Cineprese futuriste. Atti del Convegno internazionale nei cento anni del Manifesto della cinematografia futurista (Roma, 28 novembre 2016) 8865989386, 9788865989388

Sono trascorsi cento anni dal manifesto "La cinematografia futurista", e questo volume offre ai lettori la pos

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Cineprese futuriste. Atti del Convegno internazionale nei cento anni del Manifesto della cinematografia futurista (Roma, 28 novembre 2016)
 8865989386, 9788865989388

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FUXURI/MO EMILIANO E ROMAGNOLO [3'4]

Due fotogrammi da La guerra e il sogno di Momi di Segundo de Chomòn, 1917.

Il convegno realizzato con il patrocinio di

Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

MINISTERO DELL'AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE

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Foculté des lettres, Arts et Sciences Humaines

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Biblioteca Nazionale Centrale di Roma

CINEPRESE FUTURISTS ATTI DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE NEI CENTO ANNI DEL MANIFESTO DELLA CINEMATOGRAFIA FUTURISTA ROMA, 18 NOVEMBRE 1016

a cura di Enrico Bittoto

Pendragon

Cineprese futuriste Atti del Convegno internazionale nei cento anni del Manifesto della cinematografia futurista (Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 28 novembre 2016)

a cura di Enrico Bittoto

Volume realizzato con il contributo della

FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO IN BOLOGNA

Tutti i

diritti riservati

©2018, Edizioni Pendragon Via Borgonuovo 21/a - 40125 Bologna www. pendr agon. it E vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

Indice

Collaudo al Convegno internazionale nei cento anni del Manifesto della cinematografia futurista, di Enrico Bittoto

p. 7

Ricordo del professor Mario Verdone, di Enrico Bittoto

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Sinossi e commento al film 11 Futurismo. Un movimento di Arte/Vita (2010), di Luca Verdone ed Enrico Bittoto

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Marinetti e il cinema. Pro e contro, di Francesca Barbi Marinetti

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Futur-Pulp. Marinetti e il montaggio della parola, di Marcello Francolini

29

Cinema e industria dello spettacolo nella pubblicistica futurista, tra promozione, critica e “misurazioni”, di Matteo Fochessati

49

Ruggero Vasari Futurista ruggente, di Ruggero Vasari

71

Dal teatro futurista al cinema espressionista. Sviluppi internazionali e intermediali nel ciclo di L’uomo e la Macchina di Ruggero Vasari, di Meike Beyer (Technische Universitdt Dresden)

77

Aldo “Victor de Sanctis”, di Fabrizio de Sanctis

107

Anton Giulio Bragaglia e il “perfido incanto” del cinematografo, di Mauro Carrera

113

Méliès e Marinetti: nullax e altri desideri di poesia-cinema, di Barbara Meazzi

139

Reperti cartacei del cinema futurista sul mercato antiquario: il poster “Primo film futurista”, di Giacomo Coronelli

\5~l

Sepo e Diana Mac-Gill. Note sui film di due ferraresi, futuristi sui generis, di Lucio Scardino

169

Sfortunello cineamatore sintetico Compendio sinottico del Cinefuturismo e di alcuni suoi topoi, di Enrico Bittoto

181

Francesco Balilla Pratella e il cinema futurista, di Antonio Castronuovo

189

“Si stava meglio con le solite film mute”, ma i poeti salveranno il cinema. I futuristi e la settima arte (1924-38), di Matteo D’Ambrosio

199

Esodo Fratelli dal cenacolo futurista romagnolo alle esperienze cinematografiche, di Gian Paolo Borghi

221

“Sintesi alogica e fuggente della vita mondiale”: il cinema futurista nei suoi rapporti con gli altri media, di Antonio Saccoccia

245

Ringraziamenti

267

Collaudo al Convegno internazionale nei cento anni del Manifesto della cinematografia futurista di Enrico Bittoto

Ho inteso titolare questo breve intervento d’apertura: “COL­ LAUDO” e ciò in onore a S.E. l’Accademico d’Italia, Filippo Tommaso Marinetti che, con tale termine, era aduso chiamare le prefazioni tanto generosamente profuse anche a volumi di giovani o giovanissimi collaboratori del Movimento Futurista. Un altro onore che riteniamo fargli, non meno importante, è il ricordo qui e ora, nella nostra “biblioteca delle biblioteche”, che così gentilmente ci ospita in questa Sala Convegni - utero artistico nel corpo della conoscenza - della scintilla da lui forse meno sviluppata e che, tuttavia, ha avuto maggior fortuna, er­ gendosi tra il mondo dei media e dei suoi mercanti, influencer di decine e decine di generazione umane: il Cinema, ovvero l’immagine e il messaggio in movimento, il totemico tramite dei sentimenti che quotidianamente ci accompagna, proteiforme, anche adesso dagli schermi dei vostri smartphone, tablet e di tutti gli altri moderni mezzi elettronici e non che il nostro vate avrebbe sicuramente amato con riserva e subitaneamente de­ anglicizzato nei nomi. Il “centenario” Manifesto della cinematografia futurista, pur così attuale e proteso all’oltre, come tanti manifesti marinettiani, sconta oggi, forse di malavoglia, grazie ai numerosissimi e com­ petenti interventi che seguiranno, il vivo apprezzamento della storia e, lungi dall’essere bruciato assieme alle biblioteche, si staglia a guisa di obelisco, quale monito attualissimo e program­ matico di quella che Ginna e Corra definirono, in uno dei loro primi scritti, “arte dell’avvenire”, un modello di concepire il gesto artistico che, invero, a più di un secolo di distanza, sten­ tiamo ancora a riconoscere nell’acerbo e a tratti ingenuo mare magnum biennalistico mondiale. E dunque l’ignoranza del dettato futurista e magico appare

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nuovamente vivida, oggi, all’interno di questa società del non ricordo che brucia il passato e le sue luminosissime preveggenze con il “fuoco greco” dell’ignavia, tipico di questa caotica civiltà della multi-informazione. Il tanto e subito che si adopera scien­ tificamente per distruggere il poco ed essenziale. Ho però poc’anzi accennato a Corra e Ginna, e infatti, la celebrazione del centenario non dimentica che quest’anno si compiono anche i quarant’anni dalla morte di Bruno Ginanni Corradini, sul cui genio primitivo, astratto e poetico-visuale, modellatore, assieme al fratello Ginna, dell’essenza sostanziale del filone d’indagine degli “stati d’animo” futuristi, portati alla ribalta da Boccioni, Steiner, Bot, Illari e Barthelet per citarne gli “esploratori” più conosciuti, vogliamo oggi render memo­ ria, ricordandone i primordi felsinei, in quanto, proprio a Bo­ logna, assieme all’allora inseparabile Emilio Settimelli, volle osare la prima assoluta del Teatro sintetico futurista, immagi­ nifico embrione coevo a quello della cinematografia futurista

astratta. Bruno Corra, uomo riservato e, di converso, letterariamente oltremodo prolifico, navigò il Novecento attraverso i marosi delle due guerre senza perdere di vista la dimensione pneuma­ tica dell’esperienza sensibile. Non abiurò mai, come altri ebbero a fare per convenienza, i primordi artistici, pur dedicandosi ad altri aspetti della letteratura non strettamente legati al solo Fu­ turismo. In lui rivedremo sempre il giovane efebico fissato nella celebre foto che ritraeva la “pattuglia azzurra” di «L’Italia Fu­ turista», esperimento giornalistico per molti versi rimasto insu­ perato all’interno dell’alveo delle riviste affiliate o di diretta emanazione del Movimento. Perseguendo stoicamente in questo non casuale concatena­ mento, Bruno Ginanni Corradini e, soprattutto, il fratello Ar­ naldo, furono “resuscitati” agli oneri e onori della cronaca da colui che, per moltissimi di noi, è Maestro, Precursore onnivoro, e Lanterna nei momenti di ragionamento e speculazione sma­ niosa: il compianto chiarissimo professor Mario Verdone, ov­ vero uno dei più poliedrici archeologi-pioneri delle arti mo­ derne e contemporanee, colui che con mirabile tempismo e op­

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portuna preveggenza seppe restituire alla contemporaneità non solo la cinematografia futurista ma il futurismo stesso, obliato più o meno consapevolmente, da una malintesa pudicizia di una politica, e a cascata di un’opinione pubblica, costrette dai tempi e dalle fazioni a una errata e manierata rielaborazione critica del proprio recente passato. La sua fu una riscoperta “artigianale” prima che scientifica, dove a fianco dello studio propriamente accademico si era in­ staurato, negli anni, quel rapporto empatico nei confronti del­ l’oggetto d’indagine, tanto da rendere il professor Verdone un vero “Amico” di tanti Futuristi, sino a fargli condividere angoli intimi della loro vita, anche non strettamente legati alla materia per la quale Lui li aveva in primis ricercati. Di poi, soverchiarne una sana passione collezionistica, faci­ litata e alimentata dall’approdo a “giacimenti vergini” di carte, libri e oggetti ricercati in anni non sospetti, questa gli rese giu­ stizia e confermò o corresse tante sue asserzioni abbozzate anche solo per ipotesi, nell’impotenza materiale, durante i pri­ missimi decenni del secondo dopoguerra, di poter accedere fa­ cilmente a tali e tanti “rivoli futuristi”. Ma la vita del professor Verdone, seppur a tratti futur-baricentrica, non può ridursi a questo solo aspetto, gli faremmo un torto grave. Egli era, e lascerò descriverne le linee magistrali al figlio, il dottor Luca Verdone, che ringrazio per questa sua am­ bitissima adesione, uno studioso totipotente, ovvero aperto e, potenzialmente adattabile, a qualsiasi disciplina, non solo arti­ stica. Un uomo che ben rappresenta l’epica della ricostruzione post-bellica, la quale non fu solo materiale ed economica, ma anche intellettuale e critica, formulatrice di una proposta di stu­ dio della storia e delle arti che ha fatto della contaminazione tra generi una costante della ricerca e di cui, sicuramente, il pro­ fessor Verdone fu uno dei più chiari profeti. Ma giungiamo ora, molto brevemente, al tema del Conve­ gno, ovvero cosa fu e cosa rappresentò la “Cinematografia fu­ turista”. Non mi dilungherò affatto in disamine che saranno ben composte e approfondite dai chiarissimi relatori che seguiranno

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a questa mia introduzione. Tuttavia mi permetterete una consi­ derazione nel merito, anti-evenemenziale. Contrariamente ad alcune “prose poetiche” dalla periodizzazione frammentaria e involuta, talvolta presenti pur fra i tan­ tissimi, mirabili esempi di magistrale paroliberismo o versoliberismo, (modi espressivi comunque spesso univoci e particolari di ogni singolo autore), la tecnica filmica futurista, almeno per ciò che ne rimane, non appare mai capziosa o criptica ma, anzi, tende ad assomigliare a quel regolare quanto sincopato “flusso di coscienza” che ne regge il primo filo logico senza soluzione di continuità. L’immediatezza, seppur talvolta immersa nell’astrazione più totale, ne fa, invero, l’arte maggiormente affine agli stilemi ori­ ginali propugnati con tanta candida veemenza nel primigenio e sensazionale Manifesto del 1909. Tralasciando per un attimo la trama reale e antropizzata del film Vita futurista e le similari sceneggiature dei singolarmente suoi numerosi epigoni che verranno comunque citati in questo Convegno, oggi è dunque con un ricordo del film astratto, l’ori­ ginalissima creazione dispersa dei fratelli Ginna e Corra, che vorrei accendere il fuoco delle dissertazioni, ponendolo quale testata d’angolo più o meno coscientemente prodromica agli sviluppi marinettiani. Rileggendo l’astrazione filmica, conseguita attraverso la tec­ nica della pittura su pellicola, parallela e forse in origine vicaria alla cromo-fonia, vi si possono apprezzare nitidamente le sin­ copi e gli spasmi, finanche la sensazione di velocità, tutti ele­ menti che fonderanno l’idea scenica cinematografica futurista. Un susseguirsi di impressioni singole e al contempo tempo­ ralmente ordinate, dunque conseguenti, tali da derivare una trama concreta, quasi classica, pur partorita attraverso una stra­ niarne miscela di quadri cromatici e rumore. A Marinetti spettò, per primo, tradurre la “cinematica delle sensazioni”, intese nella loro forma più pura, primordiale e im­ materiale, traslandola nella vita di tutti i giorni, pur con l’intento di affermarne una visione definitivamente futurista e anti-borghese esemplificata proprio in “Vita Futurista”.

Concludendo, mi permetterete un piccolo peccato d’immo­ destia. Questo Convegno, senza nulla togliere a quanto negli ul­ timi trentanni è stato operato sul tema ampio e ancora vulca­ nicamente in costante espansione della poetica artistica futuri­ sta, vorrebbe essere una logica prosecuzione, pur partendo dal solo aspetto cinematografico, del Convegno intitolato “I Luoghi del Futurismo, 1909-1944” tenutosi in Macerata, vero e proprio genus loci del Movimento, il 3 ottobre 1982, 34 anni fa. Il novero dei relatori di allora, presieduto da Franco Bar­ bieri, era composto da Rossana Bossaglia, Enrico Crispolti, Mario Verdone, Bruno Passamani, Ugo Piscopo, Massimo Bignardi, Marzio Pinottini, Anna Caterina Toni, Elverio Maurizi, Massimo Duranti, Annamaria Ruta, Claudia Salaris, Joan Abello Juanpere. Oggi sta a noi tutti raccoglierne le fatiche riportando alla luce “nuovi luoghi” e “nuove storie” da collocare nella cronotassi sempre maternamente inclusiva del Futurismo.

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Ricordo del professor Mario Verdone di Enrico Bittoto

La proiezione del film II Futurismo. Un movimento di Arte/Vita ha fornito una felice occasione di ricordo della figura del professor Mario Verdone, tratteggiata dal dottor Luca Ver­ done, regista e curatore della docufìction, e figlio del professore. Se è vero che il film ha portato alla luce in modo vivido e sincero i veri afflati innovativi del Futurismo e la reale disposi­ zione d’animo del Marinetti politico, artista e, finanche, precur­ sore del futuro delle scienze, è altrettanto vero che l’impronta “plastica” del Mario Verdone novello “Ulisse” dell’universo fu­ turista, ben si può leggere nel dipanarsi delle immagini e nella descrizione degli eventi, esposti in modo mai banale e analizzati a fondo, oltre le apparenze e i facili e manierati cliché che spesso accompagnano le prolusioni classiche sul Futurismo. La personalità di Mario Verdone, riporta il figlio Luca, fu quasi plasmata da Marinetti, conosciuto a Siena nel 1938. Ma­ rinetti, uomo del futuro e premonitore delle meraviglie ma anche delle problematiche che il progresso necessariamente avrebbe portato nel proprio bagaglio, non poteva non solleci­ tare lo sguardo dello studioso alessandrino/senese, che riportò alla luce i contenuti veri del Movimento e gli afflati più pro­ fondi. Il messaggio formativo e attuale di Mario Verdone di­ scende dunque direttamente dalla lettura attenta del messaggio Marinettiano e anticipa, nella sua cifra espositiva, quasi ciber­ netica, un metalinguaggio tipico dei contemporanei computer o smartphone. Mario Verdone è stato la “App”, come direbbe Steven Paul Jobs, che ha consentito la rilettura delle avanguar­ die a partire da quella più importante e totalizzante, il nostro Futurismo. L’immane lavoro dello Studioso è infatti servito a tutti noi come traccia per tutti gli sviluppi introspettivi succes­ sivi. Non appaia dunque ardito, a questo punto, asserire che il

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professor Verdone rappresenta per il Futurismo, ciò che JeanFrancois Champollion ha rappresentato per la comprensione del linguaggio geroglifico: il suo lavoro sui testi dei principali protagonisti del Movimento può ritenersi pari a quello svolto sulla Stele di Rosetta, pur con i dovuti distinguo che i tempi e gli oggetti comparati pure impongono. In definitiva, dunque, questo film, oltre a essere un omaggio grato e forse unico, al Movimento di Filippo Tommaso Mari­ netti, è altresì un omaggio grato a Mario Verdone, alla sua voglia di scoperta, alla sua sete di cinema, di futuro, di divulgazione e di conoscenza dell’uomo e dell’arte.

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Sinossi e commento al film

Il futurismo. Un movimento di Arte/Vita (2010) di Luca Verdone ed Enrico Bittoto

Produzione: Paolo Bruno, Marco Genone Co-Produttori: Eric Ellena, Ina Ayres Coordinamento Scientifico: Francesca Barbi MARINETTI Sceneggiatura: ALESSANDRO ZAMBRINI Regia: Luca Verdone Attori: Riccardo Barbera (Filippo Tommaso Marinetti),

Edoardo Sylos Labini (Umberto Boccioni), Hilary Mostert (Giannina Censi), Paco Reconti (Luigi Russolo), Ser­ gio Nicolai (Giacomo Balla), Eleonora Ivone (Benedetta Cappa Marinetti). Con i contributi di: Gino Agnese, Giordano Bruno Guerri,

Achille Bonito Oliva, Simona Cigliana, Maurizio Calvesi, Gunter Berghaus, Didier Ottinger, Claudia Salaris, Da­ niele Lombardi, Mario Verdone. Partecipazioni a Festival cinematografici:

Festival internazionale del Cinema d’arte (Milano, 2015) fifa - Festival international du film sur l’art (Montréal, 2011)

The Social Festival (2010) Roma Film Fest (Roma, 2010) Villa del Colle del Cardinale (Colle Umbero, 2009) “Graphic Opera”, con questa terminologia del tutto inno­ vativa è -anche stato descritto il film di Luca Verdone, Il Futu­ rismo. Un movimento di Arte/Vita, un medio metraggio dal montaggio incalzante, una docufiction completa in ogni sua parte e che, forse per la prima volta, rende la personalità di Fi-

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lippo Tommaso Marinetti comprensibile a una vasta platea, ana­ lizzandone a fondo attraverso argute sintesi, gli aspetti della vita privata oltre a quelli, già ampiamente conosciuti, e desumibili dalla sua poliedrica e instancabile vita pubblica di vate e Acca­ demico, propugnatore di idee e invettive inattese e spiazzanti. Lo stesso dicasi per i compagni di viaggio Balla, Boccioni, Severini, Depero, Carrà, Soffici. L’opera si avvale inoltre dei più validi studiosi del Movimento, coloro i quali hanno fatto “la storia” della rilettura critica del Futurismo, quando non della sua vera e propria riscoperta avvenuta dopo il lungo periodo di damnatio memoriae succeduto al secondo conflitto mondiale; proprio questo particolare aspetto rende l’impresa filmica anche un valido strumento didattico con un ben preciso intento di­ vulgativo, adatto non solo agli “addetti ai lavori” ma a una pla­ tea vasta e di età eterogenea. Una fiction documentaristica che fissa i concetti attraverso una sorta di “doppia esposizione”. La narrazione si sofferma maggiormente sul cosiddetto “pe­ riodo eroico” del Movimento, che ha termine con la fine della Prima guerra mondiale, tra le cui trincee troveranno la morte più di 40 Futuristi, ricordiamo i più noti: Boccioni, Sant’Elia. Di poi l’avvincente linea del tempo docufilmica si dipana tra gli intimi fervori dell’“uomo” Marinetti e analizza per rapide cam­ piture il prosieguo del “viaggio” del Movimento con la nascita dell’aeropittura che, man mano, andava a sostituirsi ai soggetti classici quali l’automobile, il treno o il cavallo. Ma non solo di pittura parla quest’opera, e anzi, tiene a rimarcare - anche at­ traverso declamazioni estemporanee, veri e propri “quadri vi­ venti” (si veda il duetto con protagonista Giacomo Balla), dove numeri, immagini e parole si fondono in visioni verbo-foniche e verbo-visuali attraverso il media cinematografico, realizzando così concretamente l’immagine tangibile dell’arte totale Futu­ rista - che il Futurismo fu cornice di una vastità interminabile di espressioni artistiche. Ceramica, scultura, letteratura, musica, architettura, analisi dei sensi, arte delle sensazioni, tattilismo, trascendenza e astrazione, misticismo, occulto, antroposofia, naturismo, politica; queste solo alcune delle ramificazioni che gemmarono dal primigenio Manifesto del 1909, dalla coeva ri-

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vista «Poesia» e dall’embrionale post-cubismo dinamico di Boc­ cioni, Balla, Severini, Soffici, Malmerendi, Bonzagni, per citare i soli italiani. La vita di Marinetti, analizzata dalla pattuglia di grandi esperti del contemporaneo e delle avanguardie capitanata da Mario Verdone, funge quindi da pretesto per far deflagrare una pioggia di informazioni sulla realtà totale del Futurismo il quale, ben lungi dal conchiudersi con la morte del Nostro, prosegue oggi nell’attualità delle sue visioni, divenute innegabile e stupe­ facente realtà.

