Dicere laudes. Elogio, comunicazione, creazione del consenso. Atti del convegno internazionale Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2010 978-884673085-5

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Dicere laudes. Elogio, comunicazione, creazione del consenso. Atti del convegno internazionale Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2010
 978-884673085-5

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I CONVEGNI DELLA FONDAZIONE NICCOLÒ CANUSSIO 10

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FONDAZIONE NICCOLÒ CANUSSIO

DICERE LAUDES Elogio, comunicazione, creazione del consenso Atti del convegno internazionale Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2010

a cura di GIANPAOLO URSO

Edizioni ETS

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La presente pubblicazione è stata realizzata con il sostegno di

Ministero dell’Università e della Ricerca

Dicere Laudes. Elogio, comunicazione, creazione del consenso, Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2010 / a cura di Gianpaolo Urso. – Pisa : Edizioni ETS, 2011 - 400 p. : 24 cm. – (I convegni della Fondazione Niccolò Canussio; 10) In testa al front.: Fondazione Niccolò Canussio ISBN 978-884673085-5 CDD 21 - 946 Grecia – Roma – Intellettuali – Letteratura encomiastica – VIII sec. a.C. / XV sec. d.C. – Congressi – Cividale del Friuli – 2010 I. Urso, Gianpaolo II. Fondazione Niccolò Canussio

Fondazione Niccolò Canussio – via Niccolò Canussio, 4, 33043 Cividale del Friuli (UD) via Bernardino Luini, 12, 20123 Milano – www.fondazionecanussio.org © Copyright 2011 EDIZIONI ETS

Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]

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SOMMARIO

Introduzione di Gianpiero Rosati

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GLENN W. MOST, Power and Truth in Archaic Greece – and After

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NINO LURAGHI, Hieron Agonistes or the Masks of the Tyrant

27

CARMINE CATENACCI, Epica ed eulogia. Dai modelli mitici di età arcaica all’epos storico ellenistico

49

LUCIANO CANFORA, Il corpusculum degli epitafi ateniesi

69

ROBIN OSBORNE, Is there Panegyric in Classical Greek Art?

83

RICHARD HUNTER, Festivals, Cults, and the Construction of Consensus in Hellenistic Poetry

101

GREGOR WEBER, Den König loben? Positionen und Aufgaben der Dichter an den hellenistischen Königshöfen

119

GILLES SAURON, La propagande de Pompée : conception, diffusion et réception

143

JOY CONNOLLY, Fantastical Realism in Cicero’s Postwar Panegyric

161

EUGENIO LA ROCCA, Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto

179

SABINO PEREA YÉBENES, Nicolás de Damasco, un intelectual singular en la corte de Herodes y en la Roma de Augusto

205

DAMIEN NELIS, Praising Nero (Lucan, De Bello Civili 1,33-66)

253

GIANPIERO ROSATI, Amare il tiranno. Creazione del consenso e linguaggio encomiastico nella cultura flavia

265

LAURENT PERNOT, Elogio retorico e potere politico all’epoca della Seconda Sofistica

281

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6

FRANCA ELA CONSOLINO, Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino

299

IGNAZIO TANTILLO, Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città tardoantiche

337

FRANCESCO STELLA, La dinamica del consenso nelle lodi imperiali dei poeti carolingi e postcarolingi

359

PHILIP HARDIE, Strategies of Praise: The Aeneid and Renaissance Epic 383

INTRODUZIONE GIANPIERO ROSATI

Negli studi classici dell’ultimo mezzo secolo, anche per effetto del condizionamento delle esperienze recenti dei regimi totalitari, il rapporto di poeti e artisti con il potere politico è stato generalmente analizzato in una sola direzione, vale a dire attraverso l’influenza che quest’ultimo ha esercitato sui primi indirizzandone o condizionandone l’attività. Il ruolo di scrittori e artisti è stato cioè prevalentemente studiato come quello di soggetti passivi, ricettori di istanze elaborate altrove e calate dall’alto su figure concepite come puri strumenti di celebrazione di un’autorità superiore (sul definirsi di questa concezione dei rapporti tra potere e letteratura in termini di patronage ha certamente agito il modello del mecenatismo augusteo e la sua interpretazione moderna). Questo atteggiamento ha portato da un lato a interpretare il ruolo dell’élite culturale in termini di ‘accettazione’ o ‘resistenza’ alle pressioni del potere politico, e dall’altro, in virtù dello stesso pregiudizio moralistico (che trasferiva al mondo antico il concetto moderno di artista-intellettuale engagé), si è tradotto in una valutazione preventivamente ostile o spregiativa di forme artistiche come la letteratura encomiastico-panegiristica, vista direttamente come propaganda, come pura espressione di servile acquiescenza al potere dominante. Solo in anni relativamente recenti, e soprattutto nel mondo greco (specie negli studi sulla lirica arcaica e sulla poesia di corte ellenistica), si è cominciato a vedere in termini più complessi e problematici il rapporto tra il potere politico e il potere che di fatto detengono anche artisti e letterati, e che spesso mettono in campo, per lo più in forme indirette e dissimulate, per bilanciare, orientare o contrastare il potere politico, o comunque per far sentire il proprio peso e l’importanza vitale del proprio ruolo. Un aspetto particolarmente interessante del modo con cui i protagonisti dei ceti intellettuali cercano sostegno e protezione da parte del potere politico (il ‘mecenatismo’) è il carattere negoziale della loro proposta, che ha come principale obiettivo il riconoscimento di un proprio prestigio e funzione per così dire professionale. Più che in termini di imposizione, di richiesta di un’azione di propaganda da parte del potere (e di accettazione o resistenza da parte di artisti e letterati), si tratta infatti di indagare il rapporto in una prospettiva ‘socio-economica’,

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Gianpiero Rosati

come una proposta di scambio avanzata da parte di chi si propone come cantore del potere dominante (generalmente di tipo ‘monarchico’) non in una forma rozzamente propagandistica, ma attraverso l’elaborazione di nuove forme encomiastiche indirette e particolarmente sofisticate. Artisti e letterati, in quanto dotati degli strumenti capaci di rappresentare la realtà, e dunque di influenzarne la percezione da parte di un vasto pubblico, detengono di fatto essi stessi un potere che mettono in campo nei confronti dell’autorità politica. L’encomio può dunque fare spazio a ben più che la semplice celebrazione del potere dominante, ma aprirsi alla riflessione su modelli culturali e politici diversi da quelli vigenti, a un atteggiamento problematico e perfino critico: la sfida per l’interprete è dunque spesso quella di decifrare la doppiezza di un discorso congenitamente ambiguo (cioè sempre sospetto di falsità), di leggere quello che si cela, o affiora in filigrana, dietro la facciata di un discorso necessariamente laudatorio e che costringe il suo autore a escogitare modalità espressive capaci di attraversare le maglie imposte dal potere. Perché un’altra peculiarità del discorso-encomio è quella di avere un doppio interlocutore di cui tener conto, il destinatario diretto (cioè chi detiene il potere) da compiacere, ma anche un ‘pubblico’ composito di fronte al quale salvaguardare almeno un margine di dignità morale e culturale (anche allo scopo di influenzarne le convinzioni). In diverse fasi storiche del mondo antico si può apprezzare il ruolo creativo che poeti, letterati, filosofi, artisti hanno svolto non solo nei confronti di singoli personaggi politici (celebrandone le imprese), ma più in generale nei confronti del potere nelle sue varie articolazioni sociali, in termini di proposta politica, talora elaborando e proponendo più o meno chiaramente un vero programma politico-culturale. L’elaborazione culturale, e la produzione letteraria e artistica, hanno esercitato cioè un evidente ruolo politico, e la coscienza di questo potere da parte delle categorie professionali che lo detengono entra in gioco nelle complesse mediazioni con l’autorità politica, di cui resta traccia nelle forme e nelle strategie di una produzione letteraria e artistica che sotto questo aspetto merita di essere analizzata più a fondo. Lo scopo di questo convegno sul discorso-encomio (e non solo nel campo strettamente letterario), dalle sue prime espressioni, ancora non formalizzate, nella cultura greca arcaica fino alla tarda antichità e alle sue proiezioni in età medioevale e rinascimentale era dunque quello di fare il punto sulla riflessione relativa a questo tema così importante nel mondo antico, che negli ultimi decenni ha visto appunto emergere un interesse nuovo, capace di oltrepassare quella cortina di diffidenza/indifferenza moralistica di cui si diceva, e di cui tuttavia non hanno beneficiato in ugual misura tutte le aree storiche e culturali del mondo greco e romano. È superfluo osservare come l’attenzione critica al tema del consenso, ai modi di costruirlo o organizzarlo e agli attori coinvolti

Introduzione

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in questo processo, con tutti i limiti che implica per l’indagine una documentazione parziale e orientata come quella di cui disponiamo, nasca anche (e vi abbia a sua volta una ricaduta) dalla centralità di questo problema nel mondo non solo antico (basti appena accennare, in secoli a noi più vicini, alla letteratura d’encomio fiorita attorno alla figura di Napoleone), ma sia uno dei nodi cruciali attorno a cui ruota la riflessione anche odierna sul controllo dei mezzi di comunicazione da parte del potere e sul ruolo degli intellettuali all’interno delle società moderne. La relazione d’apertura, di Glenn Most, delinea la cornice del convegno fissando alcuni punti teorici importanti, anche ricorrendo all’aiuto di grandi analisti del potere (e delle dinamiche psicologiche che esso attiva) come Castiglione e Machiavelli: sullo sfondo campeggia l’opposizione tra logos e kratos, e in questo spazio si gioca il rapporto tra l’autore di encomi e il tiranno. Quanta è la libertà di parola che il tiranno può permettersi, o deve accettare, senza compromettere la stabilità del potere ma nemmeno la propria buona fama; e, dall’altra parte, come può muoversi l’autore di encomi tra gli estremi della sovversione e del servilismo? Tradotto nell’analisi degli epinici di Pindaro e Bacchilide, questo esercizio di equilibrismo cerca di evitare gli opposti pericoli dell’eccessiva individualizzazione e quello dell’integrazione (che corrispondono ai due interlocutori di cui l’encomiasta deve tener conto, il tiranno ma anche i cittadini). La relazione di Nino Luraghi mostra, nell’analisi degli epinici di Pindaro e Bacchilide, la sensibilità del poeta alla posizione occupata dal tiranno, e il ricorso a una serie di modelli impliciti (‘maschere’, personae), dalla regalità spartana al re-sacerdote alla figura di Creso, che legittimano in qualche modo il ruolo del tiranno come un modello positivo di autocrazia. Un compito difficile, come sembra suggerire la stessa varietà delle ‘maschere’ di volta in volta evocate. Carmine Catenacci traccia un ampio orizzonte cronologico e culturale, dall’età micenea a quella ellenistica, per mostrare come la funzione originaria dell’epica sia quella di narrare e celebrare le imprese di un sovrano, collocandole in una distanza che insieme ne nobilita la figura e ne legittima il potere. Attraverso la poesia di Omero (e le suggerite analogie tra Odisseo e Pisistrato) e quella di Esiodo (in cui la stretta relazione tra poesia e potere trova addirittura il suo fondamento teorico) si apre una serie di spiragli sui resti dell’epica storica del V e IV sec. a.C., che confermano la continuità e l’importanza di quella tradizione. Luciano Canfora analizza le peculiarità che caratterizzano il corpus dei 5 epitafi ateniesi, illustrando le possibili ragioni della dispersione della produ-

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Gianpiero Rosati

zione massiccia di questi testi che tendenzialmente non assumevano una forma scritta; una produzione che già nel I sec. era pressoché totalmente scomparsa (soprattutto per il carattere ‘obbligato’, di circostanza, e tematicamente ripetitivo, tale quindi da non attrarre l’interesse degli autori). La relazione di Robin Osborne pone il problema teorico della tecnica della forma-elogio in immagini, che rispetto all’elogio in parole deve far fronte a forti limitazioni espressive, e costringe l’artista figurativo a creare un contesto necessario a suggerire la chiave eulogistica. Traccia poi una distinzione tra l’elogio ‘relativo’ di tipo greco e l’elogio ‘superlativo’ che solo il contesto romano del trionfo avrebbe reso possibile (fondandosi su quello squilibrio di potere tra artista e laudandus che è un elemento costitutivo dell’encomio stesso). Richard Hunter centra il suo intervento sull’importanza delle feste e dei culti religiosi nella cultura ellenistica, e sull’interesse di quest’ultima per la dimensione performativa. L’analisi di alcuni passi di Callimaco mostra come l’attenzione alle leggende eziologiche nella sua poesia, ai culti locali e alle loro valenze politiche, può costituire una chiave importante per apprezzare l’uso della religione ai fini della costruzione del consenso. L’intervento di Gregor Weber fornisce un quadro articolato dello ‘scenario di corte’ ellenistico attraverso una messa a punto, anche teorica, dei concetti in gioco (corte, mecenatismo e amicizia [con i reciproci obblighi morali che la filía comporta], propaganda, poeti), nel tentativo di ricostruire il rapporto dialettico tra i poeti e la corte, nelle sue varie componenti anche reciprocamente conflittuali, il loro grado di autonomia e il loro spazio di intervento sui temi ‘caldi’ che in essa avevano corso. Gilles Sauron analizza alcune espressioni della propaganda di Pompeo in particolare in certi suoi temi ricorrenti, come il confronto con modelli eroicomitici quali Alessandro, Ercole o Dioniso. Un testo essenziale della mise en scène di questa propaganda è il monumentale complesso nel Campo di Marte, con il tempio di Venere Vittoriosa, ma Sauron ne individua possibili tracce anche nella famosa Villa di Oplonti e nel suo linguaggio simbolico-figurativo. In un’ottica di analisi della psicologia del potere, e scomponendo la retorica del discorso eulogistico, Joy Connolly propone una lettura della Pro Marcello di Cicerone come “esercizio di immaginazione politica”. Sottraendosi al dilemma pro/contro, tipico degli interpreti di questo testo, Connolly vede nell’orazione un discorso inclusivo che lavora in una doppia direzione, sincerità/ironia, o lode/biasimo: una riflessione dunque che, in un momento di svolta politica traumatica, coinvolge i diversi referenti sociali coevi, e trova stimolanti analogie con tematiche e dinamiche del mondo di oggi. La relazione di Eugenio La Rocca mostra, attraverso un’analisi ricca e condotta su una documentazione tanto varia quanto omogenea nelle sue inten-

Introduzione

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zioni, come il processo che porterà alla divinizzazione di Augusto risalga fin ai primi anni del suo principato: è un percorso non lineare, e risponde alle esigenze tattiche delle diverse fasi del consolidamento del suo potere, ma il programma di ‘diventare dio’ sembra affermarsi già molto presto come un obiettivo lucidamente perseguito dal princeps. Sabino Perea Yébenes illustra la figura di Nicola di Damasco e il ruolo di mediazione culturale svolto da questo intellettuale attraverso le sue vicende biografiche (tra la Siria, la corte di Erode il Grande e poi la Roma di Augusto: i tria corda di cui parla Arnaldo Momigliano). La sua grandiosa Storia universale era aperta da una biografia di Augusto mossa da un’evidente intenzione panegiristica, e destinata probabilmente al pubblico greco (la lingua in cui l’opera era scritta). Damien Nelis fornisce un quadro articolato delle numerose letture critiche, e dei problemi teorici, sollecitati da un testo tra i più dibattuti della letteratura latina, l’encomio di Nerone nel proemio di Lucano. Accantonata ormai la rigida alternativa tra sincerità e ironia, l’analisi minuta del testo (sollecitata anche dalle proposte teoriche di Stephen Hinds) mette in luce una rete di relazioni, fondate anche sull’imagery di Fetonte, che suggeriscono una lettura più fluida del passo, e valorizzano la funzione semantica del rapporto con le Georgiche virgiliane. La relazione di Gianpiero Rosati cerca di delineare alcune caratteristiche della poesia encomiastica flavia, mostrandone le ambizioni teoriche nel rapporto col potere, e illustra le ragioni, e le implicazioni, del massiccio impiego che essa fa di un lessico sentimentale in campo strettamente politico, nonché le aporie cui la forma-encomio va incontro in un contesto di regime tirannico. Laurent Pernot delinea un panorama dell’oratoria epidittica della seconda sofistica e, attraverso l’analisi di alcuni tra i suoi pezzi più celebrati discute soprattutto gli elogi di Roma elaborati da intellettuali greci, mostrando come essi declinano in maniere diverse i topoi tradizionali degli elogi. L’encomio si rivela così (anche attraverso la tecnica del non-dire, un impiego del silenzio ‘eloquente’) uno strumento raffinato che permette l’espressione di messaggi politici impliciti e sottintesi. Franca Ela Consolino analizza alcuni panegirici di età tardo-antica e romano-barbarica (Claudiano, Sidonio Apollinare, Cassiodoro, Venanzio Fortunato), mostrando come essi possano di volta in volta piegarsi, anche nello stesso autore, alle diverse finalità dei contesti politici in cui si collocano, e come sulla strategia di ‘manipolazione della verità’ messa in atto dal panegirista influisca in maniera decisiva il pubblico degli ascoltatori. La relazione di Ignazio Tantillo traccia un quadro delle analogie che, nella tarda antichità (un’età di cerimonie e di panegirici), si colgono tra le tematiche e il linguaggio dei panegirici e alcune iscrizioni epigrafiche, suggerendo

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Gianpiero Rosati

le possibili vie di collegamento tra questi due diversi spazi e le possibili funzioni, magari propriamente propagandistiche, che a queste ultime venivano assegnate. Francesco Stella fornisce un panorama delle manifestazioni e degli spazi in cui prende forma l’intenzione propagandistica in età carolingia, e che ha al centro Carlo Magno, anche in maniera autonoma dalla sua volontà e in iniziative del tutto indipendenti assunte da figure intellettuali più o meno legate al potere centrale. La continuità con la tradizione classica della letteratura encomiastica non va esagerata, e la rottura legata al personaggio di Carlo debitamente riconosciuta. Philip Hardie mostra infine come la nostra idiosincrasia di moderni per la funzione eulogistica del panegirico non corrisponda a un atteggiamento che ha lungamente accompagnato la tradizione epica già nel mondo antico, collegando l’epos alla retorica epidittica, e che è proseguita fino all’età moderna. Un’ampia esemplificazione della produzione medievale e rinascimentale mostra poi come la ricezione di un episodio fortunato quale la Parata degli Eroi, del sesto dell’Eneide, ne abbia più volte esaltato la funzione celebrativa e paradigmatica in una chiave politica legata al contesto presente. La ricerca del consenso è un obiettivo che il potere di norma (anche se non sempre) persegue, e i modi della sua creazione si esplicano per lo più non solo mediante iniziative promosse e organizzate dall’alto, ma anche attraverso proposte autonomamente elaborate da un’élite sociale e intellettuale (specie quella gravitante attorno alla ‘corte’) che ambisce ad avere un ruolo di mediazione e a svolgere una funzione in una certa misura autenticamente politica. Un’analisi spassionata di forme letterarie e artistiche come encomi, panegirici, celebrazioni e simili, che sono tendenzialmente estranee, per non dire irrimediabilmente ostiche, al nostro gusto moderno, e una comprensione dei loro meccanismi, della loro capacità creativa sul piano socio-culturale e delle dinamiche comunicative che esse attivano, può aprire la strada a una loro valutazione più oggettiva (non arriverò a dire a un apprezzamento). E magari, com’è tradizione dei convegni della Fondazione Canussio, offrire anche qualche spunto di riflessione sulla realtà in cui ci troviamo a vivere.

POWER AND TRUTH IN ARCHAIC GREECE – AND AFTER GLENN W. MOST

Usually, we expect, collisions between mastery of language and mastery of power, like a collision between a Smart Car and a SUV, will be likely to cause far greater damage to the former than to the latter1. After all, at least in the short term, the dependence of logos – the refined discourse of eloquence or wisdom – upon kratos – the structures of political power and social legitimacy – is far more evident than the converse; and as for the ways in which the successful exercise of power can in fact depend upon the right application of discourse, these become clear, if at all, usually only in the long term, and it requires already a considerable measure of wisdom to be able to look to that long term beyond the exigencies and distractions of the short term. Hence it is not surprising that, despite the proverb, it has only been exceptionally that the pen really has been mightier than the sword – not only when men of poetry and men of power have interacted traumatically, when it has usually been the poets who have suffered more, but even when their encounter has been softer and more subtle, for in this case too the true nature of political power has usually been less fundamentally altered by its occasional gestures of allegiance to the intellectuals than have the aspirations of poetry or philosophy been transformed, and sometimes vitiated, by their subservience to the powers that be. For every Zeno of Elea who, having failed in his attempt at tyannicide, bit his tongue off and spat it into the tyrant’s face2, there have doubtless been many more masters of discourse who have preferred after all to survive, and – well then, why not? – reap ample benefits, by coming to an accommodation with power, bending their more compliant tongues to serve its own ends. * My thanks to Marta Cardin and the other members of my research seminar at the Scuola Normale Superiore di Pisa for their lively and helpful discussion of an earlier version of this paper. 1 The most useful recent studies of this general topic have come from the tradition of French philosophical sociology – perhaps unsurprisingly, considering the profundity and persistence of courtly structures in French society. See for example M. FOUCAULT, Fearless speech, ed. J. PEARSON, Los Angeles 2001; P. BOURDIEU, Esquisse d’une théorie de la pratique. Précédé de trois études d’ethnologie kabyle, Génève 1972; Langage et pouvoir symbolique, Paris 2001; La production de l’idéologie dominante, Paris 2008. 2 The anecdote is reported with many variations (including different names for the tyrant) by a number of sources: see especially Diodorus Siculus X 18,2; also Plutarch, Adv. Colotem 32 (Moralia 1126D); Diogenes Laertius IX 26-27; Clement Alex., Stromata IV 57.

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Glenn W. Most

The delicate and often dangerous relations between modes of discourse and modes of power have always occupied the attention of theorists and practitioners of both domains. Unsurprisingly, theory has tended to focus not upon the drastic black and white alternatives, the largely unproductive limit cases consisting of the absolute subservience of eloquence to dominion or of the absolute opposition between them, but instead upon the many shades of gray between them, the more or less viable strategies of collaboration and complicity between the speaker and his ruler. Given the questionable legitimacy of many sovereigns, we can well understand a certain anxiety on their part to bolster their power by suppressing the public expression of dissent on the one hand and favoring the public expression of consent on the other, just as we have little difficulty in recognizing the likelihood that at least some poets and orators will prefer collusion to collision, the benefits of collaboration and remuneration rather than the risks of antagonism and marginalization (or worse). So we might well expect the default situation at court to be public praise and fulsome panegyric: but in fact matters were often far more complicated, and more interesting. How much truth does the tyrant want to hear? But also: how much truth can the tyrant wish to seem to want to hear? To be sure, we expect, and the ancient Greeks expected, the anxieties of the tyrant and the instability of his power to induce him inevitably to allow those he permitted to surround him to tell him only what he wanted to hear. Doubtless this was often the case. And yet truth usually remained a value honored at least in appearance if not always in reality; and a variety of circumstantial reasons – the tyrant’s personality, a shrewd political calculation, his relations to his subjects, to potential threats, and to other tyrants – could also sometimes favor not only the appearance of frankness in panegyrics but also the inclusion in them of at least some degree of genuine criticism and admonition. But the speaker of praise for the tyrant who wished to exploit the space, however narrow, thereby opened up to his apparent plain speaking, had to negotiate a tricky and risky middle ground between seeming servile and seeming presumptuous if he wished to achieve success in the eyes of men and of gods. *** Precisely these issues were among those that most occupied the theoreticians of rhetoric, literary theory, and politics in the early modern period, from the 15th century at least until Alfieri’s Della tirannide of 17773. From the 3 See for example S. ANGLO, The Courtier’s Art: Systematic Immorality in the Renaissance, Swansea 1983. A useful introductory anthology is provided by B.G. KOHL - R.G. WITT - E.B. WELLES (edd.), The Earthly Republic: Italian Humanists on Government and Society, Philadelphia 1978.

Power and Truth in Archaic Greece – and After

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dark and glittering depths of the Roman Empire, Tacitus had pointed to the narrow road that could lead between self-destructive contempt for authority and self-abasing servility – inter abruptam contumaciam et deforme obsequium pergere iter ambitione ac periculis vacuum4 – and his words were to echo throughout the century of Absolutism, Neo-Stoicism, and Tacitism, on the one hand suggesting to anxious courtiers, who had to live not only with the monarch but also with themselves, that success, and survival, were in general terms not after all entirely impossible, but on the other inconveniently quite failing to provide any detailed algorithm that might guarantee how to achieve these ends. But the central question had posed itself urgently already in the early 16th century: when and how can one safely and effectively tell the ruler not what he wishes to hear but what he ought to hear? Machiavelli reserves his discussion of “how flatterers should be avoided” to chapter 23, almost at the very end of his manual on The Prince. Here he demonstrates, on principle and by means of the negative example of the Holy Roman Emperor Maximilian I of Habsburg, who had died in 1519, how great a danger flattery is unless the prince is particularly careful: the ruler must strictly ration candor and freedom of speech, for if he allows everyone to tell him the truth people will lose all respect for him; so he must confine truth-telling to secret exchanges with a few wise counselors who know he will reward them for their frankness, but otherwise he should listen to no one and should simply impose his decisions without discussion; if he is stupid but lucky he will be successful if he follows the counsels of a single wise advisor, for a while (until, that is, the counselor decides to usurp his power himself), but if he listens to more than one he will never be able to sort out their differences. Machiavelli concludes the chapter with the paradox that good counsels always come from the wisdom of the prince, and the wisdom of the prince never from good counsels, for only a wise prince will be able to recognize the value of good advice and will create those conditions under which alone it can reach him. So, we may infer, the only prince who is capable of making good use of a truth-telling advisor does not really need one at all, while the prince who would urgently need one cannot in fact make any use of him whatsoever – from which it follows, as the night does the day, that sooner or later all but the very wisest princes will be destroyed by their inability to hear, and listen to, the truth5. Castiglione’s The Courtier presents an analysis of the interrelation between discourse and power which, though certainly less lapidary and drastic than 4

Tacitus, Annales IV 20,5. Machiavelli also discusses the relation between the ruler and his counselor elsewhere in The Prince, especially in chapters 19 and 22. He does not make explicit the consequences of this paradoxical conclusion for his understanding of his own role as a counselor. 5

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Glenn W. Most

Machiavelli’s (with which it was approximately contemporary), is only in appearance any more optimistic. If Machiavelli identifies in the wisdom of the ruler the only possible solution to the problem of courtly adulation, Castiglione locates it in the wisdom of the courtier; neither writer pays much attention to the possibility that both the ruler and his courtier might be wise – perhaps because if so there is no problem, more likely because the very possibility seems to them so remote. It is only after the first three books, devoted to describing in considerable detail exactly what the ruler likes to hear – above all pleasantly witty, innocuous conversation, but also music, games, dancing, and other agreeable activities – that Castiglione dares to move on in the fourth and final book to the more hazardous terrain of what the ruler ought to hear. If in book 2 Federico had defined the perfect courtier as someone who “loves and even adores the prince he serves beyond anything else” – provoking Pietro’s understandable protest that what he was depicting was nothing other than “a noble adulator” – this was because at that stage of the discussion the interlocutors were still considering only how the courtier should best endorse and encourage his ruler’s desires “that are reasonable and honest, i.e. those that in themselves are neither good nor evil, like playing or engaging in one activity rather than another”6. But at the beginning of book 4 Ottaviano shifts the discussion upwards to the plane of moral philosophy, redefining the courtier now as someone who must lead his ruler towards the good and dissuade him from evil and who must use the truth for this end: in this new light it turns out that the perfect courtier is the one who has obtained “to such a degree the benevolence and spirit of the prince he serves that he can tell him, and always tells him, the truth about every matter that it is appropriate for him to know, without fear or risk of displeasing him” (IV 5, p. 368). The following chapters (IV 6-10, pp. 369-375) go on to offer a detailed analysis of the risks involved in telling the ruler unpleasant truths and provide advice on how those risks can be, if not altogether eliminated, at least somewhat reduced. Yet the praise of the perfect courtier as master of truth (IV 5, pp. 368-369) and of the truth itself as the indispensable foundation of all good and of every virtue (IV 6, pp. 369-370) accords oddly if at all with the merciless analysis of the arrogance of self-delusion as an almost unavoidable component of the psychology of power (IV 7, pp. 370-372) and with the contrast between ancient princes, who sought the best counsel from the wisest philosophers, and their modern counterparts, who, shown “the horrid countenance of true virtue, … would abhor it like an asp or make fun of it like the most worthless of things” (IV 6 A. QUONDAM - N. LONGO (edd.), Baldassar Castiglione. Il Libro del Cortegiano, Milano 1981, book II, chapter 18, p. 144. Further quotations are taken from this edition and are indicated by book and chapter number followed by page number; all translations are my own.

Power and Truth in Archaic Greece – and After

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8, p. 373). And when Castiglione finally brings these two separate lines of argument together into the compass of a single sentence, he simply juxtaposes them paradoxically with the bare expedient of a simple sign of punctuation, a colon or comma, without in the least explaining how they can be related cogently to one another: Dico adunque che, poi che oggidì i principi son tanto corrotti dalle male consuetudini, e dalla ignoranzia e falsa persuasione di se stessi, e che tanto è difficile il dar loro notizia della verità ed indurgli alla virtù, e che gli omini con le bugie ed adulazioni e con così viziosi modi cercano d’entrar loro in grazia7, il Cortegiano, per mezzo di quelle gentil qualità che date gli hanno il conte Ludovico e messer Federico, po facilmente e deve procurar d’acquistarsi la benivolenzia, ed adescar tanto l’animo del suo principe, che si faccia adito libero e sicuro di parlargli d’ogni cosa senza esser molesto; e se egli sarà tale come s’è detto, con poca fatica gli verrà fatto, e così potrà aprirgli sempre la verità di tutte le cose con destrezza… (IV 9, pp. 373-374)

The sentence that begins with a baleful analysis of hopelessly corrupt present circumstances suddenly and astonishingly goes off after the word “grazia” in a completely different direction, beginning with the words “il Cortegiano,” into a eulogy of the perfect courtier who, somehow, can alone entirely redeem them. The point at which these two half-sentences make contact, the sign of punctuation between the two phrases cited, does not really unite them into a single coherent conceptual structure but instead creates a logical anacoluthon that implicitly asserts the fundamental incompatibility between the real and the ideal. What place is there then for truth at court? *** Machiavelli and Castiglione, typical humanists in this regard too, imagined that matters were much better in antiquity than in their own times and did not hesitate to castigate their contemporaries by appeal to the example of the ancients. But in fact, the unambiguous lesson of antiquity is that most Greeks and Romans recognized acutely and dispassionately the very same problems and paradoxes as their Renaissance successors did. After all, Greek literature 7 In the edition of Quondam and Longo, this punctuation sign appears as a comma; in other modern editions a colon is used. I have not checked the 16th century editions, nor does it seem to me indispensable to do so. For it does not much matter just what sign was used in them: in the Renaissance the usage of such punctuation signs was not standardized as it is nowadays, when a colon signifies that the material that follows explicates the material that precedes; in the Renaissance this was only one use of the colon, which otherwise could indicate a pause of any sort stronger than a comma and weaker than a period. No sign of punctuation, by itself, could possibly resolve this logical discrepancy; if anything, Castiglione should have written not “poi che” at the beginning of this sentence but instead “ben che” or “sebbene.”

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begins with a scene in which an irascible and incompetent leader, Agamemnon, not only demonstrates that he is quite incapable of accepting good advice but instead is driven by the wise advice of sage counselors into an even greater fury8. And Herodotus shows various scenes of power incapable of learning from wisdom: Croesus gives the visiting Solon an easy opportunity, well prepared by a visit to inspect the royal treasuries, to answer the classic panegyric question, who is the happiest man he has ever seen, and the king becomes first perplexed and then infuriated at his visitor’s unaccountable inability to give the obvious answer, namely Croesus himself (Croesus sends him off contemptuously as a fool, and the gods later destroy Croesus for his presumption in supposing himself the happiest of men, I 30-34); again, when Xerxes proposes to invade Greece, the canny courtier Mardonius knows exactly how to win his favor, by beginning his speech, in which he enthusiastically supports the Great King’s foolhardy plan, with the words, “Of all Persians who have ever lived, and of all who are yet to be born, you, my lord, are the greatest. Every word you have spoken is true and excellent…” (VII 9), while Artabanus, who alone, as Xerxes’ uncle, dares to disagree with him, meets with contempt and abuse (VII 11); later, when it occurs to Xerxes to actually ask a Greek, Demaratus, about Greece, the canny Greek begins by asking, “My lord, is it a true answer you would like, or merely an agreeable one?” and Xerxes assures him he will not suffer if he tells the truth – but then responds to his realistic and prophetic assessment by laughing at him and ignoring it (VII 101-105). For the rest of antiquity, historians will continue to tell of good advice not taken, with disastrous consequences; moralists like Plutarch will provide well meant but evidently largely futile tips on how to tell a flatterer from a friend9; rhetoricians like Menander Rhetor will compile much more useful handbooks on how to compose successful epideictic speeches10; and orators like Dio Chrysostom will begin their adulatory speeches for an imperial patron by flatteringly assuring him, “I, most noble Prince, have been in your company and am perhaps as well acquainted with your character as anyone, and know that you delight in truth and frankness rather than in flattery and guile”11. Plato’s celebrated claim that his ideal city will only come into existence when the philosopher and the king are one and the same person12 can be inverted and interpreted not only as a wan utopian hope but also as the clear-eyed statement of a permanent problem: given that the philosopher and the king will in reality always be two different persons, in Sicily as elsewhere, 8 9 10 11 12

Homer, Iliad I 24ff. Plutarch, Quomodo adulator ab amico internoscatur (Moralia 48E-74E). D.A. RUSSELL - N.G. WILSON (edd.), Menander Rhetor, Oxford 1981. Dio Chrys., Oratio III 2. Plato, Republic V 473C-D.

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logos and kratos will never come to coincide in the real city, and their collision is inevitable – then as now. *** Epinician poetry was for archaic Greece what a panegyric speech was for the Roman Empire: an opportunity, bestowed by success, to gratify power by a ceremony of public praise13. Since the man who had won the prize at a (usually) athletic competition was paying for the poet to compose an ode that would be sung in his honor (presumably by a chorus) in a public commemoration of his victory at his home town (or, more rarely, at the site of his victory), he is likely to have expected, and to have received, a poetic composition celebrating his merits, athletic and otherwise, in no uncertain terms. Numerous anecdotes transmitted by ancient authors report – probably unreliably for the exact details, but doubtless significantly for the general social situation involved – the various kinds of unpleasantness that could come about if the patron’s expectations were not fulfilled14; and Pindar for one makes no secret of the facts that his poetry is being paid for (Isthm. II 1-13) and that the victor has other means available to celebrate his triumph besides paying for such poems, for example commissioning a statue (Pindar, for one, proclaims that his poems achieve the same purpose but far more effectively: Nem. V 1-7). So there is no doubt that, in a certain sense and to a certain degree, epinician poetry is simply one particular species among others of the larger genus of praise discourse, differing for example from panegyric orations by being composed and performed in sung verse rather than spoken prose, from hymns by praising men rather than gods, from threnodies by praising the living rather than the dead, from encomia by praising an athletic victory, and so forth. To say that epinician poetry praises its patrons is not news; but it is one thing to say that the general purpose of an epinician poem is to praise its patron and quite another to say that this is the only or essential purpose of an epinician poem and that this is the purpose not only of the poem as a whole but of every single aspect and component of it. And yet precisely these latter were the claims Elmore Bundy made in 1962 when he asserted “…one master principle: there is no passage in Pindar and Bakkhulides that is not in its primary intent enkomiastic – that is, designed to enhance the glory of a particular patron” and declared, “it should be evident that the Epinikion must adhere to 13 In terms of the questions posed here, it would be useful to compare epinician poetry with inscriptions in honor of athletic victors. See for example the material collected in L. ROBERT, Les gladiateurs dans l’Orient grec, Paris 1940; J. EBERT, Griechische Epigramme auf Sieger an gymnischen und hippischen Agonen, Berlin 1972. 14 E.g., on Simonides: Cicero, De oratore II 86; Quintilian, Inst. Orat. XI 2,11-16.

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those principles that have governed enkomia from Homer to Lincoln’s Gettysburg Address…”15. Progress in scholarship, doubtless, is often achieved by the enunciation of provocatively one-sided, reductive theses; but it does not require much reflection to see that it is a non sequitur to infer from the assertion that a genre has the finality of praise the consequences that this must be its only finality and that of all its elements. It is, after all, the purpose of an automobile, be it a Smart Car or a SUV, to get its driver and passengers safely, quickly, and economically to their destination; but is that the sole purpose of every single part of an automobile, including its styling, its color, its chrome, and the small mirror on the back of the front passenger’s windshield visor? In fact, there were many constraints upon epinician poetry that limited and modified the degree and the kinds of praise it was able to express. For one thing, as I have argued elsewhere16, the epinician situation confronted poets like Pindar and Bacchylides with two different, indeed almost contradictory tasks, which we can call individualization and integration. The institutionally public character of choral lyric meant that epinician poems, as distinguished from the somewhat more restrictedly accessible monodic lyric, had to satisfy not only the victor and his family but also his polis – one superficial but infallible proof of this is the praise for the victor’s city which epinicians almost always link with the praise for the victor himself. But these two different addressees, the victor and his city, confronted the poet with two very different challenges. On the one hand he had to celebrate the victor in the fullness of his triumph – after all, it was the victor who had paid for the poem, and he certainly expected the poet to praise him so that he seemed better than all other men and worthy of his victory. But on the other hand the poet also had to take account of the expectations and needs of the victor’s fellow-citizens, if they were not to reject the victor as arrogant and dangerous to the community. That is why the epinician poets sing not only of the victor’s great felicity and brilliant success, but also of the insuperable limits of human possibility, and why they not only magnify the victor’s unique lot but also warn him at the same time to exercise self-control and moderation – thereby of course further praising the victor, for such a warning has little sense applied to the anonymous masses. The epinician poet’s success in dealing with this complex and delicate situation can only be achieved by running along the razor’s edge, the kairos, on both sides of which lurk serious dangers for his enterprise: if the poet exaggerates integration at the cost of individualization, the patron will be 15

E. BUNDY, Studia Pindarica, I, Berkeley 1962, 3. Poet and Public: Communicative Strategies in Pindar and Bacchylides, in P. AGOCS - C. CAREY - R. RAWLES (edd.), Receiving the Komos, London 2011 (forthcoming). See also e.g. K. CROTTY, Song and Action. The Victory Odes of Pindar, Baltimore 1982; L. KURKE, The Traffic in Praise. Pindar and the Poetics of Social Economy, Ithaca - London 1991. 16

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angry with him; but if he exaggerates individualization at the cost of integration, then the patron’s fellow-citizens will be angry with the patron. That is why most epinician poems do their best to preserve a careful balance between celebration and admonition, between outright praise for the victor and his achievement on the one hand and reminders on the other hand that human success is always limited and impermanent and lies in the hands of the gods. No epinician poet names a successful mortal without insisting upon his mortality and his dependence for his success upon divine favor; and just behind the constantly emphasized jealousy of the gods, which is always possible, lurks the envy of men, which is absolutely certain. Sometimes indeed the poet can only manage to hit the golden middle of the kairos by swinging back and forth repeatedly between the two extremes on either side of it. A passage in Pindar’s Tenth Pythian, composed for Hippocleas of Thessaly, winner in the boys’ diaulos in 498 B.C.E., illustrates this tendency with particular clarity – no doubt not so much because it is Pindar’s earliest dated poem, as rather because it is addressed to a very young victor and the poet can therefore permit himself to adopt a tone even more didactic than is his wont. The numbers in parentheses are intended to help articulate this passage logically, along the lines explained immediately after the citation: (1) tiv kompevw para; kairovn; (2) ajllav me Puqwv te kai; to; Pelinnai`on ajpuvei jAleuva te pai`de", JIppokleva qevlonte" ajgagei`n ejpikomivan ajndrw`n kluta;n o[pa. geuvetai ga; r ajevqlwn: stratw`/ t∆ ajmfiktiovnwn oJ Parnavssio" aujto;n mucov" diaulodroma`n u{paton paivdwn ajneveipen. (3) [Apollon, gluku; d∆ ajnqrwvpwn tevlo" ajrcav te daivmono" ojrnuvnto" au[xetai: oJ mevn pou teoi`" te mhvdesi tou`t∆ e[praxen, (4) to; de; suggene;" ejmbevbaken i[cnesin patrov" jOlumpionivka di;" ejn polemadovkoi" [Areo" o{ploi": e[qhke kai; baquleivmwn uJpo; Kivrra" petra`n ajgw;n krathsivpoda Frikivan. (5) e{poito moi`ra kai; uJstevraisin ejn aJmevrai" ajgavnora plou`ton ajnqei`n sfivsin: tw`n d∆ ejn JEllavdi terpnw`n lacovnte" oujk ojlivgan dovsin, mh; fqonerai`" ejk qew`n metatropivai" ejpikuvrsaien. qeo;" ei[h ajphvmwn kevar: (6) eujdaivmwn de; kai; uJmnhto;" ou|to" ajnh;r givnetai sofoi`",

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o}" a]n cersi;n h] podw`n ajreta`/ krathvsai" ta; mevgist∆ ajevqlwn e{lh/ tovlma/ te kai; sqevnei, kai; zwvwn e[ti nearovn kat∆ ai\san uiJo;n i[dh/ tucovnta stefavnwn Puqivwn. (7) oJ cavlkeo" oujrano;" ou[ pot∆ ajmbato;" aujtw`/: (8) o{sai" de; broto;n e[qno" ajglaiüvai" aJptovmesqa, peraivnei pro;" e[scaton plovon: (9) nausi; d∆ ou[te pezo;" ijwvn eu{roi" ej" JUperborevwn ajgw`na qaumasta;n oJdovn. (10) par∆ oi|" pote Perseu;" ejdaivsato lagevta"… (Pyth. X 4-31) (1) Why am I vaunting inappropriately? (2) Rather, Pytho [i.e., the site of the victory] and Pelinna [i.e., the victor’s town] are calling upon me, and Aleuas’ sons [i.e., the victor’s family], who are eager to bring to Hippokleas men’s glorious voices in revelry, for he competes in the games, and the valley of Parnassos proclaimed him to the host of neighboring people the best of the boys who ran the diaulos. (3) Apollo, sweet waxes the end and the beginning for men when a god is prompting. He achieved this, I believe, through your designs, (4) but by inherited ability he has trod in the footsteps of his father, twice an Olympic victor in Ares’ armor that bears the shock of war; the contest in the deep meadow beneath Kirrha’s cliff [i.e., at Pytho] also made Phrikias [probably Hippocleas’ father rather than his father’s horse] a victorious runner. (5) May destiny attend them as well in coming days to make lordly wealth blossom for them. And having been granted no small share of delightful successes in Hellas, may they encounter from the gods no envious reversals. May the god not be pained in heart. (6) But blessed and a worthy subject for song in wise men’s eyes is that man, who conquers with his hands or the excellence of his feet and wins the greatest prizes with courage and strength, and while still living sees his young son duly win Pythian crowns. (7) The bronze heaven is never his to scale, (8) but as for all the glories which our mortal race attains, he completes the furthest voyage. (9) And traveling neither by ships nor on foot could you find the marvelous way to the assembly of the Hyperboreans. (10) With them Perseus, the leader of people, once feasted…17

A brief analysis of this passage, sentence by sentence, shows clearly how Pindar oscillates here from one side of the kairos to the other. (1) The poet begins by pretending that his praise of Hippocleas might be in violation of right measure, the kairos (para kairon). (2) But he immediately sets matters straight: he is obliged to praise him by the fact of the boy’s victory and the pressure of both his family’s expectations and his town’s. (3) And yet the true merit for the victory belongs not to Hippocleas himself but rather to the god Apollo. (4) But not only to the god: for the boy has inherited his athletic ability from his human family, and in passing Pindar slips in some praise for the past victories of Hip17 I quote the translation of W.H. RACE (ed.), Pindar. Olympian Odes. Pythian Odes, Cambridge, MA - London, 1997, 359-361.

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pocleas’ father. (5) So far the gods have indeed shown favor to this family, but there is no certainty that they will continue to do so and we can only hope that they will. (6) And yet the success the members of this one family have already achieved, victory in the games for oneself and one’s son, is already an enormous accomplishment and well worthy of praise. (7) And yet the heavens, the domain reserved for the gods, remain forever beyond their reach. (8) But they have attained the farthest limit to which human felicity can aspire. (9) But beyond that limit lies the land of the mythical Hyperboreans, which no man can reach by sailing the sea or traveling on land. (10) And yet the legendary Perseus did get there, in a way neither Hippocleas nor his family nor any of Pindar’s listeners ever will be able to imitate, namely by flying through the air – and with that Pindar himself flies off into a lengthy narrative of the Hyperboreans’ easy life and Perseus’ heroic exploits. We can well imagine that young Hippocleas, if he even bothered to pay any attention to the details of Pindar’s poetic text, will have felt somewhat confused by them – but both he and his father, and Thorax, the head of the local Thessalian political dynasty, who seems to have paid for the poem, as well as those of their fellow-citizens who attended its performance, will doubtless have been sufficiently pleased by a general if somewhat vague impression of poetic grandeur, of lofty if not completely novel thought, and of noble if not fully pellucid expression, to have felt that whatever money had been paid for the commission had been very well spent indeed. So the epinician poet’s praise for the victor must always be confined within carefully defined limits if it is to be effective. But beyond this general constraint, which applies to all epinician poems by virtue of their generic situation of performance, other factors that derive from the specific circumstances of the individual victory operate to influence the poetic expression of praise. For even if the general epinician situation is constituted by the necessary co-presence of both contradictory aspects, individuation and integration, nonetheless the exact balance between them is up to the poet, who is free to place the emphasis in any single case wherever the specific character of the individual situation seems to him to require it. Thus, for example, on the one hand Pindar praises the city more emphatically when the victor comes from Athens (Pyth. VII), Corinth (Ol. XIII) or Thebes (Isthm. VII) than in other cases, doubtless because a strong sense of civic pride seems especially to have characterized these towns and would have made it imperative for the victor’s sake to reintegrate him into the social tissue; and so too, it is evidently felt to be impossible for a poet to celebrate the victory of any Aeginetan athlete adequately without appealing to the legends of the Aeacids, in which all Aeginetans evidently felt they had a personal stake18. On the other 18 See most recently A. PIPPIN BURNETT, Pindar’s Songs for Young Athletes of Aegina, Oxford 2005; S. HORNBLOWER, ‘Dolphins in the Sea’ (Isthmian 9.7): Pindar and the Aeginetans, in S. HORNBLOWER - C.

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hand, Pindar’s songs for victors from Cyrene or Sicily, who by and large were kings, tyrants, or their close friends and relatives, tend much more to emphasize their own achievements as powerful and successful individuals, and to allude if at all to the glory of the hometown only so as to enhance even further the celebration of its ruler’s power and success19. The poems for Sicilian victors in particular raise the question whether the special circumstances that governed epinician odes composed to be performed at a tyrant’s court might in some way have been reflected in the detailed rhetorical strategies deployed in them. To be sure, none of the patrons for whom Pindar’s or Bacchylides’ poems were composed was a total nobody; but it would after all not be very surprising if it turned out upon inspection that the kinds of praise that could be bestowed upon an ordinary, albeit wealthy and athletically inclined, citizen of a typical Greek polis differed in quantity and quality from that which could be expected to please a Sicilian tyrant or his henchmen. A century later, Xenophon took Hieron of Syracuse as the paradigm of a ruler to whom no other kind of discourse was ever directed at court than flattery; and although Xenophon was writing in his dialogue Hieron as a moralist and not as a historian, his expectations for what life was like at a tyrant’s court are likely to have been widely shared by other Greeks and hence not to have been very far off the mark regarding conditions in Sicily or elsewhere. In Xenophon’s dialogue, the praise poet Simonides, thinking to flatter Hieron, tells him, “Praise, the sweetest of all sounds, is never lacking, for all your courtiers praise everything you do and every word you utter. Abuse, on the contrary, that most offensive of sounds, is never in your ears, for no one likes to speak evil of a despot in his presence”20. But Hieron’s response reveals the disadvantages of this seemingly idyllic situation: “And what pleasure comes, do you suppose, of this shrinking from evil words, when one knows full well that all harbor evil thoughts against the despot, in spite of their silence? Or what pleasure comes of this praise, do you think, when the praises sound suspiciously like flattery?” (15). Praising a victorious tyrant who was bored and suspicious of flattery must have posed special challenges for a professional technician of praise. For at least some poets, this challenge may itself have been very attractive indeed, and may have made the financial allures involved in such an undertaking even more appealing than they would already have been on their own account. MORGAN (edd.), Pindar’s Poetry, Patrons, and Festivals. From Archaic Greece to the Roman Empire, Oxford 2007, 287-308. 19 See most recently A.D. MORRISON, Performances and Audiences in Pindar’s Sicilian Victory Odes, London 2007. 20 Xenophon, Hieron 14. Here and below I quote the translation of E.C. MARCHANT (ed.), Xenophon in Seven Volumes. VII. Scripta Minora, Cambridge, MA 1968, 7.

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Let us start with Bacchylides, a simpler and less voluminously transmitted poet than Pindar, and ask how, with regard to his tactics of praise, his poems for Sicilian tyrants differ from his other productions. As it happens, we possess three epinicia of Bacchylides addressed to Hieron of Syracuse; his other surviving poems celebrate victors, from Ceos and other parts of Greece, who were successful athletically but unremarkable politically. At least four striking features that are interesting in this connection are found prominently and repeatedly in these three poems of Bacchylides for Hieron but are attested far more rarely, if at all, in his other extant poems: 1. the poet’s explicit citation of what other people are saying, be it praise or blame (III 9-10; 63-71; 96-98); 2. his asseveration that he himself at any rate is telling the truth about the victor (III 96; V 187-190); 3. his emphasis upon his sincere personal eagerness to praise the victor (IV 9-10; V 14-16; 195-197); 4. and his lavish praise for the victor’s intelligence (III 85; V 3-6). Now none of these features would be particularly surprising on its own in a poem of praise for any athletic victor; but it seems unlikely to be due merely to the accidents of transmission that they are not found in Bacchylides’ other poems in such concentration or so conspicuously. Surely it makes more sense to interpret them as symptoms of the particular discursive conditions less typical of ordinary upper-class Greek households than of Hieron’s court, where we would expect to find: (1) a situation requiring a heightened and constantly wary attentiveness to what other people were saying and vigilant evaluation of the possible motivations behind utterances; (2) the insistence that, whatever fulsome or abusive lies other people have been telling, the speaker himself is now telling the truth in his gratifying discourses to the ruler; (3) the guarantee provided for the speaker’s claimed veracity by his profession of ardent friendship and sincere benevolence; and (4) the explicit praise for the tyrant’s perspicacity, his ability to see through other people’s deceptions and appreciate what this speaker claims to be his own genuine candor. If this is so, it will not surprise us to find that precisely the same four features are found repeatedly in Pindar’s odes for tyrants and kings as well: 1. the poet’s explicit citation of what other people are saying, be it praise or blame (Pyth. I 51-52; 81-84; II 71-73; 81-82; 86-88; 89-92; V 107-108; Nem. I 24-25); 2. his asseveration that he himself at any rate is telling the truth about the victor (Ol. II 90-95; Pyth. II 83-85; V 107-108; Nem. I 18-19); 3. his emphasis upon his sincere personal eagerness to praise the victor (Ol. I 3-6; 103-105; 108-111; III 38-41; Pyth. I 42-45; III 1-3; cf. Fr. 118 Sn.-M.); 4. and his lavish praise for the victor’s intelligence (Ol. II 83-85; Pyth. II 5758; 72; 73-74; III 80-82; V 17-19; VI 47-49; Isthm. II 12).

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To be sure, more of Pindar’s epinician poems are preserved than of Bacchylides’, and Pindar is the more complex of the two poets, so that it is possible to find a few more such passages in Pindar’s poems written for victors other than tyrants and kings than is the case with Bacchylides; but even if the contrast between the poems written for the two kinds of dedicatee, which was fairly stark with Bacchylides, does become very slightly murkier with Pindar, still the contrast between these two types of epinicians certainly seems to hold for both poets. There are also, as we would expect, not only striking similarities between the ways in which each of the two poets deals with the discursive exigencies at the tyrant’s court but also various differences. Above all, Pindar, unlike Bacchylides, does not hesitate on occasion to give the appearance of admonishing sternly his powerful client and he dispenses various kinds of sober advice to him (Pyth. I 85-94; II 72; IV 270-278; cf. Fr. 126 Sn.-M.)21. In so doing the poet seems to wish to demonstrate not only his own rectitude, independence, and candor – the parrhêsia which for an Athenian would be an essentially political value, closely linked to the ideology and identity of the city and its citizens, seems in Pindar’s case to be more a reflection of his special poetic and religious status, guaranteed by the Muses – but also the ruler’s love of free speech and his ability to accept good advice, especially when it is well meant and carefully phrased. To be sure, the tyrant’s real power over a distinguished foreign poet like Pindar must have had its limits; but if the poet wished to receive future commissions from the same patron, as Pindar often suggests (e.g., Ol. I 115-117; Pyth. II 96), he will have been well advised to do his best to understand the delicate situation at court and to adapt himself to it appropriately – and, what is more, if he hoped to receive future commissions from patrons elsewhere in the Greek world (who might not necessarily have been great admirers of the Sicilian tyrants), he will have been well advised to make sure that he could be thought of not simply as Hieron’s toady but as someone who could speak frankly to the ruler’s face (and doubtless this too would redound to Hieron’s credit)22. As so often in panegyric, the poet who insists that his patron should act in some particular virtuous way, so far from implying that that patron has ever acted otherwise in the past and must now stand abashed and corrected, is in fact intimating that he has always followed the path of this virtue anyway and does not in the least need this encouragement in order to continue doing what comes naturally to him. Public praise, if administered shrewdly and tactfully, could not only tolerate a bit of admonition, but could even be enhanced by it – at least back then. 21 For a different view of such passages, see B. GENTILI, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Bari 1984, 141-151. 22 For a similar argument about Simonides’ poem for Scopas, see my Simonides’ Ode to Scopas in Contexts, in J.P. SULLIVAN - I.J.F. DE JONG (edd.), Modern Critical Theory and Classical Literature, Leiden - New York - Köln 1994, 127-152.

HIERON AGONISTES OR THE MASKS OF THE TYRANT NINO LURAGHI

L.E. Rossi in memoriam

Especially during the late archaic period, Greek tyrants seem to have been enthusiasts of agonistic events, with a clear and consistent preference for the hippic competitions. Victories in the chariot races at the Panhellenic games are documented for a good number of tyrants from mainland Greece1, but of course, the most impressive evidence for this phenomenon is represented by the odes written by Pindar and Bacchylides in celebration of the victories of the tyrants of Syracuse and Akragas in hippic events at the Panhellenic games2. Because of the very high cost and total uselessness of racehorses, the horse and chariot races were reserved to the wealthiest among the Greek upper class3. For tyrants, this sort of event presented one additional advantage * This paper brings together and develops some observations that were sketched in LURAGHI 1994, complementing them with new ones and updating them in the light of new research. An early version of it was presented in Luigi Enrico Rossi’s seminario, and more recently in Princeton. My sincere thanks go to all three audiences, and to Dr. Gianpaolo Urso for organizing the conference in Cividale and overseeing the publication of the proceedings with curteous efficiency. Immediately before submission, my colleague Andrew Ford has offered invaluable support in the form of corrections and suggestions. His keen eye has saved me from many an infelicity in style and substance. Scholarship on Pindar is endless, and any attempt at comprehensiveness in the footnotes would be self-defeating. Accordingly, references are kept to a minimum, and the commentaries to Pindar and Bacchylides are presupposed rather than quoted, with few motivated exceptions. All dates are intended BCE unless otherwise specified. This contribution is a very modest tribute to the memory of a distinguished scholar and an exquisite gentleman. 1 Apart from the Western Greek tyrants, the list includes Myron of Sikyon (Olympics of 648, Paus. 6,19,1-2), Kleisthenes of Sikyon (Pythian games of 582, Olympics of 572; Paus. 10,7,6-7 and Hdt. 6,126 respectively), possibly Periander of Corinth (Olympics, date uncertain; Ephorus, FGrHist 70 F 18), and Peisistratos (victory ceded by Kimon Koalemos, Hdt. 6,103). Note also the victory of Gelon, still tyrant of Gela, with the chariot at the Olympics of 488 (Paus. 6,9,4). On archaic tyrants and agonistic competitions, see CATENACCI 1992. 2 For a full list of odes, preserved and fragmentary, and with certain or tentative dates, see CATENACCI 2006, 197. Documented victories of the Deinomenidai and their acolytes are listed in BONANNO 2010, 185-186, with references to the relevant evidence. 3 Note the revealing terminology of Herodotus: the family of Miltiades the Elder was an oijkivh teqrippotrovfo" (6,35).

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over athletic competitions. For them, it would have been extremely problematic to take a break from their despotic activities in order to train for the games, let alone to travel to the Panhellenic sanctuaries in order to participate, thereby offering their fellow-citizen an attractive occasion to overthrow their rule. Tyrants therefore preferred specialties that did not require their personal presence, as was the case with horse and chariot races, in which the competitors, the people whose names were proclaimed in case of victory, were the owners of the horses, and the jockeys or the charioteers played a rather secondary role, being usually professionals hired for the purpose. In their participation in competitions, as in other aspects of their public persona, we can observe the complex and ambiguous relationship of tyrants with the competitive ethos that defined Greek social elites, encapsulated by the Homeric imperative aije;n ajristeuvein kai; uJpeivrocon e[mmenai a[llwn, an ethos of which tyranny was the ultimate, repressed, and logical consequence4. The archaic tyrant appears to have behaved as a sort of professional aristocrat5, engaging in a systematic and organized fashion into all the leisure activities that marked elite lifestyle in archaic Greece. In this perspective, his attitude to competitions appears to have been similar to his attitude to lyric poetry. It has often been remarked that tyranny seems to have encouraged the emergence of professional poets that can be observed in Greek literature from the second half of the sixth century6. The tyrant’s symposion is precisely the environment where we see in action characters like Anakreon, surely an aristocrat and a poet, but probably, more of a poet and less of a politically selfconscious and engaged aristocrat than somebody like e.g. Alkaios. Sympotic poetry, a necessary feature of the aristocratic symposion, was organized by the tyrant through recourse to professionals, and by the same token, when it came to competitions the tyrant did not leave anything to chance. Rather than entering the arena, he invested heavily in horses and jockeys, taking advantage of his position of economic superiority with respect to any competitor – and once the victory had been achieved, he invested in victory odes, commissioning the best poets of the day, and in lavish victory monuments7. 4 On tyranny as an expression of the competition for power within the elite, see especially HEUSS 1946, followed most notably by STAHL 1987; DE LIBERO 1996; STEIN-HÖLKESKAMP 2009. On the ethos of archaic Greek elites as articulated in archaic poetry, FRÄNKEL 1969 and ADKINS 1972 are two classics; for a more explicitly sociological approach, see DUPLOUY 2006, who also integrates the archaeological evidence in a very persuasive and helpful way. 5 Note the perceptive comments in KURKE 1999, 131-132 on the Deinomenidai as hyperaristocrats. 6 See WEBER 1992, 42-51. 7 In this, too, the Syracusan tyrants excelled: their dedications include two bronze chariots dedicated at Olympia by Gelon and by Deinomenes, Hieron’s son, respectively (Paus. 6,9,4 and 12,1), and the monument of which the Delphic charioteer was part; see SMITH 2007, 124-130. In general, for an overview of Western Greek presence in the Panhellenic sanctuaries see ANTONACCIO 2007.

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The choice to compete on equal footing with the cream of Greek social elite expresses the tyrant’s wish to be seen (also) as an excellent member of this group. The magic kleos that shines on the victorious athlete was obviously a very attractive commodity for a tyrant, who wielded a de facto power, tied exclusively to his person, without a constitutional framework, a power that could legitimize itself only in charismatic terms8. At the same time, donning the robe of the victorious competitor was a tricky proposition for a tyrant. For a victorious athlete, victory translated itself into symbolic capital to be used typically in the competition for status and power within the city9. The tyrant was the man who had reaped the ultimate success in such competition, overpowering all the other players and thereby bringing the game to a standstill. He had already seized the first prize in the most important agôn. In his case, a Panhellenic victory could only be a confirmation, not a revelation. The complex functioning of the self-representation of the agonist-tyrant can be observed in the best way by comparing victory odes for tyrants and for non-tyrannical victors. If it is correct to regard victory odes as, among other things, the script of a social ritual that reintegrated the victor into the community of the polis, renegotiating their reciprocal relationship in light of the new situation created by his agonistic success10, we should expect a priori odes for tyrants to show peculiarities, since the position of the tyrant vis-à-vis the citizen body could not be equated to that of even the most successful among its members. Indeed, peculiarities of various sorts have often been pointed out by scholars. In his book on athletes and the polis, Christian Mann shows that the connection between the laudandus and heroic models evoked in the odes is much more direct, closer, and personal when the victor was a tyrant. In other words, victory odes for tyrants were much more explicit in claiming heroic status for their patrons11. In a similar vein, Andrew Morrison, in an investigation of the audiences and performance contexts of Pindar’s Sicilian odes, has pointed to the very high frequency, in odes for Hieron and Theron or in praise for Hieron and Theron in odes for related people, of the kind of praise that he, following William Race, calls ‘superlative vaunts,’ that is, praise that extols the laudandus by suggesting matchless excellence, thereby implic8 For a discussion of the legitimation of archaic tyranny from the point of view of Max Weber’s sociology of rule, see MANN 2001, 284-288 (more briefly already MANN 2000, 38). Even from this perspective, the boundary between tyrant and aristocrat remained ambiguous, considering that the ideology of elite excellence was itself marked by a strong charismatic element; see SLATER 2001. 9 On the sociology of athletic victory in archaic and early classical Greece, see MANN 2001. On the kleos of the victorious athlete, KURKE 1991 is a classic. 10 On this function of epinician poetry, see especially KURKE 1991 and the recent discussion of the underlying social dynamics by THOMAS 2007. 11 See MANN 2001, 253-281. Notice the very similar conclusions reached by STENGER 2004, 275-288 in his analysis of the use of gnômai in Bacchylides.

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itly elevating him above the whole of his fellow-citizens12. However, in victory odes the exceptional political position of the tyrant was not addressed only on this implicit way. Right on the surface of the text, the poets in some cases referred explicitly to the position of political supremacy of the tyrannical laudandus. Here, however, we are confronted with a dichotomy we would not necessarily have expected a priori. Victory odes for tyrants show two diverging options: the laudandus can be depicted according to the traditional aristocratic values, as brave, wise, and of course generous, as the most aristos of all aristoi in his city, as it were, with generous recourse to superlative vaunt, or he can be addressed as a ruler, who to be sure is provided in the highest degree of all the virtues just mentioned, but on top of that wields personal power within the political community. The first option appears in the odes for the tyrant Theron of Akragas and for members of his family, the Emmenidai, the second in the odes for Hieron of Syracuse and for people of his court. The consistency between Pindar and Bacchylides, when they write for the same patron, shows, in case we had doubts, that what is being reflected is the patron’s will, not the poet’s choice13. The Emmenidai of Akragas14 are celebrated in four victory odes, all by Pindar. Olympians II and III refer to Theron’s victory at the Olympics of 476, while the earlier Pythian VI celebrated the victory of Xenokrates, Theron’s brother, at the Pythian games of 490. Finally, Isthmian II, commissioned by Xenokrates’ son Thrasyboulos, appears to celebrate retrospectively Xenokrates’ victory at the Isthmian games sometime between 490 and 476. The original ode for this victory had apparently been composed by Simonides. All the victories were won in the chariot race. Furthermore, Pindar also composed two encomia, probably meant for performance in a sympotic context, for Theron and for his nephew Thrasyboulos, the former possibly in 476, the latter around 49015. The most explicit statement of Theron’s role in Akragas, the words that most strongly suggest the suspicion that he was not just an excellent citizen among citizens, come at the beginning of the most grandiose of the odes Pindar wrote for him, Olympian II (5-8): 12 See MORRISON 2007, 33-34; 52; 84-87; building on Bundy’s terminology, RACE 1987, 137-139 calls a vaunt ‘a summary evaluation by which an author attests to the superlative quality of his subject.’ Similar observations in CATENACCI 2006, 184. 13 On this point, in general, see MANN 2000 and, among the most recent scholarship, FEARN 2007, 21; VAN DEN GROENENDAL 2010. 14 For a detailed discussion, see LURAGHI 1994, 231-272. 15 For a catalogue of Pindar’s Akragantine odes and for the possible chronology of the two encomia, see CATENACCI 2006, 181.

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Qhvrwna de; tetrriva" e{neka nikafovrou gegwnhtevon, o[pi divkaion xevnwn, e[reism∆ jAkravganto", eujwnuvmwn te patevrwn a[wton ojrqovpolin: But (scil. among men) Theron must be celebrated because of his victorious four-horse chariot, a man just with guest-friends, a bulwark for Akragas, the best city-securing offspring of glorious fathers.

The keyword of the praise, ojrqovpoli", appears only here in Greek literature, and otherwise only in inscriptions. A honorary epigram from Termessos in Pisidia (TAM III 127), dating to the second or third century CE, includes it in a series of highly literary epithets, many of which are quite rare and may well derive from Pindar, too. More interestingly, ojrqovpoli" appears as the name of an Athenian battleship from the age of Alexander the Great (IG II2 1631 line 646). Surely Theron’s role of ‘keeping upright’ or ‘keeping straight’ the polis does suggest his political supremacy, but in a rather benign way. For the rest, the excellence of the Emmenidai is articulated in conventional, if occasionally superlative16, terms. In the same Olympian II Pindar assures his audience that in a hundred years, that is, ever since being founded, Akragas had not given birth to a man more benevolent in his mind or more generous with his hand than Theron (101-104). In Olympian III, written for the same victory and possibly destined for performance in a ritual worshipping the Dioskouroi17, we learn that Theron and the Emmenidai have been granted kudos precisely by the Dioskouroi in reward for the worship they paid to them (38-41). Then the praise of Theron appears embedded in a typical Pindaric priamel: if water is best and gold is the most honored of all possessions, now Theron reaches the farthest point by virtue of his own native excellence and touches the pillars of Heracles, beyond which nobody can go (Ol. 3,42-44). Pindar’s two odes for Xenokrates’ victories fall before the beginning and possibly after the end of Theron’s tyranny at Akragas, and yet, they are hardly different from Olympians II and III. All four odes celebrate the members of the family of the Emmenidai, among whom Theron clearly occupies the most prominent position, as witnessed by the fact that he appears in Pythian VI, for his brother Xenokrates, and indirectly also in Isthmian II18. This is in itself a very noteworthy fact, to be sure: appearances in odes dedicated to others are confined to relatives who have themselves won in stephanite games, which

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See Pind. Ol. 2,93-95 with MORRISON 2007, 52. According to the theory of KRUMMEN 1990, 217-241; see now MORRISON 2007, 53-57. LURAGHI 1994, 166.

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was not the case for Theron at the time of Pythian VI19. Otherwise, the wisdom and excellence of Xenokrates is praised, it is made clear that he was held in high esteem by his fellow-citizens, but on the whole, nothing is said of him that could not be said about any other victor. As anticipated, the situation is completely different in the odes for Hieron20. Needless to say, references to the code of values of late-archaic social elites are no less frequent than in the Akragantine odes, and Hieron’s excellence and generosity are praised extensively, but the terminology applied to Hieron makes it clear that he is not just your usual excellent citizen. Right at the beginning of the first datable ode for Hieron, Bacchylides’ Epinician V21, celebrating the victory of the horse Pherenikos at Olympia in 476, Hieron is invoked as Eu[moire Surakosivwn iJppodinhvtwn stratagev, that is, something like ‘fortunate in your fate, general of the Syracusans, riders of whirling horses’22, while for Pindar, who celebrated the same victory in his Olympian I, Hieron is the Surakovsio" iJppocavrma" basileuv", the ‘Syracusan horse-loving23 basileus’ (23), the man who qemistei`on ajmfevpei ska`pton ejn polumhvlw/ Sikeliva,/ that is, ‘who wields the scepter of justice in flock-rich Sicily’ (12-13). Let us remind ourselves that the scepter is a straightforward attribute of divine or heroic monarchy: it belonged to Homeric basileis, and Pindar and Bacchylides attribute it to Zeus, Hestia, Tlepolemos, and Pelias (the latter actually wields in Iolkos the scepter that should have gone to Jason by right of inheritance)24. Together with the insistent use of basileus referred to Hieron, it forms part of a terminological complex that suggests an assimilation of the Syracusan ruler to Homeric kings25. 19 Exceptions to this rule include Hieron, on whom see below, and two cases of people who are thought to have sponsored odes for someone else, the Aleuadai of Larissa (Pythian X, celebrating Hippokles of Pelinna) and Damophilos of Cyrene (Pythian IV, for king Arkesilas of Cyrene). On the Aleuadai, see below n. 43. 20 On all aspects of Hieron’s life and afterlife, see now BONANNO 2010, with full references to evidence and scholarship. 21 For an introduction to this ode, its chronology and occasion, see now CAIRNS 2010, 75-92. 22 Notice the vocative: Epinician V opens with lines that read like a hymn to Hieron, a rare feature on which see the comments of CAIRNS 2010, 82. 23 More likely than ‘fighting with horses,’ the other possible translation of iJppocavrma"; see GERBER 1982, 49. 24 Since according to Homer the themistes were given by Zeus to the kings, Pindar’s statement essentially representes Hieron’s power as divinely ordained; see GERBER 1982, 32-33. For a discussion of the symbolical meaning of the scepter in Homer, see VAN WEES 1992, 274-280. On the possible implications of the reference to Sicily in this passage, see below, p. 42 and n. 56. 25 On kingship in Homer, see especially the comprehensive discussion of the evidence in CARLIER 1984, 137-230; on Pindar casting Hieron as a Homeric basileus with the references to the scepter and the themistes, see HARRELL 2002, 441-442.

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All the odes for Hieron repeat this concept with variations in the terminology. In Pythian II, not earlier than 477/6 and celebrating a victory with the chariot in an unidentified competition,26 Hieron is called indirectly basileuv" (13-14), and directly pruvtani" kuvrio" polla`n eujstefavnwn ajguia`n kai; stratou`, that is, ‘lord and master of many streets crowned by fine battlements and of a host of men’ (58). Prytanis, a word of Anatolian origin, indicated the supreme magistrate in various Greek cities, and appears as an attribute of gods in poetry: of Poseidon in Stesichoros (PMG 235), of Zeus in Pindar (Pyth. 6,24) and in tragedy27. In Bacchylides (19,43), Epaphos is the prytanis of the Egyptians. In other words, even more unambiguously than basileus, the term carries associations of heroic or divine rulership28. In mysterious Pythian III, an ode written for an unknown occasion whose very presence among the epinicia is puzzling29, the only clear-cut thing is the depiction of Hieron as a ruler: he is the one who Surakovssaisi nevmei basileuv", prau>;" ajstoi`", ouj fqonevwn ajgaqoi`", xeivnoi" de; qaumasto;" pathvr (70-71), ‘who rules as a basileus over Syracuse, gentle to the citizens, not begrudging to the agathoi30, and a venerable father for xenoi.’ Further variations appear in the two odes that celebrated Hieron’s victory with the chariot at the Pythian games of 470, Pindar’s grandiose Pythian I31 and Bacchylides’ short Epinician IV. At the beginning of the latter, Hieron is called ajstuvqemi" (2), something like ‘just ruler of the city,’ while Pythian I, after some complicated allusions to Spartan kingship which will be discussed more in detail below, calls Hieron aJghth;r ajnhvr (69), a leader, whose task it is da`mon geraivrwn trevpein suvmfwnon ej" hJsucivan (70-71), i.e., honoring the people, or more precisely, granting the people the geras that is due to it, to turn it to harmonious peace. A few lines later, in a reference to the battle of Kyme of 474, Hieron is called Surakoisivwn ajrcov" (73), with a rare word of transparent etymology, used in the Iliad as synonymous with basileus (1,144) and by Pindar himself as an epithet of heroes32. Finally, in 26 Both the chronology of Pythian II and the event it celebrated are controversial. For an early date, which I find more persuasive, and a connection with games in Thebes, see MOST 1985, 61-68 and CURRIE 2005, 258-259, who proposes an interesting textual emendation that would solve the problem of the location of the event in favor of Thebes. For a late date, around 470, see CINGANO 1995, 43-47. 27 See Chantraine s.v. 28 See CATENACCI 2006, 187. 29 See CURRIE 2005, 344-345 and MORRISON 2007, 97-98 with further references. 30 Here Pindar is reversing a topos of anti-tyrannical discourse, the envy of the tyrant for the ‘best’ among the citizens; see e.g. Hdt. 3,80,4. 31 In general, on Pythian I as a manifesto of Hieron’s propaganda see PFEIJFFER 2005. 32 On the meaning of the word, see M. Schmidt, LfgrE s.v. In this passage, Pindar strikingly depicted Hieron as if the latter had single-handedly defeated the Etruscan fleet (note especially line 74). In the famous comparison of Western and Mainland Greek victories over the barbarian (lines 73-80), Salamis is attributed to the Athenians and Plataia to the Spartans, while Himera is attributed to the Deinomenidai and Kyme to Hieron alone. On the battle of Kyme, see BONANNO 2010, 159-172.

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Bacchylides’ Epinician III, that celebrates the most prestigious of Hieron’s agonistic victories, with the chariot at the Olympic games of 468, the ruler of Syracuse is the man para; Zhno;" lacw;n pleivstarcon JEllavnwn gevra" (11-12), i.e., the man who has received from Zeus as his due the greatest rule among the Greeks33, and further on Hieron’s attribute is the ska`ptr[o]n Diov["] (70), the scepter of Zeus, no less. Noteworthy is also the fact that the same terminology accompanies Hieron in an ode written for a member of his court. In Olympian VI, for the victory of the Iamid Agesias of Syracuse in the mule cart race at Olympia, between 476 and 468, Hieron is described as the man who in Syracuse kaqarw`/ skavptw/ dievpei (94), that is, rules with a pure scepter34. In one case, in Pythian III (84-86), Hieron is qualified with the epithet we are most used to attach to him: ti;n de; moi`r∆ eujdaimoniva" e{petai. lagevtan gavr toi tuvrannon devrketai, ei[ tin∆ ajnqrwvpwn, oJ mevga" povtmo". Your share of happiness attends you, for truly if great destiny looks with favor upon any man, it is upon a tyrant leader of warriors.

Reading these lines, scholars have often concluded that Pindar called Hieron indifferently basileus and tyrannos, or even that he used the two words interchangeably and did not perceive any negative meaning attached to the word tyrannos. Surely this would be a rather hasty conclusion: after all, Hieron is called basileus, by both Pindar and Bacchylides, many times, and tyrannos only once. Furthermore, it is not irrelevant that in these lines tyrannos is modified by the rare term lagetas. Lagetas is Dorian word, with Mycenaean resonances: the ra-wa-ke-ta seems to have been the military commander, second in line after the wa-na-ka, in Mycenaean kingdoms35. Closer in time, lagetai appears in Ibykos as an attribute of the Dioskouroi (S 166,16), and in 33 Bacchylides’ words resonate in the apostrophe of the Greek ambassadors to Gelon in Hdt. 7,157,2. 34 Nemeans I and IX, written for Chromios, a Geloan who had come to Syracuse with the Deinomenidai and went on to become one of Hieron’s lieutenants (see LURAGHI 1994, 338-340), are packed with unmistakable resonances of the odes for Hieron (see MORRISON 2007, 24-39; 102-104), but the tyrant never appears directly. MORRISON 2007, 32; 76-78; 106 notices striking resemblances between Olympian VI and the odes for Chronios. 35 On Mycenaean terms for rulers, see PALAIMA 2006 with further references. In a Phrygian rock inscription from the seventh or sixth century, lawaktas is an attribute of Midas; see BRIXHE - LEJEUNE 1984, text M-01.

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Pindar characterizes Aiolos (Pyth. 4,107), Perseus (Pyth. 10,31), and the sons of Pelops (Ol. 1,89). Lagetas is clearly a name for heroic leaders, an equivalent of sorts for choral lyric of epic formulaic epithets like poimên laôn, which in Homer indicate the basileis: yet another word of the sort of prytanis and archos. Therefore, rather than conclude that Pindar was indifferent to the negative undertones of the word tyrannos, we should probably see in these lines an isolated attempt at whitewashing the word transplanting it into the semantic sphere of epic heroes. If we look for comparisons among Pindar’s odes, only Pythians IV and V, celebrating the victory of Arkesilas, king of Cyrene, in the chariot race at Delphi in 466 show a somewhat similar vocabulary36. The analogy has led some scholars to the conclusion that the Deinomenidai of Syracuse, Hieron and his brother Gelon before him, had transformed their autocracy in a real monarchy37. In this theory, Hieron’s propaganda has won its last victory. The fact of the matter is that archaic tyranny was rule de facto, without a constitutional framework. The tyrant suffered under a permanent deficit of legitimacy, and for this reason he constantly tried to depict his power in more appealing ways. However, to turn his unlimited but chronically unstable rule into some constitutional form was not a real option, especially because of the endemic refusal of monarchy that characterizes the political culture of the polis. As a matter of fact, the diverse and creative terminology, rich in connotations but denotatively unclear, that Bacchylides and Pindar apply to Hieron does not suggest a well-defined institutional position, and the very comparison with the odes for Arkesilas shows this, suggesting one further observation of some interest. In his case, Pindar uses none of the rich vocabulary of power that we find associated with Hieron. Arkesilas is invariably a basileus of Cyrene, as are his ancestors all the way back to Battos Aristoteles, the founder of the city (Pyth. 4,2; 5,15; on Battos, Pyth. 4,62; on the ancestors, 5,96-97). On the other hand, in odes for Hieron there is not a hint of the dynastic legitimacy that is showcased in those for Arkesilas. Whatever Pindar’s Hieron was supposed to be, he was not the successor of another ruler of the same sort. Genealogical memory in the odes never goes beyond the name of his father, who however is nothing more than a name. This is a point that we will need to return to later. From the passages discussed so far, two uncontroversial conclusions can be derived. First, victory odes do indeed reflect the specific political position of the laudandus. Second, it was clearly the tyrant himself who decided whether 36 37

For a comparison between odes for Arkesilas and odes for Hieron, see HARRELL 2002, 448. Formulated most explicitly by OOST 1976.

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and how his power was to be addressed in the ode. This second point may seem obvious to some, but it is worth stressing, considering a persistent tendency in research on epinicia to underestimate the input of the patron. Based on these conclusions, attention will now turn to selected passages from the odes for Hieron that seem to offer further evidence on the representation of tyrannical power. In these passages, tyranny is defined indirectly, by suggesting analogies with other forms of power that function as implicit interpretive models for it: the masks of the title of this contribution. Such models have one interesting point in common: they are all drawn not from the world of myth, but from a historical and institutional reality that was clearly familiar to the audience of the odes. The analogies are suggested, more or less explicitly, but never worked out in detail, not only because victory odes were not political treatises, but also because a sharper comparison would have defeated the goal of the enterprise, which was to conjure up a legitimate framework for the power of the tyrant. The first passage has been partially referred to earlier. It deserves to be looked at in its entirety (Pyth. 1,58-70): Moi`sa, kai; pa;r Deinomevnei keladh`sai pivqeov moi poina;n teqrivppwn: cavrma d∆ oujk ajllovtrion nikaforiva patevro". a[g∆ e[peit∆ Ai[tna" basilei` fivlion ejxeuvrwmen u{mnon: tw`/ povlin keivnan qeodmavtw/ su;n ejleuqeriva/ JUllivdo" stavqma" JIevrwn ejn novmoi" e[ktisse qevlonti de; Pamfuvlou kai; ma;n JHrakleida`n e[kgonoi o[cqai" u{po Tauügevtou naivointe" aijei; mevnein teqmoi`sin ejn Aijgimiou` Dwriei`". e[scon d∆ jAmuvkla" o[lbioi Pindovqen ojrnuvmenoi, leukopwvlwn Tundarida`n baquvdoxoi geivtone", w|n klevo" a[nqhsen aijcma`". Zeu` tevlei∆, aijei; de; toiauvtan jAmevna par∆ u{dwr ai\san ajstoi`" kai; basileu`sin diakrivnein e[tumon lovgon ajnqrwvpwn. suvn toi tivn ken aJghth;r ajnhvr, uiJw`/ t∆ ejpitellovmeno", da`mon geraivrwn travpoi suvmfwnon ej" hJsucivan. Muse, at the side of Deinomenes too, I bid you sing the reward for the four-horse chariot, for a father’s victory is no alien joy. Come then, let us compose a loving hymn for Aitna’s king, for whom Hieron founded that city with divinely fashioned freedom under the laws of Hyllos’ rule, because the descendants of Pamphylos and indeed of Herakles’ sons, who dwell under the slopes of Taygetos, are determined to remain forever in the institutions of Aigimios as Dorians. Blessed with prosperity, they came down from Pindos and took Amyklai, much acclaimed neighbors of the Tyndaridai with white horses, and the fame of their spears flourished. Zeus Accomplisher, de-

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termine such good fortune as this always for the citizens and their kings by Amenas’ water38 to be the true report of men. For with your help a leader, instructing his son, honoring his people, can turn them to harmonious peace.

Pindar is here alluding to the foundation of Aitna by Hieron, in the second half of 476/5, in place of the old Chalkidian colony of Katane. The population of the new city came from Syracuse and was composed of former mercenaries of Gelon, of former citizens of Megara and Gela whom Gelon himself had moved to Syracuse after 485, and possibly also of more recently enrolled mercenaries, coming from the Peloponnese. At the beginning, an old Geloan comrade and brother-in-law of Gelon and Hieron, Chromios, had been put in charge of the city, possibly acting as a tutor of Hieron’s young son Deinomenes, whom these verses celebrate as basileus of Aitna39. Modern readers of Pythian I often seem to be tempted to take Pindar at face value and conclude that the constitution, or better, the nomoi of the new city were modeled on Sparta’s. Even though this is precisely what Pindar tries to suggest, we need to resist taking his allusions literally. Against such a temptation, one may point to the opening lines of Isthmian IX (1-4), where Pindar evokes with similar terminology the foundation of Aigina by the Dorian army of Hyllos and Aigimios and the fact that the Aiginetans ever since obey the stavqma of the two heroes. The parallel with the stavqmai of Hyllos and the teqmoiv of Aigimios is obvious. But of course, apart from the fact that the Aiginetans were Dorian, nobody ever thought that Aigina had the same constitution as Sparta. There is no reason to think otherwise in the case of Aitna40. The invocation of the laws of Hyllos and Aigimios, which for Pindar represent the foundation on which Hieron has put the new city, has certainly something to do with the high prestige enjoyed by Sparta in the aftermath of the Persian Wars. Furthermore, we have good reasons to think that Dorianism was a component of Deinomenid ideology, possibly already in Gelon’s times and certainly in the case of the foundation of Aitna. In the case of the refoundation of Syracuse by Gelon, Polyaenus speaks of an invitation to new colonists of Dorian stock (1,7,23). As for Aitna, the summary of Aischylos’ tragedy Aitnaiai, written for Hieron and more or less contemporary of Pythian I, suggests, with its changes of scene, from Aitna to Xouthia, then back to Aitna, Leontinoi and finally Syracuse, a juxtaposition of Aitna and Xouthia-

38 DOUGHERTY 1993, 94-95 astutely points out a pun on the name of the river, meant to confirm the durability of the new foundation. 39 On the foundation of Aitna, see LURAGHI 1994, 335-346; BONANNO 2010, 127-139. On its celebration in various literary genres, DOUGHERTY 1993, 83-102. 40 See CINGANO 1995, 349; BONANNO 2010, 150-152.

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Leontinoi as mother-cities respectively of the Dorians and Ionians of Sicily41. This is clearly the ideological context of Pindar’s praise of Dorianism. But there is more here, and it is not only the jolly brashness with which Pindar celebrates the freedom of the new tyrannical foundation. The Dorian laws of Aigimios and Hyllos are framed by two references to basileia: first, Deinomenes appears as the basileus of Aitna, and then Pindar wishes good luck to the citizens and their basileis. After that, Hieron dominates the stage, the aJghth;r ajnhvr, in his double role as a leader for the citizens of Aitna and a mentor for his son. At which point, one starts suspecting that the theme of the Spartan laws may not be there only in order to praise the Dorianism of newlyfounded Aitna, but also to cast a special light on the role of the two tyrants, father and son. Interpreters from Böckh to Köhnken have seen in the reference to basileis of Aitna, in the plural, an allusion to Sparta’s famous double monarchy,42 and even though we could just as well think that the plural refers to the sequence of all future kings, the association between the plural and the two basileis mentioned directly would remain somehow in the air. And in any case, the reference to Sparta allows Pindar to depict basileia as a lawful component of the political form of the new city. Now, it is clear beyond reasonable doubt that Hieron and/or Deinomenes did not occupy in Aitna a position comparable to that of kings Pleistarchos or Leotychidas in Sparta. However, it is also clear that Pindar, with his subtle and less than subtle allusions, is here exploiting Spartan basileia in order to make it possible for Hieron’s autocratic power to appear on the stage of this ode with an air of legitimacy. Interestingly, this is not the first time Pindar tried this trick. In the opening lines of his Pythian X, Spartan kingship is exploited in a very similar way to dress in a respectable cloak the aspiration of the Aleuadai of Larissa, famous Medizers, to be recognized as the lords of Thessaly43. And now, to the second mask, and to Pythian II. As noted earlier, date and occasion for this ode are unknown to us, and were unknown already to ancient commentators, the only uncontroversial fact being that the victory celebrated had been won with the chariot. After the introductory praise of Syracuse and Hieron, the first antistrophe and the epode run as follows (13-20): 41 Dorianism of the Deinomenidai: VALLET 1985, 308-310. On Aischylos’ Aitnaiai, see now POLIPALLADINI 2001; for their relation to Hieron’s political agenda, see LURAGHI 1994, 343-344; BONANNO 2010, 139-147. 42 See KÖHNKEN 1970, 4 n. 2. 43 See Pyth. 10,1-3: both Sparta and Thessaly are ruled by Herakles’ offspring (the Aleuadai are indirectly called basileis, like Arkesilas of Cyrene and Hieron). On the actual position of the Aleuadai in Thessaly, see HELLY 1995. On Thessalian society at the times of Pindar, see STAMATOPOULOU 2007.

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a[lloi" dev ti" ejtevlessen a[llo" ajnhvr eujaceva basileu`sin u{mnon a[poin∆ ajreta`". keladevonti me;n ajmfi; Kinuvran pollavki" fa`mai Kuprivwn, to;n oJ crusocai`ta profrovnw" ejfivlhs∆ jApovllwn, iJereva ktivlon A j frodivta": a[gei de; cavri" fivlwn poiv tino" ajnti; e[rgwn ojpizovmena: se; d∆, w\ Deinomevneie pai`, Zefuriva pro; dovmwn Lokri;" parqevno" ajpuvei, polemivwn kamavtwn ejx ajmacavnwn dia; tea;n duvnamin drakei`s∆ ajsfalev". Various men pay the tribute of a resounding hymn to various kings as a recompense for their excellence. The voices of the Cyprians often celebrate Kinyras, whom the golden-haired Apollo heartily befriended, the priestly favorite of Aphrodite, for reverent gratitude goes forth in one way or another in return for someone’s friendly deeds. But you, O son of Deinomenes, the maiden of Epizephyrian Lokroi invokes in front of her house, for after desperate toils of war she has a look of security in her eyes thanks to your power.

The scholia offer information on the historical events that form the background of these lines. The tyrant of Rhegion Anaxilas, founder of Messene in Sicily and a prominent member of the coalition that had been defeated at the battle of Himera, had probably attacked the Epizephyrian Lokrians once before, shortly before 480, defeating them and sending to Olympia a dedication from the war booty44. Now, in 477, possibly hoping to take advantage of Gelon’s death, Anaxilas was preparing a new offensive, together with his son Leophron, to whom he had entrusted Rhegion when he founded Messene. Hieron replied sending his brother-in-law Chromios to Anaxilas with an ultimatum. Anaxilas backed off and Hieron gained the gratitude of the Lokrians45. We do not need to decide whether the song of the Epizephyrian maidens was motivated by the fact that the Lokrians had vowed to prostitute their daughters in the temple of Aphrodite in case of victory over Anaxilas46. More interesting for us is the person that Pindar compares to Hieron as a king recipient of songs of gratitude. Kinyras appears as king of Cyprus already in the Iliad (11,20 ff), where he gives to Agamemnon a breastplate as a xenion. Tyrtaeus associates him with Midas because of his wealth (12,7 W2), to 44 Two couples of inscribed dedications for a victory over the Lokrians of the Rhegians and Messenians, SEG 24,304-305 and 311-312 respectively, are the only surviving trace of this episode; for their date, based on their archaeological context, see LURAGHI 1994, 216. 45 The evidence, provided by scholia to Pythians I and II, is quoted and commented upon by BONANNO 2010, 75-77. 46 For a discussion of this long-debated issue, with full references to earlier scholarship, see now CURRIE 2005, 261-275.

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which Pindar refers elsewhere, too (Nem. 8,18), while Anakreon mentioned his longevity (Plin. NH 7,154)47. All this would be enough to make of Kinyras a flattering comparison for Hieron, but the link between the two suggested by Pindar is more specific: as the initial lines make clear, Kinyras is brought in not only because he was an illustrious hero, but more precisely, because he, like Hieron, was a king. At first sight, this is just a particular case of your usual Pindaric association of heroes and victors, but the association between Hieron and Kinyras may not be confined to the world of myth. A borderland between Greece and the Near East, from the early seventh century Cyprus had been divided in city-states ruled by kings, as shown by the prism of Esarhaddon, dated 673/2, when the island was under Assyrian supremacy48. It is unclear whether we should regard these monarchies as a survival of the Mycenaean past or as a product of Near Eastern, Syro-Phoenician influence49. In any case, at the time of Pindar and Hieron the kings of Cyprus were legitimate rulers, who ruled their cities in a constitutional framework. As an example, it suffices to look at the famous Idalion bronze, an inscription in Cypriot syllabary dating to the first half of the fifth century, in which pa-si-leu-se ka-se a-po-to-li-se, that is, the basileus and the polis appear repeatedly side by side as subjects of political deliberation (ICS 217 = Nomoi 31). The extensive involvement of Cypriot poleis in Greek politics, from the Ionian revolt to the Delian League, assures us that any reasonably well-informed Greek would be familiar, at least in general terms, with the island and its kings. On top of their political and military prerogatives, Cypriot kings had also a religious role. We cannot tell specifically what such role looked like in every city, but luckily, the case that matters most for us is also the clearest. In Paphos, one of the main centers of the revolt against Persia in 498, inscriptions from the fourth century show regularly the title ‘king of Paphos and priest of the Wanassa,’ i.e., Aphrodite50. The aetiology of Paphian priestly monarchy is narrated in a page of Tacitus’ Historiae (2,2-4). Its founder, first priest of Paphian Aphrodites, is none other than king Kinyras, whose double role of priest and king is referred to by Pindar himself. It is precisely this double role, one may suggest, that made of Kinyras an attractive pendant for Hieron51, and the connection was supported not only by 47 On the mythic character of Kinyras and its development over time, see now ROSCALLA 1998, 6-9 with further references. 48 On the prism of Esarhaddon, with a list of Cypriot vassal kings and respective cities, see LIPIN´SKI 2003, 62-76. Cypriot kings subject to the Assyrian king are already mentioned some years earlier, in the stele of Sargon II from Larnaca, dated to 707; on the Larnaca stele and parallel evidence from Khorsabad, ibid. 51-55. 49 For a discussion, see RUPP 1987 with further references. 50 See MAIER 1989, 377; TUPLIN 1996, 62-63. 51 As noticed by BELL 1984, 6-7.

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the mythic identity of Kinyras, but at least as much by the fact that in Kinyras, whom Pindar is the first Greek author to describe as both king and priest, his audience recognized the priest-kings of Paphos of the present day. In other words, this time it is the historical institution, whose founder Kinyras was supposed to have been, more than the hero, that functions as an alter ego for Hieron. As the ancient commentators saw (Schol. Pind. Pyth. 2,27b), Pindar is here alluding to the fact that Hieron came from a priestly family, and may have been himself a priest. As Herodotus informs us (7,153,2-3), the Deinomenidai were hierophants of the Chthonian Goddesses at Gela, and Philistos (FGrHist 556 F 49) and Timaios (FGrHist 566 F 96) apparently said that Hieron had inherited the priesthood52. A fragment of Pindar’s lost hyporchema for Hieron, quoted for parodic purposes in Aristophanes’ Birds (926-927) and then mentioned by many other ancient authors, calls Hieron ‘the man who is named after sacred rituals’ (fr. 105a M.2): the pun on the name of the tyrant refers probably to the priesthood. Above and beyond the analogies, more or less contrived, between Hieron and the priest-kings of Paphos, evoked by the reference to their archegetes Kinyras, the differences that Pindar tries to elide should not be forgotten. Apart from the fact that he was not a king of Syracuse, it is not even clear that Hieron was a priest at Syracuse: the cult of which the Deinomenidai were hierophants was located in Gela, their hometown. Even if one were to venture the hypothesis that Hieron might have transferred the cult to his new home – and there is no reason to think that this was the case – the fact remains that the priesthood had nothing to do with Hieron’s political power. The priestkings of Paphos, no less than the Spartan basileis, are just another mask that disguises his tyrannical power. The last mask worn by Hieron the tyrannical agonistes is the best known. It brings us back to Pythian I, and at the same time, it gives us a chance to bring in Pindar’s rival Bacchylides. It is the mask of the last Mermnad, Kroisos king of Lydia. At the end of Pythian I, Pindar invites Hieron to keep up his generosity, a long-term investment guaranteed by the word of the poet. A double example validates this general statement: Kroisos’ philophrôn areta is immortal, and so is the hated memory of Phalaris, the savage roaster of men53. It cannot be accidental if Pindar, in order to point out to Hieron a positive and a negative model, has chosen not two heroes of myth but rather two characters from 52 53

See VAN COMPERNOLLE 1957. On the figure of Phalaris and its development through the ages, see MURRAY 1992.

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the relatively recent past. On one level, they define implicitly Hieron’s status, the status of an autocrat. Addressing an audience for which any sole ruler is suspect in principle, Pindar contrasts a positive model of autocracy, which tellingly has to be looked for outside of the Greek world, and a negative one, one more familiar to the Greeks. In the aftermath of the Persian Wars, and considering the importance of the theme in Pythian I, it may be relevant that Kroisos had lost his throne, and possibly his life, fighting against the Persians. Obviously, the comparison with Kroisos was pleasing to Hieron, as shown by the fact that Bacchylides’ Epinician III, the victory ode for the last and most prestigious of his victories obtained with the chariot at the Olympic games of 468, picks up this comparison and turns it into the main theme of the ode54. At the beginning of the second strophe, after a teeming image of the feasts and celebrations unleashed by Hieron’s victory, the scene shifts to Delphi and the dazzle of the golden tripods dedicated in front of the temple by the Deinomenidai brothers. Apollo constitutes the link to another famous worshipper of Loxias, who had been saved by the god in a moment of extreme danger: Kroisos. The fall of Sardis is described with highly dramatic tones, until Kroisos’ attempted suicide. At the climax of tension, when Kroisos complains against the ingratitude of the gods, Zeus sends rain to quench the fire on which the old king had climbed with his wife and daughters, and Apollo transports them all safely to the land of the Hyperboreans, rewarding Kroisos’ eusebeia, which had found expression in his offerings to Delphi, the most lavish that a mortal had ever dedicated in the sanctuary. And this way we come full circle to Hieron, Kroisos’ successor in the role of main benefactor of the shrine55. Bacchylides expands and sharpens the comparison between Kroisos and Hieron that Pindar had but sketched. At the beginning of the ode, the praise of Sicily takes the place normally occupied in victory odes by the polis of the laudandus. The rigidity of the convention of epinician poetry suggests that here Bacchylides may be giving voice to Hieron’s aspiration to be recognized as the lord of Sicily as a whole56. Then, as we saw earlier, Hieron is introduced as the man who has received from Zeus the largest dominion among Greeks (11-12). Next comes the indefinite image of the cheerful crowds, and finally, the dazzling gold of the tripods evokes Kroisos. The splendor of the dedications to Apollo, material expression of piety, constitutes the link between Hi54 For an introduction to the ode, see CAIRNS 2010, 63-74. Cairns suggests (ibid. 71) that Kroisos ‘is undeniably a symbol of the vulnerability of despotic power.’ Contrast however KURKE 1999, 131-132, who calls Kroisos ‘every aristocrat’s wish-fulfillment fantasy: fabulous wealth and power unconstrained by civic order.’ In any case, the decisive fact is that, after Pindar, Bacchylides repeated the comparison, which would hardly have happened if Kroisos had really been seen as such an ominous character. 55 On the ode going from Hieron to Kroisos and back, see CAIRNS 2010, 64; KURKE 1999, 141-142. 56 See the comments of MORRISON 2007, 59 on the analogous reference to Sicily in Pind. Ol. 1,12-13.

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eron and Kroisos on the surface of the text, but at the same time, the image of Kroisos king of Lydia is in the air, and overlaps with Hieron, the lord of Sicily. Just as the audience would have taken as a matter of course the now extinct Mermnad monarchy of Lydia, Bacchylides invites it to take for granted in the same way Hieron’s alleged monarchy over Sicily. It is time to conclude. Victory odes for tyrants show interesting aspects of the power of the patrons and of the genre itself. Praising a tyrant was no simple matter. If the patron chose to stick with the aristocratic values, he missed the chance to showcase his power. Let us not forget that silence is not a friend of charismatic forms of rule. However, also the opposite choice, consisting in addressing explicitly the power of the victorious tyrant, created a number of problems. Being a tyrant was not like being a basileus of Sparta or Cyrene, and the value system of Greek social elites had no place for tyranny. Encomiastic rhetoric could depict tyranny only as a bundle of connotations, while on the level of denotation the poet was compelled to evasiveness, in the attempt at navigating a safe path across the minefield of negative associations of tyranny. In order to address an audience that considered tyranny negative as such, the poet disguised his laudandus, dressing him in respectable clothes57. The very diversity of the masks worn by Hieron in the victory odes confirms, if it were necessary, that we are dealing with rhetorical strategies. The question is, why did the choral poets engage in this tour de force for him and for him only. As becomes a tyrant, the answer may turn out to be paradoxical. The comparison between Hieron and Arkesilas brought out a surprising absence of dynastic rhetoric or of any sustained reference to the lineage of the tyrant – all the more surprising, since references of this kind are found in odes for Theron. On the other hand, in Pythian I, where Hieron’s son Deinomenes does appear clearly as his father’s intended successor, it seems that the succession was supposed to take place at Aitna: nothing points to the possibility that Deinomenes

57 At this point, it will not be out of place to recall that our knowledge of the modes and contexts for the performance of victory odes is rather sketchy; for a recent summary, with references to earlier scholarship, see CAREY 2007. In the present contribution, the audience of the odes is taken to be the contemporaries of Hieron, especially in Sicily but also in Mainland Greece – at least some of the odes were very likely performed in the very place where the victory had taken place. But the evidence is not conclusive enough to recommend the attempt at differentiating, e.g., between the rhetoric of praise of odes meant for performance in Sicily on the one hand and in Delphi and Olympia on the other. For a perceptive attempt at individuating the place of performance of Sicilian odes, see MORRISON 2007. In any case, recent scholarship has insisted that the very text of the odes provides hints of the fact that they were meant to remain meaningful beyond the immediate occasion of the performance; see again MORRISON 2007; HUBBARD 2004.

