di senso che spiega meglio tale reciprocità sembra essere il tatto. Il dito che tocca si rivela, dunque, il punto in cui il “chiasma” emerge manifestamente: “[e]gualmente il toccante-toccato. Questa struttura esiste in un sol organo – La carne delle mie dita = ogni dito è fenomenico e oggettivo, fuori e dentro del dito in reciprocità, in chiasma, attività e passività accoppiate”727. Ciò che mostra il dito è una “reversibilità”, una “piega fondamentale” che si crea con la scoperta di una “medesimezza” con il mondo: non si tratta della condivisione di un’“idealità” ma di un corpo inteso come “insieme di arti”728. La nozione di “vedente” in Merleau-Ponty ci suggerisce un’a nità con l’immagine di Sorrentino. È interessante, allora, notare che l’analogia in questione non riguarda la scoperta, ne Il visibile e l’invisibile, di una frontalità naturale tra un soggetto che osserva e un oggetto colto dai suoi occhi, benché la reciprocità dello sguardo sia il punto di approdo del “chiasma”. Invece, ciò che ci sembra necessario sottolineare è che la vicendevolezza del rapporto tra “vedente” e “visibile” viene conquistata tramite un elemento che, almeno in apparenza, sembra mettere a repentaglio la mutualità dello sguardo. È in tal senso che Merleau-Ponty sottolinea il necessario intervento di uno scarto tra i due termini: “[i]l vedente che io sono si trova sempre un po’ più lontano del luogo in cui guardo, in cui l’altro guarda”729. Invece dello schema che iscrive in una struttura triangolare e vettoriale il soggetto che osserva, l’oggetto osservato e la visione, in MerleauPonty emerge l’idea secondo cui lo sguardo è composto da un dentro e da un fuori, sicché il congiungimento avviene proprio grazie alla distanza. È su questo punto che possiamo individuare un’a nità con alcune costruzioni ottiche di Sorrentino. In una delle prime scene di Youth, bisogna aspettare il punto culminante del dialogo tra Fred Ballinger e un emissario di Buckingham Palace per scoprire la rete più ampia di sguardi che include anche Jimmy e altri due guranti. Tuttavia, il gioco ottico

conserva una struttura lineare formata dalla successione di osservanti e osservati, sicché la sequenza stessa si conclude con tre personaggi che ssano in lontananza un’altra persona, riconoscendo in quest’ultima la gura di Maradona730. Difatti, se è vero che l’ambientazione a porte chiuse di Youth favorisce la de nizione di uno spazio prevalentemente ottico, come nella scena in cui Mick e Fred scorgono due anziani coniugi che fanno l’amore nel bosco vicino al centro termale731, gli sguardi sono inseriti in uno schema visivo unilaterale formato da un soggetto che guarda e un secondo elemento osservato (un oggetto, una persona o una scena). La continuità con cui la rete di sguardi viene concepita in Youth di erisce da Le conseguenze dell’amore, lm in cui la sfera visiva sembra meglio riallacciarsi alla nozione merleau-pontiana di “vedente”. La costruzione ottica è duplice e la reciprocità risulta possibile soltanto in seguito a una separazione. Una scena in particolare illustra bene tale procedimento: all’inizio del lm, quando i personaggi di Titta e di So a appaiono per la prima volta nel bar dell’hotel, la macchina da presa si dirige verso di loro e li ritrae intenti a osservare qualcuno o qualcosa. Tuttavia, i due protagonisti non si scambiano nessuno sguardo, con il primo che ssa la seconda nel preciso istante in cui quest’ultima rivolge gli occhi altrove. Non vi è nessuna reciprocità diretta fra di loro, ma esclusivamente una frontalità nei confronti della telecamera che li inquadra a più riprese separatamente732, scelta poco sorprendente se si considera che, nella prima parte del lm, Titta si preclude qualsiasi contatto con la giovane donna di cui è segretamente innamorato. Vigni propone una descrizione accurata del lavoro ottico compiuto da Sorrentino nel segmento in questione: Al volto della donna [So a], sul quale si abbozza un sorriso, fa seguito, per stacco, quello di un uomo sulla poltrona (un cliente dell’albergo seduto nella hall), con il cranio glabro, un papillon di tessuto quadrettato e un paio di occhiali bianchi che incorniciano gli occhi lascivi e danno risalto al suo sguardo lubrico, rivolto fuori del

campo verso destra, che sembra collegarsi e rispondere a quello della giovane donna. Sulla cui gura, di nuovo per stacco, l’obiettivo si riporta nell’inquadratura successiva: la ragazza arretra di qualche passo continuando a osservare nella stessa direzione […]. Ancora uno stacco, a introdurre una nuova inquadratura che rivela il vero oggetto dello sguardo della donna: non l’uomo inquadrato precedentemente ma un altro avventore – quel Titta Di Girolamo […] attraverso la cui prospettiva la diegesi trova orientamento […].733 Vigni conclude la descrizione della sequenza osservando che nel “gioco disorientante” creato da Sorrentino “la direzione e l’oggetto degli sguardi, la soggettività della visione [sono sottoposti] a un processo di sdoppiamento che ne sfalda caleidoscopicamente l’univocità”734. Parallelamente, non saremo sorpresi nel constare che la scena in questione introduce un’inquadratura supplementare attraverso la nestra, “cornice all’interno della cornice lmica”, nonché “apertura verso l’esterno, […] varco di comunicazione, ma anche una barriera di allontanamento e di distacco, forma simbolica della separazione tra l’individuo e il mondo”735. In tal senso, benché Vigni abbia ragione nel parlare di “separazione” per l’elemento ricorrente ed emblematico della nestra, notiamo come la distanza non sia esclusivamente sinonimo di disgiunzione ne Le conseguenze dell’amore. Piuttosto, nell’immagine del lm è ravvisabile l’idea merleau-pontiana secondo cui è proprio lo spazio intervallare a de nire la possibilità del “chiasma” tra il “vedente” e il “visibile”. Prima di rivolgerle la parola in una scena successiva, Titta può guardare So a soltanto a condizione di evitare i suoi occhi ed è precisamente su questa condizione che si basa lo schema ottico della scena evocata poc’anzi: ciascuno dei due protagonisti osserva l’altro come componente esterno (oggetto) del campo visivo, ma a nessuno dei due è concessa la possibilità di eliminare la distanza con la persona a cui è rivolto lo sguardo. D’altra parte, So a cerca invano un cenno di

intesa da parte di Titta e quest’ultimo nge di non interessarsi alla barista dell’hotel per poi cercarla con gli occhi non appena si accorge che la giovane donna ha distolto lo sguardo. In de nitiva, entrambi sono costretti a subire l’impossibilità della successione tra un’inquadratura soggettiva e il controcampo corrispondente, agli antipodi della scena di Youth citata poc’anzi. Il lavoro compiuto ne Le conseguenze dell’amore si rivela, in tal senso, più complesso e la sequenza iniziale del lm ne o re una testimonianza signi cativa. In primo luogo, Sorrentino presenta le immagini di ciò che vedono Titta e So a senza, tuttavia, precisare a chi appartenga la visione, come nell’esempio del cliente dal cranio glabro evocato da Vigni (il gurante sembra dipendere dalla prospettiva di So a ma, in realtà, è Titta ad osservarlo mentre la sua voce lo descrive sprezzantemente fuori campo). Si susseguono, dunque, inquadrature sugli sguardi di Titta e di So a, fotogrammi accentuati dalle pose plastiche dei due personaggi. Tuttavia, non è sempre possibile determinare cosa essi osservino esattamente, poiché ci è semplicemente concesso di conoscere l’orientamento del loro volto: Titta ssa la nestra e potrebbe osservare tanto il paesaggio quanto i clienti dell’hotel nel ri esso del vetro, così come So a scorge qualcuno tra i tavoli del bar, facendo probabilmente cadere l’attenzione sullo stesso Titta. Secondo queste modalità, Sorrentino mette una accanto all’altra la distanza tra i punti di vista e la visione reciproca, con quest’ultima che non va intesa come incrocio istantaneo tra due personaggi, bensì come costruzione ottica che permette di de nire un personaggio come osservatore, nonché un osservatore stesso come entità colta da uno sguardo. In altri termini, è soltanto dopo aver frapposto uno scarto tra i soggetti che Sorrentino ne de nisce le intersezioni, suggerendo dove sono rivolti i loro occhi: separando le fonti percettive e inquadrando, al contempo, personaggi che guardano, il cineasta pone le condizioni per sostituire il soggetto padrone della visione con un

“vedente” in grado di collocarsi in una disposizione chiasmatica nei confronti del “visibile”. Pertanto, a nché il “chiasma” risulti possibile, sarà stato necessario servirsi di una scomposizione dello sguardo in cui l’inquadratura soggettiva e il campo-controcampo vengono sostituiti da immagini di personaggi intenti a guardare, per giunta inserite in una successione disorganica. Eppure, a dispetto dell’arti cio, la reciprocità viene comunque ottenuta, nella misura in cui Titta e So a guardano, sono ripresi come soggetti che osservano e vengono osservati a loro volta. Oppure, se vista al contrario, si dirà che la reciprocità viene conquistata proprio tramite l’arti cio, così come campo e controcampo vengono congiunti teatralmente, soltanto dopo aver lasciato in sospeso la seconda delle due inquadrature. III.5.b La macchina da presa e l’eccesso Lo studio della costruzione dello sguardo ne Le conseguenze dell’amore ci permette di a ermare che la reciprocità ottica è un’operazione spesso realizzata attraverso l’espediente della scomposizione tra l’osservatore e la scena osservata. La sequenza precedentemente evocata trova una continuità nella tendenza sorrentiniana a introdurre arti ci visivi in grado di alterare i legami ottici e motori fondati sull’istantaneità e sulla frontalità. Pur assumendo forme plurali, la pratica in questione si basa sull’aggiunta di inquadrature e movimenti di macchina inconsueti che permettono di dissociare la serie di fotogrammi di cui è composto il segmento lmico dalla dicotomia tra la visione soggettiva e la prospettiva oggettiva, pur non interferendo sullo svolgimento narrativo della scena. Così, tramite un supplemento puramente contemplativo o motorio, l’immagine sfugge allo schema binario fondato talora su ciò che vede il personaggio, talora sul personaggio colto dall’esterno, benché queste due angolazioni più tradizionali non scompaiano completamente dai lm di Sorrentino. Si tratta di un’inclinazione ricorrente nel

cinema del regista partenopeo di cui troviamo traccia anche nei suoi lavori più recenti. Si prenda, a titolo d’esempio, la scena del primo episodio di The new pope in cui Voiello e Francesco II (primo ponte ce eletto in seguito al coma di Pio XIII) hanno una discussione animata in merito al voto di povertà tanto difeso dal nuovo papa. I due personaggi sono soli in una stanza vuota e si confrontano uno di fronte all’altro; Francesco II gira attorno al corpo immobile di Voiello mentre la macchina da presa compie un secondo spostamento circolare nel senso opposto736. Pertanto, il dialogo non viene a rontato seguendo la disposizione frontale tra i due personaggi, né propriamente cercando una visione oggettiva che li colga insieme, ma aggiungendo uno spostamento innaturale della macchina da presa al movimento che il personaggio compie nello spazio scenico. Ma già Le conseguenze dell’amore presentava una serie di visioni arti ciali, oltre al già menzionato gioco di sguardi della sequenza inaugurale: Interamente risolta attraverso un complesso movimento di macchina – in una vera e propria acrobazia dello sguardo – […] è l’inquadratura della seconda iniezione di eroina che il protagonista, trasgredendo all’inveterata abitudine, assume dopo la disillusione amorosa causata dall’iniziale ri uto di So a […], in uno sfasamento visuale che allegorizza ed evidenzia lo sfasamento sensoriale: partendo dal piano ravvicinato del protagonista ripreso di schiena, […] la macchina da presa, dopo un movimento in avanti a stringere sulla nuca, e ettua una duplice rotazione di 180° sull’asse verticale, combinata con un movimento di dolly prima a scendere e poi a salire, mentre Titta, sotto l’e etto di droga, si accascia lentamente all’indietro, con la testa penzolante che sporge dal bordo del letto.737 L’impiego del piano sequenza nella suddetta scena e lo sfasamento prospettico che esso comporta rimandano esplicitamente al problema della soggettiva, questione

tanto più rilevante nella misura in cui Sorrentino trova nell’individuo l’unità di misura fondamentale delle proprie storie, come rilevato nel primo capitolo del nostro lavoro. Pertanto, il processo di “decentralizzazione” che Matteo Gilebbi attribuisce alla debolezza dei personaggi, trova una maggiore pertinenza quando viene a ermato che il “post-umanesimo” di Sorrentino attiene a una modi ca dello schema percettivo738. Basterebbe rivedere la scena seguente di This must be the place: durante il suo viaggio statunitense, Cheyenne si ferma in una stazione di servizio; allontanatosi un attimo dalla vettura, al suo ritorno trova un amerindio seduto sul sedile passeggero. La scena si svolge in un paesaggio deserto in cui l’unica presenza umana è data dai due uomini che si accingono a viaggiare insieme. Ora, invece di seguire il punto di vista del protagonista, Sorrentino elabora un unico movimento che conduce la telecamera sotto un’autocisterna situata in primo piano, facendo apparire Cheyenne lateralmente, quindi accompagnandolo all’automobile739. Lo stesso dicasi per la scena in cui la rockstar entra in un’armeria: la telecamera avanza nel corridoio del negozio no a mostrare in secondo piano l’entrata in scena del protagonista. Un attimo dopo, la macchina da presa cambia direzione orientandosi verso l’armaiolo che aspetta in piedi dietro a un bancone a cui giungerà lo stesso Cheyenne con qualche secondo di ritardo740. Tecnica nota per la propria teatralità, il piano sequenza è un terreno fertile per l’arti cio in This must be the place. La sequenza del concerto di David Byrne è emblematica in tal senso, nella misura in cui il movimento continuo dell’apparecchio visivo viene raddoppiato dalle illusioni ottiche della coreogra a: mentre il palcoscenico è occupato da un’attrice che nge di leggere una rivista, la telecamera indietreggia lasciando che Byrne sbuchi dal basso e cominci a cantare. In seguito, è il palcoscenico stesso a muoversi verso l’alto compiendo una rotazione che lo porta sull’asse verticale, con la gurante che rimane sospesa come per magia. In ne, la telecamera si allontana

dai musicisti e rivela il volto di Cheyenne che osserva impassibile in fondo alla sala741. In un lm incentrato su un personaggio principale di cui si narra il viaggio formativo, osserviamo con sorpresa la frequente sostituzione dell’inquadratura soggettiva con un punto di vista prevalentemente esterno. La pratica in questione si rivela tanto più arti ciale quanto non viene utilizzata per indicare come Cheyenne viene visto dagli altri guranti – situazione che non escluderebbe la prospettiva del soggetto, ma si limiterebbe a spostarla dal protagonista ai personaggi secondari – ma, piuttosto, per generare un apparecchio ottico onnipresente nello spazio scenico e, di conseguenza, in grado di esplorare autonomamente il campo visivo. La scena in cui Cheyenne incontra la moglie dell’u ciale nazista viene, a sua volta, ripresa nel segno della scomposizione: la donna e il protagonista camminano in parallelo sulle due sponde di una strada e la macchina da presa si colloca alternativamente a ciascun lato. Tuttavia, l’angolazione scelta non è dettata dalla statura dei personaggi, ma coincide con il livello del marciapiede, mostrando in primo piano le rotelle della valigia della rockstar e quelle del deambulatore della donna. Un attimo dopo, una successione di fotogrammi ci porta all’interno della dimora dell’anziana, prima ancora che Cheyenne possa accedervi742. Alla luce di quanto rilevato, possiamo a ermare che, in Sorrentino, nascono i presupposti per trasformare la telecamera in un apparecchio completamente libero, un dispositivo che possiede gli stessi privilegi di un corpo autonomo, a patto di rimanere completamente invisibile. Infatti, sin da L’uomo in più, il regista risolve il rapporto tra l’individuo e il campo visivo in favore del secondo, senza che esso sia sistematicamente costretto ad adeguarsi alle movenze del personaggio. La macchina da presa esplora porzioni dello spazio scenico permettendo all’individuo di apparirvi, benché quest’ultimo venga spogliato di eventuali privilegi rispetto alle altre componenti mostrate. Così, nella sequenza che precede

l’intervento chirurgico di Antonio Pisapia, la telecamera non segue il calciatore che esce di scena trasportato dagli infermieri, bensì una gurante (un’altra infermiera) che guarda direttamente l’obiettivo, per poi uscire dalla stanza mostrando uno spazio ulteriore dell’ospedale (una nestra con vista sul mare)743. Riscontriamo un comportamento simile nella scena nale del cortometraggio intitolato La partita lenta. Qui, non abbiamo soltanto il campocontrocampo tra, da un lato, un padre e un glio sul campo da rugby e, dall’altro, una madre recatasi sugli spalti vuoti, ma un movimento aero della telecamera che si innalza dal terreno di gioco no a svelarci gradualmente il volto della donna744. La strada dell’arti cio è dunque necessaria a nché la macchina da presa conquisti piena autonomia nei confronti dello spazio e dei personaggi, così privando l’individuo della centralità di cui gode nelle opere di Sorrentino. Per completare il discorso appena elaborato rievocheremo un’ultima scena di This must be the place, il segmento in cui Cheyenne incontra Aloise Lange. Qui, Sorrentino mette in successione tre carrellate identiche che si avvicinano al volto dell’u ciale nazista: la macchina da presa segue l’andamento della parola del personaggio e reitera tre volte un movimento già arti ciale nella sua prima realizzazione, ritrovando il medesimo punto di partenza (la soglia della porta) per ognuno dei tre quesiti sollevati dal nazista in merito ai campi di sterminio (“uno: dell’imitazione”, “due: dell’umiliazione”, “tre: del furto”745). Sorrentino crea, dunque, i presupposti per rendere la telecamera un corpo autonomo, a condizione che rimanga completamente invisibile. In tal senso, è interessante notare che la dinamicità dell’apparecchio visivo appartiene anche al cinema di Fellini, speci cità che genera un richiamo esplicito da parte di alcune immagini di Sorrentino. Tuttavia, a di erenza del più giovane autore, il regista di Rimini fa di tutto per non far scomparire la macchina da presa. In un certo senso, è possibile portare avanti uno studio comparatistico tra i

due cineasti seguendo alcune somiglianze visive esplicite, quale l’impiego di movimenti aerei per riprendere il paesaggio urbano. A tal proposito, va riconosciuto che alcuni fotogrammi de La grande bellezza ricordano la maniera in cui le gru di Fellini avevano inquadrato Roma nell’omonimo lm: la macchina da presa si introduce in uno spazio vuoto riprendendo soltanto la parte superiore di monumenti e palazzi; questi ultimi appaiono imponenti, vengono colti da uno sguardo vertiginoso che oltrepassa le possibilità dell’occhio umano ma, al contempo, non riescono a celare il proprio stato di abbandono746. Lo stesso dicasi per Parigi ne I clowns, città ripresa come un gran cimitero, “un immenso Père Lachaise” i cui monumenti “potrebbero essere confusi con dei mausolei”747. Lo strato superiore dell’immagine sembra godere di un’insolita quiete, laddove quelli inferiori rumoreggiano e stridono. È in tal senso che le prime due sequenze de La grande bellezza riprendono una costruzione felliniana: delle coriste intonano un canto angelico sul balcone della Fontana dell’Acqua Paola, presenza monumentale “immacolata e imponente”748; l’inquadratura torna, dunque, nella piazza sottostante e la scena si chiude con l’urlo di una turista dinanzi al corpo di un uomo appena svenuto. Uno stacco impercettibile e la continuità sonora del grido ci portano sul terrazzo di Jep Gambardella, spazio sopraelevato che non sfugge alla regola della strati cazione verticale dell’immagine: un’inquadratura larga coglie la scena dall’alto e fa risuonare in lontananza l’eco delle voci dei nottambuli, mentre il disordine e il frastuono regnano nel cuore della serata mondana 749. In maniera simile, la scena di chiusura di Roma possiede una doppia costruzione che fa coabitare il vociare della gente che anima la festa de Noantri e il successivo silenzio delle piazze vuote, prima di ripetersi con l’associazione tra, da un lato, il rombo dei motori della s lata di motociclisti e, dall’altro, la visione notturna di una Roma deserta750. Tuttavia, una di erenza sostanziale viene a crearsi nello scarto tra la concezione

puramente motoria che Sorrentino a da alla telecamera e quella tanto cinestesica quanto visiva che rileviamo in Fellini. Se il primo concede piena autonomia al dispositivo lmico trasformandolo, però, in un corpo fantasma nello spazio scenico, per il secondo diventa indispensabile mostrare materialmente la telecamera. D’altra parte, in Roma, la lunga sequenza che si svolge tra il Grande Raccordo Anulare e il Colosseo non si riassume, forse, in una serie di tentativi di portare a buon ne le riprese di un lm, a dispetto dei vari imprevisti che subentrano uno dopo l’altro (un temporale, un incidente stradale, un incendio e una manifestazione politica)?751. La macchina da presa di Fellini dà l’esempio di una libertà motoria che ritroviamo nei lm di Sorrentino, conquistando liberamente lo spazio a prescindere dai personaggi che lo abitano. La sequenza degli scavi della metropolitana è emblematica in tal senso: la gru del cineasta esplora ciò che si cela dietro una parete che sta per essere distrutta mostrando in anticipo gli a reschi di una villa romana che scompariranno una volta esposti alla luce752. Tuttavia, agli antipodi dell’immagine sorrentiniana, il regista di Rimini concepisce la macchina da presa come corpo tangibile e visibile che non può soltanto riprendere ma che deve essere ripreso a sua volta. In uno dei segmenti nali del lm, quando il regista incontra Anna Magnani per le strade di Roma, l’attrice non risponde propriamente all’amico Federico messosi in scena in carne e ossa, ma alla voce fuori campo di quest’ultimo che le chiede se può farle una domanda, come se improvvisasse un’intervista con la telecamera sulla spalla753. La stessa duplice funzione che Roma attribuisce alla macchina da presa è ravvisabile nei lm di Fellini che lavorano sulla forma del falso documentario, i già citati A director’s notebook, I clowns e Intervista. Si dirà, dunque, che l’a nità generata da alcuni movimenti di telecamera comuni ai due cineasti viene parzialmente ridimensionata dalla dissonanza seguente: Sorrentino promuove l’arti cio facendo scomparire l’apparecchio visivo, laddove Fellini elabora colpi d’occhio

inconsueti e movimenti teatrali, a patto di rendere visibile l’oggetto da cui essi dipendono. In un certo qual modo, il primo nasconde il trucco, laddove il secondo lo svela, a condizione, però, di creare un secondo arti cio nel momento stesso in cui viene mostrata la macchina da presa, sicché il documentario rimane fondamentalmente falso. Quanto a Sorrentino, l’esigenza di nascondere il trucco viene espressa manifestamente in un capitolo di Tony Pagoda e i suoi amici su cui torneremo nel punto conclusivo del nostro discorso. Nella categoria degli arti ci visivi dell’immagine di Sorrentino vanno annoverate le sequenze che mettono in scena le mondanità. Un primo esempio ci è o erto dalla scena in discoteca de L’uomo in più che precede la festa per la candidatura di Andreotti a Presidente della Repubblica ne Il divo754, prima ancora delle numerose frivolezze de La grande bellezza. In quest’ultimo lungometraggio, le traiettorie della steadicam e le brevi inquadrature riservate ai guranti mettono da parte l’idea di una visione proveniente da un unico personaggio, in linea con quanto osservato in merito alla funzione motoria della macchina da presa. Al contrario, l’apparecchio visivo isola i nottambuli con una serie di movimenti innaturali, lasciandoli danzare ognuno per sé, cogliendoli in pose estatiche simili a quelle che animano il gioco di sguardi della scena de Le conseguenze dell’amore precedentemente studiata755. In realtà, la possibilità per il personaggio di assumere una postura plastica è un aspetto ricorrente del cinema di Sorrentino e numerosi sono gli esempi di soggetti che posano dinanzi alla macchina da presa. Va ricordato, ad esempio, che i primi sei episodi di The new pope si aprono con brevi introduzioni musicali in cui le stesse guranti che recitano la parte delle monache di clausura danzano sensualmente e vengono lmate al rallentatore. Altrettanto rilevante è l’utilizzo della suddetta tecnica nella sequenza del compleanno di Jep ne La grande bellezza: precedentemente legato “allo sguardo