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Marinetti e il cinema. Pro e contro di Francesca Barbi Marinetti

Sono trascorsi 100 anni dal manifesto di La cinematografia futurista1, 108 dal lancio del primo manifesto parigino1 2, ed è bello per me verificare oggi che il Futurismo, e Marinetti, re­ stano un universo ancora felicemente da esplorare. Mi piace ri­ cordare una bella definizione di Maurizio Calvesi, che ha par­ lato di “lunga attualità del Futurismo” riferendosi alla costante audacia nell’essere il Futurismo un “Movimento d’arte e vita”, da cui il titolo del film di Luca Verdone che in nell’occasione di questo convegno si è voluto proiettare. Molte sono le complessità del lungo iter di Marinetti nel confrontarsi con il cinema come nuovo genere. Ne hanno par­ lato a lungo Mario Verdone, Claudia Salaris, Giovanni Lista, Wanda Strauven, insieme ad altri ancora. La domanda cruciale resta come per il caposcuola del Futurismo, il nuovo mezzo meccanico, il cinema, abbia avuto una propria autonomia in quanto espressione artistica. Il manifesto della cinematografia del 1916, firmato da Ma­ rinetti, Balla, Chiti, Corra, Ginna e Settimelli, viene lanciato in concomitanza dell’uscita di Vita futurista, unico film futurista prodotto e andato perduto. Nel 1917 vi è la sceneggiatura di Velocità firmata da Marinetti, mai realizzata e restata tra i ma­ noscritti inediti fino alla sua pubblicazione tardiva3. Gli ante­ 1 F.T. Marinetti, G. Balla, R. Chiti, B. Corra, A. Ginna, E. Settimelli, La cinematografia futurista, 1916. 2 F.T. Marinetti, Fondazione e Manifesto del Futurismo, 1909. 3 La sceneggiatura di Velocità, è rimasta inedita fino al 1996, anno in cui fu pubblicata da Giovanni Lista con una nota introduttiva sulla rivista «Fotogenia», n. 2, febbraio 1996. Si veda anche Wanda Strau­ ven, Marinetti e il cinema. Tra attrazione e sperimentazione, Campanotto Editore, Pasian di Prato (UD) 2006, pp. 188-204.

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cedenti del cinema futurista della fine del XIX secolo sono pre­ valentemente nell’ambito della cultura popolare e del varietà. Loie Fuller e Leopoldo Fregoli, offrono all’alba della sperimen­ tazione cinematografica i primi riferimenti dell’arte della ripresa cinematografica, l’una con un gusto per l’astratto e l’altro per la gestualità4. La danza serpentina di Loie Fuller, ripresa anche dai fratelli Lumière, è un capolavoro di forme in movimento. Le sperimentazioni di Fregoli furono affini a quelle dell’avan­ guardia, come la ripresa invertita e discontinua, oltre alla messa in opera di valori che erano gli stessi dei futuristi come velocità, varietà, sorpresa e gestualità. Vicino alla sensibilità futurista fu anche Luca Comerio, che fissava sull’ala di un aereo una cinepresa creando con il cinemaazione l’illusione per lo spettatore d’essere immerso nei paesaggi in volo. Il cinema come genere, dunque, rappresentava indubbia­ mente un mezzo interessante per la rappresentazione del dina­ mismo, parola chiave per i futuristi. Le premesse apparivano incoraggianti per un incontro speciale e produttivo. Eppure, al di là delle considerazioni tecniche per cui, ad esempio, non si erano ancora formate delle figure professionali attorno all’arte del fare film, vi furono resistenze e contraddizioni. Tuttavia è proprio riflettendo attorno a queste problematiche che il di­ scorso si fa più sottile e penetrante, tanto da far emergere valide considerazioni riguardanti la poetica di Marinetti. Per il binomio futurismo e cinema certamente va tenuto conto il rapporto speciale tra Marinetti e Boccioni. Il peso che ebbe la dichiarata distanza di Umberto Boccioni nei confronti della ci­ nematografia, così come dalla fotografia, fu senza dubbio un freno per il futurismo nel riconoscere al cinema il ruolo di nuovo genere per la ricerca creativa. “Il cinematografo” scrive Marinetti nel manifesto del 1916 “sorgendo come teatro senza parole, ha ereditate tutte le più tradizionali spazzature del teatro letterario”5.

4 Giovanni Lista, Il Cinema futurista, Le Mani-Microart’s Edizioni, Genova 2010. 5 F.T. Marinetti et al., La cinematografia futurista, cit.

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Ma non era pensabile che Marinetti, poeta dell’arte-azione e del reportage, potesse chiudere la questione così sbrigativa­ mente. Antecedenti cinematografici erano presenti in tutta la sua poetica6, era chiaro che il nuovo mezzo del cinema meritasse una sua attenzione. Doveva trattarsi di un cinema che sostituisse la sceneggiatura di stampo tradizionale e narrativa con l’accu­ mulazione frammentaria. Il film per Marinetti doveva corri­ spondere alla nuova sensibilità dell’Uomo futurista finanche nella rivisitazione di poetiche o forme d’arte tradizionali. C’è da dire che nel 1916 le riprese erano condizionate dalla fissità della cinepresa e quindi dell’inquadratura. I futuristi quindi studiano soluzioni alternative lavorando sul flusso libero del pensiero e giocando sull’imprevedibile, l’illogico e l’irreale attraverso le proporzioni con i primi piani, le analogie degli stati d’animo e l’introduzione del dramma degli oggetti. Una strate­ gia che già aveva rivoluzionato la pittura. Sullo schermo dove­ vano convergere generi diversi, dalla letteratura alle parolibere, dalla musica alla pittura e scultura, con sovrapposizioni, analo­ gie e compenetrazioni sintetiche. Alla narrazione descrittiva e affabulatoria andava preferita la ripresa del movimento e della simultaneità. Da esploratore delle possibili sinergie tra generi e linguaggi artistici, Marinetti comprende subito le potenzialità del mezzo cinematografico. Già in Distruzione della sintassi - immagina­ zione senza fili - parole in libertà, manifesto del 1913, il cine­ matografo viene citato come una delle grandi invenzioni della contemporaneità, una tra le “protesi” dell’uomo moderno, in­ sieme a “il grammofono, il treno, la motocicletta, la automobile, il transatlantico, il dirigibile e il grande quotidiano (sintesi di una giornata del mondo)”7. A Marinetti interessava la novità dei

6 Lo stesso poema Zang Pumb Pumb del 1914, reportage della Batta­ glia di Adrianopoli in forma di parolibera, ha un “montaggio” immersivo quasi filmico di ritmo incalzante e sovrapposizioni di suonoimmagine. 7 F.T. Marinetti, Distruzione della Sintassi — Immaginazione senza fili — Parole in libertà, 1913.

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media dal punto di vista emotivo e psichico, nella convinzione che avrebbero condotto, attraverso un’estensione della perce­ zione, a una mutazione dell’uomo in senso antropologico, sti­ molando nuove sensibilità e abilità: Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcola­ bile di trasformazioni umane e dichiariamo senza sorri­ dere che nella carne dell’uomo dormono delle ali8. Il cinema, dunque, poteva contribuire all’evoluzione dell’“uomo moltiplicato dalla macchina”, al quale non possono più corrispondere le vecchie forme espressive. Occorre “spez­ zare le vecchie pastoie logiche e i fili a piombo della comprensione antica 9.

In aeroplano, seduto sul cilindro della benzina, scal­ dato il ventre dalla testa dell’aviatore, io sentii l’inanità ridicola della vecchia sintassi ereditata da Omero10.

Il film non interessa a Marinetti come mezzo di riproduzione della vita ma come mezzo creativo rivelatore di quella parte di realtà che è destinata a restare impercettibile a occhio nudo. Perché: Il cinematografo ci offre la danza di un oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano. Ci offre anche lo slancio a ritroso di un nuotatore i cui piedi escono dal mare e rimbalzano violentemente sul tram­ polino. Ci offre infine la corsa d’un uomo a 200 chilo­ metri all’ora. Sono altrettanti movimenti della materia, fuor dalle leggi dell’intelligenza e quindi in un’essenza più significativa. [... ]

8 F.T. Marinetti, L'Uomo moltiplicato e il Regno della macchina, 1910. 9 F.T. Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, 1912. 10 F.T. Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, cit.

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Solo il poeta asintattico e dalle parole slegate potrà pe­ netrare l’essenza della materia e distruggere la sorda osti­ lità che la separa da noi”11.

La questione prende un respiro più ampio che riguarda il superamento della psicologia cosiddetta passatista per favorire un approccio alla realtà più libero e intuitivo che porti a una percezione amplificata finanche della materia11 12, fuori da ogni logica consueta. La complessità del rapporto di Marinetti con la cinemato­ grafia si evidenzia soprattutto nell’ambito del concetto di spet­ tacolarizzazione di cui è nutrito tutto il movimento futurista e, ovviamente, in modo particolare il teatro. Nel manifesto del Teatro Totale del 1933 il cinema viene in­ fatti subordinato al teatro come uno tra gli elementi che vanno a comporre una messa in scena-happening di cui lo spettatore è parte integrante attraverso un percorso esperienziale di tipo visivo e uditivo ma anche tattile e olfattivo. Scrive Marinetti:

Da ventitré anni noi propagandiamo la legge di simul­ taneità nell’arte teatrale che condanna il concetto di scena unica e stabilisce che ogni episodio della vita ha infiniti altri episodi contemporanei contrastanti o favo­ revoli e adatti sempre ad arricchirlo di significato e drammaticità. Noi facciamo circolare gli spettatori interno a molti palcoscenici tondi su cui si svolgono simultaneamente azioni diverse con una vasta graduatoria di intensità con una perfetta organizzazione collaborante di cinemato­ grafia - radiofonia - telefono - luce elettrica - luce neon - aeropittura - aeropoesia - tattilismo - rumorismo e profumo”13.

11 F.T. Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, cit. 12 “Sostituire la psicologia dell’uomo, ormai esaurita, con l’ossessione lirica della materia”. F.T. Marinetti,Manifesto tecnico..., cit. 13 F.T. Marinetti, Il Teatro Totale, 1933.

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Il Teatro Totale futurista è altamente meccanizzato: Architettura e meccanismo del Teatro Totale (sintetico polisensazionale simultaneo poliscenico ae­ ropittorico aeropoetico cinematografico radiofonico ol­ fattivo tattile rumorista)14.

La realizzazione della messa in scena è finalizzata a offrire allo spettatore l’esperienza totale sul piano percettivo. La strut­ tura del teatro nel manifesto è descritta nei minimi dettagli per far comprendere fino in fondo come l’idea di spettacolarizza­ zione multimediatica abbia lo scopo di realizzare un percorso percettivo cosmico, che simbolicamente rappresenti il Tutto. È interessante, e ci aiuta a comprendere in quale direzione stesse andando Marinetti anche riguardo al suo rapporto con il mezzo meccanico cinematografico, l’inserimento nel progetto teatrale dell’esperienza tattile. Già nel 1921 nel manifesto 1/ Tat­ tilismo, scriveva: Avremo dei teatri predisposti pel Tattilismo. Gli spet­ tatori seduti appoggeranno le mani su dei lunghi nastri tattili che scorreranno, producendo delle sensazioni tat­ tili con ritmi differenti. Questi nastri tattili potranno anche essere disposti su piccole ruote giranti, con accom­ pagnamenti di musica e di luci”15. La funzione del tattilismo nel meccanismo del Teatro Totale non è dimero intrattenimento:

Ho compreso che gli esseri umani si parlano con la bocca e con gli occhi, ma non giungono ad una vera sin­ cerità, data l’insensibilità della pelle, che è tutt’ora me­ diocre conduttrice del pensiero16.

14 F.T. Marinetti, Il Teatro Totale, cit. 15 F.T. Marinetti, Il Tattilismo, 1921. 16 F.T. Marinetti, Il Tattilismo, cit.

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Secondo Marinetti la sensibilità tattile va educata evitando di asservirla a valori visuali e appartiene alla sfera delle comu­ nicazioni spirituali. Sviluppare questa modalità di conoscenza aprirà nuove porte, perché “la distinzione dei cinque sensi è ar­ bitraria e un giorno si potranno certamente scoprire e catalogare numerosi altri sensi. Il Tattilismo favorirà questa scoperta”17. Se “nella carne dell’uomo dormono delle ali”18 e per l’uomo contemporaneo sono previste mutazioni genetiche accelerate da nuove prospettive sulla realtà (tramite, ad esempio, il volo o la corsa di un’automobile) e dalla comunicazione velocizzata, Marinetti ritiene che l’istinto possa assottigliarsi a tal punto da sviluppare un presentimento che altro non è che un “senso tat­ tile a distanza”19. Muoversi in un contesto altamente tecnologizzato modifica, infatti, il nostro sguardo istintuale. L’idea di questa sensibilità acquisita, tutta immateriale, viene esplicitata anche nel manifesto di La Radia nel 1933, che Marinetti scrive con Pino Masnata. La Radio (all’epoca radia) è “Arte es­ senziale” che sciogliendo ogni legame con gli aspetti fisici, speri­ mentando una forma di comunicazione immateriale, può captare, amplificare e trasfigurare le vibrazioni emesse dalla materia20. L’esperienza sensoriale qui è liberata finanche dai concetti di Tempo e di Spazio21: Immensificazione dello spazio. Non più visibile né incorniciabile la scena diventa universale e cosmica. [...] Un’arte senza né tempo né spazio senza ieri e senza domani [...]22

17 F.T. Marinetti, Il Tattilismo, cit. 18 F.T. Marinetti, L’Uomo moltiplicato..., cit. 19 Lorenzo Mango, La scoperta di nuovi sensi. Il tattilismo futurista, Cue Press, Bologna 2015. 20 F.T. Marinetti e P. Masnata, La Radia, 1933. 21 II punto n.8 del Manifesto di Fondazione recitava: “Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente”. F.T. Marinetti, Fondazione e Manifesto del Futurismo, cit. 22 F.T. Marinetti e P. Masnata, La Radia, cit.

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In tutta l’opera di Marinetti emerge un interesse attento per quegli aspetti insiti nella natura umana che spingono a oltrepas­ sare i limiti della conoscenza, e dell’esperienza creativa foriera dell’individuazione di nuovi confini da raggiungere. È nell’am­ bito di questa visione prefiguratrice che l’arte del cinema rap­ presenta per lui un’interessante innovazione. Marinetti alterna posizioni a sfavore e in difesa del mezzo filmico. Senz’altro la sua, e quella di tutto il movimento futuri­ sta, è stata una vocazione alla spettacolarizzazione per cui era fondamentale il rapporto con gli spettatori dal vivo. Marinetti, declamatore e agitatore, cercava il confronto diretto con il pub­ blico, disturbato o consenziente che fosse. Un limite del cinema è che non lasciava spazio all’improvvisazione su cui si misurava l’estro e la capacità di sedurre e sorprendere. Anche per queste ragioni il teatro resta il principale laboratorio di sperimenta­ zione creativa capace di includere tutti gli altri generi. Ciò non sminuisce l’importanza di alcune intuizioni avute per il cinema. Ai futuristi è stata riconosciuta la capacità d’in­ trodurre alcune tecniche che saranno poi utilizzate nel cinema d’avanguardia, come la tecnica del montaggio corto che per i futuristi ebbe la funzione principale di sollecitare nuove forze psichiche, o la tecnica di accelerare o invertire la narrazione in modo surreale, fino al cosiddetto “montaggio delle attrazioni”, che sarà in seguito ripreso dal grande regista russo Sergej Michajlovic Éjzenstejn. Se da un lato il cinematografo è asservito al teatro, ed è de­ finito da Marinetti come “un’altra zona del teatro”23 dall’altro lui stesso, sempre nel manifesto di La cinematografia futurista del 1916, gli riconosce un’autonomia purché affrancato da im­ postazioni formali e contenutistiche passatiste: Il cinematografo è un’arte a sé. Il cinematografo non deve mai copiare il palcoscenico. Il cinematografo, es­ sendo essenzialmente visivo, deve compiere innanzitutto 23 F.T. Marinetti, G. Balla, R. Chiti, B. Corra, A. Ginna ed E. Settimelli, La cinematografia futurista, 1916.

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l’evoluzione della pittura: distaccarsi dalla realtà, dalla fotografia, dal grazioso e dal solenne. Diventare antigra­ zioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero”24.

24 F.T. Marinetti, et al., La cinematografia futurista, cit.

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Futur-Pulp. Marinetti e il montaggio della parola di Marcello Francolini

Preliminari Appare, in prima istanza, evidente dover rappresentare le linee guida entro cui condurre la nostra analisi sul tema cinema e futurismo in occasione del centenario della pubblicazione del Manifesto del cinema futurista. Futur-pulp, che è parte della ti­ tolazione iniziale, è un riferimento al genere cinematografico che indica il succo della vita, gli scambi di forza tra gli esseri, le efferatezze, le esuberanze che in questo caso hanno molto a che fare con l’immagine dell’uomo futurista. Il rimando più esplicito va senza troppe forzature al celebre Pulp-Fiction di Quentin Ta­ rantino, che già con il precedente Le Iene, aveva inaugurato un modo di destrutturare il tempo filmico tale da far muovere lo spettatore al di là della sequenzialità lineare della realtà1. Con Tarantino il cinema fuoriesce dalla rappresentazione per dive­ nire un racconto capace di svelare un “fuori campo” della re­ altà. Con tale riferimento Futur-Pulp è un’allegoria di un deter­ minato modo di rivoltare il tempo. Si giunge così, alla seconda parte della titolazione dell’intervento, “Marinetti e il montaggio della parola”, che segue proprio da quest’ultimo punto, dal ri-1

1 Non è un caso l’aver usato come allegoria le opere di Quentin Ta­ rantino. In un discorso sul cinema, sembrava la figura più adatta per alludere a un tipo di procedimento creativo che in parte rispecchia alcune modalità di lavoro similari a quanto scopriremo nella poetica di F.T. Marinetti. Tarantino muove essenzialmente dalla sceneggia­ tura, è la strutturazione stessa della sua scrittura che determina quella discontinuità delle sue scene, la disfunzionalità temporale che tanto contraddistingue le sue pellicole. Tarantino potremmo dire che persegue il meraviglioso, ricercandolo nella giustapposizione impre­ vista e imprevedibile dei diversi linguaggi.

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voltare il tempo, che in effetti sembra condensarsi come possi­ bilità visibile nella poetica marinettiana delle parole in libertà, sull’esempio di Zang l'umb Idimb. Il “montaggio della parola” di Marinetti dunque sembra in­ contrare il cinema ancor prima che il cinema incontri, come pra­ tica, il futurismo. Questa prospettiva sembra ancora fertile di osservazioni. Per tale motivo l’intervento, verterà non tanto sulla storia del cinema futurista con la conseguenza di dover dare un determinato giudizio sull’utilizzo di questa nuova tecnologia, ma si concentrerà ad analizzare le possibilità che il cinema in sé può dispiegare soprattutto a partire dal suo stesso modo di re­ stituirci la realtà. “In termini marinettiani, è un cinema che va anzitutto considerato come programma teorico, poetico”.

1.1. Appunti sul cinema fuori della cinematografia

Come ho appena detto, l’intenzione di questo scritto è quella di cogliere lateralmente il rapporto tra cinema e futuri­ smo. Ci sono tantissimi studiosi, primo fra tutti Mario Verdone, che si saranno domandati più volte se veramente sia esistito un cinema futurista. Se lo facciamo considerando le opere più propriamente ci­ nematografiche ci rendiamo conto che la produzione quantita­ tiva è molto bassa, risibile o quasi solo teorica. Ma altresì, considerando l’aspetto quantitativo, è un guar­ dare a questo linguaggio artistico del Novecento come se avesse già un contorno, fosse già specializzato, tanto da poterlo chia­ mare già Cinema. In realtà non ci rendiamo conto che stiamo parlando di un orizzonte che è ancora inesplorato: lo stesso termine di cinema di Avanguardia sarà dato successivamente, perché è, per adesso, soltanto un mezzo di cui non si conoscono a pieno le potenzialità. Dovremo quindi partire domandandoci qual è l’artisticità del cinema in quel momento storico. Quale è stato il potenziale degli albori?

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Per farlo parlerò del cinema esulando dalle opere propria­ mente cinematografiche, per concentrarmi sulle potenzialità dell’immaginario dischiusosi proprio a partire dalla sua nascita. Ma come parlare di un cinema senza cinematografia? Sarebbe come parlare del cinema in sé o meglio come par­ lare dell’essenza del cinema. Dell’origine. La parola origine, in­ dica, qui, quell’elemento - quel dove - dal quale e attraverso il quale, una cosa è, nel proprio modo, ciò che è. L’origine di qual­ cosa è la pro-venienza “la venuta alla luce, l’ingresso nell’evi­ denza” del suo stanziarsi. Se l’aspetto cinematografico concerne le mere opere, può il cinema essere colto al di fuori di esse? Quasi nel momento stesso in cui inizia una specifica tratta­ zione sull’arte, tale trattare viene definito “estetico”. L’estetica assume l’opera d’arte come un oggetto. In questo senso però preferirei seguire un percorso laterale del giudizio critico ser­ vendomi di un filosofo che ha esulato l’estetica dalla ricerca del senso originario dell’opera d’arte: Martin Heidegger. Secondo il suo pensiero l’opera d’arte sarebbe “messa in opera della ve­ rità”. Se proviamo a riformulare restituendo alla parola verità il suo significato originario di “dis-velamen to” potremmo inten­ derla nella sua più autentica declinazione fenomenologica (dal momento che la lingua greca è il veicolo di trasmissione di que­ sto detto, essa è qualcosa di più della lingua del cominciamento: è il riparo dell’origine)2. In diversi passaggi del suo testo Hei­ degger esemplifica lo statuto disvelativo dell’opera d’arte con­ trapponendolo al movimento di riduzione che l’ente subisce nel mezzo tecnico: Lo strumento, in quanto determinato dalla servibilità e utilità, prende a proprio servizio ciò di cui esso consi­ ste, la materia. La pietra viene usata e usurata nella fab­ bricazione dello strumento, per esempio della scure. La

2 Madene Zarader, Heidegger e le parole dell’origine, in «Vita e Pen­ siero», Pubblicazioni dell’Università Cattolica, pp. 74-75, cap. 2 “Aletheia o l’origine impensata”.