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might one day succeed to his father in Syracuse58. All this acquires a precise meaning in the light of other sources that suggest strongly that Hieron held power in Syracuse as a regent of sorts for Gelon’s son, who was under age at the time of his father’s death59. This had to be an internal arrangement within the family and the supporters of the Deinomenidai, of course: ‘tyrant’ was itself not an official title, much less ‘regent for a tyrant.’ But this latent precariousness might explain both the absence of dynastic claims in the odes and, more interestingly, the very showcasing of Hieron’s autocratic power, by way of suggestive epithets and implicit parallels. The impressive discourse of legitimacy mobilized by Pindar and Bacchylides in their praise of Hieron may turn out to have been addressed to the very entourage of the tyrant as much as to the Sicilian and Panhellenic audiences. In many ways, their loyalty was even more important than the aquiescence of his subjects or Panhellenic acceptancy of his glorious power. This is, after all, the logic of tyranny60.

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58 This would be all the more striking if the ode was indeed performed in Syracuse, as suggested by MORRISON 2007, 66-67. 59 On this, see LURAGHI 1994, 325-328. The most explicit piece of evidence is Aristot. Pol. 5,10,1312b11 ff. 60 See BOIX - SVOLIK 2008. Notice the remarks of PRIVITERA 2003 on Hieron’s attempt at posing as the true heir of Gelon by dedicating a golden tripod to Apollo in Delphi, precisely the golden tripod evoked by Bacchylides, and connecting it to the one dedicated by his brother after the battle of Himera.

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EPICA ED EULOGIA. DAI MODELLI MITICI DI ETÀ ARCAICA ALL’EPOS STORICO ELLENISTICO CARMINE CATENACCI

Tra i molteplici tentativi moderni di definizione del genere epico, due elementi sono ricorrenti. Il primo è la natura narrativa: l’epos come racconto ritmico ed esemplare di fatti memorabili. Il secondo è il valore identitario di questo racconto per un popolo, un gruppo o un capo1. Il ricordo delle imprese mitiche o storiche, lontane o recenti, porta in sé i semi della legittimazione e della lode. Nella cultura occidentale l’epica assurge a genere politico e celebrativo. Basti pensare alla monumentale paradigmaticità dell’Eneide di Virgilio come poema nazionale della Roma augustea o, tra le varie reviviscenze della poesia classica e classicistica, alla fortuna del poema epico-encomiastico alle corti del Rinascimento. È in Grecia dal IV sec. a.C. che la connotazione politica ed eulogistica dell’epica si manifesta in forme più evidenti e istituzionalizzate, ma essa ha una protostoria lunga e diversificata per tutta l’epoca arcaica e classica. In questa relazione tenterò di delineare un quadro sintetico e certamente non esaustivo dei rapporti tra epica, potere e formazione di una pubblica opinione politica, dalle origini all’età ellenistica muovendo attraverso snodi essenziali. Serrerò in breve le fila di molti argomenti (e di molti secoli), per riprendere le parole di Pindaro.

1. Poesia micenea ed epica omerica Cominceremo da lontano, dal mondo miceneo dietro il quale, a sua volta, già può intravedersi, secondo gli studi di linguistica comparativa, una tradizione di poesia eroica indoeuropea2. Il palazzo di Nestore a Pilo, scavato a partire dall’aprile del 1935 da Carl William Blegen sulla collina di Epàno Englianòs in Messenia, ha restituito una serie di affreschi la cui pubblicazione si deve a Ma1 Tra i più recenti tentativi di inquadramento del fenomeno e dei suoi complessi aspetti si possono ricordare HAINSWORTH 1991; FORD 1997; utili e aggiornati sono diversi saggi contenuti in FOLEY 2005; vd. anche MONTANARI - RENGAKOS 2006; KONSTAN - RAAFLAUB 2010. 2 WEST 1988, 152 ss.; KATZ 2005 che giustamente non manca di additare anche paralleli con tradizioni epiche orientali.

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bel Lang nel 19693; la loro datazione è fissata al Tardo Elladico IIIB (1250-1200 circa). Il grande megaron era decorato sui quattro lati con dipinti murali. Sulla parete nord-orientale, alle spalle del trono del wanax erano raffigurati a sinistra un leone e un grifone, simboli della regalità e del potere; a destra, ciò che più ci interessa, il celebre suonatore di lira (a cinque corde), seduto su una roccia, e accanto a lui un uccello, dalle ali e dal collo screziato, in volo4. Altri materiali figurativi, tra i quali spicca una pyxis della prima metà del XIII sec. da Chania5, mostrano la compresenza di musicisti-cantori e uccelli. Con buone argomentazioni Jane B. Carter ha proposto che tali scene riproducano contesti rituali e che gli uccelli rappresentino le divinità partecipanti alla cerimonia cultuale6. Tuttavia, senza disconoscere la complessiva connotazione rituale di queste scene, non escluderei un nesso diretto tra uccelli e poesia, nel segno dell’associazione tradizionale tra il canto degli uccelli e l’arte del poeta, di cui si troveranno elaborate attestazioni già nei primi testi d’età arcaica da Esiodo ad Alcmane7, non senza paralleli in rappresentazioni figurative dall’Anatolia dei primi secoli del I millennio a.C.8 A sostegno del nesso si può aggiungere che, nell’affresco di Pilo, i bracci della lira terminano a forma di testa di cigno, altro uccello canoro e ‘poetico’ per eccellenza9. Faccio poi notare che l’uccello non sta arrivando né è fermo sul luogo, ma vola via, come gli e[pea pteroventa («le parole alate») e il canto dalla bocca dell’aedo. Al di là di altre osservazioni (come la possibile ambientazione esterna suggerita dalla roccia o l’ipotetica identificazione con Orfeo)10, un dato è incontrovertibile: 3

LANG 1969. La decorazione di questa parete sembrerebbe completata da due coppie di uomini, dipinti in scala minore, intenti a un convito e, in dimensioni molto più grandi, un toro, forse parte di un sacrificio; un tentativo di ricostruzione dell’intera scena come rappresentazione di una processione e di una grande festa religiosa è in MCCALLUM 1987, ma vd. ora STOCKER - DAVIS 2004, 70. 5 Chania Archaeological Museum 2308; vd. CARTER 1995, fig. 18.5. 6 CARTER 1995, cui si rinvia per la raccolta completa e la discussione dei materiali. 7 Sull’apologo dell’usignolo e dello sparviero in Esiodo, Op. 202 ss. vd. infra, p. 57 ss.; Alcmane paragona o mette direttamente in relazione la sua arte poetica con il canto degli uccelli nei frr. 39-40 Page - Davies; Bacchilide, Ep. 3,98, poi, a proposito di usignolo, si autodefinirà «l’usignolo di Ceo» e Democrito 68 B 154 D.-K. teorizzerà che l’arte canora si fonda sulla mimesi del canto dell’usignolo e del cigno. Del resto anche figure mitiche come le Sirene, dal canto dolcissimo e incantatore, erano rappresentate per metà donne e per metà uccelli. 8 In una stele da Marash, ora al Metropolitan Museum di New York (91.34.2; l’immagine è consultabile nel database on-line del Museo), una figura femminile, seduta dinanzi a una tavola, tiene in una mano uno specchio e nell’altra uno strumento a corde sul quale si trova un uccello. Inoltre un frammento ceramico da Gordion (VII sec. a.C.) raffigura un suonatore di lira al cui fianco vi sono due uccelli (KOHLER 1995, 68-69, fig. 27d, al quale si rinvia anche per un frammento di dinos da Bayrakli su cui un uccello è dipinto accanto a una lira). 9 Cf. p. es. Esiodo, Scut. 315 ss.; Alcmane 1,100 s. Page - Davies. 10 Che il suonatore di lira sia figurazione di un poeta mitico o di un’esperienza reale non cambia la sostanza del documento, ovvero l’esistenza di una poesia accompagnata dal suono dello strumento a corde. 4

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la presenza centrale dell’aedo tra le immagini rappresentative del potere e nel luogo del potere per eccellenza del wanax. «Vi furono poeti prima di Omero» scriveva Cicerone nel Brutus (71) con riferimento agli aedi omerici Femio e Demodoco. Tra i predecessori di Omero dobbiamo annoverare anche il cantore di Pilo e i suoi omologhi micenei? L’esistenza di una tradizione poetica che da Omero risale all’indietro all’età del bronzo è ipotesi unanimemente, direi, condivisa, sebbene con premesse e conclusioni differenti sul suo peso complessivo nel mondo della tradizione epica11. Non si tratta tanto di fissare una rappresentazione realistica della società micenea nei testi omerici quanto di mettere a fuoco la maniera in cui elementi di cultura materiale (per esempio i cosiddetti ‘fossili’ quale l’elmo con zanne di cinghiale, lo scudo a torre ecc.) e dati di ordine linguistico (come l’origine micenea di alcune espressioni formulari o altri fenomeni)12 siano rilavorati di volta in volta nel continuo processo di riformulazione della tradizione epica. In ogni caso, nella pluralità di posizioni critiche, anche tra coloro che tendono a non attribuire agli elementi micenei un ruolo dominante nel mondo di Omero l’aedo di Pilo è guardato con speciale interesse, come «l’anello mancante»13 tra la documentazione poetica e quella iconografica. Un ulteriore tassello in questa ricostruzione è offerto da una tavoletta in Lineare B da Tebe pubblicata qualche anno fa, che tra il personale di palazzo registra il termine ru-ra-ta-e, interpretato dagli editori come corrispondente al greco *lurasthv" (al duale), «suonatori di lira»14. Come mostra l’affresco, si trattava di epica lirica, ovvero cantata con l’accompagnamento dello strumento a corde. L’ordito ritmico era formato, secondo un orientamento critico che condivido, dall’associazione libera di quei cola metrici, detti dattilo-epitriti o kat’enoplion-epitriti, che ritroviamo nelle formule enucleate da Milman Parry e dai suoi continuatori, ma che poi nella versificazione omerica si associano e si fissano nella struttura ripetitiva e normalizzata dell’esametro, con il progressivo passaggio dal canto alla recitazione; punti di articolazione dell’accostamento tra i cola sono le cesure dell’esametro. Quest’antica epica lirica sopravvivrà nelle forme della citarodia epica, il cui erede ed epigono più rappresentativo sarà Stesicoro15. 11 Si veda l’efficace visione d’insieme di BENNET 1997 di cui però non condivido la retrodatazione dell’esametro all’età micenea e persino minoica; cfr. CATENACCI 1997. 12 Per alcuni esempi si rinvia a DURANTE 1971; HORROCKS 1997; BENNET 1997, 524 ss. 13 BENNET 1997, 528. 14 TH. Av 106,7; ved. ARAVANTINOS - GODART - SACCONI 2002, 83 e precedentemente ARAVANTINOS 1996, 183; GODART 2001. 15 Su Stesicoro è chiara la testimonianza di Eraclide Pontico, fr. 157 Wehrli = Ps.-Plut. De Mus. 1132b; più in generale sull’epica lirica e sulla successiva normalizzazione esametrica si vedano CATENACCI 1997; GENTILI - LOMIENTO 2003, 279 ss.

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Ma ciò che qui più interessa è il contenuto. Ci muoviamo nel regno delle ipotesi, ma è del tutto plausibile che, accanto a odi di contenuto più strettamente religioso, gli aedi micenei intonassero i racconti delle gesta degne di essere ricordate: aristeiai, battaglie e duelli, spedizioni e assedi, predazioni, viaggi in terre lontane, battute eccezionali di caccia. Sono gli stessi temi che troviamo espressi nel linguaggio delle immagini, dagli affreschi ad altri documenti figurativi. Un patrimonio di gesti e narrazioni, personaggi e luoghi, modelli e valori, che è assai difficile immaginare relegati alla sfera della rappresentazione iconica e non affidati, come ha notato Massimo Vetta in un importante saggio, anche al fascino e alla solennità del racconto ritmico16. Ma chi erano i protagonisti delle imprese cantate? Quasi certamente erano glorificate le prodezze dei guerrieri del passato e degli antenati fondatori: un legame ideale e materiale tra le varie fasi del Tardo Elladico, che trova riscontri nei documenti archeologici e in particolare nella continuità dei complessi funerari. Tuttavia ritengo probabile che il canto dell’aedo celebrasse anche le imprese delle ultime generazioni, comprese quelle del wanax vivente e della sua élite guerriera, in lode e a legittimazione delle loro prerogative di potere. Vi sono, nei poemi omerici, alcuni indizi relativi all’intersezione tra epica e gesta recenti. Nell’ottavo libro dell’Odissea Demodoco canta due episodi della guerra di Troia: la contesa tra Achille e Odisseo e l’inganno del cavallo di legno (vv. 73 ss.; 499 ss.). Ad ascoltarlo, sebbene ancora non riconosciuto, vi è il protagonista di quegli eventi: Odisseo. Non diversamente a Itaca nel palazzo di Odisseo l’aedo Femio, costretto dai pretendenti, compone su un soggetto di storia ancora più recente e persino di attualità, vista la situazione di Odisseo: il ritorno degli Achei da Troia17. Il canto allieta i pretendenti, ma è penoso per Penelope, che invita Femio a scegliere dal suo repertorio altri temi. A difesa del cantore interviene, però, Telemaco il quale afferma che «maggiormente gli uomini lodano quel canto che più suona nuovo a chi ascolta» (Od. 1,351 s.). Un’affermazione programmatica che ribadisce la possibilità di temi nuovi, ‘moderni’, di canto e anzi sottolinea il favore che questa poesia riscuote presso il pubblico. Una singolare vicenda di poesia e potere, di aedo e palazzo, è ambientata nel terzo libro (v. 263 ss.) dell’Odissea a Micene, città morta per riprendere un titolo dannunziano, cupo luogo d’ogni crimine archetipico. Nestore narra che, alla partenza degli Achei per Troia, Agamennone aveva affidato Clitemnestra al cantore. Ma quando Egisto indusse la donna all’adulterio, l’uomo fu portato su un’isola deserta e lì lasciato morire. Una fine orribile per questo aedo senza nome, che nessuno osa uccidere con le proprie mani, abbando16 17

VETTA 2001, 20; in particolare sugli affreschi di Tera vd. MORRIS 1989. Hom. Od. 1,153 ss.; 325 ss.

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nato alla morte senza mezzi di sussistenza e senza pubblico. La storia, non priva di tratti arcani quale il ruolo di custode della regina, mostra la funzione sacrale, morale e anche politica dell’aedo: il cantore di storie come occhio e memoria del signore del palazzo, il suo ruolo nella sanzione dei modelli di comportamento, il contributo al processo di creazione e conservazione del potere. Per cancellare il ricordo e la presenza del signore è fondamentale eliminare il depositario e l’interprete poetico della sua memoria18. Naturalmente tutte le vicende interne ai poemi omerici devono essere considerate nell’ottica più ampia della costruzione mitopoietica. Ed è scontato dire che l’eventuale valore storico va rivisto alla luce delle continue riformulazioni nella tradizione. La caratteristica precipua e intrinseca d’ogni racconto tradizionale è quella di essere, in ogni sua manifestazione, conservativa e innovativa al tempo stesso. Ma, proprio in ragione dell’immancabile dimensione conservativa e della funzione di memoria storica e culturale svolta dall’epica pur nel suo riflesso col presente (un’«enciclopedia tribale» per sintetizzare il concetto nella fortunata formula di Eric Havelock)19, questi squarci costituiscono una testimonianza preziosa sull’attività pre-omerica, come già gli antichi ritenevano. Del resto, nei casi in cui è possibile confrontare i dati dell’archeologia con quelli poetici, assai raramente i primi smentiscono i secondi; quasi sempre essi si integrano e si confermano, ovviamente ciascuno in relazione alla propria natura documentaria e alle proprie convenzioni espressive. Nell’VIII libro dell’Odissea, indicazioni interessanti sono offerte sui luoghi della poesia. Quando Demodoco intona il canto ‘leggero’ degli amori di Ares e Afrodite, egli si esibisce in uno spazio aperto di fronte a un uditorio allargato, riunito per una festa pubblica. Nelle altre due performance, invece, l’aedo canta all’interno, nell’ufficialità rituale e politica delle élites nella grande sala del palazzo di Alcinoo; tema delle due esecuzioni è l’epica bellica. Dodici sono i basileis con speciali prerogative a Scherie che affiancano Alcinoo (Od. 8,390), ma l’invito alla festa appare più ampio sia nel palazzo sia ovviamente al suo esterno20. Si è calcolato che il megaron di Pilo poteva contenere qualche decina di persone. E il pubblico abituale di Femio nel palazzo di Odisseo, ovvero i pretendenti che si intrattengono nel megaron del palazzo, contava più di cento persone, se ci atteniamo alle parole di Telemaco nell’Odissea (16,245 ss.). Il palazzo, come per le altre attività dell’età micenea, è il principale – anche se non unico – centro di gravitazione per l’aedo, investito di un ruolo ieratico e politico. Una poesia connotata sacralmente, custode della memoria di potere e autorevole modello di ruoli e comportamenti. 18 19 20

Sui vari spunti che l’episodio offre si veda ora BELLONI 2002 (con bibliografia). HAVELOCK 1981, 13 ss. e, in particolare per l’enciclopedia tribale, 415. Hom. Od. 7,189 ss.; 8,40 ss.

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Ma che cosa accade dopo i secoli oscuri a partire dall’VIII secolo e per l’epoca arcaica? Dal momento in cui si profila ai nostri occhi un contesto storico-culturale meglio definibile, l’epica con il suo valore celebrativo e politico occupa spazi ampi. La caduta delle dinastie dominanti nel Medioevo ellenico determina la fine della committenza palaziale. Fuori del palazzo, altre occasioni di canto e altri spazi collettivi, aperti e più estesi, diventano lo scenario preponderante dell’attività aedica, più di quanto era accaduto in passato. Si impone la figura del cantore itinerante. Dall’VIII secolo referente e destinatario privilegiati della sua voce sono l’organismo in espansione della polis, le cellule delle famiglie aristocratiche al suo interno e i complessi cultuali in via di sviluppo. Un mondo da costruire e ri-costruire. Le poleis sono impegnate nello sforzo di plasmare un’identità civica: delle istituzioni, del territorio, degli spazi sacri. I gruppi nobiliari si contendono il primato nelle nuove strutture. Contestualmente al fiorire dei culti eroici di età geometrica presso antiche tombe micenee, fiorisce la nuova poesia eroica. La distanza diventa un valore assoluto. Il passato lontano, con il suo retaggio di tradizioni e di grandiosi resti materiali, è ciò che produce il presente e lo garantisce, disegnando nelle comunità nuclei di aggregazione, ma anche di distinzione, attraverso linee di discendenza e di parentela. Non si tratta di una novità assoluta, ma ora possiamo dire con certezza che la separazione tra il mondo dei personaggi cantati e il mondo del poeta e del suo pubblico assurge a tratto costante e caratterizzante dell’epica. Lo stacco assume principalmente la forma della distanza temporale, ma anche esistenziale, in una dimensione di vita eroica, diversa e grandiosa rispetto alla quotidianità. Un ulteriore aspetto è la distanza interposta dal medium, ovvero la sacralità del cantore. Connaturata a questo mondo altro è una lingua altra, distante dal parlato, formulare e imponente nei suoi blocchi compositivi alla maniera dei massi ciclopici del palazzo di Tirinto. La distanza, attraverso la quale ogni fatto e ogni parola vengono proiettati rende la materia intangibile e oggettiva.

2. Oltre Omero La nostra visione del fenomeno è condizionata e ostruita dai poemi monumentali e panellenici dell’Iliade e dell’Odissea. Intorno ad essi vediamo una miriade di frammenti sparsi come cocci luccicanti di bottiglia, che possono suggerirci solo un’idea dell’incommensurabile proliferazione dell’epica in relazione alle comunità cittadine, ai gruppi gentilizi e ai luoghi di culto. Le occasioni pubbliche e le singole realtà territoriali, religiose e sociali pullulavano di tradizioni cosiddette locali o minori, che si collocavano al fianco delle saghe più note e spesso si incrociavano con esse sovrapponendosi in alcuni passaggi, ma anche percorrendo vie e varianti proprie.

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Di questa epica sono evidenti le potenzialità, per così dire, encomiastiche. Attraverso le tradizioni eroiche ogni comunità, dal genos alla polis, definisce le proprie coordinate identitarie nello spazio e nel tempo e rivendica il proprio ruolo nel presente. Concretamente quest’opera di rielaborazione e sistemazione, che si protrae per decenni e decenni dell’arcaismo, viene a incarnarsi in diversi titoli e autori, che quasi sempre per noi restano semplici nomi. Un caso esemplare è Eumelo di Corinto, datato tradizionalmente all’VIII secolo a.C.21 A lui sono attribuite varie opere. Tra di esse l’epos intitolato Korinthiakà. Il poema celebrava la storia di Corinto dalle sue più lontane origini mitiche, in un intreccio sequenziale di fatti, personaggi e discendenze, cui si intersecavano in alcuni punti anche le saghe di respiro nazionale, quali l’epos degli Argonauti o la spedizione contro Troia. La poesia di Eumelo occupa un tempo e un ruolo particolari nella storia di Corinto. Non priva di un qualche passato miceneo, Corinto esplode, nella sua importanza civica e sovraregionale, alle prime luci dell’epoca arcaica22. Nella fase decisiva di sviluppo si avverte la necessità di un passato mitistorico illustre e legittimante. A elaborare e a conferire autorità a questa tradizione intervengono i versi epici di Eumelo, della cui personalità non va taciuto un altro elemento decisivo. Egli apparteneva alla stirpe dei Bacchidi o Bacchiadi23, che governarono Corinto dalla metà dell’VIII alla metà del VII secolo a.C. Non vi è città o famiglia che possa essere protagonista senza una tradizione eroica. Nel caso di Corinto, dei Bacchiadi e di Eumelo le tre componenti (polis, genos, epos) si saldano emblematicamente insieme. Una delle maniere più diffuse ed efficaci per legare il presente al passato, pur mantenendoli distanti e distinti, è la produzione di strutture genealogiche: un sistema straordinariamente efficace ed economico, conservativo e al tempo stesso dinamico, nell’organizzazione e interpretazione delle realtà sociali, come la comparazione etno-antropologica non manca di confermarci. L’epica genealogica è il settore in cui più forti e invasive dovettero essere le influenze celebrative e politiche, ma è anche il genere più complicato e scivoloso per noi moderni a causa della nostra ignoranza dei referenti storico-mitici e dei contesti poetici, oltre che in ragione di una certa fluidità nell’uso e riuso degli stemmi familiari. Una specifica forma compositiva, che l’epica genealogica può assumere, è quella del catalogo. Un modulo poetico che, insieme alla trasmissione di dati tradizionali, doveva generare uno speciale piacere e interesse nell’ascolto del 21 Una datazione diversa, nel contesto di una complessiva ri-definizione della figura poetica di Eumelo, è ipotizzata da WEST 2002. 22 CATENACCI 2011. 23 Pausania 2,1,1.

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pubblico. Nella versificazione catalogica il cantore impegnava ai massimi gradi tutte le qualità costitutive del suo essere poeta: la memoria, il rigore e l’ordine espositivo, la linearità nella concatenazione ammaliante di nomi, di personaggi e luoghi, di numeri. Wystan Hugh Auden consigliava anche agli aspiranti poeti dei giorni nostri il catalogo come forma di apprendistato artistico.

3. Esiodo Il genere catalogico evoca immediatamente Esiodo e il Catalogo delle donne24. L’opera di Esiodo è un passaggio rilevante del nostro discorso. In più circostanze egli affronta il tema del rapporto tra poesia e potere. Non abbiamo tempo per discutere i diversi punti d’interesse. Ci limiteremo ad accennare al proemio della Teogonia e all’apologo dell’usignolo e dello sparviero nelle Opere e i giorni. Nel proemio della Teogonia, nel solco dell’investitura sacra che Esiodo riceve dalle Muse, sono sancite le prerogative specifiche di aedi e basileis e le relazioni intercorrenti tra queste due figure25. Per cominciare, le dee lasciano a Esiodo come segno dell’incontro uno scettro d’alloro (v. 30): un oggetto che non può non richiamare l’oggetto simbolo dell’autorità del re. In senso inverso (v. 80 ss.), compagna dei basileis è la più illustre delle Muse, Calliope. Tra tutti i re nutriti da Zeus, continua Esiodo, quello su cui le Muse volgono lo sguardo al momento della nascita possiede l’eloquio più suadente ed amministra saggiamente la giustizia generando piacere tra il popolo con dolci parole. Non diversamente dalla bocca del cantore prediletto dalle Muse scorre dolce la voce e la mente di chi è addolorato s’allieta. Da Apollo e dalle Muse – conclude il poeta (vv. 94-96) – sono gli aedi, da Zeus i re26. Il nesso tra Zeus e i basileis da un lato e le Muse e gli aedi dall’altro, ma anche la relazione trasversale tra le Muse, i basileis e gli aedi, ovvero tra sacro, politica e poesia, costituiscono la base ideologica su cui si fonda, come è stato osservato, ogni forma di poesia encomiastica per sovrani, come il carme XVII di Teocrito per Tolemeo Filadelfo o l’Inno a Zeus di Callimaco sino alla produzione eulogistica di età augustea e oltre27. Il canto, con cui al v. 40 ss. le Muse rallegrano le dimore e la mente del padre, ripercorre la stirpe degli dei e le vicende teogoniche che sfociano nel potere di Zeus. È il canto dell’ordine, 24

Per l’introduzione alle diverse questioni che il testo offre rimando al pregevole volume di HUNTER

2005. 25

Per l’analisi puntuale di queste relazioni vd. BERTOLINI 1995; BELLONI 2002, 106 s. Sulla specifica associazione tra privilegio politico e privilegio poetico nella Teogonia vd. anche VETTA 2006, 66 ss. 27 ROSATI 2009, 369. 26

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dell’ordine cosmico e sociale: ed è anche il canto che Esiodo sta per levare di fronte ai referenti umani di quell’ordine, i basileis. Il nesso celebrativo tra basileis e giustizia sembra incrinarsi nelle Opere e i giorni. Il poema, com’è noto, è incentrato proprio sul tema dell’ingiustizia che Esiodo patisce dai basileis nella lite giudiziaria col fratello Perse. Varie soluzioni, ciascuna con una propria verosimiglianza ma nessuna definitiva, sono state proposte per spiegare la diversità rispetto alla Teogonia. Sono intercorsi fatti che hanno indotto il poeta a mutare il suo atteggiamento verso i giudici? Oppure semplicemente le due opere erano destinate a pubblici differenti? O i due canti non sono in contrasto, ma complementari, l’uno con valore «apotropaico» e l’altro «protrettico»28? In quest’ultima direzione si potrebbe aggiungere che in effetti la critica delle Opere e i giorni è potenzialmente implicita nel testo della Teogonia (v. 81 ss.) dove non a tutti i basileis è riconosciuto il dono della parola suasiva che con retti giudizi dirime le controversie, ma soltanto ai basileis onorati alla nascita dalle Muse, così come del resto al v. 225 ss. delle Opere è prevista la possibilità di una retta giustizia che genera prosperità collettiva. Resta tuttavia la differenza d’impostazione tra le due trattazioni. La difficoltà esegetica s’innesta, credo, sulla questione più generale della genesi e della struttura delle Opere e i giorni. Un quadro assai complicato e oscuro in cui va collocata anche l’interpretazione di uno dei passaggi più enigmatici di tutta la poesia greca arcaica: l’apologo dell’usignolo e dello sparviero (vv. 202-212). Dopo aver narrato il mito delle cinque età, Esiodo si rivolge ai basileis con una favola. Uno sparviero ha ghermito un usignolo. Ai lamenti di quest’ultimo lo sparviero replica di essere più forte e di poter fare dell’altro uccello ciò che vuole, divorarlo o lasciarlo andare. Senza nessun altro commento, il poeta passa quindi ad apostrofare Perse e a introdurre la sezione di cui è protagonista Dike, maltrattata da giudici avidi e corrotti, con terribili conseguenze per l’intera comunità. L’interpretazione consolidata si fonda sull’identificazione tra sparviero e basileus da un lato ed usignolo e poeta dall’altro29. In particolare l’ainos fungerebbe da monito ed esempio contrastivo per i re: la legge del più forte governa il mondo animale, ma non la società umana, come si affermerà apertamente ai vv. 276-280. Tuttavia anche questa lettura, che resta la più accreditata, non è però aliena da alcune difficoltà. Il racconto termina con il successo incontrastato dello sparviero. Nella tradizione favolistica l’ultima parola è quella che conta in relazione alla morale; e qui la morale è pronunciata dallo stesso rapace. Inoltre 28

VERDENIUS 1985, 39. Così nei più recenti commenti di WEST 1978, 204 s.; VERDENIUS 1985, 117 ss.; ARRIGHETTI 1998, 389; 423 ss.; MOST 2006, xli. 29

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il nocciolo sentenzioso («Stolto chi s’oppone ai più forti») appartiene pienamente ai valori dell’etica arcaica, da Omero ad Alceo a Pindaro30. Insomma, mentre l’apologo appare formalmente conchiuso dalla considerazione morale finale (epimythion), il suo contenuto non sembra immediatamente congruente col messaggio generale e per ricavarne il vero significato bisognerebbe aspettare più di cinquanta versi. Ma, soprattutto, in questo modo verrebbe meno il senso stesso della favola, la cui caratteristica fondamentale è mettere in scena gli animali per illustrare concetti e valori umani. Che senso ha far parlare gli animali come gli uomini per esprimere valori del mondo animale? Così, negli ultimi anni, non sono mancati tentativi di interpretazione in altre direzioni. Non abbiamo tempo per ripercorrere queste ipotesi, alcune delle quali risultano ingegnose, troppo ingegnose31. A me pare che l’identificazione tradizionale sin dagli scoli antichi sia lampante e, direi, indiscutibile, non solo nel rapporto simbolico dello sparviero col potere regale, ma anche nell’associazione comune tra uccelli e poeta (fin dall’affresco di Pilo) e, soprattutto, nella qualificazione tanto tradizionale quanto puntuale dell’usignolo (ajhdwvn) al v. 208 come «aedo» (ajoidov"): una qualificazione che non può non far identificare quest’uccello con il poeta32. Dobbiamo ammettere, credo, la nostra ajmhcanivh esegetica. Ci sfugge qualcosa di essenziale per la comprensione dell’apologo e della sua contestualizzazione. Ma personalmente piuttosto che imputare a Esiodo, come talvolta accade, il riuso maldestro della favola o alquanto paradossalmente una morale nascosta che è opposta a quella della storia narrata, sono incline ad ammettere che la soluzione a noi ignota della questione è nella storia, altrettanto ignota, della composizione, formazione e fissazione del testo delle Opere e i giorni. Ciò nonostante, voglio chiudere sull’argomento con una domanda che lascio intenzionalmente aperta. È proprio impossibile interpretare l’apologo per ciò che appare essere in sé e nella sua compattezza enunciativa, ovvero come il riconoscimento della preminenza del basileus sul cantore? Lo sparviero può anche lasciare libero l’usignolo; per fare un parallelo extratestuale, anche Odisseo nel finale dell’Odissea ha Femio in suo potere e lo lascia andare. Tornando a Esiodo, va sottolineato che ai vv. 225 ss. delle Opere, in alternativa 30 Cf. p. es. Hom. Il. 21,485 s.; Alc. 130b,11 sg. Voigt; Pind. Ol. 10,39 s.; Nem. 10,72; Soph. El. 219 s., sino alla favola (p. es. Aesop. 5 Chambry). 31 Per un’incisiva rassegna si rinvia ora a STRAUSS CLAY 2003, 39 ss. e ERCOLANI 2010, 204 ss. che, sulla scia di DALFEN 1994, propende per vedere nell’usignolo l’attore della hybris di contro alla quale si staglia la giusta reazione del più forte (lo sparviero come incarnazione di Zeus già in SKAFTE JENSEN 1966, 20 ss.); per completezza d’informazione si aggiungano alla bibliografia i lavori di MORDINE 2006; ZANKER 2009. 32 Sui vari e inequivocabili rapporti tra usignolo e cantore insiste NAGY 1996; vd. anche supra, p. 50 n. 7. Non vi è potenzialmente estraneo il gioco verbale tra ajoidov" e ajhdwvn; cf. Teocrito 12,6 s. ed Ermesianatte 7,49 Powell.

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alle rovinose conseguenze derivanti dall’ingiustizia dei basileis corrotti, è descritta la possibilità della retta giustizia e della prosperità che l’accompagna. In altri termini, l’ainos non può significare semplicemente il riconoscimento del potere superiore dei basileis da parte del poeta, con l’implicita esortazione a una condotta giusta? Questa impostazione parenetica, reverenziale ma anche dialettica nel tentativo di trovare un equilibrio nel rapporto asimmetrico tra potente e poeta, trova interessanti paralleli nella poesia celebrativa di un altro autore, che cantò davanti a prìncipi e che fu maestro dell’ainos, un conterraneo di Esiodo, più giovane di un paio di secoli: Pindaro. Al di là dei meri confronti linguistico-formulari, per esempio la discussa espressione fronevousi kai; aujtoi`" (v. 202) trova il suo confronto più calzante, dal punto di vista poetico-situazionale e retorico, negli enunciati che Pindaro rivolge a potenti interlocutori come il tiranno Ierone per introdurre un discorso simbolico e istruttivo, un ainos33. Un sentiero di ricerca che forse meriterebbe di essere esplorato più a fondo.

4. Omero, Atene, la recensio pisistratide Tra VII e VI secolo le corti dei tiranni sono centro d’attrazione per le personalità della cultura, un laboratorio di tradizioni e forme poetiche. Un esempio illuminante dell’interazione tra tiranni ed epica è tramandato da Erodoto (5,67). Clistene, tiranno di Sicione, è in guerra con gli Argivi. Nei canti di Omero l’odiata Argo è continuamente celebrata, ed allora egli bandisce dagli agoni rapsodici di Sicione i canti di Omero34. L’episodio non solo conferma il peso politico e identitario del passato eroico sul presente, ma testimonia anche la possibilità e i modi di condizionamento sulla tradizione in base a un principio di verosimiglianza epica. L’attualità agisce sugli e[ph, può selezionarli e condizionarli, ma non stravolgerli. Clistene bandisce Omero da Sicione, ma non Argo da Omero. E Atene? A partire dallo storico Erea di Megara35 e dall’Ipparco (228b) pseudo-platonico, diverse fonti antiche, piuttosto eterogenee e molto dibattute, riferiscono la notizia di una redazione dei testi omerici ad Atene per volontà di Pisistrato o di suo figlio Ipparco. A questo testo dovevano attenersi i rapsodi che si succedevano nella recitazione agli agoni panatenaici. Reinhold Merkelbach ha mostrato la fondatezza della notizia36. Come ha scritto Gilbert 33 Emblematico Pind. Pyth. 2,72 ss., ma anche Pyth. 3,80; fr. 105a,1 ss. Maehler. E il suo collega Bacchilide 3,98, per esempio, di fronte allo stesso Ierone si autodefinisce «usignolo di Ceo». 34 Sull’episodio vd. CINGANO 1985. 35 FGrHist 485 F 6 (ap. Diog. Laert. 1,57). 36 MERKELBACH 1952 cui si rinvia per la documentazione completa delle testimonianze antiche.

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Murray, se una tradizione sulla recensio pisistratea mancasse, questa sarebbe la congettura che quasi tutti farebbero37. Che cosa, però, il passaggio per l’Atene di fine VI secolo abbia significato materialmente per il testo omerico è oggetto di ampio contendere critico. La questione è molto complessa e investe diversi aspetti dell’indagine storicoletteraria e linguistica38. In verità, se si considera il legame osmotico tra tradizione e attualità nella poesia arcaica, sembra quasi naturale che un’impresa di enorme impegno come la redazione dei testi omerici rifletta elementi del presente e abbia un significato ‘politico’. Tanto più se l’operazione riguarda un genere come l’epica con la sua valenza pubblica e storico-identitaria e se si svolge sotto il patronato di un tiranno e del suo potente apparato propagandistico. Già nell’antichità specifici passi erano attribuiti all’influenza pisistratide e a interessi ateniesi, per esempio la posizione di Aiace e del contingente di Salamina nel Catalogo delle Navi (Il. 2,557-558)39 o l’intera Doloneia (Il. X)40. Altri influssi sono stati additati dalla critica moderna. Ne cito solo alcuni. A livello linguistico, è stata richiamata l’attenzione sulle forme attiche e sui pochissimi ma sintomatici casi di atticismi difficilmente riducibili per ragioni metriche alle corrispondenti forme ioniche: dunque non semplice normalizzazione ortografica o nella recitazione, ma tracce di una ricezione e di un passaggio in cui la tradizione si mostra, sebbene solo in minima parte, ancora aperta41. Similmente, al livello di contenuto, alcuni passi lasciano trasparire piccole icastiche aperture su luoghi, culti e costumi di Atene che suonerebbero incongrui fuori di questa città. Soltanto due esempi: l’offerta di un peplo ad Atena, probabile riproduzione del rituale delle Panatenee42, e il rientro della dea nel suo buen retiro sull’Acropoli confidenzialmente definito «casa di Eretteo»43. C’è poi nell’Odissea un figlio di Nestore di nome Pisistrato, altrimenti sconosciuto: una coincidenza quanto meno curiosa, dato che la famiglia del tiranno vantava la sua genealogia discendente dai Pili e dai Nelidi, cioè proprio da Nestore44. 37

MURRAY 1964, 358. Per un’introduzione alla complessa questione SKAFTE JENSEN 1980; WEST 1981, xliii ss.; GENTILI 2006, 34 ss.; per quanto riguarda il versante iconografico vd. anche SHAPIRO 1993. 39 Strab. 9,1,10; secondo altre fonti, gli stessi versi furono interpolati a opera di Solone, ma quest’attribuzione è spiegabile con la tendenza a far risalire all’antico e savio legislatore le più diverse attività ordinatrici. 40 Schol. Hom. Il. 10. 41 Classico è il lavoro di WACKERNAGEL 1916. Secondo NAGY 1998, anche gli iperionismi possono derivare da una fase attica della tradizione performativa. 42 Hom. Il. 6,86 ss.; 269 ss.; 297 ss. 43 Hom. Od. 7,80 s. 44 Hom. Od. 3,36 ecc.; sull’ascendenza nelide dei Pisistratidi vd. Hdt. 5,65. 38

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Infine colpiscono le singolari analogie tra la figura e le vicende di Odisseo nell’Odissea e quelle di Pisistrato nei logoi attici che, risalenti nei nuclei originari all’età del tiranno, ritroviamo sedimentati nelle Storie di Erodoto (1,59 ss.): analogie di immagini, di caratteri ed eventi, di presenze umane e divine, di sanguinose vittorie e proposte di riconciliazione45. Le analogie si intensificano quanto più ci si avvia verso il finale dell’Odissea. Un finale che sin dall’antichità ha rappresentato una questione critica, se i grammatici alessandrini Aristofane e Aristarco ponevano il tevlo" del poema al v. 296 del ventitresimo libro46. La parte conclusiva dell’Odissea ha suscitato perplessità anche in tempi recenti. Un esperto di poesia omerica quale Geoffrey Kirk l’ha definita «ridicola nei suoi salti di qua e di là, nella sua indigeribile mistura di campagnoli, fulmini, vecchi uomini infiacchiti e divinità travestite e non»47. Eppure, quel peculiare esito poematico si pone a compimento di una storia ben delineata nelle sue strutture portanti. Un principe torna in patria e, sostenuto da Atena, con l’aiuto del figlio e di uomini fedeli, riconquista il potere. Per fare questo, vengono uccisi i più nobili dei cittadini. Di fronte all’imminenza di un conflitto, un nuovo patto di concordia e prosperità è stretto tra il principe e i cittadini sotto lo sguardo tutelare di Atena. È il finale dell’Odissea, ma – se si leggono i capitoli 62-64 del primo libro di Erodoto – è esattamente anche la storia del definitivo ritorno di Pisistrato al potere. Attraverso il piacere del racconto e l’autorevolezza del paradigma mitico l’epica, abbiamo detto, si fa portatrice di un sistema di valori e modelli. Affinché questo sistema faccia presa, è necessario che esso dialoghi, in un rapporto di condivisione intellettuale ed emotiva, con le strutture di ricezione e partecipazione che il pubblico ha maturato in base alle proprie categorie culturali e al proprio vissuto. Se una recensio attica dei poemi omerici c’è stata, sullo sfondo non si può non tenere conto che l’attualità e il vissuto collettivo dell’Atene della seconda metà del VI secolo coincidono con l’epopea di Pisistrato. Ma al tempo stesso il gioco di proiezioni, per essere davvero efficace, non può sottrarsi al criterio di verisimiglianza epica. L’innovazione deve scivolare nella corrente lenta della tradizione epica, anche se essa è ormai nella fase terminale di cristallizzazione scritta, evitando forzature ed eludendo la censura che l’uditorio esercita in base all’evidenza tradizionale. Non è un caso che le analogie tra il rientro di Odisseo e quello di Pisistrato siano più marcate nell’ultima parte, una sezione strutturalmente più aperta ed esposta all’inserzione di nuovi materiali. 45 46 47

Per gli approfondimenti si rinvia a CATENACCI 1993. Schol. Hom. Od. 23,296; sul significato di tevlo" vd. ROSSI 1968. KIRK 1962, 250.

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5. Dal V secolo all’epica ellenistica L’adozione di un testo ad Atene per le recitazioni panatenaiche segna un passaggio importante di coagulazione nella tradizione dei poemi omerici, che troverà poi, come si sa, la sua vera e definitiva fissazione nella Biblioteca di Alessandria. Il fiume dell’epica, che dalle sue più lontane origini micenee attraverso i secoli bui percorre l’epoca arcaica, giunge progressivamente ad esaurire il suo corso creativo tra VI e V secolo. Naturalmente la poesia in esametri a soggetto eroico-mitologico continuerà a vivere sia nella forma di ri-esecuzione dei repertori tradizionali, in particolare dei testi omerici, sia nella composizione di canti originali. Tuttavia il mutare degli orizzonti storico-politici e le radicali trasformazioni nei sistemi della comunicazione, con il graduale affermarsi della scrittura, esigono e determinano l’esplorazione di nuove possibilità poetiche. I tentativi di rinnovamento tra V e IV secolo ci sono noti attraverso due nomi: Antimaco di Colofone con la Tebaide e Cherilo di Samo con i Persikà. Il primo, grammatiko;" kai; poihthv"48, poeta dotto e apprezzato da Platone49, continua a operare nel solco dell’epica mitologica; la novità è soprattutto nella consapevolezza e dottrina letteraria50. Il secondo, Cherilo, si cimenta in un’operazione originale e innovativa: l’epica storica51. Argomento dei suoi Persikà sono le guerre persiane. La distanza cronologica, cui si aggiunge la distanza geografica e culturale del nemico persiano, è solo di pochi decenni. Ma nella coscienza greca i fatti di Maratona e delle Termopili, di Salamina e Platea sono subito elevati a una dimensione superiore, epocale ed esemplare. Nel 472 Eschilo tratta l’evento, al pari di una vicenda del mito, sulla scena tragica nei Persiani, unico esempio certo di tragedia storica, preceduto dalla Presa di Mileto e dalle Fenicie di Frinico, anch’esse costruite sul conflitto coi Persiani. Dopo non molti anni Erodoto (1,1 ss.), l’autore fondamentale di confronto per Cherilo, colloca le guerre persiane accanto a episodi mitici e alla guerra di Troia. Ma già nei giorni successivi alla vittoria, Simonide nell’elegia per la battaglia di Platea (3b Gent.-Pr. = 11 West) espressamente paragona le guerre persiane alla guerra di Troia e mette in parallelo il suo racconto poetico col canto di Omero52. Un punto importante è che la tradizione e la prassi dell’eleSuda, s.v. jAntivmaco". Heracl. Pont. fr. 6 Wehrli; Plut. Lys. 18,5; Cic. Brut. 191. 50 Sulla personalità e sull’opera poetica vd. da ultimo MATTHEWS 1996. 51 Le testimonianze sulla vita e la produzione di Cherilo samio sono raccolte in RADICI COLACE 1979; BERNABÉ 1996, 187 ss.; vd. ora anche BERNARDINI 2004 (con bibliografia). 52 Va aggiunto anche l’oJmhrikov" Empedocle che, secondo la notizia di Aristotele (fr. 70 Rose ap. Diog. Laert. 8,57 = 31A1 D.-K.), cominciò, ma non portò a compimento un poema sulla spedizione di Serse. 48 49

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gia storica, culminanti nella celebrazione simonidea dell’impresa antipersiana, sono una rilevante esperienza di riferimento per l’idea e lo sviluppo concreto dell’epica di contenuto storico. L’elegia storica aveva già coltivato il concetto di trasposizione dei fatti recenti nella poesia, dalle ktivsei" e dalle storie di città53 a temi dell’attualità come per esempio la Salamina di Solone (2 Gent.Pr. = 1-3 West). E, altro elemento fondamentale, l’elegia aveva rilavorato in questo senso i materiali linguistici costitutivi della dizione epica. Non solo l’opera, ma la vita stessa di Cherilo rivela i cambiamenti in corso. Cherilo, informa Plutarco (Lys. 18,7 s.), era voluto sempre accanto a sé dal navarca spartano Lisandro, affinché ornasse le sue imprese con la poesia. Nel medesimo passo si legge che Lisandro, in un concorso poetico, proclamò vincitore Nicerato di Eraclea a scapito di Antimaco, che per il disappunto distrusse la sua opera. Che si trattasse di un agone epico è reso molto probabile dalla presenza di Antimaco. La strada per l’incontro tra epica, storia contemporanea e lode personale sembra ormai tracciata distintamente. Un tratto decisivo di questa strada passa per la Macedonia. La Suda riferisce che Cherilo, ancora lui, morì alla corte di Archelao, re di Macedonia54. Un Papiro di Ossirinco ha tramandato frammenti di un poema sulle imprese di Filippo di Macedonia55. E, soprattutto, un corteo di poeti epici seguiva Alessandro Magno col compito di celebrare le sue res gestae: Escrione di Mitilene (1-12 Suppl. Hell.), Agide di Argo (17 Suppl. Hell.), Anassimene di Lampsaco (45 Suppl. Hell.) e Cherilo di Iaso (333-335 Suppl. Hell.). Anassimene di Lampsaco e Cherilo di Iaso (da non confondere con l’omonimo predecessore samio) hanno il merito, si fa per dire, di contendersi nella tradizione il ruolo di destinatario di un’irridente battuta di Alessandro, il quale affermò che avrebbe preferito essere il Tersite di Omero piuttosto che l’Achille di Anassimene o di Cherilo56. Quest’ultimo, comunque, prevarrà nell’immaginario culturale come simbolo di una mediocre poesia d’adulazione, da Orazio (Epist. 2,1,232 ss.; Ars poet. 357 ss.) sino a Vincenzo Monti che, pur trovandosi egli stesso a elogiare non ingenerosamente Napoleone, si premurò di precisare: «Né io amo di essere il Cherilo di Alessandro»57. Da Alessandro in poi, per l’ellenismo e a seguire, si assiste al fiorire di epica storica ed encomiastica. È superfluo qui prodursi in un elenco di nomi,

53 Si pensi, per fare un paio di esempi, all’Archeologia dei Sami di Semonide o alla Smirneide di Mimnermo. 54 Suda, s.v. Coirivlo". 55 P. Oxy. 2520 = 913-921 Suppl. Hell. 56 45; 333 Suppl. Hell. 57 Nelle Note a La Palingenesi politica.

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che rappresentano quasi tutto ciò che sappiamo sull’argomento58. Menziono a mo’ di esempio Antigono di Caristo (III sec. a.C.), autore di un poema intitolato ad Antipatro, e Simonide di Magnesia, che cantò le vittorie di Antioco sui Galati59. Sul versante del poema di storia regionale si segnala Riano di Creta (seconda metà III a.C.), poeta studioso ed editore di Omero60. Nei suoi Messeniakà, come ricorda Pausania (4,6,3), era narrata la seconda guerra messenica (di circa quattro secoli prima); l’eroe nazionale di quell’epico conflitto, Aristomene, non «era in nulla meno illustre di Achille per Omero nell’Iliade». Infine, per citare un caso di poetessa vagante, si può ricordare Aristodama di Smirne che giunse a Lamia (218/217 circa.), insieme con il fratello, per esibirsi in recitazioni epiche nelle quali erano celebrati gli Etoli e i loro antenati; il suo successo fu tale che ottenne speciali onori61. Si spalanca ormai, in linea con la contaminazione dei generi e lo sperimentalismo d’età ellenistica, una vasta serie di possibili realizzazioni del connubio tra epica e politica, tra poesia in esametri e narrazione storica o mitologica a scopo di legittimazione e di elogio: poemi di mitologia e storia locali; epica cortigiana; componimenti per celebrare principi, condottieri e loro imprese; carmi in onore di dei, ma anche di sovrani assimilati ormai alla divinità nel segno di una convergenza sempre più marcata tra il genere dell’encomio e l’inno62. La vena eulogistica non manca di nutrire la poesia coltivata nell’ambito ristretto delle corti, in contesti letterari ed eruditi, dall’Inno a Delo (v. 165 ss.) di Callimaco, per esempio, agli encomi esametrici di Teocrito per Tolemeo (XVI) e per Ierone II (XVII). Ma l’associazione tra epica ed eulogia appartiene soprattutto agli spazi ampi, all’agorà, ai teatri e ai santuari, in occasione delle grandi feste pubbliche e dei certami poetici promossi dai sovrani stessi. Ora, in conclusione del nostro excursus, i due termini vengono finalmente a fondersi in un’unica espressione: accanto alle categorie del poihth;" ejpw`n (l’autore/esecutore di epica) e del rJayw/dov" (interprete di opere altrui?), gli agoni prevedono, come è attestato dalle iscrizioni, la specialità dell’«encomio epico» (ejgkwvmion ejpikovn)63. Qui si apre per noi una nuova zona oscura. Di tutta questa produzione, 58

Puntuale rassegna in FANTUZZI 1988, lv ss.; D’IPPOLITO 1988. Suppl. Hell. 47. È discusso se si tratti di Antioco I Soter o Antioco III il Grande 223-187; cf. FANTUZZI 1988, lxxxiv. 60 Suppl. Hell. 716. 61 IG IX 2,62 = Dittenberg, Syll.3 532; vd. GUARDUCCI 1927-1929, 655. 62 Per un’articolata discussione sulla polimorfia della poesia encomiastica in età alessandrina si veda BARBANTANI 2001, 3 ss. 63 IG VII 416,9; 418,5; 419,11; 420,11; ved. PALLONE 1984. Gli agoni prevedevano anche il discorso d’encomio (ejgkwvmion logikovn). 59

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che continua le antiche strutture spettacolari e agonali dell’epica precedente, non ci è conservato praticamente nulla. Non diversamente da tutto l’epos post-classico, il genere storico-encomiastico, come si è mostrato a partire dall’imprescindibile lavoro di Konrat Ziegler, godette di ampia popolarità e contribuì in maniera considerevole alla formazione della cultura comune e dell’opinione pubblica nei secoli dell’ellenismo64. Un fenomeno di vasta portata e grande successo, come testimoniano gli onori assegnati ad alcuni suoi rappresentanti. Un vezzo ironico e un po’ snob ha portato spesso la critica a non crucciarsi, anzi a compiacersi, della perdita di questa poesia di ‘basso livello’65. Al di là d’ogni ironico sussiego e di valutazioni estetiche dalle quali non si astenne – come si è visto – neppure una personalità come Orazio, la sua conoscenza segnerebbe un progresso importante nella storia della poesia antica. Mi riferisco non solo alla funzione sociologica di acculturazione cui abbiamo accennato, ma anche al ruolo di tramite che l’epica storica ed encomiastica poté avere in relazione con l’epica romana. Ziegler e altri hanno postulato, com’è noto, un’eredità in questo senso, in particolare negli Annales di Ennio66. Ed Eduard Norden, per citare solo un altro illustre nome, ipotizzò un panegirico di Alessandro come schema di riferimento della celebrazione di Augusto nel sesto libro dell’Eneide67; ma in che rapporto, viene allora da chiedersi, erano i panegirici di Alessandro circolanti a Roma con l’epica che ne esaltava le sue imprese? A questa e ad altre domande non siamo in grado di dare risposte certe. Questa poesia di consumo, troppo strettamente legata all’occasione e priva di quella distanza proiettiva che l’epica esigeva, si è rivelata alla fine una produzione effimera. Del resto il maestro di Alessandro, Aristotele, aveva ammonito sulla differenza e sul rapporto non facile tra vero e verisimile, tra eventi reali e accadimenti secondo verisimiglianza, tra fatti particolari e modelli oggettivi, ovvero tra storia e poesia68.

64 ZIEGLER 1988; sull’epica ellenistica vd. ora CAMERON 1995, 263 ss., che rivede, anche in senso critico, alcune posizioni di Ziegler. 65 Vd. la rassegna di FANTUZZI 1988, xxv ss. 66 Oltre a ZIEGLER 1988, un classico sull’argomento è il saggio di KROLL 1988. 67 NORDEN 1899. 68 Aristot. Poet. 1451a ss.; 1459a ss.

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IL CORPUSCULUM DEGLI EPITAFI ATENIESI LUCIANO CANFORA

In un passo molto spiritoso della Retorica (III 12,5 = 1414a,7-10), Aristotele descrive il rapporto delle tre forme di oratoria – politica, giudiziaria, epidittica – con la pratica della redazione per iscritto. «L’oratoria politica – scrive – rassomiglia alla pittura con le ombre (= che vuol ottenere l’effetto della prospettiva: skiagrafiva): quanto maggiore è la massa che ascolta, tanto più da lontano avviene la visione, e perciò la precisione è superflua», «quella giudiziaria – prosegue – è più precisa» (onde – osserva – non sempre lo stesso oratore è adatto ad entrambe); «la composizione epidittica invece ha sommo bisogno della scrittura (grafikwtavth): infatti viene letta (to; e[rgon aujth`" ajnavgnwsi")». Questo dato, che doveva essere noto ad Aristotele grazie alla diretta esperienza del suo lungo soggiorno ateniese, potrebbe far pensare che l’oratoria epidittica (e dunque a rigore anche gli epitafi) fosse destinata a conservarsi in larghissima parte appunto perché redatta per iscritto. È ovvio che Aristotele si riferisse a composizioni come l’Erotico di Lisia preso in giro da Platone nel Fedro, ma soprattutto all’oratoria isocratea: di Isocrate e dei suoi scolari e imitatori (gli encomi di Teopompo per Filippo e per Alessandro; Teodette, Naucrate etc.). Per quel che riguarda gli epitafi invece possiamo osservare che semmai è avvenuto tutto il contrario. Gli «epitafi» giunti a noi sono di fatto gli stessi di cui disponeva, ad Alessandria, nel I d.C., Elio Teone autore dei Progymnasmata, e non molto dopo (ma la cronologia è difficilmente precisabile) lo pseudoDionigi autore della Techne Rhetoriké. Lo pseudo-Dionigi (VI 1 = II, p. 278, 4-7 Usener - Radermacher) fornisce questo elenco degli epitafi a lui noti: Tucidide, Platone, Lisia, Iperide e Demostene. E aggiunge alla lista «l’amico di Isocrate Naukrates», cioè Naucrate di Eritre, che però non ha a che fare con gli epitafi ateniesi bensì con la gara oratoria indetta ad Alicarnasso da Artemisia in morte di Mausolo (FGrHist 115 T 6; cfr. Fozio, Bibl. 176 = FGrHist 115 F 25). Gara in cui furono coinvolti anche Teopompo e lo stesso Isocrate, maestro di entrambi. E avrebbe potuto includere nella lista il più insigne modello, l’epitafio (fittizio) di Gorgia (= frr. 5-6 Diels - Kranz) celebre per audacie espressive quali gli avvoltoi definiti «tombe viventi» e Serse «Zeus dei

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Persiani», che indussero un tardo retore alessandrino di buon gusto, Atanasio sofista, a parlare, a proposito di quella prova estrema di bravura gorgiana, di «ridicolo risultato» e di «frastuono degno di fanciulli». Teone parla ancora più chiaramente, quando elenca «gli epitafi di cui disponiamo». «Abbiamo – scrive – gli Encomi di Isocrate, gli Epitafi di Platone, Tucidide, Iperide, Lisia1» (Progymnasmata 2 = II, p. 68, 24-28 Spengel). L’identificazione di Teone, autore dei Progymnasmata giunti a noi, con Elio Teone di Alessandria, autore di numerosi commenti di prosatori (tra cui Senofonte) nonché di Progymnasmata, noto a Suidas, appare certa. E la cronologia è confermata dal fatto che Quintiliano lo cita (III 6,48). Queste due testimonianze, provenienti dal cuore della cultura retorica di epoca alto-imperiale e (nel caso di Teone) da un ambiente decisivo come Alessandria, epicentro bibliografico del mondo antico, ci danno la certezza che, già allora, non più che questa fosse la «biblioteca» degli epitafi ateniesi2. Questo significa che quel piccolo manipolo superstite (tre dei cinque, quello tucidideo, quello platonico e quello lisiaco, sono creazioni letterarie) era un minuscolo frammento di un fenomeno imponente e ininterrotto, che palesemente non aveva quasi mai preso la strada della redazione scritta da serbarsi “per i posteri”, da inserire nei corpora, nelle raccolte degli oratori e dei politici che, in almeno un secolo di civiltà politico-oratoria ateniese, si erano impegnati in quel genere di discorsi. Una vastissima produzione effimera di cui non si era conservata quasi affatto traccia scritta. La ripetitività dei motivi era tale da scoraggiare, e le parole di Isocrate nel Panegirico (§ 74) e del Pericle tucidideo al principio del suo epitafio (II 35) fanno ben intendere che vi era una rigida tradizionale e doverosa fissità di motivi e di topoi, che sfidava la capacità di ciascun oratore, anche il più grande o il più abile, di sviluppare concetti originali. Già questo stato di cose aiuta a comprendere perché la redazione scritta a futura memoria di discorsi del genere, pur rilevantissimi nel concreto della quotidianità politica, era sconsigliabile: non aggiungeva molto (anzi forse ‘toglieva’) alla statura di un politico o di un oratore. Se poi si considera che, degli altri tre epitafi, superstiti per noi ma già nell’Alessandria di 1 Non menziona quello attribuito a Demostene, forse in omaggio al netto giudizio di Dionigi (Su Demostene 44,3): «Non abbiamo discorsi epidittici di Demostene, quelli che gli vengono attribuiti non sono suoi […] in particolare il rozzo vacuo e puerile Epitafio». 2 È noto che nella Retorica (I 7,34; III 10,7) Aristotele cita due volte, come ricavata «dall’epitafio di Pericle», una frase che non ritroviamo nella riscrittura tucididea dell’epitafio pericleo per i morti del 431/430. Si è pensato ad un altro epitafio pericleo (quello per la guerra contro la ribelle Samo) o alla ‘vera’ parola di Pericle che Tucidide rielaborò. Lisia (VI. Contro Andocide, 10) cita la frase di Pericle sulle “leggi non scritte” e questa la ritroviamo in Thuc. II 37. È difficile che Aristotele disponesse di una raccolta, poi perdutasi, di discorsi di Pericle (il quale – come è ben noto – “non scriveva”, non metteva per iscritto i suoi discorsi per diffonderli). Si tratterà di “detti” rimasti celebri: forse anche Euripide, Supplici 447-449 allude a questo detto pericleo che metteva in relazione il «portar via i giovani» e la «primavera» («togliere questa gioventù dalla città è stato come togliere la primavera dall’anno»).

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Teone, quello di Lisia non può che essere una exercitatio (magari dello stesso Lisia) essendo l’autore un meteco, mentre su quelli attribuiti a Demostene e a Iperide si allunga l’ombra del prodotto di scuola avente come «materia da trattare» la fine della grande Atene, risulta chiaro che la questione «l’epitafio nella cultura politico-oratoria ateniese» va posta su base diversa: appunto in ragione del tipo di materiale giuntoci3. Materiale delicato da trattare. Nel caso di Tucidide e di Platone non si dovrà perdere di vista l’ambiguità che complica le cose in entrambi i casi: Tucidide si trova nella necessità di far parlare Pericle alla maniera degli epitafi (cioè nello stile più patriottico-tradizionalista-autocelebrativo che possa immaginarsi) pur essendo Tucidide consapevole della lontananza siderale di Pericle, del Pericle concretamente operante come leader politico, da quegli stereotipi4 e pur deprezzando Tucidide stesso quegli stereotipi5; Platone è addirittura impegnato in una feroce parodia che investe contemporaneamente sia Pericle che Tucidide. Nel caso di Lisia (se è lui l’autore) siamo di fronte ad un intervento politico abilmente travestito da epitafio. Nel caso dei prodotti di scuola l’ambiguità è nel genere stesso. Per completare il quadro, non va trascurato il fatto che il bagaglio trito e ripetitivo, che costituisce la materia degli epitafi, mentre pone i politici che vi si cimentano nella necessaria ma fastidiosa condizione di fare propria – mentendo a se stessi6 – l’autorappresentazione ideologica della città nella sua forma più urtante, è bersaglio di una sottile critica che parte ad esempio dalla scena7: magari ad opera di intellettuali (Euripide nelle Supplici, Crizia nel Sisifo) che sono umanamente vicinissimi a quei medesimi politici costretti dal ruolo a ripetere le verità ufficiali. Euripide nelle Supplici inquadra il dibattito sui discutibili fondamenti della democrazia, tra Teseo e l’araldo tebano, in un dramma che ha per argomento proprio un topos degli epitafi (il recupero dei corpi dei sette aggressori di Tebe in violazione del divieto imposto da Creonte); e il dibattito mette in difficoltà Teseo (personaggio topico degli epitafi) su di un tema anch’esso topico di tutti gli epitafi superstiti (e cioè l’elogio dell’ordinamento politico ateniese)8. Difficilmente l’attacco all’oratoria patriottico-demagogica avrebbe 3 È ben strano infatti che, tolti i tre testi sicuramente “fittizi” (Tucidide, Platone, Lisia), restano solo Demostene e Iperide: i due sconfitti della interminabile guerra (348-322) contro la Macedonia. 4 Quando parla da politico, e non da retore, Pericle dice brutalmente che «l’impero è tirannide» (II 63). 5 Cfr. la rinuncia dei generali ateniesi nel dialogo coi capi dei Meli a far ricorso al tema “vittoria sui Persiani” per giustificare il dominio imperiale (V 89). 6 L’epitafio pericleo, e perciò quello platonico, esaltano la forma politica vigente in Atene, ma un Alcibiade ne parla (a Sparta) come di “follia notoria” (Tucidide VI 89). 7 A tacere delle cerchie “filosofiche”, per esempio quella socratica. 8 Cfr. Tucidide II 37; Platone, Menesseno 238cd; Lisia II 18-19; Isocrate, Panegirico 39-40; [Demostene] LX 25-26; [Iperide] VI 25.

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potuto essere più efficace. Tutto questo aiuta a comprendere la molteplicità di piani nel cui intreccio si colloca questa singolare oratoria celebrativa, apparentemente così «naïve». Basti qui osservare che quella del teatro è solo una delle forme di reazione che l’oratoria da epitafio suscita. Il fatto stesso che Platone ne abbia redatto una così feroce ed estesa parodia (Menesseno) facendola pronunciare da Socrate e presentandola addirittura come il collage, fatto da Aspasia, degli avanzi dell’epitafio pericleo; il fatto che la pubblicistica coeva (a noi nota grazie al cosiddetto pseudo-Senofonte)9 capovolga con puntigliosa distruttività l’immagine oleografica – topica negli epitafi – dell’ordinamento ateniese come «regno della legge»; il fatto che lo stesso Pericle tucidideo non esiti, nell’epitafio, a dire smaccatamente e in contrasto con la realtà (per es. sui tribunali) quello che ad es. lo pseudo-Senofonte riduce in pezzi: sono tutti elementi che ci permettono di cogliere l’insofferenza, il fastidio, talvolta il sarcasmo che codesta immobile e stantia oratoria celebrativa suscitava nelle cerchie colte e intellettuali delle città: ivi compreso lo stesso ceto politico che all’occorrenza era chiamato a celebrare quel rito; ma che in diversa e separata sede poteva spingersi a definire la ufficialmente osannata democrazia «una follia universalmente riconosciuta come tale»10. Una delle ragioni per cui quasi nulla11 già in antico si conservò di quel genere letterario è da ricercarsi proprio nel suo essere strumento non amato, o soltanto tollerato – ancorché considerato politicamente indispensabile – da parte di coloro medesimi che dovevano praticarlo.

1. Tucidide [430 a.C.] L’epitafio che Tucidide fa pronunciare a Pericle (II 35-46) può essere qui trattato solo di passata. È evidente che Tucidide ha adottato, per Pericle, un tono altissimo, degno della grandezza del personaggio. Ha anche scelto di non fargli pronunciare alcuni dei topoi più logori di quel tipo di oratoria. Con la consueta sinteticità geniale, Wilamowitz colse e apprezzò tale scelta: «Wir wollen heute – scrisse nel rilevantissimo suo discorso ‘epidittico’ Neujahr 1900 – so wenig von Sadowa und Sedan reden, wie Perikles von Marathon und Salamis, als er Athens Staat und Athens Kultur pries» (p. 12)12. E nondimeno sui due punti nevralgici – l’ordinamento politico cittadino e 9 10 11 12

Ma certo più abbondante (Stesimbroto di Taso). Alcibiade a Sparta in Tucidide VI 89,6. O forse nulla come vedremo. Cfr. Reden und Vorträge, II, Dublin - Zürich 19264, 43.

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la politica imperiale – non può farlo tacere. E gli attribuisce consapevolmente pensieri topici ed esaltatori che fanno a pugni con la realtà effettuale: la falsità del quadro “democratico” delineato in II 37 la fa emergere egli stesso nel ritratto di Pericle (II 65). E difficilmente chi conosce le Vespe di Aristofane per non parlare del duro pamphlet dello pseudo-Senofonte può pensare che Pericle creda davvero al quadro, serenamente armonico ed ispirato al giusto, che delinea, del funzionamento dei tribunali ateniesi. Con lucida paradossalità proprio su quei punti cruciali Tucidide fa parlare anche Pericle nella forma illusoria-autocelebrativa dell’oratoria da epitafio. Fa profferire quei topoi proprio da chi ne incarna la diametrale negazione, anche sul piano istituzionale (II 65,9: «a parole era una democrazia, in realtà il governo del princeps» è la vera diagnosi tucididea, che sbriciola l’epitafio [II 37]). Né va dimenticato che, in altra parte dell’opera tucididea, proprio Pericle si incarica di impartire ai suoi concittadini quella dura pedagogia imperiale che gli Ateniesi preferiscono velare dietro la retorica della grande vittoria sui Persiani e del “diritto all’impero” (altro tema da epitafio), che Tucidide smaschera nel dialogo melio-ateniese.

2. Platone [394? a.C.] Platone, nel Menesseno, instaura, con straordinaria efficacia, la parodia non solo del genere epitafio in generale, ma di quello pericleo-tucidideo in particolare. Nel Menesseno c’è molto altro (ad esempio il sarcasmo sanguinoso sull’esito della guerra civile [243e]): ma, per quel che riguarda la parodia del Pericle tucidideo, il focus è nella descrizione del sistema politico ateniese, definito addirittura una «aristocrazia»: «c’è chi lo chiama in un modo, chi in un altro, ma in verità si tratta di una aristocrazia sostenuta dal consenso della massa (met∆ eujdoxiva" plhvqou" ajristokrativa)13» [238d]. Il che è anche profondamente vero se ci si pone nell’ottica degli a[ristoi che dirigono il sistema. Gli altri, come Alcibiade a Sparta [Tucidide VI 89], parlano direttamente della democrazia come di una «follia universalmente riconosciuta come tale». Non dimentichiamo che la critica al sistema ateniese si svolge di norma su due piani: a) mancanza di gnwvmh (Pseudo-Senofonte, Costituzione degli Ateniesi; Euripide, Supplici); b) il demos fa il comodo suo (Platone, Repubblica VIII). Ma si veda anche 241c: paideuqh`nai tou;" a[llou" {Ellhna" [dove Platone fa dire a Socrate, cioè ad Aspasia, cioè a Pericle che Maratona e Salamina hanno insegnato a tutti gli altri greci a combattere!] e Tucidide II 41: Atene è JEllavdo" 13 Cfr. Tucidide II 37,1: kai; o[noma me;n dia; to; mh; ej" ojlivgou" ajll∆ ej" pleivona" oijkei`n dhmokrativa kevklhtai.

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paivdeusi" [II 41,4 «Atene ha disseminato dovunque monumenti di bene e di male»]. Ovviamente il ‘vero’ Pericle dei socratici è quello duramente attaccato da Socrate nel Gorgia come il grande corruttore che ha reso gli Ateniesi peggiori rispetto al momento in cui lui entrò in scena (anche a causa del salario per tutti…); è quello dei Memorabili senofontei (I 2) che spiega al giovane Alcibiade che bisogna rassegnarsi al fatto che il plethos archon è al di sopra della legge… Dunque la parodia platonica dell’epitafio tucidideo offre un duplice piano di lettura: a) Pericle disse quelle parole demagogiche (II 37; 41) ma noi sappiamo che la vera prassi era tutt’altro; b) Pericle disse quelle parole, ma non ci credeva egli stesso: sapeva di fornire una strumentale idealizzazione (sia perché Platone sa cosa fu il vero Pericle, sia perché sa che Tucidide stesso [II 65] ne dava un ritratto apertamente ‘monarchico’).

3. Lisia [394? a.C.], Or. II. In quanto meteco e logografo Lisia non può certo essere stato incaricato dell’epitafio e tanto meno può averlo pronunciato egli stesso. Ci si è chiesto se abbia scritto anche l’epitafio (come tanti altri suoi discorsi) per un cliente. Dunque per un oratore che evidentemente non sapeva parlare ed aveva bisogno di un ghost-writer? Questo appare contraddittorio: si sceglie l’oratore ufficiale in quanto noto tra l’altro per la sua capacità oratoria! Lo afferma con molta chiarezza Isocrate in un noto passo del Panegirico [§ 74] composto tra il 392 e il 380: «non mi sfugge – scrive Isocrate – quanto sia difficile, arrivando buon ultimo, parlare intorno ad argomenti da sempre (pavlai) oggetto di trattazione ed intorno ai quali spesso hanno parlato i massimi oratori (oiJ mavlista dunhqevnte" tw`n politw`n eijpei`n) in occasione delle solenni esequie pubbliche (ejpi; toi`" dhmosiva/ qaptomevnoi")». Dunque è molto probabile che questa sia una ‘esercitazione’, forse dello stesso Lisia, forse di altri14. Dionigi, negli ultimi tre capitoli dell’opuscolo Su Lisia, dà tre esempi (giudiziario, epidittico, demagogico) della sua oratoria: per il genere epidittico non dà l’Epitafio, e conosce invece un testo assembleare (= Lisia XXXIV) che immagina scritto «per un notabile (tw`n ejpishvmwn tiniv)». Anche questo testo suscita molti interrogativi, ma non ne tratteremo qui. Il problema dell’epitafio lisiaco viene ancorato di solito al dilemma se sia o no autentico, cioè opera di lui o no. Invece il vero problema è se sia un epitafio 14

È comunque in sé strana l’idea di mettere in relazione un meteco con un epitafio…

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reale (cioè effettivamente affidato a lui e da lui pronunciato o da un suo cliente ovvero fittizio [un esercizio eventualmente dello stesso Lisia!]). Ed è evidente, in base a quanto s’è appena detto, che si tratta di un epitafio fittizio. Kenneth James Dover approda, dopo molti tentennamenti, all’ipotesi che a) sarà un esercizio; b) può essere di Lisia. E ovviamente non rimuove il macigno costituito dal fatto – di cui è ben consapevole – che un meteco non poteva certo «essere eletto to deliver a funeral speech»: «To ask “Would the Athenians have elected a metic to deliver a funeral speech?” or “Would an eminent politician, elected to deliver a funeral speech, have got his text from a rhetorician?” is, I suggest, to ask questions which do not deserve the time that has been spent on trying to answer them. A funeral speech, like any enkomion or panegyric, belongs to a genre naturally attractive to anyone interested and skilled in oratory, and a rhetorician must often have composed such a speech without even entertaining the possibility that he himself or anyone else would deliver it at a real state funeral (cf. Blass, i.437). Consequently I see no reason why Lysias should not have composed the Epitaphios» (DOVER, Lysias and the corpus Lysiacum, Berkeley 1968, 193). Quanto però alla grande quantità di contraddizioni e anacronismi indicate da Blass (Attische Beredsamkeit, I, Leipzig 18872, 437-447), è davvero difficile liberarsene. L’unica via d’uscita è, se si deve mantenere l’attribuzione a Lisia (che può essere comunque rafforzata dalla evidente citazione dell’‘epitafio’, ma senza indicazione d’autore, da parte di Aristotele nella Retorica 1411a30b1), quella di immaginare Lisia impegnato a far sentire la sua voce nel campo politico tramite il collaudato strumento del discorso fittizio. Esso non è necessariamente mera exercitatio: è un intervento immaginato in una situazione nota e rilevante ma avente come fine la diffusione di determinati punti di vista, valutazioni politiche e storico-politiche, valori etc. Il discorso fittizio consente, a chi se ne serve, una libertà di riferimenti non ancorata alla precisa situazione in cui un vero intervento (nella fattispecie un vero epitafio) si sarebbe svolto. C’è un rapporto tra i due epitafi, quello platonico e lisiaco: tanto l’epitafio del Menesseno platonico quanto l’epitafio ‘lisiaco’ riguardano la guerra corinzia. Se l’epitafio lisiaco va effettivamente attribuito a Lisia (ovviamente come sua exercitatio retorica e non certo come oratoria reale), in tal caso siamo di fronte ad un’altra tappa della rivalità tra Platone e Lisia: essa non ci sorprende affatto se si ha presente il Fedro. Lisia è amabilmente preso in giro da Platone nel Fedro (230e-234c), dove il filosofo inventa un discorso di Lisia peri; e[rwto" e lo demolisce con le ‘armi’ socratiche dell’apparente ammirazione per l’oggetto bersagliato. Tra i due c’è il macigno della guerra civile e dei suoi effetti di lunga durata:

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Platone è stato con i Trenta (almeno per un certo tempo), Lisia è stato vittima dei Trenta; la democrazia restaurata, di cui Lisia è attivamente partecipe, mette a morte Socrate e disperde «gli amici» di lui per qualche tempo (Senofonte addirittura si auto-esilia). Peraltro la tradizione biografica conosceva un tentativo di Lisia di offrire a Socrate un eccellente ‘discorso in difesa’. E comunque Platone ambienta la Repubblica in casa del padre di Lisia e nel Fedro si diverte a parlare della attività retorico-sofistica di Lisia (il paivgnion sull’eros)15. Che Lisia avesse messo in circolazione un suo epitafio per i morti ateniesi della guerra corinzia è possibile (cfr. supra DOVER, Lysias, 193): un testo patriottico, antispartano, e soprattutto antipersiano al tempo stesso, è del tutto comprensibile da parte sua; e, trattandosi di un testo fittizio, quella mescolanza di indizi cronologici che giustamente inquietava Blass diventa – come s’è detto al principio – tollerabile16. Che Platone nel Menesseno decida di inventare un epitafio parodico per la medesima circostanza implica un intento allusivo che non può sfuggire. Il parlante a quel punto è lo stesso Socrate: il che, viste le critiche di Socrate all’Erotikós di Lisia nel Fedro, è particolarmente significativo. La nascita del Menesseno si illumina ancor più. È chiaro che alla base c’è l’epitafio tucidideo-pericleo (nonché la novità molto significativa della diffusione dell’opera tucididea ‘completata’ da Senofonte); altrettanto chiaro però è che deve esserci un nesso con l’exercitatio retorico-politica di Lisia inneggiante al rinnovato scontro Sparta-Atene che, questa volta, vede Atene non soccombente, come nel 404, ma riscattata, grazie a quella guerra, dalla sudditanza a Sparta. (Sembra forse meno probabile l’ipotesi contraria: che cioè Lisia abbia inteso reagire alla exercitatio del Menesseno). In ogni caso il fenomeno interessante è che si conservano gli epitafi fittizi, non quelli realmente pronunciati. E che nel caso della guerra corinzia – cioè della riscossa ateniese – a reagire ricorrendo alla forma-epitafio sono due intellettuali schierati in modo opposto: Platone e Lisia (non i politici professionali). Ricorrono entrambi allo strumento retorico tradizionale per eccellenza: l’uno credendoci, l’altro parodiandolo. L’occasione della guerra corinzia appare così in tutto il suo rilievo: perché il 394/393 (compresa la rinascita delle mura) è una vera svolta che inverte definitivamente la tendenza, e chiude il decennio spartano 404-394. Anche per Teopompo è quello l’anno epocale (le Elleniche giungevano appunto al 394). E anche Isocrate è nel 392 che si mette a lavorare al Panegirico: che è una prosa tutta volta a significare la riscossa 15 Non è escluso che Lisia avesse composto davvero un Erotikós (come del resto se ne attribuiva uno a Demostene). 16 Anche il caos cronologico dell’epitafio iperideo (su cui cfr. “QS” 73, 2011, 5-28) non può che avere analoga origine.

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anti-spartana oltre che a giustificare l’impero a suo tempo sconfitto (lo dice lo stesso Isocrate quando nell’Antidosis rievoca il Panegirico). Lisia (se è lui l’autore), preso dall’obiettivo politico fondamentale (la rivendicazione di Atene non più suddita della potenza antagonista) non arretra nemmeno dinanzi alle assurdità più evidenti: come quando parla bensì della rinascita delle mura – che presenta come opera degli Ateniesi (§ 62) mentre furono una realizzazione del denaro persiano! – e inveisce contro i ‘barbari’ Persiani (§ 59) che hanno instaurato ‘tirannidi’ dopo la ritirata di Agesilao dall’Asia! Testo dunque, questo epitafio ‘lisiaco’, di aperta deformazione patriottico-panellenica, che non esita nemmeno dinanzi alle manipolazioni più grossolane. È più un panegirico a forti tinte panelleniche che un mero epitafio, o meglio un pamphlet politico travestito da epitafio. Il ritratto di Lisia che viene fuori è quello di un meteco che interviene nella politica. Anche per l’Olympiakos si dovrebbe porre analoga domanda intorno ai vincoli che gli imponeva la sua posizione di meteco. Siamo autorizzati ad immaginare un Lisia che si precipita ad Olimpia per chiedere un’azione panellenica contro il tiranno di Siracusa? A rigore in Olimpia non ci sarebbe il problema dello status di meteco, ed un siciliano di origine può ben aver sollevato il problema ‘Siracusa’ al cospetto dei Greci radunati nella solenne circostanza. La domanda non può avere una risposta certa, perché non è chiaro il ruolo che Lisia ha svolto nei decenni in cui è vissuto ad Atene dopo la restaurazione del 403. Dovremmo fondarci su questi suoi interventi pubblicistico-politici per tentare di farcene un’idea: di qui l’importanza della discussione intorno alla loro autenticità.

4. Demostene [338 a.C.], Or. LX. Nel 338, all’indomani della sconfitta di Cheronea, proprio Demostene, lo sconfitto, viene incaricato della commemorazione ufficiale dei caduti, e parla in una situazione imbarazzante. Demostene celebra, in fondo, la propria sconfitta. Nella Corona difenderà con rabbioso orgoglio la giustezza delle sue scelte anche se avevano portato alla disfatta e addirittura proclama che rifarebbe le stesse scelte giurando «per i morti di Maratona». Nell’Epitafio c’è invece una fiacca e convenzionale commemorazione esaltatoria dei caduti nel disastro di Cheronea prodotto dalla sua politica. Nella Corona c’è un ampio svolgimento (§§ 285-290) sul grande successo politico che fu, per Demostene, nonostante la sconfitta sul campo di battaglia, il vedersi attribuire dall’assemblea popolare, e “confermare” dai parenti dei caduti, il compito non solo simbolicamente significativo di commemorare quei caduti. Demostene, nella Corona, sfrutta con molta determinazione quel

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riconoscimento della giustezza della sua politica. «Non affidarono quel compito – dice – né a te, Eschine, nonostante la tua bella voce, né a Demade, che aveva appena stipulato la pace col vincitore, né ad Egemone, ma a me» (§ 285). Ha perfettamente ragione perché quella scelta indicava la forte presa di Demostene anche in un momento particolarmente sfavorevole: era un segno chiaro della forza della sua parte politica. Un segno di peso almeno pari a quello lanciato da Ctesifonte con la proposta – contestata ma alla fine vincente – di attribuire a Demostene la «corona» che ne premiava l’intera carriera. Nella Corona Demostene si sofferma a lungo, e con toni da vincitore, sulle ragioni per cui il compito di commemorare i caduti non poteva essere affidato a gente che sotto la tenda di Filippo aveva brindato alla sconfitta di Atene e che si sarebbe poi con toni compunti e ipocriti presentata ad Atene a celebrare i caduti (§ 287). Ricorda anche, e con compiacimento, la manifestazione di affetto popolare nei suoi confronti nella fase finale della cerimonia (§ 288: koinh`/ nessuno più di lui era più stretto congiunto dei caduti, e perciò i parenti si recarono presso la sua casa a conclusione del rito). Quindi legge e commenta il lungo epitafio iscritto sulla loro sepoltura (§§ 289-290), dove campeggia il concetto che «solo agli dei è dato non sbagliare mai, mentre agli uomini non è dato sfuggire alla Moira». Orbene non può sfuggire che questo concetto, piattamente amplificato, occupa la parte centrale dell’epitafio attribuito a Demostene (LX 19-24) con il corollario – alquanto improbabile in un discorso di questo genere – dell’accusa ai Tebani di essere stati semmai loro i responsabili della sconfitta (§ 22). Questi due elementi, l’ampio spazio che Demostene riserva nella Corona al compito affidatogli dagli Ateniesi di celebrare i caduti di Cheronea ed il testo, adeguatamente commentato, dell’epigrafe in memoria di quei caduti, presenti entrambi nella Corona, cioè nella più celebre e celebrata orazione demostenica, erano stimolo più che sufficiente, perché qualcuno «creasse» l’epitafio demostenico17. Allo stesso modo Anassimene, nel VII libro delle Storie filippiche, aveva creato il discorso demostenico della dichiarazione di guerra, poi confluito nel corpus demostenico (dove già Didimo in età augustea lo leggeva) come XI Filippica18. Il drastico giudizio di Dionigi19 (epitafio «grossolano, vuoto e puerile») non è elemento trascurabile20. Non è saggio liquidarlo come giudizio «based on his 17 La Corona (e il Contro Ctesifonte di Eschine) campeggiavano nelle scuole di retorica: lì nacquero forse i “documenti falsi”. Cicerone tradusse i due discorsi e vi premise il De optimo genere oratorum. Ma l’origine di D. LX può anche essere storiografica. 18 Didimo, Commento a Demostene, col. XI. 19 Su Demostene 44,3. 20 Esso appare condiviso da Arpocrazione (voci Aijgei`dai, Kekropiv"); Libanio, Sulle parti della retorica 6; Fozio, Bibl. 265 etc.

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impression of the text itself»21, tanto più che Dionigi rinvia ad una sua ulteriore specifica trattazione (ta;" peri; touvtwn ajpodeivxei" oujc ou|to" oJ kairo;" levgein) che avrà arricchito la dimostrazione di altri elementi. Sta di fatto che poco dopo l’inizio di questo epitafio campeggia un errore che difficilmente potrebbe imputarsi a Demostene. Quando l’oratore, seguendo disciplinatamente le tappe dell’antica gloria militare ateniese (Amazzoni, Eraclidi, Sette a Tebe!), giunge a inneggiare alle guerre persiane, sfodera una affermazione insostenibile: che cioè si accinge a parlare di vicende, le guerre persiane appunto, per le quali – diversamente che per quelle nominate prima – «non si è formata nessuna tradizione epica» (§ 9). Le parole che l’oratore adopera sono chiare: ou[pw memuqolovghtai, oujd∆ eij" th;n hJrwiükh;n ejpanh`ktai tavxin («Have not yet found their way into poetry or even been exalted to epic rank»)22. Hieronymus Wolf annotava: «nondum a poetis celebrata sunt: quamquam inter Aeschyli tragoedias est quae Pevrsai inscribitur». Gottfried H. Schaefer: «Vertendum nondum induta sunt ornatu mythico, nondum traxerunt ornatum mythicum» (Apparatus ad Demosthenem, VIII, 1827, 609). La nota di Schaefer, che parla chiaramente di un ingenuo «sophista» come autore di questo pensiero, fu riprodotta anche da W. Dindorf nella sua grande edizione demostenica commentata (VII, Oxford 1849, 1406). È evidente che lo scrivente vuol dire che non si è formata ancora sulle guerre persiane una tradizione poetica di carattere epico (hJrwiükh; tavxi"): ciò è tanto più sicuro in quanto subito prima ha osservato che su Amazzonomachia, Eraclidi e Sette a Tebe c’è produzione epica e poetica e anche un gran numero di opere in prosa. È dunque altrettanto chiaro che lo scrivente non solo ignora l’epos di Cherilo sulle guerre persiane ma ignora anche la assunzione, da parte ateniese, dell’epos di Cherilo sulla vittoria contro Serse tra i poemi da recitare alle Panatenee su;n toi`" O J mhvrou (Suidas, s.v. Coirivlo")23. È difficile che il vero Demostene non fosse al corrente di tutto ciò. C’è poi il singolare fenomeno delle coincidenze concettuali e verbali di questo epitafio con il Menesseno platonico (237) – cioè con un testo parodico! – nonché la ripresa da Isocrate del raffronto con i dieci anni di guerra impegnati a suo tempo per conquistare la sola città di Troia (D. LX 13 = Isocr. Paneg. 23) ed altri ancora24. Cavarsela dicendo che se avessimo «la totalité des discours prononcés» (ma gli antichi avevano solo questi cinque!) siffatta «écholalie» sarebbe «vertigineuse»25 è semplicistico. Insomma questo epitafio – forse prodotto di scuola retorica meno probabilmente di provenienza storiografica – appare sotto ogni rispetto indifendibile. 21 22 23 24 25

D.M. MACDOWELL, Demosthenes the Orator, Oxford 2009, 377. È la traduzione dei due De Witt per la «Loeb Library» (VII, 1949, 13). G. KINKEL, Epicorum Graecorum Fragmenta, I, 265. Che segnaleremo più oltre. N. LORAUX, L’invention d’Athènes, Paris - Lattaye, 1981, 255.

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Ma forse, proprio per questo epitafio bisognerebbe partire da una domanda ancor più basilare, tanto più necessaria se si considera che epitafi veri già gli antichi non li avevano più. La domanda è: il testo che ci è giunto in coda al corpus demostenico (o per meglio dire solo in una parte di esso)26 dobbiamo considerarlo «plaidoirie réelle» o «plaidoyer écrit» per usare la ben nota terminologia di Jules Humbert (1925)? Si tratta insomma del discorso reale o della sua forma rielaborata? Partiamo dalla prima eventualità, che, cioè, ciò che leggiamo in Demostene LX sia verbatim il puro e semplice testo allestito per la recitazione. (In tal caso dovremmo esultare: avremmo, in stesura scritta sopravvissuta sino a noi, un discorso reale e non riscritto après coup: unico caso certo in tutto il corpus demostenico). Ma allora sorgerebbero due domande: (a) aveva davvero Demostene necessità di prepararlo per iscritto un discorso del genere, sebbene in fondo non abbia fatto altro che attenersi – con le necessarie varianti specifiche – ad un rigido schema tradizionale e ad una collaudata serie di topoi? (b) perché mai non lo rielaborò pur essendo consapevole (cfr. Corona 285-288) dell’importanza politicamente grandissima dell’aver potuto pronunciare proprio lui quel discorso? Ha ben ritenuto necessario rielaborare e diffondere la Corona. Mettiamo dunque alla prova l’altra eventualità: Demostene rielaborò quanto aveva detto nell’epitafio realmente pronunciato. E, ciò nonostante, mise insieme un prodotto così gramo?27 Non è dunque per niente facile – da nessun punto di vista – difendere la demostenicità di questo epitafio. E comprendiamo la delusione dell’autore del Sublime, il quale giunse a concludere che Demostene, nell’oratoria epidittica, non era proprio capace (cap. 34)28. Non molto lontano dalla valutazione di Dionigi. In realtà, fatta eccezione per qualche sussulto novecentesco, il dubbio intorno a questo modesto prodotto è stato generalizzato e continuo. Chi pensò di dirimere la questione con brevi e risolutive osservazioni fu Paul Maas29: ma anche in questo caso, come nella ben nota sua dedizione al fantasmatico “Cratippo”, la dimostrazione, che si pretendeva geometrica e conclusiva, è fallita. Qualcosa va detto a proposito del tentativo di Maas. L’autenticità di D. LX dovrebbe risultare dall’accostamento con passi della Leocratea di Licurgo: ma nessuno di quegli accostamenti è cogente ed anzi in molti casi ciascuno dei due testi che Maas accosta può essere, ben più efficacemente, 26 Cioè nel corpus tardo antico rispecchiato dal Marc. gr. 416; l’epitafio manca invece nell’Ambrosiano 112 (D), in A (Monac. gr. 485) e manca nelle Hypotheseis libaniane. Mi chiedo se figurasse nel corpus demostenico noto a Didimo. 27 Oltre tutto non gli era ignoto, data la sua assidua frequentazione del testo tucidideo, il grande modello “pericleo”! 28 Così come gli sembrava “iperepidittico” quello attribuito a Iperide. 29 “Hermes” 63 (1928), 258-260.

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accostato ad altri epitafi (a Lisia e a Iperide)30. Il che vanifica la dimostrazione. Presentiamo qui alcune osservazioni analitiche sui deboli paralleli proposti da Maas: Lycurg. adv. Leocr. 48-50

Demosth. LX

(48) w{sper ga;r pro;" tou;" fuvsei gennhvsanta" kai; tou;" poihtou;" tw`n patevrwn oujc oJmoivw" e[cousin a{pante" tai`" eujnoivai", ou{tw kai; pro;" ta;" cwvra" ta;" mh; fuvsei proshkouvsa", ajll∆ u{steron ejpikthvtou" genomevna" katadeevsteron diavkeintai …

(4) … movnoi ga;r pavntwn ajnqrwvpwn ejx h|sper e[fusan tauvthn w/k[ hsan … w{ste dikaivw" a[n ti" uJpolavboi tou;" me;n ejphvluda" ejlqovnta" eij" ta;" povlei" … oJmoivou" ei\nai toi`" eijspoihtoi`" tw`n paivdwn, touvtou" de; gnhsivou" govnw/ th`" patrivdo" polivta" ei\nai.

(49) eij de; dei` kai; paradoxovtaton me;n eijpei`n, ajlhqe;" dev31, ejkei`noi nikw`nte" ajpevqanon: a} ga;r a\qla tou' polevmou toi`" ajgaqoi`" ajndravsin ejstivn, ejleuqeriva kai; ajrethv, tau`ta ajmfovtera32 toi`" teleuthvsasin uJpavrcei. e[peita d∆ oujd∆ oi|onv t∆ ejsti;n eijpei`n hJtth`sqai tou;" tai`" dianoivai" mh; pthvxanta" to;n tw`n ejpiovntwn fovbon: movnou" ga;r tou;" ejn toi`" polevmoi" kalw`" ajpoqnhv-/ skonta" oujd∆ a]n ei|" hJtth`sqai dikaivw" fhvseie: th;n ga;r douleivan feuvgonte" eujklea` qavnaton aiJrou`ntai.

(19) … oujk a]n ojknhvsaimi d∆ eijpei`n o{ti moi dokou`sin oiJ teleutw`nte" eJkatevrwn ejn tavxei th`" me;n h{tth" ouj metevcein, nika`n d∆ oJmoivw" ajmfovteroi. to; me;n ga;r kratei`n ejn toi`" zw`sin, wJ" a]n oJ daivmwn paradw/`, krivnetai: o} d∆ eij" tou`to e{kaston e[dei parascevsqai, pa`" oJ mevnwn pepoivhken: eij de; qnhto;" w]n th;n eiJmarmevnhn e[sce, th/` tuvch/ pevponqe to; sumbai`non, oujci; th;n yuch;n h{tthtai tw`n ejnantivwn33.

(50) ejdhvlwse d∆ hJ touvtwn tw`n ajndrw`n ajreth; movnoi ga;r tw`n aJpavntwn th;n th`" E J llavdo" ejleuqerivan ejn toi`" eJautw`n swvmasin ei\con.

(23) … o} d∆ a{pasin oJmoivw" toi`" ou\sin ajnqrwvpoi" gegevnhtai fanerovn, o{ti hJ pavsa th` " JEllavdo" a[ra ejleuqeriva ejn tai`" tw` nde tw` n ajndrw` n yucai`" diesw/vzeto: ejpeidh; gou`n hJ peprwmevnh touvtou" ajnei`len, oujdei;" ajntevsth tw`n loipw`n.

30

Maas non sembra, in questo breve saggio, molto familiare con la ripetitività tipica degli epitafi. «Dem. Philipp. 3, 1 blavsfhmon me;n eijpei`n, ajlhqe;" dev. 3, 5 paravdoxon me;n i[sw" ejsti;n o} mevllw levgein, ajlhqe;" dev. Dem. 24 (an das unten Ausgeschriebene… ajnhv/rhtai anschließend) megavlhn me;n ou\n i[sw" uJperbolh;n dovxomen levgein, rJhtevon d∆ o{mw", wirkungsvoll am Schluß des Abschnittes. Bei Lyk. ist der Abschluß höchst matt» (Maas). Ma anche Diceopoli Ach. parla così: è una tournure ovvia. 32 Non c’entra con ajmfovteroi, che si riferisce invece agli Ateniesi e agli avversari. 33 Un paradosso simile in Iperide, Epitaph. 27-28 (proprio perché morti sono nati!). 31

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Luciano Canfora Lycurg. adv. Leocr. 48-50

Demosth. LX

a{ma ga;r ou|toiv te to;n bivon methvllaxan, kai; ta; th`" E J llavdo" eij" douleivan metevpesen: sunetavfh ga;r toi`" touvtwn swvmasin hJ tw` n a[llwn ejleuqeriva34.

(24) a{ma ga;r tav te touvtwn pneuvmata ajphllavgh tw`n oijkeivwn swmavtwn, kai; to; th``" JEllavdo" ajxivwma ajnh/vrhtai … ejn skovtei kai; pollh/` duskleiva/ pa`" oJ pro; tou` zh`lo" tw`n JEllhvnwn gevgonen36.

o{qen kai; fanero;n pa`sin ejpoivhsan oujk ijdiva/ polemou`nte", ajll∆ uJpe;r koinh`" ejleuqeriva" prokinduneuvonte".

(10 von den Athenern in den Perserkriegen) dia; tw`n ijdivwn kinduvnwn koinh`" swthriva" pa`si toi`" E { llhsin ai[tioi katevsthsan.

w{ste w\ a[ndre" oujk a]n ijscunqeivhn eijpw;n stevfanon th`" patrivdo" ei\nai ta;" ejkeivnwn yucav"35.

(23) kai; fqovno" me;n ajpeivh tou` lovgou, dokei` dev moiv ti" a]n eijpw;n wJ" hJ tw`nde tw`n ajndrw`n ajreth; th`" E J llavdo" h\n yuch; tajlhqe;" eijpei`n37.

Il caso di questo epitafio suggerisce alcune considerazioni di portata più generale. Proprio questo intrecciarsi e sovrapporsi di formule («écholalie vertigineuse» secondo l’espressione di Nicole Loraux) che trasmigrano dall’uno all’altro epitafio suggerisce un dubbio basilare a proposito di quel che ci è giunto sotto i grandi nomi di Demostene e di Iperide nella generale perdita (o meglio non conservazione ab origine) di tutto il resto della produzione di questo genere. Erano ingredienti usuali, montabili e smontabili in ogni circostanza (per la commemorazione dei caduti ateniesi di qualunque guerra): topoi uditi dal pubblico infinite volte; infiniti altri avevano parlato così. Non si vede perché proprio Demostene e Iperide, e loro soltanto, avrebbero sentito il bisogno di dare forma scritta e circolazione durevole a dei prodotti ‘montati’ con banali «pezzi» di abituale consumo.

34 35 36 37

È, semmai, uguale a Lisia 2,60. Cfr. Iperide, Epitaph. 19. Somiglia a Iperide, Epitaph. 23. Cfr. Tucidide II 41.

IS THERE PANEGYRIC IN CLASSICAL GREEK ART? ROBIN OSBORNE

If we think to praise someone we will normally do so in words. We may thank someone with a gift, but we expect praise not simply to register something about the disposition of the giver of praise towards the object of praise, but to convey some information about the object of praise. Images do indeed convey information, but can images convey praise? In this paper I briefly outline some of the variables which determine whether an act counts as an act of praise, and I then explore the circumstances in which ancient art managed acts of praise. I argue that praise is possible in art only within a highly structured context, and that such stable contexts are absent from classical Greek art.

The Structures of Praise Three parties are involved in any act of praise: the one praised, the one praising, and the audience of the praise1. Whether a given representation counts as praise will be affected by the nature of these three parties. It will also be affected by the nature of the occasion. A description which would count as high praise to a student taking part in her first dramatic production might be no praise at all to a professional actor. An audience of proud parents will hear as praise what an audience of drama critics would not regard as praise at all; Aristotle observed (Rhetoric 1415b27-29, tr. Rhys Roberts) that ‘In speeches of display we must make the hearer feel that the eulogy includes either himself or his family or his way of life or something or other of the kind’. To praise requires being able to occupy a position from which what is said will be heard as praise. If an academic goes into a high school and gives a 1 This paper would not have been conceived but for the kind invitation of the Fondazione Canussio to the Convegno ‘Dicere Laudes: Elogio, Comunicazione, Creazione del Consenso’ in Cividale del Friuli in September 2010, and it would not have taken the form that it does but for the stimulation of the other papers and the discussion on that occasion. I am grateful to Gianpaolo Urso for his organisation of the occasion, to all who took part in the conference, and to Ben Keim and Caroline Vout for comments on earlier drafts.