dei protagonisti [maschili] verso i personaggi femminili”, ne La grande bellezza “il rallenty sembra invece associarsi a uno stato di alienazione”756. In un caso come nell’altro, Sorrentino lega l’autonomia motoria della macchina da presa a un secondo espediente che consiste nel ridurre la velocità dello scorrimento delle immagini accentuandone la portata pitturale o, quantomeno, fotogra ca. In un certo qual modo, l’impiego frequente del rallentatore e del piano sequenza ci permettono di capire meglio perché Pierpaolo De Sanctis parla della macchina da presa come dispositivo in grado di “sensualizzare la visione” e aumentare “il coinvolgimento siologico e sensoriale dello spettatore”757. Tuttavia, l’idea di un richiamo tra lo spettatore e immagini protese a stimolarne il coinvolgimento percettivo si rivela più problematica di quanto non lasci intendere lo schema della coincidenza e dell’identità. In tal senso, Mori fornisce uno spunto essenziale quando, dopo aver a ermato che “il dispositivo cinematogra co” de La grande bellezza “suscit[a] reazioni prevalentemente siologiche nello spettatore”, puntualizza che le immagini del lm non restituiscono una costruzione visiva già nota e percettivamente lineare, bensì l’esatto contrario, tanto da mettere in di coltà il processo di identi cazione: Per trasporre l’esperienza del godimento al di qua dello schermo, un lm deve innanzitutto richiedere allo spettatore un intenso investimento sensoriale nelle immagini, essere capace di produrre un sovraccarico percettivo che metta in crisi la sua capacità di identi carsi in modo pieno e simbolico all’interno della struttura narrativa. È per questo che a prevalere nei procedimenti stilistici e narrativi de La grande bellezza sono la cifra dell’accumulo e quella dell’eccesso.758 Di conseguenza, pur non dissociandosi apertamente dall’approccio critico che prende in considerazione il comportamento spettatoriale, Mori ne propone un caso limite, collocando le reazioni siologiche al di fuori di un

processo spontaneo di identi cazione, sottolineando come l’impatto delle immagini intacchi i tradizionali schemi percettivi759. Da qui nascono i presupposti per leggere ne La grande bellezza la capacità di rendere caduca la padronanza della visione, operazione per la quale il libero “oggetto-sguardo” della macchina da presa svolge un ruolo fondamentale: L’emersione dello oggetto-sguardo nell’esperienza della visione rappresenta così un punto cieco nella struttura del lm, in quanto interrompe il usso e il senso dell’esperienza cinematogra ca. […] La grande bellezza può essere considerato cinema del godimento nella misura in cui riesce a rompere il paradigma dello specchio su cui si fonda la relazione fra spettatore e lm e che consente di instaurare attivamente un riconoscimento simbolico nell’Altro-personaggio. […] Lo spettatore può riconoscersi solo in delle immagini incomplete, mancanti di uno spazio in cui poter proiettare attivamente il proprio desiderio.760 Anticipando la conclusione a cui giungerà il protagonista del lm rispetto alla temporalità frammentaria del bello761, Mori evidenzia come la possibilità stessa di un’identi cazione con le immagini lmiche diventi realizzabile soltanto tramite l’eccesso e l’incompletezza, posizione che aggiunge una complessità all’idea di De Sanctis secondo cui le visioni sensualizzate del cinema di Sorrentino raggiungono lo spettatore attirandone l’attenzione e provocandone un “coinvolgimento siologico e sensoriale”. I frequenti arti ci del cinema di Sorrentino sono pienamente coinvolti in un discorso più ampio sull’identi cazione, nonché sulla costruzione identitaria. Si tratta di una questione che ci ha accompagnato sin dall’inizio del nostro lavoro e a cui possiamo aggiungere una sfumatura ulteriore. Nel primo capitolo, abbiamo rilevato il bisogno da parte dell’autore partenopeo di costruire l’individuo, anche a costo di renderlo complesso e paradossale. Nella seconda parte,

abbiamo riscontrato una simile volontà nel preservare lo schema dell’ordine in alcune composizioni visive, quand’anche si trattasse di immagini disunite. In tal senso, si diceva come il frammento perdesse la propria natura disorganica, poiché recuperato in extremis da una o più scene in grado di ristabilire l’ordine. La problematica dell’apprendimento completa le prime due inclinazioni visive e narrative formulando il principio secondo cui il viaggio formativo viene portato a buon ne, a dispetto della mancanza di veri punti di riferimento. L’approccio sorrentiniano cambia nel regno dell’illusione: constatando come quest’ultima risultasse dalla lettura del mondo contemporaneo che il regista propone nei suoi lavori, siamo giunti, allora, a studiare più da vicino l’arti cio, a sua volta diretta conseguenza dell’inganno. Pertanto, dopo esserci so ermati su alcune costruzioni inconsuete della macchina da presa sorrentiniana, possiamo formulare la conclusione seguente: diversamente dalla maniera in cui vengono trattati l’individuo, il frammento e l’apprendimento, alcune pratiche di use quali il rallentatore, il piano sequenza e la disgiunzione ottica si orientano maggiormente verso la scomposizione piuttosto che verso la determinazione. In tal senso, esse posseggono più a nità con due composizioni aperte dell’immagine e della prosa di Sorrentino a cui abbiamo dato il nome di eterogeneità e di slancio vitale. Nella misura in cui smantellano schemi percettivi e punti di riferimento visivi piuttosto che edi carli, gli arti ci sorrentiniani ci dicono qualcosa di primordiale sul rapporto tra il soggetto e le immagini del mondo che lo circonda. In tal senso, possiamo so ermarci sul segmento de La grande bellezza in cui Jep e Ramona vanno via da un’ennesima serata mondana e seguono un uomo misterioso che apre loro le porte della città segreta762. Se è vero che la sequenza promuove manifestamente un abbandono della vacuità della festa, non è altrettanto vero che l’epifania del bello sancisce una successiva sempli cazione dell’immagine. Pertanto, alle meraviglie di Roma si può accedere

esclusivamente con gli stessi mezzi che, poco prima, restituivano la bruttezza del “vortice delle mondanità”763. Per l’appunto, a essere riproposti sono gli eccessi visivi: inizialmente, osserviamo una serie di inquadrature che sembrerebbero provenire dallo stesso punto di vista nché un fotogramma riprende i tre personaggi suggerendoci come l’immagine precedente non dipendesse dal loro sguardo. La scena continua con carrellate circolari attorno ad alcune statue, conducendo, in ne, a un movimento aereo che, dall’alto verso il basso, chiude la sequenza mostrandoci i protagonisti su un grande terrazzo764. È in tal senso che gli arti ci sorrentiniani diventano una nestra aperta sul mondo contemporaneo di cui forniscono, se non una lettura critica, quantomeno un’immagine valida: “[c]onsegnando lo spettatore a uno sguardo che intacca continuamente i limiti di una messa in prospettiva, […] Sorrentino riesce così a restituire sulla super cie del lm le problematiche di una società fagocitata nelle uttuazioni continue del suo 765 immaginario” . Non a caso, la conclusione de La grande bellezza non si traduce nella ricerca di una maggiore sobrietà visiva, bensì nella persistenza delle stesse visioni eccessive che avevano contraddistinto la prima parte del lm. Così, nella scena della Roma segreta, il bello viene svelato dissociandolo dalla prospettiva del soggetto e, una volta per tutte, l’individuo stesso ri uta di dirigere ciò che si trova dinanzi ai suoi occhi. Benché l’analisi di Mori si concentri prettamente su La grande bellezza, ci sembra opportuno estendere la categoria di “società” individuata dal critico all’insieme della lmogra a sorrentiniana. A sostegno di tale posizione possiamo considerare due aspetti: in primo luogo, ad eccezione de L’uomo in più e de Il divo, il regista partenopeo ha sempre ambientato le proprie vicende in un’epoca contemporanea a quella della loro di usione cinematogra ca. Inoltre, e più profondamente, esclusi gli eventi evocati ne Il divo e in Loro e a dispetto di una breve apparizione del relitto della Costa Concordia ne La grande bellezza, le trame di

Sorrentino non ripercorrono la cronologia di un episodio speci co del passato recente, ma sono connesse a due archi di tempo alquanto lunghi che corrispondono agli anni Ottanta e ai più recenti anni Duemila. D’altronde, abbiamo più volte ribadito come il gesto di elucidazione storica ravvisabile ne Il divo andasse di pari passo con un secondo interesse per l’ambiguità e la fragilità del personaggio principale. Peraltro, occorre rammentare che del decennio intercorso tra le due epoche citate non abbiamo nessuna traccia, vuoto parzialmente giusti cato dalla fuga in Brasile di Tony Pagoda in Hanno tutti ragione. Così, ri utando di lavorare all’insegna della ricostruzione storica, l’attualità – o “postmodernità” seguendo la terminologia che Mori prende in prestito da Lyotard – risulta una categoria applicabile a tutti i lavori di Sorrentino, a dispetto delle diverse ambientazioni scelte dal regista. Il divo determina una parziale eccezione in tal senso, nella misura in cui il riferimento contestuale vi risulta comunque decisivo. Tuttavia, è proprio in virtù della persistenza della storia che il rapporto tra l’arti cio e il tempo viene costruito in maniera diversa rispetto al successivo lm politico di Sorrentino, ambientato questa volta negli anni Duemila. Del resto, ciò che manca in Loro, sono proprio le tappe signi cative della parabola politica di Berlusconi, assenza colmata dall’introduzione di immagini legate alla vita sentimentale del protagonista, nonché terreno fertile per far emergere una lettura del mondo di cui egli è, almeno in parte, responsabile. Alla luce di quanto osservato su Sorrentino, possiamo individuare alcune a nità con il cinema di Scorsese. Anteriormente, abbiamo evocato la tendenza del regista di Little Italy a ricorrere all’uso di lunghe carrellate e piani sequenza, specie nei suoi lm di gangster. Inoltre, abbiamo osservato come il movimento arti cioso della macchina da presa si coniugasse con una voce fuori campo esplicativa, facendo straripare la teatralità nel documentario, a condizione, però, che vi fosse una

corrispondenza tra ciò che il narratore menziona e ciò che l’immagine mostra. È seguendo questo principio che Goodfellas, Casino, The wolf of Wall Street, The departed e, più recentemente, The Irishman illustrano la maniera in cui le frodi e i crimini vengono architettati. La coincidenza tra la parola e la visione diventa un elemento cinematogra co essenziale anche in un’opera molto diversa come The last temptation of Christ, in cui il retaggio cattolico della transustanziazione coinvolge una serie di questioni sulla maniera in cui il divino si fa umano. Oltre alla scena dell’Ultima Cena in cui il “prendete e mangiatene tutti” e “prendete e bevetene tutti” vengono accompagnati dai fotogrammi del pane e del vino, con quest’ultimo che diventa realmente sangue sulle labbra e sulle mani di San Pietro766, la conversione della sostanza risulta una tendenza generalmente di usa nelle sequenze lmiche. Così, benché il rapporto tra divino e umano vi sia invertito rispetto alla transustanziazione eucaristica, osserviamo la materializzazione di alcuni elementi ultraterreni, come nella sequenza del digiuno di Gesù nel deserto della Giudea. Qui, sono le tentazioni del Diavolo a concretizzarsi dinanzi agli occhi del protagonista: Scorsese mette in successione l’apparizione di un serpente, peccato carnale accompagnato dalla voce fuori campo di Maria Maddalena, un leone che funge da allegoria del potere secondo quanto spiega lo stesso Giuda, no ad arrivare all’albero della conoscenza del Bene e del Male767. Ora, questo sistema prettamente ottico fondato sulla possibilità di rendere visibile ciò che attiene all’ultraterreno subisce una battuta di arresto in un punto chiave della narrazione lmica ed evangelica. La scena in questione si svolge durante la Passione, nel momento in cui Cristo attraversa le strade di Gerusalemme con la croce sulle spalle, mentre viene schernito dalla folla. È proprio in questa immagine che la frontalità visiva vacilla, annullando la corrispondenza immediata tra osservatore e osservato, in maniera simile a quanto accade ne Le

conseguenze dell’amore. Così, sebbene Gesù abbia gli occhi semichiusi e il capo chino sotto il peso della croce, la macchina da presa ci mostra una serie di sguardi. Questi ultimi coincidono con i volti dei passanti, talora sorridenti e irrisori, talora impassibili, talora addolorati come un uomo e una donna che si coprono gli occhi768. La sequenza presenta, dunque, un’inquadratura soggettiva irreale dove lo sguardo di Gesù non coincide con il controcampo della macchina da presa, sfasamento confermato dal fatto che, una volta aperti gli occhi, il protagonista di Scorsese non dirige il volto verso la folla ma verso il cielo. Difatti, ciò che accade nella scena seguente è un superamento dei rapporti ottici inerenti alla sfera umana o in quella allegorica, adesso sostituiti da un apparecchio visivo che si fa realmente divino e che si presenta come un occhio invisibile. L’impossibile coincidenza con la prospettiva del soggetto resa tramite una serie di brevi carrellate nella sequenza della Via Crucis rimanda a una costruzione cinematogra ca ricorrente che abbiamo rilevato in Sorrentino, sottolineando come da essa dipendesse la trasformazione della macchina da presa in corpo invisibile e onnipresente nello spazio scenico. Ora, è importante rilevare che questa prima a nità tra Scorsese e Sorrentino avviene tanto nel segno della perdita quanto in quello dell’eccesso: il soggetto cessa di possedere il controllo della visione e, al contempo, l’inquadratura scelta non è assegnabile a nessun personaggio, il tutto sotto l’egida della telecamera che si muove in piena autonomia. Questa mancata identi cazione dell’immagine con una fonte ottica in grado di spiegarne l’origine segna un primo punto di contatto tra The last temptation of Christ e il cinema di Sorrentino. Tuttavia, in Scorsese, esiste un secondo genere di immagini in grado di de nire un’analogia con il regista de La grande bellezza, benché la somiglianza sia meno esplicita di quanto riscontrato poc’anzi. Per elucidare questo punto, occorre evidenziare il principio da cui dipende la formazione dell’eccesso visivo. In realtà, ciò

che compiono le telecamere libere e invisibili di Scorsese e Sorrentino non è altro che l’introduzione di una prospettiva ulteriore rispetto alle due coordinate canoniche imposte dalle visioni soggettive o dalle inquadrature oggettive. Ora, lo stesso procedimento che compone una sequenza seguendo la regola dell’addizione prospettica, integrando immagini inconsuete e producendo, così, un eccesso visivo, è rintracciabile in The wolf of Wall Street. Lungometraggio contemporaneo a La grande bellezza, The wolf of Wall Street è quasi interamente costruito giustapponendo componenti gurative contrastanti nel segno dell’incoerenza tra l’azione e lo spazio in cui si svolgono. È secondo queste modalità che la dipendenza e il godimento attraversano indistintamente i tre livelli visivi del denaro, del sesso e della droga. D’altra parte, seguendo le parole del mentore di Jordan Belfort (Mark Hanna), la regola numero uno del broker consiste proprio nell’aumentare il valore immateriale dell’investimento dei clienti, spingendo questi ultimi a non accontentarsi di quanto ottenuto, convertendo la materializzazione monetaria del guadagno nel bisogno incontrollabile di accrescere eccessivamente la propria ricchezza virtuale769. Il successo degli intermediari di Wall Street è direttamente proporzionale alla dipendenza che creano nei propri clienti, il tutto portato avanti con una serie di comportamenti irrefrenabili e privi di nalità. Così, in un mondo segnato dal godimento puro, sono la sovrapposizione e la confusione delle forme di piacere a erigersi a unico principio valido, operazione che il personaggio di Mark Hanna esempli ca nella battuta secondo cui i broker più esperti praticano l’autoerotismo pensando ai soldi770. Non a caso, buona parte dei dialoghi del lm girano attorno al verbo “fottere” che gli intermediari di Wall Street associano alternativamente ai sostantivi di “cliente” e di “puttana”, con quest’ultimo termine che viene utilizzato con tono palesemente misogino per designare la maggior parte delle comparse femminili del lm771. Sebbene se ne

possano individuare tre cause distinte, la questione della dipendenza possiede una descrizione tanto più accurata quanto l’immagine di The wolf of Wall Street ne sovrappone e confonde le varianti. Nella sequenza in cui si festeggia il guadagno record della Stratton Oakmont, Belfort e i suoi dipendenti trasformano la sede della società di brokeraggio in un misto tra un circo e un locale notturno. In primo luogo, il protagonista regala un ingente somma di denaro alla propria segretaria a nché quest’ultima si rada i capelli a zero davanti al resto dei colleghi; in seguito, assistiamo all’arrivo di una fanfara che suona una marcetta avanzando tra le scrivanie dell’u cio, anticipando l’entrata in scena di un gruppo di spogliarelliste772. Piuttosto che portare avanti una storia sugli e etti della droga o del denaro sulla vita dei broker, Scorsese privilegia la creazione di contrasti visivi mediante la giustapposizione delle ragioni stesse della dipendenza, componendo l’immagine tramite l’eccesso, associando cioè azioni e luoghi incongrui. A un’immagine di partenza che già rende palese una situazione nociva – spesso relativa alla fame di denaro – Scorsese sovrappone una seconda visione inopportuna che ne raddoppia la portata patologica. Il sesso è pienamente coinvolto in questa operazione, nella misura in cui fuoriesce dalla sfera privata e invade spazi e situazioni comuni. Si pensi alla sequenza in cui la voce fuori campo di Belfort fa una classi ca delle prostitute preferite dai suoi colleghi, con l’immagine chiamata a mostrare le orge organizzate negli u ci della Stratton Oakmont. Lo stesso dicasi per la scena in cui Donnie Azo , sotto l’e etto di droghe, si masturba in pubblico dinanzi a colei che diventerà la moglie del protagonista (Naomi)773. In maniera simile, possiamo ricordare il momento in cui i coniugi Belfort alimentano un gioco di seduzione nella camera della loro glia neonata, il tutto dinanzi alle telecamere di sorveglianza nascoste nella stanza774. Esasperando un atteggiamento accennato in altri lm di gangster di Scorsese (basti pensare alla sequenza di Goodfellas in cui i ma osi

trasformano la loro cella in una vera e propria cucina775), The wolf of Wall Street costruisce il proprio eccesso visivo giustapponendo due o più componenti visive, nonché varianti del problema della dipendenza. Associando il sesso e la droga a una varietà di situazioni legate alla già patologica fame di denaro, Scorsese ci o re la testimonianza di un’immagine costruita per sovraccarico. È proprio in questo punto che risiede un’assonanza con il cinema di Sorrentino. Si tratta dell’idea secondo cui l’immagine della contemporaneità può essere prodotta soltanto a condizione di saperne restituire l’eccesso e la super cialità. Ed è proprio di super cialità che si tratta ne La grande bellezza e in The wolf of Wall Street, benché in entrambi i lm essa non sia il risultato di un giudizio morale. Piuttosto, il super ciale opera su un piano maggiormente estetico e va inteso come possibilità cinematogra ca di lavorare sul rilievo dell’immagine. Entrambi i registi procedono per sovraccarico, aggiungendo prospettive slegate dagli sguardi soggettivi e oggettivi (Sorrentino), oppure sovrapponendo livelli visivi distinti (Scorsese). Procedendo in questo modo, facendo ricadere il peso dell’immagine sulla faccia esterna di quest’ultima, i due cineasti creano le condizioni propizie a nché nello strato inferiore, lo spazio convenzionalmente occupato dal contenuto, si riveli perfettamente vuoto. La stessa mancanza di senso può, allora, attraversare il nulla delle mondanità de La grande bellezza e la successione irrefrenabile delle dipendenze di The wolf of Wall Street. Anticipando il lm di Scorsese e analogamente alle scene di cui è composto776, ciò che compie Sorrentino consiste, dunque, nel reiterare un procedimento che interviene esclusivamente sulla facciata dell’immagine, operazione che permette di restituire l’eccesso nella sua forma più esplicita, come pratica che addiziona e giustappone visioni e movimenti di telecamera. III.5.c L’impatto del falso