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pietra svanisce nella servibilità. L’opera-tempio, al con­ trario, in quanto espone un mondo, non lascia svanire la materia, ma la lascia venir fuori per la prima volta. La roccia si immedesima nel sorreggere e nel riposare in se stessa e diviene così roccia3. Nell’opera, dunque, al contrario che nel mezzo, il disvela­ mento si manifesta in una figura che fissa l’ente disvelato e lo rende stabile. Seguendo tale ragionamento citiamo più oltre l’esempio del “Tempio” grazie al quale il filosofo specifica ancora meglio il carattere “installativo” dell’opera. Un’opera architettonica, un tempio greco, non copia né raffigura nulla. Se ne sta semplicemente lì, in mezzo a una valle rocciosa e frastagliata. L’edificio cinge e rac­ chiude la figura del Dio, e in questo nascondimento la­ scia che essa, mediante l’aperto colonnato, stia stagliata nel recinto sacro. Attraverso il tempio, il Dio presenzia nel tempio. Standosene lì, l’edificio quiesce sul fondo roccioso. Questa sucquiescenza dell’opera estrae dalla rupe l’oscurità del suo incompaginato ma assolutamente incoercibile portare. Standosene lì, l’edificio resiste alla furia della tempesta che lo investe, e solo così la tempe­ sta stessa viene mostrata nella sua violenza [...] L’er­ gersi sicuro della roccia rende visibile l’invisibile del­ l’aria [...] Standosene lì, l’opera-tempio apre inaugural­ mente un mondo, e a un tempo ripone il mondo sulla terra, la quale solo allora emerge come il fondo e suolo natio4.

3 Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in V. Cicero (a cura di), Martin Heidegger, Holzwege, Sentieri erranti nella selva, Bom­ piani, Milano 2014, pp. 75-76. 4 Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit., pp. 29-30.

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Dunque come abbiamo visto, questo “tempio” oltre a mo­ strare la materia nella sua vera evidenza, si costituisce al di sopra delle sue parti come un raffermarsi del tempo. Ora qui la pietra del tempio sorregge e da forma alla figura tutta. Anch’essa, la pietra, subisce la consumazione del tempo. Ma di un tempo più lungo di quello mortale, tale da sembrarci un tempo ulteriore. Ora non a caso è proprio questo tempo ulteriore che va ri­ cercato come origine similare nel cinema. Possiamo ora riporre la domanda precedente: cosa potrebbe avere il cinema oltre i contenuti che mette in onda? Il cinema rafferma al di là di tutto proprio questo tempo, l’osservatore posto dinanzi allo schermo cinematografico, alla proiezione, si percepisce in un tempo distante dal tempo che muove nello schermo, un tempo che è al di fuori del kronos, è nel kairos5, un tempo che possiamo considerare propizio e che si avvicina a una idea di “intuizione logica”. Ciò potrebbe si­ gnificare che per la prima volta abbiamo un’immagine del

5 Kairos, fu iscritto tra gli “dei” dall’artista greco Lisippo, che lo divi­ nizzo attraverso un famoso bronzo celebrato da un epigramma di Posidippo. L’epigramma lo descrive come un giovane nudo e alato, con un folto ciuffo di capelli sulla fronte e sui lati del volto e con la nuca liscia, impugna nella sinistra un rasoio a forma di mezzaluna su cui poggia una bilancia a due piatti inclinata dalla mano destra che tiene il piattello più basso. E evidente il significato di questa ico­ nografìa: il momento propizio è sottile e tagliente come una lama di rasoio, attimo dell’autodeterminazione sottratto a Tyché, in cui si pesa tra due sorti e si decide su quale piatto gravare. Heidegger re­ cupererà poi tale iconografia proprio per discorrere su una diversa interpretazione, appunto cairologica, del tempo. Conferenza sul Concetto di tempo tenuta il 25 luglio del 1924 dinanzi ai teologi di Marburgo, in cui il giovane Heidegger presenta le linee fondamentali delle sue indagini sul tempo inteso come carattere costitutivo del­ l’esistenza umana. La strada che persegue è il tentativo di mostrare che dietro la definizione aristotelica del tempo come “numero del momento secondo il prima e il poi” si nasconde in realtà un abisso, ovvero l’insondata profondità dell’anima (Vesserei), senza la quale non c’è numerazione del movimento e quindi nemmeno il tempo. Cercare dunque una temporalità originaria.

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tempo: il tempo si materializza, si manifesta, proprio nella dif­ ferenza che c’è tra il tempo cinematografico e il tempo dell’os­ servatore. Dunque possiamo dire ora, con più convinzione che: il primo rapporto tra cinema e futurismo avviene nell’intuizione logica. Infine allora il “tempio” e il “cinema” trovano il comune de­ nominatore nel concetto (cairologico) di tempo. Il tempo dà ra­ gione del dis-velamento. Questo è il tempo che dobbiamo cer­ care, quello da tenere in riferimento nella nostra indagine sul suo rapporto con il futurismo. Un tempo intuito al di fuori del suo normale scorrimento, un tempo al di fuori del calcolo. Un tempo che è qui inteso come unità di spazio e tempo. Un tempo più che cinematografico, cinematico.

1.2. L’intuizione secondo la Logica del potenziamento (LdP) di Pastore Riprendendo l’asserzione fatta precedentemente ripetiamo che: il primo rapporto tra cinema e futurismo avviene nell’in­ tuizione logica. Che cos’è? Per comprenderci dobbiamo spostarci a Torino, nei primi anni del Novecento, dove operava il professore Annibaie Pa­ store che, attraverso la sua teoria, denominata “Logica del Po­ tenziamento”, cercava di capire come avveniva la meccanica del pensare, come si metteva in moto e quale fosse l’unità minima su cui gli uomini costruiscono le proprie deduzioni. In merito a ciò Pastore diceva: Le operazioni fondamentali del pensare secondo la LdP sono l’ente e la relazione nel campo sistemico, il di­ scorso D e l’universo U nei campi intersistemici; all’ente e al discorso corrispondono le operazioni logiche nel loro aspetto analitico o deduttivo, alla relazione e all’uni­ verso corrispondono le operazioni logiche nel loro aspetto sintetico o intuitivo o anche costruttivo. Ogni

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concetto è costruito come espressione di un rapporto ente e relazione, ogni teoria come una espressione di un rapporto discorso-universo del tipo D-U6. Quindi l’universo è messo a postulato come unità minima, che è anche unità formale: Pastore diceva che l’unità minima della fisica è l’etere che è un concetto accettato all’origine della fisica come principio logico, ma non spiegabile fisicamente, così anche la geometria si basa su principi euclidei che non possiamo spiegare geometricamente. Potremmo dire che alla base del pensiero, anche il più ra­ zionale, c’è l’intuizione logica che in realtà è un’astrazione. Ammesso e non concesso che Marinetti non si sia occupato di cinema, anche se poi lo ha fatto successivamente, il suo com­ pito non era fare cinema, che del resto a quel tempo non esi­ steva. Se pensiamo che addirittura il primo film sonoro è degli anni Trenta, di conseguenza stiamo parlando di una materia, quella presentata sullo schermo, essenzialmente visiva. Marinetti ne coglie però la potenza e la novità ed essendo un poeta e come tale usando la scrittura, vede nel cinema la forma strutturalmente ipotetica che potrebbe dare vita a una nuova scrittura proprio basata sul tempo cinematografico. La forma del tempo di Marinetti è quell’intuizione logica che lui percepisce dal cinema. Quando ho detto che avremmo parlato del cinema futurista guardando lateralmente la questione, pensavo proprio all’idea cinematica, che nasce in quel momento, riallacciandomi altresì a Pastore che ne parla come del sistema che si occupa degli og­ getti in movimento senza preoccuparsi delle cause di questo movimento. La cinematica è un pensiero scientifico che per la prima volta dà la forma al tempo, che è effettivamente lo spazio del movimento, che a sua volta è l’immagine in sequenza.

6 Annibaie Pastore, Sul fondamento logico della matematica, Atti del IX Congresso Nazionale di Filosofia - Padova, 20-23 settembre 1934 (XII), Tipografia del Seminario, Padova 1935, pp. 4-5.

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Questa diventa propriamente l’intuizione di Marinetti da cui verrà dedotto tutto l’immaginario futurista. Procedendo su questa via, Marinetti lo dice nel Manifesto della cinematografia futurista del 1916, il cinema è essenzial­ mente arte delle immagini, dunque, ciò come non poteva eser­ citare il suo fascino su un poeta che costruiva il suo linguaggio sulla diretta percezione? Non è la diretta percezione una elabo­ razione immaginativa logico astratta? Cos’è il linguaggio se non il diretto contornare dei significati! Il linguaggio di Marinetti si muove secondo una sorgente sorgiva. Una sorgente capace di generare dal niente.

1.3. Sulla Sensibilità Sorgiva della scrittura marinettiana Cercherò ora di spiegare l’immagine che ho usato come me­ tafora per il linguaggio marinettiano, acqua sorgiva. Essa po­ trebbe indicare quella capacità di generarsi dal nulla, che nel caso del Futurismo indicherebbe l’assoluta novità del portato artistico di questo movimento, soprattutto a partire dall’impulso del fondatore F.T. Marinetti. Ma ancor di più è proprio il modo di dar luce a una visione più complessiva del fenomeno futuri­ sta, in quanto una sorgente sorgiva è propriamente tale quando è generata dal sottosuolo, di conseguenza come frutto di un gor­ goglio interno, qualcosa che proprio per questo suo provenire dal fondo, “origina”, letteralmente nasce, dalle profondità. La purezza di quest’acqua è data dal suo trasalire dal fondo. In questo senso il linguaggio marinettiano svela una diretta connessione con la ricerca dell’originario, del primitivo da cui attingere la giusta forza per cavalcare il presente, determinando un futuro. Questa genesi viene partorita in Mafarka le futurista, “iconizzata” nella figura mitica di Gazurmah, messia della nuova religione della volontà estrinsecata. Una volontà capace di partire dal corpo per estenderlo al di fuori di se stessi. Pro­ prio in tale condizione, l’arte può tornare al ruolo che le è più proprio, e cioè quello di determinare “presenti”, di contornare

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i significati e quindi svelarli. Un profeta di pochi anni prece­ dente aveva detto: “Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro di sé, per partorire una stella danzante”7. In queste pa­ role, Zarathustra, intendeva dire che il caos, può farsi gravido di stelle solo in quanto elemento dionisiaco. Il caos produttivo non è altro che il dio in preda al patimento e al tempo stesso sognatore di forme, hi queste parole, così come nel gesto di Gazurmah, il produrre viene fermamente pensato come nascita; il caos deve fungere da utero in cui l’opera si forma in modo si­ lenzioso e inavvertito. Che non sia poi questa stella del filosofo tedesco, la stessa a cui, anni dopo, puntarono una banda di futuristi durante una scorribanda notturna nel tentativo di Uccidere il Chiaro di Luna? Se di conseguenzialità si può parlare tra il pensiero del filo­ sofo e la creazione del poeta, essa è da ricercare nella natura fondativa del sentimento. Diceva Friedrich Nietzsche l’essen­ ziale nell’ebrezza è il sentimento di potenziamento della forza e della pienezza. Nietzsche, quando diceva queste cose poneva l’attenzione sul fatto che la sensibilità è una questione fisiolo­ gica: la sensibilità è proprio l’inizio del rapporto tra l’uomo e il mondo, quando si apre all’esterno. Quindi la sensibilità sembra effettì-va-mente un modo di agire: è un’azione. Marinetti aveva compreso che questo essere al di fuori di sé è ciò che nello stato di ebbrezza fa coincidere la creatività del­ l’uomo con la produzione di forme di vita.

2.1. Spunti sulla nascita del soggettivismo cinematografico: ci­ nema in altri termini La tesi principale che vado a sostenere è quella che Marinetti abbia fatto del cinema in “altri termini”. In questo senso il mon­

7 Friedrich Nietzsche, Cosi parlò Zarathustra, Mondolibri, Milano 2000, Prologo, 5, pp. 10-11.

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taggio è sostanziale alla tecnica cinematografica, ma l’accento qui verrà posto sull’utilizzo che Marinetti ne fa, trasportandolo nel componimento letterario, dalla prosa alla poesia. La sua scrittura nel passaggio tra il 1909 e il 19128 diviene figurale, ov­ vero l’uso dell’analogia trasforma il modo del linguaggio tra­ sportandolo dal piano della rappresentazione a uno più diret­ tamente simbolico della “ripresentazione”. In questo modo ciò che conta è indurre alle qualità sensibili della materia attraverso un processo di immedesimazione negli elementi del mondo at­ traverso una scrittura che più che fermare il lettore sul piano dell’osservazione, lo immerge dentro di esso. Su questo punto possiamo trovare una connessione ad esem­ pio con la soggettività, inaugurata da George Albert Smith che nel 1900 realizza il film Grandma’s Reading Glass (Le lenti della nonna)9, in cui ogni piano sequenza è visto attraverso la lente

8 Esiste una pubblicazione molto interessante edita in occasione del centenario del Futurismo che tenta di ripercorrere le fasi di trasfor­ mazione della scrittura marinettiana, avanzando l’ipotesi che nel 1912 ci sia stata un’effettiva rivoluzione in campo letterario che Ma­ rinetti compie a favore del suo passaggio dal verso libero alle parole in libertà. Leonardo Tondelli, futurista senza futuro. Marietti ultimo mitografo, Le Lettere, Firenze 2009. 9 Questo film della durata di un minuto e venti secondi è basato su un soggetto abbastanza banale, come era consuetudine concepire all’epoca: un ragazzo utilizza la lente della nonna per osservare quanto accade intorno a lui. George Albert Smith alterna due piani sequenza. Un’inquadratura principale mostra il ragazzo con la nonna, occupata a rammendare. Il giovane prende la lente e la dirige verso un orologio, che è mostrato in primo piano attraverso un’aper­ tura rotonda della lente. Il ragazzo cerca attorno a lui e punta la sua lente su un uccellino chiuso in gabbia. Primo piano del volatile at­ traverso un taglio di montaggio. Il ragazzo quindi si sposta con la lente verso la nonna: un primo piano piuttosto divertente mostra l’occhio destro della nonna che gira in tutte le direzioni, sempre visto attraverso un taglio di montaggio rotondo. Il ragazzo nota poi il gatto della nonna, nascosto dentro al cestino. Primo piano del gatto attra­ verso la lente. Il gatto sguscia fuori dal paniere e la nonna arretra smettendo di giocare con il ragazzo. Questa successione di piani se­ quenza, legati dal medesimo racconto, inaugura la suddivisione in

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del protagonista. Questo film lo citiamo anche per il fatto di co­ stituire il primo esempio di montaggio, giacché vi è presente una successione di piani sequenza. In effetti dal 1891 al 1900, e fino a pochi anni più tardi, i film vengono presentati sempre nel medesimo aspetto: una bobina di pellicola da 35 mm della lun­ ghezza standard di 20 metri (65 piedi) sulla quale viene impres­ sionato un unico piano sequenza comprendente un singolo fo­ togramma (un’inquadratura) che, in proiezione, dura meno di un minuto. Spostandoci proprio nei pressi del lancio del Mani­ festo di Fondazione, siamo nel 1908, esce un film di David Wark Griffith, The Adventures ofDolile, dove per la prima volta compare un montaggio parallelo, le storie della trama vengono intersecate dando così il via a una possibilità di rappresenta­ zione multipla. Ora questo elemento di soggettività in moto, non è certo più la soggettività o l’“io” a cui la letteratura ci aveva abituato. La soggettività del primo piano non porta con sé, nes­ suna mediazione tra l’osservatore e il “guardato”, o meglio, l’im­ magine che scorre (com’è nel cinema). La soggettività della ca­ mera, seppur riferita a un protagonista, non è più il “lui” del personaggio letterario che media tra noi e la situazione e grazie al quale entriamo come terzi nella scena, ma diviene direttamente il riferimento del nostro “io”, gettato, letteralmente, nel vortice degli eventi. Tornando nuovamente al futurismo, si può avanzare l’idea che Marinetti teorizzi intuitivamente un nuovo linguaggio fil­ mico proprio perché il procedimento del montaggio è inerente alla sua poetica. Il linguaggio parolibero di Marinetti costituisce una nuova scrittura. In tre manifesti si dedica alla letteratura futurista, alla distruzione della sintassi, all’uso del verbo all’infinito10. È per piani sequenza diversi di un film cinematografico, quello che oggi chiamiamo il montaggio. E questa sequenza logica, che è l’assemblaggio di tutti questi elementi filmati separatamente, verrà in se­ guito chiamata montaggio alternato. 10 Ci riferiamo qui, ai tre manifesti che in successione escono, a firma di Marinetti, tra il 1912 e il 1914: Manifesto Tecnico della Letteratura futurista (1912); Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili,

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mezzo del montaggio di parole che il poeta riuscirà a liberarsi dalla prigione sintattica e finirà con il cercare una nuova scrit­ tura. Adoperare un montaggio di parole, nel sistema di Mari­ netti vuol dire costruire analogie. L’analogia si riferisce alla relazione di somiglianza fra due og­ getti. La costruzione della metafora è analogica. La compara­ zione non effettua una sostituzione dei termini ma li mette l’uno accanto all’altro. Nella retorica di Marinetti l’analogia è privile­ giata. Connesso al progetto di distruzione della sintassi il proce­ dimento si riduce inizialmente all’analogia nominale, che consi­ ste nell’accostare due sostantivi. Con il recupero parziale della sintassi, in particolare della coniugazione e dell’uso dell’agget­ tivo, l’analogia futurista prende forme più varie come quella ver­ bale. L’analogia originale rimane quella nominale: “giustappo­ sizione di un sostantivo al suo doppio mediante trattino”. La tecnica marinettiana potrebbe definirsi un montaggio di sorprese che permette all’autore di conciliare l’inconciliabile. Riflettiamo ora, sul fatto che nel cinema i diversi livelli di rappresentazione si fondono. Nel cinema, tutte le cose sono sullo stesso livello, il che esclude lo spostamento da un livello all’altro. Si può sostenere che i diversi livelli di significato, let­ terale e metaforico, possano coesistere più facilmente in un’im­ magine. Marinetti mira a concentrare in una singola parola tutto ciò che un oggetto può evocare. Dal punto di vista tecnico il funzionamento del linguaggio poetico di Marinetti riflette quello del linguaggio filmico in quanto successione lineare di immagini. Marinetti si basa sui principi del linguaggio filmico per svi­ luppare una nuova letteratura. Tutto ciò risulta lampante, nel caso più famoso della letteratura d’avanguardia europea, il Zang Tumb Tumb marinettiano. Esso è come quel “tempio greco” di Heidegger, non ha nessun precedente, non è rapportabile a nes­ suna delle opere in quel momento storico. Ciò vuol dire che le sue suggestioni vanno ricercate altrove. Parole in libertà (1913); Lo splendore geometrico e meccanico e la sen­ sibilità numerica (1914).

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Suggerisco per il caso in questione di prendere in conside­ razione il filone dei reportages dal fronte. Pionieri come Comerio, Omega, Calcina, Vitretti, presentavano al pubblico non solo una visione spettacolare ma realistica. Proprio Luca Comerio inaugura il documentario in soggettiva durante il conflitto italoturco in Libia, nello stesso momento in cui Marinetti, inviato del giornale francese «L’Intransigeant»11, inizia la scrittura di alcuni testi che comporranno poi Zang Tumb Tumb, come ad esempio la celebre Battaglia di Adrianopoli. In effetti Zang Tumb Tumb non è nato come un libro, è stato montato successivamente, sono pezzi che vengono messi in­ sieme. Non ragiona più artisticamente nel senso di rappresen­ tare la realtà, ma vuole presentarla. È la visione del personaggio ma anche tutto ciò che gli sta attorno, una telecamera che ri­ prende dal punto di vista del regista, ma anche da quello dagli oggetti della scena: una scena iper-spaziale che fonda campo e fuori campo dell’immagine. In fine, proprio la rappresentazione multipla e la ripresa in soggettiva dei primi esperimenti cinematografici, è una simili­ tudine molto concreta con Zang Tumb Tumb in quanto è riscon­ trabile una medesima sensibilità. Ciò, non perché le due cose siano interconnesse, ma perché Marinetti riesce ad avere più punti di vista nella sua scrittura così come nel film l’apparizione di quei piani sequenza susseguenti lasciano dischiudere la stessa possibilità di rappresentazione.

2.2. Cinema oltre il suo spazio congruo

Restando ancora su Zang Tumb Tumb vorrei esaminare un ultimo dettaglio che ci sarà utile per procedere oltre, sulla no­ stra indagine sull’origine del rapporto cinema e futurismo.11 11 «L’Intransigeant» è un quotidiano francese fondato nel luglio del 1880 da Eugène Mayer per conto del quale Marinetti era inviato in occasione della guerra in Libia del 1911. Proprio su questo giornale venne pubblicata la Bataille de Tripoli, una raccolta di reportages poe­ tici redatti comparsi a cadenza quotidiana dal 25 al 31 dicembre 1911.