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talk, and a fifteen-year-old comes up privately afterwards and says ‘You are wonderful, you know even more than I do’, this will not be received as praise but as inappropriately pretentious. If the same student, however, stands up at the end of the talk and, on behalf of the school, thanks the academic, drawing attention to the fact that his knowledge surpasses what the school can otherwise command, that academic will receive this graciously as praise. In the first case the student spoke only with his own insignificant authority, in the latter he assumed the authority, and the collective expertise, of the whole listening audience. Private praise is possible, but only in circumstances where the giver of praise commands a certain power in relation to the person to whom the praise is given. The giver of praise in these circumstances carries with him or her those over whom he or she has power – the words of praise may in fact be given privately, but the fiction is created that there is a third party acceding to the praise. Those who are effectively powerless cannot praise the powerful privately, for they not only carry no implicit wider public with them, they also have no alternative. They can, however, praise the powerful publicly, since speaking in front of others enables them to assume the support of their audience, and the larger the audience or the more what that audience thinks matters, the greater their (potential) power. If representations can be perceived as praise only in some circumstances and from some sources, source and circumstances are not enough to turn a representation into praise. To be perceived as praise, representations must also take a particular form. The tropes of praise depend upon selection. Only select qualities of the object of praise are described: praise is for virtue, according to Aristotle (Rhetoric 1366a23-24), and the Aristotelian virtues are ‘justice, courage, temperance, magnificence, magnanimity, liberality, gentleness, prudence, wisdom’ (Rhetoric 1366b1-3). More calculatingly, praise is for what is esteemed: ‘Everything, in fact, that is esteemed [to timion] we are to represent as fine [to kalon]. After all, people regard the two things as much the same’ (Rhetoric 1367b11-12, based on Rhys Roberts’ rather wordy version). Only some of the descriptors that might possibly be applied to a particular person, object, or circumstance are employed: as Aristotle puts it (Rhetoric 1367a35) ‘the stupid man is an honest fellow’ (tr. Rhys Roberts). The later teacher of rhetoric Aristides (Ars Rhetorica 161(1 505 Sp.), using the Greek terms auxesis, paraleipsis, parabole, and euphemia), detailed that the way to do this was to exaggerate the meritorious features, suppress the undesirable ones, make favourable contrasts with other things, and turn unpleasant into pleasant facts. The objects of praise are, again following Aristotle, for preference, both singular (‘only this man has…’ to paraphrase Rhetoric 1368a10-13), and de-

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liberately chosen by the object of praise (‘look at what this man does, and you will see that he does not act at random, but regularly selects what is best…’ to paraphrase Rhetoric 1367b21-27). Praise is appropriate neither for qualities that are generally shared (one does not praise a man for having two legs or for the fact that he is alive, nor an adult for having more knowledge than a child), nor for qualities that are merely given by nature – though one certainly praises those who enhance qualities endowed by nature (athletes who improve their performance by training, individuals who enhance their beauty by the taste they display in their clothes or jewellery or the way they have their hair styled)2. Whether an audience hears a representation as praise is a complex question. Aristotle claims that ‘as Socrates used to say, it is not difficult to praise the Athenians to an Athenian audience’ (Rhetoric 1367b8-9), but that claim, derived from the beginning of the Menexenus, massively simplifies the situation. Socrates makes his claim in the face of precisely the contrary claim, that delivering the Funeral Oration at Athens is difficult. Why the debate? Funeral Orations at Athens presumably started off as praise of the particular contingent of men who had died in the year that was being commemorated. The Athenian Council chose an orator to praise a group of dead Athenian citizens in front of the Athenian citizen body as a whole. The speaker on such an occasion could expect to carry his audience with him as he lavished praise on the war dead. They had, after all, voluntarily fought for Athens and given up their lives – a choice that none of those who heard the oration had made. But once the Funeral Oration changed from being praise of a select group of Athenians who had died in battle, and became praise of the city, the task became very much more difficult. The problem of the Funeral Oration can be put like this: how could an individual, whose authority for speaking derived only from the choice of (a representative body of) citizens, turn round and praise those citizens? For this not to be self-praise would depend upon the chosen individual claiming some special authority – a claim that Athenian democracy was precisely required to deny. Pericles gets round this problem by effectively turning the tables to make the dead praise the city: the Athens which is worthy of praise is the (imaginary) Athens for which these select citizens died. Lysias could take on the role of giver of a funeral oration (whether or not historically delivered) because he was no citizen, but a metic; he spoke with the authority of the world outside Athens. Socrates, to support his case that such praise is easy, quotes a funeral oration that he ascribes to Aspasia – not merely a non-Athenian, and 2 I shall return below to the way in which praise of beauty selects parts of the body for praise rather than praising the whole.

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a woman, but a voice from the past who borrows the authority of Pericles3. Despite Aristotle’s claim, the correct conclusion to draw from the Menexenus is not that it is easy to praise Athens to Athenians, but that it is easy for a non-Athenian to praise Athens to Athenians. When Quintilian quotes this passage of Aristotle he goes on to note that since praise is selected for a particular audience ‘there will be no doubt about their judgement, because it will have preceded the speech’ (Quintilian 3,7,23). But if the agreement of the audience can be taken for granted, they still have to have someone to agree with. There needs to be a triangulation: the audience of praise, the giver of praise and the object of praise need to be conceptually distinct parties. Praise given by someone who can claim independent authority reinforces the audience in their opinions, and the opinions of the audience then reinforce the praise: as Aristotle rightly remarks ‘The ways in which to make them trust the goodness of other people are also the ways in which to make them trust our own’ (Rhetoric 1366a27-28). Praise demands the creation of a compact between the giver of the praise and those who hear the praise, and the denial of a compact between the giver of praise and the person praised. Audience and speaker are complicit: those who hear know that praise must take this form, and delight in familiar tropes being employed about unlikely objects or in likely objects being praised in unexpected terms; those who speak know that they are bound to say certain things, and devote their energy to giving the impression that they are free to speak differently. The skill of the person giving praise comes from giving the impression both of knowing the rules and of not being constrained by them. Where there is no compact between speaker and audience, words of praise may be differently perceived by different listeners. At least part of the issue in the reception of Cicero’s Pro Marcello lies in Cicero’s speaking to a body of people whose opinions were divided: how can simple praise be given where different listeners possess different, and violently opposed, values? Arguably only if praise is bestowed on the one quality which demands complicity from both sides – clementia4. What the audience expects, and how the speaker’s words are heard, are affected by what is known of the object of praise and by what is known of the speaker. Isokrates notes, in the first part of his Encomium on Helen (10,13, 3 As to the other two surviving Athenian Funeral Orations, Hypereides turns his oration into a praise of the general who was in command, and Demosthenes’ speech has a good chance of being a school exercise, that is what a later generation would think it appropriate to utter in these circumstances to the earlier generation of Athenians. (See further CANFORA, this volume, whose remarks have prompted the reflections offered here). 4 See further CONNOLLY, this volume. It is not by chance that clemency turns out to be so important a topic of discussion in a volume devoted to the giving of praise.

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tr. Norlin), that ‘while on famous subjects [subject that have doxa] one rarely finds thoughts which no one has previously uttered, yet on trifling and insignificant topics whatever the speaker may chance to say is entirely original’. When Pliny (Letters 2,1,6) praises Tacitus as ‘the most eloquent man to give praise’ (laudatus est a consule Cornelio Tacito; nam hic supremus felicitati eius cumulus accessit, laudator eloquentissimus) that eloquence surely stemmed from the knowledge of the audience that Tacitus was the man readiest to voice blame. No surprise then, that from as early as we have speeches of praise we have speeches that draw attention to the means by which praise is conveyed – as in Gorgias’ Encomium of Helen or Plato’s Menexenus.

Praise and the visual arts Can paintings or sculptures take the place of written or spoken words of praise? Can sculptors and painters persuade people to think well of persons and things by the images they create? To do so, the images need to be able to represent virtue and to be able to represent virtue as the deliberate choice of the person or persons praised. They also need to persuade the viewer that in so representing persons and their actions the artist possesses independent authority, or operates as the agent of some independent authority. Visual artists have no problem in picking out virtuous actions, for in what they depict they necessarily select and are free to select for virtue. But, more even than words, images depend for their significance upon comparison with other images. And whereas the undesirable stands out in contrast to the rest of the world, the desirable is that to which the world aspires. If the technology of air-brushing is new, the phenomenon goes back to the earliest figurative art. Exaggeration of meritorious features, suppression of undesirable ones, favourable contrasts, these are the graphic artist’s techniques, not just the wordsmith’s. But in art these are techniques that emphasise the typical, rather than the exceptional. Not for nothing are artists who represent the beautiful made to claim that they have selected and combined features from a whole range of beautiful individuals5. One difference between the artists in words and the artist in images is that while a writer or speaker makes a person present by conjuring up their actions and so the qualities implicit in them, the visual artist can only conjure up qualities on the basis of their visible appearance. When I am ‘economical with the truth’ in describing a person’s past actions, or generous with the truth in imputing to them virtues, my description will have no trouble insist5

A story first in Cicero De Inventione 2,1. For the long afterlife of this story see MANSFIELD 2007.

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ing that the good qualities are the manifestation of a good character. When the painter or sculptor makes a person or group more handsome by omission or enhancement of features, he may be understood simply to be making them more handsome, bestowing praise less on the individual depicted than on Mother Nature. More importantly, it is not the recital of past deeds which constitutes praise of a person, but the claim that those deeds were a matter of choice and their recital under the sign of virtue. The deliberate choice of Captain Oates on Captain Scott’s Antarctic expedition to leave the tent (‘I may be some time’), and the claim that this action constituted courage, is what turns the account of Oates’ action into a laudation of Oates. But in providing an account of a person’s physical features, and artist is not including them under any sign. No amount of representation of gangrened feet, whether economical or generous with the truth, will itself create praise of the polar explorers – not, at least, outside the context of a monument to a polar expedition. The painter or sculptor needs a context in order to turn selective description into a display of virtue, for it is only in the right context that the painter or sculptor can make his viewer complicit. The complicity of audience to speaker is complicity to judge this or that action a sign of this or that virtue6. It is easy for someone standing outside the Athenian citizen body to praise the Athenians at Athens in the Funeral Oration because, on that defined occasion, the qualities that the audience esteems are known, and because the individual Athenians there praised have shaped their actions to acquire the esteem of observers with those values. Only some painted or sculpted monuments can be reckoned to have carried similar contextual expectations. One might reckon that the statues of the Tyrannicides carried such expectations, but they did so because not only had this act of supposed tyrant-slaying been itself honoured, but tyrant-slaying in general was something that the Athenians repeatedly enjoined upon citizens. With few other monuments can we reckon viewers to have had constant and consistent values. Making clear what people have done is not the same as making clear the qualities they displayed in doing it. Complicity comes in the judgement of quality, not the judgement of fact. As Quintilian put it ‘While therefore I do not agree that this encomiastic type of oratory is exclusively concerned with what is honourable, I do agree that it is generally within the Issue of Quality’ (3,7,28, tr. Russell)7. 6 For a particularly complicated, and revealing, area of complicity at Rome see LEVENE 1997 on the treatment of religious motifs in Roman panegyric. 7 This point is well brought out by Pacatus (Panegyrici Latini 11 (12) 44,4-5): sed utcumque uirtutis tuae opera curiosae posteritatis oculis artificum manus reddet, cum te uel Alpium dorsa superantem uel flumina obiecta tranantem uel agmen hostile triumphalibus uestigiis atterentem pictorum atque fictorum adsequetur imitatio, clementia, imperator, tua quo caelo, quo pigmento, quo aere auroue ducetur? (But

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Classical art and praise In the remainder of this paper I want to explore the circumstances in which the context of viewing is or is not sufficiently constraining to allow the artist to produce panegyric. For there are some circumstances in which a painter or sculptor can show a person not merely doing something, but doing something in a virtuous way. One way to do this is to take advantage of the established conventions observed by orators. Mario Torelli (1997) is able to read the Arch of Trajan at Beneventum as a panegyric because the episodes shown on the arch can be identified with the episodes celebrated in Pliny’s Panegyricus. Contemporary viewers, familiar with the structures of conventional praise, could map the scenes on the arch against the commonplaces of imperial encomium. But that arch also exploits a visual heritage. To quote Torelli, ‘The encomiastic discourse of the arch appears to be carried out by the elaborate metamorphosis of an idéologie imagée, created centuries before for the “historical” reliefs representing political status and political functions’8. The course and structures of political virtue were long-established and firmly in place at Rome, and just as this peculiarly enabled emperors to inhabit them, so too it peculiarly enabled sculptors to give these imperial virtues visible form. The existence of visual conventions enables description to become redescription under the sign of praise. Within the Greek world the only topic of praise at all comparable to the emperor celebrated in the Latin Panegyrics is the city of Athens invented in the funeral oration. It is precisely because in such orations one does not find ‘thoughts which no one has previously uttered’, to quote again Isokrates’ phrase, that they provide a framework to which sculptors (or painters) might refer. But do they do so? Both Jerome Pollitt and Henning Wrede have suggested that the frieze of the Parthenon provides just such a visual equivalent of the Funeral Oration9. Their case goes like this. In the cavalcade we can discover the Athenian citizen body laid out according to its civic divisions, the tribal units distinguished10. Although there is no allusion here to specific events of past history, such as are discussed in every extant Funeral Oration bar the Thucydidean one, there is allusion not merely to the civic structure but to the tribes whose particular conhowever the hand of visual artists present the achievements of your virtue to a curious posterity, whether your likeness by the painter or the sculptor follows you as you overcome the ridge of the Alps, or swim across rivers in your path, or wear down a hostile army with triumphant footsteps, emperor, with what chisel, what pigment, what bronze of gold will they bring out your clemency?) 8 TORELLI 1997, 169. 9 What follows is not exactly as set out by POLLITT 1997 or WREDE 2008 but follows the spirit of their arguments. 10 So most fully JENKINS 2005.

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tributions to Athenian history Demosthenes was at pains to detail in his Funeral Oration (60,27-31) (fig. 1). In the chariots and apobatai we see something of the training and education of the Athenians regularly stressed in funeral orations, something of the competitive glories of festival games to which Perikles is made directly to allude (Thucydides 2,38,1), and something of the ‘obedience to the magistrates and the laws’ (Thuc. 2,38,3). In the players of the kithara and the aulos and the elderly officials more of the executive structure of the democracy is displayed, allowing the eyes of the audience of the Funeral Oration to imagine here both the ‘ordinary citizens’ who ‘are fair judges of public matters’ (Thuc. 2,40,2), and those whose ‘advancement in public life falls to reputation for capacity’ (Thuc. 2,37,1), and in the particular roles shown up by the red cloaks of the metic tray-bearers we see Athens the host to the rest of the Greek world. All contribute to the Athens that is a city of festivals and sacrifice, but also ready for war, rehearsed by Thucydides’ Perikles (2,38,1; 2,39,1).

Fig. 1 – Cavalry arrayed in tribal groups on the south frieze of the Parthenon. American School of Classical Studies at Athens, Archives, Alison Frantz Photographic Collection.

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How easy it is to see the Parthenon Frieze as a panegyric depends upon what tense one thinks it is written in. The Arch of Trajan at Beneventum can be easily read as a panegyric not least because it is in the past tense. Trajan’s Arch includes a frieze showing a Roman triumph, and includes displays of barbarian captives11. Victories and their celebration are necessarily hyperbolic occasions and cannot but mark out the victor, whether city or emperor, as special. But is Parthenon frieze also in the past tense? Answering this question depends crucially on what one takes the overall programme of the Parthenon sculptures to be. The claim that is conventionally repeated is that the sculptures of the Parthenon, like the enterprise of building the Parthenon as a whole, were designed to celebrate Athens’ victory over the Persians12. The one substantial ancient discussion of the building of the Parthenon, in Plutarch’s Life of Perikles (esp. chs. 12 and 17), does not in fact talk in these terms, but rather conceives the Parthenon as a project designed to magnify Athens13. There is no doubt that Athens’ ability to be all-victorious is on display in the Parthenon, not least in the image of Athena with Victory standing on her hand, but by 447 Athens had been in conflict with other Greek states for more than a decade, and in historical terms it is not obvious that at this moment the particular relationship to Persia should be privileged. The desire to see the Parthenon as a monument to victory over Persia depends upon a particular reading of the sculptures of the metopes and of the reprise of a number of similar themes on the cult statue of Athena Parthenos. On this reading the conflict with the Amazons, in the west metopes, with the centaurs, in the south metopes, with the giants, in the east metopes and the sack of Troy in the north metopes should all be read as analogies for the conflict between Athenians and Persians. That all four sides of the Parthenon showed scenes of conflict is undeniable, but the way in which they were shown, as well as the political situation at Athens when they were sculpted, makes mapping these scenes onto conflict with Persia to celebrate Athenian victory very problematic. It is not simply that the choice seems to have been made to represent the Amazons in normal hoplite costume, rather than as Persian look-alikes, even though the latter option was available. It is also that the scenes of the sack of Troy focus not on glorious victory but on scenes of the Trojans fleeing the city or seeking refuge at a cult image (figs. 2 and 3). Even on the south side, where conflict with centaurs might be taken to be generic, there was a set of metopes in the centre whose subject, though en11 12 13

Cf. BEARD 2007, 46-47; 125-128. This claim is worked out in most detail by CASTRIOTA 1992. Cf. POWELL 1995; STADTER 1989 ad locc.

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igmatic, seems to offer no analogies with conflict with Persia. On all sides bar the east, issues of conflict between men and women seem to have bulked large, in a way that they do not in any account of the conflict with Persia. Any claim that what we see on the Parthenon is a rehearsal of victory of Persia ignores the detail of the sculptural programme completely14. If the metopes do not engage in particular with the Athenian conflict with Persia, then the motivation for seeing the frieze as the representation of a procession at some particular point in the past is much reduced. In terms of the scenes shown on the frieze, the only visual motivation for taking the representation to be in the past tense is the absence from the representation of certain features which our textual sources indicate were present in the real Panathenaia15. But unless one thinks that Athenians approached the frieze with a check-list, it is hard to think that they would have found the absences so anomalous as to undermine their identification of the scene, let alone enough to drive them to identify it as historic. The particular suggestion that the number of figures shown in the procession would lead to an identification of these Athenians with the Athenians who died at Marathon requires a manner of viewing that it is hard to credit16.

Fig. 2 - 3 – Helen and another woman taking refuge at the statue of Athena when approached by Menelaos and a companion: Parthenon north metopes 24 and 25. Photograph: Hellner. DAI Athens, Neg. Akropolis 2292 and 2308. All rights reserved. 14 15 16

I discuss these issues more fully in OSBORNE 1994a; OSBORNE 1994b. See BOARDMAN 1984. BOARDMAN 1977.

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Cavalcades and religious processions are particular past events, but they are also ritual events whose power comes precisely from their recurrence. Unless there are positive indications that we are dealing with a particular occasion, any representation of a procession will have a certain timelessness, pointing back to past events, forward to future events and reflecting also on current events. To represent a procession, as in the representation of family processions on votive reliefs, is to make ever present the act of worship that the procession constitutes. Although such a representation does not capture a unique occasion, that does not mean that it brings out nothing unique. The enigmatic central scene at the culmination of the processions on the east frieze, whatever we take the precise allusion of that scene to be, was surely unique enough to determine recognition. But the uniqueness upon which Athenian Funeral Orations insist is not a matter of particular unique actions but of unique patterns of life. The Funeral Oration stresses qualities that are not visible as what marks Athens out: ‘In short, I say that as a city we are the school of Hellas; while I doubt if the world can produce a man, who where he has only himself to depend upon, is equal to so many emergencies, and graced by so happy a versatility as the Athenian’ (Thuc. 2,41,1, tr. Crawley). We inevitably read the Parthenon frieze as descriptive of Athens in particular, descriptive indeed of the admirable festive display at Athens upon which the Funeral Oration also insists, but is admiration enough to turn admiration of Athens into panegyric? Torelli notes that in the Arch of Trajan at Beneventum there is a historical development of events, leading spatially from the borders of empire to its heart and temporally from the beginnings of Trajan’s reign to his apotheosis17. If we look for such development of events in the Parthenon frieze we can indeed find one – not here in terms of historic allusions nor the mapping of the world, but in terms of the processions that culminate at the east door. Where the Parthenon frieze overlaps with the discourse of the Funeral Oration is in the treatment in the Oration of Athenian relations with the gods. What the various elements of the procession display is Athenian piety towards Athene. Simply by the context of their display these sculpted representations of Athene’s birth and interventions in the world constitute a panegyrical redescription of the goddess’s virtues. If this is a panegyric, it is a panegyric of Athene. Or, rather, one element of a panegyric of Athene, since the pediments, with the birth of Athene and her contest with Poseidon for Attica, the metopes, with their gigantomachy involving Athene, sack of Troy in which the statue of Athene is a place of refuge, amazonomachy which is probably set at Athens and the sculptures of the base and shield of the statue of Athene itself further contribute to 17

TORELLI 1997, 167.

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a hymn to Athene’s virtue. Quintilian (3,7,4) was prepared to recognise as an oratorical subject praise of Jupiter Capitolinus, noting that this proved that one could have panegyrics where no doubt was involved, but we might prefer to think of such praise as essentially constituting not so much a panegyric as a hymn. The context of a temple makes hymns of praise for a god possible, perhaps even inevitable. Scholars who have worried that it does not befit a temple to show a procession of contemporary human worshippers are correct at least to the extent that temple sculptures are no place for praise of the city. The Athenians did, of course, also display both sculpture and paintings in secular contexts. Beginning with the Tyrannicides and then increasingly from the early fourth century, statues of men to whom the Athenians had reason to be grateful were erected in the Agora. No doubt fulsome praise celebrated the award of such statues, but all that the inscriptions recording honour offer is a routine parade of cardinal virtues18. Isokrates’ Evagoras offers us a panegyric of a man who had indeed been awarded honours at Athens, but that comes no closer to the experience of the Assembly. Nevertheless the formulaic sequence in that speech of discussions of ancestry, followed by childhood and education, charmed life and achievements, and finally virtues, shows something of the importance of the generic framework for the audience appreciation of the man. Late in his treatment of Evagoras, Isocrates explicitly compares what can be done in words and what in art. Isokrates claims that praise in words is more valuable than praise in statues, since words can advertise to the whole world the virtues which others desire to emulate, whereas statues make known locally only the appearance of the body which others cannot emulate (Evagoras 73-75). Isokrates’ comments confirm that while the statues of the tyrannicides highlighted their action, fourth-century statues advertised appearance. We do not possess statues erected in the early fourth-century in Athens, but surviving portraits make it clear that artists used clothing and pose to characterise the honorand as soldier, orator, philosopher or tragedian, and otherwise explored the character of the individual only in their treatments of the head. Honorific statues were essentially pegs upon which the laudation was hung. They identified the individual by profession and by personal appearance, and in doing so they set up some expectations about the sort of person he was, but they said nothing further about the individual, either for praise or blame. They offered description, but not the redescription essential to the discourse of praise. When a set of honorific statues were viewed together comparison between them would yield some sense of individual qualities as well as generic ones, but while the context implied that it was for the way in which he dif18 On the editorial process in decrees see OSBORNE 1999. On the cardinal virtues celebrated see WHITEHEAD 1993.

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fered from others that a particular man was honoured, the narrow focus of this attention meant that even when seen en masse these statues fell well short of anything that could be called panegyric (figs. 4 and 5). Much the same might be said of the classical gravestone. Most commonly attached to a text still more reticent than the text of a decree, Athenian gravestones were a means by which families advertised to a wider world the deaths of their members. The grave reliefs indicated to that wider world the place that the deceased had characteristically occupied, by presenting them as athlete, soldier, matron, priest or priestess. Rarely do the stones venture a narrative: the individuals whose lives are commemorated are fitted into slots rather than given distinctive individual histories.

Fig. 4 - 5 – Portrait statues of the orators Demosthenes (Courtesy Ny Carlsberg Glyptotek 436a) and Aeschines (Schwanke, Neg. D-DAI-Rom 1985.0486); although carved two generations apart these statues draw attention by comparison to the different characters of the two orators.

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When a fuller narrative can be constructed, as with the famous monument of Dexileos (fig. 6), whose inscription uniquely tells us about the date of his birth as well as the circumstances of his death, it nevertheless remains the case that these details contribute to pathos rather than to personal praise. The visual presentation of the mounted warrior triumphing over a naked fallen figure magnifies the pathos: we see Dexileos at the same time in the triumphing cavalryman and in the fallen soldier, and the sympathy of the young cavalryman’s downcast gaze turns out to be an invitation to turn a downcast gaze of sympathy at the record of Dexileos’ own death. The circumstances of Dexileos’ death are here turned into the big event of his life – almost certainly for bigger political purposes19. The importance of emphasising his death precludes his monument celebrating his life. Here is a case where we do have emphasis on the unique circumstances, but used not to create the superlative picture of the deceased that praising him would require.

Fig. 6 – Grave relief of Dexileos. Courtesy of Hirmer Fotoarchiv, Munich. 19

RHODES - OSBORNE 2003, no. 5; cf. also OSBORNE 2010a.

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On doing without an art of praise We look in vain, I suggest, for panegyric in Greek art. And for good reason. Panegyric depends on superlative statements and superlative statements can only be established by apt comparisons. Such comparisons themselves require a framework of expectations to be established, and this happens most readily where there is a known and given pattern of achievements. The Roman triumph, and more generally the life of the Roman imperator, offered just such a circumstance. Within the Greek city, however, lives took all manner of forms, and such expectations as there were so broadly conceived as to preclude effective comparison. This is not an accident. Even outside the narrow range of democratic cities, the Greek city constructed itself as a city of peers. Few indeed were the occasions for singular praise of an individual; not by chance that our surviving prose laudations are for such oddities as a Spartan king and a Cypriot ruler. It was not the form of the statues of Demetrios Poliorketes that displayed Athenian flattery of him but their material and number. But it was flattery that those statues displayed, precisely because they revealed the honouring of a man without revealing that man as worthy of praise. Athenian writers and orators did celebrate the whole history of a city, and sculptors might have done had there been occasion to do so. But the resources of the Greek city were primarily devoted to the gods, and such glorification of the polity as there was through the glorification of the gods of the polity. Individual monuments celebrated particular great achievements, especially in battle, but, even such celebrations were tempered, as is emphasised by the story of the Athenians granting permission to Kimon to celebrate his victory at Eion with a monument only on the proviso that that monument carried no names and took the form of three herms. The visual form of that monument served to attract attention, and no one reading the accompanying texts could doubt that a peerless achievement was being celebrated, but it is the achievement that is flagged, not the contribution of those who achieved it, whether those responsible are conceived of narrowly as a particular set of soldiers or more generally as ‘the Athenians’. Encomia depend upon there being a gap in power between those offering the encomium and those receiving it. The powerful will praise a fly more readily than praise their peers. The powerless negotiate their position by praise of the powerful. But encomia and panegyrics alike depend upon a firm set of expectations around and against which those making the praise, and those to whom the praise is advertised, may understand that the great acts described are actually being redescribed as virtuous. Greek art developed various generic expectations, but only exceptionally did it develop any context within which painters or sculptors could redescribe individuals or groups in what

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would be recognised as superlative terms. The political necessity for the establishment of permanent praise came only with the enduring imbalances of power to be found in the Roman empire.

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FESTIVALS, CULTS, AND THE CONSTRUCTION OF CONSENSUS IN HELLENISTIC POETRY RICHARD HUNTER

The importance of festivals and public cult in the construction and reenforcement of social cohesion and political power in the Hellenistic age is a familiar fact of the history of the period. Very few Ptolemaic events, for example, have been as much studied from these perspectives as the ‘Grand Procession’ of Ptolemy II1. It is a similarly familiar fact about Hellenistic poetry that narratives and representations of song, of cult, and of festivals are (perhaps surprisingly) common. This is often (and rightly) associated with the fact of the greater spread of, and assumption of, reception through reading – to put it banally, the further poetry gets away from live enactment in performance, the more it scripts versions of such performances, as some kind of ‘compensation’ – and with changes in the nature of poetry itself (the separation of the music from the words, the fact that elite poets now wrote predominantly, though not of course exclusively, in hexameters and elegiacs etc). Other factors are, however, clearly involved also. Both representational art and the lyric texts themselves which had survived from the archaic and classical periods were suggestive of a past culture which was both very different from the conditions – social, political and literary – prevailing in the Hellenistic period, but also suggestive of striking continuities. As the rich epigraphic record attests, festivals and cultic performance of all kinds blossomed all over the Hellenistic world, and the support for festivals, and the buildings and temples associated with them, by rulers both great and small was a fact of life which, from the point of view of the great poets of the third century, must have seemed a vital part of the archaic and classical heritage which they sought to reconstruct. In this paper I cast a brief glance at two themes in Hellenistic poetry which are both related to this interest in festival and cult and also related to each other. One is how this interest manifests itself in the representation of a participating audience in the act of observing and being drawn into cult and song, and the other is cultic aetiologies, which are, of course, ubiquitous in Hellenistic poetry, but whose function and resonance are not always as straightforward as is sometimes made out. 1

Bibliography in HUNTER 2003, 2 n. 5.

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In one of Theocritus’ best known poems, Idyll 15, two women of relatively humble means have a day out to the Alexandrian palace to take part in the Adonis-festival staged by Queen Arsinoe and to listen to the singing of the ‘Adonis song’ by a solo performer2. The women are what we might call participant observers, not really so far removed in fact from the voices of Callimachus’ so-called mimetic hymns to Apollo, Athena and Demeter, and this is, as I have already observed, a position repeatedly dramatised and narrativised in Hellenistic poetry. Of course, this is hardly new. The famous description of the Delian festival in the Homeric Hymn to Apollo places both the poet and his audience in the position of spectators and admirers of the performers and also scripts the appropriate reaction: ‘anyone who was there when the Ionians gathered together would say that they were immortal and ageless’ (151-152), ‘everyone would say that he himself was speaking [when the Deliades imitate voices]’ (163-164). It is just such a reaction – an admiration for ‘lifelikeness’ – that the women of Theocritus 15 give us, but this time in mimetic form: ‘Look first at the tapestries, how fine and graceful they are! You will say that they are the garments of the gods’ (15,78-79)3. The poet of the Homeric Hymn almost makes the god too an observer – ‘they delight you with boxing and dancing and song’ (149) – as indeed performers of any cultic enterprise would expect the relevant god to watch them doing honour to him or her. Callimachus goes one step further, and in more than one poem. In his Hymn to Apollo, the Cyrenean rites and dances for Apollo which ‘we’ are now performing were witnessed immemorially long ago by Apollo himself, who ‘was very delighted’ (85) at what he saw, as in the Homeric Hymn. What might be thought a ‘typically Hellenistic’ touch is that the god was not just a passive observer/member of the audience, but he pointed things out to his new bride (90-91), just like the excited women of Theocritus 15. In Hellenistic poetry the gods still look on, but can be more animated about it. We may compare the scene in the fourth book of the Argonautica (922-964) in which Thetis and the Nereids, as like a maiden-chorus as Nausicaa and her friends on the beach, escort the Argo through the Planktai, while Hephaestus takes a break to watch (like the Syracusan women?) and Hera throws her arms around Athena in excited fear, just like two teenagers watching a scary movie. Visualisation, our visualisation, is at the core of such scenes. Apollonius has perhaps gone some of the way towards breaking down the sharp Homeric distinction between the divine 2 The description of women visiting a shrine of Asclepius in Herodas 4 is standardly and rightly compared, and if that shrine is indeed supposed to be the great Coan site, then the Ptolemaic dimension of that poem is unavoidable, cf., e.g., ZANKER 2006. 3 Some might think it indicative of the shift from the archaic to the Hellenistic period that in the Homeric Hymn what is being described is real cultic performance, whereas in Theocritus it is a work of art, but I cannot pursue that subject here.

Festivals, Cults, and the Construction of Consensus in Hellenistic Poetry

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audience and the contemporary one, composed of ‘men of now’ who fail to measure up to the great figures of the past, but it was always a distinction which implied a complex and suggestive similarity. We may perhaps compare the multi-faceted relationship between the watching chorus and the watching spectators of Attic tragedy. In his Hymn to Delos Callimachus produces yet another take on this. With an extraordinary geographical perspective (or the perspective of one who has been looking at a map), he imagines the islands performing circular dances around Delos (as may well have been in fact re-enacted in historical times), and it is again observer status which is emphasised: ‘Hesperos looks down upon (katablevpei) you neither silent nor without sound, but always ringing with noise’ (vv. 302-303). Examples of this interest in the observer could be multiplied many times. When in a similar passage of Callimachus’ Hymn to Artemis the nymphs honour Artemis with circular dances – obviously the divine avatar of a very common form of human performance – Helios stops his chariot to watch and the days become long: the sense of festival, of carnival time (cf., again, Ptolemy’s ‘Grand Procession’), affects the whole cosmic order. So too, when Apollo is praised, even Thetis and Niobe cease from their lamentation: eujfhmei` kai; povnto", o{te kleivousin ajoidoiv h] kivqarin h] tovxa, Lukwrevo" e[ntea Foivbou. oujde; Qevti" jAcilh`a kinuvretai ai[lina mhvthr, oJppovq∆ iJh; paih`on iJh; paih`on ajkouvshi. kai; me;n oJ dakruovei" ajnabavlletai a[lgea pevtro", o{sti" ejni; Frugivhi diero;" livqo" ejsthvriktai, mavrmaron ajnti; gunaiko;" ojizü urovn ti canouvsh".

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The sea too keeps reverent silence, when bards celebrate the lyre or the bow, the implements of Lycorean Phoibos. Not even Thetis, his mother, mourns wretchedly for Achilles, whenever she hears ‘Hie Paieon, Hie Paieon’. And the tearful rock postpones its woes, the moist cliff standing in Phrygia, a marble block taking the place of a woman crying piteously. (Callimachus, Hymn to Apollo 17-24)

Here too we have a sense of festival/lyric time defying the laws of nature – not because Helios is not moving, but because even the sea is silent, in a familiar motif of divine epiphany. We move from the sea, to Thetis who dwells in the sea and may even be a metonymy for it (so that in some senses v. 20 expresses the same thought as v. 18, but expresses it in a different mode)4, to 4 Williams’s helpful note ad loc. makes a similar, though differently directed, point. I discuss this passage also in HUNTER 2011.

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the watery rock which is Niobe. The ‘pun’ (though that is an unhelpful term) in ajnabavlletai, ‘postpones’ but allowing the sense ‘strike up’ (musically) (cf. Pindar, Pythian 1,4) to resonate also, encapsulates precisely this configuration of lyric time – the time of music and dancing – as a time of postponement, of watching and listening. The evocation of cultic experience and the perspective of the viewer/participant is thus one way in which Hellenistic poetry both draws its audience in and also offers (usually oblique) encomium of those responsible for these public events. Less obvious perhaps is to what extent the concern with cultic aetiology and history, which we find everywhere in Callimachus and Apollonius of Rhodes, serves similar ends. At least two, not mutually exclusive, approaches to this material seem possible. On the one hand, we can plot the areas of local cult against known areas of influence or interest to rulers, so that such poetic material may be seen to have an inherently ‘political’ dimension, even if any such explicit concern seems very far from the text. Very often of course we will have to leave matters at the level of suggestion. Delian cults under Ptolemy II are a special case, and certain other examples are hard to resist. Ptolemaic interest in the Samothracian mysteries has long been connected with the fact that Apollonius’ Argonauts stop on the island on the voyage out in order to be initiated5. So too, H.W. Parke and Alan Cameron have rightly drawn attention to Callimachus’ persistent interest in the oracular cult of Apollo at Didyma, where the temple was rebuilt on a massive scale and the cult reorganized, both to reflect the Delphic pattern, at the end of the fourth century and the early part of the third6; from 279-259, in the reign of Ptolemy II, Miletus was in the sphere of influence of Alexandria, and it is thus hard not to see, as Wilamowitz already did, poetic concerns here moving in step with major events of interest to the patron7. Callimachus celebrated (and perhaps helped forge, at least for later ages) the ‘new’ foundation legend in his poem ‘Branchos’ (fr. 229 Pf.), which seems to have told of Apollo’s epiphany to a lovely shepherd boy of Delphian descent and his foretelling of the cult that Branchos would found on the site8. Callimachus is here celebrating local traditions (of however recent re-in5

Bibliography and discussion in HUNTER 1995, 20. Cf. PARKE 1986, 129-130; CAMERON 1995, 167-169. 7 A helpful survey of the arguments in EHRHARDT 2003. 8 Texts relevant to the myths concerning Branchos are gathered by LELLI 2005, 71-73. Both ASPER 2004, 271 and LELLI 2005, 79 rightly raise the possibility (it can be no more) that ajnavktwn iJerh;n genevqlhn at v. 17, near the end of the poem, refers not to, e.g., the Branchidai, but rather to the Ptolemaic house. Lelli compares Sawthvrwn u{paton gevno" at Hymn to Delos 166, but a more suggestive ‘parallel’, particularly given the possibility that ‘Branchos’ was the closing poem of a collection, is the prayer to Zeus to preserve oi\kon ajnavktwn in the ‘epilogue’ to the Aitia (fr. 112,8 Pf. = 215,8 Massimilla). 6

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vention) and local families, much as generations of ‘wandering poets’ had done, and would continue to do, in the hope of rewards and honours from the communities they had celebrated9. It is, however, unlikely that many such poets used stichic ‘catalectic choriambic pentameters’ for their songs of praise and commemoration10, and we must admit that it is very difficult to be sure how this combination of rewritten cultic tradition and metrical experimentation actually ‘felt’ to its original audiences. Too often, the fact that a poem of Philicus, which looks like a hymn to Demeter in choriambic hexameters, another metrical ‘sport’ which Hephaestion cites alongside Callimachus’ choriambic pentameters, is explicitly offered to the grammatikoiv as an ‘innovative composition’ (SH 677) is taken as a sign that all such poems are just that: literary games with no purchase at all in the realities or imagination of cult or religious ideas (broadly understood). We must rather learn to be sensitive to difference as well as to similarity. The tension between generic and linguistic form, a tension found elsewhere in Callimachus (cf., e.g., the elegiac epinicians for Berenice and Sosibios), seems almost to reflect an acknowledgement of the complex cultural signals which the public creation of tradition brings with it. Typical of the issues which arise in this area, though untypical in other ways, is Callimachus’ account of the aetiology of the cult of Dictynna on Crete: e[xoca d∆ ajllavwn Gortunivda fivlao nuvmfhn, ejllofovnon Britovmartin ejuvskopon: h|" pote Mivnw" ptoihqei;" uJp∆ e[rwti katevdramen ou[rea Krhvth". hJ d∆ oJte; me;n lasivhisin uJpo; drusi; kruvpteto nuvmfh, a[llote d∆ eiJamenh`isin: oJ d∆ ejnneva mh`na" ejfoivta paivpalav te krhmnouv" te kai; oujk ajnevpause diwktuvn, mevsf∆ o{te marptomevnh kai; dh; scedo;n h{lato povnton prhovno" ejx uJpavtoio kai; e[nqoren eij" aJlihvwn divktua, tav sf∆ ejsavwsan: o{qen metevpeita Kuvdwne" nuvmfhn me;n Divktunan, o[ro" d∆ o{qen h{lato nuvmfh Diktai`on kalevousin, ajnesthvsanto de; bwmouv" iJerav te rJevzousi: to; de; stevfo" h[mati keivnwi h] pivtu" h] sci`no", muvrtoio de; cei`re" a[qiktoi: dh; tovte ga;r pevploisin ejnevsceto muvrsino" o[zo" th`" kouvrh", o{t∆ e[feugen: o{qen mevga cwvsato muvrtwi.

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Particularly above others you loved the nymph of Gortyn, deer-slaying Britomartis, whose aim does not miss. Once Minos, crazed with love for her, roamed the moun9

Cf., e.g., HUNTER 2003, 26-27; HUNTER - RUTHERFORD 2009. This is the ancient analysis; modern scholars describe the length rather as an aristophanean (-uuu--) expanded by the insertion of three choriambs. 10

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tains of Crete. The nymph hid, now under the leafy oaks, now in the low meadows, but for nine months he wandered over the crags and cliffs and he did not cease from his pursuit; when she was all but caught, she jumped into the sea from a lofty headland and fell into fishermen’s nets (divktua) which saved her. As a result of this, the Kydonians afterwards call the nymph Dictynna, and the mountain from which she jumped Diktaion, and they set up altars to her and conduct sacrifice. On that day garlands are made of pine or mastich, and hands do not touch myrtle; while she was fleeing, a myrtle-branch became entangled in the girl’s robes, and for this reason she conceived a great anger against myrtle. (Callimachus, Hymn to Artemis 189-203)

A number of features make this passage particularly worthy of attention in the current context. It is, for Callimachus, a relatively extended narrative, and one which has a fair chance of being innovative11; there are clear indications, moreover, that the value of Callimachus’ account was discussed in antiquity (cf. below). Secondly, there are indications elsewhere that Callimachus was well informed about Cretan cult, whether through personal observation, informants, written sources or a combination of all three12; this does not, of course, of itself tell us anything about the nature of this particular narrative, but it is a salutary reminder (if we needed one) that such cultic tales may not be simply the result of an overheated scholarly imagination and thirst for witty combinations. Third – and a cause for both particular interest and particular frustration – is the fact that, although we know that several Cretan cities had political ties to Ptolemaic Alexandria and that there was important mercantile and intellectual exchange between Crete and Alexandria, the state of the evidence makes it very difficult to track the relationship in any detail13; the best evidence, beyond the presence of Cretans in Egypt and of Ptolemaic officials in Crete, is for the development of Itanos in the far north-east of the island as a Ptolemaic naval base, but Ptolemaic interest stretched much further west than that also. Chance survivals show us what we are missing. A treaty between Polyrrhenia and Phalasarna, recorded on a stone originally placed in the temple of Dictynna near Kydonia (cf. below), shows the Spartan interest in west Crete14; other powers were no doubt sniffing around also. The treaty between Magas of Cyrene, whose shifting relationship with Ptolemy II was an important fact in Alexandrian politics (and may well have been so 11 It is at least a peculiar misreading when CHANIOTIS 2001, 213 includes this passage among Cretan stories which were ‘so well known to every educated Greek that Callimachus could content himself with vague allusions to them’. 12 Cf. CHANIOTIS 2001. 13 Cf., e.g., SPYRIDAKIS 1970; BAGNALL 1976, 117-123; KREUTER 1992, 17-45. 14 ICret. II xi,1 = CHANIOTIS 1996, 179-181.

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also for a Cyrenean poet resident in Alexandria), and a koinovn of west-Cretan states, dating probably from the latter part of the first half of the third century, suggests a search for influence of a kind at which Ptolemy and his agents were also past masters15; the treaty was mediated by Gortyn, which seems to have been already allied with Magas, and the principal deity overseeing the treaty and in whose temple at Lisos the treaty was recorded was indeed Dictynna. It is not, of course, that this treaty has (necessarily) anything to do with Callimachus’ Hymn to Artemis, where, in any case, we are hampered by our ignorance of the date of the hymn16, but rather it starkly reveals both our ignorance and the kind of question we ought at least to be asking. Britomartis also had a cult on Delos17, and how important that island was to the evocation of a specifically Ptolemaic world we have already seen. The interrelations between the west-Cretan goddess Dictynna, the predominantly east- and central Cretan goddess Britomartis (or Britomarpis)18 and Artemis are fraught with problems, not all the result of the (lack of) evidence, and cannot be pursued here in any detail19. Even if, moreover, we were able to sort out the cultic history with some kind of clarity, we know that, not only were ancient writers known to disagree widely about Cretan history and culture (cf. esp. Diodorus Siculus 5,80,4), but for ancient poets and chroniclers Crete was also very much a land of the imagination where invention and creative fantasy were as much at home as hard ethnographic fact20. There is indeed a broad consensus among historians of Cretan religion that Dictynna, Britomartis and Artemis remained discrete deities on Crete through the Hellenistic period, and that Callimachus’ conflation of Britomartis and Dictynna as a beloved nymph of Artemis and ‘Dictynna’ as subsequently a name for Artemis (vv. 204-205) – a syncretism indeed attested outside Crete – is, to put it simply, a literary fiction which plays to familiar types of scholarly construction and to Callimachus’ particular interest in name-changes over the course of history21. So it might well be 15

ICret. II xvii,1 = SCHMITT 1969, n. 468; cf. KREUTER 1992, 35-36. Cf. BORNMANN 1968, vii-xi. 17 Cf., e.g., GUARDUCCI 1935, 198-199; 202. 18 That marptomevnh in v. 195 alludes to this Cretan form (so, e.g., tentatively BORNMANN 1968, ad loc.) is an attractive suggestion; the nymph’s leap marks the moment of transition from one name to another. 19 For some guidance cf. GUARDUCCI 1935; GUARDUCCI 1939, 128-140; WILLETTS 1962, 179-193; SPORN 2001; SPORN 2002, 323-325; FLINTERMAN 2009, 240-246. 20 There is much relevant information and bibliography in Chapter 4 of TZIFOPOULOS 2010. 21 In the geographical poem of Dionysius, son of Calliphon (cf. further below), it is stated that ‘men say’ that there is a temple of Artemis at Phalasarna where the goddess is called Dictynna (vv. 118-122); Phalasarna lies in the far north-west of Crete, not very far from Kydonia and the temple of Dictynna. Dionysius’ source is unknown; I would be tempted to guess it to be this very passage of Callimachus, but the specificity of the reference to Phalasarna gives pause. 16

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(see further below), but that does not exhaust what we need to ask. A striking feature of Callimachus’ narrative is what we might call its panCretanism. Britomartis is ‘correctly’ placed in the centre-east of Crete by her identification as a ‘nymph of Gortyn’, whereas Dictynna is also properly associated with Kydonia (modern Chania) in the west, near where there was the most famous shrine of the goddess, on the eastern side of the headland of Tityros or Psakon (the most northerly point of Crete); the temple is already mentioned by Herodotus (III 3,59,2)22. We know almost nothing of the history of the temple in Callimachus’ day, though it would not be an unreasonable inference, if not strictly a necessary one, that the temple was under the control of Kydonia; in Strabo’s day, on the other hand, it seems to have been under the control of Polyrrhenia (10,4,13)23. How politically charged Callimachus’ references are, we cannot say. Be that as it may, the narrative is in part framed by references to Crete (vv. 191, 205), and the nymph’s wanderings take her over ‘the mountains of Crete’, i.e. – or so we are to understand – over the whole island. Geographical puzzles are, of course, a familiar feature of Callimachus’ poetry, but here the bringing together of Britomartis and Dictynna, of Gortyn and Kydonia, and (perhaps) of Mt Dikte and the Kydonian Diktynnaion (cf. below) draws the traditions of the island together, in an overt, because at first puzzling, manner, and fashions a specifically Cretan pool of narrative traditions. Callimachus is by no means alone in this period in treating Crete as a ‘single unit’, but we would dearly like to know more of his motives. Callimachus’ narrative appealed to, and gained authority from, his audience’s knowledge of or beliefs about Cretan practice. To what extent Callimachus’ identification of Britomartis - Dictynna (whose name very likely really means ‘Lady of Dikte’) as a nymph-companion of Artemis, and his explanation both of the change of name and of the cultic practice of avoiding myrtle garlands were innovative, it is no longer really possible to say, though this relatively full narrative does seem to have found wide resonance24. Two critiques of versions of the story survive from writers quite close in time to each other, and one of them (Strabo 10,4,12) is explicitly a criticism of Callimachus25; this 22 Both, e.g., GUARDUCCI 1939, 130 and BORNMANN 1968, ad loc. understand Kuvdwne" in v. 197 as simply a learned way of saying ‘Cretans’ (cf. Hymn to Zeus 45), but this seems most improbable in view of what we know of the shrine of Dictynna. Cf. further SISTAKOU 2005, 253-254. 23 On this temple and the problem of its control cf. SPORN 2002, 277-280. 24 Nicander, Alex. 618 Divktunna ... ejcqhvrato klw`na" (of myrtle) looks like an echo of v. 203 of Callimachus’ hymn (note stevfo" in v. 619); this passage of Nicander may be a late interpolation, but that does not affect the point at issue. Cf. further below on echoes in Roman poetry. 25 Callimachus is also named as the source for the story, though not necessarily the only one, by the scholiast on Eur. Hipp. 146. The scholiast on Ar. Frogs 1356 tells what might be a ‘cleaned up’ version: Britomartis was out hunting and fell ‘by chance’ into nets from where she was saved by Artemis; she then established a shrine of Artemis Dictynna. On Strabo’s criticism cf. further F. JACOBY, FGrHist, IIIA, 221-222.

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too suggests that Callimachus himself was treated as the principal authority for (and perhaps author of) the story. Strabo’s objection is, he tells us, not his own but derived from unnamed others: Callimachus’ story, according to these anonymous critics, cannot be correct, because Kydonia is nowhere near Mt Dikte, and the mountain shrine of the goddess near Kydonia is not Diktai`on but Diktunnai`on; clearly, then, it was the o[ro" ... Diktai`on which had most roused Callimachus’ critics. Modern scholars see here rather a ‘typically Callimachean’ geographical conflation, based on similarity of names, between Mt Dicte and the Diktunnai`on, to match the conflation of Britomartis and Dictynna into a single character, or understand that Callimachus’ Diktai`on actually stands for Diktunnai`on26, or (D’Alessio ad loc.) see a humorous linguistic compromise between Divkth and Diktunnai`on; certainly, prhovno" ejx uJpavtoio suggests the headland rather than a mountain. Diodorus Siculus 5,76,3-4 also criticises the story as we find it in Callimachus (who is, however, not named)27, but on the grounds that it is not piqanovn, not because it would take a pretty extraordinary leap to reach the coast from Mt Dicte, but because a goddess who was the daughter of ‘the greatest of the gods’ should not have got into such a helpless state as to need help from men28, nor was it divkaion to ascribe such an act of impiety to a man as renowned for his probity as Minos. It seems not improbable that Callimachus is at least one of Diodorus’ targets here. What was involved, and what at stake, in the criticisms of a poetic narrative? The criticisms of Callimachus are of a very familiar kind, and we might think that such activities, like other forms of philology, were one of the ways in which a particular élite group marked out its own territory29, and there must indeed be something in that. Nevertheless, the great interest in the story, and in Callimachus’ version of it, attested by Strabo and probably Diodorus Siculus, suggests that such aetiological legend was not merely a poetic game, but one in which the identity and ideology of cultic sites and narratives was very much involved; ‘getting it right’ was something that actually mattered, however fast and loose a Callimachus could be with traditional tales. We perhaps tend to lose sight of the authority that an Alexandrian text, and particularly one bearing the name of Callimachus, might carry; the Nachleben of this passage in Latin poetry in fact says much of the central role that Alexandria now played in the preservation 26

Cf. BORNMANN 1968, on vv. 199-200. That Diodorus is here talking of Britomartis - Dictynna rather than Artemis - Dictynna seems probable because he is taking issue with the aetiology of the name, having just given an alternative aetiology which is explicitly attached to Britomartis - Dictynna. Moreover, although both Artemis and Britomartis are daughters of Zeus, it seems unlikely that Diodorus would adduce the paternity of the Olympian as one of the reasons for not believing the story. 28 Callimachus himself famously used this criterion to reject unwanted myths (Hymn to Zeus 65). 29 Cf. ASPER 2001, 109-110. 27

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and dissemination of cultural knowledge. Callimachus’ mini-narrative may have been taken up and expanded in Roman neoteric poetry (Valerius Cato’s Diana / Dictynna)30, if it had not already been so used in later Hellenistic poetry31, and it may have contributed something to Ovid’s narrative of Apollo and Daphne, a narrative full of allusions to the Hymns of Callimachus (including the Hymn to Artemis). Here then, quite unusually, we can identify a Callimachean aetiological narrative which attracted the attention not just of fellow-scholars and poets, but also of mythographers and students of cult; poet and audience share knowledge of a type of narrative and of a mode of explanation, and (as importantly) of what such explanations are worth. The aetiological mode itself appeals at more than one level32. Callimachus’ audience share not just in the myriad local cults of the Greek world, but also in the stories that lie behind them; if it is true, as widely held, that Homeric epic was a potent force in forging a pan-Hellenic identity, the sense of a shared ‘Greekness’, then the return to the local which we see everywhere in, particularly, Callimachus performs a similar function with very different tools. The cult of the grand, rather remote Olympians gives way to very particular, sometimes embarrassingly so, deities and near-deities; Homer is, as has often been noted, notably short on the particularities of cultic detail, particularly as expressed in aetiology33 – such ‘local’ detail would work against the kind of poetic world which he created and which was, in its own way, so influential on Greek culture. Explanation is a striking instance of this. Homeric characters wonder (in both senses) at and about the gods, but they devote almost as little time to their histories and particularities as they do to their statues34. The Hellenistic aetiological project is thus not merely the heir to Hesiod’s Theogony, in moving from the gods themselves and the establishment of the Olympian order to their cults on earth35, but it also seizes territory (deliberately) abandoned by Homeric epic. As is well known, Hellenistic poets often adduce – or gesture towards (as Callimachus’ geographical epithets in the Britomartis nar30

Cf. LYNE 1978, 223-224; 229. It is often thought that the version of the story in Antonius Liberalis 40 goes back to Nicander. In this version, which links Britomartis to a number of Artemis cults in the Mediterranean, the nymph is hidden by Cretan fishermen in their nets, rather than falling into them, and is then conveyed by a fisherman (Andromedes, presumably one of her Cretan rescuers) to Aegina, where he tries to rape her; she escapes and disappears (‘becomes ajfanhv"’) at the place where is now the cult of Aphaia. The argument of MAASS 1923 that an epodic poem, partially preserved on POxy 661 (= CA pp. 194-195), was on the subject of Dictynna has not won much favour. 32 Cf. FANTUZZI - HUNTER 2004, 49-51; ASPER 2001 is an important discussion to which I am indebted. 33 Cf. recently LANE FOX 2008, 372-373. 34 Cf. HUNTER 2011. 35 Cf. FANTUZZI - HUNTER 2004, 51-60. 31

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rative perhaps do) – alternative aetiologies for particular practices, and even when they do not, the sense of competition, of histories which may compete with each other and hence ask audiences to make choices, to exercise krisis (which may of course range from the serious to the utterly frivolous), is always lurking. Audiences give or withhold ‘consent’ to aetiological poetry in a quite different way than ‘consent’ is offered to epic poetry, and this is not merely, I think, a question of emotional ‘distance’ from what is being narrated. In the present case, Callimachus’ reason for why myrtle is avoided in the cult of Dictynna invites an alternative explanation: myrtle is the plant of Aphrodite, associated with sex and weddings, and hence utterly out of place in the cult and the event it commemorates36. The two explanations may of course be to some extent combined. Was Aphrodite actually behind the impediment caused by the myrtle as Britomartis fled? Minos’ sexual designs on the nymph were, after all, honouring her. How loudly does silence speak? Are we in fact encouraged, or – perhaps better – do we encourage ourselves, to see the gods at work in narrative when other, more contingent, explanations may in fact be appropriate. Aetiology, no less than more traditional modes of epic narrative, raises questions about how and why gods act, and leaves silences waiting to be filled; in both cultic narrative and cultic performance there is an unexplained excess, and we might think that it is that excess, as much as anything else, which builds ‘consensus’. Does what we believe about the history of ritual actually matter as we perform it?37 Another kind of question which we might ask is: Was there such a thing as a clear answer, or indeed any kind of answer, to the question of whether in Callimachus’ day Artemis was ever called Dictynna on Crete? What for Callimachus and his audience would constitute evidence? One poem of Callimachus which addresses some of these same issues, and with much the same divine personnel, seems to have been Iambus 10. The diegesis gives us the opening verse (fr. 200a.1 Pf.) and informs us as follows: ‘The Aphrodites – for the goddess is not single’ (ta;" jAfrodivta" – hJ qeo;" ga;r ouj miva). In Aspendos in Pamphylia pigs are sacrificed to Aphrodite Kastnietis for the following reason: Mopsus, leader of the Pamphylians, when going out hunting vowed to [the goddess] that if the hunt was successful he would sacrifice to her whatever he first caught; when he caught a wild boar he fulfilled his vow. For this reason the Pamphylians too do this to this day, for if the goddess was not pleased, Mopsus would not 36 Cf. BORNMANN 1968, on v. 201, who however writes as though there were (real) reasons why myrtle was avoided, although we do not know what they were; rather, of course, there were explanations, all ‘real’ though in different senses. Andrew Ford has suggested that diwktuvn in v. 194 suggest yet another possible etymology of Dictynna. 37 Important work in this area has been done on Roman literary representations of ritual and its explanation; for a helpful orientation cf. FEENEY 1998, chap. 4.

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have caught this animal. [The poet] also praises the Artemis of the Eretrians because she rejects nothing that is sacrificed to her.

This account is partially confirmed by a passage of Strabo: Kallivmaco" me;n ou\n fhsin ejn toi`" ijavmboi"38 ta;" jAfrodivta" (hJ qeo;" ga;r ouj miva) th;n Kastnih`tin uJperbavllesqai pavsa" tw`i fronei`n, o{ti movnh paradevcetai th;n tw`n uJw`n qusivan (kai; mh;n poluivstwr, ei[ ti" a[llo", ktl.) In the Iambi Callimachus says that the goddess of Kastnie surpasses all Aphrodites (for the goddess is not one) in good sense, because she alone accepts the sacrifice of pigs (and Callimachus is a very learned man, if anyone is…) (Strabo 9,5,17)

How closely Strabo follows Callimachus’ text is a difficult question, and editors vary in the extent to which they are prepared to make further iambic trimeters out of Strabo’s prose; fortunately, progress in understanding is not entirely dependent upon certainty of reconstruction. As the Diegesis says that this same poem referred also to the cult of Artemis at Eretria, it is universally accepted that a scholium on Aristophanes, Birds 872 should also be referred to Iambus 10; the scholiast is discussing the cult of Artemis Kolainiv": …Euphronios says that Kolainiv" occurs at Amarynthos [in Euboea] because Agamemnon sacrificed a hornless (kovlo") animal because of the difficult situation (ejk tou` kairou`)39. Callimachus says about her: th;n wJgamevmnwn, wJ" oJ mu`qo", ei{sato th`i kai; livpoura kai; monw`pa quvetai …whom Agamemnon established, so the story goes, to whom tailless and one-eyed animals are sacrificed… (Callimachus, fr. 200b Pf.) This may, however, be an improvisation, for the people of Myrrhinous [in Attica] call Artemis Kolainiv"… 38 KERKHECKER 1999, 208 proposed ijam v bwi, but Radt ad loc. objects that we might then also have expected the standard ou| hJ ajrchv; Kerkhecker’s point, however, that the parenthesis reads very oddly remains true, and I am not confident that Strabo’s text was indeed as transmitted. Presumably through a slip, Kerkhecker also implies that the text of Strabo does not transmit ta;" jAfrodivta". Kerkhecker’s discussion (pp. 207-213) is the principal contribution since Pfeiffer’s edition and I am much indebted to it; in particular, Kerkhecker rightly stresses the importance of the fact that there were indeed two Aphrodites at Aspendos. 39 Cf. below.

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Sorting out the various accounts and explanations of this cult title, which is known certainly to have existed at Myrrhinous, is beyond the scope of this paper40, but we must note that the standard title of Artemis at Amarynthos, her major shrine not far from Eretria, was Amarousia and that there is no confirmation in either the Callimachean couplet which the scholiast quotes or in the Diegesis, which refers merely to the omnivorousness of the ‘Artemis of the Eretrians’, that Callimachus actually mentioned the title Kolainiv". Moreover, for what it is worth, the account given by the Diegesis would sit well with Pausanias’ account of a cult of Artemis at Aulis, just across the Euripos strait: Here there is a temple of Artemis and images of white marble, one holding torches and the other like a woman shooting a bow. They say that when the Greeks were about to sacrifice Iphigenia on the altar in obedience to the soothsaying of Calchas, the goddess made the victim a deer rather than her … It is also said that at Aulis the Greeks did not receive a favouring breeze, but when a favourable wind suddenly got up, they sacrificed to Artemis whatever each had, alike female and male victims; from that time it has remained the case that at Aulis all victims are acceptable. (Pausanias 9,19,6-7)

There is some unclarity surrounding the chronology of the various strands of Pausanias’ narrative here, but certain points may be drawn out. Although Pausanias is talking about Aulis, not Amarynthos or Eretria, it is very hard to believe that both he and Callimachus are not referring to essentially the same cultic practice of the acceptance of ‘imperfect’ sacrificial victims; Pausanias says nothing of any cult title for Artemis. The practice for which Pausanias gives an aition and that for which the Diegesis says that Callimachus praises the Eretrian Artemis are the same: ‘all victims are acceptable’ ~ ‘no victim is rejected’. The clear impression of Pausanias’ narrative is that the Greeks at Aulis sacrificed ‘whatever each man had’ when the wind got up, not as the result of a seer’s instruction (contrast the sacrifice of Iphigenia), but rather because they were caught unawares by the sudden turn of events and (perhaps) so that they could catch the favourable wind before it died. Whether or not Callimachus did call the Eretrian goddess Kolainiv", it is easy enough to imagine a similar kind of narrative there: Agamemnon’s offering was one usually disallowed, but he had no choice ejk tou` kairou`, ‘given the (difficult) circumstances’. This phrase in the Aristophanic scholia is not necessarily to be emended away, as it almost always is41. Despite the fact that we cannot be 40

Cf. esp. JACOBY on FGrHist 323a F 13; 325 F 3. Holwerda proposed ejk tou` klhrou` ‘as a result of a prophetic lot’ (in other words, Agamemnon was instructed to do this by, e.g., a seer); this is adopted by KERKHECKER 1999, 211 n. 79. 41

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sure that Callimachus gave an aetiology for the Eretrian cult of Artemis, it is at least worth considering the possibility that behind Pausanias’ account of the cult at Aulis stands, precisely, Callimachus; it is curious, but perhaps no more, that the verses dedicated to this cult in the geographical poem of ‘Dionysius, son of Calliphon’ might (though, of course, need not) echo Callimachus: Aujliv" te Boiwtw`n povli", pro;" h|i limhvn kajrtevmido" iJero;n a{gion, o} levgetai ktivsai jAgamevmnon∆, ei\t∆ ktl. …and Aulis, city of the Boeotians, where there is a harbour and a holy shrine of Artemis, which Agamemnon is said to have founded… (Dionysius Calliphontis 88-90)

Why is Aphrodite Kastnie surpassing in fronei`n? Speculation about this cannot be divorced from the question of the goddess’ rôle in Mopsus’ successful hunt. Ever since the Diegesis was published it has been suspected that ‘for if the goddess was not pleased, Mopsus would not have caught this animal’ is a paraphrase of something in the poem itself, rather than a piece of reasoning by the author of the Diegesis or his predecessors. This is very likely right, and Arnd Keckhecker thus suspects that her fronei`n consists in ‘getting what she wants’42. He must be right to look for an explanation which would suit the iambic mood, but perhaps we can narrow down a little the range of possibilities. If Artemis is praiseworthy because she did not reject offerings which, though imperfect and unusual were nevertheless a mark of piety and all that the Greeks had, might not Aphrodite reveal her common sense by taking a similarly broad view, even though she normally finds pig offerings anathema? ‘If the goddess was not pleased, Mopsus would not have caught this animal’ is a very ‘human’ piece of post factum reasoning, perhaps attributed in the poem to the Pamphylians. We, however, do not have to assume that Aphrodite actually sent the boar Mopsus’ way or even that ‘Aphrodite seems to be rather keen on pork’43, for her common sense may rather have manifested itself in not turning away an offering which showed piety and brought her honour, even if it was very unusual. In broad outline, the aetiology for this very unusual sacrifice which Callimachus offers is almost certainly one offered by the people of Aspendos themselves long before Callimachus; it adapts to a Greek mode of explanation a practice which appears thoroughly un-Greek44. Nevertheless, it would be 42

KERKHECKER 1999, 213. KERKHECKER 1999, 212. 44 Cf. esp. ROBERT 1960, 177-178 for the evidence from Aspendian coinage as early as the fifth century; LANE FOX 2008, 232. 43

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typical of Callimachus to drive a poetic wedge between aetiological explanation and ritual practice itself, or at least to make it clear that they do not necessarily stand or fall together. Callimachus indeed seems constantly to nudge us towards ‘myth and ritual’ questions which seem surprisingly modern: does the nature of the explanation adopted (and we may well have to make a choice between aetiologies) actually have any effect in the world of the ritual? Do we live in a world where things happen by divine design, or is ‘design’ one of the patterns we impose upon events in order to persuade ourselves that they make sense? How ‘self-serving’ is the reasoning of Mopsus and/or the Pamphylians once confronted with the apparent requirement of making what was usually an abhorrent offering? Is this indeed how we use the gods to justify ourselves across a much broader field of activity? Moreover, how does the ascription of such (very human) reasoning to the distant mists of aetiological time not just make us smile with self-recognition, but also bind us in the same web of time as this Pamphylian of long ago, in other words build a social consensus based on shared identity? In the state of our evidence it is of course impossible to say how the transition within Callimachus’ poem from one cult to the other was made; we have already seen several motifs which they have in common. Further connections can be imagined. Mopsus’ pig-sacrifice was the result of a vow while hunting, Agamemnon’s problems at Aulis seem to have been the result of an intemperate boast while hunting. More rewarding might be to pause for a moment on the combination of a cult of Aphrodite in inland Pamphylia with a Boeotian cult of Artemis, a goddess traditionally opposed to Aphrodite; the former cult seems outlandish and ‘marginal’ (at best), the latter takes us into the heart of traditional Greece and the heart of perhaps the best known ‘sacrifice story’ of all Greek mythology: it is probably not fanciful to see a manifold contrast between the ‘old world’ and the ‘new’, a contrast which however is also a confirmation of continuity. Shared Greek identity stretches from Boeotia to Pamphylia (and presumably beyond); even the gods of epic and tragedy who are most opposed to each other (Aphrodite and Artemis) share fundamentally similar, and very Greek, values (fronei`n and frovnhsi"). What, if anything, did these cults mean to an Alexandrian audience? Pamphylia was a place of considerable interest to the Ptolemies45, and Aspendos was believed to be a foundation of Argos, a city central to much Ptolemaic self-fashioning; an Argive decree of probably the late fourth century offers privileges to Aspendos, which not long before had been harshly dealt with by Alexander46. For what it is worth, we know that there was an ‘Iseon’ at 45 46

Cf. HUNTER 2003, 165 with earlier bibliography. Cf. STROUD 1984; LANE FOX 2008, 237-238.

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Eretria visited by Egyptians (or Egyptian Greeks) at least from the beginning of the third century47. This is, of course, not to suggest anything as definable as a ‘Ptolemaic context’ for Iambus 10, but it is worth stressing that we must not assume that what we are dealing with is simply learned and antiquarian Spielerei with no purchase in the actual experience or imagination of the audience. We do not know why Callimachus chose to tell and link these two aetiologies for an Alexandrian audience at a specific date in the third century, and it would be rash to assume that his audience would have given a univocal answer to the question of how and why (or indeed whether) they were linked with each other. Enough perhaps that we can make a good guess at the questions to be asked, and assure ourselves that they are worth asking.

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DEN KÖNIG LOBEN? POSITIONEN UND AUFGABEN DER DICHTER AN DEN HELLENISTISCHEN KÖNIGSHÖFEN GREGOR WEBER

Der Dichter Herodas gestaltet seinen ersten Mimiambos als Gespräch zwischen einer jungen Frau namens Metriche, möglicherweise einer (ehemaligen?) Hetäre, und einer älteren Frau namens Gyllis, einer Kupplerin1. Gyllis versucht, Metriches Situation auszunutzen, deren Ehemann oder Freund Mandris sich seit zehn Monaten in Ägypten befindet und noch nichts hat von sich hören lassen. Im Bemühen, die junge Frau zu einem Seitensprung mit dem Athleten Gryllos zu bewegen, legt Gyllis ihre Gesprächsstrategie so an, dass sie in acht von 90 Versen die Vorzüge Ägyptens preist, denen Mandris offenkundig erlegen ist. Dies geschieht mit Stichworten zu verschiedenen Lebensbereichen: kei` d∆ ejsti;n oi\kj o" th`" qeou`: ta; ga;r pavnta, / o[ss∆ e[sti kou kai; givnet∆, e[st∆ ejn Aijguvptwi: / plou`to", palaivstrh, duvnami["], eujdivh, dovxa, / qevai, filovsofoi, crusivon, nehnivskoi, / qew`n ajdelfw`n tevmeno", oJ basileuv" crhstov", / Moush`ion, oi\no", ajgaqa; pavnt∆ o[s∆ a]n crhvizhi, / gunai`ke", ojk≥ovsou" ouj ma; th;n [A≥idew Kouvrhn / a≥js≥t≥e≥vra" ejnegkei`n oujran[o;]" kekauvchtai2.

Die Forschung geht davon aus, dass die Szene auf Kos spielt, von wo der Dichter vermutlich stammt, so dass eine Außensicht auf Ägypten suggeriert wird. Da keine externen biographischen Informationen über Herodas vorliegen, kann man ihn nur durch Anspielungen in seinen Werken in die Zeit von Ptolemaios II. datieren. Der Hinweis auf das nach 272/71 v.Chr. entstandene Heiligtum der Qeoi; jAdelfoiv präzisiert die Datierung, wobei eine Entstehungszeit unter Ptolemaios III. nicht auszuschließen ist. Herodas scheint ein Zeitgenosse von Theokrit, Kallimachos und Poseidippos gewesen zu sein, 1 Zur Namensform: ZANKER 2009, 1; zu Herodas: WEBER 1993, 422f.; GUTZWILLER 2007, 127-131. Die dort vorgenommene, fast ausschließliche Konzentration auf die englischsprachige Forschung mindert den Wert des Buches erheblich. Für die Korrektur des Textes danke ich Lisa Hartmann (Augsburg). 2 Herodas, Mimiambos 1,26-33: „Dort aber ist der Göttin Heim; denn alles, was irgend auf der Erde ist und wird, ist in Ägypten: Reichtum, Ringschulen, Macht, heiterer Himmel, Ruhm, Shows, Philosophen, Geld, junge Männer, der Geschwistergötter Heiligtum, der brave König, das Museion, Wein – kurz, alles Gute, was man nur wünschen mag, und Frauen erst, so viel, dass selbst der Himmel – bei der Hadesbraut! – so vieler Sterne sich nicht rühmen kann.“

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doch lässt sich nicht sagen, ob er je am Königshof in Alexandreia gelebt hat oder ob er nur versuchte, sich mit seiner Dichtung ein Entrée am Hof zu verschaffen3. Ich kann nicht auf die anspielungsreichen Stichworte im Detail eingehen, möchte aber drei Aspekte betonen: 1. Es ist evident, dass es sich um eine positive und spezifische Außensicht von Ägypten handelt, die weit über Allgemeinplätze wie Wein, junge Männer und Frauen hinausgeht4. Die nicht systematisch angeordneten und deshalb komisch anmutenden Stichworte im Staccato-Stil konzentrieren sich auf ‘Essentials’ der ptolemäischen Monarchie und deren Hauptstadt, auch wenn der herrschende König, oJ basileu;" crhstov", nicht namentlich genannt wird und somit auch nicht im Zentrum steht. Plou`to", duvnami", eujdivh (gutes Wetter und/oder Beständigkeit), dovxa und crusivon sind Merkmale, die jede Monarchie gerne für sich in Anspruch nimmt, die ptolemäische aber besonders. Qevai, filovsofoi, qew`n ajdelfw`n tevmeno" und das Moush`ion sind Kennzeichen, die sich auf Hauptstadt und Hof beziehen5, nämlich Feste und Feiern zur ptolemäischen Selbstdarstellung, Philosophen und – man darf ergänzen – andere Intellektuelle, die unter königlichem Patronat der Hofgesellschaft angehörten, das Temenos für die göttlichen Geschwister und das Museion, ein zur Zeit des Dichters schon etabliertes ‘Institute for Advanced Studies’. 2. Das Lob der ptolemäischen Herrschaft in diesem Mimiambos kommt ganz unerwartet und dazu aus dem Mund einer Person wie Gyllis, die man kaum der gebildeten Poliselite zurechnen kann. Dieses Lob stellt kaum den alleinigen Zweck des Gedichtes dar, wenngleich der Verweis auf Ägypten und die ptolemäische Herrschaft auch sparsamer hätte ausfallen können. Herodas’ gewählte Strategie ist nicht ungewöhnlich, denn eine solche, quasi beiläufige Kontextualisierung eines Herrscherlobs darf, betrachtet man andere Dichter, als zeittypisches Kennzeichen gelten6.

3 Dies gilt nicht nur für ihn, sondern auch für etliche andere der in den biographischen Zusammenstellungen bei WEBER 1993, 420-426, genannten Dichter. ASPER 2004, 10, zufolge gehörten Herodas, Theokrit und Sotades nicht der Hofgesellschaft an. 4 Im Gesamtduktus des Mimiambos ist die Ägypten-Passage ohne Zweifel negativ, denn es sind die aufgezeigten Bedingungen, die Mandris in der Argumentation von Gyllis davon abhielten, zu Metriche zurückzukehren. 5 Inwieweit mit oi\ko" th`" qeou`, womit durch den Kontext die Göttin Aphrodite gemeint ist (ZANKER 2009, 25), auf Arsinoe II. angespielt wird, lässt sich nicht sagen, jedenfalls sollte man die gegenwärtige Tendenz, jede Nennung einer Gottheit als Chiffre für einen König oder eine Königin zu nehmen, nicht auf die Spitze treiben. Dazu wären zuerst einmal die jeweilige poetologische Konzeption und die Definition von Patronage zu klären. 6 So auch MURRAY 2008, 20f., demzufolge genau solche Charakterisierungen wie bei Herodas am Hof willkommen waren. Siehe dazu S. 132f.

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3. Gravierend ist, dass sich der ursprüngliche ‘Sitz im Leben’ des Mimiambos nicht mehr einholen lässt. Man könnte es sich einfach machen und für unser Thema unterschiedslos alle Gedichte heranziehen, die den König und seine Familie zum Inhalt haben, aber damit wird man der Komplexität von Dichtung und historischem Kontext nicht gerecht. Nicht nur liegen verschiedene Meinungen dazu vor, ob der Mimiambos szenisch aufgeführt oder rezitiert wurde, es lässt sich auch keine Aussage darüber treffen, ob die ‘Performance’ bei einem Symposion am Königshof, bei einem größeren Fest oder bei einer privaten Zusammenkunft auf Kos stattfand. Denn es gab unabhängige Dichterzirkel, zumal auf Kos7, ebenso ‘wandernde Dichter’, die sich in verschiedenen Poleis und an Höfen niederließen8. Ebenso wenig ist bekannt, wer diesen Mimiambos eventuell in Auftrag gegeben hat, was Herodas damit konkret bezweckte und wie das Publikum auf das Sujet und die poetische Umsetzung reagierte: Ob gerade die Beiläufigkeit der Ägyptenpassage affirmativ sein sollte oder nicht doch als unangebracht empfunden wurde? Oder die Aussage von Protagonisten außerhalb des höfischen Umfelds um so positiver wirkte? Allein die Komplexität des Textes in Komposition und Sprache macht ein Primärpublikum wahrscheinlich, das die Aussageintention adäquat verstehen und goutieren konnte9, so etwa die Bezugspunkte zu einigen Eidyllia Theokrits10. Indem ich mich den Positionen und Aufgaben von Dichtern am Königshof widme, versuche ich, aus historischer Perspektive die soziale Kontextualisierung von Dichtern und Dichtung in den Blick zu nehmen11, und zwar unter Berücksichtigung des Kommunikationsaspektes und der Funktionsbestimmung12. Dabei ist sowohl zu klären, welche Positionen im Sinne von Tätigkeiten den Dichtern an den Höfen zukamen, als auch, welche Positionen im Sinne von Einstellungen sie König und Hof entgegenbrachten. Denn darauf zielt der Obertitel meines Vortrags „Den König loben?“ einschließlich des Fragezeichens, wobei der Begriff ‘König’ alle Mitglieder der königlichen Familie einschließlich des gemeinsamen Auftretens als Herrscherpaar umfasst13. Von Interesse ist schließlich, ob es Aufgabenfelder gab, die Dichter entweder 7

Dazu SBARDELLA 2000, 819. Dazu GIOVANNINI 2005; BARBANTANI 2005, 160f. Zu Schwierigkeiten bei der Zuweisung auch BARBANTANI 2008, 15. 9 Zur elitären Exklusivität der Dichtung: EFFE 2007, 260-264. Hier sind die Könige, die selbst literarisch tätig waren, mit eingeschlossen; zu Ptolemaios VIII.: WEBER 1998-1999, 148; NADIG 2007, 14-23. 10 Theokr. 2; 14; 15; dazu die Diskussion bei ZANKER 2009, 36-39. 11 Die intellektuelle und kulturelle Kontextualisierung der hellenistischen Dichtung ist auch das dezidierte Ziel von FANTUZZI - HUNTER 2004, vii. 12 Dazu auch STROOTMAN 2010, 33. 13 Zur Darstellung als Paar: MÜLLER 2009. Die Darstellung als Familiengruppe betont KOSMETATOU 2004, deren Argumentationen jedoch oft sehr spekulativ bleiben. 8

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übernehmen mussten oder freiwillig übernommen haben. Im Folgenden werde ich zunächst einige, für den Fortgang der Untersuchung wichtige Begriffe – ‘Hof’, ‘Patronage’, ‘Dichter’ und ‘Propaganda’ – klären, dann Positionen der Dichter im beschriebenen doppelten Sinne in den Blick nehmen und schließlich etwas über die Aufgaben der Dichter am Hof in Erfahrung zu bringen versuchen. Dabei werden mehr Fragen offen bleiben als beantwortet werden, aber man wird einige der Dichter mit ihren Werken unter die Repräsentationsbedürfnisse und -erfordernisse der Könige und mit Blick auf die Spielregeln höfischer Interaktion einordnen können. ‘Hof’, ‘Patronage’, ‘Dichter’ und ‘Propaganda’ sind für unser Thema wichtige Begriffe bzw. Konzepte, weshalb kurze Reflexionen über ihre Bedeutung angebracht sind: a. Zur Organisation von Monarchien, wie sie sich im Hellenismus etablierten, erwies sich die Errichtung eines Hofes als unerlässlich: Der Hof, definiert als erweiterter oi\ko" eines Monarchen, stellte das räumliche Zentrum dar, das ein König bewohnte14. Von dort aus steuerte er seinen Herrschaftsbereich, dort stellte er in Festen und Inszenierungen seinen Reichtum zur Schau15. Auch umgab er sich mit Personen, die ihm bei der Bewältigung seiner Aufgaben halfen, denen er vertraute und mit denen er bei verschiedenen Anlässen auftrat: Es handelt sich um die Gruppe seiner Freunde (fivloi), die mit der königlichen Familie, den Bediensteten und Personen mit zeitweiligem Aufenthalt am Hof, etwa Gesandten, die Hofgesellschaft bildeten. Mit den fivloi, die Aufgaben von Funktionseliten wahrnahmen, kam der König zum sunevdrion zusammen und pflegte gesellige Formen des Zusammenseins beim Essen und Trinken16. Dass hier konfliktive Konstellationen entstanden, ist evident, da dieser keineswegs hermetisch abgeschlossene Personenkreis über keine kollektive Identität verfügte, sondern eine erhebliche Konkurrenz um die Gunst des Königs vorherrschte17. Dieser musste durch Zuwendungen von Land und 14 Für das Folgende: WEBER 1993, 20-32; HERMAN 1997; WEBER 1997. Aufschlussreich ist, dass mit den Begriffen to; basivleion und ta; basivleia, die zunächst nur „das königliche“ bedeuten und ein erklärendes Substantiv erfordern, ein dem König gehörender Bereich nach außen abgegrenzt wurde. Hingegen setzte der Begriff aujlhv (‘Hof’), der für die hellenistischen Höfe aufgekommen zu sein scheint, ebenso einen räumlichen Akzent, sein Wortfeld bezeichnete jedoch auch die Hofgesellschaft (FUNCK 1996, 52). 15 Dazu WEBER 2007, 102-111. Aufschlussreich ist insbesondere der bei Athenaios überlieferte Bericht des Kallixeinos von Rhodos über die große Pompé in Alexandreia (dazu RICE 1983), wohl anlässlich der Ptolemaia, die Ptolemaios II. zu Ehren seines verstorbenen Vaters eingerichtet hat. Im Kontext dieses – von Athenaios wohl gekürzten – Berichtes ist nicht von der Aufführung von Hymnen etc. die Rede. 16 Zu den Formen des Hoflebens: WEBER 1997, 43-46; STROOTMAN 2005, 191f. Zum Symposion und der damit verbundenen reichhaltigen anekdotischen Überlieferung: VÖSSING 2004, 86-92. 17 Dazu HERMAN 1997, 210f.

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Geld, durch Zuteilung prestigereicher Priesterämter oder durch prominente Statuenweihungen versuchen, den Erwartungen zu entsprechen, und das Gefahrenpotential am Hof, das durch Favorisierung eines anderen Familienmitglieds entstehen konnte, zu minimieren18: Auch die Mitglieder der königlichen Familie stellten einen strukturellen Unruhefaktor dar, weil die Existenz von Thronprätendenten aus verschiedenen Ehen zu Friktionen führen konnte19. Idealiter musste jeder König die Zusammensetzung der neuen Elite mit Sorgfalt betreiben und klären, für welche Tätigkeiten er sie einsetzte und wie nahe er Mitglieder der indigenen Oberschicht an sich heranließ20. b. Eine weitere Qualität eines hellenistischen Königs bestand darin, Patron und Mäzen zu sein21. Die Patronage, die Förderung von Kunst und Wissenschaft, fällt ihrerseits unter euergetisches Verhalten22. Das Konzept des Euergetismus gehört eigentlich in das Verhältnis zwischen Herrscher und Polis, lässt sich aber in seinen Mechanismen auch hier anwenden: Der eujergesiva entsprach im Sinne einer strikten Reziprozität der Dank, cavri"; dadurch waren die sozialen Beziehungen geregelt, zumal für die gesellschaftliche Reputation, klevo" und dovxa. In enger Verschränkung von Freiwilligkeit und Verpflichtung hat sich eine Geschäftsbeziehung etabliert, von der beide Seiten profitierten. Als Paradebeispiel gilt das eingangs erwähnte Museion einschließlich der Bibliothek23. Die Könige scheuten keine Kosten und versuchten, in allen Sparten die besten Gelehrten nach Alexandreia zu holen, wo sie in ihrem Wissensgebiet bei exzellenten Arbeitsbedingungen wohl zweckfrei forschen konnten. Dies traf auf die Medizin und Anatomie zu, auf die Astronomie mit einer Sternwarte, die Mechanik mit der Entwicklung innovativer Apparate, die Biologie mit einem zoologischen Garten, die Geographie mit entsprechenden Expeditionen24. Dadurch mehrten deren Vertreter Prestige 18 Zur Vergabe eponymer Priesterämter in Alexandreia: WEBER 2010, 63f., 66-68; zur Vergabe von dwreaiv: SAVALLI-LESTRADE 1998, 11f., Nr. 9 (Aristodikides von Assos). 19 Hierzu OGDEN 1999. 20 Die Muster der Interaktion zwischen dem König und diesem Personenkreis blieben während des Hellenismus nicht konstant, sondern durchliefen verschiedene Phasen, dazu WEBER 2007, 114-116. 21 Zum gestiegenen Forschungsinteresse: HOSE 1997; STROOTMAN 2001; AMBÜHL 2007, 275f.; MURRAY 2008; STROOTMAN 2010. Bemerkenswerterweise gibt es im ‘Neuen Pauly’ keinen Artikel ‘Patronage’, nur – dann strikt im römischen Kontext verortet – einen Artikel ‘Patronus’, während für Patronage auf ‘Zirkel, literarische’ verwiesen wird, was den Bedeutungsinhalt kaum hinreichend abdeckt. 22 Dazu GEHRKE 1999a; VAN MINNEN 2000. 23 Dazu FRASER 1972, I, 305-335; WEBER 1993, 77f.; 82-86; ERSKINE 1995, 39f.; ASPER 2004, 11-13. Die Beziehungen zwischen Museion und Bibliothek sind freilich alles andere als klar. 24 WEBER 1993, 84f.; HUSS 2001, 317-319; SCHOLZ 2007, 162-167. Nachweisbar unter Ptolemaios II. sind z.B. die Mediziner Erasistratos von Keos, Herophilos von Chalkedon und Medeios, die Mathematiker Archimedes von Syrakus und Konon von Samos, der Architekt und Techniker Ktesibios von Alexandreia, dazu etliche Philosophen, Grammatiker und Geographen, unter Ptolemaios III. die Ärzte Philippos und Xenophantos, die Historiker Demetrios von Byzanz und Satyros von Kallatis und der

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und Ruhm der Könige vor der griechischen Welt. Betrachtet man das Verhältnis der geförderten Koryphäen zum König, dürfte mit der Freundschaft (filiva) für manche der Personen eine weitere Kategorie sozialer Beziehungen ins Spiel gekommen sein: Obwohl es kaum explizite Belege gibt, etwa für Euphorion von Chalkis unter Antiochos III., ist davon auszugehen, dass einige der Intellektuellen fivloi waren25, d.h. „im Prinzip egalitär und geleitet von zwei dominierenden Verhaltensnormen, den Pflichten der Erwiderungsmoral … und der agonistischen Konkurrenzmentalität“26. Diesen Regeln waren alle fivloi, auch der König, obwohl er das Gewaltmonopol besaß, unterworfen, was die Position der Intellektuellen erheblich aufwertete. c. Die zum ‘Sitz im Leben’ der Herodas-Stelle getroffenen Beobachtungen gelten auch für andere Dichter, nicht nur für solche, die, wie auch immer, mit dem Ptolemäerhof verbunden waren, sondern die auch im Konnex mit anderen Höfen – Pella, Pergamon, Antiocheia – standen27. Explizite Hinweise auf die Zugehörigkeit zu einem Hof sind eher die Ausnahme, und selbst dann lassen sich die Zusammensetzung des Publikums, dessen Befindlichkeit und die Aufführungs-/Publikationssituation nie exakt einfangen28. Hinzu kommen nicht wenige Werke, die nur fragmentarisch und/oder anonym überliefert sind oder von denen sich nur die Titel erhalten haben, so dass über Inhalt und poetische Umsetzung nur gemutmaßt werden kann29. Die Interpretationsprobleme werden durch die Entwicklung der literarischen Gattungen, besonders durch die übliche Kreuzung der Gattungen30, noch verstärkt, wofür Herodas’ Mimiambos ein gutes Beispiel darstellt. Dies bedeutet für unsere Thematik: Astronom Dositheos von Pelusion. Einzelne Personen, etwa Eratosthenes unter Ptolemaios III. oder Philostephanos unter Ptolemaios IV., waren geradezu als Multitalente in mehreren Sparten – hier: Dichtung, Astronomie, Geographie, Geschichtsschreibung – tätig, dazu WEBER 1993, 427; bes. GEUS 2002. 25 Bereits für die frühe Ptolemäerzeit sind etliche Mathematiker, Astronomen, Philosophen, Historiker und Geographen bekannt, dazu WEBER 1993, 136f., mit Belegen und den Nummern aus der ‘Prosopographia Ptolemaica VI’; SONNABEND 1996; SAVALLI-LESTRADE 1998, 27, Nr. 30; ASPER 2004, 8. 26 GEHRKE 1999b, 669. 27 Die umfassendste Übersicht findet sich immer noch bei SUSEMIHL 1891-1892. Zu den Antigoniden: WEBER 1995; zu den Attaliden: KOSMETATOU 2000. Eine Studie zu den Seleukiden stellt noch ein Desiderat dar, doch liegt hier nur sehr wenig Material vor; eine Bibliothek hat es in Antiocheia am Orontes aber in jedem Falle gegeben, dazu PACK 1993, 727ff., und DUBIELZIG 2005, 216, mit dem Hinweis auf Euphorion von Chalkis als Vorsteher unter Antiochos III. 28 Die verschiedenen Positionen am Beispiel der kallimacheischen Hymnen bei UKLEJA 2005, 17-19; 278; PETROVIC 2007, 114-141; BULLOCH 2010, 166-168; außerdem ASPER 2001, 94f. 29 Vgl. dazu die Fragmente in SH und SSH; zum anonymen Aphrodite-Arsinoe-Hymnos (Powell fr. 9, BARBANTANI 2005, 138-140): BARBANTANI 2004, dort (142ff.) verschiedene Hypothesen der Situierung und einem Vorschlag, den Hymnos in einer der Städte auf Zypern zu verorten, in denen es Heiligtümer für Arsinoe gab – ein Beispiel jedenfalls für einen nicht-höfischen Kontext. Eine hilfreiche Übersicht weiterer Hymnen für verschiedene Götter auf Papyrus hat BARBANTANI 2008, 16-18, erstellt; zu Fragmenten von Elegien enkomiastischen Charakters: BARBANTANI 2001, 49-61. 30 Dazu FANTUZZI - HUNTER 2004, 17ff.; HEERINK 2010, 394.

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Direkte oder indirekte Anspielungen auf Mitglieder der ptolemäischen Königsfamilie finden sich in Enkomien, ebenso in Hymnen, Epigrammen, Aitia, Epyllien, Epinikien, Elegien und literarischen Mimen31. Das Enkomion als prädestinierte Gattung ist im erhaltenen Material aber am schwächsten vertreten32. Vor allem macht die Literatur mit Königsbezug nur einen geringen Teil der heute vorliegenden dichterischen Produktion aus33, wenngleich der Neufund der 112 Poseidippos-Epigramme zur Vorsicht mahnt, dass sich die Gewichtungen durchaus verschieben können34. Bemerkenswert für Alexandreia ist die Konzentration der dichterischen Aktivitäten unter den ersten drei Ptolemäern: Sie kommen danach nicht gänzlich zum Erliegen, bewegen sich jedoch auf reduziertem Niveau, was auch für andere Höfe gilt35. d. Wenn es um die mediale Verbreitung von Inhalten geht, die, verstanden als Werte und Normen, für die Ideologie eines Monarchen wichtig sind, wird in der Forschung gerne der Begriff ‘Propaganda’ verwendet36. Ich vermeide ihn bewusst – nicht nur, weil es sich um einen neuzeitlichen Terminus handelt und er durch die deutsche Geschichte des 20. Jahrhunderts negativ konnotiert ist, sondern weil das zugrunde liegende Konzept aus drei Gründen problematisch erscheint37: Zum einen wird stets eine koordinierte Planung in einer Zentrale unterstellt, die selten nachweisbar ist. Zum anderen suggeriert ‘Propaganda’ eine Verbreitung von Inhalten, die durch die historische Realität nicht gedeckt sind, zur bewussten Manipulation der Zielgruppe(n), was 31

Für Kallimachos vgl. die Zusammenstellung bei VESTRHEIM 2005, für Theokrit bei CUSSET 2009. Zu nennen sind hierfür nur Theokrit 16 (Hieron II. von Syrakus); 17 (Ptolemaios II.); dazu MURRAY 2008, 17-19; CUSSET 2009, 89f.; BULLOCH 2010, 174-176. 33 Für den vorliegenden Kontext scheinen die dramatischen Gattungen gänzlich auszufallen; allerdings kann man davon ausgehen, dass sich im Repertoire der verschiedenen dionysischen Technitenvereine auch Texte befanden, die zeithistorische Anspielungen aufwiesen, vermutlich mit einer mythologischen Fundierung, dazu BING 1997, 142; BARBANTANI 2005, 159-161; GIOVANNINI 2005, 633f. 34 Dazu die Übersicht bei PARSONS 2002, 116-118; THOMPSON 2005; FANTUZZI - HUNTER 2004, 377403. Der Papyrus enthält Epigramme in den folgenden Sektionen (nach ALBIANI 2001, 200): Steine (liqikav), Vorzeichen (oijwnoskopikav), Weihungen (ajnaqematikav), Epitaphien (ejpituvmbia), Statuen (ajndriantopoiikav), Pferderennen (iJppikav), Schiffbrüche (nauagikav), Heilungen (ijamatikav), Verhalten (trovpoi). Die Durchsicht ergibt, dass der – insgesamt sehr starke! – Bezug auf die ptolemäische Dynastie quer durch alle Sparten geht, dazu AMBÜHL 2007, 276ff. und bes. 285f. Auf weitere derartige Sammlungen verweist PARSONS 2002, 118-122. 35 Warum sich seit Ptolemaios IV. in Alexandreia die Zahl der Dichter so stark reduziert hat, obwohl andere Wissenschaften, nicht zuletzt die Philologie, unverändert auf hohem Niveau fortgeführt wurden, wäre ein eigenes Thema; vermutlich hat sich unter den nachfolgenden Ptolemäerkönigen das intellektuelle Klima am Hof merklich verändert. 36 Eine Übersicht und Problemanalyse bei WEBER 2001. 37 Dazu methodisch WEBER - ZIMMERMANN 2003, 11, mit der Definition: „Unter Propaganda wird einerseits die intendierte und den Empfänger bewusst manipulierende Verbreitung von Ideologemen verstanden, andererseits sind damit auch allgemein einem politischen Kontext angehörende parteiliche oder tendenziöse Äußerungen gemeint“; anders z.B. MÜLLER 2009, 15. 32

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oftmals auch nicht zutrifft. Schließlich wird nur selten darüber reflektiert, wer mit der Propaganda überhaupt erreicht werden sollte und wie die Verbreitung bestimmter Inhalte erfolgen konnte38. Um Missverständnisse und Anachronismen zu vermeiden, werden stattdessen die eindeutigeren Begriffe ‘Selbstdarstellung’ und ‘Repräsentation’ unter Einbeziehung des Kommunikationsaspekts verwendet39. Der Vorgang des Dichtens geschieht ebenso wenig im luftleeren Raum wie die Dichter kontextunabhängig sind. Deshalb kommt den Fragen, ob und welche Positionen die Dichter an den Höfen innehatten und welche Einstellungen sie König und Hof entgegenbrachten, große Bedeutung zu. Zur Beantwortung dieser Fragen müssen aufgrund der Überlieferungslage viele Einzelinformationen zusammengetragen und ausgewertet werden. Die Usancen des poetischen ‘Betriebs’ an den Königshöfen kennen wir nicht, nicht einmal für Alexandreia, von wo über das Museion und die Bibliothek am ehesten noch Informationen vorliegen, allerdings dann in anekdotischer Tradition40. Aus der bekannten Passage aus dem 17. Buch in Strabons Geographika geht hervor, dass das Museion zum Palastareal gehörte und sich die dortigen filolovgoi in einem sussivtion trafen41. Es ist nicht bekannt, ob es eine Begrenzung in der Zahl für ‘Planstellen’ oder Stipendien gab und ob eine feste Zahl von ‘Fellows’ aufgenommen wurde42. Auch über mögliche Kriterien für eine Aufnahme in das Museion lässt sich nur mutmaßen. In der Anfangszeit der alexandrinischen Bibliothek gab es Ressortleiter für die verschiedenen Literatur-Sparten, etwa Lykophron von Chalkis für die Komödien und Alexander Aitolos für die Tragödien, die beide auch als Dichter ausge38 Für eine typische Aussage vgl. KOSMETATOU 2000, 36f.: „Scholars provided the ideological ground for the monarchic institution and promoted dynastic propaganda, thereby boosting their masters’ prestige.“ 39 Vgl. die Definition von Selbstdarstellung bei WEBER - ZIMMERMANN 2003, 11: „Selbstdarstellung betont dagegen mehr den Aspekt der Zurschaustellung von Reichtum und die Zustimmung zu einem bestimmten Wertekodex und ist derjenige Begriff, der am meisten auch außerhalb des herrscherlichen Kontextes angewandt wird.“ Vgl. die Definition von Repräsentation bei WEBER 1997, 32, als „die Inszenierung der besonderen Stellung des Monarchen sowohl für den Hof selbst und für Besucher verschiedenster Provenienz als auch durch Weisen des Transformierens von Zeichensystemen nach außen, in das eigene Herrschaftsgebiet, in konkurrierende Herrschaftssysteme und in neutrale Zonen hinein.“ 40 Vgl. WEBER 1993, 87ff. 41 Strab. 17,1,8: tw`n de; basileivwn mevro" ejsti; kai; to; Mousei`on, e[con perivpaton kai; ejxevdran kai; oi\kon mevgan ejn w|/ to; sussivtion tw`n metecovntwn tou` Mouseivou, filolovgwn ajndrw`n. e[sti de; th`/ sunovdw/ tauvth/ kai; crhvmata koina; kai; iJereu;" oJ ejpi; tw`/ Mouseivw/ tetagmevno" tovte me;n uJpo; tw`n basilevwn nu`n d∆ uJpo; Kaivsaro". „Zum Palastviertel gehört auch das Museion mit einer Wandelhalle, einer mit Sitzen versehenen Halle und einem großen Gebäude, in dem sich auch der gemeinsame Speiseraum der zum Museion gehörenden Gelehrten befindet. Ihre Vereinigung hat gemeinsame Einkünfte und als Vorsteher einen Priester, der einst von den Königen, jetzt vom Kaiser bestellt wird.“ 42 MÜLLER-GRAUPA 1933, 809, geht von ca. 100 Stipendiaten aus, doch bleibt unklar, auf welchen Zeitraum sich die Angabe bezieht.

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wiesen sind43. Einer Passage in den Deipnosophistai des Athenaios zufolge erhielt ein gewisser Sosibios mit dem Beinamen Lytikos – vermutlich ein Grammatiker ohne dichterische Produktion – von Ptolemaios II. eine suvntaxi" basilikhv; auch ist von Papyrusrollen mit weiteren Empfängern solcher suntavxei" die Rede44. Mitunter wird der Begriff suvntaxi" mit ‘Ehrenpension’ übersetzt, aber es gibt etliche Beispiele im Sinne regelmäßiger Soldzahlungen, so dass ein solches Verständnis am ehesten zutreffen dürfte. Die konkrete Tätigkeit an den Forschungseinrichtungen wurde demnach wohl regelmäßig entlohnt45. Mehr ist über die Erzieher der Kinder der Königsfamilie – und nach makedonischem Modell auch derjenigen der fivloi46 – bekannt. In einigen Fällen waren die Erzieher mit dem jeweiligen Vorstand der königlichen Bibliothek identisch. Als Vorstände fungierten der Philologe Zenodotos von Ephesos, die Dichter Apollonios Rhodios und Eratosthenes von Kyrene47. Als Erzieher 43 Zu Lykophron: WEBER 1993, 423; COPPOLA 2002, 53-83; FANTUZZI - HUNTER 2004, 437-443. Einen Bezug der ‘Alexandra’ eines (anderen, späteren) Lykophron zur attalidischen Geschichte am Beginn des 2. Jh.s v.Chr. stellt KOSMETATOU 2000 her, dazu CUSSET - PRIOUX 2009, 10f. 44 Athen. 11,493f-494b: tau`ta kai; oJ qaumavsio" lutiko;" Swsivbio", o}n oujk ajcarivtw" dievpaixe dia; ta;" poluqrulhvtou" tauvta" kai; [ta;"] toiauvta" luvsei" Ptolemai`o" oJ Filavdelfo" basileuv". lambavnonto" ga;r aujtou` suvntaxin basilikhvn, metapemyavmeno" tou;" tamiva" ejkevleusen, eja;n paragevnhtai oJ Swsivbio" ejpi; th;n ajpaivthsin th`" suntavxew", levgein aujtw`/ o{ti ajpeivlhfe. kai; met∆ ouj polu; paragenomevnw/ kai; aijtou`nti eijpovnte" dedwkevnai aujtw`/ ta" hJsuciva" ei\con, o} de; tw`/ basilei` proselqw;n katemevmfeto tou;" tamiva". Ptolemai`o" metapemyavmeno" aujtou;" kai; h{kein keleuvsa" meta; tw`n biblivwn, ejn oi|" aiJ ajnagrafaiv eijsi tw`n ta; " suntavxei" lambanovntwn, labw;n tauvta" eij" cei`ra" [oJ basileu;"] kai; katidw;n e[fh kai; aujto;" ajpeilhfevnai aujto;n ou{tw": h\n ojnovmata ejggegrammevna tau`ta, Swth`ro" Swsigevnou" Bivwno" jApollwnivou [Divwno"]: eij" a} ajpoblevya" oJ basileu;" ei\pen ‘w\ qaumavsie lutikev, eja;n ajfevlh/" tou` Swth`ro" to; sw kai; tou` Swsigevnou" to; si kai; tou` Bivwno" th;n prwvthn sullabh;n [bi] kai; th;n teleutaivan tou` jApollwnivou, euJrhvsei" sauto;n ajpeilhfovta kata; ta;" sa;" ejpinoiva"’. „Sosibios, der bewunderte Löser von Problemen, wurde von König Ptolemaios Philadelphos wegen seiner viel besprochenen Lösungen von Widersprüchen bei Homer nicht unwitzig verspottet. Er erhielt nämlich vom König eine Ehrenpension, und der ließ seine Kassenverwalter kommen und befahl ihnen, wenn Sosibios erscheine, um seine Pension abzuholen, sollten sie ihm erklären, er habe sie bereits bekommen. Als er nun wenig später kam und sein Geld verlangte, erwiderten die Verwalter, sie hätten es schon ausgezahlt, und ließen sich auf kein Wort mehr ein. Darauf wandte sich Sosibios an den König und beklagte sich über die Verwalter. Ptolemaios schickte nach ihnen und ließ sie mit den Buchrollen kommen, die die Listen der Pensionsempfänger enthielten, nahm sie in die Hand, sah sie durch und versicherte seinerseits, Sosibios sei schon versorgt, nämlich: es ständen da die Namen Soter, Sosigenes, Bion, Apollonios. Der König richtete seinen Blick darauf und sagte: ‘Du gewaltiger Rätsellöser, wenn du von Soter das SO, von Sosigenes das SI, von Bion die erste Silbe, die letzte von Apollonios nimmst, wirst du finden, dass du dein Geld bekommen hast, wie es deinen eigenen Spitzfindigkeiten gemäß ist.’“ Möglicherweise ist der genannte Sosibios mit dem Grammatiker, Chronographen und Kultschriftsteller Sosibios oJ Lavkwn identisch, der allerdings von LÉVY 2007 an den Beginn der römischen Kaiserzeit datiert wird. 45 Athen. 12,442c überliefert, dass der sonst nicht bekannte Philosoph Panaretos von Ptolemaios III. jährlich zwölf Talente erhielt, dazu FRASER 1972, II, 466, Anm. 35. 46 Dazu WEBER 1993, 74f., Anm. 4. 47 Von Kallimachos als Bibliotheksvorstand geht die moderne Forschung nicht mehr aus, dazu ASPER 2004, 12f.