Nel confrontarsi con l’attualità, il cinema di Sorrentino elabora spesso immagini che risentono dell’e etto della pubblicità. Del resto, la questione dell’apprendimento ci aveva già permesso di rilevare tale tendenza in una sequenza onirica di The young pope777. Nella stessa occasione, seguendo un suggerimento di Rancière, avevamo anticipato come la macchina da presa sorrentiniana non a rontasse l’immagine televisiva tramite i mezzi della denuncia ma mediante un più complesso processo di assimilazione. A partire da questa osservazione, ci sembra opportuno guardare più da vicino le tappe del trattamento felliniano dello spettacolo. Per far ciò, seguiremo “l’itinerario” disegnato da Amengual in due saggi scritti a circa vent’anni di distanza, rispettivamente nel 1963 e nel 1980. La prima tappa del percorso felliniano riguarda il movimento che lega “spettacolo” e “spettacolare”: “l’opera [di Fellini] unisce allo spettacolare – che, in n dei conti, non è altro che un modo per il reale di presentarsi a noi – allo spettacolo propriamente detto, quel reale la cui nalità è di essere guardato”778. Con ciò si spiega perché Fellini non promuove una frontalità tra spettacolo e spettatori, bensì “un’esplorazione delle quinte”, donde l’a ermazione di Amengual secondo cui, sin dai primi lavori del regista di Rimini, “il reale si fa spettacolo e a ascina per davvero”779. A tal proposito, Christian Viviani osserva che, in Luci del varietà, ogni sequenza è costruita in crescendo, aspettando arrivo del momento clou, come nella scena in cui i personaggi osservano estasiati la villa lussuosa in cui un fedele ammiratore li ha invitati a cena780. Analogamente, il viaggio di Wanda Cavalli permette alla giovane donna di scoprire contemporaneamente la preparazione del set fotogra co, di cui diventa per caso una gurante, e l’uomo che si nasconde dietro la gura eroica dello Sceicco Bianco. La volontà visiva che porta la messa in scena oltre i limiti del palcoscenico coinvolge la famosa sequenza del falso miracolo de La dolce vita. In tal senso, è interessante leggere l’osservazione di Andrea Minuz che, nel suo studio

antropologico sull’importanza del culto mariano nel primo Fellini, sottolinea come il segmento lmico in questione non si risolva in “un indice accusatorio puntato contro la falsi cazione della fede”781. Restituendo alla scena della presunta apparizione della Madonna un aspetto più autenticamente legato alla ritualità religiosa e popolare, Minuz mette implicitamente in evidenza come il progetto felliniano oltrepassi le esigenze assertive della denuncia. Nella sequenza in questione, il regista non fa altro che rinnovare un’idea già nota al proprio cinema che consiste nella possibilità per la realtà stessa di trasformarsi in un grande spettacolo ambulante. Si tratta di un procedimento rintracciabile ne La strada in una successione di scenette che riprendono gli stessi codici del circo pur situandosi al di fuori del tendone: il Matto getta un secchio pieno d’acqua in direzione di Zampanò, scatenando l’ira di quest’ultimo; i due personaggi si lanciano, allora, in un vero e proprio inseguimento al termine del quale vediamo l’uomo debole ma scaltro avere la meglio su quello forte ma stolto. Il secondo nisce in prigione, mentre il primo può tornare a suonare insieme a Gelsomina, prolungando l’ennesimo numero svoltosi fuori dal tendone del circo782. Del resto, la morte del Matto per mano di Zampanò non è, forse, uno sketch eseguito male, un gesto maldestro ed eccessivamente violento compiuto proprio dal giocoliere che eccelle nell’autocontrollo della forza e del dolore?783. Come vedremo tra un istante, questa prima tappa dell’immagine felliniana possiede una grande risonanza nel cinema di Sorrentino, soprattutto se paragonata alle due fasi seguenti individuate da Amengual. In tal senso, un ruolo essenziale va attribuito a Otto e mezzo e alle diverse letture che lo stesso critico propone in merito al lungometraggio: inizialmente presentato come insieme di “sogni” che fungono da “pre gurazioni per un’opera spettacolare”784, la storia di Guido Anselmi supera successivamente i parametri dello spettacolare, e viene presentata nel secondo saggio come un’immagine composta interamente dalle “fantasmagorie

dello spettacolo e [dei] suoi macchinari”785. Da qui nascono i presupposti per un nuovo lavoro sul documentario che Fellini porta avanti a partire dalla ne degli anni Sessanta, sforzo che, secondo Amengual, avviene perché il regista “nomina se stesso fabbricante di ‘visioni’”, proponendosi come “mago principale” dell’immagine e sostituendosi ai maghi ttizi che lo avevano preceduto786. Il passaggio tra la seconda e la terza fase del cinema di Fellini riguarda, dunque, una prima immagine che ha abolito la frontiera tra reale e immaginario e, d’altra parte, un cinema autoreferenziale in grado di nutrirsi di se stesso, come nella sequenza di Intervista in cui Marcello Mastroianni e Anita Ekberg guardano insieme la famosa scena della Fontana di Trevi de La dolce vita787. A fare da tramite fra le due tendenze, ricordiamo un’immagine del cortometraggio intitolato Toby Dammit, dove, nella continuità di Otto e mezzo, oltre al paesaggio immaginario e talvolta infernale che accoglie la storia dell’attore shakespeariano in cerca di ispirazione, osserviamo un’esplicita tendenza da parte della telecamera a mettere in scena se stessa. Così come nella conferenza stampa di Giudo Anselmi, anche nell’intervista di Toby Dammit tutto sembra irreale ma, in aggiunta, quest’ultima sequenza mostra una crescente attenzione da parte di Fellini per la resa ttizia del lavoro della macchina da presa: i giornalisti fanno tutt’uno con la telecamera della televisione no a scomparire dietro un apparecchio mobile che sembra porre le domande al posto loro788. Qui la carrellata non costituisce soltanto uno spostamento arti ciale mediante il quale restituire uno spazio che confonde la realtà e il sogno (o l’incubo), ma un procedimento ottico e motorio che, a sua volta, necessita di essere colto nella propria arti cialità. Compiendo l’inquadratura di un’inquadratura, giustapponendo due visioni in movimento, la sequenza opera tanto contro la distinzione binaria tra reale e irreale quanto contro la possibilità di falsi care un’immagine veritiera, nella misura in cui Toby Dammit produce doppiamente una

pratica arti ciale. Non a caso, nel seguito della lmogra a del regista, vedremo susseguirsi una serie di messe in scena nelle quali si annoverano immagini dello stesso Fellini, talora in carne e ossa in qualità di regista ttizio, talora mediante la riproposizione di scene e musiche del proprio cinema789. Spostandoci sul versante dell’immagine sorrentiniana, rileviamo una prima dissonanza con “l’itinerario” felliniano nella misura in cui, ad oggi, nel cinema di Sorrentino non esiste un’immagine propriamente autoreferenziale, così come i generi del documentario e del falso documentario non sono mai stati presi in esame. Tuttavia, a dispetto di questa discrepanza, possiamo intercettare una somiglianza tra il trattamento dello spettacolo nel primo Fellini e l’in uenza dell’immagine televisiva in Sorrentino. A questo punto del nostro lavoro, abbiamo già menzionato alcuni fotogrammi che il cinema di Sorrentino prende in prestito dal piccolo schermo. Si pensi alla breve scena di The young pope, già evocata anteriormente, in cui Lenny Belardo sceglie i paramenti liturgici: la vanità del papa trasforma l’abito religioso in un capo di alta moda, il tutto racchiuso in un segmento dalla durata paragonabile a quella di un video promozionale. A ciò si aggiunge, sul piano sonoro, il ritornello di una canzone pop che sembra fungere da slogan per il prodotto in vendita e che recita: “I’m sexy and I know it”790. Riprendendo fedelmente un procedimento dello schermo televisivo, in Sorrentino, le immagini pubblicitarie si rivelano complementari a quelle musicali, nella misura in cui entrambe modi cano una determinata situazione narrativa secondo due parametri visivi speci ci e ricorrenti: la focalizzazione su un elemento speci co del campo visivo e la sincronizzazione dell’azione con la cadenza ritmica. Nei confronti della prima, abbiamo già avuto modo di osservare la trasformazione dell’oggetto osservato in prodotto da desiderare nella scena onirica del primo episodio di The young pope. Tra pochi istanti, aggiungeremo a questo

primo esempio un momento signi cativo tratto da Loro. Quanto alla seconda modalità, possiamo rilevare l’analogia tra le due sequenze iniziali de La grande bellezza e la più esplicita parentesi narrativa dell’incubo in Youth, segmento in cui il personaggio di Lena sogna la cantante per cui suo marito l’ha lasciata in un vero e proprio videoclip musicale ironicamente intitolato Can’t rely on you791. Parallelamente, osserviamo che la storia di Jep Gambardella si apre con la successione di due sequenze musicali contrastanti (I lie di David Lang e Far l’amore di Bob Sinclair e Ra aella Carrà). A conferma di tale disposizione visiva, possiamo prendere in considerazione la più recente sequenza delle preghiere dei cardinali in The new pope, parentesi racchiusa dalle note della Suite n°6 in Re Maggiore di J.-S. Bach, a cui si sovrappongono fuori campo le invocazioni degli uomini della Curia romana792. Che si tratti di tecniche promozionali o di sincronizzazioni video-musicali, il frequente ricorso a procedimenti ereditati dal piccolo schermo ha suscitato un grande interesse critico, nella misura in cui le immagini in questione stabiliscono un contatto diretto con il mondo contemporaneo. Tuttavia, la maniera in cui viene considerato lo straripamento nell’attualità di erisce negli studi analitici proposti nora. In tal senso, si sarebbe tentati nel constatare insieme a Monica Facchini il “rimbombo” dell’immagine “postcinematogra ca della televisione” in un lm come La grande bellezza793, ma non è propriamente sulla strada dell’“accusa”794 che Sorrentino iscrive tale assimilazione visiva. Piuttosto, una delle speci cità de La grande bellezza, nonché, più generalmente, del cinema del regista partenopeo, consiste nell’evitare una rivalità frontale con la stessa immagine dello spettacolo di cui si vorrebbero evidenziare le carenze o i pericoli. Invece, pur lasciando intendere una lettura critica di alcuni comportamenti della società attuale – si pensi alla già menzionata scena del chirurgo-guru795 – Sorrentino non si concentra sulla

denuncia, ma promuove una forma visiva in grado di assorbire tutti gli eccessi e tutte le derive televisive della contemporaneità. In tal senso, la de nizione di “cinema del godimento” che leggiamo in Mori conviene maggiormente ai lm di Sorrentino il quale, specie ne La grande bellezza, “si confront[a] all’eccesso senza risolverlo”, evitando di ricondurre l’immagine al senso, inteso come punto che smaschererebbe e risolverebbe il godimento, così “spogliandolo del proprio investimento libidico”796. Al contrario, il regista napoletano consegna l’in uenza televisiva nella sua forma più manifesta, trasformando sempre più spesso l’immagine in un semplice strumento edonistico, optando, cioè, per la strada dell’assimilazione. Quest’ultima trasforma la lettura critica dell’attualità, sempre e comunque presente in ligrana, in un tratto marginale o, quantomeno, nell’aspetto più lineare su cui si regge una visione ambigua. Si tratta, dunque, di un’immagine complice di ciò che andrebbe denunciato e coinvolta dalle medesime tentazioni e dai medesimi eccessi. In de nitiva, però, nel momento stesso in cui a erma l’impossibilità dell’accusa, Sorrentino restituisce una delle complessità della società televisiva, ossia la di coltà per lo sguardo di distanziarsi dallo schema ottico dello spettacolo. A tal proposito, Pierpaolo Antonello individua con precisione il bisogno di prendere in considerazione “l’impatto della televisione commerciale” per evitare “giudizi sbrigativi e liquidatori sul cinema italiano contemporaneo”, ma non è soltanto sulla “ricon gurazione dei gusti […] del pubblico cinematogra co” che possiamo leggere tale in uenza in Sorrentino797. Piuttosto, ciò che i suoi lm ci invitano a compiere è uno sforzo che opera, innanzitutto, sull’immagine stessa e su ciò che in essa attiene alle modalità di presentazione delle visioni postcinematogra che – o anti-cinematogra che – della televisione commerciale e della pubblicità. È in questo punto che scopriamo l’in uenza decisiva dell’immagine promozionale, proprio nel lungometraggio che racconta la

vicenda di un personaggio emblematico del piccolo schermo. In Loro, un raccordo visivo al rallentatore mette in successione la caduta di ri uti in seguito all’incidente del camion destinato al loro trasporto e l’apparizione di una costellazione di pillole di ecstasy che ci introducono nella festa mondana organizzata da Sergio Morra in Sardegna. La seconda sequenza conserva il rallentamento della frequenza dei fotogrammi mentre ci mostra guranti nelle consuete pose plastiche ed estatiche, mentre una voce, inizialmente fuori campo, descrive la sostanza stupefacente vista un attimo prima. Successivamente, il personaggio entra nel campo visivo e, benché invisibile agli occhi dei partecipanti, dettaglia gli e etti della droga, presentandola come un qualsiasi prodotto acquisibile, concentrandosi, per giunta, sull’accrescimento del senso di piacere da essa provocato798. Senza troppe sorprese, nella scena della festa organizzata per Silvio Berlusconi, vediamo emergere procedimenti tipici dell’immagine televisiva nella sua doppia variante musicale e pubblicitaria. Quanto al fotogramma che inaugura la successione tra le due sequenze, l’esplicita assonanza tra la caduta dei ri uti e le pillole di ecstasy sembra suggerirci quella de nizione di “televisione spazzatura” talvolta attribuita ai canali Mediaset799. Ora, sebbene la suddetta sequenza di Loro ricordi esplicitamente la scena di The wolf of Wall Street in cui la voce fuori campo di Belfort descrive gli e etti della droga preferita dai broker (il quaalude)800, è un procedimento felliniano a coinvolgere più profondamente l’immagine di Sorrentino. Seguendo la prima tappa dell’itinerario di Amengual, gli spettacoli felliniani non sono soltanto strumenti visivi che modi cano o esasperano la realtà, nella misura in cui è la realtà stessa a modularsi secondo le leggi del palcoscenico. Analogamente, si osserverà come il cinema di Sorrentino non permetta all’immagine televisiva di alterare una visione del mondo, nella misura in cui l’attualità risente delle conseguenze del piccolo schermo, possedendone le sembianze già in partenza. È precisamente in questo

punto che riscopriamo in Sorrentino l’idea di Amengual secondo cui il cinema di Fellini a evolisce la distinzione tra “osservatori e oggetti osservati” e tra “spettacolo e spettatori”801. Qualcosa di simile accade ne La grande bellezza e in Loro dove i mondani sono simultaneamente autori e fruitori dello stesso godimento vacuo. Pertanto, un’analogia decisiva tra il primo Fellini e Sorrentino diventa rintracciabile nel processo che privilegia il mimetismo alla denuncia, nell’operazione che non fa né evolvere né regredire la successione di fotogrammi rispetto a un eventuale riferimento autentico e che, in ne, rende perenne lo spettacolo alla stessa stregua dell’arti cio. L’immagine del più giovane cineasta si rivela sempre più a suo agio con la possibilità di assorbire varianti visive provenienti da altri schermi, sforzo operato quasi esclusivamente nei confronti della televisione, senza dimenticare l’immagine virtuale dei videogiochi, presente almeno una volta, nelle danze solitarie della massaggiatrice di Youth802. Seguendo quanto annunciato in precedenza e dimostrato in seguito, si dirà che, contrariamente alla distinzione e all’opposizione tra realtà e illusione, l’immagine sorrentiniana ereditata dalla televisione perde qualsiasi riferimento con un secondo genere di visioni più autentiche. Infatti, più la macchina da presa risente dell’in uenza del piccolo schermo, più in essa il falso si impone come unica modalità possibile. Così, sotto l’in usso dell’arti cio, ai fotogrammi viene concesso di costruire liberamente un’immagine fasulla oppure di invertirne una già esistente, come accade in Loro quando, al termine della festa svoltasi nella villa del protagonista, vediamo una serie di personaggi soli e malinconici mentre udiamo una melodia in lontananza. È la voce di una delle giovani donne presenti alla serata che, adesso, appare su uno scoglio da cui si sporge slanciandosi verso il mare. Tuttavia, le sue mani rimangono aggrappate alle estremità di una scaletta di metallo, impedendo il compimento del movimento che la farebbe fuggire dall’isola803. Ora, colei il

cui canto risuona come quello di una sirena si rivela, invece, una delle tante bellezze femminili costrette a restare sull’isola di Berlusconi, invertendo, dunque, l’immagine tradizionale che fa dei navigatori le vittime predilette della melodia delle incantatrici. In realtà, il procedimento che consiste nel rovesciare le immagini è un’idea che torna in un’altra scena del lm e che va di pari passo con la trasformazione dell’uomo di potere in un semplice anziano nostalgico della propria giovinezza. L’immagine in questione è contenuta nell’interpretazione canora di Malafemmena di Totò, brano che Berlusconi esegue dinanzi a un pubblico ristretto di famigliari e simpatizzanti con l’accompagnamento musicale di Mariano Apicella. In maniera simile al fotogramma della giovane donna appena evocato, la sequenza in questione ribalta il rapporto tra il cantante e il testo interpretato, nella misura in cui, ciò che raccontano le parole di Malafemmena è una storia simile a quella vissuta da Veronica Lario, presente soltanto tra gli uditori e mostrata più volte in controcampo804. L’immagine di Loro viene, dunque, raddoppiata: essa possiede una prima allusione iconica (la sirena) e una seconda intertestuale (le parole di Malafemmena), ma l’una come l’altra funzionano al contrario, poiché la gura di Berlusconi inverte il ruolo dei personaggi che vi compaiono. Tuttavia, se è vero che il lm di Sorrentino presenta rimandi fuorvianti, è opportuno sottolineare che l’immagine non viene né denunciata come falsa né vani cata da tale procedimento. In altre parole, se è vero che il ribaltamento visivo a cui assistiamo si fonda su riferimenti inappropriati, è altrettanto lecito a ermare che sono proprio i richiami visivi erronei a dare la natura speci ca dell’immagine, a ermando la necessaria presenza dell’arti cio nella storia di Berlusconi. Al contempo, rimandando a un’immagine frontale, a sua volta sottoposta al processo di falsi cazione, Loro suggerisce la presenza di uno schermo, di una visione proveniente dall’esterno, sicché, tramite un richiamo iconico e musicale, riprende la costruzione dello

sguardo posto dinanzi all’apparecchio televisivo. D’altra parte, il lm si apre con una scena singolare in cui un agnello – animale presente in una fotogra a emblematica di una recente campagna elettorale di Berlusconi – muore di freddo nel salone vuoto della villa del protagonista, stanza ra reddata da un condizionatore che raggiunge zero gradi. Parallelamente, l’agonia dell’animale viene accompagnata da una serie di inquadrature su un televisore dove si susseguono programmi e video promozionali dei canali Mediaset805. Inaugurando esplicitamente la frontalità tra spettatore e schermo televisivo, l’incipit di Loro spiana, dunque, la strada a nché altre immagini possano costruirsi nella stessa maniera. Se, come visto in precedenza, nella lmogra a di Scorsese The king of comedy a ronta esplicitamente la questione del piccolo schermo, è in Cape Fear che riscontriamo una costruzione simile a quanto rilevato in Loro. Un primo aspetto interessante in tal senso sta nel fatto che Cape Fear è la riproposizione dell’omonimo lm di J. Lee Thompson del 1962. Il lungometraggio di Scorsese de nisce una prima allusione interna promossa attraverso la scelta degli attori: nel lm del 1962, i due ruoli maschili principali furono assegnati a Gregory Peck e Robert Mitchum che tornano nel lavoro di Scorsese interpretando due personaggi secondari, laddove le parti di Bowden e Cady sono a date a Nick Nolte e Robert De Niro. Se il primo richiamo cinematogra co di Cape Fear è più intimamente legato alla traccia storica della pellicola, quello di Thompson non è l’unico a cui il lavoro di Scorsese fa riferimento. Più generalmente, ci accorgiamo che il lungometraggio è scandito da una successione di allusioni visive, sonore e letterarie che procedono simultaneamente alla narrazione principale e che fungono da doppione. Così, Scorsese lavora sulla costruzione di una profondità di campo che accoglie un’immagine secondaria a cui quella principale può rivolgersi e in cui

può specchiarsi. Inoltre, benché il doppione non corrisponda esattamente alla narrazione primaria, il primo e la seconda funzionano insieme come variazioni della stessa immagine, operando come gli allotropi linguistici806. Basti pensare al primo incontro tra Max Cady e la famiglia Bowden: la scena si svolge in una sala cinematogra ca e sul grande schermo vediamo un lm comico in cui un uomo, colto da un attacco di follia, scaraventa oggetti fuori da una nestra807. Scandita dalla risata fragorosa di Cady, la sequenza meta- lmica anticipa l’ira incontrollabile che lo stesso personaggio farà subire ai Bowden. Lo stesso dicasi per il segmento lmico in cui Cady telefona alla glia di Sam (Danielle): nel breve movimento con cui la macchina da presa ci introduce nella camera di quest’ultima, osserviamo su un piccolo televisore una scena simile a quella vista precedentemente al cinema, con alcuni personaggi che distruggono oggetti a colpi di ascia808. Il doppione visivo preannuncia il seguito della vicenda, laddove quello sonoro ribalta ironicamente quanto abbiamo dinanzi agli occhi. Nella stessa breve immagine ascoltiamo, allora, il ritornello di una canzone di Aretha Franklin che recita: “If you want a do-right-all-day woman / You’ve got to be a do-right-allnight man”, sebbene Cady sia tutto fuorché un bravo ragazzo809. Questo genere di fotogrammi de nisce un insieme di allotropi visivi, nella misura in cui, pur non coincidendo con la narrazione primaria, essi anticipano o richiamano un aspetto speci co della vicenda lmica. La scena principale e il doppione non presentano la stessa composizione, così come gli allotropi non posseggono la stessa gra a, ma entrambi rimandano alla medesima immagine, quella della violenza che preannunciano o evocano parodicamente. Il punto di contatto con Loro sta, dunque, nel fatto che Cape Fear concepisce la scena lmica come la risultante dello scontro tra due visioni frontali, tra una prima immagine narrativa e seconda meta- lmica o intertestuale. Del resto, si noterà come tutto il progetto vendicativo elaborato da Cady coincida

con un più grande piano di giustizia divina giusti cato citando talora la Lettera ai Galati, talora il Libro di Giobbe, senza dimenticare l’allusione al Nono cerchio dell’Inferno e ai traditori che vi sono puniti810. Per avvicinarsi meglio al falso, l’immagine di Loro è concepita, analogamente a Cape Fear, come scontro tra due visioni. Nel corso della lunga carriera politica di Silvio Berlusconi, è stato più volte deplorato un con itto di interessi tra la gura dell’imprenditore e quella dello statista, per via dell’in uenza che l’ex Presidente del Consiglio esercita, tra gli altri, nel settore editoriale e televisivo811. In Loro, nei pochi dialoghi puramente politici che Sorrentino concede al proprio personaggio, emerge uno scontro tra la volontà da parte del protagonista di a ermarsi come uomo di Stato e la convinzione di poter dirigere il Paese come un’azienda, operazione che, a suo avviso, i magistrati gli impediscono di portare avanti812. Ora, se è vero che il contrasto tra la politica e il mondo imprenditoriale non occupa un posto di rilievo in Loro, quantomeno rispetto alle vicende più mondane e sentimentali in cui il protagonista è coinvolto, il con itto di interessi torna a essere proposto in chiave puramente cinematogra ca. Sorrentino restituisce il paradosso della sovrapposizione tra la gura dello statista e quella dell’uomo d’a ari tramite alcune scene che posseggono la stessa ambiguità, nella misura in cui nascono dal confronto e dalla confusione tra due registri visivi distinti. Si tratta di costruzioni distorte e volutamente falsate che non rispettano a atto la natura dell’immagine reale o iconica a cui si riferiscono. È, dunque, nella possibilità di alterare il valore di fotogrammi e scene reali che queste disposizioni visive de niscono un’a nità con l’iniquità tipica del con itto di interessi. Tale procedimento è reso manifestamente nella sequenza che riprende lo spot elettorale realizzato per le elezioni politiche del 2008. La canzone, interpretata da Andrea Vantini e intitolata Menomale che Silvio c’è, viene riproposta conservando il

testo originale, inserito, però, in videoclip ttizio che modi ca il contenuto dei lmati realizzati inizialmente per l’occasione, in linea con la scelta del regista di non includere immagini di archivio nel proprio lm813. Peraltro, la suddetta sequenza si presenta come una parentesi visiva autonoma, disgiunta dalla narrazione principale e non assegnabile ad alcun personaggio. Tagliata fuori dalla trama lmica, dissociata dalla visione reale o mentale del protagonista e di qualsiasi altro gurante, il segmento in questione ha la particolarità di rivolgersi esclusivamente verso il mondo esterno, verso un’immagine autentica. In tal senso, è signi cativo osservare che la scena di Loro sostituisce le immagini dello spot elettorale con visioni altrettanto attinenti al personaggio di Berlusconi ma più profondamente legate al piccolo schermo. La riproposizione di Menomale che Silvio c’è nisce, dunque, per assomigliare a una televendita musicale in cui vediamo giovani donne che si allenano in palestra e che si dispongono coreogra camente sulle note della canzone di Vantini814. Ignorando i due lmati reali, Loro sostituisce un’immagine reale prodotta ad hoc – lmato il cui committente è, direttamente o indirettamente, lo stesso Berlusconi – con una seconda scena che condensa un aspetto emblematico del berlusconismo: l’erotizzazione del corpo femminile in una cornice scenica derivante dall’immagine promozionale. La sequenza ispirata alla canzone di Vantini non è altro che la parodia di una pubblicità, ossia pubblicità alterata da immagini appartenenti allo stesso registro. Parentesi musicale indipendente, il suddetto segmento si presenta come super uo e si dissocia dalla narrazione come Berlusconi dal proprio ruolo di politico, sintetizzando, così, il trattamento che Sorrentino riserva all’ex premier. Rivolgendosi a un’immagine reale della politica italiana contemporanea, il videoclip di Loro dà piena espressione a un progetto più vasto che coinvolge altre allusioni visive. Si pensi alla sequenza di apertura di cui si è fatta menzione poc’anzi: in maniera simile alla canzone di