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Nelle mie letture del poema marinettiano mi sono reso conto come spesso, siano presenti degli schemi brevi che si ripetono in alternanza a parti più lunghe. Ora è evidente che queste se­ zioni rappresentino una ridondanza nella lettura. Se leggiamo il testo, così come si dovrebbe, ad alta voce, sarà più evidente come la lettura di queste parti assume un suono similare, quasi un ritornello. Insomma sono queste tracce evidenti di un modo di strutturare il testo scritto, tale da destinarlo a un ascolto col­ lettivo. Questa conclusione ci porta vicini alla teoria dell’oralità secondaria formulata dallo studioso Walter Ong che proprio dall’osservazione del poema dell'Iliade deduce che fosse stato scritto per leggerlo ad alta voce e che quindi la sua ricezione originaria avesse un carattere e un destino collettivi12. Dunque ciò serve per evidenziare la qualità orale della scrit­ tura marinettiana13. Tutto ciò ci porta inevitabilmente nell’ambito del teatro. Una parola scritta per esser ascoltata, non può che trovare mag­ gior agio che quello della scena. In effetti il teatro, i futuristi lo scelgono come spazio d’azione. In esso tutto avviene secondo una concatenazione di eventi

12 II suo libro più famoso è Oralità e Scrittura, che uscì per la prima volta in Inghilterra nel 1982. All’interno si profilava la teoria dell’“oralità secondaria”, che evidenziava il fenomeno di un’oralità di ritorno nella società tecnologica. “Solo ora, nell’era dell’elettro­ nica, ci rendiamo conto delle differenze esistenti fra oralità e scrit­ tura; sono stati infatti le diversità fra i mezzi elettronici e la stampa che ci hanno reso consapevoli di quelle precedenti tra scrittura e co­ municazione orale. L’era elettronica e anche un’era di oralità di ri­ torno, quella del telefono, della radio, della televisione, la cui esi­ stenza dipende dalla scrittura e dalla stampa”, cit. in Walter Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 191-192. 13 In questa strada procede uno degli ultimi scritti su Marinetti, di Gino Agnese dal titolo esplicativo: Il ‘‘parlare scritto” di Marinetti, in G. Teliini e P. Valesio (a cura di), Beyond Futurism, Filippo Tom­ maso Marinetti Writer, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Columbia University, New York, 12-13 novembre 2009, Società Edi­ trice Fiorentina, Firenze 2011, pp. 173-178.

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e linguaggi. È strutturato anch’esso secondo la tecnica del mon­ taggio. Lo spettacolo è dipartito in quadri singoli, la narrazione non segue, come visto nella scrittura, un ordine sequenziale, il tempo anche qui assume una regolare disfunzionalità alogica. In questo caso ancora una volta è il cinema, o meglio, un certo uso alternativo del suo potenziale quale forma di ibrida­ zione: il Fregoligraph. A cavallo tra il XIX e il XX secolo, Leo­ poldo Fregoli, fu una delle più grandi figure della scena del va­ rietà. A seguito dell’incontro con i fratelli Lumiere, da cui ot­ tenne il permesso di proiettare loro corti alla fine dei suoi spet­ tacoli, decise di introdurre l’uso di spezzoni di filmati nei suoi spettacoli di trasformismo. Lo fece girando corti di produzione propria, con l’aiuto di Luca Comerio, introducendo nuovi ef­ fetti di accelerazione, colorazione e marcia indietro. Non è un caso che proprio il nome di Fregoli è presente tra gli ispiratori del manifesto de II teatro di varietà. Com’è ormai appurato, il Futurismo, e Marinetti in primis, capì che per innovare la scena teatrale bisognava fondere i lin­ guaggi: poesia, pittura, declamazione, pantomima, circo, con il cinema nel tentativo di creare la forma del “meraviglioso”. Ad esempio, alcuni futuristi come Fortunato Depero ed En­ rico Trampolini, utilizzeranno la suggestione cinematografica per procedere via via verso un’attivazione vibratile della superfice, sia in senso pittorico che teatrale. Depero considerava il cinema come “mimica dello scena­ rio”, come scriveva in suo articolo in Penombra, rivista cinema­ tografica del 191914. D’altronde la teorizzazione di alcuni anni prima, della Ricostruzione Futurista dell’Universo aveva portato lui e Giacomo Balla a riconsiderare tutto lo scibile artistico entro uno spettacolo totale di reinvenzione, all’interno del quale, proprio la cinetica e la cinematica assumevano un ruolo fondamentale. La scenografia mobile si era già manifestata in­

14 La questione è trattata da Maurizio Scudiero nel suo testo Depero a Roma, cit. in Casa Balla e il Futurismo a Roma, catalogo della mostra a Villa Medici a Roma, a cura di E. Crispolti, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1989, pp. 203-221.

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tuitivamente fin dal 1915 con il programma tecnico del Motorumorismo e poi con il Complesso plastico Motorumorista15. Anche loro sulla base di un’intuizione logica hanno utiliz­ zato il cinema per trasformare la scenografia passiva in una scena mobile e trasformabile. Basti ancora pensare ad esempio al lavoro che compirà Enrico Trampolini per il film Thais di Anton Giulio Bragaglia. Qui i costumi indossati da Thais e le stanze della villa erano stati disegnati sfruttando l’alternanza bianco-nero. In questo caso la protagonista sembra disperdere il corpo tra lo spazio dell’ambiente. Trampolini dà cosi vita al primo esempio di scenografia immaginaria della storia del ci­ nema: ritmi lineari, forme geometriche, arabeschi a forma di spirale o di ellisse, modulazioni formali connotate da un punto di vista psichico. Tutto ciò dimostra che l’orizzonte dischiuso dal cinema sug­ gerisce la possibilità di dinamizzare la scena e in special modo di modificare il rapporto figura-sfondo. Restando in tale prospettiva e avanzando cronologicamente agli anni Cinquanta, proprio la problematica dell’attivazione vi­ bratile della luce, condurrà verso lo sviluppo dell’arte cinetica in generale, e in particolare in Italia vedrà la genesi dell’arte pro­ grammata degli anni Cinquanta/Sessanta che via via trasformerà dialogicamente il rapporto opera-fruitore dallo spazio bidimen­ sionale dell’opera fino all’Ambiente immersivo. Ma ancora re­ stando sugli esempi di Trampolini, l’utilizzo del mezzo cinema­ tografico è già una modalità di fuoriuscita dalla cornice dello schermo. Un cinema inteso come possibilità di ampliare lo spet­ tacolo dal vero, un cinema preso nell’essenza della proiezione che diviene architetturale, invadendo e moltiplicando lo spazio 15 Entrambi i concetti sono stati postulati da Fortunato Depero e Gia­ como Balla nel manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo (1915). Ter dovere storiografico diciamo pure che molte delle posi­ zioni confluite nella Ricostruzione dell’universo, provengono da un Manifesto manoscritto di Depero, del 1914, documentato da due negativi nel Museo Depero di Rovereto, dal titolo: Complessità pla­ stica — Gioco libero futurista — L’essere vivente artificiale, cit. in Casa Balla e il Futurismo a Roma, cit.

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reale. Ad esempio pensando all’oggi, il cinema si è ampliato in termini di capacità di proiezione, com’è il caso della video-map­ ping che permette di ampliare la scena reale immensificando le componenti architettoniche.

3.1. Fuori campo dell’immagine Ora, la lucidità e la lungimiranza delle tesi marinettiane sul­ l’immagine non possono essere sottovalutate. La sua scrittura si discioglie dal piano della pagina per di­ venire, al tempo stesso, sonora e visiva. I suoi testi sono già opere sinestetiche, nel momento in cui vengono attivate come “ascolto collettivo”. Marinetti con tale metodologia, rendeva la sua scrittura “esponibile”. Il tempo della sua narrazione è di­ scontinuo, imprescindibile. Su tali posizioni vorrei ora far no­ tare quanto egli abbia in parte, guardando alle origini, recupe­ rato il senso originario dell’arte intesa come ri-orientamento cri­ tico della realtà. Ma contemporaneamente, anche come abbia anticipato la possibilità di costruire un’opera d’arte, quella fu­ turista, capace di reagire alla riproducibilità tecnica, contrap­ ponendo un ampio insieme di emergenze, che si tratta di rico­ struire e di orientare in senso politico. L’arte torna urgente nello spazio della polis. Su conclusioni simili, giungerà Walter Benja­ min, nelle tesi enunciate nel 1936, nel celebre saggio su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Per Benjamin, la perdita dell’aurea conserva tuttavia delle aperture, delle no­ vità che permetterebbero, all’opera d’arte, di resistere al potere della tecnica. In questo senso l’opera deve perseguire un supe­ ramento della forma statica se vuole sopravvivere: Con i vari metodi di riproduzione tecnica dell’opera d’arte, la sua esponibilità è cresciuta in una misura così poderosa, che la discrepanza qualitativa tra i suoi due poli si è trasformata, analogamente a quanto è avvento nelle età primitive, in un cam­ biamento qualitativo della sua natura. E cioè: cosi come nelle età primitive, attraverso il peso assoluto del suo valore culturale,

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l’opera d’arte era diventata uno strumento della magia, che in un certo modo soltanto più tardi venne riconosciuto quale opera d’arte, oggi, attraverso il peso assoluto assunto dal suo valore di esponibilità, l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale. Certo è che attual­ mente la fotografia, e poi il cinema, forniscono gli spunti più fe­ condi per il riconoscimento di questo dato di fatto16.

In questo senso sembrano accordarsi le posizioni marinettiane con quelle benjaminiane sull’idea della “politicizzazione dell’arte” anche se, il secondo considera il primo appartenente a una fase inversa di “estetizzazione della politica”. Per Benja­ min lo strumento principale per valorizzare il legame inedito che l’immagine cinematografica può stringere tra la rivoluzione tecnica della riproducibilità dell’opera d’arte e la politicizza­ zione dell’arte, è la forma-montaggio, in quanto forma che mas­ simamente si oppone a ogni effetto auratico e che inoltre con­ sente le più ampie ibridazioni del cinema con la scienza, con la cronaca o con la pura e semplice sollecitazione sensoriale vio­ lenta. Il suggerimento che dobbiamo trarne è il seguente: più che come un oggetto storico determinato, l’immagine riprodu­ cibile, in particolare il cinema di montaggio, si presenta come un paradigma, ancora in larga parte inesplorato, delle nuove opportunità perché nel cinema la polarità del valore espositivo può raggiungere un massimo di opposizione nei confronti del valore culturale. Veniamo qui a un esempio possibile di questo uso dell’immagine cinematografica intesa come “valore esposi­ tivo”. In questo caso ci rifacciamo all’esperimento Kinoglaz (Cineocchio) del 1924, del futurista russo Dziga Vetrov. Questa proposta proviene dall’assunto di partenza di una cinematogra­ fia non-recitata (cioè non artistica in senso estetico). Que­

16 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, p. 28.

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st’opera è un ipertesto, come una sorta di blog: una serie aperta di immagini, potenzialmente interminabile e tale da poter essere interrotta in ogni punto dell’intervento di un utente interattivo, per dar luogo a una ramificazione, anch’essa potenzialmente in­ terminabile, di link. Kinoglaz prevedeva con diversi decenni di anticipo il moderno concetto di interattività. A ciò si deve ag­ giungere anche che i contenuti dell’ipertesto interattivo proget­ tato da Vetrov, erano stati pensati in rapporto al costituirsi di una comunità di comunicazione interessata all’esplorazione dei fatti reali. Tornando ora a Zang Tumb Tumb, potremmo riana­ lizzare il ruolo testimoniale di Marinetti di fronte allo spettacolo della guerra. Marinetti ci apre, in anticipo di un secolo, rispetto all’im­ magine elettronica, al ruolo nuovo dell’artista, inteso non come produttore di immagini, ma come testimone dei loro rapporti e conflitti reciproci. Se volessimo analizzare centimetro per cen­ timetro, le pagine del poema guerresco di Adrianopoli, ve­ dremmo che il flusso d’immagini non si proietta soltanto dagli occhi del protagonista, ma tenta di ricostruire tutto l’ambiente circostante. In termini cinematografici viene posto l’accento sul “fuori campo” dell’immagine, in quanto orizzonte degli eventi contingenti e improgrammabili. È merito della riflessione hei­ deggeriana dell’opera d’arte, aver valorizzato questo aspetto sotto il titolo di “terra”: si tratta precisamente dell’elemento non dominabile che l’opera lascia emergere allo scoperto come tale.

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Cinema e industria dello spettacolo nella pubblicistica futurista, tra promozione, critica e “misurazioni” di Matteo Fochessati

La considerevole bibliografia dedicata ai complessi e articolati rapporti tra cinema e futurismo ha in genere privilegiato lo studio dell’esigua filmografia futurista o la rilettura critica delle signifi­ cative tangenze espressive che alcune pellicole dell’epoca palesa­ rono con gli indirizzi linguistici ed estetici propugnati dal movi­ mento di Marinetti. Una minore attenzione sembra invece essere stata riservata al ruolo svolto dai futuristi nelle loro vesti di spet­ tatori e critici. Uno spoglio - ovviamente non esaustivo - dei prin­ cipali manifesti, recensioni, articoli e saggi critici dedicati dai fu­ turisti al cinema e all’industria dello spettacolo può tuttavia offrire un’interessante e inedita prospettiva sulle loro reazioni al nuovo medium, ma anche nuove chiavi di lettura sulla loro stessa filmo­ grafia e sulle principali linee teoriche formulate dal movimento. Prima di passare a esaminare i caratteri e le dinamiche ope­ rative e culturali di questa ampia e variegata attività critica, ap­ pare tuttavia opportuno premettere alcune considerazioni di ca­ rattere generale sui rapporti tra futurismo e cinema. Come è noto i futuristi, teorizzando una diretta congiunzione tra arte e vita, spesso considerarono il cinema come uno strumento di re­ gistrazione passiva della realtà, preferendo ad esso l’intensità emozionale della performance teatrale. E nonostante l’ardore dei futuristi nei confronti della modernità e la loro propensione a esplorare le dinamiche espressive del movimento e della velo­ cità meccanica, l’autorità teorica di Umberto Boccioni contribuì a scoraggiare le nascenti indagini futuriste sulle potenzialità estetiche del medium cinematografico. Fu, infatti, proprio Boc­ cioni a bloccare le sperimentazioni sul film astratto dei fratelli Arnaldo e Bruno Ginanni Corradini, individuando in tali espe­ rienze una matrice culturale spiritualista che era del tutto estra­ nea al suo pensiero estetico.

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Un altro episodio che vale la pena di citare, a conferma di questo contraddittorio rapporto intrattenuto agli esordi dal fu­ turismo con il cinema, riguarda la realizzazione nel 1914 del film Mondo Baldoria di Aldo Molinari. Ispirata al Manifesto fu­ turista, Il controdolore di Aldo Palazzeschi (1913), la pellicola, che aveva documentato senza il consenso dei futuristi le loro celebri serate, fu duramente censurata da Marinetti nel manife­ sto Gli sfruttatori delfuturismo (1914), determinandone il ritiro dalle sale cinematografiche. Lo stesso Marinetti, tuttavia, nel Manifesto tecnico della let­ teratura futurista del 1912 aveva così segnalato l’importanza delle sperimentazioni cinematografiche come fonte di ispira­ zione: “Il cinematografo ci offre la danza di un oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano. Ci offre anche lo slancio a ritroso di un nuotatore i cui piedi escono dal mare e rimbalzano violentemente sul trampolino. Ci offre infine la corsa d’un uomo a 200 chilometri all’ora”1; mentre nel manife­ sto Il Teatro di varietà del 1913 aveva così riconosciuto le corri­ spondenze tra questa forma di spettacolo e il cinema: “Il Teatro di Varietà, nato con noi dall’elettricità, non ha fortunatamente tradizione alcuna, né maestri, né dogmi, e si nutre di attualità veloce. [...] Il Teatro di Varietà, solo, utilizza oggi il cinemato­ grafo, che lo arricchisce d’un numero incalcolabile di visioni e di spettacoli irrealizzabili (battaglie, tumulti, corse, circuiti d’au­ tomobili e d’areoplani, viaggi transatlantici, profondità di città, di campagne, d’oceani e di cieli)”1 2. L’iniziale diffidenza dei futuristi verso il medium cinemato­ grafico sembrò dunque potersi stemperare di fronte a un pro­ gressivo interesse verso un’espressione artistica condivisa dal largo pubblico che, sconvolgendo consolidate norme e tradi­ zioni, pareva offrire inedite prospettive di interpretazione este­ tica della realtà. Persistente appariva però nei futuristi l’incli­ nazione a vincolare - se non a mettere in concorrenza - i canoni

1 F.T. Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, 11 maggio 1912. 2 F.T. Marinetti, Il Teatro di Varietà, 29 settembre 1913.

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espressivi del teatro con la cinematografia. Nel manifesto 11 tea­ tro futurista sintetico del 1915 si propose infatti di adottare un linguaggio improntato a “brevità essenziale e sintetica” per “so­ stenere e anche vincere la concorrenza col cinematografo^. Appena un anno dopo, tuttavia, con il manifesto La cinema­ tografia futurista si definì in maniera più autonoma la posizione teorica del futurismo nei confronti delle potenzialità artistiche del cinema: “Antecedentemente un altro Manifesto futurista aveva riabilitato, glorificato e perfezionato il Teatro di Varietà. È logico dunque che oggi noi trasportiamo il nostro sforzo vivifi­ catore in un’altra zona del teatro: il cinematografo”3 4. Mettendo in evidenza il perdurante tradizionalismo della contemporanea produzione cinematografica - “Salvo i films [a-/?] interessanti di viaggi, caccie, guerre, ecc., non hanno saputo infliggerci che drammi, drammoni e drammetti passatistissimi” - gli estensori del manifesto dichiaravano inoltre: “Il cinematografo è un’arte a sé. Il cinematografo non deve dunque mai copiare il palcosce­ nico. Il cinematografo, essendo essenzialmente visivo, deve com­ piere anzitutto l’evoluzione della pittura: distaccarsi dalla realtà, dalla fotografia, dal grazioso e dal solenne. Diventare antigra­ zioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, paroli­ bero. Occorre liberare il cinematografo come mezzo di espressione per farne lo strumento ideale di una nuova arte immensamente più vasta e più agile di tutte quelle esistenti. [...] Il cinematografo futurista crea appunto oggi la sinfonia poli-espressiva che già un anno fa noi annunciavamo nel nostro manifesto: Pesi, misure e prezzi del genio artistico”5. Le posizioni teoriche dei futuristi, unitamente alla realizza­ zione, sempre nel 1916, del film Vita futurista che nella sua strut­ tura frammentaria - condizionata in parte dalla collettiva dimen­

3 F.T. Marinetti, B. Corra, E. Settimelli, Il teatro futurista sintetico, 11 gennaio 1915 (ma 11 settembre 1915). 4 F.T. Marinetti, B. Corra, E. Settimelli, A. Ginna, G. Balla, R. Chiti, La cinematografia futurista, in «L’Italia Futurista», 9, 11 settembre 1916. 5 Ibidem.

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sione della produzione - presentava evidenti assonanze con il manifesto Teatro di Varietà, contribuirono a influenzare alcune tra le principali esperienze cinematografiche degli anni venti e trenta, sia dal punto di vista delle sperimentazioni linguistiche proposte in opposizione alle tradizionali concezioni artistiche, sia come modello tematico vincolato alla celebrazione di motivi e soggetti ispirati alla modernità e al culto del macchinismo. Se già nel 1916 il film Thais diretto da Anton Giulio Bragaglia, con scenografie e costumi di Enrico Trampolini, mostrava, nonostante la sua evidente matrice déco, palesi tangenze formali con l’estetica futurista, altre opere cinematografiche degli anni venti, come TTnhumaine di Marcel L’Herbier (1923), Ballet mecanique di Léger (1924), Metropolis di Fritz Lang (1927) e Ber­ lino sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann (1927), ri­ sentirono in maniera incisiva della sintassi e della poetica futuriste. E Marinetti infatti a lungo rivendicò il primato del “ci­ nema astratto e puro” futurista rispetto alle sperimentali prove della cinematografia d’avanguardia francese. In Italia nel decennio successivo il film Velocità (1930) di Tina Corsero, Guido Martina e Pippo Oriani presentò invece alcune sequenze di aerocinema, che furono successivamente ri­ proposte dalla pellicola di Carlo Ludovico Bragaglia O la borsa o la vita! (1932); ma riferimenti all’estetica futurista erano rav­ visabili anche in film come Acciaio (1933) di Walter Ruttmann o Luciano Serra pilota (1937) di Goffredo Alessandrini, già au­ tore nel 1931 di uno sperimentale filmato di animazione: La notte insonne di Topolino. Nonostante la palese incidenza del futurismo sulla filmogra­ fia dell’epoca, il suo rapporto con il cinema continuò tuttavia a restare problematico e contradditorio. Nel Manifesto futurista della radio, pubblicato nel 1933 da Marinetti e Pino Masnata, il cinema era visto come “agonizzante [...] di luminosità riflessa inferiore alla luminosità autoemessa della radio-televisiva”6. E tuttavia nell’aprile dell’anno successivo lo stesso Marinetti pub­ 6 F.T. Marinetti, P. Masnata, Manifesto futurista della radio, in «Gaz­ zetta del Popolo», 22 settembre 1933.

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blicò su «Sant’Elia» il testo Morale fascista del cinematografo in cui - lodando il cinema per la sua promozione dei valori di sin­ tesi, velocità, simultaneità, aerovita e per la sua creazione di una “teatralità [che] distrae la gioventù dalle biblioteche e dai musei; muscolare, sportiva, al passo di corsa in aperta campa­ gna” - proponeva un uso didattico del medium cinematogra­ fico78;tema poi ripreso nel 1935 su «Stile futurista» da Michele Venuti nell’articolo Films educativi, nel quale auspicava la pro­ iezione di filmati nelle scuole e uno sviluppo settoriale di pelli­ cole per ragazzi. Nell’aprile del 1938 Marinetti firmò infine - sempre insieme a Ginna - una nuova versione del manifesto del cinema che te­ stimoniava l’attenzione dei futuristi alle nuove tendenze della produzione internazionale: “Ora constatiamo che per opera degli americani e recentemente dei francesi il pregio caratteri­ stico dei migliori film d’oggi consiste nell’arricchire le situazioni drammatiche meno originali o banali con molti particolari os­ sessionanti per tipicità e perfezione di fotografia e d’inquadra­ tura [,..]”9. Nello stesso testo, oltre ad auspicare una maggiore sensibilità artistica da parte dei produttori, si evidenziava anche la necessità di potenziare il cinema attraverso l’utilizzo dei car­ toni animati e l’inserimento di voci e fonti musicali esterne. Una visione della tecnica cinematografica come compenetra­ zione con altre fonne artistiche era stata peraltro già prospettata da Fortunato Depero nell’articolo 11 cinematografo e la pittura dinamica, in cui scriveva: “Il cinematografo ha enormemente contribuito a velocizzare la nostra impressionabilità. [...] Il no­ stro occhio di conseguenza, si è abituato alla velocità e alla si­ multaneità. [...] cosicché dobbiamo considerare il cinemato­ grafo, vero maestro suggeritore del dinamismo pittorico che

7 F.T. Marinetti, Morale fascista del cinematografo, in «Sant’Elia», 65, 15 aprile 1934. 8 M. Venuti, Films educativi, in «Stile futurista», 11-12, settembre 1935, pp. 31-32. 9 F.T. Marinetti, A. Ginna, La cinematografia. Manifesto futurista, in «Gazzetta del Popolo», 26 aprile 1938.

