Letteratura dalmata italiana. Atti del Convegno internazionale (Trieste, 27-28 febbraio 2015) 0670493456, 0670476605, 9788862277778, 9788862277785

A settant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale, che provocò il massiccio esodo delle popolazioni italiane

326 31 4MB

Italian Pages 500 [498] Year 2016

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Letteratura dalmata italiana. Atti del Convegno internazionale (Trieste, 27-28 febbraio 2015)
 0670493456, 0670476605, 9788862277778, 9788862277785

Table of contents :
SOMMARIO
PRESENTAZIONE
INTRODUZIONI
RAGUSA NELLA RAPPRESENTAZIONE MITICA DEI FILELFO
GIOVAN BATTISTA BIONDI ROMANZIERE
LETTERE DI PIERO PILLEPICH A MIGUEL DE UNAMUNO: UN RAPPORTO DI LAVORO
L’ESILIO DI ENZO BETTIZA TRA STORIA E LETTERATURA
MUSSAFIA E IL TESTO DELLA
IL POETA E ROMANZIERE GIOVANNI PERICH (1941-2013)
IL CALVARIO DELL’ITALIANITÀ:
DI BIBI DALAI PIETRANTONIO E GIANNI GRIGILLO
IL DIO GRECO. FORME DEL RELIGIOSO E TENSIONE METAFISICA NELLA SCRITTURA DI ALBERTO SAVINIO
LA POESIA DI LUIGI MIOTTO E LA TERRA DI DALMAZIA
USO ED ABUSO DEL CIBO NELLE OPERE DI PETRONIO, DANTE, MALAPARTE E BETTIZA
L’INTERESSE PER SCIENZA E TECNOLOGIA NEL TEATRO D’OPERA: IL CASO COLAUTTI
INTERTESTUALITÀ E REMINISCENZE LETTERARIE NEL DRAMMA LIRICO
DI ARTURO COLAUTTI
ARTURO COLAUTTI E ZARA
RIESUMAZIONE DI UNA PRIMADONNA
PER SLATAPER CRITICO. COLAUTTI, TOMMASEO, FILIPPO ZAMBONI E
SUL
DI PAOLO PALADINI
LA CINA RIFLESSA SULLO SPECCHIO OCCIDENTALE
«UN SORDO TUTTAVIA LA MENTE HA PURA». LE SATIRE DI SAVINO DE’ BOBALI
LE
DI SAVINO DE’ BOBALI. ASPETTI LINGUISTICI
LE RIME DI SAVINO SORDO DE’ BOBALI: TEMI E TOPOI
UN CONTRIBUTO ALLA BIOGRAFIA DI GIOVANNI NIKOLIC, TRADUTTORE DALMATA
«IL MIO ROMANZO ENCICLOPEDICO». TOMMASEO E LA TENSIONE ALL’ENCICLOPEDISMO
CARLO CATTANEO RECENSORE DI
LE TRADUZIONI INGLESI DELLE POESIE DI NICCOLÒ TOMMASEO
UNO SCAMBIO DI EPIGRAMMI LATINI FRA NICCOLÒ TOMMASEO E BIAGIO GHETALDI
«E ORA I CONSIGLI DI MIA CUGINA, A TE LI RIPETO, MIO BUON AMICO». A PROPOSITO DI
DI TOMMASEO
LA DALMAZIA NEGLI SCRITTI AUTOBIOGRAFICI DI NICCOLÒ TOMMASEO
PASOLINI LETTORE E TRADUTTORE (IN FRIULANO) DI TOMMASEO
ANTONIO LUBÍN DANTISTA
FORTUNIO LETTORE E FILOLOGO DI DANTE: QUANDO LA GRAMMATICA RISCOPRE LA
DANTE ALL’INFERNO. IL CASO MIRKO DEANOVIC
FIGURE FEMMINILI E ORDINE POLITICO NEL COMMENTO DI TOMMASEO ALLA
ANTONIO LUBÍN E LE POLEMICHE SUSCITATE DAL SUO COMMENTO ALLA
I LEGAMI TRA
DI BENEDETTO COTRUGLI E
DI FRANCESCO BARBARO
TRIESTE TRA STORIA, MITO, LETTERATURA.
DI ENZO BETTIZA
IL VIAGGIO NELLA SCRITTURA DI ENZO BETTIZA
«CON L’ITALIA DAVANTI E LA BOSNIA A RIDOSSO»: LA DALMAZIA DI ENZO BETTIZA
LA TRIESTE DI ENZO BETTIZA. DALL’ANALISI DI
E
ENZO BETTIZA LETTORE DI GUIDO PIOVENE
OVVERO LA LETTERATURA DELLA TOTALITÀ
IL PENSIERO POLITICO NEI TESTI DI ENZO BETTIZA
KEZICH TRA SVEVO E JOSEPH ROTH: LA CRUDELTÀ DELLO SCRITTORE
NEL NOME DI D’ANNUNZIO. LEDVINKA E LE IMPRESE ITALIANE PER TERRA, ARIA E MARE
FLORA, LA «DALMATA ITALIANA» DI MARIA ROSARIA DOMINIS
PRIMI APPUNTI SULLE
DI VIRGILIO PAGANELLO
LA SUGGESTIVA POETICA DI LUIGI MIOTTO SPALATINO (1924-2012)
LA DIMENSIONE STORICA DELLA DALMAZIA ENTRO GLI SPAZI NARRATIVI DI ANNAMARIA TIBERI
UNA COSMOLOGIA SETTECENTESCA TRA FILOSOFIA E SCIENZA: RUGGERO GIUSEPPE BOSCOVICH INTERLOCUTORE DI NEWTON E DI LEIBNIZ
LA DRAMMATURGIA MUSICALE DI CRISTOFORO IVANOVICH NELLA CRISI DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE: IL CASO DI
AUTORI DALMATI NELLA
DI PERO CHOTCH
STEFANO SCIUGLIAGA. ALCUNE OSSERVAZIONI SULLA COMMEDIA NELLE
CON QUALCHE ACCENNO ALLE ALTRE SUE OPERE
GIULIO BAJAMONTI POETA: MORALITÀ E SCIENZA NELL’EPISTOLA
(1784)
LUCIANO MORPURGO: LA POETICA DELL’EBRAISMO SPALATINO
FRANCESCO CARRARA: UN PONTE TRA LA CULTURA ITALIANA E DALMATA
RICCARDO FORSTER E L’AVVENTURA DI «FLEGREA» (1899-1901)
LA RICEZIONE CRITICA DELLE OPERE TEATRALI DEL LETTERATO ZARATINO GEROLAMO ENRICO NANI
FRANCESCO DE SUPPÉ DEMELLI: MUSICA E POETICA DELLA LEGGEREZZA
LA ‘GRAMMATICA DEL GIUDIZIO’: APERTURE A OPZIONI NON PURISTICHE NELLA
DI GIOVANNI MOISE
NICOLA PETREO DI CURZOLA E LA SUA CULTURA GRECA NEL SALENTO DEL XVI SEC. OGGI DARIO FERTILIO IN DIALOGO CON BETTIZA
LA DALMAZIA DEI SENSI. IL PAESAGGIO SINESTESICO DI LUIGI MIOTTO
LA NOZIONE DI POESIA IN LIANA DE LUCA
L’UNIVERSO FEMMINILE NELL’OPERA DI LIANA DE LUCA
GIORGIO GASPAR: RACCONTI DELL’ESILIO
SPORT E POESIA: UNA SCHEDA PER
DI VLADIMIRO MILETTI
VLADIMIRO MILETTI, TRA FUTURISMO E RESTAURAZIONE
«ALLORA DALMAZIA FELICE SORGERÀ». LA POESIA DI NICCOLÒ IVELLIO TRA CRONACA, POLITICA E SENTIMENTO
SERGIO MARIA KATUNARICH, UNA CONVERSIONE NELLA LETTERATURA DALMATA
«L’ACUME DELLA CRITICA, L’ELEGANZA DELLO STILE, E UNA CERTA ONESTA LIBERTÀ». APPUNTI SULLE RELAZIONI FRA PIER ALESSANDRO PARAVIA
L’ORAZIONE
DI PIER ALESSANDRO PARAVIA: UN’APPASSIONATA ESORTAZIONE A ‘SENTIRE’ PRIMA DI SCRIVERE
«FORMAR NON SOLO IL GRANDE SCRITTORE, MA, CIÒ CHE È PIÙ, IL VERO CITTADINO». PIER ALESSANDRO PARAVIA STUDIOSO DELLA LETTERATURA
LA PATRIA E L’EDUCAZIONE GIOVANILE. LE PROLUSIONI TORINESI DI PIER ALESSANDRO PARAVIA
«PRINCIPAL LUME DELLA VOLGAR LINGUA E POESIA». PIER ALESSANDRO PARAVIA LETTORE DI DANTE
PROFILO DI BEATRICE SPERAZ
IL MONDO PROLETARIO CONTADINO: UN’ALTALENA DI SENTIMENTI CONTRADDITORI IN
DI BEATRICE SPERAZ (PSEUDONIMO BRUNO SPERANI)
GLI STUDI DANTESCHI DI SERAFINO RAFFAELE MINICH
GLI STUDI DANTESCHI DI ADOLFO MUSSAFIA
MACHIAVELLI E BIONDI: DA CESARE BORGIA A RICCARDO III
LE INTEMPERANZE DI UNO STUDENTE. GIOVANNI LOVRICH, BIOGRAFO DI UN MALFATTORE E ORGOGLIOSO TESTIMONE DELLE COMUNITÀ DEL «TRIPLICE
UNA BIBLIOGRAFIA DALMATA DIMENTICATA (OTTO VON REINSBERG DÜRINGSFELD, 1856)
VENT’ANNI DOPO
«L’AMANTE È UN LADRO»? OTELLO NEL
DI ARTURO COLAUTTI
ARTURO COLAUTTI GIORNALISTA A NAPOLI
LA FIGURA DI FEDORA: DALLA MITOLOGIA GRECA AL DRAMMA LIRICO DI COLAUTTI
LA RAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN
DI ARTURO COLAUTTI, TRA SGUARDO ESTETICO E DIAGNOSI MEDICA
L’AMORE DANTESCO OLTRE LA MORTE NELL’OPERA DI ARTURO COLAUTTI
PAOLO SARPI, IL MARE ADRIATICO E GLI USCOCCHI
I
DI TULLIO BRESSAN: APPUNTI PER UNA TEORIA DELLA LETTERATURA GIOVANILE
IL ROMANZO DALMATA MODERNO: ALCUNE CONSIDERAZIONI
PER UNA STORIA DELLA LETTERATURA DALMATA ITALIANA

Citation preview

LETTERATURA DALMATA ITALIANA at ti d el c o n v eg n o i ntern azion ale t r i es t e , 2 7 -2 8 f e b braio 2 0 15 a c u r a di giorgio b aron i e cri sti na benussi

bi bl i ot eca d e lla «r i v i s t a d i l et t er a t ur a it a lia n a » 23.

PI SA · ROMA FA BRIZIO S E R R A E D I TO R E MMXVI

B I B L I O T E C A D ELLA «R IV IS T A D I L E TT E R A T U RA I T A LI A NA » c ol l an a diret t a da gi org i o baroni

* 2 3.

LETTERATURA DALMATA ITALIANA at ti d el c o n v eg n o i ntern azion ale t r i es t e , 2 7 -2 8 f e b braio 2 0 15 a c u r a di giorgio b aron i e cri sti na benussi

PI SA · ROMA FA BRIZIO S E R R A E D I TO R E MMXVI

Volume pubblicato in collaborazione e con la partecipazione dell’irci, Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata di Trieste Uffici: Via Emanuele Filiberto Duca d’Aosta 1, I 34123 Trieste Sede: Civico Museo della Civiltà istriana, fiumana, dalmata, Via Torino 8, I 34123 Trieste, tel. +39 040639188, fax +39 639161, [email protected], www. irci.it * A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included oπprints, etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2016 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stamp≤atori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050542332, fax +39 050574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 0670493456, fax +39 0670476605, [email protected] * issn 1828-8731 isbn 978-88-6227-777-8 e-isbn 978-88-6227-778-5

SOMMARIO IRCI, Presentazione 11 Ringraziamenti 12 Giorgio Baroni, Cristina Benussi, Introduzioni 13 Pietro Frassica, Ragusa nella rappresentazione mitica dei Filelfo 17 Maria Pagliara, Giovan Battista Biondi romanziere 23 Vicente González Martín, Lettere di Piero Pillepich a Miguel De Unamuno: un rapporto di lavoro 29 Marina Paino, L’Esilio di Enzo Bettiza tra storia e letteratura 35 Donato Pirovano, Mussafia e il testo della Divina Commedia 40 Vittorio Roda, Il poeta e romanziere Giovanni Perich (1941-2013) 45 Andrea Rondini, Il calvario dell’italianità: Vola colomba di Bibi Dalai Pietrantonio e Gianni Grigillo 51 Antonio Sichera, Il dio greco. Forme del religioso e tensione metafisica nella scrittura di Alberto Savinio 56 Alfredo Luzi, La poesia di Luigi Miotto e la terra di Dalmazia 62 Živko Nižić, Nikolina Gunjević Kosanović, Uso ed abuso del cibo nelle opere di Petronio, Dante, Malaparte e Bettiza 67 Giulia Vannoni, L’interesse per scienza e tecnologia nel teatro d’opera: il caso Colautti 71 Ana Bukvić, Intertestualità e reminiscenze letterarie nel dramma lirico Paolo e Francesca di Arturo Colautti 76 Nedjeljka Balić-Nižić, Arturo Colautti e Zara 81 Paolo Patrizi, Riesumazione di una primadonna 86 Roberto Norbedo, Per Slataper critico. Colautti, Tommaseo, Filippo Zamboni e Il mio Carso 89 Milena Montanile, Sul Canzoniere di Paolo Paladini 94 Kim Hee Jung, La Cina riflessa sullo specchio occidentale 99 Guglielmo Barucci, «Un sordo tuttavia la mente ha pura». Le satire di Savino de’ Bobali 103 Pierino Venuto, Le Rime amorose, pastorali et satire di Savino de’ Bobali. Aspetti linguistici 109 Chiara Rosato, Le Rime di Savino Sordo de’ Bobali: temi e topoi 116 Marija Bradaš, Un contributo alla biografia di Giovanni Nikolić, traduttore dalmata 121 Valter Boggione, «Il mio romanzo enciclopedico». Tommaseo e la tensione al­l’enciclopedismo 127 Francesca Geymonat, Carlo Cattaneo recensore di Fede e Bellezza 133 Sergio Portelli, Le traduzioni inglesi delle poesie di Niccolò Tommaseo 138 Patrizia Paradisi, Uno scambio di epigrammi latini fra Niccolò Tommaseo e Biagio Ghetaldi 144 Dušica Todorović, «E ora i consigli di mia cugina, a te li ripeto, mio buon amico». A proposito di Due baci di Tommaseo 150 Anna Tylusi ń ska-Kowalska, La Dalmazia negli scritti autobiografici di Niccolò Tommaseo 155

sommario 8 161 Luigi Martellini, Pasolini lettore e traduttore (in friulano) di Tommaseo Giovanni Fighera, Antonio Lubín dantista 167 Valentino Della Casa, Fortunio lettore e filologo di Dante: quando la grammatica riscopre la Commedia 171 Attilio Cicchella, Dante all’inferno. Il caso Mirko Deanović 177 Maria Gabriella Riccobono, Figure femminili e ordine politico nel commento di Tommaseo alla Commedia 182 Tiziana Piras, Antonio Lubín e le polemiche suscitate dal suo commento alla Divina Commedia 187 Paulina Piotrowicz, I legami tra Il libro dell’arte di mercatura di Benedetto Cotrugli e De re uxoria di Francesco Barbaro 192 Carla Carotenuto, Trieste tra storia, mito, letteratura. Il fantasma di Trieste di Enzo Bettiza 197 Michela Rusi, Il viaggio nella scrittura di Enzo Bettiza 202 Federica Millefiorini, «Con l’Italia davanti e la Bosnia a ridosso»: la Dalmazia di Enzo Bettiza 207 Silva Bon, La Trieste di Enzo Bettiza. Dall’analisi di Il fantasma di Trieste e Mito e realtà di Trieste 213 Francesca Bottero, Enzo Bettiza lettore di Guido Piovene 218 Gianni Cimador, Il libro perduto, ovvero la letteratura della totalità 223 Corinna Gerbaz Giuliano, Il pensiero politico nei testi di Enzo Bettiza 229 Raffaele Cavalluzzi, Kezich tra Svevo e Joseph Roth: la crudeltà dello scrittore 234 Francesca Strazzi, Nel nome di d’Annunzio. Ledvinka e le imprese italiane per terra, aria e mare 240 Cinzia Gallo, Flora, la «dalmata italiana» di Maria Rosaria Dominis 245 Nicolò Massucco, Primi appunti sulle Intime liriche di Virgilio Paganello 250 Irene Visintini, La suggestiva poetica di Luigi Miotto spalatino (1924-2012) 257 Eliana Moscarda Mirković, La dimensione storica della Dalmazia entro gli spazi narrativi di Annamaria Tiberi 262 Dario Sacchi, Una cosmologia settecentesca tra filosofia e scienza: Ruggero Giuseppe Boscovich interlocutore di Newton e di Leibniz 267 Enrico Zucchi, La drammaturgia musicale di Cristoforo Ivanovich nella crisi delle istituzioni repubblicane: il caso di Il Coriolano 272 Danijela Janjić, Autori dalmati nella Bibliografia del Montenegro di Pero Chotch 278 Marijana Milkovic, Stefano Sciugliaga. Alcune osservazioni sulla commedia nelle Nozze involontarie della Signora Commedia Italiana col Signor Conte Popolo Signor del Basso Piano con qualche accenno alle altre sue opere 282 Anna Maria Salvadè, Giulio Bajamonti poeta: moralità e scienza nell’epistola Il viaggio (1784) 287 Carlo Cetteo Cipriani, Luciano Morpurgo: la poetica dell’ebraismo spalatino 293 Elena Rondena, Francesco Carrara: un ponte tra la cultura italiana e dalmata 303 Daniela De Liso, Riccardo Forster e l’avventura di «Flegrea» (1899-1901) 308 Martina Damiani, Fabrizio Fioretti, La ricezione critica delle opere teatrali del letterato zaratino Gerolamo Enrico Nani 313 Claudio D’Antoni, Francesco de Suppé Demelli: musica e poetica della leggerezza 318 Francesco Sestito, La ‘grammatica del giudizio’: aperture a opzioni non puristiche nella Grammatica della lingua italiana di Giovanni Moise 322 Fabio Russo, Nicola Petreo di Curzola e la sua cultura greca nel Salento del xvi sec. Oggi Dario Fertilio in dialogo con Bettiza 326

sommario

9 Marianna Deganutti, La Dalmazia dei sensi. Il paesaggio sinestesico di Luigi Miotto 331 Pietro Zovatto, La nozione di poesia in Liana De Luca 337 Gianna Mazzieri Sanković, L’universo femminile nell’opera di Liana De Luca 343 Carmen Sari, Giorgio Gaspar: racconti dell’esilio 349 Alberto Brambilla, Sport e poesia: una scheda per Fughe nei secondi di Vladimiro Miletti 355 Fulvio Senardi, Vladimiro Miletti, tra Futurismo e restaurazione 360 Giulia Delogu, «Allora Dalmazia felice sorgerà». La poesia di Niccolò Ivellio tra cronaca, politica e sentimento 366 Chiara Galassi, Sergio Maria Katunarich, una conversione nella letteratura dalmata 371 Rosa Necchi, «L’acume della critica, l’eleganza dello stile, e una certa onesta libertà». Appunti sulle relazioni fra Pier Alessandro Paravia e Angelo Pezzana 375 Milena Contini, L’orazione Del sentimento domestico nelle sue relazioni con la letteratura di Pier Alessandro Paravia: un’appassionata esortazione a ‘sentire’ prima di scrivere 380 Annalisa Listino, «Formar non solo il grande scrittore, ma, ciò che è più, il vero cittadino». Pier Alessandro Paravia studioso della letteratura italiana 383 Paolo Ambrosi, La patria e l’educazione giovanile. Le prolusioni torinesi di Pier Alessandro Paravia 389 Massimo Colella, «Principal lume della volgar lingua e poesia». Pier Alessandro Paravia lettore di Dante 393 Patrizia Zambon, Profilo di Beatrice Speraz 399 Marwa Abdel Moneim Abdel Raouf Mohamed Tantawy, Il mondo proletario contadino: un’altalena di sentimenti contradditori in Tre donne di Beatrice Speraz (pseudonimo Bruno Sperani) 406 Cecilia Giordano, Gli studi danteschi di Serafino Raπaele Minich 411 Lilith Meier, Gli studi danteschi di Adolfo Mussafia 415 Alessandro Montevecchi, Machiavelli e Biondi: da Cesare Borgia a Riccardo III 421 Massimiliano Pecora, Le intemperanze di uno studente. Giovanni Lovrich, biografo di un malfattore e orgoglioso testimone delle comunità del «triplice confine» 426 Željko Djurić, Una bibliografia dalmata dimenticata (Otto von Reinsberg Düringsfeld, 1856) 431 Anco Marzio Mutterle, Fidelia vent’anni dopo 438 Paola Ponti, «L’amante è un ladro»? Otello nel Figlio di Arturo Colautti 443 Raffaele Giglio, Arturo Colautti giornalista a Napoli 449 Zosi Zografidou, La figura di Fedora: dalla mitologia greca al dramma lirico di Colautti 455 Michela Toppano, La rappresentazione della donna in Fidelia di Arturo Colautti, tra sguardo estetico e diagnosi medica 462 Pedro Luis Ladrón de Guevara, L’amore dantesco oltre la morte nell’opera di Arturo Colautti 468 Pasquale Guaragnella, Paolo Sarpi, il mare Adriatico e gli Uscocchi 475 Elis Deghenghi Olujić, I Sentieri di luce di Tullio Bressan: appunti per una teoria della letteratura giovanile 480 Cristina Benussi, Il romanzo dalmata moderno: alcune considerazioni 486 Giorgio Baroni, Per una storia della letteratura dalmata italiana 492

PRESENTAZIONE

A

settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale che provocò il massiccio esodo delle popolazioni italiane giuliano-dalmate, sradicate quasi totalmente dai loro millenari insediamenti, sembra attuale e urgente una sistemazione della memoria di ciò che esse furono per secoli. Proprio per questo è sorto e vive l’i.r.c.i., Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata. Il Convegno internazionale sulla Letteratura dalmata italiana celebratosi nel febbraio 2015 ha portato a Trieste un centinaio di studiosi da diversi continenti perché esaminassero la portata, i contenuti, le connessioni dell’espressione scritta nei secoli in italiano da coloro che vivevano sulla costa orientale dell’Adriatico da Fiume all’Albania escluse, in forme di aggregazione e di reggimento politico variate nel tempo, dalla totale autonomia di Comuni e Repubbliche marinare, al dominio veneziano, ungherese, austriaco e francese e alla parziale unione all’Italia nella prima metà del Novecento. La parlata romanza, sopravvissuta senza soluzione di continuità dall’epoca romana, con varianti locali e con la prevalenza del veneto, corrisponde all’uso di scrivere in latino e in italiano a seconda dei gusti, dei tempi e delle occorrenze. La presenza di insediamenti slavi e albanesi, i problemi di confine e i traffici marittimi non modificarono sostanzialmente tale situazione, anche perché non di rado per i nuovi venuti fu per secoli preferibile avvantaggiarsi di una lingua scritta codificata, riconosciuta anche altrove e culturalmente vitale, piuttosto che tentare nuove espressioni e tradizioni. Il provvisorio inventario della produzione letteraria dalmata nei secoli, realizzatosi con il convegno ed espresso negli atti, dimostra che la Dalmazia ha avuto una creatività paragonabile alla media delle regioni italiane della penisola di fronte e che il fenomeno nel suo complesso è abbastanza rilevante da incidere sulla valutazione globale delle letteratura italiana. Il fatto che a tenere le relazioni siano state in gran parte docenti universitari lascia sperare che le scoperte siano divulgate anche fra gli studenti di oggi, che potranno a loro volta continuare le ricerche. Questi atti si collocano in continuità con le precedenti pubblicazioni dell’i.r.c.i., riguardanti le letteratura istriana e fiumana, le arti figurative e musicali, nonché altre espressioni della civiltà italiana d’oltre Adriatico. Franco Degrassi Presidente i.r.c.i.

Un caloroso ringraziamento al Direttore dell’i.r.c.i. dottor Piero Delbello, alla Segretaria Alessandra Fenili e al gruppo volontari i.r.c.i. per quanto hanno fatto per la riuscita del Convegno e alla professoressa Paola Baioni dell’Università degli Studi di Torino per la preziosa curatela redazionale dei testi raccolti in questi atti.

INTRODUZIONI Giorgio Baroni · Cristina Benussi

L

unga e stretta fra le montagne a picco e il mare, poca costa e centinaia di isole lun ghe e strette, ad essa parallele, con gli abitati disposti ora su isole ora su penisole, la Dalmazia è tangibile dimostrazione di quanto i geografi e gli storici sanno, che il monte divide, ma il mare unisce, così che nei secoli, quando l’ardua valicabilità delle Alpi Dinariche limitava le comunicazioni fra le città della Dalmazia e i centri dell’interno oltremontano, fra Zara, Sebenico, Lesina, Spalato, Ragusa e Cattaro era tutto un fiorire di scambi e interazioni, che coinvolgevano pure tutti gli altri centri costieri; tali traffici erano peraltro un dettaglio della grande rotta che imboccava l’Adriatico costeggiando la Puglia, attraversava il mare approfittando dell’appoggio naturale offerto dalle Tremiti e da Pelagosa, per proseguire lungo la Dalmazia, superare l’Istria e raggiungere Venezia, capolinea della navigazione di quello che sulle carte per gran parte del secondo millennio era segnato come Situs Veneticus. In questa terra incantevole, oggetto delle narrazioni di naviganti, riuscirono a sopravvivere lingua e costumi romani, a prescindere dalle invasioni che riguardarono l’entroterra e coinvolsero solo in parte la costa. Mentre la parlata evolve dal latino ai dialetti romanzi che poi si trasformano in una varietà del veneziano, per lo scritto il latino sopravvive qui più a lungo che altrove e inizialmente l’unica lingua moderna è l’italiano, cui si adeguano le minoranze allogene infiltratesi nei secoli, fra cui, man mano più importanti, quelle slave. L’italiano non è in Dalmazia lingua coloniale e nemmeno franca, come accadde in molte parti del Mediterraneo al punto da essere la lingua ufficiale nell’Egitto dell’Ottocento, ma lingua autoctona radicata nel latino, come nella penisola italiana. L’estirpazione è avvenuta gradualmente, a partire dal secondo Ottocento, per scelte della politica asburgica e poi jugoslava e con gli esodi di gran parte della popolazione italiana. Gli autori che scrissero in italiano per lo più non compirono altra scelta che quella di usare per la creazione letteraria l’unica lingua in cui sapevano scrivere, a parte il latino. Nulla di sorprendente dunque se la Dalmazia pesa nella letteratura italiana come una qualsiasi delle regioni dirimpettaie; strano è semmai che una produzione siffatta abbia avuto scarsi riscontri nella critica. Spaziando dal tredicesimo al ventunesimo secolo questo convegno è riuscito a dare un’idea complessiva della vastità del fenomeno, pur avendo trascurato centinaia di scrittori, come era inevitabile essendo essi ben più dei convegnisti, alcuni dei quali hanno anche scelto di concentrare i loro interventi su pochi personaggi importanti. Tra questi spiccano Niccolò Tommaseo, Arturo Colautti, Enzo Bettiza. In tutti e tre i casi vengono riconosciuti la loro rilevanza pubblica e il prestigio acquisito con un impegno politico e una statura morale, dei quali la produzione letteraria è l’espressione. Per Tommaseo si tratta della conferma del canone degli studi letterari che lo colloca in posizione dominante per l’attività linguistica, ne apprezza soprattutto la narrativa, ma anche i versi, la saggistica, le traduzioni, le trascrizioni di testi popolari e periferici, la sua varia e ricca creatività, e persino la povertà in cui visse nonostante una notorietà internazionale e un’operosità difficilmente uguagliabili. Colautti, il cui centenario ha dato spunto al convegno, si è confermato meritevole di una riscoperta dopo decenni di accantonamento, forse dovuto alla sua accanita difesa della Dalmazia italiana; dagli interventi che gli sono stati dedicati, molti e ben differenziati, di lui emergono la godibilità della narrativa, vivace e attuale

giorgio baroni · cristina benussi 14 come poche pagine di quell’epoca, la riproponibilità del teatro lirico, la vivacità della penna giornalistica, quella che gli diede più guai e notorietà, assicurandogli pure il pane quotidiano. Bettiza rappresenta un’attualizzazione della dalmaticità: egli non si schiera in una tra le fazioni che lottando hanno insanguinato questa terra e rinuncia a identificarsi in una soltanto delle culture e nazioni che hanno abbracciato o sfiorato oppure oppresso il popolo dalmata; si riconosce invece frutto spurio e variegato di tale incrocio di genti e tradizioni, di civiltà e barbarie, apprezzando e descrivendone i particolari, non pretendendo di fonderli né di amalgamarli, ma leggendo il risultato d’insieme, un po’ come succede per i quadri divisionisti, nei quali l’immagine si forma grazie alle innumerevoli macchie di colori diversi accostati, quasi anticipazione della tecnica del pixel. Tommaseo politicamente collabora in prima fila al tentativo di rinascita della gloriosa Repubblica di San Marco, Colautti partecipa alle lotte nazionali che in Dalmazia durano dopo che per il resto d’Italia il Risorgimento è in gran parte già avvenuto, Bettiza è sostanzialmente europeo, di un’Europa più grande dell’attuale U.E. e comprendente quanto meno la Russia e probabilmente qualche parte di Mediterraneo che la geografia attribuisce ad altri continenti. Ognuno di questi tre scrittori, come molti dei colleghi dalmati più affermati, visse prevalentemente lontano dalla propria terra, che col tempo diviene per loro non qualcosa di quotidiano, ma un’elaborazione della memoria o un’immagine onirica o addirittura la stessa rappresentazione letteraria. Tommaseo non è l’unico linguista trattato in questi atti che registrano esempi di tutta una locale tradizione di studi di alto livello riguardanti anche la grammatica, il dialetto, le traduzioni, i dizionari, un interesse complessivamente tipico di gente di confine che non può accontentarsi d’aver assorbito la lingua con il latte materno, ma deve preservare questo patrimonio distintivo e caratterizzante, approfondendone i contenuti e le qualità, difendendolo da contaminazioni. Analoghi sono i motivi che hanno alimentato in Illiria certi studi critici, fra i quali spiccano quelli sull’opera di Dante, sempre additato come padre della lingua e della letteratura italiana; non a caso alcuni dei migliori grammatici, come il Fortunio, studiosi pure del sommo Poeta, sono esaminati in questi atti sotto entrambe le angolature. Fra i poeti che si sono affermati pure per la loro attività critica ha riscosso un vivo interesse da parte dei convegnisti Pier Alessandro Paravia, anch’egli esule in Patria, celebrato soprattutto per i suoi studi. Un certo spazio è stato dedicato al teatro, a partire da quello musicale, che molto si prestava a dare sfogo agli entusiasmi nazionali. Non mancano nemmeno gli scrittori della diaspora successiva alla seconda guerra mondiale, cantori, come Miotto, di una Dalmazia che «non esiste più, scomparsa da tempo, sprofondata nel mare: incanto, bellezza, mito, Atlantide adriatica». Oltre a coprire l’intero arco temporale della letteratura dalmata italiana, il convegno ha volteggiato dalle isole del Quarnero a quella che un tempo si definiva l’Albania veneta e oggi è parte del Montenegro, dando adeguato rilievo alle città più ragguardevoli, ma anche ai centri minori, prevalentemente delle isole, finendo con l’offrire un campionamento significativo di questa complessa e variegata letteratura di confine che è riuscita a difendere la propria identità, affascinando e coinvolgendo genti alloglotte contigue ed esportando, per lo più nella penisola italiana, poeti, narratori, saggisti, poligrafi, filosofi, storici, librettisti, drammaturghi, giornalisti, ben più di quanti ne abbia assorbiti. G. B. *

introduzioni

Q

15

uesto convegno si è posto il problema se per la Dalmazia, così come per altre aree sociopolitiche, possa venir circoscritto un campo letterario che sia riconoscibile rispetto ad altri. Dallo scorrere questo volume degli Atti si può vedere quanti in realtà siano gli autori riconosciuti, per diritto di nascita, come appartenenti a questo territorio di mare e di vento, che lungo l’intero arco della sua storia ha consegnato preziosi reperti alla formazione della cultura d’Europa. Liburni, Fenici e Greci, popoli navigatori e commercianti, si sovrapposero alle primitive popolazioni illiriche dedite alla pastorizia. Poi ci furono l’assimilazione della civiltà latina, l’invasione di tribù germaniche, le migrazioni e lo stanziamento di popolazioni slave. Le lotte tra popoli che se ne contendevano il dominio e i Veneziani terminarono con l’accettazione da parte delle città dalmate della protezione della Serenissima, che dall’altra parte dell’Adriatico ebbe per secoli arsenali, fondachi e fortezze essenziali per i suoi traffici marittimi lungo le vie del sale, delle essenze, delle spezie, degli oli, dei vini e del pesce. Ovviamente i suoi lasciti culturali furono enormi, anche se non bisogna dimenticare l’apporto in alcune settori di elementi provenienti da popolazioni sia dell’Est (Ungheresi e Turchi) sia del Sud (Albanesi e Greci). Determinante ai fini di una caratterizzazione fu anche, a parte il periodo Napoleonico, la dominazione asburgica che modificò non poco la concezione dell’identità dei vari popoli: se prima gli abitatori di quelle terre si sentivano tutti innanzitutto dalmati, cioè figli di una marca di confine dalla bellezza nuda ed enigmatica, come diceva Bettiza, poi iniziarono a prendere corpo i vari nazionalismi, esplosi soprattutto dopo il trattato di Rapallo, che negli anni Venti causò il primo grande esodo dei dalmati di cultura latina e veneta. Poi la parziale annessione al Regno d’Italia e, dopo il ’43, il secondo esodo e la dolorosa diaspora. Se guardiamo agli aspetti cultural-letterari balza agli occhi la forte presenza di linguisti, come è ovvio in una regione di così varie combinazioni etniche. Da Niccolò Tommaseo (1802-1874) ad Adolfo Mussafia (1835-1905), da Giovanni Maver (1891-1970) a Giovanni Soglian (1901-1943), da Aldo Duro (1916-2000) a Žarko Muljačić (1922-2009) è evidente che l’attenzione al problema della lingua rimanda al riconoscimento di una identità precisa tra altre possibili. Ma non è impossibile, come si può verificare all’interno di alcuni generi, come il romanzo o la poesia, trovare altre omologie inaspettate. Quella dalmata appartiene a una cultura di mare che, come per altri autori di altra origine, reclama di enfatizzare precise gerarchie di valori. Innanzitutto l’intelligenza, che per certi aspetti è conoscenza e capacità dialettico-argomentativa, per altri è astuzia e abilità di metamorfizzare se stessi per garantirsi, a seconda delle circostanze, il dominio sugli altri: sono le qualità dei mercanti che anche sulla non sempre prevedibile variabilità di alcuni fattori giocano per aggirare le insidie del mercato, e del mare. I naviganti lo sanno bene, quando hanno bisogno di conoscere bene le rotte e calcolare i rischi atmosferici prima di affrontare un viaggio potenzialmente pieno d’insidie che possono facilmente portare al naufragio. La conseguenza è, qualsiasi sia l’argomento affrontato, la predisposizione a una ricerca infinita per perfezionare ulteriormente le cognizioni acquisite: indagare l’abisso, il non noto, cioè dare un assetto a un sommerso (naturale, coscienziale, mnestico, onirico, pulsionale, sociale, storico o altro) costituisce una spinta forte a misurarsi con categorie interpretative che possono discostarsi da quelle generalmente accreditate, e con le quali la partita è sempre aperta. Ma di fronte a caratteristiche che possono essere assimilabili ad altre culture marinare, quella dalmata ha insita almeno un’altra, assolutamente sua, quella della precarietà del proprio status, dovuta alla coscienza dell’esilio. È chiaro che la storia di quella regione bagnata dal mare ha pesato sull’immaginario poetico e romanzesco dei suoi scrittori

giorgio baroni · cristina benussi 16 come non è accaduto altrove. Su questo aspetto molti contributi del nostro volume si sono soffermati, così come altri hanno colto la ricchezza pluriculturale basata su elementi allotri, che si declinano in ciascun autore in maniera diversa e che costituiscono la sostanza di una cultura così ricca e stratificata. Che contributo ha dato la letteratura dalmata alla cultura italiana tout-court, che osmosi ha favorito, che resistenze ha dovuto fare per non venir assorbita da altre circostanti? Credo che la ricognizione sia ben iniziata, anche se di altri convegni come questo ci sarà bisogno per definire ulteriormente l’oggetto e la strategia della ricerca. Forse non basta delimitare lo spazio geografico con i suoi confini e le sue terre su cui indagare. Credo piuttosto che sia giunto il momento di comprendere come funzioni nel caso della Dalmazia il rapporto tra spazi e tempi così mutevoli. I suoi cronotopi sono insomma molto più complessi che in altri luoghi. «Eterotopia» è il termine coniato dal filosofo francese Michel Foucault per indicare «quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano». Auspico dunque che si possa continuare a interrogarci su che cosa ciò significhi per la Dalmazia e la sua letteratura. C. B.

RAGUSA NELLA RAPPRESENTAZIONE MITICA DEI FILELFO Pietro Frassica

T

ra Otto e Novecento alcuni studi 1 hanno permesso di ricomporre in un quadro complessivo, gran parte dei molteplici e dispersi fili della famiglia Filelfo. Da una parte, le vicende sia del celebre Francesco, sia quella dei figli Gian Mario e Senofonte assumono una sorta di significato umano; dall’altra, ci sono i rapporti professionali all’interno di questa famiglia di umanisti del xv secolo che si riverberano nel procedere della loro attività letteraria. In più, la loro storia mette in luce le relazioni tra le due sponde dell’Adriatico. Al di là del ruolo svolto dai tre componenti di questo ambito familiare e degli espedienti a cui spesso furono costretti a ricorrere Francesco e il figlio Gian Mario, questo saggio mette in rilievo la funzione svolta da Senofonte: una figura che spesso rimane in ombra, rispetto a quelle del padre e del fratello, autori fecondi ed entrambi simboli della nuova potenza concessa alle lettere dispensiera di gloria in una società in cui andava trasformandosi l’umanista in cortigiano. Come ha sottolineato Ivan Božić, 2 che ha accuratamente studiato i dieci anni trascorsi da Senofonte a Ragusa, il suo far parte di una famiglia di umanisti lo rende personaggio di un certo interesse. Il filo conduttore dei rapporti tra padre e figli si dipana nel vastissimo epistolario di Francesco Filelfo. Amor filial-paterno, ma anche dottrina; di modo che, le preoccupazioni per i propri figli, si coniugano nel Filelfo-padre con una funzione magistrale, tesa a dare a Gian Mario e a Senofonte tutto ciò che può: istruzione, ammonimenti, ottimi maestri, soccorsi finanziari e aπetto. Dall’epistolario di Francesco emerge che Gian Mario e Senofonte nel 14603 si trovavano a Ferrara, dove entrambi ricevettero dal Duca alcuni ‘benefizi’; quindi a Venezia, dove Gian Mario – raccomandato dal padre all’inviato del Duca di Milano, Marchesio Varesino, e a Bernardo Giustinian – diede prova del suo ingegno dinanzi al Doge e al Senato, meravigliando tutti per la prontezza, al punto da convincere il Senato a creare per lui una cattedra di eloquenza. Quello stesso anno Senofonte fu nominato Cancelliere della Repubblica di Ragusa, incarico che ricoprirà per un decennio fino al 1470, anno della sua morte. L’orizzonte dei Filelfo si allarga, dunque, al di là dell’Adriatico e l’incontro di Senofonte con la città dalmata segna una svolta anche per Gian Mario, che raπorza i suoi antichi legami con tali regioni.  