Vantini, l’agnello è un elemento tratto da una fotogra a promozionale, questa volta risalente alle elezioni politiche del 2018, in cui Berlusconi è ritratto mentre avvicina un biberon alla bocca dell’animale815. Parallelamente, l’agnello di Loro meriterebbe di essere integrato al bestiario elaborato da Mori816, suggerendo ironicamente un senso di innocenza all’inizio della vicenda lmica. Ma soprattutto, ciò che la scena di apertura del lungometraggio ci permette di a ermare è la capacità da parte di Sorrentino di creare una visione falsa partendo da due immagini vere. Tra l’allegoria del candore e una fotogra a promozionale, il regista opta per una scena in grado di alterare sia la prima che la seconda: da un lato, possiamo a ermare senza indugi che la purezza è una qualità estranea al mondo di Loro, dall’altro, si noterà come la fotogra a in questione sia anacronistica, poiché successiva al racconto lmico e, in ogni caso, mai ricostruita seguendo la realtà narrativa del lungometraggio. Il procedimento della falsi cazione dell’immagine trova un terreno fertile a stretto contatto con la contemporaneità, nel lm sull’uomo che ha introdotto una nuova concezione del mezzo televisivo. D’altronde, nella sequenza della vendita telefonica già menzionata precedentemente, ciò che diverte Berlusconi non è, forse, la consapevolezza che si tratta di uno scherzo e che, in fondo, ciò che vende è un oggetto (un appartamento) inesistente? Il falso non è mai stato così vicino all’immagine di Sorrentino, sicché il lm stesso genera alcuni dei suoi fotogrammi alterando e deformando scene reali appartenenti all’attualità, probabilmente perché quest’ultima è già un’immagine arti ciale, promozionale o televisiva. È qui che trova conferma la formula elaborata in precedenza in merito all’assimilazione ne La grande bellezza: Sorrentino non denuncia un mondo fasullo con gli strumenti del vero, né chiede alla verità di far luce sulle derive della contemporaneità, ma a ronta quest’ultima con i mezzi dell’arti cio, producendo un’immagine doppiamente fasulla. Del resto, nelle battute conclusive del lm,

quando un amico di Berlusconi, nonché ex collega del protagonista all’epoca in cui era cantante sulle navi da crociera, lo provoca dicendogli che “da quella nave non [è] mai sceso”, il personaggio di Sorrentino replica suggerendo un’ennesima pista fuorviante: “forse non ci sono mai salito”817. Se poc’anzi si diceva che, in Toby Dammit, Fellini costruisce un’immagine doppiamente falsa, poiché nata dalla combinazione di due visioni teatrali, Loro produce un e etto simile tramite lo scontro di due visioni reali. Siamo dinanzi a una diretta conseguenza dell’attrazione per l’arti cio che accompagna la lmogra a del regista partenopeo sin da L’uomo in più e da Le conseguenze dell’amore, come indicano le complesse costruzioni ottiche e i movimenti di telecamera. Se Loro introduce una novità visiva nella lmogra a del regista partenopeo, l’accostamento tra la produzione del falso e lo schermo televisivo era già stato formulato nel capitolo dodici di Tony Pagoda e i suoi amici, quando il narratore rievoca una puntata del Maurizio Costanzo Show il cui ospite fu Carmelo Bene818. È interessante, allora, notare che ciò che Pagoda mette in evidenza è la capacità da parte della coppia Costanzo-Bene di portare sul piccolo schermo l’essenza stessa del mezzo televisivo. È qui che riscopriamo l’importanza della nzione, qualità che, secondo la voce narrante, attiene all’espressione del monologo: Monologò per ore ngendo di occuparsi degli altri, della loro miseria, della loro inadeguatezza. E della sua. Ma ngeva. Riconoscere miseria e inadeguatezza negli altri avrebbe voluto dire, appunto, “riconoscerli” e invece Carmelo Bene, in quell’occasione, ammise alla tavola dell’esistenza solo due persone: se stesso e Costanzo.819 Piuttosto che tentare di descrivere le speci cità del proprio lavoro di drammaturgo sfruttando la cornice televisiva, la qualità di Carmelo Bene è, secondo il narratore di Sorrentino, quella di produrre qualcosa di

puramente teatrale nel formato del piccolo schermo. Dinanzi alla serie di domande che contraddistinguono la formula dell’Uno contro tutti, Bene non si pone propriamente come colui che espone le peculiarità del proprio teatro ma come colui che, “ nge[ndo] di aggredire il mondo” con un “assordante humor nichilista”820, fa vivere la messa in scena stessa. Quanto al personaggio che dà il titolo al capitolo, Maurizio Costanzo viene elogiato per una qualità simile: “[a] rontare la nzione richiede lo stesso sforzo sovrumano che si pone nell’a rontare la verità. Questo lo capiscono in pochi. Il mio amico è tra questi”821. L’apparizione televisiva di Carmelo Bene raccontata da Tony Pagoda associa all’arti cio televisivo a un secondo espediente, questa volta puramente teatrale, che trasforma il dialogo tra l’ospite e i giornalisti in una messa in scena collettiva scandita dalla voce monologante del drammaturgo. Bene diventa l’attore che nge di abbandonare il proprio ruolo scenico dinanzi alle telecamere, ma che, in de nitiva, ripropone il procedimento teatrale nella nzione televisiva. In un certo senso, il dodicesimo capitolo di Tony Pagoda e i suoi amici presenta una complessità che il cinema di Fellini aveva scoperto tramite il personaggio di Toby Dammit. Attore shakespeariano di fama mondiale, Dammit è anche l’uomo logorato dall’alcool e ossessionato dal timore di non essere più in grado di recitare. Annoverabile nella categoria dei “sognatori e degli irresponsabili”, il personaggio di Fellini si inserisce perfettamente nella “meditazione shakespeariana” che il regista fonda sull’idea secondo cui “il mondo è un grande circo”822. Ora, è proprio nel momento in cui dichiara la propria incapacità scenica che Tony Dammit ridà voce al teatro, riprendendo un soliloquio del Macbeth di Shakespeare. La scena si svolge in uno spazio irreale, più simile a un incubo che sogno, dove il protagonista riceve una ricompensa per la propria carriera. Qui, la duplicità del lavoro di Fellini consiste nel far coincidere nella stessa immagine il tormento di un personaggio che a erma di non essere più un attore e una

locuzione puramente teatrale, spinta della citazione shakespeariana che Dammit pronuncia: “E tu, vita, che sei? / Un’ombra che dilegua; un infelice / Mimo che si dibatte e pavoneggia / Sulle scene del tempo, e poi ne scende”823. È dunque nella possibilità di scegliere la strada dell’arti cio, a ermandolo e sostituendolo a una presunta verità, che risiede un’a nità tra alcune immagini di Loro, un ricordo televisivo di Tony Pagoda e i suoi amici e un attore ttizio del cinema di Fellini. III.5.d Il mistero e i maghi Nella seconda parte del suo viaggio nel cinema statunitense, Scorsese si interessa ai cosiddetti “imbroglioni”, categoria in cui si annoverano cineasti quali D. W. Gri th, J. Tourneur e M. Ophuls. Parafrasando le parole del regista di Little Italy, la speci cità degli autori in questione dipende dal fatto che il loro cinema non si interroga più su come restituire la realtà nel limite del possibile, ma su come creare e a ermare l’illusione824. Tra le opere analizzate in questo capitolo di A personal journey gura Shock corridor Samuel Fuller, pellicola che anni dopo ispirerà Shutter Island dello stesso Scorsese825. Quest’ultimo lungometraggio riveste grande importanza per la questione con cui ci accingiamo a chiudere il terzo capitolo del nostro lavoro. Anticipando un punto di approdo del nostro discorso, si dirà che la doppia presenza del vero e del falso in Shutter Island rimanda a una concezione del mistero che Sorrentino fa esporre ad alcuni personaggi cinematogra ci e letterari. Partendo da questa a nità tra i due cineasti, riprenderemo la problematica dell’arti cio che è stata al centro dell’ultimo segmento del nostro studio. In linea con il lungometraggio di Fuller, l’immagine di Shutter Island è strettamente legata alla questione dell’illusione per via della duplice composizione visiva che la contraddistingue. Nel corso della trama lmica, Scorsese costruisce due verità, ciascuna delle quali si

rivela singolarmente plausibile nel momento stesso in cui indica la falsità della seconda. In primo luogo, la successione delle scene ci racconta di una macchinazione portata avanti contro l’azione del protagonista; al contempo, però, questa prima variante è contraddetta dall’intervento improvviso della follia, la quale, a sua volta, vani ca e ribalta la lettura iniziale del racconto. Sancendo il principio secondo cui le due immagini sono separatamente possibili ma mai compossibili, Shutter Island elabora una costruzione visiva in cui il vero non è mai completamente discernibile, possibilità da cui dipende la costante presenza del falso. Secondo la prima versione della vicenda, Teddy Daniels è un agente federale inviato in un ospedale di massima sicurezza dove sono internati criminali con forti problemi psichiatrici. Accompagnato dall’agente Chuck Aule, Daniels indaga sulla scomparsa della paziente n°67, una donna chiamata Rachel Solando. Seguendo questa variante narrativa, il protagonista scopre che il suddetto ospedale porta avanti test sperimentali sui propri pazienti, sottoponendoli spesso alla pratica della lobotomia. Il progresso delle indagini pone Daniels in una posizione scomoda, nella misura in cui il direttore del carcere (John Cawley) teme che gli esperimenti segreti possano essere divulgati al di fuori dei cancelli dell’ospedale, il che lo spinge a frenare l’azione del protagonista somministrandogli segretamente potenti psicofarmaci fatti passare per semplici antidolori ci. In questa versione della storia, l’agente federale rimane imprigionato sull’isola dove sostituisce la paziente inizialmente scomparsa. Al contempo, però, le stesse scene riescono a presentare una seconda variante in cui Teddy Daniels è realmente un paziente psichiatrico il cui vero nome è Andrew Laeddis, personaggio che, nella prima versione narrativa, è l’assassino della moglie del protagonista. Daniels e Laeddis sono invece la stessa persona nella seconda lettura della trama (l’uomo malato che ha ucciso sua moglie e i suoi gli e che, ri utando la tragicità dei fatti, si è attribuito un’identità puramente

immaginaria in cui recita la parte dell’agente federale). Inoltre, va evidenziato come il punto di vista soggettivo che il lm sceglie seguendo un solo personaggio non faccia ostacolo alla duplicità dell’immagine. Infatti, la prospettiva del protagonista non aiuta a chiarire quale delle due piste sia autentica, nella misura in cui tutto ciò che proviene dal suo sguardo concorda con entrambi i racconti. È qui che risiede il paradosso dell’immagine di Shutter Island: la visione reale di un uomo sano di mente coincide con la proiezione falsata del malato, dal momento che le stesse immagini si confanno tanto allo sguardo dell’investigatore che comprende i crimini orchestrati dal dottor Cawley, quanto all’eventuale distorsione della realtà del paziente psichiatrico. Ora, la struttura elaborata da Scorsese non è propriamente concepita per scegliere una delle due possibilità, né fornisce indizi in tal senso. Piuttosto, ciò che compie il cineasta è la legittimazione di entrambe le versioni, sicché, ogni qual volta una delle due verità sembra essere giusti cata da una determinata sequenza, è necessario che la seconda possibilità venga comunque presa in considerazione, benché per contrasto, come opzione falsa. Al contempo, però, guardando più da vicino la scena, ci si accorge che il rapporto tra vero e falso può essere invertito, sicché nessuna lettura riesce pienamente a prendere il sopravvento sull’altra. È in questo doppio contatto tra una realtà indeterminabile e una menzogna sempre possibile che l’immagine riesce a rendere costantemente attiva la propria componente falsa, restituendo simultaneamente la verità e il suo contrario, senza indicare una linea di demarcazione tra le due polarità. In tal senso, è interessante notare che le scene vengono spesso montate tramite raccordi opachi e inde niti, come mostrano le dissolvenze ad aprire su un eccesso di luce bianca, oppure gli stacchi immediati sugli incubi e ricordi del protagonista826. L’immagine non si priva mai della propria antitesi, del proprio doppione arti ciale, come nella sequenza dell’incontro tra il

protagonista e un certo George Noyce. Secondo la versione del complotto, quest’ultimo è un paziente tenuto in isolamento per aver tentato di fuggire dall’isola, nonché il personaggio che aiuta Daniels a cominciare l’inchiesta. Ora, nel momento stesso in cui Noyce si rivolge al protagonista ritenendolo responsabile delle cicatrici che ha sul volto, due antefatti narrativi diventano possibili: secondo la prima versione, Noyce è stato punito dai carcerieri perché ha parlato con Daniels, mentre, seguendo la seconda variante, è lo stesso protagonista (il paziente chiamato Laeddis) ad averlo pestato, come preciserà il dottor Cawley in una scena conclusiva del lm827. In un caso come nell’altro, Shutter Island non lascia nessuna via d’uscita e nessuna possibilità liberatoria, ma sfocia in due visioni che sfruttano la liquidità per de nire un punto di non ritorno. La distesa dell’oceano che circonda l’isola sembra, allora, possedere la stessa valenza del lago in cui il protagonista ricorda di aver ritrovato i corpi esanimi dei propri gli. Che si tratti di una macchinazione delle istituzioni o della follia, il protagonista è comunque imprigionato nella clinica psichiatrica, nonché costretto a subire una violenta terapia volta a cancellare la propria memoria, con i ricordi traumatici della seconda guerra mondiale destinati a svanire alla stessa stregua della morte tragica della sua famiglia. Non a caso, il personaggio principale esce di scena con una frase emblematica che riassume bene la duplicità dell’immagine, tanto più che nessuna risposta vi viene formulata: “cosa sarebbe peggio: vivere da mostro o morire da uomo per bene?”828. In entrambi i casi, che il protagonista sia vittima o assassino, il cervello e la memoria sono sottoposti a una forma violenta di controllo. In merito al ruolo del cervello nel lm di Scorsese, Éric Le Toullec individua una problematica rilevante quando a erma che Shutter Island sostituisce la soluzione dell’enigma con un quesito inerente all’“ambito percettivo” la cui di coltà sta proprio nella domanda del “cosa vedo?”:

Possiamo, in altri termini, a ermare che la messa in discussione della prospettiva enunciativa dell’immagine traduce la perdita di punti di riferimento tipica della piscosi? Oppure, non interviene, forse, per valorizzare una consapevolezza rinnovata della complessità e della correlazione dei diversi livelli enunciativi che contraddistinguono qualsiasi racconto?829 Le Toullec prosegue paragonando il lavoro di Scorsese a Improvvisamente l’estate scorsa di J. Mankiewicz e Qualcuno volò sul nido del cuculo di M. Forman evidenziando come nei tre lm “il punto che manca alla messa in scena è proprio il signi cante attorno al quale si organizza tutta la minaccia del racconto, ossia il cervello come organo”. Di conseguenza, per i tre cineasti diventa necessario de nire “un fuori campo” che fa sì che “il cervello” diventi presente soltanto quando le sue “competenze simboliche svaniscono”830. Situando al di là dello spazio visivo l’organo responsabile della comprensione della realtà, Shutter Island coglie dunque “quel principio dell’immagine-tempo” e dell’ontologia deleuziana secondo cui “le immagini cinematogra che sono due cose in una: le cose stesse, gli eventi intimi del divenire universale, e le operazioni di un’arte che restituisce agli eventi del mondo quella potenza che è stata loro sottratta dallo schermo opaco che è cervello umano”831. Quest’ultimo è presente solo come disfunzione, sicché l’immagine può presentare la propria variante falsa senza soluzione di continuità, a ermando e ribadendo il primato del mistero sulla soluzione dell’enigma. In precedenza, abbiamo osservato come Sorrentino ammettesse l’illusione e il sogno a condizione di poter de nire simultaneamente un’immagine reale in grado di smascherarli, diversamente da quanto accade nel cinema di Fellini. Tuttavia, il contrasto con il regista di Rimini viene attenuato dall’intervento di alcune scelte visive capaci di ribaltare la linearità imposta da tale disgiunzione binaria. A tal proposito, abbiamo evocato la

produzione del falso attraverso l’immagine televisiva, tendenza rintracciabile in alcuni lavori recenti dell’autore partenopeo a cui abbiamo accostato una seconda possibilità altrettanto attuale. Si tratta di un’idea che Sorrentino elabora attraverso tre dei suoi personaggi, nella fattispecie due maghi e una gura esplicitamente autobiogra ca, e che pone in primo piano la questione del mistero, speci cità visiva di Shutter Island. In una breve scena de La grande bellezza un illusionista spiega a Jep Gambardella che il suo numero clou, che consiste nel far sparire una gira a, non ha niente di autentico ma è “solo un trucco”832. Il personaggio ttizio del lm trae ispirazione da una personalità reale dello spettacolo che appare nel terzo capitolo di Tony Pagoda e i suoi amici, ovvero Aldo Salvodello, mago più noto al pubblico con lo pseudonimo di Silvan, la cui comparsa diventa l’occasione per presentare un discorso più ampio sull’illusione. “[M]agico anche come individuo”, nonché “estremamente solo” nella sua “incredibile professione”, Silvan si fa portavoce di una visione della magia che colloca in due polarità inconciliabili la bruttezza dell’imbroglio e la bellezza dell’illusione vera e propria833: A quale collega telefoni quando non riesci a trovare il trucco per far scomparire un elefante davanti al Colosseo? Anche quello ha fatto, questo genio, che mi guarda dal divano di pelle e dice col candore del fanciullino che nella vita ha sempre e unicamente voluto strabiliare il prossimo: “Nulla è impossibile e il paranormale non esiste. Tutto possiede il suo trucco. Il mago Rol, tanto amato dai potenti e da Fellini, quando gli chiedevo di incontrarci e di farmi vedere i suoi poteri, trovava mille scuse. Lo sapeva n troppo bene che avrei smascherato i suoi trucchi. Così come ho smascherato fantasmi, guaritori, pranoterapeuti, medium e il mago di Napoli che irrompeva nei ristoranti e indovinava tutto mentre in realtà aveva un complice che stava dentro al ristorante

da due ore […]”. […] Silvan, nello sbugiardare tru aldini e farabutti, non difende solo la sua categoria, ma smaschera e abbatte la bruttezza, lui che è glio della bellezza.834 Il mago di Napoli, alla stessa stregua di Tonino Pettola, presunto santo guaritore con cui Belardo e Voiello hanno a che fare in The young pope835, non appartiene alla categoria del brutto per via di un’eventuale condanna morale dell’imbroglio, bensì per una ragione più complessa che attiene alla riduzione del trucco a semplice stratagemma che cela a stento la propria verità, mera illusione ottica che si lascia scoprire n troppo facilmente. Il procedimento in cui tutto diventa visibile e in cui l’inganno del mago viene agevolmente posto dinanzi a una realtà in grado di condannarlo come falso, oltre che una pratica antitetica a quella promossa da Silvan, traduce soprattutto una certa visione dell’Italia contemporanea, a dimostrazione di come la questione dell’illusione sia il punto nevralgico della lettura sorrentiniana dell’attualità. Pagoda si esprime, dunque, in questi termini, coniugando un riferimento alla televisione degli anni Duemila con un problema maggiormente politico del nostro tempo: Ora Silvan non si esibisce più al Sistina e non conduce più programmi in Rai come meriterebbe. Forse erano tempi in cui gli italiani non avevano perso completamente la loro innocenza e, di fronte all’illusionismo, rimanevano estasiati come ora purtroppo rimangono estasiati solo di fronte ai naufraghi sull’isola senza cibo che vanno avanti e indietro come dei cretini. La lenta agonia di questo paese passa anche attraverso la disa ezione dell’arte magica, dell’illusionismo. Stanno tutti lì a tramare triangolazioni nanziarie con la Svizzera e le Bermuda, mica hanno tempo per le colombe bianche che escono da sotto i cappelli. L’unico trucco che incute rispetto e interesse è il trucco scale. Che poi si chiamerebbe tru a, ma tutti fanno nta di

niente.836 La disa ezione per l’arte magica nasce dall’incapacità di cogliere l’illusione senza che vi sia una realtà in grado di smentirla o di smascherarla, sicché, adesso, l’arti cio viene sostituito dalla propria variante fraudolenta, dalla tru a che appartiene tanto al trucco scale quanto all’immagine televisiva contemporanea. La questione della frode determina un tratto signi cativo della lettura di Pagoda nella misura in cui congiunge un problema concreto e, no ad allora mai trattato dal narratore, con l’inganno, aspetto ricorrente del cinema di Sorrentino. La voce narrante coniuga nello stesso paragrafo una declinazione moderna del crimine con una altrettanto recente perdita di sensibilità per l’illusione autentica. Così, la tru a scale e la necessità di svelare il trucco piuttosto che conservarlo diventano due aspetti complementari: da un lato, Sorrentino apre una nestra sull’attualità, dall’altro ri ette sulla natura stessa dell’arti cio e sulla necessità per alcuni trucchi di costruirsi soltanto a condizione di rendere manifesto il loro stratagemma, cadendo, così, nella banalità della tru a. Non a caso, nello stesso paragrafo viene aggiunta un’allusione a un’immagine della contemporaneità, quella di un reality show che ha sostituito la meraviglia dell’illusionismo837. Con ciò si spiega la necessità del mistero che viene a ermata esplicitamente alla ne del capitolo quando Pagoda chiede per l’ultima volta a Silvan la soluzione a uno dei suoi trucchi: Sulla porta di casa ci ho provato ancora una volta: “Aldo, ti prego, come scompare e riappare la ragazza sul palco? Svelamelo” A quel punto lui stava anche per dirmelo, ma poi si è fermato, perché ha trovato qualcosa di meglio, questo: “Sapessi quanto è banale e deludente la verità. Resta col mistero. Questo ti farà ricordare di me. E io sono un uomo che va ricordato”.838