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oggi impera in tutta l’arte mondiale. [...] I pittori futuristi sem­ pre insaziabili [...] furono fortemente spinti dalla velocità drammatica del ‘Cinema’ verso manifestazioni d’arte intensa­ mente moderne e rivoluzionarie. [...] Quadro antico sta a qua­ dro futurista come una vecchia sbiadita, statica fotografia di cinquant’anni fa, sta al Film dinamico parlante d’oggi”1011 . Riguardo alle emergenti potenzialità espressive del sonoro ri­ sulta invece opportuno ricordare che nel 1928 Anton Giulio Fra­ gaglia, in un testo esplicitamente dedicato a questa rivoluzionaria innovazione, aveva dichiarato: “In ogni modo un fatto resta ac­ certato; il film parlato è qui per restare, e nonostante le varie opi­ nioni contrarie si è ormai davanti a un fatto compiuto”11; mentre Ginna, in un articolo apparso su «L’Impero» nell’aprile del 1929, aveva decretato per esso “un grande avvenire”1213 . Passando adesso ad analizzare più nello specifico le modalità di analisi della critica cinematografica futurista, si deve innan­ zitutto far riferimento al manifesto Pesi, misure e prezzi del genio artistico (1914), in cui gli autori Bruno Corradini e Settimelli avevano dichiarato: “La critica non è mai esistita e non esiste. La pseudocritica passatista che ci ha stomacati sino a ieri non è stato altro che vizio solitario di impotenti sfogo bilioso di artisti mancati, chiacchiera inutile, dogmatismo borioso in nome di autorità inesistenti. [...] La prima critica nasce oggi in Italia per opera del Futurismo. E poiché le parole critico e critica sono ormai disonorate dall’uso immondo che se ne è fatto, noi futu­ risti le aboliamo definitivamente per adottare in loro vece i termini misurazione, misuratore °.

10 F. Depero, Il cinematografo e la pittura dinamica, in «Futurismo 1932. Anno X. S.E. Marinetti nel Trentino», numero unico, 1932. 11 A.G. Bragaglia, Nuovi orizzonti della cinematografia. Il film sonoro, Milano 1928, p. 30. Nel suo testo, in cui affrontava anche le proble­ matiche del doppiaggio e dell’acustica nelle sale cinematografiche, citava Chaplin tra i detrattori del sonoro e Griffith tra i favorevoli. 12 A. Ginna, Note dinamico-futuriste sul film sonoro, in «L’Impero», 28 aprile 1929, p. 3. 13 B. Corradini, E. Settimelli, Pesi, misure e prezzi del genio artistico, 11 marzo 1914.

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Tali considerazioni rappresentarono un fondamentale mo­ dello per la critica futurista e in particolare per Marinetti che tra il gennaio 1926 e il novembre 1928 svolse l’attività di critico teatrale per il giornale «L’Impero», fondato nel 1923 da Carli e Settimelli e sul quale il futuro regista Alessandro Blasetti aveva inaugurato nel 1925 la prima rubrica cinematografica su un quotidiano, intitolata Lo Schermo. Lo stesso Carli, grande esti­ matore di Charlie Chaplin e di Douglas Fairbanks (interprete di personaggi che incarnavano ai suoi occhi i valori della virilità e dell’arditismo sostenuti dalla propaganda fascista), fu autore per «L’Impero» di recensioni e servizi dedicati alle problema­ tiche della cinematografia nazionale14. Nell’ambito della sua collaborazione con tale quotidiano, Marinetti sperimentò un nuovo metodo critico che, denominato “misurazione” e ispirato appunto al citato manifesto di Corradini e Settimelli, proponeva in alternativa alla critica tradizio­ nale - individuata come operazione di natura soggettiva un’analisi impostata attraverso una specifica suddivisione dei campi di valutazione: autore, concezione, trovate, esecuzione, pubblico, scenografie e luci. E nel marzo del 1927, attraverso l’articolo La misurazione futurista, propose di trasformare la cri­ tica in “Misurazione sintetica con rubriche nettamente sepa­ rate” poiché essa “[...] nelle sue forme attuali usate dal giornale quotidiano non risponde più ai bisogni dello spirito moderno innamorato di esattezza semplicità velocità e simultaneità”15. Fu Ginna, che come critico cinematografico e radiofonico collaborò a diverse testate, come «L’Impero», «Oggi e do­ mani», «Roma Futurista» e «Bianco e nero»16, ad adottare il cri­ terio della misurazione per le sue recensioni cinematografiche

14 Sugli articoli dedicati al cinema apparsi su «L’Impero» si rimanda a M. Verdone, Ginna e Corra. Cinema e letteratura del futurismo, in «Bianco e Nero», fascicolo speciale su cinema e futurismo, XXVIII, 10-12, ottobre-dicembre 1967, pp. 151-153, 158. 15 F.T. Marinetti, La misurazione futurista, in «La Fiera Letteraria», 6 marzo 1927. 16 M. Verdone, cit., pp. 154-156.

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che prevedevano, infatti, una scomposizione in più paragrafi dedicati a: autore, soggetto, idea, esecuzione, scenografia e rea­ zioni del pubblico. Il metodo fu da lui applicato, in particolare, per la rubrica cinematografica di “Futurismo», periodico di­ retto da Mario Somenzi che nella sua promozione dell’estetica globale futurista dedicò diversi articoli agli sviluppi della cine­ matografia contemporanea17. Sul secondo numero della rivista del giugno 1932, Ginna presentò il suo “metodo sintetico di valutazione” attraverso una tavola sinottica, ripartita per ambiti di valutazione (Elementi drammatici e comici; Sonorizzazione; Quadri; Recitazione), in cui riportava le sue votazioni dei film analizzati18. Dimostrando una spiccata preferenza per il cinema d’oltreoceano, la maggior parte di queste pellicole erano americane19, mentre due erano i film italiani: La Vally di Guido Brignone, che consacrò la pro­ tagonista Germana Paolieri a stella del cinema nazionale, e La segretaria privata, sorta di Cenerentola rivisitata in chiave mo­ derna e borghese, diretto da Goffredo Alessandrini, con inter­ preti Sergio Tofano e Elsa Merlini.

17 Alle innovazioni estetiche e tecnologiche della cinematografia e della scenotecnica furono ad esempio dedicati i seguenti articoli: Ano­ nimo, La cinematografia in rilievo, in «Futurismo», I, 1, 15-30 mag­ gio 1932, p. 10, che analizzava il tema scenico della rappresentazione della profondità e presentava le innovazioni tecniche introdotte dall’apparecchio per visione stereoscopica dell’ingegner Luzzati; E. Prampolini, Mostra futurista di scenotecnica cinematografica, in «Fu­ turismo», II, 22,5 febbraio 1933, p. 5, in cui dichiarava: “La vita del cinema è legata intimamente alla tecnica [...] Lo scopo infatti di questa prima mostra di scenotecnica cinematografica [...] è di aprire un nuovo campo nella tecnica della produzione del film, e di orien­ tare le giovani generazioni ai problemi più intimi della vita mecca­ nica del film”; U. Calcaprina, Ambienti cinematografici, in «San­ t’Elia», II, 2, 15 gennaio 1934, p. 2. 18 A. Ginna, Per una cinematografia futurista, in «Futurismo», 1,2,1530 giugno 1932, p. 15. 19 La via del male, Tante donne e nessuna e La piccola amica della Metro Goldwin Mayer; Svengali della Warner Brothers; Una notte indiavo­ lata della Fox e 11 mendicante di Bagdad della First National.

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In un successivo articolo, in cui affermava che: “La nostra cinematografia ha dunque per scopo di liberarsi da ogni con­ venzionalismo di naturalezza e di estetica pur di dare questa fu­ sione dell’invisibile col visibile, dell’astratto col concreto, dimo­ strando così una unità in dissolubile e certa della fenomenologia universale”, Ginna auspicò un utilizzo più articolato del cine­ sonoro che includesse “dramma, musica, plastica, fotografia, ar­ monia, esagerazione, montaggio, inquadratura, taglio, scena, trucco, sfondo, primo piano, flou”20. Passando adesso a esaminare le peculiarità della sua impo­ stazione critica, è opportuno citare qui alcune sue significative e emblematiche “misurazioni”. Ad esempio quelle pubblicate sul numero del 16 ottobre 1932: del film Vergatesi Guido Brignone (Cines), giudicava positivamente la recitazione, un po’ meno il sonoro (“Musica eccellente senza dubbio ma che poco si adatta alle possibilità ed alle esigenze della foto acustica21”); favorevole era invece il suo commento a Gli uomini... che ma­ scalzoni, diretto da Mario Camerini e interpretato da Vittorio De Sica, i cui punti salienti furono le scene del ballo in campa­ gna (accompagnato dalle note di Parlami d’amore MariÙ) e le riprese alla Fiera di Milano, in una celebrazione della modernità metropolitana che poteva presentare una certa sintonia con la poetica futurista22. In un numero del mese seguente23, Ginna segnalò II Dottor Jekyll di Rouben Mamoulian, opera cinematografica tra le più rappresentative degli esordi della stagione del sonoro che, dopo l’avvento di Hitler al potere, fu tuttavia il primo film censurato e bandito dal nazismo. E qui si deve ricordare che anche Ginna dovette confrontarsi con l’invadenza ideologica della propa­ ganda, dimostrando talvolta di sottomettere alla celebrazione 20 A. Ginna, Musica-Teatro-Cinema-Varietà (riferimenti al Futurismo), in «Futurismo», I, 5, 9 ottobre 1932, p. 6. 21 A. Ginna, Cinema e teatri (riferimenti al Futurismo), in «Futurismo», I, 6, 16 ottobre 1932, p. 6. 22 Ibidem. 23 A. Ginna, Cinematografo e teatro, in «Futurismo», I, 10, 13 novem­ bre 1932, p. 5.

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del fascismo i suoi modelli critici, come documentato dalla re­ censione della pellicola del Luce Le trionfali giornate del Decen­ nale, in cui non rispettò il consueto criterio di valutazione set­ toriale24. Ad esso ricorse invece recensendo, sulla stessa pagina, due film della Metro Goldwin Mayer: Tarzan di W. S. Van Dyke, di cui salvava solo la straordinaria presenza scenica dell’inter­ prete Johnny Weissmuller, e Cortigiana, apprezzato per il taglio e il montaggio, ma soprattutto per la recitazione della Garbo25, che Ginna tornò in seguito a lodare per la sua interpretazione in Mata Hari di George Fitzmaurice, primo film della divina di­ stribuito in Italia in versione doppiata26. Riguardo a Cortigiana Ginna evidenziò anche la buona qua­ lità del sonoro e l’efficace resa del sistema di amplificazione del cinematografo: due ambiti di valutazione che furono sempre ri­ correnti nelle sue “misurazioni”. A proposito di 11 mio ragazzo aveva ad esempio segnalato: “La registrazione è buona sotto ogni punto di vista e la riproduzione del complesso cinesonoro del Bernini è ottima”; mentre di Proibito, con Frank Capra e Barbara Stanwyck, aveva elogiato in particolare il doppiaggio della Fono-Roma che creava “un’atmosfera tutta latina là dove vi era indubbiamente uno stile d’oltremare difficile da compren­ dersi interamente”27. Sui cambiamenti apportati dal sonoro rispetto all’epoca del muto, si focalizzò la sua recensione del film II segreto del dottore di Michael Curtiz e Lloyd Bacon: “L’intreccio più o meno fu sfruttato ai tempi del cinema muto e resta tutt’oggi un poco ro­

24 A. Ginna, Cinema e teatro, in «Futurismo», I, 12,27 novembre 1932, p. 5. 25 Ibidem. 26 Anonimo [A. Ginna], Cinema e teatro, in «Futurismo», I, 16, 25 di­ cembre 1932, p. 5. 27 A. Ginna, Cinema e teatro, in «Futurismo», I, 13,4 dicembre 1932, p. 5. Analoghe considerazioni si ritrovano nelle sue “misurazioni” non firmate in Cinema e teatro, in «Futurismo», I, 16, 25 dicembre 1932, p. 5: di La Donna di domani lodava il sonoro e l’impianto del Cinema Moderno; mentre di Nicoletta e la sua virtù criticava il so­ noro, nonostante riconoscesse l’ottimo doppiaggio in italiano.

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cambolesco. C’è però da notare che la vicenda è sfruttabilissima coi mezzi del cinematografo”28. Curioso appare invece il suo stringato giudizio sul sonoro de La tragedia della miniera di Georg Wilhelm Pabst: “Niente di speciale da notare”; mentre in realtà il film - caratterizzato nella sua vocazione sovranazionale da un incisivo impianto corale - propose un interessante esperimento di mescolanza tra rumori di scena e voci in lingua originale29. Sempre nella citata “misurazione” del film 11 mio ragazzo sottolineò la straordinaria recitazione del “piccolo prodigio” Jackie Cooper, diretto con “assistenza vigile” dal regista Fred Niblo30, confermando così la sua costante attenzione nei con­ fronti delle performance degli interpreti che spesso, a dimostra­ zione dell’efficacia del suo metodo critico, potevano compen­ sare le carenze di altri settori dei film analizzati. Non fu questo il caso di Arsenio Lupin di Jack Conway della Metro GoldwinMayer, il cui intreccio a suo avviso non era in grado di esprimere le potenzialità del cinesonoro e nel quale la recitazione, nono­ stante l’eccellente prestazione dei due Barrymore, era “[...] in­ capace di sollevare quel senso di disagio e di pena che lascia l’uniformità della vicenda”31. Mentre nella “misurazione” del film austriaco La contessa di Montecristo di Karl Hartl notava invece come la recitazione di Brigitte Helm fosse stata in grado di risollevare la mediocrità del film32. Ginna fu d’altronde sensibile, nei suoi giudizi cinematogra­ fici, alle interpretazioni delle dive dell’epoca. Riguardo alla re­ citazione di Marlene Dietrich nel film di Josef von Sternberg Shanghai-Express scrisse infatti: “O Marlene Marlene come piaci, e mentre te ne stai mollemente assaporando la gloria qui

28 A. Ginna, Teatro cinema e radio, in «Futurismo», II, 25,26 febbraio 1933, p. 5. 29 Ibidem. 30 A. Ginna, Cinema e teatro, in «Futurismo», 4 dicembre 1932, cit. 31 Anonimo [A. Ginna], Cinema e teatro, in «Futurismo», 25 dicembre 1932, cit. 32 A. Ginna, Cinema, teatro e varietà, in «Futurismo», II, 18, 8 gennaio 1933, p. 5.

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c’è pericolo di sfida per posta fra Arnaldo Ginna, Marco Ramperti e Paul Morand”33; ma il suo giudizio su questa pellicola, girata al servizio del seducente fascino della Dietrich, fu comun­ que complessivamente molto positivo: “[...] avete davanti a voi un susseguirsi d’ininterrotte ondate drammatiche che tolgono il respiro ed inebriano possentemente. [...] un capolavoro è il taglio ed il montaggio del film. Qui si comprende quale impor­ tanza abbia questa tecnica nell’arte cinematografica, tecnica che sino ad oggi è stata purtroppo trascurata”34. La validità di un plot intrigante - “Finalmente abbiamo visto un film che non trascura i valori d’intreccio” - era riconosciuta anche a La follia dell’oro di John Cromwell35, opera cinematografica tratta dal romanzo di Charles Dickens Dombey and son, alla cui proie­ zione Ginna ricordava di aver veduto diverse madri stringere a sé i figli: significativa testimonianza delle reazioni del pubblico, subito riportata dal critico a integrare le sue impressioni. Un felice equilibrio tra linguaggio cinematografico e trama del film Ginna riscontrava pure in La frenesia del cinema di Ha­ rold Lloyd: “L’allegro intreccio si presenta cinematografico al cento per cento. Tutta [s7c] azione e brio”3637 . E se a questa felice combinazione contribuivano la regia e l’interpretazione di Lloyd e la buona qualità del doppiaggio, il critico notava tut­ tavia che: “[...] Harold perde comicità quando parla. La sua mimica è talmente geniale che essa perde per quanto le into­ nazioni vocali e gli accenti delle frasi siano ben fatte ed in armoina coi gesti . Il suo sintetico giudizio su Grand Hotel - “cinematografico al 100 per 100” - fu invece determinato - benché riconoscesse nel film una certa debolezza dell’intreccio con “situazioni già

33 A. Ginna, Cinema e teatro, in «Futurismo», 4 dicembre 1932, cit. 34 Ibidem. 35 Anonimo [A. Ginna], Cinema e teatro, in «Futurismo», I, 15, 18 di­ cembre 1932, p. 5. 36 A.G. [A. Ginna], Cinema, teatro e varietà, in «Futurismo», II, 1, 1 gennaio 1933, p. 5. 37 Ibidem.

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sfruttate” e “caratteri già visti” - da una più che positiva va­ lutazione della tecnica cine-sonora e della recitazione di “co­ nosciutissimi artisti [che] non smentiscono la loro arte”: tra essi la Garbo, John e Lionel Barrymore e Joan Crawford38. Per contro la versione doppiata in italiano del film tedesco Rine Nacht in Grand Hotel (Una notte al Grand Hotel) di Max Neu­ feld, gli sembrò priva, nonostante l’interesse dei caratteri e delle situazioni drammatiche, di una “sincera visione cinema­ tografica” nella regia e giudicò leziosa la recitazione di Martha Eggert, Ulrich Bettac e Max Schipper, ancorché “lodevole per un certo brio39. Decisamente negative furono infine le sue valutazioni di quei film che, recuperando altre forme di spettacolo, non esprime­ vano con coerenza il linguaggio cinematografico, come nel caso del francese Santarellina di Marc Allégret, spregevolmente de­ finito “operetta tradotta”40, e del tedesco Ronny di Reinhold Schiinzel, le cui “[...] lunghe leziosaggini dello scenario sono dovute, più che altro, all’insana mania di voler fare dell’operetta al cinematografo e, quel che è peggio, nel voler fare col cineso­ noro l’operetta del teatro”41. Ginna prediligeva d’altra parte il cinema dei grandi registi: come René Clair che, per essere stato rimproverato di cerebra­ lità per il suo film A me la libertà, così difendeva: “È questa una critica? [... ] Un genio della cerebralità sarebbe pur sempre un genio, che dovremmo ammirare e che passerebbe indubitabil­ mente alla storia della cinematografia”42; o King Vidor, il quale nella direzione del film 11 campione mostrato “la sua pos-

38 A. Ginna, Cinema teatro varietà e radio, in «Futurismo», II, 22, 5 febbraio 1933, p. 5. 39 Ibidem. 40 A. Ginna, Cinema e teatro, in «Futurismo», 25 dicembre 1932, cit. 41 A. Ginna, Cinema teatro e varietà, in «Futurismo», 8 gennaio 1933, cit. 42 A. Ginna, Reatro cinema e radio, in «Futurismo», 26 febbraio 1933, cit.; per non accentuare il significato sociale del film la censura in Italia impose il “me” nella traduzione del titolo originale (A nous la liberi é).

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sente personalità in ogni punto saliente”43. Ma nelle geniali per­ formance di questi registi individuava soprattutto un prodotto culturale ormai di ampio consumo: quella magia del grande schermo - con i suoi divi, le trame avvincenti e gli effetti spet­ tacolari - che affascinava e faceva sognare la massa del pubblico. Al contrario Prampolini, come testimoniato da una sua re­ censione del film di Jean Cocteau II sangue del poeta, apparsa su «Futurismo» nel gennaio del 1933, incarnava ancora una vi­ sione del cinema come espressione estetica di una ricerca d’avanguardia44. Collegando infatti la realizzazione di questa pellicola - concepita “in funzione puramente cinematografica” - alle opere dei pionieri del cinema (tra i quali includeva Léger, Hans Richter, Ruttmann, Eisenstein e lo stesso Ginna), sottoli­ neava infatti che: “Nella cinematografia la tecnica è il veicolo della poesia. L’invenzione nasce dalla tecnica che diviene ma­ teria poetica nelle mani del cineasta intuitivo e creatore”45. Ginna non manifestò altrettanta passione per la produzione cinematografica italiana, con la quale intrattenne un rapporto più contraddittorio. Ad esempio del film Paradiso, diretto da Guido Brignone e prodotto dalla Cines, giudicò la trama scon­ tata e poco interessante, ma apprezzò invece il taglio e il mon­ taggio, la resa del sonoro, la fotografia di Ubaldo Arata e la re­ citazione di Sandra Ravel, Nino Besozzi e Lamberto Picasso46. Una totale stroncatura riservò invece a Tre uomini in frak di Mario Bonnard (con Tito Schipa e i fratelli De Filippo) e in que­ sta occasione i suoi rilievi negativi si estesero addirittura anche all’impianto sonoro del cinematografo47. Singolare appare la sua analisi di O la borsa o la vita, diretto

43 A. Ginna, Cinema teatro varietà e radio, in «Futurismo», 5 febbraio 1933, cit. 44 E. Prampolini, Cinepoetica in un film di Jean Cocteau, in «Futuri­ smo», 1 gennaio 1933, cit. 45 Ibidem. 46 A.G. [A. Ginna], Cinema, teatro e varietà, «Futurismo», 1 gennaio 1933, cit. 47 A. Ginna, Cinema teatro e varietà, in «Futurismo», 8 gennaio 1933, cit.