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von Ptolemaios II. sind der Dichter Philitas von Kos sowie der Philosoph und Naturwissenschaftler Straton von Lampsakos belegt48. Die ‘Berufung’ dieser Personen zeigt, welche Bedeutung der von ihnen vermittelten griechischen paideiva zukam, auch wenn keine Hinweise auf die Lerninhalte und die Dauer des Unterrichts überliefert sind49. Vor allem aber standen sie in einem besonderen Vertrauens- und Verpflichtungsverhältnis zum König und zu seiner Familie, außerdem in einem räumlich bedingten, engen persönlichen Kontakt50. Dieser Kontakt hatte zur Folge, dass die Prinzenerzieher und vermutlich auch das höhere Bibliothekspersonal zweifellos über einen beträchtlichen Kenntnisstand verfügten, welche politischen Themen am Hof derzeit aktuell waren und wie sich die Sozialbeziehungen zwischen den Mitgliedern der Hofgesellschaft gestalteten. Ob solche Informationen in die Dichtung einflossen, lässt sich kaum mit Sicherheit sagen, doch zeigen zumindest die Epigramme für Sostratos, Kallikrates, Medeios, Neoptolemos und Sosibios, dass die Dichter vom Agieren der genannten Personen Kenntnis hatten und damit Teil der höfischen Kommunikationsprozesse waren51. Weitere direkte Verflechtungen von Intellektuellen in das Hofgeschehen lassen sich kaum finden – es gibt allenfalls einige Gesandte unter ihnen52. Unter den gut dokumentierten eponymen Priestern dieser Zeit für die vergött48

Vgl. MEISSNER 1992, 493-497; WEBER 1993, 74f. mit Anm. 3-4; 134; 418; HOSE 1997, 51f.; STRO2010, 33f. Dass Zenodot, der in der Bibliothek die Epen betreute, selbst Epiker war, ist eher zweifelhaft, dazu WEBER 1993, 97, Anm. 1. Von Straton ist auch bekannt (Diog. Laert. 5,58), dass er von Ptolemaios I. 80 Talente für die Erziehung des Thronfolgers erhielt, dazu STROOTMAN 2010, 39. 49 Das Vorbild von Aristoteles und anderen als Lehrer Alexanders des Großen drängt sich förmlich auf, dazu GEHRKE 2003, 8f.; 144. 50 Wo exakt sich diese Erziehungstätigkeit abspielte, ist nicht überliefert. Es gibt aber keine Hinweise auf eine räumliche Trennung vom Hof, wie dies bei Alexanders Unterricht in Mieza der Fall war. Zum persönlichen Interesse der ersten Ptolemäerkönige an den Belangen von Museion und Bibliothek: WEBER 1993, 79f.; 82-87. 51 In einem Epinikion (frr. 384 und 384a Pf.) besingt Kallimachos die Siege des Sosibios bei den isthmischen und nemeischen Spielen sowie in Athen und Alexandria. Er wird damit als Mann des Volkes dargestellt, der in geradezu idealer Weise dem Ideal des Euergeten entspricht. Es ist nicht zu sagen, wie sich diese Darstellung zum ‘realen’ Sosibios verhält, und eine solche Beschreibung ist unter literaturgeschichtlicher Perspektive auch nicht neu, doch wird damit vielleicht eine erwünschte Außensicht von der Hofgesellschaft evoziert, dazu WEBER 2011. 52 Ptolemaios I. sandte den Philosophen Theodoros von Kyrene zu Lysimachos (OLSHAUSEN 1974, Nr. 15). U.a. der Astronom Dionysios wurde von Ptolemaios II. mit einer Gesandtschaftsaufgabe nach Indien betraut (OLSHAUSEN 1974, Nr. 19; WEBER 1993, 140, Anm. 4). Ebenfalls nach Indien wurde der Historiker Megasthenes von Seleukos I. gesandt (OLSHAUSEN 1974, Nr. 127; SAVALLI-LESTRADE 1998, 8f., Nr. 6); von Antiochos I. wurde der Historiker Daimachos nach Indien gesandt (OLSHAUSEN 1974, Nr. 126); unter Antiochos III. ist der Historiker Hegesianax aus Alexandreia in der Troas anzusetzen (OLSHAUSEN 1974, Nr. 136; SAVALLI-LESTRADE 1998, 29, Nr. 32). Der Philosoph Krates von Mallos wurde von Attalos II. nach Rom gesandt (OLSHAUSEN 1974, Nr. 171; SAVALLI-LESTRADE 1998, 149f., Nr. 39). Kallimachos wird nachgesagt, zumindest zeitweilig die ptolemäischen Interessen in seiner Heimat Kyrene vertreten zu haben. OTMAN

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lichten Ptolemäer scheint es, soweit sich die Personen identifizieren lassen, keine Intellektuellen und somit auch keine Dichter gegeben zu haben53. Wie lange die Aufenthalte der Dichter am Hof dauerten und welche Gründe bzw. Vorkommnisse zu ihrer Beendigung führten, überliefern die Quellen in aller Regel nicht, doch wird man nicht fehlgehen, zwischen Dichtern mit längeren Aufenthalten, wohl in Verbindung mit einer Position an der Bibliothek bzw. am Museion, und solchen mit einem kurzen Aufenthalt zu unterscheiden. Verabschieden sollte man sich aber von der Vorstellung, die Könige hätten die Dichter im Sinne eines ‘kreativen Schreibbüros’ als Propagandisten um sich versammelt54. Dies führt zur Frage, welche Einstellungen die Dichter König und Hof entgegengebracht haben. Zunächst ist evident, dass die dargelegte Patronage-Situation in aller Regel zu einem wohlwollenden Blick der Dichter auf die ptolemäische Monarchie und ihre Vertreter geführt hat; außerdem wurde versucht, mit entsprechenden Themen von außen bei Hofe zu reüssieren. Dies wird etwa an den Gedichten auf Siege bei panhellenischen Spielen deutlich, die Mitglieder der ptolemäischen Dynastie errungen haben55. Die Intensität und thematische Breite der dichterischen Akzeptanz ptolemäischer Themen dürfte unterschiedlich ausgefallen sein, ebenso die konzeptionelle poetische Umsetzung, die ein Spiel mit Formen, mit Witz und Ironie beinhaltete56. Nicht unmittelbar unser Thema betreffend, aber als Gegenprobe signifikant sind die Positionen, die Kritik, Ablehnung oder auch Neid zum Ausdruck bringen57. Es handelt sich dabei nicht um antimonarchische Diskurse, sondern eher um punktuelle Nadelstiche, mit denen Facetten der Herrschaft oder Merkmale eines konkreten Herrschers attackiert wurden58. Hier tritt uns – besonders greifbar in der Person des Sotades – ein Typus an Dichter entgegen, der an mehreren Höfen ver53 Das Material bei CLARYSSE - VAN DER VEKEN 1983. Über die Gründe kann man nur mutmaßen: Zum einen ist es möglich, dass die Intellektuellen, zumal diejenigen, die im Museion und in der Bibliothek arbeiteten, aus Zeitgründen auf diese Tätigkeit keinen Wert legten, zum anderen lässt sich zumindest für die prosopographisch besser erschlossenen Priester der früheren Ptolemäerzeit vermuten, dass es sich überwiegend um Personen gehandelt hat, die zuvor in militärischem Kontext aktiv waren. 54 Ähnlich auch STROOTMAN 2010, 34f. 55 Zu den Gedichten: FANTUZZI - HUNTER 2004, 377-379; 391-403; THOMPSON 2005, 272-279; zu den Siegen und deren Chronologie: BENNETT 2005. 56 Vgl. die treffende Charakterisierung der hellenistischen Dichtung durch RENGAKOS 2006, 16: „Ein ausgesprochen gelehrter Inhalt, ein sehr dichtes Netz von direkten und indirekten Beziehungen zur Haupthandlung, mit poetologischen Konnotationen überfrachtet, eine komplexe Filiation, kein univoker Sinngehalt, eine betonte Vorliebe für trompe l’oeil-Effekte, wie man sie aus der hellenistischen Kunst kennt.“ 57 Hierzu zählen auch poetische Respektlosigkeiten gegenüber dem Königshaus, wie man sie u.a. bei Kallimachos finden kann, dazu DURBEC 2009, 111-113. 58 Bekannt sind etwa Theokrit von Chios bei Antigonos I. Monophthalmos, Sotades von Maroneia bei Ptolemaios II. und Daphidas von Telmessos bei den Attaliden, dazu WEBER 1998-1999; PRIOUX 2009.

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kehrte und sich dort jeweils am Hof des einen Königs über den anderen negativ ausließ59. Man gewinnt den Eindruck, dass die Toleranzschwelle der Könige recht hoch war, zumal Spott seit jeher in den Kontext der Symposien gehörte, dass sie aber bei großer Renitenz der Dichter auch hart durchgegriffen haben60. Offenkundig gab es also keine eigenen Planstellen für Dichter, sondern Intellektuelle am Hof verfassten Gedichte neben ihren eigentlichen Aufgaben an den wissenschaftlichen Einrichtungen, oder aber – das wäre der zweite Typus – sie versuchten, sich über ihre Werke am Hof zu empfehlen61. Weil aber die Dichtung mit Blick auf Symposien und Feste sowie die inner- und außerhöfische Kommunikation alles andere als unwichtig war62, dürfte eine erhebliche Konkurrenzsituation zwischen den Dichtern bestanden haben – und zwar um die Gunst des Königs und um die eigene Position innerhalb der Hofgesellschaft, denn gerade das Symposion war traditionell mit einer kompetitiven, geradezu agonistischen Atmosphäre verbunden63. Diese Konkurrenz wurde über das Medium der Dichtung ausgetragen, weshalb nun die Themen bzw. die Inhalte der verschiedenen Gedichte von Interesse sind64. Diesen sozialen und institutionellen Kontext für die Dichter an den Höfen vorausgesetzt, ist nach Aufgabenfeldern oder Themen zu fragen, die die Dichter zu übernehmen hatten oder freiwillig übernahmen. Geht man davon aus, dass die Dichter innerhalb des Hofes und nach außen hin mit ihren Werken das Prestige des Königs vermehrten, drängt sich zunächst die Vorstellung von Auftragsdichtung auf, etwa in dem Sinne, dass für festliche Anlässe Werke bestellt wurden, wie die Situation des Adonis-Hymnos in Theokrits XV. 59 Detailliert für Sotades: PRIOUX 2009, 115-119, allerdings mit dem Verständnis einer hellenistischen Monarchie, die alles auf dem Verordnungsweg zu regeln vermag. 60 Ein beabsichtigter Wechsel des Hofes konnte zu harschen Reaktionen des königlichen Patrons führen, wie man am Beispiel von Ptolemaios IV. und Aristophanes von Byzanz sehen kann, der zu Eumenes II. nach Pergamon wechseln wollte, dazu KOSMETATOU 2000, 37f. 61 Vgl. PARSONS 2002, 109: „We have no way of telling from such ‘court poetry’ what sort of position either poet occupied in regard to the court: salaried dependent, or an independent with privileged entrée?” 62 Ein Überblick bei WEBER 1993, 165-182; vgl. außerdem den Beitrag von R. HUNTER. 63 CAMERON 1995, 71-103; BING 1997, 144-147; HOSE 1997, 54f.; BARBANTANI 2001, 16f.; 41-43; VÖSSING 2004, 154-158; STROOTMAN 2010, 39. 64 Manche scharfen Töne innerhalb der Gedichte erklären sich durch diese Konkurrenz, wobei man immer versucht ist, sie auf individuelle Aversionen zurückzuführen, vgl. etwa SH 786 (= fr. 12 Di Marco) aus den Silloi des Timon von Phleious, wenn die Metapher des Vogelkäfigs auf die Gelehrten im Museion angewandt wird, dazu DI MARCO 1989, 139-143; CAMERON 1995, 31; CLAYMAN 2009, 11; 93f. Einen detaillierten Vergleich zwischen Kallimachos und Poseidippos führt LELLI 2005 durch; zur Konkurrenz zwischen Kallimachos und Apollonios Rhodios: KÖHNKEN 2008; zu verschiedenen Attacken des Kallimachos auf andere Dichter: DURBEC 2009, 103-110.

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Eidyllion nahelegt. In aller Regel finden sich in der Überlieferung aber keine entsprechenden Vermerke. Anekdoten wie diejenige über Archimelos, die Athenaios am Ende der Beschreibung von Hierons Syrakosia-Schiff berichtet, sind eher die Ausnahme: Hieron II. habe den Dichter, der auf das Schiff ein achtzehnzeiliges Epigramm verfasst hatte, mit 1.000 Medimnen Getreide geehrt65. Allerdings geht aus der Passage nicht klar hervor, ob das Epigramm, dem eine eher bescheidene Qualität bescheinigt wird66, von Hieron in Auftrag gegeben war oder ob es sich um ein Angebot des Dichters handelte, das entlohnt wurde. Angesichts der Überlieferungslage wäre es vermessen, Auftragsdichtung ganz auszuschließen, aber vielleicht hat Alexander der Große, der etliche Dichter auf seinem Zug mit sich führte, gerade in diesem Punkt negativ gewirkt67: Die enkomiastischen Epen auf Alexander, die den überlieferten Versen zufolge keine poetischen Spitzenleistungen waren, gingen allesamt verloren, so dass Arrian am Beginn seiner Anabasis urteilen konnte: oujde; ejxhnevcqh ej" ajnqrwvpou" ta; jAlexavndrou e[rga ejpaxivw", ou[t∆ ou\n katalogavdhn, ou[te ti" ejn mevtrw/ ejpoivhsen: ajll∆ oujde; ejn mevlei h[/sqh jAlevxandro", ejn o{tw/ te kai; Gevlwn kai; Qhvrwn kai; polloi; a[lloi oujdevn ti jAlexavndrw/ 65 Athen. 5,209b-e (= SH 202): oJ d∆ JIevrwn kai; jArcivmhlon to;n tw`n ejpigrammavtwn poihth;n gravyanta eij" th;n nau`n ejpivgramma cilivoi" purw`n medivmnoi", ou}" kai; parevpemyen ijdivoi" dapanhvmasin eij" to;n Peiraia`, ejtivmhsen. e[cei d∆ ou{tw" to; ejpivgramma: tiv" tovde sevlma pevlwron ejpi; cqono;" ei{sato… poi`o" / koivrano" ajkamavtoi" peivsmasin hjgavgeto… / pw`" de; kata; druovcwn ejpavgh saniv", h] tivni govmfoi / tmhqevnte" pelevkei tou`t∆ e[kamon to; kuvto", / h] korufai`" Ai[tna" parisouvmenon h[ tini navswn / a}" Aijgai`on u{dwr Kuklavda" ejndevdetai, / toivcoi" ajmfotevrwqen ijsoplatev". h\ rJa Givgante" / tou`to pro;" oujraniva" e[xesan ajtrapitouv". / a[strwn ga;r yauvei karchvsia kai; trielivktou" / qwvraka" megavlwn ejnto;" e[cei nefevwn. / peivsmasi d∆ ajgkuvra" ajpereivdetai oi|sin jAbuvdou / Xevrxh" kai; Shstou` disso;n e[dhse povron. / manuvei stibara`" kat∆ ejpwmivdo" ajrticavrakton / gravmma, tiv" ejk cevrsou tavnd∆ ejkuvlise trovpin: / fati; ga;r wJ" JIevrwn JIeroklevo" JEllavdi pavsa/ / kai; navsoi" karpo;n pivona dwroforw`n, / Sikeliva" skaptou`co" oJ Dwrikov". ajllav, Povseidon, / sw/`ze dia; glaukw`n sevlma tovde rJoqivwn. „Hieron ehrte auch Archimelos, den Dichter von Epigrammen, der auf das Schiff ein Epigramm verfasst hatte, mit 1.000 Medimnen Getreide, die (der König) auch noch auf eigene Kosten zum Piräus transportieren ließ. Das Epigramm hat folgenden Wortlaut: Wer hat das gewaltige Schiff auf Kiel gelegt? Welcher Herrscher hat es mit unermüdlichen Tauen umgeben? Wie ist das Verdeck auf den Eichenstützen befestigt worden und von welcher Axt sind die Planken geschnitten, die den Schiffsleib spannen? Den Gipfel des Ätna erreicht er, und die Wände auf beiden Seiten gleichen der Breite einer Kykladeninsel, die das Ägäische Meer umgibt. Wirklich, die Giganten haben dies Schiff bis ans Himmelszelt getürmt. Die Masten berühren die Sterne, und der dreistöckige Aufbau reicht in die großen (Wolken). Mit solchen Ankertauen ist es vertäut, womit einst Xerxes die doppelte Bahn zwischen Abydos und Sestos verband. Vom starken Bug künden frisch eingekerbte Lettern, wer von trockenem Land dies Schiff (in die Flut) ziehen ließ. Sie künden, dass Hieron, der Sohn des Hierokles, dem ganzen Hellas und den Inseln üppige Frucht als Gabe sendet, der Beherrscher Siziliens, der Dorer. Doch du, Poseidon, bewahre das Schiff auf den blauen Wogen!“ 66 Dazu DEGANI 1996. 67 Vgl. WEBER 1992, 68f., zu Agis von Argos, Aischrion, Anaximenes von Lampsakos, Pranichos oder Pierion, Pyrrhon von Elis und Choirilos von Iasos.

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ejpeoikovte", w{ste polu; mei`on gignwvsketai ta; jAlexavndrou h] ta; faulovtata tw`n pavlai e[rgwn68.

Auch wenn sich dies wie eine Rechtfertigung von Arrians eigenem Werk liest, hat Alexander vielleicht etwas erkaufen oder gar erzwingen wollen bzw. die Dichter zu sehr unter Druck gesetzt, denn an Inhalten hätte es mit Blick auf sein mythisch-heroisches Selbstverständnis kaum gemangelt. Wird man also die Bestellung von Gedichten, gerade von Epigrammen und Epinikien, keinesfalls ausschließen wollen, so haben sich die entscheidenden Themen aus der innerhöfischen Kommunikation und aus der Selbstdarstellung der Ptolemäer quasi von allein ergeben und dürften nicht eingefordert worden sein. Das Ambiente bot eine unerschöpfliche Fülle an poetischen Anregungen und eine Atmosphäre permanenter Resonanz, vor allem aber war der Charakter des Hofes als politisches, administratives, intellektuelles, repräsentatives und soziales Zentrum thematisch prägend. Die Themen, die sich aufgrund der Quellenlage am besten dem ptolemäischen Kontext entnehmen lassen, seien katalogartig angeführt und nicht in ihrer Umsetzung bzw. ihren quantitativen Anteilen im Einzelnen analysiert69: 1. die Person des Königs mit den militärischen Erfolgen70, der Bewährung als Herrscher, der Förderung der griechischen Kultur und der Dynastiebildung einschließlich der Geschwisterehe. 2. der Herrscher- und Dynastiekult einschließlich der Hinweise auf die göttliche Abkunft des Königs71. 3. Geschehnisse und Personen innerhalb der Hofgesellschaft und in der Hauptstadt72. Einige Namen von fivloi sind bereits gefallen, die insbeson68 Arr. Anab. 1,12,2: „und man hat Alexanders Taten nie der Menschheit so kundgetan, wie sie es verdienten, dies weder in Form historischer noch epischer Darstellung. Von Alexander sang man noch in keinem Lied, obwohl auf diese Weise selbst ein Hieron, Gelon und Theron verherrlicht wurden und viele andere, die in keiner Hinsicht ihm auch nur von ferne ähnlich waren. So kommt es, dass Alexanders Taten weit weniger bekannt sind als die kümmerlichen Quisquilien einer früheren Zeit.“ Dazu MURRAY 2008, 16f. 69 Vgl. dazu das Inhaltsverzeichnis von WEBER 1993, Xf.; auf Einzelnachweise wird verzichtet. 70 Auseinandersetzungen wie die mit den Kelten/Galatern, die in irgendeiner Form alle großen hellenistischen Monarchien zu bestehen hatten, boten sich für die literarische Umsetzung geradezu an, dazu BARBANTANI 2001. 71 Die Behauptung von SCHLEGELMILCH 2009, 220f., „daß Kallimachos in seiner Dichtung Wegbereiter der später selbstverständlich werdenden Wahrnehmung der Thea Philadelphos … in ihren viele Göttinnen (also auch Artemis) verkörpernden Wesen gewesen sein könnte … . Es ist jedenfalls durchaus plausibel, daß die Hofdichtung, Produkt eines Museions, ihrem ‘Apoll’ Philadelphos ein Bild seiner göttlichen Schwester entwerfen konnte“, lässt sich kaum schlüssig nachweisen, weil die Dichtung nicht in ein chronologisches Raster zu bringen ist. 72 Der Ort, an dem sich die Hofgesellschaft befand, mit seinen kulturellen Einrichtungen, d.h. Hof in seinen räumlichen Strukturen als Teil der basivleia, hat keine intensivere Wahrnehmung erfahren, schon gar nicht durch Kallimachos; anführen lassen sich nur zwei Passagen: die Beschreibung des Palastinnern in Theokrit 15 und die Nennung des Moush`ion in Herodas 1,31.

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dere wegen ihrer Stiftungen im Kontext der ptolemäischen Selbstdarstellung prominent waren73. Hierher gehört auch, dass die Dichter ihre Kollegen oder andere Intellektuelle – direkt oder indirekt – erwähnen, auch wenn sich die genannte Person nicht immer sicher mit dem Hof verbinden lässt74. 4. die Götter und die religiöse Praxis einschließlich des neuen Gottes Sarapis. 5. die ägyptischen Untertanen, das Land Ägypten und die ägyptische Königsideologie. Charakteristisch für die Dichtung ist die vielfach nur beiläufige Implementierung von König und Königin, sieht man von Enkomien, konkreten Widmungen und Epigrammen ab75. Mythen und Facetten eines idealen Königtums spielen hierbei eine wichtige Rolle. Vielfach findet man dazu in der ptolemäischen Selbstdarstellung jenseits der Dichtung – in Bauten, Bildern, Stiftungen, Festen, Inszenierungen und Maßnahmen in schriftlich übermittelter Form (prostavgmata) – die zugehörigen Entsprechungen. Kontrovers wird in der Forschung die Verarbeitung der Ägypten-Thematik innerhalb der Dichtung diskutiert: Obwohl nur selten auf das Land und seine indigenen Bewohner verwiesen wird, gibt es Tendenzen, hinter etlichen Formulierungen vor allem von Kallimachos und Theokrit Aspekte der ägyptischen Königsideologie zu sehen76. Dass es motivische Anregungen gab, die punktuell auch eine griechische und eine ägyptische Lesart zulassen, macht bei aller Prävalenz des Griechischen durchaus Sinn77, da am Hof zweifellos auch die Selbstdarstellung des Ptolemäerkönigs als Pharao diskutiert wurde und etwa eine Ausstattung mit ägyptischen Statuen in der Hauptstadt durchaus präsent

73 Dazu GUTZWILLER 2007, 193f.; WEBER 2011; außerdem AMBÜHL 2007, 289: „Epigrams addressing Ptolemaic issues should therefore not be interpreted in the sense of a one-way communication in which court poets function only as mouthpieces for propaganda, but as reciprocal process of exchange assigning the epigrammatists a crucial role as mediators between the court and the public.“ 74 Dazu WEBER 1993, 285-293: Genannt werden etwa von Kallimachos Timarchos (PP VI 16792), Herakleitos (PP VI 16689) und Theaitetos (PP VI 16692), auch manche Stellen der Iamben lassen sich auf Kollegen deuten. Bemerkenswert ist auch das Ep. IV GP von Hedylos auf ein Weihegeschenk in Form eines goldenen Rhython, das Ktesibios mit einer Mechanik versehen hatte, die zum ausfließenden Wein Musik ertönen ließ. 75 Für ein differenziertes Verständnis plädieren FUHRER - HUNTER 2002, 166: „rather, we must consider the occasion-specific rhetoric of Greek praise and always be prepared to ask after the function of praise, rather than after some (probably illusory) ‘essential meaning’ for the terms in which the praise is couched“; außerdem CUSSET 2009, 93-95. 76 Bes. KOENEN 1993; SELDEN 1998; STEPHENS 2003; HEERINK 2010. 77 So auch ASPER 2001, 102f. Nicht zu vergessen ist außerdem, dass gerade die ersten Ptolemäer vor allem ihre makedonische Abkunft betonten (Paus. 6,3,1; 10,7,8), dazu BEARZOT 1992, 43f.; SCHLEGELMILCH 2009, 183f. In einer Inschrift aus Thermos (IG IX I² I 56, dazu BENNETT 2002) ist bei Ptolemaios III., seiner Frau Berenike (aus Kyrene) und den sechs gemeinsamen Kindern jeweils (!) Makedovna bzw. Makevtan hinzugefügt. Zu Reflexen auf den makedonischen Kontext in den Epigrammen des Makedonen (!) Poseidippos: FANTUZZI - HUNTER 2004, 69f.; THOMPSON 2005, 269f.

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war78. Mitunter wurde aber die These vertreten, der Dichtung sei geradezu die Aufgabe zugekommen, dem griechischen und makedonischen Publikum die ägyptische Seite des ptolemäischen Königtums zu vermitteln79. Dem stehen viele Probleme entgegen, nicht zuletzt die Frage des Verstehenshorizonts80. Die Wirkung dieser Dichtung scheint jenseits der Beiträge für Feste und Symposien darin gelegen zu haben, dass sie die Themen, die am Hof und auch in der Außensicht aktuell waren, zementiert, poetisch variiert, in weitere, z.B. mythologische Kontexte versetzt und im Einzelfall auch umakzentuiert hat81. Insofern lässt sich hier sicherlich eine Funktion als „creazione del consenso“ festmachen, der allerdings die ägyptische Facette nicht so deutlich und explizit akzentuiert hat, wie die Ptolemäer dies offenbar selbst taten. Ptolemäische Selbstdarstellung und dichterisches Wirken standen somit in einem dialektischen Verhältnis. Die Dichtung war Teil eines Systems, das sich zumindest in diesem Segment als selbstreferentiell, d.h. auf den Hof bezogen, darstellte, aber gleichermaßen durch die ‘weltweite’ Vernetzung der Dichter eine beträchtliche Außenwirkung entfalten konnte82, was nicht zuletzt durch die Existenz verschiedener Rezeptionsebenen möglich war83. Die Fixierung auf den basileuv" ist nicht verwunderlich, weil der König und der Hof den integrativen Fixpunkt für alle Mitglieder der Hofgesellschaft darstellten. Die dichterische Umsetzung der Großzügigkeit der fivloi oder das Lob auf die 78 STEPHENS 1998, 168; 179; HUNTER 2003, 46f., zu den materiellen Befunden aus dem Hafen der Stadt: YOYOTTE 1998, 202. 79 MERKELBACH 1981; außerdem REED 2000, 342: „We have there a complex, compound syncretism, once again justifying a reduction of Egyptian elements to Greek tradition“; ähnlich HEERINK 2010, 402f. SCHLEGELMILCH 2009, 172, spricht von der unerreichten Fähigkeit des Dichters, „zentrale, die ptolemäische Königsideologie formulierende Themen auf eine Art und Weise in seinen griechischen Hymnos einzublenden, daß nur der Kundige die Anspielungen auf die ‘Aegyptiaca’ versteht, jeder ‘normale’ Leser dagegen eine zuweilen durch die offensichtlich überdurchschnittliche Gelehrsamkeit des Dichters verdunkelte, aber doch stringent griechische Interpretation des eigenen Mythos vorfindet. … Kallimachos verkleidet also in seiner komplexen Mythendeutung das Fremde als Variante des Griechischen.“ Und: „niemals aber ist es alleiniges Ziel, ägyptische Vorstellungen zu einem Gegenstand der ‘Vermittlung’ zu machen“ (236). Zum Thema prägnant: ASPER 2004, 18-20. 80 Unterschätzt von GUTZWILLER 2007, 192. Das Problem wird auch nicht dadurch behoben, dass man ägyptische Mitglieder der Hofgesellschaft konstatiert (dazu WEBER 2012), denn hier stellt sich die Frage, inwiefern sie in der Lage waren, hochkomplexe griechische Dichtung zu verstehen. Es gibt keine vergleichbaren Texte aus dem ägyptischen Kontext, wie ohnehin kaum bekannt ist, was die Ägypter, insbesondere die Elite, über die neuen Herrscher, deren Umgebung, die sozio-ökonomischen Neuerungen und die Bestrebungen in religiöser Hinsicht wirklich dachten. 81 Beispiele unter dem Label ‘Tradition und Innovation’ bei FANTUZZI - HUNTER 2004, 350ff.; CUSSET 2009, 90-93. 82 ASPER 2001, 94-97; PARSONS 2002, 105-107; bes. STROOTMAN 2010, 40. 83 Dazu WEBER 2011, außerdem CUSSET 2009, 102: „Le jeu de différents niveaux de discours permet de manipuler différents degrées et différentes formes d’irréverence et cette variété même offre au poète la plus grand liberté.“

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Kunstfertigkeit (tevcnh) der Intellektuellen vermehrte wiederum das Prestige des Königs84. Auch „die Bibliothek war gleichzeitig Instrument der und Symbol für die ptolemäische Macht, kein entrückter Ort für ‘Wissen an sich’.“ Die Macht der Dichtung lag also nicht zuletzt in ihrer politischen Rolle, die auch eine kulturelle Integrationsleistung darstellte, mittels derer es gelang, „die Macht der Griechen in Ägypten zu sichern und das Ansehen der Ptolemäer im Ausland zu mehren“85. Ich fasse zusammen: Ausgehend von der Passage im ersten Mimiambos des Herodas wurde die Frage nach Positionen und Aufgaben der Dichter an den hellenistischen Königshöfen gestellt. Es konnte gezeigt werden, dass sowohl Personen, die in verschiedene (intellektuelle) Funktionsbereiche am Hof eingebunden waren, Gedichte verfassten, dass Dichter aber auch von außen kommen konnten. Die Übergänge dürften fließend gewesen sein, erschließen sich uns aber kaum. Durch die Situierung am Hofgeschehen bzw. ihre Intention, am Hof Fuß zu fassen, standen sie der jeweiligen Monarchie grundsätzlich positiv gegenüber, wenngleich es durchaus auch kritische Stimmen gab. Dass diese Gruppe aber – zumindest nach dem erhaltenen Material zu urteilen – sehr klein war, dürfte nicht zuletzt durch die ‘Macht der Dichter’ bedingt gewesen sein. Ein wesentlicher Faktor, der die Dichtung beeinflusste, stellte die Konkurrenz zwischen den Dichtern um die Gunst des Königs dar, während sich die Themen aus dem höfischen Geschehen heraus ergaben, jedenfalls nicht gesteuert erscheinen. Dichter und Dichtung konnten jedenfalls das klevo" eines Königs steigern und integrativ wirken. An ein bekanntes Problem sei zum Schluss nochmals erinnert: Unsere Kenntnisse beziehen sich vorwiegend auf die Situation am Ptolemäerhof. Dabei sind für die anderen Höfe sowohl Dichter als auch Bibliotheken bekannt, aber es haben sich weitaus weniger Werke erhalten. Diese auf Themen, Personen und Situationen genauer zu analysieren, wäre eine lohnende Aufgabe für künftige Forschungen86.

84 85 86

Dazu STROOTMAN 2010, 38f.; 45. Beide Zitate bei ASPER 2004, 12. Ansätze zur Zeit von Antiochos III. bei COPPOLA 2002, 122-127.

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LA PROPAGANDE DE POMPÉE : CONCEPTION, DIFFUSION ET RÉCEPTION GILLES SAURON

Mon propos concernera ce qu’il est convenu d’appeler la propagande de Pompée, même si le terme de propagande, mis à la mode par les régimes totalitaires qui ont prospéré sur le sol européen des années vingt aux années quarante du dernier siècle, n’évoque que de très loin les mises en scène très raffinées des chefs de la noblesse romaine des années soixante aux années quarante du dernier siècle avant notre ère. La propagande qui a entouré la longue carrière du Grand Pompée est connue par des images monétaires (en particulier par les deniers émis par son gendre Faustus Cornelius Sylla en 56 avant J.-C.1), par des inscriptions et par divers textes qui célèbrent autant les qualités proclamées du personnage, comme sa « probité » (probitas, d’après Salluste ap. Suétone, De grammaticis 15, et Pline, NH XXXVII 14) ou sa « chance » (felicitas, d’après Cicéron, De imperio Cn. Pompei 47, et César cité par Suétone, Divin Jules 35,3), que ses ambitions de pacificateur et de conquérant. Exprimée sur le mode épique, comme lors du concours de Mytilène organisé par son ami Théophane (Plutarque, Pompée 42,8), cette propagande n’hésitait pas à comparer Pompée à Alexandre, voire à Hercule ou Dionysos (Pline, NH VII 95). Je centrerai mon propos sur le complexe monumental construit à l’initiative de Pompée au centre du Champ de Mars, au lendemain de son retour d’Orient en 63 et de son triomphe en 61 avant J.-C. et qu’il dédia en deux temps, au cours de son deuxième (55 avant J.-C.) puis de son troisième consulat (52 avant J.C.). Cet ensemble d’édifices introduisait dans le paysage urbain de Rome deux équipements jusque-là inconnus, le parc public et le théâtre permanent2. Mais ce qui va nous intéresser ici, c’est qu’il offrait au regard du monde la mise en scène de Pompée sur le mode héroïque. 1

CRAWFORD 1974, 449-451 (n. 426-4 a/b). Maren-Grischa Schröter est revenue récemment sur l’argument (SCHRÖTER 2008, 29-44). Elle conteste ma thèse d’une influence directe de modèles hellénistiques (p. 39), pourtant explicitement affirmée par Plutarque (Pompée 42,9), et qu’une comparaison avec l’aménagement de l’acropole de Pergame, dont le théâtre était dominé par le temple d’Athéna Nikephoros, rend si évidente. Pour elle, les opera Pompeiana se situent au contraire dans la droite ligne des aménagements de Tivoli ou de Préneste ! Par ailleurs, elle ne s’intéresse nullement à la signification de l’aménagement statuaire du parc… qui n’est pourtant pas sans rapport avec « le contexte de la politique de Pompée », qui est censé faire la matière de sa contribution ! 2

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Les opera Pompeiana étaient composés d’une séquence monumentale inédite, formée, d’ouest en est, d’un vaste théâtre, puis, derrière la scène, d’un parc entouré d’un quadriportique, et, enfin d’une curie s’ouvrant sur le portique, en conclusion de l’axe longitudinal du complexe. Le cratère des gradins du théâtre était surmonté d’un temple dédié à Vénus Victrix (« Victorieuse »), encadré de deux chapelles, l’une dédiée à Honos (dieu de l’« Honneur », patronnant les carrières officielles) et Virtus (déesse du « Courage »), et l’autre à Felicitas (déesse de la « Chance »). Contrairement à une tradition historiographique marquée par la restitution graphique due au talentueux architecte français Baltard, Antonio Monterroso Checa a démontré que le sanctuaire ne comportait pas d’abside, mais devait avoir l’apparence d’un temple à plan barlong et comportant trois cellae3. Pompée réunissait ainsi toutes les divinités qui patronnaient depuis toujours les généraux vainqueurs de Rome, Vénus, la mère du lointain ancêtre troyen Énée, « victorieuse » du Jugement rendu par Pâris, le fils de Priam, le roi de Troie, Honos et Virtus, les dieux préférés de ceux qui s’opposaient à la noblesse, comme Marcellus, ou de ceux qui n’y appartenaient pas, les « hommes nouveaux » (homines noui), comme Marius, et enfin Felicitas, la déesse des hommes d’exception choisis par le destin. Cette innovation dans le paysage urbain de Rome sauvegardait en partie les équilibres politiques antérieurs. D’abord parce que le public était strictement réparti à l’intérieur du théâtre en fonction de son rang dans la société : les sénateurs étaient installés sur leur siège portatif autour de l’orchestra et les chevaliers occupaient les quatorze premiers rangs de gradins. D’autre part, la nouvelle curie réservée aux réunions du Sénat était placée à un endroit stratégique du complexe, puisqu’elle en concluait la perspective. Mais il est certain que ces constructions ont marqué une étape importante sur la voie de l’instauration d’un régime monarchique à Rome. La curie contenait une statue de Pompée, aux pieds de laquelle César devait être assassiné aux ides de mars 44 avant J.-C. (Cicéron, De la divination II 9 ; Plutarque, César 66 ; Brutus 17 ; 37). Pompée lui-même était autorisé à porter dans son théâtre une couronne d’or et la prétexte (Velleius Paterculus II 40,4 ; Appien, Mithridatica 113 ; Dion Cassius XXXVII 21,4). Mais surtout, l’imperator avait probablement fait de son parc la mise en scène permanente de son incomparable dimension héroïque, qui, nous disent les sources, « l’égalait à la puissance d’Alexandre le Grand, mais aussi presque à celle d’Héraclès et de Dionysos » (Pline, NH VII 95 : aequato non modo Alexandri Magni rerum fulgore, sed etiam Herculis prope ac Liberi patris). Grâce à une étude très ingénieuse de Filippo Coarelli4, qui a eu l’idée de 3

MONTERROSO CHECA 2006, 27-58. COARELLI 1996, 360-381 (réédition d’une étude de 1971/1972). Voir BERNARD 1985 ; SAURON 1994, 249-314. 4

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croiser les sources épigraphiques (IGUR I 210-212), littéraires (Pline, NH VII 34 ; Tatien, Discours aux Grecs 33-34) et archéologiques (la découverte d’une statue de femme assise), nous savons qu’on y trouvait trois séries de statues féminines, d’une part des hétaïres, célèbres courtisanes qui avaient laissé un nom dans l’histoire grecque, comme Phryné, d’autre part des poétesses grecques, comme Sappho, et enfin des femmes ayant connu des accouchements miraculeux, comme Pasiphaé, la mère du Minotaure. Le choix de ces trois catégories de femmes correspondait à la nature des divinités qui surmontaient le théâtre. La beauté et l’activité des premières les reliaient à Vénus Victrix, victorieuse d’un concours de beauté, les secondes, qui devaient leur célébrité à l’exercice de leurs talents, à Honos et Virtus, et les troisièmes devaient tout à Felicitas, qui, pour les femmes, était la déesse de la Fécondité. Mais surtout, la représentation de Pompée, sans doute sous l’apparence d’un héros, nu et armé5, face à des femmes disparues, regroupées par catégories de destin terrestre (fig. 1), plaçait le général à l’intérieur d’une évocation traditionnelle du héros visitant les Enfers de son vivant (Homère, Odyssée XI 1 sq., à propos d’Ulysse ; Virgile, Géorgiques IV 475-477, à propos d’Orphée = Énéide VI 306-308, à propos d’Énée). Il ne s’agissait pas évidemment de faire croire que Pompée avait suivi les pas de ses illustres devanciers, Héraclès et Dionysos, au royaume des ombres (PseudoPlaton, Axiochos 371 d-e : « Héraclès et Dionysos qui sont descendus chez Hadès », ÔHrakleva te kai; Diovnuson kativonta" eij" A { idou), mais de signifier, sur le mode épique d’une transposition mythique, que, comme eux, il avait atteint les limites de la terre habitée, l’Océan où la tradition situait l’entrée des Enfers. Car tel était bien le sens de sa propagande, selon Plutarque : Pompée voulait « n’avoir pour borne de ses victoires que l’Océan qui entoure de tout côté la terre » (Pompée 38,4 : wJ" tw`/ periiovnti th;n oijkoumevnhn pantacovqen prosmivxeie nikw`n). Une telle Fig. 1 – Le complexe pompéien du mise en scène assimilait le parc de Pom- Champ de Mars vu de la statue de pée aux Champs Élysées de la tradition Pompée dans la curie (Albéric Olivier del.). mythologique. 5 Il s’agirait du « Pompée Spada » selon COARELLI 1996, 378 sq. Contra, FACCENNA 1956, 173-201, qui reconnaît Domitien dans cette célèbre statue, et LA ROCCA 1987-1988, 265-292, qui suppose que Pompée était représenté selon le type du Poséidon de Lysippe.

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Nous savons que l’impact de ces constructions sur les esprits fut considérable, y compris sur celui de Pompée lui-même, qui aurait fait un cauchemar à la veille de Pharsale en se voyant rendre hommage dans son théâtre à Vénus, dont la famille de César prétendait descendre (Lucain, Pharsale VII 9-12 ; Appien, Guerre civile II 69 ; Plutarque, Pompée 68,2). Plus tard, Néron rêvera « que les statues des Nations inaugurées près du théâtre de Pompée l’entouraient et lui barraient le passage » (Suétone, Néron 46,2)6. Au siècle suivant, l’apologète chrétien Tatien, originaire de Syrie, tira de la surprenante vision de la triple galerie d’effigies féminines qui ornaient le parc de Pompée une longue invective à l’égard de l’immoralité de l’art grec7. Parmi les nombreux témoignages dont nous disposons sur les diverses façons dont cet ensemble monumental et son décor ont pu impressionner les esprits, je voudrais aujourd’hui insister sur les échos très précis que l’on en rencontre sur des fresques réalisées pour des membres de l’aristocratie romaine de l’entourage plus ou moins proche de Pompée. On observe, par exemple, au centre de la mégalographie de Boscoreale, de part et d’autre d’une image de Vénus, la présence de divinités abstraites, à gauche Fortuna, et à droite deux Erotes et une Psyché, ce qui rappelle les divinités abstraites, Felicitas, d’une part, et Honos et Virtus, d’autre part, qui encadraient Vénus au-dessus de la cauea du théâtre de Pompée. Et cet écho est d’autant plus sensible que la signification de la grande fresque de la villa de Boscoreale m’a paru en rapport avec la « théologie physique » imaginée par Varron pour Vénus Victrix, considérée par cet ami intime de Pompée comme la « puissance de liaison » (uinctionis uis) entre toutes les parties contraires du cosmos, comme le masculin et le féminin, l’âme et le corps, la terre et le ciel etc.8 À Boscoreale, l’opposition entre Fortuna, d’une part, et le couple Eros et Psyché, d’autre part, renvoyait probablement à une opposition de tradition platonicienne entre le destin terrestre de l’âme, soumise aux caprices de la Fortune, et la possibilité d’échapper aux vicissitudes de l’incarnation si l’âme, psyché, s’enflamme de désir, éros, pour les réalités célestes. Et les deux parois latérales de la pièce développaient chacun de ces thèmes, par exemple, à gauche, celui de Fortuna, par la représentation du philosophe Démétrios de Phalère, suivi de l’illustration d’un passage très célèbre de son traité Sur la Fortune, cité successivement par Polybe (Histoires XXIX 21) et par Diodore (Bibliothèque historique XXXI 10), où il prenait l’exemple de la victoire ré6 Il s’agissait d’une série de XIV Nationes (allégories féminines symbolisant sans doute les nations dont Pompée venait de triompher en 61) qu’un certain Coponius, au témoignage contemporain de Varron, rapporté par Pline (NH XXXVI 41), avait sculptées en marbre et que l’on disposa sur le pourtour de l’enceinte. 7 Citée supra, p. 145. 8 En dernier lieu SAURON 2007, 73-87.

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cente et inattendue de l’obscure Macédoine sur l’illustre Perse. Mais je voudrais insister ici sur la peinture qui orne un grand salon de réception de la villa dite « de Poppée » à Torre Annunziata, l’antique Oplontis mentionnée sur la carte de Peutinger. Cette vaste pièce apparaît sous le numéro 15 sur les plans publiés par Alfonso De Franciscis. Son côté occidental n’a hélas pas pu être dégagé, ce qui nous prive sans doute de la connaissance d’un document de première importance sur les questions qui nous occupent ici. Le décor principal de la fresque montre une composition illusionniste qui se répartit sur deux plans. Au premier plan, on voit une façade animée de quatre colonnes corinthiennes réparties deux par deux sur deux podiums qui encadrent une haute ouverture au sommet cintré, curieusement divisée en deux parties égales par un entablement surmonté d’un fronton, qui couronne une porte dont les deux grilles sont aux trois-quarts ouvertes. Dans l’encadrement de cette porte, on voit un dispositif doublement étrange, par sa position d’abord, qui paraît interdire le passage, par sa nature ensuite, puisqu’il s’agit d’une belle torchère en bronze, dont la pointe acérée n’est pas enfoncée dans le faisceau d’une torche et qui repose contre un empilement de pierres plates en même temps qu’un crâne de bovidé9. Les parties latérales de cette façade présentent trois niveaux superposés : au niveau inférieur, un mur plein surmonté d’une corniche dorée, puis un premier vide limité par une corniche rouge, puis un deuxième vide couronné par l’entablement que supporte l’ordonnance corinthienne du premier plan. Un certain nombre de décors et d’accessoires sont disposés sur les trois niveaux de chacune des parties latérales de la façade. Sur chacun des podiums, on voit disposé un long rameau de laurier (fig. 2 f-f’), tandis que deux petits oiseaux sont visibles chacun à l’extrémité d’un des deux podiums, de part et d’autre de l’ouverture centrale, un blanc à gauche, un noir à droite (fig. 2 g-g’). Au niveau intermédiaire, un paon est représenté de chaque côté, perché sur la corniche dorée, en avant d’un rideau noir abaissé qui dévoile la perspective sur les portiques placés à l’arrière-plan (fig. 2 e-e’). Aux extrémités de la façade et à travers les deux ouvertures superposées, on aperçoit à droite et à gauche une paroi perpendiculaire au front de scène et peu profonde. Ces deux parois latérales sont reliées par un plafond et dotées de deux petites corniches, l’une placée au tiers, l’autre aux deux tiers de leur hauteur. Les corniches situées sur la partie inférieure de ces murs latéraux servent de support à un masque tragique (fig. 2 d-d’), celles du niveau supérieur à un tableau dont les volets de protection sont largement ouverts et qui représente un bord de mer peuplé de personnages, parmi lesquels 9 Les torchères luxueuses de ce genre étaient désignées par le mot lychnuchus, transposé du grec (lucnou`co"). César en fit disposer de chaque côté du corps de quarante éléphants au cours de la montée au Capitole au terme d’un de ses triomphes en 46 avant J.-C. (Suétone, Divin Jules 37,3).

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un pêcheur à la ligne figuré au premier plan du tableau de droite (fig. 2 c-c’). À l’arrière-plan, on aperçoit à travers les nombreuses ouvertures de la façade un grand péristyle encadrant un parc. Sur l’axe longitudinal du parc, une base circulaire supporte un haut trépied à l’éclat doré dont le bassin (la cortina), qui apparaît sous l’arc disposé au centre du front de scène, est orné de godrons sur la panse, tandis que son rebord est décoré de gemmes et surmonté de trois étoiles (fig. 2 b). Le péristyle présente une apparence des plus étranges. Son ordonnance inférieure est dorique et sa couleur est une sorte de rose orangé qui pourrait évoquer l’éclat d’un marbre blanc comme le pentélique, mais patiné par le temps. L’ordonnance supérieure ionique surprend, surtout du fait que le ciel apparaît entre les colonnes que l’on aperçoit à l’arrière du trépied, mais aussi par la différence de couleur avec l’ordonnance du bas (ici, il s’agit d’un gris bleuté), par le fait que la hauteur même de ces colonnes ioniques est disproportionnée pour une ordonnance supérieure, sans parler du fait encore plus surprenant encore que cette ordonnance supérieure paraît disposée en retrait par rapport à l’ordonnance inférieure, avant de se retourner au fond de la composition. Pour se convaincre au premier coup d’œil de l’extravagance de ce qui nous est montré ici, il suffit de comparer ces colonnades superposées à celles d’un monument réel, comme le por-

Fig. 2 – Fresque du salon 15 de la villa « de Poppée » à Torre Annunziata (Oplontis) : interprétation graphique (Albéric Olivier del.).

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tique d’Attale sur l’agora d’Athènes tel qu’il a été fidèlement reconstitué par les archéologues américains, où les colonnes de l’ordre supérieur sont d’un module nettement inférieur à celles de l’ordre inférieur et sont évidemment placées dans le prolongement de ces dernières. La difficulté de comprendre cette représentation d’architecture a donné lieu à des restitutions fantaisistes de ce qui nous est montré ici10. Or il convient d’interpréter cette dernière ordonnance, qui apparaît presque évanescente à l’arrière du trépied, comme le retour des deux ordonnances ioniques latérales, ainsi que le montre une interprétation graphique de la fresque réalisée par Albéric Olivier (fig. 3). Au lieu de chercher à rectifier ce qui nous est montré ici, on est contraint soit

Fig. 3 – Fresque du salon 15 de la villa « de Poppée » à Torre Annunziata (Oplontis) : restitution graphique des architectures représentées (Albéric Olivier del.). 10 Donatella Mazzoleni vient de publier une restitution axonométrique des architectures ici représentées où les colonnes des deux ordres superposés sont disposées, comme il est normal dans une architecture réelle, dans le prolongement les unes des autres. Elle imagine de plus que les colonnades latérales se prolongent au-delà de la colonnade ionique parallèle au plan du tableau, qu’elle suppose d’ailleurs privée de liaison avec les deux colonnades ioniques latérales : MAZZOLENI - PAPPALARDO - ROMANO 2004, 136-137 (fig.) ; 406-408. De son côté, Wolfgang Ehrhardt assimile cette colonnade à « un portique isolé », terme mal choisi pour une ordonnance qui ne supporte aucun toit, tandis que, selon lui, les deux portiques latéraux finiraient sur les côtés de la composition, sans se retourner pour former un portique en U : EHRHARDT 1991, 48.

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d’imaginer la colonnade ionique flottant au-dessus et en retrait de l’ordonnance du rez-de-chaussée, soit de supposer qu’elle est fondée par le mur de fond du portique dorique, comme le suggère Albéric Olivier, et comme en plus elle ne supporte aucun toit, force est d’admettre qu’elle contrevient dans toutes les hypothèses aux finalités fonctionnelles qui sont la justification de toute architecture. Comment interpréter un tel décor ? La présence du trépied au centre de la composition a miraculeusement réconcilié les commentateurs autour de l’idée que nous serions en présence d’un sanctuaire d’Apollon, et certains ont mis ce décor en rapport précis avec la dédicace par Auguste de bassins (cortinae) en or, installés probablement sur des trépieds, au sanctuaire d’Apollon Palatin vers 28 avant J.-C. (Res Gestae Diui Augusti 24,2 ; Suétone, Divin Auguste 57,1)11. Ceux qui ont vu dans cette fresque une allusion à l’initiative d’Auguste ont dû évidemment en abaisser l’exécution aux années 25 avant J.-C., faisant fi des connaissances pourtant bien établies sur l’évolution stylistique du « deuxième style pompéien », qui placent la réalisation de ce décor au plus tard une vingtaine d’années avant la dédicace du temple augustéen, qui survint le 9 octobre 28 avant J.-C. Rolf A. Tybout a justement critiqué cette incongruité chronologique12. Or, indépendamment de l’erreur de datation qu’elle suppose, il est non moins grave qu’une telle interprétation se dispense de produire la moindre confrontation avec d’éventuels modèles qui auraient pu inspirer le peintre. Où a-t-on le témoignage d’un sanctuaire d’Apollon constitué d’un trépied placé au centre d’un péristyle ? Sûrement pas dans le sanctuaire d’Apollon Palatin (area Apollinis), en tout cas, et de plus cette identification néglige tous les détails d’une composition qui devrait frapper le regard le moins averti par son étrangeté. Or si l’on considère l’ensemble de la composition, il apparaît clairement que l’on a voulu ici évoquer un modèle architectural bien connu dans la Rome de l’époque, une frons scaenae de théâtre en avant d’un parc entouré de portiques, ce que Vitruve appelle des porticus post scaenam (De l’architecture V 9,1 sq.). À la frons scaenae, notre façade du premier plan emprunte la caractéristique de n’être qu’une façade, un pur décor ne donnant accès à aucun espace construit. La présence des deux masques tragiques pourrait être un 11 Affirmée indépendamment l’un de l’autre par Gilbert-Charles Picard (PICARD 1977, 247) et Erika Simon (SIMON 1978, 217-218), cette identification a été reprise par Arnold et Mariette De Vos (DE VOS DE VOS 1982, 252), encore récemment par Lorenzo Fergola (FERGOLA 2004, 40) et développée par Paul Zanker (ZANKER 1987, 265-266 et fig. 209). John R. Clarke a proposé d’identifier ici un sanctuaire de Junon, hypothèse qu’il n’appuie que sur la présence des paons qui « habitent » la composition, sans tenir compte de la fonction des architectures ici représentées (CLARKE 1991, 116). Rolf A. Tybout de son côté prétend rattacher le décor du grand salon 15 au monde du luxe (luxuria) en général (TYBOUT 2001, 52). 12 TYBOUT 1989, 361 et n. 1309 ; TYBOUT 2001, 35.

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argument supplémentaire, mais nous n’envisageons pas pour l’instant les éléments de décor étrangers à l’architecture. Quant au parc entouré de portiques et disposé à l’arrière d’un front de scène, c’est exactement le dispositif que présentait le complexe monumental dédié par Pompée au milieu du Champ de Mars en 55 et 52 avant J.-C. (supra, fig. 1). Mais évidemment, cette peinture ne reproduit pas avec fidélité un modèle réel : le front de scène romain comportait trois portes, les scénographies comblaient les vides de l’architecture, et surtout que viendraient y faire deux paons disposés symétriquement en avant des rideaux noirs en partie baissés ? Pour le regard romain contemporain de la réalisation de cette fresque, une représentation qui ne reproduit pas un type générique ou singulier de réalité appartient ipso facto au vaste domaine de l’allégorie. Ici, la citation du modèle de la frons scaenae a une valeur évidemment toute symbolique. Or justement, la scène antique était devenue un symbole courant de la vie humaine13. Un élément du décor, situé exactement au centre de la composition, dans l’encadrement de la porte qui s’ouvre au milieu de la façade, et donc à une place privilégiée, apporte à cette interprétation une confirmation décisive. Il s’agit de la torchère en bronze, qui devrait jouer le rôle de symboliser la mort. Pour Virgile, les morts sont « ceux qui sont privés de lumière » (Géorgiques IV 472 : luce carentum). Sur le même axe, mais cette fois à l’arrière-plan, sur un fond de bleu céleste, on observe le bassin étoilé qui repose sur un trépied. Or ce motif, bizarrement privé de ses étoiles sur le dessin exécuté par W. Aulmann sur les instructions de W. Ehrhardt14, ne trouve de confrontation pertinente qu’avec une image 13 La célèbre formule « la vie est un théâtre » (skhnh; oJ bivo") apparaît sur un gobelet en argent du trésor de Boscoreale (HÉRON DE VILLEFOSSE 1899) et se retrouve presque identique sous la plume d’un poète de l’Anthologie palatine (X 72,1: « Toute la vie est un théâtre », skhnh; pa`" oJ bivo"), et sous celle de Clément d’Alexandrie (Protreptique II 12,1 : « …comme sur la scène de la vie », …oi|on ejpi; skhnh`" tou` bivou). Diomède, un grammairien latin du IVe siècle, mentionnait la définition du mime par les Grecs comme « une imitation de la vie » (Grammatici latini III 491 Keil : mi`mo" ejstin mivmhsi" bivou). Bion, cité par Télès (deuxième diatribe, Sur la nécessité de se suffire à soi-même [peri; aujtarkeiva"], p. 5 sq. Hense), assimilait la Fortune à une faiseuse de pièces. Dans un de ses dialogues, Cicéron fait de la vieillesse « pour ainsi dire, le dernier acte de la vie, comme d’une pièce de théâtre » (Cicéron, De la vieillesse 85 : aetatis est peractio tanquam fabulae) et parle même un peu auparavant de la « pièce de la vie » (64 : « ceux qui ont usé avec panache des avantages de l’autorité, ont achevé, à mon avis, la pièce de leur vie, sans s’effondrer au dernier acte comme les acteurs sans expérience », quibus [scil. auctoritatis praemiis] qui splendide usi sunt, ei mihi uidentur fabulam aetatis peregisse nec, tanquam inexercitati histriones, in extremo actu corruisse). Il y a aussi le fait qu’Auguste aurait cité un comique grec sur son lit de mort: « Si la pièce vous a plu, donnez-lui vos applaudissements, et tous ensemble, manifestez votre joie » (Suétone, Divin Auguste 99,2), après avoir déclaré: « J’ai bien joué le mime de la vie (ecquid iis uideretur mimum uitae commode transegisse) » (ibidem 99,1; cf. Dion Cassius LVI 30,4). 14 EHRHARDT 1991, 47, fig. 7. C’est privé de cette information essentielle que les lecteurs de l’article d’Antike Kunst, où le dessin a été publié, ainsi que du second supplément à l’Enciclopedia dell’arte antica (DE FRANCISCIS 1996, 78, fig. 109) et de l’ouvrage récent sur les Fresques des villas romaines où il a été

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monétaire qui apparaît sur les deniers émis en 65 avant J.-C. par L. Manlius Torquatus. Au droit on voit la tête de la Sibylle vue de profil, avec l’inscription SIBYLLA ou SIBVLLA, et au revers, à l’intérieur d’un encadrement formé par un torque qui était le blason des Manlii Torquati, un trépied surmonté par deux étoiles encadrant une amphore15. Le trépied est sans doute un symbole bien connu de la prêtrise du monétaire, qui était quindecimuir sacris faciundis16. Mais la présence des deux étoiles encadrant une amphore est unique. Andreas Alföldi a reconnu dans les deux étoiles un symbole des Dioscures, notamment dans l’iconographie spartiate17, et les deux étoiles font évidemment allusion à l’identification traditionnelle des Dioscures avec la constellation zodiacale des Gémeaux. Fernand Chapouthier a, de son côté, reconnu dans l’amphore un symbole du commerce maritime et de l’abondance garantis par les Dioscures / Gémeaux, puisque cette constellation était, comme on le sait, très utile aux navigateurs de cette période18. Sur la fresque, ce n’est pas une amphore qui s’interpose entre les Gémeaux, mais une étoile, disposée sur l’axe de symétrie de l’ensemble du décor, ce qui la met en relation évidente avec la torchère sans torche du premier plan. Si l’on se rappelle la signification vraisemblable de cette torchère privée de lumière qui devrait symboliser la mort d’une personne précise, il faut sans doute conclure que l’étoile disposée entre les Gémeaux est une allusion à l’apothéose astrale de l’âme de ce défunt dans la constellation des Gémeaux. On songe à Ovide, se plaignant de l’absence à Sulmone de la femme qu’il aime, et qui s’écrie dans son recueil élégiaque des Amours : « Non vraiment, même si l’on me plaçait entre Castor et Pollux, sans toi je ne voudrais pas habiter le ciel » (II 16,13-14 : non ego, si medius Polluce et Castore ponar, / in caeli sine te parte fuisse uelim)19. Point n’est besoin de revenir ici sur les origines et l’histoire de cette croyance dans la translation astrale des âmes pures et valeureuses. Nous sommes ici à l’époque où Cicéron possédait une propriété à Pompéi à partir de 60 avant J.-C. et jusqu’à sa mort20, en sorte que le Romain reproduit (MAZZOLENI - PAPPALARDO - ROMANO 2004, fig. p. 406), sont invités à prendre connaissance de notre fresque ! Et cet oubli est d’autant plus choquant que le bassin étoilé qui surmonte le trépied est mis en valeur, sur l’axe central de la composition, par le fait qu’il apparaît au milieu d’une sorte de cercle, formé pour une moitié par l’arc qui couronne la porte de la façade, et pour l’autre par la courbure du rideau noir abaissé qui libère la perspective sur lui. 15 CRAWFORD 1974, 439 et pl. L (n. 411). On retrouve une image semblable d’un trépied dont le bassin est surmonté de deux étoiles encadrant une amphore sur trois bases néo-attiques d’époque augustéenne : GOETTE 1984, 573-589. 16 GAGÉ 1955, 463. 17 ALFÖLDI 1975, 184-185, et pl. 28 (3-8 et 12), pl. 29 (1-8 et 10-12) pour les monnaies de Manlius Torquatus, et pl. 28 (9-11) pour les monnaies spartiates. 18 CHAPOUTHIER 1935, 4 ; 150 n. 1 ; 315-316. 19 Éd. et tr. H. BORNECQUE, Paris 1930, 63. 20 CARCOPINO 1957, 83-92 ; D’ARMS 1970, 39-72 ; 198.

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qui a fait peindre cette fresque était à la fois le contemporain et le voisin de l’auteur des Tusculanes et du Songe de Scipion. Il convient de se demander maintenant ce que symbolise la colonnade supérieure du portique de l’arrière-plan, celle qui encadre le bassin aux trois étoiles et qui laisse apercevoir le ciel entre ses colonnes. Ce portique privé de toit, qui est un des leitmotive des décors de deuxième style alors que ce thème architectural était rarissime dans les constructions réelles dans le monde méditerranéen de l’époque, fait songer à l’Olympe décrit par Homère comme « la demeure toujours stable des dieux. Ni les vents ne l’ébranlent, ni la pluie ne la mouille, ni la neige n’y tombe, mais toujours s’y déploie une sérénité sans nuage et partout y règne une éclatante blancheur » (Odyssée VI 42-45), en une évocation fameuse qui sera imitée par Lucrèce pour décrire les résidences tranquilles des dieux selon Épicure (De la nature III 18-22). Je songe aussi à un curieux passage de son dialogue De l’orateur (III 180), où Cicéron imagine « que le temple de Jupiter Capitolin se trouve au ciel, bien au-dessus des nuages et des intempéries » (…ut etiam si in caelo Capitolium statueretur, ubi imber esse non potest…), et prétend que, même dans cette hypothèse, il devrait conserver son toit « parce que, sans lui, le monument semblerait avoir perdu sa dignité » (…nullam sine fastigio dignitatem habiturum fuisse uideatur). Mais sur notre fresque, la colonnade sans toit a évidemment une valeur allégorique et devrait délimiter un de ces « temples bleus du ciel » dont parlait Ennius dans ses Annales (fr. 48 ; 54-55 Skutsch). Il convient de plus de se rappeler que cette composition picturale qui dispose l’évocation d’un front de scène en avant d’un portique encadrant un parc est une allusion certainement concertée au complexe monumental du Champ de Mars, que Pompée avait dédié quelques années avant la réalisation de cette fresque. Or cette allusion ne s’applique pas qu’à l’apparence des aménagements romains de Pompée. Nous avons vu que le parc (ambulatio Pompeiana) entouré des portiques (porticus Pompeiana) était assimilé aux Champs Élysées par la présence de statues d’héroïnes regroupées par catégories de destins terrestres, face à la statue de Pompée le Grand qui les « regardait » du fond de la curie (curia Pompeia), dans une évocation traditionnelle de la visite du héros vivant aux Enfers (supra, fig. 1). Comment interpréter dès lors la composition de cette évidente transposition picturale du portique pompéien ? On observe que l’image est divisée verticalement en deux niveaux superposés : au niveau inférieur, nous reconnaissons bien les portiques entourant un parc à l’arrière d’un front de scène, mais au-dessus, le portique que l’on voit n’est sûrement pas l’évocation d’un portique en étage représenté d’une façon réaliste, mais une évocation allégorique des Champs Elysées célestes du mysticisme astral, ce qui explique que, à ce niveau, apparaisse au centre le bassin du trépied avec ses trois étoiles se détachant sur l’azur du ciel, symbolisant l’âme du défunt à l’intérieur de la constellation des Gémeaux.

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J’en conclus que celui qui a imaginé ce décor voulait explicitement se référer à l’architecture du complexe pompéien du Champ de Mars, en connaissait la signification symbolique, et a voulu superposer aux Champs Elysées homériques qu’il évoquait les Champs Elysées célestes où il croyait devoir situer l’âme du grand personnage défunt qu’il commémorait. Mais de quel grand personnage s’agit-il ? Je ne fais que résumer ici une enquête qui a duré une dizaine d’années. On se rappelle que le front de scène symbolisait probablement la vie du défunt, je veux dire sa vie « terrestre », au sens où l’entendait le mysticisme de tradition pythagoricienne et platonicienne auquel se rattachaient, dans la Rome de cette époque, ceux qui croyaient en une destinée possible de l’âme au ciel. On peut alors supposer que les décors accessoires que nous avons vus accrochés au pseudo front de scène symboliseraient certains aspects de la vie du personnage qui a été jugé digne d’une apothéose astrale dans les Gémeaux. Une telle composition ne s’inscrit certes pas à l’intérieur de la tradition iconographique de la peinture grecque, mais se réfère au procédé mnémotechnique bien connu des orateurs antiques sous le nom d’ars memoriae. Il s’agissait, selon la terminologie utilisée par Cicéron (De l’orateur II 351-354) et l’auteur anonyme de la Rhétorique à Herennius (III 16-24), de disposer mentalement des « représentations » (imagines) à l’intérieur d’un lieu (locus). L’identité du personnage ici commémoré m’a paru se déduire des différentes imagines que l’on voit disposées sur le front de scène, un locus, qui passait depuis longtemps pour un symbole de la vie humaine. Les deux petits tableaux représentant des bords de mer tranquilles, et dont l’un figure un pêcheur à la ligne, se situent au même niveau, mais non sur le même plan que les trois étoiles représentant l’apothéose astrale du défunt dans la constellation des Gémeaux. À la même époque, P. Nigidius Figulus écrivait dans sa Sphère grecque (Sphaera Graecanica) que les Dioscures « ont reçu l’honneur de la constellation des Gémeaux parce qu’ils ont été les premiers à pacifier la mer des méfaits des pirates » (Nigidius Figulus, fr. 91 Swoboda = Sphaera Graecanica, fr. 9 Liuzzi : Castorem et Pollucem Tyndaridas Geminorum honore decoratos, quod ii principes dicantur mare tutum praedonibus maleficiisque pacatum reddidisse). J’ai supposé que le personnage commémoré par cette fresque avait mérité aux yeux de sa famille de rejoindre les Gémeaux parce que, tout comme les Dioscures, il avait dû contribuer à la pacification des mers et des côtes, pacification symbolisée par les deux petits tableaux figurant des bords de mer paisibles21. On peut supposer alors 21 Il convient de rapprocher la formulation de Nigidius Figulus de celle qui concernait la victoire piratique dans la déclaration officielle (praefatio) du triomphe de Pompée en 61 avant J.-C. (d’après Pline, NH VII 98 : « Comme il avait libéré le rivage maritime des pirates et restitué l’empire de la mer au peuple Romain… », cum oram maritimam praedonibus liberasset et imperium maris populo Romano restituisset…). On peut noter de plus dans ce dernier texte l’insistance sur la libération du « rivage ma-

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que le personnage honoré par cette fresque était considéré par ses héritiers digne de rejoindre les Dioscures dans la constellation des Gémeaux, lui qui avait, à leur imitation, contribué à chasser les pirates des côtes et des mers. La croyance dont il est question ici ne considérait pas la survie du défunt comme une simple récompense des hauts faits accomplis au cours de sa vie terrestre, telle que l’exprimait Cicéron dans le Songe par la bouche de Scipion l’Africain (Cicéron, De la république VI 13). Au contraire, la conception de l’immortalité bienheureuse qui se manifeste sur notre fresque fait de cette seconde vie, éternelle celle-là, l’occasion de poursuivre l’action bienfaisante amorcée icibas. Nul n’a exprimé plus nettement cette doctrine que Virgile à propos d’Auguste, en envisageant pour le prince diverses possibilités de destin posthume (Géorgiques I 24-35). Il demande d’abord à ce dernier s’il espère devenir un dieu protecteur de la terre ou de la mer, puis, à une époque où on se souvenait que le Scorpion avait longtemps été étiré sur l’emplacement de deux constellations zodiacales22, si Auguste ne deviendra pas la constellation de la Balance, entre la Vierge (Érigone) et le Scorpion, à la place des Pinces de ce dernier. Mon enquête s’est donc orientée vers un des treize légats (legati pro praetore) qui ont secondé Pompée pour sa « guerre piratique » (bellum piraticum) de 67 avant J.-C., et dont Florus (I 41 sq.) et surtout Appien (Mithridatica 95) nous ont conservé la liste avec l’indication de leur zone de commandement. Le seul personnage qui m’a paru répondre à tous les critères qui se déduisent de l’analyse de la fresque (participation au bellum piraticum, fidélité à Pompée, descendance susceptible de lui offrir l’hommage de cette commémoration, croyance affichée dans le spiritualisme de tradition pythagoricoplatonicienne) est M. Pupius Piso Frugi Calpurnianus, le consul de 61 avant J.-C.23. Légat en Bithynie et en Thrace, chargé d’une flotte dans l’Hellespont et la Propontide au cours de la guerre contre les pirates24, il était d’une éducaritime » (ora maritima), que nos deux petits tableaux, notamment celui qui représente un pêcheur à la ligne, illustrent précisément. Une inscription romaine concernant les victoires de Pompée, notamment celle sur les pirates, transcrite en grec par Diodore (Bibliotheca historica XL 4), précisait que l’imperator avait délivré des pirates « le littoral de la terre habitée » (th;n paravlion th`" oijkoumevnh") et « toutes les îles en deçà de l’Océan » (pavsa" ta;" ejnto;" jWkeanou` nhvsou"). 22 LE BŒUFFLE 1977, 169-173. 23 GUNDEL 1959, 1987-1993 ; HOFMANN-LÖBL 1996, 130-143. 24 Au témoignage formel d’Appien (Mithridatica 95 : « Publius [correction de Borghesi : Pupius] Pison était chargé de la Bithynie, de la Thrace, de la Propontide et du détroit commandant le Pont », Biqunivan de; kai; Qravkhn kai; th;n Propontivda kai; tou` Povntou stovma Pouvplio" [emendauit Borghesi, Opera, VI, 401 : Pouvpio"] Peivswn), curieusement contredit par Florus, qui affecte Caton le Jeune à ce secteur de la Méditerranée (I 41,10 : « Porcius Caton ferma comme une porte le détroit de la Propontide en le bouclant avec ses navires », ipsas Propontidis fauces Porcius Cato sic obditis nauibus quasi porta[m] obserauit), mais confirmé par une inscription de Samos qui le désigne comme « patron et évergète » de l’île (IGRRP IV 1709 : oJ dh`mo" … / Mavrkon Pivswna … / presbeuth;n [kai; ajntistrathgo;n] to;n pavtrwna k[ai; eujergevthn) et par la poursuite de ses fonctions de légat de Pompée en Orient jusqu’en

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tion extrêmement soignée, qui conduisit le père de Cicéron à lui confier son fils pour une sorte de « monitorat »25, parce que, nous signale Asconius, « il imitait la vie des Anciens et possédait une grande culture » (in Pisonianam 62, p. 15 Clark : quod in eo et antiquae uitae similitudo et multae erant litterae). Sa profonde culture grecque a été saluée d’ailleurs par Cicéron (Brutus 236), et nous savons qu’il put la développer chez lui grâce aux leçons du philosophe péripatéticien Staséas de Naples et l’enrichir à Athènes auprès d’Antiochos d’Ascalon (Cicéron, De la fin des biens et des maux V 8 ; 75), au point de se voir confier par l’auteur du dialogue De la fin des biens et des maux (le De finibus bonorum et malorum) la défense et illustration de la conception péripatéticienne du souverain bien tout au long du Ve livre de l’ouvrage. M. Pupius Piso eut un fils, sur lequel on possède de rares renseignements26. Cicéron nous apprend dans une phrase de sa IIIe Philippique qu’il était son ami intime tout en partageant l’amitié de Marc Antoine, qu’il était préteur en 44, et que, lorsque Marc Antoine procéda, après la mort de César, en tant que consul, au tirage au sort des provinces prétoriennes, il déclara s’en remettre à la décision du Sénat (Cicéron, Phil. III 25). J’ai donc supposé que c’est ce M. Pupius Piso, le préteur de 44 et le fils du consul de 61, qui fit construire et décorer la villa de Torre Annunziata vers 45 avant J.-C., et qui conçut et fit exécuter la fresque en hommage à son père. Les rameaux de laurier qui font partie des imagines symbolisant la vie du défunt devraient dès lors faire allusion au triomphe espagnol obtenu en 69 par M. Pupius Piso à la suite de son gouvernement de l’Hispania Ulterior (Cicéron, Contre Pison 62 ; Asconius, in Pisonianam 62, p. 15 Clark). Son fils aurait ainsi fait représenter le laurier du triomphe sur cette fresque, comme il avait déjà fait représenter une couronne de laurier entourant la représentation d’un glaive et d’un bouclier espagnols27 sur les monnaies émises par lui en 61 en hommage à son père consul cette année-là. Quant aux deux paons qui ornent le front de scène fictif de cette extraordinaire composition picturale et qui en sont évidemment un des ornements les plus singuliers (fig. 2 e-e’), ils devraient faire allusion à l’élevage de paons que M. Pupius Piso possédait dans l’île de Planasia (Varron, Res rusticae III 6,2 : Transmarini esse dicuntur in insulis, Sami in luco Iunonis, item in Planasia insula M. Pisonis). Faut-il rapprocher les masques tragiques qui ornent le front de scène du fait que nous connaissons un Pupius auteur 62, marquée en particulier par sa participation à la prise de Jérusalem en 63 (Flavius Josèphe, Ant. XIV 59 ; Guerre I 143). 25 GRIMAL 1966, 183. 26 SYME 1960, 15 ; BROUGHTON 1986, 177 ; HOFMANN-LÖBL 1996, 140 sq. 27 CRAWFORD 1974, 442-443 et pl. LI (n. 418). L’identification ici d’armes espagnoles est due à A. Alföldi (ALFÖLDI 1951, 198-200 ; ALFÖLDI 1975, 186). Elle me paraît plus pertinente que l’évocation des emblèmes du pontife et l’hypothétique allusion à la prêtrise d’un ancêtre que retient Crawford (p. 443).

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de tragédies grâce à un hémistiche d’Horace, qui parle de ses « compositions poétiques larmoyantes » (Horace, Epîtres I 1,67 : lacrimosa poemata Pupi) et au commentaire du scholiaste qui désigne ce Pupius comme un « auteur de tragédies » (tragoediographus)28 ? Mais rien dans nos sources ne vient confirmer cette hypothèse, et les masques de notre fresque pourraient aussi bien s’interpréter comme des symboles du « rôle » que joue tout homme dans son existence, pour reprendre une image popularisée dans tout le monde hellénisé par les Cyniques. Les rideaux noirs baissés qui dévoilent en plusieurs endroits l’arrière-plan de la composition et qui sont un des leitmotive de ce genre de décor de deuxième style, ne sont évidemment pas là de simples accessoires, mais introduisent le thème symbolique du « dévoilement ». Ces rideaux noirs baissés signalent que l’arrière-plan de la composition donne une image analogique de réalités qui se dérobent au regard des hommes, ils qualifient cette fresque comme une allégorie picturale29. Je voulais, par cette brève intervention, tenter de faire ressortir la complexité de ce qu’on appelle commodément la propagande des imperatores de la fin de la République romaine. Il s’agissait pour ces derniers de rallier à leur personne, non seulement leurs soldats, mais aussi de larges secteurs de l’opinion romaine, italienne et même mondiale. Il leur fallait élaborer avec le premier cercle de leurs conseillers des discours multiples, aptes à convaincre les esprits les plus divers. Et, on vient de le voir avec la villa d’Oplontis, la présence d’un Varron auprès d’un Pompée pour la conception de l’ensemble monumental du Champ de Mars ouvrait la voie à une intériorisation de ces discours par les esprits les plus cultivés de leur temps.

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28 SCHANZ - HOSIUS 1935, 292. Mais évidemment, le scholiaste a pu tout aussi bien déduire la qualité de ce Pupius de la formule horatienne. 29 J’ajoute que les deux petits oiseaux dont j’ai signalé la présence à l’extrémité des deux podiums qui supportent l’ordonnance corinthienne de la façade (fig. 2 g-g’), font partie des leitmotive de ce genre de composition de « deuxième style » et pourraient symboliser l’âme des propriétaires vivants de la villa au moment où ces fresques ont été peintes.

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FANTASTICAL REALISM IN CICERO’S POSTWAR PANEGYRIC JOY CONNOLLY

1. Seeing the unseen In her post-war novel The Mandarins, Simone de Beauvoir explores the moral and psychological dilemmas of intellectuals who, despite their good intentions, frequently act in bad faith to their friends, their political allies, and themselves. The two characters she fleshes out most fully, writer Henri Perron and psychiatrist Anne Dubreuil, confront what is for de Beauvoir the key point about human action: that one acts always in conditions that are not and cannot be fully known, so actions resemble wagers or leaps in the dark – but one is responsible for them nonetheless. The novel returns repeatedly to action’s unforeseen consequences, especially unexpected or unwanted obligations of love, family, and friendship. Alongside these familiar existentialist concerns, The Mandarins brilliantly illuminates how the choices of its characters, which they discuss with one another almost exclusively in political terms, are shaped by other powerful forces they tend to overlook, ignore, or dismiss as “private” concerns. Most significantly, Henri and his friends repeatedly long for (but in postwar Paris only occasionally secure) good food and wine, fashionable clothes, reliable transportation, and other comforts; they pursue painful, sometimes deeply damaging love affairs. Though they almost always brush off their deprivations and erotic distractions with self-deprecating humor, the frequency of scenes of frustrated desire and its effects on the plot make it clear that the characters’ most pressing political dilemma – the choice of whether to throw support behind a French alliance with the United States or with the USSR – is intimately bound up with their personal tastes and frustrations. As we follow Anne’s passionate doomed affair with an American and Henri’s abandonment of his bohemian lover for a much younger woman with whom he has a child, de Beauvoir suggests that the notional line between political sensibility and personal desire is not easily maintained, and that the way Henri and Anne actually see the political landscape is not so much in tension with their personal concerns as it is a product of them.

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The Mandarins ultimately rewrites its characters’ choice between communism and capitalism into a richer and ethically challenging narrative about the field of action under the conditions of modernity, where radically expanded access to goods and services create new modes of empowered, individual selfhood whose realization depends heavily on consumption. Henri and Anne neither explicitly acknowledge this development, nor do they take it seriously as a major force in their political vision and life choices. But the novel’s foregrounding of desire and consumption subtly suggests that the source of their struggles lies precisely here: not in a choice between conflicting pure ideologies, but in an unresolved, unexamined, vain hope to reconcile old belief systems with the bourgeois, consumerist, individualist worldview that has engulfed them. By showing how her characters fail to see the true challenges of modern politics, de Beauvoir prompts us to examine more closely the ways we understand the crises through which we live, to see how certain values, habits, and purposes we unseeingly adhere to may incubate the drive toward political or social conflict, and to identify what values, habits, and purposes may assist in creating a secure future. In this essay, engaged with a drastically different political context, I argue that Cicero’s pro Marcello raises similar questions. Cicero’s orations entered the Western curriculum in the earliest stages of modernity because they were considered to be a vital part of civic education. They do not simply transmit ideologies, values, and dispositions; they open up space for critical reflection on moral dilemmas and uncomfortable spaces of politics, especially compromise and deceit and other tensions that inject political life with tragedy1. The proto-panegyric pro Marcello probes the delicate transition between resistance and submission to Caesar. It memorializes the death and suffering of recent civil war and establishes the limits on action in the political conditions of the postwar present, creating a space of shared pain and complicity. Within this space, the speech diagnoses its senatorial audience’s complicity in the war, and sketches new values and habits of self-regard that will help them emerge from long silence (diuturni silenti, 1) and preserve themselves and their community (32-33).

1 On the early modern investment in reading a morally complex Cicero, see V. COX, Ciceronian Rhetoric in Italy, 1250-1360, “Rhetorica” 17 (1999), 239-288; Ciceronian Rhetorical Theory in the Volgare: a Fourteenth-century Text and its Fifteenth-century Readers, in C.J. MEWS - C.J. NEDERMAN - R.M. THOMPSON (edd.), Rhetoric and Renewal in the Latin West: Essays in Honour of John O. Ward, Turnhout 2003, 201-202; also J. RICHARDS, Assumed Simplicity and the Critique of Nobility: or, how Castiglione read Cicero, “Renaissance Quarterly” 54 (2001), 460-486.

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2. The discomfort of praise In recent years many scholars of poetry have demonstrated a sensitive grasp of the dynamic oscillation between terms like “reconciliation” and “resistance” that colors much Roman writing from the civil war and the JulioClaudian period. For them, the old bipolar approach appears largely dead2. But this sensitivity is less frequently found in scholarly discussions of prose, including what some consider the first significant Roman experiment in the genre of panegyric, Cicero’s three Caesarian orations of 46 and 45 BC, the pro Marcello, the pro Ligario, and the pro rege Deiotaro3. Panegyric is an uncomfortable genre, and contemporary scholarship on these speeches continues to avoid approaches that allow for deep and unresolved ambiguities in favor of comparatively straightforward questions about Cicero’s intentions and credibility. In 1802, Friedrich August Wolf set the tone for modern criticism when he found the flattery in the pro Marcello so insupportable that he published an edition denying its authenticity. As the author of the Notes in the 1813 Classical Journal anxiously reports: Markland had already suspected some of the orations to be apocryphal, but the learned began to murmur when M. Wolf, with more hardihood, attacked the celebrated oration pro Marcello, on which the admirers of Cicero found his strongest claims to immortality. It was in 1802, that M. Wolf printed, at Berlin, this oration, with a preface, in which he boldly stated his reasons for doubting its authenticity. M. Olaus Wormius, the Danish Professor of Eloquence and Ancient Literature, at Copenhagen, first undertook to answer M. Wolf ... M. Kalau, of Frankfort, next entered the lists in 1804. The Literary Journals at first gave an account of the controversy with reserve, and a kind of fear. At length, in 1805, an adversary worth of Wolf appeared: M. Weiske published his ‘Commentarius perpetuus et plenus in Orationem Ciceronis pro Marcello.’ In his preface, M. Weiske indulges in some pleasing raillery against the world of his adversary, and endeavours to demonstrate, in a happy strain of irony, that the world of M. Wolf, on this very oration of Cicero, could not be written by him, but by one who had assumed his name. In a graver tone, however, he proceeds to show, that we might on the same grounds dispute the authenticity of the oration pro Ligario, which M. Wolf himself admits, is genuine beyond all question.

Defending the speech against Wolf, Michael Winterbottom interprets it as a frank gratiarum actio for Caesar’s clemency. Giovanni Cipriani reads it as a 2 D. KENNEDY, ‘Augustan’ and ‘anti-Augustan’: Reflections on Terms of Reference, in A. POWELL (ed.), Roman Poetry and Propaganda in the Age of Augustus, London 1992; M. LOWRIE, Writing, Performance, and Authority in Augustan Rome, Oxford 2009, esp. 342-348. 3 On the place of the Caesarian orations in the history of Latin panegyric, see S. BRAUND, Praise and Protreptic in Early Imperial Panegyric, in M. WHITBY (ed.), The Propaganda of Power: The Role of Panegyric in Late Antiquity, Leiden 1998, 53-76.

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didactic suasoria intended to encourage Caesar to exercise his power honorably: this is panegyric as Erasmus would define it, as the “mirror of princes.” Taking the opposite tack, Paola Gagliardi ingeniously argues that it is a veiled exhortation to tyrannicide, with R.R. Dyer going so far as to suggest that it celebrates, and was even composed after, the Ides of March4. What are the costs of interpreting the speech in these binary terms? In an essay composed for the 2009 Friuli convegno Cesare: precursore o visionario? William Batstone probed the temporal and intepretative significance of labelling Julius Caesar with either title. Call Caesar a “visionary,” Batstone pointed out, and one ascribes to the Roman dictator an uncanny awareness of history before the fact. Call him a “precursor” and a more troubling suggestion emerges that Caesar is one of a chain of figures locked in place by immutable and ineluctable forces of history. For Batstone, neither approach holds much historical or humanistic interest: not only do they “always lie outside the evidence to the extent that they require access to Caesar’s desires, intentions, and self-knowledge” but worse, as de Beauvoir would also claim, they take for granted a coherence and predictability in human psychology and relationships that we would do well to suspect. For the same reasons that Batstone questions the utility of evaluating Caesar’s intentions, I want to close the door definitively on the reductive habit of reading a text like the pro Marcello as either authentic or sincere. Like de Beauvoir’s Parisian mandarins, who cannot know and are unable to control the consequences of their actions, including their speech and writing and others’ interpretations of their words, Cicero could exert only limited power over his utterances and their effects. Better, I think, to reflect on how and why the speech has presented such a hermeneutic puzzle – why, that is, the speech appears to keep both options decisively open: praise and blame, celebration and critique. To this end, I will pursue two separate but related readings of the pro Marcello. First, I will show that the text should be understood as an exercise in political fantasy. I frame my reading with that term because scholars of politics are often reluctant to consider the role that fantasy plays in politics; but drawing on work by Jacqueline Rose, Slavoj Zizek, and others, we can understand it as the structure in which we project our desired relations with others5. We see that, far from being strictly opposed to our public, political, social, “real” exis4 M. WINTERBOTTOM, Believing the pro Marcello, in C. DAMON et al. (edd.), Vertis in usum, Chapel Hill 2002; G. CIPRIANI, La Pro Marcello e il suo significato come orazione politica, “A&R” 22 (1977), 113-125; R.R. DYER, Rhetoric and intention in Cicero’s pro Marcello, “JRS” 80 (1990); P. GAGLIARDI, Il dissenso e l’ironia: per una rilettura delle orazioni ‘cesariane’ di Cicerone, Napoli 1997. 5 See, for example, J. ROSE, States of Fantasy, Oxford 1996; D.E. PEASE, States of fantasy: Barack Obama versus the Tea Party movement, “Boundary” 2 (2010), 37.2; S. ZIZEK, Living in the End Times, London 2010.

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tence, fantasy plays a central role in the real world, or to put it more precisely, in making the world comprehensible to its inhabitants. We shall see that the entwined fantasies of revenge, obedience, and future security that Cicero articulates in the pro Marcello do not offer an escape from reality. Woven together and expressed in terms that underscore the language of perception, especially seeing and hearing – and here we may recall Cicero’s first sentence dwelt on his rising to speak after a long period of silence – these fantasies compel their audience to acknowledge real traumas of civil war and defeat, and incorporate past trauma into a vision of future Caesarian peace. Ironically, historically speaking, this vision will never come true: new civil wars are just around the corner. But locked in its particular time, Cicero’s speech imagines both the victor and the vanquished, the triumphant and the guilty, to have a share in the world to come. Second, I will argue that the pro Marcello confronts head-on the challenge of Caesar’s victory and the question of what the Pompeians will do in response by acknowledging the responsibility of both senatorial factions in the recent civil strife. His exhortation to his fellow senators to join him in praise of Caesar reminds them of their role in the Pompeian cause and in its failure. This acknowledgment is not passive and it does not look exclusively backward in time. It calls for action and orientation toward the future, for Cicero suggests that efforts to preserve the sovereignty of action as it ostensibly existed under the old republican order can end only in that order’s utter destruction. Recent work in political theory over the past half century has borrowed the term “sovereign” from the statist frame and transferred it to the realm of the self. Drawing on this work, we may say that, by sharp contrast with his later Philippics, Cicero does not play at being sovereign in the pro Marcello6. Instead, most prominently by repeatedly returning to the trope of panegyric incapacity (“I cannot praise Caesar as he deserves”), Cicero pursues an uncomfortable experiment in articulating his acknowledgment of the new limits on sovereignty. He replaces traditional claims of self-determination and freedom (in Roman terms, the cluster of characteristics and capabilities captured in the terms dignitas, auctoritas, and libertas) with a self-consciously ironic embrace of unpredictability – the literal unpredictability of what Caesar will do next, and the open-ended unpredictability of the type of action Cicero proposes to pursue in the new conditions of Caesarian domination, that is, the action of speech rather than the contest of arms, whose tragically finite outcomes his audience knows all too well. 6 Relevant work on sovereignty and its limits: H. ARENDT, The Human Condition, Chicago 1958, esp. 234; I. BERLIN, Two concepts of liberty, in Four Essays on Liberty, Oxford 1969; M. ORLIE, Living Ethically, Acting Politically, Cornell 1997, esp. 143-168; I borrow the phrase “play at being sovereign” from P. MARKELL, Bound By Recognition, Princeton 2003, esp. 34-38; 183-189; M. FOUCAULT, The Government of Self and Others, New York 2010, esp. 61-73.

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3. Hyperbole, pain, and unexpected resemblances With its title, the pro Marcello suggests that it is pressing the case for Marcellus’ return from exile, but in fact this is not the case. Caesar has already guaranteed the safety of the Pompeian partisan, who was living in self-imposed exile on the island of Lesbos, so Cicero is praising and thanking Caesar for a deal already done. He opens by giving an account of himself, explaining his choice to speak after a long silence (diuturni silenti) not because of fear (timore) but rather pain and shame (dolore, verecundia) – an important theme, as his audience will soon realize. The second sentence introduces a frequent tactic throughout the speech: using hyperbole as a response to the challenge of expressing that which is impossible to express. Cicero praises Caesar’s “unusual, unheard-of clemency” (tam inusitatam inauditam clementiam), his “incredible wisdom, practically divine” (tam incredibilem sapientiam paene divinam), which is so overwhelming that Cicero does not have the capacity to ignore it (praeterire nullo modo possum) – though he will soon add, and repeat, that he cannot describe it either (4, 9, 12). Let us consider this programmatic paradox seriously for a few moments. The central thesis of the opening paragraphs, and indeed of the speech as a whole, can be summarized in these two expressions of the impossible. It is important for my reading to distinguish here between the kind of flattery that records a truth to which the audience can easily testify (for example, Caesar is praise-worthy because he has not killed all the Pompeians) and the kind that veers into the literally false. Cicero is uttering a literal falsehood when he says it is not possible for him to describe Caesar’s greatness, since of course he proceeds to describe it in the following sentences. But he is making a surprise sound like a falsehood when he says of Caesar that it is not possible that Caesar can act in this way, by granting clemency to his defeated enemies, but he is nonetheless doing it. It is virtually a rule of the panegyric genre to acknowledge the speaker’s incapacity in the face of the difficult task of praise (cf. Isoc., Evagoras 8-10). What bursts forth as unusual here is the way Cicero ties the impossibility of describing Caesar with the impossible scale of Caesar’s achievements – above all, his clemency. “I cannot be saying these things; he cannot be doing these things”: in the repetitive statement of the two linked impossibles, rhetorical form conveys shock at Caesar’s action and the sense of profound confusion it has generated among those opposing him. Caesar’s clemency is not just a welcome surprise, it is “unheard-of,” and Cicero’s incapacity to describe it is not just his, it applies to everyone in the present and even the future. Caesar’s achievements are so far beyond belief that they prompt insanity: “And if I did not admit that these deeds are so great that virtually no one’s mind or cognition is able to grasp them, I’d be crazy:

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but there are things even greater” (quae quidem ego nisi ita magna esse fatear, ut ea vix cuiusquam mens aut cogitatio capere possit, amens sim: sed tamen sunt alia maiora, 6). Cicero’s shock at this greater deed, the granting of clemency, gives rise to one of the most convoluted sentences in the speech (12): Et ceteros quidem omnis victores bellorum civilium iam ante aequitate et misericordia viceras: hodierno vero die te ipsum vicisti. Vereor ut hoc, quod dicam, perinde intellegi possit auditum atque ipse cogitans sentio: ipsam victoriam vicisse videris, cum ea quae illa erat adepta victis remisisti. Nam cum ipsius victoriae condicione omnes victi occidissemus, clementiae tuae iudicio conservati sumus. Recte igitur unus invictus es, a quo etiam ipsius victoriae condicio visque devicta est. And indeed all the other victors in civil wars you had already vanquished in fairness and pity: this day, you vanquish yourself as well. I fear that what I am saying cannot be understood when it is heard as thoroughly as I understand it myself as I reflect on it: you appear to have vanquished victory itself, since you have given up those things that are taken away from the vanquished. For although, by the condition of victory itself, all of us who had been vanquished would have fallen into ruin, we have been preserved by the judgment of your clemency. Rightly, then, you alone are unvanquished, by whom the condition and power of victory itself have been utterly vanquished.

In these sentences, Cicero makes Caesar’s clemency into something, as American college students say these days, “unreal.” This tortured hyperbole is the style of expression that made Friedrich Wolf want to exile the speech from the legitimate Ciceronian corpus. But before we file the passage away as an exceptionally excessive example of flattery, let us ask again: what political work is this aesthetic experience carrying out? Quintilian reminds us that there is meaning in hyperbole. He defines it in the following terms (Inst. Orat. 8,6,75-76): Tum est hyperbole virtus cum res ipsa de qua loquendum est naturalem modum excessit: conceditur enim amplius dicere, quia dici quantum est non potest, meliusque ultra quam citra stat oratio. And so hyperbole is a virtue when the thing of which we speak exceeds the natural limit: for we are allowed to amplify, because the exact extent cannot be described, and speech is better when it goes beyond than when it stops short.

By Quintilian’s definition, hyperbole is the proper figure for the state “exceeding natural limits” in which Cicero’s audience finds itself. Cicero asserts that he must speak nullo modo (1); he suggests no one will ever be able to praise Caesar adequately; he compares Caesar to a god (simillimum deo, 8); he says he thinks of Caesar day and night (22). Such hyperbolic terms constitute

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a discourse of simulation. They disclose the world anew in terms that are not strictly, simply true, and in their excess of truth, as Quintilian says, they better represent an “unreal” reality that no one expected, though everyone ought to have expected it, for it is the reality of autocracy experimented with by Marius and Sulla half a century earlier. Hyperbolic speech assumes the task of absorbing the shock of living in the end times of the republic – and further, its unreal dimension propels its listeners into new identities and relations in a world where identity and relations have profoundly changed. By adopting hyperbole as the governing figure of this new style of senatorial speech, Cicero holds out the promise not of a morally legible universe, but of a recognition that every Roman now lives in conditions virtually “impossible to believe”: the emergence of one ruler, under whom the chains of traditional obligations do not consistently hold. Hyperbole is the supremely appropriate figure for the state of emergency “exceeding natural limits” in which Cicero’s audience finds itself. Here we may usefully turn to Peter Brooks’ recent work on French melodrama, which examines the Parisian theater after the suspension of the moral and legal order in the Revolution and suggests that its hyperbolic style is born of “the anxiety created by the guilt experienced when the allegiance and ordering that pertained to a sacred system of things no longer obtains”7. In the Roman postwar context, hyperbolic praise summons an unusual kind of consensus, one based not on a logical, sensible order, but rather on disbelief and irreducible uncertainty. Oddly enough, hyperbolic fantasy is a profoundly inclusive rhetorical strategy. Cicero’s image of Caesar is an image in which each part of his partisan audience may invest in different ways: pleasure and pain, glee and envy. In the space of hyperbole everyone is invited. Of course Cicero’s Caesarian audience will share in the hyperbolic celebration of their leader, even as they are reminded of the costs of his victory. But there is real pleasure here for the Pompeians in the audience, too. Recall Quintilian’s statement that hyperbole knows that it asserts that which is not, from the consciousness of falsehood: that is, it is always accompanied by irony. Paul De Man, commenting on irony, argues that irony splits the self into two, “an empirical self that exists in a state of inauthenticity and a self that exists only in the form of a language that asserts the knowledge of this inauthenticity”8. Hyperbole enables the self-delusion not only of Caesar, but of the resistant listeners, whose envy and resentment are eased by their ironic awareness of it. Hyperbole preserves a space in which they may say “I don’t believe this” without saying “I will 7 8

P. BROOKS, The Melodramatic Imagination, New Haven 2008, esp. 4; 12; 200. P. DE MAN, Blindness and Insight, Minneapolis 1971, 214.

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not obey.” The double consciousness by which the irony of hyperbole allows the acknowledgement of inauthenticity mediates the experience of domination by reinstating the speaker and the listener as agents even as they give up agency. It allows the resistant listener to distance himself from the assent to power at the same time that he assents to limits on his political sovereignty. By harnessing the power of fantastical untruth, Cicero becomes what Shelley calls the poet, an “unacknowledged legislator,” exercising the power he and his audience has to remake the world in light of the new understanding of it which his literally, self-consciously false words unlock9. We begin to see how the speech aims not only to praise Caesar, but to bury civil war. As he speaks in the aftermath of the bitter zero-sum game that the Roman senatorial order had made of republican politics by the middle first century, a game that had produced Big Men with big armies on a scale never seen before, Cicero’s grief at the collapse of the republican libertas vies with the desire to negotiate the uncertain future under the current Big Man. His speech reveals how praise addresses past and present breaches in the body politic, but not simply by establishing conditions for the formation of consensus (“now we must all praise Caesar, and woe to those who don’t”). He configures the politics of the new post-civil war era by summoning up images and emotions in which each part of his partisan audience may invest: the hyperbole and pathos of his language make it possible for his audience to “feel” the shock of life in the new world of Rome after the civil wars. In short, he creates a collective aesthesis – what Jacques Rancière calls the “sensible texture” of the community. Aesthesis, because it involves the generation of affective reactions, is multivalent by nature: even within the experience of the individual subject, each of us feels pity, fear, and many other things in the course of a single play. The complexity of the aesthesis, the sensible texture, of the speech transcends the classical generic categories of praise and blame as well as the late antique and modern interpretive categories of sincerity and “figured” irony. But we have not yet exhausted the significance of the programmatic prologue. The second theme introduced in the proemium is suffering, dolor. Suffering is the motivation for Cicero’s decision to speak (dolore, 1). His suffering derives from his recognition that Marcellus was suffering unjustly: “I was intensely grieving and feeling violent pain, senatorial fathers, that such a man, though he had stood on the same side as I, was not in the same happy condition” (dolebam enim, patres conscripti, et vehementer angebar virum talem, cum in eadem causa in qua ego fuisset, non in eadem esse fortuna, 2). The theme recurs repeatedly, most memorably in the images of the devastation caused by civil war. 9

Further remarks on Shelley in PEASE, States…, 100.