1  Tra gli altri si ricordano qui: Carlo De’ Rosmini, Vita di Francesco Filelfo da Tolentino, iii, Milano, presso Luigi Mussi, 1808; Ferdinando Gabotto, Senofonte Filelfo a Ragusa, «Archivio storico per Trieste, l’Istria e Il Trentino», 4, 1890, pp. 132-138; Émile Legrand, Cent-dix lettres Grecques de Fancois Filelfe, Paris, Leroux, 1892; Lavinio Agostinelli, Giovanni Benadduci, Biografia e bibliografia di Giovan Mario Filelfo, Tolentino, Stab. tip. Francesco Filelfo, 1899; Nestore Pelicelli, Due opere inedite di G. M. Filelfo, La «Raguseide» e «Storia di Ragusa», «Rivista dalmatica», 3, 1903; Riccardo Picchio, L’interprétation humaniste de l’histoire de Raguse de Giovan Mario Filelfo, in Études littéraires slavo-romanes, Firenze, Licosa, 1978, pp. 43-54; oltre alle edizioni critiche di tre opere di Gian Mario Filelfo: Amyris, a cura di Aldo Manetti, Bologna, Patron, 1978; Chroniche de la città de Anchona, (da me curata), Firenze, Licosa, 1979; Consolatoria, a cura di Anne Schoysman Zambrini, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1991. 2   Ivan Božić, Dubrovački kancellar Ksenofon Filelfo, «Zbornik filozofskog fakulteta», Knjiga, 9, 1967, pp. 225-245. 3   Francisci Philelphi, Epistolarum familiarium libri xxxvii ex eius exemplari transupti, Venetiis, Io. et Gr. de Gregoriis, 1502, c. 107 r.

pietro frassica

18

La presenza di Senofonte a Ragusa assume una funzione chiave nella scelta, non del tutto casuale, di Gian Mario di narrare le gloriose origini della città nella Raguseida, il più notabile documento del rapporto di Gian Mario Filelfo con la città dalmata. L’opera, composta tra la fine del 1470 e prima del febbraio del 1475, ci è pervenuta in quadruplice redazione: tanto il poema quanto la storia sono infatti in duplice redazione latina e volgare. Il disporre prima la materia in prosa – e da quella creare i due poemi – era una prova tesa a soddisfare la realtà linguistica di Ragusa, legata nel xv secolo alla cultura sia latina sia volgare della penisola italiana. Allo stesso tempo però, la decisione di stendere la storia della città – oltre che in prosa anche in versi – è un esplicito espediente dell’autore, che spera così di poter soddisfare i suoi committenti mediante uno dei due generi. Egli stesso nell’esordio della storia in volgare dichiara: Io, trascorrendo, solo ne ho tracto ’l sucho non churandomi d’altro che del eπecto noticia darvi; et questo in diverso e vario stile acciò che possa ciaschun sciegliere quanto gli fia più grato, et tucti deliberare in che forma possa esser più piacevole al Vostro degnissimo senato il schriver mio. 1  

La speranza fu però delusa; lo si deduce da un documento del Concilium Rogatorum di Ragusa che nel febbraio del 1475 revocò la decisione, presa alcuni giorni prima di un adeguato compenso per Gian Mario Filelfo, quale autore di un opusculum, da identificarsi presumibilmente con la Raguseida. Né lo sfortunato autore poteva più contare sulla protezione del fratello Senofonte, venuto a mancare alcuni anni prima (27 agosto 1470) e che in quella Repubblica aveva ricoperto il ruolo di cancelliere. 2 A poco era valso, del resto, il ricordo di Senofonte, tracciato da Gian Mario nella Praefatio elegiaca e preposta sia alla versione latina, sia al proemio della storia di Ragusa scritta in volgare:  

Non è pocha fatica voler chosa tanto vecchia rinovare quanto è la vostra origine, o Magnifici e splendidissimi Ragusei. Ma la singhular mia verso di voi aπectione sì per la summa virtù vostra, sì per la memoria del dilectissimo mio fratello Xenophonte a voi già tanto charo, mi fa parer la gravezza de l’opera tanto più facile e lieve, quanto più volentieri è da mio buono e amorevol proposito deliberarla. 3  

Parole, senza dubbio dettate solo in parte da un autentico aπetto per il fratello, dal dolore per la sua scomparsa prematura, ma che consentono all’autore di ricordare ai committenti ragusei gli stretti legami di sangue, che lo univano a colui che per anni aveva ricoperto una così alta carica nella loro città. Era un modo, anche ingenuo direi, per impegnare i ragusei a una gratitudine di buon servizio con lo scopo di persuaderli a mantenere gli impegni presi con Gian Mario e, presumibilmente, anche con Senofonte. Non è da escludere, infatti, che il ruolo di quest’ultimo, oltre a essere stato determinante nelle trattative tra i committenti della città e Gian Mario, si sia esteso al di là di una semplice azione mediatrice. Grazie alla possibilità di accesso agli archivi e quindi a fonti storiche utilissime per la Raguseida, Senofonte era in grado di cogliere giorno per giorno la realtà politica della città e comunicarla al fratello scrittore. Del resto, come sostiene il Božić, Senofonte venne nominato terzo cancelliere di Ragusa nel momento in cui la riforma del corpus legislativo impegnava al massimo la cancelleria della città. Ci sono buone probabilità per credere che le leggi descritte con ricchezza di dettagli nella Raguseida siano frutto di informazioni raccolte da Senofonte e trasmesse a Gian Mario. Questi prima di dedicarsi alla composizione dell’opera, aveva celebrato le gesta 1

  Nestore Pelicelli, Due opere inedite di G. M. Filelfo, cit., p. 53   Ferdinando Gabotto, Senofonte Filelfo a Ragusa, cit., pp. 132-136. 3   Nestore Pelicelli, Due opere inedite di G. M. Filelfo, cit., p. 52. 2

ragusa nella rappresentazione mitica dei filelfo

19 di Maometto II nell’Amyris: 1 un poemetto in latino, il cui titolo deriva dalla trascrizione latina della parola araba ‘amir’, alla quale risalgono, tramite il francese ‘ammiraglio’, e, direttamente, ‘emiro’; ovvero ‘poema dell’emiro’. L’opera era stata composta su commissione: Othman Lillo Ferducci di Ancona, figlio di un mercante che aveva avuto rapporti di amicizia col sovrano turco Murad II, pensò di ripristinare i suoi antichi rapporti con il figlio di Murad, Maometto II, che nel 1453 aveva conquistato la città di Costantinopoli, inviandogli in omaggio un poema elogiativo. È noto che uno degli avvenimenti più leggendari della storia universale è la caduta di Costantinopoli: città-simbolo, erede insieme dell’impero di Roma e della cultura greca, miti dominanti dell’epoca. La sua capitolazione generò sgomento e preoccupazioni in tutto il mondo occidentale e, principalmente, fra gli umanisti. Tra le voci accorate di condanna, si levano i versi dissonanti di Gian Mario Filelfo che elogiano l’audace conquistatore; un tentativo quasi di riconoscere e di assorbire la diversa cultura dell’invasore, accogliendola negli schemi ormai logori della civiltà greco-romana. Tenendo conto che anche dopo il trasferimento di Senofonte a Ragusa i rapporti tra i due fratelli continuarono a mantenersi saldi, non appare infondata l’ipotesi di richiesta di informazioni da parte di Gian Mario, il quale con molta probabilità utilizzò i materiali forniti dal fratello per comporre sia l’Amyris, sia la Raguseida. Del resto, come ricorda lo stesso Božić, anche il padre Francesco in passato aveva chiesto a Senofonte informazioni precise sul vero nome di Ragusa. 2 Sia pur frammentarie, queste notizie fanno supporre una certa regolarità di contatti tra i due fratelli. Nè si può dire che il canale rappresentato da Senofonte si sia necessariamente esaurito dopo la morte di questi, in quanto nelle sue funzioni di Cancelliere della Repubblica, egli era stato coadiuvato dal collega Bartolomeo Sfondrato che rimase in contatto con i Filelfo e comunicò a Francesco Filelfo la prematura morte del figlio. 3 Ad Ancona, dove Gian Mario si era trasferito nel 1471 e dove si sarebbe fermato fino al 1476, non mancavano fonti scritte e orali su Ragusa. Ad essa la città marchigiana era, infatti, legata da rapporti commerciali, oltre che da un lontano trattato di amicizia stipulato il 26 agosto 1199; mentre – come indica il Lume – l’esistenza «di un consolato raguseo ad Ancona, che presuppone, com’è naturale, lo svolgersi di rapporti di un qualche rilievo fra le due piazze, si protrae fino alla caduta della stessa repubblica dalmata ad opera dei francesi all’inizio del secolo xix». 4 Va ricordato che a Ragusa Senofonte aveva conosciuto il mercante anconetano Scottivoli, il quale in data 18 novembre 1464 5 era stato nominato console raguseo ad Ancona con decisione del Consilium Rogatorum. Questo suggestivo scenario fa della Raguseida un’espressione concreta della congerie di rapporti commerciali, politici e culturali, esistenti nel xv secolo tra le due sponde dell’Adriatico. Da qui scaturiscono gli interrogativi che l’articolata struttura della Raguseida ha fatto sorgere negli studiosi che si sono occupati dei diversi aspetti dell’opera, quali lo studio delle fonti storiche e mitiche, i canali d’informazione usati da Gian Mario Filelfo e i rapporti col mondo culturale greco-bizantino. 6  











1

  Gian Mario Filelfo, Amyris, cit.   Ivan Božić, Dubrovački kancellar ksenofon Filelfo, cit., p. 241.   Francisci Philelphi, Epistolarum, cit., π. 228v, 229r. 4   Lucio Lume, Le fonti documentarie marchigiane per lo studio dei rapporti fra le due coste adriatiche, in Momenti e problemi della storia delle due sponde adriatiche, Roma, 1973, p. 211. 5   Ivan Božić, Dubrovački kancellar Ksenofon Filelfo, cit., p. 233. 6   Riccardo Picchio, op. cit., pp. 43-52. Per altre notizie riguardanti la Raguseida e la descrizione del manoscritto (numero 243 del Fondo parmense della Bibliotec Palatina di Parma) si vedano anche: Federico Odorici, Atti e memorie delle R.R. Deputazioni di storia patria per le provincie modenesi e parmensi, 3, 1865, pp.433-434; Nestore Pelicelli, Due opere inedite di G. M. Filelfo..., cit., pp. 11-12; Paul Oskar Kristeller, Iter Italicum, 2 voll., London, Tip. E. J. Brile, 1963-1967. 2 3

pietro frassica

20

Ma quali sono i contenuti di quest’opera? La risposta va ricercata in quel genere scrittorio tipico della nuova età umanistica e ben diπerenziato dall’annalistica medievale, individuato da Vittorio Rossi. 1 Si tratta di opere che oscillano tra l’epica latina del xv secolo, essenzialmente storica, i poemi storici in volgare e le cronache rimate, le quali ebbero durante il xv secolo una maggiore diπusione e fortuna. La materia storica era spesso corroborata da intenti didascalici, mentre la forma metrica consueta era la terzina (e l’esametro per i poemi in latino). «Gli scrittori [come sagacemente ha sottolineato il Rossi] prendono la materia quale la trovano nelle loro fonti, siano queste racconti orali o cronache in prosa o la loro stessa memoria; […] là aggiungendo un ripieno la mettono in versi con pazienza invitta, con monotonia accasciante, sto per dire colla rassegnazione di un operaio che lavori a cottimo». 2 Maggiore è invece l’interesse che questi componimenti in latino e in volgare di Gian Mario Filelfo possono destare nel lettore moderno, in quanto si tratta di documenti della storiografia mitica del xv secolo, non privi di importanza per la conoscenza sia degli eventi politici, sia delle tradizioni, sia delle abitudini letterarie del tempo. Entro questo schema della letteratura celebrativa del xv secolo trova collocazione questa interpretazione mitica della storia di Ragusa. D’altra parte, per un lettore del Quattrocento le vicende storiche colorate di mitologia e tese a dispensare gloria perenne, dovevano apparire meno monotone di una pagina di prosa volgare o latina. Tra gli scopi di questi poemi encomiastici c’era quello di trarre fuori i personaggi dal flusso della realtà per elevarli a una dimensione epico-eroica, cui sia la mitologia sia la forma poetica avrebbero conferito dignità letteraria. Non c’è da stupirsi se accanto all’aspetto retorico troviamo, quello imitativo, di testi utilizzati come repertori di lingua, di calchi lessicali, frasi, emistichi o interi versi ripresi dall’Eneide per i poemi in latino e dalla Commedia per i versi in volgare. Nell’opera dedicata a Ragusa – come nella maggior parte dei suoi poemi – Gian Mario Filelfo, alla descrizione delle origini mitiche della città, fa seguire la narrazione di eventi storici che, valendosi di fonti accreditate, consentono all’autore di fornire cronologicamente di pagina in pagina indicazioni e dati (reali o fittizi). Nel tentativo di rassicurare i committenti ragusei sull’autenticità delle notizie, l’autore – nel Proemio della Storia di Ragusa – aπerma di avere attinto a fonti sicure, che rigorosamente cita. 3 Questi richiami svolgono una funzione più di rimando convenzionale e retorico all’autorità e all’autenticità di fonti illustri, che non di eπettiva documentazione storico-filologica. Il riferimento a ‘Erodoto cireneo’, per esempio, ricorre anche in altri poemi encomiastici di Gian Mario Filelfo ed è ripetuto più volte nella narrazione delle Chroniche de la città de Anchona, i cui tempi di composizione (1475-1476) coincidono in parte con quelli della Raguseida. Per proteggersi da eventuali critiche l’autore aggiunge:  





È vero che socto brevíssimo chompendio ho schripto quello: Il che loro più disteso hanno explichato: deschrivendo gli tempi, Il sito, [...] le mandate lettere, le commisse ambasciate, l’ordinate battaglie o terrestre o marittime, gli triumphi, et generalmente quello si chonviene al chompimento d’una perfecta Historia: La conchlusion del tucto. 4  

Appare evidente che il racconto storico delle origini e delle imprese memorabili è costruito con la tipica tecnica della storiografia umanistica, che tendeva a documentare poeticamente – entro i limiti di un topos concettuale molto di moda nell’Italia del xv secolo – la discendenza di città, stati e dinastie moderne da eroi del mondo classico. La verità, o meglio, la credibilità di simili genealogie non era misurata con criteri che oggi 1

2

3

4

  Vittorio Rossi, Il Quattrocento, Milano, Vallardi, 1933, p. 247.   Nestore Pelicelli, Due opere inedite di G. M. Filelfo, cit., vol. vi, iv, p. 52.

  Ibidem.   Ibidem.

ragusa nella rappresentazione mitica dei filelfo

21 chiameremmo scientifici, ma era una categoria retorica la cui e√cacia dipendeva dalla comune accettazione delle regole dell’eloquentia, intesa come arte del convincere per mezzo di nobili argomenti ed esempi. Nella narrazione di Gian Mario Filelfo i protagonisti delle vicende che hanno dato vita alla gloriosa ascesa di Ragusa sono personaggi mitologici come Medo, «nato di Medea e Egeo re degli Ateniesi», che sottomise gli Scythe, costringendo Triphone ad abbandonare le proprie terre e a cercare riparo al di là dei monti della Pannnoia «più propinqui al mare». Toccherà poi al virtuoso Rago – dopo aver sconfitto e sottomesso «Bosni et Pannoni et Dalmatini» – fondare «una degna et bellissima città dal suo nome chiamata Ragusa: la qual non troppo spaciosa con la parvità del luocho la grandezza di moltaltre per biltà, ricchezza, et valorosa chonstantia superasse». 1 Da parte sua, Rago – prima di morire – nomina come suo successore il popolo raguseo, eliminando la possibilità di una successione dinastica, e optando per il sistema repubblicano:  

constituì un senato dhomeni gienerosi: gli quali dovessono a lui succiedere: et a loro succiessori il ghoverno del loro imperio dedichare. Et chosì non molto dapoi morendo Rago chultivatore di perpetua chastità senza figliuoli: successe quel senato: di cui le vestigie, costumi, et bon ghoverno fino al dì dhogi sobserva. 2  

Sotto la guida del senato, la città raggiunge la sua massima estensione, aumenta la propria potenza marittima con la costruzione di un arsenale, di mura più sicure, e si abbellisce di palazzi e di chiese. Come nelle Chroniche de la città de Anchona, il Filelfo oπre alcune importanti considerazioni sullo sviluppo edilizio della città, in rapporto al glorioso passato, testimoniato, appunto, dalle imponenti opere di architettura. Benché contrassegnata dai di√cili rapporti con le popolazioni confinanti, invidiose della «felicie prosperità dei Ragusei», l’ascesa della città continuerà attraverso i secoli, cercando di non lasciarsi intimidire dagli attacchi dei nemici. Alle loro ostilità Ragusa resisterà valorosamente, uscendone sempre vittoriosa. In quanto governata da uomini giusti, la città è assistita dagli dei (Giove, Mercurio); ma è soprattutto grazie a Minerva, nel cui tempio – fatto costruire da Rago – si prega devotamente, che Ragusa potrà conquistare e mantenere una pace duratura. La celebrazione degli eventi e delle glorie di Ragusa, veri o fantastici, non impedisce al Filelfo di inserire nel corso della narrazione appelli a una alta moralità civile, politica e religiosa, sostenuti da precise descrizioni delle leggi atte a regolare la vita dei cittadini. È questa certamente una delle parti piú interessanti della sua opera, in cui il doctor utriusque juris Gian Mario Filelfo per comporre la sua descrizione dell’antico sistema giuridico di Ragusa ha fatto ricorso alla sua esperienza di avvocato, maturata a Torino intorno al 1455. A questo riguardo, va ricordato che il sistema giuridico istituito per regolare la vita dei cittadini di Ragusa è molto simile sia a quello descritto nelle Chroniche de la città de Anchona, sia a quello di Firenze nella Lorenziade e sia a quello di Bologna nella Felsineide: l’adultero sarà esiliato fino alla vecchiaia; mentre l’avaro, verrà legato nella pubblica piazza e dovrà restituire alla vittima il maltolto. Altrettanto severe sono le pene inflitte ai profanatori dei tribunali. 3 I pigri e gli sfaccendati saranno bastonati e espulsi dalla città; ancor più umiliante è il destino riservato agli ubriaconi:  

Ma chi del vino si dilectava: in exlio si mandasse: et se per diletto si soleva inebriare fusse schorreggiato in pubblicho et schacciato de la pátria. 4  

1

2

3

4

  Ivi, p. 55.   Ivi, p. 154.

  Ibidem.   Ivi, p. 57.

22

pietro frassica

Il canto e la danza saranno proibiti, in quanto fomentano la lascívia: Quegli che con chanti et suoni eπeminati et lascivi solevano gli loro et gli altri ingiegni et intellecti emaschular et fare a la libidine esser proni e dedichati: delibero la legie dover esser da la città ben ordinata rubegli: accio che come peste chontagiosa non potessono le semplici et pure menti de buoni choinquinare et per lusinghe trar al peggio. 1  

I ladri saranno gettati in un fiume. Chi froderà – oltre a restituire la refurtiva – alla vittima dovrà rendere il prezzo della merce; i ricchi viziosi saranno espulsi dal palazzo di giustizia, se faranno abuso del loro potere; i sodomiti saranno uccisi. Chi cercherà di acquistarsi potere per mezzo di sedizioni sarà gettato in mare o in un fiume. Queste leggi furono pubblicamente a√sse ed erano tenuti a rispettarle sia i residenti, sia i forestieri anche solo di passaggio. Numerosi personaggi illustri, attratti dalle bellezze della città e dalla generosità degli abitanti, si trasferiscono a Ragusa per fissarvi la loro dimora, contribuendo così alla sua potenza e al suo prestigio. Tutto Il mondo onora la città. E perfino Giove le oπre la propria protezione, ordinando a tutti i paesi confinanti di sottostare a Ragusa. Tuttavia, la gelosia e le incessanti ostilità delle popolazioni vicine, che tentano di ribellarsi, a un certo punto stanno per sopraπare la città. Durante una solenne messa viene rivolta a Dio un’accorata preghiera, in cui si chiede di potere allontanare i nemici senza però ucciderli. Questo – insieme con alcuni riferimenti ai rapporti di Ragusa con Venezia, descritti peraltro con diplomatica moderazione, – è uno degli ultimi avvenimenti della Raguseida. Anche se il valore artistico di quest’opera non è tale da assicurarle un posto d’onore nella storia delle lettere del xv secolo, la Raguseida oπre numerosi spunti di carattere filologico, storico e umano. L’autore voleva sí lodare Ragusa, ma non degradare la propria arte. Voleva esser pagato ma non invilire la materia trattata. Del resto, la cura strutturale, la divisione accurata delle parti, tutto conferma un’ambizione d’arte, anche se poi nella pratica troppa fu la fretta nel compilare la sua opera. Le sue ‘tirate morali’, sparse nella Raguseida – anche se espressioni di un patrimonio culturale comune all’uomo del ’400 – ci dicono molto della personalità di questo scrittore travolto dalla sua esistenza di picaro dell’umanesimo che, pur dibattendosi in una agonizzante carriera, sente con forza il richiamo di una vita morale e della giustizia divina. In questo senso, anche la Raguseida rappresenta uno dei tanti anelli di congiunzione tra mondo classico e comprensione moderna del rapporto col mito, tra divinità pagane e Cristianesimo, che qui si congiungono in una sorta di sincretismo, creando un’osmosi culturale tra la classicità e la nuova fede, secondo un processo di risemantizzazione del lessico e della simbologia. Così l’armonia civile di Ragusa, descritta nell’opera, si trasmette dunque nell’armonia delle religioni che in essa convivono. Un auspicio non privo di analogie col nostro secolo. 1

  Ibidem.

GIOVAN BATTISTA BIONDI ROMANZIERE Maria Pagliara

T

ommaso Stigliani, in una celebre lettera del 1636, nella quale esponeva le sue riflessioni sul modernismo, riconosce che quella che aveva ritenuto una novità stilistica e culturale del Marino al tempo delle violente polemiche contro l’Adone, trova corrispondenza anche nella prosa, specie in quella narrativa.

Che dobbiamo noi fare in così schivo tempo e in così delicata età e bizzarra il cui gusto si è tanto incallito e tanto ottuso che ormai non sente più nulla? […] perché me par di vedere che questa soverchia delicatezza del secolo si vada a poco a poco convertendo in totale stupidezza e pazzia, mentre egli insieme col non gradir gli scritti perfetti gradisce gli affettati e gl’idioteschi, cotanto in cui prevale il cieco desiderio che tien di novità. Io intendo non sol di quel poetare ridicolo che ‘l Marino chiama ‘stile metaforuto’, […] e nel quale egli ha avuto molti moderni versificatori che con notabile piggioramento l’hanno immitato, ma ancora di quel prosare in romanzi con locuzione monca e storpiata, che ultimamente s’è introdotto e messo in uso da alcuni giovani e cervellini e bisbetici 1

Al fondatore del marinismo lo Stigliani accosta Giovan Francesco Biondi, il maestro riconosciuto del romanzo eroico cavalleresco degli anni Trenta del Seicento, il massimo promotore delle nuove tecniche stilistiche: «Del qual modo di prosa è stato così origine e capo l’autore del Coralbo e della Donzella come del detto poetare fu il Marino», distanziando i due iniziatori ancorch’io non nieghi ch’essi due fondatori sarebbero per sé stati tollerabili in qualche parte se i succedenti seguaci triviali non avessero poi troppo bruttamente avvilita l’una via e l’altra con deteriorarne la frase e con guastarne la dicitura 2 dagli altri romanzieri, cioè coloro che seguirono un concettismo più spettacolare e aspro, i quali, a suo parere han potuto far dismettere la lettura de’ migliori libri vecchi di cavalleria, valendo, verbigrazia, più una mezza carta d’Amadis de Gaula che non vagliano tutti insieme que’ loro sciagurati scartabelloni. 3

A Giovan Francesco Biondi, dunque, veniva riconosciuta dall’antimodernista Stigliani quella primogenitura nella storia del romanzo italiano che trovò corrispondenza nel giudizio e nella stima dei contemporanei, anche in coloro che, del nuovo genere, disprezzavano la «corruttela di gusto». «Avventuriero della penna», 4 come molti in quei primi decenni Seicento attraversato da gravi rivolgimenti, il Biondi viaggiò molto stabilendo proficui contatti con realtà europee che incisero sulla sua visione del mondo condizionandone il pensiero, come si ricava da una sua opera storica: l’Istoria delle guerre civili d’Inghilterra tra le due guerre di Lancaster e di Iorc, pubblicata a Venezia, Pinelli, nel 16371647 e tradotta poi in inglese da Enrico Carey: «Non reputa la prudenza civile savio chi s’applica ai particolari della sua patria sola, ma chi s’allarga alla conoscenza universale di tutte le nazioni», 5 1   Giovan Battista Marino et alii, Epistolario, ii, (lettera al signor Rodrigo…Risposta prima), a cura di Angelo Borzelli, Fausto Nicolini, Bari, Laterza, 1911-1912, pp. 344-346. 2 3   Ibidem.   Ibidem. 4  Cfr. Luigi Fassò, Avventurieri della penna del Seicento, Firenze, Le Monnier, 1924. 5   Cito dalla ristampa: «Historia delle guerre civili d’Inghilterra tra le due case di Lancaster e Jorc. Si descrive in Riccardo II l’origine di esse, il progresso nelle vite dei Re susseguenti, cioè di Arrigo IV e V e VI, d’Odoardo IV e V, di Riccardo II e di Arrigo VII, nel quale finirono, del cavalier Gio. Francesco Biondi, gentiluomo della Camera privata in Bologna, 1647 per Carlo Zenero», p. 25.

24

maria pagliara

testimonianza di un’acuta attenzione agli avvenimenti e agli uomini e anche capacità di giudicare la realtà secondo criteri pratici se, com’egli ancora afferma, i popoli «non deono gloriarsi per quel che furono, ma per quello che di presente sono», o che «il pregio della mansuetudine in uno o in pochi non essendo incompatibile con la fortezza, ma in una nazione intera biasimevole altrettanto quanto dannoso: non giudicandosene le virtù e i vizi per termini morali o teologici ma gl’effetti buoni, o mali che gliene possono addivenire. 1

Osservazioni, queste, che ci dicono della personalità del Biondi e ne mettono in evidenza la spregiudicatezza e l’analisi attenta alle azioni degli uomini e degli Stati. Originario di Lesina, in Dalmazia, Biondi (1572-1644) veniva da una famiglia della piccola nobiltà isolana, studiò a Padova dove si laureò in diritto e intraprese, come suddito della Serenissima, la carriera diplomatica. Fu a Parigi nel 1606 come segretario privato dell’ambasciatore veneziano negli anni in cui la Serenissima, colpita dall’interdetto, aveva bisogno di assicurarsi l’appoggio francese. È di questo periodo la sua adesione al calvinismo che cercò di diffondere a Venezia, esponendosi a seri rischi attraverso la diffusione di libri ‘proibiti’, in cui si sosteneva la necessità del contenimento delle pretese ecclesiastiche da parte dello stato. Nel 1609 fu a Londra per conto dell’ambasciatore inglese Henry Wotton con lo scopo di sottoporre a Giacomo I, presso il quale egli cerca una prima collocazione, la proposta formulata da Paolo Sarpi – con cui ebbe molte frequentazioni – della costituzione di una lega antipapale e antispagnola che unisse i paesi bassi protestanti, ma anche stati cattolici insofferenti della preponderanza della Santa sede e degli Asburgo. E in questi orientamenti di dottrina e di condotta si può cogliere la rispondenza della scelta religiosa con quella politica. In seguito ebbe ancora diversi incarichi nel Delfinato, in Provenza e fu anche a Torino accolto da Carlo Emanuele I; infine ancora a Londra con l’incarico di agente del duca di Savoia, «servo – come egli stesso scrisse in una lettera – contro l’Evangelio a due padroni. […] Ad un re ed a un duca». Cavaliere e poi gentiluomo della camera privata di Giacomo I (1622), sposò la sorella del protomedico del re e grazie a questa nuova posizione potè dedicarsi finalmente con serenità ai suoi ozi letterari. Nel 1640, quando le tensioni tra Carlo I e il Parlamento inglese divennero sempre più preoccupanti, a causa della sua posizione filo monarchica, si trasferì in Svizzera dove morì nel 1644. Da queste note biografiche si può già scorgere l’inquieto percorso di diplomatico e di agente segreto, un percorso faticoso, nel quale, tuttavia, l’«avventuroso dalmata» come lo definì Brusoni, seppe districarsi e trarne profitto riuscendo a ottenere una tranquilla esistenza che lo stimolò a dedicarsi alla stesura di opere storiche e letterarie. I rapporti con le realtà europee certamente lasciarono un segno sulla sua visione del mondo e dunque sui suoi comportamenti, ma ancora più decisiva fu la sua appartenenza all’Accademia degli Incogniti, la cui storia si interseca con quella della Repubblica di Venezia. Biondi, come lo stesso Croce 2 riconoscerà, fu il romanziere più ammirato e influente nella prima metà del Seicento, contagiato dal clima innovatore avviato proprio gli Incogniti, per opera dei quali si sviluppò una letteratura ‘indisponente’ in cui ebbero un posto importante l’eterodossia e il libertinismo. Nell’Accademia la Venezia minore, più dissoluta e frivola ebbe nel mecenate patrizio Giovan Francesco Loredano il licenzioso 1

  Ivi, p. 40.   Benedetto Croce, Nuovi saggi sulla Letteratura Italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1949, p. 34. Il critico riferiva delle numerose ricerche che gli studiosi contemporanei condussero per scoprire quali personaggi reali si celassero nei romanzi biondiani dietro quelli fittizi e sottolineava, pur ritenendo inutile cercare una vena poetica, la diπerenza in meglio dell’opera del dalmata (che «primeggiò nel giudizio e nella stima dei contemporanei») rispetto al Calloandro fedele, il più noto dei romanzi secenteschi. 2

giovan battista biondi romanziere

25 dittatore del bel mondo intellettuale di quegli anni intorno alla metà del secolo. 1 Il clima spirituale e culturale che qui si respirava aveva in sé qualcosa di difficile convivenza con i dettami della Chiesa e dei suoi accoliti, al di là dei modelli letterari cui si ispiravano: Boccaccio, Aretino – tra gli altri – che costituivano già l’orientamento di una precisa identità spirituale, avevano una stessa provenienza che li collegava alla filosofia eterodossa di stampo aristotelico, quella di Cesare Cremonini, da cui discendeva quel libertinismo miscredente e quella intemperanza immoralistica che animarono la loro opera. Il dalmata cosmopolita Biondi, personaggio di spicco di quel clima culturale, riflette nei suoi romanzi l’atteggiamento dell’homo novus coltivato nell’area spirituale dell’Accademia. Il «buontempone avvezzo di spassarsela in allegre brigate di dame e gentiluomini alla corte d’Inghilterra», secondo Arnolfo Bacotich, 2 e il dalmata che non dimentica mai la sua origine pur dichiarando di appartenere a tutto il mondo (Qui patriam habuit non tam Liesenam ubi natus, qua/m/ orbem ubi notus), come si legge sulla sua lapide, non tralasciò di ricordare la sua discendenza da famiglia regale dalmata, considerata, tuttavia, da molti una delle tante mistificazioni secentesche, 3 alle quali, spesso, finivano di credere gli stessi loro inventori. Autore di una trilogia, secondo il modello del romanzo ciclico, che comprende L’Eromena, (1624), (il romanzo con cui si avvia il nuovo genere, che ebbe non solo largo seguito tra i suoi contemporanei, ma anche traduzioni in inglese, francese e tedesco), La donzella desterrada (1632) e il Coralbo (1632), il Biondi volle dare dignità letteraria e autonomia al genere che allora compiva i suoi primi passi proprio con L’Eromena, distinguendolo dalle forme tradizionali, la novella e il poema eroico, e improntandolo agli interessi ideologici e ai gusti stilistici che il clima estetico-culturale del tempo richiedevano. L’Italia non aveva una Corte come punto di riferimento ben coeso, a differenza della Francia, dove, ad esempio, L’Astrée del D’Urfé, divenne, un codice di vita dell’aristocrazia intorno alla corte in virtù di quella situazione sociale. In Italia, dove la società era più articolata, la Corte veniva sostituita dalle Università e dalle Accademie, che plasmavano, con caratteristiche diverse, coloro che vi entravano in contatto. E l’Accademia degli Incogniti, con tutto quello che essa significò nella realtà veneziana, trasmise al Biondi la spregiudicatezza dei costumi di quel suo particolare ambiente e i modelli di eroi che riempivano la loro esistenza prima che la loro opera letteraria, condizionandolo nella scelta del genere narrativo che fu quello del filone eroico galante, cioè quello più disimpegnato del secolo, dove l’azione non si segnalava tanto per una straordinaria virtù eroica o cavalleresca, come nel Calloandro infedele, ma si inseriva nella situazione sociale e negli usi e costumi ben individuati attorno ai quali si snodava la vicenda amorosa e politica. Nell’Eromena, l’allegoria politica era così evidente tra i contemporanei, come scrive Croce, che il Griphius nel suo Apparatus historicus 4 pone il romanzo tra le fonti storiche e vi ravvisa le traversie di FedericoV, elettore palatino e di Elisabetta sua moglie, figlia di Giacomo I di Inghilterra. Così come, alla stessa maniera, nella Dianea del Loredano, era evidente il riferimento al dramma della guerra dei trent’anni, e sotto l’allegoria si potevano scorgere i due grandi condottieri cui andava l’ammirazione degli Incogniti: Wallenstain e Gustavo Adolfo, il condottiero protestante. 1   Giorgio Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel seicento italiano, Firenze, La Nuova Italia, 1983, p. 151 sgg. 2   Arnolfo Bacotich, Giovanni Francesco Biondi da Lesina (1572-1644), «Archivio storico per la Dalmazia», xix, 111, 1935, pp. 106-134. 3   Mate Zoric, Due romanzieri veneti del seicento e il mondo slavo, in Culture Regionali e Letteratura Nazionale, Atti del vii Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana, a cura dell’aislli, Bari, 31 marzo-4 aprile 1970, Bari, Adriatica Editrice, 1970, p. 428. 4   Christiani Griphii, apparatus sive dissertatio isagogica de scriptoribus historiarum saeculi xvii illustrantibus, Lipsiae, 1710, p. 166.

26

maria pagliara

Riferire la trama dei romanzi biondiani è impresa ardua a causa delle molte divagazioni e dei numerosissimi inserti di varia natura che complicano la vicenda e l’appesantiscono. Così come non è semplice parlare dei luoghi in cui si svolgono le azioni, dove si muovono e agiscono re, guerrieri, cavalieri, principesse insieme con altri personaggi; sono luoghi che fanno riferimento generalmente a una realtà geografica circoscritta alle isole del Mediterraneo, con qualche punta verso l’America e l’Oriente e verso la Scandinavia e l’Islanda, terre che già avevano suscitato la curiosità nell’opera del Tasso. Luoghi in cui domina la scenografia grandiosa e gli interni riproducono un mondo sfarzoso e favoloso sfumato nei ghirigori di un illimitato e confuso confine, in una sequenza di viaggi quasi ossessiva e di movimento continuo dei personaggi, tanto da far dire al Getto che proprio dalla figurazione di un viaggio è rappresentata la struttura narrativa. 1 Più utile, invece, è comprendere, dato il posto di caposcuola che fu riconosciuto al Biondi, quale finalità venga assegnata dal dalmata al nuovo genere letterario. Manca, come sappiamo, una teoria generale del romanzo nel Seicento, ma ogni autore ha nelle varie introduzioni insistito sugli obiettivi per i quali si accinge a comporre l’opera, come leggiamo anche in quella del Biondi. Il romanzo soggetto da giovani è nimico della gravità. E se non è, ricerca almeno d’esserne più tosto ornato, che vestito. Quale sia il mio, ch’il legge ne farà giudizio. […] Né avendo egli delicie di fiori, mi dò a credere ch’averà per l’istessa giovanezza, solidità di cibi: e se leggiermente aromatizzati, meno infiammanti, e di migliore sostanza. […] Le qualità di che gli pretendo sono semi di pietà separati dalla buccia dell’ignoranze popolari: ammaestramenti da promuovere gli animi ad azioni nobili e generose, ed una corrente non affettata eloquenza. Avrebbero romanzi tali da essere al pari di qual si voglia moral libro, avidamente ricercati: perché gl’ingegni, non ugualmente prodotti a studi, o spirituali, o gravi se per le vie d’un onesto piacere, vengano dagli umori del senso all’amore delle virtù tratti; sarà quell’unica desiderabile fraude, ch’al pari di qual si voglia semplicità, de’ meritar seggio, tra la purità e l’innocenza. S’indorano le pillole. (Coralbo, dedicatoria). 2

Il nuovo genere narrativo esponeva, in tal modo, con le parole di Biondi, i propri intenti e palesava il proprio allineamento alla spiritualità e al gusto contemporanei, alle élites nobiliari a cui veniva indirizzato, aspirando ad essere «sulla scia del romanzo cavalleresco, una sorta di iniziazione alla vita eroica e nello stesso tempo istituzione delle virtù sociali e mondane, all’incrocio fra concreta esperienza storica, riflessione morale ed esercizio letterario», come afferma Albert Mancini. 3 E tale finalità determina i temi di questa narrativa che nella trilogia del Biondi assumono spessore e carattere di guida: quelli dell’amore, della guerra e della cavalleria, senza che affiori, comunque, alcuna inconciliabilità o contraddizione tra piacere e moralità, divertimento e istruzione, proprio com’era nello spirito degli Incogniti, oltre che nel carattere del secolo; a dimostrazione che i tempi erano cambiati e che l’amore, la guerra, la cavalleria non rispondevano più agli ideali dei precedenti poemi. Basti pensare alla vita stessa di alcuni degli incogniti: al Rocco, al Pallavicino, al Brusoni, alla loro concezione politica della religione e alla loro fede nella sovversione dei valori morali del cristianesimo specie sul terreno dell’etica sessuale. Per questo nei romanzi del Biondi, non può stupire la compresenza del gesto eroico e del convenzionale valore della cavalleria, ormai svuotati della loro essenza, e le licenziose avventure dei personaggi, delle trasgressioni o degli intrighi sentimentali e politici degli eroi nelle immaginarie corti, in quanto riflettono tratti peculiari e valori della realtà 1  Cfr. Giovanni Getto, Il romanzo veneto nell’età barocca, in Idem, Il Barocco letterario in Italia, premessa di Marziano Guglielminetti, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 246 sgg. 2   Giovan Francesco Biondi, Dedicatoria, Il Coralbo del cavalier Gio: Francesco Biondi gentiluomo della camera privata della serenissima maestà della Gran Bretagna. Segue Donzella desterrada. Con licenza dei superiori e privilegi. In Venetia mdcxxii. Appresso Gio. Pietro Pinelli Stampatore Ducale. 3   Albert N. Mancini, Romanzi e romanzieri del Seicento, Napoli, Nuova Società Editrice Napoletana, 1981, p. 114.

giovan battista biondi romanziere

27 etico-sociale di cui questa narrativa rappresenta la celebrazione con allusioni ai costumi e a reali personaggi, sull’esempio dell’Argenide del Barclay. Proprio nelle trasgressioni, specie quelle relative alle perversioni amorose, che Jean-Michel Gardair legge l’esplosione, operata dal Biondi, delle strutture romanzesche dei poemi cavallereschi in particolare quando quelle sono associate alle istituzioni politiche. Si leggerebbe in quelle pagine che una trasgressione può, attraverso una crisi politica, divenire istituzione e le perversioni amorose condurrebbero a rivoluzioni, a rimaneggiamenti delle istituzioni. Attraverso le strutture romanzesche portate alle estreme conseguenze il Biondi esprimerebbe il senso di una decadenza che conduce dall’eccellenza dei principi alla ‘licenziosità popolare’. Secondo il critico, le istituzioni politiche esplicitamente associate a trasgressioni erotiche, sostituiscono man mano altre strutture che in un certo senso legalizzano quelle. Ad esempio, la guerra non è più il gioco eroico di tanti poemi, ma scenario dell’intrigo per cui il valore di un principe, senza il sostegno del potere, è un concetto vano e la cavalleria si sposta nel suo opposto: la bestialità. 1 E di scene truci alla maniera tacitiana, di delitti, di matricidi, di patricidi, di infanticidi, e soprattutto di incesti, i romanzi di Biondi sono pieni, solo che tutto questo non nasce da una realtà vergine, né il romanziere si è posto il problema della decadenza di uno stato a causa dei rimaneggiamenti delle istituzioni. Basta leggere le biografie e le opere di molti accademici degli Incogniti per capire come tante situazioni, reali e fittizie, assumano il gusto del licenzioso, della depravazione e del cinismo morale, anche se poi tutto viene giustificato moralisticamente dall’utilità dell’ammaestramento mediante l’esposizione del vizio. «Sotto la corteccia di favola [si spiegano] vere storie di persone viventi» leggiamo nell’avvertenza ai lettori nell’Eromena del Biondi che nella disposizione della macchina romanzesca, cioè dell’intreccio, degli espedienti e delle digressioni, nella delineazione dei personaggi, nei travestimenti, nel movimento del racconto sempre sospeso e continuamente ripreso, nelle inverisimiglianze dell’intreccio, nelle sperimentazioni ardite dello stile, che pure non raggiunge mai, come sostiene lo stesso Stigliani, le costruzioni esasperate del barocco, nelle tecniche stilistiche, nel finale aperto da cui parte il successivo romanzo, si scopre un’evidente intenzione di letterarietà da cui scaturisce la tendenza all’uso di un repertorio metaforico e retorico, alla funzionalità squisitamente edonistica, di svago dilettoso secondo lo spirito del capo indiscusso, il Loredano, che riteneva non dovesse il ‘genio’ essere oppresso ma sollevato nel dedicarsi alla narrativa di avventura e d’amore. 2 Il romanzo, in tal modo, trova il piacere di esternare quel gusto del divertimento cinico così consueto nel gruppo dei libertini e i personaggi sono lontani da comportamenti logici o morali ; alla stessa maniera le avventure, nelle quali essi si trovano ad agire, sono pretesti narrativi utili al proseguimento della narrazione. «Questo genere di componimento che romanzo è chiamato dai moderni, la più difficile (quando sia fatto a disegno d’arte) e in conseguenza la più stupenda, e gloriosa macchina che fabbrichi l’ingegno», 3 secondo Giovan Battista Manzini, questo microcosmo nel quale trovano posto le nozioni più disparate e in cui confluiscono materiali di ogni genere: brani saggistici, narrativi, racconto nel racconto, parti poetiche e prosastiche, commenti dell’autore sotto forma di giudizi o di sentenze, fondo moralistico delle considerazioni, accenti comici e tragici, fatti di cronaca e di storia e invenzioni, travestimenti fisici ma anche morali (si pensi alla pratica della simulazione e della dissimulazione così in voga nel secolo), riflessioni sulla fortuna  

1

  Jean-Michel Gardair, I romanzi di Gio. Francesco Biondi, «Paragone», xix, 218/38, aprile 1968.   Albert N. Mancini, op. cit., p. 15. 3   Giovan Battista Manzini, Avvertenza al lettore, in Il Cretideo, Venetia, Giacomo Sarzina, 1637. Dello stesso autore Cfr. anche l’avvertenza al romanzo La vita di San Eustachio Martire, Venetia, 1631. 2

maria pagliara 28 di machiavelliana memoria, rispetto per la verosimiglianza proclamata nelle introduzioni, tutto questo è materia della trilogia del Biondi, il quale, tuttavia, grazie a una scrittura rapida e spigliata, rende la lettura delle sue pagine meno faticosa rispetto a quella di molti suoi contemporanei; un frequente uso di notazioni psicologiche, alcune delicatezze nella descrizione di certi incontri fra amanti, e soprattutto il soffermarsi sull’ideale amoroso di tante principesse protagoniste della trilogia, rivela la modernità del sentire del Biondi che non è dovuta solo alla forma cui ricorre e che fa di lui il primo rappresentante di un nuovo modo di novellare in Italia. «Le donne non amano per amare ma per essere servite. Non hanno per iscopo la possessione delle persone (come falsamente credete) ma dei voleri» (Coralbo). La libertà, l’emancipazione, la malizia e l’abbandono delle conversazioni femminili, animano, nelle pagine del Biondi, il mondo delle donne, dandogli vivacità, tingendo di colore inconsueto la natura d’amore e anche il tradizionale senso di sudditanza nel rapporto tra amante e amata; spesso queste spregiudicate eroine sono avanti negli anni rispetto al giovane amante cui riservano con entusiasmo i primi rudimenti dell’amore. 1 Tutto questo trova in Biondi un appassionato cantore e un conoscitore attento. Un’identica passione il nostro romanziere dimostra verso la sua patria nativa il cui ricordo dovette accompagnarlo lungo i percorsi della sua inquieta vita e trovò nostalgica rievocazione o affettuosa raffigurazione nella descrizione di Lesina e del suo mare in un episodio della Donzella desterrada, ove la scrittura sembra adagiarsi assecondando il piacere del ricordo, e gli aggettivi, numerosi, evocando quei luoghi lontani, suscitano quiete e languore, raggiungendo il climax quando, accumulandosi senza soluzione di continuità, riproducono il desiderio dell’autore di rappresentare le qualità del popolo dalmata: «i Dalmati […] uomini liberi d’animo, valorosi d’opere, intrepidi di cuore, grati nel parlare, larghi di mano, difensori del giusto, providi nel consigliare, accorti nel discorrere, costanti nelle avversità, piacevoli nelle prosperità […] non cedono né per gloria di guerra, né per la possessione di molte provincie habitate da loro medesimi, à veruna altra natione». 2 È l’orgoglioso tributo che un figlio lontano nel tempo e nello spazio sente di dover dare alla sua patria nativa, affidandone il ricordo alle pagine della sua opera. 1   Giorgio Spini (Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento Italiano, Nuova Edizione, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 48-49) ritiene che il mutato rapporto tra uomo e donna nell’epoca in questione, sia ascrivibile al «distacco del costume e della mentalità del seicento italiano dall’etica cristiana», da cui scaturisce che «la donna italiana del seicento è senza eccezione sensibile, lo strumento passivo del calcolo o del capriccio maschile». Se nei romanzi del Biondi alcuni esempi confermano quanto sostenuto dallo studioso, nella maggior parte dei casi il comportamento delle eroine sembra contraddire tale giudizio. 2   Bellisario Malaspalli, Della origine et successi degli slavi. Oratione di Vincenzo Pribevo Dalmatino da Lesena già recitata da lui nella medesima città et loro tradotta dalla lingua latina nell’italiana, Tipografia Veneta Aldina, 1595, p. 10.

LETTERE DI PIERO PILLEPICH A MIGUEL DE UNAMUNO: UN RAPPORTO DI LAVORO Vicente González Martín

U

namuno comincia ad essere tradotto in italiano già dal 1901 dal catanese Arturo Frontini e in seguito da altri traduttori, come Gilberto Beccari, Mario Puccini, Giovanni Papini, Carlo Candida e Piero Pillepich. Non è scopo di questa relazione studiare la figura del fiumano Piero Pillepich, sia perché probabilmente è o può essere conosciuto meglio da persone che vivono nell’ambito geografico del nostro personaggio e ne frequentano la cultura, sia perché l’obiettivo principale del mio studio è analizzare la corrispondenza epistolare che Pillepich ebbe con Unamuno. Ciò nonostante non possiamo completamente tralasciare alcuni dati del suo profilo biografico e professionale che lo collocano nel suo tempo e ci permettono di capire le ragioni del suo contatto con uno scrittore lontano nello spazio, ma di grande rilevanza in Europa e al di fuori di essa, com’era Miguel de Unamuno. Piero Pillepich fu un critico letterario, traduttore e soprattutto bibliotecario, nato a Fiume il 19 giugno 1889 e morto nella stessa città il 23 settembre 1932. Dopo aver terminato i suoi studi secondari nel Liceo, ottenne un posto presso la Biblioteca Civica di Fiume, dove più tardi ebbe l’incarico di Direttore. Nel 1915 si trasferì a Roma e partecipò attivamente ai virulenti dibattiti sull’annessione di Fiume all’Italia sostenendo con forza l’autonomia della città. Su questa linea riuscì a essere eletto deputato del parlamento popolare provvisorio (Assemblea Costituente) come membro di una lista indipendente. Nel 1922 rinunciò a qualsiasi attività politica manifestando apertamente la sua opposizione al fascismo. Presso la Fondazione ‘Il Vittoriale degli Italiani’, nel fondo Archivio generale fiumano, sezione I: Governo di Fiume, sottosezione: Assemblea costituente di Fiume, si conservano due lettere di Piero Pillepich del 25 marzo 1922. Una, ad Attilio Depoli, Vicepresidente dell’Assemblea costituente, l’altra alla Presidenza dell’Assemblea costituente, con l’intestazione «presentando le dimissioni da membro dell’Assemblea». In questa epoca, tra il 1921 e il 1924, svolge un’intensa attività culturale, collaborando con la rivista «La Fiumanella», di tendenza autonomista, e cerca di fondare una rivista intitolata «Rinnovamento». 1 L’autrice precisa che Pillepich sarà «poi esperto riconosciuto sul piano internazionale delle letterature in lingua spagnola». La sua attività di poeta, iniziata in gioventù, deve essere stata apprezzata, a giudicare da alcune valutazioni su di lui e dal fatto che alcuni critici si riferiscono a lui come ‘il poeta’, anche se pubblicò solo una parte della sua produzione lirica. Nel 1966 la casa editrice Pacini Mariotti, di Pisa, pubblicò un libro di poesie di Pillepich, a cura di Ariele Pillepich, con il titolo di Risurrezione (liriche). Fu autore di libri e saggi di tematica varia, tra i quali potremmo citare un’opera, che  

1   Ilona Fried, Ponte e/o frontiera? La cultura ungherese nelle riviste fiumane tra le due guerre, «Nuova Corvina», 12, 2000, p. 62.

vicente gonzález martín 30 ebbe un’importante diπusione, dal titolo Il libero comune di Fiume (1919); Biblioteche d’ItaliaLa Biblioteca Archeologica Generale delle Antichità e Belle Arti in Roma (1919). Per quanto riguarda la sua relazione con la Spagna, sappiamo che era un grande conoscitore della letteratura spagnola e ispano-americana, come risulta evidente dai suoi numerosi saggi critici apparsi in importanti riviste letterarie di ambito ispanico e dalle sue traduzioni in italiano di opere letterarie in lingua spagnola. A partire dal 1927 Piero Pillepich assume l’incarico di realizzare una serie di rassegne di argomento letterario e politico per la rivista «Colombo» di Roma. Tra il 1928 e il 1930 pubblicò vari saggi su temi relativi alle letterature di lingua spagnola, come Poetesse dell’America latina: Juana de Ibarbourou y María Alicia Domínguez; Un grande poeta messicano: Enrique González Martínez; Un umorista di genio: Ramón Gómez de la Serna; Pío Baroja; Ramón del Valle-Inclán; L’ultimo liberatore d’America: José Martí (1929), che si apre con questa dedica: «A Miguel de Unamuno questo profilo di uno spirito che tanto gli somiglia Piero Pillepich. Fiume, gen. ’30». Piero Pillepich stabilì inoltre un contatto epistolare con scrittori e critici spagnoli, come Julio Cejador y Frauca. 1 In una nota dal titolo La literatura española en el extranjero il giornale «ABC», di Madrid, pubblicava il 29 marzo 1927 le seguenti informazioni su Piero Pillepich:  

Un dotto ispanofilo italiano, Piero Pillepich, bibliotecario del Comune di Fiume, ci chiedeva poco tempo fa se in Spagna ci fosse un Centro o una Società che, come avviene in Francia con l’Alliance Française, si incarichi di procurare opere spagnole ai professori e agli scrittori stranieri conosciuti che ne avessero necessità per i loro studi e lavori. Pillepich, che ha tradotto opere di Unamuno e di altri autori spagnoli e ha pubblicato saggi su alcuni dei nostri letterati, aveva bisogno di certi libri spagnoli per un’opera che prepara sulla nostra letteratura contemporanea, libri che non gli sarebbe né facile né economico procurarsi dove risiede («abc», 29.3.1927).