È interessante osservare come la tematica della memoria, che, come già osservato, è spesso trattata da Sorrentino, faccia un’apparizione subitanea in un passo narrativo in cui viene ribadita la necessità dell’illusione. Infatti, ciò che permette a Silvan di essere ricordato è proprio il mistero che de nisce la possibilità di concepire il trucco senza opporlo né paragonarlo alla realtà, spianando la strada verso una pratica in grado di preservare il falso. È proprio in questo punto che incontriamo la speci cità dell’immagine di Shutter Island. Tuttavia, è necessario sottolineare che la giuntura tra il lungometraggio di Scorsese e il romanzo di Sorrentino avviene soltanto formalmente, nella misura in cui la concezione del mistero che Silvan propone nel terzo capitolo di Tony Pagoda e i suoi amici non sembra realmente appartenere alla prosa e al cinema dell’autore partenopeo. A conferma di quanto appena a ermato, possiamo prendere in considerazione una potenziale eccezione alla regola, riprendendo l’idea formulata precedentemente in merito alla dinamicità della macchina da presa. Occupando liberamente lo spazio come corpo invisibile, la telecamera di Sorrentino nasconde il proprio arti cio, compatibilmente con il consiglio del mago Silvan. Ciononostante, è necessario evidenziare che tali scelte visive non si dirigono propriamente verso il mistero o l’indecifrabilità della visione come in Shutter Island, ma operano in due direzioni distinte che abbiamo già avuto modo di identi care: la costruzione arti ciale della reciprocità ottica (Le conseguenze dell’amore) e l’assimilazione dell’immagine televisiva e pubblicitaria (La grande bellezza, The young pope, Loro). Probabilmente, l’unica eccezione valida in tal senso risiede nel paradosso costante che contraddistingue il personaggio di Lenny Belardo – questione di cui si è parlato nel primo capitolo del nostro lavoro839 – nella misura in cui da The young pope a The new pope, Pio XIII è l’unico personaggio sorrentiniano in grado di conservare le proprie contraddizioni, difendendo la misteriosa compresenza di

tratti umani e divini nella stessa gura. Una simile discrepanza tra la formulazione verbale e l’e ettività dell’immagine riguarda il riferimento felliniano di cui abbiamo precedentemente discusso e che torna tramite l’allusione al mago Rol nel terzo capitolo di Tony Pagoda e i suoi amici. Se è vero, come sostiene Silvan, che è meglio “rest[are] col mistero”, il principio di indiscernibilità tra verità e inganno non coinvolge il cinema di Sorrentino, contrariamente a ciò che accade in Fellini. La distanza tra l’a ermazione formale e la capacità autentica dell’immagine è tanto più agrante quanto il bisogno dell’inganno viene attribuito proprio al ruolo del regista in un ritratto semi-autobiogra co de Gli aspetti irrilevanti. Si tratta del segmento conclusivo della raccolta in cui viene descritto un certo Settimio Valori, “regista amatoriale di lm controversi”840, la cui storia viene introdotta da una fotogra a, come per i personaggi che l’hanno preceduto. La sorpresa dell’ultimo capitolo sta nel fatto che la persona ritratta sia lo stesso Sorrentino, il che ci permette di attribuire un valore almeno in parte autobiogra co alla breve vicenda narrata. Settimio Valori è un cineasta che ha vissuto un’infanzia “miserabile” ma “bellissima” e che, dopo aver preso atto dell’impossibilità di narrare la propria storia, si è dedicato al racconto della vita degli altri: Una sera, in piena transizione verso l’età adulta, intercetta per caso un concetto detto da un ragazzo a una ragazza al ne di conquistarla. Il ragazzo dice: “Proust riteneva incresciosa l’espressione: ‘vivere la propria vita’. Settimio Valori ne fa subito un credo imprescindibile della sua futura biogra a. Se vivere la propria vita è un a are increscioso, l’unica possibilità che rimane è vivere le vite altrui. Per questa ragione, basica e vigliacca, si dedica al

cinema. […] Si direbbe che ama raccontare storie ma non è vero, ma anche questo non è vero. L’unica storia che vorrebbe raccontare è la sua, ma non ne ha il coraggio. […] Dunque, galleggia nella passioncella stantia di raccontare storie altrui o inventate. La padroneggia quel tanto che basta per ingannare il prossimo. Insomma, un blu . L’unico conforto è che sono tutti dei blu .841 Nella formula secondo cui l’unico racconto possibile è quello delle vite degli altri e l’unica scrittura possibile quella del blu risiede una visione del cinema che vede nel falso l’unità di misura fondamentale dell’immagine. Inoltre, l’arti cio di cui ci parla il regista de Gli aspetti irrilevanti è duplice, nella misura in cui la nzione non interviene soltanto a causa dell’incapacità di raccontare la propria vicenda ma diviene il mezzo tramite il quale è possibile parlare di una storia comune, di quel mondo in cui “sono tutti dei blu ”. Del resto, conclude a ermando che non gli resta che “[l]avorare per essere il blu più bello e più bravo di tutti”842. Alla luce di quanto osservato in merito alla produzione del falso e al mistero, possiamo riassumere alcune speci cità del cinema e della prosa di Sorrentino ra rontandole con le rispettive in uenze felliniane e scorsesiane. In primo luogo, come già rilevato in precedenza, l’inclinazione sorrentiniana nei confronti dell’arti cio non preclude una distinzione più lineare tra sogno e realtà, diversamente dal cinema di Fellini. Ora, a dispetto di questa generale discrepanza, abbiamo evidenziato una doppia apertura ed eccezione allo schema binario comunemente di uso in Sorrentino: da un lato, la tendenza ad assimilare codici speci ci dell’immagine televisiva e pubblicitaria, dall’altro un discorso formale

sull’importanza del mistero. Conseguenza immediata di una generale disposizione nei confronti del falso, la prima delle due strade è ancora una forma embrionaria nel cinema di Sorrentino, benché Loro ci o ra già una testimonianza signi cativa in tal senso. Quanto alla seconda, si tratta di una formulazione che emerge da alcune pagine di Tony Pagoda e i suoi amici e che trova una seconda declinazione ne Gli aspetti irrilevanti tramite l’elogio del blu . Al contempo, però, il discorso sulla necessità del mistero rimane su un piano puramente enunciativo, se non addirittura teorico, nella misura in cui nora nessun lavoro di Sorrentino ha mostrato una vera e propria propensione nel creare enigmi senza risolverli, diversamente da ciò che Scorsese compie in Shutter Island. La parziale eccezione del personaggio di Lenny Belardo va unita all’attrazione per l’immagine falsa della televisione e all’a ermazione della necessità del trucco in opposizione allo svelamento, nella misura in cui nessuna delle tre de nisce un punto di approdo del cinema e della letteratura di Sorrentino, ma tutte o rono spiragli e possibili preludi di immagini e storie che verranno. In The new pope, Giovanni Paolo III possiede una scatola che viene menzionata o mostrata in ogni episodio ma di cui non sappiamo niente inizialmente, se non fosse per una breve scena enigmatica in cui vediamo fuoriuscirvi un millepiedi843. Tuttavia, l’oggetto misterioso nisce gradualmente per svelare il proprio segreto: lo scrigno che il papa porta con sé nasconde della droga, declinazione materiale e meramente narrativa di un’immagine che sembrava costruirsi attorno all’impossibilità di rivelare il proprio contenuto. La visione falsamente enigmatica di The new pope può situarsi allo stesso livello di un secondo genere di fotogrammi, quelli derivanti dalla pubblicità rispetto alla quale il cinema di Sorrentino ha scelto la strada dell’assimilazione. In tal senso, pur scoprendo un’a nità con la prima fase dell’opera di Fellini, il regista partenopeo

non riesce a sottrarsi al vortice della spettacolarizzazione, né a prendere una distanza necessaria per proporre un secondo genere di immagini, come invece accade nelle forme ibride dei falsi documentari felliniani. Ad oggi, soltanto alcune scene di Loro determinano un’eccezione alla regola, per la loro capacità inedita di produrre doppiamente il falso partendo da immagini reali. Pertanto, dinanzi a fotogrammi che possiedono tante spinte inedite quanti sono gli schemi visivi consueti che, in de nitiva, arginano le novità, non possiamo che formulare interrogativi a cui non siamo in grado di fornire una risposta esaustiva: Sorrentino presenterà, un giorno, uno scrigno simile a quello di The new pope a cui, però, non verrà concesso di svelare il proprio mistero, portando a compimento le idee formulate in Tony Pagoda e i suoi amici e ne Gli aspetti irrilevanti, trovando, così, una maggiore continuità con la maniera in cui Scorsese preserva l’enigma in Shutter Island? Al contempo, le immagini ereditate dal berlusconismo e dalla televisione riusciranno ancora a imporsi liberamente come uniche possibilità visive del cinema di Sorrentino, tramite l’accumulazione di illusioni ottiche e di visioni plastiche? Il regista porterà avanti il lavoro su un’immagine interamente e doppiamente falsa come in alcune scene di Loro, oppure proverà a fare un passo indietro e a so ermarsi sulla loro produzione, come Fellini nella seconda metà della sua lmogra a? I quesiti appena formulati ci invitano a fare un passo indietro e a chiederci cosa accomuna i tre generi di straripamenti che abbiamo individuato. Esiste, forse, qualcosa che tiene insieme la possibilità di apprendere autonomamente in mancanza di guide (sezione 1), la necessità di interpellare il passato scoprendone i di cili, benché non impossibili, ricongiungimenti con il presente (sezione 2) e la possibilità di scoprire nell’attualità un’immagine che non si può denunciare ma che può, comunque, essere a rontata con i mezzi dell’arti cio e

dell’assimilazione (sezioni 3, 4 e 5)? A dispetto delle speci cità di ciascuno di loro, Sorrentino combina due gesti: da un lato, de nisce la complessità di una questione, d’altro canto, però, lascia uno spiraglio per il superamento della stessa. È qui che ritroviamo un’ambivalenza mai completamente risolta a cui abbiamo già dato voce nei primi due capitoli del nostro lavoro. Si tratta dell’indecisione tra la volontà di indebolire l’individuo e la necessità di determinarlo (capitolo I), tra l’esigenza di dare equilibrio alla composizione dell’immagine e la tentazione, rara ma preziosa, di smantellarlo (capitolo II). È per questo che abbiamo terminato il nostro studio con due domande aperte, proponendo due percorsi tracciati dal cinema di Fellini e di Scorsese e non completamente estranei a Sorrentino, lasciando, così, un possibile spiraglio che soltanto i suoi futuri lavori potranno confermare o smentire. Intervista a cura di Aldo Cazzullo (22/10/2016) https://www.corriere.it/cronache/16_ottobre_23/quella-trasferta-ragazzovedere-maradona-che-mi-ha-salvato-vita-sorrentino-42f9 ac-988b-11e6bb29-05e9e8a16c68.shtml [ultima consultazione: 28/10/2019]. F. Vigni, op. cit., pp. 116-118. P. Sorrentino, Youth, cit., 1h19’. Ivi, 1h42’. F. Vigni, op. cit., p. 177. La scelta dell’attore che interpreta l’inventore della valigia a rotelle non è a atto casuale. Si tratta di Harry Dean Stanton che ha recitato in due lm che raccontano di un viaggio nelle terre desolate degli Stati Uniti: Paris, Texas di Wim Wenders nel 1984 e Una storia vera di David Lynch nel 1999. P. Sorrentino, This must be the place, cit., 1h28’-1h31’ e 1h26’. Ivi, 38’-40’. F. Vigni, op. cit., p. 177. È questo forse uno dei pochi punti dell’analisi di Mori da cui ci dissociamo: se il critico ritiene che Jep Gambardella sia simile al Marcello Rubini di Fellini perché entrambi i personaggi sono incapaci di svolgere un lavoro “critico e orientativo”, sottolineiamo, invece, come il percorso del mondano di Sorrentino sia scandito da presenze sempre più esemplari che ribaltano i modelli osservati nella prima parte del lm, in G. Mori, op.cit., pp. 70-71. P. Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 93.

Si tratta di un termine che Mori prende in prestito da Jean-François Lyotard. Nell’analisi di Mori, la nozione di “cultura postmoderna” viene utilizzata per descrivere la condizione umana e culturale successiva al crollo delle ideologie tradizionali (dal marxismo, alla psicanalisi e alla religione), delimitando un arco temporale che coinvolge tutti i lavori di Sorrentino, in G. Mori, op.cit., pp. 9-12, passim e J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere [1979], Feltrinelli, Milano, 2002. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 1h04’. Id., Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 140. Il narratore aggiunge: “Il lungo lavoro di Maurizio Costanzo, invece, a mio parere è preziosissimo perché non ha mai smesso di ricordarci che dentro certe folli moderazioni si annidava, nitida e complessa, la bellezza”. Torneremo su questo passo di Tony Pagoda e i suoi amici nella parte dedicata all’arti cio. Cfr. capitolo II, sezione 1. F. Fellini, La strada, cit., 1h07’. Il Matto dice a Gelsomina: “Il padreterno che sa tutto, quando nasci, quando muori e chi può saperlo? No. Non lo so a cosa serve questo sasso qui ma a qualcosa deve servire, perché se questo è inutile, allora è inutile tutto. Anche le stelle. Almeno credo. E anche tu, anche tu servi a qualcosa con la tua testa di carciofo”. Id., Giulietta degli spiriti, cit., 34’-44’. Ivi, 1h20’-1h29’ e 1h40’-1h47’. Ivi, 1h30’-1h36’ e 1h59’. Cfr. capitolo II, sezione 1. G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 104. F. Fellini, Satyricon [1969] [DVD], MGM Home Video, 2003, 17’, 54’ e 1h34’-1h36’. Ivi, 54’-1h07’. Ivi, 1h07’-1h08’. Ivi, 1h36’-1h37’. Ivi, 1h43’-1h47’. Ivi, 1h59-2h05’. Id., Il bidone, cit., 1h10’ e P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 14’. F. Fellini, La dolce vita, cit., 52’-53’. F. Fellini, A. Lattuada, Luci del varietà [1950] [DVD], Les lms de ma vie, 2006, 23’. F. Fellini, La strada, cit., 46’ e Id., Otto e mezzo, cit., 56’-59’. Ivi, 1h11’-1h15’ e 1h35’-1h38’. N. Zand, Mauvaise conscience d’une conscience chrétienne, in M. Estève (a cura di), Huit et demi, cit., p. 48. [traduzione personale dal francese]. Nella scena in cui incontra la Santa invitata a cena da Gambardella, il

cardinale de La grande bellezza diletta i commensali con la ricetta del coniglio alla ligure, in P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 1h56’-1h57’. J. Collet, Le plus long chemin, cit., p. 60. Collet gioca con l’ambivalenza della parola francese “feu” che può tradursi come “fuoco” o come “luce”, con quest’ultima accezione che va impiegata se ci si riferisce alla luce arti ciale dei proiettori che vediamo alla ne di Otto e mezzo. M. Scorsese, Alice doesn’t live here anymore [1974] [DVD], Warner Home Video, 2016, 1h31’. Ivi, 1h44’-1h47’. Ivi, 1h48’. M. Scorsese, The last temptation of Christ, cit., 2h26’-2h32’. Ivi, 1h33’-1h42’. Intervista a Paola Zanuttini, op. cit. Ibidem. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 11’-12’ e 36’. Id., Gli aspetti irrilevanti, cit., p. 54. Ivi, pp. 49-51. Per l’appunto, la canzone che ascoltiamo due volte nel notte.

lm si intitola La

P. Sorrentino, Gli aspetti irrilevanti, cit., p. 52. Ibidem. Id., The new pope, cit., episodio 8. L’immagine della madre barbuta particolarmente presente nella serie televisiva è un suggerimento tratto da una conferenza di Cyril Gerbron tenutasi in occasione di un seminario collettivo sulla storia dell’arte rinascimentale organizzato dallo C.H.A.R (Centre d’Histoire de l’Art de la Renaissance) in C. Gerbron, Voyages d’images dans The Young Pope de Paolo Sorrentino, Université Paris I – Panthéon Sorbonne, Parigi (15/10/2018) https://char.hypotheses.org/8570 [ultima consultazione: 06/11/2019]. Maddalena Ventura con marito e glio (anche detto Donna barbuta) è conservato al Museo del Prado a Madrid. È opportuno sottolineare l’ubicazione reale del dipinto perché nella nzione di The young pope si tratta di un quadro della collezione dei Musei Vaticani. Questa distorsione geogra ca dimostra come la scelta pittorica di Sorrentino non sia a atto casuale. P. Sorrentino, Gli aspetti irrilevanti, cit., p. 71. Ibidem. Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 9. J. Lacan, Nota sul padre e sull’universalismo, in “La psicoanalisi”, n°33, 2002.

G. Mori, op. cit., pp. 78-79. In maniera simile a Mori, Sandra Waters propone a sua volta un riferimento teorico a Lacan in merito all’assenza di gure paterne in Sorrentino, in S. Waters, op. cit. G. Mori, op. cit., pp. 79 e 143. Cfr. capitolo III, sezione 5. G. Mori, op. cit., p. 78. M. Pagani, P. Sorrentino, op. cit., p. 31. J. Rancière, op. cit., pp. 90-91. I termini utilizzati nel testo originale in francese sono “contrariété” per il sostantivo e “contrarié” per il predicato. La di coltà della traduzione di “contrariété” sta nel fatto che il verbo “contrarier” contiene sia l’idea di “contrastare” sia quelle di “infastidire” e “turbare”, come il verbo “contrariare” in italiano (http://www.treccani.it/vocabolario/contrariare [ultima consultazione: 18/12/2019]). Per il testo originale ci riferiamo all’edizione seguente: J. Rancière, La fable cinématographique, Éditions du Seuil, Parigi, 2001. Salvo precisazioni, nelle note seguenti seguiremo la traduzione italiana già citata. J. Rancière, op. cit., p. 10. Ivi, p. 31. G. Mori, op. cit., pp. 14-15, 79, passim. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 1, 3’-4’. L’a nità tra la sequenza in questione e la pubblicità di cosmetici ci è suggerita dalla conferenza di Cyril Gerbron già riportata, in GERBRON C., op. cit. A tal proposito, va precisato che l’a nità di Sorrentino con il formato pubblicitario trova conferma nei lavori che il regista ha svolto per marchi famosi, alcuni dei quali trasformati in veri e propri cortometraggi, come Killer in red, video della durata di tredici minuti realizzato per Campari, ma anche The dream e Sabbia oppure Piccole avventure romane. Sul piacere dello sguardo, Russel Kilbourn sottolinea come l’immagine di Sorrentino risenta generalmente di un atteggiamento scopo lo, in R. Kilbourn, The “primal scene”: Memory, redemption and “woman” in the lms of Paolo Sorrentino, in A. Mariani (a cura di), op. cit., p. 384. [traduzione personale dall’inglese. Lo stesso dicasi per le citazioni successive del medesimo articolo]. Anche in questo caso, il parallelo tra il rapporto madre- glio e prodottoconsumatore è tratto dall’intervento di Cyril Gerbron. Ci riferiamo alla portata storiogra ca de Il divo, rilevata tramite le categorie di “riconoscimento” e di “rappresentanza” (Ricœur), sia all’a nità tra la volontà di astenersi dal sesso e la tendenza a sostituire il rapporto intimo con il ricordo. Cfr. capitolo I, sezione 2 e capitolo II, sezione 4. G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 103. P. Sorrentino, Youth, cit.,1h44’.

G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 103. Cfr. capitolo II, sezione 1. F. Fellini, Il bidone, cit., 1h22’-1h26’. M. Scorsese, Cape Fear [1991] [DVD], Universal Home Video, 2011, 1h52’-1h55’. Ivi, 2h02’-2h03’. Non citeremo tutti gli articoli su La grande bellezza in cui appare un riferimento, seppur marginale, a La dolce vita. Per mostrare con più chiarezza la convinzione con cui la critica ha associato i due lm, basterebbe prendere in considerazione il primo cofanetto DVD francese in cui La grande bellezza è stato abbinato a un altro lungometraggio. L’edizione di Pathé Vidéo risale al 2014, dopo la ricompensa agli Oscar, e presenta il lm di Sorrentino in compagnia de La dolce vita. N. Delbecchi, La grande bellezza come La dolce vita? Ma per favore. [online] (30/05/2013) https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/30/la-grandebellezza-come-la-dolce-vita-ma-per-favore/611150/ [ultima consultazione: 13/01/2020]. V. Malausa, La grande bellezza: cahier critique, in “Les Cahiers du Cinéma”, n°690, 2013. P. Sorrentino, Quel ritratto di vita dorata svelava che la vita non ha un senso, in “Il Venerdì di Repubblica” (19/04/2009). N. Taddei, in T. Subini, op. cit., p. 178. P. P. Pasolini, La dolce vita: per me si tratta di un lm cattolico, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte (Volume II), a cura di S. De Laude, C. Segre e W. Siti, Mondadori, Milano, 1999, pp. 2269-2279. B. Amengual, Itinéraire de Fellini: du spectacle au spectaculaire, cit., p. 25. Intervista a cura di Larry Rohter, op. cit. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 53’-54’. G. Mori, op. cit., p. 111. Ibidem e M. Senaldi, Eterno presente: da Paolo Sorrentino a Slavoj Žižek [online] (18/05/2014) https://www.artribune.com/attualita/2014/05/eterno-presente-da-paolosorrentino-a-slavoj-zizek/ [ultima consultazione: 18/11/2019]. G. Mori, op. cit., pp. 112-114. Intervista a cura di Concita De Gregorio, op. cit., 22’. F. Fellini, I clowns, cit., 41’. Oggi il Medrano è un importante circo itinerante francese. L’edi cio storico del Medrano fu demolito due anni dopo il lm di Fellini, nel 1972. https://fresques.ina.fr/en-scenes/ chemedia/Scenes00531/demolition-du-cirque-medrano.html [ultima consultazione: 18/11/2019]. F. Fellini, I clowns, cit., 43’.

Ivi, 1h03’ e 50’. Ivi, 1h01’. F. Vigni, op. cit., pp. 40-42. Cfr. capitolo I. P. Sorrentino, This must be the place, cit., 30’-31’. F. Vigni, op. cit., p. 169. P. Ricœur, op. cit., p. 661. Abbiamo già fatto riferimento a queste due categorie rispetto alla portata storiogra ca de Il divo, questione trattata nel primo capitolo del nostro lavoro. P. Sorrentino, This must be the place, cit., 26’-27’. Id., Loro 2, cit., 1h20’-1h22’. Ivi, 1h09’-1h17’. Id., Loro 1, cit., 1h04’-1h07’ e 1h17’. Id., La grande bellezza, cit., 58’. Jep dice “mi sento vecchio” e Ramona gli risponde con premurosa ironia “giovane nun sei”. F. Fellini, La dolce vita, cit., 34’-44’. P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, cit., p. 17. Ivi, p. 103. G. Mori, op. cit., pp. 103 e 110. Ivi, pp. 110-111. La prima collaborazione tra Sorrentino e Contarello risale al cortometraggio del 2009 intitolato La partita lenta. In seguito, Contarello è intervenuto come co-sceneggiatore in tutti i lavori cinematogra ci di Sorrentino, fatta eccezione de La fortuna, Le voci di dentro e Youth. https://www.imdb.com/name/nm0176197/ [ultima consultazione: 20/11/2019]. D. Monetti, L. Pallanch, Umberto Contarello a cura di D. Monetti e L. Pallanch, in P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), op. cit., p. 210. P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, cit., p. 51. Intervista a cura di Concita De Gregorio, op. cit., 30’. P. Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 76. Ibidem. Ibidem. F. Vigni, op. cit., p. 28. P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, cit., p. 16. Id., L’uomo in più, cit., 1h24’-1h27’. F. Fellini, Il Casanova, cit., 2h25’-2h27’.

Id., Prova d’orchestra [1978] [DVD], Les lms de ma vie, 2013, 51’. Ironicamente, si noterà che la sala prove dell’orchestra è una chiesa sconsacrata. Ivi, 55’-1h01’. Ivi, 1h11’-1h12’. Id., E la nave va, cit., 1h04’-1h06’. Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, il comandante della nave decide di accogliere alcuni naufraghi serbi. Id., La voce della Luna [1990] [DVD], Arrow Academy, 2017, 17’, 21’ e 1h43’. La nonna di Ivo soleva chiamarlo con lo stesso nome del burattino di Collodi. Ivo è inoltre innamorato di una ragazza (l’Aldina) che vive in una dimora chiamata Villa Ginestra. In aggiunta, un ritratto di Leopardi e una statuetta di Pinocchio compaiono proprio nella sua camera da letto. Ivi, 1h32’-1h37’. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 2h03’-2h05’. Cfr. capitolo I, sezione 2. P. Sorrentino, This must be the place, cit., 40’-41’ e 49’-50’. P. Ricœur, op. cit., p. 195. P. Sorrentino, This must be the place, cit., 1h46’-1h49’. Ivi, 1h51’-1h52’. F. Vigni, op. cit., p. 183. P. Sorrentino, Youth, cit., 1h45’. P. Ricœur, op. cit., p. 616. “Spezzare” in merito al tempo è un verbo che Ricœur prende in prestito da Bergson, come osservato in una nota riportata in precedenza. P. Sorrentino, Youth, cit., 1h44’-1h46’. F. Fellini, I clowns, cit., 1’-14’. Id., Roma, cit., 24’-32’. P. P. Pasolini, La dolce vita: per me si tratta di un lm cattolico, cit., p. 2272. F. Fellini, Roma, cit., 42’-58’. P. Bondanella, The Cinema of Federico Fellini, Princeton University Press, Princeton, pp. 265-267. F. Fellini, Roma, cit., 1h54’. Per la natura bicorporea della festa popolare ci riferiamo allo spunto di Bachtin già citato. M. Bachtin, op. cit., p. 224. P. Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, cit., pp. 61-62. A. Agnel, Jung et Fellini. L’inconscient crée des images, le lm reste à faire, in “Les cahiers jungiens de psychanalyse”, n°135, 2012, pp. 7-17.