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In her subtle reading of the pro Marcello, Paola Gagliardi argues that Cicero’s emphasis on dolor is a central element of his “figured” ironic strategy. For her, the juxtaposition of praise for Caesar’s clemency with repeated reminders of the suffering he caused, both in making war against Pompey and offering clemency to the losers, makes a “sincere” reading of his panegyric impossible. I see other dynamics at work here. First, suffering is part of the consensual aesthesis of the speech: it unfolds as an experience that links the Roman community, inside and outside the senate. Marcellus has lost many members of his family (iam ad paucos redactam, 10); Caesar suffers from his own clemency because it requires him to put aside private resentments (doloribus, 3); the Roman people suffered in the war (18; cf. 23, 24, 31, 34); Cicero himself feels pain repeatedly (doleo, 16, 22). By suggesting that the experience of suffering ties the entire audience together, Cicero installs suffering at the heart of the identity of the senate in its post-civil war form, both Caesarian winners and Pompeian losers. This tactic (a classic of identity politics) works to stabilize a collective whose traumatic formation would otherwise render it unstable; it forges a “politically coherent, continuous, and conscious identity” out of past and present antagonism and shared pain10. This scene of trauma goes on to become the heart of the historical narrative that reduces autocracy into an ethical and personal crisis for the senatorial order, best known to us from Tacitus. Second, as Cicero explains when he compares Caesar’s clemency to his fearful anticipations in the past of the excessive form Pompeian vengeance might take (18), it becomes clear that his suffering also derives from the pain of recognition that Caesarian clemency bears out his fears about the limits of the Pompeians’ virtue. So his praise is also an expression of guilt at his collusion with an order in which the dominant element abandoned its concern for the common good, and thus ended up “rushing on, without desire or hope, prudently and knowingly, to voluntary death” (nulla non modo cupiditate, ne spe quidem, prudens et sciens tamquam ad interitum ruerem voluntarium, 14). As Cicero makes guilty accommodations to power, he acknowledges that guilt for his past failures spurs his desire for security – while he still tries, painfully, to do a certain justice to the doomed Pompeian resistance by memorializing it. The question now, as Cicero sets it up, is what the Pompeians will choose to do. This brings us to the other laudandus in the speech, Marcellus, to whom no one is “superior in good birth, or honesty, or in zeal for study, or purity of life, or any other excellence” (4). Cicero repeatedly assimilates Marcellus to himself: at the beginning, when he identifies him as his rival and imitator (illo aemulo atque imitatore, 2); throughout the speech, when he identifies Marcel10

W. BROWN, Politics Out of History, Princeton 2001, 55.

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lus as the beneficiary of Caesar’s favor (nam num M. Marcellum deprecantibus vobis rei publicae conservavit, me et mihi et item rei publica … reddidit, 13, 33-34); and most importantly, when he contends that he and Marcellus agreed in hating violence and loving peace (16). But this is another element of the speech’s unreal aspect: this Marcellus is scarcely recognizable. As Giusto Picone has pointed out in an essay that examines the letters between the two men as well as the younger Seneca’s account of Marcellus in his Consolation of Helvia, Marcellus is no Cicero11. He resisted accepting Caesar’s clemency and resisted returning to Rome. Seneca describes him as “nobly enduring his exile; his change of place made no change at all in his mind” (Cons. Hel. 9,6 10,2). Cicero falsifies his Marcellus, tendentiously transforming the ex-consul into another Cicero capable of sacrificing his Pompeian convictions in the name of the collective good. When Cicero identifies himself with Marcellus as a lover of peace while speaking in conditions that identify himself as Marcellus’ opposite, as the one who quickly accepted Caesar’s offer of clemency, Cicero both acknowledges and displaces the problem of his own submission by praising Marcellus as inferior to none and punishing Marcellus by falsifying his identity. The suggestion is this: to resist is to die, or live in exile, to lose yourself; to accept clemency is to be Cicero. But when Cicero assimilates Marcellus to himself in front of an audience who knows the truth of the matter, they see that the consequences of accepting clemency are the same as resisting: either way, you lose yourself. The second significant doubling in the speech links Cicero and Caesar. Like Cicero in the Catilinarians, Caesar is the savior of the day who must guard himself against assassination (this is the main theme of the longest sustained section of the speech, sections 21-32); Cicero assimilates Caesar to himself at the beginning of the Post Reditum Populo, when he “got back the republic when it was almost lost” (5). There is some self-glorification here, but the pattern of assimilation also draws attention to men’s resemblances to, relations with, and responsibilities toward one another. The doublings of Cicero and Marcellus, Cicero and Caesar, highlights the lines of communal interdependence even, and especially, post-war. It also puts a de Beauvoirian question mark after these actors’ self-sovereignty: none of us can be in perfect control of who we are, and we can rarely be quite what we say we are, under conditions of severe political stress.

11 G. PICONE, Il paradigma Marcello: tra esilio e Clementia Caesaris, in Clementia Caesaris: modelli etici, parenesi e retorica dell’ esilio, Palermo 2008.

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4. Realism, perception, and an alternative self-sovereignty Cicero writes in his letters to Marcellus that though Marcellus refused to see out the end of a hopeless civil war, he yet retained his allegiance to the old order (Fam. 4,8 et al.). In the pro Marcello, by falsely assimilating Marcellus to himself, Cicero suggests that no one is as he once was: both the civil war and Caesar’s victory have changed everything. Marcellus and the Pompeians cannot depend on old political identities or relationships – and there is pain and guilt in Cicero’s acknowledgement of this, particularly in his reference to the diminution of Marcellus’ family (10) – but they can invent new political identities and relationships. To learn to be subjects, in the sense of selves as well as subordinates, Cicero exhorts his audience to look clearly at their political situation. They must see the present situation and the immediate past. Here is the explanation for the repeated emphasis in this speech on seeing the present situation and the immediate past: “As for you whom we gaze upon, present among us, whose minds, feelings, and countenance we at this moment see…” (te vero, quem praesentem intuemur, cuius mentem sensusque et os cernimus, 10); “I saw, along with you, his tears, and the memory of all the Marcelli filled my breast” (lacrimas modo vobiscum viderem, omnium Marcellorum meum pectus memoria obfudit, 11); “For which reason your generosity ought to be more welcome to us, who have seen (vidimus) these things [the violence of civil war]. We saw (vidimus) your victory … we did not see (non vidimus) your sword unsheathed in the city” (16-17). Caesar, too, must look into the dark spots in the souls of those who might wish to kill him (in animis hominum tantae latebrae sint et tanti recessus, 22) so that he fully understands his role and duties. Once Cicero’s addressees see the post-civil war world clearly, they must understand their past, the pitfalls of the system they used to live by, which led them “knowingly” to ruin (14). They must then look to the future without immediate recourse to violence; they must think of themselves anew. Remembering that they are preserved by the choice of Caesar, a fact Cicero repeats several times, he and the senatorial audience are compelled to proceed from that fact, with a sense of ironic good fortune. To maintain both moral and political sovereignty in exile in Athens or Mytilene is not supportable, because it is a lie: “wherever you may go,” Cicero writes to Marcellus, “you are under that man’s power” (Fam. 4,7). Some abdication of sovereignty is required – the refusal of the violent defense of political sovereignty in its familiar form, which is to say, clemency for Caesar and obedience for the senators. Picking up and transforming the language of his post reditum speeches, Cicero here underscores the necessity of replacing the old republican model of sovereignty – individual striving for glory – with a new model of collective endeavor: as the senate had begged

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for Cicero’s return, now Cicero and Marcellus’ brother and other senators have worked collectively to influence Caesar and securing Marcellus’ return. The task of understanding how to become subjects is not as simple as recognizing Caesar as victor and dictator and perhaps a future king and god. As recent work on self-sovereignty emphasizes, exploring alternatives to traditional conceptions is as risky and painful as it is necessary. In the context of the fatal but apparently eternally recurrent cycle of civil war, Cicero’s hyperbolic act of praise replaces an ethico-political code that inscribes the individual at its center with a new one. The code implicit in the pro Marcello puts first the relations of amicitia and obligation among the senators, relations facilitated by the exchange of communication, from which Cicero withdrew during the war: Diuturni silenti, patres conscripti, quo eram his temporibus usus – non timore aliquo, sed partim dolore, partim verecundia – finem hodiernus dies attulit, idemque initium quae vellem quaeque sentirem meo pristino more dicendi. Tantam enim mansuetudinem, tam inusitatam inauditamque clementiam, tantum in summa potestate rerum omnium modum, tam denique incredibilem sapientiam ac paene divinam, tacitus praeterire nullo modo possum. To a long silence, senatorial fathers, which I have taken advantage of in recent times – not due to any sort of fear, but partly due to suffering, partly to a sense of shame – this day has brought an end, and similarly it has brought the beginning of saying what I like and what I think, according to my old habit. For such mildness, such unaccustomed and unheard-of clemency, such moderation in the exercise of the highest power over all, and finally, such unbelievable wisdom, nearly divine, I am in no way capable of passing over in silence.

Returning to speech is not (only) a celebratory strategy, though Cicero colors his return to speaking in celebratory terms. It also involves painful loss – the abandonment of the old code and the ethical exemplars that embodied it, most prominently, as we shall see, the younger Cato and everything he represents. Here and in his letters to Marcellus, Cicero redefines the role of the senator from seeking glory and defense of dignitas to a much more limited role: seeking to contest authority when it is exercised unjustly. He raises what must have been a deeply uncomfortable question for his audience, namely: they desire freedom, but if this desire is not truly emancipatory, if it demands violence on the broad scale of civil war, where are they to turn? This speech in praise of a man who chose to preserve another man’s life reconfigures republican politics as a system of mutually responsive “relations of dependence” where the question is not, what do I gain?, but to whom I am responsible?12 12

MARKELL, Bound…, 188.

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Cicero refuses to adopt Cato and his suicidal sacrifice as an exemplary model. “As for the Cato,” he writes to Atticus, referring both to the book and the man, “it’s a problem for Archimedes” (Att. 12,4,2). To Papirius Paetus, he writes, “Cato died well; let’s die well too, but let our death be not so necessary to us as it was to him!” (Fam. 9,18). Cato kills himself: he embraces necessity and chooses to end the play of chance. Given what he has to say about sight in the pro Marcello, it is no surprise that Cicero casts Cato as a figure who literally cannot see the new conditions of Caesarian politics. In De Officiis, Cato cannot “look upon the face of tyranny” (Off. 1,112). Writing to Atticus, Cicero remarks, “but really, that man cannot be praised sincerely unless these things are mentioned, namely that he saw the way things are now and will be in the future, and he struggled lest they come about, and he gave up his life so that he would not see them done” (Att. 12,4,2). He warns Marcellus in similar terms: “You preferred being absent perpetually than to see those things which you did not want to see” (ut abesse perpetuo malles quam ea quae nolles videre, Fam. 4,7). “Perhaps you may see many things that you do not wish to see, but they are no more than what you hear daily. And it is not your habit to be affected by the sense of sight alone … You may not be able to say what you think, but you may certainly be silent” (multa videbis fortasse, quae nolis, non plura tamen quam audis cotidie. Non est porro tuum uno sensu solum oculorum moveri … dicere fortasse, quae sentias, non licet, tacere plane licet, Fam. 4,9). With regard to Cato, Cicero takes Adorno’s stand in Problems of Moral Philosophy (163): “We may say in general – and this is what is valid about this critique – that it is right to feel a certain wariness toward people who are said to be of pure will (die sogennante reinen Willens) and who take every opportunity to refer to their own purity of will. The reality is that this so-called pure will is almost always twinned with the willingness to denounce others, with the need to punish and persecute others, in short, with the entire problematic nature of what will be all too familiar to you from the various purges that have taken place in totalitarian states.” The pro Marcello turns instead to the difficult encounter with a new form of power and a venture into “making an uncontrollable future”13. As I argued earlier, the figure of impossibility, hyperbolic adynaton, embodies Cicero’s sense of risk and disbelief moving forward in an uncertain world: in a darker tone, the speech’s operatic gestures of submission to Caesar suggests Cicero’s and his fellow senators’ self-disempowerment. Cicero draws to his conclusion by reminding his Pompeian audience that like himself, they owe their lives to Caesar. I suspect that part of the resistance to Ciceronian authorship among readers like Wolf derive from this part of the speech, because 13

BROWN, Politics…, 46, discusses freedom and trusting to the future in these terms.

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it openly acknowledges the limits on Cicero’s sovereign agency that have arisen out of his vulnerability to Caesar’s unpredictable actions. This is not to say that Cicero is invested in submission for its own sake, but that he sees that the avowal of his own finitude, signified by Caesar’s role in fixing the terms of his life, amounts to a sort of abdication of self14. The effort to find a way forward requires the construction of an ironic sensibility that acknowledges the falsity and the necessity of praise. When Cicero refers to the fact that “all dissension is crushed by the arms and extinguished by the justice of the conqueror” (31), his irony does not express or speak to the standpoint of resistance, but rather what the philosopher Richard Rorty calls “the capacity to identify illusions that overstate the social-moral goods human beings have to offer15.” His speech is “world-disclosing” in Rorty’s sense: its language of praise loosens the hold on us of the world we desire, by calling attention to the ways our own unrecognized or unacknowledged fictions structure that world.

5. Prosaic patterns in poetry Before closing, I want to point out that understanding the pro Marcello in these terms helps us better understand certain aspects of Augustan poetry – specifically, the appeal to Bacchic poetics in Horace’s odes, especially the Roman odes of book 3. Consider Horace Odes 3,25: Quo me, Bacche, rapis tui plenum? Quae nemora aut quos agor in specus uelox mente noua? Quibus antrum egregii Caesaris audiar aeternum meditans decus stellis inserere et consilio Iouis? Dicam insigne, recens, adhuc indictum ore alio. Non secus in iugis exsomnis stupet Euhias, Hebrum prospiciens et niue candidam Thracen ac pede barbaro lustratam Rhodopen, ut mihi deuio ripas et uacuum nemus mirari libet. O Naiadum potens Baccharumque ualentium proceras manibus uertere fraxinos, 14 15

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I was prompted to consider the relationship of finitude and abdication by MARKELL, Bound…, 36. R.L. SMITH, Morals and Their Ironies, “Journal of Religious Ethics” 26 (1998), 379.

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nil paruum aut humili modo, nil mortale loquar. Dulce periculum est, o Lenaee, sequi deum cingentem uiridi tempora pampino.

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Where, Bacchus, do you tug me, full of you? Into what groves and what caves am I brought, fast, in a novel mood? In what caves shall I be heard practicing to graft the everlasting glory of pre-eminent Caesar into the stars and the council of Jove? Let me speak of what is great and new and as yet unspoken by another mouth. Just as on the ridges the unsleeping Bacchant gapes, gazing at the Hebrus, and white with snow Thrace, and Rhodope marked by barbarian tread, so I delight in gazing at off-road riverbanks and the quiet grove. O ruler of Naiads and of vigorous Bacchants with hands that uproot tall ash trees, let me say nothing trivial or humble, nothing merely mortal. It’s a sweet risk, o Lenaeus, to follow the god binding our temples with green vine-tendrils.

Egregii Caesaris at line 4 comes as a shock. Commentators have accounted for the appearance of Augustus in a poem initially “about” Bacchic frenzy as a sign of intense excitement at a new theme (Williams), a protreptic excuse of divine madness for any missteps Horace might take as he embarks on the challenging new task (nova mente) of panegyric (Fraenkel, West), or as a bid to establish the grandiose aesthetics of Horace’s new Augustan poetics (Schiesaro)16. If we read 3,25 against 2,7, a different set of concerns emerges. In 2,7, Horace welcomes his friend Pompeius back to Italy after Philippi. Nisbet and Hubbard find little to admire in Horace’s “whimsical” greetings to a friend in such uncomfortable conditions. Tarrant remarks more sympathetically on his “frantic jollity,” especially in lines 26-27: …non ego sanius bacchabor Edonis. recepto dulce mihi furere est amico. 16 Discussion and bibliography in A. SCHIESARO, Horace’s Bacchic Poetics, in L.B.T. HOUGHTON - M. WYKE (edd.), Perceptions of Horace, Cambridge 2009.

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…no more sane than an Edonian, I will run wild like a Bacchant. It’s sweet to go mad at the return of a friend!

Horace never speaks of Philippi with open regret or anger. He represents civil war in a different register. The “sweet” madness described in both poems describes the symptoms of a body afflicted by trauma. To begin with, this body belongs to the poet, but the invocations of Bacchus and his implied invitation to his friend suggest that the social body of his readers is implicated too. When this inspired body speaks, it uses the hyperbole and irony of Bacchic poetics to redirect the pain of defeat at Philippi evoked in 2,7 toward imagining a new world ruled by egregius Caesar. The ironic dissonance created by the images of practicing panegyric in a Bacchic frenzy and of inviting a partner in civic disaster to join the poet in mad drunkenness articulates the shock of a world turned upside down by the emergency of Augustan autocracy, and calls for an ironic sensibility that can accommodate this new world. I have argued that this first speech in the Roman panegyric tradition defies attempts to define it as “pro-“ or “anti-” Caesar. Its praise for Caesar as a peace-bringer is sincere; it is also resentful, guilty, collusive, quietist, sarcastic, resistant. The speech is inclusive in its quiet insistence on the remainders left behind in the construction of a new consensus. It is visionary in its refusal to play at the old republican game – refusing to claim sovereign agency in the face of tyrannical power when claiming sovereign agency means death (the death Cato chose) or more violence. It works in both directions at once: it relies on, and works the interval between, registers of sincerity and irony, praise and blame, in its effort to speak to all parties across the fractured political spectrum within the senate: the Caesarians, the Pompeians, and the rest. This is a eulogy that attempts to come to terms with the loss of the republic; it is an attempt to fix a certain tragic memory of the republic; it clarifies to Cicero and his audience his view of “the nature and stakes of the shared situation”17 and their duties in it; it is also an attempt to remind Caesar of what Cicero is, and what the other senators are, in an effort to define his responsibilities and to demarcate “limited limits” to Caesar’s potentially tyrannical freedom of action. The speech also contains provocative normative claims. It establishes a moral imperative to respond to tyrannical conditions with a new form of selfenvisioning that preserves within itself potential practices of future liberation, namely the spoken word, which Cicero implicitly claims as his central weapon in the struggle against domination. It also calls on its audiences to cultivate 17

MARKELL, Bound…, 186.

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two habits that pull in what first appears to be opposite directions: sharing in a collective act of imagination, fantasy if you will, as a tactic in healing breaches in the civic order; and seeing conditions of Caesarian power for what they are. Cicero is punished for this at the hands of Wolf and others who cannot see the pro Marcello because it disobeys the rule of republican ethics, but he too, in this speech, anticipates the irreducible play of pleasure, desire, rage, and hope that characterize a community wounded by but still in love with an outdated model of itself, uncertain as to what the future will bring, and divided on the rightness of consensus itself under conditions hitherto unthinkable in the republic – unthinkable, that is, before Cicero speaks out. Cicero summons up images in which each part of his partisan audience may invest in different ways; he stages emotions that some will watch with pleasure and some with pain, including the glee of Caesarian triumph, and Pompeian grief at defeat and even vengeful rage at the victor, the object of praise. It is Cicero’s inclusive acknowledgement of these various mental and political states that makes his speech worthy of study, because it reveals the accommodations Cicero believes both losers and winners must make in order to live under the new conditions of Caesarian domination.

DAL CULTO DI OTTAVIANO ALL’APOTEOSI DI AUGUSTO EUGENIO LA ROCCA

Ottaviano/Augusto, come i suoi successori, aveva ben chiaro quale fosse il destino di tutti i mortali, ma sapeva altrettanto bene che, una volta rinsaldato il suo potere effettivo, prima con la non facile vittoria nel 36 a.C. su Sesto Pompeo a Naulochos e in seguito, nel 31 a.C., su Marco Antonio ad Azio, per i suoi incommensurabili benefici al mondo intero, avrebbe potuto ottenere onori isotheoi nel mondo ellenizzato e una consecratio ufficiale dopo la morte a Roma stessa, seguendo una tradizione non priva di modelli esemplari, come potevano testimoniare i casi di Romolo/Quirino e Cesare. Era solo questione di tempo e di modi. Dopo Naulochos, quando era divenuto, secondo un epigramma di Cornelio Gallo, “maxima Romanae pars historiae”, Ottaviano si presentò ufficialmente in senato e davanti al popolo romano come colui che aveva definitivamente debellato le guerre civili, e come il campione della pace. Sulla base della statua dorata eretta in suo onore nel foro era scritto: “Ha restaurato la pace, per molto tempo turbata dalle discordie, per terra e per mare”. La pace, e l’abbondanza che scaturisce dalla pace, sarebbero divenuti i suoi slogan prediletti. Aveva 28 anni, e le città italiche, come ricorda Appiano, lo venerarono insieme con i loro dei: probabilmente, se bene si intende il testo, non da solo, ma associato al culto di altre divinità, cioè come synnaos o symbomos. È l’immagine del pacator orbis che ormai possiamo vedere nel tiberiano rilievo dal Sebasteion di Afrodisia (fig. 1). A seguito della vittoria su Marco Antonio e Cleopatra ad Azio, il senato stabilì che si svolgessero feste in suo onore ogni quattro anni e cerimonie di ringraziamento agli dei il giorno del suo genetliaco e nell’anniversario dell’annuncio della vittoria navale, che i senatori e le vestali e tutti i cittadini gli andassero incontro in occasione dei suoi futuri ingressi in città, che avesse il diritto alla proedria, che gli fossero erette statue e che si celebrassero supplicationes in suo onore. A seguito della conquista di Alessandria, fu decretato che quel giorno fosse considerato fausto, che ad Ottaviano fosse assegnato il diritto di essere tribuno a vita, di salvare chiunque avesse invocato il suo aiuto dentro il pomerio e fuori Roma per una distanza di sette stadi e mezzo, di giudicare nei processi di appello, con un voto determinante come quello di Athena nel processo di Oreste davanti all’Areopago. Si decretò inoltre che

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i sacerdoti e le sacerdotesse pregassero anche in suo favore durante le supplicationes per il popolo e il senato, e che nei banchetti, sia pubblici che privati, fosse celebrato con libagioni. Poco dopo, al sopraggiungere delle informazioni sui felici eventi partici (Fraate, in lotta con Tiridate, e bisognoso della non belligeranza dei Romani per non aprire un nuovo fronte di guerra, aveva inviato come ostaggio un suo figlio a Ottaviano), il senato decise che il suo nome fosse aggiunto negli inni sacri a quello degli dei (sappiamo ad esempio che il suo nome fu inserito nel carmen Saliare), che una tribù si chiamasse Iulia, che Ottaviano cingesse in tutte le feste la corona trionfale, che i senatori lo seguissero nel trionfo con le toghe purpuree, che il popolo facesse festa con sacrifici il giorno del suo ingresso a Roma, ritenuto sacro, che potesse eleggere sacerdoti in numero superiore a quello tradizionale, che finalmente si chiudesse il tempio di Giano. Il potere politico di Ottaviano non aveva più eguali. In quanto decreti del senato, queste onorificenze valevano per Roma, anche se ebbero forti ripercussioni in tutto l’impero. Esse non creavano ufficialmente un nuovo dio nel firmamento olimpico, ma indubbiamente costituivano la premessa essenziale per una futura divinizzazione, e comunque spianavano la strada per determinate forme di omaggio al principe vivente che rasentavano talora il culto statale. Tale doveva essere l’inserimento del suo nome nel carmen Saliare, cantato dai Salii durante il trasporto degli ancilia e destinato alla preservazione ed all’eternità dello stato romano. Probabilmente l’imperatore non vi era impetrato alla pari delle divinità olimpiche: lo si pregava in qualità di garante della salvaguardia e della protezione dello stato, come documentato per i periodi seguenti dagli acta fratrum Arvalium. In essi si parla di vota annuali e di sacrifici del collegio in occasione dei compleanni degli imperatori o di membri della famiglia imperiale, per la loro accessione al trono, per la loro morte ed eventuale divinizzazione, nonché per la loro salus (a seguito di una cospirazione opportunamente sventata, o in occasione del loro felice rientro in città da viaggi o da campagne militari). In questi casi non si effettuavano mai sacrifici agli imperatori viventi, bensì di solito a Giove, Giunone e Minerva, alla Salus publica, ai membri divinizzati della famiglia imperiale, inoltre al genius dell’imperatore vivente e alla iuno dell’imperatrice, dinanzi al tempio di Giove Capitolino, di Marte Ultore, del divo Augusto. Allo stesso modo, le libazioni, effettuate durante i banchetti pubblici, potevano certamente essere destinate ad impetrare Ottaviano come un dio, ma potevano essere anche celebrate a favore di Ottaviano e della sua salus. La medesima ambiguità, anzi accentuata, emerge nel culto privato. È nel comune sentire degli uomini credere nell’essenza superumana di coloro che li beneficano hic et nunc: e poco importa se la convinzione poggi o meno su basi religiose sicure e accettate da tutti. In Grecia il fenomeno era ormai attestato

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da lungo tempo, e il culto di personaggi viventi si presenta come un’espressione spontanea di gratitudine per i favori ricevuti. Secondo un inno dedicato a Demetrio Poliorcete di ritorno ad Atene da un viaggio a Leucade ed a Corcira, il principe appare agli Ateniesi, desiderosi di ricevere un salvatore, come una divina epifania. Egli è il solo vero dio: “Egli, come conviene a un dio, è qui in allegria, bello e sorridente. Mostra alcunché di semnos [il termine in seguito adottato per tradurre in greco augustus] … O figlio del più possente dio Poseidon e di Afrodite, salve. Gli altri dei sono lontani o non ascoltano, o non ci sono, o non ci danno retta; ma tu sei visibile in carne ed ossa, non in legno e non in pietra, ma in verità. Perché tu hai il potere…”. Ottaviano/Augusto riuscì ad ottenere qualcosa di simile: uno spontaneo omaggio ammantato di religiosità da parte della popolazione dell’impero in cambio di tutti i benefici ottenuti con il ripristino di una pace duratura. Il suo culto che, stante l’attestazione di Appiano, e contrariamente a quanto si suppone di solito, si affermò rapidamente in Italia e nelle province, libere di celebrare lui, e in seguito i membri della sua famiglia secondo il loro gradimento, sarebbe divenuto un fondamentale collante dell’impero: si pregava l’imperatore o sull’imperatore si giurava, e sotto il suo sguardo vigile si svolgevano le transazioni commerciali ed i processi. Non meraviglia che, come afferma Appiano, ben prima che il divus Augustus fosse inserito, dal 14 d.C., nel novero delle divinità olimpiche, il culto dell’imperatore, associato a quello di altre divinità olimpiche o personificazioni come la dea Roma o il genio del senato, oppure, come si vedrà, l’omaggio offerto direttamente al suo genius o al suo numen, fossero già ampiamente diffusi. Evitando probabilmente di offendere città amiche con un rifiuto rispetto ai costumi locali, il principe permise ai Greci di procedere al culto nel ruolo meno impegnativo e già da lungo tempo adottato per i sovrani greci, di associato al culto. Ciò è avvenuto ad esempio a Olimpia, dove Augusto fu venerato nel Metroon come synnaos di Cibele, a partire dagli anni immediatamente posteriori al 27 a.C. La scelta di questo tempio, dedicato alla dea che simbolicamente commemorava le origini troiane di Roma, è sintomatica. Il principe, secondo uno schema iconografico già adottato dai sovrani greci – è documentato il caso di di un Attalide, forse Attalo I, synnaos di Hera nel tempio dedicato alla dea a Pergamo – è raffigurato come Zeus stante (fig. 2), non solo in riferimento al dio di Olimpia, ma anche secondo il comune raffronto tra il padre degli dei (e sovrano indiscusso dell’Olimpo) e il reggitore assoluto dell’impero romano. Anche in Italia non mancavano forme di culto, già in età precoce. Templi al principe ancora vivente sono documentati ancor prima del 15 a.C. a Terracina e a Pola (dove Augusto è associato alla dea Roma); a Benevento è testimoniato un Cesareo. Al 10 a.C. è databile il primo tempio del culto imperiale a Narona, in Croazia, mentre anteriore al 2 a.C. è l’Augusteo di Pisa.

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Di datazione ancora discussa, ma comunque precedente alla sua morte, è il tempio destinato al suo genio a Pompei. È probabile, inoltre, che su uno dei lati lunghi della basilica di Lucus Feroniae fosse inserito un sacello dedicato ad Ottaviano (fig. 3) già in un periodo compreso tra il 36 e il 27 a.C. La struttura architettonica dell’edificio è coerente con questa datazione, ma parla a favore anche il ritrovamento nell’ambiente di una testa di Ottaviano (fig. 4) secondo uno schema iconografico anteriore a quello del più noto e diffuso tipo già detto “Azio”, ed ora detto “La Alcudia” (per non vincolare la nascita di codesto tipo ritrattistico alla battaglia del 31 a.C.). C’è infine l’informazione di Svetonio che, durante il trasporto della salma di Augusto da Nola a Roma, il feretro fu deposto ad ogni tappa nella basilica o nel tempio principale della città. Potrebbe non avere torto Saliou quando suppone che codeste basiliche contenessero uno spazio dedicato al culto dell’imperatore, sia pure entro i limiti cui si è già accennato. A Roma, adeguatasi rapidamente, almeno nei più importanti testi letterari, a queste forme apologetiche che individuavano nel benefattore dell’umanità un emissario degli dei, o dio egli stesso, sembrava impossibile, al contrario, procedere ad un culto ufficiale controllato dallo stato, con riti e sacerdozi specifici, per l’innata ritrosia di un senato che non vedeva di buon occhio il predominio continuativo e duraturo di un magistrato sull’intera classe dirigente, se non in determinate occasioni sapientemente vincolate. Eppure, i versi dei poeti, alcune emissioni monetali e gemme in pietra dura o semipreziosa, specialmente del periodo compreso tra la vittoria di Naulochos e la vittoria di Azio – ma in determinati casi anche in seguito – dichiarano, almeno in apparenza, una posizione meno moderata. È chiaro che in poesia l’assimilazione del principe a un dio ricalca formulazioni retoriche che avevano i loro precedenti nell’ambiente delle corti greco-ellenistiche. In quanto produzioni a carattere non peculiarmente statale e rientranti in un genere specifico di ormai lunga tradizione, le apologie poetiche non sono affatto un documento ufficiale dell’epoca, ma rispecchiano, piuttosto, quello che poteva essere il sentire comune del popolo nei confronti del loro benefattore, secondo l’opinione che la “tangibilità” di benefici ottenuti rapidamente in vita per merito di un principe può valere talvolta assai di più della sostanziale “indifferenza con la quale gli dei guardano tanto alle buone, quanto alle cattive azioni”, secondo un’amara constatazione di Tacito. Anche le gemme e i cammei rientrano in una produzione che non può definirsi strettamente “ufficiale” e/o “pubblica”, in quanto destinata ad un ambiente colto, che sapeva leggere con il dovuto distacco i modi di assimilazione simbolica tra principi e dei secondo una ormai usuale prassi di tradizione greca. Ben differente è il caso delle rappresentazioni sulle emissioni monetali che, al contrario, possono essere considerate uno dei più efficaci mezzi di comunicazione tra i potenti e il popolo.

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In virtù di un’oculata scelta dei programmi figurativi, le monete in ambiente occidentale possono talvolta alludere a valenze superumane del principe, specialmente durante i momenti cruciali della lotta tra più pretendenti al potere, ma quasi mai con avventata ostentazione, e comunque con scelte iconografiche che evitano di scompaginare apertamente il sistema repubblicano. Sono pochissimi, ma significativi, gli esempi nei quali i magistrati romani sono rappresentati in veste o attributi divini, e tra essi solo alcuni denari coniati da Ottaviano prima del 27 a.C. appaiono per certi aspetti “eversivi”, al punto che il principe si guardò bene dal proseguire lungo questa strada, abbandonandola definitivamente dopo l’acquisizione del cognomen Augustus, a favore di schemi iconografici più in linea con la tradizione repubblicana. In un denario coniato probabilmente tra la battaglia di Naulochos e quella di Azio, Ottaviano compare eretto, in nudità eroica, con scettro, con un attributo caratteristico di Nettuno, l’aplustre, e con un piede poggiato sul globo celeste, simbolo del dominio sul mondo (fig. 5). È forse una rivalsa nei confronti di Sesto Pompeo che si era atteggiato a novello Nettuno, indossando un mantello blu e facendo coniare denari nei quali il padre, Pompeo Magno, era rappresentato in posizione reclinata, con aplustre e piede poggiato sulla prua di una nave, secondo una celebre formula iconografica già adottata per il dio delle acque (fig. 6). Ma Pompeo era morto da tempo, e la sua immagine sulle monete vale come formula di eroizzazione post mortem, mentre Ottaviano era vivo e vegeto! Ancora più drastica è la soluzione adottata in un’altra emissione a ritmo binato, nella quale, cioè, le rappresentazioni sulle due facce di due monete si relazionano a schema incrociato. Sul verso del primo denario è raffigurata un’erma nella quale si riconosce di solito il dio Terminus giovanile, con una corona d’alloro sul capo e con un fascio di fulmini giacente ai piedi del pilastrino (fig. 7). Ad essa corrisponde sul recto del secondo denario il busto-erma di Ottaviano con corona di alloro sul capo e fascio di fulmini alle spalle (fig. 8). Non c’è alcun dubbio che il rapporto tra le immagini vuol suggerire l’assimilazione di Terminus con Ottaviano, secondo una tipologia non priva di agganci iconografici e ideologici anche con Hermes/Mercurio, una delle divinità predilette dal principe, evidentemente in relazione alla sua funzione di messaggero di Giove, come si desume dalla celebre Ode I 2 di Orazio. In modo più ostentato, come conviene a tale produzione, alcuni magnifici cammei mostrano Ottaviano/Augusto assimilato alle principali divinità olimpiche. In una sardonica a Vienna, databile poco dopo il gennaio del 27 a.C., è come Nettuno dominatore dei mari, trionfatore, in toga, su un carro tirato da quattro tritoni, due dei quali reggono suoi attributi specifici: uno il clipeus virtutis entro la corona civica su un supporto composto da un globo celeste e da due capricorni, l’altro una vittoria su globo (fig. 9). In una sardonica a Boston, forse più antica, è di nuovo simile a Nettuno: il suo carro marino travolge il

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corpo di un personaggio maschile, Sesto Pompeo oppure, se la gemma è più tarda di qualche anno, Marco Antonio (fig. 10). Assimilato ad Hermes/Mercurio, come indica la presenza del caduceo in primo piano, davanti al volto di profilo, Ottaviano compare nella celeberrima sardonica già Marlborough, poi Ionides, ora al British Museum, in un’immagine di eccezionale cristallina purezza, incisa probabilmente da Solon (fig. 11). In una corniola già nella collezione Medici, ora a Napoli, si è voluta ravvisare l’immagine di Ottaviano/Augusto assimilato a Sol (fig. 12). Il personaggio, che regge una fiaccola nella mano sinistra, guida con un movimento impetuoso una scattante quadriga verso l’empireo, al di sopra di Oceano e Teti. Infine, in una sardonica di Vienna, è simile a Giove, nudo con corona sul capo, egida, scettro e fascio di fulmini, con l’aquila al suo lato, e dall’altro un trofeo presso il quale giace un barbaro legato (fig. 13). Ove si escludano, in virtù della loro circolazione, le monete con l’immagine di Ottaviano/Terminus (figg. 7-8), nessuno di questi eccezionali documenti si scosta da un sistema elogiativo che ha nei testi panegirici dell’epoca, di ascendenza culturale greca, un preciso raffronto. Entro quest’iniziale indeterminatezza, in un momento in cui, al fulgore del suo potere militare, Ottaviano sembrava poter dominare la situazione politica e permettersi di proporre a Roma stessa, ancor vivente, una sorta di divinizzazione seguendo le mosse del padre adottivo, Giulio Cesare, si potrebbe interpretare la presenza di una sua statua acrolitica colossale di circa 11 m – la testa con il collo raggiunge l’altezza di m 1,50 –, proveniente, sembra, dall’Aventino (fig. 14). Poiché raffigura Ottaviano secondo il tipo eroico La Alcudia, che restò in vigore non oltre i primi anni dopo il trionfo del 29 a.C., l’acrolito deve essere stato eretto in una fase precoce, comunque prima della diffusione del tipo Prima Porta, la cui pacata compostezza meglio si addiceva alla costruzione di un’immagine semidivina: infatti, quasi tutti ritratti colossali di Augusto finora noti appartengono al tipo Prima Porta. Un acrolito di un personaggio ancora in vita nella Roma della prima età imperiale non doveva essere usuale. La colossalità è infatti sintomo di una parvenza simile a quella degli dei. La statua poteva essere nel tempio di Iuppiter Libertas, ricostruito o restaurato da Ottaviano per aver ripristinato – almeno formalmente – la libertà del popolo romano dopo decenni di vere e mascherate dittature. Si tratterebbe, perciò, della prima documentazione, a Roma stessa, dell’associazione del principe al culto di un dio dell’Olimpo. Ma l’iniziale tendenza di Ottaviano per forme più palesi di divinizzazione si manifesta con tutta la sua evidenza visiva nel ruolo ricoperto dal mausoleo che aveva iniziato a costruire negli anni posteriori a Naulochos nelle immediate vicinanze del Tevere, nel Campo Marzio settentrionale, e nel suo rapporto con il Pantheon. Il monumento funerario, a carattere dinastico, era collocato a immediato ridosso di quel settore della città che lui stesso e il fidato Agrippa

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avrebbero ristrutturato nel decennio dopo Azio al punto da trasformarlo, a dire di Strabone, in uno dei parchi più belli del mondo. Con il suo diametro di circa 90 m, contava tra i più grandi edifici funerari del mondo antico. A tumulo erano le tombe degli eroi ed anche, forse, il Sema di Alessandro Magno, secondo la tradizione macedone ora meglio nota attraverso i trovamenti delle tombe di Verghina. Non può essere dovuto al caso che il Pantheon di Agrippa, dedicato il 27 o il 25 a.C. alle principali divinità olimpiche, cui erano affiancati Romolo/Quirino e il divo Giulio, e collocato a fianco ai Saepta verosimilmente nel luogo stesso dove Romolo, secondo la tradizione, era asceso al cielo divenendo dio con il nome di Quirino, fosse stato costruito fin dall’origine – come hanno dimostrato recenti indagini di scavo – in asse con il mausoleo di Augusto, di modo che le due porte d’ingresso fossero l’una di fronte all’altra (fig. 15). È anzi verosimile che fin dall’origine un percorso rettilineo, rimasto intatto a lungo, collegasse i due monumenti. Agrippa avrebbe voluto inserire la statua di Augusto direttamente nella cella del tempio, ma il principe rifiutò, permettendo solo la collocazione delle due statue, sua e dello stesso Agrippa, nel pronao. L’episodio, avvenuto quando Ottaviano aveva assunto ormai il nome Augusto, rivela tra le righe il fine ultimo del Pantheon che, nelle intenzioni iniziali rivelate dal suo stretto rapporto con il mausoleo, doveva prevedere l’ampliamento del culto a Ottaviano ed alla sua dinastia, così come il mausoleo era destinato ad accogliere le spoglie del principe e dei membri della sua famiglia. Probabilmente questa era anche la funzione di molti Pantheia e Dodekathea diffusi in ambiente greco: il tentativo di affiancare al culto delle principali divinità olimpiche quello della dinastia regnante, come nel caso del Grande Altare di Pergamo, destinato, secondo una possibile lettura dei documenti superstiti, al culto dei Dodici Dei e dei principi Attalidi. Il progetto, certamente avviato prima del 27 a.C., fu virato, negli anni seguenti, verso una soluzione più morbida, in attesa dell’inevitabile consecratio post mortem. A parziale conferma di questa funzione del Pantheon, nei Larari l’immagine dei Dodici Dei fu molto spesso affiancata a quella del genio di Augusto (fig. 16), in una sorta di coinvolgimento che ribadiva la qualità divina del nume che ispirava le azioni del principe e che lo poneva già quasi al rango delle divinità olimpiche. La decisione di Augusto apparve saggia, ma procrastinava solamente i tempi della sua consecratio. Egli era già destinato come Romolo ad ascendere agli astri ed a prendere il posto che gli spettava di diritto entro la cella del Pantheon. La prodigiosa apparizione di un’aquila scesa, poche settimane prima della morte di Augusto, sopra la lettera A del nome di Agrippa su un tempio collocato nelle vicinanze dell’ara Martis, dove il principe, insieme con Tiberio, era in procinto di chiudere i riti connessi con il censimento, fu interpretata sia

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come annuncio della sua morte imminente, sia della conseguente ascensio ad astra. Il tempio non può essere altro che il Pantheon. Parlano in suo favore la vicinanza con la sede dell’ara Martis, collocata non lontano dai Saepta, la dedica di Agrippa, conservata anche nel rifacimento adrianeo, la presenza nella decorazione frontonale di un’aquila entro una corona, e principalmente la sua ubicazione nel luogo simbolico che già aveva visto svolgersi, in un lontano passato, l’apoteosi di Romolo/Quirino. Il traguardo finale di questa, come di molte altre operazioni, era di legittimare il nuovo regime con forme di omaggio a carattere religioso che innalzassero il principe al di sopra di tutti i mortali. Augusto nel suo tentativo di procedere ad una rivoluzione costituzionale dando tuttavia l’impressione di ripristinare la tradizionale res publica, aveva compreso che il consolidamento della sua costruzione politica e il passaggio indolore del potere ai suoi discendenti esigevano a priori la sacralità divina della persona del principe, per offrire al nuovo regime il necessario supporto simbolico e ideologico. Nell’arco degli anni 20 del I secolo a.C., Augusto propose il ripristino delle antiche forme religiose come antidoto al crollo di tutti gli ideali durante le guerre civili: un tracollo che aveva condotto all’abbandono e alla rovina della maggioranza dei santuari ancestrali. Restaurando i templi e ripristinando riti ormai desueti, egli si costruiva un’immagine veneranda e inviolabile; tuttavia molti degli edifici sacri ebbero il loro dies natalis mutato al 23 settembre, compleanno del principe che, così, era celebrato, anche in questo caso, insieme con le divinità olimpiche. Al suo ritorno dalla Siria nel 19 a.C., quasi da trionfatore per l’astuta acquisizione delle insegne romane perdute da Crasso e ottenute dai Parti non con una campagna bellica ma con un accordo pacifico, accettò invece che fosse dedicata un’ara alla Fortuna Redux sulla via Appia, dove prendeva avvio la transvectio equitum, a memoria imperitura del suo ingresso a Roma, e che il sacrificio e le celebrazioni festive connesse con la sua inaugurazione, il 12 ottobre, fossero chiamati Augustalia e non Fortunalia. Sebbene solamente a partire dal 14 d.C. si celebrassero veri e propri ludi con il nome Augustalia, l’omaggio collocava de facto Augusto al rango degli dei, non solo perché si sacrificava, tramite l’interposizione di una personificazione divina, a memoria imperitura del ritorno del principe dalla Siria, ma anche perché mai prima di allora un giorno dell’anno era stato attribuito a un mortale ancora vivente. Al suo ritorno dall’Occidente nel 13 a.C. gli fu dedicata l’ara Pacis Augustae, collocata sulla via Flaminia, da dove era entrato a Roma, a poca distanza dal suo mausoleo e dal Pantheon, in un’area, quella del Campo Marzio settentrionale, che simbolicamente parlava solo di Augusto e delle sue imprese. Il giorno della dedica, il 30 gennaio, chiusura del mese di Giano, si celebravano supplicationes per l’imperium di Augusto, custode dell’impero romano. Questi due altari, come le posteriori arae Providentiae e

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numinis Augusti, erano dedicati a concetti astratti divinizzati, ma Augusto era ad essi associato attraverso le festività congiunte, attraverso i luoghi della loro collocazione, e naturalmente attraverso l’aggiunta ai loro nomi del cognomen del principe con tutta la sua eccezionale pregnanza simbolica. Augusto perciò beneficiava da vivo del privilegio di un’associazione, che esprimeva compiutamente la qualità delle sue azioni capaci di renderlo già da vivo simile a un dio. È possibile che già all’inizio degli anni 20 del I secolo a.C., avesse preso avvio lo spontaneo inserimento, a carattere non centralizzato né controllato dallo stato, del genius di Ottaviano – e qualche tempo dopo, del genius di Augusto – tra i Lari familiari, garanti della continuità del nucleo familiare, come omaggio dei Romani e degli Italici verso il loro protettore, quasi come riflesso di quel vincolo che legava i clientes con il loro patronus. Così almeno si potrebbe evincere dal testo di Cassio Dione (LI 19), che ricorda, tra le onorificenze offerte ad Ottaviano a seguito della vittoria alessandrina, libazioni alla sua salute durante i banchetti pubblici e privati. La critica è concorde nel supporre che le libazioni fossero offerte non direttamente al principe, ma al suo genius, come già era avvenuto nel caso di Gaio Mario, celebrato in molte case italiche con libazioni, come terzo fondatore della città dopo la sua vittoria sui Cimbri e sui Teutoni, o nel caso di M. Mario Gratidiano, celebrato dalla plebe nei vici con statue cui erano offerti incenso e vino. È probabile che nella realtà quotidiana dei piccoli sacrifici nelle case private la distinzione tra l’uomo e il suo genio avesse scarso significato. La celeberrima Ode IV 5 di Orazio, che prelude al ritorno di Augusto a Roma nel 13 a.C. – ritorno che, nella più perfetta tradizione greca, significa la ricomparsa, nella città troppo a lungo privata della sua guida, della felicità, della prosperità e della pace –, offre un quadro assai preciso dei modi in cui il principe è ormai universalmente venerato nelle mense private dagli uomini che già lo chiamano dio (almeno in poesia non attraverso l’intermediazione del suo genio), che versano vino dalle coppe con molte preghiere, che infine uniscono il suo numen a quello dei propri Lari. Non va comunque sottovalutata la base giuridica di tali offerte, in quanto erano la premessa per la trasformazione di un culto privato, e personale, in un culto pubblico, fosse esso destinato, appunto, al principe vivente oppure al suo genio, come effettivamente avvenne poco tempo dopo. Un decreto del consiglio municipale di Forum Clodii del 18 d.C., ad esempio, adattando al principato di Tiberio norme già stabilite per Augusto vivente, prescriveva libazioni ai genii di Augusto e di Tiberio prima dei banchetti pubblici in occasione del loro compleanno. Poco dopo la morte di Lepido nel 13 a.C., ma prima che il principe rivestisse finalmente la tanto agognata carica di pontifex maximus, fu probabilmente deciso che il genio di Augusto fosse inserito tra le divinità testimoni dei patti e dei giuramenti. Era già abitudine giurare negli

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atti privati in nome del genio del pater familias, ma ora il giuramento al genio di colui che reggeva l’impero assumeva una valenza ufficiale. Nello spazio fino allora occupato solo dagli dei della religione romana si veniva ad aprire una ulteriore breccia. Nel 12 a.C., una volta divenuto pontifex maximus, Augusto poté procedere alla mossa seguente, di organizzare il culto capillare del suo genio, ripristinando l’antico culto pubblico dei Lari Compitali, divinità protettrici del territorio urbano, celebrate lungo le strade o nei crocicchi. Il culto ufficiale era stato soppresso negli anni 60 del I secolo a.C. per la potenziale minaccia di rivolte popolari. Ebbene Augusto riplasmò anche questo culto tradizionale trasformando i pericolosi Lares Compitales in pacifici Lares Augusti. Seguendo un disegno che fu definitivamente compiuto nel 7 a.C., con la suddivisione della città in 14 regioni e 265 vici, ma avviato qualche anno prima, poiché il Larario del vicus di Iuppiter Fagutal è datato nel 12 a.C., e il Larario del vicus di Honos et Virtus nel 9 a.C., ad ogni crocicchio fu eretto un piccolo santuario dedicato ai Lares Augusti, raffigurati come giovani danzanti con cornucopia in mano. Ad essi, solitamente due, fu aggiunto il culto del genio di Augusto, raffigurato di solito in toga pretesta, a capo coperto, con una patera nella mano destra in procinto di libare, o con il lituo, alla maniera della statua di culto del divo Cesare come sulle monete che raffigurano il suo tempio nel foro Romano, e talvolta con una cornucopia o una acerra nella mano sinistra. Così il genio di Augusto cominciò a ricevere un culto pubblico, perché pubbliche erano le feste destinate ai Lari Compitali, dette Compitalia. Anche i sacrifici a lui dedicati salirono di peso. Se fino allora al suo genio erano offerti sacrifici incruenti, a partire dal 12 a.C. gli fu sacrificato un toro, alla pari con alcuni tra gli dei più importanti del pantheon romano, tra cui Giove e Marte, mentre ai Lari si sacrificava un porco. Il culto dei Lari e del genio di Augusto non si arrestò a Roma, né fu circoscritto all’ambiente degli schiavi e dei liberti, ma si diffuse nelle città italiche dove già da tempo erano state impostate forme non omogenee di celebrazione del principe, come confermano non solo le parole di Appiano, ma anche documenti epigrafici e resti monumentali. Numerose iscrizioni attestano la presenza di templa, edifici sacri, sacerdozi e feste dedicati al genio di Augusto ed ai Lari. Importante, in tal senso, è anche il c.d. tempio di Vespasiano nel foro di Pompei, in realtà dedicato dalla sacerdos publica Mamia al genio di Augusto ed ai Lari Augusti. Uno dei rilievi della casa di Cecilio Giocondo con raffigurazione del terremoto del 5 febbraio 62 d.C. mostra il lato est del foro pompeiano al momento culminante della scossa sismica, mentre era in atto un sacrificio di un toro per il genio di Augusto e di un maiale per i Lari (fig. 17), forse in occasione dell’anniversario dell’offerta ad Augusto del titolo di pater patriae nel 2 a.C. Ma si può ricordare anche l’iscrizione metrica dall’anfiteatro

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di Acerrae che, nella traduzione di Cesare Letta, suona: “Questo tempio è consacrato agli Eroi (cioè ai Lari). Il nome di Augusto che essi portano (scil. i Lari) possa felicemente rimanere ai figli (scil. Gaio e Lucio Cesari), perché il padre si rallegri della crescita della propria stirpe”. L’iscrizione, naturalmente anteriore al 2 d.C., anno della morte di Lucio, attesta, al pari del sacello che Mamia aveva dedicato nel foro di Pompei al genio di Augusto e ai Lari, la presenza precoce del culto del genio al di fuori dei limiti della cinta urbana. Se tuttavia, come afferma Appiano, già a partire dal 36 a.C. Ottaviano era celebrato in Italia con culti divini, vuol dire che esistevano fuori di Roma differenti soluzioni, equiparabili o alternative al culto del genio, che permettevano di onorarlo come dio vivente: ma quali fossero specificamente, al di là della più comune associazione al culto di una delle divinità locali, non è dato saperlo con assoluta precisione. È solo possibile sostenere che, quando Vitruvio ha scritto il suo trattato, non oltre il 23 a.C. ca., alle basiliche era talora annessa una aedes Augusti, uno spazio di varia misura talora absidato, che poteva fungere da curia, o da sede per attività giuridiche o per riunioni ufficiali, e/o destinato nello stesso tempo a celebrare il principe. È possibile che la presenza imperiale rappresentata simbolicamente da una sua statuaritratto volesse inizialmente garantire, nella logica clientelare così fortemente radicata nella mentalità romana ed italica, la fedeltà nei confronti del patronus, che non era più uno degli esponenti delle principali famiglie al potere, né un magistrato locale, ma il principe egemone. Forse, già prima del 13 a.C. era invalso in Italia l’uso di giurare in nome di Ottaviano/Augusto. Nell’affiancare alla sua statua quella di altre divinità, poi dei membri della sua famiglia, si potrebbe riconoscere un’evoluzione della formula di giuramento, sulla quale purtroppo i programmi figurativi finora ricostruiti – di solito databili ad epoche posteriori, o comunque ampiamente rielaborati in funzione dinastica – non offrono risposte sicure. Vani simili alla vitruviana aedes Augusti, o edicole con alto podio, erano annessi alle basiliche già a partire dalla fine del II secolo a.C., ad esempio nella basilica di Cosa e in quella di Pompei. Destinati forse alla commemorazione delle più eminenti personalità cittadine benemerite per le loro azioni, era inevitabile che, con l’avvento del principato, il loro assetto ne subisse una radicale trasformazione, con la presenza dominante della statua imperiale cui le statue dei magistrati locali si affiancarono in posizione subordinata, ma in modo da riceverne lustro di riflesso. Basiliche e aedes, dette anche Augustea o Caesarea, diventarono in breve tempo i luoghi nei quali era consueta la presenza dell’immagine dell’imperatore e dei membri della sua famiglia. Oltre la basilica di Fano, che è il modello su cui si basa la descrizione di Vitruvio (fig. 18), esempi significativi del sistema basilica / aedes Augusti sono presenti a Lucus Feroniae (fig. 3) – il cui assetto scultoreo, sulla base del rinvenimento della testa di Ottaviano di piena età triumvirale (fig. 4), forse

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inserita in una statua loricata, e di due statue tardo-repubblicane di magistrati locali, una delle quali con una testa affine all’Agrippa, potrebbe persino risalire ad un momento anteriore al 27 a.C. –, a Iuvanum, a Ordona, a Saepinum e, fuori d’Italia, a Tarragona, a Conimbriga ed a Sabratha. Vani molto spesso absidati ed eretti nelle immediate vicinanze del foro, potevano non essere collegati direttamente con le basiliche. Erano destinati alle riunioni di associazioni, non esclusivamente religiose, che qui svolgevano i loro uffici, libando durante i banchetti, e dichiarando così la loro lealtà nei confronti del principe. A Tivoli, affacciata sul foro, è stata rinvenuta una di queste sale absidate, dedicata da M. Varenus Diphilus, liberto già schiavo del potente propraetor Marcus Lartidius e di sua moglie Varena, e magister Herculaneus, membro cioè del collegio sacerdotale preposto al culto di Hercules Victor, il più importante santuario extraurbano dell’antica Tibur. Allo stesso personaggio si deve la costruzione, pro salute et reditu di Augusto, di un edificio limitrofo, un ponderarium, contenente i pesi e le misure-campione tarati a norma di legge secondo i prototipi conservati sul Campidoglio a Roma. La dedica, riferibile al ritorno del principe a Roma nel 19 o nel 13 a.C., permette di stabilire un termine abbastanza preciso per la costruzione di ambedue gli edifici. E proprio nell’ambiente absidato, al centro della nicchia, una base reggeva una statua ora acefala di Augusto seduto in sembianza di Giove con un mantello che gli copre i fianchi e la coscia destra (fig. 19): forse il primo esempio noto – e sotto molti aspetti assai precoce – per l’uso di tale iconografia in funzione di Augusto in occidente, sempre che possa confermarsi la contemporaneità tra dedica della sala e statua al suo interno. In età imprecisata i magistri Herculanei furono addetti anche al culto dell’imperatore, divenendo così magistri Herculanei Augustales. Forse questo ambiente, nel quale è possibile che i magistri si incontrassero in determinate occasioni nel centro di Tibur, piuttosto che nel ben più distante santuario di Hercules Victor, documenta che nel penultimo decennio del I secolo a.C. ai magistri fosse già stato attribuito dal senato locale tale ruolo, sebbene non ancora stabilizzato con la nuova titolatura, oppure che essi lo svolgessero ancora a livello privato, indipendentemente da un’assegnazione ufficiale. L’iconografia iovia non intende affatto identificare il principe con il padre degli dei, ma imporre l’equivalenza tra i due poteri, divino e terreno, mantenuti con lo stesso rigore ed equilibrio. Riprendendo motivi di età ellenistica, Augusto è analogamente assimilato a Giove, ma con la ben più impegnativa egida sulle spalle, nel Cammeo Strozzi al British Museum (della bottega di Dioskurides?) (fig. 20) e nell’onice Marlborough a New York (del figlio Eutyches?) (fig. 21), che anticipano la complessa simbologia della Gemma Augustea. Nell’8 a.C., con decreto del senato, il nome del mese Sextilis mutò in Augustus: e fu un ulteriore importante passo verso l’impostazione di onori quasi

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divini. Ormai Augusto era il padre e il tutore di tutti gli uomini, pronto a diventare, come effettivamente avvenne nel 2 a.C., più o meno all’unisono con il completamento e la dedica del foro di Augusto, pater patriae, assumendo il ruolo simbolico, come ha giustamente osservato Pierre Gros, di pater familias non più solo dei Romani, ma di tutti i cittadini romani dell’impero. Le statue dei re di Alba e dei summi viri componevano una sorta di galleria degli antenati nel larario personale di Augusto, quasi che il foro fosse la sua domus. In una magnifica sala del foro, collocata al fondo del portico nord-occidentale, era situata una statua colossale, alta circa undici metri (fig. 22). L’aula, interamente rivestita di marmo, aveva sulla parete posteriore un elegante tendaggio dipinto su lastre di marmo, mentre le pareti laterali avevano incassi entro i quali dovevano essere applicate tavole dipinte con ante di protezione. Per quanto si voglia essere scettici, è questo il luogo più plausibile nel quale erano ricoverate due famose tavole di Apelle raffiguranti l’una Alessandro in trionfo, incoronato da una Nike e con i Dioscuri ai suoi lati, e l’altra l’immagine del furor bellico, con le mani legate, presso Alessandro trionfante su carro. I due dipinti, cui Claudio fece ridipingere il volto di Alessandro con le fattezze di Augusto, erano in fori sui (scil. di Augusto) in celeberrimis partibus: e come sembrerebbe precisare Servio in maniera poco chiara, entrando nel foro, a sinistra. Della statua colossale che, realizzata in tecnica acrolitica, era stante e agganciata alla parete di fondo, sono conservati alcuni frammenti della mano destra, che reggeva un oggetto a sezione circolare, il dorso della mano sinistra e parte di uno dei polsi: troppo poco per definire l’iconografia della statua che, solo per ipotesi, si può supporre che reggesse un rotulo o un lituo. Data la collocazione dell’aula sul fondo del porticato che, in base ad uno degli atti vadimoniali rinvenuti ad Ercolano, potrebbe essere identificato con la porticus Iulia, e che, come l’altro porticato sud-orientale e, forse, le ampie esedre annesse, aveva funzione di basilica per le attività dei pretori urbano e peregrino (fig. 23), appare probabile che essa svolgesse una funzione analoga a quella delle aedes Augusti nelle basiliche italiche e provinciali, e che quindi fosse destinata alla collocazione di una statua di Augusto, o meglio, del genio di Augusto. Anche se non totalmente condivisa a favore di una recente, ed a mio parere inaccettabile ipotesi che si tratti di un’immagine del divo Cesare in posizione privilegiata rispetto ai summi viri, reputo che la presenza di una statua colossale di Augusto, o meglio del suo genio, potrebbe poggiare su una serie di dati non privi di una forte valenza simbolica. Nell’aula, in primo luogo, erano i dipinti di Apelle, il cui riferimento ad Augusto – accentuato dal rifacimento dei volti di Alessandro – mi sembra molto più vincolante rispetto a Cesare. Durante il I secolo d.C., poi, il foro era uno dei luoghi deputati per il sacrificio di un toro al genio dell’imperatore vivente, in occasione di un felice evento

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tra i quali il suo ritorno a Roma dopo un viaggio, o il fausto svolgimento di una campagna bellica, fosse o meno coronata da un trionfo. Almeno un importante monumento conferma il dettato degli acta. I rilievi della c.d. ara Pietatis sono pertinenti appunto ad un recinto d’altare dedicato a Claudio in occasione del suo ritorno dalla Britannia, celebrato con un trionfo nel 44 a.C. Su una delle lastre è rappresentato il sacrificio di un toro davanti al tempio di Marte Ultore (fig. 24), mentre sul frammento di un’altra lastra, nell’ambito di una processione, emerge in primo piano l’immagine di un giovane che regge una statuetta di Lare. Ma il tempio di Marte Ultore era anche il luogo nel quale si assegnavano ai magistrati le provincie, e dal quale essi partivano per la loro nuova sede. Sempre nel tempio, probabilmente, si discuteva sui difficili rapporti con le popolazioni ai bordi dell’impero e con gli stati vassalli. Svetonio ricorda, infatti, che imperatore e senato ricevevano nel tempio le ambasciate straniere e i principi barbari che avevano dichiarato di voler restare in fide e in pace con i Romani. Proprio negli anni intorno al 2 a.C. Augusto riprendeva la politica di scontro contro i Parti, affidandone la direzione militare al nipote Gaio Cesare. Non sappiamo dove fosse avvenuta l’assegnazione, ma è verosimile che il foro di Augusto avesse offerto le condizioni più idonee, sotto il profilo ideologico, per l’assegnazione dell’incarico. D’altronde, una delle tavole di Apelle nell’Aula del Colosso, raffigurante Alessandro tra i Dioscuri, avrebbe potuto avere un riferimento simbolico alla posizione dei due principi, Gaio e Lucio, ormai definitivamente proclamati eredi di Augusto e suoi potenziali successori. Quando nel 54 d.C., a seguito della ripresa delle campagne belliche contro i Parti, Nerone affidò con le insegne reali l’Armenia minore ad Aristobulo e la regione di Sofene a Soemo, e inoltre prepose al governo dell’Armenia il grande generale Domizio Corbulone, il senato dedicò nel tempio di Marte Ultore una statua all’imperatore, collocata a fianco delle statue di culto, e di pari misura, forse proprio a causa di questa specifica funzione del tempio di Marte Ultore. Si è voluto riconoscere questa statua, non senza qualche obiezione più o meno fondata, su un rilievo da Cartagine, ora ad Algeri, nel quale un personaggio maschile, in veste eroica con stella sul capo, è raffigurato a fianco di Venere e di Marte Ultore (fig. 25); c’è una non remota possibilità che il giovane imperatore fosse raffigurato nelle sembianze del suo genio. Il rapporto tra il genio dell’imperatore e il foro di Augusto traspare anche da un altro nesso simbolico, un comune denominatore basato sulla data del 1° agosto. I magistri vici, depositari del culto presso gli altari compitali, assumevano l’incarico il 1° agosto, il mese già chiamato Sextilis, e dall’8 a.C. Augustus, più o meno all’unisono con la riorganizzazione della città e con l’istituzione del culto dei Lari Compitali e del genio di Augusto. Nel medesi-

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mo mese Ottaviano aveva inaugurato il suo primo consolato, aveva celebrato tre trionfi, aveva condotto dal Gianicolo le legioni che avevano seguito fedelmente la sua causa, aveva ridotto l’Egitto a provincia romana, aveva concluso le guerre civili. Inserito nel calendario romano come giornata festiva, il 1° agosto, giorno dell’ingresso vittorioso di Ottaviano ad Alessandria, era considerato come l’inizio del suo potere. Forse proprio per questi motivi il 1° agosto fu scelto non solo per la dedica dell’altare di Augusto a Lugdunum, ma anche, probabilmente, per il dies natalis del tempio di Marte Ultore, sempre che faccia fede il testo di Cassio Dione e non i Fasti di Ovidio che, al contrario, pongono il compleanno del tempio il 12 maggio, datazione privilegiata da Géza Alföldy nella sua impegnativa integrazione dell’iscrizione dedicatoria collocata sull’architrave dell’edificio. La duplice tradizione potrebbe essere nata dal fatto che le gare equestri note come ludi Martiales si svolgessero il 12 maggio e il 1° agosto. Comunque sia – e c’è anche la possibilità che una delle due datazioni possa riferirsi al dies natalis del tempietto di Marte Ultore sul Campidoglio –, il collegamento tra il foro di Augusto, il primo giorno del mese dedicato al principe e il culto del genio imperiale, mi sembra che poggi su basi indiscutibili, rafforzate in seguito dalla nascita di Claudio proprio il 1° agosto. Attraverso l’associazione al suo genio e a concetti astratti divinizzati; attraverso le numerose feste celebrate in suo onore; attraverso la modifica del dies natalis di molti templi, tra i fondamentali, con lo spostamento al 23 settembre, giorno della sua nascita; attraverso il suo nome prestigioso e ricco di valenze religiose; attraverso il suo cognomen dato ad un mese dell’anno, privilegio offerto fino allora solo agli dei, Augusto occupava pian piano buona parte degli spazi religiosi della città e dei tempi del calendario dedicati alle celebrazioni sacre. Fu una costruzione sapiente e geniale, che ha il suo traguardo nelle celebrazioni del suo funerale e della sua apoteosi e che, a livello figurativo, ha le sue espressioni più compiute in alcuni cammei risalenti alle ultime fasi del suo principato. In una sardonica fiorentina con il purissimo, come decantato, profilo del principe con acconciatura apollinea della chioma ricadente a riccioli sulle spalle (fig. 26), è Apollo a mostrare, forse per l’ultima volta, i tratti facciali di Augusto, secondo quelle formule iconografiche che rendevano già in antico difficile distinguere il principe dal dio in una statua posta nella biblioteca del tempio di Apollo sul Palatino. Ma il quadro più compiuto, databile negli anni immediatamente precedenti la morte di Augusto, è offerto dalla Gemma Augustea di Vienna (fig. 27), nel cui impianto cosmologico Augusto si identifica con Giove, pur preservando il suo attributo specifico, il lituo, in luogo del fascio di fulmini. La composizione non dà adito ad equivoci. Augusto e la dea Roma dominano su un trono comune al centro della fascia superiore, con i piedi poggiati su un cumulo di armi. Un’aquila resta vigile sotto il trono. Il

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Tempo e la personificazione del mondo abitato pongono sul capo di Augusto una corona. La Terra sdraiata, con la cornucopia e due fanciulli al suo fianco – i frutti da essa prodotti –, poggia pensosa il braccio sul trono. Dall’altro lato Tiberio scende trionfatore da una quadriga retta da una Vittoria. Al lato del carro è Germanico, speranza futura dell’impero, in corazza. Alle spalle di Roma ed Augusto appare la costellazione del Capricorno, il segno che vede la nascita del sole, del nuovo anno e, per traslato, l’avvento di una nuova età dell’oro; il segno sotto il quale Augusto era stato generato per il bene comune dei Romani. Sebbene la splendida sardonica debba essere stata eseguita in occasione del trionfo di Tiberio, festeggiato il 10 d.C., la composizione celebra Augusto. Nulla sarebbe stato possibile, sembrano dire le immagini, non le vittorie di Tiberio e di Germanico, non il trionfo di Tiberio, senza il principe, motore immobile da cui tutto si diparte. Così, tutti guardano verso il principe già assurto nell’Olimpo al rango degli dei, e non verso il trionfatore. Il programma religioso così sapientemente impostato dal principe avrebbe regolato la vita ufficiale dell’impero e degli imperatori nei secoli a venire, fino all’avvento del cristianesimo.

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Fig. 1 – Afrodisia, Museo. Rilievo dal Sebasteion: Augusto signore assoluto e pacificatore.

Fig. 2 – Olimpia, Museo. Torso della statua di Augusto, dal Metroon. A fianco, disegno ricostruttivo.

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Fig. 3 – Pianta della basilica di Lucus Feroniae.

Fig. 4 – Roma, Museo di Villa Giulia. Ritratto di Ottaviano, dal vano absidato nella basilica di Lucus Feroniae.

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Fig. 5 – Denario di Ottaviano, anteriore al 31 a.C. Ottaviano vincitore con scettro, aplustre e piede su globo celeste.

Fig. 6 – Denario di Sesto Pompeo, coniato in Sicilia tra il 42 e il 40 a.C. Pompeo Magno vincitore, con aplustre e piede sulla prua di una nave, tra i Fratelli Catanesi.

Fig. 7 – Denario di Ottaviano, anteriore al 31 a.C. Recto: effigie di Ottaviano. Verso: erma di Terminus.

Fig. 8 – Denario di Ottaviano, anteriore al 31 a.C. Recto: erma di Ottaviano come Terminus, con corona di alloro.

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Fig. 9 – Vienna, Kunsthistorisches Museum. Agata chiazzata: Ottaviano come Nettuno su carro tirato da tritoni.

Fig. 10 – Boston, Museum of Fine Arts. Sardonica, attribuita a Solon. Ottaviano come Nettuno su quadriga di cavalli marini.

Fig. 11 – Londra, British Museum. Sardonica, attribuita a Solon. Ottaviano come Mercurio (dal calco).

Fig. 12 – Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Corniola. Ottaviano come Sol su quadriga.

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Fig. 13 – Vienna, Kunsthistorisches Museum. Sardonica: Ottaviano come Giove (dal calco).

Fig. 15 – Pianta del Campo Marzio settentrionale. La freccia indica la connessione tra mausoleo di Augusto e Pantheon.

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Fig. 14 – Città del Vaticano, Musei, Cortile della Pigna. Ritratto colossale di Ottaviano del tipo “La Alcudia”.

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Fig. 16 – Pompei, Larario dipinto sulla facciata della casa Regio IX, 11 (dall’acquerello).

Fig. 17 – Rilievo dal larario della casa di Cecilio Giocondo: scena del terremoto del 62 d.C. nell’area del foro.

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Fig. 18 – Pianta della basilica di Fano, ricostruita in base alla descrizione di Vitruvio.

Fig. 19 – Tivoli. Statua acefala di Augusto, nell’aula absidata presso il foro, dedicata da Marcus Varenus Diphilus.

Fig. 20 – Londra, British Museum. Sardonica, c.d. Cammeo Strozzi, attribuita a Dioskurides: ritratto di Augusto con benda sul capo ed egida sulle spalle.

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Fig. 21 – New York, Metropolitan Museum. Onice bianco su fondo bruno, attribuito a Eutyches: busto di Augusto con egida sulle spalle.

Fig. 22 – Disegno ricostruttivo dell’Aula Absidata nel foro di Augusto (Studio InkLink).

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Fig. 23 – Pianta aggiornata del foro di Augusto (M.L. Vitali e N. Russo).

Fig. 24 – Roma, Villa Medici. Rilievo dall’ara reditus Claudii, con rappresentazione del sacrificio di un toro presso il tempio di Marte Ultore (dal calco a Roma, Museo della Civiltà Romana).

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Fig. 25 – Algeri, Museo Archeologico. Rilievo da Cartagine. Venere, Marte Ultore e il genio di Nerone.

Fig. 26 – Firenze, Museo Archeologico. Sardonica: profilo di Augusto come Apollo.

Fig. 27 – Vienna, Kunsthistorisches Museum. La c.d. Gemma Augustea.

NICOLÁS DE DAMASCO, UN INTELECTUAL SINGULAR EN LA CORTE DE HERODES Y EN LA ROMA DE AUGUSTO SABINO PEREA YÉBENES

Nicolás decía que la cultura, apreciada en su totalidad, es como un viaje: viajando las personas hacen un largo camino para quedarse aquí una sola noche, allí para hacer una sola comida, más allá para pasar algunos días; y hay paisajes que la gente contempla sin apartarse del camino, porque sabe que éste ha de ser la vía de regreso a sus hogares; del mismo modo, para contemplar la cultura en su totalidad, es necesario prestar mucha atención a algunos autores, menos a otros, para captar bien la totalidad, una parte, o únicamente los elementos. Pero es necesario no apartarse de la filosofía, que es el medio más útil para encontrar lo que es verdaderamente el hogar ancestral de cada uno. Suda, «Nicolaos Damaskenos», 393 (Jacoby 90 F 132,4)

Nicolás de Damasco, contemporáneo de Augusto, es un gran intelectual de su época. Dedicó parte de su vida a la labor diplomática, como embajador en Roma del rey judío Herodes. Su obra escrita, en griego, sin embargo, no es reflejo su experiencia personal como “político profesional” sino que es una aventura intelectual que podríamos calificar de “multicultural”, y muy innovadora en su época. Por desgracia, toda ella nos ha llegado fragmentada. Al evaluar la figura de Nicolás de Damasco generalmente se ha puesto el acento en su “filorromanismo” por haberse mostrado abiertamente como “filo-augusteo”. Esto se percibe con claridad cuando leemos la Bivo" Kaivsaro" (Vida del joven César, o Vida de Augusto, como solemos traducir). Este panegírico es, en todo caso, sólo una parte de su producción, sólo una parte de su personalidad. En este trabajo pretendemos “re-ubicar” y reivindicar la figura de Nicolás como intelectual que nunca estuvo al margen del poder político, trayendo a primer plano su obra histórica principal, su Historia General, de cuyos 144 libros quedan restos, y su Autobiografía, de la que doy al final una versión en español. Una evaluación global de la obra de Nicolás de Damasco debe mejorar su imagen actual – que, como indico, le presenta apenas como un “lacayo del

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régimen de Augusto” – , hasta situarlo, o tener que situarlo, precisamente, “fuera del círculo de intelectuales augusteos”, no sabemos si por voluntad del príncipe o porque su obra – más anclada en el pasado que en la bullente actualidad de la política romana – puede parecer que no era precisamente un instrumento de gran utilidad para el régimen del principado tal como se configuró a partir del año 27 a.C. La realidad es que Nicolás, queramos o no, sí forma parte de la cohorte literaria filoagustea que directa o indirectamente agrandó la figura del princeps y nos ayuda a conocer mejor la historia de Roma de los últimos años del siglo I a.C. En todo caso, merece la pena traer a primer plano la labor intelectual de este hombre, que en su tiempo (ca. 64/63 a.C.-4 a.C.) prácticamente inauguró – o potenció, dándoles una personalidad propia – géneros literarios tan interesantes como el panegírico biográfico-político y la historia universal determinista (cuyo sentido y colofón era el Principado augusteo), por no hablar de la importancia que tuvieron sus escritos para transmitir y comentar la obra aristotélica, así como el mérito intrínseco y la singularidad de haber sido un peripatético “superficial”, es decir, un “filo-filósofo”, en la Roma de Augusto.

Apuntes biográficos1 En uno de los fragmentos conservados de la obras de Nicolás de Damasco él afirma de sí mismo que a la muerte del rey Herodes (es decir, año 4 a.C.), él tenía casi 60 años: kai; ga;r h\n peri; xV e[th2. Por tanto nació en el 64 o 63, el mismo año que Augusto. Había nacido Nicolás en una familia aristocrática de Damasco. Su padre, Antípatro, había ocupado allí puestos políticos muy significativos, ajrcav" te pavsa" diexh`lqe ta;" ejgcwrivou"3. Esta posición acomodada le permitió ser educado en retórica griega, música, matemáticas, y “todo tipo de filosofía”4, aunque en sus obras se percibe claramente, más que ninguna otra, la huella de Aristóteles, y de Teofrasto. Tenemos pocas noticias que nos indiquen hechos o fechas clave en la vida de Nicolás. Citaré dos de ellas: 1 En el presente estudio cito los fragmentos de Nicolás de Damasco por la edición de Felix Jacoby, FGrHist 90 F 1-102 (Historia General), F 125-130 (Bivo" Kaivsaro") y F 131-139 (Autobiografía). Todos los fragmentos menores y los testimonia se citan igualmente por la misma edición de Jacoby. A estas fuentes hay que añadir los textos siríacos y árabes de la obra filosófica de Nicolás, reunidos y estudiados por DROSSAART LULOFS 1965. 2 Jacoby 90 F 36,8. 3 Jacoby 90 F 131. 4 Jacoby 90 F 131.

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Nicolás de Damasco fue tutor, pedagogo, didavskalo", de los hijos de Antonio y de Cleopatra5. La noticia es tardía. Está tomada de Sofronio de Damasco, patriarca de Jerusalén en el siglo VII (muerto en 638)6. Estos niños serían los gemelos Alejandro Helios y Cleopatra Selene II, nacidos en el año 40, y quizás el tercer vástago, Ptolomeo Filadelfo, nacido el año 36. Muertos los padres, Antonio y Cleopatra en el año 30, estos hijos vivieron en Roma. Octavio los dejó al cuidado su hermana Octavia, que fue siempre su guardiana, al ser, además de la hermana del emperador, la primera esposa de Antonio. Después de esta fecha no tenemos noticia de los dos niños varones, que quizás murieran asesinados, pero sí de Cleopatra Selene. Augusto preparó un matrimonio “de estado” con el rey Juba II de Mauretania, asegurándose así la alianza de este reino con Roma. Nicolás de Damasco fue instructor y maestro de estos niños en fecha imprecisa, supuestamente en Alejandría7, entre los años 43-30. • Otro episodio corresponde al año 20, cuando Augusto visitó Siria. En Antioquía, Augusto recibió en audiencia a una embajada de indios. De ello nos habla Estrabón (XV 73), afirmando que Nicolás estaba en la sala de embajadores, haciendo de traductor o como cronista. Estrabón sigue literalmente una crónica de Nicolás, prosqeivh d∆ a[n ti" touvtoi" kai; ta; para; tou` Damaskhnou` Nikolavou. El asunto de la embajada permite a Nicolás de Damasco hacer una incursión literaria en un campo que le era grato: el de aportar detalles pintorescos de tierras lejanas, mezcla de leyenda y de historia, al estilo de Ctesias. Nicolás es también un etnógrafo o mejor un paradoxógrafo, como leemos en los fragmentos de la Peri; ejqw`n sunagwghv8. Lo importante de este episodio es que, en este año 20 a.C., Augusto y Nicolás se conocieron. Entre el 19-16 a.C. Herodes viajó para entrevistarse con Augusto y para ver a sus hijos, Alejandro y Aristóbulo, que estaban recibiendo en Roma una educación digna de su rango9. Augusto se mostró amistoso con Herodes, y éste regresó a Judea con sus hijos. En esa fecha, Nicolás aún no estaba al servicio de Herodes, pero es posible que, a no mucho tardar, el 15 o 14 Herodes se hiciera con los servicios del Damasceno. Quizás para esta fecha no hay que descartar que con la ayuda de Nicolás, Herodes buscase cierta continuidad en la calidad de la educación que sus hijos habían recibido en Roma. La crítica moderna admite que Nicolás no era judío, ni de nacimiento ni de religión. A lo largo de toda su vida Nicolás se mostró como un griego erudito, •

5

BOWERSOCK 1965, 135. Jacoby T 2 = Sofronio, Narratio miraculorum SS. Cyri et Johannis [ jEgkwvmion eij" tou;" aJgivou" Ku`ron kai; jIwavnnen] 54 = Migne PG 87,3 col. 3621d: ou|per ajrch; kai; rJivza Nikovlao" h\n oJ filovsofo", oJ JHrwvdou paideuth;" kai; paivdwn tw`n jAntwnivou kai; Kleopavtra" didavskalo". 7 GOLTZ HUZAR 1978, 166. 8 Jacoby 90 F 103-124; GÓMEZ ESPELOSÍN 1996, 145-157. 9 Josefo, Ant. Iud. XVI 6. Sobre estos aspectos, HADAS-LEBEL 2009, 54-56. 6

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un “oriental muy helenizado” – aunque en el marco de un helenismo decadente – , muy interesado en la cultura, primero, y en la política después. Hizo fortuna al lado del rey Herodes10 durante el periodo 17-4 a.C., en que estuvo a su lado, y su pragmatismo político y su amor a los viajes, como embajador – un oficio que había heredado de su padre11 – , le llevó a Roma, para arbitrar o tratar problemas entre Roma (Augusto) y Judea (Herodes). Nicolás se había demostrado ya como eficaz defensor de los judíos de Jonia12. Nos importa el hecho de que Nicolás consultara los archivos oficiales de Herodes, donde se conservaban varias copias, tanto de “asuntos romanos” como de “asuntos judíos” como sabemos fehacientemente por la noticia que trasmite Josefo sobre este episodio jonio, tomándolo de Nicolás13, o de una fuente oficial común. En fin, Nicolás no fue un gran filósofo, pues sus obras “peripatéticas” de Historia Natural parecen paráfrasis de obras parecidas del tándem Aristóteles-Teofrasto; tampoco fue un gran político, pues, al contrario que su padre, no le interesó hacer carrera de gobierno en Damasco, en la provincia de Siria. Fue un notable pedagogo y, seguramente, un buen consejero, como se deduce de diez años al servicio del rey judío, aunque con altibajos. Y también fue un notable historiador, quizás más ambicioso que eficaz; y muy prolífico. De este personaje nos interesa, naturalmente, su obra intelectual, pero también su acción política, como consejero y diplomático. Incidiremos luego en esa fase final de la vida de Nicolás, su relación con los romanos, y con el emperador Augusto.

Nicolás, entre Judea y Roma Tras la participación exitosa de Marco Agripa en las Guerras Cántabras, en el norte de Hispania el año 19 – liquidando finalmente un conflicto bélico que había durado 10 años: Hispanias provincia pacavi14 – la gran misión 10 Herodes del Grande, rey de Judea desde el año 40 a.C. (ECKHARDT 2007, 9-25), era obviamente un rex iudaicus, de los judíos, pero también, en el sentido cutural lato, un rey helenístico, griego, de mente abierta, no obcecado por los aspectos religiosos hebreos. Esa ideología no impidió, más bien al contrario, que el progreso judío fuese más importante bajo su reinado que bajo cualquier otro rey de su dinastía, empezando por la magna obra, bien conocida, de la construcción del (nuevo) templo de Jerusalén. Sobre estos aspectos ideológicos remito al reciente trabajo de WILKER 2007, 27-45. Sobre el ambicioso programa edilicio de Herodes, RICHARDSON 1996-1999, 174-202; HADAS-LEBEL 2009, 48-54; 62-64 (texto fundamental de Josefo, Bell. Iud. I 401-422). 11 BOWERSOCK 1965, 136. En efecto, esa era una de las misiones que tuvo Arquelao de Damasco, padre de Nicolás, a lo largo de su vida, como leemos en las primeras líneas de la Autobiografía (Jacoby 90 F 131,2). 12 Josefo, Ant. Iud. XVI 48. 13 Jacoby 90 F 142. 14 Dice Augusto, RG 26,2.

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que Augusto iba a confiar a su yerno Agripa fue la consolidación del nuevo régimen augusteo en Oriente. Otra de las tareas de Agripa fue templar las tensiones que había entre los judíos y otras etnias de la región, y a su vez entre los judíos de la diáspora15 y distintas ciudades griegas de Asia, si hacemos caso del relato de Flavio Josefo. Las relaciones políticas entre Roma y Judea, entre el emperador Augusto y Herodes, fueron especialmente intensas entre los años 17-4 a.C. Estas relaciones interestatales, desiguales por la primacía de Roma sobre la región Palestina, se vieron afianzadas por los lazos personales de “los segundos” por parte de Roma y Judea: por Roma, Marco Vipsanio Agripa, yerno de Augusto, que desde el año 23 era de hecho corregente en Roma; por parte judía, a un nivel más modesto, tenemos la figura de Nicolás de Damasco, que actuará en todo momento como “lubricante” eficacísimo en las relaciones entre Roma y Jerusalén en el citado periodo. Marco Agripa llegó a Antioquía, la capital de Siria, en la primavera del año 15. Sabía que, antes o después, iba a entrevistarse (otra vez) con el rey judío Herodes. Ambos habían coincidido antes, en el invierno del año 23, cuando Agripa visitó Mitilene16, y quizás mucho antes en Roma, el año 4017. Pero las relaciones políticas y la amicitia se consolidan en el segundo viaje de Marco Agripa18, el 23-22, momento en que Agripa hace construir en su palacio hierosolimitano dos salas de banquetes a las que denomina, respectivamente, Kaisareion y Agrippeion19 para honrar a los dos hombres más poderosos de Roma. Fue posiblemente en estas salas, en Jerusalén, donde se entrevistaron Agripa y Herodes. Mantienen una amistad personal y política de gran relevancia, pues, en efecto, Herodes no es solamente el rey de Judea, es también ejpivtropo", administrador general de toda Siria20, y gobierna sobre los territorios, adjudicados por los romanos, de Chipre y Licia21. Nunca hay que olvidar que Herodes era rey de los judíos gracias a Roma22. En el año 14, Agripa y Herodes marchan a una expedición al Bósforo23, donde el rey judío se muestra como un verdadero confidente24. Como indica 15

Sobre la diáspora judía en época de Herodes: RICHARDSON 1996-1999, 264-266; WILKER 2007, 43. Josefo, Ant. Iud. XV 350. 17 Josefo, Ant. Iud. XIV 377-378. 18 RODDAZ 1984, 451 ss. 19 Josefo, Bell. Iud. I 402-404; Ant. Iud. XV 318. Ese mismo año 23 se comienzan las obras de reconstrucción del Templo de Jerusalén (Josefo, Ant. Iud. XV 388-425; Bell. Iud. V 184-237). Ver RICHARDSON 1996, 241-249, con estudio de fuentes griegas, romanas y rabínicas. 20 Josefo, Ant. Iud. XV 360; Bell. Iud. I 399. 21 Josefo, Ant. Iud. XVI 128; Bell. Iud. I 428; HADAS-LEBEL 2009, 56-58. 22 Sobre Herodes y los herodianos hay buenas monografías, a destacar: JONES 1938-1967; PEROWNE 1956; SCHALIT 1960; GRANT 1971; RICHARDSON 1996-1999; KOKKINOS 1998; LANDAU 2006. Este último autor hace una crítica de la historiografía sobre la figura de Herodes en pp. 219-224. 23 Josefo, Ant. Iud. XVI 20. 24 GRANT 1973, 76; RICHARDSON 1996-1999, 270-272. 16

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Josefo, “Herodes fue su auxiliar en los asuntos públicos, agradable, también en los momento de descanso; era el primero que estaba dispuesto a compartir todo con él, las penas por afección, los placeres por cortesía”25. Estas mismas palabras podríamos aplicarlas nosotros a la relación entre el rey Herodes y Nicolás de Damasco, su consejero y amigo. Una interesante acción diplomática, con intervención de Nicolás, la tenemos ese mismo año 14, en que éste defiende a los habitantes de Ilión. Lo que cuenta sucede en Mitilene, donde Herodes, acompañado de Nicolás, se había encontrado con Agripa. La presencia en Oriente de Julia, la hija Augusto y esposa de Agripa, no se menciona en ninguna otra fuente26, salvo éste de Nicolás27. El texto, poco conocido por los historiadores actuales, procede los excerpta constantinianos que forman parte de la Autobiografía de Nicolás28. El consejo y la mediación de Nicolás fue requerida seguramente por el propio Agripa cuando hubo que solucionar un conflicto con los judíos de Jonia, como vemos puntualmente en el relato de Josefo, que se basa sin duda en páginas perdidas de los libros 123-124 de la Historia General del propio Nicolás: En el momento en que ellos llegaron a la zona de Jonia una multitud inmensa de judíos que habitaban las ciudades de aquella región se acercó a ellos, aprovechando la ocasión que se les brindaba y la posibilidad de expresarse pública y libremente, y refirieron las vejaciones de que eran objeto al no permitírseles hacer uso de sus propias leyes y ser obligados por la iniquidad de los jueces a someterse a juicio en días sagrados, y al ser despojados del dinero destinado a ser enviado a Jerusalén, por cuanto que eran obligados a tomar parte en las expediciones militares y en la prestación de servicios públicos y a gastar el dinero sagrado en estos menesteres, de los que habían sido eximidos siempre al haberles permitido los romanos vivir en consonancia con sus propias leyes. Como ellos criticaran a voz en grito tal suerte de vejaciones, el rey intercedió para que Agripa escuchara sus alegatos y puso a disposición de ellos para que expusiera la justicia de su causa a Nicolás, que era amigo personal suyo. Y una vez que Agripa hubo sentado a su lado a las autoridades romanas y a los reyes y príncipes presentes, Nicolás, luego de ocupar el debido lugar, argumentó así en pro de los judíos: «Oh, magnífico Agripa, a todos los hombres que se encuentran en apuros les es obligado refugiarse en brazos de quienes puedan librarlos de las vejaciones de que son objeto…» (siguen varias páginas del discurso de Nicolás). (Josefo, Ant. Iud. XVI 27. Traducción de Vara Donado, 1987, p. 954).

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Josefo, Ant. Iud. XVI 22. Todo el episodio que Nicolás cuenta el texto lo resume Josefo, Ant. Iud. XVI 26: “(Herodes) reconcilió a los habitantes de Ilión con Agripa, que se había encolerizado con ellos”. Así, sin más detalles. 27 PARMENTIER-MORIN 1998, 22 n. 75. 28 Jacoby 90 F 134. Ver el texto griego y la traducción de este fragmento en el apéndice documental del presente estudio. 26

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Ambas intervenciones de Nicolás favorecen y defienden los intereses de los judíos de la diáspora asiática29, en tanto que éstos forman parte del koinovn judío. Nicolás lucha más por sus derechos civiles y políticos que por sus reivindicaciones religiosas, disputas en las que el damasceno no entra, o al menos no han quedado testimonios, como podría ser el caso de los conflictos de Herodes con los fariseos. De haberse producido estas mediaciones “diplomáticas” o “ministeriales” de Nicolás sin duda Josefo se habría hecho eco de ellas en sus Antigüedades. Schwartz ha estudiado el lenguaje de Nicolás de Damasco y de Josefo en estos discursos, concluyendo que el damasceno habla, como aspiración, de la ejleuqeriva (la libertad) de los judíos, en tanto Josefo habla de aujtonomiva (independencia)30. En cualquier caso, insisto, Nicolás pasa por alto las cuestiones religiosas, algo a lo que un judío no se hubiera sustraído. Igualmente podemos aludir a la embajada de Nicolás a Roma31, ante Augusto para mediar sobre el asunto de la Nabatea: Herodes se opuso a Syllaios, un árabe idumeo, por un asunto de política interna32 y a encender una guerra33 que llegó a enturbiar las relaciones entre Roma y Herodes cuando Syllaios marchó a Roma para comentar con Augusto el asunto de la condena de Antípatro por la acusación de Nicolás34. Por este motivo, Nicolás se presentó en Roma para aclarar el asunto35 e intentar restañar la imagen de Herodes ante el emperador. Estos episodios contribuyeron a afianzar la amistad entre Agripa y Herodes, pero también la simpatía entre Agripa y Nicolás, que se conocieron en estos 29 RICHARDSON 1996-1999, 272: “Herod bettered Diaspora Jews’ conditions; sometimes he did this directly – as in the suit of Ionian Jews and his visits to communities with substantial numbers of Jews – but mostly he worked indirectly through benefactions. There was a close correlation between the places benefitted and the locations of concentrations of Jews, yet he never made contributions, so far as we know, to the Jewish communities themselves, only to the whole city or province. When he claimed that Jews in the Diaspora would be unmolested in the future he did not mean that the underlying problems had been resolved but that he had helped to change attitudes by his generosity”. 30 SCHWARTZ 2002, 69-71. Existe una amplia bibliografía sobre el uso que hace Josefo de la obra histórica de Nicolás, pero remito especialmente al trabajo de TOHER 1989, 159-172; TOHER 2003a, 427-447, y más recientemente LANDAU 2006, 23-28; 74-92; 111; 220. La gran calidad y cantidad de información que da Josefo sobre la época de Herodes en Antiquitates XV-XVII se debe al manejo directo por parte del escritor flavio de la Historia de Nicolás. Precisamente por eso decae el discurso histórico de Josefo a partir del año 4 a.C., comienzo del reinado de Arquelao. 31 En estros viajes transmediterráneos entre Judea y Roma, muchas veces con escala en Alejandría, era fundamental el puerto de Caesarea, en la costa Palestina, que era la capital administrativa romana en Judea. Sobre la importancia estratégica y política de Cesarea, GÜNTHER 2007, 79-89. 32 BOWERSOCK 1965, 56; 136; LANDAU 2006, 148-149. 33 Sobre la “guerra nabatea”, ver especialmente RICHARDSON 1996-1999, 165-169; 279-281 (para el conflicto en la fase de los años 12-9 a.C.). 34 Josefo, Bell. Iud. I 574; el tema es citado por Nicolás, Autobiografía, Jacoby 90 F 136,1. 35 Josefo, Ant. Iud. XVI 335-355.

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viajes. Las palabras con que Nicolás se dirige a Agripa, «¡magnífico Agripa!», w\ mevgiste A j grivppa, es una clara muestra de retórica política que aprendiera en su juventud en Damasco, esa oratoria oriental propia de una corte regia, que ensalza la figura de Agripa como la de un rey delante de los súbditos. La oratoria de Nicolás juega a mostrar a Agripa como un co-regente de Judea, y a Herodes como un “co-regente” del Imperio36, no como un súbdito de Roma, sino como un amicus. El éxito del asunto de los jonios, puesto en manos de Nicolás, con toda seguridad aumentó la simpatía del general romano hacia aquel veterano consejero de Herodes. En la primavera del año 13, Agripa regresaba a Roma de vuelta de su legación siria37. En la Urbe esperaban a Agripa sus dos hijos, Cayo (nacido el 20) y Lucio (nacido el 17), nacidos de su matrimonio con Julia la Mayor. El gran general romano no los vería crecer, pues murió unos años después, el 12. Los vástagos quedaron bajo la tutela de Augusto, que los nombró herederos, pero tampoco tendrían larga vida: Lucio murió en plena juventud, a los 19 años, en la Galia, y su hermano mayor, Cayo, a los 24 de edad, en Licia en el año 4 d.C. No sabemos si Nicolás de Damasco (que llegó a Roma un año después, el 12) estuvo implicado en la educación de los dos jóvenes. No tenemos fuente directa que lo diga, pero podemos sugerirlo: la amistad con Agripa y con Augusto, y la experiencia pedagógica de Nicolás, indica que esa circunstancia pudo darse circunstancialmente. En el año 14 viajarían a la Urbe38 el rey Herodes (por segunda vez) y Nicolás (por primera vez). Que ambos viajaron juntos lo leemos en un fragmento de la Autobiografía de Nicolás: ejk touvtou plevwn eij" R J wvmhn wJ" Kaivsara H J rwvdh" ejph`ge to;n Nikovlaon oJmou` ejpi; th`" aujth`" nhov", kai; koinh`/ ejfilosovfoun. Después Herodes, para hacer la travesía hasta Roma, donde debía encontrarse con César [Augusto], llevó a Nicolás a bordo con él, y juntos hablaban de filosofía. (Jacoby 90 F 135 = Const. Porfyr., De virt. I 327,3)

Este viaje coincide con cierta caída en desgracia del rey judío ante Augusto por causa de ciertos conflictos con los nabateos39. Este conflicto, en el que Nicolás hizo de mediador diplomático, está contado también, y con mayor extensión, por Josefo40. 36 37 38 39 40

RODDAZ 1984, 454. SCHÜRER 1985, 53. BOWERSOCK 1965, 135. Jacoby 90 F 136,1.Ver este texto en el Apéndice al final del presente estudio. Josefo, Ant. Iud. XVI 271-299; 335-355.

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No menos importante es la mediación de Nicolás en el conflicto familiar en la corte: los hijos de Herodes, enfrentados entre sí, planean asesinar a su padre. De nuevo la narración de los hechos la leemos en la Autobiografía de Nicolás41. Esta luchas fratricidas se reproducirán años después, inmediatamente después de la muerte de Herodes, luchando por la herencia al trono; y de nuevo será Nicolás quien medie para resolver el conflicto, como veremos un poco más adelante. En todos los casos, la labor diplomática de Nicolás interesaba no sólo a Herodes, sino también a Roma, a Augusto. Es natural, pues, que en los viajes de Estado, el rey judío se hiciera acompañar de Nicolás, que era amigo, y hasta quizás confidente, de romanos tan notables como Marco Agripa. Es bien conocida la anécdota de que Nicolás, para facilitar el acercamiento a Augusto y suscitar su simpatía, le llevaba como regalo abundantes dátiles de Palestina. Ateneo42 cuenta que Nicolás de Damasco se los enviaba regularmente a Augusto. Éste, con cierta simpatía los llamaba “dátiles Nicolás”, quizás porque – bien o malintencionadamente le sacaba algún parecido “formal” a los dátiles con el aspecto físico de Nicolás43. La última, y quizás más importante, misión diplomática de Nicolás en Roma se refiere a la resolución del testamento de Herodes, que murió el año 4 a.C. El trono se lo disputaban sus tres hijos44. El testamento, el séptimo45, de 41

Jacoby 90 F 136,2-7. Ver este largo texto en el Apéndice al final del presente estudio. Deipn. XIV 66,16-23. 43 La noticia de la Suda (voz ejpibouleuvonta" tw`/ patriv, oi} th`/ me;n hJlikiva/ met∆ aujto;n h\san, ajxiwvmati de; provteroi dia; to; ejk basilivdo" gegonevnai, to;n de; ejx ijdiwvtido" gunaikov".

REGRESO DE NICOLÁS A JUDEA TRAS EL PROBEYRUT (AÑO 7)

Jacoby 90 F 136,3 = Const. Porfyr., De insidiis I 15-21

Antes de que Nicolás regresara a Roma, los jóvenes vástagos fueron condenados por un Consejo136, y su padre, al borde la exasperación, estaba dispuesto a matarlos. Cuando Nicolás desembarcó, Herodes le cuenta lo que estaba ocurriendo y le pide consejo. Nicolás le recomienda que los meta en prisión en una fortaleza hasta que el paso del tiempo le permita obtener de ellos, cara a cara, una respuesta reflexiva, sin dar la impresión de estar poseído por la cólera a la hora de tomar una decisión irremediable para los miembros de su familia.

pri;n de; ejlqei`n ejk JRwvmh" Nikovlaon ejn sunedrivw/ katedikavsqhsan oiJ neanivskoi, parwxusmevno" eu\ mavla oJ path;r e[mellen aujtou;" ajnairhvsein: katapleuvsanti de; Nikolavw/ peri; tw`n gegonovtwn ajphvggelle kai; suvmboulon ejpoiei`to. oJ de; aujtw`/ parhvn/ esen ajpoqevsqai aujtou;" e[n tini tw`n ejrumavtwn, a[cri" a]n ejn tw`/ plevoni crovnw/ bouleuvsaito peri; aujtw`n a[meinon, mh; dokoivh uJp∆ ojrgh`" proacqei;" ajnhvkestovn ti gnw`nai peri; tw`n ajnagkaivwn.

NUEVAS MANIOBRAS DE ANTÍPATRO. VANO INTENTO DE NICOLÁS POR IMPEDIR LA EJECUCIÓN DE ALEJANDRO Y DE ARISTÓBULO (AÑO 7)137

Jacoby 90 F 136,4 = Const. Porfyr., De insidiis I 22 - II 4

Informado de esta conversación, Antípatro miraba a Nicolás con recelo y envió él mismo a varios hombres, primero unos y

aijsqovmeno" de; tou`to A j ntivpatro" tovn te Nikovlaon uJpevblepe kai; a[llou" ejp∆ a[lloi" aujto;" kaqiei;"

CESO DE

134

Alejandro y Aristóbulo, hijos de Mariamme, que casó con Herodes el 37 y fue asesinada el 29 a.C. Mariamme era de sangre asmonea. 136 Siguiendo a PARMENTIER-MORIN 1998, 26 n. 90, “Herodes estaba convencido de la culpabilidad de sus hijos y, a petición de Augusto (Josefo, Ant. Iud. XVI 357), convocó un Consejo (sunevdrion) en Berythus (Beirut) en el que debían participar magistrados romanos de la provincia de Siria y el rey de Capadocia, Arquelao, cliente de Roma y abuelo de Alejandro. Herodes siguió parcialmente las instrucciones del emperador, pues convocó el Consejo de 150 miembros, pero se cuidó de que allí no estuviera el citado Arquelao”. 137 Todos estos acontecimientos relacionados con la actuación de Antípatro y la herencia de Herodes, están también – y más ampliamente narrados – por Flavio Josefo, Ant. Iud. XVII 96-120. Estos fragmentos, han sido inteligentemente comentados por LANDAU 2006, 150-155 y 174-180, poniendo el acento en la importancia de la actuación de Nicolás de Damasco en el arbitraje de la herencia regia, en razón de la amistad que unía al Damasceno con Augusto. 135

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luego otros, para alertar a su padre: los jóvenes habrían corrompido, en su opinión, a todo el ejército y a los servidores, y si él no hubiera estado atento, su muerte habría sido inminente. Entonces Herodes, temiendo por su vida, tomó una decisión más rápida que justa y, sin volver a entrevistarse con Nicolás, mandó ejecutar a sus hijos en secreto durante la noche. Estos murieron138, y ello fue para Herodes el comienzo de todos sus males, pues hasta estos acontecimientos sus asuntos habían marchado bien.

to;n patevra ejfovbei, wJ" aujtivka mavla ajnaireqhsovmenon uJpo; tw`n neanivskwn diefqarkovtwn kai; to; stratiwtiko;n a{pan, wJ" e[fh, kai; tou;" ajpo; th`" qerapeiva", eij mh; dia; tacevwn ejkpodw`n aujtou;" poihvsaito. kai; o}" deivsa" peri; auJtou` qa`tton h] kavllion ejbouleuvsato, oujde;n e[ti metadou;" Nikolavw, ajlla; nuvktwr tou;" ajnairhvsonta" uJpopevmpya". kai; oiJ me;n ajpevqanon, H J rwvdh/ de; tw`n sumpavntwn h[dh givnetai kakw`n ajrchv, ta; pro; touvtwn eu\ eJstwvtwn aujtw/` tw`n pragmavtwn.