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per la Cines da Carlo Ludovico Bragaglia con le scenografie di Gastone Medin48. Basato sul radiodramma La dinamo dell’eroi­ smo di Alessandro De Stefani, il film fu improntato da atmosfere e temi di matrice futurista, in particolare nelle riprese delle acro­ bazie aeree eseguite dal celebre pilota Mario De Bernardi o nelle scene girate nei moderni e funzionali ambienti dell’aeroporto. Tuttavia Ginna non sembrò particolarmente colpito da questi aspetti e giudicò il film non del tutto riuscito, nonostante l’ec­ cellente recitazione degli interpreti: primo tra tutti Sergio To­ fano, in coda l’apparecchio Caproni 113. A Bragaglia rimprove­ rava infatti di essere rimasto “[...] nel campo della prudenza tec­ nica per non dispiacere troppo alla Cines che [...] sbaglia nel non voler intendere realizzazioni d’avanguardia e nuovi propositi tecnici cinesonori”49. Altrettanto severo fu il suo giudizio sul film di Nunzio Malasomma Sette giorni 100 lire, con Armando Falconi: “È recitato bene dai suoi interpreti ed è registrato con l’esattezza tecnica abituale dello stabilimento Cines... ma potenza tecnica sciu­ pata. Sinceramente vorremmo dir bene di questa creatura della Cines, se ciò non procurasse una lusinga dannosa al nostro mag­ giore stabilimento”50. Più aperto e indulgente fu invece il suo commento ad altri film italiani. Di Arcobaleno di Arturo Gemmiti scrisse: “L’in­ treccio, sintetico, è perfettamente adatto alla cinematografia, ed è sorto all’atto stesso della creazione plastico-cinematografica; ecco perché presenta un tutto indissolubile”51; mentre il suc­ cesso di Una notte con te, coproduzione italo-tedesca diretta da Emmerich Wojtek Emo e Ferruccio Bianchii, era per lui da at­ tribuire all’ottima recitazione degli interpreti: Elsa Merlini,

48 A. Ginna, Cinema teatro e varietà, in «Futurismo», II, 19,15 gennaio 1933, p. 5. 49 Ibidem. 50 A. Ginna, Teatro cinema e radio, in «Futurismo», 26 febbraio 1933, cit. 51 A. Ginna, Cinema teatro varietà e radio, in «Futurismo», 5 febbraio 1933, cit.

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Nino Besozzi, Martha Ziegler, Gianna Cellini, Evelina Paoli e Angelo Ferrari52. Questo suo metodo di analisi dei film attraverso una rigo­ rosa suddivisione in compartimenti, non fu adottato dagli altri estensori della rubrica cinematografica pubblicata su «Futuri­ smo». Le recensioni di Anacleto Tanda, membro del gruppo fu­ turista romano53, si caratterizzarono piuttosto per il loro im­ pianto sintetico e per una specifica fecalizzazione sulle trame dei film e sulle reazioni del pubblico. Nella rubrica pubblicata il 28 maggio 1933, ad esempio, definì II mercante di sabbia di André Hugon coinvolgente per le atmosfere misteriose e dram­ matiche che incalzavano lo spettatore; mentre del film inglese La famiglia di mia moglie di Monty Banks (pseudonimo di Mario Bianchi) scriveva: “[...] ben condotto anche se non ci dà niente di nuovo nel campo tecnico ha il merito di far divertire ed è quanto si può volere e ci si può aspettare specie da quei la­ vori che non hanno pretese”; delle Otto ragazze in barca, protagoniste del film di Erich Waschneck, riscontrava infine che con­ tinuavano ad attrarre un pubblico attento e numeroso “con il loro fascino e la loro sensibilità”54. Un’analoga sintesi nel giudizio critico si può riscontrare nelle recensioni firmate da MAS che, autore su “Futurismo” anche di alcune recensioni radiofoniche, potrebbe essere l’ab­ breviazione usata da Pino Masnata, cofirmatario del Manifesto futurista della radio. Pur ricorrendo talvolta a una suddivisione critica per comparti, le sue segnalazioni, come esemplificato

52 Ibidem. 53 II suo nome compare tra i partecipanti alla Prima mostra nazionale futurista di Roma del 1933 e come firmatario de La seconda ondata del futurismo. Manifesto, pubblicato in «Oggi e Domani», I, 13, 15 dicembre 1930. Raffaele De Berti indica invece Anacleto Tanda come pseudonimo di Mino Somenzi in La critica cinematografica nella rivista “futurismo” (1932-1933), in R. De Berti, M. Locatelli, Figure della modernità nel cinema italiano (1900-1940), Edizioni ETS, Pisa 2008, p. 336. 54 A. Tanda, Cinema Teatro Radio, in «Futurismo», II, 38, 28 maggio 1933, p. 5.

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dalla rubrica del 29 gennaio 1933, si distinguevano essenzial­ mente per il tono assertivo dei giudizi: “uno scherzo grazioso che non manca di elementi di successo” scriveva riguardo al film Vz amo e sarete mia di Cari Boese e Heinz Hille; “il titolo è già tutto il programma delle caratteristiche salienti di Buster Keaton, programma al quale nulla vi è da aggiungere” riferito a Chi la dura la vince", o infine “Il misterioso cinema-BarberiniTeatro si è dato alle film [rzc] misteriose gialle superficiali inconcludenti ed econome” sui criteri della programmazione della sala cinematografica che ospitava il film giallo 11 testimonio muto di R.L. Hough e Marcel Varnel55. Tornando alle “misurazioni” di Ginna, si deve ancora ricor­ dare il suo commento alla pubblicazione nel dicembre del 1932 di un comunicato dell’Agenzia Film nel quale si denunciava il ritiro della pellicola francese Parigi-Costa Azzurra (nonostante fosse già uscita nelle sale), a causa di un’eccessiva promozione turistica delle stazioni balneari straniere. Ginna in quest’occa­ sione si schierò a favore dell’azione della censura e non solo per­ ché il film era impregnato di propaganda straniera, ma anche perché a lui pareva una “sciocchezza artistica”56. Se i problemi e le aspirazioni di una cinematografia nazio­ nale, spesso in affanno rispetto alla concorrenza straniera, erano da tempo al centro del dibattito culturale57, il movimento futu­ rista, candidandosi a gestire attraverso i nuovi media la politica del consenso del regime, dimostrò una particolare sensibilità nei confronti della produzione cinematografica italiana. Tale in­ teresse si manifestò inizialmente con l’obiettivo di sancire, in maniera definitiva, la primogenitura futurista sulle sperimenta­ zioni estetiche in campo cinematografico: un riconoscimento del fondamentale ruolo del futurismo nell’ambito del cinema

55 MAS, Teatro Cine e Varietà, in «Futurismo», II, 21,29 gennaio 1933, P-5. 56 Anonimo [A. Ginna], Cinema e teatro, in «Futurismo», 18 dicembre 1932, cit. 57 Si veda ad esempio C. Gallone, Nazionalismo cinematografico, in «L’Impero», 8.12.1923.

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d’avanguardia che Marinetti ossessivamente invocò in diversi articoli e testi teorici58. La tensione polemica su questo tema fu comunque condivisa anche da altri esponenti del futurismo: ad esempio Fernando Raimondi, riprendendo l’articolo di “un’au­ torevole rivista di cinema”, nel quale si riconosceva che “in al­ cuni films [s7c] l’arte cinematografica abbia dato la mano al fu­ turismo e si sia fatta da lui guidare”, affermò sulle pagine di “Futurismo” che era giunta l’ora che l’Italia trovasse la propria strada nel campo della cinematografia, senza attendere l’ap­ porto commerciale e scarsamente artistico delle produzioni stra­ niere59. E con queste indicazioni estetiche e operative auspicava che cinema e futurismo si saldassero tra loro attraverso il col­ lante del cinesonoro: “Simultaneità d’azioni e di movimento, li­ bertà di vedute, squarci improvvisi di sentimentalità acuita, so­ vrapposizione contemporanea di passioni e di stati d’animo, campo illimitato d’azioni, ecco nelle sue idee essenziali il teatro futurista ed ecco allora il cinematografo”60. Sullo stesso numero della rivista fu pubblicato anche il bando di un Concorso per intreccio Cinesonoro futurista in cui, tra le norme di partecipazione, oltre a esigere soggetti e tecniche di matrice futurista, si richiedeva che l’intreccio contenesse “ele­ menti di propaganda fascista e futurista”; che la vicenda si svol­ gesse “possibilmente” in tutte le maggiori città italiane e nelle località di villeggiatura e cura; che fossero sfruttati al massimo “gli impianti industriali e le imprese agricole, i porti commer­ ciali, le aviolinee, i transatlantici, motonavi, stazioni ferroviarie, comunicazioni radio”61: un lungo elenco di simboli della mo­ dernità che sembrava riproporre le indicazioni programmatiche del citato manifesto 11 Teatro di varietà. Il dibattito sulla cinematografia nazionale fu così rilanciato, sempre su “Futurismo”, da Mario Rispoli: “Noi, in Italia ab-

58 Vedi F.T. Marinetti, La cinematografia astratta è una invenzione ita­ liana, in «L’Impero», 1.12.1926. 59 F. Raimondi, Puturcinema, in «Futurismo», 1 gennaio 1933, cit. 60 Ibidem. 61 Concorso per intreccio Cinesonoro futurista, in ibidem.

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biamo case cinematografiche, ma le chiavi del successo l’hanno padreterni insigni che al posto del senso artistico hanno quello affaristico”62. L’autore auspicava pertanto l’apertura di una “Scuola del Cinema”, poiché continuando a studiare all’estero la produzione nazionale sarebbe rimasta “sempre esterofila”63. Questa esigenza di differenziare la produzione nazionale da quella straniera ancora si commisurava tuttavia con ragioni pret­ tamente estetiche: “Che ne dicono i magnati del cinematografo, i Santoni dello schermo, della realizzazione d’una cinematogra­ fia nazionale, tenendo presente i principi indicati nel manifesto della cinematografia futurista? Inoltre sarebbe opportuno sta­ bilire un equilibro fra gli elementi artistici e quelli commerciali, fra spese da realizzazione e guadagni d’incasso. Rintuzzare la concorrenza straniera col produrre lavori superiori e come arte e come tecnica”64. Nel successivo articolo II problema della ci­ nematografia italiana - pubblicato nel gennaio del 1934 su «San­ t’Elia» senza firma, ma da attribuirsi con certezza a Mino So­ menzi - la discussione si spostò invece su un piano di totale ade­ sione ai principi nazionalistici propugnati dalla propaganda fa­ scista65. Stabilito infatti che il cinema, svolgendo una funzione educatrice, era il più efficace mezzo di propaganda, in grado di raggiungere le menti più ingenue e meno acculturate, l’autore metteva in rilievo l’inefficace applicazione della censura, la cui sfera non doveva limitarsi a temi di morale, ma estendersi anche a questioni di carattere ideologico e politico. Pertanto suggeriva di vietare tutta la cinematografia straniera (in particolare si fa­ ceva riferimento a quella americana) che attentava alla fede pa­ triottica dei ragazzi e alla moralità delle timorate fanciulle ita­ liane, come dimostrato dal film di Cecil B. De Millie II segno della croce, in cui la gloriosa Roma antica era presentata come

62 M. Rispoli, Per una cinematografia nazionale, in «Futurismo», 29 gennaio 1933, cit., p. 5. 63 Ibidem. 64 Ibidem. 65 Anonimo [M. Somenzi], Il problema della cinematografia italiana, in «Sant’Elia», II, 2, 15 gennaio 1934, p. 5.

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un “lupanare” e un “mattatoio” e Nerone (interpretato da Charles Laughton) come “un qualcosa di mezzo tra il gagà e il pederasta”66. Dato che le due culture americana e italiana risul­ tavano inconciliabili, imperativa era dunque l’esigenza di porre un freno all’esterofilia che favoriva l’invasione del mercato ita­ liano da parte dell’industria cinematografica USA, grazie a “forze, più o meno occulte e indiziabili, che fanno tutto il pos­ sibile per aggravare la nostra crisi tecnica e artistica”67. E il pro­ blema della cinematografia italiana era dunque individuato nello strapotere delle grandi case di produzioni straniere, che escludevano il personale italiano ed erano manovrate da diri­ genti di origine ebraica. L’articolo, che si concludeva con la perentoria affermazione “La cinematografia per gli italiani deve essere fatta e guidata da italiani”68, fu seguito da altri due interventi (ugualmente non fir­ mati ma attribuibili a Somenzi), nei quali si denunciavano le pres­ sioni delle case cinematografiche straniere, colpevoli di emargi­ nare e allontanare il personale italiano, e si accusavano gli ebrei di controllare il mondo del cinema insieme alla massoneria69. L’ossessiva idea di un piano internazionale che, condizio­ nando le scelte della produzione cinematografica, potesse influire minacciosamente sulla società italiana e intaccarne i valori morali e patriottici, confluì nella pubblicazione di un Inchiesta politica ed economica sulla Metro Goldwin Mayer e sulla massoneria cine­ matografica straniera in Italia che, condannando l’inclinazione apolide e non nazionalistico degli ebrei, rese del tutto esplicita la deriva xenofoba e razzista di questa campagna di stampa70. Nel

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Ibidem. Ibidem. Ibidem. Anonimo [M. Somenzi], Il problema della cinematografia italiana, in «Sant’Elia», II, 3, 1 febbraio 1934, p. 6; Anonimo [M. Somenzi], 1/ problema della cinematografia, in «Sant’Elia», II, 4,15 febbraio 1934, P- 6. 70 Anonimo [M. Somenzi], Inchiesta politica ed economica sulla Metro Goldwin Mayer e sulla massoneria cinematografica straniera in Italia, in «Sant’Elia», II, 5, 1 marzo 1934, p. 6.

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lungo articolo emergeva infine anche un uso strumentale della critica cinematografica, non più focalizzata su problematiche di carattere estetico, ma esclusivamente centrata su questioni di stampo ideologico. In esso si analizzavano infatti, a titolo di esempio, due film che, vanificando l’attività della propaganda fascista, rappresentavano per l’autore una grave minaccia alla stabilità morale e ideologica della nazione: La suora bianca con Clark Gable, accusato di diffamare il ruolo dei militari italiani durante la prima guerra mondiale, e Volo di notte, tratto dal romanzo di Antoine de Saint-Exupéry Voi de nuit, il cui tono “deprimente, negatore di ogni ottimismo e completamente ne­ gativo ai fini della propaganda aeronautica” contrastava radi­ calmente con il culto per l’eroismo e l’ardimento della propa­ ganda fascista71.

71 Ibidem.

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Ruggero Vasari Futurista ruggente di Ruggero Vasari

Ruggero ruggente. Ho voluto usare l’aggettivo “ruggente” perché un altro aggettivo non sarebbe stato altrettanto appro­ priato a ricordare la figura di Ruggero Vasari per il suo carattere e il suo genio artistico. Ruggero ruggiva le parole del futurismo e le propagandava in Italia e in Europa. Ancora giovanissimo, aveva creato i gruppi futuristi studen­ teschi. Ho alcuni manifesti murali del 1920 con proclami contro il passatismo e che incitavano alla sveglia - si usciva dalla Prima guerra mondiale -, partecipava attivamente alla redazione della piccolissima anzi microscopica rivista «Haschisch», una rivista del cenacolo catanese di intellettuali, nata per un sogno di bel­ lezza nella completa libertà dello spirito poi sequestrata dal Pro­ curatore del Re. Ruggero ha pubblicato su «Haschisch» la no-

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velia Non doveva Vincere e in questo stesso secondo numero usciva anche il manifesto di Marinetti sul tattilismo nel quarto e ultimo numero di «Haschisch», Ruggero pubblica un’altra no­ vella: Ananke. Siamo ancora agli albori del secondo decennio del 1900 e proprio gli anni Venti sono stati gli anni creativi di Ruggero Va­ sari che dal suo primo futurismo man mano si incammina verso l’espressionismo. In questa parabola creativa Ruggero dà alle stampe i Tre Razzi Rossi nei 1921, esempio di teatro sintetico, fulmineo, di­ namico, antirazionale e nello stesso anno pubblica per il teatro del colore TUNG-CI, una rappresentazione futur-espressionista, come chiosa Mario Verdone, e poi nel 1923 è la volta di La Ma­ scherata degli Impotenti. Lascio ai critici dell’arte l’analisi dell’evoluzione del linguag­ gio e l’analisi espressiva di Ruggero Vasari, vorrei solo accennare ad alcuni particolari della sua dinamica vita. Irrequieto e insof­ ferente, dagli studi a Messina emigrò ad Acireale, dove la sua severa mamma l’aveva messo in collegio; la sua carriera univer­ sitaria non ne fu da meno: si iscrisse in diversi atenei, all’uni­ versità di Bologna poi di Torino e infine a quella di Roma. Un carattere così esuberante, avanguardista, intollerante, non po­ teva presentare una tesi di laurea, direi conformista, in linea con la morale/sapere comune. La sua tesi per la laurea in giurispru­ denza all’Università di Torino nel 1921 ha per titolo La perso­ nalità della prostituta. Con una tesi simile, scandalistica, non po­ teva che ricevere una solenne bocciatura anche se applaudito da una folla di studenti. Tre anni dopo il professor Enrico Ferri dell’Università di Roma accetta la tesi e finalmente Ruggero Va­ sari si laurea, e come scrive da Parigi in una lettera all’amico Guglielmo Jannelli: “finalmente mio padre sarà contento”. I suoi interessi letterari e giornalistici lo portano verso altri lidi, Parigi, Berlino, città vive, dove incontra il fiore delle avan­ guardie intellettuali. Il teatro lo attrae in particolare, ha nuove idee per l’aspetto visivo di quest’ultimo, idee nuove sulla sce­ nografia e sul linguaggio, aderisce al movimento futurista, è un parlatore eccellente, inizia una serie di conferenze e di dibattiti

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sulla poesia e il teatro nei principali centri europei e in Italia. Infine si stabilisce a Berlino dove apre una Galleria di Arte Mo­ derna al n. 27 di Karl-Friederichstrasse nel quartiere di Char­ lottenburg. In questa Galleria d’arte moderna vengono esposte in permanenza opere di artisti d’avanguardia italiani e stranieri. A Berlino fonda la rivista «Der Futurism», collabora con la ri­ vista letteraria «Der Sturm» di Walden e da Berlino invia una serie di corrispondenze in Italia che vengono pubblicate su «L’Impero» e sulla rivista «Teatro», è membro del comitato di redazione della rivista «NOI». È proprio vulcanico, poliglotta, Ivan Goll ne traccia un ri­ tratto su «Le Journal Littéraire» del 10 agosto del 1924:

È un leone che ruggisce, una locomotiva nera ed oro che si avventa nella notte, non scatenate il suo genio, un nuovo essere vi apparirà: una fiera di acciaio e rame, il modernismo italiano ha creato in lui una forza patetica e tecnica allo stesso tempo. È lì che il futurismo doveva arrivare, occorre che alla visione e alla espressione mec­ canica unisca lo spirito ordinatore, il leone si trasforma in dinamo.

In questo ritratto che Ivan Goll fa di Ruggero Vasari tro­ viamo la chiave espressiva dell’artista Vasari: modernismo, esal­ tazione della macchina che non dovrà sopraffare l’uomo. Qui troviamo il punto centrale dell’arte di Ruggero Vasari: “lo spi­ rito vince la macchina e la signoreggia”. Inizia nel 1923 a pubblicare i drammi del ciclo delle mac­ chine. La tragedia moderna L’Angoscia delle Macchine fu concepita nel 192le fu pubblicata a Torino nel 1925 con una avveniristica copertina di Ivo Pannaggi. Marinetti in una sua conferenza alla Sorbona dice che “L’Angoscia delle Macchine è una delle opere più importanti che il futurismo abbia dato”. L’Angoscia delle Macchine è una sintesi tragica in tre tempi e la prima rappresentazione fu data a Parigi nel 1927 al teatro Art et Action con le musiche del triestino Silvio Mix e la messa

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in scena di Margherita Van Veen, i costumi di Vera Idelson. Non i fischi che seguivano alle rappresentazioni futuriste ma applausi e una standing ovation, il successo di questa pièce è stato pieno. Non ebbe fortuna una rappresentazione in Italia, il progetto di metterla in scena al Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia con costumi ideati da Ivo Pannaggi non ebbe luogo. Così la prima italiana è del 1971 al teatro Uni­ versitario di Genova. Per i novatori quest’opera, XAngoscia delle Macchine, fu una rivelazione, un’innovazione robotica di un futuro meccanizzato, tant’è che venne tradotta in otto lingue e persino in Giappo­ nese. Ruggero Vasari per primo ha portato sulle scene il problema dell’uomo e della macchina. Il ciclo delle macchine si chiude con Raun, questo è l’ultimo lavoro drammatico che rompe anche i rapporti con il futurismo vecchia maniera e con l’idolatria della macchina, in Raun è l’uomo a vincere e a dominarla. Ruggero Vasari esce dagli schemi del futurismo e lui stesso scrive “io vado al di là del fu­ turismo perché mentre da un lato esalto la macchina dall’altro ne provo orrore”. Raun è stato scritto durante un suo soggiorno nella cittadina di Santa Lucia del Mela, ove la famiglia aveva una residenza estiva e dei possedimenti, tra il 1926 e il soggiorno a Parigi nel 1927 e pubblicata nel 1933 con una copertina di Ivo Pannaggi e la prefazione dell’amico Francesco Carrozza. Tutte le opere drammatiche di Ruggero Vasari sono poesia, la struttura del linguaggio, lo stile e l’uso delle parole suonano come lirica. Nel 1928 pubblica la raccolta di poesie Venere sul Capricorno.