G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 107. D. Holdaway, op. cit., p. 33. P. Sorrentino, Loro 1, cit., 1’. F. De Bernardinis, op. cit., p. 21. A. Ercolani, op. cit. M. Pagani, P. Sorrentino, op. cit., p. 30. https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/bari/cronaca/18_aprile_25/tarantin i-vede- lm-minaccia-il-morra-loro-1-non-sono-io-0dc8705a-4864-11e8be35-75f4207074dc.shtml [ultima consultazione: 12/12/2019]. M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicanalitica, Ra aello Cortina, Milano, 2012, p. 13. P. Sorrentino, Loro 2, cit., 1h01’-1h02’. Ricorderemo la sequenza della corruzione dei sei senatori che il protagonista invita nella sua lussuosa villa, seguita dal giuramento del neoeletto Presidente del Consiglio dinanzi a Giorgio Napolitano. Id., Loro 1, 1h01’-1h04’ e F. Fellini, Lo sceicco bianco [1952] [DVD], Medusa, 2013, 28’-29’. P. Sorrentino, Loro 1, cit., 49’. F. Fellini, Lo sceicco bianco, cit., 42’-46’. Ivi, 55’-58’. P. Sorrentino, Loro 1, cit., 1h01’-1h04’. Id., Loro 2, cit., 14’-16’ e 35’-36’. Numerose sono le scene in cui Berlusconi intrattiene i propri ospiti con canzoni o aneddoti comici. G. Mori, op. cit., pp. 13-17. Ivi, pp. 27-28 e 54. R. Casillo, Gangster priest, cit. pp. 363-366. Ivi, p. 366. Ivi, pp. 296-297. Ivi, pp. 329 e 341. M. Scorsese, The Irishman, cit., 3h11’-3h12’. Dinanzi agli agenti dell’FBI che gli ricordano che i “fratelli” da proteggere sono tutti deceduti, l’anziano Frank Sheeran ri uta inutilmente di confessare la propria storia. Un analogo arti cio narrativo è presente in Lazzaro felice (2018) di Alice Rohrwacher, lungometraggio in cui, come in Hanno tutti ragione, viene aperta una nestra sul mondo contemporaneo. Qui, il protagonista (Lazzaro) scopre la modernità urbana dopo un sonno miracoloso durato vent’anni. P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, cit., p. 263. Ivi, p. 260.

Ivi, p. 285. Ivi, pp. 273-274. Ibidem. Id., Loro 1, cit., 1h09’-1h110’ e 1h29’-1h32’. L’ultimo capitolo di Hanno tutti ragione si svolge negli anni Duemila. Sebbene non vi sia un’indicazione cronologica precisa, possiamo situare il racconto a partire dall’anno 2002, per via dell’uso dell’euro invece della lira. P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, cit., pp. 291-297. Ivi, p. 297. Ivi, p. 291. Ivi, p. 298. Ivi, p. 300. Ivi, p. 311. “Ma sotto sotto lo sapeva, se no perché ogni tanto, all’improvviso, potevo scorgere, nella sua bocca tesa e avvilita, nei suoi occhi caduti, quelle striature emancipate di tristezza?”. Ivi, pp. 297-305. Ivi, pp. 301-304. “Se la parola dice go, la mente dice ga”, sentenzia Raja. Ivi, pp. 303-305. “Mi sono commosso come quando vidi piangere mio padre alla guida dell’automobile, all’improvviso”, commenta Pagoda. Ivi, p. 305. F. Fellini, Ginger e Fred [1986] [DVD], CG Entertainment, 2005, 1h42’-1h56’. R. Benayoun, Fellini-Fellini: une pub pour le cinéma, in G. Ciment (a cura di), op. cit., p. 166. [traduzione personale dal francese]. J. Rancière, op. cit., p. 10, passim. F. Zanello, Il cowboy, la bella e il cattivo, in P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), op. cit., p. 72. M. Scorsese, The king of comedy [1982] [DVD], MGM Home Video, 2014, 22’ e 1h28’. È interessante osservare che in un lavoro cinematogra co più recente, Joker (2019) di Todd Phillips, ritroviamo il personaggio del comico fallimentare i cui sketch raccontano i propri insuccessi. Non a caso, in maniera simile a Pupkin, il protagonista (Arthur Fleck) diventa famoso per la ragione sbagliata, grazie al video di un suo numero mal riuscito che lo trasforma in oggetto di scherno. Altrettanto signi cativa è la scelta da parte di Phillips di attribuire a Robert De Niro, il Rupert Pupkin di Scorsese, la parte dell’umorista di successo, ruolo assegnato a Jerry Lewis in The king of comedy. Ivi, 33’-36’ e 1h36’-1h40’. Ivi, 23’. Ivi, 39’. Ivi, 53’-1h01’.

Occorre rammentare l’osservazione precedente secondo cui, in Loro, il personaggio di Berlusconi viene spesso designato con il pronome “Lui”. P. Sorrentino, Youth, cit., 46’-47’. Id., The young pope, cit., episodio 1, 1’-3’. Id., La grande bellezza, cit., 39’-41’. S. Salvestroni, op. cit., p. 8. P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, cit., p. 300. Id., La notte lunga, Indigo Film, 2001, 3’-5’. Ivi, 7’-12’. F. Vigni, op. cit., p. 30. Ibidem. G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 149. P. Sorrentino, L’uomo in più, cit., 19’-20’. G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., pp. 149-150. F. Fellini, A. Lattuada, op. cit., 57’-1h01’. Ivi, 1h28-1h31’. Ivi, 1h36’-1h37’. Ivi, 1h03’-1h04’. G. D’Annunzio, Poesie, a cura di F. Roncoroni, Garzanti, Milano, 1982, pp. 398399. “Piove sulle nostre mani / ignude / sui nostri sentimenti leggieri, / sui freschi pensieri che l’anima schiude novella, / su la favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude, / o Ermione”. Cfr. capitolo II, sezione 1. F. Fellini, Le notti di Cabiria, cit., 3’-7’ e 21’-44’. Ivi, 1h12’-1h21’ e 1h50’-1h54’. B. Amengual, Itinéraire de Fellini: du spectacle au spectaculaire, cit., p. 16. F. Fellini, Le notti di Cabiria, cit., 58’-1h04’. A. Minuz, Mariofanie: religiosità popolare e riti dello spettacolo nel cinema di Fellini degli anni Cinquanta, in “Quaderni SMSR”, n° 6/1, 2015, p. 34. In tal senso, rimandiamo all’idea del “mondo bicorporeo” della “festa popolare”, precedentemente evocato tramite Bachtin, nonché alla nozione di “procadenza” che Deleuze elabora per il cinema di Fellini, anch’essa citata anteriormente nel nostro studio. M. Bachtin, op. cit., p. 224 e G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 107. Cfr. capitolo II, sezione 4. L’a ermazione appena formulata non esclude la somiglianza individuata nel secondo capitolo del nostro lavoro tra l’epilogo de Le conseguenze dell’amore e quello de Le notti di Cabiria. La presenza simultanea di gioia e dolore, di vita e morte che coinvolge entrambe le

sequenze non implica necessariamente la coalescenza tra realtà e immaginazione che osserviamo in Fellini. M. Scorsese, New York, New York, cit., 2h04’-2h18’. Ivi, 2h36’-2h41’. Ivi, 2h24’-2h25’ e 2h30’-2h33’. Per quanto riguarda il brano emblematico del lungometraggio, Theme from New York, New York riscuoterà ampio successo dopo l’uscita del lm e verrà presentato con il titolo più breve di New York, New York. R. Marx, op. cit., p. 39. Marx sottolinea come la distanza che i due protagonisti creano tra di loro sia ravvisabile nell’ambito musicale, nella misura in cui Jimmy sceglie “il jazz degli afroamericani”, laddove Francine rimane legata al “jazz dei bianchi”. Cfr. capitolo II, sezione 4. G. Mori, op. cit., p. 144. Cfr. capitolo II, sezione 1. G. Mori, op. cit., p. 27. Ivi, pp. 24-25. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile [1964], tr. it. di Andrea Bonomi, Bompiani, Milano, 1994, pp. 266-267. La citazione appena riportata è tratta dall’edizione del 1994 de Il visibile e l’invisibile. Per le note successive della stessa opera, ci riferiremo alla paginazione dell’edizione del 1993. G. Mori, op. cit., p. 24. Cfr. capitolo I, sezione 3. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile [1964], tr. it. di Andrea Bonomi, Bompiani, Milano, 1993, p. 272. Ivi, p. 176. Ibidem. Ivi, p. 272. Ibidem. Ibidem. Ibidem. La sintassi prettamente nominale della citazione riportata ci invita a rammentare come Il visibile e l’invisibile sia una pubblicazione postuma che raccoglie alcune note di lavoro di Merleau-Ponty. R. Breeur, Merleau-Ponty, un sujet désingularisé, in “Revue Philosophique de Louvain”, n° 96/2, 1998, pp. 249-250. [traduzione personale dal francese]. M. Merleau-Ponty, op. cit., p. 272. P. Sorrentino, Youth, cit., 3’-7’. Ivi, 43’. Id., Le conseguenze dell’amore, cit., 2’-5’.

F. Vigni, op. cit., p. 69. Ivi, p. 70. Ivi, pp. 74-75. P. Sorrentino, The new pope, cit., episodio 1, 54’-57’. F. Vigni, op. cit., p. 82. M. Gilebbi, Posthuman Sorrentino: Youth and The Great Beauty as ecocinema, in A. Mariani (a cura di), op. cit., pp. 353-356 e 360. [traduzione personale dall’inglese]. P. Sorrentino, This must be the place, cit., 1h07’. Ivi, 1h25’. Ivi, 34’-38’. Ivi, 57’-59’. Id., L’uomo in più, cit., 23’-24’. Id., La partita lenta, Parco Film – Sky, 2009, 8’. Id., This must be the place, cit., 1h41’-1h46’. Id., La grande bellezza, cit., 2’-4’ e 34’-35’; F. Fellini, Roma, cit., 1h31’-1h32’. O. Volta, Le lm que Fellini ne tourne pas, in G. Ciment (a cura di), op. cit., p. 78. [traduzione personale dal francese]. A. Gammon, op. cit., p. 366. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 2’-12’. F. Fellini, Roma, cit., 1h46’-1h59’. Ivi, 33’-41’. Ivi, 1h03’-1h03’. Ivi, 1h55’-1h57’. P. Sorrentino, Il divo, cit., 19’-21’. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 6’-8’. G. Mori, op. cit., p. 123. P. De Sanctis, Forme della sensualità. Il cinema di Paolo Sorrentino, in P. De Sanctis, D. Monetti, L. Pallanch (a cura di), op. cit., p. 34. G. Mori, op. cit., pp. 116-117. Ritroviamo un’idea simile nei due articoli seguenti: A. Marlow-Mann, Character engagement and alienation in the cinema of Paolo Sorrentino, in W. Hope (a cura di), Italian Film Directors in the new Millenium, Cambridge Scholar Press, Newcastle upon Tyne, 2010, pp. 161-173 e L. Tuan, Paolo Sorrentino’s cinematic excess, in A. Mariani (a cura di), op. cit., pp. 425-442. G. Mori, op. cit., p. 124.

Facciamo riferimento agli “sparuti e incostanti sprazzi di bellezza” evocati nell’ultimo monologo di Jep Gambardella, di cui abbiamo già parlato nel primo capitolo del nostro lavoro. Cfr. capitolo I, sezione 3. La scena è girata in alcune stanze di Palazzo Nuovo, in C. D’Orazio, op. cit., p. 46. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 35’. Si tratta di un’espressione pronunciata dalla voce fuori campo del protagonista. Ivi, 1h19’-1h23’. G. Mori, op. cit., pp. 118-119. M. Scorsese, The last temptation of Christ, cit., 1h45’-1h47’. Ivi, 54’-1h01’. Ivi, 1h58’-2h01’. M. Scorsese, The wolf of Wall Street, cit., 8’-11’. Ivi, 13’. Non a caso, nel lm di Scorsese la parola “fuck” viene utilizzata più di cinquecento volte. https://www.theguardian.com/ lm/2014/jan/03/thewolf-of-wall-street-f-word [ultima consultazione: 22/01/2020]. M. Scorsese, The wolf of Wall Street, cit., 36’-39’. Ivi, 47’-49’ e 54’. Ivi, 1h15’-1h16’. Id., Goodfellas, cit., 1h19’-1h22’. Secondo il nostro punto di vista, la tendenza all’eccesso particolarmente visibile ne La grande bellezza è già presente nei lavori precedenti di Sorrentino. Inoltre, va precisato come il lungometraggio in questione e The wolf of Wall Street siano usciti nelle sale cinematogra che nello stesso anno (2013), con il lavoro di Sorrentino che anticipa quello di Scorsese di qualche mese. https://www.imdb.com/title/tt2358891/ e https://www.imdb.com/title/tt0993846/ [ultima consultazione: 23/01/2020]. Cfr. capitolo III, sezione 1. B. Amengual, Itinéraire de Fellini: du spectacle au spectaculaire, cit., p. 3. Ivi, p. 6. C. Viviani, Les sunlights de Fellini et les feux du music-hall, in Estève M., Federico Fellini aux sources de l’imaginaire, cit., p. 41. A. Minuz, op. cit., pp. 42-44. F. Fellini, La strada, cit., 56’-1h01’. Come detto, il numero per cui Zampanò è famoso consiste nel rompere una catena stretta attorno al torace gon ando il petto. B. Amengual, Itinéraire de Fellini: du spectacle au spectaculaire, cit., p. 3.p. 14.

Id., Fin d’itinéraire: du “côté de chez Lumière” au “côté de Méliès”, in M. Estève, Federico Fellini aux sources de l’imaginaire, cit., p. 82. [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso articolo]. Ivi, p. 83. F. Fellini, Intervista, cit., 1h18’-1h23’. Id., Toby Dammit, in F. Fellini, L. Malle, R. Vadim, Tre passi nel delirio [1968] [DVD], Teodora, 2015, 1h24’-1h31’. Ad esempio, il tema musicale de Lo sceicco bianco viene riproposto in una scena di Intervista in Id., Intervista, cit., 21’. P. Sorrentino, The young pope, cit., episodio 5, 34’-36’. Id., Youth, cit., 45’-46’. Il brano interpretato da Paloma Faith fa parte della colonna sonora u ciale del lm. Tradotto in italiano, il titolo della canzone darebbe qualcosa come: “Non posso darmi di te”. https://www.imdb.com/title/tt3312830/soundtrack [ultima consultazione: 29/02/2020]. Id., The new pope, cit., episodio 1, 29’-31’. M. Facchini, A Journey from Death to Life: Spectacular Realism and the “Unamendability” of Reality in Paolo Sorrentino’s The Great Beauty, in L. Di Martino, P. Verdicchio (a cura di), Encounters with the Real in Contemporary Italian Cinema and Literature, Cambridge Scholars Press, Newcastle upon Tyne, 2017, p. 182. [traduzione personale dall’inglese]. Ibidem. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 59’-1h03’. G. Mori, op. cit., p. 66. P. Antonello, Di crisi in meglio. Realismo, impegno postmoderno e cinema politico nell’Italia degli anni zero: da Nanni Moretti a Paolo Sorrentino, cit., p. 170. P. Sorrentino, Loro 1, cit., 52’-56’. https://www.independent.co.uk/news/world/berlusconis-trash-tv-is-here-tostay-1585702.html [ultima consultazione: 26/01/2020]. M. Scorsese, The wolf of Wall Street, cit., 52’-53’. B. Amengual, Itinéraire de Fellini: du spectacle au spectaculaire, cit., p. 6. B. Hennessey, Real simulations: CGI and special e ects in two lms by Paolo Sorrentino, in “The Italianist”, n° 37/3, pp. 458-459. P. Sorrentino, Loro 2, cit., 58’. Ivi, 14’-16’. Id., Loro 1, cit., 1’-3’. In linguistica, l’allotropo è una “variante formale sincronica (o doppione) di

un’altra parola (come per es. malinconia di fronte a melanconia) o di un altro morfema (come per esempio, nell’italiano dell’Ottocento, io avevo di fronte a io aveva), talvolta con sfumatura stilistica diversa”, in http://www.treccani.it/vocabolario/allotropo [ultima consultazione: 28/01/2020]. M. Scorsese, Cape Fear, cit., 6’-7’. Ivi, 57’. Tradotto, il ritornello darebbe qualcosa come: “Se vuoi una brava ragazza durante il giorno, sii un bravo ragazzo la sera” [traduzione personale dall’inglese]. M. Scorsese, Cape Fear, cit., 24’, 1h20’ e 1h53’. E. Reguitti, Con itto di interessi: lo strapotere di Berlusconi annichilisce l’informazione [online] (20/08/2009) https://www.ilfattoquotidiano.it/2009/08/20/con itto-dinteresse-lostrapo/11961/ [ultima consultazione: 28/01/2020]. Numerose sono le dichiarazioni che Berlusconi ha pronunciato contro la giustizia italiana. A titolo esempli cativo, si prenda questo articolo del 2003 in cui l’allora Presidente del Consiglio si de nisce “perseguitato” dalla magistratura: https://www.repubblica.it/online/politica/imisircinque/imisircinque/imisi rcinque.html [ultima consultazione: 28/01/2020]. Esistono due versioni del lmato promozionale: una con uomini e donne, una con sole donne. https://www.youtube.com/watch?v=WXf-YbsSh0Y e https://www.youtube.com/watch?v=n1Ho-mT63us [ultima consultazione: 28/01/2020]. P. Sorrentino, Loro 2, cit., 41’-43’. https://www.ilpost.it/ ashes/berlusconi-agnelli/ 28/01/2020].

[ultima

consultazione:

G. Mori, op. cit., p. 162. P. Sorrentino, Loro 2, cit., 1h20’-1h22’. https://www.imdb.com/title/tt9062886/ [ultima consultazione: 29/01/2020]. In realtà, ci sono due puntate del Maurizio Costanzo Show che Carmelo Bene ha animato con la formula dell’Uno contro tutti (un episodio del 1994 e uno del 1995). Sorrentino non speci ca a quale dei due si riferisca in Tony Pagoda e i suoi amici. Tuttavia, Tony Pagoda riporta la frase seguente formulata da Carmelo Bene: “Puoi parlare quanto vuoi di Dio, ma il problema è che non puoi parlare con Dio”. Si tratta di una citazione inesatta che, tuttavia, ci permette di individuare quale dei due episodi sia evocato. La citazione originale è la seguente: “In teologia si danno solo domande, non risposte. […] Lei non può parlare di Dio con Dio” e appartiene alla puntata del 1994, in P. Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 141 e https://www.youtube.com/watch?v=1nSk7OWSQ7k [ultima consultazione: 29/01/2020]. Id., Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 141.

Ibidem. Ivi, p. 137. M. Latil-Le Dantec, op. cit., p. 54. F. Fellini, Toby Dammit, cit., 1h43’. I versi recitati da Toby Dammit sono tratti dalla quinta scena del quinto atto di Macbeth di W. Shakespeare. M. Scorsese, A personal journey, cit., DVD 3, 17’-19’. P. Lombardo, Étonnement et souvenir chez Scorsese, in “Critique”, n°763, 2012, p. 1075. M. Scorsese, Shutter Island [2010] [DVD], Medusa, 2013, 1h30’, 21’, passim. Ivi, 1h11’-1h12’ e 1h49’-1h51’. Ivi, 2h04’. E. Le Toullec, La folie à Hollywood: Mankiewicz, Forman, Scorsese, in “Savoir et clinique”, n°14, 2012, p. 73. [traduzione personale dal francese. Lo stesso dicasi per le note seguenti dello stesso articolo]. Ivi, pp. 74-75. J. Rancière, op. cit., p. 14. P. Sorrentino, La grande bellezza, cit., 1h34’-1h37’. Id., Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 43. Ivi, p. 43-44. Id., The young pope, cit., episodi 4 e 5. Id., Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 44. Benché non sia menzionata, l’immagine dei “naufraghi sull’isola senza cibo” fa probabilmente riferimentao alla trasmissione intitolata L’isola dei famosi. P. Sorrentino, Tony Pagoda e i suoi amici, cit., p. 47. Cfr. capitolo I, sezione 3. P. Sorrentino, Gli aspetti irrilevanti, cit., p. 265. Ivi, pp. 270-271. Ivi, p. 271. Id, The new pope, cit., episodio 5, 19’.