ODIO GENERALIZADO (AÑO 7)

Jacoby 90 F 136,5 = Const. Porfyr., De insidiis II 5-11

CONTRA

ANTÍPATRO

Antípatro trataba a Nicolás como un enemigo; tras haber hecho desaparecer a sus hermanos, él mismo fue objeto de un odio feroz no sólo en su reino, sino también en Siria y más allá. La noticia había llegado hasta Roma, y del más grande al más pequeño, todos detestaban al autor de los dos crímenes: había asesinado a los dos hermanos que eran muy superiores a él, había convencido a su padre para que se manchara las manos de forma tan abominable, arruinando su popularidad anterior.

ejcqro;n d∆ hJgei`to A j ntivpatro" Nikovlaon ajnelw;n tou;" ajdelfouv", ejmisei`tov ge mh;n deinovn ti mi`so" oujc uJpo; th`" basileiva" movnon, ajlla; kai; th`" Suriva" kai; tw`n pevran oijkouvntwn. ejcwvrei de; oJ lovgo" kai; eij" R J wvmhn, kai; oujdei;" h\n ou[te mevga" ou[te mikrov", o}" oujk ejmivsei to;n a[nqrwpon di∆ ajmfovtera, kai; o{ti polu; kreivttou" auJtou` ajdelfou;" ajpevkteine kai; o{ti to;n patevra e[peise toiouvtou prosavyasqai muvsou" kai; th;n proupou`san eu[noian aijscu`nai.

HERODES DESCUBRE TÍPATRO (AÑO 5-4)

Jacoby 90 F 136,6 = Const. Porfyr., De insidiis II 11-23

UN COMPLOT DE

AN-

Enseguida, este individuo continuó como había comenzado, y atacó a su padre, pues estaba deseoso de acelerar su ascenso al trono. Había comprado veneno

ejpei; d∆ ou\n ta; ajkovlouqa drw`n toi`" protevroi" aJnh;r kai; ejpi; to;n patevra w{rmhse qa`tton ejpeigovmeno" th;n basileivan labei`n, kai; to;

138 Alejandro y Aristóbulo estaban en Sebaste cuando fueron asesinados. Más tarde sus cadáveres fueron trasladados al sepulcro familiar de los asmoneos en la fortaleza de Alexandrion (Josefo, Ant. Iud. XVI 394). Sobre estos acontecimientos, remito a los comentarios de RICHARDSON 1996-1999, 286-288.

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Sabino Perea Yébenes

en Egipto139, como reconoció uno de sus cómplices; su padre hizo torturar a sus sirvientes, que confesaron todo el complot; se apresuró a hacer matar a su tía140, a los hermanos que le quedaban y a los hijos de aquellos que él había mandado matar, de modo que no le estorbara ningún otro heredero. También había urdido una conjura monstruosa, mucho más importante que los planes nefastos que preparaba en su propia familia, en la familia de César [Augusto]. El gobernador de Siria, Varo, llegó hasta allí, así como el resto de magistrados, y con su padre reunieron un Consejo. Salieron a la luz el veneno, los mechones de cabello arrancados a los servidores bajo tortura y las cartas que habían sido encontradas en Roma. El rey confió a Nicolás la organización del juicio.

favrmakon ejwvnhto ejx Aijguvptou, o{per ejmhvnusen ei|" tw`n koinwnouvntwn th`" pravxew", ejbasavnizev te tou;" oijkevta" aujtou` oJ pathvr, oi} dh; to; suvmpan fanero;n ejpoivhsan, wJ" kai; th;n thqivda e[mellen ajnairhvsein kai; tou;" a[llou" ajdelfou;" o[nta" touv" te tw`n ajnh/rhmevnwn pai`da", wJ" mhdei;" leivpoito klhronovmo", ejtuvreuse dev ti miaro;n kai; eij" to;n oi\kon Kaivsaro" polu; mei`zon tw`n eij" to; gevno" paranomhmavtwn, h|ke me;n oJ th`" Suriva" strathgo;" Ou[aro" kai; oiJ a[lloi ejpimelhtaiv, kaqivzei de; sunevdrion oJ path;r aujtou`, parhnevcqh de; eij" mevson to; favrmakon kai; aiJ tw`n oijketw`n bavsanoi tav te ejk gravmmata, Nikolavw/ de; to;n ajgw`na ejpevtreyen oJ basileu "v .

JUICIO, REPROCHES DE NICOLÁS, EJECUCIÓN DE ANTÍPATRO (AÑO 5-4)141

Jacoby 90 F 136,7 = Const. Porfyr., De insidiis II 23-32

Nicolás pronunció la acusación, Antípatro la defensa, Varo y los “amigos”142 la sentencia. Como consecuencia de aquello, Antípatro fue considerado culpable y condenado a muerte. Sin embargo, una vez más, Nicolás aconsejó que fuera enviado a César, puesto que también era culpable de haberle lanzado amenazas, y actuar según lo que decidiera este último. Pero poco antes había llegado una carta de César [Augusto] recomendando a Herodes que castigara él mismo a su hijo. Este recibió el castigo, y César [Augusto] hizo ejecutar también al liberto143

kathgovrei me;n ou|to", ajpelogei`to de; jAntivpatro", e[krinen de; Ou[aro" meta; tw`n fivlwn. katadikavzetai d∆ ou\n jAntivpatro" kai; th;n ejpi; qanavtw/ paradivdotai. Nikovlao" de; kai; tovte parhv/nei pevmpein aujto;n ejpi; Kaivsara, ejpei; kai; eij" aujto;n hjdivkhsen, kai; o{ ti a]n ejkei`no" gnw`/, tou`to pravttein. e[fqh de; ta; para; Kaivsaro" gravmmata h{konta kai; tw`/ patri; kolavzein aujto;n ejpitrevponta. kai; oJ me;n ejkolavsqh, ajpevkteinen de; kai; oJ Kai`sar th;n sugkakourghvsasan autw`/ ajpeleuqevran. oujdei;" de; h\n

139 En realidad un amigo suyo, llamado Antifilo, le había traído el veneno de Egipto (Josefo, Ant. Iud. XVII 70; Bell. Iud. I 599). 140 Salomé, hermana de Herodes. 141 Sobre la muerte de Antípatro, las fuentes, y sus múltiples connotaciones, RICHARDSON 1996-1999, 288-294. 142 Los fivloi, consejeros regios. 143 Llamado Acmé, que estaba al servicio de Livia en Roma, y era “el hombre de Antípatro” en la Urbe (cf. Josefo, Bell. Iud. I 641-645).

Nicolás de Damasco, un intelectual singular

247

que había sido cómplice de sus crímenes. Todo el mundo elogió a Nicolás por su magnífico discurso contra este parricida y este fratricida.

o}" oujci; Nikovlaon * kavllista kathgorhvsanta tou` patraloivou te kai; ajdelfoktovnou.

MUERTE DE HERODES. INSURRECCIÓN JUDEA (AÑO 4)

Jacoby 90 F 136,8 = Const. Porfyr., De insidiis II 33 - III 3

EN

Poco tiempo después, el rey murió en su torre, y el pueblo se sublevó contra sus hijos y contra los griegos. Los insurgentes eran más de diez mil. Tuvo lugar una batalla, en la que se impuso la facción griega. Arquelao, el sucesor designado, se embarcó para Roma a fin de recibir allí los plenos poderes, y le pidió a Nicolás que le acompañara con sus hermanos, puesto que aquél había decidido retirarse ya de la vida pública (pues tenía casi sesenta años).

meta; de; tau`ta ojlivgou crovnou dielqovnto" teleuta`/ kai; oJ basileuv", kai; to; e[qno" ejpanivstatai toi`" tevknoi" aujtou` kai; toi`" {Ellhsin. h\san de; pleivou" murivwn. genomevnh" de; mavch" nika`/ to; JEllhniko;n: kai; oJ diavdoco" jArcevlao" eij" JRwvmhn plevwn e{neka th`" o{lh" ajrch`" meta; tw`n a[llwn ajdelfw`n parakalei` sumpleu`sai Nikovlaon ajnacwrei`n h[dh wJ" eJauto;n ejgnwkovta: kai; ga;r h\n peri; xV e[th.

VIAJE A ROMA PARA PONER ORDEN EN LA SUCESIÓN DE HERODES (AÑO 4)

Jacoby 90 F 136,9 = Const. Porfyr., De insidiis III 4-11

Por tanto, hizo la travesía con ellos, y descubrió que estaba rodeado de sospechosos de actuar contra Arquelao: por un lado, su hermano menor144 le disputaba el trono, por otro, todos los miembros de su familia, que sin tomar partido por su hermano pequeño presentaban acusaciones contra él. Además, las ciudades griegas sometidas a Herodes habían enviado embajadores para pedir a César [Augusto] que les liberara; aún más, todo el pueblo judío le reprochaba la masacre de tres mil hombres caídos en la batalla y reclamaba ante todo ponerse bajo la autoridad de César [Augusto] o, en su defecto, al menos bajo la protección del hermano pequeño (de Arquelao).

sunevpleuse d∆ ou\n: kai; eu|ren pavnta kathgovrwn pleva ejpi; to;n jArcevlaon. cwri;" me;n gar; oJ newvtero" ajdelfo;" th`" basileiva" ajntepoiei`to, cwri;" d∆ oiJ suggenei`" a{pante" kathgovroun aujtou`, ouj tw`/ newtevrw/ sunagwnizovmenoi: ejpresbeuvsanto de; kai; aiJ uJf∆ JHrwvdh/ JEllhnivde" povlei" aijtouvmenai th;n ejleuqerivan para; Kaivsaro", kai; o{lon de; to; jIoudaivwn e[qno" ejpikalou`n fovnon triscilivwn ajndrw`n tw`n ejn th`/ mavch/ pesovntwn, kai; ajxiou`n mavlista me;n uJpo; Kaivsari ei\nai, eij de; mhv, uJpov ge ou\n tw`/ newtevrw/ ajdelfw/`.

144 Antipas. Sobre Herodes Antipas, que mandó ejecutar a Juan el Bautista y a Jesús, ver los trabajos de HOEHNER 1972-1980; RICHARDSON 1996-1999, 295-313.

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Sabino Perea Yébenes

NICOLÁS INTERCEDE ANTE AUGUSTO VOR DE ARQUELAO (AÑO 4)

A FA-

Jacoby 90 F 136,10 = Const. Porfyr., De insidiis III 11-18

Para hacer frente al conjunto de maniobras lanzadas contra él, Nicolás emprende la defensa de Arquelao comenzando por restablecer sus derechos hablando cara a cara con los miembros de su familia; luego también habló personalmente con los judíos sobre sus reivindicaciones; pero creyó preferible no parlamentar con las ciudades griegas y aconsejó a Arquelao no oponerse a su deseo de libertad, pues el resto del reino sufriría las consecuencias. Igualmente prefirió no actuar contra el hermano de Arquelao145, por razón de su amistad con su padre.

tosouvtwn de; dikw`n ejphggelmevnwn, ajgwnisavmeno" uJpe;r jArcelavou Nikovlao" to;n pro;" tou;" suggenei`" ajgw`na prw`ton katwvrqwsen, e[peita de; to;n pro;" tou;" uJphkovou" to;n mevntoi pro;" ta;" povlei" oujk hjxivou, ajlla; kai; jArcelavw/ parh/vnei mh; ejnantiou`sqai aujtai`" ejleuqeriva" glicomevnai": ajrkei`n ga;r aujtw`/ th;n a[llhn dunasteivan. oJmoivw" d∆ oujde; pro;" to;n ajdelfo;n aujtou` hjxivou ajgwnivzesqai dia; th;n pro;" to;n koino;n aujtw`n patevra filivan.

ARBITRAJE DE AUGUSTO (AÑO 4)

Jacoby 90 F 136,11 = Const. Porfyr., De insidiis III 18-23

César [Augusto] se pronunció sobre el conjunto de conflictos y dio una parte del reino a cada uno de los muchachos, y la mitad a Arquelao. Recompensó a Nicolás y dio a Arquelao el título de etnarca, prometiendo que le nombraría rey cuando hiciera merecimientos; en cuanto a sus hermanos más jóvenes, Filipo y Antipas, los nombró tetrarcas.

dih/vthse de; Kai`sar kai; to; o{lon, eJkavstw/ tw`n paivdwn mevro" ajpodou;" th`" ajrch`", th;n d∆ hJmivseian moi`ran jArcelavw/. kai; Nikovlaon me;n ejtivmhsen oJ Kai`sar, jArcevlaon de; ejqnavrchn katevsthsen: uJpevsceto dev, eij auJto;n a[xion paraskeuavseien, kai; basileva tacu; poihvsein: tou;" de; met∆ aujto;n ajdelfou;" Fivlippon kai; tetravrca" ajpevdeixen.

137. Valores éticos de Nicolás DESPRECIO DE LA RIQUEZA146

Jacoby 90 F 137,1 = Const. Porfyr., De virtut. I 327,18-21

Todos los valores que defendía, los aplicaba a su propia vida. Demostraba por

o{ti pavnq∆ o{sa parhvggellen, ejpi; tw`n e[rgwn diexhv/ei aujtw`n kai;

145 Es decir, Antipas, cuya defensa estaba en manos de Ptolomeo, el hermano de Nicolás (Josefo, Ant. Iud. XVII 225). 146 En el mismo sentido, ver más adelante el fragmento 138.

Nicolás de Damasco, un intelectual singular

249

su conducta que menospreciaba el dinero y centraba su atención en acciones más nobles; jamás se le vio cometer una sola bajeza por causa de dinero.

ajpedeivknuto crhmavtwn me;n w]n kreivttwn, qa`tton de; lamprovtata ejfilotimhvqh, oujqevn te w|n mh; dei` ejfavnh crhmavtwn e{neka pepoihkwv".

RECHAZO

Jacoby 90 F 137,2 = Const. Porfyr., De virtut. I 327,21-27

DE LOS PLACERS Y ELOGIO DE LA

VIDA SENCILLA

Menospreciaba el placer como ninguna otra cosa, lo que podía suscitar admiración, si tenemos en cuenta que frecuentaba a los reyes y a personas poderosas. Era normalmente austero, poco dado al placer carnal, y consideraba como los esclavos a las personas que se dejan dominar por esta forma de disfrutar. Sus elogios, al contrario, los dirigía a aquellos que soportaban el sufrimiento y a los que practican una vida sencilla. Aún más: cuando tenía oportunidad de mostrar su generosidad, nunca se mostraba mezquino, pues no quería granjearse una mala fama de avaro.

hJdonh`" d∆, o} tavc∆ a[n tw/ qaumasto;n ei[h, ei[ tino" ou\n katefrovnei, kai; tau`ta basileu`si kai; hJgemovsi sunw;n pollavki": h\n ga;r aujsthro;" fuvsei kai; ejnantivo" pro;" aujth;n kai; ajndrapodwvdei" nomivzwn tou;" tw`n ajpolauvsewn tw`n toiouvtwn h{ttou" ejpainethv" te aujtarkeiva" ajei; kai; aJplovthto", kaivtoi g∆ ejn oi|" dei` lampruvnesqai megaloprephv", ouj glivscro" h\n, wJ" mh; dovxan ajneleuqeriva" lavboi.

ESFUERZO Y CORAJE

Jacoby 90 F 137,2 = Const. Porfyr., De virtut. I 327,27 - 328,3

Se esforzaba en destacar en esfuerzo y coraje147. No quedó nunca atrás, ni durante su juventud ni tampoco durante su vejez, y si había un peligro que viniera de un enemigo, de unos bandidos, de una enfermedad, de una tempestad en el mar o por cualquier otra cosa, su actitud era tan valiente que siempre transmitía confianza a sus compañeros de desgracias.

prov" ge mh;n povnou" kai; karterivan, ei[ pote devoi, pavntwn ajoknovtato", oujk ejn neovthti movnon, ajlla; kai; ejn ghvra/, kai; o{ph/ kivnduno" katalavboi ejk polemivwn h] lhstw`n h] dia; novson h] ceimw`na kata; qavlattan h] a[llw" pw", ou{tw dh; sfovdra eu[yuco" h\n, w{ste kai; toi`" a[lloi" ajei; qarrei`n parei`cen, oJpovsoi koinwnoi; h\san aujtw/` tou` kinduvnou.

APRECIO DE LA JUSTICIA; ÓPTIMO JUEZ

Jacoby 90 F 137,3-4 = Const. Porfyr., De virtut. I 328,3-12

En cuanto a la aplicación de la justicia era muy estricto, y muy fuerte para so-

prov" ge mh;n to; divkaion ajklinh;" ou{tw kai; ajqwvpeuto", w{ste kai;

147 Esta enumeración de virtudes propias, en este y los siguientes parágrafos, están inspiradas en (o tomadas de) Aristóteles, particularmente de la Ética a Nicómaco, III 9-14.

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Sabino Perea Yébenes

portar incluso las amenazas de algunos hombres poderosos, y así poder juzgar equitativamente. Por esta razón era elegido frecuentemente como juez o como árbitro, pues su sentido de la justicia era apreciado por todos; y tanto en los acuerdos públicos como en los contratos privados, jamás persona alguna le hizo un reproche, ni siquiera las personas malintencionadas, gracias a su imparcialidad. Ante él no era preciso convocar a testigos ni llegar a acuerdos escritos: lo que prometía de palabra quedaba garantizado. Nadie puede presumir de haber conocido a alguien más modesto ni más sabio en las plazas públicas y en los caminos…

ajpeila;" ejnegkei`n tinwn hJgemovnwn pote; dikavzwn uJpe;r tou` mh; tou`to parabh`nai. polloi; ga;r aujto;n hJ/rou`nto kai; dikasth;n kai; diaiththvn, fanera`" eij" pavnta" aujtou` th`" dikaiosuvnh" genomevnh", e[n te sumbolaivoi" h] tai`" pro;" tou;" ijdiwvta" koinwnivai" oujdei;" pwvpot∆ aujto;n ejmevmyato, oujd∆ ei[ ti" ponhro;" ei[h, dia; th;n ejpieivkeian: oujde; ga;r martuvrwn e[dei pro;" aujto;n h] sumbolaivwn, ajll∆ o{ ti a]n oJmologhvsh/, bevbaion h\n. kosmiovthtav te kai; swfrosuvnhn oujdei;" aujchvsei pleivw kata; to; h\qo" e[n te ajgorai`" kai; oJdoi`" ***

ELOGIO

CITAR LA PATRIA

Jacoby 90 F 137,5-6 = Const. Porfyr., De virtut. I 328,12-25

El estudio proporciona al filósofo la gloria y los honores, así como otros beneficios y ventajas propias de los poderosos, aunque esto no se consigue sin esfuerzo. Y de hecho, ¿a quién convendría mejor, si no es un hombre así, disfrutar de estos beneficios, considerados por él como los más preciosos? En todo caso, un hombre así sabrá apreciar lo que verdaderamente tiene valor. El filósofo, en efecto, lo usará con discernimiento y con mesura, como Nicolás, que no abusó inoportunamente de su notoriedad y de su fortuna, sino que las puso al servicio de su modestia y de su generosidad con respecto al pueblo. Jamás creyó necesario tomar el nombre de ciudadano de otra ciudad que no fuese la suya, y se burlaba incluso de los sofistas de su época, que pagaban mucho dinero por adquirir el título de Ateniense o Rodio porque estaban avergonzados de la oscuridad de su patria (algunos de ellos han llegado a escribir libros para explicar que no eran originarios de su ciudad, sino

kai; diatribw`n parakolouqei`n eujdoxivan te kai; timh;n tw`/ filosovfw/ kai; a[lla" cavrita" kai; wjfeleiva" para; tw`n dunatw`n oujjk ei\nai, povnou d∆ ajllovtrion. tivni ga;r a]n ma`llon aJrmovttoi tau`ta karpou`sqai ajpo; tou` beltivstou kai; spoudaiotavtou gignovmena h] tw/` toiouvtw/… ouj ga;r dh; tw`/ fauvlw/ kai; oujdeno;" ajxivw/. crhvsetai ga;r aujtoi`" ajfuvrtw" te kai; ejmmelw`", kaqw; " Nikovlao" tw`/ gnwvrimo" ei\nai kai; eu[poro" eij" oujde;n a[topon ejcrhvsato, ajll∆ eij" metriovthtav" te kai; dhmotikh;n filanqrwpivan, povlew" me;n ou[pot∆ ajf∆ eJtevra" oijovmeno" dei`n, ajll∆ ajpo; th`" auJtou` prosagoreuvesqai: kategevla de; kai; tw`n kaq∆ auJto;n sofistw`n, oi} megavloi" timhvmasin ejwnou`nto jAqhnai`oi h] JRovdioi kalei`sqai, barunovmenoi th;n ajdoxivan tw`n patrivdwn: e[nioi de; kai; sunevgrayan peri; tou` mh; ei\nai ajf∆ h|" povlew" h\san, ajll∆ ajpov tino"

DE LA MODESTIA; HONESTIDAD AL

Nicolás de Damasco, un intelectual singular de una ciudad griega famosa): (Nicolás) comparaba a éstos con aquellos que se avergüenzan de sus padres.

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tw`n di∆ ojnovmato" JEllhnivdwn: oJmoivou" te ajpevfaine toi`" tou;" eJautw`n goneva" barunomevnoi".

138. Desprecio del dinero CONSEJOS SOBRE EL DINERO

Jacoby 90 F 138 = Const. Porfyr., De virtut. I 328,26 - 329,11

Se reprochaba a Nicolás no haber guardado la mayor parte del dinero que había recibido de sus amigos, de pasar mucho tiempo en compañía gente corriente o frecuentar a los poderosos y ricos en Roma, entre los cuales no encontró nunca, a pesar de la insistencia de un gran número de personas distinguidas148, a alguien que consagrase una parte de su jornada al estudio de la filosofía. El respondía a estas críticas que, en primer lugar, conseguir dinero es como coleccionar liras o flautas: no tiene interés alguno; es el uso lo que le otorga importancia (al dinero). Merece rechazo el hombre que emplee su dinero en vivir como un corrupto, como un avaro o como un individuo sin moral y sin juicio. Pero aquel que lo emplee para alcanzar una vida sabia, ordenada, sociable y generosa, aceptándolo cuando él quiera y de quien él quiera, administrándolo y dejándolo a sus hijos al morir, éste será un hombre mejor. En segundo lugar, decía él, el hombre de bien sólo se fija una regla de conducta: buscar la compañía de personas virtuosas; él creía que estos últimos son por naturaleza más numerosos entre la gente corriente que entre los más ricos, pues, cuando le parece al destino, pone fácil al rico alcanzar la virtud; sin embargo, sucede a menudo que, al contrario, lo tuerce para conducirlo a los placeres y a la vanidad.

o{ti h/jtiw`ntov tine" to;n Nikovlaon plei`sta crhvmata para; fivlwn labovnta ouj swvzein aujtav, kai; o{ti ta;" pleivou" diatriba;" ejpoiei`to meta; tw`n dhmotikw`n, ejkklivnwn tou;" megavlou" kai; uJperplouvtou" tw`n ejn *** oujdamw`" h[/ei, pollw`n kai; ejndovxwn aujto;n biazomevnwn, ajlla; di∆ o{lh" hJmevra" ejn tai`" filosovfoi" qewrivai" h\n. oJ d∆ ajpelogei`to peri; me;n tw`n crhmavtwn, o{ti hJ kth`si", w{sper luvra" h] aujlw`n, oujdeno;" a]n ei[h ajxiva, hJ crh`si" de; to; kuriwvtatovn ejstin, h}n eij mevn ti" eij" a[swton kai; ajmetavdoton h] o{lw" a[frona h] fau`lon katadapana`/ , ejpivmempto" a]n ei[h, eij dev ti" eij" swvfronav te kai; kovsmion kai; koinwniko;n kai; filavnqrwpon, decovmeno" kai; o{te dei` tau`ta kai; par∆ w|n dei`, kai; proievmeno" kai; toi`" tevknoi" ajpoleivpwn, ajmeivnwn a]n ei[h. o{ron de; e{na e[fh poiei`sqai to;n a[ndra to;n ajgaqo;n toi`" ejpieikestevroi" ejqevlein ajei; sunei`nai, toiouvtou" d∆ ejn toi`" dhmotikoi`" oJra`n pleivou" h] ejn toi`" baruplouvtoi" fuomevnou". pollh`" ga;r ajgaqh`" tuvch" dei`tai plou`to", w{ste eij" ejpieivkeian fevrein: ejktrevpei ga;r tou;" pleivou" eij" filhdonivan te kai; uJperhfanivan.

148

Es decir, por el consejo del propio Nicolás.

252

Sabino Perea Yébenes

139. Un amo ejemplar RELACIÓN AFABLE CON LOS ESCLAVOS

Jacoby 90 F 139 = Const. Porfyr., De virtut. I 329,12-14

En cuanto a sus esclavos domésticos, les dio una formación completa y, como vivían cotidianamente en su compañía, los trataba tan bien como a sus amigos.

o{ti tou;" eJautou` oijkevta" ejkpaideuvsa" kai; ejk tou` suzh`n ajei; pollh;n oJmohvqeian aujtoi`" ejmpoihvsa", ejcrh`to oujde;n ceivrosin h] fivloi".

PRAISING NERO (LUCAN, DE BELLO CIVILI 1,33-66) DAMIEN NELIS

A precedent for the strange belief that Elvis Presley is alive and well and living in Peru may be found in the story recounted by Tacitus (Histories 2,89) that in March 69 BCE Nero was alive and well and living on the island of Cythnus. Obviously, one could love or hate Nero, but one could not ignore him. And as E. Champlin has shown in his recent biography, he remains an endlessly fascinating figure. Nero is described by Champlin as ‘a man of considerable talent, great ingenuity, and boundless energy’ and as ‘a public relations man ahead of his time’1. Obviously, this is not quite the image most readers have taken away from their reading of our main sources, Cassius Dio, Suetonius and Tacitus, whose accounts amount overall to a grim picture of a mad tyrant. If we look at Suetonius, for example, there is a careful build-up in the description of the emperor’s crimes. Chapter 34 moves from matricide to the murder of his aunt; in 35 his treatment of his relatives is characterized by criminal abuse; in 36 we learn that he was no less cruel outside his household; in 37 he shows no restraint in putting many opponents to death; finally, in 38, he does not even spare the very fabric of the city of Rome and its people as a whole. On a similar note, in the fifteenth book of the Annals, after describing the death of Lucan (15,70,1), Tacitus begins chapter 71 thus: sed compleri interim urbs funeribus, Capitolium victimis. There is no need to labour the point. Many members of the Roman élite looked on Nero as a monster. How then does one deal with praise of a bad emperor? * I would like to thank Michael Dewar (Toronto), Ruurd Nauta (Groningen) and Gianpiero Rosati (Udine) for advice of various kinds. Some of the points made here concerning Lucan’s use of Vergil’s Georgics were discovered and studied quite independently by Professor Nauta in an unpublished paper first given in 2004 and entitled “Tweemaal Emathië”. Het prooemium van Lucanus en Vergilius’ Landleven. Professor Nauta informs me that he will publish this paper in due course. It is likely to advance significantly important aspects of our understanding of Lucan’s use of the Georgics. I would like also to offer thanks to Valéry Berlincourt and L. Galli Milic, who are currently working on a research project on the intertexuality of Latin poetry based in the University of Geneva; the former is working on Claudian, the latter on Lucan. Their research is funded by the Fond National Suisse de la Recherche Scientifique; their encouragement has been invaluable. 1 CHAMPLIN 2003, 236.

254

Damien Nelis

In an article devoted to a much-discussed passage of Lucan in which Nero is literally praised to the high heavens (1,33-66), M. Dewar has used the expression ‘laying it on with a trowel’ in order to try to get to grips with the rhetoric of excess inherent in ancient praise poetry. He argues that modern readers consistently fail to understand it and the conventions which surrounded its production and reception in imperial Rome2. In this paper, I will attempt to survey some recent work on Lucan in order to illustrate the various ways in which scholars deal with the issues arising from the laudes Neronis. It will also be argued that appreciation of a pattern of allusion to Vergil is central to the interpretation of the passage in question and that Lucan’s praise of Nero is inextricably bound up with Vergil praising ‘Caesar’ in the first book of the Georgics. The text in question runs as follows and it will be useful to set it out in full at the beginning (1,33-66; ed. Shackleton Bailey): quod si non aliam venturo fata Neroni invenere viam magnoque aeterna parantur regna deis caelumque suo servire Tonanti non nisi saevorum potuit post bella gigantum, iam nihil, o superi, querimur; scelera ipsa nefasque hac mercede placent. diros Pharsalia campos impleat et Poeni saturentur sanguine manes, ultima funesta concurrant proelia Munda, his, Caesar, Perusina fames Mutinaeque labores accedant fatis et quas premit aspera classes Leucas et ardenti servilia bella sub Aetna, multum Roma tamen debet civilibus armis quod tibi res acta est. te, cum statione peracta astra petes serus, praelati regia caeli excipiet gaudente polo: seu sceptra tenere seu te flammigeros Phoebi conscendere currus telluremque nihil mutato sole timentem igne vago lustrare iuvet, tibi numine ab omni cedetur, iurisque tui natura relinquet quis deus esse velis, ubi regnum ponere mundi. sed neque in Arctoo sedem tibi legeris orbe nec polus aversi calidus qua vergitur Austri, unde tuam videas obliquo sidere Romam. aetheris inmensi partem si presseris unam, sentiet axis onus. librati pondera caeli orbe tene medio; pars aetheris illa sereni tota vacet nullaeque obstent a Caesare nubes. 2

DEWAR 1994, 199-211.

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Praising Nero (Lucan, De Bello Civili 1,33-66) tum genus humanum positis sibi consulat armis inque vicem gens omnis amet; pax missa per orbem ferrea belligeri conpescat limina Iani. sed mihi iam numen; nec, si te pectore vates accipio, Cirrhaea velim secreta moventem sollicitare deum Bacchumque avertere Nysa: tu satis ad vires Romana in carmina dandas.

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65

This extraordinary passage has provoked much scholarly disagreement. For some it is straightforwardly sincere panegyric. For others it is obviously ironic and insincere. For yet others it is simultaneously sincere and insincere or in some sense ambiguous3. In relation to the interpretation of the thrust of the passage as a whole, a number of smaller individual questions have also attracted much attention. Does Lucan describe Nero as obese and having a squint?4 What is the relationship between this passage and the rest of the poem, particularly in light of Vacca’s testimony that Lucan had a quarrel with Nero which resulted in a ban on his work?5 What exactly is Lucan’s conception of the cosmic aspects of his praise?6 But overall, the essence of the difficulties many have with this passage seems to lie in the fact that its apparent excess and extravagance mean that they cannot take it seriously. Others, however, argue that if ancient praise poetry failed to offer extravagant praise, it simply was not doing its job properly. Obviously, therefore, this passage raises very starkly the problems involved for modern scholars when it comes to interpreting encomium in imperial Latin poetry. The simple question is this: do we know how to read it? In order to try to find some kind of approach to this fundamental question I would like to take as my starting point M. Dewar’s study, one of the most rigorous attempts to come to terms with the critical reaction to Lucan’s 3 For surveys of the scholarly reaction see MASTERS 1992, 137 n. 101; DEWAR 1994; RADICKE 2004, 162; ROCHE 2009, 129-130; RIPOLL 2010. 4 DEWAR 1994 elegantly traces the tradition, arising from Christian attacks on Nero, that Lucan alludes to the fact that Nero had a squint and was obese. Dewar demonstrates that these claims are simply based on highly partial readings of Suetonius’ description of Nero’s physique in chapter 51 of his life. Nero is in fact described as being short-sighted and having a thick neck and protruding stomach. 5 For many scholars, the easiest explanation of the problem is that our passage is a piece of serious encomium written before the quarrel with Nero; see for example LEBEK 1976, 74-107; DEWAR 1994, 210. But of course many disagree; see for example LEIGH 1997, 24 n. 31; ROCHE 2009, 5-7. 6 See ARNAUD 1987 for a detailed attempt to explain precisely what Lucan says about the physical position Nero will adopt in the heavens, arguing that we must imagine a world with Rome at the centre and Nero placed at the top and centre of the sky directly above Rome. He is the cosmokrator, the supreme all-seeing, all-controlling deity, assimilated to the Sun God and the Stoic anima mundi. He is also the new god who replaces all the old gods. For Arnaud there is no doubt that Lucan’s praise is serious. He argues too for the originality of Lucan’s conception and his careful use of various cosmological traditions.

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eulogy. As already noted, a fundamental element in Dewar’s approach to the passage is his belief that modern readers struggle to come to terms with the rhetoric of exaggeration and excess which characterizes so much ancient encomium, and that it this failure to connect with some of the fundamental encomiastic strategies employed by the ancients which has lead to modern readings which see only irony and insincerity at work. At the end of his paper, however, Dewar discusses what he considers to be the strongest attempt at an ironical reading of the passage, that of Stephen Hinds, who relates Lucan’s use of solar imagery in his praise of Nero to the first episode of the second book of Ovid’s Metamorphoses and sees significant allusions to the myth of Phaethon, allusions which hint that Nero’s reign is disastrous for the Roman world7. Dewar is unconvinced by this subtle argument, which works with the idea that the text’s surface meaning can be modified by the recognition of the presence of a complex allusion by readers learned enough to spot it. But from a methodological point of view, it is interesting that he has this to say at the end of his paper8: ‘What I should like to stress, however, is that though the individual arguments adduced by Hinds do not overcome my own scepticism, it is precisely the methodology he applies which I consider most likely to bear fruit.’

In light of this suggestion that the application of Hinds’s intertextual approach is the one most likely to open up new ways of looking at the passage, what has recent scholarship had to offer?9 In a provocative study of Nero published in 1997, S. Bartsch argues that the fact that Lucan is describing a civil war leads to the breakdown of stable categories and distinctions and gives rise to a world of paradox and despair and an inability to choose between the sincere and the fake. Acknowledging that the proem relies upon the ideology of the early imperial régime, she believes that Lucan in fact attempts to push that ideology to it extremes. In doing so, he produces a text that conflates different belief systems and renders standard distinctions inoperable10. For Bartsch, the reader of the text who cannot make sense of the praise of Nero is necessarily in a position which relates her/him to a Roman citizen faced with the chaotic nature of Neronian Rome, a world in which traditional forms of judgement no longer function. As 7

HINDS 1988. DEWAR 1994, 211. 9 It will be impossible to discuss here all the relevant scholarship. I will concentrate mainly on work which adopts an explicity intertextual approach. For very useful recent surveys of Lucanian scholarship in general see WALDE 2005; HÖMKE - REITZ 2010; DEVILLERS - FRANCHET D’ESPEREY 2010. 10 See especially BARTSCH 1997, 61-62. 8

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a result, it is impossible to come to a final decision about the true significance of the passage which concerns us. Also in 1997, M. Leigh published a highly insightful and influential booklength study of Lucan. In his reading of the eulogy of Nero, Leigh lays emphasis on the importance of allusion to Vergil. He compares B.C. 1,33-34 and the expression fata Neroni / invenere viam to Vergil’s use of the expression fata viam invenient at Aeneid 3,395 and 10,113. These two passages refer to the safe arrival of Aeneas in Italy and his eventual victory, which will in the end lead to the foundation of Rome and the emergence of Augustan Rome from the chaos of civil war. When the comparison is made with Nero, Leigh argues that the point of the allusion to the Vergilian text is that he cannot stand up to this comparison and that he is inadequate to assuming the responsibilities placed upon him by the parallel with the Aeneid’s story of Roman history and Augustan triumph. Leigh also sees Vergilian allusion in B.C. 1,37-38, scelera ipsa nefasque / hac mercede placent, arguing for reminiscence of Aeneid 7,317322, an intertexual connection which equates the crimes and guilt leading to the reign of Nero with the violence unleashed in Latium by Juno and Allecto. In each case, the problem comes when the reader is faced with making sense of the closural trajectories the two poets impose on narratives of chaos and civil war. For Leigh, Lucan uses Vergil’s text to suggest that Nero cannot be seen as a resolution of history’s woes; what Vergil’s Aeneid presents as pax Augusta is revealed in the De Bello Civili as tyranny and the slavery of the Roman people11. In his now classic 1998 study of interextuality in Latin poetry, S. Hinds returned to the subject of Lucan’s proem12. From a starting point that seems close to that adopted by S. Bartsch, he states: ‘The world of Lucanian epic is a world in which failures of aesthetic and moral consistency are inevitable; and that is precisely Lucan’s point.’ Hinds then goes on to read B.C. 7,454-459 back against the proem. When Lucan there says that the gods do not care for mankind and that mankind gets revenge on them by turning Caesars into gods and swearing by ghosts in the temples, what he is doing is debasing the divine order. On a re-reading of the eulogy of the proem after a reading of 7,454-459, Hinds argues, ‘celebration of a Caesar is self-cancelling’. In yet another book-length study, J.-C. de Nadaï starts from a narratological perspective and tries to establish a difference between the temps du récit and the temps du discours. He argues for Lucan’s creation of a narrating voice which is contemporaneous with the events he is describing, a person he describes as ‘un poète fictif’13. Obviously, in this way of looking at the text, praise 11 12 13

LEIGH 1997, 25-26. HINDS 1998, 87. DE NADAÏ 2000, 33-35.

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of Nero on the part of this fictive narrating voice is chronologically impossible. But if we wish to insist that it is the same voice speaking at two different moments, then we must accept that the narrating voice ‘s’est converti entretemps à l’ordre monarchique’14. In order to explore this idea, de Nadaï turns to the first book of the Georgics. Vergil’s prologue, with its extravagant praise of Octavian based on the certainty of his coming apotheosis, has long been seen as a key model for Lucan’s praise of Nero15. But de Nadaï goes a step further and looks at the closing lines of Georgics 1 as well. First of all, he makes the obvious point that at the beginning of the poem the remarkable praise of Octavian implies a post-Actian perspective. But he then goes on to argue that the book’s closing section clearly implies a pre-Actian setting, as Vergil evokes the assassination of Julius Caesar, subsequent civil war and the hope that a young Caesar will turn out to be a saviour for Rome. Hence, in a remarkable example of hysteron proteron, the prologue of Georgics 1 contains the answer to the prayer formulated at the book’s close. But even as he imitates Vergil closely, Lucan distances himself from his model, creating instead a strong break (de Nadaï uses the French term ‘rupture’) between the praise of Nero in book 1 and the reality of the death of the Republic at Pharsalia in the climactic book 7. In the De Bello Civili, there can be no hope of salvation. Once again, therefore, as in the approaches of S. Hinds and M. Leigh, it is through the interpretation of allusion that the apparently sincere eulogy of Nero is destabilized. It is S. Hinds’s original 1988 study, in which he argued for Lucanian allusion to the myth of Phaethon, that attracts the attention of M. Dinter in an article published in 2005 and entitled ‘Lucan’s Epic Body’. Dinter writes: ‘...despite echoing with reminiscences to Phaethon, Nero’s body is construed as the centre of the universe. By forcing gigantomachic imagery to extremes, the emperors turn into towering giants of cosmic dimensions victorious in gigantomachy and civil war.’

It is interesting from a methodological point of view that Dinter sees the presence of the allusion to Phaethon, but does not seem to see it as having any affect on the presentation of Roman emperors as victors. The two most recent readings of our passage of which I am aware have been proposed by P. Roche in his 2009 commentary on the first book of the De Bello Civili and F. Ripoll in the proceedings of a conference on Lucan held in Bordeaux in 2008 and published late in 201016. Roche argues for generic differences between the praise passage and the rest of the poem. For him, ‘the conventionality of Lucan’s language in the panegyric is not the pertinent issue. 14 15 16

DE NADAÏ 2000, 38. See for example GETTY 1940 on 33-66; JENKINSON 1974. ROCHE 2009; RIPOLL 2010.

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Rather, it is its removal from a different genre and context and its insertion into a narrative that explicitly contradicts its content’17. Lucan may praise Nero, but Nero ‘inspires a poem tracing the permanent enslavement of a free people and the destruction of the republic’18. He also argues against the thesis that books 1-3 contain praise of Nero because they were published before the split with the Emperor, which, as noted above, has often been seen as way out of the problem facing us. Finally, Ripoll comes up with an intriguing suggestion, arguing that Lucan can praise Nero in terms which are both sincere and ironic because he sees him as initiating the age which will bring imperial tyranny to an end and thus lead to the restoration of the Roman republic. All of these studies have in different ways refined our approach to Lucan’s text, but I would like to single out one angle of approach for further discussion, because I believe it is worth reflecting on the methodologies involved in the use of intertextual approaches. In doing so, my aim is simple and limited: to follow up on the approach adopted by Hinds, Leigh, de Nadaï and others whose work on Lucanian intertextuality I do not have time to discuss in detail here, by suggesting yet another intertextual reading. In doing so, I again take as my starting point M. Dewar’s belief that this is the approach most likely to underpin any convincing attempt to puncture the rhetoric of Lucan’s extravagant praise of Nero. The essential similarities between Lucan’s praise of Nero and Vergil’s praise of Octavian at the opening of the Georgics are well known and have been set out clearly in schematic form by J.R. Jenkinson as follows19: VERGIL

LUCAN

Equation or association of Emperor with traditional gods:

28

35f

Choice of divine spheres of influence: including astronomical conceits and vivid, grotesque

25ff

47ff

32-35

48-51; 56-57

Where the choice must not fall:

36ff

53ff

Emperor as Poet’s Inspiration:

40

66

Astronomical mechanics:

It is important to note, however, that there are also present many obvious similarities with the end of Georgics 1. All the words marked in the following 17 18 19

ROCHE 2009, 9. ROCHE 2009, 9. JENKINSON 1974, 8.

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passage reappear in the first 66 lines of Lucan’s first book, and this presentation of verbal similarities does not take into account other formal and thematic parallels between the two texts (G. 1,489-492; 505-511)20: ergo inter sese paribus concurrere telis Romanas acies iterum videre Philippi; nec fuit indignum superis, bis sanguine nostro Emathiam et latos Haemi pinguescere campos.

490

… quippe ubi fas versum atque nefas; tot bella per orbem, tam multae scelerum facies; non ullus aratro dignus honos, squalent abductis arva colonis, et curvae rigidum falces conflantur in ensem. hinc movet Euphrates, ilinc Germania bellum; vicinae ruptis inter se legibus urbes arma ferunt; saeuit toto Mars impius orbe, ut cum carceribus sese effudere quadrigae, addunt in spatia, et frustra retinacula tendens fertur equis auriga neque audit currus habenas.

505

510

I believe that the reason for Lucan’s imitation of both the start and the end of Georgics 1 lies in the fact that he was fully aware of the many connections established by Vergil between the two passages. These are relatively obvious and may be set out very briefly21. At the start of his poem Vergil predicts that ‘Caesar’ (i.e. Octavian) will soon become a god and asks for his help in guiding the course of his poem (da facilem cursum atque audacibus adnue coeptis, G. 1,40). The passage is extravagantly eulogistic and clearly evokes a postActian optimism. At the end of the book, Vergil refers to the death of ‘Caesar’ (i.e. Julius Caesar) and the civil war which followed (ergo inter sese paribus concurrere telis / Romanas acies iterum videre Philippi, G. 1,489-490). He then prays, in this civil war context, that another ‘Caesar’, this time the young Octavian, will save Rome from what seems like the certainty of destruction, as war rages throughout the world (hunc saltem everso iuvenem succurrere saeclo / ne prohibete, G. 1,500-501). It is this image of world war which Vergil illustrates in his closing lines, concluding with the brilliant simile of the charioteer struggling to control his horses as they rush out of control in a chariot race (G. 1,512-514, quoted above). This chariot imagery in Vergil’s poem has been much discussed. It seems obvious that Vergil, in placing right at the book’s 20 21

Cf. ROCHE 2009, 22 and his rich commentary on individual elements; more generally see PARATORE 1943. For fuller discussion see NELIS 2008; NELIS 2010.

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close the image of the charioteer incapable of bringing the chariot under control, is clearly recalling the beginning of the book where he refers to his poem as the beginning of a cursus (1,40) and aligns his invocation of the gods with the circus ritual of the pompa circensis22. Lucan, I believe, was very much alive to this example of Vergilian thematic coherence, and he exploited it in two ways. First, and more obviously, the Phaethon myth. As already noted, S. Hinds has argued for allusion to the presence of this myth in the description of Nero mounting the chariot of the Sun at B.C. 1,48-5023. It is noteworthy, therefore, that several scholars have pointed out the implicit presence of the myth of Phaethon at the end of Georgics 1, where we have a description of a chariot out of control and the double use of the single name ‘Caesar’ to refer to both father and son, Julius Caesar and Octavian24. I believe that appreciation of Lucan’s allusion to the Georgics reinforces Hinds’s interpretation of the simultaneous presence of allusion to Ovid. Lucan is in fact drawing on two models in which Phaethon is present, in Vergil rather implicitly and in Ovid quite explicitly. The reader who picks up the reminiscence of these two texts is in a position to make a connection between Nero and Phaethon. But it is precisely at this stage that this knowing reader is faced with the problem of how to interpret the significance of the allusion. Some, with Hinds, interpret Lucan’s text as containing images of impending disaster and so equate Nero with Phaethon’s disastrous failure. But others have argued that Nero himself deliberately played up his identification with Phaethon and that Lucan here presents him as a new and successful Phaethon25. It is in fact possible to use the text of the Georgics to support both interpretations. In itself, the close of the first book has strong hints of impending disaster, with the chariot apparently out of control. But on the other hand, the reader of that poem has already read its prologue and so can also close book 1 with the reassurance that in the end the young saviour prayed for did indeed succeed in bringing the chariot under control. In Vergilian terms, the book’s close is rather ambiguous, evoking both danger and safety, war and peace, chaos and order. As a result, it is difficult to control interpretation of allusion to a text which is itself so finely balanced. This approach may be supported by attempting to interpret related Vergilian allusion in two lines in which Lucan predicts the peace which will accompany Nero’s apotheosis (B.C. 1,61-62): 22

See NELIS 2008; NELIS-CLEMENT - NELIS (forthcoming). HINDS 1988. 24 See for example GALE 2000, 35-36; NELIS 2008, 507. 25 See for example DEWAR 1994, 211; CHAMPLIN 2003, 134-135. On Nero and Phaethon see also AUHAGEN 1999. In general on Nero and ‘shining Apollo’ see CHAMPLIN 2003, 112-144. 23

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pax missa per orbem ferrea belligeri conpescat limina Iani.

The line-ending pax missa per orbem is a direct inversion of Georgics 1,505, where Vergil describes a world at war with the words tot bella per orbem, also at the end of the hexameter. Subsequently, in line 69, Lucan goes back in time to the causes of civil war which drove peace from the world, an idea which he expresses with the line-ending pacem excusserit orbi. Vergil looks at the present reality of war and hopes for a saviour. Lucan first looks forward to Nero’s deification and states that it will usher in an era of peace, and then almost immediately goes back to the beginnings of civil war and the driving of peace from the world. Pax first fills the orbis and then is driven out of the orbis26. A reader who picks up the allusion to the Georgics is once again faced with a difficult interpretative balancing act. Given that each is evoked by Vergil, should s/he give priority to the present reality of civil war or to the hope of future peace? And, in historical terms, what temporal perspective must s/he adopt? Vergil’s text implies a reading of Roman civil strife during the 40s and 30s BCE from two different perspectives, one that is pre-Actium and one that is post-Actium27. Lucan both looks forward to peace and back to war. But what reality does the present offer? If it is only Nero’s death and subsequent apotheosis which will bring in an age of concord and stability, is his reign to be associated with the chaos and destruction brought about by civil war? Or should the reader ultimately privilege the rhetoric of hope and accept that in both texts the figure of Caesar is indeed the bringer of peace and stability and the worthy recipient of lavish praise? In the end, it remains extraordinarily difficult to decide what to make of Lucan’s praise of Nero. But there is a more important methodological point to be made about the way in which recent scholarship has set about trying to come to a decision. Many modern sensibilities have difficulty in taking seriously the extravagant and highly mannered rhetoric of much ancient encomium and, as a result, seek to find in it destabilizing elements which permit them to offer readings in which mockery and insincerity come to the surface. One widely employed technique which has been used to bolster this approach is the study of highly complex intertextuality. But in this paper I have attempted to draw attention to examples of obvious allusion to Vergil’s Georgics which seems to offer up no easy way of deciding between what one may usefully, 26 For a reading of these two lines as also including allusion to Empedocles, who is simultaneously Vergil’s model at the end of Georgics 1, see NELIS (forthcoming 1). 27 This temporal shift is present in the connection between the opening and close of book 1, and it is reinforced even more obviously in the transition form the close of book 2, which ends with mention of war, to the prologue of book 3, which opens with triumphal imagery; see NELIS (forthcoming 2).

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if a little simplistically, refer to as encomiastic sincerity and insincerity. The essential point is this, and in the end it is really a restatement of M. Dewar’s conclusion: if it is accepted that there is validity in the technique whereby the tracing of allusions to other texts opens up access to further layers of meaning and so to more accurate interpretation, then there is still a lot of systematic work to be done on the intertextuality of the De Bello Civili before we can be sure that we are in a position to evaluate fully the meaningful complexities of Lucan’s allusive art.

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AMARE IL TIRANNO. CREAZIONE DEL CONSENSO E LINGUAGGIO ENCOMIASTICO NELLA CULTURA FLAVIA GIANPIERO ROSATI

A lungo la poesia flavia non ha goduto di buona stampa: opere come gli epigrammi di Marziale e, più ancora, le Silvae di Stazio sono state lungamente considerate espressione della degradazione morale che caratterizza il clima politico-culturale di un regime autocratico tra i più malfamati del mondo antico, quello di Domiziano. Una tenace tradizione critica ha visto nell’encomio, incorporato, come componente primaria, nella produzione letteraria dei due maggiori poeti del tempo, la conferma che questa poesia sarebbe stata scritta ‘su commissione’, come una forma di propaganda organizzata dall’alto e che poeti come Stazio e Marziale avrebbero subìto passivamente, facendosi docili strumenti del potere imperiale in cambio (o nella speranza) di benefici e guadagni personali1. Tutto ciò ha dato luogo a un atteggiamento pregiudizialmente negativo, fondato su ragioni morali; eppure liquidare questa letteratura come espressione di degradante servilismo, come mera adulazione cortigiana sarebbe certamente riduttivo, e ci precluderebbe la comprensione di aspetti importanti della dinamica sociale che emergono ugualmente dietro questo linguaggio artefatto (come recita un noto adagio di Gibbon, che si invoca in casi come questo, “si può spesso sapere la verità anche dal linguaggio dell’adulazione”). In realtà, per cominciare da Stazio, che il suo sia un encomio ‘su commissione’ è una tesi senza vero fondamento. L’argomento cui solitamente questa tesi si appoggia è un passo della lettera prefatoria al primo libro delle Silvae, in cui il poeta – secondo la lezione del codice unico, il Matritensis, da cui l’opera è trasmessa – direbbe di aver ricevuto da Domiziano l’ordine di comporre la silva iniziale sull’inaugurazione del monumento equestre (indulgentissimo imperatori postero die quam dedicaverat opus, tradere est iussum, silv. 1 praef. 19)2. Ma che questo sia il testo autentico è più che lecito dubitare, e giusta1 Per Stazio cfr. ad es. VESSEY 1982, 562-564; un paradigma di servilismo assoluto il poeta appare anche a SULLIVAN 1991, 128 (“Martial’s flattery is not as extreme as the sycophancy of Statius”). Per una buona ed equilibrata presentazione di questo aspetto delle Silvae di Stazio è invece da vedere NEWLANDS 2002, 18 ss. 2 Ad es. cfr. da ultimo SMOLENAARS 2006, 225. Su quello stesso passo F. Ahl, che vi vede una denuncia indiretta dell’arbitrio esercitato da un autocrate come Domiziano, fonda la sua tesi della ‘doppiezza’

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mente oggi quel iussum è di regola corretto in ausus sum3, attribuendo cioè al poeta l’iniziativa del dono di quel componimento. Del resto, sarebbe anche indelicato verso Domiziano presentare la silva come il prodotto di un suo ordine, e non come il frutto di una spontanea reazione di stupore/ammirazione del poeta offerto in omaggio al sovrano, con la cautela e prudenza dovuta: in un regime autocratico anche l’omaggio di un suddito è, sempre, un ‘atto di audacia’, come tutto ciò che disturba il sovrano dal compito di governare il mondo, in cui lo si deve immaginare sempre occupato (si veda ad es. il modo cauto e ossequioso in cui nell’epigramma iniziale Marziale dedica a Domiziano il suo quinto libro)4. Che Domiziano abbia avuto una sua politica culturale è cosa nota5; ma che abbia in qualche modo condizionato l’attività letteraria di Stazio (e tanto meno di Marziale, se si considera la bassa reputazione di un genere come l’epigramma), o che sia intervenuto direttamente per orientarla in chiave propagandistica, non ci sono prove o indizi consistenti: la promessa di Stazio di volersi impegnare nella celebrazione, verosimilmente in poesia epica, delle imprese belliche dell’imperatore non prova in sé che ci siano state pressioni reali in tal senso, ma potrebbe solo significare che Stazio lo avvertiva, o voleva mostrare di avvertirlo, come un suo dovere (che peraltro continuò a eludere e posticipare per tutta la sua carriera)6. Anziché pensare dunque a un’azione di propaganda (un concetto spesso troppo meccanicamente invocato dagli storici, con tutta probabilità condizionati anche da esperienze moderne)7, a me sembra più produttivo vedere la poesia encomiastica flavia come un’iniziativa autonoma, che contiene una proposta di politica culturale offerta al regime flavio in cambio di un nuovo mecenatismo, sul modello di quello augusteo, mitizzato e sempre rimpianto. D’altra parte, anche questa letteratura bollata tradizionalmente come ‘cortigiana’ può beneficiare della recente fioritura di studi sul concetto di corte (sulla scia del noto lavoro di Norbert Elias sulla Società di corte)8, che ne han(iussus sum contrasterebbe con indulgentissimo) della poesia encomiastica di Stazio, e dunque della necessità di una sua lettura ironica (cfr. AHL 1984, 91). 3 Sulla proposta, che risale a C.E. Sandstroem (Upsala 1878), cfr. spec. gli argomenti a favore addotti da HÅKANSON 1969, 17-18; da ultimi adottano l’emendamento sia E. Courtney (Oxford 1992) che D.R. Shackleton Bailey (Cambridge, Ma - London 2003); cfr. anche GEYSSEN 1996, 30; ZEINER 2005, 69 s. Cito generalmente il testo delle Silvae (salvo indicazione contraria) secondo l’edizione di E. Courtney. 4 Dopo il lungo elenco di attività in cui il poeta immagina Domiziano impegnato, cfr. spec. il distico finale (Tu tantum accipias: ego te legisse putabo / et tumidus Galla credulitate fruar, 9 s.). 5 Mi limito qui a rinviare almeno a COLEMAN 1986. 6 Su questa strategia della dilazione cfr. ROSATI 2002, 249-251. 7 Efficaci le osservazioni in proposito di VEYNE 2005, cap. 7 (Buts de l’art, propagande et faste monarchique), 379-418. 8 Cfr. ELIAS 1980 (il saggio, scritto già negli anni trenta, fu pubblicato in Germania solo nel 1969).

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no elaborato un’idea più articolata e dinamica, mostrando come quest’ultima, la corte, non va vista in prospettiva unidirezionale, come un’emanazione del potere dall’alto verso il basso, quasi una creazione del sovrano, priva di iniziativa propria e capace solo di fargli da cassa di risonanza. La corte va vista piuttosto come un corpo almeno parzialmente autonomo, capace di proporre una propria idea del potere e di negoziarla col vertice del potere stesso (perché ovviamente il consolidamento e la perpetuazione di quest’ultimo vanno a vantaggio anche della corte)9. È chiaro che il concetto di corte, nel modo in cui qui lo usiamo per la società domizianea, va inteso in senso lato, per definire non solo individui e gruppi che ruotano attorno al sovrano, che costituiscono direttamente la sua cerchia (la domus imperiale, la familia Caesaris e i suoi amici)10, ma anche più in generale una serie di figure socialmente autorevoli, come i destinatari delle Silvae di Stazio, che sono di fatto espressione qualificante della società imperiale, la sua élite11. D’altra parte, leggere testi encomiastici pone di fronte a un problema preliminare (su cui torneremo più avanti), quello della loro doppiezza, intrinseca alla natura ‘condizionata’ di testi che per statuto non possono se non ‘parlar bene’ del loro oggetto: dovendo solo lodare, le eventuali critiche si devono dedurre ex silentio o in altro modo, comunque indiretto. Un problema che è espressamente messo a fuoco da uno dei più famosi testi encomiastici antichi, il Panegirico a Traiano di Plinio, che evidentemente presuppone un pubblico abituato a leggere against the grain, a guardare anche dietro la facciata di un testo tutto celebrativo: paneg. 3,4 Non enim periculum est ne, cum loquar de humanitate, exprobrari sibi superbiam credat cum de frugalitate, luxuriam cum de clementia, crudelitatem cum de liberalitate, avaritiam cum de benignitate, livorem cum de continentia, libidinem cum de labore, inertiam cum de fortitudine, timorem. L’encomio insomma non è necessariamente solo approvazione, entusiastica e acritica, del suo oggetto, ma può indirettamente contenere, in maniera più o meno cauta e dissimulata, consigli, avvertimenti, ammonizioni e anche critiche12. Anche l’elogio, in contesti politico-sociali che non ammettono forme, dirette o indirette, di opposizione, può costituire insomma una forma di influenza e di controllo: elogiare qualcuno può servire anche a svolgere una funzione di indirizzo, può essere un modo di costringere il laudandus al confronto con un modello potenzialmente imbarazzante, farlo 9 Tra i contributi più significativi al dibattito cfr. WEBER 1993; WALLACE-HADRILL 1996; HERMAN 1997; WINTERLING 1997; WINTERLING 1999; PANI 2003; SPAWFORTH 2007. 10 Sulla corte flavia da vedere ora anche l’efficace sintesi di WALLACE-HADRILL 2009. 11 Sulla sua composizione e sul profilo sociale e ideologico cfr. LOTITO 1974-1975; HENDERSON 1998; WALLACE-HADRILL 2009. 12 Su questo aspetto cfr. ad es., dopo PERNOT 1993, 711 ss., BRAUND 1998; per Stazio cfr. da ultimo NEWLANDS 2009, 388 s.

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sentire sotto osservazione, mettergli davanti uno specchio nel quale egli può faticare a riconoscersi, imporgli insomma una maschera che ne condiziona il comportamento13. E attraverso il linguaggio dell’encomio si può insinuare la critica: come può essere eloquente il silenzio, così lo può essere il richiamo a qualità o tipi di comportamento in confronto ai quali il principe può risultare, o apparire, deficitario. Sia Stazio che Marziale si costruiscono quindi una propria autorità che permette loro di negoziare l’adesione alla politica del principe, e il consenso ‘pubblico’ che questa autorità riesce a coagulare. Se Stazio punta a vedersi riconosciuto come il più grande poeta vivente, poeta laureatus e nuovo Virgilio del regime flavio14, e da questa posizione negozia il suo rapporto con Domiziano e l’élite sociale che gli ruota attorno (cioè i destinatari delle Silvae), anche Marziale, che rivendica ripetutamente il suo enorme successo popolare (ad es. 1,1,1-2; 3,95,7-8 etc.), vanta la propria autorità letteraria presso i suoi amici potenti e potenziali committenti desiderosi di vedersi assegnata una patente di distinzione nei versi del poeta: Quod cupis in nostris dicique legique libellis et nonnullus honos creditur iste tibi, ne valeam, si non res est gratissima nobis et volo te chartis inseruisse meis (4,31,1-4).

Una distinzione cui molti aspirano (5,15,3-4 gaudet honorato sed multus nomine lector, / cui victura meo munere fama datur), e che non può essere conferita dal denaro, ma solo dal talento poetico, che Marziale esalta come privilegio esclusivo. Cfr. ad es. l’epigramma 5,13: Sum, fateor, semperque fui, Callistrate, pauper, sed non obscurus nec male notus eques, sed toto legor orbe frequens et dicitur ‘Hic est’, quodque cinis paucis, hoc mihi vita dedit. At tua centenis incumbunt tecta columnis et libertinas arca flagellat opes, magnaque Niliacae servit tibi glaeba Syenes, tondet et innumeros Gallica Parma greges. Hoc ego tuque sumus: sed quod sum, non potes esse: tu quod es, e populo quilibet esse potest.

Nel negoziato con i suoi interlocutori, Marziale rivendica come un atto dovuto la corresponsione di sostegno e denaro in cambio della fama che i suoi 13 14

Da vedere ora il notevole lavoro di FORMISANO 2008. Cfr. sul tema, anche per l’ampia bibliografia, ROSATI 2008.

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versi possono conferire, ed esplicita il principio di reciprocità che fa da fondamento dei rapporti sociali (evidentemente costretto da quella che lamenta come un’ingratia diffusa: cfr. ad es. 5,36 Laudatus nostro quidam, Faustine, libello / dissimulat, quasi nil debeat: inposuit)15. In una società come quella romana basata sullo scambio dei beneficia, tale principio fonda e rinsalda la stessa tenuta sociale (come ricorda anche Seneca, ben. 1,4,2 res, quae maxime humanam societatem adligat), e ad esso Marziale si appella per sollecitare il sostegno degli amici potenti. In forma solo più discreta il negoziato coinvolge lo stesso Domiziano: lo mostra chiaramente l’epigramma in cui Marziale gli chiede il dono dell’acqua corrente nella sua casa di campagna (9,18): Est mihi – sitque precor longum te praeside, Caesar – rus minimum, parvi sunt et in urbe lares. Sed de valle brevi, quas det sitientibus hortis, curva laboratas antlia tollit aquas: sicca domus queritur nullo se rore foveri, cum mihi vicino Marcia fonte sonet. Quam dederis nostris, Auguste, penatibus undam, Castalis haec nobis aut Iovis imber erit.

Come sempre la chiusa dell’epigramma ne condensa il senso: se Domiziano, il Giove terreno, farà al poeta il dono dell’acqua, essa sarà per lui l’‘acqua di Giove’ (cioè gli darà la vita), ma oltre che vitale quell’acqua sarà anche Castalis, cioè – essendo Castalia la fonte sacra ad Apollo e alle Muse cui si abbeverano i poeti16 – gli porterà l’ispirazione, ovviamente a beneficio dell’imperatore. È evidente dunque la mossa di Marziale: la sua è un’ispirazione ‘condizionata’, egli la può sì mettere al servizio di Domiziano ma in cambio di quel beneficium: l’epigramma contiene insomma un’offerta di collaborazione, una proposta conveniente per entrambe le parti. La brillante formulazione di Marziale mostra l’atteggiamento che egli assume anche altrove nel rapporto col potere politico: ad es. la lettura/interpretazione che in molti epigrammi egli fornisce dei circenses, il ‘commento’ poetico dei vari giochi e delle forme di ‘cultura popolare’ offerte da Domiziano ai suoi sudditi, agisce non solo come cassa di risonanza del potere, di cui si celebra così l’azione di evergetismo, ma anche come strumento di divulgazione dei 15 Sull’importanza del tema del dono, e degli obblighi sociali connessi, nella poesia di Marziale insistono efficacemente GOLD 2003; SPISAK 2007 (cfr. spec. cap. 3, sui Poems of Praise, pp. 53-71). Sulla sua centralità nel sistema della cultura latina da vedere anche diversi dei contributi compresi in PICONE 2008. 16 Cfr. ad es. anche 7,22,3 s. Haec meruit, cum te terris, Lucane, dedisset, / mixtus Castaliae Baetis ut esset aquae; 12,2,13 s. Fons ibi Castalius vitreo torrente superbit, / unde novem dominas saepe bibisse ferunt.

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valori sociali che il potere promuove17. Così, l’interpretazione del messaggio politico ingegnosamente elaborato nel cosiddetto ‘ciclo dei leoni e delle lepri’, cioè un invito al lealismo verso il sovrano, mostra come il talento di un poeta possa agire quale strumento di creazione del consenso: è un fenomeno che oggi potremmo chiamare di ‘mediatizzazione della politica’, cioè di traduzione del messaggio politico in forme di cultura popolare, e in simboli, che una poesia di successo, e socialmente di larga fruibilità, come quella di Marziale si incarica di amplificare, di fare oggetto di una forma di comunicazione diffusa ma anche culturalmente prestigiosa. Quel che Marziale mostra a Domiziano è che il consenso non si costruisce solo dall’alto, da parte di chi detiene il potere politico, e che un poeta può efficacemente collaborare alla sua creazione, fornendo al sovrano l’occasione di esercitare una forma di moderno mecenatismo che nobilita la sua immagine, le conferisce autorità culturale e insieme politica. Una posizione analoga mostra anche Stazio nelle Silvae, i componimenti ‘d’occasione’ (che egli stesso assimila a epigrammi: silv. 2 praef. 16-17) in cui descrive la Roma di Domiziano e la vita dei propri potenti amici e sperati protettori. La celebrazione dell’élite flavia attraverso il suo stile di vita dovizioso e culturalmente raffinato non solo procura all’élite stessa la distinzione che un grande poeta conferisce18, ma rappresenta un encomio dell’intera società imperiale, e dunque, indirettamente, del suo vertice: l’encomio cioè tratteggia e impone una visione del mondo, e in questo senso agisce come una forma di controllo sociale, che conferisce autorità culturale e politica al poeta-mediatore, il quale si mostra capace di costruire un’immagine della realtà come del ‘migliore dei mondi possibili’19. Un mondo di cui viene celebrato il lusso e l’opulenza: i marmi e i materiali esotici che affluiscono in massa a Roma da ogni parte del mondo, e decorano la ‘vita in villa’ degli amici/protettori di Stazio, sono il simbolo, oltre che il segno tangibile, della prosperità dell’impero20. Benessere e armonia sono dunque i tratti dominanti della vita dell’élite sociale, e il suo elogio rappresenta un elogio indiretto del sovrano che governa il mondo flavio. In questa nuova età dell’oro viene rimosso ogni conflitto e appagato ogni desiderio: è un mondo dominato da un potere soft, che non ha bisogno di ricorrere alla forza perché la sua autorità incute rispetto e timore nei nemici. Un mondo dunque pacifico che garantisce sicurezza e prosperità ai sudditi, i quali non possono se non amare il loro sovrano, ricambiando il suo amore per loro. Quella flavia è una società caratterizzata da una concordia universale fondata sull’amore (Nullum Roma ducem, nec te sic, Caesar, ama17

Su questo aspetto della poesia di Marziale rimando a ROSATI 2006. Importante in proposito ZEINER 2005. 19 Rinvio ovviamente al bel lavoro, su Marziale, di FABBRINI 2007. 20 Un simbolo notoriamente sfruttato in chiave propagandistica già dallo stesso Augusto, che si vantava di aver reso di marmo la vecchia città di mattoni (Svetonio, Aug. 28,3; Cassio Dione 56,30,3). 18

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vit: / te quoque iam non plus, ut velit ipsa, potest, 8,11,7-8), una società senza nemici: lo stesso Catone, il nemico per antonomasia di Cesare, oggi sarebbe ‘cesariano’ (11,5,14)21. Il tema dell’amore per il sovrano torna ripetutamente nella poesia flavia: cfr. ad es. Marziale 8,56 Magna licet totiens tribuas, maiora daturus dona, ducum victor, victor et ipse tui, diligeris populo non propter praemia, Caesar, te propter populus praemia, Caesar, amat.

e 9,7,9-10 Dilexere prius pueri iuvenesque senesque, at nunc infantes te quoque, Caesar, amant;

ma è un topos encomiastico particolarmente presente in un testo per noi prezioso, e pressoché coevo (100 d.C.) all’età flavia, il Panegirico a Traiano di Plinio il Giovane22. Ora, l’idea che l’amore dei sudditi (la benevolenza, eunoia), e non il terrore, sia il migliore strumento di governo e la miglior difesa per il sovrano è molto antica: è ad es. già in Isocrate, Nic. 21, e la ritroviamo formulata tra gli altri da Cicerone, off. 2,23 Omnium autem rerum nec aptius est quicquam ad opes tuendas ac tenendas quam diligi nec alienius quam timeri … Malus enim est custos diuturnitatis metus contraque benivolentia fidelis vel ad perpetuitatem. È infatti l’amore che legittima il potere del principe, e lo differenzia da quello del tiranno (un’opposizione già di Platone e Aristotele), creando il consenso sociale. Questo legame affettivo è un topos largamente diffuso nella panegiristica imperiale23, e rientra nel rapporto di tipo emozionale che si instaura solitamente con un leader carismatico: i poeti flavi rappresentano l’imperatore come una figura dotata di poteri numinosi, un ‘dio in terra’, tale da esercitare sui sudditi un forte potere di seduzione alimentando la loro devozione personale. 21 Il paradosso di un Catone cesariano (cioè l’ambizione di convertire il nemico perdente dall’odio all’amore verso il vincitore, un sogno da età dell’oro, nella quale non esistono conflitti), torna anche in Stazio, Silv. 1,1,27-8 e poi, nella tradizione panegiristica, in Claudiano 17,165. 22 Un’analisi acuta del testo pliniano è offerta da BARTSCH 1994. Ma è da vedere ora, anche per l’influenza del testo di Plinio sulla tradizione retorico-politica fino a Machiavelli, CONNOLLY 2009, la quale legge l’opera “as an exercise in political theorizing” (260) che “articulates and defends not passive quietism but a mode of political thought that, taking the current reality of autocratic power as its first instance, operates in terms that transform or evade conventional roman republican habits which, Pliny subtly suggests, no longer serve the changed conditions of imperial politics” (261). 23 Ad es. paneg. 2,1,3; 2,16,1-4; 5,3,1; 5,14,4; 6,16,2.6; 6,18,7; 12,2,2; 12,3,1.3, etc.

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Al tempo stesso, il presupposto che porta gli autori di encomi politici ad adottare un linguaggio di tipo affettivo nei confronti del sovrano-laudandus è la sua grandezza senza confronti, la sua natura dichiarata come divina, che induce a professare nei suoi confronti una venerazione e dedizione senza riserve. Lo stesso presupposto lo troviamo nel linguaggio della letteratura erotica, che vede (ad es. nell’elegia latina) un poeta-amante dichiararsi ‘schiavo’ dell’amore per una donna-dea, vale a dire un rapporto di potere che oppone un servus alla sua domina, segnato da un’analoga asimmetria di ruoli. Le analogie dei moduli del corteggiamento erotico con quelli della letteratura di corte, cioè del ‘corteggiamento’ encomiastico, rivelano una ‘naturale’ interferenza tra due sfere espressive – fondata in entrambi i casi sull’atteggiamento psicologico dell’autore dell’encomio verso la figura-oggetto di quest’ultimo, ma anche sul rapporto intrinsecamente negoziale che lega le due parti24 – e contribuiscono dunque a spiegare il carattere tipicamente affettivo del linguaggio dell’encomio. Nel Panegirico pliniano il topos dell’amore per il sovrano, e più in generale il lessico dei sentimenti, ritorna con frequenza ossessiva: l’imperatore è anzitutto un padre dei suoi sudditi (21,3-4; 23,5)25, e dunque il loro rapporto con lui è regolato da devozione e affetto filiale (essendo così amato, egli non ha nemmeno bisogno di difendersi con le armi: la sua casa “la difendono le guardie non già della crudeltà, ma dell’amore”, 49,2). La capacità di amare del principe viene detta assoluta e senza distinzioni (quasi non ne può fare a meno), e il suo amore per i sudditi non può non avere un rispecchiamento nell’amore, ancora maggiore, per lui da parte loro (43,2 nunc a pluribus amaris; nam et plures amas); un amore che del resto è nell’interesse dei cittadini stessi (68,5 Amamus quidem te in quantum mereris … istud tamen non tui facimus amore sed nostri). Anche perché, a sua volta, l’amore dei cittadini è condizione di quello degli dei, che non può mancare a un buon sovrano26 e che fa prosperare l’intera società, nella quale dominano consenso e concordia universale27. 24

Sul tema cfr. ROSATI 2003. Su questo paradigma (costruito in opposizione al rapporto tra padrone e schiavo) cfr. ROLLER 2001, 233 ss. 26 Cfr. 72,3-4 Adeo nihil tibi amore civium antiquius, ut ante a nobis deinde a dis, atque ita ab illis amari velis, si a nobis ameris. Et sane priorum principum exitus docuit, ne a dis quidem amari nisi quos homines ament; 74,3-4 Quamvis enim faceremus quae amantes solent, illi tamen non amari se credebant sibi. Super haec precati sumus, ut sic te amarent di quemadmodum tu nos. Quis hoc aut de se aut principi diceret mediocriter amanti? Pro nobis ipsis quidem haec fuit summa votorum, ut nos sic amarent di quomodo tu. Estne verum, quod inter ista clamavimus: ‘O nos felices’? Quid enim felicius nobis, quibus non iam illud optandum est, ut nos diligat princeps, sed di quemadmodum princeps? 27 Come nella totale unità di intenti tra imperatore e senato: cfr. 62,4-5 Nunc inter principem senatumque dignissimi cuiusque caritate certatur. Demonstramus invicem, credimus invicem, quodque maximum 25

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Un procedimento ricorrente del panegirico è il confronto28, spesso configurato come un’opposizione radicale tra bene e male: in questa retorica binaria, elementare come lo è questo lessico dei sentimenti, l’amore per il buon principe non può essere disgiunto dall’odio per il cattivo, che è solo l’altra faccia dell’amore, il suo naturale, e anzi necessario, presupposto e complemento (53,1-2 Alioqui nihil non parum grate sine comparatione laudatur. Praeterea hoc primum erga optimum imperatorem piorum civium officium est, insequi dissimiles … neque enim satis amarit bonos principes, qui malos satis non oderit)29. Il cattivo principe è quello passato (preferibilmente l’ultimo), rispetto al quale quello attuale che lo ha sostituito si qualifica come colui che ha salvato la collettività dalla rovina, avviandola verso un futuro radioso la cui garanzia sta proprio nella stabilità del nuovo potere, di quel principe ottimo che i cittadini devono amare nel loro stesso interesse, una volta che abbiano riconosciuto in lui il migliore tra tutti i governanti possibili. Come hanno osservato vari studiosi, da Joseph Hellegouarc’h30 a Peter White31 a Sandra Citroni Marchetti,32 il lessico dell’amore – il verbo amare, insieme ai coradicali amor, amicitia, amicus – a partire dagli ultimi decenni della repubblica, e poi in età augustea, è il più comune per designare i legami personali, e politici, anche laddove sia implicata una forte disparità di status fra le persone coinvolte: anzi, l’impiego ostentato di questo lessico è proprio il mezzo con cui si cerca di mascherare questa disparità, usando un linguaggio che simula una società di uguali, legati da un saldo vincolo affettivo, ormai invece superata nei fatti da una configurazione del potere fortemente gerarchizzata. L’appello al principio dell’amore è dunque la maniera di esorcizzare, o di dissimulare, questo radicale squilibrio di potere, perpetuando l’illusione di un mondo ormai superato. La grande letteratura d’età imperiale, da Tacito a Seneca anzitutto, ci dice che simulazione e dissimulazione sono l’atteggiamento più diffuso33, o anzi connaturato e necessario, nella vita di corte (dove non è lecito sentire quae velis et quae sentias dicere)34, e adeguarsi a questa generale ipocrisia collettiva è la condizione necessaria per cercare di sopravvivere in un contesto sociale altamente instabile e rischioso. amoris mutui signum est, eosdem amamus. Proinde, patres conscripti, favete aperte, diligite constanter. Non iam dissimulandus est amor ne noceat, non premendum odium ne prosit: eadem Caesar quae senatus probat improbatque. Vos ille praesentes, vos etiam absentes in consilio habet. 28 Illustra questo schema ricorrente, sulla base di alcuni panegirici non solo antichi, PAILLIER 2003. 29 Cfr. anche 68,7 Et alioqui, cum sint odium amorque contraria, hoc perquam simile habent, quod ibi intemperantius amamus bonos principes, ubi liberius malos odimus. 30 Cfr. HELLEGOUARC’H 1972, 146-151. 31 WHITE 1978, 80-81. 32 CITRONI MARCHETTI 2000, passim. 33 Cfr. ad es. STROCCHIO 2001. 34 Secondo WALLACE-HADRILL 1996, 305 “flattery and the concealment of true feelings were a structurale necessity” della corte.

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Quello dei sentimenti che si possono, o si debbono, nutrire verso chi detiene un potere assoluto è un problema su cui si è interrogato più volte il pensiero politico anche moderno, da Baldesar Castiglione (nel capitolo 2,18 del Cortegiano) a Machiavelli (il capitolo 17 del Principe esamina il tema “s’elli è meglio essere amato che temuto, o e converso”, dunque assumendo il punto di vista del principe) a Vittorio Alfieri, il quale nel trattato Della Tirannide (del 1777; capp. 16-17 “Se si possa amare il tiranno, e da chi”) argomenta che “colui che potrà impunemente offendere tutti, e non essere mai impunemente offeso da chi che sia, sarà per necessità temutissimo, e quindi per necessità abborrito da tutti”. Già Cicerone, del resto, osservava realisticamente che il reciproco timore tra sudditi e tiranno ingenera non certo amore ma piuttosto un reciproco odio (Lael. 52-53): Haec enim est tyrannorum vita nimirum, in qua nulla fides, nulla caritas, nulla stabilis benivolentiae potest esse fiducia, omnia semper suspecta atque sollicita, nullus locus amicitiae. Quis enim aut eum diligat, quem metuat, aut eum, a quo se metui putet? Coluntur tamen simulatione dumtaxat ad tempus. Quodsi forte, ut fit plerumque, ceciderunt, tum intellegitur, quam fuerint inopes amicorum.

L’ostentazione di amore (anche il verbo colo rientra nel lessico dell’‘amore politico’) è dunque il risultato della simulazione, dell’ipocrisia diffusa che caratterizza i regimi tirannici e le corti che attorno ad essi ruotano (Alfieri la chiama “la maschera dell’amore”, cioè la forma sotto cui nelle corti si camuffa la paura). Regimi tirannici che, per gli scrittori di encomi, sono sempre quelli del passato, e mai del presente: nelle parole di Plinio, ad esempio, com’è spontaneo e sincero l’amore per Traiano così viene detto ipocrita il finto amore che nascondeva l’odio verso il cattivo imperatore Domiziano (85,1): Iam etiam et in privatorum animis exoleverat priscum mortalium bonum amicitia, cuius in locum migraverant adsentationes blanditiae et peior odio amoris simulatio. Etenim in principum domo nomen tantum amicitiae, inane scilicet inrisumque remanebat. Nam qui poterat esse inter eos amicitia, quorum sibi alii domini alii servi videbantur?35

Com’è stato osservato, il Panegirico di Plinio è ossessionato dal bisogno di provare la propria sincerità36: l’encomio si dice autentico, frutto di un amore sincero, e tutt’altra cosa dalla lode adulatoria che è invece tipica dei regimi segnati dalla schiavitù (55,3 ingeniosior est enim ad excogitandum simulatio veritate, servitus libertate, metus amore). È ovvio che una così insistita excusatio vuole fugare il sospetto della propaganda imposta, o di un’intenzione 35 Che non sia possibile amicizia in un rapporto così asimmetrico, che si configura piuttosto come una relazione tra schiavo e padrone, dominata dalla paura, è affine all’argomento del Lelio di Cicerone visto qui sopra. 36 BARTSCH 1994, 149 (The art of sincerity è il titolo dell’intero capitolo, 148-187).

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adulatoria, che confermerebbe la natura non-liberale del potere lodato, il quale fa mostra perciò di non volere la lode, di accettarla suo malgrado (una formula che salva così l’onore del laudandus non meno che del laudator)37. Il panegirico di Plinio è perciò presentato come una concessione che Traiano fa (malvolentieri, perché ‘odia essere lodato’) all’affetto dei suoi sudditi, dando con ciò ulteriore prova della sua civilitas: 4,3 cedis adfectibus nostris, nec nobis munera tua praedicare, sed audire tibi necesse est. Anche Traiano, come già gli imperatori precedenti a partire da Cesare e Augusto (che non a caso nella sua autobiografia insiste sul rifiuto di molte delle cariche ripetutamente a lui offerte), si confronta col problema, squisitamente politico, dei limiti da porre alle profferte di elogi38: nelle parole di Plinio il sovrano viene detto costretto ad accettare le proprie lodi (igitur cogendus fuisti, 5,6) dalla pressione dei sudditi che lo amano, allo scopo cioè di esibire il suo come un cedimento al loro affetto (la situazione si sarebbe dunque rovesciata: se prima, con gli imperatori precedenti come Domiziano, si imponeva l’autorità del sovrano che si proclamava dominus et deus, a prevalere ora è l’amore dei cittadini)39. Perché tra le virtù che del buon sovrano si devono celebrare c’è proprio la modestia, e la vicinanza ai sudditi, che la sua divina grandezza non gli fa dimenticare (egli realizza così il modello del civilis princeps)40, e che lo rende perciò degno di essere amato da quei cittadini cui egli generosamente ‘si concede’41. La martellante ostentazione di sincerità che pervade il testo di Plinio tradisce in realtà la difficoltà di parlare liberamente al sovrano, e del sovrano, in una struttura sociale fondata su una radicale disuguaglianza e asimmetria di potere42. I confini circoscritti entro cui Plinio sa di doversi muovere sono lucidamente definiti da lui stesso in una lettera in cui spiega la genesi del Panegirico, e la propria decisione di seguire la tecnica del laudando praecipere, che gli permette di assolvere al proprio dovere di cittadino leale al sovrano senza abdicare alla sua dignità morale e intellettuale: 37 La mossa rientra insomma nel rituale del ‘rifiuto’ (soprattutto di cariche), così diffuso nel comportamento politico del princeps, e le cui sottili finalità semiotiche sono efficacemente colte da WALLACEHADRILL 1982, 37: “refusal … is a gesture designed to substantiate an elaborate pretence that things are not as they seem”. 38 Cfr. BARTSCH 1994, 163-164. 39 Sull’ambiguità di questo richiamo alla paura dominante sotto Domiziano (in opposizione al presente) cfr. CONNOLLY 2009, 264 ss. 40 Su cui è da vedere ancora WALLACE-HADRILL 1982. 41 Sulla strategia politica implicita nell’atteggiamento tenuto verso l’élite sociale cfr. WALLACEHADRILL 1996, 306: “The accessibility of the emperor to the upper classes and his ‘civil’ treatment of them as ‘equals’ was an essential part of the strategy of power, and it makes the imperial court fundamentally different from the court of any hellenistic ruler”. 42 CONNOLLY 2009, 278 lo definisce un “text of praise produced out of constraint and fear that insists on speaking about freedom”.

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bono civi convenientissimum credidi eadem illa spatiosius et uberius volumine amplecti, primum ut imperatori nostro virtutes suae veris laudibus commendarentur, deinde ut futuri principes non quasi a magistro sed tamen sub exemplo praemonerentur, qua potissimum via possent ad eandem gloriam niti. Nam praecipere qualis esse debeat princeps, pulchrum quidem sed onerosum ac prope superbum est; laudare vero optimum principem, ac per hoc posteris velut e specula lumen quod sequantur ostendere, idem utilitatis habet adrogantiae nihil (epist. 3,18,1-3).

Plinio è fin troppo cosciente che il suo discorso rientra a pieno titolo in una tradizione encomiastica che ormai, per l’abuso che il servilismo dilagante ne ha indotto, risulta irrimediabilmente screditata (come nel famoso prologo dell’Agricola osserva in maniera obliqua lo stesso Tacito: at nunc narraturo mihi vitam defuncti hominis venia opus fuit, quam non petissem incusaturus: tam saeva et infesta virtutibus tempora, 1,4). Del resto lo stesso Plinio, nella lettera sopra citata, riconosce come il discorso encomiastico risulti universalmente inviso perché percepito come falso: una norma rispetto alla quale la gratiarum actio da lui rivolta a Traiano rappresenta, va da sé, l’eccezione (perché eccezionale è, implica Plinio, la natura stessa del princeps da lui elogiato: epist. 3,18,7 accedet ergo hoc quoque laudibus principis nostri, quod res antea tam invisa quam falsa, nunc ut vera ita amabilis facta est). L’encomio, in altre parole, finisce per risultare controproducente, danneggia chi lo riceve: è un discorso ormai compromesso, che ha perso il suo senso autentico. Il fatto è che la natura stessa del linguaggio encomiastico denuncia il potere detenuto dal suo oggetto-destinatario, e dunque tradisce l’adulazione nei suoi confronti: nel discorso 1,19 di Epitteto (Come comportarsi davanti a un tiranno), alla richiesta di definire la natura del proprio potere il tiranno risponde “sono adulato da tutti”, e dà in questo modo la misura di un potere illimitato. Questo ci riporta al problema del sospetto congenito di falsità, di adulazione, dell’encomio rivolto a un potente, che è un vizio sociale tipico dei regimi strutturati gerarchicamente con al vertice il detentore di un potere autocratico, dalla cui volontà può dipendere il destino dei suoi sudditi (un problema oggetto ad es. di riflessione morale dell’operetta di Plutarco Come distinguere l’adulatore dall’amico). È la ragione per cui, come dice un noto passo di Dione Crisostomo (6,59, nell’orazione Sulla tirannide), un tiranno non è mai davvero contento di ascoltare il proprio elogio, perché è sempre convinto che esso sia falso. L’encomio di un potente insomma è intrinsecamente condannato a esser creduto falso, a esser considerato frutto dell’ipocrisia adulatoria di chi ne è l’autore. Ma le più eloquenti in proposito sono le parole di Atreo, il tiranno-archetipo del teatro di Seneca43, colui che rifiuta la clementia e l’amore dei sudditi e teorizza lucidamente il terrore, facendo suo il famoso oderint dum metuant 43

Sulla figura dell’Atreo senecano cfr. SCHIESARO 2003, cap. 4 (139-176, spec. 161-162).

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proclamato dall’omonimo personaggio di Accio, un motto in cui Seneca filosofo vedeva simboleggiato l’orrore del potere tirannico44. Quella che per Dione Crisostomo è la frustrazione di ogni tiranno, Atreo la volge in piacere: non solo il piacere sadico di vedere l’ipocrisia dei sudditi che odiano il tiranno ma per paura si costringono a lodarlo, ma un piacere ancora più perverso, quello che li spinge a volerlo amare, a volere cioè il contrario di quel che sentono, ad annullare la propria volontà autentica (Thyest. 205 ss.): At. Maximum hoc regni bonum est, quod facta domini cogitur populus sui tam ferre quam laudare. Sat. Quos cogit metus laudare, eosdem reddit inimicos metus. At qui favoris gloriam veri petit, animo magis quam voce laudari volet. At. Laus vera et humili saepe contingit viro, non nisi potenti falsa. Quod nolunt velint45.

Una lode vera, dice Atreo, può toccare a chiunque, mentre quella falsa solo a un potente. In altre parole, l’encomio, ci dice Seneca (che dell’ambiente di corte e dei suoi codici di comportamento conosce ogni segreto), soprattutto se è falso, se come tale cioè viene percepito, dà la misura del potere di chi ne è oggetto (e quindi a un tiranno come Atreo dà più soddisfazione). L’encomio insomma, senza riuscire a convincere della propria sincerità, agisce involontariamente come un segno del potere del suo destinatario; e quanto più esso è esagerato e servile, tanto più chi ne è oggetto ne risulta contrassegnato come un despota. Il destino dell’encomio, o almeno dell’encomio di un potente, è insomma di produrre un esito opposto alle sue intenzioni dichiarate, di risolversi in una rappresentazione del potere smisurato che quel potente detiene. Il linguaggio, in altre parole, parla oltre e anche contro le proprie intenzioni: e dice che non ci può essere encomio sincero di un potente. È lo scacco estremo cui va incontro la forma-encomio, l’ultimo tra i tanti paradossi che caratterizzano questo tipo di discorso, quando è minato alla 44 Cfr. dial. 3,20,4-5 illa dira et abominanda ‘oderint, dum metuant’. Sullano scias saeculo scriptam. Nescio utrum sibi peius optaverit ut odio esset an ut timori…; cfr. anche de clem. 12,4 (cum invisus sit, quia timetur, timeri vult, quia invisus est, et illo execrabili versu, qui multos praecipites dedit, utitur…), dove quel verso ‘esecrando’ viene assunto a emblema di una concezione, o pratica, del potere non solo aberrante in sé ma anche politicamente sconsiderata e autolesionistica. 45 Cfr. MADER 1998, 37 (che rileva i tratti alla Orwell di questa concezione del potere): “power on this view is the tyrant’s capacity to enforce his will upon his victims, thereby destroying their psychological autonomy and integrity”, col perverso obiettivo di ottenere quel “volontario asservimento della volontà” (denunciato da un noto passo tacitiano come estrema species adulandi, ann. 1,8,4) su cui è da vedere ora BESSONE c.d.s.

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base da un marcato squilibrio nei rapporti di forza tra chi lo fa e chi lo riceve. Analogamente accade per il linguaggio dell’amore: quanto maggiore è la asimmetria nel rapporto che si vuol presentare come un affetto tra amici, tanto più falso e ipocrita è l’amore che viene proclamato, e che è invece impossibile. Come afferma Diogene nell’orazione di Dione, con tutta la sua ricchezza e potenza il tiranno non potrà mai avere quello che è il tesoro più grande, un’amicizia sincera.

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ELOGIO RETORICO E POTERE POLITICO ALL’EPOCA DELLA SECONDA SOFISTICA LAURENT PERNOT

Nel periodo che va dal II al III secolo d.C., i sofisti della cosiddetta “Seconda Sofistica” erano i maestri della retorica greca, in particolare dell’elogio retorico, e tenevano numerosi discorsi rivolti a Roma, all’Imperatore e ai suoi rappresentanti. I testi essenziali, a tal proposito, sono quelli di Dione di Prusa, Elio Aristide, Luciano, dello Pseudo-Dionigi di Alicarnasso e di Menandro Retore, cui si aggiungono opere meno importanti e attestazioni di opere perdute. L’interpretazione di questo ricco materiale è delicata e l’analisi che possiamo darne non è definitiva né rigida. In passato, nel XIX ed ancora nel XX secolo, esisteva una tradizione di disprezzo nei confronti della Seconda Sofistica, e gli elogi dei sofisti erano ritenuti trascurabili. Gli studiosi li consideravano vuoti, formali, adulatorî. Poi, nella seconda metà del XX secolo, è intervenuta una sorta di riabilitazione della Seconda Sofistica, in nome della sua importanza tanto per la storia politica e sociale dell’Impero romano quanto per la storia della letteratura greca. A sua volta, anche l’elogio retorico, che unisce questi due aspetti (politica e letteratura), è stato rivalutato. Vi si è riconosciuta l’espressione del lealismo della Seconda Sofistica verso Roma. Questa rivalutazione era del tutto giustificata, ed io la sottoscrivo, naturalmente, avendovi partecipato in prima persona. Tuttavia, queste considerazioni non esauriscono la complessità del genere dell’elogio. L’elogio retorico era per i sofisti un mezzo di comunicazione sottile. Non si trattava di un’adulazione vile e vuota, e non si riduce neppure ad una beata soddisfazione. Se un tempo l’elogio non era preso sul serio, oggi non dobbiamo accontentarci di prenderlo alla lettera. L’elogio retorico era uno strumento raffinato, codificato, che serviva ad esprimere l’approvazione, certo, ma anche ad affermare valori, a far passare messaggi velati, a presentare richieste, a negoziare, oppure a criticare.

1. Gli elogi sofistici in onore del potere romano Le fonti sulla Seconda Sofistica comprendono le opere conservate dei sofisti stessi, le Vite dei sofisti di Filostrato, le informazioni presenti in diversi testi contemporanei o posteriori (fino alla Suda, che offre preziose notizie, attinte

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da fonti attendibili), infine i documenti archeologici, epigrafici e numismatici. Il ritratto del sofista, quale emerge dalle fonti, comporta tre elementi strettamente solidali: l’insegnamento della retorica, la pratica della parola pubblica, l’influenza politica. Ne derivano conseguenze importanti, come la celebrità, la ricchezza, i viaggi. La retorica per gli Antichi era al contempo una disciplina intellettuale ed uno strumento della vita politica e sociale. Il sofista, in quanto maestro dell’arte oratoria, non si confondeva, dunque, con l’uomo di lettere o con lo specialista di qualche tecnica avulsa dal mondo. Il suo ambito era la parola e, attraverso di essa, l’azione pubblica; e ciò implicava ipso facto un’influenza sociale. In questo modello culturale, il rapporto con Roma giocava un ruolo essenziale. Secondo i criteri dell’epoca, il sofista di successo era quello che non restava chiuso tra le mura della scuola, ma interveniva nella vita municipale e provinciale, fruiva di un’importanza politica e sociale nella sua città e presso l’aristocrazia romana, si faceva portavoce della sua città presso le autorità romane e, nel migliore dei casi, era anche ascoltato dagli imperatori. I sofisti, in tal modo, si ponevano in una posizione di interlocutori nei confronti dell’Impero romano. Interlocutori… benevoli. È evidente, dagli elementi che sono appena stati rilevati, che abbiamo a che fare con una retorica pro-romana, favorevole agli imperatori e all’Impero. Non è strano, pertanto, che i sofisti, così definiti, nei loro elogi si siano rivolti al potere romano. La forma principale era il “discorso reale” (basiliko;" lovgo"), di cui abbiamo un campione (apocrifo) nel corpus di Elio Aristide1; basilikoiv oggi perduti sono noti da attestazioni (elogi di Adriano ad opera di Aspasio di Biblo e di Orione di Alessandria, elogio di Marco Aurelio ad opera di Nicostrato, discorsi di Callinico)2; le regole sono state fissate dal trattato di Menandro Retore. Nella maggior parte dei casi, gli elogi dell’imperatore trovavano spazio in una circostanza specifica e ricevevano in tal caso un nome particolare, in rapporto a tale circostanza: cerimonie di compleanno, di nozze, di funerale, giubilei, anniversari, feste in onore di una vittoria, o ancora ambasciate di città greche presso l’imperatore per attribuirgli onori, auguri, una corona, e presentargli richieste. La documentazione epigrafica ci fa conoscere anche esempi di elogi degli imperatori e della famiglia imperiale pronunciati nei concorsi “musicali”, celebrati in tutto il mondo greco3. Alcuni elogi avevano per argomento Roma e l’Impero, come il celebre discorso In onore di Roma di Elio Aristide4, o ancora i frammenti conservati 1 2 3 4

Or. 35. Suda Α 4203; Ω 189; Ν 04; Callinico T 1,11,13 Pernot (“REG” 123, 2010, 71-90). L. PERNOT, La rhétorique de l’éloge dans le monde gréco-romain, I, Paris 1993, 84-92. Or. 26.

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del discorso A Roma di Callinico, e le attestazioni di elogi di Roma dovuti a Polluce di Naucrati e ad un certo Pompeiano di Filadelfia5. Presso gli storici greci si trovano riscritture di laudationes funebres romane: Appiano e Cassio Dione “rifanno” l’elogio che di Cesare aveva fatto Antonio, e Cassio Dione, ancora, l’elogio di Augusto ad opera di Tiberio6. Infine, c’erano gli elogi rivolti ai rappresentanti dell’imperatore, soprattutto ai governatori delle provincie, nel quadro delle loro funzioni: discorsi di invito, di accoglienza, di benvenuto, di partenza. La conclusione di questo panorama si riassume in due parole: quantità e diversità. Se si pensa a tutte le circostanze che implicavano l’imperatore, la famiglia imperiale e i funzionari romani, e se si calcolano i discorsi possibili o obbligatori in tutti questi casi, allora il corpus virtuale degli elogi di Roma all’epoca della Seconda Sofistica comprende certamente migliaia di discorsi, nei quali era instancabilmente ripreso, a proposito di argomenti precisi, il tema dei rapporti tra l’autorità romana e il mondo greco. I pochi discorsi che leggiamo ancora non possono essere compresi che in rapporto a questo immenso corpus svanito.

2. La celebrazione dei valori Tutti questi elogi presentavano un’indiscutibile coerenza tra loro, malgrado la diversità degli oratori, dei destinatari e delle circostanze. Tale coerenza si spiegava con l’omogeneità culturale della Seconda Sofistica, che costituiva un ambiente a sé, e poggiava sulla retorica. L’elogio è stato definito, nella retorica greca, sotto il nome di genere epidittico (il terzo genere, accanto ai generi deliberativo e giudiziario). In epoca imperiale, l’elogio retorico greco (chiamato ejgkwvmion) conobbe uno sviluppo e una formalizzazione senza precedenti. Esso divenne una tecnica, fissata dall’uso e dai trattati teorici dei retori, trasmessa dall’insegnamento e ripetutamente sfruttata nella pratica. Tale tecnica copriva tutti gli aspetti: terminologia, definizione dei temi e dei tipi di discorso in funzione delle circostanze, liste di “luoghi” (tovpoi), argomentazione, stile, mnemonica, recita, pubblicazione. L’elogio retorico si basava, così, su un insieme di tradizioni e di regole che formavano un codice predefinito. È per questo che, in una certa misura, tutti gli elogi della Seconda Sofistica si somigliano. Il problema che si pone è sapere a cosa servissero questi innumerevoli discorsi stereotipati in onore del potere romano. È la difficile questione della 5 6

Suda Π 1951; Callinico F 1; Athen. deipn. 3,98c. App., bell. ciu. 2,144-147; Cass. Dio 44,36-49; 56,35-41.

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funzione, o delle funzioni, dell’elogio. Esiste una tradizione interpretativa saldamente stabilita, che in fondo risale alla definizione del genere epidittico in Aristotele7, secondo cui l’elogio è parola formale, di ostentazione, destinata a mostrare il talento dell’oratore che la pronuncia. In opposizione ai generi deliberativo e giudiziario, l’elogio è accantonato in un ruolo di esibizione gratuita e passa per un genere privo di finalità pratica. Che si tratti di lodare un imperatore, accogliere un magistrato, vantare una città o celebrare un dio, si ha l’impressione che il pubblico sappia in anticipo, almeno a grandi linee, ciò che l’oratore si appresta a dire, e che, di conseguenza, il contenuto specifico del discorso abbia poca importanza. Non bisogna fermarsi a questa apparenza. Si può osservare che il discorso di elogio ha una dimensione rituale. È un “atto linguistico” (speech act), nel senso in cui i linguisti impiegano questa espressione8. O ancora, dal punto di vista antropologico, si può notare che gli elogi si inscrivono nell’ambito di cerimonie: in quanto presa di parola regolata dall’uso, essi costituiscono un elemento dei rituali politici, religiosi, familiari o sociali. Proclamano l’onore e la gloria, e questo era molto importante nelle società antiche. L’elogio aveva, dunque, una funzione performativa e cerimoniale. Ma si può andare oltre e mostrare che nel suo stesso contenuto esso veicolava dei messaggi. L’elogio propone modelli, afferma valori. E con questa nozione di “valori” arriviamo alla funzione essenziale dell’elogio retorico. Occorre sottolineare il ruolo fondamentale delle liste di “luoghi”. I luoghi della retorica antica sono delle rubriche, o punti di vista, secondo cui l’oratore esamina il suo tema. Affinché l’esame sia completo, i luoghi sono organizzati in liste che si vogliono esaustive. In conformità con questo concetto basilare, i luoghi dell’elogio costituiscono una recensione metodica degli aspetti sotto cui si presenta ogni oggetto che l’oratore avrà da lodare. È proprio durante l’epoca della Seconda Sofistica che tale settore raggiunse il suo più completo sviluppo. Liste di luoghi, approfondite e raffinate, furono elaborate per l’elogio delle persone, delle città, degli dèi, degli animali, degli oggetti animati e delle astrazioni. Tali ricerche sui luoghi avevano implicazioni importanti, poiché ogni volta prevedevano un’analisi dell’oggetto. I luoghi dell’elogio di persona supponevano una concezione dell’uomo, un’antropologia implicita, una riflessione sulle virtù e sui criteri dell’azione umana, dell’azione politica e militare in particolare. Allo stesso modo, i luoghi dell’elogio di città contemplavano una visione sintetica della città, nei suoi aspetti geografici, storici e politici. I luoghi dell’elogio di divinità prendevano in considerazione credenze mitologiche 7 8

Rhet. 1,3. J.L. AUSTIN, How to Do Things with Words, Oxford 1962.