I futuristi amano soggiornare a Capri e così anche Ruggero è della cordata. Vasari organizza la messa in scena di balletti fu­ turisti, organizza balli, declamazioni di poesie e carnevali e in uno di essi Ruggero indossò un costume di carta velina e la giu­ ria gli assegnò il primo premio. Durante i soggiorni capresi posa per ritratti. Molti sono i ritratti e le sculture dedicati a Ruggero

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dagli amici futuristi come Depero, Balla, Severini, Marasco, Jacoleff, Pannaggi per nominarne alcuni.

In Germania, direi nel suo ultimo periodo di creazione let­ teraria, oltre alla redazione della rivista «Der Futurismus», or­ ganizza mostre di pittura, famosa la Flugmalerei ad Amburgo e a Berlino, pubblica in tedesco l’antologia Junges Italien edita a Lipsia per far conoscere la nuova generazione di scrittori ita­ liani, pubblica Die Italienische Dichtung den Gegenwart dedi­ cata alla poesia italiana e l’Antologia des Zeitgenossischen italienischen Dichtung. Credo di aver dato una rapida idea dell’uomo e del poeta Ruggero Vasari. Vorrei aggiungere alcuni ricordi personali. Quando nel 1957 i russi lanciarono lo Sputnik, mi disse: “io l’avevo già previsto nel 1921”, vedi le opere di Angoscia delle Macchine e poi Kaun e quando negli anni Cinquanta, già rien­ trato a Milazzo, durante una intervista della RAI, alla domanda perché era ritornato in Sicilia disse: “avevo già detto tutto quello che avevo da dire”. Ruggero Vasari muore a Messina nel maggio del 1968.

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Dal teatro futurista al cinema espressionista Sviluppi internazionali e intermediali nel ciclo di L'uomo e la Macchina di Ruggero Vasari1

di Meike Beyer (Technische Universitàt Dresden)

Introduzione

Il siciliano Ruggero Vasari fu senz’altro uno dei catalizzatori più importanti del Futurismo a livello internazionale dopo la Prima guerra mondiale2. Grazie a una lunga permanenza in

1 Vorrei ringraziare il dottor Ruggero Vasari, la signora Venera Cal­ derone e sua nipote Rosemary Calderone per l’accoglienza infinita e la grande disponibilità concernente le mie ricerche nell’archivio Vasari. Inoltre, ringrazio Anna Giulia Metrini per l’occhio attento con cui mi ha segnalato varie correzioni del testo. 2 Ne ricordano parecchie pubblicazioni, anzitutto gli studi pionieri­ stici di M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Lerici, Roma 1969 e Id., Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 19882. Sul rapporto tra Vasari e la galleria “Der Sturm” vedi F. Musarra, “Der Sturm”. Incontri e scontri tra l’espressionismo tedesco e il futurismo italiano, in «Rivista di letteratura italiana», n. 23, 1-2,2005, pp. 455-465; Id., Ruggero Vasari e Herwarth Walden, in Tra simbolismo e futurismo, verso Sud, a cura di L. Fava Guzzetta, Metauro, Pesaro 2009, pp. 79-110. Più recente, sui rapporti internazionali di Vasari vedi: M.E. Versati, International Tuturism Goes National: the Ambivalent Iden­ tity of a National/lnternational Avantgarde, in Nation, Style, Moder­ nism, a cura di W. Tegethoff, J. Purchia, Cracow 2006, pp. 171-184; Id., The Central European Avant-Garde of the 1920s: The Battle­ ground for Futurist Identity?, in Local Strategies, International Am­ bitions. Modern Art and Central Europe, 1918-1968, a cura di V. Lahoda, M.S. Witkovsky, Artefactum, Praha2006, pp. 103-110; R. Va­ sari, L’angoscia delle macchine e altre sintesi futurist e, a cura di M.E. Versati, : duepunti edizioni, Palermo 2009; Id., Rapporti intemazio­ nali del futurismo dopo il 1919, in II futurismo nelle avanguardie, a cura di W. Pedullà, Ed. Ponte Sisto, Roma 2010, pp. 577-606; Id., Enlisting and Updating: Ruggero Vasari and the Shifting Coordinates of Futurism in Eastern and Central Europe, in International Yearbook of Futurism Studies. Futurism in Eastern and Central Europe, a cura

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Germania e le sue attività di drammaturgo, poeta, gallerista, edi­ tore e giornalista funse da intermediario fra la cultura tedesca e quella italiana. Non solo in Germania, ma anche in Polonia, Francia, Belgio e in Russia fu attivamente coinvolto nella vita culturale-artistica. Giustamente, lo scrittore e amico fedele Gu­ glielmo Jannelli scrisse di lui: “Più che alla Sicilia, egli appar­ tiene all’Europa”3. Possiamo però affermare che l’impatto di Vasari andò ben oltre i confini europei, avendo egli avuto con­ tatti anche con il Giappone e l’Argentina. È plausibile che questi ambienti, culturalmente e artistica­ mente differenti, siano stati fonte d’ispirazione per il dramma­ turgo siciliano. Sorge quindi spontanea una domanda: quali cor­ renti internazionali spiccano maggiormente nell’opera vasariana? Obiettivo principale di questo contributo sarà proprio quello di rispondere a questa domanda, tramite il confronto con le opere di autori contemporanei di Vasari. L’analisi prende in considerazione due opere vasariane, L’Angoscia delle macchine e Raun, come esempi paradigmatici della sua produzione teatrale e inoltre perché testimonianze d’incontri artistici, sociali e culturali dell’epoca. Verranno fra l’altro messe a fuoco le relazioni e le analogie con il dramma R.U.R. e con il film muto Metropolis di Fritz Lang, utili per comprendere il lavoro di Vasari nel campo della letteratura, del teatro e del cinema, oltre che per evidenziare il suo importante ruolo di mediatore culturale nel panorama europeo.

Internazionalizzazione, Intermediated e scambi culturali

L’arrivo di Vasari a Berlino all’inizio degli anni Venti av­ venne in un momento in cui le diverse tendenze dell’avanguar-

di G. Berghaus, De Gruyter, Berlin 2011, pp. 277-298; F. Maramai, Ruggero Vasari. Una vocazione futurista nell’Europa delle avanguardie storiche, Betti, Siena 2005. 3 G. Jannelli, Euturisti Siciliani: “Ruggero Vasari”, in «Dinamo Futu­ rista», n. 1,2,1933, p. 7.

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dia cercarono di trovare un accordo comune sull’organizzazione economica-artistica a livello internazionale - basta pensare al primo Congresso Internazionale degli artisti progressisti a Dus­ seldorf nel maggio 1922. In quegli anni, Vasari aveva già scritto le sue prime sintesi teatrali, alcune delle quali vennero pubbli­ cate tra il 1920 e il 1921 nella rivista catanese «Haschisch»4. In seguito, nel 1921, uscirono le tre sintesi femmine, sentimento e anarchie nel volume Tre razzi rossi, seguito dal volume La ma­ scherata degli Impotenti nel 1923, il quale contiene - oltre alle tre sintesi già menzionate sopra - altre tre sintesi, cioè La ma­ scherata degli Impotenti, La barriera e II figlio. Formalmente sono influenzate dal teatro futurista sintetico, ma dal punto di vista tematico ricordano piuttosto il teatro del grottesco e il tea­ tro espressionista tedesco per cui Mario Verdone li ha giusta­ mente definiti opere dello stile “futur-espressionista”5. Effetti­ vamente, questa oscillazione tra futurismo italiano ed espres­ sionismo tedesco rappresenta solo un preludio della produzione letteraria e drammaturgica di Vasari che segue negli anni suc­ cessivi. Allo stesso tempo, queste prime sintesi teatrali anticipa­ rono una tendenza emblematica dell’epoca: dei confini sfumati per quanto riguarda dei differenti stili artistici e delle culture nazionali. Walter Fàhnders e Wolfgang Asholt hanno constatato che la quantità innumerevole dei cosiddetti Ismi provocò una fase di bilanciamento e categorizzazione dopo la prima Guerra mon­ diale6. A questo punto, però, è doveroso aggiungere che i con­ fini fra le avanguardie europee esistevano solo a livello teorico

4 R. Vasari, Non doveva vincere, in «Haschisch», n. 1,2, marzo 1921, pp. 15-20; Id., Ananke, in «Haschisch», n. 1, 4, luglio 1921, pp. 2123; Id., Sentimento, in «Haschisch», n. 2, 1, gennaio 1922, pp. 1213. 5 Cfr. M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 1969, p. 49 e ss.; M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 19882, p. 61 e ss. 6 W. Asholt, W. Fàhnders, Manifeste und Proklamationen der europdischen Avantgarde (1909-1938), Metzler, Stuttgart 2005, Sonderausgabe(laed. 1995), p. 195.

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ma non sono individuabili nella produzione artistico-culturale dell’epoca. Programma artistico ed espressioni estetiche si so­ vrapposero e un’elevata mobilità di persone, merci e informa­ zioni favorì lo scambio fra i diversi artisti. A causa di questa forte ibridazione delle opere e quest’internazionalizzazione delle arti è difficile, a posteriori, riuscire a identificare chiaramente i diversi scambi culturali avvenuti all’epoca. Si tratta di processi multidirezionali che danno forma a una rete di relazioni vasta e dinamica. Non solo i rapporti internazionali, ma anche gli scambi reciproci fra letteratura, teatro e cinema sono evidenti all’inizio del ventesimo secolo come dimostra il caso di Ruggero Vasari7. Mentre i futuristi, nel Manifesto del teatro futurista sin­ tetico del 1915 cercavano la concorrenza diretta con il cinema e annunciavano il superamento del cinematografo8, nel Mani­ festo di La Cinematografia futurista del 1916 affermavano invece che il cinematografo è un’espressione artistica derivante del tea­ tro. Allo stesso tempo, il libro fu classificato “un mezzo assolu­ tamente passatista”9. Il libro e il teatro rimarranno però sempre i mezzi preferiti dei futuristi, ed è questa discrepanza fra l’este­ tica cinematografica e il ricorso ai mezzi tradizionali che ri­ chiede un’attenzione particolare10. Oltre all’estetica cinemato­ grafica futurista che sembra di per sé transmediale, sono da no­

7 II termine d’Intermedialità si riferisce sostanzialmente ai fenomeni della combinazione e del trasferimento mediali, definiti da Irina Rajewsky, cfr. LO. Rajewsky, Interra edialitàt, “UTB fiir Wissenschaft”, A. Francke, Tubingen 2002. 8 F.T. Marinetti, E. Settimelli e B. Corra, Il Teatro futurista sintetico, 11 novembre 1915, in F.T. Marinetti, Teoria e Invenzione futurista, Mondadori, Milano, 19963, p. 115. 9 F.T. Marinetti, et al., La cinematografia futurista, 11 settembre 1916, in F.T. Marinetti, Teorie e Invenzione futurista, cit., p. 138. 10 Per quanto riguarda la relazione ambivalente tra futurismo e cinema vedi S. Schrader, Sensibilità futurista. Eine Filmàsthetik ohne Film, in Futurismo al 100%. 100% Futurismus, a cura di S. Schrader, B. Tasser, Innsbruck University Press, Innsbruck 2012, pp. 65-81; S. Schrader, “Filmàsthetik ohne Film: Der Futurismus”, in “Si gira!"Literatur und Film in der Stummfilmzeit Italiens, Winter, Heidelberg 2007, p. 193.

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tare gli sviluppi intermediali dell’epoca in generale. Per quanto riguarda le coincidenze fra teatro e cinema, Zygmunt Tonecki ha sottolineato nel 1932 nella rivista «Close Up»:

At the time when the silent film tended with big steps to technical and artistic perfection, the theatre impressed by the success of the cinema, tried to imitate it by the dynamizing of the scene, by saturating the action with technical tricks and by informing the production with cinema rhythm. Very characteristic of the tendency of the theatre at the time was the endeavour to get rid of litterature in favor of modern technics, in which the thea­ tre saw the source of new theatrical performances and the future of theatrical art.11 Osservando il contesto europeo tra le due guerre, il trionfo del cinema era ben noto anche dal punto di vista numerico. A Berlino per esempio il numero di sale cinematografiche au­ mentò tra il 1918 e il 1930 da 2.300 a 5.000ed erano frequentate da circa 2 milioni di visitatori al giorno11 12. Questo entusiasmo verso il cinematografo è senz’altro dovuto a una nuova perce­ zione del mondo derivante in gran parte dal futurismo italiano13. Soprattutto in Germania, la produzione drammaturgica fu influenzata dalle tecniche cinematografiche. Tra i primi registi a inserire elementi tecnici cinematografici al teatro, ci fu Erwin Piscator14, il quale appare anche tra i contatti artistici del dramma­ turgo Vasari. Anche la letteratura dell’epoca non poteva ignorare gli sviluppi, che erano visibili e percepibili anzitutto nelle metro­ 11 Z. Tonecki, At the Boundary of Film and Theatre, in «Close Up. A Quarterly Devoted to the Art of Films», n. 9, 1, 1932, p. 31. 12 E. Kold, D. Schumann, Die Weimarer Republik, Oldenbourg Verlag, Mùnchen 20138, p. 108. 13 E. Ditschek, Politisches Engagement undMedienexperiment. Theater und Film der russischen und deutschen Avantgarde der zwanziger Jabre, “Mannheimer Beitràge zur Sprach- und Literaturwissenschaft”, Gunter Narr, Tubingen 1989, p. 120. 14 Ibidem, p. 79.

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poli. Così, le opere Berlino di Ruggero Vasari (1928), Berlin, Alexanderplatz di Alfred Dòblin (1929) e Berlin di Paul Gurk (1934) sono esempi di adattamento della tecnica del montaggio usata da Walter Ruttmann nel film Sinfonie einer Graftstadt (1927)15. Rapporti intermediali di questo tipo sono evidenti nell’opera di Vasari e permettono di capire sia quale fosse il suo orizzonte stilistico sia le sue attività come intermediario culturale-artistico.

L’Angoscia delle Macchine e la nuova estetica della macchina Le dinamiche descritte sono fondamentalmente legate ai viaggi di Vasari in Europa a partire dal 1921 e al suo soggiorno nella capitale tedesca. Per la prima volta entra in contatto di­ retto con l’avanguardia europea facendo la conoscenza degli at­ tori, degli scenografi e dei drammaturghi. Con questi incontri ed esperienze europei s’incrocia anche la genesi della sua opera più nota, L’Angoscia delle Macchine. Scritta fra il 1921 e il 1923, la sintesi in tre tempi uscì nel 1925 per la prima volta in forma stampata e fu tradotta in sette lingue (tedesco, francese, russo, inglese, polacco, ceco, giapponese)16. L’azione di LAngoscia delle Macchine è ambientata nel regno delle macchine, “fuori dal tempo e della realtà”17, che viene governato dai tre despoti Bacai, Singar e Tonchir. L’ultimo è anche il creatore di questo mondo meccanico ed è quindi re­ sponsabile delle macchine costituite da elementi artificiali e dagli avanzi esclusivamente maschili. A questo punto, è difficile non pensare alle visioni simili che appaiono nel Mafarka ilfutu­ rista di Marinetti o nel Manifesto tecnico della letteratura futu­ rista, in cui si dichiarò: “[...] noi prepariamo la creazione del­

15 Cfr. M. Verdone, Cinema e letteratura del futurismo, Edizioni Manfrini, Trento 1990, p. 124 e pp. 315-316. 16 R. Vasari, L’angoscia delle macchine. Sintesi tragica in 3 tempi, Edi­ zioni Rinascimento, Torino 1925. 17 N.N., “L’angoscia delle macchine” di Ruggero Vasari, in «L’Impero», n. 110, 10 maggio 1927, p. 3.

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l’uomo meccanico dalle parti cambiabili”18. Nell’opera vasariana, però, troviamo una connotazione negativa della mac­ china, già visibile nella denominazione degli abitanti del regno, cioè “I condannati alle macchine”. Il dramma ha inizio nel mo­ mento in cui s’annuncia l’arrivo di Lipa - l’ambasciatrice delle donne esiliate. Le donne chiedono di essere accolte nel regno delle macchine e minacciano di dichiarare guerra. Strettamente collegato alla richiesta è il problema della riproduzione naturale. Nel mondo meccanizzato di L’Angoscia delle macchine, la pro­ creazione è diventata superflua, il desiderio sessuale di sé è con­ siderato dannoso e pericoloso. Di conseguenza, la domanda è respinta e lo sbarco delle donne viene violentemente bloccato. Mentre Bacai e Singar iniziano a respingere gli attacchi delle ae­ ronavi ostili, Tonchir, il creatore delle macchine, prova a ese­ guire nuovi esperimenti nel suo laboratorio perseguendo la meccanizzazione dell’umanità. Siamo al secondo tempo che si apre con un breve soliloquio di Tonchir e si sviluppa poi attra­ verso un dialogo tra il creatore e Lipa. A causa dell’arrivo di Lipa, il creatore delle macchine riconosce che le sue invenzioni distruggono ogni forma d’individualità e rifiuta l’intenzione di voler essere dio creando dei fantasmi. I suoi dubbi si insinuano nella sua mente, manifestandosi anche nelle Tre Ombre bianca, rossa e nera - che rappresentano le sue anime. “Qui Va­ sari si rivela più poeta che drammaturgo”19, ne scrisse Giuseppe Mazzesi in una recensione della prima rappresentazione a Parigi nel 1927. Infine, Tonchir è sopraffatto dai suoi dubbi, ciò porta a un finale apocalittico. Il terzo tempo è dominato dalla cosiddetta Macchina-cer­ vello, la quale doveva essere messa in scena adeguatamente at­ teggiandosi in maniera umana come personaggio tragico. È sin­ tesi del pensiero dei tre despoti e dunque, quando Tonchir cade tormentato dalla sua debolezza, crolla anche il regno delle mac-

18 F.T. Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, 11 maggio 1912, in Peoria e invenzione futurista, cit., p. 54. 19 G. Mazzesi, Con Vasari a Parigi alla prima de “L’angoscia delle mac­ chine”, in «La Gazzetta», Messina, 19 agosto 1927, p. 3.

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chine da lui creato, perché la Macchina-cervello fa perdere l’equilibrio alle macchine. La sintesi tragica finisce con il grido lamentoso delle macchine, “un canto angoscioso, lugubre, stra­ ziante”, come leggiamo nelle indicazioni di regia di Vasari20. Nel finale di L’Angoscia delle Machine si concretizza la connotazione negativa, l’angoscia letterale della macchina, tipica per tutto il Ciclo delle Macchine di Vasari. Con questo, scrisse il poeta Gino Gori, Vasari ha modificato anche l’idea del futurismo. Tut­ tavia, Marinetti definì L’Angoscia delle Macchine “una delle opere le più importanti che il futurismo abbia dato”21, hi effetti, L’Angoscia delle Macchine sembra accogliere l’estetica futurista della macchina, la quale negli anni Venti ebbe il suo punto cul­ minante anche nelle arti visive, basato sul Manifesto dell’Arte Meccanica. Però, l’elemento essenziale che ha portato al giudizio marinettiano è un altro. Verdone affermò che la tragedia sembra partire “da una premessa tipicamente marinettiana (e lacerbiana): il conflitto, e il disprezzo per la donna”22. A differenza delle visioni utopiche dei futuristi, il drammaturgo con la sua opera fornisce una prospettiva critica sulla meccanizzazione del suo tempo e sul mito della macchina. Anche se l’opera tematizza in prima linea il conflitto tra l’uomo e la macchina, il supera­ mento dell’uomo non avviene tramite la macchina, ma tramite l’uso della macchina23. Così, Mario Verdone faceva già notare l’inserimento di Vasari “in una ben determinata area della cul­ tura del suo tempo: quella dell’avvenirismo robotico, del futuro integralmente meccanizzato”24, hi effetti, questa prospettiva ri-

20 R. Vasari, L’angoscia delle macchine. Sintesi tragica in 3 tempi, in «Teatro», n. 3, 8, agosto 1925, p. 22. 21 N.N., Il futurismo mondiale (Conferenza di ET. Marinetti alla Sor­ bona), in «L’Impero», n. 120, 20 maggio 1924, p. 3. 22 M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 1969, p. 210; M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 19882, p. 251. 23 G. Gori, Einfiihrung zu “Maschinenangst” von Ruggero Vasari, in «Der Sturm», n. 16, 1, gennaio 1925, p. 2; cfr. G. Gori, Ruggero Va­ sari, in «Teatro», n. 3, 8, agosto 1925, p. 3. 24 M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 1969, p. 210; M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 19882, p. 251.