I dati fondamentali dei quali disponiamo per studiare i rapporti tra Unamuno e Pillepich sono contenuti nelle diciassette lettere e due cartoline inviate da Pillepich allo scrittore basco. Sappiamo che Unamuno rispose ad alcune di queste lettere, ma non ho potuto ancora consultare le risposte. Le lettere di Pillepich iniziano il 27 maggio 1913 e si concludono nel maggio del 1931. La maggior parte di esse fu spedita da Fiume e, generalmente, su carta intestata della Biblioteca Civica di Fiume; due furono spedite da Roma, tra il 1916 e il 1918, in formato in-folio con l’intestazione del Ministero della Pubblica Istruzione. Sono, dunque, diciotto anni di corrispondenza più o meno intensa nei quali i legami reciproci si intensificano e si allentano secondo i diversi momenti. Le tematiche ricorrenti sono quelle relative alla traduzione di saggi di Unamuno, la dimostrazione delle sue conoscenze di letteratura spagnola e il suo desiderio di divenire un valido divulgatore di essa in Italia; lo scambio di idee, solitamente di tipo politico; confessioni specifiche e richieste di aiuto; sostegno a Unamuno in occasione del suo esilio e conferma della sua ammirazione per lui e altre questioni specifiche. Il motivo iniziale, o pretesto, perché Piero Pillepich si decidesse a scrivere a Unamuno fu quello di ottenere la sua autorizzazione per tradurre e pubblicare un suo libro composto di vari saggi, ma anche per il fatto che considera Unamuno come l’intellettuale più rappresentativo della cultura e letteratura spagnola, che il fiumano coltiva e ammira. Così scrive in spagnolo 2 in questa prima lettera del 27 maggio 1913, che riproduco per intero perché risulta di grande interesse e definisce il carattere dei loro rapporti:  

1   4 cartas de Piero Pillepich a Julio Cejador y Frauca, Asuntos literarios, Poema autógrafo, Fiume 1925-1926 (pieza 42), in Catálogo de los documentos de la Fundación Sergio Fernández Larrain, i, p. 229 sgg., 7 fogli. 2   Trascrivo il testo così com’è nell’originale.

lettere di piero pillepich a miguel de unamuno

31

Muy Señor. Estoy desde mi niñez... aficionado del idioma de Cervantes y nunca he pensado de los españoles lo que Carducci hubo que pensar, en su... feroz espíritu. Sé de los amigos jóvenes que Usted tiene en nuestra dicha Italia. He leído a Don Quijote y quisiera pedirle á Usted sírvase permitirme la traducción en italiano de algunas hojas selectas sacadas o escogidas entre sus obras. Nada otro quisiera si no dar cuenta a los estudiosos de nuestros países de algunas ideas entre las más conocidas y admiradas de su gran obra, cuya importancia, en frente al reconocimiento de los años, nadie desconoce. Pues sírvase Usted contestarme sobre ese asunto. Yo quedaré satisfecho y orgulloso de traducir lo que Usted mismo creerá mejor: obras, o solamente ensayos. Dando las gracias a Usted quedo Piero Pillepich (Preside) 1  

Come abbiamo potuto osservare il giovane di ventiquattro anni che era allora Pillepich mostra i suoi meriti verso la Spagna per ottenere da Unamuno il permesso di tradurre alcune sue opere. Unamuno gli rispose a giro di posta da quanto si deduce dalla lettera seguente di Pillepich, del 10 giugno 1913, in cui lo ringrazia del permesso concesso e comincia il di√cile percorso del processo di traduzione, che sarà accompagnato da uno scambio di idee sviluppato secondo diverse linee e da richieste più o meno legate alla traduzione. La traduzione di opere di Unamuno, scopo iniziale del contatto, sarà un processo lungo che durerà anni e che avrà vari contrattempi. Il 23 giugno 1914 comunica a Unamuno che gli è stato molto di√cile trovare un editore, anche se «finalmente per intercessione anche del mio amico Giuseppe Lombardo-Radice, l’eminente educatore italiano e che Ella certo conoscerà, pare si sia giunti a buon fine». Nella stessa lettera gli confessa che l’attività procede lentamente, tra l’altro a causa del suo «fastidioso lavoro di riordinamento in Biblioteca» e richiede, come fanno tutti i traduttori italiani di Unamuno, di risolvere i suoi eventuali dubbi linguistici. Soltanto vorrei pregarLa d’una cosa: c’è nelle Sue cose qualche peculiarità di linguaggio, di espressione, che vorrei poter aπerrare interamente, e però – nel caso di qualche dubbio – Le chiedo se sarebbe disposto a dilucidarmelo – volendo io fare opera più che possibile consona al Suo temperamento e alla Sua spiritualità. 2  

Pillepich non si sbagliava riguardo alla generosità di Unamuno verso i suoi traduttori, nei confronti dei quali dimostrerà una ricettività straordinaria, adoperandosi per facilitare loro la strada e dando grande importanza al fatto di essere tradotto, come possiamo dedurre da queste sue parole: Facciamo così poco per semplificare loro il lavoro da parte nostra! Quando non piuttosto creiamo loro delle complicazioni...! Conosco un italiano che si dedica a tradurre opere spagnole e che, quando si è rivolto a qualcuno dei nostri autori, con gran sorpresa ha scoperto che non gli hanno nemmeno risposto! – Ma agli autori spagnoli non interessa essere tradotti ed essere conosciuti qui in Italia? – mi ha chiesto. E non si dica che non lo vedano vantaggioso, perché come si dice che abbia aπermato una volta Castelar, preferiamo che ci traducano e non ci paghino, piuttosto che ci paghino e non ci traducano. 3  

Su questa linea di ricettività, cominciava la sua partecipazione fin dall’inizio del processo di traduzione, aiutando il traduttore nella raccolta dei testi, se si trattava di un’antologia 1

  Lettera inedita di Pillepich a Unamuno, Casa Museo Unamuno, datata 27.5.1913.   Lettera inedita di Pillepich a Unamuno, Casa Museo Unamuno, datata 23.1.1913. 3   Miguel De Unamuno, A nuestros autores, «El Fígaro», 2-iii-1920. 2

vicente gonzález martín 32 com’è il caso di Pillepich, o collaborando nella ricerca dell’editore e nella stesura del contratto più vantaggioso per il traduttore. 1 Pochi giorni dopo aver ricevuto la lettera del 23-i-1914, Unamuno invia il 1º-ii-1914 una lettera al suo più importante traduttore italiano: Gilberto Beccari, in cui gli comunica lusingato che sta per essere tradotto da Piero Pillepich:  

Piero Pillepich, di Fiume, direttore della Biblioteca civica di quella città, vuole far pubblicare una traduzione di passi di mie opere e saggi, una specie di antologia delle mie cose. In nessun luogo trovo il favore che trovo in Italia. 2  

La traduzione di queste ‘Pagine raccolte’ unamuniane subirà ritardi. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale conduce Piero Pillepich a Roma e a dimenticarsi della traduzione. Al suo ritorno a Fiume liberata, all’inizio del 1921, torna a lavorare ad essa, anche se il ritardo nel pubblicarla gli procurerà contrattempi rilevanti, come il fatto che Gilberto Beccari pubblicasse una raccolta di saggi di Unamuno molto simili ai suoi con il titolo de Il Segreto della vita. 3 Pillepich si lamenterà con Unamuno in una lettera del 18-IV-1924, sottolineando il fatto che avrebbe fatto una brutta figura con Adriano Tilgher, che aveva già scritto il prologo per la sua traduzione. In ogni caso la traduzione proseguì e, dopo aver risolto i dubbi sul titolo (lettera del 19-IV-1924) e alcuni altri dettagli, Pillepich riesce a pubblicare l’opera presso l’editore Corbaccio di Milano nel 1925 con il titolo La Sfinge senza Edipo, con prefazione di Adriano Tilgher. L’opera fu accolta con interesse dalla critica italiana e spagnola, come si può capire dalle seguenti parole di Eduardo Gómez de Baquero, ‘Andrenio’, uno dei critici di maggior fama del tempo:  

Una scelta molto interessante di scritti filosofici di Unamuno è stata pubblicata presso le edizioni Corbaccio di Milano a cura di Piero Pillepich, un italo-dalmata ‘appassionato del pensiero spagnuolo’, come mi diceva nella dedica. 4  

L’espressione della devozione verso Unamuno è ripetuta e a volte esagerata, ma non è dovuta a una falsa captatio benevolentiae, bensì a un sentimento sincero in un giovane che si trova in una terra lontana e piena di conflitti, immerso in un lavoro di bibliotecario che annulla o limita le sue aspirazioni a voli più alti. Per questa ragione gli elogi rivolti a Unamuno come «Lei che è rappresentante luminoso della rinascenza spagnuola», sono sinceri, perché Pillepich vede in Unamuno quel che lui stesso vorrebbe essere: Senza alcun dubbio io partecipo del Suo pensiero... Dunque, più che Sua la felicità è mia, in particolare poiché ho incontrato chi vivificato da un’intelligenza più dotata lotta da molto tempo per i miei stessi sogni. 5  

Dall’elogio di Unamuno derivano le lodi ricorrenti della cultura e della letteratura spagnole: Pillepich parte dalla premessa che esse sono poco conosciute in Italia e che egli sente, grazie al privilegio del suo contatto con Unamuno, di avere le forze per sopperire alla supposta ignoranza che vede nel suo Paese: C’è nel nostro caso, un’altera ragione ideale: la letteratura spagnuola contemporanea è poco conosciuta tra noi, ed è un male: pregiudizi di studiosi, indiπerenza e ignoranza di folle, fanno sì che il moderno pensiero spagnuolo non sia interamente aπermato da noi. 1   Vicente Gonzáles Martín, Las traducciones de las obras de Unamuno en Italia: el papel del autor, in Idem, La traducción en torno al 98, Madrid, Edición del Instituto Universitario de Lenguas Modernas y Traductores, 1998, pp. 31-43. 2   Vicente Gonzáles Martín, La cultura italiana en Miguel de Unamuno, Salamanca, Ediciones de la Universidad 3 de Salamanca, 1978, p. 315.   Firenze, Editrice «La Voce», 1924. 4   Eduardo Gómez Baquero, Pirandello y compañía, Madrid, Mundo Latino, 1928, p. 266. 5   Lettera inedita di Pillepich a Unamuno, Casa Museo Unamuno, datata 30.9.1913.

lettere di piero pillepich a miguel de unamuno

33

Nelle centinaia di cataloghi capitatimi fra mani, nella mia qualità di bibliotecario, pochi ne ho visti che oπrissero degno posto alle opere spagnuole; – presso i librari di Firenze, Torino, Milano, Vienna, Budapest, ecc., opere in castigliano non ne potei trovare. Questo è un formidabile errore per noi, latini, e addirittura una colpa, che ricade su di noi stessi. 1  

Nella serie delle sue lettere Piero Pillepich scopre a Unamuno tratti intimi e pubblici della sua personalità. Così si presenta fin dalle prime lettere come uno che sente «venerazione incondizionata per i grandi uomini» e che nutre il desiderio di «magnificare – con le mie povere forze – la genialità degli uomini rappresentativi, vere guide per la nostra orfanità umana»; nel contempo avverte che il suo lavoro alienante come bibliotecario nella Biblioteca Civica di Fiume gli impedisce di raggiungere mete più alte delle quali si sente capace. È curioso che di tutte le sue attività parli a Unamuno solamente dell’«improbo lavoro di riordinamento della Biblioteca» e di una «seccante opera bibliografica». Nelle sue lettere la tematica della difesa della latinità trova ampio spazio e sviluppa varie sfumature. Nella Fiume del suo tempo, tra alterni e irrisolti contrasti che contrappongono slavismo e latinità, Pillepich riaπerma la sua latinità – «Prima lo spirito latino nelle sue varie ramificazioni, e poi le altre letterature» – di fronte a un Unamuno che nel periodo precedente e durante la Prima Guerra Mondiale adotterà una posizione intransigente e militante contro il germanismo politico e intellettuale. 2 L’amicizia che Pillepich pensa ormai di avere con Unamuno alla fine del 1914 lo porta a rivolgergli una richiesta, che è un grido d’aiuto in una lunghissima lettera dominata da un profondo tono d’angoscia per l’orribile imminente guerra: vuole che gli renda possibile la sua fuga da Fiume:  

gli avvenimenti politici, la vita che già allora conducevamo qui sotto l’angoscia permanente d’una prossima e suprema sciagura non potevano consentire un lavoro proficuo... L’ansia nostra, di noi tutti, che viviamo in questo conteso lembo di terra latina, è tanta, che ci pare di dover essere tranghiottiti dalla irruenza dei barbari in ogni ora. Io non ne posso più: pazienza per la vita materiale, divenuta impossibile, si tratta dell’anima, che non regge all’urto orrendo. E però vorrei pregarLa, carissimo e illustre signore, di voler interporre i Suoi buoni u√ci per salvare, per veder di salvare dalla ruina un giovine italiano. Con uno stratagemma, insomma, io verrei costà, in Spagna, almeno finché duri la guerra e sia – come spero e credo – riconosciuta la latinità avuta della nostra terra. 3  

Non sappiamo se Unamuno abbia risposto in qualche modo alla richiesta di Pillepich, ma sappiamo che quest’ultimo nel 1915 si trasferì a Roma, da dove continua la corrispondenza con Unamuno negli anni 1916-1918, con due lettere cariche di passione per la difesa della latinità «di fronte alla barbarie culturale teutonica» e in cui si congratula con Unamuno poiché egli è uno dei paladini della difesa della latinità in Spagna e in Europa e gli richiede contributi suoi o di altri scrittori, come Vicente Blasco Ibáñez, Rubén Darío, ecc., sulla guerra per un volume per l’editore Treves o per un numero della rivista «Il Nuovo Convito» dedicato a Dante. Della sua esperienza politica, una volta tornato a Fiume nel 1921, parla con amarezza a Unamuno in una lettera del 20-xii-1923: Ritornato a Fiume, io dovevo, per fatalità di eventi, entrar nella politica, da cui sono ora uscito, con i nervi rotti e con l’anima amara, per i contrasti interni di spirito. 4  

Nelle ultime lettere i temi più importanti espressi da parte di Pillepich mirano a mostrare 1

  Lettera inedita di Pillepich a Unamuno, Casa Museo Unamuno, datata 10.6.1913.   Miguel De Unamuno, Crónica política española (1915-1923), a cura di Vicente González Martín, Salamanca, Almar, 1977. 3   Lettera inedita di Pillepich a Unamuno, Casa Museo Unamuno, datata 18.12.1914. 4   Lettera inedita di Pillepich a Unamuno, Casa Museo Unamuno, datata 20.12.1923. 2

vicente gonzález martín 34 la sua solidarietà a Unamuno per il suo esilio e a manifestare la sua sintonia con lui a causa delle vicissitudini patite dalla sua Fiume natale. Chiudo con la lettura di una parte della lettera del 27 luglio 1925: Maestro, sono riuscito finalmente in grazia dell’amico Cartier a saper Sue nuove. Sono così infinitamente lieto della cosa per quanto la mia letizia sia amareggiata dal fatto si saperLa soπerente. Voglio sperar sia cosa di poco e che Ella sia pienamente rimesso a quest’ora. Le sia di conforto, Maestro, il pensiero che pur io, assieme a tante altre anime, soπro la sua stessa ansia, tremo per lo stesso ideale di umana solidarietà, oggi in grave pericolo non solo per le pazzie criminali dei governanti, ma anche per l’oscuramento delle coscienze, nei popoli. Guardi un po’ cosa succede anche qui a Fiume, nella mia città, dove la vita è divenuta quasi impossibile per gli spiriti liberi, dove l’antico benessere materiale e l’antica fierezza civica sono spariti del tutto. Non Le so dire quanto io soπro nel veder in quale stato un regionalismo cieco e imbecille ha ridotto il mio già fiorente Paese! Pure non dispero, pure non so capacitarmi che il regionalismo, che è stato la causa della prosperità e della libertà secolari di Fiume, non debba riprendere un giorno, non debba esser nuovamente bandito, e dagli stessi che oggi lo vilipendono. Così dovrà avvenire anche per il Suo Paese, malgrado gli smarrimenti dell’ora. Con questo augurio, con l’augurio che Ella possa riveder presto il Suo Paese, la Sua nobile terra, liberata dai fanfaroni gallonati, mi creda, Maestro, con tutto il cuore e tutta l’anima, Suo devoto Pillepich 1  

1

  Lettera inedita di Pillepich a Unamuno, Casa Museo Unamuno, datata 27.7.1925.

L’ ESILIO DI ENZO BETTIZA TRA STORIA E LETTERATURA Marina Paino

I

n un’intervista rilasciata ad Antonio Gnoli e apparsa su «la Repubblica» il 4 gennaio 2015, Enzo Bettiza al giornalista che gli chiedeva se per lui avesse contato di più l’attività giornalistica o quella di romanziere risponde: «Non farei una distinzione […]. Per un esule, quale sono stato, la parola era il solo modo per difendere la mia identità». La parola scritta è dunque risposta necessaria per potersi difendere da quella perdita di identità che connota inevitabilmente la condizione stessa dell’esilio, e in tal senso il romanzo del 1996 intitolato proprio all’Esilio (e vincitore in quello stesso anno del premio Campiello) si pone nella carriera del Bettiza narratore come ideale snodo tra ciò che egli aveva scritto prima e ciò che verrà dopo, quasi che il fatto stesso di aver puntato sin dal titolo l’attenzione sul nucleo propulsore della scrittura stessa (la condizione d’esilio, appunto) contribuisca a conferire a questo testo il ruolo di catalizzatore di un’intera esperienza narrativa. Gli inquieti fantasmi di Trieste (Il fantasma di Trieste, 1958) e di Mosca (I fantasmi di Mosca, 1993), cui Bettiza aveva intitolato le più significative prove romanzesche date alle stampe prima del ’96, sembrano infatti trovare sponda nei fantasmi emersi dal passato spalatino dell’Esilio e da un mondo, quale quello dalmata, di cui più volte il narratore metterà in risalto proprio le contaminazioni con la cultura italiana e mitteleuropea, nonché con quella russa (e si tratta non a caso di culture per lui familiari che, in diversi momenti del suo esilio, eleggerà a culture d’adozione). E in linea con questo suo ruolo di spartiacque Esilio allungherà la propria eco sul romanzo Il libro perduto, uscito nel 2005, così come su La distrazione del 2013 in cui Peter, il personaggio dalmata protagonista, uomo diviso tra diverse lingue e diverse culture, si aπannerà vanamente a compiere la propria di√cile Bildung. Tra i primi e questi ultimi romanzi degli anni 2000, appunto Esilio, il romanzo di Bettiza più noto, scrittura di confine tra narrativa e ricostruzione storica, saggismo giornalistico e autobiografia, testimonianza di un dramma presente e nostalgica rievocazione di un passato scomparso. Molte delle recensioni al libro insistono su questa natura ibrida dello stesso, 1 su una linea di lettura suggerita per altro dallo stesso Bettiza che nel Prologo così come nell’Epilogo insiste sull’involontarietà della piega presa dalle sue pagine, originariamente pensate per raccontare di un dramma presente e sanguinoso, ma occupate poco a poco più dall’emersione di un passato perduto che non dall’orrore della cronaca contemporanea. La tragica verità dei conflitti nell’ex Jugoslavia, da cui prende avvio la narrazione di  

1   Al di là delle numerose recensioni apparse a ridosso dell’uscita del libro e della vittoria al «Campiello», una lettura più organica dell’opera di Bettiza e del motivo dell’esilio in essa centrale ha preso forma nel convegno L’esodo giuliano dalmata nella letteratura, Trieste 28 febbraio-1 marzo 2013, nei cui Atti del Convegno internazionale, a cura di Giorgio Baroni, Cristina Benussi, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, 2014 («Biblioteca della Rivista di Letteratura Italiana»), sono usciti i contributi di: Maurice Actis-Grosso, Contro il memoricidio giuliano-dalmata: Enzo Bettiza tra damnatio memoriae ed epifania romanzesca; Federica Millefiorini, Enzo Bettiza e la sua natura «bifida»: tra identità e senso di alterità erratica; Aurora Firta, Riso dissacratore e identità in Esilio di Enzo Bettiza. Una specifica attenzione al romanzo Esilio era emersa anche nell’ambito del convegno Scrittura oltre confine: letteratura dell’esodo del giugno 2005, con un contributo di Anna Storti Abate, ora in «La Battana», 160, aprile-giugno 2006. Più in generale sulla letteratura dalmata contemporanea, cfr. Giorgio Baroni, La letteratura dalmata italiana tra Ottocento e Novecento, in Civiltà italiana e geografie d’Europa, a cura di Bianca Maria Da Rif, Trieste, eut, 2009, p. 102 sgg.

marina paino 36 Bettiza (che infatti inizia: «Probabilmente non mi sarei messo a scrivere le righe che seguiranno se non fosse scoppiata la guerra nell’ex Jugoslavia»), 1 occupa indubbiamente un ruolo centrale nell’economia complessiva del libro ma, anche grazie alla dilatazione dell’elemento memoriale, in esso trova ampio spazio la componente più propriamente romanzesca, dimensione altra del testo che, pur nell’irregolarità del registro, indulge costantemente alla letterarietà attraverso la presenza di metafore e simboli, nella stessa delineazione dei personaggi, nei continui riferimenti intertestuali a grandi classici della letteratura europea, nella ripresa di topoi narrativi consolidati, nel continuo slittamento verso una rappresentazione a vario titolo lontana dal reale. La Dalmazia raccontata da Bettiza è del resto un luogo che non c’è, che non c’è più, un luogo della memoria e non un luogo reale; un luogo che ad apertura del libro il narratore paragona ad un’«isola», 2 ovvero uno spazio geografico metaforicamente altro, separato, sganciato dal resto. E se quella Spalato perduta è un luogo della memoria spetta proprio alla scrittura sottrarla all’oblio, vincendo tanto la vocazione alla rimozione che seduce ogni esule, 3 quanto, dal punto di vista storico-politico il drammatico memoricidio di un mondo e di una cultura portato avanti dai serbi ([questa guerra] combina, per la prima volta nella storia europea, il genocidio con il memoricidio»). 4 Da quel luogo e da quel tempo non più reali si aπacciano in ordine sparso i fantasmi per troppo tempo dimenticati e ora riportati in vita dal trauma del recente conflitto. Fantasmi che si muovono su uno sfondo storico-geografico regionale di cui il narratore mette in risalto la predisposizione culturale allo sconfinamento della realtà nella fantasia, alla continua mitopoiesi degli accadimenti, della quale nel libro diventa ideale figura iniziatica il personaggio del disegnatore spalatino che durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale stava in strada con carta e carboncino, fratello e antenato di quel violoncellista che cinquant’anni più tardi le televisioni di tutto il mondo immortaleranno col suo strumento sotto i bombardamenti di Sarajevo. Sin dall’inizio, dunque, il registro della scrittura oscilla costantemente tra saggismo e racconto (non a caso nell’Epilogo lo scrittore definirà il proprio testo «saggio autobiografico»), e infatti, già nel Prologo, la narrazione romanzesca si perde volutamente di continuo nelle pieghe della ricostruzione storica, da cui emergono solo fugacemente i preliminari accenni al romanzo familiare dei Bettiza, al padre colto, illuminato e donnaiolo, ai nonni e agli zii, alla balia buona e alla madre bellissima e ‘orientale’ con antenati che sembravano usciti dalle Mille e una notte, dedita al culto della propria bellezza e succube di maghe e fattucchiere che colorano lo scenario domestico del racconto di un’atmosfera magica e surreale. In questo Prologo, alla narrazione vera e propria è concesso un unico frammento relativo ai significativi dissidi familiari tra coloro che avevano optato per la cittadinanza italiana e coloro che avevano optato per quella slava, dissidi manifestatisi al momento del ritorno in patria, nel 1934, della salma dell’assassinato re Alessandro di Jugoslavia, a proposito della scelta di listare o no a lutto il palazzo di famiglia. La stessa opzione per la cittadinanza italiana, fatta dal grosso della famiglia Bettiza diversi anni prima, determina naturaliter per i personaggi di questo ibrido Familienroman una condizione di ideale dislocazione, di esilio in patria, di proiezione verso un altrove quale l’Italia  







1

  Enzo Bettiza, Esilio, Milano, Mondadori, 2009, p. 3.   Scrive Bettiza: «Già dai tempi più antichi la Dalmazia […] era per conformazione geologica e per tradizioni marinare un’isola eccezionale nell’universo slavo prettamente contadino e terriero. […] è ridiventata da quattro anni a questa parte una lunga isola circondata dalle acque e dal sangue della più gratuita guerra europea del secolo. L’insularità della Dalmazia, già da tanti modi disegnata dalla natura e dalla storia, si è così accentuata ancor più, staccandola come una naufraga dall’Europa e obbligandola a rinchiudersi con la disperata vitalità dell’istinto di conservazione in se stessa» (ivi, p. 4). 3 4   Cfr. ivi, pp. 7-8.   Ivi, p. 6. 2

l’esilio di enzo bettiza tra storia e letteratura

37 spesso di fatto non conosciuto e talora immaginato come terra di sogno («Più dell’Italia in sé, l’Italia “regnicola” dell’altra sponda, che non conoscevano davvero, valevano per tanti dalmati d’allora il sogno e l’idea che essi si facevano dell’Italia»). 1 Il libro trova la sua sezione più ortodossamente romanzesca nel I capitolo, con un temporaneo slittamento verso consolidati schemi da romanzo di formazione, e con l’io narrante che rievoca il proprio sfortunato e soπerto innamoramento per una giovane professoressa, la bella Consuelo. Il protagonista vive, già a quest’altezza del proprio percorso di vita, un’anticipazione della futura condizione di esiliato a causa della decisione paterna di mandare di imperio lui e il fratello a studiare in una scuola italiana di Zara. E all’espulsione dal nido domestico non corrisponde la reale iniziazione all’età adulta, visto che l’amore per Consuelo resterà per l’io narrante un amore non vissuto. Non occorre scomodare Franco Moretti per sottolineare come anche in questo caso, per le generazioni venute dopo la frattura della I guerra, la Bildung romanzesca risulti interdetta. 2 Più avanti nel libro, Bettiza si abbandonerà anzi ad articolate considerazioni sulla generale perdita d’autorità delle figure genitoriali di quella generazione, le quali avevano finito per scadere in un incurante permissivismo, in cui la rimozione del proprio ruolo si sostituiva di continuo alla logica della punizione e dell’educazione. 3 I modelli genitoriali da combattere e allo stesso tempo da rimpiazzare sono dunque venuti meno, e in questo vuoto il confronto col contesto e la realtà della vita diventa per i giovani impossibile. Non a caso l’io narrante di Bettiza preferisce nei momenti cruciali sfuggire per vie traverse ad un confronto diretto con la vita: per scrivere una lettera d’amore si appoggia all’autorità di una lettera d’amore di Victor Hugo, trasformando l’avventura del primo innamoramento in un’«avventura letteraria»; 4 in un tentativo di aggressione alla sua professoressa immagina che ad agire in lui sia un feroce drago; 5 si rifugia di continuo nella lettura dei fumetti al cui mondo irreale tenta di ricondurre anche qualcosa di estremamente reale come i pronunciamenti antifascisti dello zio. 6 Questo esilio metaforico in una dimensione altra, che idealmente raddoppia l’esilio reale nella scuola italiana di Zara, trova un ulteriore rispecchiamento nel motivo della malattia polmonare che colpisce l’io narrante, secondo un consolidato topos letterario che nel romanzo del Novecento si frappone come ulteriore ostacolo al confronto diretto del personaggio-uomo col reale. Del resto, a ben guardare, sono molti gli elementi della narrazione che a vario titolo concorrono a definire questa atmosfera fortemente dialogante con un preciso repertorio letterario: in primis la dialettica aπettiva tra la buona balia e la madre austera che richiama da vicino la rappresentazione sabiana di un disarmonico scenario familiare, in una contiguità tutta regionale che l’episodio narrato da Bettiza sul sacrificio culinario dell’agnellino da lui scelto da bambino per amico non fa che raπorzare, 7 se letto ovviamente in controluce col celebre sacrificio culinario della gallina di Saba ad opera del personaggio materno. 8 Il popolo dalmata, refrattario per natura – nota Bettiza – alla definizione di una propria identità, e quasi naturalmente partecipe di una incapacità tipica di tanti personaggi della letteratura della crisi, viene inoltre, sempre all’ombra di una pervasiva ‘letteraturizzazio 















1

  Ivi, p. 32.  Cfr. Franco Moretti, «Un’inutile nostalgia di me stesso». La crisi del romanzo di formazione europeo, 1898-1914, ora in Idem, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999, p. 257 sgg. 3  Cfr. Enzo Bettiza, Esilio, cit., p. 299 sgg. 4 5   Cfr. ivi, p. 66 sgg.   Cfr. ivi, p. 93. 6 7   Cfr. ivi, p. 76 sgg.   Cfr. ivi, p. 228 sgg. 8  Cfr. Umberto Saba, La gallina, ora in Idem, Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, Milano, Mondadori, 2001 («I Meridiani»). Per una specifica analisi dei risvolti castranti di questo racconto sabiano cfr. Mario Lavagetto, La gallina di Saba, Torino, Einaudi, 19892. 2

marina paino 38 ne’, musilianamente definito in modo esplicito dal narratore un popolo «senza qualità»; 1 e ancora: la vocazione all’ironia di questo stesso popolo viene illustrata attraverso ripetuti richiami agli scrittori dalmati; e anche la stessa indulgenza della narrazione al racconto frammentario di piccoli episodi senza importanza è da Bettiza apertamente giustificata alla luce di quanto asseriva Thomas Mann riguardo al fatto che anche episodi di poco conto diventano importanti se narrati sullo sfondo di un contesto eccezionale. 2 Su questa stessa linea di una rappresentazione che rimanda di continuo alla finzione letteraria si inserisce indirettamente anche la passione del padre dell’io narrante per il teatro, 3 nonché la ricorrente considerazione che tutte le vecchie storie di famiglia fossero ormai col tempo diventate delle vere e proprie leggende. 4 Per questa saga familiare l’io narrante individua per altro un modello ben preciso e facilmente indovinabile, quello dei Buddenbrook di Thomas Mann, Familienroman di ascesa e decadenza in cui, come nel caso dei Bettiza, la storia della famiglia non ha soluzione di continuità con quella dell’industria di famiglia. 5 E, sempre inframezzate alle continue ricostruzioni storiche, anche le rappresentazioni dei personaggi minori restano imbrigliate in questo costante rimando ad altri testi letterari. Va precisato che è forse improprio parlare di personaggi minori (presunti tali, in fondo, solo perché non appartenenti al nucleo principale della famiglia), visto che nella frantumazione narrativa ogni personaggio, sia interno al nucleo domestico che esterno ad esso, occupa la narrazione solo per episodi. Le storie più significative sono quelle dell’amico del protagonista Frano Lentic e di due terroristi attentatori: Čerina, amico di Frano, e Piero, il misterioso cugino dell’io narrante. Frano Lentic, l’amico di una vita, personaggio riflessivo e chiuso è – scrive Bettiza – «un consapevole e contraddittorio personaggio dostoevskiano», per il quale questa speciale ‘consapevolezza’ derivava dal fatto che egli «sapeva tutto» dei romanzi di Dostoevskij. Frano viene assimilato ad un depurato, filtrato e razionale Ivan Karamazov, un Ivan dalmata che amava Rimbaud e conosceva a memoria Leopardi e che però, successivamente, arricchitosi col contrabbando, finisce con l’assumere – a parere di Bettiza – più i tratti del Raskolnikov di Delitto e castigo che non quelli del giovane Karamazov. Anche l’attentatore Čerina, la cui storia viene preparata dal narratore creando un’aspettativa e una curiosità che la scrittura tarda volutamente a soddisfare, ama i russi, vive come i romantici inglesi Shelley e Byron e legge Rimbaud, Baudelaire e Verlaine. I grandi romanzieri russi sono al centro pure delle letture del protagonista, della sua esistenza e della sua malattia, tanto che nel decorso di essa divora Guerra e pace dialogandone dal letto col padre, soprattutto a proposito della figura di Pierre, e suscitando poi, una volta passato a Delitto e castigo, i rimbrotti del medico che giudicava più utile alla guarigione Tolstoj che non Dostoevskij. E alla fine Pierre Bezuchov finisce col venir fuori da Guerra e pace incarnandosi nella figura del cugino Piero, replicante del personaggio tolstojano anche nel nome, oltre che nella goπaggine. La storia di questo Piero-Pierre non è però quella di Bezuchov e, dopo avere deliberatamente rimandato per pagine e pagine il racconto di essa avvolgendola nel mistero, il narratore riferisce della tragica fine del cugino, divenuto terrorista e morto drammaticamente per le ferite procuratesi durante un attentato. Insomma – commenta Bettiza – Piero-Pierre si è trasformato nel Pëtr, rivoltoso terrorista dei Demoni dostoevskiani. 6  











1

  Enzo Bettiza, Esilio, cit., p. 134. 3   Cfr. ivi, p. 153.   Cfr. ivi, p. 175.   A sottolineare l’‘ina√dabilità’ di queste memorie familiari sospese a mezz’aria tra verità storica e invenzione narrativa, Bettiza precisa infatti: «Non saprei dire fino a che punto tutto ciò che ho evocato e ricostruito corrisponda alla realtà dei fatti o soltanto a una mezza realtà. In ogni caso, quella realtà, probabilmente dimezzata, era entrata non solo nell’indelebile circuito dei miti locali, ma più ancora nell’olimpo domestico dei nostri miti di famiglia» (ivi, 5 p. 168).   Cfr. ivi, p. 218. 6   Questa cangiante identità onomastica del personaggio anticipa significativamente La distrazione, romanzo di 2

4

l’esilio di enzo bettiza tra storia e letteratura

39 Al narratore corre l’obbligo a questo punto di precisare di non essere «alla ricerca di facili similitudini letterarie», ma di ritenere fondamentale l’aver «inseguito gli incanti dei vasti mondi romanzeschi» anche per trarne una lezione di pensiero sul mondo reale. 1 Non a caso, quella Russia amata attraverso i grandi romanzi diventerà la sua seconda patria, una patria in cui guarire la ferita dell’esilio, 2 ma anche in cui rischiare di perdersi in una dimensione ovattata e claustrofiliaca che spesso cattura coloro che vi si trasferiscono. 3 Ed è proprio la condizione dell’esilio che nella parte finale del libro apparenta esplicitamente l’io narrante ai tanti personaggi in crisi del romanzo europeo di inizio secolo ed entre-deux-guerres: a causa dell’esilio il percorso di formazione non si compie e il senso di vergogna, che diventa addirittura incubo per il mancato conseguimento della laurea, non ne è che l’emblema rappresentativo; è l’esilio a procurargli il forte senso di perdita d’identità che lo a∫igge; è l’esilio a determinare lo scollamento dalla vita degli altri e un’inguaribile e indiπerente apatia; è l’esilio a scandire per lui una tragica scissione tra due vite diπerenti, quella del prima e quella del poi. 4 Pagina dopo pagina e frammento dopo frammento, l’io narrante è diventato fratello di tanti personaggi romanzeschi della sua stessa generazione e, sempre tra innumerevoli e lunghe digressioni storiche, può condurre a compimento il proprio racconto, sviluppato per altro, secondo uno dei più classici topoi narrativi, sulle indicazioni di un libro di memorie scritto dal padre. E l’epilogo della storia è in qualche modo anche l’inizio di essa:  







Il peschereccio, schiacciato dal peso di quell’umanità fuggitiva, levò le ancore e puntò la prua su Bari. Fino all’ultimo io guardai l’amico che, in piedi sul molo, senza mai agitare la mano, diventava sempre più minuto, più fragile, più evanescente. Quando si ridusse a un grigio puntolino nell’azzurro, capii che il mio esilio era davvero cominciato. 5  

L’esilio comincia e il libro si conclude, con l’ulteriore indicazione di due date «Settembre 1994-settembre 1995», in un percorso anch’esso circolare che risponde al tempo della composizione del libro ma anche, al di fuori della letteratura, ai mesi del cruento epilogo di una guerra tragica e lacerante ridotta e derubricata dalla civile e distratta Europa – lamenta Bettiza – ad un «subconflitto» che, tutto sommato, non la riguardava forse neanche troppo da vicino. Bettiza del 2013, il cui protagonista, Peter, vive la propria incerta condizione di esule anche attraverso la mutevolezza del proprio nome (Pietro, Petar, Pëtr), spia di un’esistenza che ha dovuto imparare a chiamare in modi diversi le stesse cose. 1  Cfr. Enzo Bettiza, Esilio, cit., p. 335. Il narratore ammette del resto apertamente: «Vorrei piuttosto, nei limiti del possibile, stabilire una più intrinseca similitudine esistenziale fra certi protagonisti emblematici dei libri, che hanno inciso sulla mia formazione mentale, e i minori e più friabili personaggi che hanno segnato in maniera diretta, autobiografica, la mia educazione sentimentale e familiare. Perché leggere […] se poi, oltre al diletto estetico, non se ne trae anche una lezione di pensiero sul mondo […] in cui siamo realmente nati e in cui si sono realmente intrecciati i primi fili della nostra vita e del nostro destino[?]» (Ibidem). 2 3   Cfr. ivi, p. 345 sgg.   Cfr. ivi, pp. 391-392. 4 5   Cfr. ivi, p. 340 sgg.   Ivi, p. 421.