CONCLUSIONE Le pagine precedenti ci hanno permesso di osservare come la spinta che avvicina Sorrentino al cinema di Fellini e Scorsese sia spesso inevitabilmente accompagnata da un movimento contrario che da loro si dissocia. Abbiamo suddiviso il nostro studio in tre capitoli principali per i quali abbiamo de nito tre categorie ampie al ne di coinvolgere una pluralità di motivi e tematiche che contraddistinguono i lavori sorrentiniani. Nella prima parte ci siamo concentrati sulla sfera individuale, ossia sulla maniera in cui Sorrentino costruisce e indebolisce il personaggio. Nel secondo capitolo, invece, abbiamo osservato più da vicino alcuni aspetti formali delle opere dell’autore partenopeo, identi candone le principali tendenze visive e narrative. In ne, abbiamo concluso l’ampiamento prospettico già realizzato nella successione tra le prime due parti proponendo una ri essione sugli “straripamenti” dei lavori di Sorrentino in problematiche attigue al cinema e alla letteratura. Per ogni speci cità della produzione sorrentiniana abbiamo intercettato assonanze e discontinuità con Fellini e Scorsese. Alla luce di quanto osservato nel primo capitolo, siamo giunti a una conclusione generale che possiamo riassumere come segue: benché il declino del soggetto sia un aspetto comune ai tre cineasti, i fallimenti personali e l’indebolimento dell’individuo che riscontriamo in Sorrentino dipendono da un’ispirazione più scorsesiana che felliniana, nella misura in cui, diversamente da Scorsese, Fellini perde gradualmente l’individuo come punto di riferimento. Pertanto, due tra i personaggi più complessi del cinema di Sorrentino (Lenny Belardo e Jep Gambardella) devono le loro peculiarità a un gesto scorsesiano. Non a caso, ciò che resta di felliniano in Gambardella non è altro che una ri essione sull’arte e sulla processualità della scrittura di cui La grande bellezza si fa portavoce. Questa più grande vicinanza tra

Sorrentino e Scorsese è stata confermata da uno studio sul grottesco. Il secondo capitolo del nostro lavoro è stato suddiviso in quattro sezioni. Il rapporto tra la visione frammentaria e la totalità narrativa ci ha permesso di inaugurare un discorso successivamente completato da ciò che abbiamo de nito “eterogeneità”. Un altro aspetto formale è stato rilevato studiando più da vicino gli epiloghi delle storie sorrentiniane, nonché la possibilità per la narrazione di o rire un’inattesa apertura nale. Lo “slancio vitale”, che spesso coincide con il punto culminante della fabula, si è, dunque, rivelato compatibile con un lavoro sulla privazione che i personaggi di Sorrentino sono costretti a compiere per rinnovare il contatto con la vita. In tal senso, abbiamo rilevato come il frammento svolgesse due funzioni distinte in Fellini e in Sorrentino, nella misura in cui il primo lo utilizza per aumentare il volume della propria immagine, laddove il secondo conduce l’instante verso l’equilibrio narrativo. Una tendenza simile è rintracciabile in Scorsese, il quale, come Sorrentino, promuove la possibilità della riunione come punto culminante della narrazione, anche se le riunioni di Scorsese sono distruttive, diversamente da quelle di Sorrentino. A dispetto di questa prima dissonanza con Fellini, abbiamo identi cato una seconda continuità meno esplicita, introducendo la categoria di “eterogeneità” per i lavori di Sorrentino. Abbiamo, dunque, sottolineato la somiglianza tra alcuni sviluppi narrativi sorrentiniani e il trattamento del dialogo nelle cacofonie felliniane. Inoltre, l’eterogeneità sorrentiniana de nisce un punto di contatto con una particolarità del cinema di Scorsese: il passaggio tra due o più generi cinematogra ci all’interno dello stesso lm, ciò che, riprendendo uno spunto di Christine Gledhill, abbiamo de nito “gesto melodrammatico”. Lo stesso dicasi per il “tu o” e per lo “slancio vitale” in cui possiamo ravvisare un’in uenza scorsesiana. In aggiunta, queste due categorie ci hanno consentito di paragonare le due strutture meta-referenziali de La grande bellezza e

Otto e mezzo. La ri essione sorrentiniana sulla privazione è risultata altrettanto intrisa di riferimenti a Fellini e Scorsese. Il terzo capitolo è stato articolato in cinque sezioni. In primo luogo, abbiamo trattato la questione dell’apprendimento e dell’orfanità (sezione 1), per poi passare alla presenza di quesiti storiogra ci nei lavori di Sorrentino (sezione 2). In ne, abbiamo dedicato tre sezioni alla visione del mondo contemporaneo che emerge dal cinema e dalla letteratura dell’autore partenopeo (sezioni 3, 4 e 5). In merito alla questione dell’apprendimento, abbiamo riscontrato una prima dissonanza con Fellini e una seconda a nità con Scorsese: le traiettorie sempre più labirintiche del regista di Rimini di eriscono dai viaggi formativi sorrentiniani. Questi ultimi sono risultati più simili ai percorsi scorsesiani, nella misura in cui entrambi i registi prevedono l’intervento di modelli atipici che contribuiscono a interrompere l’iniziale erranza dei personaggi. Il segmento dedicato alla presenza di quesiti storiogra ci in Sorrentino ci ha consentito di iscrivere La dolce vita e La grande bellezza in un rapporto genealogico. La di erenza tra i due lungometraggi costituisce un aspetto determinante nella rete delle in uenze: piuttosto che mettere in evidenza l’impossibilità da parte di Sorrentino di emulare il maestro Fellini – tesi condivisa da buona parte dei detrattori del regista partenopeo – è stato signi cativo seguire l’analisi di Mori e, in ne, leggere ne La grande bellezza la consapevolezza di non poter proporre una lettura della contemporaneità con i mezzi del lungometraggio di Fellini. A loro volta, i motivi sorrentiniani della nostalgia e della malinconia, alla stessa stregua dell’anacronismo, rimandano ad alcune immagini felliniane e scorsesiane. Quanto al mondo contemporaneo, abbiamo sottolineato un’assonanza importante tra Sorrentino e Scorsese: il passaggio da Il divo a Loro, da una prima immagine del

potere che nasconde le proprie azioni illecite a una seconda che sancisce l’assenza di politica, rimanda all’evoluzione del clan ma oso in Scorsese, fenomeno che Robert Casillo descrive con precisione. Parallelamente, il trattamento dell’eccesso in The wolf of Wall Street risulta simile alle immagini de La grande bellezza, osservazione che ci ha consentito di sottolineare come, sia in Scorsese che in Sorrentino, l’eccesso visivo sia un mezzo propizio per elaborare una descrizione della contemporaneità. Quanto a Fellini, abbiamo segnalato l’analogia tra un episodio di Hanno tutti ragione e una sequenza di Ginger e Fred in merito alla capacità di far sopravvivere l’espressione letteraria e l’immagine cinematogra ca a dispetto della mancata sensibilità del pubblico televisivo. Sempre riguardo alla televisione, lo stato patologico del protagonista di The king of comedy ricorda il Berlusconi di Loro e la maniera in cui questi diventa, paradossalmente, vittima del berlusconismo. Dopo aver esplicitato una divergenza tra Sorrentino e Fellini rispetto al ruolo dell’illusione, abbiamo messo in evidenza come lo spazio immaginario in Sorrentino non fosse altro che un’illusione ottica, come il lm ttizio che vediamo alla ne di New York, New York di Scorsese. In seguito, è stata rilevata un’analogia stilistica tra Fellini e Sorrentino spesso evocata dalla critica, ossia la presenza nel secondo di inquadrature e movimenti di telecamera arti ciosi e teatrali. Tuttavia, la somiglianza è risultata parziale perché Sorrentino crea arti ci visivi rendendo invisibile la macchina da presa, laddove, da Otto e mezzo in poi, Fellini concepisce sempre più spesso l’apparecchio ottico come un corpo tangibile e visibile, atteggiamento da cui dipende la prospettiva progressivamente autoreferenziale del suo cinema, prospettiva invece assente in Sorrentino. L’ultima dissonanza è spettata all’immagine di Scorsese: partendo dalla maniera in cui Scorsese crea e preserva l’enigma in Shutter Island, abbiamo evidenziato una discrepanza tra il discorso sul trucco e sul mistero che

Sorrentino formula in Tony Pagoda e i suoi amici e un trattamento disparato che l’autore riserva agli stessi termini nei suoi lavori. Per concludere il nostro lavoro, saremmo tentati di convertire le considerazioni elaborate nelle pagine precedenti in una formula onnicomprensiva che potremmo enunciare come segue: i punti di contatto tra i lavori di Sorrentino e il cinema di Fellini o di Scorsese sono disparati, il che testimonia, se non una somiglianza studiata, quantomeno la consapevolezza nonché la volontà da parte del più giovane autore di accogliere l’eredità dei due maestri. Al contempo, il medesimo sguardo globale ci spingerebbe a concludere che le dissonanze più nette sono rintracciabili con Fellini piuttosto che Scorsese. Tuttavia, tale approccio promuoverebbe una posizione più risolutiva che critica, la quale non produrrebbe miglior e etto che attenuare quell’entusiasmo che ha spinto molti spettatori a vedere in Sorrentino l’erede di Fellini, specie dopo La grande bellezza. Non crediamo che il valore critico del nostro studio attenga al calcolo delle dissonanze, né riteniamo che sia un calcolo a conferire alla dissonanza la rilevanza analitica che invece possiede. Preferiamo, in ultima analisi, lasciare che le immagini di Scorsese e di Fellini o rano un’apertura, seppure virtuale, ma pur sempre legata ad alcune piste esplorate da Sorrentino. Facendo tesoro dei quesiti sollevati precedentemente, concludiamo il nostro studio con gli interrogativi seguenti: Sorrentino tenterà di proporre personaggi e storie di cui non cercherà di risolvere la complessità, facendo in modo che il mistero e l’enigma restino intatti, portando avanti il lavoro già inaugurato con Lenny Belardo in The young pope? L’autore partenopeo aggiungerà, forse, alla volontà di creare immagini nel segno dell’arti cio la necessità di mostrarne la produzione, facendo un passo indietro rispetto all’assimilazione mimetica, lasciando, così, che la centralità dell’individuo faccia posto a un interesse inedito per lo spettacolo stesso?

Per quesiti che appaiono ancora irrisolti, per altre novità letterarie e cinematogra che sarà necessario attendere i lavori futuri di Sorrentino e dedicare loro un tempo di ricerca ulteriore.

POSTFAZIONE Questo volume emana dalla tesi dottorale di Vittoriano Gallico, di cui riproduce gli aspetti essenziali dopo un attento lavoro di revisione e di necessaria riduzione al ne di rendere la lettura più agevole, e si presenta al contempo come risultante di una serie di ri essioni e di analisi critiche sull’estetica dell’universo sorrentiniano e come un nuovo strumento per futuri studi in questo campo che sappiano far dialogare in modo altrettanto pro cuo le varie sfaccettature di Paolo Sorrentino, artista creatore di immagini e di parole, con l’approccio interdisciplinare che vi è stato adottato. Artista contemporaneo in piena attività creativa, Sorrentino può ormai essere considerato come un “classico” del cinema italiano e internazionale, dopo l’Oscar ricevuto nel 2014 per La grande bellezza. L’angolatura scelta è senza alcun dubbio originale, trattandosi di uno studio bi-culturale e tri-generazionale, come ha ben sottolineato Anthony J. Tamburri, dato che vi viene scandagliato tanto il lavoro narrativo quanto quello cinematogra co dell’artista napoletano alla luce delle possibili in uenze che l’italiano Federico Fellini e l’(italo)americano Martin Scorsese hanno avuto su di lui secondo le dichiarazioni dello stesso Sorrentino. I tre artisti appartengono infatti a tre generazioni diverse – 1920, 1943, 1970 – ognuna delle quali è stata marcata da eventi storici, politici, sociali di fondamentale importanza nel XX secolo – la seconda Guerra mondiale, il decennio degli anni 60 negli Stati Uniti, il periodo postsessantottino in Europa – e questi, a loro volta, hanno in uenzato in maniera indelebile l’estetica di quegli anni oltre che quella dei singoli artisti. L’in uenza di Fellini e di Scorsese sulla produzione letteraria e cinematogra ca di Paolo Sorrentino è dunque al centro di questo volume in cui sono costantemente messi in rilievo gli innumerevoli legami intra-testuali e inter-testuali, i riferimenti espliciti, impliciti o involontari

ai suoi due maestri dichiarati. Tuttavia, al di là del lavoro dell’artista napoletano, l’autore del volume conduce altresì il lettore verso un’altra via, quella dei legami inter-testuali e trans-testuali tra cinema e scrittura, che non sono mai lineari, e senza per altro tralasciare altre forme di espressione artistica minori o laterali come i cortometraggi a carattere pubblicitario. Se la principale chiave di lettura che anima lo studio qui presente è quella delle fonti di ispirazione felliniane e scorsesiane da rintracciare nell’opera di Sorrentino, l’autore va oltre e forgia uno strumento critico in grado di consentirgli di penetrare nel lavoro dell’artista napoletano e di mettere così in rilievo non soltanto i prestiti, evidenti o occulti che siano, dovuti ai suoi due maestri dichiarati, ma anche le numerose dissonanze esistenti tra l’universo artistico ed estetico di questi ultimi e quello di Sorrentino, il che gli permette di far emergere una poetica sorrentiniana in cui appare con evidenza che al centro del cinema del regista partenopeo c’è la questione dell’individuo colto nel momento del suo declino e della sua incapacità ad agire, ad andare avanti, un individuo cioè in fase “discendente” piuttosto che “ascendente”, per parafrasare una delle più conosciute dichiarazioni dell’artista. È questo il cuore della poetica sorrentiniana che il regista ha costruito (e costruisce) grazie alla lezione dei suoi due mentori: l’individuo o la condizione individuale sono sempre a rontati in modo antieroico, nella loro fase degradante, anche quando si tratta di uomini (mai di donne) di potere come Andreotti, ne Il divo, o Berlusconi in Loro; tuttavia, ciò non conduce a “una crisi de nitiva dell’uomo, nella misura in cui l’indebolimento non porta al disfacimento ma, inaspettatamente, alla costruzione del personaggio in tutte le sue ambiguità”. Ecco dunque che il modo in cui viene trattato il personaggio in Sorrentino possiede in n dei conti più similarità con l’universo scorsesiano che non con quello felliniano, in quanto in quest’ultimo l’interesse per l’individuo nisce per scemare. Inoltre, nel cinema di

Fellini appare un’evidente carica autoreferenziale che è invece assente tanto in Scorsese quanto in Sorrentino stesso. Sono pertanto molte le analogie tra Scorsese e Sorrentino che scaturiscono da questo studio, come, ad esempio, il trattamento del frammento in rapporto al tutto, i principi di “slancio vitale” e di “caduta libera”, il percorso dei personaggi o ancora la concezione del potere. Eterogeneità e incertezza appaiono inoltre come caratteristiche di primo piano dei lavori del regista partenopeo e così anche quelli che Gallico de nisce “straripamenti”, ovvero eccessi estetico-visuali, elementi spesso ereditati da Scorsese e che hanno conferito una grande popolarità internazionale a Sorrentino. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, dunque, viste le analogie evidenti tra La grande bellezza e La dolce vita, i punti di contatto con Fellini si rivelano invece più labili e lo studio mette bene in rilievo molti elementi di rottura con l’universo felliniano oltre che l’assenza di una dimensione metanarrativa in Sorrentino, di contro ben presente nel maestro riminese. La poetica sorrentiniana si delinea anche grazie alla presenza di gure-chiave, che sono realmente esistite o esistenti – degli uomini – ma che sono al contempo ttizie, il che pone al centro del discorso artistico ed estetico l’eterna questione del vero (e della verità) e della nzione, in un altalenare continuo tra immagini che sono al contempo quelle di un’attualità contemporanea universalmente nota e della sua riproduzione arti ciale, le quali possono anche essere lette, in un’ottica epifanica di sublime contemporaneo, come un’alternanza a carattere poetico di grande bruttezza e di grande bellezza. La rete irregolare di incontri tra gli universi dei tre cineasti, da cui scaturisce, per dirla in termini calviniani, un percorso sorrentiniano dei “destini incrociati”, ricco di analogie e di dissonanze, apre dunque nuove prospettive interpretative oltre che di ricerca e invita a “leggere” o a “rileggere” il lavoro di Paolo Sorrentino con un’ottica più

ampia, anche alla luce dei vari apporti di alcuni loso maggiori che hanno nutrito la ri essione dello studioso, e con un’apertura internazionale dato che questo studio dimostra che con Sorrentino si è ormai usciti da un quadro strettamente nazionale. Walter Zidarič

BIBLIOGRAFIA Opere di Paolo Sorrentino L’amore non ha con ni, Indigo Film, 1998, 16’. La notte lunga, Indigo Film, 2001, 15’. L’uomo in più [2001] [DVD], Mustang Entertainment, 2019, 1h40’. Le conseguenze dell’amore [2004] [DVD], Medusa, 2013, 1h42’. L’amico di famiglia [2006] [DVD], Medusa, 2013, 1h42’. Il divo [2008] [DVD], Koch Media, 2013, 1h50’. La partita lenta, Parco Film – Sky, 2009, 10’. Hanno tutti ragione, Feltrinelli, Milano, 2010. This must be the place [2011] [DVD], Medusa, 2013, 1h58’. Tony Pagoda e i suoi amici, Feltrinelli, Milano, 2012. La grande bellezza [2013] [DVD], Medusa, 2014, 2h21’. La grande bellezza. Versione integrale [2013] [DVD], Medusa, 2016, 2h47’. La fortuna, in Amorim V. et al., Rio, I love you [DVD], Universal Home Video, 2014, 1h50’. Youth [2015] [DVD], Medusa, 2016, 2h04’. Gli aspetti irrilevanti, Mondadori, Milano, 2016. The young pope [2016] [DVD], Fox Home Entertainment, 2017, 9h06’. Il peso di Dio. Il vangelo di Lenny Belardo, Einaudi, Torino, 2017. Loro 1, Indigo Film – Universal Pictures Italy, 2018, 1h44’. Loro 2, Indigo Film – Universal Pictures Italy, 2018, 1h40’. The new pope, Sky Atlantic – Canal Plus, 2020, 8h39’.

Opere di Federico Fellini Luci del varietà [1950] [DVD], Les lms de ma vie, 2006, 1h37’ (con Alberto Lattuada). Lo sceicco bianco [1952] [DVD], Medusa, 2013, 1h25’. I vitelloni [1953] [DVD], Medusa, 2013, 1h44’. La strada [1954] [DVD], Filmauro, 2003, 1h34’. Il bidone [1955] [DVD], Carlotta, 2009, 1h32’. Le notti di Cabiria [1957] [DVD], Filmauro, 2003, 1h50’. La dolce vita [1960] [DVD], Medusa, 2013, 2h51’.

Otto e mezzo [1963] [DVD], Mustang Entertainment, 2014, 2h18’. Giulietta degli spiriti [1965] [DVD], Carlotta, 2009, 2h17’. Toby Dammit, in Fellini F., Malle L., Vadim R., Tre passi nel delirio [1968] [DVD], Teodora, 2015, 2h01’. A director’s notebook [1969] [DVD], Carlotta, 2009, 50’. Satyricon [1969] [DVD], MGM Home Video, 2003, 2h08’. I clowns [1970] [DVD], MK2 Vidéo, 2010, 1h32’. Amarcord [1973] [DVD], Cristaldi, 2016, 2h04’. Il Casanova di Federico Fellini [1976] [DVD], Carlotta, 2013, 2h35’. Roma [1972] [DVD], MGM Home Video, 2003, 2h08’. Prova d’orchestra [1978] [DVD], Les lms de ma vie, 2013, 1h10’. La città delle donne [1980] [DVD], RAI Cinema, 2014, 2h19’. E la nave va [1983] [DVD], Gaumont, 2017, 2h12’. Ginger e Fred [1986] [DVD], CG Entertainment, 2005, 2h05’. Intervista [1987] [DVD], RAI Cinema, 2004, 1h48’. La voce della Luna [1990] [DVD], Arrow Academy, 2017, 2h01’.

Opere di Martin Scorsese What’s a nice girl like you doing in a place like this? [1963] [DVD], Wildside, 2013, 9’. It’s not just you, Murray! [1964] [DVD], Wildside, 2013, 15’. Who’s that knocking at my door [1967] [DVD], Warner Home Video, 2004, 1h30’. The big shave [1967] [DVD], Wildside, 2013, 6’. Boxcar Bertha [1972] [DVD], MGM Home Video, 2004, 1h28’. Mean streets [1973] [DVD], Raro Video, 2012, 1h52’. Italianamerican [1974] [DVD], Wildside, 2013, 49’. Alice doesn’t live here anymore [1974] [DVD], Warner Home Video, 2016, 1h52’. Taxi driver [1976] [DVD], Universal Home Video, 2016, 1h54’. New York, New York [1977] [DVD], Fox Home Entertainment, 2011, 2h35’. The last waltz [1978] [DVD], Fox Home Entertainment, 2003, 1h57’. American boy: a pro le of Steven Prince [1978] [DVD], Wildside, 2013, 55’. Raging Bull [1980] [DVD], Fox Home Entertainment, 2001, 2h09’. The king of comedy [1982] [DVD], MGM Home Video, 2014, 1h49’. After Hours [1985] [DVD], Warner Home Video, 2004, 1h37’.

Mirror Mirror, in SPIELBERG S. et al., Amazing stories 1 [1985-1986] [DVD], Koch Media, 10h30’. The last temptation of Christ [1988] [DVD], Universal Home Video, 2005, 2h44’. Goodfellas [1990] [DVD], Warner Home Video, 2005, 2h26’. Cape Fear [1991] [DVD], Universal Home Video, 2011, 2h08’. The age of innocence [1993] [DVD], Universal Home Video, 2014, 2h19’. Casino [1995] [DVD], Universal Home Video, 2015, 2h58’. A personal journey with Martin Scorsese through American movies, British Film Institute, 1995, 3h45’. Kundun [1997] [DVD], Pulp, 2014, 2h58’. My voyage to Italy, Media Trade, 1999, 4h06’. Bringing out the dead [1999] [DVD], Walt Disney Home Video, 2001, 2h01’. Gangs of New York [2002] [DVD], Fox Home Entertainment, 2012, 2h47’. The aviator [2004] [DVD], RAI Cinema, 2009, 2h50’. No direction home: Bob Dylan, Universal Home Video, 2005, 5h59’. The departed [2006] [DVD], Medusa, 2012, 2h31’. Shutter Island [2010] [DVD], Medusa, 2013, 2h18’. A letter to Elia [DVD], Cineteca di Bologna, 2010, 1h (con Kent Jones). George Harrison: living in the material world [2011], Koch Media, 2012, 3h28’. The wolf of Wall Street [2013] [DVD], RAI Cinema, 2014, 3h. Silence [2016] [DVD], RAI Cinema, 2017, 2h41’. The Irishman, Net ix, 2019, 3h29’.

Contributi critici Agel G., Les chemins de Fellini, Éditions du Cerf, Parigi, 1956. Agnel A., Jung et Fellini. L’inconscient crée des images, le lm reste à faire, in “Les cahiers jungiens de psychanalyse”, n°135, 2012, pp. 7-17. Antonello P., Di crisi in meglio. Realismo, impegno postmoderno e cinema politico nell’Italia degli anni zero: da Nanni Moretti a Paolo Sorrentino, in “Italian studies”, n° 67/2, 2012, pp. 169-187. Antonello P., The ambiguity of realism and its posts: A response to Millicent Marcus, in “The Italianist”, n° 30, pp. 257-261. Bachtin M., L’opera di Rabelais e la cultura popolare [1965], tr. it. di Mili Romano, Einaudi, Torino, 1999. Barbier J., O enbach J., I racconti di Ho mann [1851], tr. it. di Angelo Zanardini, Ricordi Editore, Milano, 1984.

Bataille G., La parte maledetta. La nozione di dépense [1949], tr. it. di F. Serna, Bollati Boringhieri, Torino, 2015. Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999. Bergson H., Materia e memoria [1896], tr. it. di Adriano Pessina, Laterza, Bari, 2009. Blanchot M., La conversazione in nita [1969], tr. it. di Roberta Ferrara, Einaudi, Torino, 2015. Bondanella P., The Cinema of Federico Fellini, Princeton University Press, Princeton, 1992. Breeur R., Merleau-Ponty, un sujet désingularisé, in “Revue Philosophique de Louvain”, n° 96/2, 1998, pp. 232-253. Caillois R., Les jeux et les hommes, Gallimard, Parigi, 1959. Casillo R., Gangster priest. The Italian American cinema of Martin Scorsese, Toronto University Press, Toronto, 2006. Casillo R., Moments in Italian-American Cinema: From Little Ceasar to Coppola and Scorsese, in Gardaphé F. L., Giordano P. A., Tamburri A. J., From the Margin: Writings in Italian Americana, Perdue University Press, West Lafayette, 2000, pp. 394-413. Ciment G. (a cura di), Federico Fellini, Positif-Rivages, Parigi 1988. Collet J., La création selon Fellini, José Corti, Parigi, 1990. Conrad M.T. (a cura di), The philosophy of Martin Scorsese, The University Press of Kentucky, Lexington, 2007. Corsi B., La vita fuori dalla porta, in “Vivilcinema” n°3, 2004. Costa A., Federico Fellini: La Dolce Vita, Lindau, Torino, 2010. Criton P., Bords à bords: vers une pensée-musique, in “Le Portique”, n°20, 2007, pp. 1-12. Cukor G., What price Hollywood? [1932] [DVD], Éditions Montparnasse, 2012. D’Orazio C., La Roma segreta del lm La grande bellezza, Sperling & Kupfer, Segrate, 2014. De Bernardinis F., L’uomo in più di Paolo Sorrentino, in “Segnocinema”, n.112, pp. 36-37. De Berti R., Gagetti E., Slavazzi F. (a cura di), Fellini-Satyricon. L’immaginario dell’antico, Quaderni di Acme, Milano, 2009. De Filippo E., Filumena Marturano [1964], Einaudi, Torino, 1984. De Filippo E., Le voci di dentro, Einaudi, Torino, 1964. De Filippo E., Sabato, domenica e lunedì [1966], Einaudi, Torino, 2014. De Sanctis P., Monetti D., Pallanch L. (a cura di), Divi e antidivi. Il cinema di Paolo Sorrentino, Laboratorio Gutenberg, Roma, 2010.