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e teologiche. Le liste di luoghi offrivano in tal modo modelli di eccellenza, fondati su valori morali, sociali, teologici, estetici. Classificando e gerarchizzando i temi, costituendo la grammatica dell’elogio, i retori hanno espresso ed impresso concezioni correnti, sincere, condivise. La retorica epidittica ha scritto così un capitolo non trascurabile nella storia delle mentalità. In queste condizioni, l’elogio retorico consiste nel confrontare il soggetto lodato con la griglia fornita dai luoghi. Ne deriva che la portata di ogni elogio è doppia. Da una parte, esso afferma i meriti dell’oggetto lodato, mostrando che esso corrisponde alle caselle previste dalla griglia; ma dall’altra parte, al contempo esso fissa il modello di eccellenza con cui questo oggetto è confrontato. Un elogio di sovrano (basiliko;" lovgo"), per esempio, non è soltanto un omaggio reso all’imperatore regnante e un invito a rispettare la monarchia, è anche una definizione del buon re. Ogni lode conferita ad un oggetto preciso si sdoppia nello stesso istante in due livelli, l’uno particolare, l’altro generale. La deviazione attraverso i modelli generali e teorici trasforma l’oratore epidittico in maestro di politica, di morale, di teologia, ecc. L’oggetto appare lodato in nome di criteri superiori. L’elogio fatto ad un oggetto preciso non è l’approvazione comune, istintiva, ma la messa in opera di modelli elaborati e autorizzati. Il compito dell’oratore non si limita a confortare l’uditorio nelle sue ammirazioni e nelle sue aspirazioni, ma consiste anche nel fornirgli la spiegazione e la giustificazione. E questo tanto più che il sofista gode di un’autorità particolare. Egli ha un mandato, è invitato, spesso è portavoce della collettività. E sovente egli si presenta anche dotato di un’aura intellettuale, morale (in quanto filosofo, o successore di poeti), religiosa (è il tema dell’ispirazione). Su queste basi, l’oratore illumina la collettività sui suoi propri sentimenti e ne traduce le convinzioni nell’onorato linguaggio della retorica. Gli oratori epidittici possono dunque essere qualificati come ideologi. Essi modellavano le coscienze ed elaboravano una visione del mondo. Se anche altre categorie di pensatori svolgevano nella stessa epoca un ruolo simile, la specificità dell’eloquenza epidittica consisteva nel presentare le cose nella prospettiva di ciò che è lodevole e di ciò che concerne la collettività. Gli oratori epidittici presentavano il versante luminoso e unanimista della coscienza sociale, a discapito di ogni preoccupazione di indagine imparziale e critica. L’elogio è un discorso sfasato dalla realtà, e tutta la sua fecondità è dovuta a tale sfasatura, che gli permette di sostenere i valori. Questa funzione di consolidamento dell’ordine sociale costituisce la risposta alla questione dell’utilità dell’elogio. Essa permette di capire perché è apparso così difficile, nell’Antichità e ancora presso i moderni, definire in modo preciso l’utilità del genere epidittico: poiché la nozione di efficacia immediata, impiegata per gli altri due generi, non aveva ragion d’essere in questo caso, e

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bisognava anzi pensare ad una forma di azione che fosse non meno reale, ma più sottile e più diffusa. Illuminante, a questo punto, il caso del biasimo. Il biasimo è, secondo la teoria retorica, il simmetrico dell’elogio; ma, in realtà, non ne ha mai avuto lo stesso ruolo. Nell’Impero romano non era questione di pronunciare discorsi ufficiali che potessero biasimare l’imperatore, gli dèi o i notabili. Al biasimo mancava precisamente ciò che determinava il trionfo dell’elogio: il regolare ritorno, nelle cerimonie pubbliche e private, di una parola rituale, tipizzata nelle sue forme e nei suoi contenuti, che manteneva la coesione sociale e mirava alla bellezza letteraria. Il biasimo mette in luce, a contrario, il significato della funzione encomiastica. Per quanto concerne i rapporti con Roma, i valori proclamati negli elogi erano principalmente di ordine politico, economico e religioso. I discorsi della Seconda Sofistica celebravano i benefici della dominazione romana, vantando la concessione della cittadinanza, la pace, le feste, la sicurezza dei viaggi, l’ordine, la prosperità, e insistendo sui vantaggi per i Greci, per Atene, per l’Asia Minore. Celebravano la dinastia regnante, l’eternità di Roma, il suo trionfo cosmico e la fine della storia che tale trionfo rappresentava. Citerò due esempi di valori che erano importanti negli elogi sofistici di Roma e dei Romani. La nobiltà d’origine (eujgevneia, genos, genus) svolge un ruolo essenziale, in particolare nell’elogio delle persone e delle città. Il primo capitolo dei discorsi di elogio consiste sempre nel parlare dell’origine etnica e familiare delle persone, della fondazione e della storia antica delle città. La retorica epidittica ha l’ossessione del lignaggio. Essa riflette la struttura e l’ideale della società imperiale, e in modo singolare lo stato d’animo regnante a corte, grazie al principio dinastico, nelle grandi famiglie e nelle città dominate dalle antichità nazionali. Un altro valore fondamentale era la “filantropia” (filanqrwpiva, humanitas), con le nozioni connesse che esprimono la benevolenza e la protezione. Tale valore era usato a proposito degli uomini, delle città e degli dèi. Esso non soltanto formava un “luogo”, ma in certi casi dava una colorazione d’insieme al discorso, per esempio nel discorso d’ambasciata che faceva appello alla munificenza imperiale. Mettendo avanti la “filantropia”, la retorica epidittica rifletteva e perpetuava un valore essenziale nella società del tempo: un valore che prendeva la forma dell’evergetismo, in ambito politico, e della provvidenza, in ambito religioso. L’elogio retorico aveva così per vocazione principale di rafforzare l’adesione del pubblico a valori ammessi e riconosciuti. Dèi, città, sovrani, notabili, istituzioni: esso lodava ciò che tutti già rispettavano o si pensava rispettassero. La sua funzione era di riaffermare e di ricreare costantemente il consenso intorno a valori dominanti. La retorica epidittica era l’elisir d’immortalità dell’ordine

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sociale. Essa instaurava un momento di comunione, durante il quale la società offriva a sé stessa lo spettacolo della propria unità. In tal modo, la funzione di celebrazione va colta in termini sociologici. L’elogio è figlio della società cui deve le sue condizioni di esistenza e cui propone, al contempo, dei valori. Esso non si riduce a dei discorsi vuoti né a delle adulazioni: esercita un’azione sociale. L’elogio mette in forma rappresentazioni e credenze comuni al gruppo; esplicita e giustifica i valori. Svolge una funzione ideologica. L’elogio retorico era uno strumento prodigioso: esso dava al messaggio politico una forza di persuasione che proveniva dal bel linguaggio, dalla cultura, dalla morale, così come dalla performance oratoria pubblica e cerimoniale. Al termine di questa prima analisi, si constata che i discorsi epidittici non sono parole vuote e vane, ma al contrario svolgono complesse funzioni di consolidamento dell’ordine sociale intorno a valori condivisi. In questa complessità, però, c’è anche posto per qualcosa di più sovversivo: i sottintesi dell’elogio.

3. I sottintesi 3.1. Tecniche di criptaggio e “discorso figurato” Il discorso di elogio, in effetti, si presta ammirevolmente ai sottintesi. L’oratore che loda dà sempre l’impressione di dire troppo, o di non dire abbastanza, o di lasciar scivolare suggerimenti deviati. Innanzitutto, bisogna ricordare che gli Antichi praticavano volentieri l’arte del sottinteso. Le qualità di finezza e sottigliezza dei discorsi greci e latini sono note. Inoltre, nel mondo antico circolava una serie di tecniche precise di criptaggio e decriptaggio. Ricordiamo le favole (con la morale che rivela il senso del racconto), gli enigmi, gli oracoli, l’ironia socratica, i metodi dell’interpretazione allegorica, l’onirocritica, l’esame dei testi di legge, o ancora l’arte allusiva in letteratura. Questi esempi provano ampiamente che gli Antichi avevano l’abitudine di comprendere i discorsi a mezza bocca, in tutti i campi. All’interno di questo vasto insieme, compare il concetto del “discorso figurato” (in greco ejschmatismevno" lovgo", in latino figuratus sermo, figurata oratio), che è proprio della retorica. La parola “figura” non si riferisce qui alle figure di stile, ma è presa nel senso di “forma”, orientamento dato al discorso. Il discorso figurato designa i casi in cui l’oratore usa dei falsi sembianti per mascherare il suo intento, tenendo un linguaggio sviato al fine di arrivare per vie oblique al punto cui vuole pervenire. Se questo concetto è stato studiato dai filologi da un punto di vista tecnico, non si è spesso tentato di farlo uscire

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dal campo dei trattati teorici per metterlo in relazione, in maniera un po’ più approfondita, con le produzioni oratorie e letterarie conservate. La portata di un tale tentativo non è minima, se il discorso figurato può rivelarsi una chiave di lettura per le opere antiche. Il discorso figurato era un settore importante della retorica. Esso è analizzato e i suoi precetti sono fissati nelle opere di diversi teorici greci e latini. Il discorso figurato occupava un posto nella formazione degli oratori sotto forma di declamazione figurata (esercizio di discorso fittizio che doveva essere trattato nella forma di discorso figurato) ed era anche alla moda, sotto l’Impero, nelle scuole di retorica9. Nella pratica, le due principali ragioni per ricorrere al discorso figurato erano la sicurezza e la buona creanza. Nel primo caso, bisogna lavorare d’astuzia perché un’espressione franca rischierebbe di mettere in pericolo l’oratore, attirando su di lui la collera degli ascoltatori, per esempio un tiranno dal carattere ombroso o un’assemblea popolare dalle reazioni imprevedibili. Nel secondo caso, l’oratore non ha paura per la sua libertà o per la sua vita, ma si sente tuttavia tenuto a rispettare certe norme, a costo di indisporre, di urtare, e dunque di fallire, per esempio quando qualcuno deve accusare un superiore e capisce che non ha interesse a farlo apertamente – situazione simile a quella di alcuni autori greci di elogi di Roma. I teorici antichi invocano il discorso figurato principalmente a proposito dei discorsi giudiziari e deliberativi (e a proposito delle declamazioni, che sono delle imitazioni di discorsi giudiziari e deliberativi). È per questo che l’elogio figurato non è stato preso in considerazione dai moderni. Ciononostante, cercando meglio, si possono trovare testi in cui il discorso figurato concerne l’elogio e il genere epidittico. Per rimproverare un popolo o un tiranno senza urtarlo frontalmente, lo Pseudo-Demetrio Falereo raccomanda di lodare quanti adottano la condotta contraria a quella che si vuole criticare; o meglio, di lodare il destinatario per tutte le volte in cui non ha commesso questo errore10. Facendo allusione a tali finezze, Plinio il Giovane si è sentito obbligato di avvertire Traiano, all’inizio del Panegirico, che non doveva affatto vedere nelle menzioni della sua affabilità un rimprovero dell’arroganza, nelle menzioni della sua economia un rimprovero del lusso – in breve, che, per una volta, l’elogio non sarebbe stato figurato11. 9 Quint., inst. or. 9,2,65-99; Hermog., inu. 4,13; meth. 22; Ps. Dion. Hal., rhet. 8-9; Apsin., fig. probl. Vd. L. PERNOT, Les faux-semblants de la rhétorique grecque”, in C. MOUCHEL - C. NATIVEL (edd.), République des lettres, république des arts. Mélanges offerts à Marc Fumaroli, de l’Académie française, Genève 2008, 427-450. 10 De eloc. 292; 295. 11 Paneg. 3-4.

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Un esempio di elogio interamente a doppio senso è offerto dall’orazione funebre pronunciata da Socrate nel Menesseno di Platone. Questo discorso si presenta come un elogio di Atene e degli Ateniesi. Fu preso sul serio dalla maggior parte dei lettori, ed è soltanto in epoca contemporanea che è stato pienamente riconosciuto come ironico e parodico, interpretazione che oggi è più o meno unanimemente accettata. Il caso del Menesseno illustra la possibilità, per un discorso retorico, di giocare con le regole dell’elogio e veicolare messaggi mascherati, accessibili soltanto ad una parte dell’uditorio e dei lettori. Allo stesso modo, Dione di Prusa, nel suo discorso A Celene, ha scelto di lodare questa città, Celene (ossia Apamea di Frigia), in maniera ironica, in realtà per biasimarla12. Egli ne vanta la prosperità, pur facendo comprendere, attraverso vari procedimenti, che tale prosperità unicamente materiale è priva di valore e non vi è motivo, in verità, di gloriarsene. Una simile lezione non era certo facile da fare intendere ai ricchi mercanti di Apamea. Esprimendosi in modo ironico – ciò che costituisce una sorta di discorso figurato –, l’oratore si è messo al coperto ed ha evitato di attaccare frontalmente il suo uditorio. Infine, l’opera di Proclo offre un’attestazione dell’espressione “elogio figurato” (ejschmatismevnon ejgkwvmion), unica occorrenza, secondo il Thesaurus linguae graecae elettronico, di testo in cui le parole ejgkwvmion ed ejschmatismevnon si trovino riunite l’una accanto all’altra. Analizzando l’Alcibiade I di Platone, Proclo spiega che l’elogio che Socrate fa di Alcibiade nasconde un’accusa (il rimprovero d’ignoranza, ajmaqiva) e che la forma elogiativa è stata scelta da Socrate per rendere il rimprovero sopportabile per colui che ne è l’oggetto. Per caratterizzare questa pratica, Proclo, che era stato formato alla retorica, ha fatto ricorso alla nozione di discorso figurato, applicandola all’elogio13. I sofisti della Seconda Sofistica conoscevano bene tutte queste astuzie. Il discorso figurato è stato oggetto di trattati teorici di autori conosciuti peraltro come sofisti: Ermogene, o Pseudo-Ermogene (se il teorico coincide con il sofista), Apsine, Aspasio14. Due oratori, che secondo Filostrato appartenevano alla Seconda Sofistica, Dione di Prusa ed Elio Aristide, su cui torneremo tra poco, nelle loro opere usano i termini sch`ma e schmativzesqai con valore tecnico15 e citano qua e là dei procedimenti propri del discorso figurato16. Filostrato pensa che Erode Attico avrebbe dovuto fare ricorso al discorso figurato in un’arringa davanti all’imperatore17. Menandro Retore fa del discorso figurato un elemento essenziale della “chiacchierata” (laliav), una forma oratoria a metà tra il genere 12 13 14 15 16 17

Or. 35,13-17. In Alcib. I 101,6-9; 102,10-14. Suda Α 4203. Dio Chr. 43,6; Ael. Arist. 4,33. Dio Chr. 18,16; Ael. Arist. 33,25. Vit. soph. 2,1,11(561).

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epidittico e quello deliberativo, che egli considera “assai utile al sofista” e che era adottata in numerose circostanze della vita politica e sociale18. In sintesi, nel pensiero antico esistevano numerosi settori in cui trovavano spazio la parola criptata e l’interpretazione di tale parola. La retorica aveva teorizzato il discorso a doppio fine sotto il nome di “discorso figurato”, ivi compreso il caso dell’elogio, ed i sofisti erano affezionati a questa forma di espressione. Se si sommano tutti questi fatti, pare legittimo cercare, all’interno del corpus degli elogi sofistici, dei testi che richiedono una lettura come discorsi figurati, o nel senso strettamente tecnico del termine, o più generalmente nel senso di discorso a doppio fine e falso aspetto. Non si tratta di critica aperta e di opposizione (fenomeni che esistevano nell’Impero, ma in altri contesti), ma di dissonanze e di increspature, nel quadro del lealismo mostrato dalla Seconda Sofistica. 3.2. Richieste L’elogio può servire ad appoggiare una richiesta: lo si vede nel canovaccio del “discorso di ambasciata” (presbeutikov") in Menandro Retore, che suppone il caso in cui si tratti di reclamare soccorsi all’imperatore in nome di una città colpita da una catastrofe19. L’ambasciatore, secondo Menandro, deve dividere la sua allocuzione in due parti: un elogio dell’imperatore, poi una lamentela sul triste stato attuale della città, in contrasto con la grandezza di un tempo. La richiesta è, dunque, basata su un doppio elogio: elogio del destinatario, di cui si lodano le qualità, non soltanto per ottenere la sua benevolenza, ma soprattutto per ricordargli le sue concessioni precedenti, che deve sentirsi tenuto a reiterare nelle circostanza presente; elogio del richiedente, per provare che merita di essere esaudito e riconfortato. Nei due casi, l’elogio è concepito come il richiamo di meriti passati con un senso per l’avvenire. Di conseguenza, il richiamo è selettivo ed orientato nella direzione più conveniente per appoggiare la richiesta: il primo elogio insiste sulla filanqrwpiva imperiale, mentre il secondo sottolinea, tra le qualità della città, quelle che più possono interessare l’imperatore. Queste due parti preparano la supplica diretta, che non interviene se non nella perorazione. Il procedimento retorico che Menandro ha qui individuato, vale a dire l’impiego dell’elogio per appoggiare una richiesta, era di uso assai frequente. Un altro esempio di discorso di elogio portatore di richieste, sempre in Menandro, è l’elogio al futuro20. A differenza del caso precedente, la richiesta 18 19 20

Men. Rhet. 2,388.390. Men. Rhet. 2,423-424. Men. Rhet. 2, 379,13-381,5.

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è qui implicita. Il discorso è un puro elogio e bisogna cogliere tra le righe la domanda che esso nasconde. Si tratta di un discorso di benvenuto rivolto ad un governatore che entra in carica. A meno che questo magistrato non sia già preceduto da una lusinghiera reputazione, l’oratore, dice Menandro, è spesso nell’ignoranza e manca di riferimenti ad azioni precise da lodare. Pertanto, farà congetture sull’avvenire: ma quello che potrebbe sembrare un ripiego, si rivelerà una fruttuosa finezza. Dopo qualche frase sulla patria e la famiglia del nuovo arrivato, l’allocuzione si rivolge al futuro. Iniziando dalla giustizia, l’oratore si dice certo che il nuovo governatore agli occhi dei suoi amministrati si mostrerà giudice migliore di Minosse, Eaco e Radamante; in maniera più precisa, egli predice che nessuno sarà incarcerato arbitrariamente, che i diritti delle diverse categorie sociali saranno rispettati. A proposito del coraggio, dichiara che il governatore avrà la fermezza necessaria per difendere la causa della sua provincia presso l’imperatore. Le altre virtù si succedono sullo stesso tono, messe in luce da una serie di paragoni, fino alla seguente conclusione: “Non è evidente che egli eserciterà la sua carica in modo corretto per il bene dei sudditi?”. A prima vista, tale fiducia, risolutamente ostentata, può sembrare un’adulazione, o ancora un atto di ingenuità dovuto alla volontà di riempire ad ogni costo la griglia dei luoghi dell’elogio. Ma consideriamo le cose dal punto di vista del governatore. Appena arrivato, in presenza di tutti i notabili della città, ecco che sente il sofista locale descrivergli, a mo’ di lista, tutto quello che rappresenterà il compimento della sua carica: descrizione che, pur essendo intrisa di riferimenti mitologici e storici e modellata sulla tetrade platonica delle virtù, non è scevra di allusioni precise ai problemi concreti della provincia. Lungi dall’essere ingenua, questa allocuzione gli indica con molta eleganza ciò che gli amministrati si attendono da lui. In forma di elogio, è un programma tracciato al momento dell’entrata in funzione, a metà tra la supplica e il libro delle consegne. Questo rosario di raccomandazioni richiama la famosa lettera rivolta da Plinio il Giovane a Massimo nel momento in cui questi stava per occupare il suo posto nella provincia d’Acaia21. Ma, mentre Plinio poteva permettersi di esortare in tutta libertà il suo giovane amico, l’oratore di Menandro giudica più politico travestire le sue richieste da elogio. 3.3. L’interpretatio Graeca della dominazione romana Il discorso di Elio Aristide In onore di Roma offre un’altra sorta di messaggio implicito22. Può sembrare paradossale invocare qui il discorso che è sotto 21 22

Epist. 8,24. Or. 26. Vd. L. PERNOT, Éloges grecs de Rome. Discours traduits et commentés, Paris 1997.

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certi aspetti l’archetipo della retorica encomiastica risvolta a Roma: quindi, sia ben premesso che quest’opera non è per niente un atto di sovversione contro Roma. È un elogio. Ma un elogio che comporta un messaggio sottinteso – bisogna aggiungere: come quasi tutti gli elogi retorici. L’elogio retorico è un linguaggio politico. Non serve ad esprimere una convinzione profonda, un’emozione personale, a veicolare un’effusione. Nessuno, nell’antichità, cercava la verità o la sincerità negli encomi dei sofisti. L’elogio retorico era un discorso calcolato, che prendeva il suo pieno significato nel confronto implicito con le usanze, le aspettative, le griglie preesistenti, le costrizioni e predeterminazioni di vario tipo. Quando si trattava di Roma, l’elogio era un modo di fare politica. Tanto per la sua struttura che per il suo stile, il discorso di Aristide In onore di Roma si conforma alle regole dell’elogio retorico. L’oratore inizia sottolineando la difficoltà dell’argomento, poi vanta il territorio e la situazione di Roma e loda in seguito, lungamente, l’organizzazione civile e militare dell’Impero, prima di concludere con un brillante quadro d’insieme. La dimostrazione è condotta con grande apporto di comparazioni, su un tono costantemente ammirativo e iperbolico. Fin qui, tutto è normale e coerente con le norme dell’encomio: ma questo discorso interessa proprio per quello che non dice. In più di trenta pagine, che rappresentano all’incirca un’ora di discorso, Aristide trova il modo per non dire niente delle origini dell’Urbe, né delle supposte parentele tra Greci e Romani, né dei racconti mitici che ne avvolgono la fondazione. Tace completamente sulla storia di Roma. Ignora i monumenti, l’architettura, l’arte, la letteratura, la lingua. Non una sola parola su Romolo, gli Scipioni, Cesare o Augusto. Il solo uomo illustre di Roma cui faccia riferimento è Enea, attraverso un’allusione ad Omero. Non cita un solo nome proprio romano né alcuna parola latina. Come interpretare queste omissioni? Eppure era raccomandabile, e conforme ai precetti dei teorici del genere encomiastico, menzionare, in un elogio di Roma, tutti questi punti. Abbiamo a che fare con una serie di scelte deliberate: Aristide ha voluto vedere in Roma soltanto la capitale imperiale, il luogo da cui si esercitava il dominio sulle provincie. Egli ha scelto di non considerare nient’altro se non lo stato attuale delle cose, il funzionamento presente dell’Impero in ambito politico, cosa che l’ha condotto a scartare ogni colore locale e tutti i dati artistici, religiosi, mitologici, storici (quelli che riguardavano Roma, s’intende, poiché la mitologia e la storia greche sono abbondantemente evocate). L’unico fatto romano che interessasse Aristide era la dominazione che Roma esercitava sull’Impero e, più precisamente, le relazioni di Roma con le provincie ellenofone, provincie cui egli stesso apparteneva. È per questo che il discorso In onore di Roma è, in realtà, un discorso in onore dell’Impero romano e della maniera in cui tale impero si esercitava sul mondo greco. Aristide si è scrupolosamente guardato dall’esprimere il disprezzo con

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cui considerava la storia e la civiltà romane e si è accontentato di non parlarne. In tal modo, egli imponeva un punto di vista ellenocentrico, riducendo Roma ad una potenza di governo, trascurando tutto il resto. Inoltre, il discorso comporta una seconda serie di omissioni, riguardanti la conquista romana. Aristide evita di dire che l’Impero è stato imposto ai Greci con la forza. Tutt’al più, si permette di fare allusione, al paragrafo 8, al tradizionale gioco sulla parola rJwvmh, che significa tanto “Roma” quanto “forza”. Ma non va oltre. Non dice niente della conquista romana né del processo militare e politico che ha condotto all’instaurazione del dominio romano sul mondo greco. Siamo di fronte a dei silenzi: dei silenzi eloquenti, un procedimento ben attestato nella retorica del “discorso figurato”. Nel caso del discorso In onore di Roma, il segreto che tutti conoscono è la dominazione imposta ai Greci dai Romani. Questa verità pesa sul discorso, ma Aristide non poteva permettersi di discuterla apertamente. Così, ha proceduto per omissioni, omissioni tanto drastiche da divenire significative di per sé e portatrici di un messaggio nascosto. Insomma, Aristide suggerisce che Roma si riduce all’impero che esercita, che la sua storia e la sua cultura non contano e che, agli occhi dei Greci, la sola cosa che importa è la realtà del potere che subiscono. Non volendo esprimere questa opinione apertamente, Aristide la fa capire indirettamente. Questo discorso è, dunque, molto meno adulatore di quanto non si creda e comporta anche una certa audacia. Aristide suggerisce che l’Impero è un sistema imposto ai Greci dall’esterno e che i Greci si sottomettono in virtù della legge del più forte, senza provare alcuna ammirazione per la civiltà e la cultura romane. Tale è, crediamo, il messaggio cifrato del discorso In onore di Roma, un messaggio profondamente realista e disilluso, se sappiamo leggere tra le righe. Aristide misura il suo elogio e si concentra su ciò che approva, vale a dire i benefici materiali della pace romana. Quanto al resto, si fa capire a mezza bocca, suggerendo che la dominazione romana va sopportata con rassegnazione. Questo Elio Aristide un po’ inatteso, forse, si pone in posizione di osservatore acido della realtà politica del suo tempo. Le osservazioni fatte a proposito di Elio Aristide possono essere allargate a molti discorsi dell’epoca, ed arricchire in tal modo la comprensione dei sottintesi dell’ideologia epidittica. L’elemento essenziale degli elogi sofistici è il fatto che essi rappresentano un punto di vista greco su Roma. Gli oratori encomiastici dicevano il fatto romano, a modo loro, con i loro propri mezzi. Usavano la lingua greca, e talvolta addirittura il dialetto attico, cosa che li conduceva a designare le realtà romane per mezzo di parole greche, e per giunta di parole greche consacrate dall’uso classico (basileuv", dhmokrativa, politeiva, oJmovnoia, ecc.), tutto un lessico che dava il senso di una misura comune tra il mondo greco di un tempo e la realtà presente. L’Impero

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romano appariva familiare, e non straniero, nella misura in cui le parole greche di sempre permettevano di designarlo. Si effettuava un’appropriazione retorica dell’Impero, che iniziava dalle parole. Con le parole venivano i testi, la letteratura. La scrittura retorica greca dell’epoca romana, in effetti, è sovraccarica di reminiscenze, di giri di frase improntati agli autori classici, di citazioni e di allusioni letterarie. Anche quando evocano le realtà più contemporanee e più concrete, gli oratori passano per il tramite di un autore canonico: nel discorso In onore di Roma di Elio Aristide, per esempio, le abitazioni di Roma (le celebri insulae) sono descritte con riferimento ad un passaggio di Omero; l’elogio dell’attività portuale di Ostia richiama il Panegirico di Isocrate (a proposito del Pireo); la rinascita delle città greche sotto il dominio romano è evocata attraverso il mito di Er della Repubblica di Platone; la descrizione della legione romana si carica di un ricordo omerico (i Mirmidoni di Achille), e la tattica della “tartaruga” per mezzo di una citazione di Euripide. Inoltre, le citazioni letterarie erano accompagnate da richiami alla mitologia o alla storia. Dinanzi a tale fenomeno, si è spesso pensato a degli automatismi scolastici o ad uno sfoggio di cultura: ma il significato reale di questo metodo è più importante. Esso rappresentava, da parte degli oratori greci, la volontà di pensare il fatto romano per mezzo delle categorie strutturali del loro pensiero, di acclimatare Roma sottomettendola ai loro riferimenti di Greci. Le autorità della cultura greca erano convocate per dire Roma, e l’Impero era giudicato attraverso le loro parole, i loro concetti. Ancora un punto fondamentale: l’invenzione e la disposizione dei discorsi di elogio si ispiravano apertamente ai precedenti offerti dai maestri dell’eloquenza greca d’un tempo. A livello di concezione dell’argomento, degli schemi, anche dei tovpoi, il peso dei classici era considerevole, come rivela, ad esempio, il discorso In onore dell’imperatore dello Pseudo-Aristide, rivolto ad un imperatore di III secolo d.C., che può essere Filippo l’Arabo23. Echi e citazioni mostrano che l’autore ha preso a modello due elogi del IV secolo a.C., l’Evagora di Isocrate e l’Agesilao di Senofonte. Egli segue lo stesso piano di questi autori e prende in prestito da loro costruzioni e artifici di presentazione. L’imperatore romano che aveva celebrato il Millenario di Roma e che regnava su tutto il Bacino Mediterraneo è così pensato sul modello di due re, rispettivamente di Cipro e di Sparta, vissuti seicento anni prima, e che non hanno dovuto la loro notorietà se non alla reputazione dei loro panegiristi. Filippo l’Arabo è lodato attraverso il filtro di Isocrate, Senofonte, Platone. Il suo merito, secondo il panegirista, consiste nel realizzare gli ideali definiti dal pensiero greco. I soggetti romani dell’elogio non erano, dunque, considerati soltanto per sé stessi, ma anche, forse soprattutto, in ragione della loro conformità ai va23

Or. 35.

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lori e agli ideali della Grecia arcaica e classica. Si trattava di una interpretatio Graeca, di una lettura ellenica dell’Impero, sulla quale si fondava l’adesione. La dominazione romana veniva presentata come un fenomeno intelligibile in termini greci e conforme ai criteri politici greci; a questo prezzo, l’Impero appariva benefico per le popolazioni assoggettate. L’interpretatio Graeca proclamava l’orgoglio dei Greci, il loro attaccamento al loro passato, alla loro lingua, alla loro cultura. Essa aveva funzione di affermazione identitaria. Donde un messaggio sfumato e sottile, che esprimeva l’adesione e la lealtà verso l’Impero, ma abbinandole a condizioni politiche e culturali che dovevano essere rispettate. La dominazione romana era accettata nella misura in cui si poteva dire che era filellenica e conforme ai valori greci. Non bisogna dunque fidarsi delle apparenze. Attraverso l’elogio, è quasi una sorta di negoziazione che si svolge, almeno a livello simbolico. Gli elogi dei sofisti, scritti in greco, da Greci, in nome di interessi greci, proponevano una lettura fiera ed interessata della realtà dell’Impero; essi ponevano i termini dell’adesione ellenica alla dominazione romana. Secondo questa ottica ellenocentrica, la missione dell’imperatore era semplice: essa consisteva nel provvedere alla sicurezza e al benessere dell’Oriente greco, proteggendo l’Impero dai barbari, facendo delle elargizioni e ricordandosi sempre che era stato un Greco ad aver accolto Enea. 3.4. Elogio presente, elogio assente Dione di Prusa, in quanto sofista e filosofo (come dice Filostrato), ha usato l’elogio per esprimere ammonimenti morali e politici. I suoi discorsi Sulla regalità furono composti sotto Traiano, probabilmente negli anni 100-105 d.C., ed hanno l’obiettivo di definire cosa deve essere il potere monarchico, in cosa consiste il suo corretto esercizio e quali sono gli errori o i vizi da cui esso deve guardarsi. Nel terzo, espressamente rivolto all’Imperatore e pronunciato in sua presenza, Dione afferma di conoscere personalmente l’imperatore e si considera in grado di esprimere un parere al suo riguardo24. Perciò, fin dall’inizio, egli si impegna nello sviluppo della sua glorificazione, vantando la felicità di cui Traiano stesso gode, grazie alle sue virtù, e di cui fa beneficiare i suoi sudditi25. Ma tutt’a un tratto Dione si accorge di parlare da encomiasta e si interrompe: “Non dico questo per adulare”. Segue un pezzo contro la kolakeiva26. Questa tirata prende di mira unicamente l’adulazione, ossia l’elogio immeritato27, e non si applica al vero elogio, che è, al contrario, dice 24 25 26 27

Or. 3,1-2. Or. 3,3-11. Or. 3,12-24. Par. 16: adikôs epainein.

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Dione, la cosa più bella e più giusta che ci sia. Non ci sarebbe, dunque, alcun ostacolo di principio alla prosecuzione dell’elogio di Traiano, a condizione che questo fosse fatto in maniera giusta e meritata. Eppure, con una decisione caratteristica, Dione preferisce rinunciare non soltanto all’adulazione, cosa che andava da sé, ma anche ad ogni elogio28. A partire da questo momento, il discorso si trasforma in un trattato filosofico sulla monarchia e sul sovrano ideale, la cui applicazione a Traiano resta implicita. Si vedono tutta l’ambiguità e le contorsioni di questo basiliko;" lovgo" abortito. Il sofista filosofo non si accontenta di sottolineare la sua reticenza nei confronti della retorica, ma suggerisce al contempo l’impossibilità di fare un elogio dell’imperatore. Implicitamente, Dione ricorda a Traiano (allo stesso modo di come fa, attraverso molteplici maschere, anche negli altri discorsi Sulla regalità) che non è perfetto, che non deve ascoltare gli adulatori, che deve al contrario correggersi, imitare i buoni modelli e trarre profitto dagli ammonimenti. Al contrario, ci sono casi in cui l’elogio è un’opposizione per il solo fatto di esistere. Così, quando l’elogio concerne un personaggio mal visto dalle autorità, tutto il discorso appare come un atto di opposizione: è per questo motivo che Tiberio vietò di pronunciare l’orazione funebre di Germanico a Roma29, ed è per questo stesso motivo che Libanio temeva di diffondere l’ejpitavfio" che aveva scritto in onore di suo zio e la monodia su Giuliano30. 3.5. Riflessioni disilluse Ci sono infine, negli elogi retorici della Seconda Sofistica, dei passaggi puntuali che esprimono un’attitudine disillusa nei riguardi dell’Impero romano. Il procedimento del discorso figurato qui messo in atto consiste nel far scivolare all’interno del discorso una riflessione incidentale, che proietta sull’insieme della dimostrazione una nuova luce. Tale procedimento è analizzato dallo Pseudo-Dionigi di Alicarnasso31. Un esempio si incontra nel Discorso Panatenaico di Elio Aristide. In questo discorso, Aristide tesse l’elogio di Atene, dai tempi mitologici fino alla battaglia di Cheronea (338 a.C.). Ma c’è un passaggio in cui l’autore prende in considerazione la situazione attuale, per lodare la fortuna di Atene sotto la dominazione romana. Questo passaggio è ben nascosto all’interno dell’immenso discorso e difficile da trovare32. 28

Or. 3,25. Tac., ann. 3,5,2. 30 P. PETIT, Recherches sur la publication et la diffusion des discours de Libanios, “Historia” 5 (1956), 486-489. 31 Rhet. 9,6. 32 Or. 1,331-335. 29

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In esso, Aristide riconosce che la situazione di Atene è cambiata e precisa che la nuova situazione è dovuta all’“impero attuale”, ossia l’Impero romano, che non viene nominato. È evidente che si tratta dell’Impero romano, come precisano gli scolî. Seguendo un metodo cui iniziamo ad abituarci, Aristide non esprime alcuna critica. Al contrario, egli loda la fortuna di Atene sotto il potere di Roma e mostra la sua lealtà formulando, a due riprese, l’augurio che questo potere duri per sempre – conformemente all’uso, in vigore al suo tempo, di pregare per l’eternità dell’Impero. Sotto il dominio romano, Atene è felice, dice, poiché è libera da tutte le responsabilità politiche e militari che aveva un tempo, e continua a godere di onori e preminenza. Insomma, si è sbarazzata degli inconvenienti e non le restano che i vantaggi. Dunque, va tutto per il meglio? Esaminiamo il testo più da vicino e notiamo due sfumature: Atene è oggi “quasi” (mikrou` dei`n) tanto felice quanto in passato, e “non le si augurerebbe facilmente” (mh; rJa/divw") di tornare alla situazione precedente. Se si dà a queste parole tutto il loro peso, esse tradiscono una forte riserva e gettano un dubbio sull’elogio di Roma in corso. Su cento pagine di racconto mitologico e storico, queste osservazioni occupano in tutto dieci linee. Ma esse pongono la questione, essenziale, della situazione di Atene nell’Impero romano (e, attraverso Atene, della situazione di tutti i Greci), e suggeriscono che la valutazione di tale situazione non è semplice. Era il tema scottante, il cuore del problema. Proprio per questo motivo, credo, Aristide non ha voluto passare il tema sotto silenzio, ma non l’ha voluto neppure abbordare frontalmente. Ha ritenuto più abile, o più prudente, ricorrere ad un procedimento di discorso figurato, introducendo nel suo testo, fugacemente, alcune parole che portano lontano. Quel “quasi” (mikrou` dei`n) è una pepita. Spettava agli ascoltatori e ai lettori scoprirla e tirare delle conclusioni da sé stessi, per conto loro. *** In conclusione, occorre ricordare alcune verità generali. Non è perché i Greci accettavano la dominazione romana e collaboravano con essa che ne erano soddisfatti. Non è perché essi ne vedevano i vantaggi che vi aderivano. Non è perché occupavano buone posizioni nell’Impero che erano ciechi agli altri aspetti della situazione. I Greci, da sempre, avevano la certezza della loro differenza e della loro superiorità in rapporto agli altri popoli, anche in rapporto ai Romani. Perciò, non bisogna accettare troppo rapidamente quell’impressione di adesione totale e placata che danno gli elogi della Seconda Sofistica. Da una parte, la collaborazione tra Greci e Romani all’interno dell’Impero era una realtà; ma dall’altra parte, alcuni Greci dell’epoca imperiale nutrivano sentimenti contrastanti verso l’Impero romano e non dimenti-

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cavano il glorioso passato ellenico. Ci sono sempre motivi d’insoddisfazione: sarebbe, dunque, imprudente pensare ad un’approvazione totale. È ben noto che certi autori come Dione di Prusa e Luciano, in alcuni dei loro scritti e in certi periodi della loro vita, hanno proferito critiche e manifestato rapporti difficili con l’Impero romano. Queste osservazioni spiegano perché l’elogio retorico è potuto diventare uno strumento di comunicazione molto sottile tra le mani dei sofisti greci. Dietro lo psittacismo e le iperboli, si colgono messaggi, rivendicazioni, messe in guardia, espressioni di fierezza, di amor proprio, di cattivo umore. Nei grandi maestri, come Dione di Prusa ed Elio Aristide, i messaggi sono particolarmente complessi; anche particolarmente sfalsati, poiché queste personalità d’eccezione ostentavano un vissuto particolare: Dione filosofo, ex esiliato, Aristide eletto di Asclepio. Evidentemente, occorre molta prudenza nell’interpretazione, dato che i sottintesi, per definizione, sono difficili da cogliere e dimostrare. Sulla questione del rapporto tra le élites ellenofone e l’autorità romana, questione delicata, la retorica epidittica ha permesso forme di espressione attutite e discorsi che la danno a bere, in cui attese, condizioni e incrinature si esprimevano dietro l’apparenza dell’approvazione più entusiasta. Resterebbe da chiedersi cosa i Romani, oggetto di questi elogi, pensassero di tutto ciò. A mio avviso, non un granché. Non bisogna sopravvalutare l’impatto dei discorsi retorici greci sui Romani. Certo, esistevano Romani colti utraque lingua ed imperatori filelleni, ma l’amministrazione romana aveva altre preoccupazioni ed altre priorità che la retorica greca. Roma lasciava dire.

PANEGIRISTI E CREAZIONE DEL CONSENSO NELL’OCCIDENTE LATINO FRANCA ELA CONSOLINO

Parlare di creazione del consenso nell’antichità non è senza rischi, non solo per l’anacronismo inevitabile nell’applicare un concetto moderno ad un passato in cui non c’è comunicazione di massa, ma anche perché la documentazione a noi disponibile in genere non è tale da informarci sull’impatto e l’eventuale influenza di messaggi trasmessi dalla produzione artistica, epigrafica, letteraria. Nel caso dell’encomio, di cui mi occuperò in questa sede, ignoriamo (o quasi) come abbiano volta per volta reagito i destinatari di comunicazioni tese ad ottenere plauso, a scongiurare eventuali dissensi, a confutare in modo più o meno implicito possibili obiezioni. Difficile anche determinare con qualche precisione il pubblico degli ascoltatori; ancor meno quello dei lettori. E trattandosi di scritti destinati alla recita in occasioni solenni, l’analisi del nudo testo ci espone al rischio ulteriore di sopravvalutarne la significatività. In situazioni fortemente spettacolarizzate, come poteva essere un adventus1, la recita di un panegirico sarà stata infatti solo un episodio nel contesto di una articolata cerimonia il cui sfarzo possiamo immaginare grazie al reportage di Ammiano sull’ingresso di Costanzo II a Roma. Riconosciuti questi obiettivi limiti all’indagine, bisognerà chiedersi a quali condizioni un encomio possa farsi promotore di consenso. Nel rievocare la sua esperienza di retore alla corte di Milano, Agostino, ormai vescovo di Ippona, ricorda le sue ambizioni di allora («aspiravo avidamente a onori, guadagni, matrimonio») in stretta connessione con l’angoscia provata prima di recitare un «panegirico all’imperatore, pieno zeppo di menzogne che avrebbero guadagnato al loro autore il plauso di un pubblico in grado di apprezzarle»2. Il panegirico sarebbe dunque un discorso menzognero, recitato con l’unico scopo di piacere a chi se ne intende e di favorire la scalata sociale di chi lo pronuncia. Che nella tarda antichità il panegirico fosse anche questo – forse soprattutto questo – ce lo confermano le carriere di vari panegiristi, di lingua greca e latina3. D’altra parte, la lettura dei panegyrici Latini ci 1

Sull’adventus vd. MACCORMACK 1981. Conf. VI 6,9 inhiabam honoribus, lucris, coniugio ... Quam ergo miser eram et quomodo egisti, ut sentirem miseriam meam die illo, quo, cum pararem recitare imperatori laudes, quibus plura mentirer, et mentienti faveretur ab scientibus. Cito nella trad. italiana di G. Chiarini, SANT’AGOSTINO 1993, II, 107. Sull’identificazione di questo panegirico con quello del 22-11-385 per Valentiniano II cfr. commento ad loc. 3 Vd. GIARDINA - SILVESTRINI, 19932, 599-602. 2

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mostra come gli oratori dispiegassero le loro abilità tecniche per compiacere il princeps dando massimo risalto ai suoi meriti, senza rinunciare ove possibile a tener conto anche degli ascoltatori, facendosi portavoce di qualche loro esigenza4. Ma discorsi con tali caratteristiche, generalmente tenuti da oratori che conoscono i trends della politica governativa e se ne fanno intelligenti interpreti5, esprimono consenso più di quanto non lo costruiscano. Per costruire consenso, non basta che il discorso di lode susciti apprezzamento per le doti oratorie di chi lo recita: è necessario che esso trasmetta al suo pubblico (ascoltatori innanzitutto, ma anche lettori della prima ora) un messaggio capace di influenzarne i punti di vista, offrendo o tacendo notizie che potrebbero modificarne l’opinione e orientando la lettura di quegli eventi che siano già di pubblico dominio. In entrambe le evenienze, perché un panegirista possa incidere o tentare di incidere sulle convinzioni del suo pubblico suggerendogli la ‘giusta’ chiave interpretativa, bisogna che ad una notevole abilità tecnica si accompagni una piena consapevolezza sia della situazione politica del momento sia dei programmi, delle aspettative e – all’occorrenza – anche dei problemi del personaggio che egli si appresta a lodare. Solo così potrà mettere efficacemente in atto le strategie comunicative più consone alla trasmissione di un preciso messaggio politico. Riferiti a periodi e situazioni fra loro diversi e composti sia in metro (Claudiano, Sidonio) che in prosa (Cassiodoro), i testi di Claudiano, Sidonio Apollinare e Cassiodoro su cui ho scelto di soffermarmi testimoniano tutti un coinvolgimento attivo del panegirista, impegnato a proporre un’immagine del dedicatario atta a favorirne aspirazioni e progetti, ad esaltarne il ruolo pubblico nella situazione presente e a porre, nei limiti del prevedibile, anche le premesse di sviluppi futuri6. Di questi elogi conosciamo le circostanze di composizione e i destinatari immediati; abbiamo inoltre la possibilità di metterli in rapporto con altri testi dello stesso autore, e – per Claudiano e Sidonio – ad essi omologhi. A partire da questi presupposti, da ritenersi ottimali per la nostra indagine, tenteremo di appurare se a tutti i testi presi in esame possa riconoscersi la funzione di creare consenso; esamineremo le strategie messe in atto dai panegiristi in dipendenza da posizione e peso politico del personaggio elogiato; vedremo in che modo sfruttano gli eventuali vantaggi derivanti da un grado di informazione superiore a quello del loro pubblico o di gran parte di esso.

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Come propone SABBAH 1984, spec. p. 371. Vd. REES 2002, 187-191. 6 La verifica di quest’ultimo aspetto è possibile soprattutto per Claudiano, la cui ampia messe di carmi intesi a promuovere la politica di Stilicone consente – come ha mostrato CAMERON 1970 – di seguire i progressivi adeguamenti del tiro in base al modificarsi delle situazioni. Ma anche la Varia di Cassiodoro che esaminerò offre in tal senso alcuni spunti significativi, come spero di poter dimostrare. 5

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1. Claudiano, Carm. I e XXI-XXIV Pronunciati a cinque anni di distanza uno dall’altro – per i fratelli Probino e Olibrio il primo (Carm. I), e in onore di Stilicone il secondo (Carm. XXIXXIV) – i due panegirici claudianei che saranno oggetto di analisi celebrano entrambi il conferimento del consolato a persone diverse dal princeps e condividono tale caratteristica con un terzo panegirico, quello per Mallio Teodoro (Carm. XVI s.), che può costituire un utile termine di paragone. 1.1. Promozione dell’immagine: il panegirico per Probino e Olibrio Recitato a Roma ai primi di gennaio del 395, il panegirico di Anicius Hermogenianus Olybrius e Anicius Probinus, rampolli della famiglia più in vista dell’aristocrazia senatoria cristiana perché figli del potentissimo Sesto Claudio Petronio Probo da poco defunto7, darà avvio alla carriera e al successo di Claudiano come poeta latino. Il carme si apre con un’invocazione al sole: che rifulga più luminoso per segnare l’inizio di un anno che reca il nome di due consoli appartenenti ad una famiglia di cui egli ben conosce la gloriosa tradizione (vv. 1-10). Dopo averne ricordato i fasti, dando speciale rilievo al padre dei due giovani (vv. 11-70), il poeta chiede alla Musa di insegnargli qual dio abbia fatto loro un così gran dono (v. 71 s.). Desiderosa di rendere grazie a Probo, la dea Roma in persona si è recata da Teodosio, appena reduce dalla vittoria del Frigido, per chiedergli di conferire il consolato a Probino e Olibrio, da lei stessa allevati e cui non anteporrebbe né i Decii, né i Metelli, né gli Scipioni né i Camilli (vv. 73-163). Teodosio acconsente con gioia: il desiderio della dea è anche il suo: la natura dovrà alterare il suo corso prima che egli possa dimenticarsi di Probo (vv. 164173). La notizia della designazione giunge nell’Urbe, i sette colli risuonano delle grida di plauso e Proba, madre dei due consoli, ne tesse le trabee dorate e i serici ornamenti (vv. 174-204). Non appena i nuovi consoli prendono lo scettro e indossano la veste cerimoniale, Giove tuona confermando il suo assenso. Lo sente Tiberino, che per conoscerne le cause abbandona la sua sede e si trasferisce sull’isola omonima: da lì – attonito e reso muto dalla gioia – assiste al processus consularis. Recuperata la voce, egli esprime legittimo orgoglio per i due fratelli e ordina alle ninfe di apprestare un banchetto destinato a ripetersi per tutti gli anni a venire nel giorno anniversario di questa celebrazione (vv. 205-265). Chiudono il carme le parole bene auguranti del poeta, il quale auspica per l’anno che ora si apre un decorso che per più aspetti ricorda l’età dell’oro (vv. 266-279). 7

Vd. TAEGERT 1988, 25-29 (su Probino e Olibrio) e 20-24 (su Probo).

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Già da questa breve sintesi emerge la struttura anomala di un panegirico che, trovando scarsa materia di lode nell’ancor breve vita dei dedicatari8, assolve il suo compito dando amplissimo sviluppo alle parti sulla dea Roma e il dio Tiberino, due sezioni che insieme equivalgono a circa tre quinti del carme9. Il diretto intervento di Roma, rafforzato dall’entusiastica partecipazione del fiume indissolubilmente legato alla storia della sua grandezza10, afferma la preminenza della gens Anicia in seno all’aristocrazia senatoria romana. Non meno significativo a tal fine il ruolo attribuito a Teodosio, rappresentato come unico signore della terra (v. 115 s. dominum gavisa coronat / terra suum), al quale Roma rivolge reverente la sua preghiera11: la pronta adesione del princeps alla richiesta e il calore con cui egli menziona Probo proclamano il singolare privilegio attribuito dal dominatore del mondo a questa nobile famiglia cristiana. Un fatto negativo qual è l’assenza di praxeis da elogiare viene così trasformato nel suo contrario, perché a quella carenza il poeta sopperisce con l’inserzione di due scene mitiche latrici di un riconoscimento per l’intera gens cui i due consoli appartengono. Riconoscimento che si realizza sul duplice piano della tradizione, rappresentata dalle due divinità, e del presente, rappresentato dall’imperatore. Come ha mostrato l’analisi puntuale ed esaustiva di Stephen Wheeler, nel contesto dell’intero poemetto questo messaggio è confermato da una fitta trama di rinvii intra e intertestuali, che – oltre a suggerire un’assimilazione di Olibrio e Probino ai gemelli effigiati sullo scudo della dea – attraverso un sottile gioco di riprese poetiche, da Virgilio in particolare, addita nei due consoli cristiani gli eredi dell’intera tradizione di Roma12. Epicizzante e profana, la musa claudianea passa sotto silenzio la fede del principe e dei dedicatari: se questo silenzio aiuta a inserire gli Anicii nel continuum della gloriosa tradizione dell’Urbe13, la loro identità cristiana è però implicita nel plauso di Teodosio, significativamente raffigurato mentre si riposa subito dopo la vittoria da lui riportata al Frigido su Eugenio, che aveva avuto il sostegno dell’aristocrazia senatoria pagana. 8 TAEGERT 1988, 26 s. ipotizza che Olibrio, il maggiore dei due, avesse all’epoca poco più di 14 o 15 anni. La precocità della sua nomina a console è confermata da Hier. Ep. 130,3 (consul quidem in pueritia). 9 Si tratta di 158 versi – 101 per Roma (vv. 73-173) e 57 per Tiberino (209-265) – su un totale di 279. Sull’articolazione del panegirico si rinvia allo schema di TAEGERT 1988, 43. 10 Vd. ROBERTS 2001. Sullo spessore letterario e ideologico delle ricorrenze di Roma e Tiberino in Claudiano vd. pure LONG 2004. 11 Vd. in particolare vv. 73-77 postquam fulmineis inpellens viribus hostem / belliger Augustus trepidas laxaverat Alpes, / Roma Probo cupiens dignas persolvere grates / sedula pro natis dominum flexura rogando / ire parat. La posizione subordinata di Roma rispetto al princeps è messa in rilievo da SCHINDLER 2009, 69-72. 12 Sono i risultati cui giunge WHEELER 2007, cui si rimanda; le corrispondenze fra Probino e Olibrio da un canto e Romolo e Remo dall’altro erano già sottolineate da TAEGERT 1988, 48. 13 WHEELER 2007, 116-118.

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Nei circa novanta versi non monopolizzati da Roma e Tiberino, dominano i ritratti dei genitori di Olibrio e Probino: il defunto Sesto Claudio Petronio Probo e Anicia Faltonia Proba. Esteso per 32 versi (vv. 31-62) – pressappoco quanti complessivamente ne toccano ai suoi figli14 – l’elogio di Probo sostanzialmente coincide con quello del genos15. Claudiano ricorda come lo scomparso con le sue ricchezze avesse inondato folle di beneficati, spandendo più oro del Tago e del Pattolo16: è questa la tacita confutazione di giudizi assai meno benevoli, di cui ci recano testimonianza sia le riserve espresse da Ammiano sulle grandi fortune di Probo e sull’uso eticamente disinvolto che questi ne faceva17, sia la notizia del Chronicon geronimiano sull’avidità di cui aveva dato prova da prefetto al pretorio di Illirico, Italia e Africa, spogliando i propri amministrati18. Proba, cui sono dedicati 28 versi su un totale di 27919, è ritratta più avanti, mentre – perfetta incarnazione della matrona romana – è intenta a intessere di fili d’oro le trabee dei figli20: a vederla si potrebbe credere che sia la Pudicitia o Giunone (vv. 194-196). Sbiadite restano invece le figure dei due consoli: 14

Cfr. infra, n. 21. Agli avi (il nonno paterno Petronius Probinus e il nonno materno Q. Clodius Hermogenianus Olybrius) sono dedicati solo due versi (v. 29 s.), mentre il resto (vv. 31-62) riguarda Probo. 16 Carm. I 42-54 hic non divitias nigrantibus abdidit antris / nec tenebris damnavit opes; sed largior imbre / sueverat innumeras hominum ditare catervas. / quippe velut denso currentia munera nimbo / cernere semper erat, populis undare penates / adsiduis, intrare inopes, remeare beatos. / praeceps illa manus fluvios superabat Hiberos / aurea dona vomens †si quis† tellure revulsa / † sollicitis fodiens miratur collibus aurum: / quantum stagna Tagi rudibus stillantia venis / effluxere decus, quanto pretiosa metallo / Hermi ripa micat, quantas per Lydia culta / despumat rutilas dives Pactolus harenas. Per i vv. 48-54 non accolgo l’atetesi recepita nel testo da TAEGERT 1988, 111 s. per le ragioni illustrate da CHARLET 2000, 136-139, n. 3, cui rimando per la storia del problema e la sua discussione. 17 Coonestando anche le rapine dei suoi protetti: cfr. Ammian. XXVII 11,1-3 Probus ... claritudine generis et potentia et opum amplitudine cognitus orbi Romano, per quem universum paene patrimonia sparsa possedit, iuste an secus, non iudicioli est nostri. hunc ... Fortuna vehens praepetibus pinnis, nunc beneficum ostendebat et amicos altius erigentem, aliquotiens insidiatorem dirum et per cruentas noxium simultates. … Marcebat absque praefecturis, quas iurgiis familiarum ingentium capessere cogebatur numquam innocentium per cupiditates immensas, utque multa perpetrarent impune, dominum suum mergentium in rem publicam. A leggere nei versi in lode di Probo una confutazione del suo ritratto negativo in Ammiano è stato per primo DÖPP 1980, 58, seguito da TAEGERT 1988, 37; CHARLET 2000, 134 s. Concordo con TAEGERT 1988 nel ritenere – e la notizia geronimiana (vd. nota seguente) sembra confermarlo – che lo storico non fosse il solo a nutrire perplessità sulla condotta di Probo: l’iperbolica descrizione della sua generosità controbatterebbe pertanto un’opinione non priva di credito nell’Urbe. 18 Hier. Chron. s.a. 372 Probus praefectus Illyrici iniquissimis tributorum exactionibus ante provincias quas regebat, quam a barbaris vastarentur, erasit. 19 Vv. 177-204, ma l’autenticità dei vv. 201-204 è dubbia: cfr. infra, n. 36. Su Proba vd. TAEGERT 1988, 26 s. 20 Carm. I 177-182 laetatur veneranda parens et pollice docto / iam parat auratas trabeas cinctusque micantes / stamine, quod molli tondent de stipite Seres / frondea lanigerae carpentes vellera silvae, / et longum tenues tractus producit in aurum / filaque concreto cogit squalere metallo. 15

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destinatari di una manciata di versi spalmati su tutto il carme21, sono assai poco caratterizzati e indistinguibili uno dall’altro22. Ma che le qualità personali degli elogiati non fossero una conditio sine qua non per la comunicazione di un messaggio politico nessuno lo prova meglio di Claudiano. A prescindere dai panegirici per l’insignificante Onorio, dove la materia di encomio è fornita essenzialmente dal legame con Teodosio e soprattutto con Stilicone23, illuminante al riguardo è il panegirico che il poeta compose nel 399 per il consolato di un altro personaggio diverso dall’imperatore: il filosofo neoplatonico Mallio Teodoro. Autore di un trattato de metris a noi giunto e destinatario del de beata vita di Agostino24, Teodoro è per molti aspetti l’esatto contrario di Probino e Olibrio. Di origini non nobili, egli è il primo della sua famiglia a rivestire il consolato, cui non riusciranno a pervenire né il fratello Lampadio né il figlio. Personalità di spicco per la sua cultura nell’ambiente milanese, egli doveva la propria ascesa soprattutto alle qualità personali, mentre la sua nomina a console si giustifica molto probabilmente con l’opportunità di rinviare quella di Stilicone, in attesa che si attutisse l’eco della condanna come hostis publicus decretatagli dal senato di Costantinopoli nel 39725. Claudiano presenta il consolato di Mallio Teodoro come culmine ad un tempo della virtus, che è già premio a se stessa26, e dell’honor27. L’elogio, che rispetta la scansione propria del discorso encomiastico, traccia il profilo di uno studioso prestato alla vita pubblica, cui partecipa con la competenza di un grand commis e il distacco di un filosofo. Dal suo ritiro agreste, in cui dopo una prima parentesi politica si dedicava a studi scientifici e letterari, egli è chiamato a diventare prefetto al pretorio delle Gallie dalla Giustizia, che lo esorta (vv. 135-173) anche a nome di Clementia, Pietas, Pax, e Fides, tutte tor21 Riguardano direttamente Olibrio e Probino solo i vv. 61-70; 193 s.; 142-155; 236.246: cfr. TAEGERT 1988, 36. Inoltre, anche se lo schema menandreo è abbastanza rispettato (mancano del tutto solo physis e anatrophè: vd. TAEGERT 1988, 51), i suoi sviluppi sono ridotti al minimo. 22 La menzione congiunta, che aiuta ad enfatizzare la loro unanimità, e l’assenza di una diversificazione può ragionevolmente spiegarsi con la loro giovane età: lo osserva TAEGERT 1988, 39, che ricorda a contrasto la diversa caratterizzazione di Massimiano e Costantino che – pur nell’unanimità – li differenzia fra loro nell’anonimo Paneg. VII (VI), dedicato ad entrambi. 23 Il richiamo a Teodosio è specialmente forte nei panegirici per il III e IV consolato; nell’interrelazione fra lodi del principe ed elogio di Stilicone, a partire dalle nozze di Onorio con Maria il poeta aggiunge, dandogli grande rilievo, anche lo speciale rapporto socer-gener, su cui si rinvia al bel contributo di GUALANDRI 2010. 24 Su Mallio Teodoro, già destinatario di un feroce epigramma claudianeo (c.m. 21), vd. SIMON 1975, 60-71; PLRE I 900-902 (Flavius Mallius Theodorus 27). Il de metris è pubblicato in Gramm. VI 585-601. 25 Vd. CAMERON 1970, 125. 26 Carm. XVII 1 ss. ipsa quidem Virtus pretium sibi, solaque late / Fortunae secura nitet, nec fascibus ullis / erigitur plausuve petit clarescere vulgi. 27 Carm. XVII 14 ss. accedunt trabeae: nil iam, Theodore, relictum, / quo virtus animo crescat vel splendor honori: / culmen utrumque tenes.

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nate sulla terra sotto il regno di Arcadio e Onorio28. Equilibrato e giusto, non condizionato dall’odio o dal favore, insensibile all’adulazione e incorruttibile; dis proximus perché mosso dalla razionalità e non dall’ira (v. 227 dis proximus ille, / quem ratio, non ira movet), alieno dalla violenza, dotato di gravitas ma non tronfio, di eloquio elegante (vv. 214-255), per tutte queste qualità egli si è guadagnato l’attenzione del principe e il conferimento del consolato. La designazione del nuovo console, maturata dopo il ritorno in terra delle virtù e specialmente voluta da Onorio (vv. 256-260), si inscrive in un clima che dà spazio ai talenti e riconosce i meriti29, grazie alla duplice cura di Stilicone e Onorio: nil licet invidiae, Stilicho dum prospicit orbi / sidereusque gener (v. 265 s.). Efficace illustrazione di questa felice realtà, la nomina di Mallio non reca oltraggio alla prestigiosa carica conferitagli: in questa trasparente allusione a Bisanzio, che in quello stesso anno ha invece contaminato la dignità consolare designando un eunuco a rivestirla30, le qualità di Mallio sono strumentali alla dimostrazione della superiorità morale di Onorio e del suocero su chi detiene il potere nella pars orientis: Arcadio e il suo plenipotenziario Eutropio, un eunuco e, soprattutto, un acerrimo nemico di Stilicone. Tuttavia, sebbene Mallio Teodoro sia presentato come funzionario e studioso di rango, e benché la Giustizia, cui è particolarmente caro, si scomodi per lui, il messaggio politico trasmesso dal suo panegirico riguarda il perfetto governo garantito da genero e suocero, mentre non mette in campo aspettative di tempi migliori che siano direttamente legate alla persona del dedicatario: Roma non interviene e nulla fa presagire l’inizio di una nuova età dell’oro. Non si collega in alcun modo al benessere della patria neppure l’auspicio che il nuovo console sia il primo di una trabeata domus in cui tale carica passi di padre in figlio31, e strettamente legati alla persona del celebrando sono sia l’augurio di duplice gloria, politica e letteraria32, sia l’aver attribuito alle Muse, per iniziativa di Urania, la decisione di celebrare i ludi per il consolato (vv. 274-340). 28 Carm. XVII 166 ss. nonne vides ut nostra soror Clementia tristes / obtundat gladios, fratresque amplexa serenos / adsurgat Pietas, fractis ut lugeat armis / Perfidia et laceris morientes crinibus hydri / lambant invalido Furiarum vincla veneno? / exultat cum Pace Fides. iam sidera cunctae / liquimus et placidas inter discurrimus urbes. / nobiscum, Theodore, redi. 29 Carm. XVII 261 ss. crescite, virtutes, fecundaque floreat aetas / ingeniis: patuit campus certusque merenti / stat favor; ornatur propriis industria donis. 30 Carm. XVII 266-269 non hic violata curulis, / turpia non Latios incestant nomina fastos; / fortibus haec concessa viris solisque gerenda / patribus et Romae numquam latura pudorem. L’elenco di ciò che il consolato di Teodoro non fa e non è corrisponde in negativo ad altrettante accuse che di lì a poco Claudiano rivolgerà ad Eutropio: vd. FARGUES 1933, 83; SIMON 1975 a v. 268 s. 31 Carm. XVII 336 ss. accipiat patris exemplum tribuatque nepoti / filius et coeptis ne desit fascibus heres. / decurrat trabeata domus tradatque secures / mutua posteritas servatoque ordine fati / Mallia continuo numeretur consule proles. 32 Carm. XVII 333 ss. consul per populos idemque gravissimus auctor / eloquii, duplici vita subnixus in aevum, / procedat pariter libris fastisque legendus.

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Assente nel panegirico del pur meritevole Mallio Teodoro, il rapporto di causa ed effetto fra il nuovo consolato e la salute di Roma è centrale invece nel panegirico di Probino e Olibrio, e poco importa che sulle loro persone prevalga il rilievo dato alla famiglia, perché è proprio il ruolo dell’intera famiglia che il poeta intende esaltare. Nel suo elogio del casato, Claudiano in parte riprende e varia, e in parte anticipa, i temi di quella che con terminologia moderna potremmo impropriamente definire una campagna di promozione dell’immagine. Così, egli riprende e amplifica l’elogio della generosità di Probo già presente nel suo epitafio (CLE 1347 A, 14 parcus opum nulli, largus et ipse sui), con il quale concorda anche nel rilievo dato alla nobiltà della famiglia, i cui esponenti hanno sempre rivestito il consolato33. Claudiano riecheggia questa formulazione, ma nell’applicarla ai suoi dedicatari la argomenta a partire dal ramo materno, cui appartengono sia gli Amnii che gli Auchenii da lui menzionati34. Concentrando la propria attenzione sulla nobiltà di Proba, ancor viva e autorevole, Claudiano anticipa la lode che i figli le rivolgeranno dopo l’assunzione del consolato, in due iscrizioni a lei dedicate che la celebrano come figlia, sposa e madre di consoli35. Dopo questa menzione dei suoi avi, che danno lustro ai suoi figli, la nobile matrona torna da protagonista in un passo tanto più notevole in quanto – diversamente da quello su Probo – non risponde al normale schema del panegirico. È la scena che media il passaggio dalla prosopopea di Roma a quella di Tiberino. In essa, l’anziana nobildonna che attende alla tessitura delle trabee viene paragonata a ben tre divinità pagane36: prepara le vesti 33

CLE 1347 A, 3 s. consulibus proavis socerisque et consule maior, / quod geminas consul reddidit ipse

domos. 34 Carm. I 8-10 scis genus Auchenium, nec te latuere potentes / Amniadae; nam saepe soles ductoribus illis / instaurare vias et cursibus addere nomen. 35 CIL VI 1754 = D 1269 Aniciae Faltoniae Probae Amnios Pincios Aniciosque decoranti consulis uxori consulis filiae consulum matri, dedicata nel 395 da Anicio Probino, consul ordinarius, e da Anicio Probo, quaestor candidatus il quale nel 406, divenuto console, aggiunge due distici che ne danno notizia (il carme, che risale al 406, ben prima della morte di Proba, non è un epigramma funerario, come erroneamente sostenuto in PCBE 2,2, p. 1832), e CIL VI 1755 Aniciae Faltoniae Probae, fidei nobilitatis antiquae ornamento Anicianae familiae servandae / ac docendae castitatis exemplo consulum proli consulum matri, dedicata da Anicius Hermogenianus Olybrius e da sua moglie Anicia Iuliana. Per la datazione di queste e delle altre epigrafi dedicate dai due consoli fratelli (vd. infra, nn. 39 e 41) l’indicazione consul ordinarius, che accompagna il nome del dedicante, fa del 395 il terminus a quo, ma non è sufficiente per la datazione a quell’anno proposta dal Baronio. A una data sia pure di poco successiva (come proposto da TAEGERT 1988, 27, che colloca il matrimonio con Anicia Iuliana al più tardi nel 399) farebbero pensare soprattutto quelle a nome di Olibrio e Anicia Iuliana, a mio parere non tanto perché – come osserva TAEGERT, loc. laud. – i 15 (o 16) anni di Olibrio fossero troppo pochi per il matrimonio, quanto perché in tal caso Claudiano difficilmente avrebbe potuto esimersi dall’accennare con lode anche alla sposa di lui e avrebbe anche potuto introdurre un elemento di differenziazione fra i due consoli fratelli. 36 Non prendo in considerazione la quarta synkrisis con Teti, cui Proba sarebbe superiore perché è madre dei due consoli da cui l’anno prende nome (vv. 202-204 taceat Nereida nuptam / Pelion. O duplici fecundam consule matrem / felicemque uterum, qui nomina parturit annis!), perché parte di un contesto

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per i propri figli come Latona fa per Artemide e Febo37, potrebbe essere presa per la Pudicitia scesa dal cielo o per Giunone38. Il confronto con la Pudicitia anticipa un motivo presente nella seconda delle epigrafi sopra ricordate, che la definisce servandae ac docendae castitatis exemplum39. La sezione dedicata a Proba si chiude con l’affermazione che ella è degna del proprio coniuge e che di tanto è superiore alle altre donne, passate e presenti, di quanto il marito lo è stato rispetto agli altri uomini40. Coniuge digna Probo (v. 199) riprende una lode già espressa nell’epitafio metrico di Probo, che in chiusa la ricorda come unita ad uno sposo di lei degno e degna di condividerne il sepolcro: digno iuncta viro, digna simul tumulo (CLE 1347 A, 18). Claudiano agisce dunque di conserva con i committenti e con i suoi versi provvede a dare risalto a quella preminenza che – in modo più sobrio, ma non meno categorico – varie epigrafi si incaricheranno di ribadire (ricordiamo anche due iscrizioni che celebrano Probo come console e padre di consoli)41. La perfetta sintonia con l’immagine che questa potentissima famiglia ha voluto dare di sé è visibile anche nella speciale attenzione riservata a Proba, potente matriarca oltre che verisimile committente del carme. Non solo: il panegirico contribuisce alla fissazione di alcuni motivi che diventeranno topici nelle successive lodi degli Anicii: li ritroviamo ancora, una ventina di anni dopo, negli elogi tributati alla famiglia da Pelagio e Girolamo nelle rispettive epistole a Demetriade, la giovane figlia di Olibrio42. (vv. 201-204) che seri indizi fanno ritenere interpolato: sul passo, oggetto di ampia disamina in GNILKA 1975, 55-58, si vedano da ultimo le convincenti argomentazioni di CHARLET 2000, lxviii-lxx, alla cui discussione si rinvia. 37 Carm. I 183-194 qualis purpureas praebebat candida vestes / numinibus Latona suis, cum sacra redirent / ad loca nutricis iam non errantia Deli, / illa feros saltus et desolata relinquens / Maenala lassato certis venatibus arcu, / Phoebus adhuc nigris rorantia tela venenis / extincto Pythone ferens – tunc insula notos / lambit amica pedes ridetque Aegaeus alumnis / lenior et blando testatur gaudia fluctu –: / sic Proba praecipuo natos exornat amictu, / quae decorat mundum, cuius Romana potestas / fetibus augetur. 38 Carm. I 194-196 credas ex aethere lapsam / stare Pudicitiam vel sacro ture vocatam / Iunonem Inachiis oculos advertere templis: per la pudicizia di Proba, cfr. servandae ac docendae castitatis exemplo dell’iscrizione a lei dedicata nello stesso anno da Olibrio e Anicia Giuliana: CIL VI 1755 (vd. n. 35). 39 CIL VI 1755, citato a n. 36; VI 1756 Aniciae Faltoniae inlustrissimae et sanctissimae castissimae feminae, anch’essa dedicata da Olibrio e dalla moglie. Entrambe le iscrizioni sono richiamate da TAEGERT 1988, 197 nel commento a v. 194 s. 40 Carm. I 197-200 talem nulla refert antiquis pagina libris / nec Latiae cecinere tubae nec Graia vetustas. / Coniuge digna Probo; nam tantum coetibus extat / femineis, quantum superminet ille maritos. Sul tema, talmente diffuso da essere un luogo comune, vd. CHARLET 2000, 158, n. 6. Non prendo in considerazione, per la dubbia autenticità di v. 201 s. (vd. supra, n. 36) il motivo della competizione fra i due sposi nella virtù. 41 CIL VI 1752 Sexto Petronio Probo viro clarissimo consuli ordinario patri consulum (dedicata da Anicio Probino e Anicio Probo, che fa da pendant a quella di analogo tenore dedicata da Olibrio e la moglie: CIL VI 1753 Sexto Petronio Probo Anicianae domus culmini … consuli ordinario consulum patri). 42 Cfr. CONSOLINO 1992, 69-80.

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Sullo spessore politico da riconoscere a questo encomio i pareri non sono stati concordi. Al giudizio limitativo di Alan Cameron, che gli riconosceva solo la funzione di lodare gli Anicii43, sono andate contrapponendosi valutazioni sempre più positive, tese ad esaltare il significato politico del poemetto collocandolo nel più ampio contesto dei rapporti fra princeps e aristocrazia senatoria romana voluti da Teodosio dopo il Frigido44. Ma anche la più favorevole delle interpretazioni non credo basti ad attribuire a questo panegirico la funzione – o almeno il tentativo – di creare consenso. Fatto in sé eccezionale, la nomina dei due fratelli non è dipesa dai senatori, che non sono chiamati ad esprimere opinioni in merito; d’altra parte – con buona pace di Roma e Tiberino – non sono loro attribuiti compiti o poteri straordinari della cui opportunità convincere il senato. Pur dando voce al Selbstverständnis dell’aristocrazia e spazio alla volontà di Teodosio45, il carme più che un tentativo di convincere è un cogente invito – rivolto tanto ai cristiani vincitori quanto ai pagani sconfitti – ad una presa d’atto: con la benedizione imperiale, gli Anicii sono la famiglia al momento in auge dell’aristocrazia senatoria. Con Teodosio saldamente insediato a capo dell’impero e delle forze militari, l’unico particolare ruolo che essi possano svolgere è quello – peraltro mai dichiarato nel carme – di mostrare a chi non si sia ancora convertito come l’appartenenza cristiana ottenga il favore del princeps ed apra ampie prospettive di carriera46. Così, se non può considerarsi di routine l’elogio di due consoli fratelli, per di più adolescenti e privi di meriti personali, temo si debba continuare ad attribuirgli un «significato politico limitato»47: centrato sulla realtà romana (e non sulla corte, in cui risiede il potere decisionale), il panegirico proclama l’egemonia degli Anicii, offrendo un intelligente e abile contributo alla maggior visibilità di questa famiglia già in vista. 1.2. Creare consenso: il panegirico di Stilicone Il secondo panegirico claudianeo di cui intendo occuparmi fu composto a cinque anni di distanza dal primo e celebra anch’esso un consolato non imperiale. A rivestire la più prestigiosa magistratura di Roma è stavolta il ge43 CAMERON 1970, 35: «Claudian’s brief was to praise the Anicii, and this, no more and no less, is exactly what he did». La stessa valutazione è già in CAMERON 1969, 262: «The poem is devoted exclusively to the praises of the two consuls and their noble family: Theodosius is introduced at all solely in order that their praises should be sung by no lesser a person than the Emperor himself. Claudian shows no interest (as yet) in either Theodosius or his recent achievements for their hown sake». 44 Risultato ultimo e più compiuto di questa linea interpretativa è WHEELER 2007. 45 DÖPP 1980, 56-58. 46 Su questo punto vd. CAMERON 1969, 264 s. 47 «Begrenzte politische Bedeutung». La formulazione è di SCHMIDT 1976, 23.

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neralissimo vandalo Stilicone48, il quale – dopo il matrimonio della figlia con Onorio (398) e soprattutto dopo la caduta di Eutropio (agosto 399) – è finalmente emerso da una fase politica per lui molto delicata, che aveva toccato il suo punto più basso nell’estate 397, quando Costantinopoli lo aveva dichiarato hostis publicus. Oltre ad essere l’unico di cui Stilicone sia il dedicatario dichiarato, questo è il solo panegirico latino in tre libri (la sua estensione sarà superata soltanto dai 4 libri della Laus Iustini), i primi due recitati insieme a Milano in gennaio del 400, il terzo pronunciato a Roma nel mese successivo49. Concepiti come un unico insieme, i libri I-II corrispondono allo schema consigliato da Menandro per il basiliko;" lovgo"50, trattando il primo delle imprese belliche e il secondo delle azioni in tempo di pace. Dopo avere svolto temi tipici dell’esordio51, Claudiano ripercorre la carriera di Stilicone, ricordando le qualità da lui precocemente mostrate, e la sua partecipazione nella prima giovinezza (Stil. I 51 vix primaevus) a un negoziato in Persia, dove aveva infiammato d’amore le fanciulle, ottenuto la pace con il re e riportato successo nelle partite di caccia. A coronamento della sua virtus giunge il matrimonio con Serena, voluto da Teodosio che a lungo le ha cercato uno sposo degno (v. 72 s.). Per vendicare l’assassinio dell’amico Promotus egli inizia una campagna contro i Bastarnae, e non li distrugge solo perché viene fermato dall’imperatore (v. 115). Sempre in armi, a quelle sacrifica gli affetti familiari52, insanguinando di stragi le valli tessale e i fiumi della Tracia. Morendo, Teodosio gli aveva intanto affidato la terra (v. 141 iam tibi commissis conscenderat aethera terris), che non ebbe percezione dell’avvicendamento (v. 149 s. tantoque remoto / principe mutatas orbis non sensit habenas). Stilicone diventa così l’unica guida per la moltitudine dei popoli che vivono nell’impero, da dove sorge il sole a dove tramonta53. Obbedito dai soldati, che 48 Su cui vd. l’ormai classica monografia di MAZZARINO 1942 e, per informazioni di base, PLRE I 853-858 (Flavius Stilicho). 49 Rispettivamente Carm. XXI e XXII, da ora in poi Stil. I e Stil. II, e Carm. XXIV, da ora in poi Stil. III, preceduto da una prefazione in distici elegiaci. Sui due diversi momenti nella composizione e nella recita dell’opera vd. ora SCHINDLER 2009, 111 s. e n. 137 con bibliografia relativa. 50 I punti in cui lo articola il poeta vengono di volta in volta segnalati da KEUDEL 1970; per i primi due libri un quadro complessivo in CONSOLINO 2002, 17-23. 51 La presenza di tanti motivi di elogio rende difficile la trattazione e il poeta teme di tralasciare le cose più significative (vv. 1-22); Stilicone cumula in sé tutte le qualità e le doti che si si ritrovano separatamente negli altri e anche nei declivi il cocchio del poeta è in affanno sotto il peso delle innumerevoli lodi (vv. 24-35). Un confronto con i precetti menandrei in CONSOLINO 2002, 17 s. e n. 90. 52 Stil. I 116-121 adsiduus castris aderat, rarissimus urbi, / si quando trepida princeps pietate vocaret; / vixque salutatis Laribus, vix coniuge visa, / deterso necdum repetebat sanguine campum / nec stetit Eucherii dum carperet oscula saltem / per galeam dove, come ha ben visto GUALANDRI 1968, 61 l’implicito ricordo poetico di Ettore che saluta la moglie e il figlio alle porte Scee (Il. VI 467 ss.) e di Enea che abbraccia Ascanio (Aen. XII 434) instaura un confronto che mostra come Stilicone superi in rigore i due eroi. 53 Stil. I 160 s. ductor Stilicho tot gentibus unus, / quot vel progrediens vel conspicit occiduus sol.

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lo seguirebbero dovunque, dovunque egli miete successi: la Grecia lo canta per averla salvata; Franchi e Suebi, piuttosto che affrontarlo, si sottomettono, e così la Germania; superiore a Druso e Traiano, Stilicone ha domato il Reno in un numero di giorni pari agli anni impiegati da quelli; giustizia, pietas e fides gli guadagnano l’amore dei Germani. Dopo la pacificazione del nord Europa, alla guerra contro Gildone (vv. 246-269) si aggiungono le insidie dell’Oriente. Stilicone resiste ad entrambe le minacce e il riconquistato possesso dell’Africa segna ad un tempo il culmine dei suoi successi e il pieno riscatto di Roma: restituit Stilicho cunctos tibi, Roma, triumphos (v. 385). Alle armatae laudes del primo libro segue nel secondo l’illustrazione dei mores: Clementia lo fa pronto al perdono ed esente dall’ira; Fides lo rende leale verso i vivi e verso i morti: dei figli di Teodosio, da quello affidatigli, egli si preoccupa ancor più che dei propri54. Plasmato da Stilicone, che lo educa al regno pur prestandogli l’obbedienza e il rispetto che si debbono a un capo e a un padre55, il giovanissimo Onorio (v. 63 s. vitaeque et lucis in ipso / limine) può reggere l’impero e accrescerne i trionfi; sempre per merito dell’educazione ricevuta, il giovane principe ha provato le prime fiamme d’amore per la sua sposa diventando uomo non nella sfrenatezza giovanile, ma nelle caste leggi del matrimonio (vv. 74-76). Non meno sollecito Stilicone si è mostrato nei confronti di Arcadio, non reagendo alle provocazioni, curando la corretta divisione del tesoro di Teodosio fra i due eredi, offrendo all’Oriente ostile anche il supporto delle armi, pur di mantenersi leale (vv. 78-99). Iustitia, patientia, temperies, prudentia, constantia adornano il nuovo console; privo di ambizione, egli ha messo al bando l’avidità; favorisce l’ascesa di chi merita, guardando ai mores piuttosto che ai natali. Sotto la sua saggia guida rifioriscono le arti e si risollevano le Muse, mentre al ricco e al povero sono date pari possibilità di successo (vv. 100-131). Non toccato dalla dissolutezza, non ha mai accondisceso alle sue molteplici lusinghe; non rinfaccia i benefici concessi, e stupisce vedersi trattati nella convivialità alla pari da chi è suocero dell’imperatore e parens regni56. Tutti lo amano e lo celebrano con statue dorate; d’altra parte chi non ne riprodurrebbe l’immagine e non lo venererebbe, se egli non respingesse sempre tale onore?57 Ma anche così, i legati da ogni parte 54 Stil. II 50-55 nec vivis adnexus amor meminisse sepultos / desinit; in prolem transcurrit gratia patrum. / hac tu Theodosium, tenuit dum sceptra, colebas, / hac etiam post fata colis; nec pignora curas / plus tua quam natos dederat quos ille monendos / tutandosque tibi. 55 Stil. II 66 ss. quem tu sic placida formas, sic mente severa, / ut neque desidiae tradas, dum pronus ad omne / quod libet obsequeris, nec contra nixus ovantem / confringas animum; secretus consona regno / ceu iuvenem doceas, moles quid publica poscat; / ceu sanctum venerere senem patriisque gubernes / imperium monitis; dominum summissus adores, / obsequiis moderere ducem, pietate parentem. 56 Stil. II 166-168 quem videt Augusti socerum regnique parentem, / miratur conviva parem, cum tanta potestas / civem lenis agat. 57 Stil. II 176-182 quae non incudes streperent, quae flamma vacaret / fabrilis, quantis fluerent fornaci-

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si affrettano e cantano alla presenza del genero le lodi di Stilicone (v. 184 s. undique legati properant generique sub ore / in tua centenas aptant praeconia voces), da cui dipende il benessere delle varie popolazioni dell’impero, finalmente ricondotte a vita pacifica e tornate al lavoro dei campi. A lui non meno favorevoli degli uomini, i celesti lo proteggono e lo mettono in guardia con i loro presagi. Per questi motivi, innumerevoli regioni a gara hanno voluto per lui il consolato; respinte, Hispania, Gallia, Britannia, Africa, ed Oenotria si sono recate da Roma perché lo obligasse ad accettare, esponendo ciascuna le proprie ragioni di gratitudine. Senza indugio Roma afferra le armi e si reca da Stilicone, cui rivolge un lungo discorso (vv. 279-339), pregandolo di rivestire la prestigiosa carica, restituendo l’antico onore a quella magistratura che rappresenta il culmine degli honores58: egli potrebbe ora conferire prestigio a quel titolo che avrebbe potuto conferirne a lui prima, quando lo aveva rifiutato (v. 317 s. titulo tum crescere posses, / nunc per te titulus). Lo invita infine ad ammirare e indossare la trabea che lei stessa e Minerva hanno tessuto con lo stesso filo con cui Lachesi sotto Stilicone tesse per Roma aurea saecula. Ciò detto, la dea gli presenta e lo aiuta ad indossare la trabea, su cui è raffigurato il destino regale dei suoi figli. Dopo la vestizione, che rende il generalissimo simile a Marte, Roma manifesta l’intenzione di recarsi agli Elisi per comunicare ai grandi consoli del passato come per merito di uno solo abbia riguadagnato l’Africa e riscattato il prestigio del consolato. Aggiunge quale ultima richiesta che Stilicone conceda quell’adventus che l’Urbe richiede (v. 387 s.); l’immaginato svolgimento di questa cerimonia chiude il secondo discorso di Roma (v. 407). Intanto la fama si diffonde e tutti i maggiorenti si affrettano da ogni parte del mondo per la celebrazione; non minore esultanza in cielo provano i due Teodosii e gli dei, mentre il sole stesso prepara per Stilicone un anno degno (v. 423), recandosi nell’antro del tempo, dove sceglie il più notevole degli anni aurei, intimando agli altri di seguirlo. Torna poi al luogo da cui inizia il suo corso quotidiano; sul cocchio il nuovo anno che porta il nome del console, mentre – ricominciando il loro giro – gli astri scrivono il nome di Stilicone nei fasti del cielo. Il conferimento del consolato a un semibarbaro, qual era Stilicone, aveva già bisogno di qualche giustificazione; Claudiano osa molto di più, non limitandosi a giustificare, ma spingendosi a dimostrare che dal nuovo console bus aera / effigies ductura tuas, quis devius esset / angulus aut regio quae non pro numine vultus / dilectos coleret, talem ni semper honorem / respueres? decus hoc rapiat, quem falsa timentum / munera decipiunt, qui se diffidit amari. A raffigurazioni di Stilicone si riferisce anche Stil. III 11 ss. os sacrum, quod in aere colis, miraris in auro, / cerne libens: hic est felix bellator ubique, / defensor Libyae, Rheni calcator et Histri. 58 Stil. II, 313-316 plus ideo sumenda tibi fastigia iuris, / ne pereat tam priscus honos, qui portus honorum / semper erat. Nullo sarciri consule damnum excepto Stilichone potest.

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dipende la salvezza stessa dell’impero. Questa dimostrazione, che comporta la necessità di relegare in secondo piano Onorio, prende il suo avvio logico e cronologico dalla successione a Teodosio. Che questi morendo avesse raccomandato i figli a Stilicone è testimoniato anche da Ambrogio59, ma tale gesto, che non aveva alcun valore sotto il profilo giuridico60, non poteva equipararsi ad una trasmissione del potere. Eppure è questo che Claudiano afferma in Stil. I 149 s. tantoque remoto principe / mutatas orbis non sensit habenas: il passaggio delle redini del comando da Teodosio a Stilicone delinea un avvicendamento che lascia fuori i due principi eredi. A Teodosio Stilicone subentra anche come educatore di Onorio, insegnandogli l’arte di regnare: è il ruolo che era stato di Teodosio nei due panegirici del 396 e del 39861. A Stilicone e a lui soltanto sono anche attribuiti – qui per la prima volta, ma la tendenza avrà prosecuzione nel de bello Gothico62 – i successi militari che ufficialmente sarebbero da ascrivere al princeps, conseguentemente ridotto ad ascoltatore delle molteplici lodi che legati provenienti da ogni dove rendono sotto i suoi occhi a Stilicone: undique legati properant generique sub ore / in tua centenas aptant praeconia voces (Stil. II 184 s.). Dopo aver affermato che sarebbe Onorio (e non Stilicone) a trarre maggior vantaggio dal vincolo di parentela stretto con il matrimonio (principe tu felix genero: felicior ille / te socero)63, Claudiano procede così ad un ulteriore ridimensionamento del principe, espropriato di quella gloria militare che di diritto gli sarebbe spettata. La tendenza a relegare Onorio sullo sfondo, così da suggerirne la subalternità al generalissimo vandalo, culmina nell’ampia sezione del secondo libro occupata dalla prosopopea di Roma64. Diversamente che per Probino e Olibrio, la dea non parla qui solo a suo nome, ma, nel sottolineare il peso determinante di Stilicone per le sorti del mondo, si fa portavoce del generale consenso della pars occidentis65. Significativamente, a lui soltanto la dea attribuisce il merito – in precedenza condiviso con Onorio – di aver risolto il problema della carestia e di aver debellato Gildone66. Ma il dato di maggior rilievo riguarda le 59 Ambr. Ob. Theod. 5 gloriosius quoque in eo Theodosius, qui non communi iure testatus sit, de filiis enim nihil habebat novum quod conderet, quibus totum dederat, nisi ut eos praesenti commendaret parenti. 60 Che formalmente non si potesse parlare di tutela (e non a caso Claudiano evita i termini tecnici) lo aveva chiarito già MOMMSEN 1903, 101 s. 61 Rispettivamente Carm. VII 39-62 e VIII 214-418: vd. GUALANDRI 2010, 48. 62 Lo ha mostrato GUALANDRI 1997, 373-375. 63 Stil. II 77 s. Osserva GUALANDRI 2010, 48, n. 99 come sia qui in atto un procedimento analogo a quello per cui è il consolato a trarre vantaggio da Stilicone, e non viceversa. 64 Stil. II 270-407, per la cui analisi puntuale si rinvia a CONSOLINO 2002. 65 KEUDEL 1970, 85: «Hier nun ist nicht nur die eigentliche Bitte um die Annahme des Amtes zu einer Szene geworden, sondern auch der consensus universorum, der Roma zu dieser Bitte veranlasst». 66 Sulla carestia debellata vd. Stil. II 392-396, da confrontarsi con quanto affermato in proposito da

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modalità della designazione, perché, contravvenendo al rapporto privilegiato che tradizionalmente esiste fra lei e il principe67, Roma tratta direttamente con Stilicone ignorando l’imperatore, cui spetterebbe decidere la nomina (è a lui che la dea aveva chiesto il consolato dei fratelli Anicii). L’irritualità della procedura è giustificata da Hispania, la quale fa presente a Roma che, come aveva prima sprezzato l’offerta del suocero Teodosio, così ora egli rifiuta quella del genero (Stil. II 233 s. Augusti potuit soceri contemnere fasces: / iam negat et genero). Se il richiamo all’indimostrabile intenzione di Teodosio retrodata per così dire il destino consolare di Stilicone, le ragioni per cui questi dovrebbe infine acconsentire Hispania non le individua nella volontà del mondo e nella necessaria sottomissione al principe, e fa invece leva su quei rapporti di parentela con quest’ultimo che lo renderanno avo del futuro imperatore68. Non c’è posto per Onorio neppure nelle scene raffigurate sulla trabea tessuta da Roma e Minerva (le trabee di Probino e Olibrio le aveva tessute Proba), che – preconizzando il futuro – assolve per il generalissimo la stessa funzione dello scudo per Enea69. Sarà infatti l’avo, e non il padre, a dare Martia praecepta al futuro imperatore70, l’auspicato figlio di Onorio e Maria (Stil. II 336 s. promissam subolem sperataque pignora / mundo): una scena che tende a far dimenticare come il nonno da cui l’ipotetico (e mai nato) erede derivava il diritto al trono non fosse Stilicone, ma Teodosio. La sostituzione del generalissimo vandalo a Teodosio è a sua volta coerente con le altre scene della trabea, che tutte illustrano il futuro della dinastia: una dinastia che ha per capostipite Stilicone. Tolgono ogni dubbio in proposito sia la scena delle future nozze di Eucherio, figlio di Stilicone e Serena, con Galla Placidia, sia soprattutto il commento del poeta, che per la domus di Stilicone allude ad un passo virgiliano sulla discendenza regale di Enea attraverso il figlio Silvio71. Roma in Carm. XVIII 401 ss. quae suscepta fames, quantum discriminis urbi, / ni tua vel soceri numquam non provida virtus / Australem Arctois pensasset frugibus annum! Su Gildone cfr. Stil. II 384 s., che lo associa ad Eutropio. I due successi – su Gildone e sulla carestia – erano già elogiati in Stil. I: su questo, e per un confronto con lo spazio riservato ad Onorio nell’in Gildonem vd. CONSOLINO 2002, 17. L’unico accenno alla gloria che ne è venuta ad Onorio si trova in Stil. I 4-7 cecinit [scil. regia] fuso Gildone triumphos, / et calidis thalami successit laurea sertis, / sumeret ut pariter princeps nomenque mariti / victorisque decus. 67 Testimonianze iconografiche in MELLOR 1981, 1013-1015. 68 Cfr. Stil. II 234 ss. si non ut ductor ab orbe / quem regit, accipiat saltem cognatus ab aula. / Exiguumne putat, quod sic amplexus Hiberam / progeniem nostros inmoto iure nepotes / sustinet, ut patrium commendet purpura Baetin, / quod pulchro Mariae fecundat germine regnum, / quod dominis speratur avus? 69 GESNER 1759, 361 a v. 336: «Ut clipeo Aeneae posterorum illius fata inscribit Virgilius». Sulle raffigurazioni della trabea vd. da ultimo GUIPPONI-GÉNESTE 2010, 96-107. 70 Stil. II 347 ss. iam creverat infans / ore ferens patrem; sed avus maturior aevi / Martia recturo tradit praecepta nepoti. 71 I termini in cui viene definita la domus di Stilicone (Stil. II 360 s. utroque petit diademata sexu / reginasque parit reginarumque maritos) ricordano il passo in cui Anchise mostra ad Enea il figlio Silvio

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Accanto a questa scena, audace e forse rischiosa72, nei primi due libri altri elementi contribuiscono a delineare un comportamento e un esercizio del potere molto vicini a quelli di un princeps. Come la cura per il benessere e la protezione dell’impero da nemici interni ed esterni, il confronto vincente con Traiano, l’imperatore spagnolo cui si rifaceva la dinastia teodosiana73, e anche una serie di paragoni con personaggi quali Alessandro, Achille74 o Ercole75, già utilizzati come paradigmi di comportamento o come termini di paragone per i sovrani76. A precedenti imperiali (Teodosio fra questi) rinviano la recusatio del titolo dove è spesso in combinazione – come lo è qui – con le insistenze dell’istituzione personificata77, e il possesso di virtù imperatorie – iustitia, fides, pietas e clementia – di cui Stilicone ha dato prova nelle azioni di guerra e in tempo di pace78. Altri spunti che tendono all’assimilazione con un imperatore sono sotterranei e per ciò anche più insidiosi. Come la notazione sul generalissimo che, dedicatario di statue spontaneamente offertegli dai vari popoli, rifiuta di farsi venerare79: il modo in cui Claudiano ce lo riferisce tende a far dimenticare (Aen. VI 765 s. regem regumque parentem, / unde genus nostrum Longa dominabitur Alba), segnalato da KEUDEL 1970, 95 ad loc.: è questo un bell’esempio di quella che MORONI 1982, 229 s. chiama ‘funzione interpretativa’ svolta dal modello letterario, che qui guida il destinatario colto a vedere in Stilicone il fondatore di una dinastia. Sempre KEUDEL 1970, ibidem cita Carm. X 253, in cui Venere apostrofa Maria come magnorum suboles regum parituraque reges. In quel caso, tuttavia, reges dovrebbe riferirsi esclusivamente alla dinastia teodosiana, poiché nel verso che precede Maria è detta dalla dea sidereae proles augusta Serenae. 72 Vd. infra, p. 321 e n. 108. 73 I riferimenti in CONSOLINO 2002, 20, nn. 114-115. 74 Alessandro e Achille sono entrambi oggetto di synkrisis in Stil. I 264 ss. a proposito della vittoria su Gildone (ma Alessandro figurava già nello speculum principis del panegirico per il quarto consolato di Onorio, Carm. VIII 374 ss.). La campagna di Stilicone contro i Bastarnae per vendicare l’amico Promotus è paragonata all’uccisione di Turno da parte di Enea e a quella di Ettore da parte di Achille (Stil. I 95 ss.). Alla lotta di quest’ultimo con lo Scamandro si allude altre due volte in Stil. I 133 (flumina, quae largo mutastis sanguine fluctus); I 186 s. (et Alpheus Geticis angustus acervis / tardior ad Siculos etiamnum pergit amores): due passi che esaltano il valore guerriero di Stilicone. 75 Vd. Stil. I 140 s. genitor caesi post bella tyranni / iam tibi commissis conscenderat aethera terris, gravoso impegno paragonato a quello di Ercole che aveva dovuto sostituire Atlante: cfr. CONSOLINO 2002, 19 s. 76 Cfr. PARRAVICINI 1909, 108-118. 77 Di particolare rilievo, sia per vicinanza cronologica sia perché mostra come Stilicone erediti il ruolo lì attribuito al principe, è il precedente costituito dall’esortazione della respublica a Teodosio [Paneg. II (12), 11, 3-7]: su questo e su altri precedenti di recusatio cfr. CONSOLINO 2002, 11 s. 78 Le prime tre virtù (che insieme con la virtus sono le quattro virtù del clipeus aureus conferito ad Augusto: cfr. R. Gest. div. Aug. 34,2) gli hanno consentito di conquistare i barbari (Stil. I 207 s.); la Clementia (Stil. II 6-29) e la Fides (Stil. II 30 ss.) sono virtù del tempo di pace ed hanno un tempio nel petto di Stilicone (Stil. II 12 s.: la Clementia; 31: la Fides). La clementia (philanthropia) era stata di recente esaltata quale virtù imperatoria da Temistio, or. 19 per Teodosio, il quale ultimo in Claud. Carm. VIII 277 ne raccomanda la pratica al piccolo Onorio. Per la pratica della iustitia in tempo di pace cfr. Stil. II 103-105. 79 Stil. II 176 ss. (citato a n. 57).