MUSSAFIA E IL TESTO DELLA DIVINA COMMEDIA Donato Pirovano

I

l 18 gennaio 1865 Adolfo Mussafia presenta all’Accademia delle Scienze di Vienna uno studio intitolato I codici della Divina Commedia che si conservano alla Biblioteca imperiale di Vienna ed alla Reale di Stoccarda. La versione scritta apparve poco dopo nel primo fascicolo di «Sitzungsberichte der Philosophisch-historische Classe der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften», xlix, 1, 1865, pp. 141-212; di essa esiste anche un estratto, tirato a parte con titolo leggermente mutato: Sul testo della Divina Commedia. Studii di Adolfo Mussafia, professore di Filologia Neolatina all’Università di Vienna, I, I codici di Vienna e di Stoccarda, Vienna, Tipografia di Corte e di Stato, 1865, pp. 74. 1 La sede della conferenza è prestigiosa e la data è quanto mai significativa, ma per sua peculiarità un simile studio non pare per nulla vincolato alla ricorrenza contingente, anzi sembra decisamente sottrarsi alla retorica celebrativa e al fracasso del sesto centenario della nascita di Dante, 2 come rivela il suo autore quando alla fine della parte introduttiva dichiara di consegnare la sua «povera fatica ai futuri editori della Commedia». 3 Questa conclusione potrebbe apparire indelicata e irriguardosa, se si considera che da poco meno di tre anni era stata pubblicata la prima edizione veramente scientifica, e come tale giustamente acclamata, del poema di Dante, per le cure di quel dantista per passione – ma, come è stato scritto, la passione di un monstrum – che fu Karl Witte. 4 Mussafia non disconosce i meriti del rinomato editore, «uomo sì giustamente amato e venerato da quanti danno opera agli studii danteschi», ma è consapevole che, sebbene si sia fatto «un gran passo innanzi nell’unica via, che può condurre alla mèta desiderata; non s’è però ancora raggiunta». 5 La via da intraprendere con decisione è comunque quella del metodo stemmatico. Le parole di Mussafia sono limpidissime a riguardo: «a procedere sicura, la critica deve anzi tutto essere intesa a bene determinare la relazione, in che i singoli codici stanno fra loro,  









1   A parte lo studio di cui mi sto occupando qui e del profilo Dante Allighieri (per il quale cfr. il contributo di Lilith Meier in questi stessi Atti), si segnalano nella vasta bibliografia dell’insigne studioso solo recensioni di scritti su Dante. Cfr. Lorenzo Renzi, Gli studi danteschi di Adolfo Mussafia, in Dante e la cultura tedesca. Convegno di studi danteschi, Bressanone, 1-3 agosto 1965, a cura di Lino Lazzarini, Padova, Tipografia dell’Antoniana, 1967, pp. 143149. Per un breve ma aggiornato profilo di Mussafia è utile anche la voce del Dizionario Biografico degli Italiani (vol. lxxvii, 2012) redatta da Rita Tolomeo, consultabile pure on line al link: http://www.treccani.it/enciclopedia/ adolfo-mussafia_(Dizionario-Biografico)/ 2   La bibliografia sul sesto centenario della nascita di Dante è fitta e impossibile da registrare esaustivamente in una nota. Mi limito a segnalare uno studio specifico sulle celebrazioni nei territori italiani dell’Impero Austro-Ungarico: cfr. Letterio Briguglio, Governo austriaco e sesto centenario della nascita di Dante, in Dante e la cultura veneta, Atti del Convegno di studi organizzato dalla Fondazione «Giorgio Cini», Venezia, Padova, Verona, 30 marzo-5 aprile 1966, a cura di Vittore Branca, Giorgio Padoan, Firenze, Olschki, 1966, pp. 501-510; al quale aggiungo due contributi sulle celebrazioni a Firenze e nelle altre città della neonata Italia: Fabrizio Tieri, L’Italia e Dante: il Centenario del 1865, «Studi danteschi», lxvii, 2003, pp. 211-232; e Leonardo Sebastio, 1865, tra filologia e retorica, «La Rassegna della letteratura italiana», cxvi, 2, 2012, pp. 421-442. 3   Adolfo Mussafia, Sul testo della Divina Commedia, cit., p. 16. 4   La definizione è di Gianfranco Folena, La filologia dantesca di Carlo Witte, in Dante e la cultura tedesca, cit., pp. 111-139, a p. 115 (ripubblicato in Idem, Filologia e umanità, a cura di Antonio Daniele, Vicenza, Neri Pozza, 1993, pp. 25-52). Per l’edizione cfr. La Divina Commedia di Dante Allighieri, ricorretta sopra quattro dei più autorevoli testi a penna da Carlo Witte, Berlino, Decker, 1862. 5   Per entrambe le citazioni: Adolfo Mussafia, Sul testo della Divina Commedia, cit., p. 3.

mussafia e il testo della divina commedia

41 a classificarli secondo la loro a√nità, e formatene altrettante famiglie, di ciascuna d’esse ricercare il più antico rappresentante, come chi dicesse il capostipite». 1 Era la strada che aveva imboccato Witte, ma nonostante il diuturno lavoro, le notevoli energie spese, i numerosi viaggi in Italia e i molti soldi investiti, anche il generoso filologo tedesco dovette a un certo punto ripiegare. Fissato l’inderogabile principio di lavorare solo sui codici, bisognava essere consapevoli dell’immenso lavoro di collazione, considerata la vastità della recensio – il monumentale catalogo di Batines annoverava già circa cinquecento manoscritti – in rapporto alla lunghezza dell’opera. 2 Un’impresa francamente smisurata per le forze di un solo uomo. Witte non si arrese sùbito e collazionò in prima persona o attraverso corrispondenti, più o meno fidati, il terzo canto dell’Inferno in quattrocentosette codici. 3 Ma l’obiettivo di poter ricostruire su basi rigorosamente stemmatiche la vera genealogia della Commedia e pervenire ai «patriarchi» – altro termine col quale Witte esprimeva il concetto di capostipite – man mano che si procedeva nel lavoro sembrava sempre più irraggiungibile. Preso atto di ciò, l’editore dovette trovare delle scorciatoie, ammettendo che verso la mèta: «la strada migliore per arrivarvi mi è sembrata quella di determinare un certo numero di varianti che a fronte d’una lezione di√cile ad intendersi, ma da giudicarsi genuina, ne mettono un’altra di un senso più ovvio, ma pure erroneo». 4 È l’apertura alla prassi ecdotica dei loci critici, che anche oggi seduce alcuni filologi danteschi: sirena suadente ma metodologicamente insidiosa. Il numero dei mss. studiati personalmente o per corrispondenza da Witte venne così progressivamente restringendosi, finché si pervenne a un’edizione fondata su soli quattro codici: il Laurenziano xxvi sin. 1 (siglato LauSC), il celebre Vaticano lat. 3199 della Biblioteca Apostolica Vaticana (siglato Vat), il Berlinese Ital 136 della Staatsbibliothek Preußischer Kulturbesitz, e il codice Sermoneta Caetani oggi smarrito. 5 Tra questi il preferito per fissare il testo è il manoscritto Laurenziano Santa Croce, esemplato da Filippo Villani; degli altri sono registrate le varianti sul margine destro, mentre il margine sinistro riporta le varianti dell’Aldina 1502, della Crusca del 1595 e dell’edizione del 1837, conosciuta come quella dei quattro accademici. Il commento di Mussafia al lavoro dell’amico, con il quale tra l’altro promuoverà poco dopo la Deutsche Dante-Gesellschaft, 6 è una sintesi cristallina di onestà intellettuale e rigore metodologico:  











I codici consultati dal Witte vanno, non v’ha dubbio, fra i migliori; ma non è certo (e secondo me nemmeno probabile) che spettino ciascuno ad una diversa famiglia, né che in quelle a cui appartengono abbiano il primo luogo; 7 la critica non può adunque riconoscere nella nuova edizione che un  

1

  Ibidem.   Paul Colomb de Batines, Bibliografia dantesca, Nuova edizione anastatica con una postfazione e indici a cura di Stefano Zamponi, Roma, Salerno Editrice, 2008, 3 voll. [edizione originale in due tomi (ora i voll. 1 e 2): Prato, Tipografia Aldina, 1845-1846; le Giunte e correzioni inedite alla Bibliografia dantesca (ora vol. 3) furono pubblicate sul ms. originale della Nazionale di Firenze, a cura di Guido Biagi, Firenze, Sansoni, 1888]. Il Batines registra 537 mss. della Commedia, ma già Witte rilevò alcune inesattezze e dimostrò che in realtà i codici erano 498 (Carlo Witte, op. cit., pp. lxxi-lxxii). 3   Le collazioni sono conservate alla Bibliothèque de l’Université de Strasbourg, come riferisce Gianfranco Folena, La tradizione delle opere di Dante Alighieri, in Atti del Congresso internazionale di Studi danteschi, 20-27 aprile 1965, 4 Firenze, Sansoni, 1866, pp. 1-78, a p. 69.   Carlo Witte, op. cit., p. lxxv. 5   Per questo manoscritto cfr. Paul Colomb de Batines, op. cit., n. 375; esiste un fac simile: cfr. Sandro Bertelli, La Commedia all’antica, Firenze, Mandragora, 2007, scheda n. 61. 6   L’iniziativa fu presa da Karl Witte che spedì un invito, firmato anche da Mussafia e da Wegele, a riunirsi a Dresda il 14 settembre 1865. Vi convennero una ventina di persone che si costituirono in un’associazione della quale il principe Giovanni di Sassonia assunse il protettorato. Fu eletto presidente il Witte e del comitato di presidenza fecero parte anche Mussafia, Wegele e Boehmer, questi ultimi due rispettivamente come segretario e tesoriere (cfr. Theodor W. Elwert, Deutsche Dante-Gesellschaft, in Enciclopedia Dantesca, ii, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, 1970, pp. 395-396, a p. 395). 7   Adolfo Mussafia, Sul testo della Divina Commedia, cit. p. 4. Sui 4 codici scelti da Witte, Mussafia non si sbagliava. Il Berlinese e il Caetani sono mss. quattrocenteschi in cui il testo risulta già assai alterato, il Vat. 3199 è il più 2

donato pirovano

42

primo utilissimo tentativo di nulla accettare nel testo che non si fondi sull’autorità dei codici, e di porre sotto gli occhi degli studiosi l’intero apparato critico, cosicché essi possano pienamente conoscere e giudicare il modo d’operare dell’editore. 1  

Quando queste parole vennero pronunciate nella sala dell’Accademia delle Scienze di Vienna, non erano ancora nati Barbi e Vandelli, a mio giudizio gli eredi naturali di Mussafia. 2 Non c’è dubbio, infatti, che la soluzione metodologicamente ineccepibile proposta dallo studioso dalmata per il testo della Divina Commedia non poteva poi non trovare il consenso dei grandi filologi della generazione successiva. 3 Secondo Mussafia, dunque, se grazie all’immensa fatica di Batines la recensio dei manoscritti del poema era assai avviata, i futuri editori dovranno rassegnarsi a operare una collatio completa di tutti i codici, senza scorciatoie. Con le sue parole:  



Giacché questo è il principale difetto di quasi tutti i numerosi lavori di critica che fin qui si fecero sul testo della D. C.: anzi tutto, il non essersi esaminati i codici per intero, ma solo rispetto ad un certo numero di singoli passi; poi, il non aver le più volte indicato quali sieno i codici che contengono le varianti raccolte. Gioverebbe adunque ora, che il principio s’è fatto, procedere alacremente, ed esaminare da un capo all’altro il maggior numero possibile di manoscritti, e darne relazione esatta e completa, cosicché a mano a mano riesca metterne in chiaro la vicendevole relazione e ridurre a pochi capi l’esuberante loro quantità. 4  

Nessuna illusione. È operazione lunga e paziente, unta di umiltà – che però è il crisma dell’autentica filologia –, ed è impresa che richiede la collaborazione di molti: la progressiva riduzione degli obiettivi di partenza da parte di Witte era lì a dimostrarlo. Mussafia auspica, dunque, che «alcuno de’ tanti valenti filologi d’Italia», e in particolare quelli di Firenze e Roma, coloro cioè che per vicinanza geografica alle biblioteche più ricche potevano studiare con maggior agio i codici del poema, incomincino l’ardua fatica. È un lavoro oscuro, nell’ombra, senza gratificazioni immediate, perché l’unico risultato che conta è quello finale. Scrive: «L’esame di uno, di due, di dieci codici presi a caso non può, ripetiamolo, condurre a verun risultamento decisivo; ma esso è indispensabile a ottenere l’ultimo intento». 5 Insomma, il mosaico splende solo finito, ma per ammirarne la bellezza non deve mancare nessuna tessera. E di ciò Mussafia ha piena consapevolezza, quando aπerma, con diversa metafora:  

Studii come questo ch’io oπro al critico futuro, hanno da sé un’importanza tenue: non sono che tante antico ma è il prodotto tra l’altro non primitivo di un’o√cina in cui si crea una contaminazione, ora riconosciuta, tra ramo tosco-occidentale e ramo fiorentino della Commedia (cfr. Angelo Eugenio Mecca, L’«amico del Boccaccio» e l’allestimento testuale dell’ ‘o√cina vaticana’, «Nuova Rivista di letteratura Italiana», xv, 1-2, 2012, pp. 57-76), il Laurenziano Santa Croce, nonostante il revival di cui ha goduto anche in tempi recenti, non è del 1343 come credeva il Witte (quella data è stata apposta da mano più tarda), ma di fine ’300, con lezioni buone ma anche con intelligenti contaminazioni che possono trarre in inganno. 1   Lo stesso Carlo Witte, op. cit., p. lix, non nascose l’arbitrarietà della sua scelta finale, quando ammise: «Sarà che editori venturi sostituiranno altri testi ai quattro da me prescelti, sarà dunque che col tempo molte e molte nuove lezioni entreranno, e con ragione, in luogo di quelle che ho creduto dover adottare, ma sono persuaso che non si potrà più abbandonare quel principio: che un’edizione che pretende esser critica, deve fondarsi sulla sola autorità dei codici manoscritti». 2   Sul Barbi Mussafia aveva dato un giudizio nettamente positivo in una cartolina postale da Abbazia del 14 aprile 1900 scritta a Elise Richter, a√nché ella prendesse contatti con il filologo pistoiese alla Crusca. In un’altra cartolina postale da Firenze, senza data e timbro, Mussafia informa di aver rivisto l’edizione critica della Vita nuova in corso di pubblicazione. Infine, «un fantomatico bigliettino» contiene la seguente notazione: «Barbi ist ein grosser Dantist». Ricavo queste notizie da Lorenzo Renzi, Il carteggio di Adolfo Mussafia con Elise e Helene Richter, «Atti dell’Istituto veneto di scienze lettere ed arti», Classe di scienze morali e lettere, cxxii, a.a. 1963-1964, pp. 497515, alle pp. 508-509. 3   Del resto già in età giovanile, discutendo in una recensione tre recenti proposte filologiche sulla Commedia (Moore, Tauber e Negroni) Barbi comprese i meriti di Mussafia e riconobbe la giustezza del metodo: cfr. Michele Barbi, Per il testo della Divina Commedia, Roma, Trevisini, 1891, pp. 17-18 (estratto dalla «Rivista critica della letteratura italiana», vi, 5, 1891). 4 5   Adolfo Mussafia, Sul testo della Divina Commedia, cit., p. 4.   Ibidem.

mussafia e il testo della divina commedia

43

pietre, onde s’erigerà l’edifizio; anelli d’una grande catena; ma al lavoro finale, decisivo è forza che vadano innanzi i parziali, modesti e pazienti. 1  

Lo studioso dalmata oπre il suo contributo, si potrebbe dire in qualità di corrispondente alemanno, iniziando la collazione integrale di due codici conservati a Vienna e a Stoccarda e si ripromette di continuare con i manoscritti custoditi ad Altona, Breslavia e Francoforte, sebbene questa auspicata prosecuzione non venne mai realizzata. 2 I manoscritti studiati da Mussafia sono oggi il ms. 2600 della Österreichische Nationalbibliothek di Vienna, e il Cod. poet. et phil. fol. 19 della Württembergische Landesbibliothek di Stoccarda. Il primo, detto «Eugeniano» perché posseduto dal principe Eugenio di Savoia, è un codice membranaceo assegnato alla prima metà del secolo xv, anche se la littera textualis calligrafica potrebbe essere retrodatata. 3 Contiene la Commedia con rubriche latine, copiata su una colonna. Mussafia aveva già intuito l’area di provenienza settentrionale: per circoscrivere ulteriormente la zona, alcuni tratti lo ricondurrebbero più all’ambiente emiliano-romagnolo che a quello veneziano a cui è stato in passato assegnato. 4 Il codice pergamenaceo di Stoccarda oltre alla Commedia – copiata su due colonne, con rubriche volgari di mano recenziore (simili al tipo A) per Purg. e Par. – contiene il Capitolo di Bosone da Gubbio, la Divisione di Jacopo Alighieri e l’Acerba di Cecco d’Ascoli. La littera textualis di elevata qualità è stata assegnata all’ultimo quarto del xiv secolo, ma, come mi suggerisce Sandro Bertelli che ringrazio, potrebbe essere retrodatata a non oltre la metà del ’300. La Roddewig indica come provenienza l’area umbro-marchigiana, ma aveva ancora visto giusto Mussafia quando parlava di ambiente settentrionale: per Paolo Trovato, infatti, «non è irragionevole localizzare il codice in area emiliano romagnola» (così pensa anche Sandro Bertelli che mi ha fornito un’amichevole consulenza), non lontano dunque da quell’Urbinate 366, che in tempi recenti è salito alla ribalta della filologia dantesca. 5 Si tratta quindi di un codice molto importante, il quale merita di essere studiato a fondo e valorizzato in vista di una futura edizione del poema. 6 Il testo base di collazione scelto dallo studioso dalmata non poteva che essere la recente edizione del 1862, ma viene tenuta in considerazione anche l’edizione del 1837. Sono registrati «tutti i luoghi, in cui i […] due codici deviano dal testo del Witte, anche manifesti errori, anche sbagli di penna; perché tutto giova a far conoscere la relazione vicendevole, la parentela a dir così dei manoscritti». 7 Mussafia, dunque, non ignora uno dei principî fondamentali del metodo stemmatico, la distinzione tra varianti di sostanza e di forma, e infatti precisa giustamente, «inutile sarebbe però stato registrare tutte le varietà concernenti l’ortografia e la forma grammaticale delle voci», 8 tuttavia «a saggio dell’ortografia e delle varietà nelle forme grammaticali» è riprodotto «con diplomatica  













1

  Ibidem.   Che fosse nelle intenzioni e nelle speranze di Mussafia lo dimostrano non solo queste parole, «nutro speranza di potere fra breve esaminare quelli d’Altona, di Breslavia e di Francoforte» (ivi, p. 5), ma anche il numero 1 che compare nel frontespizio dell’estratto, come se i codici di Vienna e Stoccarda fossero i primi di una serie più lunga. 3   Per Mussafia è scritto «in sul dechinare del secolo XIV o per avventura in sul principio del seguente» (ivi, p. 6). 4   Cfr. almeno la sua scheda in Marcella Roddewig, Dante Alighieri. Die Göttliche Komödie. Vergleichende Bestandsaufnahme der Commedia-Handschriften, Stuttgart, Hiersemann Verlag, 1984, p. 352; da perfezionare con la scheda firmata da Paolo Trovato in Nuove prospettive sulla tradizione della Commedia. Una guida filologico-linguistica al poema dantesco, a cura di Paolo Trovato, Firenze, Cesati, 2007, p. 94. 5   Marcella Roddewig, Dante Alighieri, cit., pp. 323-324; Paolo Trovato, op. cit., pp. 92-93 (citazione a p. 93). 6   Il ms. è stato interamente digitalizzato. Cfr. il seguente link: http://digital.wlbstuttgart.de/index.php?id=6&no_cache=1&tx_dlf%5Bid%5D=2186&tx_dlf%5Bpage%5D=1&tx_ dlf%5Bpointer%5D=0 7   Adolfo Mussafia, Sul testo della Divina Commedia, cit., p. 5. E continua, limpido come un buon manuale di critica stemmatica: «Un certo numero di errori identici in due o più codici non può essere meramente accidentale ed è dato dedurne con su√ciente certezza che o l’uno derivò dall’altro o tutti scesero da una fonte comune, che già 8 conteneva quegli errori; in ambedue i casi la loro a√nità è fuori di dubbio» (Ibidem).   Ivi, p. 6. 2

donato pirovano 44 esattezza un canto della Commedia», 1 rispettivamente Purg., viii del manoscritto di Vienna 2 e Par., xxvii del manoscritto di Stoccarda. 3 Le varianti sono registrate in trascrizione diplomatico-interpretativa, come si direbbe oggi, perché Mussafia dichiara di correggere leggermente l’ortografia. In questo umile u√cio, «di semplice relatore», 4 lo studioso si astiene da ogni ragionamento sulla bontà delle lezioni, anche se non si esime dal notare una stretta a√nità tra i due codici. Non è un giudizio, bensì un’impressione che non deve essere enfatizzata, perché solo a impresa finita si potranno stabilire i rapporti tra i mss. e ricostruirne la genealogia. Purtroppo, però, – se si eccettuano gli studi di Antonio Fiammazzo sui codici friulani e veneti pubblicati più di vent’anni dopo 5 – l’appello di Mussafia rimase inascoltato. Forse «se fin d’allora si fosse seguìto il suo metodo, ora saremmo certamente in possesso dell’intera collazione dei testimoni diretti e indiretti dell’oceanica tradizione del poema», 6 del quale come noto manca ancora l’edizione critica, nonostante certi pomposi frontespizi recenti. Lascio però la conclusione a un’intuizione a mio giudizio illuminante. Mussafia dichiara di aver esaminato con particolare attenzione il Purgatorio. Al termine del suo esame scrive:  











Che il risultamento ottenuto per una cantica valga per tutta la Commedia è probabile, ma non certo; giacché è possibile che la storia della riproduzione dei manoscritti (almeno de’ più antichi) sia diversa per ciascuna delle tre cantiche. In tal caso vuolsi confessare che le di√coltà che si frappongono a porre in chiaro la genealogia de’ codici s’aumenterebbero d’assai. 7  

Se si pensa alla composizione e alla primitiva diπusione per cantiche dell’opera non si può non apprezzare la perspicace conclusione dello studioso dalmata, che andrà meditata dai futuri editori della Divina Commedia. Come le ultime ricerche stanno dimostrando – penso soprattutto ai lavori di Riccardo Viel –, la tradizione del poema in vita e in morte smentisce l’idea dell’archetipo unico e monolitico. 8 Il quadro è ben più complicato, e proprio per questo più aπascinante.  

1

  Ivi, p. 7.   La trascrizione è precisa e infatti si trovano solo pochi refusi (in parentesi la lezione corretta): v. 8 una (luna); v. 17 tutto (tuto); v. 33 contenne (contene); v. 60 ancor (anchor); v. 76 assai (asai). 3   La trascrizione è precisa e infatti si trovano solo pochi refusi (in parentesi la lezione corretta): v. 2 paradieso 4 (paradiso); v. 41 lino (Lino).   Ivi, p. 5. 5  Cfr. Antonio Fiammazzo, I codici friulani della Divina Commedia, Tip. Fulvio Giovanni, Cividale, 1887, in cui sono analizzati, sia dal punto di vista esterno sia dal punto di vista delle varianti del testo, alcuni codici tra i quali il Bartoliniano, il Florio, e il Torriani di Udine, il Claricini di Cividale e il Fontanini di S. Daniele; Idem, Codici veneti della Divina Commedia. Il Lolliniano di Belluno illustrato da Antonio Fiammazzo, Udine, Doretti, 1889; Idem, I codici veneziani della Divina Commedia, «Bullettino della Società Dantesca Italiana», xv, 1899, pp. 5-123. 6   Riccardo Viel, Sulla tradizione manoscritta della Commedia: metodo e prassi in centocinquant’anni di ricerca, «Critica del testo», xiv, 1, 2011, pp. 459-518, a p. 466. 7   Adolfo Mussafia, Sul testo della Divina Commedia, cit., p. 15. 8   Riccardo Viel, Ecdotica e Commedia: le costellazioni della tradizione nell’Inferno e nel Paradiso dantesco, in Culture, livelli di cultura e ambienti nel Medioevo occidentale, Atti del ix Convegno della Società Italiana di Filologia Romanza, Bologna, 5-8 ottobre 2009, a cura di Luciano Formisano et alii, Roma, Aracne, 2012, pp. 991-1022. 2

IL POETA E ROMANZIERE GIOVANNI PERICH (1941-2013) Vittorio Roda

N

ei primi mesi del 1969 esce per i tipi dell’editore Rebellato una smilza raccolta di poesie. Titolo, L’era delle ombre. Autore, Giovanni Perich. Chi è Giovanni Perich? Chi è il titolare di quella raccoltina? La risposta è la seguente: è il figlio d’un cittadino di Zara trasferitosi nella penisola poco prima della Seconda Guerra Mondiale. Milano prima, Bologna poi, queste le sedi in cui si stabilisce, con la moglie nata in terra toscana, il padre di Giovanni, rappresentante di abbigliamento. È nella seconda di queste sedi – Bologna – che nasce nel 1941 lo scrittore di cui parliamo; ed è a Bologna che lo conosce, e ne diviene amico, l’estensore di queste righe. La sezione C del Liceo classico «Luigi Galvani», quella in cui si trovava Perich, aveva come docente di Italiano e Latino un professore-poeta che si chiamava Gaetano Arcangeli, fratello del molto più noto critico d’arte Francesco Arcangeli. Ebbene quel professore aπascinò il suo giovane allievo; gli comunicò la passione per la poesia; lo suggestionò anche col suo inconfondibile modo di essere poeta, un modo ispirato alla cifra del riserbo, della solitudine meditativa, della distanza da ogni forma d’autocompiacimento e d’esibizione di sé. Il risultato di quel particolarissimo rapporto fu che Perich uscì dal Liceo con un’unica idea, fare poesia; e che di lì a pochi anni riusciva ad aπacciarsi sulla scena letteraria col volumetto appena ricordato: un volumetto in cui c’è già tutto lui. Al centro dell’Era delle ombre sta una storia d’amore. Il decorso di questa storia si può compendiare in poche parole: l’io poetico ama appassionatamente una donna, ma non arriva a essere corrisposto, a trasformare l’amicizia che la donna non gli nega in qualcosa di altro. L’inevitabile conclusione è l’infrangersi del disegno amoroso, culminante nel congedo dalla persona amata. È il primo degli eventi di questo tipo che è dato incontrare nelle raccolte poetiche di Perich. Non è eccessivo aπermare che il tema del distacco, della separazione, della rinuncia con tutti i suoi corollari è quello più fittamente rappresentato nei testi del nostro autore. Può trattarsi – è il caso più frequente – del distacco dalla donna che si ama; ma può trattarsi anche di altro. Il lettore dell’Era delle ombre s’imbatte anche nel distacco dalla madre, che muore precocemente, nella perdita d’un animale molto amato, il cane che intitola di sé uno di questi scritti; e via di questo passo. E va subito detto che al motivo del distacco s’associa di norma un altro motivo. Il poeta ha subito una perdita; ebbene, egli torna insistentemente con la memoria a ciò che ha dovuto lasciare. Lo ieri riempie di sé le cave strutture dell’oggi. Ne nasce una specie di tempo composto o tempo misto, con un presente e un passato che formano una cosa sola. 1 Che stato d’animo s’accompagna a questa operazione? La nostalgia, l’intenerimento? Sì, ma non soltanto. In queste rivisitazioni del passato raramente manca una volontà d’ esplorare, d’interrogare, di capire. Di capire che cosa? Limitiamoci al rapporto amoroso. Si tratta d’intendere perché le cose sono andate in un certo modo, e non in un altro; perché la tensione verso l’amore ha registrato una sconfitta; che cosa è mancato  

1   Viene in mente un autore molto caro a Perich: Svevo, lo Svevo delle Confessioni del vegliardo, per il quale, commenta il Magris, l’uomo vive in un tempo «unico» e «misto», refrattario «ai tempi puri e distinti delle grammatiche»: cfr. Claudio Magris, L’anello di Clarisse, Torino, Einaudi, 1984, p. 199.

vittorio roda 46 insomma, che errore è stato commesso, qual è stato, per usare parole di Montale, l’anello che non ha tenuto. 1 Tutto questo ritornerà, arricchito e approfondito, nelle raccolte successive. Ritornerà anche il tempo che ho appena definito composto o misto, arricchendosi d’una variante che nella prima silloge appare ancora in nuce. Il tempo in cui si muove l’io poetico si troverà ancora inarcato fra presente e passato; ma sarà anche e sempre più un tempo dove il presente si prolunga nel futuro, mescolandosi con esso. È il passare degli anni a provocare questa dislocazione. Il poeta è un cinquantenne, il poeta è un sessantenne. Il pensiero della morte e del suo avvicinarsi è sempre più attivo nella sua mente. Accade perfino che egli si senta già morto, o che ritragga la propria imminente appartenenza alla comunità dei defunti. Più comune e meno sconvolgente il quadro del proprio fisico deperire. Il corpo invecchia, le forze decadono, le rughe si moltiplicano sul volto. L’ultima e magistrale poesia dell’Era delle ombre anticipa questi motivi. Chi scrive non è ancora arrivato ai trent’anni; eppure gli accade di riflettere che un giorno egli non sarà più una persona in carne ed ossa, ma soltanto un ricordo. Tutti, scrive, tutti noi cittadini di questa terra ci trasformeremo in ricordi; il poeta non farà eccezione; di lui non rimarrà che una tomba baciata dal vento di primavera. Giovanni Perich ha pubblicato molte raccolte di poesie; 2 ed altre ce ne avrebbe lasciate se la sua vita non si fosse conclusa improvvisamente. Delle sue raccolte di epigrammi non parlo; 3 non è su questo terreno, il terreno della polemica con la cultura e gl’idoli del nostro tempo, che Perich ha dato il meglio di sé. Neppure nelle pagine in prosa va ricercato il meglio di questo artista. E tuttavia ai suoi due romanzi va riservata qualche attenzione, anche per il tentativo, che vi si rileva, di diversificare la propria attività, di oltrepassare i recinti della lirica, di essere, per così dire, uno scrittore a tutto tondo. I tredici anni che separano La città sfiorita 4 da Gli amari impatti di Malanato 5 non mutano la fisionomia del personaggio-protagonista, personaggio che, con una formula un po’ abusata, può definirsi l’ennesima variante dell’inetto a vivere. Nella figura che è al centro di questi romanzi non è di√cile, per chi lo conobbe, riconoscere il volto dell’autore, col suo sottile male di vivere, la sua solitudine, il suo problematico rapporto cogli altri. Tanto ad Assennati quanto a Malanato – questi i nomi dei due primattori – non è dato intrattenere un colloquio agevole e soddisfacente con la restante umanità, a partire dalle persone dell’altro sesso. Sono molte le figure femminili che s’aπacciano in queste pagine; e con ognuna di esse il rapporto è lo stesso che si riscontra nelle liriche, fatto di tenace attrazione e di incomprensione, di scacco, d’impossibile costruzione d’un colloquio concreto e stabile. Il risultato è la solitudine, si tratti dell’isolamento domestico o del vagabondaggio per le strade d’una Bologna che finisce per acquisire, nell’uno e nell’altro libro, un ruolo di primo piano, coi suoi portici e i suoi caπè, le sue chiese e i suoi negozi. Sono questi luoghi a ospitare il malessere d’un individuo che soltanto a tratti sembra trovare qualche forma di consolazione; soltanto a tratti e soltanto nella rimemorazione del passato, la madre, la casa dell’infanzia, le domeniche allo stadio, gli attori e gli spettacoli d’un tempo oramai scomparso, tutti oggetti ai quali, si legge nella  









1   «l’anello che non tiene» (Eugenio Montale, I limoni, in Idem, L’opera in versi, a cura di Rosanna Bettarini, Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980, p. 9). 2   Eccole, in ordine cronologico: L’era delle ombre, cit.; La saggezza e la grazia, Bologna, Lorenzini, 1975; Un inutile amore, Bologna, Lorenzini, 1976; Gli incantevoli mattini, Milano, Guanda, 1979; Poesie d’amore e quasi, Spinea, Edizioni del Leone, 1998; Un inutile amore, Spinea, Edizioni del Leone, 1999; L’unghia lunga del mignolo, Spinea, Edizioni del Leone, 2001; L’acrobata nell’azzurro, Torino, Aragno, 2004; Tra feudogiornalisti e feudocantautori, Bologna, Giraldi, 2010; La passione interminabile, Busto Arsizio, Nomos, 2012. 3   Le raccolte di epigrammi sono il settimo e il nono volume dell’elenco riportato qui sopra. 4   Giovanni Perich, La città sfiorita, Milano, Camunia, 1992. 5   Idem, Gli amari impatti di Malanato, Bologna, Pendragon, 2009.

il poeta e romanziere giovanni perich (1941-2013)

47 Città sfiorita, egli «è rimasto attaccato come un’ostrica […] perché, dopo, tutto si è impantanato o è franato». 1 Il Perich migliore resta peraltro il Perich lirico: quello che esordisce con L’era delle ombre, e che all’Era delle ombre fa seguire una lunga catena di raccolte che ne riprendono i motivi, a partire dal tema-chiave del distacco, del congedo, del doloroso abbandono coll’annesso amaro ripiegamento sul prima, su quello che si è perduto, su quello che poteva essere e non è stato. Quanti volti di donna s’aπacciano in queste raccolte, adolescenti, giovani, meno giovani! Tutte oggetto d’un trasporto aπettivo che non arriva mai, o quasi mai, alla reciprocità. Una sorta di diaframma s’innalza fra il poeta e la donna che ama. La causa può essere la diπerenza d’età: la donna è giovane, il poeta sempre più anziano. Ma il più delle volte quel diaframma è legato a fenomeni più sottili, e quasi impalpabili. La donna che sta di fronte al poeta ha in sé qualcosa di sfuggente. Nel suo grandioso ciclo narrativo, Alla ricerca del tempo perduto, Marcel Proust parla di certe creature femminili come di «esseri di fuga». 2 Perché questa definizione? Perché le creature in questione hanno dentro di sé qualcosa che si nega, che non si lascia sorprendere, che si sottrae alla lettura del partner maschile. Ebbene, qualcosa di simile s’incontra nel nostro scrittore. L’io poetico, dall’osservatorio del presente, ripercorre minuziosamente il passato; rivive dentro di sé la storia dei propri amori irrealizzati; e si trova a fare i conti con creature muliebri spesso indecifrabili, sfuggenti, chiuse in una loro imperforabile separatezza. Che cosa c’era dentro quella donna? Qual era il suo segreto? Quale ragione motivò il suo rifiuto? Di√cile rispondere. Una cosa sola è certa: che le cose sono andate così, che l’amore non è scattato, che la storia amorosa è finita prima ancora d’iniziare. Il motivo della separazione e della perdita, peraltro, non riguarda soltanto la donna. È tutto un universo di persone e anche di cose che, raccolta dopo raccolta, vediamo sottrarsi all’aπetto e alla frequentazione del poeta. Muore la madre; dopo di lei il padre: ed entrambe queste perdite attivano, come d’abitudine, il meccanismo del ricordo, del rivivere il già vissuto e del riviverlo criticamente. Fu di√cile il rapporto col padre. Ma perché fu di√cile? Che cosa non funzionò? Che cosa, quel dalmata sanguigno, rinchiudeva in sé, che non è stato capito? Memorabili le poesie dedicate a un’altra perdita, quella del maestro poetico di Perich. 3 Gaetano Arcangeli muore. Il poeta lo rievoca insistentemente; e rievocandolo si sforza, anche in questo caso, di capire chi era veramente quell’uomo, che cosa celavano quei suoi silenzi, quel suo elegante riserbo. Una folla d’interrogativi si accumula in queste liriche; e una folla d’ipotesi, tutte inverificabili. Né si dimentichino le cose, le cose amate e perdute per sempre: la casa dell’infanzia, le vacanze infantili sull’Adriatico, le partite di calcio, i film in bianco e nero. È un elenco che potrebbe continuare a lungo. E tutte queste perdite rendono il poeta sempre più solo, sempre più confinato in una dimensione irrelazionale, sempre più chiuso nel circuito del proprio io. Si restringono gradualmente anche i luoghi del suo stare e del suo camminare. Il poeta ama aggirarsi per le strade di Bologna; ma questo suo muoversi per la città accorcia, anno dopo anno, il proprio perimetro di partenza. Se prima egli amava certi luoghi, ora non li ama più. Se prima percorreva certe strade, ora le esclude dalle sue scelte. La ‘sua’ città diviene a poco a poco ‘non sua’ o ‘meno sua’. Evidente l’a√nità con problematiche novecentesche universalmente note. Si prenda un testo come Casa d’altri, romanzo breve del reggiano Silvio d’Arzo. 4 Che significa Casa d’altri? Io vivo sulla terra. La terra è la mia casa, e non ne ho altre fuori di essa. Eppure in questa  







1

  Giovanni Perich, La città sfiorita, cit., p. 14.   Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, a cura di Paolo Serini, Torino, Einaudi, 1963, iii, pp. 82-83. 3   Le s’incontra nella raccolta La saggezza e la grazia, cit. 4   Casa d’altri appare per la prima volta in volume nel 1953 (Firenze, Sansoni).

2

vittorio roda 48 casa io vivo male; non la percepisco come mia; mi sento, nella mia stessa abitazione, un estraneo, un forestiero. Questo senso di spaesamento è largamente attestato nelle liriche di Perich; come è attiva, nei momenti di maggiore sconforto, la percezione di sé come qualcosa d’inconsistente, d’irrilevante, come un’entità sprovvista, per dir così, di spessore ontologico. È una vita autentica la sua? No, è una vita fittizia: «Vivo, lo sai, per finta», si legge in uno dei suoi testi. 1 Il suo vivere è un sopravvivere, sta scritto altrove, in una lirica intitolata appunto Sopravvivenza. 2 Quel che gli tocca vivere è alcunché di miserevole, di residuale: Perich parla del «piccolo cabotaggio che gli resta»; 3 parla d’una esistenza passata «a scusarsi» di esserci; 4 parla del suo «rotolare nella vita con / giorni senza varianti». 5 Non vorrei però, accumulando citazioni del genere, dare a chi mi ascolta un’impressione errata: l’impressione che Perich non ami la vita, che non siano concessi anche a lui momenti di pienezza, di felicità, d’esuberanza vitale. Il prevalere del registro splenetico è un dato indubitabile; ma lo spleen può anche aprirsi a stati d’animo alternativi. Si pensi alla lirica Il fiume, testo d’apertura dell’Era delle ombre, con quel senso d’ebbrezza quasi panica sperimentato sulle rive d’un corso d’acqua; o si pensi a Primavera, innervata a una ferma dichiarazione di, nonostante tutto, amore per l’esistenza. 6 L’ultima raccolta di Perich s’intitola La passione interminabile. È stata data alle stampe nel 2012, pochi mesi prima della morte. Si tratta, a mio parere, del suo libro più riuscito. Arrivato alla soglia dei settant’anni, Perich fa una specie di bilancio della sua vita, da una parte immergendo lo sguardo nel passato, dall’altra spostandolo verso il futuro. Ne risulta, anche in questo caso, quella temporalità composta di cui abbiamo detto più volte, con un presente che sembra abdicare alla sua autonomia per mescolarsi col prima e col dopo. Giuseppe Pederiali, prefatore del volume, parla dell’autore come d’un «uomo che vive passato prossimo, passato remoto e presente come un unico tempo». 7 Ha ragione. Dimentica però, Pederiali, che quel presente che si proietta verso il passato si allunga anche verso il dopo. L’oggi non si mescola soltanto con lo ieri, ma anche col domani dell’estensore di questi testi. Ed è proprio la prefigurazione del futuro lo stigma più inquietante della Passione interminabile. Che cosa è, infatti, il futuro di cui si parla? È il breve futuro che al poeta resta da vivere; ma è anche quello lunghissimo e indecifrabile che si stende oltre la porta della morte. Lo spettro della fine – della fine imminente – aleggia su molti di questi componimenti, rilanciando nella forma più radicale quel tema del congedo che struttura tanta parte della poesia di Perich. Il congedo non è più da questa o quella donna; da questa o quella persona o località o fase della vita. È il congedo dalla vita. Troverà qualcosa, il poeta, oltre le soglie della morte? Troverà una forma d’aldilà? Perich non fornisce una risposta. Quello che si limita a sceneggiare è una sorta di comunità dei defunti, di loro umbratile vita incomunicante coll’esistenza terrena. E proprio ai morti il poeta si rivolge, in una delle più intense liriche della silloge, per averne una risposta sui misteri che avvolgono l’esistenza umana. Senonché quella risposta non viene. Ci hanno amato, i nostri morti; parlerebbero, se potessero; diraderebbero i nostri dubbi; ma non possono farlo:  













Chiediamo ai morti, e non ce ne accorgiamo, alle loro unghie e capelli ancora in crescita, 1

  Giovanni Perich, Un inutile amore, cit., p. 14. 3   Ivi, p. 15.   Ivi, p. 18. 4 5   Ivi, p. 22.   Ivi, p. 26. 6   Primavera si legge nell’Acrobata nell’azzurro, cit., p. 148. 7   Giuseppe Pederiali, Giovanni Perich e i termini della passione, in Giovanni Perich, La passione interminabile, cit., p. 10. 2

il poeta e romanziere giovanni perich (1941-2013)

49

freschi depositari del Mistero, […] un obolo: quel sì o quel no capaci di cambiarci la vita. E uno stupore, quasi un rancore ci prende per quella loro omissione così in contraddizione con gli ultimi straziati momenti. Eppure lo sappiamo che non è vero, che ce la direbbero, potendo, quella importante parola, lo farebbero, ancora per amore. 1  

Della comunità dei morti presto il poeta si troverà a far parte. Questa consapevolezza lo accompagna continuamente. Al punto che dai morti si sente chiamato; che la morte già se la sente dentro; che avverte come prossimo il congedo dalle «belle cose» che popolano il mondo dei vivi: «E sono io ora che lascio / le belle cose e nessuno mi salva». 2 E intanto le forze scemano, la carica vitale s’allenta di giorno in giorno, il sangue s’impoverisce, segno inequivoco d’una vita che «prende in modo indolore / le distanze da sé». 3 Aveva ragione Sbarbaro, annota il poeta, quando contemplando il vecchio padre scriveva un verso come questo: «Padre che muori tutti i giorni un poco». 4 È vero, ogni giorno ci si congeda da un frammento di vita. Ogni giorno la morte fa un passo verso di noi. Questo fatto un tempo il poeta l’ignorava. Ora lo conosce fino in fondo:  





Ignoravo che una fase non è solo se stessa, che una lavora nell’altra. Che il futuro, se c’è, è già nel presente. 5  

Il domani insomma fa già parte dell’oggi; è già dentro di noi. E poiché il futuro di ciascun uomo è la morte, quella morte è già internata nel nostro vivere. È una riflessione profonda e dolorosa; ed è la più lucida formulazione della nozione del tempo tipica del nostro poeta, con quella ricorrente abrogazione delle distinzioni temporali, con quella loro mescolanza, con quella fusione di passato, presente e futuro in un continuum senza vere scansioni interne. In questo quadro di bilanci, prodotto d’un uomo che sente oramai la fine sopra di sé, l’amore per la donna continua ad occupare uno spazio rilevante. Ed è secondo soltanto ad un altro amore, quello per la poesia, sul quale l’artista s’intrattiene più ampiamente di quanto accada in altre raccolte. Vita di poeta, s’intitola la prima sezione del libro; Vita di poeta. E i titoli dei singoli componimenti – Nascita della vocazione, Perché scrivo, La gloria… – introducono il lettore nelle regioni più segrete della psiche di questo scrittore, un uomo che ha posto la poesia al di sopra di ogni altro valore, sacrificando alla scelta di essere poeta una moltitudine di altre scelte, di altre possibilità, di altri modi di amministrare la sua vita. Chi l’ha conosciuto lo sa molto bene: fare poesia ha significato, per Giovanni Perich, rinunciare scientemente e convintamente a molte delle tante strade che ogni uomo si trova davanti. Il giovane Perich, quello che io conobbi in anni lontani, era nel pieno di questa scelta; e mi stupiva con la sua determinazione, con la rigidezza di quella sua opzione che era, per molti aspetti, sinonimo di rinuncia, di 1

  Giovanni Perich, Un’attesa parola, in Idem, La passione interminabile, cit., p. 102. 3   Ivi, p. 99.   Ivi, p. 98. 4 5   Ibidem.   Ivi, p. 126. 2

vittorio roda 50 autoesclusione, di estraniazione dalla vita dei più. Cominciava, in quegli anni, a sentirsi ‘altro’; o se si preferisce, cominciava a sentire ‘altre’ le persone che gli stavano intorno, non esclusi i suoi amici migliori. Beninteso questa sua alterità non la avvertiva soltanto in termini positivi; percepiva fin troppo bene il peso di solitudine e di soπerenza che le era congiunto; ma quel peso ha saputo reggerlo fino in fondo. E d’altronde il suo esser altro rappresentava per lui, soprattutto negli anni ultimi, non tanto una scelta quanto una necessità, un destino, o una scelta che si era fatta destino. Ma è a questo destino, fatto d’altissima ambizione e di solitudine, di gratificazione e di soπerenza, che dobbiamo alcuni dei componimenti più significativi della poesia dei nostri giorni.