Decout M., Maurice Blanchot: une phénoménologie du récit, in “Cahiers de Narratologie”, n° 22, 2012, pp. 1-14. Del Fra L. (a cura di), Federico Fellini: Le notti di Cabiria, Cappelli Editore, Bologna, 1981. Del Rio Alvaro C., Genre and fantasy: Melodrama, Horror and the gothic in Martin Scorsese’ Cape Fear, in “Atlantis”, n° 26/1, pp. 61-71. Deleuze G., Che cos’è l’atto di creazione? [1987], tr. it. di Antonella Moscati, Cronopio, Napoli, 2003. Deleuze G., Critica e clinica [1993], tr. it. di Alberto Panaro, Ra aello Cortina, Milano, 1996. Deleuze G., Di erenza e ripetizione [1968], tr. it. di Giuseppe Guglielmi, Ra aello Cortina, Milano, 1997. Deleuze G., Guattari F., Che cos’è la Lorenzis, Einaudi, Torino, 2002.

loso a? [1991], tr. it. di Angela De

Deleuze G., L’immagine-movimento [1983], tr. it. di Jean-Paul Manganaro, Einaudi, Torino, 2016. Deleuze G., L’immagine-tempo [1985], tr. it. di Liliana Rampello, Einaudi, Torino, 2017. Derrida J., La scrittura e la di erenza [1977], tr. it. di Gianni Vattimo, Einaudi, Torino, 2002. Didi-Huberman G., Davanti all’immagine [1990], tr. it. di Matteo Spadoni, Mimesis, Milano-Udine, 2016. Domecq J.-P., Martin Scorsese. Un rêve italo-américain, Hatier, Parigi, 1986. Dore M., Subtitling Italian politics and culture in Paolo Sorrentino’s Il divo, in “Cultus”, n° 11, 2018, pp. 122-143. Dor es G., L’intervallo perduto [1980], Skira, Milano, 2006. Eco U., Trattato di semiotica generale [1975], Garzanti, Milano, 2013. Eliott N., It is what it is, in “Les Cahiers du Cinéma”, n°763, 2020, pp. 8-9. Estève M. (a cura di), Federico Fellini aux sources de l’imaginaire, Lettres Modernes Minard, Parigi, 1981. Estève M. (a cura di), Huit et demi, Lettres Modernes Minard, Parigi, 1963. Estève M. (a cura di), Martin Scorsese, Lettres Modernes Minard, Parigi, 2003. Eugeni R., The young pope, sull’ottusità del potere, in “Fata Morgana”, n° 1, 2017, pp. 16-20. Fabbri P., Fellinerie. Incursioni semiotiche nell’immaginario di Federico Fellini, Guaraldi, Rimini, 2011. Facchini M., A Journey from Death to Life: Spectacular Realism and the “Unamendability” of Reality in Paolo Sorrentino’s The Great Beauty, in Di Martino L., Verdicchio P. (a cura di), Encounters with the Real in

Contemporary Italian Cinema and Literature, Cambridge Scholars Press, Newcastle upon Tyne, 2017, pp. 181-204. Filetti F., Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, in “Film”, n° 71, p. 60. Foucault M., Storia della follia nell’età classica [1961], tr. it. di Franco Ferrucci, Rizzoli, Milano, 2011. Gardaphé F., From Wiseguys to Wise Men: the Gangster and Italianamerican masculinities, Routledge, Abingdon-on-Thames, 2006. Gerbron C., Voyages d’images dans The Young Pope de Paolo Sorrentino, seminario organizzato dallo C.H.A.R. (Centre d’Histoire de l’Art de la Renaissance), Université Paris I – Panthéon Sorbonne, Parigi (15/10/2018). Gledhill C., Williams L., Reinventing Film Studies, Arnold, Londra, 2000. Godard J.-L., Histoire(s) du cinéma, Gallimard, Parigi, 1998 Goethe J. W., Faust e Urfaust (Volume I), tr. it. di Giovanni V. Amoretti, Feltrinelli, Milano, 2000. Grugeau G., Jésus, Travis, Jake et les autres, in “24 images”, n° 41, 1988, pp. 6667 Hayes K., Nicholls M. (a cura di), Martin Scorsese’s Raging Bull, Cambridge University Press, Cambridge, 2005. Hennessey B., Real simulations: CGI and special e ects in two lms by Paolo Sorrentino, in “The Italianist”, n° 37/3, pp. 449-463. Ho mann E. T. A., L’uomo della sabbia e altri racconti [1815], Mondadori, Milano, 1987. Holdaway D., Da fatti realmente accaduti: Performing History Contemporary Italian Cinema, in “New Readings”, n° 11, 2011, pp. 17–36.

in

Holderness G., Half God, half man: Kazantzakis, Scorsese, and The Last Temptation, in “The Harvard Theological Review”, n° 100/1, 2007, pp. 65-96. Iannotta A., Le immagini del potere. Note sull’identità italiana nel cinema di Paolo Sorrentino, in “California Italian Studies”, n° 6/2, 2016, pp. 1-18. Kazantzakis N., L’ultima tentazione [1959], tr. it. di M. Aboaf e B. Amato, Frassinelli Editore, Milano, 1987. Kezich T. (a cura di), La dolce vita di Federico Fellini, Cappelli Editore, Bologna, 1960. Kezich T., Su La Dolce Vita con Federico Fellini, Marsilio, Venezia, 1996. Klinger B., Film history terminable and interminable: recovering the past in reception studies, in “Screen”, n° 38/2, pp. 107-128. Lacan J., Nota sul padre e sull’universalismo, in “La psicoanalisi”, n°33, 2002. Lajus P., Federico Fellini ou la vision partagée, Les Cahiers du Tournefeuille, Tournefeuille, 1993. Lasagna R., Martin Scorsese, Gremese, Roma, 1998.

Le Toullec E., La folie à Hollywood: Mankiewicz, Forman, Scorsese, in “Savoir et clinique”, n°14, 2012, pp. 64-75. Lesuisse A.-F., Du lm noir au “noir”. Traces gurales dans le cinéma hollywoodien, De Boeck Université, Bruxelles, 2001. Lombardo P., Étonnement et souvenir chez Scorsese, in “Critique”, n°763, 2012, pp. 1066-1079. Luzzi J., Italian cinema: from the silent screen to the digital image, Bloomsbury Academics, Londra, 2020. Lynch D., Una storia vera [1999] [DVD], Studio Canal, 2017, 1h52’. Lyotard J.-F., La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere [1979], Feltrinelli, Milano, 2002. Maillard F., L’âme en peine, in “Les Cahiers du Cinéma”, n°760, 2019, pp. 35-36. Malausa V., La grande bellezza: cahier critique, in “Les Cahiers du Cinéma”, n°690, 2013. Marcel J., Ce que Taxi Driver a fait à la sociologie, in “Idées économiques et sociales”, n°151, 2008, pp. 52-58. Marcus M., The Ironist and the Auteur: Post-Realism in Paolo Sorrentino’s Il divo, in “The Italianist”, n° 30/2, 2010, pp. 245-257. Mariani A. (a cura di), Paolo Sorrentino: A Trans-Cultural and Post-National Auteur, Intellect, Bristol, 2019. Marlow-Mann A., Character engagement and alienation in the cinema of Paolo Sorrentino, in Hope W. (a cura di), Italian Film Directors in the new Millenium, Cambridge Scholar Press, Newcastle upon Tyne, 2010, pp. 161-173. Marx R., Martin Scorsese. Regards sur la trahison, Henri Berger, Parigi, 2003. Melville H., Moby Dick [1851], tr. it. di Cesare Pavese, Adelphi, Milano, 1994. Menotti G., The Saint of Bleeker Street [1954], Actes Sud-Opéra de Marseille, Arles-Marsiglia, 2010. Merleau-Ponty M., Il visibile e l’invisibile [1964], tr. it. Di Andrea Bonomi, Bompiani, Milano, 1993. Minuz A., Mariofanie: religiosità popolare e riti dello spettacolo nel cinema di Fellini degli anni Cinquanta, in “Quaderni SMSR”, n° 6/1, 2015, pp. 31-47. Mitry J., Esthétique et psychologie du cinéma [1965], Éditions du Cerf, Parigi, 2001. Mori G., Del desiderio e del godimento. Viaggio al termine dell’ideologia ne La grande bellezza di Paolo Sorrentino, Mimesis, Milano-Udine, 2018. Morpelli S., La représentation lmique du criminel Italo-américain par F. Ford Coppola et M. Scorsese, in “Criminocorpus”, n° 2, 2007, pp. 1-16. Morreale E., Zonta D. (a cura di), Cinema vivo. Quindici registi a confronto, Edizioni dell’Asino, Roma, 2009

Morselli G., Il suicidio e Capitolo breve sul suicidio, Edizioni Via del Vento, Pistoia, 2004. Morselli G., Roma senza Papa. Cronache romane di Adelphi, Milano, 1975.

ne secolo ventesimo,

Myers-Scotton C., Ury W., Bilingual Strategies: The Social Functions of Codeswitching [1977], in “Journal of the Sociology of Language”, n°13, 2009, pp. 520. Nancy J.-L., Visitazione (della pittura cristiana) [2001], tr. it. di Alfonso Cariolato e Federico Ferrari, Abscondita, Milano, 2002. Nietzsche F. W., Così parlò Zarathustra [1885], tr. it. di Anna Maria Carpi, Newton Compton, Roma, 2017. O’Leary A., O’Rawe C., Against Realism: On a “Certain Tendency” in Italian Film Criticism, in “Journal of Modern Italian Studies”, n° 16/1, 2011, pp. 107– 128. O’Leary A., What is italian cinema?, in “Californian Italian studies”, n°7, 2017, pp. 1-26. O’Rawe C., I padri e i maestri: Genre, Auteurs, and Absences in Italian Film Studies, in “Italian Studies”, n° 63/2, 2012, pp. 173-194. Pagani M., Sorrentino P., Alla ricerca del sogno. Paolo Sorrentino in conversazione con Malcom Pagani, in “Micromega”, n°6, 2011, pp. 22-39. Paganini G., Zidarič W. (a cura di), Città italiane al cinema, Mimesis, MilanoUdine, 2020. Pasolini P.P., Empirismo eretico [1972], Garzanti, Milano, 2000. Pasolini P.P., La dolce vita: per me si tratta di un lm cattolico, in Pasolini P.P., Saggi sulla letteratura e sull’arte (Volume II), a cura di S. De Laude, C. Segre e W. Siti, Milano, Mondadori, 1999, pp. 2269-2279. Phillips T., Joker [2019] [DVD], Warner Home Video, 2020, 2h02’. Pirandello L., L’umorismo [1908], Luigi Battistelli Editore, Firenze, 1920. Privet G., This lm should be played loud: quelques notes sur la musique dans les lms de Martin Scorsese, in “24 images”, n°67, 1993, pp. 36-39. Rancière J., La favola cinematogra ca [2001], trad. it. di Bruno Besana, Edizioni ETS, Pisa, 2006. Recalcati M., L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicanalitica, Ra aello Cortina, Milano, 2012. Revel J., Michel Foucault: discontinuité de la pensée ou pensée du discontinu?, in “Le Portique”, n°13-14, 2004, pp. 1-11. Ricœur P., La memoria, la storia, l’oblio [2000], tr. it. di Daniele Iannotta, Ra aello Cortina, Milano, 2003. Rohrwacher A., Lazzaro felice [2018] [DVD], 01 Distribution, 2019, 1h52’. Saada N., Scorsese M., Entretien avec Martin Scorsese, in “Les Cahiers du

Cinéma”, n° 500, 1996, pp. 9-15. Salvestroni S., La grande bellezza e il cinema di Paolo Sorrentino, Clueb, Bologna, 2017. Scorsese M. et al., Mes plaisirs de cinéphile, Éditions des Cahiers du Cinéma, Parigi, 1998. Sorrentino P., Quel ritratto di vita dorata svelava che la vita non ha un senso, in “Il Venerdì di Repubblica” (19/04/2009). Stille A., Andreotti, Mondadori, Milano, 1995. Subini T., Il caso de La dolce vita, in Eugeni R., Viganò D., Attraverso lo schermo: cinema e cultura cattolica in Italia, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma, pp. 171-187. Tamburri A. J., Il sistema di segni del cinema italiano/americano: codeswitching e la signi cabilità di Mean Streets di Martin Scorsese, tr. it. di Danilo Pucci e Alberto Rebecchi, in “Rivista Internazionale di Studi Nordamericani”, n° 13, 2017, pp. 108-121. Uva C., Appunti per una de nizione del (nuovo) cinema politico, in “The Italianist”, n° 33/2, 2013, pp. 240–320. Vaccaro R., Il Divo ou les mystères d’Italie, in “Fondation Nationale des Sciences Politiques”, 2009, pp.181-185. Vagata D. S., Guido, la Saraghina e la signora Carla: studio sulle immagini di 8 ½, in “Contemporanea. Rivista di studi sulla letteratura e sulla comunicazione”, n° 4, 2006, pp. 1-14. Vidor K., Show people [1928] [DVD], Warner Home Video, 1h23’, 2012. Vigni F., La maschera il potere, la solitudine. Il cinema di Paolo Sorrentino, Aska Edizioni, Firenze, 2014. Wenders W., Il cielo sopra Berlino [1987] [DVD], Terminal Video, 2009, 2h03’. Wenders W., Paris, Texas [1984] [DVD], Terminal Video, 2009, 2h30’. Žižek S., L’epidemia dell’immaginario, Meltelmi, Roma, 2004.

Cinema 1. Jean-Luc Douin, Dizionario della censura nel cinema. Tutti i lm tagliati dalle forbici del censore nella storia mondiale del grande schermo 2. Massimo Donà, Abitare la soglia. Cinema e loso a 3. Angelo Moscariello, Breviario di estetica del cinema. Percorso teorico-critico dentro il linguaggio lmico da Lumière al cinema digitale 4. Dziga Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942 5. Enrico Biasin, Giovanna Maina, Federico Zecca (a cura di), Il porno espanso. Dal cinema ai nuovi media 6. Thomas E. Wartenberg, Pensare sullo schermo. Cinema come loso a 7. Roland Quilliot, La loso a di Woody Allen 8. Andrea Panzavolta, Lo spettacolo delle ombre. Un itinerario tra cinema, loso a e letteratura 9. Francesco Ceraolo, L’immagine cinematogra ca come forma della mediazione. Conversazione con Vittorio Storaro 10. Luca Taddio (a cura di), David Cronenberg. Un metodo pericoloso 11. André Bazin, Jean Renoir 12. Andrea Rabbito, Il cinema È sogno. Le nuove immagini e i principi della modernità 13. Alessandra Spadino, Pasolini e il cinema ‘inconsumabile’ Una prospettiva critica della modernità 14. Ra aele De Berti, Il volo del cinema. Miti moderni nell’Italia fascista 15. Valentina Re, Cominciare dalla ne 16. Damiano Cantone, I lm pensano da soli 17. Marco Senaldi, Rapporto con denziale. Percorsi tra cinema e arti visivee 18. Marco Boscarol (a cura di), Tetsuo: The Iron Man. Il cinema di Tsukamoto Shin’ya 19. Luca Cosci, Monica Innocenti, Abcinema: abbecedario della settima arte 20. Andrea Panzavolta, Passeggiate nomadi sul grande schermo. Saggi sul cinema da Ingmar Bergman a Tim Burton 21. Francesco Zucconi, La sopravvivenza delle immagini nel cinema. Archivio, montaggio, intermedialità 22. Gianni Volpi, Alfredo Rossi e Jacopo Chessa (a cura di), Barricate di carta. «Cinema&Film», «Ombre rosse», due riviste intorno al ’68 23. Cosetta Saba, Archivio, Cinema, Arte

24. Cristina Formenti, Il mockumentary. La documentario

ction si maschera da

25. Stefania Schibeci, Le Phénomène de l’extase di Salvador Dalí. Surrealismo, fotogra a, montaggio 26. Roy Menarini (a cura di), Cinema senza ne 27. Ivelise Perniola, L’era postdocumentaria 28. Leonardo Gandini, Voglio vedere il sangue 29. Giancarlo Alviani, Un’aspirina e un ca è con Bernardo Bertolucci 30. Valentina Re, Alessandro Cinquegrani, L’innesto. Realtà e nzioni da Matrix a 1Q84 31. Alfredo Rossi, Elio Petri e il cinema politico italiano. La piazza carnevalizzata. Contiene lettere e scritti di Elio Petri. Interventi di Go redo Fo , Franco Ferrini e Oreste de Fornari 32. Christian Uva, L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotogra a nell’Italia degli anni Settanta 33. Sara Martin, Streghe, Pagliacci, Mutanti. Il cinema di Álex de la Iglesia 34. 34° Premio Sergio Amidei. Catalogo 35. Alessandro Cadoni, Il segno della contaminazione. Il lm tra critica e letteratura in Pasolini, Prefazione di Hervé Joubert-Laurencin 36. Andrea Parlangeli, Da Twin Peaks a Twin Peaks. Piccola guida pratica al mondo di David Lynch 37. Andrea Rabbito, L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale 38. Deborah Toschi, La ragazza del cinematografo. Mary Pickford e la costruzione della diva internazionale 39. Marco Dalla Gassa, Orient (to) express. Film di viaggio, etno-gra e, teoria d’autore 40. Paolo Bertetto, Il cinema e l’estetica dell’intensità 41. Davide Persico, Decostruire lo sguardo. Il pensiero di Jacques Derrida al cinema 42. Nicola Dusi, Contromisure. Trasposizione e intermedialità 43. Alberto Castellano (a cura di), Paul Schrader. Il cinema della trascendenza 44. Fabrizio Fogliato, Fabio Francione, Jacopetti les. Biogra a di un genere cinematogra co italiano 45. Elio Ugenti, Immagini nella rete. Ecosistemi mediali e cultura visuale 46. Ryan Calabretta-Sajder, Divergenze in celluloide. Colore, migrazione e identità nei lm gay di Ferzan Özpetek

47. Tommaso Mozzati, Sceneggiatura di poesia. Pier Paolo Pasolini e il cinema prima di Accattone 48. Angela Bianca Saponari, Il desiderio del cinema. Ferdinando Maria Poggioli 49. Andrea Mariani, L’audacissimo viaggio. I media, il deserto e il cinema nella microstoria della spedizione Tripoli-Addis Abeba 1937 50. Andrea Mariani, Gli anni del Cineguf. Il cinema sperimentale italiano dai cine-club al neorealismo 51. Martina Federico,Trailer e lm. Strategie di seduzione cinematogra ca nel dialogo tra i due testi 52. Guido Mori, Del desiderio e del godimento. Viaggio al termine dell’ideologia ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino 53. Gian Piero Brunetta, Attrazione fatale. Letterati italiani e letteratura dalla pagina allo schermo. Una storia culturale 54. Luisella Farinotti, Barbara Grespi, Federica Villa (a cura di), Harun Farocki. Pensare con gli occhi 55. Antonio Iannotta, Il cinema audiotattile 56. Leonardo De Franceschi, Lo Schermo e lo spettro. Sguardi postcoloniali su Africa e afrodiscendenti 57. Simone Venturini, Il cinema francese negli anni di Vichy 58. Giulia Raciti, Il ritornello crudele dell’immagine 59. Massimiliano Studer, Alle origini di Quarto Potere. Too Much Johnson: il lm perduto di Orson Welles, prefazione di Paolo Mereghetti, con un’intervista a Ciro Giorgini 60. Vincenzo Estremo, Francesco Federici, Albert Serra. Cinema, arte e performance 61. Marco D’Agostini, Anselmo Roberto Paolone, Filmati per Formare. Storytelling e tecniche audiovisive nell’opera di Filippo Paolone 62. Federico Pierotti, Diorama lusitano. Il cinema portoghese come archeologia dello sguardo 63. Saverio Zumbo, La trappola del testo. Sul primo Kubrick 64. Stefania Schibeci, Jean Cocteau. Teorico del cinema 65. Daniele Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo 66. Carmelo Marabello, Bateson legge Hitler. Antropologia politica e cinema nell’America in guerra 67. Federico Giordano, Paesaggi meridiani. Luoghi, spazi, territori del Sud nel cinema italiano (1987-2004), di prossima pubblicazione

68. Fiorella Bonafede, Il cinema di Carlo Battisti. La favolosa vacanza di un insigne glottologo nel mondo della celluloide 69. Christopher Hauke, Ian Alister (a cura di), Jung e il cinema. Il pensiero post-junghiano incontra l’immagine lmica 70. Stefano Usardi, La realtà attraverso lo sguardo di Michelangelo Antonioni. Residui lmici 71. Nicola Pasqualicchio e Alberto Scandola (a cura di), Francesco Rosi. Il cinema e oltre 72. Roberto Lasagna, Da Chaplin a Loach. Scenari e prospettive della psicologia del lavoro attraverso il cinema 73. Manuele Bellini, Gerogli ci e cinema. Il lm come “universale fantastico” 74. Antonio Rainone, Sergio Leone. Dal cinema popolare al cinema d’autore 75. Laura Busetta, L’autoritratto, Cinema e con gurazione della soggettività 76. Pietro Montani (a cura di), I formalisti russi nel cinema 77. Andrea Laquidara, John Ford e il cinema americano. Ovvero la rimozione di Dioniso 78. Stefano Calzati, Phillip Lopate, una vita allo schermo. Ri essioni sul cinema da un maestro americano del personal essay 79. Rinaldo Vignati, Indro Montanelli e il cinema. Un contadino toscano candidato all’Oscar 80. Leonardo Quaresima (a cura di), Cinema tedesco: i lm 81. Giacomo Calorio, To the digital observer. Il cinema giapponese contemporaneo attraverso il monitor 82. Luca Bindi, Jean Eustache: l’istante ritrovato 83. Roberto Lasagna, Benedetta Pallavidino, Anestesia di solitudini. Il cinema di Yorgos Lanthimos 84. Gillo Pontecorvo, Il sole sorge ancora. Tra politica, giornalismo e cinema, a cura di Fabio Francione 85. Jurij M. Lotman, Semiotica del cinema e lineamenti di cine-estetica, presentazione, traduzione e cura di Luciano Ponzio 86. Alfredo Rossi, Lontano dal cinema. Critica e feticismo, ideologia, psicoanalisi 87. Fabrizio Borin, Delitti senza castigo. Dostoevskij secondo Woody Allen 88. Francesco Rabissi, L’occhio politico e visionario del cinema italiano contemporaneo 89. Slavoj Žižek, Una lettura perversa del lm d’autore. Da Psyco a Joker 90. Davide Persico, Blow-up e le forme potenziali del mondo

91. Dom Holdaway e Dalila Missero, Il sistema dell’impegno nel cinema italiano contemporaneo 92. Paolo Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini. Edipo re, Teorema, Porcile, Medea 93. Marco Rossitti, Bellezza è verità. Il cinema di Edoardo Winspeare 94. Gloria Paganini & Walter Zidaric (a cura di), Città italiane al cinema 95. Enrico Azzano e Andrea Fontana (a cura di), Satoshi Kon. Il cinema visionario di uno dei più eccentrici protagonisti dell’animazione giapponese 96. Alberto Castellano, Il cinema di oggi: una ri essione 97. Emanuele Di Nicola, La carne e l’anima. Il cinema di Abdellatif Kechiche 98. Massimo Donà, Cinematocrazia 99. Sandro Sproccati, Le strutture del linguaggio cinematogra co 100. Francesco Fiotti, Kubrick e Caravaggio, sabotatori del reale 101. Felice Di Benga, Storia di un incontro. Western hollywoodiano e cinema europeo d’autore dalle origini al 2020 102. Roberto Lasagna, Nanni Moretti. Il cinema come cura 103. Stefano Santoli, Fabbrica di sogni, deposito di incubi. Dieci anni di cinema USA 2010-2019, Prefazione di Leonardo Gandini 104. Antonio Pettierre, David Fincher. Polisemia dello sguardo 105. Massimiliano Studer, Orson Welles e la new Hollywood. Il caso di The Other Side of the Wind 106 Caterina Martino, Look over look. Il cuore fotogra co del cinema di Stanley Kubrick