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conduce soprattutto i discorsi europei ed è molto probabile che Vasari applicasse le sue esperienze e le impressioni della produ­ zione teatrale internazionale, soprattutto quella in Germania. Nel periodico «Teatro» dell’agosto 1925, in cui fu pubbli­ cata L’Angoscia delle Macchine, Fred Antoine Angermayer af­ ferma in una postfazione sul teatro espressionista che “la rivo­ luzione della scena si è operata nei paesi del Nord e sopra tutto in Germania”25 e continua:

Solamente X anima dell’uomo può essere soggetto drammatico, non le sue mani, la sua testa, le sue ossa, come hanno tentato di far credere i naturalisti. La nostra è sotto l’incantesimo della macchina! Siamo diventati gli schiavi del Tempo, poiché la macchina ci impone una di­ versa vita, una norma dell’azione diversa da quella di ieri. Siamo fasci di nervi vibranti, viviamo trainati da un folle convoglio!26 Con queste righe, Angermayer in primo luogo fornisce al­ cuni aspetti importanti del contesto storico, in secondo luogo si riferisce direttamente ai contenuti dell’opera vasariana. Ma da dove proviene questa raffigurazione dell’angoscia rispetto alla macchina? Verdone proponeva alcuni possibili modelli di riferimento, fra cui La Révolte des Machines di Romain Rolland (1921) e The Adding Machine di Elmer Rice (1923)27, ma non è documentato se Vasari abbia conosciuto quegli due scrittori e le loro opere. Per questo sembra più cruciale l’incontro con il dramma R. U.R. del ceco Karel Capek che risale al 1920 e esordì a Praga il 25 gennaio 1921 con scenografie di Bedfich Feuerstein e costumi

25 F.A. Angermayer, Il teatro espressionista, in «Teatro», n. 3, 8, agosto 1925, pp. 23-24. 26 Ibidem, p. 23. 27 M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 1969, pp. 208-212; M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 19882, pp. 247-254.

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del fratello dell’autore, Josef Capek. Fu la prima volta che il ter­ mine “robot” comparve nella letteratura. Deriva infatti dal ter­ mine ceco “robota” (“lavoro pesante e sgradevole”, “faticac­ cia”) e fu ideato dal fratello Josef28.1 robot di R.U.R. sono pro­ dotti nella fabbrica denominata secondo il titolo del dramma, Rossum's Universal Robots, la quale viene diretta da Harry Domin. Egli ha la visione utopica di utilizzare i robot come forza lavoro più economica ed efficiente dell’essere umano. Però, i co­ siddetti robot non sono esattamente ciò che oggi s’intende con la parola, anzi, sono degli androidi creati da materia organica. Tuttavia, non hanno né bisogni né sentimenti. Di conseguenza, sono senza anima, finché un giorno la signora Elena Glory visita la fabbrica e le cose cambiano. I robot modificati da Elena e lo scienziato Dottor Gali, iniziano a ribellarsi contro l’uomo. Dopo aver sconfitto l’umanità, però, i robot si rendono conto che non saranno capaci di riprodursi per mancanza del know-how scien­ tifico. Quello scenario distopico dell’eliminazione dell’umanità potrebbe sì essere considerato una critica della meccanizzazione, ma nel caso specifico di Capek si tratta anche di un avvertimento alla società contemporanea e al regime ceco, ciò che non è pre­ sente in modo tale nell’opera di Vasari. Una differenza fonda­ mentale tra le due opere si trova inoltre nella risoluzione finale. A differenza di R.U.R di Capek, L'Angoscia delle macchine cul­ mina nell’apocalisse. In R. U.R. c’è un cenno di speranza quando compaiono Elena e Primus, i quali - anche se sono dei robot s’innamorano e rappresentano Adamo ed Èva di una futura vita­ robotica. Infine, il dramma si conclude con una citazione dalla storia della creazione. Nel 1923, Vasari vide il dramma di Capek per la prima volta a Berlino con la scenografia di Friedrich Kiesler, un artista che

28 A. Bosse, Abstraktion der Bùhne und Tdepersonalisierung. Katalysatoren einer Technifizierung des Theaters der Moderne und der Avantgarden (Karel Capek und Friedrich Kiesler), in Verdràngte Moderne vergessene Avantgarde. Tdiskurskonstellationen zwischen Literatur, Theater, Kunst und Musik in Osterreicb 1918-1938, a cura di P.H.Kucher, V&R Unipress, Gottingen 2016, p. 72.

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appare assieme al drammaturgo ceco tra i suoi contatti personali in una vecchia rubrica. Sappiamo che in quell’anno Vasari sta per terminare il suo dramma L’Angoscia delle Macchine. Così, quando nel 1924 vide R.U.R. per la seconda volta a Parigi e ne scrive una recensione nel quotidiano «L’Impero», sembra che il drammaturgo facesse anche un paragone con la sua opera: Ma se debbo dire la verità la commedia non mi ha en­ tusiasmato anzi mi ha lasciato più freddo della prima volta al teatro am Kurfilrstendamm a Berlino. Come ori­ ginalità non ne ha molta. Verne e Wells e recentemente Grau ci hanno preparato lo spirito, e con maggiore fan­ tasia, a questi macchine-uomini29.

Indipendentemente dal giudizio sobrio, la recensione di Va­ sari dà un’impressione del suo orizzonte letterario personale. È indiscutibile l’influenza di Jules Verne e H.G. Wells sullo svi­ luppo del genere della fantascienza. Assai interessante, però, sembra la citazione di un certo Grau. Molto probabilmente si tratta dello scrittore tedesco Franz Grauche pubblicò con lo pseudonimo Paul Gurk e che vinse il premio Kleist nel 1921 per la sua opera Thomas Miinzer, ma il quale altrettanto veloce­ mente cadde nell’oblio. Tra 1923 e 1925, quindi negli anni qui trattati, scrisse il suo romanzo già citato con il titolo Berlino. Nel libro si delinea una visione squallida della capitale tedesca. La gente perde il suo spirito in base alla meccanizzazione, per­ ciò le persone vanno a lavorare nelle fabbriche come macchine automatizzate. Il protagonista del romanzo, un libraio di nome Eckenpenn, è sia l’osservatore sia la vittima dei cambiamenti e dei progressi della meccanizzazione. Un libro sulla morte del­ l’anima (“Ein Buch vom Sterben der Seele”), disse Gurk del suo romanzo e ricorda un commento analogo di Vasari, che pa­ ragonò la meccanizzazione con la distruzione dello spirito. Il libro di Paul Gurk alias Franz Grau fu pubblicato solamente 29 R. Vasari, R. U.R. Rezon’s Universal Robots, in «L’Impero», n. 92, 16 aprile 1924, p. 3.

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nel 193430. Ciò fa intuire, che Vasari avesse conosciuto l’autore di persona ovverosia avesse avuto conoscenza dell’opera già prima della sua comparsa. Un’altra opera di voce critica riguardo al nuovo mondo mec­ canizzato è quella del drammaturgo Ernst Toller: Maschinensturmer, scritto nel 1920-1921 e rappresentata per la prima volta in giugno 1922 nel Grosse Schauspielhaus di Berlino31. Benché l’azione tenga luogo nella città di Nottingham attorno all’anno 1815 e si riferisce in prima linea al movimento di protesta dei luddisti, possono essere individuati paralleli diretti alla critica contemporanea, presenti anche nelle opere di Gurk e Capek. A prescindere dai riferimenti politici, cioè la rivoluzione d’ot­ tobre, il dramma di Toller rappresenta tale angoscia delle mac­ chine la quale nell’opera di Vasari fu proiettata al futuro e ar­ ricchita con elementi della fantascienza. Anche l’autore russo Evgenij Zamjatin produsse con il suo romanzo No/ una visione distopica del futuro. Lo scrittore, che fu fra l’altro traduttore delle opere di H.G. Wells, trasformò le sue esperienze personali durante la rivoluzione russa nel 1917 e intese d’esagerare la visione dello Stato totalitario. Nel ro­ manzo, la società è composta da esseri umani i quali hanno perso ogni forma d’individualità. Questa invece è sostituita da un numero, per cui il loro comportamento è rigorosamente re­ golamentato. Si tratta nuovamente di una massificazione e di una disumanizzazione dell’individuo, ciò diventa un motivo ri­ corrente dell’epoca come dimostrano questi e gli esempi se­ guenti. Scritto nel 1920 e pubblicato per la prima volta in tradu­ zione inglese a New York nel 192432, anche No/ di Zamjatin è da prendere in considerazione per collocare l’opera di Vasari 30 P. Gurk, Berlin, Holle & Co, Berlin 1934. 31 K. Reimers, Das Betvdltigen des Wirklichen. Untersuchungen zum dramatischen Schaffen Ernst Boilers zwischen den Weltkriegen, Kònigshausen & Neumann, Wiirzburg 2000, p. 69. 32 Cfr. T. Mobius, Russische Sozialutopien von Peter I. bis Stalin. Historische Konstellationen und Beziige, LIT, Berlin 2015, p. 562; E. Zam­ jatin, Noi, trad. it. di A. Niero, Voland, Roma 20152.

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nell’ambiente europeo. Per quanto riguarda l’opera di Capek e a proposito del teatro di sé, Vasari constatava:

Certo che Ciapek ha il merito di avere portato per la prima volta questo tema al teatro. Il nostro secolo mec­ canico, veloce, non romantico avrebbe bisogno di eguali sensazioni al teatro. Ma in un simile argomento biso­ gnava essere sintetici e rapidi e sopra tutto lirici. Ecco perché [szc! ] la commedia del Ciapek per me è mancata. Il dialogo è prolisso e in certi punti esaspera, l’azione è molto diluita e ripete spesso le stesse cose; manca asso­ lutamente il lirismo33. L’Argomento centrale del giudizio negativo sembra essen­ zialmente essere la mancanza del lirismo, un concetto estetico strettamente collegato all’esperienza futurista di Vasari e più precisamente al teatro futurista sintetico. Già nel 1912, Mari­ netti ha dato l’avvio verso un lirismo futurista lanciando il Ma­ nifesto tecnico della letteratura futurista. Con esso, affermò un anno dopo, inventò “il lirismo essenziale e sintetico, l’immagi­ nazione senza fili e le parole in libertà”34. Quel manifesto però, “concerne esclusivamente l’ispirazione poetica”35. Rispetto a questa base teorica, bisogna quindi valutare l’opinione vasariana alla luce della sua predisposizione poetica, la quale si manifesta altrettanto nATAngoscia delle Macchine. Lo confermano anche i critici contemporanei i quali attestano al siciliano una sensibi­ lità particolare per il lirismo36. La valutazione vasariana di R. U.R. rappresenta quindi un paragone diretto con la propria pièce. Così, come se avesse avuto già in mente la produzione 33 R. Vasari, R. U.R. Rezon’s Universal Robots, in «L’Impero», n. 92, 16 aprile 1924, p. 3. 34 ET. Marinetti, Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertà, 11 maggio 1913, in Teoria e invenzione futurista, cit., p. 65. 35 Ibidem. 36 Cfr. G. Mazzesi, Con Vasari a Parigi alla prima de “L’angoscia delle macchine”, cit., p. 3.

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della sua opera L’Angoscia delle Macchine, Vasari finì la sua re­ censione con le parole seguenti: “Senza alcun dubbio R.U.R. è un gran passo verso il teatro di domani”37. Sebbene Vasari abbia avuto contatto con i protagonisti più importanti del panorama teatrale tedesco, tra cui Wilhelm Dieterle, Max Reinhardt, Gustav Hartung ed Erwin Piscator, e no­ nostante parecchi avvisi nella stampa che annunciavano la rap­ presentazione dell’opera a Berlino, non verrà mai messa in scena in Germania, come Vasari conferma in una lettera allo scrittore tedesco Ernst Sander nel 192738. Così, il vero e proprio esordio dell’opera in Europa si realizza solo nell’aprile 1927 al Teatro «Art et Action» a Parigi. Le recensioni della stampa contempo­ ranea sono assai positive e L’Angoscia delle Macchine è di grande successo a livello internazionale39. Questa valutazione porta al riferimento intermediale più noto nel passato.

Da L’Angoscia delle Macchine a Metropolis di Lritz Lang

Mentre L’Angoscia delle Macchine trova equivalenti concreti nel teatro e nella letteratura, anche il cinema commerciale del tempo assorbe - quasi parallelamente - temi analoghi. Nella let­ teratura e nella stampa dell’epoca si trova spesso l’ipotesi che l’opera di Vasari abbia influito sul film muto Metropolis di Fritz Lang40, oggi considerato il film più importante del cinema espressionista tedesco. Metropolis, ambientato nel futuro, racconta la storia di una

37 R. Vasari, R.U.R. Rezons Universal Robots, in «L’Impero», 16 aprile 1924, p. 3. 38 Lettera di Ruggero Vasari a Ernst Sander, datata 29 marzo 1927, Stadtarchiv Braunschweig. 39 Cfr. M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 1969, p. 217 e ss.; M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 19882, p. 250,255-260 e 263-265. 40 Cfr. M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 1969, p. 210,315 e 340-343; M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 19882, p. 251,365 e 392-396.

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società divisa in due. Da un lato, nella parte alta della città, ci sono dei ricchi industriali mentre, dall’altro lato nella parte sotto terra, vivono e lavorano gli operai. Facendo riferimento a un si­ stema di classi sociali, quindi un sistema dualistico tra pensatori ricchi nonché fortunati e lavoratori poveri che sono rappresen­ tati da massa disumanizzata, Lang inserisce anche una simbo­ logia complessa. Allo stesso tempo, vale a dire che i due lati sono uniti dalla cosiddetta macchina-cuore (Herzmaschine), la quale - come allusione all’offerta sacrificale nei riti religiosi - si trasforma a intervalli casuali in un Moloch che inghiotte gli ope­ rai indeboliti. Si tratta dunque di una macchina che controlla e modifica i progressi e le capacità lavorative e la quale mantiene l’equilibrio della città di Metropolis. Essa fa immediatamente pensare alla macchina-cervello nell’opera vasariana che è in grado di regolare il regno delle macchine ricevendo i pensieri dei tre despoti. Infine, la sua demolizione causa squilibrio del regno. Uno scenario simile sta alla base di Metropolis', la città omonima è governata solo da un sovrano, cioè l’industriale Joh Fredersen, pianificatore e pensatore la cui sede è la “nuova Torre di Babele”. Quando suo figlio, Freder, incontra e s’inna­ mora di Maria, l’insegnante della città bassa e quindi apparte­ nente agli operai, si compie l’azione. Maria, che fomenta una ribellione degli operai sfiniti raccontando la storia della Torre di Babele come appello avverso alla loro situazione attuale, viene rapita dallo scienziato Rotwang il quale, su incarico di Fre­ dersen, trasferisce le sembianze della donna a una macchina da lui progettata. In queste scene non appare solo la fantasia della meccanizzazione umana, si trovano di nuovo parecchi simboli dell’occulto. In prima linea, sono queste semantiche mistiche­ religiose per cui si distinguono Metropolis e L’Angoscia delle Macchine. Anzi, mentre le trame hanno delle risoluzioni finali divergenti, ci sono diverse analogie per quanto riguarda perso­ naggi e topoi. Dopo il ritrovamento delle parti scomparse del film nel 2008, sappiamo che la macchina di Rotwang rappresenta Hel, sua moglie defunta e l’amante di Fredersen. Oltre al ruolo del genio pazzo, Rotwang combatte una lotta interna tra bene e

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male. Troviamo il motivo del conflitto interno anche nel caso del protagonista dell’opera vasariana, Tonchir. In altre parole, sia Rotwang che Tonchir sono creatori delle macchine e vittime del loro destino41. Un legame indiretto esiste invece tra Tonchir e l’industriale Fredersen. Entrambi, essendo creatori e despoti di una città ovvero un regno rigorosamente regolato, rappre­ sentano un potere divino. Mentre la vocazione nel caso di Ton­ chir fallisce, Fredersen, alla fine del film, tiene la sua posizione come sovrano e riesce a salvare Metropolis dal crollo. Questa risoluzione finale del film è decisamente legata alla figura femminile, Maria. Dopo il suo rapimento e la trasforma­ zione della macchina, la falsa Maria è programmata da Rot­ wang per distruggere la città bassa. In base a questo muta­ mento, l’Essere-Macchina Maria diventa sia l’agitatrice degli operai sia oggetto di lussuria quando inizia a ballare nel locale notturno Yoshiwara42, ben accentuato dal linguaggio cinema­ tografico futurista che si esprime nella rappresentazione simul­ tanea degli ammiratori maschili (fig. 1). Quel motivo della Femme Fatale, è anche presente in Lipa, la quale rappresenta le donne che invadono il mondo degli uomini ed è lei che fa perdere il controllo a Tonchir43. Sia L’Angoscia delle Macchine che Metropolis culminano nel caos, ma solo l’ultimo ha un lieto fine, quando Freder scopre l’inganno e ritrova la Maria umana. E film finisce con la conci­ liazione, simboleggiata da una stretta di mano tra Fredersen, il “cervello”, e gli operai della città bassa, “le mani”. La storia d’amore e la fine banale, però, sono stati i motivi per cui il film fu criticato dal pubblico dell’epoca. Anche dal punto di vista

41 Cfr. M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 1969, p. 340; M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 19882, p. 393. 42 Per quanto riguarda le particolarità della performance di Maria a Yoshiwara vedi P. Bertetto, Fritz Lang. Metropolis, Lindau, Torino 200F,p. 121. 43 M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 1969, p. 341342; M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Bulzoni, Roma 19882, pp. 394-395.

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Fig. 1 : Ammiratori maschili guardano Maria ballando, immagine prove­ niente dal film Metropolis, 1927, Friedrich-Wilhelm-Murnau-Stiftung 2010.

economico è stato un flop - anzitutto perché le spese di produ­ zione superavano un milione e mezzo di marchi44. Invece con la cinetecnica, soprattutto rispetto alle quinte architettoniche, e il linguaggio cinematografico, Lang introdusse nuovi standard nel cinema. Per questo torniamo all’ipotesi iniziale e poniamo la domanda, in quale maniera L’Angoscia delle Macchine ha in­ fluenzato il film muto di Lang? La sceneggiatura per Metropolis, scritta da Fritz Lang e Thea von Harbou, era già pronta in giu­ gno 192445. Di conseguenza, non è plausibile che la sceneggia­

44 W. Jacobsen, W. Sudendorf, Metropolis. Jahrzehnte voraus — ]ahrtausende zuriìck, in Metropolis. A cinematic laboratory for modem archi­ tecture a cura di W. Jacobsen, Edition Axel Menges, Stuttgart, Ox­ ford 2000, p. 10; N. Grob, Fritz Lang. “Ich bin ein Augenmensch” die Biographic, Propylàen, Berlin 2014, p. 138. 45 Chronik, in Metropolis. A cinematic laboratory for modern architec­ ture, cit., p. 222; N. Grob, Fritz Lang, cit., pp. 131-132.

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tura fu influenzata dalla trama di L’Angoscia delle Macchine, ci furono invece sviluppi paralleli: nel gennaio del 1925 furono pubblicati frammenti di Angoscia delle Macchine in lingua te­ desca nella rivista «Der Sturm»46, e nello stesso anno uscì il ro­ manzo Metropolis di Thea von Harbou. Le riprese di Metropolis si svolsero dal gennaio del 1925 all’agosto del 1926. E dunque possibile che Lang sia stato ispirato da Vasari per quanto ri­ guarda la scenografia del film e la realizzazione cinematografica. Paragonando il setting di Metropolis e i bozzetti di Vera Idelson per la scenografia di L’Angoscia delle Macchine, troviamo ad esempio analogie tra lo studio di Rotwang e il mondo mecca­ nizzato di Vasari. Anche il creatore Tonchir e lo scienziato Rot­ wang, interpretato da Rudolf Klein-Rogge, sono messi in scena in maniera identica: capelli bianchi di media lunghezza e oc­ chiaie scure caratterizzano l’aspetto generale (fig. 2). In effetti,

Fig. 2: Rotwang, immagine proveniente dal film Metropolis, 1927, Friedrich-Wilhelm-Murnau-Stiftung 2010 (lato sinistro) I Vera Idelson, Bozzetto di Tonchir, immagine proveniente dalla rivista «Der Sturm», n. 16, 1, gennaio 1925 (lato destro).

46 R. Vasari, fragment e aus Maschinenangst, trad, di Lilly Nevinny, in «Der Sturm», n. 16, 1, gennaio 1925, pp. 6-14.

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i bozzetti di Idelson furono pubblicati assieme ai frammenti del­ l’opera nella rivista tedesca «Der Sturm» nel 1925. Tuttavia, una ricezione unidirezionale non può essere verificata. Più chiaro invece è l’influsso su Metropolis proveniente dal futurismo in sé. Così, l’architettura della città di Metropolis non è solo ispirata dai grattacieli e le insegne luminose che Lang vide a New York nell’ottobre 1924, ma si basa anche su bozzetti e schizzi degli architetti e artisti futuristi come Antonio Sant’Elia, Virgilio Marchi e Mario Chiatton e47. Non sappiamo se Vasari vide Metropolis a Berlino, ma pos­ siamo riassumere che i temi e la dinamica si assomigliano. Que­ sto però è dovuto anche allo spirito del tempo. Le strutture di base del film, la società divisa in due e gli operai scontenti che si ribellano, ricordano più The Time Machine di H.G. Wells e l’opera citata Maschinenstùrmer di Ernst Toller. In effetti, Lang che voleva mettere in scena un’utopia sociale, si è ispirato con­ cretamente dagli spettacoli espressionisti Koralle (1917), Gas I (1918) e Gas II (1920) di Georg Kaiser. Parecchi motivi come l’industriale ricco, il conflitto tra padre e figlio, la ribellione degli operai, l’automazione industriale, la massificazione e il po­ tere della macchina come pure il disagio sociale e l’emarginabilità umana si trovano sia nelle opere di Kaiser sia nel film di Lang48. Tra l’altro, Georg Kaiser fu anche apprezzato da Vasari e fa parte dei contatti personali del siciliano come conferma la sua rubrica. Il nome Fritz Lang non vi appare, ma l’eredità di Vasari contiene una vecchia edizione speciale del magazzino UFA su Metropolis. Però, c’è un altro avvicinamento tra Vasari e Lang che riferisce alla seconda pièce teatrale del ciclo delle Macchine, cioè Taun.

47 P. Bertetto, L