IL CALVARIO DELL’ITALIANITÀ: VOLA COLOMBA

DI BIBI DALAI PIETRANTONIO E GIANNI GRIGILLO Andrea Rondini

V

ola colomba 1 è un romanzo storico che in parte può essere associato alla nonfiction. In questa prospettiva vanno considerate tutte le vicende ricordate nel testo, veri e propri inserti saggistici, integrati da alcuni supporti fotografici. L’azione prende avvio nel 1928 a Trieste e il traliccio narrativo si focalizza sulla vicenda di Gianni, dalmata di Spalato ed esule a Trieste, di madre slava (di Cattaro), 2 fierissimo della sua italianità, e di Amelia, italiana di nascita croata 3. L’interesse di Gianni per la moglie Gisella si è spento e Amelia, innamoratasi di Gianni (è questo l’amore travolgente del sottotitolo) abbandona suo marito, Marsilio de Mistura – esule da Sebenico per non sottostare alla slavizzazione forzata 4 – e la figlia. La coppia attraverserà gli anni tremendi della guerra, dell’esodo e quelli del dopoguerra, rimanendo sempre unita fino alla morte di Gianni nel 1967, anche se Amelia dovrà rassegnarsi alla perdita della figlia, che non la vorrà più rivedere. Ma, soprattutto, si potrebbe definire il testo come la rappresentazione del calvario dell’Italianità, un calvario operante ‘da sempre’. Gianni ricorda la storia della propria famiglia e della vita spalatina: il nonno Nicolò Grigillo (1829-1882) nella sua attività commerciale aveva accumulato debiti, ma non per colpa sua: «Debiti dovuti alle avverse condizioni economiche e sociali degli italiani di Spalato provocate dalla politica austroungarica nella seconda metà del diciannovesimo secolo»; 5 né il figlio Pietro poté risollevare le sorti della famiglia e salvare l’attività commerciale avviata da Nicolò a causa delle condizioni ostili «all’elemento italiano» che si erano sviluppate in Dalmazia dopo la Costituzione del Regno d’Italia, nel 1861. 6 Infatti l’  











Impero Austriaco comprendeva numerose nazionalità. Polacchi, sloveni, cechi, tedeschi, croati, bosniaci, italiani, ungheresi ed altri popoli si univano agli austriaci per formare quel grande impero multinazionale e multietnico soggetto alla Casa degli Asburgo. Popolazioni che avevano sviluppato culture e condizioni di vita diverse e che si integravano sotto la civile, ma ferma autorità imperiale. Con la nascita del Regno d’Italia, ed ancor di più dopo che l’Austria dovette cedere il Veneto, nel 1866, le popolazioni appartenenti alla nazionalità italiana ancora soggette all‘Austria, desiderose di 1   Bibi Dalai Pietrantonio, Gianni Grigillo, Vola colomba. Una storia vera di Dalmazia: tre esodi e un amore travolgente, Prefazione di Dario Fertilio, Cinisello Balsamo (Milano), Libertates, 2014. 2 3   Ivi, p. 21.   Ibidem. 4   Sebenico era stata lasciata nel momento del passaggio dall’amministrazione austriaca a quella jugoslava: «La strada dove abitavano, a Sebenico, portava un’alta colonna all’imboccatura, segno di privilegio e distinzione particolare delle famiglie aristocratiche della Serenissima […] i de Mistura di merito ne potevano vantare da quando, alle crociate, l’illustre antenato si era distinto nella conquista della Terrasanta, guadagnando così il titolo di marchese per le future generazioni. […] Per non piegarsi alla “slavizzazione” obbligatoria imposta dalla nuova amministrazione pubblica, il padre aveva abbandonato tutto e tutto era stato confiscato: così aveva abbandonato la sua terra natale, la sua Dalmazia tanto amata, muovendo […] verso territori italiani»; ivi, p. 19. 5 6   Ivi, p. 21.  Ivi, p. 22.

andrea rondini

52

ricongiungersi alla madrepatria, divennero elemento infido e temuto dagli Asburgo che vararono una politica di chiara ostilità nei confronti dei sudditi già appartenenti alla Serenissima Repubblica di San Marco, attentando direttamente alla loro identità nazionale. 1  

I funzionari imperiali operarono una politica etnica molto precisa, diretta a promuovere l’elemento slavo a classe dirigente, a defenestrare la cultura e l’attività economica italiana, con trasferimenti territoriali di interi nuclei famigliari. L’imperatore Francesco Giuseppe soprattutto dopo la sconfitta di Lissa, impose la germanizzazione del Trentino Alto-Adige nonché «la slavizzazione dei territori della Venezia Giulia, della Dalmazia, da attuare mediante l’occupazione dei posti pubblici, amministrativi, giudiziari, scolastici» 2 da parte dei cittadini e delle etnie di fiducia, vale a dire quelle tedesche in Alto-Adige e quelle «slovene e croate in Istria e Dalmazia». 3 Si tratta di una via crucis che conta altri episodi, per esempio quello della nave Monzambano con i suoi 14 marinai «barbaramente trucidati» nel 1869 4 e tocca il suo apice con la Seconda Guerra Mondiale. Uno dei punti di maggior pathos del romanzo, e una tappa del calvario dell’italianità, sono infatti i bombardamenti di Zara, in particolare il terzo, 5 del 16 dicembre 1943. Sono bombardamenti condotti dagli alleati – di cui non è del tutto chiara la motivazione – che credevano forse essere Zara località strategica nazista; in ogni caso, per il narratore di Vola colomba «si trattava di un piano premeditato voluto per terrorizzare la popolazione e liberare la città dai suoi abitanti italiani». 6 Il 2 novembre 1943 si registrarono 163 morti (e 250 feriti) a Cereria, un quartiere di Zara; il 28 novembre furono colpite la Scuola Industriale (mietendo vittime pure tra i bambini), la Colonia Agricola, l’Ospizio San Matteo, il traghetto Filippo Corridoni (30 morti): i brandelli dei cadaveri si trovavano anche sugli alberi. 7 Un nuovo pesantissimo bombardamento avvenne il 16 dicembre e mise in ginocchio Zara; tra l’altro gli aerei angloamericani «si abbassarono fino a mitragliare la gente comune, lanciarono bombe incendiarie, colpirono abitazioni, strade, calli, caserme, imbarcazioni, opere civili, portuali, laboratori. […] I morti non si potevano contare, né seppellire». 8 I cadaveri erano dilaniati dai cani tra le macerie o, se finiti in mare, erano pasto per pesci e gabbiani. Le devastazioni della guerra risultano ancora più drammatiche se si pensa che la Zara d’anteguerra viene descritta con tratti quasi edenici:  













porto franco, meta turistica, clima straordinario, favorita dal governo del Duce, la città mostrava i segni della austera, ma illuminata dominazione austro-ungarica: ordine, pulizia, signorilità su di un impianto urbanistico dell’antica Roma, arricchito dalla dominazione veneziana. Gli stipendi dei funzionari pubblici, considerati in trasferta, erano nettamente superiori a quelli dei cosiddetti regnicoli, i costi erano inferiori. 9  

Entro tale prospettiva prende corpo il tema dell’Italianità, 10 che scorre lungo tutto il romanzo e ne costituisce la struttura di pensiero fondamentale; lo stesso fascismo è più volte concepito come la manifestazione storica di un tale sentimento d’italianità ontologica, la concretizzazione di un assoluto. In questi termini viene infatti presentato il fascismo  

1

2   Ibidem.   Ivi, p. 23. 4   Ibidem.   Ivi, p. 27. 5   Ivi, pp. 95-96. A proposito di calvario si veda quello sulla medaglia d’oro a Zara: Paolo Simoncelli, Zara. Due e più facce di una medaglia, Firenze, Le Lettere, 2010; Paolo Mieli, Il martirio di Zara italiana e la medaglia che non c’è, «Corriere della sera», 23 marzo 2010. 6 7   Bibi Dalai Pietrantonio, Gianni Grigillo, Vola colomba, cit., p. 94.   Ibidem. 8 9   Ivi, p. 96.   Ivi, pp. 72-73. 10   Per la riflessione sul binomio nazionalità/letteratura si vedano i contributi di Alberto Casadei, Sui rapporti attuali fra letteratura e nazionalità. in Letteratura e controvalori. Critica e scritture nell’era del web, Roma, Donzelli, 2014, pp. 91-123; Alberto Casadei, Stati instabili, non caotici: sui rapporti attuali fra letteratura e nazionalità, in Letteratura e nazionalità. Un binomio in discussione, a cura di Franco Marenco, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 69-96. Da una prospettiva storica, Silvana Patriarca, Italianità, Roma-Bari, Laterza, 2011. 3

il calvario dell’italianità

53 di Gianni: «Vedeva solo l’ordine che il Regime aveva portato dopo gli schiamazzi e le violenze del dopoguerra, identificava la lotta ai comunisti come l’argine all’espansione dei popoli slavi, apprezzava il sentimento patrio che Mussolini aveva saputo infondere nel popolo. Sentimento che solo la gente del confine orientale d’Italia poteva capire così profondamente». 1 Rievocando la sua fuga da Spalato, Gianni esclama: «ci trasferimmo a Trieste già nel ’19, quando si era capito che Spalato sarebbe stata assegnata alla Jugoslavia. Ah, se ci fosse stato il Duce già allora!». 2 Ed è proprio al Duce che guardavano coloro che, dopo il primo conflitto mondiale, avevano visto passare Sebenico e Spalato ai croati. 3 Le stesse scelte onomastiche di Gianni rispondono al pathos patriottico, visto che i figli avuti da Gisella si chiamano Dante e Giuseppe Garibaldi. 4 Il titolo del romanzo riprende il titolo della celebre canzone di Cherubini-Concina cantata da Nilla Pizzi che vinse il Festival di San Remo del 1952. Ecco il testo:  







Dio del ciel, se fossi una colomba, vorrei volar laggiù, dov’è il mio amor che, inginocchiata, a San Giusto prega con l’animo mesto: “Fa che il mio amore torni...ma torni presto!...” Vola colomba bianca vola...diglielo tu che tornerò... dille che non sarà più sola e che mai più la lascerò!... Fummo felici, uniti...e ci han divisi... Ci sorrideva il sole, il cielo e il mar, noi lasciavamo il cantiere, lieti del nostro lavoro, e il campanon... din... don... ci faceva il coro. Vola colomba bianca vola... diglielo tu che tornerò... dille che non sarà più sola e che mai più la lascerò!... Tutte le sere m’addormento triste e, nei miei sogni, piango e invoco te... pur el mi “vecio” ti sogna, pensa alle pene soπerte... piange e nasconde il viso tra le coperte... Vola colomba bianca vola...diglielo tu che tornerò... dille che non sarà più sola e che mai più la lascerò!... Dio del ciel!...diglielo tu!... 5  

La vittoria della Pizzi si situa però in un momento di√cile, quando Trieste «viveva l’angoscia di un potenziale cedimento della Patria sconfitta alle sempre più audaci pretese jugoslave. Le provocazioni della minoranza slovena e le dimostrazioni oltre frontiera organizzate dall’aggressiva politica del Maresciallo Tito avevano reso invivibile il clima politico cittadino». 6 Senza contare che la situazione descritta dalla canzone non diviene esperienza compresa e condivisa dalla comunità nazionale: «Di che dramma parlasse la canzone di Nilla Pizzi, infatti, non era noto che ai pochi che quel dramma lo stavano vivendo sulla propria pelle. Gli altri italiani ripetevano il ritornello «vola colomba bianca vola» solo perché era piacevole e famoso, senza pensare, senza conoscere, senza capire la soπerenza di quella amata che, inginocchiata a San Giusto, pregava con l’animo mesto perché il fidanzato, obbligato a rimanere nel cantiere oltre frontiera, tornasse presto da  

1

  Bibi Dalai Pietrantonio, Gianni Grigillo, Vola colomba, cit., p. 80.   Ivi, p. 41 (e p. 77). Si veda Annamaria Vinci, Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale, Roma-Bari, Laterza, 2011. 3   Bibi Dalai Pietrantonio, Gianni Grigillo, Vola colomba, cit., p. 84. 4  Ivi, p. 38. Si veda per esempio la motivazione per il nome Dante: «Dante, come l’Alighieri, il Sommo poeta, il padre della lingua italiana […]. Dante, come la Società Dante Alighieri, l’istituzione culturale italiana fondata da Giosuè Carducci nel 1889 che tutela e diπonde la cultura e la lingua italiana». 5   Il testo della canzone è tratto da wikitesti.com 6   Bibi Dalai Pietrantonio, Gianni Grigillo, Vola colomba, cit., p. 114. 2

andrea rondini 54 lei». 1 Non è forse inutile ricordare come Vola colomba fosse programmata alla fine delle pellicole cinematografiche (per esempio de Il Microfono è vostro del 1952, regia di Giuseppe Bennati) e quindi fosse entrata in un circuito d’intrattenimento che non favoriva la percezione del dramma storico. Inoltre, nel romanzo l’evocazione della canzone si intreccia, ad aumentare il quoziente di rabbia, alla descrizione di una accesa discussione tra Gianni e un certo Biziak sulla vicenda del centro culturale sloveno Narodni Dom ospitato presso l’Hotel Balkan (luglio 1920). Il calvario dell’Italianità si gioca non solo nelle vicende storiche ma anche nel conflitto delle memorie. 2 Oltre alla canzone di Nilla Pizzi, anche il melodramma (genere italiano per eccellenza) scandisce le pagine del romanzo, con sottili richiami tra le vicende musicali e quelle narrate. Si vedano i riferimenti a Un ballo in maschera (1859) di Giuseppe Verdi 3 (libretto di Antonio Somma da Gustave III ou Le bal masqué di Eugène Scribe), la cui protagonista femminile si chiama Amelia, anch’essa al centro di un amore travolgente, poiché, sposata a Renato, ricambia l’amore dell’amante Riccardo, ucciso nella scena finale da Renato (da quest’opera Gianni canticchia l’aria del I atto La rivedrà nell’estasi); al Va, pensiero, dal Nabucco (1842) sempre di Verdi 4 (libretto di Temistocle Solera), l’inno degli ebrei schiavi a Babilonia, vera e propria icona della diaspora, 5 divenuto inno degli esuli italiani istriani e dalmati, con la sua nostalgia della patria perduta; a Fedora (1898) di Umberto Giordano (libretto di Arturo Colautti, dal dramma di Victorien Sardou) 6 che presenta una certa attinenza con Vola colomba per il tema amoroso e per quello dell’esilio, legato al personaggio di Ipanov; ad Adieu, notre petite table, la romanza della Manon (1884) di Jules Massenet, 7 (libretto di Henri Meilhac e Philippe Gille), storia di un amore tragico. Ecco il testo (quartine di decasillabi) del Va, pensiero:  













Va, pensiero, sull’ali dorate; Va, ti posa sui clivi, sui colli, Ove olezzano tepide e molli L’aure dolci del suolo natal! Del Giordano le rive saluta, Di Sïonne le torri atterrate... Oh mia patria sì bella e perduta! Oh membranza sì cara e fatal! Arpa d’or dei fatidici vati, Perché muta dal salice pendi? Le memorie nel petto raccendi, Ci favella del tempo che fu! O simile di Solima ai fati Traggi un suono di crudo lamento, O t’ispiri il Signore un concento Che ne infonda al patire virtù! 8  





1

  Ibidem.   Ivi, pp. 115-117. Per una riflessione sul nesso storico tra memoria, confine e identità nell’area adriatico-orientale si veda Alessandro Cattunar, Il confine delle memorie. Storie di vita e narrazioni pubbliche tra Italia e Jugoslavia (1922-1955), Milano, Le Monnier-Mondadori Education, 2014. 3 4   Bibi Dalai Pietrantonio, Gianni Grigillo, Vola colomba, cit., p. 20.   Ivi, p. 97. 5   Matteo Brera, Le ali “dorate” della libertà. Il coro di ebrei in Nabucco e la ricerca della “Patria […] bella e perduta”, in Ebrei migranti: le voci della diaspora, a cura di Raniero Speelman, Monica Jansen, Silvia Gaiga, Italianistica Ultraiectina, 7, 2012, Utrecht, Igitur Publishing, www.italianisticaultraiectina.org. Scrive lo studioso: «Il concetto di diaspora, strettamente legato a quello di emigrazione, più o meno forzata, si intreccia spesso, nella cultura italiana, con tematiche nazionalistico-patriottiche. In particolare la librettistica è un genere piuttosto fertile, se analizzato in questa direzione»; ivi, p. 140. Oltre al Nabucco, le altre opere verdiane prese in considerazione nell’articolo sono I lombardi alla prima crociata, Ernani, Alzira, Macbeth, Il trovatore. 6 7   Bibi Dalai Pietrantonio, Gianni Grigillo, Vola colomba, cit., p. 40.  Ivi, p. 97. 8   Il testo è tratto da Verdi: tutti i libretti d’opera, a cura di Piero Mioli, Roma, Newton Compton, 1996 (consultato su www.liberliber.it). 2

il calvario dell’italianità

55

Il celeberrimo brano sembra accompagnare un altro motivo del romanzo. È interessante notare infatti che alla vicenda principale si associ quella di una ragazza ebrea, Lea, che, dopo la promulgazione delle leggi razziali, sceglie di fuggire e di raggiungere Israele sulla nave Galilea, 1 viaggio raccontato in una lettera d’addio all’amica Ester 2 Del resto gli iniqui provvedimenti razziali, annunciati da Mussolini proprio a Trieste 3 – quella porta di Sion 4 in cui la cultura ebraica ha rappresentato un importante enzima – «inquietavano gli animi di tutti, non solo quelli della consistente comunità ebraica, colpita dolorosamente nell’identità e nella dignità» 5 (la similarità tra il destino dalmata e quello ebraico è ricordata da Dario Fertilio nella prefazione). 6 Si potrebbe allora dire che lo stesso Gianni è un dalmata errante, con i suoi tre esodi: da Spalato a Trieste, da Trieste a Zara (in seguito all’abbandono del tetto coniugale da parte di Amelia), 7 da Zara a Treviglio (vi è poi un nóstos, quello da Treviglio a Trieste). Come si è visto, il sentimento di Italianità si unisce spesso a una nota di amarezza che diviene tragica nella serie di epita√ che scandiscono il testo, dai caduti zaratini degli anni Venti 8 (Lorenzo Greco, Ugo dal Fiume, Domenico Tempesta, Antonio Chersevan, Giuseppe Cerquenik, lo studente Coghelli, il milite Ventin, Francesco Tuchtan, i coniugi Marangoni, Romano Moise) a coloro che dopo la Seconda Guerra Mondiale caddero «per l’italianità di Trieste», uccisi dalla polizia inglese, come «Pietro Addobbati, Erminio Bassa, Leonardo Manzi, Saverio Montano, Francesco Paglia, Antonio Zavadil». 9 Peraltro, nella complessa vicenda del Narodni Dom persero la vita per mano croata, prima, nell’antefatto di Spalato, Tommaso Gulli (comandante della nave regia Puglia) e il motorista Aldo Rossi; poi, a Trieste, dove era stato indetto da Francesco Giunta, segretario cittadino del Partito fascista, un comizio per i fatti di Spalato, il dalmata Giovanni Nini, ucciso nei taπerugli e, presso l’Hotel Balkan, Luigi Casciana. 10 Se, per Renzo De Felice, l’attacco al Balkan fu il «vero battesimo dello squadrismo organizzato», 11 secondo il narratore di Vola colomba le cose stanno diversamente: «a incendiare l’edificio non furono i fascisti, che poi, nel ’20, ancora non esistevano. L’incendio scoppiò dal secondo piano, cioè dalla sede del Narodni Dom, che non era solo un centro culturale, ma evidentemente, un covo di violenti nazionalisti, un deposito di armi, di munizioni». 12 La ricerca e la difesa della verità sembra riassumere la vicenda di Gianni, la cui morte, contiene in sé, ancora una volta, la cifra acida dell’incubo della Storia (e delle mancanze della Politica), che si attua anche in tempo di pace, quasi emanazione di un avverso Destino: di questo tenore sono infatti le considerazioni dopo il ritorno di Trieste all’Italia: Gianni era avvilito «per il decadimento generale del senso di patria che coinvolgeva tutta la nazione, per l’antipatriottismo diπuso» 13 nonché per «la rinuncia della classe politica a qualsiasi rivendicazione delle terre perdute, e, persino, per la rinuncia alla verità storica che aveva segnato il destino di quelle terre». 14  



























1   Una testimonianza del viaggio sulla Galilea in Yoel de Malach, Tu andrai in Palestina, in Angelo Pezzana, Quest’anno a Gerusalemme. Gli ebrei italiani in Israele, Firenze, Giuntina, 2008, p. 49. 2   Bibi Dalai Pietrantonio, Gianni Grigillo, Vola colomba, cit., pp. 88-90. 3   Silva Bon, Le leggi razziali: peculiarità dell’applicazione e resistenza ebraica nel caso Trieste, in Le leggi razziali antiebraiche fra le due guerre mondiali, a cura di Oddone Longo, Mario Jona, Firenze, Giuntina, 2009, pp. 69-78. 4   Moni Ovadia, La porta di Sion. Trieste, ebrei e dintorni, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 1999. Si veda anche Daša Drndić, Trieste, Milano, Bompiani, 2015. 5   Bibi Dalai Pietrantonio, Gianni Grigillo, Vola colomba, cit., p. 85. 6   Dario Fertilio, Un album di famiglia, ivi, p. 5. 7 8   Bibi Dalai Pietrantonio, Gianni Grigillo, Vola colomba, cit., pp. 54-55.   Ivi, p. 76. 9 10   Ivi, p. 119.   Ivi, p. 116. 11   Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario (1883-1920), Torino, Einaudi, 1965, p. 624. 12 13   Bibi Dalai Pietrantonio, Gianni Grigillo, Vola colomba, cit., p. 116.   Ivi, p. 120. 14   Ibidem.

IL DIO GRECO. FORME DEL RELIGIOSO E TENSIONE METAFISICA NELLA SCRITTURA DI ALBERTO SAVINIO Antonio Sichera 1. Savinio moderno

S

avinio è il prototipo dell’artista romantico, e dunque moderno. Ma non si darebbe ragione sino in fondo di questa apparente ovvietà, se non si dirigesse lo sguardo sul principio originario del movimento moderno secondo Savinio. Per lui, essere moderni significa infatti essere greci: «tutto nello spirito greco è moderno». 1 Ora, che l’inizio dell’avventura moderna sia posto in Grecia è il postulato decisivo dell’intero Romanticismo tedesco (e dei suoi epigoni), da «Athenaeum» in poi. Il manipolo di giovani intellettuali riunitisi a Jena attorno a Friedrich e ad August Wilhelm Schlegel pensò infatti, con determinazione assoluta, che il nuovo inizio della cultura europea dovesse essere posto sotto il segno dei padri greci, come uno specchio privilegiato in cui rimirarsi per scoprirsi tanto vicini quanto lontani da loro, e pronti perciò, in forza della diπerenza, a una creativa rifondazione della nuova paideia su una base squisitamente ellenica. Lo squilibrio moderno, il suo ondeggiamento spumoso, la sua tensione inesausta è il frutto di un confronto serrato con un’origine considerata in maniera radicalmente unitaria. La millenaria sintesi tra il principio greco e quello giudaico-cristiano, su cui l’Europa si era radicata fino alle soglie della modernità, è a Jena negata e violentemente attaccata. Non si comincia dal vero, ma solo dal bello. Sostituire una Neue Mithologie all’usurata messa in scena del Dio della Bibbia è un compito primario della nuova cultura. Per salvare il mondo bisogna senza remore estetizzarlo. È questo in filigrana il moto veramente fondativo del moderno, il suo specifico più acuto. E non è un caso che Savinio, intellettuale aperto e cristallino, uomo nuovo fino al midollo, riesca – al di là di ogni consapevolezza esplicita del nesso, e meglio di chiunque altro – a rendere plasticamente nella sua opera la decisività dell’alternativa e a raccontarcela con la distanza ironica di chi può dare ormai per acquisito il transito. È la storia del «Dio greco», posta non per nulla al centro dell’Infanzia di Nivasio Dolcemare, giovinetto al bivio, con tutta la leggerezza del caso, tra vocazione presbiterale e vocazione estetica:  

Nivasio Dolcemare non solo non s’è fatto prete, ma la sola dea che egli riconosce è la dea Intelligenza. Forse sarebbe il caso di esaminare le cause di questa diversione. Ma è una diversione o non piuttosto una conversione? / Dio, Nivasio Dolcemare lo ha cercato a lungo. Per molto tempo il suo cuore è stato in forse tra il Dio cattolico e il Dio greco. Infine prevalse il Dio greco. Perché? La Chiesa cattolica di Atene è dedicata a San Dionigi l’Aeropagita. È un edificio chiaro e freddo. L’abside è decorata dall’ultimo dei barocchisti, Ermenegildo Bonfiglioli, venuto in Grecia per espresso invito di Monsignor Delenda, arcivescovo cattolico di Atene. / In quegli anni Paul Cézanne cominciava 1  Alberto Savinio, Tommaso Campanella, in Idem, Scritti dispersi, a cura di Leonardo Sciascia, Milano, Bompiani, 1989, p. 57.

il dio greco

57

a far parlare di sé, ma il suo nome non aveva sonato ancora alle orecchie di Monsignor Delenda, e si teme che questo prelato sia arrivato ai gaudi celesti ignorando nonché l’opera, ma il nome stesso del pittore di Aix. […] Da quanto precede si potrebbe inferire che Nivasio Dolcemare è cézanniano. Errore. […] Tuttavia, e pur dentro la nube che lo avvolgeva, Cézanne ebbe il merito di scoprire, o meglio di riscoprire un fondamentale principio della pittura, e cioè che la pittura non è riproduzione dal vero. E particolarmente quando si dipingono figure umane […] bisogna […] scendere così profondamente nella realtà dell’uomo figurato, da dare di lui una specie di radiografia intellettuale. / Abbiamo dunque buone ragioni di credere che se l’abside della Chiesa di San Dionigi Aeropagita fosse stata dipinta non da Ermenegildo Bonfiglioli ma da Paolo Cézanne, Nivasio Dolcemare molto probabilmente non avrebbe optato per il Dio greco e oggi, chi sa? sarebbe forse un insigne teologo, un coraggioso missionario, o addirittura un Principe della Chiesa. 1  

È in virtù di questa rivelazione ‘negativa’ che Nivasio sceglie l’Arte e la esalta, nel romanzo, come «sola attività che c’interessi, non […] soltanto preghiera, dedizione, oπerta, ma […] presa di possesso anzitutto, atto di conquista, costruzione volontaria, imperativa, trionfante». 2 Il suo passaggio, la sua conversione dal sacerdozio cattolico all’Intelligenza pura, trae motivo dalla visione sconsolata – durante la noiosa cantilena della liturgia – dell’aπresco del Bonfiglioli, in cui Dio e il suo Figlio, pur nella loro siderale distanza, appaiono esemplati sul conte Minciàki e su Antoine Calaroni. E «benché Nivasio non avesse ancora una idea molto chiara della metafisica delle arti, quel Paradiso che non era se non la continuazione di quella medesima ‘società’ di cui di giorno in giorno egli andava approfondendo l’insondabile vacuità e la incommensurabile idiozia, non lo capacitava». 3 Nivasio parte perciò alla scoperta del segreto del Dio greco, e in una onirica incursione notturna, illuminata dalla luna di Ciaula e simbolicamente connotata da un’uscita dalla città simile a quella di Augusto Bombichi, 4 entrato in un paraclissio, una cappellina campestre dove l’aπresco del Pantocrator dall’Occhio Triangolare lo aveva già beneficato di una «dolcissima compassione», 5 Nivasio può finalmente conoscere le fattezze del Dio greco collocato al di là dell’iconostasi. Lui, il giovane Dolcemare, che già «sapeva che lì a due passi, dietro quella tenda di percallina rossa, nel recinto inviolabile e freddo, sopra una sedia spagliata, avvolto nel pastrano inverdito dall’uso, la barba pepe e sale, l’occhio triangolare sotto il tubino logoro, stanco e sfiduciato, sedeva il Dio greco»; 6 lui, che era stato preso da «una calda pietà», fino alle lacrime, per quel Dio così umano, così povero, sperando in quella notte di potergli portare dei viveri di conforto – una bottiglia di vino dolce e due sigari –, si trova ad intuirlo «seduto dietro la tenda di percalle, al lume di una candela», 7 a fumarsi una sigaretta. Se poi improvvisamente il sogno finisce e l’incontro si rivela impossibile, Nivasio capisce però che quel Dio greco potrà incontrarlo nel mondo, nelle fattezze degli uomini che ignari vanno per strada, al caπè, al tram. E incarnazione del Dio della chiesetta greca sarà per lui quel signor Saranti («il Signor Saranti è un Dio»), 8 degradato demiurgo di un’Agenzia di collocamento, in cui i corpi argillosi di donne e di uomini, dal loro dominus miracolosamente ‘creati’, vengono oπerti ai più o meno danarosi clienti, fra i quali anche il papà di Nivasio. E quando il signor Dolcemare vorrà sfuggire alla soggezione del Dio, si troverà per casa la serva prostituta propostagli dalla mezzana Basilica, a cui idealmente si contrapporrà la  













1  Alberto Savinio, Infanzia di Nivasio Dolcemare, in Idem, Hermaphrodito e altri romanzi, a cura di Alessandro Tinterri, introduzione di Alfredo Giuliani, Milano, Adelphi, 1995, pp. 594-597. 2 3   Ivi, p. 599.   Ivi, p. 605. 4   Cfr. ivi, p. 611 e p. 614. La luce della luna che accompagna e inonda la fuga ‘liberatrice’ di Nivasio richiama da vicino la folgorazione del Ciaula pirandelliano, così come l’uscita emblematica dalla città verso la campagna potrebbe rimandare, ad esempio, all’esodo salvifico di Augusto Bombichi, il protagonista di La levata del sole. Cfr. Luigi Pirandello, Ciaula scopre la luna, in Idem, Novelle per un anno, ii, a cura di Mario Costanzo, introduzione di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1987, pp. 456-464; Idem, La levata del sole, ivi, pp. 894-903. 5 6  Alberto Savinio, Infanzia di Nivasio Dolcemare, cit. p. 609.   Ivi, p. 610. 7 8   Ivi, p. 616.   Ivi, p. 626.

antonio sichera 58 Cleopatra di Saranti, protagonista di un’iniziazione sessuale senza amplesso del giovane Nivasio. È questa, in sintesi, la lunga storia del Dio greco che fa da catalizzatore all’infanzia del più resistente doppio dell’auctor. I lettori di Savinio non possono non coglierne facilmente la tramatura simbolica. Che cosa distingue infatti, nelle pagine del romanzo, il Dio cattolico dal Dio greco? I due poli semantici del Dio di Ermenegildo Bonfiglioli sono chiaramente la verità e la distanza. Fedeltà alla lettera dei corpi e verticalità del divino appaiono collegati. Il mondo del Dio cattolico è rappresentato secondo una forma unica. La sua verità è frutto di pura riproduzione. L’arte, secondo il Dio che campeggia nella Chiesa ateniese di San Dionigi Areopagita, è da intendersi quale pura copia di una realtà già data e immutabile, concreta e carnale fino alla volgarità del sesso da bordello, procurato dalla mezzana Basilica antagonista di Saranti. Per questo, la distanza tra il Creatore e colui che è chiamato a ra√gurarlo è assoluta. L’artista può solo rifare, riproporre e imitare i corpi e le cose frutto della ktisis divina. Ogni forma di creatività gli è preclusa. Nel rapporto tra il Creatore e l’artista si rivela paradigmaticamente la separazione di hegeliana memoria tra l’Immenso inattingibile e il Misero assoggettato, servo e riproduttore di quel che non gli appartiene in alcun modo. Ben diversa è la condizione del Dio greco per come essa si rivela enigmaticamente a Nivasio. Al posto della distanza del Dio della metafisica classica troviamo qui l’umanizzazione più tesa e straniante. Un uomo quarantenne, povero, aπaticato e con la sigaretta in bocca è questo Dio intuito dal giovinetto al di là dell’iconostasi. Radicalmente uomo, come lo è Saranti, ma soprattutto demiurgo, autentico creator, che so√a nell’argilla dei corpi senza vita per farli muovere come marionette, quasi come automi al suo comando. Alla separatezza siderale si contrappone qui la radicale umanità. Alla riproduzione pedissequa del vero, normato dalla creazione divina, fa da contraltare l’azione creatrice di un poietes che ‘fa’ il mondo e non lo ripete. Alla densità carnale dei corpi femminili, alla loro sostanza sessuale, si oppone la ‘misoginia’ del Dio greco, che quando deve portare in casa Dolcemare una donna che inizi Nivasio al sesso, gli risparmia indicativamente il contatto con la «ferita oscura» e lo introduce senza amplesso nell’universo muliebre. Se il discepolo del Dio cattolico è condannato alla distanza e alla sottomissione, chi si pone alla sequela del Dio greco diventa destinatario di una rivelazione estetica e impara a ricreare il mondo, anzi a salvarlo dalla sua materialità votata alla morte grazie all’azione dell’Arte. Un’Arte con la ‘a’ maiuscola, in quanto ormai uscita dal dominio classico e cristiano della preghiera e dell’oπerta, e resa adesso fulgido emblema dell’operare moderno, dove non si riceve un oggetto ‘dato’ per rifarlo, con la maggiore aderenza possibile all’originale mondano, al suo ‘vero’ corpo, ma si diventa soggetti capaci di fare liberamente, senza vincoli, in assoluta autonomia, al punto da poter conquistare il mondo con la creazione estetica. C’è diπerenza – dice Savinio – tra il bene ‘ricevuto’ e il bene ‘espresso’. E non si tratta qui solo di una divaricazione nel verbo, ma anche del conseguente, diverso rilievo del sostantivo, sottoposto dal participio ad una torsione in cui l’esprimere in sé sopravanza il bene. D’altronde, se l’uomo non è più creatura di Dio, «il suo corpo è sconsacrato […] Tutte le deformazioni sono consentite». 1 È chiaro ormai che il punto archimedeo di tale sconvolgimento cosmico non può più essere posto fuori dal soggetto creatore. Per secoli, per millenni – dice Savinio – abbiamo puntato lo sguardo verso un ‘punto X’ posto fuori di noi. Oggi l’artista moderno si è ripiegato in se stesso e cerca dentro di sé il segreto e il modello della propria creazione. Perché è l’anima dell’uomo, ora, il vero centro del mondo. Un mondo che in quanto  

1

  Idem, Illusione del definitivo, in Idem, Scritti dispersi, cit., p. 157.

il dio greco

59 formato, de-formato e ri-formato dalla soggettività estetica appare adesso psichicamente condizionato (il cosiddetto ‘psichismo delle forme’) e non oggettivabile, pluriforme e non uniformato, plasmato dal sogno e non dal principio di realtà, riportato all’infanzia – paradiso umano riguadagnato dall’arte («costruzione volontaria, imperativa, trionfante […] del nostro Paradiso») 1 – e dunque alla sua totalità ermafrodita. Traguardata dall’osservatorio totalizzante dell’arte, la realtà appare doppia, ossimorica, così come ossimorico è il cognome di colui che di questo nuovo verbo è discepolo, Nivasio appunto: ‘dolce’ e ‘amaro’ insieme. Siamo di fronte insomma ad una nuova metafisica. In quella antica, la separazione tra la terra e il cielo, tra il corpo e lo spirito creava una distanza incolmabile. Per destrutturare il suo impianto non si tratta però per Savinio, alla maniera surrealista, di abbandonare il rapporto con i corpi e di darsi ad una nuova creazione senza legami con il reale. Il punto è per lui una profonda continuità tra il fisico e il metafisico, in cui lo sguardo ‘da sotto’, quello dell’«ipocrita», ci restituisce nel movimento di ri-creazione del reale le sue radici profonde. Nel momento in cui l’arte moderna estetizza il mondo conferendogli nuova forma, esso non viene abbandonato al nulla, ma in virtù della stessa forza liberante del nulla è riconsegnato ad una identità radiografica, essenziale, più vera di ogni copia («la rivelazione dell’uomo nascosto»). 2 Una nuova distanza è qui però necessaria. Non più quella del Dio cattolico, verticalmente lontano dai suoi fedeli, bensì quella dell’artista sottratto alle condizioni quotidiane di esistenza. La rivoluzione romantica, come ripetono a ogni piè sospinto i poeti di «Athenaeum», esige l’abbandono consapevole degli uomini comuni, la noncuranza dei corpi immersi nella vita reale, nelle occupazioni e nelle relazioni di ogni giorno. La dedizione all’Intelligenza, a quell’intus-legere che è appunto il compito e la gloria della nuova metafisica, pretende che all’«uomo di carne» si sostituisca, nell’artista moderno, «l’uomo di marmo», completamente disinteressato a quanto aπatica e prende le donne e gli uomini mondani. Chi ricrea il mondo deve ‘alleggerirlo’ e quindi per primo ‘alleggerirsi’: il ‘dilettantismo’ saviniano è in questo quadro una forma di «felicità»: la capacità di prendere diletto, di non lasciarsi catturare – sulla scorta dei grandi compagni del famoso Circolo della caccia dell’‘umanità mentale’, da Stendhal a Nietzsche –, di aπrontare tutto con la giusta ‘ironia’, maschera preziosa ma mai univoca, in quanto portatrice sana e occulta di un di√cile ma realissimo amore: «l’ironia – e qui io parlo anche per me e lo dico alle orecchie fini – l’ironia è una forma di amore indiretto: è l’amore più pudico, l’amore più geloso». 3 A questo punto la ‘conversione’ è compiuta, e l’amore dell’ironista doppia l’amore del Dio biblico, separandolo definitivamente dall’orbita estetica, poetizzante e salvifica del Dio greco. Ora anche la morte, riplasmata dalla potenza dell’aistesis nella vita dell’artista, può essere aπrontata come una forma di «verginità suprema». Così, in Savinio si compie e si visibilizza al massimo grado ciò che a Jena e a Berlino era iniziato. Un altro tempo, un tempo ‘moderno’ accade e raggiunge in lui il proprio acme più fine e luminoso.  





2. Pirandello o la fessurazione dell’estetico Resta da riflettere sui residui. Lì dove sembra che tutto si decanti e si depuri, a guardar bene non mancano i problemi. Infatti le contraddizioni restano, e la soluzione greca non sottrae i propri discepoli a questioni aperte, a spinte e controspinte ideali. Fu per 1

  Idem, Infanzia di Nivasio Dolcemare, cit. p. 599.   Idem, Nostri antenati, in Idem, Scritti dispersi, cit., p. 25. Il corsivo è nel testo. 3   Idem, Luciano di Samosata, ivi, p. 36. 2

antonio sichera 60 primo Pirandello a capirlo. In lui, infatti, il transito da un Dio all’Altro, dalla religiosità popolare e scritturistica alla Grecia senza religio (all’infuori di quella estetica), non fu mai indolore. I suoi testi, dopo aver testimoniato una resistente vocazione edenica, si mossero dopo L’umorismo in direzione contraria, senza però mai perdere il rovello della vita vera degli uomini, delle loro passioni, del destino puro e semplice della carne e dei sentimenti, come anche il senso tormentoso del conflitto tra la prima creazione del Dio di Genesi e la creazione seconda del poeta moderno. La levità dell’Alberto discepolo non sembra di primo acchito seguire il maestro su questa china. Basti pensare alla proposta unilaterale di rilettura e di esegesi di All’uscita, dove la lunga citazione saviniana interpreta la posizione del Filosofo come quella tout court pirandelliana, senza fare spazio alla riscossa decisiva dell’Uomo Grasso nel prosieguo dell’atto unico. 1 Ma ciò non toglie che pure nei testi ‘vaccinati’, corrosivi, inquietanti e tesi di Alberto Savinio, privi rigorosamente di concessioni al surrealismo e di chiusure in un rinnovato classicismo (è il motivo ultimo della rottura con il fratello Giorgio), si possa respirare il vento di una corrente contraria, seppur minoritaria, rispetto al trionfo dell’intellettuale libero e spregiudicato. La si avverte nella «nostalgia dell’accento» che nell’Infanzia di Nivasio insidia suo malgrado «la lingua incolore, trasparente, bianca dell’uomo superiore»; 2 nel «filo di simpatia» cercato ogni giorno dal Signor Dido «per aiutarsi a vivere»; 3 nel sogno di un lavoro privo di «presupposti mentali» che prende Il signor Münster, insieme con un desiderio di accoglienza della «metafisica della vita» «senza esame, senza di√denza, con animo puro e grato come la poesia». 4 Ma la si sente in maniera suprema in Mia madre non mi capisce, un racconto centrale di Casa «la Vita». 5 Qui Nivasio Dolcemare, ormai adulto, artista aπermato e uomo sposato, con moglie e figli, a dimora in una casa bella e frequentata da estimatori ed amici, si trova a vivere una classica ‘epifania’ pirandelliana. Mentre legge infatti l’ennesimo biglietto di congratulazioni per la sua opera (nel quale in controluce intravede metafisicamente un rimando lusinghiero a Eraclito l’Oscuro) e si sente orgoglioso dei suoi libri, dove l’esistenza di Dio non è nemmeno negata, perché «sottintesa», nel quadro di «un argenteo vuoto» che «egli riempie della sua sola intelligenza» e che lo rimanda alla vittoria epicurea sulla religio nel potente elogio lucreziano («Quare religio pedibus subiecta vicissim / Obteritur, nos exaequat victoria caelo»; «perché Religione, gettata sotto i piedi, a sua volta è schiacciata, la vittoria rende noi uguali al Cielo», Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, i, vv. 78-79), Nivasio ode, nella stanza accanto, piena dei mobili antichi e da lui mai frequentata (metafora trasparente della parte infantile e ormai rimossa del sé), un lamento echeggiante ed insistente. È il lamento di sua madre, morta dopo un’agonia straziante e da lui finora obliata come tutte le cose dolorose e ‘intollerabili’; una madre apparsa ora ai suoi occhi come una ‘gallina piccola piccola’ e implorante. Preso da sentimenti contrastanti, tentato prima di chiudere la porta e di fuggire, ma poi convintosi repentinamente a riaccogliere la madre, a riportarla accanto a lui, per vivere per sempre con lei e placare così il suo lamento ‘fioco fioco e immensamente triste’, che non sa che farsene tra l’altro dei successi letterari del figlio, Nivasio intende nel muto linguaggio materno l’impossibilità per lei di uscire da quella stanza, ‘di abbandonare quei mobili, aprire le ali, staccare le zampette dal pavimento’:  









1   Idem, Fine dei modelli, «La Fiera letteraria», 24 aprile, 1º maggio e 8 maggio 1947, ora Idem, in Scritti dispersi, cit., p. 485 sgg. 2   Idem, Infanzia di Nivasio Dolcemare, cit., p. 607. 3  Idem, Il signor Dido, in Idem, Hermaphrodito e altri romanzi, cit., p. 737. 4  Idem, Il signor Münster, in Idem, Casa «la Vita» e altri racconti, in Idem, in Scritti dispersi, cit., p. 434. 5  Idem, Mia madre non mi capisce, in Idem, Casa «la Vita» e altri racconti, cit., pp. 344-357.

il dio greco

61

Nivasio capisce. […] egli vede l’altro aspetto delle cose. Allora Nivasio va a chiudere la porta dello studio, poi quella della stanza “sconosciuta”, ma non per le medesime ragioni di prima. Mentre chiude la porta dello studio e quella della stanza “sconosciuta”, Nivasio Dolcemare fa la più grande rinuncia che uomo possa fare: rinuncia alla sua vita, a quella che “credeva” la sua vita. […] Nivasio si avvicina alla piccola gallina, le si china accanto, cerca anche lui di farsi piccolo piccolo. Ci riesce. E nell’oscurità di quella stanza che credeva di non conoscere e che invece è la camera nella quale egli è venuto al mondo, Nivasio dà sfogo silenziosamente alle lacrime da tanti anni tenute a freno, e al pianto di un’intera vita. / Allora la piccola gallina cessa il suo lamento. / Ha ritrovato il suo pulcino. 1  

Dinanzi all’appello inatteso e straniante del corpo materno, di un’infanzia viva e carnale, di un contatto ancestrale, Nivasio rinunzia alla vita che credeva sua, quella dello scrittore di successo, soddisfatto della sua autonomia e della sua strutturale negazione del Dio antico ormai oltrepassato e ininfluente, e riappoggia la sua esistenza, la rifonda – con un tipico movimento religioso – fuori di sé, nell’abbraccio con colei che lo ha generato. Le lacrime, così intimamemente pirandelliane, suggellano il recupero di un eden perduto e rimosso, ritrovato in un lamento fioco eppure, nel cuore, enormemente potente. Dove il corpo e la carne si riaπacciano impensabilmente, in una consistenza ormai impensabile e contraria alla nuova metafisica, almeno per una volta, allora, il regno dell’Intelligenza greca va in frantumi. Segno di un conflitto di norma risolto, ma mai completamente placato. 1

  Ivi, pp. 356-357.

LA POESIA DI LUIGI MIOTTO E LA TERRA DI DALMAZIA Alfredo Luzi

J

 cques Monod, nel suo famoso saggio Il caso e la necessità, definisce lo sviluppo di a un organismo vivente con il termine ‘ontogenesi’, un processo in cui si incrociano le caratteristiche genetiche del soggetto e i condizionamenti ambientali. Poiché sul piano socio-letterario anche la poesia può definirsi un’entità che vive di vita propria, soprattutto nella sua continua attualizzazione tra scrittura e lettura, prendiamo a prestito la definizione del grande biologo per cercare di definire l’origine profonda del poetare di Luigi Miotto. L’ontogenesi poetica dello scrittore dalmata, che già aveva dichiarato la sua attitudine alla poesia con due opere, Autunnale e Ragnatele, pubblicate dalla Tipografia Commerciale di Spalato nel 1942 e nel 1943, subisce un radicale mutamento tematico e stilistico a causa di un trauma, l’abbandono forzato della terra natale, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, quando inizia l’esodo degli italiani dalla Dalmazia, che si protrarrà per alcuni anni fino alla scomparsa quasi totale della comunità italiana. Luigi Miotto si rifugia a Trieste ma porta con sé, cristallizzato nella memoria aπettiva, un paese interiore, uno spazio-tempo in cui ha passato l’infanzia e la giovinezza, il cui ricordo è reso ancor più angoscioso dalla consapevolezza dell’impossibilità del nostos, del ritorno, vagheggiato in una continua tensione ottativa e trasmutato in occasione poetica. L’esilio, definito da Said come «un’insanabile frattura scavata tra un essere umano e un luogo natio, tra il sé e la sua vera casa», 1 determina nello scrittore spalatino una percezione cronotopica dimidiata: la focalizzazione del presente è quasi sempre deformata dalla rifrazione delle immagini del passato filtrate dal ricordo. Nel titolo del volume pubblicato nel 1955 a Trieste dalla Tipografia Giuliana, Memoria del sole, la citazione montaliana («Smarriremo la memoria del sole» è un verso della poesia Noi non sappiamo quale sortiremo, in Ossi di seppia), sollecitata da una identificazione della condizione itinerante («Ancora terre straniere / forse ci accoglieranno», scrive Montale), subisce un rovesciamento di senso, da elemento negativo a segno positivo. Non l’oblio, non lo svanire delle proprie radici, ma una volontà indefessa di ritrovare la propria identità attraverso la funzione mnemonica delle immagini di vita vissuta nella terra d’origine. L’esergo, con la dedica «A mio padre e alla mia terra di Dalmazia», è, nella stretta connessione tra paternità e patria, un vero e proprio suggerimento ermeneutico per il lettore di questi versi. In eπetti, il lemma ‘terra’ svolge una funzione di parola-chiave e ricorre in ben diciassette poesie su un insieme di quaranta componimenti e si presenta come una macrostruttura archetipica che accompagna il viaggio storico e simbolico dell’autore spalatino. Già nel primo testo, ricco di echi della ungarettiana Silenzio, l’esodo è narrato come esperienza visiva della perdita di contatto con il proprio spazio vissuto («si perdeva già la terra»; «come sempre più lontana / era ormai quella terra») e nel contempo come esperienza psicologica di rapido mutamento del proprio tempo umano, scandito dagli  

1

  Edward Said, Riflessioni sull’esilio, «Scritture migranti», 1, 2007, p. 127.

la poesia di luigi miotto e la terra di dalmazia

63 indicatori cronologici («era ancora il ragazzo»; «poi fu l’approdo»; «lontana / era ormai quella terra»). Nelle poesie successive l’autore a√da il compito di collocare nel suo presente esistenziale le immagini di un passato, che egli non vuol far passare, alla invocazione nostalgica («O fitti stellati / sopra quella terra»; «O sereni cieli / sopra quella terra»; «Mia terra / predata dai calabroni»; «Come lontani siete, / miei scogli»), o alla domanda sollecitata dalla percezione dell’assenza («Ma quella terra dov’è»). La permanenza nell’immaginario del soggetto di un cumulo di visioni, paesaggi, suoni, eventi, incontri, che è il patrimonio (anche in senso etimologico) accumulato dall’io poetico durante la sua vita in Dalmazia, è garantita dalla memoria che, nelle opere di Miotto, recupera il ruolo gnoseologico attribuitole dalla filosofia platonica della conoscenza, basata sull’equazione mimnesco = gignosco. Le occorrenze di lemmi come ‘memoria’ o ‘ricordo’ sono frequenti quasi quanto quelle relative a ‘terra’ («Allora ricordo / quella terra lontana»; «Tempo di vento, / ricordo»; «domani questo cuore / forse è dell’acqua quieta / che lascia vedere / uno ad uno / al fondo / tutti i ricordi»; «Sento che ormai tutto / si allontana, / che ogni cosa bella / si fa nel ricordo / una carezza»; «Lasciatemi ricordare / ancora / una terra di campanili»). La dislocazione geografica, dalla Dalmazia a Trieste, corrisponde alla fine traumatica della giovinezza. L’invocazione d’impronta leopardiana: «fanciullezza mia / come passata sei», si alterna con la riflessione montaliana sulla «giovinezza / che si perse / con le barchette di carta». Ma in più, nella psicologia del poeta, c’è l’improvvisa presa di coscienza della propria condizione di esule, costretto ad allontanarsi per sempre dai luoghi patri. L’angoscia del non ritorno intacca inesorabilmente l’edificio memoriale del proprio vissuto che rischia di essere disintegrato dallo scorrere del tempo e da un appannamento dei ricordi. In una poesia, che sembra avere origine dalla trascrizione di un incubo, Miotto parla di «decomposizione di rocce»; «alberi violentati»; «strapiombi della mia terra»; «squame della luna». Se è negato il ritorno fisico al luogo natio, il passato può comunque essere rivissuto in interiore homine, tramite il processo di autoriconoscimento che il soggetto poetante elabora nel suo rapportarsi con il presente. L’io vive in una doppia scena dove gli elementi portanti sono costituiti, in una sorta di dinamica opposizione, dalla geografia della memoria e da quella della quotidianità. La nostalgia per «quella terra lontana» è come sollecitata dal confronto con Trieste, la «nuova città» dell’accoglienza, «la città quieta», «la città dai colli / che hanno prati di luna», percepita ormai come «la mia città», «la nostra città». Il dualismo spaziale è inoltre sorretto da una griglia cronologica che si regge sul contrasto tra ‘allora’ e ‘ora’. Molte composizioni di Memoria del sole presentano un doppio registro di configurazione temporale. In alcuni casi è l’‘allora’ a condizionare l’epifania dell’esistente; in altri casi l’avverbio ‘ecco’ sottolinea la rapidità del ritorno della Memoria del sole (per usare il titolo del volume) al presente, all’attuale. Il tentativo di tenere unito un insieme frammentario e diπerenziato di suggestioni poetiche, in cui domina la percezione visiva, è a√dato alla identificazione simbolica del paesaggio, interno o esterno, con la figura della donna («Mi ritorna / ancora il tuo volto // e la nostra città»; «il tuo ricordo / è la cima dorata dell’albero»; «Il tuo ricordo / è vento che snebbia»; «le donne / sono mandorli nei vicoli»). La connessione sinestetica ‘terra-donna’ è, ad esempio, la struttura portante dell’ultimo componimento di Memoria del sole: «Lasciatemi ricordare / ancora / una terra di campanili / come galli / a cantare / per le colline / il sole, // lasciatemi ancora / il ricordo / di una bocca rossa / di donna / in un geranio / alla finestra». L’icona femminile svolge dunque la sua funzione di sintesi in quanto rappresentazione figurata del desiderio. Questa opzione tematica e stilistica si avvicina all’opera poetica di Pavese in cui troviamo versi che hanno la stessa struttura compositiva di alcuni testi di Miotto.