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che a tale venerazione egli non ha alcun diritto. Non esplicito ma assai significativo anche il confronto sotterraneo con Teodosio, pure lui un generale, che Graziano aveva elevato alla porpora per le sue capacità guerriere. Come lui Stilicone si è guadagnato l’attaccamento dell’esercito, che lo prende ad esempio ed è pronto a seguirlo ovunque80; i suoi successi guerrieri, ottenuti velocemente e senza spargimento di sangue, non nascono mai da decisioni avventate81. Come Alan Cameron ha esaustivamente dimostrato, Claudiano è maestro nel tacere gli insuccessi e presentare i fatti nella luce più favorevole al suo patrono82: Stilicone non aveva rivestito prima il consolato non perché riluttante ma per ragioni di opportunità politica83; non aveva avuto bisogno di sconfiggere i barbari perché aveva negoziato con loro; non aveva vinto Gildone perché a farlo era stato Mascezel. Degno di nota è anche il modo in cui viene sostenuta la pretesa del generalissimo di estendere il proprio controllo alla pars orientis: Claudiano, che ne dà per scontata la tutela su entrambi i principi, la presenta in un contesto che esalta la fides di Stilicone, il quale rende intatto ai figli l’impero affidatogli dal loro padre: se già si ritengono iusti nimiumque fideles coloro che cum possint commissa negare li rendono invece senza lucro, Stilicone era depositario non di ricchezze, ma delle due parti dell’impero84. Questa considerazione, abilmente faziosa, è costruita sul falso presupposto, già accennato nel I libro85, che Teodosio avesse lasciato Stilicone depositario del potere imperiale, e non tiene conto che quest’ultimo, non potendo aspirare in proprio all’impero perché vandalo per parte di padre, non era perciò stesso in grado di commissa negare. Solo dopo aver dato ampia dimostrazione che il suo dedicatario è capax imperii quanto e più di personaggi insigniti della dignità imperiale, nell’ultima parte del secondo libro il poeta affronta infine, sia pure in modo indiretto, i problemi posti dalla condizione di semibarbaro, affidando alla prosopopea di 80

Stil. I 152-180. Vd. Stil. I 215-217 omne quod Oceanum fontesque interiacet Histri / unius incursu tremuit; sine caede subactus / servitio Boreas exarmatique Triones. / Tempore tam parvo tot proelia sanguine nullo / perficis et luna nuper nascente profectus / ante redis quam plena fuit. Per la possibilità di un sottinteso confronto con il rischioso comportamento di Teodosio al Frigido, cfr. Stil. I 363 ss. nil tribuat Fortuna sibi. Sit prospera semper / illa quidem; sed non uni certamina pugnae / credidimus totis nec constitit alea castris / nutatura semel; si quid licuisset iniquis / casibus, instabant aliae post terga biremes; / venturus dux maior erat: vd. CONSOLINO 2002, 20 s. 82 Cfr. CAMERON 1970, spec. 149-154. 83 Vd. supra, p. 304 e n. 25. 84 Carm. XXII 55-60 iustos nimiumque fideles / fama putat, qui, cum possint commissa negare, / maluerint nullo violati reddere quaestu. / at Stilicho non divitias aurique relictum / pondus, sed geminos axes tantumque reservat / depositum teneris quantum sol igneus ambit. 85 Stil. I 148-150, su cui vd. supra, p. 309. 81

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Roma il delicato compito di cancellare questo peccato originale mai ammesso. L’intervento della dea fa del generale vandalo un campione di romanità, sia dichiarandone la superiorità sugli eroi che hanno contribuito alla sua grandezza, sia pregandolo di accettare il consolato per restituire a quella magistratura – e di conseguenza ai consoli passati e futuri – la dignità che era stata compromessa dall’eunuco Eutropio86. E il paragone vincente con Bruto e gli Scipioni87, sommato all’accostamento con Camillo, ultor e servator di Roma88, e ai ripetuti richiami ad Enea89, suggerisce per Stilicone il ruolo di rifondatore della Città. Alle visite degli imperatori nell’Urbe fa poi pensare la descrizione, sia pur contenuta, della folla che a Roma celebrerà l’adventus del nuovo console90. Mentre per Probino e Olibrio il poeta aveva fatto ricorso all’enunciazione esplicita, limitandosi ad enfatizzare dati in partenza verificabili o a fornire una lettura favorevole di fatti interpretabili anche negativamente (come l’uso che Probo faceva della ricchezza), per Stilicone non tutto è dichiarato, molto è suggerito, e le conseguenze di certe affermazioni restano implicite. Ma gli elementi forniti sono troppi per non condurre alla conclusione, non ovvia soprattutto nel caso di un generale semibarbaro, che Stilicone ha tutte le qualità per reggere l’impero (come già fa), e per creare la convinzione che egli merita di farlo. I primi due libri furono recitati alla corte di Milano, ambiente che dobbiamo supporre meglio controllato da Stilicone, ma anche meglio informato su di lui. Non tutte le affermazioni di Claudiano potevano avere analoga credibilità. Sul brillante curriculum giovanile e per alcuni dei successi bellici a lui attribuiti la distanza geografica e/o cronologica rendeva più difficile il controllo91. Della veridicità di altre asserzioni gli ascoltatori avranno avuto qualche ragione di dubitare, soprattutto in quei casi in cui il poeta stesso aveva modificato le sue recenti versioni (per Eutropio e in particolare per Gildone92). Consapevole delle aspirazioni del suo patrono, il notarius et tribunus Claudiano spinge il suo gioco di allusioni indirette fino ai limiti del consentito; forse anche oltre nel caso del progettato matrimonio di Eucherio, allora un86 Restituit Stilicho cunctos tibi, Roma, triumphos: su questa constatazione si era chiuso il I libro delle laudes (Stil. I 385). 87 Per la superiorità di Stilicone, restitutor del consolato, su Bruto, che ne era stato l’inventor, cfr. Stil. II 318-327 e vd. CONSOLINO 2002, 13 s.; per gli Scipioni cfr. Stil. II 383-385, dove Roma li nomina accanto a Bruto, dicendo che Stilicone le ha restituito sia il consolato che l’Africa. 88 Stil. II 390 s., su cui vd. CONSOLINO 2002, 16 e n. 83; il confronto con Camillo verrà esplicitato nel bellum Geticum (Carm. XXVI 430): vd. GUALANDRI 2010, 51, n. 115. 89 Vd. supra, p. 313 s.; vd. anche Stil. I 69 s. dove Serena in età da marito è assimilata a Lavinia. 90 Stil. II 397-407: vd. CONSOLINO 2002, 16 e n. 85. 91 Sulle qualità di Stilicone come generale vd. O’FLYNN 1983, 25-27. 92 La corretta attribuzione a Mascezel della vittoria su quest’ultimo doveva essere ben nota a Milano, dove Mascezel stesso ne aveva riferito, attribuendo il merito del successo ad Ambrogio, apparsogli in visione prima della battaglia decisiva: cfr. Paul. Med. Vita Ambr. 51.

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dicenne, con Galla Placidia, che aveva appena otto anni. Non senza qualche accortezza, perché la scena nuziale è rappresentata sulla trabea: è vero che la sua descrizione è «the most blatant expression of Stilicho’s dynastic ambitions in all Claudian’s work»93, ma poteva forse mitigarne la portata il suo essere una fictio di secondo grado: ekphrasis di un manufatto pronunciata da una prosopopea. Le reazioni degli astanti ci sono ignote, e sappiamo da Agostino quanto poca fede venisse prestata ai panegiristi; ma anche chi si rendesse conto delle menzogne poteva apprezzare la bravura del poeta e ammirare la sua abilità nel cantare cose false, ma molto (o troppo?) simili alle vere. Concepito come un testo indipendente, la cui comprensione poteva prescindere dalla conoscenza dei primi due, il terzo libro del panegirico fu recitato a Roma, introdotto da una prefazione in cui il poeta paragona il suo patrono a Scipione e se stesso a Ennio94. Incentrato sull’arrivo del generalissimo nell’Urbe e sul plauso giustamente reso ai suoi meriti, il libro si apre con un’apostrofe a Roma che può finalmente vedere colui che da tempo era atteso e si presenta ora agli sguardi spe maior, fama melior (v. 6). Stilicone, che se volesse potrebbe fare mostra dei popoli sottomessi nel nord come nel sud dell’impero, non ama tanto i riconoscimenti dati alle fatiche quanto le fatiche stesse e sdegna i vani applausi, preferendo trionfare nei cuori degli uomini (vv. 7-29). La rocca capitolina non ha riservato più fulgida accoglienza a generali come Fabrizio, Paolo, Mario trionfatore dei Numidi, Pompeo dopo le sue vittorie in oriente (vv. 30-36). Inoltre, a differenza di tutti loro, Stilicone non ha suscitato l’invidia e il malanimo di alcuno, ugualmente gradito ai senatori, ai cavalieri e alla plebe (vv. 37-50). Leitmotiv del carme è lo speciale amore di Stilicone per Roma, che con trasporto lo ricambia. Le premesse vengono poste nei versi iniziali (vv. 6-25), che ricordano le benemerenze del generalissimo nei confronti dell’Urbe. Di qui le manifestazioni di un intenso legame – simile a quello di norma intercorrente fra Roma e il principe – che trova una prima sintesi a v. 51 ss.: o felix servata vocat quem Roma parentem! / o mundi communis amor, cui militat omnis / Gallia, quem regum thalamis Hispania nectit, / cuius et adventum crebris petiere Quirites / vocibus et genero meruit praestante senatus! Versi che da una parte riepilogano il riconoscimento universale cui nel II libro avevano dato voce le province, dall’altra ripropongono, in una prospettiva urbana e senatoria, quel titolo di publicus parens già attribuito da Plinio a Traiano e che proprio nel 400 verrà riconosciuto da Simmaco al generalissimo vandalo95 (ma già in Stil. II 166 Stilicone era definito Augusti socerum regnique parentem). Questo 93

CAMERON 1970, 154. La prefazione e il senso da dare al paragone con Ennio sono specifico oggetto di analisi e di discussione in PERRELLI 1992, 107-116; FELGENTREU 1999, 119-129; PERRELLI 2000, cui si rinvia. 95 Symm. Ep. IV 12,1; il medesimo appellativo anche in Ep. IV 14,2 del 401, vd. CONSOLINO 2002, 16, n. 83. 94

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titolo dalle impegnative implicazioni, già attribuito a Camillo e al fondatore Romolo96, assimila dunque Stilicone ad un princeps. Questa assimilazione, ripresa dall’immagine del pubblico favore con cui egli è accolto (vv. 187-190 publica sed numquam tanto se gratia fudit / adsensu: quis enim princeps non omnibus egit / obsequiis dominum sese patremque vocari, / quod tibi continuis resonant convexa diebus?)97, era già suggerita a v. 11, dove – rivolgendosi ai romani, che possono finalmente rimirare di persona colui che conoscevano finora solo in effigie – Claudiano definisce il suo volto os sacrum98, cioè con l’aggettivo di norma riservato agli imperatori99. Lo speciale rapporto di Stilicone con l’Urbe è pubblico e privato ad un tempo. Carattere pubblico hanno i suoi interventi a difesa della città, mentre il fatto che vi sia nato Eucherio potrebbe rientrare nella sfera strettamente personale degli affetti. Ma non può avere carattere privato né la gioia di Roma che in questo modo guadagna Stilicone quale suo cittadino (v. 180 s. Romaque venturi gaudebat praescia fati, / quod te iam tanto meruisset pignore civem), né tantomeno la nascita di chi sia figlio di una principessa (v. 177 regia mater) e nipote dell’imperatore (v. 178 Augusto … avo), perché «nel momento in cui, sollevandolo dopo la sua nascita (sustulit) Teodosio compie il gesto rituale con cui un padre riconosce come legittimo il proprio figlio, deposto ai suoi piedi, esplicitamente così indicando l’appartenenza del figlio di Stilicone e Serena alla famiglia imperiale»100. La contiguità fra Stilicone e i principes stabilita dai legami di parentela era d’altra parte ricordata già a v. 53 (quem regum thalamis Hispania nectit), dove si allude al matrimonio con Serena e appena dopo a quello di Onorio con Maria (v. 55 genero … praestante). A lui doppiamente imparentato in quanto sposo di Serena, sorella adottiva di Onorio, e padre di Maria, Stilicone ha peraltro il suo titolo forse più importante nell’essere stato verior Augusti genitor (v. 122), facendo da saggia guida alla sua giovinezza101. 96 Per Romolo cfr. Cic. Rep. I 41,64. Su Camillo, pater patriae in Liv. VII 1,10, vd. supra, p. 316; sull’ambiguità insita nell’attribuzione di questo titolo a Stilicone e sul suo significato nel III libro si veda ora la fine analisi di GUALANDRI 2010, 51 s., cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti bibliografici. 97 Su dominus come titolo del princeps vd. TAEGERT 1988, 131 a vv. 75-77. 98 Stil. III 11s. os sacrum, quod in aere colis, miraris in auro, / cerne libens. 99 Lo rileva GUALANDRI 2010, 52: «Sacer, epiteto normale per gli imperatori e la loro famiglia, non lo è in genere per i comuni mortali, e qui sta almeno ad indicare la totale assimilazione di Stilicone alla domus degli Augusti». 100 Così GUALANDRI 2010, 53, a commento di Stil. III 176-180 dedit haec exordia lucis / Eucherio puerumque ferens hic regia mater / Augusto monstravit avo; laetatus at ille / sustulit in Tyria reptantem veste nepotem, / Romaque venturi gaudebat praescia fati. 101 Cfr. Stil. III 120-129 sic docuit regnare socer, sic casta iuventae / frena dedit, teneros his moribus imbuit annos, / verior Augusti genitor, fiducia belli, / pacis consilium, per quem squalore remoto / pristina Romuleis iam floruit artibus aetas, / per quem fracta diu translataque paene potestas / non oblita sui servilibus exulat arvis, / in proprium sed ducta larem victricia reddit / fata solo fruitur que iterum, quibus haeserat olim, / auspiciis capitique errantia membra reponit.

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Differenziano ulteriormente la posizione del generalissimo vandalo da quella di un console ‘normale’ espressioni come magnanimum pectus, quo frena reguntur / imperii, cuius libratur sensibus orbis (v. 9 s.) o proxime dis consul, tantae qui prospicis urbi (v. 130). La definizione di proximus dis Claudiano la aveva già usata l’anno prima per Mallio Teodoro102. Ma in quel panegirico non era Teodoro ad occuparsi del mondo, bensì – con termini che variano di poco la seconda metà del nostro verso – Stilicone, che insieme con Onorio garantiva il buon andamento dell’universo: Stilicho dum prospicit orbi / sidereusque gener (v. 265 s.). Qui invece Onorio, già retrocesso al ruolo di discente (v. 120 sic docuit regnare socer) sembra avere a suo unico merito l’aver concesso a Roma l’adventus di Stilicone103, che al pari degli dei si prende cura della Città: hanc tu cum superis, Stilicho praeclare, tueris, / protegis hanc clipeo patriam regumque ducumque / praecipueque tuam104. Diversamente dai primi due libri, in cui le lodi sono organicamente articolate, il terzo ha una struttura piuttosto fluida: è pertanto possibile che l’assenza di una rigorosa concatenazione attenuasse l’audacia di tali affermazioni, che potevano anche passare per le esagerazioni tipiche di un panegirico, per di più in versi. A temperarne l’effetto poteva concorrere pure la lunghissima digressione finale sui pubblici festeggiamenti del nuovo console (vv. 223-369), collocati in uno scenario reso mitico dall’intervento di Diana e delle sue ninfe105. Tuttavia – anche a non considerare che la memoria degli antichi era più esercitata della nostra – agli ascoltatori che avessero già letto i due libri milanesi e ai successivi lettori dell’intera opera non poteva sfuggire che quei versi implicavano l’esercizio – effettivo se non di diritto – del potere imperiale da parte di Stilicone. Lo sforzo del poeta non consiste nell’attenuare quel potere, ma nel mostrare che – più di qualsiasi principe precedente – il generalissimo vandalo ha saputo ben meritare di Roma, che egli ama e tutela ricambiato di pari amore. L’analisi fin qui fatta dovrebbe aver messo in evidenza come – pur nella differente articolazione e con le variazioni richieste da un diverso uditorio – il 102 Carm. XVII 227-229 dis proximus ille, / quem ratio, non ira movet, qui facta rependens / consilio punire potest, per cui SIMON 1975, 228 a v. 227 richiama deum, quem videmus che Pacat. Paneg. II 4, 5 dice di Teodosio. 103 Stil. III 113-115. 104 Stil. III 174-176, su cui vd. GUALANDRI 2010, 52: «L’impressione che egli sia collocato su di un piano quasi sovrumano è suggerita dall’ampio, famoso inno (3. 130-173) che esalta le glorie di Roma e s’inizia con la lenta e solenne allocuzione al nuovo console, visto in una dimensione sacrale, vicino agli dei, come protettore dell’urbe: v. 130 ss. proxime dis consul, qui tantae prospicis urbi / qua nihil in terris complectitur altius aether… In Ringkomposition (v. 174 ss.), a conclusione dell’inno, il concetto riappare, sempre con tono alto: Stilicone, insieme con gli dei, protegge col suo valore guerriero la città: una città definita patria di re, di condottieri, e soprattutto, quasi a climax, di Stilicone medesimo». 105 Il parallelo strutturale con i festeggiamenti indetti da Urania per Mallio Teodoro (Carm. XVII 274282) è segnalato da SIMON 1975, 247-249, che mette a confronto Carm. XVII 276 ss. con Stil. III 262 ss.

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terzo ed ultimo libro delle laudes Stilichonis con i primi due condivida temi, intenzioni, messaggio. Un messaggio che li differenzia nettamente dal panegirico per Mallio Teodoro, dedicatario al quale non si legano le sorti dell’impero, ma anche da quello per Probino e Olibrio, che non propone per i due elogiati un ruolo che travalichi le prerogative connesse al loro status. L’encomio di Stilicone si spinge invece ben al di là di quanto consentirebbero le funzioni del generalissimo, e ne propone un’immagine competitiva nei confronti di quella imperiale, su cui finisce per predominare. Questa caratteristica, più comprensibile – e più evidente – nel panegirico a lui dedicato, è però rintracciabile in varia misura in tutti i poemi encomiastici che Claudiano compose dopo il trasferimento a Milano, i quali – si voglia o no ricorrere al termine ‘propaganda’ – pur con differenti sfumature e in misura diversa propongono per il generalissimo vandalo un ruolo molto prossimo, quando non addirittura sovrapponibile a quello del princeps106. Estesa su ben nove anni (dai primi di gennaio del 396 all’inizio del 404), tale produzione encomiastica, pur con tutti gli aggiornamenti richiesti dal modificarsi delle situazioni, mantiene alcune costanti che la attraversano e di cui possiamo seguire gli sviluppi da un’opera all’altra. Avviene così che in Claudiano il discorso di lode – prenda esso le forme di un panegirico o quelle di un epos breve107 – finisca per subire una sorta di mutazione genetica, perdendo almeno in parte quel carattere effimero che è proprio di ogni poesia di occasione per farsi latore di un messaggio dai contorni sufficientemente definiti, che viene riproposto con continuità. Ci si può allora interrogare sugli effetti di questa iterazione su un lettore non distratto o su chi partecipasse alla vita di corte. Affermazioni che nel corso del tempo si richiamano e si rafforzano reciprocamente dovranno pure aver sortito degli effetti non limitati all’ammirazione per la versatilità dell’autore. Effetti che potevano andare dal fastidio per l’eccessiva celebrazione di un generale semibarbaro ad una sorta di assuefazione al messaggio trasmesso, o ad altre reazioni ancora che non siamo in grado di ipotizzare, mentre è piuttosto improbabile che tanta insistenza sulla centralità di Stilicone non lasciasse traccia di sorta. Conferma queste conclusioni l’unico tema claudianeo che trovi preciso riscontro negli avvenimenti successivi: il ruolo ‘dinastico’ di Eucherio. I due passi delle laudes che lo riguardano non sono i soli nell’opera di Claudiano, 106 Come ben sintetizza CAMERON 2000, 134, «what is different about Claudian’s political poems is the fact that their central theme is not the emperor, but one of his ministers. Yet this minister is not accorded the sort of praise appropriate to an imperial general, however successful. While formally portraying Stilicho as no more than a victorious general loyally carrying out the policies of a wise emperor, no perceptive reader could be in any doubt that he rather than the emperor was determining those policies». 107 Sulla problematica distinzione di questi due generi letterari nella poesia politica di Claudiano, vd. FO 1982, 15-65.

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dove rappresentano altrettante tappe di una costruzione dall’andamento non rettilineo. Abbiamo visto il commento cui dava luogo il matrimonio con Galla Placidia rappresentato sulla trabea: iam domus haec utroque petit diademata sexu / reginasque parit reginarumque maritos (Stil. II 360 s.). Questa affermazione, di cui Gesner segnalava la potenziale pericolosità108, non nasce dal nulla: essa è in certo modo preparata dal verso dell’epitalamio di Onorio in cui Venere apostrofa Maria come magnorum suboles regum parituraque reges109. Qui il plurale reges, che potrebbe per un momento far ritenere Stilicone partecipe della regalità, è reso innocuo (pur se con un margine di ambiguità) dal verso che precede, in cui Maria è chiamata dalla dea siderae proles augusta Serenae, riconducendola così al casato dell’Augusto Teodosio110. Rispetto all’epitalamio, il commento alla scena nuziale di Eucherio, pur con qualche cautela, segna un indubbio passo avanti: reginas parit è correttamente riferito a Maria, sposa di Onorio; reginarum maritos si addice perfettamente ad un Eucherio sposo di Galla Placidia, ma la domus cui Eucherio e Maria appartengono è quella di Stilicone. Più rispettosa della dinastia teodosiana, ma non per questo meno audace, è la descrizione della nascita di Eucherio nel terzo libro delle laudes: il suo inserimento nella famiglia imperiale da parte di Teodosio potrebbe – in assenza di eredi diretti – autorizzarne le aspettative di successione sul trono della pars occidentis. Arriviamo così all’ultima apparizione di Eucherio, in quello che è anche l’ultimo panegirico composto da Claudiano, quello per il sesto consolato di Onorio. Nel corteo che accompagna il carro trionfale, Eucherio, cui regius undique sanguis111, procede a piedi per volere del padre: l’inattesa attribuzione di regius sanguis anche al generale semibarbaro «getta per così dire una luce intensa su questo pronipote di Teodosio, quasi additando in lui le prerogative che ne fanno un possibile futuro successore al trono imperiale»112. L’accusa di tradimento che nel 408 causò la morte di Stilicone era quella di aver nutrito per il figlio ambizioni regie113. È possibile che tali fossero le riposte mire del generalissimo, ma egli non aveva compiuto alcun gesto che le comprovasse: Eucherio, all’epoca diciannovenne, non era infatti andato oltre la carica di tribunus et notarius (la stessa di Claudiano), e in mancanza di fatti 108 GESNER 1759: «Qui erant invidi Stilichoniae domus, vel post casum illius ingeniosi, poterant hunc versum trahere ad objectam Stilichoni cupiditatem imperii in filium suum transferendi». 109 Carm. X 252: vd. FRINGS 1975, 212 s. Il parallelo con Stil. II 360 indicato da KEUDEL 1970, 95 a Stil. II 357-361. 110 Per sidereus riferito da Claudiano alla famiglia imperiale cfr. BIRT 1892, Index, 580. 111 Carm. XXVIII 552: vd. DEWAR 1996, 366 s. 112 GUALANDRI 2010, 55; per i rischi connessi a questa raffigurazione, ibid. 56 s. e n. 133. 113 L’accusa di aspirare all’impero per Eucherio è condivisa dai cristiani Soz. 9,4; Oros. VII 38; Philost. HE XI 3; XII 1; Iord. Rom. 322, che peraltro non concordano sulla pars (orientis o occidentis?) che Stilicone avrebbe voluto dare al figlio. Non vi prestano invece fede Olymp. fr. 2; Zos. V 32,1.

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che potessero fornire un pur minimo appiglio l’accusa restava indimostrabile. Pretestuosa la giudica Zosimo114, ma i testi claudianei potevano contribuire a rendere credibile il pretesto: per una curiosa ironia della sorte, l’unica traccia dell’influenza esercitata dalla poesia encomiastica di Claudiano è riscontrabile proprio nella rovina di colui che aveva inteso promuovere.

2. Come persuadere il senato: Sidonio, i Visigoti e il panegirico di Avito Dopo l’assassinio dell’imperatore Petronio Massimo e il sacco di Roma ad opera dei Vandali di Genserico (2-16 giugno 455), il 9 o 10 luglio del 455, a Uguernum, l’attuale Beaucaire, veniva proclamato imperatore il magister utriusque militiae Flavio Eparchio Avito115, con il sostegno determinante del re visigoto Teoderico II. Il 1° gennaio del 456 il nuovo Augusto celebrava a Roma il conferimento del consolato; a recitarne il panegirico fu un brillante poeta non ancora trentenne: Gaio Sollio Sidonio Apollinare, genero dell’imperatore e anch’egli appartenente all’aristocrazia senatoria di Gallia. Il poeta esordisce con una invocazione a Febo, invitato a conservare i propri raggi per il cielo: alla terra è sufficiente Avito, grazie al quale Roma saprà risollevarsi dai suoi mali116. Sidonio passa poi a rievocare gli avvenimenti, ispirandosi, seppur con notevole libertà, al modello claudianeo117. Al concilio degli dei convocato da Giove si presenta la dea Roma, in condizioni ancor più disastrate che nel bellum Gildonicum di Claudiano: senza elmo, con i capelli coperti di cenere, urta ad ogni passo contro lo scudo; la lancia, divenuta per lei un peso, non incute più timore118. Abbracciate le ginocchia del Tonante, gli rappresenta la propria situazione, ricorda gli uomini che l’hanno resa grande 114 Zos. V 32. Zosimo esprime anzi apprezzamento per il generalissimo vandalo, che non avrebbe tratto vantaggi economici dalla parentela con Teodosio, né favorito la carriera del figlio (V 34,6 s.). 115 Notizie su Avito in PLRE II 196-198 (Eparchius Avitus 5). Sui legami fra la sua famiglia e quella di Sidonio cfr. HARRIES 1994, 31-35. 116 Carm. VII 1 ss. Phoebe, peragrato tandem visurus in orbe / quem possis perferre parem, da lumina caelo: / sufficit hic terris. nec se iam signifer astris / iactet, Marmaricus quem vertice conterit Atlans: / sidera sunt isti, quae sicut mersa nitescunt, / adversis sic Roma micat, cui fixus ab ortu / ordo fuit crevisse malis. modo principe surget / consule; nempe, patres, collatos cernere fasces / vos iuvat et sociam sceptris mandasse curulem: / credite, plus dabitis. 117 Per un confronto puntuale del panegirico di Sidonio con i testi claudianei che lo ispirano, così come per una discussione delle differenze, si rinvia all’analisi di SCHINDLER 2009, 183 ss. Per i fatti storici riferiti da Sidonio e le distorsioni cui egli li sottopone vd. LOYEN 1942, 35-58; e da ultimo GILLETT 2003, 87-108. 118 Sidon. Carm. VII 45-49 …erecta caeli de parte trahebat / pigros Roma gradus, curvato cernua collo / ora ferens; pendent crines de vertice, tecti / pulvere, non galea, clipeusque inpingitur aegris / gressibus, et pondus non terror fertur in hasta: cfr. Claud. Carm. XV 17 ss.

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in passato e gli chiede di ridarle Traiano o qualcuno simile a lui (v. 116 s.). Giove replica a Roma (vv. 123-598) che nella sua lunga storia si è sempre saputa risollevare e la esorta a reagire: le spiegherà brevemente (v. 138 paucis … docebo) in che modo potrà rialzarsi119. La ‘breve’ spiegazione di Giove è in realtà un lungo panegirico di Avito (vv. 139-597), costruito secondo le regole del basiliko;" lovgo"120. Partendo dalle lodi della Gallia, terra natale dell’elogiato, Giove ne traccia la biografia: la formazione giuridica ricevuta (v. 207 civilia iura secutus), le qualità diplomatiche mostrate in impegnative missioni121; i combattimenti contro i barbari a fianco di Aezio (vv. 230-294)122; il conferimento (nel 439) della prefettura al pretorio delle Gallie, durante la quale soccorre la patria estenuata rinnovando il trattato con i Visigoti (vv. 295-315); il successivo ritiro nella quiete dei campi (vv. 316-319); l’invasione di Attila e il ritorno alla vita pubblica nel 451 su richiesta di Aezio, che lo prega di convincere i Visigoti a spalleggiare i romani contro gli Unni (vv. 319-346); il successo del suo intervento (vv. 346-357). Dopo l’uccisione di Aezio, la sicurezza dell’impero è messa a serio rischio e il nuovo Augusto, Petronio Massimo, lo fa magister militum per Gallias: i barbari tendono allora a placarsi e i Visigoti, già pronti alla guerra, reprimono il loro furore non appena apprendono il prossimo arrivo di Avito in vesti di ambasciatore (vv. 357-410). Nel corso dell’incontro a Tolosa con il re Teoderico II e suo fratello Federico, giunge notizia dell’assassinio di Petronio Massimo (v. 450 s.); ad Avito, che chiede di rinnovare i trattati di pace (vv. 460-486), il re goto risponde con l’esortazione di rivestire egli stesso la porpora: a tale condizione, egli promette a Roma la sua leale amicizia (vv. 489-518). La stessa esortazione Avito riceve nel corso di un’adunanza di autorevoli galloromani (vv. 519-571). Termina qui l’amplissimo resoconto di Giove, il quale conclude rivolgendo a Roma nuove parole di conforto: questo principe di età matura farà ringiovanire lei, che i principes pueri hanno fatta invecchiare123. 119 Carm. VII 134-138 torpentia tolle / lumina, detersam mentem caligo relinquat. / te mirum est vinci; incipies cum vincere, mirum / non erit: utque tibi pateat quo surgere tandem / fessa modo possis, paucis, cognosce, docebo. 120 Lo schema del panegirico in BELLÈS 1989, I, 154; le corrispondenze con lo schema del basiliko;" lovgo" in SCHINDLER 2009, 184. 121 Ottiene un alleggerimento di tasse dal futuro imperatore Costanzo II (vv. 208-211) e tratta poi con il re visigoto Teoderico I, conquistandone la stima, ma anteponendo Roma all’amicizia con lui (vv. 215-229). 122 Sidonio ci dice solo che aveva tenuto tre importanti incarichi contro Iuthungi e Norici (nel 430431); contro i Burgundi (nel 436) e contro gli Unni di Litorio (nel 437), dove si batte in singolar tenzone con un guerriero unno. 123 V. 595 ss. laetior at tanto modo principe, prisca deorum, / Roma, parens, attolle genas ac turpe veternum / depone; en princeps faciet iuvenescere maior, / quam pueri fecere senem. Il princeps puer oggetto dell’allusione è Valentiniano III, proclamato Augusto all’età di sette anni.

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Il compito di Sidonio era piuttosto impegnativo. Esponente di spicco dell’aristocrazia galloromana, Avito aveva un curriculum buono, ma non brillantissimo, specie se confrontato con quello del suo predecessore, che annoverava due consolati, due prefetture al pretorio e due prefetture urbane; per di più, la sua carriera si era sostanzialmente svolta in provincia. Ma a creare le difficoltà maggiori erano le circostanze della sua proclamazione, maturata in seno all’aristocrazia di Gallia e avvenuta con il decisivo appoggio dei Visigoti di Teoderico II. Bisognava dunque convincere il senato di Roma che il nuovo Augusto era in grado di far fronte alle difficoltà successive al sacco vandalico, e – soprattutto – che nelle sue decisioni egli non si sarebbe fatto condizionare dai barbari che lo avevano sostenuto. Sidonio apre in chiave ottimistica grazie alla comparazione fra lo zodiaco, i cui sidera dopo il tramonto risorgono più luminosi di prima, e Roma, che risorge più grande dalle sue rovine: sidera sunt isti [scil. Signifero], quae sicut mersa nitescunt, / adversis sic Roma micat, cui fixus ab ortu / ordo fuit crevisse malis. modo principe surget / consule (vv. 5-8). Il modello di questi versi è stato da tempo indicato in Rutilio Namaziano124, che si era rivolto alla dea Roma in termini analoghi, paragonandone la sorte a quella degli astri: adversis solemne tuis sperare secunda, / exemplo caeli ditia damna subis (I 121 s.). Poiché quae mergi nequeunt, nixu maiore resurgunt / exiliuntque imis altius acta vadis (I 129-130), ciò che sarebbe esiziale per tutti gli altri regni darà a lei l’occasione di rinascere più grande dalle sue disgrazie: illud te reparat, quod cetera regna resolvit: / ordo renascendi est crescere posse malis (I 139 s.). Il passo di Rutilio cui Sidonio allude aveva ottime probabilità di essere conosciuto dai senatori, facendo esso parte del famoso inno alla dea Roma, reduce dal sacco di Alarico. Dall’analogia delle situazioni scaturisce perciò un messaggio di speranza: anche dopo il sacco di Genserico la Città devastata saprà risorgere ancor più forte dalle proprie ceneri, e la resurrezione sarà resa possibile da Avito, un aristocratico galloromano come lo era stato il praefectus urbi Rutilio. È infatti con riferimento ai futuri trionfi di Avito che Sidonio, riprendendo l’analogo invito rivolto da Rutilio a Roma, invita Giano a cingersi le fronti di una duplice corona (v. 10 s. iam necte bifrontes, / anceps Iane, comas duplicique accingere lauro)125. Spessore politico ha anche il secondo riferimento al bellum Gildonicum con cui si chiude il discorso di Giove; diversamente che nella sua prima ripresa, Sidonio varia in modo significativo il modello evocato: mentre in Claudia124 Vd. GEISLER 1887 ad loc. Per ulteriori indicazioni su questa ripresa rutiliana e sul tema della grandezza di Roma, sempre riavutasi dai momenti di crisi, vd. BROCCA 2004, 286, n. 41. 125 Cfr. Rut. Nam. I 115 s. erige crinales lauros seniumque sacrati / verticis in virides Roma recinge comas: vd. BROCCA 2004, 287-290, cui va il merito di avere individuato per prima questa ripresa e la sua pregnanza ideologica.

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no era il dio stesso a spirare su Roma una nuova giovinezza126, qui egli affida questo compito all’anziano princeps, che farà ringiovanire la dea, a differenza dei principes pueri, responsabili del suo invecchiamento (vv. 595-602 “…laetior at tanto modo principe, prisca deorum, / Roma, parens, attolle genas ac turpe veternum / depone; en princeps faciet iuvenescere maior, / quam pueri fecere senem”. finem pater ore / vix dederat: plausere dei fremitusque cucurrit / concilio. felix tempus nevere sorores / imperiis, Auguste, tuis et consulis anno / fulva volubilibus duxerunt saecula pensis). Per presentare Avito nella luce migliore, Sidonio non si affida solo alle riprese letterarie, il cui significato sarebbe potuto sfuggire ad alcuni. A fornire dati rassicuranti sul nuovo imperatore provvede infatti la lunga presentazione di Giove, che – anche ovviando all’eventuale carenza di informazioni su una carriera compiuta lontano dall’Urbe – dà su di lui notizie ampie e tali da valorizzarne meriti e risultati. Ne emerge il ritratto di un principe all’altezza delle aspettative di Roma, che al re degli dei aveva richiesto un nuovo Traiano127. Avito saliva al trono solo due anni dopo la scomparsa di Aezio († 454), che aveva lui pure operato a lungo in Gallia, e Sidonio è abile nel tracciare un profilo del suocero che lo mostri non inferiore ad Aezio e suo indispensabile collaboratore. Ponendo al centro della sua narrazione le Gallie e i contatti di Avito con i Visigoti, egli limita il ruolo del generalissimo, così da attenuare le divergenze di orientamento fra i due nei rapporti con gli Unni, cui Aezio si era per lo più appoggiato, e i Visigoti, preferiti invece da Avito e ora coartefici della sua elevazione128. Potevano mostrare come positiva quest’ultima preferenza gli inconvenienti di un troppo stretto legame con gli Unni, inconvenienti che si erano palesati nel 451, quando Aezio stesso aveva dovuto ricorrere ai buoni uffici di Avito per contrapporre i Visigoti all’avanzata di Attila in Gallia129. Questi fatti recenti possono forse spiegare sia l’inserimento del duello fra Avito e il soldato unno che aveva ucciso un suo uomo (vv. 246-294), sia il resoconto che Sidonio ne fa. Poiché il soldato unno militava sotto Litorio, questa azione – per cui il poeta paragona il suocero ad Achille che vendica la morte di Patroclo (vv. 272-278) – era di fatto rivolta contro un distaccamento dell’esercito romano ufficiale130, all’epoca in guerra con i Visigoti che assediavano Narbona (sarà anzi Avito stesso che li convincerà a recedere: vv. 126 Claud. Carm. XV 208-210 dixit et adflavit Romam meliore iuventa. / continuo redit ille vigor seniique colorem / mutavere comae. 127 Sull’opportunità della scelta di Traiano per sostenere Avito si rinvia a BROCCA 2004, 282-284 che individua nella vita di Tacito dell’Historia Augusta il presupposto di una coincidenza fra i due anche nell’età avanzata, lì indebitamente attribuita a Traiano. 128 Vd. HARRIES 1994, 67-75. 129 HARRIES 1994, 69 s. 130 HARRIES 1994, 75.

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475-486). Ma la narrazione decontestualizzata che il poeta ne fa, separando il duello con l’unno dall’opera di mediazione presso i Visigoti131, giova all’immagine pubblica di Avito, sia perché ne esalta il valore guerriero nel momento in cui esso è richiesto contro la persistente minaccia dei Vandali, sia perché lo mostra schierato dalla parte ‘giusta’ dopo la recente discesa di Attila, che faceva percepire gli Unni come un pericolo più grave e imminente dei Visigoti. Considerate le circostanze dell’ascesa al trono, preoccupazione principale del panegirista è fugare i timori che i Visigoti possano dettare legge all’Augusto o comunque esercitare influenza su di lui. Pertanto Sidonio mette in forte rilievo un altro aspetto significativo della carriera di Avito: la sua attività diplomatica. Nella rievocazione che Giove fa delle sue pravxei", più che come condottiero egli agisce in veste di legatus: l’insistenza su tale funzione – non ovvia in un futuro principe132 e forse accentuata da Sidonio – ha l’indubbio vantaggio di riportare nell’alveo delle relazioni diplomatiche i cordiali, pregressi contatti con i re visigoti133, ed offre l’occasione per puntualizzare che già con Teoderico I Avito ha saputo sì stabilire la concordia, ma senza tradire il suo popolo e resistendo con successo a lusinghe e offerte134. Infine, con l’improbabile rappresentazione di Avito che giunge a Tolosa ignaro dell’assassinio di Petronio Massimo135, Sidonio esorcizza il rischio che la missione diplomatica del magister utriusque militiae venisse letta come una richiesta ai barbari di appoggiarlo nella scalata al trono. A dissipare possibili sospetti provvede anche la collocazione del confronto di Avito e Teoderico con Romolo e Tito Tazio (vv. 437-440), che nella relazione sull’ambasceria precede immediatamente la notizia della morte dell’imperatore, segnalando così la preesistenza di una entente cordiale disinteressata da entrambe le parti. Ma il punto cruciale dell’argomentazione di Sidonio è costituito dal presentare quella dei Visigoti come una volontaria subordinazione ad Avito. La prima affermazione in tal senso è attribuita ad Aezio, che di questo argomento si sarebbe servito per convincere Avito a rientrare dal suo volontario ritiro allo scopo di acquisire contro gli Unni di Attila il sostegno dei Visigoti: inclusa tenes tot milia nutu, / et populis Geticis sola est tua gratia limes; / infensi semper 131 Quest’ultima è ricordata solo ai vv. 475-480, nel discorso che Avito tiene a Tolosa nell’imminenza della sua proclamazione: cfr. GILLETT 2003, 101. 132 Come rileva GILLETT 2003, 85, il suo è l’unico caso di imperatore presentato come legatus. 133 È questa la linea portante della lettura che del panegirico dà GILLETT 2003, 87-108. 134 Vv. 224-229, dove l’incorruttibiltà di Avito è messa in risalto dal confronto con Fabrizio. 135 Avito parla ai Visigoti come se l’imperatore fosse ancora in vita (cfr. v. 464 nostri princeps modo Maximus orbis: vd. LOYEN 1960, 185, n. 83 per il significato di ‘ora’, usuale per l’avverbio modo in Sidonio). Nella fictio del panegirico la notizia dell’assassinio sarebbe giunta ai Goti, insieme a quella del sacco di Roma, dopo il primo incontro di Avito con Teoderico II a Tolosa e prima del suo discorso al senato visigoto (cfr. vv. 441-451); poiché Petronio Massimo era stato ucciso il 31 maggio 455, è poco probabile che ai primi di luglio Avito non lo sapesse ancora.

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nobis pacem tibi praestant (v. 341 ss.). Ci sono poi le considerazioni ancor più esplicite di un goto, che prima di sapere dell’arrivo di Avito era determinato a combattere: quid foedera lenta minaris, / in damnum mihi fide meum? compendia pacis / et praestare iubes nos et debere. quis umquam / crederet? en Getici reges, parere volentes, / inferius regnasse putant (v. 419 ss.). Tali premesse preparano – dando loro verisimiglianza – le parole con cui Teoderico II formula la propria richiesta. Dopo aver fatto notare ad Avito che questi potrebbe costringere i Goti a servire, piuttosto che chiedere loro la pace (v. 489 ss. tum rex effatur: “dudum, dux inclite, culpo / poscere te pacem nostram, cum cogere possis / servitium, trahere ac populos in bella sequaces”), il re riconosce la superiorità di Roma, cui proclama la propria devozione, ed esprime il desiderio di emendare la colpa dell’avo Alarico. Basta che Avito accondiscenda ad assumere il titolo di Augusto: a questa, e solo a questa condizione, Teoderico è pronto ad essere amico di Roma e a combattere per lei: Romae sum te duce amicus, / principe te miles136. La dichiarazione messa in bocca al re visigoto gli attribuisce un atteggiamento di non belligeranza, anzi di disponibilità al servitium. Questo atteggiamento, che ricorda quello attribuito da Orosio al visigoto Ataulfo137, è però vincolato alla condizione che il princeps sia Avito. Il che equivale a una promessa di pace e (con la sempre incombente minaccia dei Vandali) di sostegno futuro, ma anche a una velata minaccia qualora Roma soppiantasse Avito con un nuovo Augusto138. In questo modo, Sidonio per bocca di Giove presenta l’appoggio dei Visigoti non come un pericoloso condizionamento, ma come una sorta di riconoscimento della grandezza di Roma, e indica in Avito l’unico possibile garante della loro sottomissione. Il legame di Avito con il re goto, da lui educato al culto di Roma139, è anzi tanto più prezioso quanto più forte è il contrasto fra la sua civilitas e la rappresentazione poco lusinghiera che il carme offre dei Goti140. 136 V. 501 ss. testor, Roma, tuum nobis venerabile nomen / et socium de Marte genus (vel quicquid ab aevo, / nil te mundus habet melius, nil ipsa senatu), / me pacem servare tibi vel velle abolere, / quae noster peccavit avus, quem fuscat id unum, / quod te, Roma, capit; sed di si vota secundant, / excidii veteris crimen purgare valebit / ultio praesentis, si tu, dux inclite, solum / Augusti subeas nomen. quid lumina flectis? / invitum plus esse decet. non cogimus istud, / sed contestamur: Romae sum te duce amicus, / principe te miles. 137 Oros. VII 43,4-7. 138 Come osserva WATSON 1998, 189 Romae sum te duce amicus chiarisce che si tratta di un’amicizia condizionata, basata su un rapporto di fiducia personale. 139 Concordo con KAUFMANN 1995, 116 s. nel ritenere non dimostrabile l’ipotesi di SIVAN 1989, secondo la quale Ep. I 2 – pensata come lettera aperta da leggere a Roma e in Gallia, possibilmente unita ad una copia del panegirico (p. 89) – intenderebbe corroborare con il suo famoso ritratto di Teoderico II quanto è detto di lui in Carm. VII, cui sarebbe di poco successiva. Non si pronuncia sulla possibile data di Ep. I 2 KÖHLER 1995, 119 s. 140 Così la definisce KAUFMANN 1995, 119, che ricorda in proposito Carm. VII 361-368; v. 392 s. (feroci Getae) e v. 431 (rigido corde), con l’eccezione del re, che Avito stesso ha educato. E nota anche come i Goti siano ritratti senza partecipazione, e a Sidonio non resti che dipingere il re in radiosi colori (p. 121 s.).

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Ai pressanti inviti del re barbaro si aggiunge la dichiarazione di un maggiorente romano, che ricorda le sofferenze patite a causa di un princeps puer141 (come tale aveva esordito Valentiniano III): un’avvertenza, questa, che verrà poi fatta propria da Giove stesso. Di qui l’invito ad intervenire tempestivamente in favore di Roma, la cui condizione coincide con quella del mondo (v. 556 captivus, ut aiunt, / orbis in urbe iacet) e l’incoraggiante paragone con Camillo, salvatore della patria, con cui egli conclude la sua appassionata perorazione142. Dopo aver rievocato l’acclamazione che segue queste parole e l’assemblea tenutasi tre giorni dopo ad Arles, Giove conclude promettendo alla dea Roma che il nuovo sovrano le restituirà il controllo sull’Africa143. Il fluviale discorso del dio (476 versi su 602), al cui interno si colloca la lunga narrazione dei fatti che hanno determinato la scelta di Avito quale Augusto della pars occidentis, garantisce così la veridicità del resoconto e la bontà della designazione144. Ma l’efficacia retorica non è necessaria garanzia di credibilità; e a me pare che presso i senatori più della parola di Giove nel nostro caso potevano far fede l’identità del panegirista e il suo duplice legame filiale con il publicus pater Avito145, di cui canta le lodi paragonando in prefazione la propria pietas a quella di Orfeo cantore della madre Calliope. Al senato Sidonio offre quella che potrebbe definirsi l’interpretazione autentica di quanto è accaduto e del programma politico del suocero. Ne deriva un chiarissimo messaggio, confortante e minatorio al tempo stesso: la porpora di Avito è garanzia della sottomissione dei Visigoti, che con un altro principe potrebbe venir meno; è inoltre gradita all’aristocrazia senatoria di Gallia, che troppo ha sofferto sotto il regno di Valentiniano III e che (così potrebbe dedursi), forse non esprimerebbe pari gradimento per altre scelte. Che così fosse sembrerebbe confermato dalla difficile affermazione in Gallia di Maioriano, asceso all’impero dopo la deposizione di Avito146. 141 Vv. 530-537 procerum tum maximus unus, / dignus qui patriae personam sumeret, infit: / “quam nos per varios dudum fortuna labores / principe sub puero laceris terat aspera rebus, / fors longum, dux magne, queri, cum quippe dolentum / maxima pars fueris, patriae dum vulnera lugens / sollicitudinibus vehementibus exagitaris…”. 142 V. 556 ss. captivus, ut aiunt, / orbis in urbe iacet; princeps perit; hic caput omne / nunc habet imperium. petimus, conscende tribunal, / erige collapsos; non hoc modo tempora poscunt, / ut Romam plus alter amet. nec forte reare / te regno non esse parem: cum Brennica signa / Tarpeium premerent, scis, tum res publica nostra / tota Camillus erat, patriae qui debitus ultor / texit fumantes hostili strage favillas. 143 V. 588 hic tibi restituet Libyen per vincula quarta. 144 La complessità di questa organizzazione è sottolineata da BONJOUR 1982, 14: il poeta (discorso di I grado) riferisce quanto dice a Roma Giove (discorso di II grado), il quale riporta i discorsi (di III grado) fatti dai vari personaggi della narrazione. 145 Carm. VI 35 publicus hic pater est, vovi cui carmen, Avitus. Su questa prefazione è ora in corso di stampa su “RPL” 2010 un lavoro di Luciana Furbetta (Alcune riflessioni sul carme VI di Sidonio Apollinare). 146 Sulla Gallia nei due anni seguiti alla deposizione di Avito e sulla cosiddetta coniuratio Marcelliniana (cfr. ep. I 11, 6) vd. STEVENS 1933, 36-45; 181-185 (per la posizione di Sidonio, su cui vd. anche HARRIES 1994, 84).

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Sappiamo dallo stesso Sidonio che il suo poema fu applaudito dai senatori e dal popolo e gli fruttò una statua di bronzo nella Biblioteca Ulpia147. Che poi il suo messaggio avesse davvero convinto il senato è altra questione148. Quella di Avito fu in effetti un’assai breve parabola: deposto in ottobre di quello stesso anno dal magister militum Ricimero e dal comes domesticorum Maioriano, non sembra sia mai stato riconosciuto come collega da Marciano. Ma che il carme non fosse un semplice discorso di lode e rispondesse al più ambizioso intento di perorare la causa del suocero si evince con chiarezza da un confronto con il panegirico recitato in gennaio del 468 per Antemio, imperatore greco che Costantinopoli aveva imposto alla pars occidentis. Dall’epistolario di Sidonio apprendiamo che all’epoca si trovava a Roma in missione come portavoce di richieste dell’Auvergne all’imperatore149, e che egli aveva accondisceso a scrivere il panegirico per guadagnarsene il favore. L’apparato mitologico è come al solito imponente; la cautela di Sidonio massima: per attenuare l’umiliazione di Roma senza tralasciare l’omaggio a Bisanzio egli apre il carme con le lodi di Costantinopoli, ma è ad Aurora che la dea Roma va a chiedere il suo Augusto. La biografia di Antemio, basata sulle informazioni disponibili per il poeta, è costruita in modo da non urtare le suscettibilità di nessuno: ne è prova l’ampio spazio fatto all’elogio del potentissimo patrizio Ricimero, genero dell’imperatore e suo futuro nemico. Di scarso interesse storico perché privo di notizie di prima mano150, questo capolavoro di diplomazia fornisce una rappresentazione dei fatti per tutti accettabile, ma non cerca in alcun modo di influenzare l’opinione di chi ascolta. Secondo una prassi ormai consolidata, il successo di questo panegirico frutterà al suo autore una carica: la prefettura urbana.

3. Convincere i contemporanei, influenzare i posteri: Cassiodoro per Amalasunta L’ultimo testo su cui intendo soffermarmi è di età romanobarbarica, in prosa e – diverso anche in questo dai casi finora esaminati – non omologo a nessun altro testo dello stesso autore: si tratta di Var. XI 1, gratiarum actio 147

Sid. Carm. VIII 7-10; vd. anche Ep. IX 16,3 carm. 21-28. In particolare, la centralità della Gallia, da cui era fatta dipendere la salvezza dell’impero, poteva suscitare malcontento presso un pubblico romano: lo notava già STEVENS 1933, 35, aggiungendo che – in presenza dell’imperatore – sarebbe stato difficile non applaudire la recita. 149 Sid. Ep. I 5,1; 9,2; 9,5; su circostanze e scopi di questo panegirico rimando alle mie considerazioni in CONSOLINO 2000, 191 s. 150 Indicativo al riguardo LOYEN 1942, che dedica 24 pagine al panegirico di Avito, 25 a quello di Maggioriano e solo 11 a quello per Antemio. 148

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che in settembre del 533 Cassiodoro, appena nominato prefetto al pretorio, invia al senato per chiederne il supporto nell’esercizio della nuova carica e per elogiare i sovrani che gliela hanno conferita151: il giovane re Atalarico e la reggente Amalasunta152. Già magister officiorum e da anni segretario dei re goti, Cassiodoro ha chiara percezione sia dei problemi del regno, sia dei rapporti che intercorrono fra senato e monarchia. All’intento di renderli più cordiali e distesi rispondono sia l’omaggio ai senatori, cui il nuovo prefetto si rivolge all’inizio e alla fine dell’epistola153, sia l’invito ad una collaborazione con la corona basata sulla condivisione degli stessi principi morali154, sia infine la menzione di provvedimenti filosenatori quali il risarcimento alle vittime di Teoderico (§ 15) e le cariche conferite a un illustre senatore e a sé stesso155. L’altro aspetto su cui Cassiodoro intende rassicurare il senato riguarda la gestione del potere regale, concentrato nelle mani di Amalasunta, che aveva da poco rinsaldato la sua posizione eliminando alcuni nemici interni156, ma cui sembra creassero difficoltà i comportamenti aggressivi del figlio, che i notabili goti più schierati su posizioni nazionaliste e antiromane le avrebbero aizzato contro157. Procopio, cui dobbiamo questa notizia, aggiunge anzi che, dedito su impulso di costoro a vita dissoluta, il giovane principe non era intervenuto a difendere la madre dalle cospirazioni a suo tempo ordite contro di lei158. Cassiodoro non vi fa alcun accenno, ma offre una rappresentazione dei regnanti tale da fornire un’immagine di concordia che possa giustificare sia l’inerzia del re sia l’attivismo di sua madre. Così, pur ringraziando e lodando entrambi i sovrani, Cassiodoro non dedica molta attenzione all’ormai adolescente Atalarico159, ma gli attribuisce autocon151 La nomina di Cassiodoro risale al 1° settembre: vd. Var. IX 24,9; 25,12. Per la discussione di questa Varia, già oggetto di analisi puntuale in FAUVINET-RANSON 1988, utilizzo e in parte anticipo il commento da me curato per l’edizione con testo critico, traduzione italiana e commento – attualmente in corso di stampa – delle Variae coordinata da Andrea Giardina. 152 Notizie su di lei in HARTMANN 1894, 1715 s.; PLRE II, p. 65, Amalasuintha. 153 Concordo con FAUVINET-RANSON 1988, 278 nel ritenere più probabile che si tratti di un’epistola destinata ad essere letta in senato piuttosto che di un discorso tenuto direttamente dall’autore: l’inserimento nelle Variae rende più plausibile la prima ipotesi. 154 Var. XI 1,2 illud vos amare confidimus, quod et rerum dominos iubere sentimus: primum, ut hoc putemus utile quod honestum, ut nostros actus quasi pedisequa semper iustitia comitetur et quod a continenti principe non emimus, nulli turpiter venditemus. 155 Vd. rispettivamente Var. XI 1,16 per il senatore (che è Petrus Marcellinus Felix Liberius: vd. PLRE II 677-681); e 1,18 per Cassiodoro, il quale vi ricorda le opposizioni che Amalasunta ha dovuto superare per attribuire a lui la prefettura. 156 Proc. BG I 2,27-29. 157 Proc. BG I 2,9 s. 158 Proc. BG I 2,19 s. 159 Le fonti oscillano fra due possibili date di nascita: il 516 (Iord. Get. 304) e il 318 (Iord. Rom. 367; Proc. BG I 2,1): Atalarico doveva dunque avere almeno 15 anni.

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trollo e pietas erga matrem160, così smentendo in modo implicito le voci negative che potevano circolare su di lui. L’estraneità del giovane sovrano agli atti di governo è esplicitamente riconosciuta, ma solo per affermare le notevolissime qualità di sua madre, che sa far fronte a tutti gli impegni lasciandolo libero da tali occupazioni (§ 4 sub principe feriato matris regnat affectus). Il resto dell’epistola è dedicato all’elogio di Amalasunta, le cui molte qualità delineano il profilo di una donna colta e capace161, che interviene sempre in modo opportuno ma evita di mettersi in mostra (§ 8), che ha virtù degne di un sovrano e di un filosofo162, e che possiede – ma in più alto grado – tutte quelle qualità che avevano separatamente contraddistinto la lunga schiera dei re suoi avi (§ 19). Quando Cassiodoro scrive, l’aspetto forse più delicato della reggenza di Amalasunta era rappresentato dai rapporti con l’impero d’oriente e più ancora con i regni romano barbarici. Dopo la morte di Teoderico, il regno goto aveva infatti subito un ridimensionamento della propria influenza politica e militare con la perdita del controllo sul regno visigoto163, ed era minacciato dal crescente potere dei Franchi. Nel confronti di Costantinopoli, Cassiodoro fa leva sull’orgoglio dei senatori dando il massimo risalto ad uno scacco inflitto a Bisanzio da Vitige, episodio che egli presenta come una vera e propria conquista di Roma (§ 10 Romanum fecit esse Danuvium)164, mentre tace che Amalasunta aveva concesso a Giustiniano di utilizzare la Sicilia come base per la guerra vandalica165. Per quanto invece riguarda i regni romanobarbarici, verso i quali Amalasunta aveva abbandonato la politica interventista del padre, egli presenta come un successo diplomatico alcune cessioni territoriali ai Burgundi, che si sarebbero di conseguenza sottomessi166, e minimizza il 160 Cfr. Var. XI 2 a continenti principe; 4 antequam possit populos regere, suis iam coepit moribus imperare; 5 in annis puerilibus didicit servire pietati. Per una analisi approfondita dei singoli punti rinvio al mio commento. 161 Amalasunta ha piena padronananza del greco, del latino e del gotico (§ 6), lingue che parla con eleganza e proprietà, utilizzandole per rivolgersi a ciascuno nella sua lingua madre (§7); ha inoltre un’impagabile conoscenza delle lettere (ibidem). 162 Su quest’ultimo aspetto vd. VITIELLO 2006, 129-134. Per una più dettagliata analisi delle virtù attribuite ad Amalasunta – aequitas e pietas (§15), benignitas (§15 s.), fortitudo (§ 14 e 18), animi firmitas (§ 17), sapientia, prudentia, constantia (§ 18) – rinvio al mio commento. 163 Che Teoderico aveva amministrato per conto del nipote Amalarico: il passaggio a quest’ultimo del potere regale comportò per Ravenna la perdita delle tasse spagnole e la riconsegna del tesoro visigoto. 164 Var. XI 10 s. Cassiodoro fa riferimento ad una incursione dei Gepidi, che nel 530, con il supporto degli Eruli e il tacito assenso di Costantinopoli, avevano tentato di impadronirsi di Sirmio e della Pannonia Sirmiensis (WOLFRAM 1985, 575). Il tentativo era stato stroncato dal generale Vitige, che aveva respinto gli invasori ricacciandoli nella provincia bizantina della Mesia I, dove i Goti avevano saccheggiato la città di Gratiana. Per tutta la descrizione lusinghiera che Cassiodoro fa della politica militare ostrogota si rimanda all’analisi di FAUVINET-RANSON 1998, 286-291. 165 Proc. BG I 3,22-25. 166 Var. XI 13 Burgundio quin etiam ut sua reciperet, devotus effectus est, reddens se totus, dum accepisset exiguum. Elegit quippe integer oboedire quam imminutus obsistere: tutius tunc defendit regnum, quando

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pericolo rappresentato dai Franchi. Alludendo infatti alla spedizione franca del 532 contro i Burgundi, che aveva comportato anche l’occupazione dell’ostrogota Arles, omette il mancato sostegno ai Burgundi167 e presenta il recupero della città come il deterrente che avrebbe fatto desistere dallo scontro i Franchi di Teoderico I per timore di affrontare l’esercito ostrogoto168. Passando sotto silenzio o attenuando alcuni problemi aperti (primo fra tutti la fragilità delle frontiere), e facendo cadere l’enfasi su quegli aspetti (l’amore di Amalasunta per la cultura classica e la sua femminile riservatezza) cui egli sa sensibile il senato di Roma169, Cassiodoro fa del suo meglio per convincere i senatori che la principessa gota ha dato ampia prova di essere capax imperii, come e più di qualsiasi vir (§ 19 cui virorum laus cedit universa). Un’opera di convinzione, la sua, che con ogni probabilità non guarda solo all’oggi. Se – come sostiene Procopio (BG I 3,10) – le pessime condizioni di salute di Atalarico ne lasciavano presagire la prossima morte, e se Amalasunta stava cercando soluzioni che consentissero – a lei donna – di conservare il potere regio anche dopo la morte del figlio, il panegirico di Cassiodoro può avere avuto anche la funzione di prepararle il terreno. Significative in tal senso le analogie tematiche con le lodi per le doti sia intellettuali che politiche rivolte a lei – nel frattempo regina – da Teodato, nell’epistola con cui annuncia come fortemente voluta da Amalasunta la propria cooptazione sul trono170. Basata su vari aggiustamenti ed alcune omissioni, la rappresentazione molto ottimistica di Cassiodoro chiaramente mira a convincere il senato della buona salute del regno e a guadagnare stima alla reggente. C’è da supporre che presso i senatori non maldisposti egli potesse riuscire tanto più convincente (sulla situazione interna e più ancora su quella militare) quanto minore era la loro informazione di prima mano. Di certo, anche se con il suo ritratto di Amalasunta – peraltro in larga parte coincidente con quello fattone da Procopio – Cassiodoro non ottenne presso i senatori il consenso desiderato, diversamente che per Stilicone e Avito il senato fu estraneo alla tragica fine della figlia di Teoderico. arma deposuit. Recuperavit enim prece quod amisit in acie. Per contenere l’avanzamento dei Franchi, intorno al 531 Amalasunta aveva stabilito un’alleanza con il re burgundo Godomaro, cui restituiva il territorio compreso fra la Durance e l’Isère conquistato dal padre nella campagna del 523. Tale restituzione è vista come una mossa vantaggiosa per i Goti, che – rinunciando a una esigua parte del loro territorio – sono riusciti ad ottenere la sottomissione di un intero regno. 167 Nonostante la momentanea occupazione franca dell’ostrogota Arles nel 532, i Goti avevano utilizzato le truppe inviate in Provenza solo per ripristinare i confini: vd. WOLFRAM 1985, 540. 168 Var. XI 1,12. Per tutta la descrizione lusinghiera che Cassiodoro fa della politica militare ostrogota si rimanda all’analisi di FAUVINET-RANSON 1998, 286-291. 169 Sulla cultura della reggente come motivo di legittimazione, vd. FAUVINET-RANSON 1998, 292-296. 170 Var. X 4,4-7, per cui rinvio al mio commento, anch’esso in corso di stampa nell’edizione delle Variae coordinata da Andrea Giardina.

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Pur prospettando una visione che si pretende stabile e di lunga durata, anche i panegirici che intendano costruire consenso ancorano il loro effetto di convincimento all’occasione per cui sono stati composti. A questo ovvio destino l’elogio di Amalasunta sembra in parte sottrarsi, almeno in relazione alle scelte editoriali dell’autore, che ne favorirono l’efficacia in una prospettiva di durata più lunga rispetto a quella che solitamente riguarda un discorso di carattere contingente qual è quello cui il panegirico dà voce. Quando Cassiodoro decise di pubblicare le Variae, il regno ostrogoto sembrava ancora in grado di reagire all’invasione bizantina171. Ma Cassiodoro sarà stato comunque consapevole che – per l’importanza delle epistole da lui scritte e di cui probabilmente è ormai l’unico ad avere il pieno controllo – la selezione da tramandare ai posteri avrebbe inevitabilmente influenzato le future opinioni sui re goti. Da questo punto di vista, è interessante constatare come di tutti i sovrani goti presenti nella raccolta Teodato sia l’unico di cui le Varie ci diano un ritratto men che positivo. Avido e predace, questi aveva allungato le mani sulle terre dei vicini, che lo avevano denunciato presso la reggente per appropriazione indebita. Amalasunta – forse per poterlo rendere accettabile come futuro sovrano172 – lo fece sottoporre a un normale processo e, una volta provata la sua colpevolezza, lo costrinse a restituire il maltolto, attirandosene il risentimento173. Poiché a questo infortunio giudiziario, troppo recente per essere taciuto, Teodato accenna nell’epistola con cui annuncia al senato la propria ascesa al trono, Cassiodoro non poteva censurarlo. Nulla invece lo costringeva a pubblicare due dure reprimende di Teoderico (Var. IV 9; V 12), che sanziona come indegni di un principe i comportamenti predatori del nipote, all’epoca cittadino privato. Con la loro inclusione fra le Variae, Cassiodoro contribuisce a connotare negativamente, ben prima della sua ascesa al soglio, questo re avido e inetto, responsabile dell’eliminazione di Amalasunta, alle cui grandi qualità – umane, culturali, politiche – egli aveva dato particolare enfasi anche grazie alla collocazione del panegirico all’inizio dei due ultimi libri, contenenti le epistole da lui scritte a proprio nome174.

171 Nell’autunno del 537, cui dovrebbe risalire la pubblicazione delle Variae, i Goti cingevano d’assedio Roma per strapparla ai bizantini che l’avevano occupata. Vd. MOMMSEN 1894, xxx. 172 È la spiegazione che ne dà l’interessato in Var. X 4,4 e coincide con quella di Proc. BG I 4,6. 173 Var. X 4; Proc. BG I 4,1-2. 174 In questo senso, Cassiodoro merita forse un trattamento un po’ meno duro di quello riservatogli da MOMMSEN 1894, xxiii, il quale gli rimprovera di avere del pari esaltato Amalasunta, il suo assassino Teodato e il successore di questi Vitige, «quasi adulationis scholam exemplorum varietate commendaturus».

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PANEGIRICI E ALTRI ‘ELOGI’ NELLE CITTÀ TARDOANTICHE IGNAZIO TANTILLO

1. La tarda antichità è l’epoca dei cerimoniali1. Un mondo in cui gli status e le gerarchie sono ribaditi con ossessiva scrupolosità, e in cui la tendenza a sacralizzare il potere impone che esso sia continuamente ritualizzato attraverso una varietà di strumenti. Un ruolo determinante nel definire il posto degli individui in tale società avevano le pratiche celebrative, in particolare quelle basate sul principio dell’ ‘amplificazione’. Tra tali pratiche i panegirici, discorsi di elogio composti secondo regole precise (kata technên), indirizzati a differenti categorie di individui, costituiscono senza dubbio le forme più complesse, almeno tra quelle testuali. I panegirici erano prodotti in gran quantità per una moltitudine di circostanze pubbliche, oltre che private. La documentazione al riguardo è relativamente abbondante, come è noto, anche se distribuita in modo non uniforme; la trattatistica greca è ampiamente sviluppata, al contrario di quella latina; e se ci sono pervenuti un discreto numero di panegirici imperiali dall’Occidente come dall’Oriente, in prosa e in versi, le notizie sugli elogi di governatori e benemeriti di vario tipo (che dovevano costituire il grosso della produzione), sono assai più numerose per la parte orientale che per quella occidentale2. Se non v’è dubbio che il discorso d’elogio rappresentava un elemento caratterizzante della vita politica di tutte le città, anche di tanti capoluoghi di provincia e borghi meno importanti, la nostra conoscenza della penetrazione e della circolazione di questo apprezzato ingrediente della * Tengo a ringraziare Andrea Giardina e Giovanni Alberto Cecconi, che hanno letto una prima versione di questo contributo aiutandomi a migliorarlo. Sono riconoscente a Klaus Hallof e a Stephen Mitchell per le informazioni che mi hanno voluto fornire sulle due iscrizioni qui discusse. Ringrazio anche G. Bandelli, F.E. Consolino, E. La Rocca, G.W. Most per i suggerimenti datimi durante la discussione. Rimane inteso che la responsabilità di quanto sostengo in questa sede è solo mia. 1 È un «age of ceremony»: P. BROWN, Power and Persuasion in Late Antiquity. Towards a Christian Empire, Madison, Wisconsin - London 1992, 56. 2 Basti qui un rimando al fondamentale lavoro di L. PERNOT, La rhétorique de l’éloge dans le monde gréco-romain, I-II, Paris 1993. Per il mondo latino, e la tarda antichità, si vd. ora la sintesi di R. REES, Panegyric, in W. DOMINIK - J. HALL (edd.), A Companion to Roman Rhetoric, Oxford 2007, 136-148; anche D. RUSSEL, The Panegyrists and Their Teachers, in M. WHITBY (ed.), The Propaganda of Power. The Role Of Panegyric In Late Antiquity, Leiden 1998, 18-49. Sulla rarità di informazioni sui panegirici non imperiali in lingua latina, vd. anche infra.

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vita cerimoniale tarda al di fuori dell’ambito delle ‘capitali’ è limitata o largamente indiretta3. Gli stessi spazi dove si tenevano spesso queste performances oratorie, le aree pubbliche delle città, ospitavano un’altra forma di celebrazione di imperatori e funzionari, documentata in modo assai più capillare: quella costituita dalle iscrizioni che corredavano i monumenti onorari eretti per omaggiarli. Le due forme di celebrazione, pur ovviamente diverse, erano legate tra loro più di quanto forse non si immagini di solito. 2. Nell’anno 501 o 502, il retore Procopio pronunciò nel teatro di Gaza un panegirico dell’imperatore Anastasio. L’occasione era offerta dalla dedica di una statua del sovrano. Procopio prese la parola di fronte alla folla dei suoi concittadini che si accalcava intorno all’effigie regale, mostrandole il dovuto rispetto, consapevole di «ricevere l’imperatore stesso attraverso la sua immagine» (un concetto ben radicato nella mentalità antica4). La cosa non stupisce: è probabile che – come gli inni che erano spesso recitati di fronte ai templi o alle statue divine – gli encomi fossero spesso pronunciati nei pressi di una statua o di un’effigie del sovrano, del patrono o del governatore lontani5. Nel caso specifico, il compito di comporre il discorso era stato conferito al retore dalla boulê, il consiglio composto dai notabili locali, affinché l’evento fosse degnamente commemorato e all’omaggio della statua si accompagnasse un bel discorso: «sono i logoi a onorare le tue immagini, e le gare oratorie e, di conseguenza le Muse stesse» dice Procopio6. Poco prima di formulare gli 3 Vd. le considerazioni di A. Giardina, in ID. - M. SILVESTRINI, Il principe e il testo, in G. CAVALLO - P. FEDELI - A. GIARDINA (edd.), Lo spazio letterario di Roma antica. II. La circolazione del testo, Roma 1989, 603. 4 La statua garantisce una praesentia al personaggio lodato: PanLat 4,3,1 con il commento di R. REES, Layers of Loyalty in Latin Panegyric: AD 289–307, Oxford 2002, 13-15; su questa prerogativa delle statue, da ultimo P. STEWART, The Image of the Roman Emperor, in R. MANIURA - R. SHEPHERD (edd.), Presence. The Inherence of the Prototype within Images and other Objects, Aldershot 2006, spec. 251-252. 5 PERNOT, La rhétorique…, 441 ss. L’apostrofe alla seconda persona singolare, in caso di panegirici pronunciati in absentia del destinatario della lode, può significare che il retore si trovava presso un’effige imperiale: C. ANDO, Imperial Ideology and Provincial Loyalty in the Roman Empire, Berkeley - Los Angeles 2000, 251. La legge prevedeva che le statue dei governatori fossero collocate solo a mandato scaduto (D. ERKELENZ, Rechtsregelungen zur Verleihung von Ehrungen in Republik und Kaiserzeit, “Hermes” 131, 2003, 67-89): eventuali discorsi che accompagnavano tale occorrenza erano quindi pronunciati in absentia del dedicatario. 6 Proc. Gaz., Pan. Anast. 29: logoi; de; ta;" sa;" eijkovna" timw`si kai; lovgwn ajgw`ne" kai; dia; touvtwn aiJ Mou`sai. Su questo discorso e la sua datazione: A. CHAUVOT, Procope de Gaza, Priscien de Césarée. Panégyriques de l’empereur Anastase 1er, Bonn 1986, 97; ne esistono due edizioni recenti: quella a cura di G. MATINO (Procopio di Gaza. Panegirico per l’imperatore Anastasio. Introduzione, testo critico, traduzione e commentario, Napoli 2005; da integrare con le osservazioni di R. ROMANO, “Nea Rhome” 6, 2009, 127-132; G. VENTRELLA, “Byzantion” 80, 2010, 461-484) e quella di E. AMATO per la Teubneriana (Procopius Gazaeus. Scripta rhetorica et oratoria quae exstant omnia, Berlin - New York 2007).

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auguri di rito, il retore suggerisce quale dovrà essere il testo da incidere sul piedistallo del monumento: «la città al benefattore, per merito del quale ora sollevo il capo orgoglioso, e sono una città»7. Non sappiamo se queste parole furono davvero incise sul piedistallo della statua di Anastasio (né v’è ragione per dubitarne: lo stile ‘epigrammatico’ del testo proposto da Procopio è accettabile per una dedica imperiale di V secolo)8. Poco importa. Non c’è dubbio infatti che tante altre epigrafi prima di quella – composte per glorificare imperatori, più spesso i loro rappresentanti o altri benefattori – erano state commissionate a uomini di lettere, in Oriente e, in misura diversa, in Occidente. Insomma, anche se il loro nome di norma non compare (si tratta in genere di onori resi a titolo pubblico), a redigere il testo delle epigrafi potevano essere gli stessi cui toccava pronunciare i discorsi d’elogio9. D’altronde, anche se non disponessimo di questa bella testimonianza di Procopio, siamo informati a sufficienza sul fatto che la dedicatio delle statue era accompagnata da varie cerimonie, nelle quali le lodi del personaggio onorato potevano avere una parte di rilievo10. La maggioranza di tali discorsi, come in generale gran parte dei logoi d’occasione, non era destinata alla pubblicazione11, e solo in circostanze particolari essi erano fatti circolare in forma scritta12. Quei frammenti, quei distillati di elogio trasposti sulla pietra erano spesso l’unica cosa che rimaneva (in realtà precedendola, poiché 7 § 30: hJ povli" to;n eujergevthn, di j ou| nu`n aujcevna te gau`ron ejpaivrw kai; povli" eijmiv. Queste importanti informazioni di Procopio sulle cerimonie che si svolgono intorno alla statua imperiale non sono repertoriate da Th. PEKÁRY, Das römische Kaiserbildnis in Staat, Kult und Gesellschaft, dargestellt anhand der Schriftquellen, Berlin 1985, che rimane lo studio di riferimento per tali problematiche. 8 Cfr. p.es. R.H.W. STICHEL, Die römische Kaiserstatue am Ausgang der Antike. Untersuchungen zum plastischen Kaiserporträt seit Valentinian I. (364-375 n. Chr.), Roma 1982, 100 n. 110; 102 n. 118; 103 n. 121; 104 n. 129 etc. 9 Talora gli uomini di lettere potevano agire in modo indipendente rispetto alla cittadinanza: ancora in età avanzata, cfr. p.es. il caso delle statue ateniesi con dediche al prefetto Herculius poste nei primi anni del V secolo dai sofisti Aproniano (IG II2 4225; L. ROBERT, Hellenica. IV. Epigrammes du Bas-Empire, Paris 1948, 41-43) e Plutarco (IG II 2 4224; ROBERT, Hellenica…, 73; 95-96; esse potrebbero essere opera di uno solo dei due: B. PUECH, Orateurs et sophistes grecs dans les inscriptions d’époque impériale, Paris 2002, n. 29). 10 Ora ANDO, Imperial Ideology…, 250-253. 11 PERNOT, La rhétorique…, 465 ss. La documentazione epigrafica serba traccia solo raramente della stessa esistenza di queste performances: tra i documenti più significativi v’è l’iscrizione efesina che testimonia di un epainos pronunciato da un oratore durante una festività (forse una gara oratoria), e del quale la città aveva richiesto formalmente una versione scritta vincendo le resistenze dell’autore (M. DEBRUNNER HALL, Reluctant Rhetor, “ZPE” 91, 1992, 121-128). Naturalmente diverso è il caso delle iscrizioni che riportano il testo di un atto ufficiale (decreto, epistola imperiale…) contenente una più o meno sviluppata sezione laudativa: solo p.es. IKEphesos 41 che riproduce il testo della lettera di Costanzo II sugli onori da tributare a Fl. Philippus (su cui L.J. SWIFT - H. OLIVER, Constantius II on Flavius Philippus, “AJPh” 83, 1962, 247-264). 12 Per la tarda antichità la testimonianza di Libanio (p.es. or. 1,72.111-113; ep. 345,1) mostra che copie venivano richieste e talora pubblicate a loro spese dai destinatari della lode.

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tenderei a credere che l’iscrizione fosse realizzata prima) di un’esperienza più grandiosa, di una festività cittadina scandita da eulogie e acclamazioni corali, colorata di musica e profumi: l’oratore, magari solo un retore o un semplice grammatico locale, che aveva pagato con l’elogio il suo debito all’onorando, poteva consolarsi nel vedere fissate quelle poche parole, esigua e anonima traccia del suo contributo, in una dimensione temporale ben più ampia, quella che conferiva loro l’esser scolpite nella pietra o nel bronzo. Le epigrafi ‘d’autore’ non costituivano naturalmente la maggioranza. Ma il rapporto tra encomi e iscrizioni non veniva a mancare da altri punti di vista. Si è detto che i discorsi erano di frequente pronunciati in luoghi pubblici, il teatro o il foro, talora davanti alla statua del laudandus, che si aggiungeva al nutrito gregge delle statue di imperatori del passato, di funzionari romani, di magistrati cittadini. Le iscrizioni sotto quelle statue, soprattutto quelle poste negli spazi politicamente e simbolicamente importanti, passavano tutt’altro che inosservate. Sappiamo che almeno alcune di esse venivano lette con attenzione, talora erano trascritte (o riassunte nel contenuto) e citate, con finalità diverse, in opere letterarie di vario genere13, anche in composizioni di tipo encomiastico: si pensi alla descrizione da parte di Eusebio dell’effigie di Costantino nel foro di Roma, e della controversa epigrafe sulla sua base14. Nell’oriente greco tardoantico, dove le iscrizioni dedicatorie (di statue e di altro) erano tipicamente brevi componimenti in versi, questi erano spesso copiati e molti di essi ci sono giunti per via letteraria, oltre che epigrafica15. Ben inteso, per quanto le due pratiche celebrative fossero a contatto, esse rimanevano cose distinte, e non v’è bisogno di spiegare perché. Anche l’epigrafia collegata ai monumenti onorari è, in un certo senso, un ‘genere’. Possiede una propria tradizione e un proprio repertorio di lingua e di stile canonizzatosi nel periodo ellenistico-romano, in forme diverse nella province di lingua greca e in quelle di lingua latina. Tuttavia, l’epigrafia tarda – quella del 13 L’interesse degli autori per le iscrizioni è antico: S. WEST, Herodotus’ Epigraphical Interests, “CQ” 35 (1985), 278-305. Esistevano raccolte di iscrizioni pubbliche riunite a scopo storico-documentario (C. HIGBIE, Craterus and the Use of Inscriptions, “TAPhA” 129, 1999, 43-83). Per il periodo imperiale, emblematico è il caso di Pausania: Chr. HABICHT, Pausanias and the Evidence of Inscriptions, “ClAnt” 3 (1984), 40-56; H. WHITTAKER, Pausanias and His Use of Inscriptions, “SO” 66 (1991), 171-186. Per l’uso dell’epigrafia in altri generi letterari, vd. p.es. P. LIDDEL, Scholarship and Morality: Plutarch’s Use of Inscriptions, in A.G. NIKOLAIDIS, The Unity of Plutarch’s Work. ‘Moralia’ Themes in the ‘Lives’, Features of the ‘Lives’ in the ‘Moralia’, Berlin - New York 2008, 125-137. 14 Eus. HE 9,9,10 ss.; Tr. 9,8; VC 1,40,2. 15 Cfr. p.es. A. CAMERON, Porphyrius the Charioteer, Oxford 1973; C. MANGO, Epigrammes honorifiques, statues et portraits à Byzance, in jAfievrwma sto;n Nivko Sborw`no, I, Rethymno 1986, 23-35 [= C. MANGO, Studies on Constantinople, Aldershot 1993]. Talora poteva accadere l’inverso: cfr. p.es. l’epigramma di Gregorio di Nazianzo in onore di un Prefetto al pretorio, maldestramente riadattato in un elogio funerario d’Egitto (ora PUECH, Orateurs…, 315-316).

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periodo che interessa – è diversa da quella precedente, sia in Oriente sia in Occidente. A partire dal III sec. d.C., in effetti, il linguaggio delle iscrizioni onorarie cambia, si diversifica. Sempre maggior spazio vi è consacrato a quelle che talora vengono definite le “titolature non ufficiali” degli imperatori, o gli “elogi delle virtù” dei funzionari, che tendono a sostituirsi all’elenco dei titoli e delle cariche che costituiva il nucleo dell’epigrafia onoraria dei primi secoli; si assiste anche all’irrompere nello spazio epigrafico di elementi tratti da altri generi, ovvero alla trasposizione sul piano celebrativo di forme, pure epigrafiche, ma prima confinate all’ambito privato. Il processo di trasformazione può ritenersi compiuto nell’età di Diocleziano in entrambe le partes16. Il grado di interazione tra elogi epigrafici, in versi e prosa, i precetti della retorica epidittica o le sue applicazioni concrete costituisce un campo di studio di grande interesse, che può portare a un arricchimento delle nostre conoscenze sia nell’ambito degli studi letterari sia in quello degli studi propriamente epigrafici e, più in generale, a una migliore comprensione della vita cerimoniale nelle città del mondo tardoantico17. L’esigenza di studi complessivi su queste reciproche influenze tra generi è sentita soprattutto per il mondo latino e più in particolare per l’elogio dei senatori, funzionari, o (in misura assai più ridotta) dei membri delle aristocrazie municipali: alla scarsità di riferimenti a panegirici non imperiali in lingua latina fa fronte un considerevole numero di elogi epigrafici, talora estremamente elaborati (penso alle dediche della Roma di IV e V secolo, ma anche a molti documenti simili dall’Italia peninsulare e dalle province del nord-Africa)18: la stessa esistenza di questi elogi epigrafici sembra indicare che anche l’Occidente fosse familiare con le tecni16 Cfr. p.es. per il mondo latino V. NERI, L’elogio della cultura e l’elogio delle virtù politiche nell’epigrafia latina del IV secolo d.C., “Epigraphica” 43 (1981), 175-201; A. CHASTAGNOL, Le formulaire de l’épigraphie latine officielle dans l’antiquité tardive, in A. DONATI (ed.), La terza età dell’epigrafia. Colloquio AIEGL-Borghesi 86, Bologna 1986, Faenza 1988, 11-64; O. SALOMIES, Observations on the Development of the Style of Latin Honorific Inscriptions during the Empire, “Arctos” 28 (1994), 63-106; da ultimo R. DELMAIRE, Un genre en voie de disparition: les cursus épigraphiques au Bas-Empire, in J. DESMULLIEZ - Chr. HOËT-VAN CAUWENBERGHE (edd.), Le monde romain à travers l’épigraphie. Méthodes et pratiques, Actes du XXIVe Colloque International Lille 2001, Lille 2005, 247-270. Per il mondo greco: ROBERT, Hellenica…; Ch. ROUECHÉ [- J.M. REYNOLDS], Aphrodisias in Late Antiquity, London 1989 [d’ora in poi citato come ALA]; EAD., Written Display in the Late Antique and Byzantine City, in E. JEFFREYS (ed.), Proceedings of the 21st International Congress of Byzantine Studies, Aldershot 2006, 235-254. 17 In questo senso è benvenuto il lavoro di M. CRETÉ, Les formes de l’éloge dans les inscriptions honorifiques du Latium et de la Campanie (IIe-IVe siècle ap. J.-C.), “MEFRA” 122 (2010), 191-226; di prossima discussione presso l’Università di Nizza è la tesi della stessa studiosa su questi temi (Vertus aristocratiques et rhétorique de l’éloge dans les inscriptions honorifiques d’antiquité tardive). 18 Varie centinaia di elogi epigrafici in latino a fronte di una manciata di allusioni a discorsi encomiastici di funzionari; non considero qui i panegirici come quelli di Claudiano per Stilicone, di Merobaude per Ezio, di Cassiodoro per Eutarico, visto che si riferiscono a figure di palazzo, imparentate con la famiglia regnante o di eccezionale rilievo politico.

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che e le pratiche dell’elogio, e che quest’ultimo svolgesse un ruolo importante nella vita politica di tante sue città19. Poiché in questa sede ci si occuperà di elogi epigrafici e panegirici in onore degli imperatori – per lo più dediche in prosa poste su basi di statua20 – saranno sufficienti brevi cenni alle loro caratteristiche. Gran parte di essi non si limitano al nome e agli epiteti di rito ma contengono una o più sezioni laudative. Queste si presentano spesso come collage – assemblati più o meno efficacemente – di ritagli di titolatura, di acclamazioni, o di altri slogan che si ritrovano altrove21. Talvolta invece si tratta di testi più complessi, costruiti in modo coerente e caratterizzati da uno stile più ricercato, come si vedrà fra poco. In un caso o nell’altro, è importante sottolineare che non si incontrano praticamente mai due iscrizioni perfettamente eguali, come capita invece nell’alto impero, e nondimeno si rileva una sostanziale omogeneità: gli stessi imperatori appaiono celebrati, con espressioni simili, da un capo all’altro del Mediterraneo. Non stupisce perciò che tra gli storici, anche se con sfumature rilevanti, si sia diffusa la tendenza a considerare queste testimonianze come veicolo di una ‘propaganda’ (il termine è divenuto d’uso comune) centrale, strumenti consapevoli (o, più di rado, inconsapevoli) di campagne di indottrinamento e di manipolazione dell’opinione. Alcuni studiosi, concentrandosi sulle formule ricorrenti per ciascun regno o addirittura per ciascuna delle sue varie fasi, hanno tentato di ricostruire il messaggio originale di cui queste formulazioni sarebbero il più o meno libero riflesso, in quanto risultato della ricezione e della rielaborazione di quel messaggio in ambito periferico22. Un 19 L’elogio non è cosa da romani, recita un cliché che gli stessi romani amavano ripetere: Cic. de or. 2,341; il principio è già affermato dall’autore della Rhetorica ad Herennium: PERNOT, La rhétorique…, 106-111 con le altre testimonianze. A parte le laudationes funebri e le gratiarum actiones, le occasioni per discorsi di tipo epidittico erano certamente meno numerose che nel mondo greco. Ma immaginare che i governatori di provincia non ricevessero l’omaggio di un discorso al loro arrivo e alla loro partenza nelle province dell’Occidente pare davvero inverosimile: ciò è indirettamente smentito dalla testimonianza di Apuleio (flor. 17) che mostra come i meccanismi del rapporto oratore-governatore nella Cartagine del II secolo non erano dissimili da quelli che troviamo, p.es., nell’Antiochia di Libanio (il retore vuole parlare all’aperto in pubblico, e vince le resistenze del proconsole); la stessa testimonianza presuppone che l’elogio del governatore fosse parte integrante del suo adventus e del cerimoniale politico nei capoluoghi di provincia: su tutta la questione vd. A. LA ROCCA, Il filosofo e la città. Commento storico ai Florida di Apuleio, Roma 2005, 256-258. 20 Ma anche sui miliari: sul carattere ‘onorario’ dei miliari tardi, P. SALAMA, Bornes milliaires d’Afrique proconsulaire: un panorama historique du Bas-Empire romain, Roma 1987, 58-59. 21 Non ultimo nelle leggende monetarie, un altro medium con una sua tradizione consolidata di formule, e con il quale il linguaggio epigrafico occasionalmente interagisce: vd., p.es., A. CHASTAGNOL, Les inscriptions constantiniennes du cirque de Mérida, “MEFRA” 88 (1976), 259-276 [= ID., Aspects de l’Antiquité Tardive, Roma 1994, 43-59]. 22 Cfr. p.es. Th. GRÜNEWALD, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stuttgart 1990 che immagina una propaganda pianificata dalla cancelleria e un controllo centrale sui messaggi da diramare all’esterno; cfr. la critica a questa impostazione del pro-

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approccio sostanzialmente simile è applicato talora anche all’analisi dei panegirici23. Come dovendo ricostruire un archetipo, dalle varianti si tenta di risalire all’originale, a una versione ufficiale elaborata a corte, di cui sarebbero appunto espressione epigrafi, panegirici, monete e altro. 3. Per esemplificare e approfondire quanto finora tratteggiato sul rapporto tra formulari epigrafici, panegirici e rappresentazione pubblica dell’imperatore, ci si servirà di due documenti dell’età di Giuliano. L’epigrafia di Giuliano è, nonostante la brevità del suo regno, numericamente molto ricca, soprattutto rispetto agli standard quantitativi del IV secolo24; anche dal punto di vista testuale, le iscrizioni di Giuliano – in particolare le dediche di statua ma anche i miliari – presentano formulazioni affatto originali25. Abbondanti sono le fonti che riguardano la vicenda di questo imperatore, che ha lasciato a sua volta un considerevole corpus di scritti. Tutto ciò fa sì che un confronto tra iscrizioni giulianee e testimonianze di altro tipo possa rivelarsi particolarmente fruttuoso. Il primo documento proviene da Ancyra (Ankara) ed è conosciuto da tempo. Si tratta dell’iscrizione posta sulla base di una statua dedicata a Giuliano dal prefetto al pretorio d’Oriente Saturninus Secundus Salutius. Salutius è un personaggio noto, della cui brillante carriera sarà utile riassumere alcune tappe: di origine gallica, dopo una serie di incarichi era stato affiancato al Cesare Giuliano, forse come quaestor con il rango di comes consistoriano. Uomo colto (conosceva bene il greco) e pagano convinto, si era guadagnato la fiducia e l’amicizia del giovane principe con cui collaborò fino a quando l’Augusto Costanzo, insospettito, non lo fece richiamare. Più tardi Giuliano, ormai solo regnante, lo nominò prefetto al pretorio al suo arrivo a Costantinopoli. Da quel momento Salutius rimase sempre al fianco del principe che seguì nella sfortunata avventura persiana. A ragione questa statua e l’epigrafe che la correda sono state messe in relazione con il passaggio del corteo imperiale per Ancyra, nella tarda primavera del 362. Eccone il testo26: blema da parte di C.E.V. NIXON, Constantinus Oriens Augustus: Propaganda and Panegyric. On reading Panegyric 7 (307), “Historia” 42 (1993), 229-246. 23 E delle monete: un’eccellente introduzione al problema per quanto riguarda il rapporto tra monete e propaganda in R. HEDLUND, “… Achieved nothing worthy of memory”. Coinage and Authority in the Roman Empire c. AD 260-295, Uppsala 2008. 24 Vd. I. TANTILLO, Le trasformazioni del paesaggio epigrafico nelle città dell’Africa romana, in C. MACHADO - C. WITSCHEL, Epigraphic Cultures of Late Antiquity, Conference, Heidelberg 2009, c.d.s. 25 Le ragioni sono molteplici: l’entusiasmo suscitato dalle grandi riforme in campo politico e religioso di Giuliano, la sua capacità di comunicatore, lo stile, affatto originale, della sua legislazione (su cui ora J.-M. CARRIÉ, Julien législateur: un mélange des genres?, “AnTard” 17, 2009, 175-184). Per alcuni esempi di iscrizioni giulianee caratterizzate da formulari complessi e originali, cfr. infra nt. 63. 26 CIL III 247 = ILS 754 = Conti 2004, n. 20. Vd. anche J. ARCE, Estudios sobre el Emperador Fl. Cl.

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Domino totius orbis / Iuliano Augusto / ex Oceano Britannico vi(i)s per / barbaras gentes / strage resistenti/um patefactis adus/que Tigridem una / aestate transvec/to Saturninius / Secundus v(ir) c(larissimus) .p.r.a.e.f (ectus)27 / praet(orio) [d(evotus)] n(umini) m(aiestati)q(ue) [ei(us)]

Anche a un primo superficiale esame, il dettato dell’epigrafe si rivela tutt’altro che ordinario28, al di là dell’apparente banalità dei temi evocati (vittoria sui barbari, velocità dell’imperatore, dominio cosmocratico) e di alcune espressioni formulari29. Si osservi intanto che il testo sembra annunciare come realizzato quanto tecnicamente non è ancora avvenuto: il raggiungimento delle sponde del Tigri. Quella dell’imperatore che in un anno aveva attraversato il mondo dalla Manica al Tigri non è forse solo un’iperbole (una aestate transvectus, anche l’uso di questo verbo è interessante per le associazioni che evoca30), ma potrebbe riflettere il clima di entusiasmo per l’avvento del nuovo principe e persino vagheggiare già l’impresa persiana. Vale la pena di soffermarsi a esaminare il modo in cui i temi sono contestualizzati e sviluppati. Si noterà che la discesa lungo il Danubio nell’estate 361, la spedizione preparata per affrontare Costanzo II in quella che allora si profilava come un’inevitabile guerra, è descritta come una fulminea campagna militare contro i nemici esterni (viis per barbaras gentes patefactis). Ciò corrisponde esattamente alla versione che della campagna del 361 aveva fornito il panegirista Mamertino nel gennaio 362 (PanLat 3 (11),7,1-5; ed. R.A.B. Mynors, Oxford 1964)31: Juliano. Fuentes literarias. Epigrafía. Numísmatica, Madrid 1984, n. 111; K. DIETZ, Kaiser Julian in Phönizien, “Chiron” 30 (2000), 821; G. DE JERPHANION, Inscriptions grecques et latines d’Angora, “Mél. Fac. Orient. Univ. Saint Joseph” 13 (1928), 234-235 con una foto della posterula ove fu murata l’iscrizione (tavola 103.3). 27 Le lettere PRAEF erano integrate da Mommsen sulla base del confronto con l’iscrizione urbana in onore dello stesso personaggio (CIL VI 1764 = ILS 1255); DE JERPHANION, Inscriptions…, 234-235 afferma di averne potuto riconoscere la parte superiore. 28 Non deve ovviamente stupire il fatto che l’epigrafe sia redatta in latino: la cosa è piuttosto frequente dall’età di Diocleziano e non è collegata all’origine del funzionario dedicante (D. FEISSEL, Les inscriptions latines dans l’Orient protobyzantin, in Akten des XIV. internationalen Kongresses für christliche Archäologie, Wien 1999, Citta del Vaticano - Wien 2006, 99-129; vd. anche le considerazioni generali dello stesso Feissel nella Conférence d’Ouverture dell’Ecole pratique del 2000, ora in Documents, droit, diplomatique de l’Empire romain tardif, Paris 2010, 3-4): per limitarsi al periodo considerato, in latino sono le iscrizioni in onore di Giuliano di Efeso e Pergamo (cit. infra ntt. 29, 43 e 63), opera del proconsole d’Asia Dulcitius, d’origine frigia (PLRE I, 274 s.v. Dulcitius 5); e in latino è la dedica a Costanzo II da Tralles (ILS 733), posta da un altro proconsole di origine orientale, Fl. Magnus (PLRE I, 535 s.v. Magnus 9). 29 Domino totius orbis ricorre anche in CIL III 7088 = ILS 751 = IPergamon 633 = S. CONTI, Die Inschriften Kaiser Julians, Stuttgart 2004 [da ora in poi citato solo come Conti], n. 28; la menzione delle gentes barbarae è frequente nelle iscrizioni onorarie, non lo è invece il sostantivo strages. 30 Il verbo suggerisce il suo movimento, il passaggio effettuato con una nave, con un cavallo o con un carro (OLD 1968); Ammiano (22,2,3) confronta Giuliano con Trittolemo e il suo carro alato. 31 Il parallelo con Mamertino, limitatamente a quel che concerne i successi sui barbari evocati

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Sufficere quidem poterat ad expeditionem praesentium negotiorum sola properatio, sed non sufficit principi nostro publicae rei una ratione consulere. Multa pariter aggreditur pectus nullis umquam laboribus fatigatum. Ut uno eodemque tempore et componeret fidissimarum provinciarum statum et barbariam omnem admoto propius terrore percelleret, longissimo cursu Histrum placuit navigari. Pro sancta divinitas! Quae navigationis illius fuit pompa, cum dexteriorem incliti fluminis ripam utriusque sexus, omnium ordinum, armatorum atque inermium perpetuus ordo praetexeret, despiceretur ad laevam in miserabiles preces genu nixa barbaria! Omnes urbes quae Danuvium incolunt aditae, omnium audita decreta, levati status instaurataeque fortunae, innumerabilibus barbaris data venia et munus pacis indultum. Qui properationem illam contemplabitur, nihil egisse praeter viam imperatorem putabit; qui gestarum rerum multitudinem considerabit, properasse non credet.

Nessun accenno ai propositi aggressivi di Giuliano, all’intenzione di cogliere di sorpresa Costanzo, ma solo questa raffigurazione del rapido ed efficace intervento del principe a vantaggio dei provinciali, dei barbari che si prostrano e delle città che gioiscono32. La velocità dell’azione del sovrano è un luogo comune della tradizione eulogistica: un cliché che, tuttavia, in questo caso almeno, trovava conferma e si rafforzava nella realtà dei fatti33. Una simile rilettura degli avvenimenti, una simile distorsione, era stata resa possibile dall’inattesa morte di Costanzo, sopravvenuta prima che i due cugini potessero scontrarsi: ciò aveva risparmiato a Giuliano l’imbarazzo di dover dichiarare suo cugino un tyrannus. Quella che era nata e concepita come una campagna militare in una guerra civile poteva esser trasformata ora in qualche cosa di meno scabroso, persino di eroico. Ed è quello che fanno il panegirista e il redattore della nostra epigrafe. Poi la menzione dell’Oceano Britannico e del principe che attraversa il mondo muovendo dai suoi estremi confini: il tema manca in Mamertino. Un tema che si sbaglierebbe a liquidare come un cliché banale o insignificante (la letteratura è piena dell’immagine del dio, dell’uomo, dell’eroe che attraversa il dall’iscrizione in esame, è segnalato anche da S. CONTI, Un aspetto della propaganda imperiale tardoantica: la titolatura di Giuliano nelle fonti letterarie ed epigrafiche, “Koinonia” 30-31 (2006-2007), 33 che propone un confronto pure con Amm. 16,1,1 e soprattutto con Lib. or. 24,37. Sulla velocità dell’imperatore, concetto collegato a quello della sua ubiquità, F. BURDEAU, L’Empereur d’après les panégyriques latins, in F. BURDEAU - N. CHARBONNEL - M. HUMBERT, Aspects de l’Empire Romain, Paris 1964, 21. 32 Sulla distorsione dei fatti operata da Mamertino, vd. già R. PICHON, Les derniers écrivains profanes, Paris 1906, 117-118; S. MACCORMACK, Latin Prose Panegyrics, in T.A. DOREY (ed.), Empire and Aftermath. Silver Latin II, London - Boston 1975, 184-185; C.E.V. NIXON in ID. - B. SAYLOR RODGERS, In Praise of Later Roman Emperors. The Panegyrici Latini, Berkeley - Los Angeles - Oxford 1994, 405 nt. 47; cfr. anche R.C. BLOCKLEY, The Panegyric of Claudius Mamertinus on the Emperor Julian, “AJPh” 93 (1972), 442. 33 Il passaggio dal Reno ai Balcani era stato effettivamente molto rapido: Giuliano era partito nella primavera inoltrata del 361, a dicembre era entrato a Costantinopoli e di qui si era mosso nella primavera successiva: T.D. BARNES, Athanasius and Constantius: Theology and Politics in the Constantinian Empire, Cambridge Mass. 1993, 228. La velocità dell’imperatore è sottolineata dalle fonti: Amm. 29,9,2 etc.; Lib. or. 12,63-64; 18,111-112; Greg. Naz. or. 4,47; Zos. 3,10,3.

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Ignazio Tantillo

mondo da un capo all’altro…). Quest’immagine – questo cliché se si preferisce – era stata valorizzata (diremmo ‘risemantizzata’) sotto Costantino, e in un senso particolare, come illustra una serie di documenti. Nella celebre lettera ai provinciali di Palestina, conservataci da Eusebio ma la cui paternità costantiniana non è più in dubbio (proprio alcune parti di essa furono riconosciute da Jones in un papiro egiziano34), vediamo l’imperatore ormai unico sovrano dell’impero, rievocare con orgoglio le sue imprese, e presentarle come una sorta di missione : «Dio stesso ha ricercato e giudicato adatto ai suoi fini il mio servizio: infatti cominciando dal mare che bagna la lontana Britannia e dalle regioni sulle quali il disegno di una forza superiore ha predisposto il tramonto del sole, io ho scacciato tutti i mali esistenti … e sono da ultimo giunto fino alle terre d’Oriente… [trad. Tartaglia]»35. Ovviamente Costantino allude alla sua acclamazione a York, forse alle guerre contro i Franchi, certamente a quelle contro Massenzio e poi contro Licinio, a tutte le vittorie, appunto, che avevano accompagnato la sua opera di liberazione del mondo dalle diverse tirannie. La lettera di Costantino – è specificato al suo termine – era destinata a esser affissa nei luoghi pubblici, come era uso per gli editti e altre comunicazioni imperiali; quasi certamente, quest’epistola era affiancata da testi simili per le altre province d’Oriente. In ogni caso, l’immagine del sovrano venuto dai confini del mondo a liberare l’umanità seguendo un corso preciso circolava. Vale la pena di insistere ancor un po’ sul punto. Tale rappresentazione dell’imperatore era nata tempo prima e si era andata gradualmente elaborando. Nel panegirico pronunciato a Treviri nel 310 se ne trova quello che potremmo definire il nucleo, la versione embrionale. Per celebrare il suo principe, allora padrone delle sole province settentrionali, l’oratore propone un elogio che potremmo definire ‘paradossale’ della lontana e selvaggia Britannia, luogo sperduto per antonomasia. Con un rovesciamento dell’immagine consueta, l’isola diviene un landa fortunata perché la luce del sole non l’abbandona mai; si ricorda inoltre che «le nuove divinità, destinate ad essere venerate dal mondo intero, provengono sempre da qualche remotissima regione della terra» (semper ex aliquo supremo fine mundi nova deum numina universo orbi colenda descendunt), e perciò che i luoghi «più vicini al cielo» sono più sacri di quelli mediterranei36. 34 Il P.Lon 878: A.H.M. JONES, Notes on the Genuineness of the Constantinian Documents in Eusebius’ Life of Constantine, “JEH” 5 (1955), 196-200; sulla questione, vd. F. WINKELMANN, Zur Geschichte des Authentizitätsproblems der Vita Constantini, “Klio” 40 (1962), 187-243; da ultimo A.J. CARRIKER, The Library of Eusebius of Caesarea, Leiden - Boston 2003, 289-290. 35 Eus., Vita Const. 2, 28,2-29,1 (ed. F. WINKELMANN, Berlin 19912): th;n ejmh;n uJphresivan pro;" th;n eJautou` bouvlhsin ejpithdeivan ejzhvthsevn te kai; e[krinen, o}" ajpo; th`"