64

alfredo luzi

Per limitarci ad un regesto incompleto: «Anche tu sei collina»; «sei venuta dal mare»; «Di salmastro e di terra / è il tuo sguardo»; «Sei la luce e il mattino». Numerose, in questa plaquette, sono le tracce della lettura di Leopardi e di Montale, assimilata in profondità da un letterato per attitudine e professione come Luigi Miotto. Ci si imbatte, talvolta, in vere e proprie citazioni appena velate da una modifica lessicale o strofica, quasi che il poeta, incerto sulla forza significante del suo linguaggio, cerchi un avallo stilistico in formule espressive canonizzate dalla doxa letteraria. Il riferimento leopardiano modula questi versi: «ricordare ancora / quel tuo canto / alla finestra»; così come la montaliana Vento e bandiere («La folata che alzò l’amaro aroma / del mare alle spirali delle valli, / e t’investì, ti scompigliò la chioma, /groviglio breve contro il cielo pallido») funge da suggestione tematica alla sequenza in cui Miotto parla dell’«improvvisa folata / che scompiglia / i capelli». Ancora tonalità montaliane si riscontrano nella iconografia muliebre che Miotto ci propone: «di te il ricordo / è ora come il verde / di un giardino / per un momento / intravvisto / dal malchiuso cancello!». O, a livello lessicale, nei «chiari mattini» di Verde nevica la primavera in cui s’avverte l’eco dell’attacco di A galla, poesia poco nota presente nel volume montaliano delle Poesie disperse: «Chiari mattini, quando l’azzurro è inganno che non illude». La simbologia femminile, individuata in Memoria del sole, in cui Miotto aggrega l’esperienza esistenziale alla visione della natura, può essere letta come anticipazione tematica di Poesie a Liliana, volume pubblicato un anno dopo (Trieste, Tipografia Giuliana, 1956). La tensione metaforica, che aveva suscitato figure di donna senza nome, non si stempera, anzi si concentra su un’immagine autobiograficamente connotata, quella della moglie Liliana. In un gioco di prospettiva, in primo piano balza la dimensione privata, quasi un diario amoroso che scandisce i momenti di vita vissuta insieme, mentre sullo sfondo s’accampa il groviglio dei ricordi visivi ed emotivi custoditi dentro di sé fin dal momento della rottura disforica dell’esilio. Eppure, come un fiume carsico, la terra di Dalmazia riemerge nella memoria e si propone come occasione poetica degli ultimi quattro componimenti di Poesie a Liliana. Ma l’iterazione dell’avverbio locativo ‘laggiù’, collocato ad inizio di testo in tre poesie («Perché è laggiù / quella mia terra»; «È laggiù / quella mia terra»; «È laggiù / quella mia terra») e al quarto verso nell’ultima («Come / fiorisce il mare / ora azzurro ora bianco / laggiù sempre / fra quei miei scogli / di Dalmazia») è già un segno distintivo della distanza sopraggiunta nella quotidianità tra il passato e il presente del soggetto poetante. La conferma della funzione ontogenetica dei ricordi giovanili e del forzato esodo è rintracciabile nell’opzione strutturale esercitata dal poeta nelle opere successive. Come in Poesie a Liliana, anche in Canne d’organo (Trieste, Tipografia Giuliana, 1957), e poi in Poesie (Trieste, Stabilimento Tipografico Nazionale, 1968), lo spazio-tempo della Dalmazia è cantato nei componimenti finali delle singole opere. Quel paesaggio cristallizzato è assunto come approdo mitico e fantastico del flusso poetico, locus amoenus vagheggiato ma ormai irraggiungibile. In Canne d’organo, un’opera di forte impronta metafisica e religiosa, la dimensione della nostalgia favorisce il ritorno simbolico, rivissuto nell’immaginario. Miotto si a√da all’invocativo («Ridammi agli occhi / Signore / quel mare / che il vento sempre colora, / quella mia terra di Dalmazia») o all’ottativo («Vorrei salire le scale di una casa / rimasta in quella città / che ho lasciato»), finanche all’imperativo interiore («Laggiù / devo portare / i miei figli / per la scalinata / di quel tempio / che al suo sonno / volle / il grande imperatore pagano: / tempio / dove ha pregato / anche il padre / di mio padre, / dove / noi abbiamo lasciato / un giorno / il dolore e la speranza / dell’ ‘esilio’ / nei ceri / accesi / sull’altare»). Ma la ragione gli oppone l’inesorabilità del non ritorno,

la poesia di luigi miotto e la terra di dalmazia

65 la coscienza del distacco definitivo dalla madre terra («Invece, / Signore, / bisognerà morire lontano / da quella città, / bisognerà essere sepolti / in una terra dura / pesante / che non è la mia terra»). Nei testi collocati nelle ultime pagine di Poesie il poeta riduce invece l’utilizzo di componenti visive per attualizzare il passato. La lontananza, spaziale e temporale, ha sfocato i profili del paesaggio e degli uomini, «i figli / hanno ormai dimenticato / l’‘esilio’ dei padri» – scrive Miotto –, i micro-eventi di allora vengono ora letti come prefigurazione profetica del futuro («Uccelli sbandati / da una schioppettata / la rete in cui si agita la lepre / erano nella campagna / immagini della vita: / altra realtà / non dovevo trovare / se non questa della fuga / e della rete tesa / senza più scampo»). Ma è su√ciente un pensiero di morte a riattivare l’idillio tra io e natura, secondo uno schema che ricorda Le cimetière marin di Valéry: «Un promontorio folto di cipressi / un piccolo cimitero / in riva al mare / ricordo / dove morire / sarebbe stato facile / come vela / ammainata dal tramonto / come barca / ormeggiata dalla sera». A distanza di circa quarant’anni da Poesie, l’Associazione delle Comunità Istriane pubblica nel 2006 il volume Prose e poesie che raccoglie testi in prosa e in versi pubblicati da Luigi Miotto sul quindicinale «Voce Giuliana», poi «La nuova Voce Giuliana» dal 1974. I brani in prosa sono dedicati alla storia, alla geografia, al folclore, alla lingua e alla gastronomia della Dalmazia. Qui Miotto abbandona temporaneamente le vesti di poeta e indossa quelle di storico ed antropologo. Ma, a posteriori, questi scritti confermano come la scrittura di Miotto trovi nell’esperienza vissuta della giovinezza spalatina e del trauma della diaspora linfa vitale per poter attestarsi sulla pagina. Pian piano nella biografia del poeta quel mondo si è sempre più radicato nel subconscio, si è in qualche modo essenzializzato ed ha assunto le modalità di una metafora ossessiva. In due poesie di Accendere parole, (Trieste, Edizioni Luglio, 2008) Miotto torna a parlare della Dalmazia, ma con accenti completamente diversi dai componimenti precedenti. In una conferma l’attutirsi del ricordo, favorito dalla progressiva distanza esistenziale, e la frantumazione dell’insieme iconico («Nel ricordo / ‘quella terra di Dalmazia’ / ha avuto colori a olio / che erano ancora luce e grido / si è poi stemperata nell’acquerello / nebbia che lentamente saliva / adesso non mi resta / che qualche tratto di matita / un orizzonte per la vela / che si fa gabbiano / e così si allontana»); nell’altra, foscolianamente, accetta la legge della condizione mortale dell’umanità ma nello stesso tempo individua nella dislocazione fisica e psicologica che il destino gli ha riservato le ragioni più profonde del suo poetare: («Mia terra / di porte auree e argentee / dalle quali più non escono / i generali romani / sconfitti dalla morte / mia terra / dagli archi di un palazzo / che l’imperatore / più non abita / anche Roma cade / mia terra / di veneti leoni / che ancora ricordano / il loro volo / mia terra / lacrima e sorriso / mia terra / fiore della memoria»). Nella parte iniziale del paragrafo intitolato La mia Dalmazia, presente in Prose e Poesie, egli aveva in eπetti già evidenziato il processo mitopoietico che lo scrittore ha percorso, dal patema esistenziale all’emblema metaforico: Sempre più spesso, in questi giorni, mi sento dire: “Caro Miotto, è proprio tanto lontana la Dalmazia, è davvero così di√cile il ritorno? Ed io non ho dubbi, non esito a rispondere: per me è più lontana del più lontano Paese di questo mondo e il ritorno laggiù è impossibile. Perché impossibile? Perché semplicemente quella Dalmazia, la Dalmazia della mia infanzia e della mia giovinezza, non esiste più, scomparsa da tempo, sprofondata nel mare: incanto, bellezza, mito, Atlantide adriatica. 1  

1

  Luigi Miotto, Prose e poesie, Trieste, Zenit, 2006, p. 67.

USO ED ABUSO DEL CIBO NELLE OPERE DI PETRONIO, DANTE, MALAPARTE E BETTIZA Živko Nižić · Nikolina Gunjević Kosanović

S

pesso usata struttura descrittivo-complementare di molte creazioni letterarie è la cucina. Questa importante realtà di tutte le civiltà storiche è oggi in oπensiva espansione nel ritorno all’esaltazione della cucina della nonna, fino ai tristi sapori ipnotici degli ingredienti chimici dominanti nella gran parte degli alimentari moderni. Sarebbe un tentativo inutile inventare qualche momento originale quando si parla dell’importanza della cucina nell’esistenza umana. Tuttavia è interessante un’indagine fatta recentemente dalla rivista «Il Venerdì di Repubblica». 1 Una delle domande era: «Che cosa la rende orgoglioso/a di essere italiano/a?». Al primo posto è venuta «la bellezza del nostro territorio», al secondo «il nostro patrimonio artistico e culturale» e al terzo posto «la cucina, i prodotti alimentari», con il 78% di risposte. 2 Il romanzo Esilio 3 di Enzo Bettiza, italiano di Spalato, cioè il capitolo Le cucine è l’oggetto del nostro principale interesse. Ci permettiamo di considerarlo tra i migliori testi letterari in lingua italiana che fa parte della letteratura dell’esodo. Spinto e ispirato dall’ultima guerra e dal crollo della Jugoslavia di Tito, Bettiza ci ha dato una grande e impegnativa sinfonia in veste storico-autobiografica, sullo scontro del confine della civiltà italiana in Dalmazia con le altre, soprattutto con quella croata. Ci sembra che il capitolo Le cucine di Bettiza, come nessun altro testo letterario italiano, superi in tutti gli aspetti il contenuto gastronomico profilato nella famosa oπerta di Trimalcione, il contrappunto centrale del tessuto di Satyricon di Petronio. Ci sembra logico partire con questa piccola digressione perché sembra che la sinfonia gastronomica dello spalatino chiuda in miglior modo la grande parabola latino-italiana dell’uso, ma alle volte anche dell’abuso della gola, come contorno creativo-critico-politico-pragmatico nella poetica dell’autore d’una parte, e l’espressione (formativa) del giudizio storico-personale verso le circostanze attuali d’altra parte. Si poteva immaginare che in queste cucine di Trimalcione e dei Bettiza si trovassero simili pasti basati sul pesce e cosiddetti frutti di mare. La stessa cosa succede con la selvaggina maggiormente presa nelle rispettive regioni e non importata dai paesi lontani o esotici. C’è qualche problema con i contorni vegetali importati in Europa dopo il periodo romano, problema la cui soluzione si rimanda per il momento. Faremo solo una ridotta scelta di quello che oπriva e oπre il mare e che si trova in queste cucine. Nel Satyricon c’è un’oπerta generale di pesce non specificato, come dice Petronio: «pesci che ci oπre la Sirte». 4 Bisogna dire che la festa di Trimalcione non è la festa del pesce. Quella dei Bettiza con i piatti di pesce e frutti di mare supera di più di dieci volte la rispettiva scelta di Petronio. Si può supporre che l’autore romano consideri che il pesce in genere sia  







1

  «Il Venerdì di Repubblica», dicembre 2009.   Tra 10 domande, al settimo posto era posizionata «I valori civili del passato: la Resistenza, il Risorgimento» con 50% di risposte. 3   Mondadori, Milano, gennaio 1996. La versione croata: Enzo Bettiza, Egzil, traduzione di Karmen Milačić, Split, Marjan tisak, 2004. 4   Petronio, Satyricon, p. 45. https://www.yumpu.com/it/document/view/16265210/petronio-arbitro-satyriconscanzoaltervistaorg-altervista (4 febbraio 2015). 2

il cibo nelle opere di petronio, dante, malaparte e bettiza

67 un pasto debole, poco saziante, e allora non tanto adatto all’abitudine romana di vomitare per fare posto ai nuovi cibi più pesanti e gustosi. Però, l’aragosta come una delizia gastronomica molto apprezzata nella maggioranza delle cucine delle civiltà europee, si trova in ambedue i libri. Nel Satyricon fa soltanto parte dell’elenco dei pasti di un determinato momento della cena. Nell’Esilio Bettiza ci dà un’informazione completa sul processo della preparazione di molti pasti; il rispettivo capitolo (Le cucine) è un manuale di eccezionale valore e la sfida irresistibile a ogni cuoco di alta ambizione. Così descrive anche vari modi per preparare e consumare l’aragosta. Vale la pena citare l’incredibile descrizione di una maniera di preparare l’aragosta come una delle specialità di suo padre. Diciamo che una simile ricetta, che ai momenti ha almeno una goccia di sadismo, non l’abbiamo trovata in nessuno dei parecchi manuali consultati della cucina dalmata, però questa scelta è una logica introduzione agli altri esempi, in questa limitata scelta, dove indichiamo anche l’abuso del mangiare con l’intenzione di stupire il lettore nel programma pragmatico dell’autore: Di quei paterni riti in cucina ne ricordo uno singolarmente spietato: la cottura dell’aragosta viva nell’acqua bollente. Bisognava immergere il crostaceo nella marmitta fumigante a poco a poco, con estrema e calcolata lentezza, onde evitare che la polpa dentro la corazza arroventata si contraesse e si facesse tigliosa accagliandosi in un impatto troppo brusco col calore del liquido. “Povera bestia!”, sospirava mio padre per metà sincero e per metà ipocrita, mentre, aiutato da qualche inserviente, legava fortissimamente con uno spago sottile la coda ribelle e scattante della bestia compianta. Immobilizzato e impacchettato l’animale come un grosso salume, in modo da impedirgli di rovesciare con le convulsioni della temibile “pinna caudale” la marmitta con l’acqua ribollente, lo aπerrava in punta di dita per le lunghe antenne, poi cominciava, piano piano, a calarlo dall’alto nel liquido mortale dentro cui il colore rosato grigiastro della corazza, centimetro dopo centimetro, si mutava in una sempre più implacabile tintura scarlatta. Oggi, quando ripenso a quel rito crudele, mi torna in mente il noto brano di storia nel quale Maria Teresa, inghiottendo il suo terzo di Polonia in combutta coi russi e i prussiani, ci viene descritta come un’ambigua massaia che mentre decretava la spartizione “piangeva con un occhio e con l’altro rideva”. 1  

Abbiamo lasciato apposta questo paragone con Maria Teresa per accennare che il nostro interesse è rivolto al contesto funzionale – letterario – pragmatico dell’uso dei pasti come un contrappunto funzionale nella costruzione del messaggio poetico letterario da una parte, e politico-pragmatico dall’altra. Come spiegare in altro modo un paragone del genere: il padre che mortifica l’aragosta con un falso rimorso, e Maria Teresa che sta inghiottendo il suo terzo di Polonia: «piangeva con un occhio e con l’altro rideva»? È uno strano e originale modo di collegare due situazioni assai lontane per esprimere lo storico antagonismo di un italiano verso la casa imperiale degli Asburgo. Tutto il capitolo dedicato ai meravigliosi pasti dei Bettiza ha un saldo contrappunto di varie digressioni politico-storiche e attuali, tutto oπerto tramite un alto linguaggio espressivo. 2 Indichiamo in quest’occasione ancora un momento interessante. Chi taglia la carne, nel Petronio è un professionista con la spada. Il ruolo di tagliare e dividere la carne nel Bettiza è riservato al capofamiglia, al padre. Prima di tornare al romanzo, ci fermeremo solo a due esempi d’interessante uso del corpo umano, per non dire cannibalesco, in funzione poetico-pragmatica per colpire, tramite il testo letterario creativo, la fantasia del lettore.  

1

  Enzo Bettiza, Esilio, Milano, Mondadori, 2006, p. 194.   Si potrebbe dire che Enzo Bettiza ha un concetto planetario dell’esperienza culinaria della famiglia come alto posto di forza centripeta di profumi dei pasti dell’enorme estensione geografica. Per la sua descrizione culinaria potremmo usare un altro paragone come segno della nostra stima per questo straordinario capitolo Le cucine, paragonabile alla musica di Chopin, cioè al suo intervento agli études. L’artista polacco introduce una curiosa novità in questo tipo di musica-esercizio sul pianoforte: con l’indice e il pollice della mano destra dà il ritmo, cioè accompagna la melodia che introduce e sviluppa con altre tre dita. Così Enzo Bettiza con delle digressioni storico-politiche dà il ritmo, accompagna come contrappunto la gustosa melodia di numerosi cibi. 2

68

živko nižić · nikolina gunjević kosanović Cominciamo con Dante. In questo senso del godimento della gola è sempre commentato il canto sesto dell’Inferno della Divina Commedia, dove nel terzo cerchio si trovano le ombre dei golosi giacendo prostrate nel proprio fango puzzolente sotto una pioggia eterna mista di acqua fetida, grandine e neve. Anche se potrebbe essere assurdo, in quest’occasione si mette in rilievo un altro momento in funzione pragmatico-politica. La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccatore, forbendola a’ capelli del capo ch’elli aveva di retro guasto. Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovelli disperato dolor che il cor mi preme già pur pensando, pria ch’io ne favelli. Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch’io rodo, parlare e lacrimar vedrai insieme.” 1  

Ci troviamo nell’ultimo cerchio dell’Inferno dantesco, tra i traditori. Il sommo poeta ricorre all’estremo momento del mangiare, al cannibalismo. Questo crudele spettacolo del divorare il vicino non è raccomandazione nutrizionistica, ma è tutto in funzione poetica dell’estremo odio che il protagonista Conte Ugolino nutre per il fatale nemico Arcivescovo Ruggeri. È forse il momento più crudele dell’interpretazione dantesca, dove il poeta rimane sordo a ogni senso di compassione. È l’esaltazione della vendetta, tutto il contrario dello svenimento «e caddi come il corpo morto cade», dopo aver sentito la triste storia di Francesca nel cerchio dei lussuriosi. Il racconto pietoso di Ugolino non è se non una pausa nell’uguale ritmo della vendetta che si compie in eterno. Bisogna ricordare che anche la sequenza della pietà nel racconto porta la stessa allusione perché i nipoti di Ugolino gli si oπrono come pasto avendo capito male il suo «ambo le mani per dolor mi morsi»: e disser: “Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni e tu le spoglia”. 2  

Dall’Inferno dantesco e dall’uso del corpo umano come pasto per raπorzare il messaggio pragmatico-politico-letterario, passiamo a Curzio Malaparte e al suo romanzo Kaputt sulla Seconda Guerra Mondiale, un testo per noi croati particolarmente interessante perché concerne la visione di uno scrittore italiano sul governo degli ustascia. Le prime due proposizioni sono due salti del testo e l’altro è la conclusione del capitolo. Erano parecchi mesi che non vedevo Ante Pavelić: e quando entrai nel suo studio osservai che aveva mutato la disposizione dei mobili. […] A un certo punto il maggiore P* entrò per annunciare il Ministro d’Italia, Raπaele Casertano. “Fatelo entrare”, disse Ante Pavelić, “il Ministro d’Italia non deve far anticamera.” 3  

E poi la fine del capitolo: “Il popolo croato”, diceva Ante Pavelic, “vuol essere governato con bontà e giustizia. Ed io son qui per garantire la bontà e la giustizia.” - Mentre si parlava, io osservavo un paniere di vimini posto sulla scrivania, alla sinistra del Poglavnik. Il coperchio era sollevato, si vedeva che il paniere era colmo di frutti di mare, così mi parvero, e avrei detto di ostriche, ma tolte dal guscio, […] - “Sono ostriche della Dalmazia?” – domandai al Poglavnik. 1

  Dante Alighieri, La Divina Commedia, i, Inferno, Firenze, La Nuova Italia, 19758, p. 362.   Ivi, p. 365. 3   Curzio Malaparte, Kaputt, Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 260-261. 2

il cibo nelle opere di petronio, dante, malaparte e bettiza

69

- Ante Pavelic sollevò il coperchio del paniere e mostrando quei frutti di mare, quella massa viscida e gelatinosa di ostriche, disse sorridendo, con quel suo sorriso buono e stanco: “È un regalo dei miei fedeli ustascia: sono venti chili di occhi umani”. 1  

Senza dubbio l’eπetto letterario è enorme e l’intenzione politico-pragmatica dello scrittore molto riuscita anche se di cattivo gusto, perché non è stato mai confermato che Pavelić mangiasse gli occhi del nemico. Torniamo al nostro dalmata Bettiza e al capitolo Le cucine. Un’interpretazione in veste politica si può dare anche del titolo del capitolo; è stuzzicante il plurale che usa l’autore, e che pure ha una connotazione pragmatica nel senso politico, intendendo le cucine come simbolo di dove si prepara il destino dei popoli. Prendiamo come illustrazione il pasto, come dice Bettiza «Cùlini», usato più volte come mezzo dell’intervento politico-sociale dello spalatino: Per ritornare dalla storia alla gastronomia balcanica, vorrei ricordare ancora una volta che un tocco di barbarie, che veniva da lontano, era sempre presente nella nostra cucina. Un capitolo a sé, curioso, eccentrico, quasi medievale, era quello concernente la preparazione dei ‘cùlini’ che da noi si chiamavano proprio così. Non saprei definirli con un altro nome, anche se ‘salsiccia’ potrebbe esserne il sinonimo più appropriato. (pp. 211-212) […] usava perlopiù portarci in regalo una cospicua parte dei tre principali ingredienti porcini necessari alla confezione dei cùlini: le budella, le interiore e il sangue. La pellicola fibrosa ed elastica del budello serviva da involucro per accogliere, pigiati e rimescolati, il sangue accagliato e i tritumi di fegato, di rognone, di cuore e di polmone. Il principio che presiedeva alla lavorazione era quasi cinese: nulla delle interiore della bestia doveva andare perduto. (p. 212) […] Chiuse ermeticamente là dentro, le donne si dedicavano al più segreto e viscerale dei riti gastronomici. Era in quella baracca un po’ sgangherata, lontana dalla vista e dall’olfatto, che la disgustosa materia prima dei cùlini si trasformava a poco a poco, sotto le loro mani, in un forte cibo esotico che sembrava raccogliere e condensare in sé tutti i succhi, gli umori, gli aromi, le dolcezze e le violenze delle terre balcaniche. (p. 213) 2  

La funzione dei cùlini, nel senso da noi suggerito non finisce con questa ispirata fantastica visione delle terre balcaniche tramite un solo pasto, ma si ripete nei contesti sempre di tenore politico-storico-pragmatico interpretativo della realtà spalatina. Enzo Bettiza ci dà anche in questo capitolo interessanti interpretazioni sociologiche dell’ambiente che descrive. Il terzo settore, come lo chiama Bettiza, cioè la parte più dura del grande complesso di abitazioni e dello spazio in proprietà della famiglia, è «utilizzato anche come luogo di punizione e di quarantena. Non erano i padroni, ma i domestici stessi, in particolare le più autorevoli domestiche anziane, ad amministrare la ‘giustizia’ e a somministrare le pene». 3 È logico che la numerosa servitù fosse composta unicamente di personale slavo. Bettiza ci informa che la servitù slava aveva un tipo d’autogestione della giustizia e delle punizioni. Non è nel nostro interesse indagare dove l’autore trovasse le origini di questo tipo di autogestione, anche se la sua spiegazione è molto interessante. Ma vediamo l’interpretazione sociologica del micro-mondo storico che coesisteva in servizio di una ricca famiglia dalmata:  

Chissà perché, erano quasi sempre perseguitate e punite certe più giovani e ovviamente più inesperte contadine d’entroterra, considerate alla stregua di reclute ignoranti dalle anziane spalatine le quali, in genere, covavano un’istintiva di√denza per tutto ciò che sapeva di ‘morlaccume’ e di ‘Morlacchia’. Le morlacchette che trasgredivano, o commettevano qualche fallo giudicato imperdonabile, venivano segregate per alcune settimane, talvolta per un paio di mesi, fra le baracche del terzo settore ove dovevano curvare la schiena su lavori pesanti o particolarmente umilianti: impastare e insaccare i cùlini di maiale, rimestare e alimentare le salamoie in cui fermentavano i cavoli acidi. (pp. 227-228) 1

  Ivi, p. 261 (Un paniere di ostriche).   La conclusione è bella ma troppo pragmatica. Il posto che l’autore indica come «un tocco di barbarie» balcanica, si chiude con la definizione di un vasto territorio di numerosi popoli e religioni in «le dolcezze e le violenze delle 3 terre balcaniche».   Ivi, p. 226. 2

70

živko nižić · nikolina gunjević kosanović

Ci troviamo davanti a una curiosa impostazione pragmatica, cioè l’uso del cibo o meglio dire la preparazione del cibo in funzione di punizione entro il contrasto – per Bettiza ovviamente balcanico –, tra la servitù litorale e quella della Morlacchia. Non è da trascurare l’interpretazione sopraccitata dell’autore sul carattere, che spesso appoggia sui cromosomi, dei servi balcanici. I Bettiza avevano grande compassione e comprensione per i vecchi dipendenti, praticamente non li mandavano in pensione inventando per loro anche degli impegni simbolici: Allora il vecchio operaio dava l’impressione di resuscitare dal semicoma in cui, come un vegetale abbandonato, trascorreva le ultime giornate vuote della sua vita. Usciva quasi gioioso dal letargo abituale, estraeva da un nascondiglio un suo lungo coltello ricurvo e a√lato e, con una prontezza energica di cui non lo si sarebbe fatto capace, uccideva l’animale di turno con un colpo di lama da macellaio consumato. (p. 228)

Non occorre il commento, ma l’autore anche in questi particolari che sembrano marginali, aπerma la sua grande capacità letteraria d’invenzione, ma anche realistico-oggettiva per dimostrare alle volte il duro percorso dalle origini fino al tavolo (piatto) di una rara delizia gastronomica. Uno dei principali concetti prescrittivi degli scrittori dalmati-italiani come anche nell’Esilio è la nostalgica esaltazione della Dalmazia. Di grande importanza è l’ossessione della ricerca del ricordo dei particolari di provenienza romano-veneto-italiana che si oπre come una forza centripeta nella scrittura letteraria della maggioranza degli scrittori profughi. Così anche nel romanzo di Enzo Bettiza ha un posto particolare il capitolo Le cucine. Con questo entusiasmo che si trasforma in esaltazione pragmatica d’alto livello letterario, l’autore arriva a identificare la cucina dei Bettiza come pars pro toto con la Dalmazia, dicendo: La vecchia cucina dalmata, cucina di confine e d’intarsi etnici, in cui confluivano dai quattro punti cardinali le più contrastanti civiltà e fantasie culinarie, si segnalava ancora come una delle più complete e più ricche d’Europa. (p. 188)

L’autore considera la Dalmazia come una terra pantagruelica, però questa terra gastronomica si riduce alle case benestanti. L’attrazione autosuggestiva della propria cucina supera ogni limite del senso della vita di un dalmata, dove l’ossessione per le donne è il leopardiano «pensiero dominante». Ma Bettiza nel suo programma dell’uso e dell’abuso della cucina arriva alla stupenda aπermazione: Neppure l’attrazione per la donna, pur radicata profondamente nella sensualità tommaseiana dei dalmati, riusciva a superare quella per una pietanza gustosa. La passione culinaria, diπusa ad ogni livello, rompeva ritegni e pregiudizi di ceto e di sesso; l’ossessione della cucina generosa univa signori e popolani, capitani e marinai, preti e miscredenti, aristocratiche e sessolotte. (pp. 188-189)

Diventa, come si vede, dal punto di vista sociologico, un punto di convergenza di tutti i ceti sociali dove si cancellano tutti i conflitti di una società di una terra povera destinata per secoli all’emigrazione, non per ragioni politiche come nel caso dei Bettiza, ma esistenziali, un fatto presente anche oggi. La cucina magnificamente oπerta dall’autore rappresenta non soltanto il divino per se stesso, ma anche la Dalmazia diventa una divinità nel ricordo del profugo Enzo Bettiza. In conclusione si può dire, a seguito dei pochi esempi soprammenzionati, che il momento dei cibi, delle cucine, del mangiare, ha un notevole posto nella creazione pragmatica letteraria. Questa intenzione è molto diversa nel senso funzionale e varia da autore ad autore secondo il momento storico che influisce sulla poetica pragmatica della singola creazione. L’esempio di Enzo Bettiza ne è una conferma attuale espressa a un livello che tocca il sommo della creazione letteraria che concerne la storia e l’autobiografia.

L’INTERESSE PER SCIENZA E TECNOLOGIA NEL TEATRO D’OPERA: IL CASO COLAUTTI Giulia Vannoni

P

ersonalità poliedrica e cosmopolita, l’esule Arturo Colautti si distingue per l’inedita originalità con cui vive la stagione culturale italiana di fine Ottocento, legata a Verismo e Decadentismo. La sua tecnica di scrittura, come traspare dai romanzi, si sostanzia attraverso uno sguardo che sembra provenire dall’esterno (attitudine forse amplificata dalle sue condizioni di esiliato), quasi si trattasse di una narrazione cinematografica o un reportage giornalistico: approccio che evoca quello documentaristico di Émile Zola, pure lui giornalista e scrittore, oltre che figlio di un ingegnere veneziano. Più giovane di undici anni e con un padre geometra, il dalmata Colautti aveva dunque alle spalle un retroterra non così dissimile da quello di Zola, paradigma di modernità per generazioni di scrittori. Vi si ritrovano la stessa attenzione ai dettagli e la cura nel definire i personaggi, l’insoπerenza per l’ambiente borghese e una curiosità empatica verso le classi sociali più deboli. Senza arrivare mai a posizioni altrettanto radicali – quell’idea di romanzo che Zola concepisce quasi come laboratorio dove analizzare la specie umana – è ben vivo in Colautti, allo stesso modo dello scrittore francese, l’interesse per le novità scientifico-tecnologiche che stavano diπondendosi in modo sempre più capillare nella società: un’onda lunga che avrebbe finito per lambire il mondo letterario e artistico. Non stupisce dunque che di questi echi si trovino significative tracce nei suoi romanzi, anche se l’aspetto forse più singolare è la capacità di Colautti di trasferirli – con assoluta naturalezza – nei libretti d’opera, ossia in un genere che, per consolidata tradizione, non si era mai mostrato particolarmente propenso alle novità. In Fedora, scritta per Umberto Giordano (1898), e in Adriana Lecouvreur, musicata da Francesco Cilea (1902), i suoi due libretti più importanti e che gli procurarono fama ben più duratura dell’attività di romanziere, si rintracciano – nel primo caso – specifici riferimenti alle innovazioni tecnologiche e – nel secondo – un’accurata descrizione di una sostanza chimica. Con Colautti, dunque, la scienza gioca un ruolo significativo, come ben di rado era accaduto fino allora nell’opera seria. Peccato che, a fronte di queste scelte, la prassi esecutiva tenderà a espungere attraverso tagli diventati di tradizione (senza tener conto degli squilibri che così si vengono a creare nell’economia drammatica) proprio le parti d’interesse scientifico e tecnologico: forse l’aspetto più originale dei due libretti. Non è che un sintomo del disinteresse verso la scienza, che per l’intero Ottocento e almeno metà Novecento ha caratterizzato l’Italia, isolandola dalla grande circolazione delle idee e rallentandone il progresso. In realtà l’attenzione alla cultura scientifica non è inedita nel melodramma, dove – fin dai suoi albori – si è riverberata l’eco delle più rivoluzionarie scoperte: il cannocchiale galileiano ha avuto un ruolo di rilievo nei libretti d’opera a partire dalla Diana schernita di Giacinto Cornacchioli (1629) e per tutto il xviii secolo; in alcuni melodrammi di fine Seicento si parla di atomismo, un argomento all’apparenza inadatto per il teatro d’opera, ma che suscitò l’interesse di compositori come Draghi, Telemann e in seguito Dittersdorf, Salieri e di librettisti come il poeta cesareo Nicolò Minato e l’erudito letterato Giovanni De Gamerra. Persino un capolavoro come Così fan tutte di Mozart (1790) dedica

giulia vannoni 72 l’intero finale primo – seppure aπrontandolo in chiave comica – al magnetismo animale, noto in quegli anni come mesmerimo: una teoria che infiammava il dibattito scientifico dell’epoca. La tecnologia, invece, catturerà l’attenzione dei librettisti a partire dal Novecento: dalla rievocazione degli automi rinascimentali al mito della macchina – in tutte le sue possibili varianti – veicolato dal Futurismo. Tuttavia, se è ben evidente il sottile filo conduttore legato alla scienza, va rilevato come esso sia circoscritto, sostanzialmente, alla sola opera buπa, mentre non ha trovato riscontro nel grande repertorio serio ottocentesco. Da illuminato antesignano, Colautti inserisce nei versi di Fedora e Adriana Lecouvreur – opere saldamente innestate nel filone serio – suggestioni riconducibili alla scienza, fondamentali (almeno nel caso della Lecouvreur) per lo sviluppo dell’intreccio, sdoganando in tal modo contenuti in apparenza estranei alla drammaturgia operistica tradizionale. Una trasformazione di rilevanza epocale: di lì a poco (1921), uno dei personaggi della Kát’a Kabanová di Janáček discetterà con precisione e competenza sulla natura elettrica dei temporali, 1 e sempre negli anni venti si aπermerà in Germania – seppure per una breve stagione – un genere come la Zeitoper, che ha portato sulla scena le novità del presente, comprese quelle scientifico-tecnologiche. Nella seconda metà del Novecento, poi, le trasformazioni saranno ancora più radicali, tanto è vero che sulla scia di un’opera come Die Harmonie der Welt di Hindemith (1957), incentrata sull’astronomo Keplero, sono nati nell’ultimo trentennio numerosi lavori di teatro musicale che hanno per protagonisti scienziati: da Tycho Brahe a Galileo, da Einstein a Madame Curie ad Alan Turing. Circoscritta a una decina di titoli, l’attività librettistica di Colautti è curiosamente passata ai posteri proprio per due lavori che presentano un episodio riconducibile alla scienza. Si tratta peraltro di opere molto diverse fra loro: un dramma a forti tinte di taglio verista come Fedora e una pastellata opera liberty come Adriana Lecouvreur. In entrambi i casi, le divagazioni scientifiche giocano un ruolo analogo e servono a introdurre una nota più leggera (Colautti, per evitare di appesantire questo côté, ordisce in tali episodi una versificazione deliberatamente ironica e svagata), secondo una dialettica tensione-distensione che poi rende ancor più adrenalinico il rituπarsi a capofitto nel vortice drammatico. Musicato da Umberto Giordano, il ‘melodramma in tre atti’ Fedora debuttò a Milano il 17 novembre 1898. Il libretto è tratto dall’omonima pièce di Victorien Sardou del 1882 e, allo stesso modo delle opere di quegli anni, presenta una minuziosa attenzione ai dettagli e ai personaggi minori, immersi in un ambiente sempre definito con cura: una tecnica che, per certi aspetti, sembra precorrere quella cinematografica. Perno drammatico dell’opera è l’altalenante rapporto amoroso – ricco di colpi di scena – fra la principessa Fedora Romazov e il conte Loris Ipanov. Accanto alla coppia protagonista, ruotano una costellazione di personaggi nobiliari e di estrazione popolare; e, soprattutto – per meglio definire la cornice – ci sono esplicite citazioni di avvenimenti, come l’attentato allo zar 2 e la piena della Neva, realmente accaduti. Le sollecitazioni legate al presente (Fedora è ambientata intorno al 1881: un’attualità piuttosto insolita nel melodramma del xix secolo) non si limitano alle sole circostanze storiche, e viene dato spazio anche a suggestioni di carattere tecnologico, che s’innestano sempre con la massima naturalezza nel tessuto drammaturgico. Per tre volte si fa così riferimento al trillo di  



1  Autore anche del libretto di Kát’a Kabanová (tratto da L’uragano di Ostrovskij), Leóš Janáček dà spazio al razionalismo scientifico: il personaggio del professore chimico-meccanico Váňa Kudrjáš spiega la natura elettrica dei temporali e parla delle insostituibili funzioni dei parafulmini. 2   Lo zar Alessandro II fu ucciso in un attentato il 13 marzo 1881.

l’interesse per scienza e tecnologia nel teatro d’opera

73 un campanello elettrico, 1 un dispositivo che si era ormai diπuso: nel primo atto squilla nella dimora del conte Vladimiro, a Pietroburgo, e serve a introdurre Fedora; nel terzo, in Svizzera, annuncia la visita di De Siriex e poco dopo, durante l’aria di Olga, si ode la scampanellata della bici. Non rappresentava certo una novità delle più recenti (era già stato messo a punto qualche anno prima), però svolge una funzione fondamentale nell’imprimere un tocco di modernità – e, allo stesso tempo, di realismo – alla vicenda. All’inizio del terzo atto l’attualità viene evocata in modo ancor più ampio ed esplicito: si dà così un notevole rilievo scenico a un mezzo meccanico come la bicicletta, 2 veicolo di locomozione dalla tecnologia ancora abbastanza rudimentale, ma che stava divenendo popolare con crescente rapidità, tanto da essere ritenuto di gran moda ai tempi della première dell’opera. Si tratta – è opportuno sottolinearlo – di una scelta librettistica che va completamente attribuita a Colautti, poiché nel testo di Sardou non c’è traccia di velocipedi. I personaggi di Olga e De Siriex, la seconda coppia dell’opera, intenti a fronteggiarsi in schermaglie amorose, si godono una gita con questo nuovo mezzo di trasporto. Olga canta una breve ‘aria della bicicletta’ – il cui incipit Se amor ti allena sembra una parafrasi sbarazzina di Amor ti vieta, la più celebre romanza della Fedora – intesa come allenamento del cuore e non solo dei muscoli, che rappresenta il momento più speziato, e a suo modo filosofico, della scenetta ciclistica. Questa doppia quartina di endecasillabi (dove figurano anche tre decasillabi) senza rime contribuisce a definire meglio la ‘seconda donna’, dando al personaggio maggior consistenza; inoltre, la musica assai vivace, con la sua struttura ritmica regolare, suggerisce – attraverso le pulsazioni dei bassi in orchestra – una sensazione motoria, che sembra richiamare l’andamento della pedalata. La scena contribuisce così a configurare un quadro più variegato, che ha l’eπetto di alleggerire la cupa atmosfera del finale.  



Se amor ti allena, se amor ti guida gioja dei muscoli! dei nervi ebbrezza! Vola, precipita, scivola, sdrucciola, cadi, rialzati, ricadi ancor… Ma quando sola ti lascia amore, che giova correre, se niun t’insegue? Se niun ti regge, perché cader? Meglio, all’antica, sempre andare a piè… 3  

Peccato però che la prassi esecutiva dimidierà la portata dell’episodio: viene mantenuto il flirt su due ruote, ma la breve aria di Olga è spesso eliminata. Un grave errore, non tanto perché si priva l’opera di una spiritosa divagazione, ma è l’intera drammaturgia – invece assai ben calibrata da Colautti – a risentirne, sbilanciandosi sempre più sul versante di un cupo Verismo. Fedora ha suscitato l’entusiasmo di grandi personalità musicali: Mahler in primis, che la portò al successo internazionale, dirigendola all’Hofoperntheater di Vienna. Certamente il compositore boemo stimava l’italiano per le sue qualità di ottimo orchestratore e, ancor più, ne ammirava la facile vena melodica che lui non possedeva. Ai colleghi stranieri, del resto, era ben chiaro il valore innovativo di Fedora: utilizzando un dramma riconducibile all’attualità, Giordano aveva saputo costruire un’opera moderna pure nella forma, senza bisogno di rifarsi a schemi ormai vecchi e convenzionali. Un merito cui non era estraneo Colautti, con il suo modo di osservare il presente, nell’intento di coglierne le novità. 1   L’invenzione del campanello elettrico, ossia una campana che può suonare a distanza attraverso un filo, risale al 1831 e viene attribuita al fisico statunitense Joseph Henry (costruttore nel 1829 del primo motore elettromagnetico, alla base di tutta l’elettrotecnica industriale). 2   Il primo velocifero fu realizzato dal conte Mede de Sivrac nel 1791. In seguito subì profonde trasformazioni e solo dopo il 1870, quando fu risolto il problema della trasmissione del moto alle ruote, si aπermò definitivamente 3 come mezzo di trasporto.   Arturo Colautti, Fedora, Milano, Sonzogno, 1898, p. 68.

giulia vannoni

74

Diverso il caso di Adriana Lecouvreur, ‘opera in quattro atti’ scritta per Francesco Cilea (Milano, 6 novembre 1902), semplificando l’omonimo dramma in cinque atti del 1849 di Eugène Scribe ed Ernest Legouvé. I due autori francesi, con vistose manipolazioni della realtà storica, accolsero in pieno la versione non del tutto dimostrabile della morte per avvelenamento di Adrienne Lecouvreur 1 (celeberrima attrice della Comédie-Française), facendo entrare in gioco la scienza chimica: Scribe, insomma, inquadra i risvolti inspiegabili e inquietanti della vicenda in una cornice capace di fornire una giustificazione razionale a un decesso altrimenti misterioso, e Colautti – con il suo piglio giornalisticamente positivista – sposa in pieno questa causa. Melodramma dai toni elegiaci, abbastanza estraneo agli stereotipi del verismo, mantiene molte delle suggestioni di Scribe, mescolando verità storiche e tratti romanzeschi. Nella quarta scena del terzo atto, prima del grandioso ricevimento, la moglie del principe di Bouillon 2 aveva evitato per un so√o d’incipriarsi con la polvere contenuta in un vasetto dove si trovava il potente tossico appartenente al marito, «chimico celebrato» (così lo definisce un altro personaggio, l’abate di Chazeuil). Alla consorte che lo interroga sull’identità della polverina e i suoi eπetti, il principe illustra in un’aria le proprietà di una misteriosa sostanza venefica, confermando che si tratta della «celebre polver di successione» (di cui già si parla nel dramma di Scribe); spiega poi che, in virtù delle sue competenze, ha ricevuto l’incarico di analizzarla per conto della Giustizia di Stato: «Candida, lieve / come la neve, / polve di Venere, / dall’Idra cenere, / è la ricetta / della vendetta. / Muto strumento / del tradimento, / caro agli eredi, /aspro alle fedi. / L’arma sottile / questa è del vile, / caston d’anello, / pronto è l’avello. / Coppa di vino, / scende il destino; / tazza di tè / scampo non v’è». 3 La chimica cui fa riferimento Bouillon è una disciplina divenuta ormai scienza a pieno titolo: del resto si era aπermata come tale proprio in Francia, verso la fine del Settecento, grazie alle esperienze condotte da Lavoisier. E sebbene, all’inizio dell’opera, il principe venga definito «di chimica dilettante e d’amore», dà l’impressione di raggiungere meglio i suoi obiettivi in qualità di chimico di quanto riesca a fare come dilettante d’amore, a giudicare dagli esiti della sua liaison con la Duclos e dei corteggiamenti alla Jouvenot, altre due attrici della Comédie Française. Parla infatti con perfetta cognizione di causa della candida polvere, in grado di emanare un vapore invisibile ma mortale: molto probabilmente arsenico o un suo composto. L’analisi di questa sostanza è un’indagine del tutto plausibile ai tempi di Scribe e ancor più all’epoca di Cilea; forse meno probabile nel periodo in cui è ambientato il dramma (agli inizi del Settecento, la stagione in cui Adrienne Lecouvreur trionfava sulle scene), benché proprio a quegli anni risalga la prima descrizione scientifica dei metodi di preparazione dell’arsenico. Purtroppo è invalsa l’abitudine di tagliare l’intera scena. Fu lo stesso Cilea a eliminarla durante la seconda stesura dell’opera, nel 1905: una scelta che rispondeva forse a esigenze di sintesi in un atto, il terzo, che si presenta già abbastanza frammentato. Il valore artistico di Candida, lieve probabilmente non è dei più alti sul piano musicale, tanto che appare persino eccessivo considerarla una vera e propria aria, ma è indubbio il suo ruolo nel porre le premesse dei futuri sviluppi della vicenda. Costruita rispettando la perfetta simmetria del testo, dal punto di vista formale alle rime dei versi corrispondono esattamente quelle delle frasi musicali, modellate come durata sulle parole. E per meglio esaltarne  





1   Adrienne Lecouvreur (1692-1730), attrice della Comédie-Française. Celebrata interprete di Corneille e Racine, era amica di Voltaire. Morì in circostanze misteriose. 2   In Scribe si parla diπusamente dell’attività del principe di Bouillon, del suo laboratorio di chimica, del fatto che fosse membro dell’Académie des Sciences e autore di alcuni trattati. 3   Arturo Colautti, Adriana Lecouvreur, Milano, Sonzogno, 1902, pp. 65-65.

l’interesse per scienza e tecnologia nel teatro d’opera

75 il significato, la melodia è costruita in modo piuttosto semplice e la condotta armonica ridotta all’essenziale, con andamento quasi sillabico. Con l’omissione di Candida, lieve viene eliminato un passaggio fondamentale, in grado di dare maggiore plausibilità alla trama e di chiarire l’antefatto dell’avvelenamento di Adriana ad opera della moglie del principe, sua rivale: il mazzolino di violette, la cui esalazione sarà fatale alla protagonista, era stato appunto cosparso dalla «candida, lieve» polverina. Inoltre la soppressione dell’unico momento solistico a√dato a Bouillon gli toglie lo spessore di personaggio centrale, declassando il discendente di Goπredo di Buglione – così viene identificato nella pièce – a livello di comprimario. Anche in questo caso, la paternità dell’aria va attribuita a Colautti, non essendoci traccia di una simile descrizione nel dramma di Scribe. Del resto, non stupisce la familiarità dello scrittore dalmata con la chimica. Nel suo romanzo Fidelia 1 (apparso a puntate fra il 1883 e il 1884), oltre a spaziare con perfetta cognizione di causa attraverso molteplici settori scientifici – dalla botanica all’anatomia comparata, dalla fisica alla farmacologia – Colautti chiama in causa più volte una polverina che il medico, protagonista maschile, ha predisposto per curare la moglie tisica (una sorta di veleno atto a distruggere l’agente patogeno della malattia). Nell’Ottocento la scienza si era identificata soprattutto con la medicina, in relazione ai notevoli progressi compiuti da questa disciplina: una sovrapposizione che però si esaurirà gradualmente nel secolo successivo, anche in conseguenza di una visione sempre più critica nei confronti del ruolo sociale del medico. E sono numerose, inevitabilmente, le figure di dottori tra i personaggi operistici. In Fedora, ne compaiono ben tre, seppure non particolarmente rappresentativi della loro professione. Di uno – Borov – apprendiamo che è un medico dalla dramatis personae, ma la vicenda ce lo mostra esclusivamente in veste di amico del protagonista; mentre il chirurgo Lorek e il dottor Müller (ruolo muto, quest’ultimo) sono invece colti nell’esercizio delle loro funzioni, tuttavia senza alcun risultato: il promesso sposo di Fedora morirà, fuori scena, sotto i ferri del primo e nonostante i consulti del secondo. Questo fallimento è speculare allo scetticismo che si ravvisa nel romanzo di Colautti Primadonna (pubblicato postumo nel 1921), tra l’altro ambientato nel sottobosco dell’opera lirica, dove si parla di un azzimato dottorino di cantanti «attillatissimo, lucidissimo, pettinatissimo; esculapietto della giovane scuola, quella dei microbi, quella degli antisettici; […] più bellimbusto che dottore, […] aveva tutta la superficialità e la sdolcinatura necessaria alla sua clientela, speciale come la sua scienza» 2 e ne viene pennellato, attraverso pochi dettagli, un profilo abbastanza inquietante. Accanto a questo medico vanesio, proteso solo alla propria aπermazione e che ha smarrito il senso del suo compito, tutt’altra tempra viene mostrata dal professor Speraldi, nel romanzo Fidelia. Insigne patologo, dalla sterminata cultura a tutto campo, incarna la figura dello scienziato dedito con abnegazione alla ricerca e allo studio: una sorta di poeta della scienza, che sembra incarnare gli ideali della Naturphilosophie tedesca. Purtroppo – e qui si avverte tutto il disincanto di Colautti nei confronti della classe medica – non vede quello che è sotto gli occhi di tutti: il tradimento dell’amatissima moglie Fidelia. Erano decenni di grandi transizioni: nel 1895 nasceva la psicanalisi e nel 1905 – annus mirabilis della fisica – s’inaugurerà una nuova era per la scienza. Da allora niente sarebbe stato più come prima. Le antenne dell’eclettico Colautti erano riuscite a captare i segnali, anche contraddittorî, dei cambiamenti in atto. E, prima di chiunque altro, l’esule dalmata aveva saputo far convergere nei ristretti confini dei libretti operistici echi di un vento che so√ava con sempre maggior forza. Nell’Ottocento nessun librettista aveva mai osato tanto.  



1   Arturo Colautti, Fidelia, Milano, Giuseppe Galli Libraio Editore, 1886. Il romanzo era stato pubblicato inizialmente a puntate su «L’Euganeo» (Padova, 1833 e 1834). 2   Arturo Colautti, Primadonna, a cura di Paolo Patrizi, Roma, Elliot, 2014, p. 87.

INTERTESTUALITÀ E REMINISCENZE LETTERARIE NEL DRAMMA LIRICO PAOLO E FRANCESCA DI ARTURO COLAUTTI Ana Bukvić

A

rt uro Colautti, giornalista, poeta, scrittore e librettista di origine zaratina, occupa un posto particolare nella tradizione letteraria della Dalmazia a cavallo tra Ottocento e Novecento. Colautti appartiene a un gruppo di scrittori, quali Gerolamo Enrico Nani e Riccardo Forster, ambedue di origine zaratina, che per ragioni politiche furono costretti ad abbandonare la città nativa e a inserirsi negli ambienti letterari in Italia. Nonostante nel panorama letterario italiano, sia inserito tra i minori, questo esule intellettuale dalmata è noto per la sua poliedrica personalità. 1 Arturo Colautti, fervente irredentista, compose numerosi libretti tra cui Gloria, Paolo e Francesca, Doña Flor, Fior di neve, Colomba, Smeralda, Prometeo liberato, Le tre maschere, Nostra donna, Fortunio, Cimbelino poi il melodramma Rudello, un dramma in versi Camicia rossa, il dramma storico Daria Sommer e le commedie L’Unica e L’Altro. 2 In questo studio intendiamo oπrire una lettura intertestuale del dramma lirico Paolo e Francesca da cui emerge una profonda ammirazione di Colautti per Dante. 3 Il dramma, composto in tre atti, fu musicato da Luigi Mancinelli, pubblicato nel 1901 e rappresentato al Teatro alla Scala di Milano nell’autunno del 1906. Bisogna rilevare che nel 1931 fu pubblicata la versione abbreviata del dramma, cioè in un atto, 4 nel quale si focalizza la scena del bacio, così che lo sfondo storico non è esplicitamente esposto come nella versione in più atti che sarà presentata in seguito. È da supporre che il dramma lirico Paolo e Francesca di Colautti ispirò Gabriele d’Annunzio a comporre la tragedia Francesca da Rimini. Nella rivista zaratina «Il Dalmata» si trova la notizia che d’Annunzio chiese Colautti di inviargli i testi del dramma lirico Paolo e Francesca e del poema Terzo peccato. 5 È già il denso significato del titolo Paolo e Francesca che rivela fin dal primo istante un’eventuale ispirazione dello scrittore zaratino al Canto v dell’Inferno della Divina  









1   Per una biografia dettagliata rinvio agli studi di: Nedjeljka Balić-Nižić, Scrittori italiani a Zara negli anni precedenti la prima guerra mondiale (1900-1915), Roma, Società Dalmata di Storia Patria, 2008, pp. 83-96; Sergio Cella, Arturo Colautti, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1998, 26, pp. 706-708; Giorgio Baroni, Arturo Colautti, in Francesco Semi, Vanni Tacconi, Istria e Dalmazia. Uomini e tempi, Udine, Del Bianco, 1992, pp. 458-464; Germano Paoli Palcich, Arturo Colautti: la vita e le opere, «La Rivista dalmatica», lv, 4, 1984, pp. 245-284; Ofelia Novak Colautti, Arturo Colautti: il poeta della vigilia italica, Milano, Oberdan Zucchi, 1939. 2   Per un’analisi delle sue opere drammatiche rinvio agli studi di Glorija Rabac-Čondrić, Zadarski dramski autori na talijanskom jeziku u xix. stoljeću, in Radovi Filozofskog fakulteta u Zadru, a cura di Dalibor Brozović, Zara, Filozofski fakultet Zadar, 1986, pp. 185-214. 3   Nell’intervento si approfondisce la ricerca già svolta dall’autrice sui testi drammatici di Colautti e presentata nella tesi di dottorato sugli scrittori drammatici in lingua italiana a Zara nell’Ottocento, intitolata Dramski pisci talijanskoga jezičnoga izričaja u Zadru u 19. stoljeću, discussa alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Zagabria nel 2014 e redatta sotto la supervisione del professore Živko Nižić. 4   Arturo Colautti, Paolo e Francesca, Milano, Casa Musicale Sonzogno, 1931. L’abbreviazione del testo fu commentata da Luigi Mancinelli in La «Francesca» del Colautti, «Il Dalmata», Zara, xl, 70, 1906, pp.135-136. 5  Cfr. Gabriele d’Annunzio, Una lettera di D’Annunzio a Colautti. Un’altra Francesca, «Il Dalmata», Zara, xxxvi, 100, 1901, p. 200.

paolo e francesca di arturo colautti

77 Commedia. Nonostante che i librettisti, in generale, rincorressero ai soggetti interessanti e più noti, ossia storie, trame e intrighi che il pubblico potesse facilmente riconoscere, sono di grande rilevanza i legami intertestuali che legano le opere liriche ai modelli letterari. Questo intervento parte dal presupposto che il genere letterario legato alla librettologia, pur essendo un campo d’indagine interdisciplinare, è molto importante anche per la storia della letteratura italiana. Inoltre, l’intervento prenderà in esame le relazioni intertestuali che il dramma colauttiano intrattiene con il Canto v dell’Inferno della Divina Commedia, rintracciando, d’altronde, altri ipotesti sia letterari che non-letterari coinvolti nel dramma lirico. Certo è che non basta individuarne solo la presenza, bisogna anche interrogarsi sulla loro ragione e funzione per penetrare nei meccanismi costruttivi dell’opera stessa. La Divina Commedia di Dante Alighieri e in modo particolare il Canto v dell’Inferno, Paolo e Francesca, sono molto esposti alla prospettiva intertestuale e intermediale. Di conseguenza, esistono numerosi rifacimenti, adattamenti e riprese della storia di Francesca da Rimini, così che il nostro immaginario culturale pullula di commenti, dipinti, drammi, tragedie, poemi e risposte musicali a questa storia. Il dramma lirico Paolo e Francesca si inserisce in una serie di riprese del topos degli amanti tra i dannati dell’Inferno dantesco. L’influsso di Dante su Colautti, adoperando in termini di Paul Van Tieghem, può essere definito morale, spirituale e tecnico. 1 Per identificare la rete intertestuale, bisogna esaminare quanto ci oπre Dante su Francesca e Paolo. Il valore storico del Canto v risiede nel fatto che Dante fu il primo ad attribuire nome e voce a Francesca salvandola dall’oblio. 2 Allo stesso tempo Dante costruisce il suo personaggio, ma anche lo condanna a una morte eterna. È importante notare che Dante non aveva fonti storiche a disposizione. Marco Battagli, cronista medievale di Rimini, fu il primo a oπrire informazioni storiche sul personaggio di Francesca nel 1352, pur essendo già a conoscenza della Divina Commedia. Dante fornisce poche informazioni su Francesca, tra cui il luogo che le diede i natali: «Siede la terra dove nata fui / su la marina dove ‘l Po discende / per avere pace con seguaci suoi», 3 il suo nome cristiano: «Francesca i tuoi martíri» (p. 21, v. 116), il delitto, ossia il fatto che lei e Paolo furono uccisi da un parente: «Caina attende chi a vita ci spense» (p. 21, v. 107), e che gli amanti erano legati da una parentela civile: «dinanzi a la pietà d’i due cognate». 4 Francesca da Rimini porta nel dramma lirico Paolo e Francesca tutta la sua complessità storico-letteraria e perciò va denominata una citazione invisibile; 5 supponendo che il lettore/lo spettatore, a prescindere dal titolo, ne riconosca subito il passo originale. Questa citazione, dove già nel titolo dell’opera ci si focalizza sui personaggi come Francesca e Paolo, è denominata citazione originale. 6 Dato che nel Canto V non sono reperibili i dati storici, è palese il loro inserimento nel dramma dal quale emerge un evidente influsso metastorico che trova il suo punto di riferimento nell’ambientazione e nel tempo dell’azione: «Il primo atto si svolge alla Corte di Ravenna, gli altri due in quella di Rimini, sul declino del secolo xiii (anni 1275 – 1285)», 7 sia nel riconoscimento delle due famiglie: «Francesca: Malatesta voi siete: or ben m’avviso…» (p. 12) Ne deriva chiaramente una  













1

 Cfr. Miroslav Beker,Uvod u komparativnu književnost, Zagreb, Školska knjiga, 1995, p. 72.  Cfr. Teodolinda Barolini, Dante and Francesca da Rimini: Realpolitik, Romance and gender, «Speculum», lxxv, 1, 2000, p. 1. 3   Dante Alighieri, La Commedia. Inferno, Canto v, a cura di Giorgio Petrocchi, Milano, Mondadori, 1966-1967, p. 20, vv. 97-99. 4   Dante Alighieri, La Commedia. Inferno, Canto vi, cit., p. 22, v. 2. 5  Cfr. Elio Franzini, Citazione invisibile, «Leitmotiv», ii, 2, 2002, p. 66. 6  Cfr. Dubravka Oraić-Tolić, Teorija citatnosti, Zagreb, Grafički zavod Hrvatske, 1990, p. 19. 7   Arturo Colautti, Paolo e Francesca, Arona, Cazzani, 1901, p. 6. 2

78 ana bukvić relazione fra tre elementi: il dramma lirico (ipertesto), il Canto V dell’Inferno (ipotesto) e i testi storici (ipotesto) che ne costituiscono il triangolo citazionale. 1 Nel dramma lirico Colautti ripercorre la vicenda amorosa in tre atti. L’articolazione degli atti è abbastanza interessante. In linea generale, notiamo che i primi due servono d’introduzione all’ultimo, a quello che stabilisce il legame intertestuale più forte con il Canto V della Divina Commedia. Tra i personaggi principali sono Guido minore da Polenta, sua figlia Francesca, Malatesta da Verrucchio, i suoi figli Gianni (Gianciotto lo ‘zoppo’), e Paolo, poi il Matto. Quanto accennato prima, il primo atto si svolge alla corte di Ravenna, gli altri due, invece, a Rimini, alla fine del Duecento (dal 1275 al 1285) e l’azione inizia di mattina presto, il Primo maggio. Nel primo atto veniamo a conoscere la storia dell’antagonismo tra le famiglie Malatesta e Polenta. Il dramma si apre con l’incontro tra Paolo e Guido da Polenta che discutono di un’eventuale pace o guerra tra le rispettive famiglie. Quando tutti abbandonano la scena, appare Francesca accompagnata dalle donzelle. Colautti si rifà alla voce puramente leggendaria, perché mette in scena l’illusione e la speranza di Paolo e Francesca di poter essere congiunti in matrimonio. Che le speranze di Francesca saranno vane, è già chiaro dai suoi versi: «Maggio, bel Maggio, fuggitivo Maggio». 2 Paolo se ne innamora di Francesca a prima vista, il che Colautti rivela nella didascalia: «(Al veder la vaghezza di Francesca, s’arresta sul limitare, estasiato.)» (p. 10) Francesca riconosce in lui un Malatesta e continua: «pria che lo sguardo, il cor vi divinò» (p. 12) Nel loro dialogo si evidenziano i primi rimandi intertestuali, quando Francesca cita il dialogo amoroso per rivelare in avanti a Paolo che si tratta del libro che celebra amore tra la regina Ginevra e il cavaliere Lancillotto: «Della reina Ginevra è questa / l’istoria de’ suoi martir» (p. 14) e lo oπre in regalo a Paolo. Paolo lo accetta e bacia di nascosto, molto probabilmente anticipando l’ultimo bacio fatale. Nella seguente scena Guido riesce a calmare il popolo e cui si rivolge dicendo: «O Ravennati, udite! [...] / [...] amor mutò l’invito: / in gaie volgan le iraconde grida. [...] / Francesca mia [...], / impalmerà con gaudioso rito» (p. 20) Guido rivela che Francesca sposerà Gianciotto, il fratello maggiore di Paolo, e si rivolge a Paolo: «Tu non sarai di Rimini signore» (p. 20). Per Francesca inizia il «doloroso esilio» (p. 22), mentre Paolo spera in una guerra e si rivolge alla «Vergine dispietata» (p. 22). Il secondo atto si svolge nella casa dei Malatesta. Colautti introduce il personaggio del Matto e lo descrive: «vede, ascolta e indovina» (p. 24). È il Matto che allude all’inganno di Paolo quando dice: «Qual più feroce / uom od augello / veloce? / E questo e quello / al suo fratello / nuoce» (p. 24) Un’analogia con il Canto v si coglie nell’elencare degli uccelli all’inizio dell’atto: «aïron, aïron!» (p. 24), «un corteo di palombe» (p. 24), «un stormo di gru» (p. 24). Sono i motivi che colleghiamo con il verso dantesco: «E come i gru van cantando lor lai» 3 dove il volo delle gru ha peraltro nobiltà letteraria. 4 Altro rimando alla Divina Commedia, e in questo caso al Canto xix del Paradiso riguarda il motivo del falcone: «Paolo: Il mio falcon, se gli traggo cappello / più fiero e snello / muove la testa, e con l’ale s’applaude;» 5 e nella Divina Commedia leggiamo: «Quasi falcone ch’esce del capello, / move la testa e con l’ali si plaude». 6 Nel secondo atto prende piede maggiormente l’invenzione colauttiana. Il personaggio inventato, il Matto, porterà al conflitto i due fratelli, per vendicarsi con Francesca che lo rifiutò con ribrezzo quando voleva baciare il suo vestito. È lui a spiare e a sentire Paolo e  











1

 Cfr. Dubravka Oraić-Tolić, Teorija citatnosti, cit., p. 15.   Arturo Colautti, Paolo e Francesca, cit., p. 10. 3   Dante Alighieri, La Commedia. Inferno, Canto v, cit., p. 19, v. 46. 5   Arturo Colautti, Paolo e Francesca, cit., p. 24. 6   Dante Alighieri, La Commedia. Paradiso, Canto xix, cit., p. 378, vv. 34-35. 2

4

  Ibidem.

paolo e francesca di arturo colautti

79 Francesca organizzare un incontro segreto la sera stessa. Se ne accorge Paolo e comincia a picchiarlo. È Gianciotto che li interrompe, mentre il Matto rivela la ragione del loro litigio: «una fola figliuola del cor». 1 Dal dialogo tra i fratelli notiamo che Gianciotto sospetta già dell’infedeltà di Paolo e Francesca:  

Gian. Francesca! / P. Me l’hai rapita, come un predone! / Gian. Ella è mia vita… / P. Assai mi tenti! / Gian. Assa mi costi! / P. Bugiardo è il sangue!... / P. –Bada fratello!... / Gian. Fratel tu fosti! (p. 30)

Oltre al Matto, Colautti introduce il personaggio storico, Malatesta da Verrucchio, padre cieco, che cerca di rappacificare i figli ma Gianciotto è accecato dalla gelosia: «O gelosia, reina degli aπanni, / gelida arsura e brivido di morte, / mentr’io discendo la scalea degli anni, / perchè mi serri nelle tue ritorte?» (p. 39) Per la prima volta adesso Colautti mette in dialogo i due coniugi; Francesca e Gianciotto. Il loro dialogo è freddo, lei è indiπerente, mentre Gianciotto è furioso. È convinto che lei aspetti solo la sua morte. Cerca di baciarla ma lei lo respinge, il che lui commenta, riferendosi al destino di Francesca: «Credete voi, signora nel Cielo e nell’Inferno? / E che mortal peccato tragga castigo eterno?... / […] Dovunque è Dio!./ e dovunque il Maligno» (p. 41). È mediante il personaggio del Matto che Colautti realizza rimandi intertestuali. Nel conflitto con Paolo, infatti, il Matto commenta: «Gran valor! Bell’onor!... / In mia fè, / di Francia paladin / mai non fè / opra maggior, / ne la canto Merlin» (p. 29). Con questi versi si allude al poema francese di Robert de Baron, che inserì la figura di Merlino al centro della sua trilogia sul Graal. Subito dopo, quando Gianciotto chiede le ragioni del loro litigio, il Matto risponde: «Per un nome / dolce come, / l’arome – del pome / d’Adam» (p. 30), dove Adamo può, in chiave intertestuale, essere definito una citazione invisibile e alludere al frutto proibito, ossia nel senso metaforico a Paolo che raccoglie la mela proibita, ossia Francesca. Il terzo atto manifesta la più grande potenzialità intertestuale. Essendo vicini alla risoluzione, si restringe il luogo d’azione che si colloca in una stanza desolata nella casa dei Malatesta, il cui spazio claustrofobico contribuisce a ottenere una dimensione tenebre; la stessa che riconosciamo nei versi danteschi all’inizio del Canto: «Io venni in loco d’ogni luce muto». 2 Francesca è inginocchiata davanti all’immagine della Vergine. Quando entra Paolo, lei cerca di abbandonare la stanza, mentre Paolo pronuncia: «Quali colombe dal disio chiamate, / verran per l’aer miei dolci sospiri / leggeramente quando muoia il giorno» (p. 30). Nel primo verso si riconosce l’intertestualità esplicita, ossia il verso di Dante: «Quali colombe dal disio chiamate». 3 L’immagine delle colombe pare dolce e tenera, ma in realtà, come tutta la rappresentazione di Paolo e Francesca, nasconde un’ambivalenza e svela un significato negativo. Le colombe sono gli uccelli di Venere caratterizzate da una lussuria sfrenata, che si esprime in particolare nei baci che si scambiano continuamente come preliminari all’accoppiamento e nella frequentazione ossessiva del nido a fini sessuali. Inoltre le colombe piangono invece di cantare. 4 Ricordiamoci del modo in cui Dante presenta Paolo nel Canto V: «Mentre che l’uno spirto questo disse, / l’altro piangea; sì che di pietade». 5 L’immagine di Paolo che piange, la troviamo anche nel dramma nei seguenti versi di Paolo: «Su’ bianchi fogli vedi la numerosa traccia / del pianto, che a lor pianto mi scoloria la faccia». 6 Paolo e Francesca leggono insieme quando a un certo punto le loro teste si toccano  









1

  Arturo Colautti, Paolo e Francesca, cit., p. 30.   Dante Alighieri, La Commedia. Inferno, Canto v, cit., p. 18, v. 26. 4   Giuseppe Ledda, Dante, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 138. 5   Dante Alighieri, La Commedia. Inferno, Canto v, cit., p. 21, vv. 139-140. 6   Arturo Colautti, Paolo e Francesca, cit., p. 49. 2

3

  Ivi, p. 20, v. 82.

80 ana bukvić e baciano: «Paolo tutto tremante, attirando a sé Francesca, la bacia avidamente sulla bocca.» (p. 51) D’una parte si riconosce l’analogia con il bacio dei protagonisti danteschi, ma dall’altra Colautti si distacca dal suo modello autorevole mediante l’avverbio «avidamente», che a nostro avviso, rende il momento del bacio più intenso, più passionale e nello stesso momento irrazionale. Li interrompe Gianciotto. Paolo cerca di difendere Francesca e Gianciotto gli oπre la spada e lo sfida a duello. Gianciotto colpisce Francesca, e poi Paolo. Dopo aver capito di essere l’assassino del proprio fratello, scappa accompagnato dalle grida del vecchio padre e dalle voci: «Assassino! Assassino!» (p. 53) e «Caino! Caino! Caino!» (p. 53), un’altra citazione invisibile che rievoca la zona dove saranno puniti i traditori dei parenti. L’atto e il dramma si chiudono con i seguenti versi: P. Amor che a cor gentil ratto s’apprende… / F. Amor che a nullo amato amar perdona… / P. Nell’eterno dolor con noi discende… / F. Amor ci prese e più non ci abbandona… / P. Amor sarà più dell’Averno forte… / F. Paolo, la tua mano!... / P. Il cor mi dona ! / F. E la bocca… / Paolo e Francesca. O pio bacio! O dolce morte! In un bacio supremo i due cognati esalano gli spiriti. La luce del tramonto acquista un rossore quasi infernale. 1  

I versi che pronuncia Francesca all’inizio della sua presentazione nel Canto: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende», 2 in questo dramma li pronuncia Paolo. In tale modo Colautti richiama una tra le più memorabili parti della Divina Commedia e dunque facilmente riconoscibile. È ovvio che lo scrittore ricorra a un soggetto interessante e noto per facilitare al pubblico e ai lettori la comprensione del testo. Le citazioni inserite possono essere definite intrasemiotiche o intraletterarie. Bisogna, però, rilevare che Colautti sperimenta e manipola i dati letterari e storici. Il lettore è invitato a riconoscere le tracce del passato sia letterario, sia storico, e d’altra parte è consapevole di tutto ciò che è stato modificato al loro interno. In questo dramma si assiste, quindi, a una trasformazione e riformulazione di tema e personaggi già codificati nella tradizione letteraria. Francesca e Paolo sono ‘segni aperti’, 3 perché le loro qualità e caratteristiche psicologiche o sentimentali ne fanno dei personaggi esemplari e allo stesso tempo, causa la mancata chiusura definitiva, sono figure in attesa di compimento. Non cambiano posizione storica e sono l’emblema della passione, ma c’è diπerenza tra loro. Francesca rimane sostanzialmente inalterata, rispetto il Canto V. Colautti riprende la sua posizione della moglie, dell’amante, il suo stato sociale e la sua fine tragica, però a diπerenza di Dante, attribuisce alla sua personalità una religiosità esagerata. È la dinamicità che distacca il Paolo di Colautti dal personaggio dantesco, non si riconosce, almeno non quella esplicita, debolezza spirituale presente nel Canto V. Colautti lo trasforma in un personaggio fittizio, artificiale, impossibile da decontestualizzare. Prende i personaggi letterari e storici, li converte nei personaggi drammatici che da oggetti diventano soggetti rendendo il materiale storico astorico. Da quanto detto, concludiamo che si tratta dell’intertestualità intenzionale con la quale Colautti procura i personaggi, l’intreccio, la risoluzione, lo sfondo storico al testo drammatico. Lo scrittore zaratino, contemporaneamente, svela i meccanismi dell’invenzione e il rapporto dialettico con la tradizione dimostrando che il testo non è un sistema chiuso, ma aperto al dialogo.  



1

  Arturo Colautti, Paolo e Francesca, cit., p. 53.   Dante Alighieri, La Commedia. Inferno, Canto v, cit., p. 20, v. 100. 3  Cfr. Marina Polacco, L’intertestualità, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 43. 2

ARTURO COLAUTTI E ZARA Nedjeljka Balić-Nižić

A

rt uro Colautti (1851-1914) è uno degli scrittori zaratini che per ragioni politiche lasciarono la Dalmazia e continuarono la loro attività in Italia. 1 Pur trascorrendo la maggior parte della sua vita fuori Zara, secondo i biografi, «fino all’ultimo respiro» restò emotivamente legato alla città nativa, 2 che pure non lo dimenticava, essendo le sue opere tra le più lette dai lettori zaratini. 3 Tale legame è servito da stimolo a questo intervento, volto a presentare l’immagine creatasi di Colautti nella stampa zaratina nel periodo tra le due guerre mondiali.4 Come introduzione ed eventuale punto di dibattito sul cambiamento del gusto letterario e sulla rivalutazione dell’opera colauttiana in luce alle nuove ricerche e nuovi metodi della critica letteraria, si accenna brevemente al giudizio di Giorgio Baroni sullo scrittore zaratino caduto in oblio dopo la Seconda Guerra Mondiale, «per la fusione di impegno nazionale e di attività letteraria»: 5  







la narrativa la parte meno caduca, riconducibile a certa letteratura scapigliata o decadente, a certo naturalismo francese […] a formule usate anche da alcuni dannunziani e futuristi, nonché da tutta una letteratura di consumo […] La poesia troppo spesso appare di maniera, con una tematica risorgimentale, in quel periodo attuale, ma che suona ritardataria e falsa, perché non sa uscire da formule e schemi già ampiamente usati e consunti in tutto il precedente Ottocento italiano. Lo stesso vale per l’omaggio a Dante compiuto con i canti in terzine del Terzo Peccato, che nel complesso appare modesto ed epigonale, in quanto ricalcato sulla produzione parodistica dantesca abbondante nel secolo. Anche i drammi lirici raramente escono dalla normalità di frasi e situazioni abusate, di rime e suoni noti, mentre si salvano le parti descrittive di sfondi e di ambienti, nelle quali si riconosce la maestria del consumato prosatore.6

A diπerenza di questo giudizio prevalente anche in numerosi echi nella stampa italiana in cui i critici 7 trovano vari difetti nelle opere di Colautti, nel periodo tra le due guerre a Zara, tutti gli aspetti della sua poliedrica attività sono altamente valutati, tanto da crearne un mito, simile a quello dannunziano o tommaseiano. Le ragioni per quest’immagine idealizzata si trovano appunto nella summenzionata fusione d’impegno nazionale e di attività letteraria, favorita dalle condizioni storico-politiche e dalla particolare posizione di Zara come un’enclave italiana circondata dallo stato jugoslavo. Non meraviglia quindi che nei numerosi contributi colauttiani di carattere biografico, commemorativo e memorialistico, prevalga il tono politico. Autori ne sono i suoi disce 

1  Solo per menzionare qualche nome, si accenna a Edgardo Maddalena, Antonio Cippico, Riccardo Forster, Giuseppe Marussig. 2   Sergio Cella, sub voce, in Dizionario biografico degli Italiani, tomo 26, p. 706. Tra le fonti citate dal Cella, si rinvia a Ofelia Novak-Colautti, Arturo Colautti il poeta della vigilia italica, Milano, Zucchi, 1939. Oltre a contributi di vari autori zaratini menzionati in questo intervento, si vedano anche due studi apparsi in Croazia: Glorija RabacČondrić, Zadarski dramski autori na talijanskom jeziku u xix stoljeću, «Radovi Filozofskog fakulteta», 15, Zadar, 1986, pp. 185-2014; Nedjeljka Balić-Nižić, Scrittori italiani a Zara negli anni precedenti la prima guerra mondiale 1900-1915), Roma, Il Calamo, 2008, pp. 83-96. 3   Angelo de Benvenuti, Storia di Zara dal 1797 al 1918, Milano, Fratelli Bocca, 1953, p. 250. 4   Per articoli apparsi nel periodo dal 1890 al 1914 si rinvia a Nedjeljka Balić-Nižić, op. cit. 5   Giorgio Baroni, Arturo Colautti, in Istria e Dalmazia. Uomini e tempi, 2, a cura di Francesco Semi, Vanni Tac6 coni, Udine, Del Bianco, 1992, pp. 459-460.   Ibidem. 7   Decisive tra le voci autorevoli che in certo modo ‘seppellirono’ Colautti scrittore, forse erano quelle di Croce e Russo. Cfr. Benedetto Croce, Saggi critici, vi, Bari, Laterza, 1957, pp. 169-170; Luigi Russo, I Narratori (1850-1957), Milano, Principato, 1958, p. 95.

82 nedjeljka balić-nižić poli e colleghi dalmati: Gaetano Feoli, Ildebrando Tacconi, Vanni Tacconi, Vitaliano Brunelli, Silvio Mitis e Mario Russo, ma anche gli amici, letterati e giornalisti della Penisola: Michelangelo Zimolo, Alfredo Panzini, Sabatino Lopez, Francesco Geraci e Lucio D’Ambra. Il ruolo più grande nella coltivazione del suo culto, l’ha avuto la figlia adottiva Ofelia Novak Colautti, attraverso varie iniziative coronate dalla pubblicazione del già menzionato volume Arturo Colautti – il Poeta della vigilia italica. Gli autori dalmati fanno ricordare i particolari interessanti legati alla sua vita trascorsa a Zara, ai primi tentativi letterari e giornalistici scritti a mano («Il Progresso», «La Leva») con cui il giovane Colautti comincia l’aperta campagna contro le ipocrisie della società piccolo borghese. Si sottolinea il suo contributo allo sviluppo del giornalismo dalmata come direttore e fondatore di vari giornali a Fiume («Bilancia»), Spalato («L’Avvenire», «La Difesa», «La Rivista dalmatica») e Zara («L’Aula», «Il Dalmata», «La Palestra») tramite i quali, consapevole della svolta sulla scena politica dalmata avvenuta dopo il movimento illirico e dopo l’unione dell’Italia, fu tra i primi ad accennare alla posizione minacciata degli italiani della Dalmazia. In questo senso è interessante la ristampa del suo articolo L’ultima scuola nel giornale «L’Adriatico», apparso nel 1886 a Perugia, in cui problematizza l’isolamento di Zara e dei suoi abitanti italiani alla fine dell’800.1 A questo argomento si riallaccia l’accenno alle vicende storico-politiche che portarono a tale situazione, e più di tutte la battaglia di Lissa. Eccone il commento di Colautti: Così, all’estremità di quell’agile penisola istriana, dove il genio di Dante aveva fissato i termini d’Italia, un’altra creazione absburgica sorgeva a compiere, o piuttosto a sostituire Venezia: l’arsenale militare di Pola. E di là, dalla storica città serbante nel suo anfiteatro la grande orma perenne di Roma progenitrice, dovevano partire i piccoli, ma forti vascelli all’impresa audace di Lissa, per nostra somma vergogna, e per diuturna confusione… Certamente, il colpo fu troppo rude; certamente, il disinganno fu troppo acerbo. Quella nostra armata magnifica in cui, come ai tempi del console Caio Duilio, salpante contro Cartagine, sembrava materiarsi la fulgida visione di una Italia marinara e guerriera, ritornava umiliata ne’ suoi arsenali, non pur con le antenne, con le fedi infrante. Né fu solo una ritirata, ma un abbandono, in cui tutti gli orgogli e tutte le lusinghe delle genti rivierasche compassionevolmente naufragarono quasi in una gran procella d’ignavia! 2  

Il posto centrale nei contributi biografici l’occupa l’episodio spalatino del 1880, quando Colautti fu aggredito da soldati austriaci, e costretto ad abbandonare la Dalmazia. Tra gli episodi della vita «in esilio», ovvero la vita da «profugo in patria», in cui ha perlustrato tutte le parti d’Italia, svolgendo intensa attività giornalistica, letteraria e propagandistica, il più menzionato è il duello con il repubblicano Mattero Renato Imbriani del 1887. Nei contributi in esame, caratterizzati dalla ripetizione di molti dati, come formule o stereotipi, Colautti viene presentato come «un grande morto nostro, poeta per amore di patria»,3 dalmata ribelle, «vate e martire della gente dalmatica imperterrito incorrotto». 4 Il suo destino di «esule sdegnoso e fuggiasco»5 viene paragonato a quello di Dante, per il fatto che «soπrì molto e visse solo perchè veramente volle far parte da se stesso», 6 e per il travaglio vissuto «nell’esilio quarantenne d’ineπabile amore spiando invano nel tempo  



1   «L’Adriatico», Zara, 27 settembre 1921. Il titolo si riferisce alla decisione della Dieta dalmata di slavizzare il Liceo di Zara. 2   Un’onta cancellata, «Corriere della Dalmazia», 30 luglio 1919. Il commento scritto il 24 maggio 1902, fa parte di una delle lettere di Carlo Boggio di Torino, avvocato, professore e uomo politico, patecipe volontario della battaglia di Lissa. 3   Ildebrando Tacconi, Arturo Colautti, «Le fiamme». Canti dell’armi (1911-1913), «Rivista dalmatica», xii, 3, 1931, pp. 67-69. 4   Il messaggio a Zara di Gabriele d’Annunzio, «La Voce dalmatica», 11 dicembre 1918. 5   Ricordando Arturo Colautti, «La Dalmazia», 26 febbraio 1920. 6   Francesco Geraci, Arturo Colautti a Napoli, «Rivista dalmatica», xiii, 4, 1932, p. 48.

arturo colautti e zara

83 l’istante di ritornarvi libero».1 In questo senso vengono citate con un certo pathos le sue ultime parole pronunciate prima di morire, e dedicate a Zara e alla Dalmazia. 2 Una parte di contributi colauttiani pubblicati a Zara tra le due guerre pone accento sull’aspetto umoristico-aneddotico della sua carriera. Francesco Geraci nel contributo Arturo Colautti a Napoli,3 informa i lettori sull’amicizia con rinomati intellettuali quali Salvatore di Giacomo, Ferdinando Russo, Mario Costa, Roberto Bracco e Sabatino Lopez con cui Colautti alle volte componeva, per svago, poesie comiche d’occasione e canzonette in dialetto napoletano. 4 Dal Diario sentimentale di guerra di Alfredo Panzini, i giornali zaratini riportano «un crayon squisitissimo» di Colautti: «piccolo, torvo, torace potente, bocca sigillata di poche parole, signore nei tratti e nel vestire. Portava breve barba intera. Appariva e scompariva dalla redazione del giornale. Mi venne in mente il Carducci: un Carducci elegante. Seppi poi, che era invece un causeur inesauribile, piacevolissimo per i suoi paradossi».5 Nei ricordi di Sabatino Lopez sulla stagione 1892-1893 al teatro dei Fiorentini a Napoli, riportati dal «Littorio dalmatico», spicca fuori la figura di Arturo Colautti, ritrattato «nell’intimità della brigata di amici, i cui nomi sono, come quello del Lopez, tra i più noti del teatro italiano». 6 Lopez si ferma particolarmente sull’episodio della commedia L’Altro, con cui, come è noto, Colautti provocava il pubblico con un personaggio importante che rimase dietro le quinte per tutta la recita. Dopo la stagione di Napoli, volendo accompagnare la compagnia Pasta, che recitava il dramma, fino a Milano solo per un paio di giorni per assistere alla prima, vi rimase vent’anni, però senza vedere la recita. Un po’ per pigrizia, un po’ per dubbio di non essere buona, riporta Lopez, Colautti disse al capocomico che andava all’hotel: «Se anche applaudiscono il primo atto lasciatemi stare, perché non significa nulla. Se applaudiscono il secondo mandatemi a chiamare, e io ci sarò per il terzo». Il fatto sta che Colautti si addormentò, svegliandosi alle tre di notte e gridando: «Caspita. A quest’ora hanno fischiato anche il terzo».7 Episodi meno conosciuti della vita di Colautti a Milano e a Napoli vengono raccontati da Adolfo Cotronei, come testimonianza della bontà e dell’arguzia dello scrittore zaratino. Menziona l’abitudine di Colautti di condividere tutto con gli amici, la sua capacità di perdonare, di essere un buon collega e altre caratteristiche che lo fanno «un gran signore della bohème illustre», ad esempio la riservatezza quando si trattava delle lodi in pubblico: «Se a quattr’occhi gli si diceva: ‘Arturo, com’è bello il tuo articolo’, sorrideva felice come un bambino; ma se in comitiva lo si lodava, imponeva il silenzio: ‘Taci, idiota’». Cotronei cita anche alcune battute polemiche di Colautti: per l’opera Fiamme nell’ombra di Enrico Annibale Butti disse che erano «cerini nell’ombra»; quando un capitano si ficcò con la nave nel golfo di Napoli, disse che non era capitano di lungo corso ma «capitano di lungo sorso». Questo ricordo sul Colautti viene chiuso con la semplice frase: «La sua voce è rimasta nel nostro cuore, come la musica dell’amicizia». 8 Parlando dell’attività gironalistica, tutti gli autori sono d’accordo nella valutazione del Colautti come un «polemista mirabile, vigoroso, con l’ingegno acuto e versatile, l’ampia e soda e straordinaria cultura»,9 eloquente ed e√cace giornalista, «con articoli scintillanti, i più profetici che siano stati scritti riguardo la conflagrazione europea», 10 «scrittore in  









1

  Michelangelo Zimolo, op. cit., p. 33.   «Laggiù v’è tanta gente che soπre e spera una speranza che uccide».   Francesco Geraci, Arturo Colautti a Napoli, «Rivista dalmatica», xiii, 4, 1932, pp. 46-49. 4   Alcune canzonette e poesie furono pubblicate nell’elegante album intitolato O munno a smerza, Napoli, Cottrau, 1887, e furono recitate con successo al teatro di Napoli La Fenice. Ivi, p. 49. 5   Arturo Colautti, «Littorio dalmatico», 13 febbraio 1924. 6 7   Sabatino Lopez, Arturo Colautti a Napoli, «Littorio dalmatico», 20 luglio 1932.   Ibidem. 8   Adolfo Cotronei, Arturo Colautti, «San Marco», 28 giugno 1939. 9   Silvio Mitis, Cinque lettere inedite di Arturo Colautti, «Rivista dalmatica», xv, 4, 1934, p. 53. 10   Michelangelo Zimolo, Colautti, «La vita in Dalmazia», i, 1, 1920, p. 33. 2 3

84 nedjeljka balić-nižić possesso di uno stile agilissimo, fiorito di paradossi pieni di spirito»,1 con una carriera segnalata da tanti spostamenti causati dal fatto che i giornali male soπrivano il suo irredentismo e gli chiudevano le porte di redazione. A questo trattamento contribuivano anche i contrasti della sua anima complessa che, secondo lo storico Silvio Mitis, forse più che in altre fonti, si vedono attraverso le lettere inviate dallo zaratino a vari amici, tra cui cinque scritte tra il 1871 e il 1892 all’avvocato e scrittore Francesco Mitis, zio dell’autore. 2 Mitis riporta il lamento di Colautti sulla di√cile posizione del giornalista in Italia, «ridotto necessariamente alla stregua di un legatore di libri»; le lettere contengono inoltre la versione colauttiana dell’episodio delle sciabolate di Spalato, la sua nostalgia e l’accenno al ruolo salutifero dell’arte: «avrei soπerto più sciabolate solo di poter tornare indietro […] Per fortuna, l’arte mi consola di tutto».3 I più interessanti contributi colauttiani sono quelli legati all’esame critico delle sue opere letterarie, da cui emana l’ammirazione e alta valutazione da parte dei critici dalmati. Nonostante il tono troppo aπermativo ed esaltante, questi articoli mettono in rilievo gli elementi innovativi ritrovati nei drammi, libretti e romanzi di Colautti, precorrendo in questo modo il rinnovato interesse e la rivalutazione delle opere colauttiane. Come illustrazione di questo gruppo di articoli, in seguito si accenna ad alcuni tra i più interessanti, scritti da Lucio D’Ambra, Ildebrando Tacconi, Mario Russo e Vanni Tacconi. Lucio D’Ambra nell’articolo Profili di grandi dalmati. Un profeta dell’Italia Nuova, 4 vede nel Colautti il precursore del teatro italiano contemporaneo, descrivendo il suo intervento d’avanguardia nella summenzionata commedia L’Altro (1889), in cui uno dei protagonisti, viene solo menzionato nei primi tre atti, e alla fine della recita l’autore fa mandare davanti al pubblico impazientito solamente il suo cappello, il cappotto e il bastone. Questo istinto di introdurre il nuovo, insolito intervento si nota anche nelle altre opere, ad esempio nel romanzo Il figlio (1901), in cui l’azione si svolge in ventiquattro ore. Sull’esempio del Figlio, D’Ambra dimostra anche che Colautti anticipò l’uso d’introdurre nel romanzo, fra personaggi d’invenzione, i personaggi reali della vita (come D’Annunzio, Carducci, ecc.), per rendere l’invenzione, cioè il mondo e personaggi immaginari del romanzo più credibili. L’opera colauttiana più trattata nei giornali zaratini tra le due guerre era senz’altro il Terzo peccato,5 il poema in ventitré canti scritto in occasione del sesto centenario della visione dantesca. Una minuziosa analisi critica di questo singolare omaggio al poeta fiorentino, viene scritta dallo zaratino Ildebrando Tacconi. Nell’articolo Il poema del dolce peccato (Arturo Colautti), 6 accenna ad elementi originali introdotti dal Colautti nel suo immaginario viaggio nel cerchio dei lussuriosi sotto la guida di Dante. Paragonando il tempo di Dante con quello di Colautti, Tacconi nota la diπerenza tra i due nell’atteggiamento all’amore e alle condanne: alle pene carnali di Dante sono opposte le profonde pene morali dei personaggi colauttiani, come riflesso dell’anima martoriata dell’uomo contemporaneo. Ponendo accento sulla tragicità dell’amore «ch’è passione ed è colpa», di cui è compenetrata l’arte moderna, Tacconi analizza tutti e tre gli aspetti dell’amore in Colautti: tra l’uomo e donna, l’amore materno e l’amore della patria che completa la triplice armonia spirituale. Secondo lui il Terzo peccato non è solo la cieca imitazione, né un  





1

  Arturo Colautti, «La voce dalmatica», 29 novembre 1918.   Silvio Mitis, op. cit., pp. 50-59. Francesco Mitis (Cherso, 1823-1894), avvocato e scrittore, nel 1849 fu soldato di Garibaldi nella difesa di Roma. Il nipote lo presenta come «uno scrittore erudito, brioso, elegante, facile in prosa e in verso, [che] preferì il genere satirico», che fu apprezzato da Niccolò Tommaseo. 3   Ivi, p. 57. La citazione è presa dalla lettera scritta a Napoli il 25 febbraio 1882. 4   Lucio D’Ambra, Profili di grandi dalmati. Un profeta dell’Italia Nuova, «San Marco», 7 settembre 1935. 5   Milano, Attilio Piazza, 1902. La seconda edizione ampliata, Milano, Hoepli, 1908. 6   Ildebrando Tacconi, Il poema del dolce peccato (Arturo Colautti), «Rivista dalmatica», vii, 2, 1924, pp. 25-32. 2

arturo colautti e zara

85 esperimento letterario, ma un bellissimo omaggio di Colautti alla memoria di Dante, in cui, nonostante i difetti (come ad esempio la mancanza dell’imponente saldezza architettonica, che è uno dei vanti della Commedia), è riuscito a descrivere e√cacemente «l’eterna parabola dell’umana esistenza sospinta dal dolore, retta dal male e redenta dalla bontà». Simili pensieri si trovano nell’articolo Quadro e concetto del «Terzo Peccato» di A. Colautti,1 in cui Tacconi, oπre il profilo psicologico dei dalmati con il quale giustifica il grande numero di ammiratori e studiosi di Dante. 2 Sostiene, però, che solo Colautti lo fa rivivere nell’opera che ripete l’argomento e la forma della Commedia, però con l’originalità che riflette la concezione moderna, l’inferno intimo dell’individuo e il dramma della vita contemporanea. Un altro zaratino, Mario Russo, nell’analisi dettagliata del poema3 lo definisce come un’opera che sovrasta a tutte le altre di Arturo Colautti, «l’opera più organica e forte che la poesia dei tempi nuovi abbia creato: per la spettacolosa […] per le figure che si muovono nella verità del loro spasimo eterno: per le immagini che sbocciano senza stanchezza ad ogni momento opportuno; per l’alto significato patriottico e umano». 4 Chiudiamo questa breve rassegna di contributi su Colautti con la citazione di un brano dell’articolo Echi dalmatici. Arturo Colautti, in cui Vanni Tacconi oπre un giudizio riassuntivo su vari aspetti dell’attività colauttiana:  



Nel campo letterario, prosatore finissimo, di stile logico e conciso, si distinse mirabilmente, nei campi più disparati, da quello polemico, in cui fu corrosivo e fortissimo, a quello di critica letteraria e musicale, giungendo sino ad acquistar fama mondiale quale acutissimo indagatore di tattica e strategia. Ma, se fu giornalista principe e scrittore forbito e sincero di romanzi, fu pure poeta sublime, inimitato ed inimitabile, elevandosi a concezioni nobilissime d’arte e di pensiero, con cui precorse i tempi suoi. Il Terzo Peccato, quindi, non è centone dantesco, come certa critica, volutamente corroditrice, ebbe a definirlo, non mimetismo artificioso, ma originalissima e specialissima espressione della ‘terzina dantesca’ adattata ad uno spirito geniale, personalissimo, ed orgogliosamente dalmatico. L’umanissima esaltazione dell’Amore, è, nel poema, così dolce, melanconica, talvolta, ma, soprattutto sincera, che, solamente eunuchi dell’arte, poterono definirlo centone.5

Dando uno sguardo complessivo ai numerosi contributi su Colautti apparsi sui giornali zaratini tra le due guerre, si potrebbe concludere che Colautti è «uno di coloro che cominciano a vivere dopo la morte», e che diventa sempre più attuale. Visto come precursore dei suoi tempi che non fu compreso in vita, il suo destino viene paragonato con quello di alcuni grandi come Petrarca, Leopardi, ma soprattutto con il «il divino Alighieri» e con il suo comprovinciale Niccolò Tommaseo. Tramite notizie, articoli e studi critici e varie iniziative commemorative a Zara si crea quindi un’immagine idealizzata, un ‘mito colauttiano’, innalzando lo scrittore a livello dei più grandi scrittori dalmati in esilio. 1   Ildebrando Tacconi, Quadro e concetto del «Terzo Peccato» di A. Colautti, «Rivista dalmatica», xx, 3, 1939, pp. 3-13, ripubblicato sotto il titolo Arturo Colautti poeta della Dalmazia nel giornale «San Marco», il 23 novembre 1939. 2   Tra i più conosciuti Niccolò Tommaseo, Antonio Lubin e Vitaliano Brunelli. 3   Mario Russo, Nel xxv anniversario della morte di Arturo Colautti. Il Poema del terzo peccato, «San Marco», 26 di4 cembre 1939.   Ibidem. 5   Vanni Tacconi, Echi dalmatici. Arturo Colautti, «Giornale di Dalmazia», 8 novembre 1942.

RIESUMAZIONE DI UNA PRIMADONNA Paolo Patrizi

Q

uesta relazione non intende, né potrebbe, avere carattere tecnico o accademico: è un intervento che mira, semplicemente, a dare conto del lavoro che è stato necessario per curare la ristampa di Primadonna: un romanzo che Arturo Colautti non ebbe modo di revisionare, che uscì postumo e defilato a sette anni dalla morte dell’autore (dunque, nel 1921) e, all’epoca, sembrò non aggiungere molto alla personalità artistica dello scrittore, confluendo rapidamente tra i molti frutti dimenticati del talento eclettico di Colautti, prima che l’oblio si stendesse – di lì a qualche tempo – pure su Colautti stesso. La relazione, dunque, cercherà di far luce su alcune caratteristiche di questo romanzo (con l’avvertenza che comunque il mio mestiere è di critico musicale, non di critico letterario) e del suo rapporto con il Colautti librettista (che, in quanto critico musicale, era invece per me più interessante), sperando che ciò non crei invasioni di campo – o crei un’invasione solo minima – con altri interventi di questo Convegno. Inoltre cercherò di dare conto di quelle incongruenze, e delle problematiche critico-testuali che ne sono derivate, presenti nella vecchia edizione a stampa del ’21 pubblicata dall’editore Bemporad di Firenze: incongruenze che in occasione di questa curatela ho cercato, nei limiti del possibile, di emendare. Parto da quest’ultimo punto. Quando proposi a Elliot edizioni di riesumare Primadonna (era un mio progetto di vecchia data, che poi il libro sia uscito nell’anno del centenario di Colautti è stata solo una felice casualità) non mi ero reso conto d’imbarcarmi in un’operazione complessa: pensavo che un’ampia introduzione e un apparato di note – il romanzo contiene una serie di riferimenti operistici che sfuggono al lettore medio – leggero e non invasivo bastassero a rendere Primadonna ben fruibile ancor oggi. Spero di avere onorato il ‘non invasivo’, ma non sono riuscito a tenere fede al ‘leggero’: andando avanti con il lavoro mi sono reso conto che di note ce ne volevano molte. Da un lato, infatti, il contesto operistico è così articolato che vari passaggi vanno chiariti non solo ai – diciamo così – non melomani. Molti riferimenti richiedono una cultura storico-musicale in senso relativamente tecnico: quelli ad alcuni cantanti storici dell’Ottocento, ma anche la diatriba fra tradizione melodica italiana e avanguardia wagnerista, che a ben vedere, al di là del classico triangolo ‘lui-lei-l’altra’ posto al centro del plot, è uno dei tessuti connettivi del romanzo. Più complesso, però, è stato l’altro aspetto: le incongruenze presenti nella vecchia edizione Bemporad, che nessuno – forse nella convinzione che Primadonna, per quanto rimasto nel cassetto di Colautti, fosse comunque un romanzo compiuto – si curò di revisionare. Colautti, invece, scrisse, sì, la maggior parte del libro attorno alla metà degli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, ma rimaneggiandolo e completandolo nei decenni successivi: sempre ammesso che il romanzo sia davvero completo (c’è un finale ‘aperto’ in sé ineccepibile, ma dissonante con il realismo che informa il resto dell’impianto narrativo) e, soprattutto, che Colautti lo volesse davvero completare. Personalmente nutro il sospetto che Primadonna, dati i forti addentellati autobiografici, fosse per il suo autore una sorta di romanzo-terapia, non destinato alla pubblicazione e da riprendere periodicamente in mano; e sarà appena il caso di notare che il cognome del protagonista – Coletti – è assai assonante con Colautti.

riesumazione di una primadonna

87 Tra tante interruzioni di stesura si sono accumulate incoerenze e lacune: basti dire che la vicenda è ambientata nel 1884 (vi troviamo un riferimento all’epidemia di colera a Napoli come fatto attualissimo), ma non mancano citazioni della Bohème (opera del 1896) e della Tosca (opera del 1900); e capita che più d’un personaggio venga chiamato, in punti diπerenti del romanzo, ora con uno ora con un altro nome. Alle sviste dell’autore si sono poi sommate quelle dello stampatore. Per limitarsi alla più eclatante: nel volume Bemporad del 1921 un intero blocco del secondo capitolo, peraltro ben individuabile, era confluito nel terzo; così come invece, sempre nel terzo capitolo, vistosamente mancava – quanto meno – un momento di raccordo, di poche righe o di più pagine che fosse, sebbene si trattasse di un ‘buco’ che non intaccava la chiarezza della trama. Si è cercato di porre rimedio sia con le note, sia con il rimontaggio dei blocchi palesemente fuori posto, sia (in pochissimi casi estremi, e in quantità davvero minime) con la riscrittura di qualche passaggio, tentando di mantenere quella tessitura verbale tardo ottocentesca ma non obsoleta che caratterizza la prosa di Colautti: fermo restando che non era obiettivo né mio né dell’editore proporre un’edizione critica in senso tecnico, e che la fonte del mio lavoro resta il volume a stampa del ’21, non il manoscritto di Colautti, che non so dove si trovi né se sia stato conservato. Passando dalle questioni testuali a quelle drammaturgiche, Primadonna non è certo un libretto d’opera camuπato da romanzo: anzi, azzarderei, è un romanzo inutilizzabile per un ipotetico adattamento librettistico. Colautti il meccanismo del teatro nel teatro, librettisticamente parlando, lo sfrutterà con maestria nell’Adriana Lecouvreur: ma si tratterà di teatro di prosa, non d’opera. D’altronde il backstage operistico, al centro di Primadonna, è storicamente un topos circoscritto all’opera buπa (l’apice è Le convenienze e inconvenienze teatrali di Donizetti, ma l’elenco sarebbe ben altrimenti lungo), che resta ignorato dall’opera seria: Leoncavallo – per citare un contemporaneo di Colautti – con Zazà preferirà raccontare il ‘dietro le quinte’ del cafè chantant. L’intelaiatura polifonica del romanzo, con il suo dipanarsi di figurine minori tutte molto a fuoco, può eπettivamente richiamare alcune opere a cavallo tra Otto e Novecento (da Andrea Chénier a La fanciulla del West), ma testimonia un respiro non replicabile dalle sceneggiature librettistiche. La stessa scansione dei capitoli in luoghi assai diπerenti e tutti molto caratterizzati (un procedimento che ritroveremo pure nel più fortunato romanzo di Colautti, Il figlio) dà alla vicenda un’impaginazione lontana da una riconversione teatrale; e, infine, cosa c’è di più antioperistico di un romanzo che prende in giro le cabalette di Verdi? Anche se forse queste ultime, agli occhi dell’irredentista Colautti, avevano la ‘colpa’ di essere l’emblema di un Risorgimento che non era stato capace di riportare Istria e Dalmazia nell’alveo italiano. Stilisticamente il romanzo assembla le due maggiori sollecitazioni di quegli anni: Verismo (ma filtrato più attraverso Zola che gli italiani) e Decadentismo. L’una e l’altra, però, vengono introiettate da Colautti in modo molto personale: ritroviamo il mito della bellezza femminile eroticamente devastante fino alla distruttività, riscontriamo perfino qualche tentazione superomistica (quando il protagonista giustifica i propositi omicidi in base a una supposta natura superiore), ma siamo lontani dal dannunzianesimo o da Alfredo Oriani. Lo stesso sguardo di Colautti sulla materia narrativa – un occhio distante e tendente, magari non sempre riuscendoci, all’oggettività – non è uno sguardo ‘all’italiana’: non a caso si trattava di un esule, dunque costretto a guardare le cose da lontano. E, sempre non a caso, se l’indubbio maschilismo del romanzo (ma ancor più maschilista, con il suo doppio delitto d’onore, sarà Il figlio) non salva né la moglie né l’amante del protagonista, l’unico personaggio femminile visto con relativa simpatia è quello della prostituta: anche lei, al pari di Colautti, costretta a restare alla finestra, come nella bellissima scena in cui occhieggia da fuori, aπamata, le vetrine di un caπè.

paolo patrizi

88

Più che all’Italia, per Colautti – suo malgrado gravitante, quanto a nascita e studi, nell’Impero austroungarico – si potrebbe guardare piuttosto alla narrativa mitteleuropea di quegli anni: ma dei grandi scrittori austriaci e tedeschi d’inizio Novecento gli manca, obiettivamente, l’ampiezza di respiro e le quasi profetiche capacità introspettive. Semmai l’abilità nel raccontare per immagini, che troviamo qui come nei libretti migliori di Colautti, rimanda alla contemporanea narrativa americana. Ma pure al di là di questo tra lui e certi scrittori statunitensi dell’epoca sembra esserci una sensibilità comune. È probabile che Colautti non abbia mai avuto modo di leggere Sister Carrie: eppure, retrospettivamente, è facile cogliere in Hurstwood (il protagonista maschile del romanzo di Dreiser), onestissimo ma poi travolto dalla bellezza femminile e dal potere del denaro, una parabola analoga a quella di Carlo Coletti in Primadonna. E alcuni versi dell’Adriana Lecouvreur su cui gli studiosi hanno ironizzato («Bella tu sei, come la mia bandiera, / delle pugne fiammante entro i vapor») sarebbero stati sottoscritti volentieri da Stephen Crane, che nel Segno rosso del coraggio – romanzo precedente di pochi anni la Lecouvreur – scriveva: «Mentre si scagliava avanti, nacque dentro di lui una tenerezza disperata per quella bandiera che aveva vicino. Era una creazione di bellezza e invulnerabilità, era una dea radiosa». 1 E dunque, a voler trarre una conclusione, il paradosso (ma è un paradosso di grande fecondità artistica) sta proprio in questo: quanto in fondo – nonostante della propria italianità di dalmata avesse fatto il suo credo politico e la sua bussola etica – siano poco italiane la narrativa, il teatro e la poesia di Arturo Colautti.  

1   Stephan Crane, The Red Badge of Courage, traduzione di Giacomo e Gaetano Prampolini, Milano, Garzanti, 1976, p. 108.

PER SLATAPER CRITICO. COLAUTTI, TOMMASEO, FILIPPO ZAMBONI E IL MIO CARSO Roberto Norbedo

T

ra i «coccodrilli» 1 e i ricordi che la scomparsa di Arturo Colautti ha sollecitato, vi è anche la commemorazione pubblicata da Slataper sul «Resto del Carlino» il 10 novembre 1914, a un giorno dall’evento. La rievocazione slataperiana presenta diversi motivi di interesse. Intitolata Un dalmata,2 essa fu, secondo le parole dello stesso Slataper, «schizzata nella fretta del minuto telefonico», 3 per essere, si indovina, trasmessa via telefono in modo tempestivo alla redazione del quotidiano. Probabilmente Slataper non aveva aveva una conoscenza approfondita di Colautti, né sul momento era riuscito a provvedersi di documentazione adeguata sui suoi scritti: egli si riprometteva di farlo successivamente, «studiata con maggior calma l’opera del Colautti», 4 scrivendo intanto all’impronta e guardando all’essenziale. Nonostante ciò, non è corretto derubricare la commemorazione a scritto d’occasione viziato da sommaria superficialità, anche perché Slataper aveva già dato prova di saper lavorare con rapidità, con esiti a volte assai felici. Basti ricordare le circostanze della composizione del «celebre saggio» E i cipressi di S. Guido?, il quale, è stato riconosciuto da tempo, ebbe il merito di definire «una linea vociana della critica carducciana», 5 aπermandone «l’orientamento “romantico”». 6 Pubblicando sulla «Voce» il 5 ottobre 1911, Slataper scrisse di voler aiutare Prezzolini a completare il numero della rivista, di prossima uscita: egli l’approntò e lo fece recapitare nello spazio di qualche giorno, rivendicando con orgoglio la propria capacità di lavoro («se tu mi scrivi: manda un articolo subito perché io son stanco, io non dormo la notte e mi addento la lingua per fartelo subito»). 7 Certo, la materia carducciana era per Slataper argomento noto e quelle riflessioni erano già state in precedenza avviate; 8 al contrario, la sua stessa aπermazione di voler ritornare sul Colautti una volta libero dall’incalzare della contingenza era un confessare di essere al momento impreparato a misurarsi con l’esegesi dell’autore dalmata. 9  















1  Cfr. Giorgio Baroni, Arturo Colautti, in Istria e Dalmazia. Uomini e tempi, 2, Dalmazia. Le figure più rappresentative della civiltà dalmata nei diversi momenti della storia, con ampia bibliografia generale e particolare, a cura di Francesco Selmi, Vanni Tacconi, Udine, Del Bianco, 1992, pp. 458-464: 459. 2  Cfr. Scipio Slataper, Scritti politici 1914-15, a cura di Giorgio Baroni, con un saggio introduttivo di Roberto Damiani, Trieste, Edizioni Italo Svevo, 1977, pp. 79-81, 221. 3 4   Ivi, p. 80.   Ivi, p. 81. 5  Cfr. Gaetano Mariani, «La Voce» e Carducci, in Idem, La vita sospesa, Napoli, Liguori, 1978, p. 312. 6 5   Giorgio Santangelo, Carducci, Palermo, Palumbo Editore, 1973 , p. 64; sul tema si veda anche l’illustrazione analitica, dovuta a chi scrive, in Tommaseo, Carducci e Papini. Ancora sull’antiletterarietà e sulla genesi del ‘Mio Carso’ di Scipio Slataper, «Lettere italiane», in corso di stampa. 7   Giuseppe Prezzolini-Scipio Slataper, Carteggio (1909-1915), a cura di Anna Storti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, p. 225. 8   Si veda, ancora, Roberto Norbedo, Tommaseo, Carducci e Papini. Ancora sull’antiletterarietà e sulla genesi del ‘Mio Carso’, in corso di stampa. 9   Quella di lasciarsi condizionare, «assillato dalla fretta», nelle proprie opinioni dal «suo per così dire fisiologico slancio» è stata per Slataper condizione non insolita, cfr. Manlio Cecovini, Una cultura di frontiera, in Scrittori triestini del Novecento, ii, Antologia a cura di Manlio Cecovini, Elvio Guagnini, Bruno Maier, et alii, Trieste, Edizioni Lint, 1997, pp. 11-37: 12-13. Tuttavia, a riprova della sua profondità e sicurezza di giudizio, in lui si è anche visto, in altri

roberto norbedo

90

Il testo, non privo di qualche ruvidezza nella costruzione e nella linearità logica dei contenuti, ruota intorno all’assunto: «Detto Tommaseo si dice anche Colautti». Esso, rimandando ad alcune delle caratteristiche che, secondo Slataper, accomunano i due scrittori e intellettuali dalmati, instaura un parallelo dotato di precisi valori interpretativi. Scrive Slataper: La Dalmazia, terra di cozzi e di funzioni, di civiltà per eccellenza, da San Girolamo (il tremendo polemista greco-latino che ha dato a Sant’Ambrogio il titolo di «Vecchia cornacchia gracidante») ad Arturo Colautti, è la terra in cui quasi tutte le manifestazioni letterarie sono ribollenti e torbide di questo spirito scontento e ribelle, entusiasta, smanioso d’azione proibita, settario per amore non ricambiato, polemista feroce per l’impossibilità di essere largamente generoso, e soprattutto fantastico nel suo dolorante realismo. Non è forse questa [...] la caratteristica di Niccolò Tommaseo fuor della Dalmazia. 1  

Il passo rimanda ai noti versi sciolti dedicati da Slataper a Tommaseo («Tommaseo, come ti sento!»), 2 sui quali abbiamo già avuto occasione di fermarci. 3 I due testi, tra i quali non pare possibile, attraverso criteri interni, stabilire il rapporto cronologico sembrano, infatti, molto vicini. Nei versi che dedicò al Grande dalmata Slataper ne definisce la «caratteristica» 4 attraverso l’accumulo di una somma di contrasti («Tu, sognatore di opere», «corrotto dalle possibilità del tuo ingegno», «Pigro come bestia troppo forte», «Smaniante d’amore e di bile», «Non ti voglio; ma ti amo»). 5 Essi richiamano le stesse opposizioni che nella rievocazione del Colautti sono presentate come caratterisiche distintive della cultura dalmata, in una «terra di cozzi e di funzioni, di civiltà per eccellenza». La medesima conflittualità tra sentimenti opposti è attribuita alla figura del Colautti, e sotto lo stesso segno è collocato anche il «tremendo polemista» San Girolamo. Quella dissonanza, come nel caso di Tommaseo, rimanda all’antitesi tra i principi ideali e i comportamenti dettati da una realtà irriducibile: quelli connessi a una aspirazione di partecipazione e di comunione, questi faziosi e intolleranti («settario per amore non ricambiato, polemista feroce per l’impossibilità di essere largamente generoso», «fantastico nel suo dolorante realismo»); la contrapposizione è poi risolta in una volontà di azione e di infrazione («scontento e ribelle, entusiasta, smanioso d’azione proibita»), propria del Tommaseo come del Colautti. 6 Il paradigma è poi esteso da Slataper a criterio per classificare anche altri intellettuali che hanno operato nella Venezia Giulia: «in un piano più basso, ma della stessa natura, non è forse questa la vita dei triestini Revere e Besenghi degli Ughi, del triestino fedele di Garibaldi, Zamboni, e anche, del trentino Gazzoletti». Si tratta di autori che sarebbero stati inseriti nell’importante monografia del 1931, scritta dal rovignese Carlo Curto, tra gli esponenti della Letteratura romantica della Venezia Giulia: 7 i triestini Giuseppe Revere  











casi, il precursore di successive fondamentali interpretazioni critiche: per esempio dove Slataper è stato riconosciuto essere la «fonte prima dell’enunciazione del “filone triestino” che sarà poi teorizzato dal Pancrazi», ivi, p. 16. 1   Scipio Slataper, Scritti politici 1914-15, cit., p. 80. 2   Conosciuti da Giani Stuparich (Giani Stuparich, Scipio Slataper, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 19502, pp. 228-229), la fotografia dell’autografo è riprodotta sulla prima copertina di alcuni esemplari dell’edizione, Biagio Marin, I delfini di Scipio Slataper, Milano, Scheiwiller, 1965. 3  Cfr. Roberto Norbedo, Per l’edizione critica, il commento e l’interpretazione del ‘Mio Carso’ di Scipio Slataper, in Per ‘Il mio Carso’ di Scipio Slataper, a cura di Ilvano Caliaro, Roberto Norbedo, Pisa, ets, 2013, pp. 86 e 89-90 (dove, sulla base della riproduzione fotografica, abbiamo proposto una trascrizione del testo tenendo conto del processo genetico). 4   Vedi sopra, per questa e per le citazioni che seguono. 5  Cfr. Roberto Norbedo, Per l’edizione critica, cit., p. 89. 6   Si notino i parallelismi tra i due testi, nei termini come nei sintagmi: sognatore-fantastico; opere-realismo; smaniante d’amore-amore non ricambiato e impossibilità di essere largamente generoso; bile-polemista feroce. 7  Cfr. Carlo Curto, La letteratura romantica della Venezia Giulia (1815-1848). Saggio, Parenzo, Stab. Tip. G. Coana & Figli, 1931.

colautti, tommaseo, filippo zamboni e il mio carso

91 (1812-1889) 1 e Filippo Zamboni (1826-1910), 2 l’istriano Pasquale Besenghi degli Ughi (17971849), 3 per parte di madre discendente «d’antica famiglia feudale friulana», 4 e Antonio Gazzoletti (1813-1865), trentino che a lungo visse e operò a Trieste. 5 Protagonisti di vite, al pari di Colautti e del Tommaseo, segnate a fondo dallo spirito di conflittualità, 6 gli scrittori giuliani nominati da Slataper erano legati in vario modo alla «Favilla», il «giornale romantico» 7 che «spesso [...] si ispira» al «magistero» del Tommaseo. 8 Una rivista in cui, come registrava già Carlo Curto, la politica editoriale accoglieva «asserzioni schiettamente irredentistiche» accanto a «idee di conciliazione slava»: 9 sulla base di un «programma democratico mazziniano, poggiante sul principio di nazionalità e sulla conseguente alleanza dei popoli oppressi contro l’Austria», si «tendeva una mano agli Slavi meridionali e apriva le colonne [...] agli storici e poeti dalmati», appunto «dietro le orme e gli esempi» del Tommaseo. 10 I giudizi dati da Slataper sembrano rispecchiare la propria personale sensibilità non solo di critico, ma di letterato e di scrittore. Così per il «convincimento sull’indispensabile armonia tra Italiani e Slavi nella Venezia Giulia», che era nel «programma prequarantottesco dei favillatori», e del quale erano anche state permeate alcune delle slataperiane Lettere triestine. 11 Oppure riguardo al citato spirito di conflittualità, che accomunerebbe i letterati dalmati e quelli della Venezia Giulia: il «gusto insistito delle contraddizioni» e la volontà di «introiettare» i «conflitti» e i «traumi» di Trieste e della «civiltà europea moderna», sono da tempo diventati chiavi interpretative per l’intera opera di Slataper. 12 E appunto la medesima inclinazione a indulgere nelle contraddizioni traspare nel rapporto tra la commemorazione di Colautti e i coevi «articoli del 1914-15, di Slataper giornalista [...] sul “Resto del Carlino”». 13 In questa sede, è noto, sono stati «rovesciati molti dei cardini che in precedenza avevano sostenuto l’ideologia di Slataper», in base a quella che è stata definita una «linea reazionaria» di interventismo. 14 In particolare, con l’articolo I diritti nazionali s’aπermano con la guerra (10 ottobre 1914) i «lasciti risorgimentali vengono regolati in fretta». 15  





























1   Cfr. ivi, pp. 279-290; se Curto considerava Revere il «maggiore dei triestini» (p. 7), egli è riconosciuto essere senz’altro tra gli «scrittori più importanti dell’Ottocento romantico triestino», Cristina Benussi, Nello specchio di Heine: Revere, Svevo, Saba, in Dal centro dell’Europa: culture a confronto fra Trieste e i Carpazi, Atti del Secondo Seminario Internazionale Interdisciplinare, Pécs, 26-29 settembre 2001, a cura di Eszter Rónaky, Beáta Tombi, Pécs, Imago 2 Mundi, 2002, pp. 87-98: 87.   Si veda sotto. 3  Cfr. Carlo Curto, La letteratura romantica della Venezia Giulia, cit., pp. 27-134; e cfr. Aldo Tassini, Per la biografia di Pasquale Besenghi degli Ughi. Un parere di Giuseppe de Lugnani, «Archeografo triestino», s. iv, xii-xiii (=lxilxii),1947, pp. 417-423; Marina Petronio, Pasquale Besenghi, critico romantico, ivi, s. iv, xlviii (= xcvi), 1988, pp. 83-120. 4  Cfr. Carlo Curto, La letteratura romantica della Venezia Giulia, cit., p. 28. 5   Ivi, pp. 235-266; per un profilo bio-bibiografico cfr. Mario Allegri, Gazzoletti, Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1999, pp. 779-781. 6   Si legga del «tragico conflitto» che, secondo Curto, dominò la vita del Besenghi (Carlo Curto, La letteratura romantica della Venezia Giulia, cit., p. 28), dell’«anima aπettuosa e fantastica, spesso trasportata, in abbandono di se stessa, dalla réverie romantica» del Gazzoletti (ivi, p. 235), e della «condizione» di «espatriato» di Revere, «irrequieto patriota senza patria» (Cristina Benussi, Nello specchio di Heine: Revere, Svevo, Saba, cit., p. 87). 7  Cfr. Carlo Curto, La letteratura romantica della Venezia Giulia, cit., p. 27. 8  Cfr. La Favilla (1836-1846). Pagine scelte della rivista, a cura di Giorgio Negrelli, Udine, Del Bianco, 1985, p. 27. 9  Cfr. Carlo Curto, La letteratura romantica della Venezia Giulia, cit., p. 206. 10   Ivi, p. 203; e si veda quanto osservava Giorgio Negrelli, La Favilla (1836-1846), cit., p. 27. 11   Cfr. Roberto Damiani, in Scipio Slataper, Scritti politici 1914-15, cit., pp. 14-22: 21. 12  Cfr. Elvio Guagnini, Per Slataper, in Scipio Slataper. L’inquietudine dei moderni, a cura di Elvio Guagnini, Trieste, Edizioni Ricerche, 1997, p. 6. 13  Cfr. Mario Isnenghi, Nati troppo tardi, nati troppo presto e nati al momento giusto, in Per ‘Il mio Carso’ di Scipio Slataper, cit., pp. 13-14. 14  Cfr. Roberto Damiani, [Saggio introduttivo], in Scipio Slataper, Scritti politici 1914-15, cit., pp. 57 e 55. 15  Cfr. Mario Isnenghi, Nati troppo tardi, nati troppo presto e nati al momento giusto, in Per ‘Il mio Carso’ di Scipio Slataper, cit., pp. 17-19: 19; e si legga anche dove sottolinea come il «patriottismo garibaldino datato 1907 non lascia presagire prese di posizione perentoriamente ispirate alla geopolitica e al realismo, come quelle di Scipio ventiseienne nel “Carlino” dell’ottobre del 1914» (p. 17).

roberto norbedo

92

A ben guardare nella rievocazione del Colautti, scritta un mese dopo l’articolo, a√orano spie che rimandano ad alcune delle Lettere triestine del 1909, alla cui scrittura, lo si è accennato sopra, aveva presieduto proprio l’idea della nazione di ascendenza mazziniana interpretata in chiave volontaristica e pre-risorgimentale della «Favilla». A partire dalle spie lessicali, 1 proseguendo con i concetti più ampi, 2 per finire con i riferimenti precisi proprio a quel «patriottismo garibaldino» che era stato così importante per Slataper. 3 Ci si riferisce a uno degli autori citati nella commemorazione di Colautti, il «triestino fedele di Garibaldi» Filippo Zamboni, 4 amico del Carducci, «fervente patriota [...] che si coprì di gloria quale capitano del Battaglione Universitario Romano», 5 e che il Curto definì «l’ultimo forse in ordine di tempo dei dantisti militanti del Risorgimento». 6 Drammaturgo, cultore di Dante al pari di Colautti e Tommaseo, è autore di un poemetto in 24 saπiche Dal Carso a Trieste, 7 pubblicato nel 1904 ma composto il «primo gennaio 1890». 8 Un esemplare contenente la poesia, probabilmente entrato in possesso di Giani Stuparich e che ora è conservato presso la Biblioteca Generale dell’Università di Trieste, porta una dedica di mano dell’autore, che recita: «al suo concittadino / Scipio Slataper / con aπetto / l’autore». 9 Il testo, scrive egli stesso, che fu «mandato da me a Giosuè Carducci, venne dato dal Poeta al “Resto del Carlino” di Bologna che ne pubblicò le sei ultime strofe nel numero 30-31 Dicembre 1901». 10 I versi nell’esemplare in questione hanno ricevuto occasionali glosse di mano di Slataper. 11 La poesia di Zamboni, a partire dalla sua intitolazione Dal Carso a Trieste, sembra aver oπerto diversi spunti al Mio Carso slataperiano, e potrebbe aver avuto un notevole ruolo nella sua genesi. Si ricordi, infatti, che uno dei nuclei originari dell’opera, 12 La calata, rappresenta proprio la discesa del protagonista dal Carso alla città di Trieste, e che nel corso della composizione Slataper intitolò Il mio Carso e la mia città una «redazione più matura dell’opera [...] che ha preceduto la stampa». 13 Ma per ora basti citare, a titolo di esemplificazione, due versi di Zamboni: «Adria, com’io ti sento! è vivo seno / la tua conca; infinito che non muore». 14 Essi figurano come  



























1   Con riferimento, per esempio, alla quarta delle Lettere triestine (La vita dello spirito), significativa per l’esplicito richiamo all’azione culturale della «Favilla» (Scipio Slataper, Lettere triestine. Col seguito di altri scritti vociani di polemica su Trieste, a cura e con Postfazione di Elvio Guagnini, Trieste, Dedolibri, 1988 p. 35): dove la «smaniosa irrequietezza» che Slataper si attribuisce (ivi, p. 31), pare essere richiamata dallo «spirito» dalmata «smanioso d’azione» della commemorazione del Colautti (vedi sopra); o, tra gli stessi due testi, il parallelo che si instaura tra la Dalmazia e Trieste, l’una e l’altra luoghi di scontri, «di cozzi» (cfr. sopra e ivi, p. 32). 2   Come quello del senso di vicinanza culturale tra Trieste e le altre componenti dell’area ‘adriatica’, esplicitato nella medesima Lettera («con lei sono il Trentino, il Friuli, l’Istria, la Dalmazia. Stretti come una famigliola di 3 fratelli», ivi, p. 37) e parimenti sotteso al testo dedicato a Colautti (vedi sopra).   Vedi sopra. 4  Cfr. Scipio Slataper, Un dalmata, cit., p. 80. 5   «Rassegna storica del Risorgimento», 1943, p. 285 (cit. da www.risorgimento.it). 6  Cfr. Carlo Curto, La letteratura romantica della Venezia Giulia, cit., p. 187; su Zamboni, figura che ci ripromettiamo di studiare in relazione ai suoi rapporti con Slataper, si veda intanto Lina Gasparini, Filippo Zamboni: un’amicizia ignorata di Giosue Carducci, «Nuova Antologia», 70, 1522, 1935, pp. 562-590, e la voce del 1937 Zamboni, Filippo di Guido Mazzoni sull’Enciclopedia italiana Treccani (dove, a testimonianza della personalità dello Zamboni, tra le altre cose si osserva: «Irrequieto, viaggiò per l’Europa, l’Asia, l’Africa», www.treccani.it). 7   Filippo Zamboni, Dal Carso a Trieste. Il Cocale. A Guglielmo Marconi, Capodistria, Tipografia Cobol & Priora, 1904, pp. 1-6; si legga come prosegue il puntuale ma isolato rilievo del Curto: «nella nota poesia intitolata Dal Carso a Trieste, fa muovere incontro a Dante nel golfo di Trieste sulla nave dalla vela latina come i più degni dei passati il Besenghi e il Revere. I quali sentirono Dante quasi all’unisono conforme alla tradizione alfieriana e foscoliana», ibidem). 8   Filippo Zamboni, Dal Carso a Trieste, cit., p. 3. 9   Si tratta dell’esemplare BGA 148754 FSt./Misc./0022 (8), che secondo l’indicazione catalografica provenne appunto dal «Fondo Carlo e Giani Stuparich»; venuti a conoscenza del reperto solo a ridosso della pubblicazione dei presenti 10 Atti, ci riserviamo a breve di approfondire lo studio della poesia di Zamboni.   Ivi, p. 1. 11   La grafia sembra infatti conforme rispetto a quella delle testimonianze autografe conservate nel Fondo Slataper presso l’Archivio di Stato di Trieste. Sarà nostra cura verificare il rapporto che lega le glosse slataperiane al testo dello Zamboni, e le sue implicazioni. 12  Cfr. Ilvano Caliaro, Tra vita e scrittura. Capitoli slataperiani, Firenze, Olschki, 2011, p. 125 sgg. 13  Cfr. Cristina Benussi, Il mio carso e la mia città, in Per ‘Il mio Carso’ di Scipio Slataper, pp. 41-42 e note: 41 nota. 14   Filippo Zamboni, Dal Carso a Trieste, cit., p. 1, vv. 17-18.

colautti, tommaseo, filippo zamboni e il mio carso

93 fonte piuttosto esplicita del passo del Mio Carso, appartenente proprio alla Calata e pervaso da un corrispondente panico sentimento di annullamento nella natura, nel quale Slataper esclama: «La mia anima veramente s’allarga come acqua in una conca immensa». 1  

1   Scipio Slataper, Il mio Carso, Firenze, Libreria della Voce, 1912 (rist. fotomeccanica della prima edizione della «Libreria della Voce», a cura del Comune di Trieste, 1989), pp. 41-42.

SUL CANZONIERE DI PAOLO PALADINI Milena Montanile

L

a prima informazione sull’esistenza nella Biblioteca Universitaria di Valencia 1 di un codice contenente componimenti in latino e in volgare di Paolo Paladini si deve a Tammaro De Marinis che, al di là dell’equivoco su una presunta origine pugliese del Paladini, 2 fornisce un primo regesto dei componimenti latini e volgari presenti nel ms., suggerendo poi, sulla base di alcuni rilievi interni, un’ipotesi di datazione (l’appellativo, attribuito a Federico II, di ‘luogotenente generale’ come prova certa della data, 1496, in cui il libretto fu oπerto al principe aragonese). La questione è stata riaperta solo in tempi recenti da Sebastiano Valerio che ha sfatato ogni dubbio sulle origini del casato e ha oπerto per primo un’excerpta dei componimenti contenuti nel ms. di Valencia: il testo integrale della dedica, l’orazione latina («Ad Divum Federicum principem Altaemurae»), un ampio estratto delle liriche latine e italiane con una prima analisi storico-critica. 3 In tempi più vicini a noi Sante Graciotti ha fornito la prima trascrizione integrale del canzoniere: 4 un lavoro minuzioso e attento che resta a tutt’ oggi, in assenza di un’edizione filologicamente rigorosa del testo, un necessario punto di riferimento per quanti intendano avvicinarsi agli scritti di questo singolare autore. È proprio la data di composizione – 1496 – che fa di questo canzoniere un reperto significativo della fortuna, ma anche del radicamento precoce del modello lirico petrarchesco nella cultura dell’oltre Adriatico, e insieme una testimonianza della convinta adesione dei petrarchisti croati al prestigioso modello del Petrarca. Sappiamo che l’altra sponda dell’Adriatico ha condiviso per secoli la storia culturale della nostra penisola partecipando attivamente alla rinascita degli studi umanistici in Italia. E se è vero che in Dalmazia gli studia humanitatis si aπermarono soprattutto nelle scuole episcopali e nei monasteri benedettini, è anche vero che risalgono alla prima metà del Quattrocento le prime scuole dirette da umanisti, per lo più di origine italiana, nelle quali si insegnava a pari livello il latino e il volgare italiano. In questo clima di rinascita Petrarca funzionò anche qui da riferimento obbligato, a lui guardarono i poeti dalmati contaminando linguaggio e modello lirico, e contribuendo in maniera decisiva alla diπusione del petrarchismo e della lirica amorosa in Europa. Il fenomeno della diπusione del petrarchismo, che abbraccia in particolare sia i territori veneziani della Dalmazia che quelli di Ragusa, è stato seguito con particolare attenzione da alcuni studiosi 5, lungo una traiettoria che dall’Albania veneta (la Dalmazia montenegrina), con le raccolte poetiche di Giorgio Bisanti (Rime amorose, 1532) e di Ludovico Pascale (Rime volgari, 1549) culmina a Ragusa, con la produzione poetica, prima di Nicola e poi di Domenico Ràgnina, il primo giovanissimo curatore della raccolta di liriche con 









1

  Tammaro De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, ii, Milano, Hoepli, 1947, pp. 120-121.   Ibidem.  Cfr. Sebastiano Valerio, Un intellettuale tra petrarchismo e «institutio principis». Paolo Paladino alla corte di re Federigo D’Aragona, Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2001, pp. 5-44; 47-61. 4   Sante Graciotti, Il petrarchista dalmata Paolo Paladini e il suo canzoniere (1496), cit. L’edizione è stata anticipata dal saggio Un petrarchista dalmata quasi sconosciuto di fine Quattrocento: Paolo Paladini di Lesina, «Atti e Memorie della Società Dalmata di Storia Patria», xxvi, Roma, 2004, pp. 17-32; Idem, Jedan gotovo nepoznat dalmatinski petrarkist: Paolo Paladini in Petrarca/petrarkizam U Hrvatskoj Književnosti, a cura di Lučin Bratislav, Mirko Tomasović, Split, Književni Krug, 2006, pp. 57-67. 5   Si rinvia a questo proposito ai risultati del già citato Convegno di Spalato del 2004: cfr. Petrarca/petrarkizam U Hrvatskoj Književnosti, a cura di Lučin Bratislav, Mirko Tomasović, cit. 2 3

sul canzoniere di paolo paladini

95 fluite nel Canzoniere raguseo, il secondo, autore di poesie di stampo petrarchista in latino, italiano e in lingua dalmatina, e traduttore in questa lingua di autori greci e latini. La stesura del Canzoniere risale al 1496, anno in cui l’autore, insieme al padre Nicolò, fu protagonista di un’importante impresa bellica: l’assedio di Taranto, in difesa degli Aragonesi e al seguito delle truppe venete: una circostanza per altro ricordata nella dedica al principe aragonese (Pauli Paladini Phari apud Tarentum habita oratio), un vero e proprio proemio che rielabora temi consueti nella cultura poetica aragonese, e che ci riporta al circolo di intellettuali legati a Federico dove, come già in ambiente padano-veneto, il petrarchismo faceva le sue prove migliori. 1 Al di là della dedica l’elemento nuovo è dato dall’alternanza di componimenti in volgare e distici latini, una scelta che consente al Paladini non solo di lavorare sperimentalmente sul piano dei registri stilistici (passando dai toni laudatori dei carmi a quelli lirico-amorosi dei componimenti in volgare), ma soprattutto di assecondare l’uso di quelle lingue – il latino e il volgare italiano – conosciute e frequentate con pari dignità insieme al croato in tutta la costa dalmata. Ma più che ai componimenti latini, per lo più dedicati a capitani da mar o ad altri valorosi uomini di mare veneziani (da Antonio Grimani a Melchiorre Trevisan a Cosma Pasqualigo ad Alvise Macedonio a Francesco Priuli) ma anche a intellettuali di area veneta o dalmata (Tideo Acciarino, Elio Lampridio Cervino, Cassandra Fedele), desidero fermare l’attenzione su alcuni procedimenti stilistici che interessano soprattutto le liriche in volgare e che ben testimoniano, nei temi, nelle scelte espressive, nel repertorio simbolico, i livelli di riuso, ma anche di contaminazione, di Petrarca e petrarchismo in area dalmata. Intanto è presumibile, non avendo a disposizione dati certi sulla sua formazione, che molto abbiano influito sia le sollecitazioni culturali della sua terra d’origine (pare che siano stati proprio l’Acciarino e il Cervino all’origine del suo culto per la poesia latina), 2 sia quell’ambiente napoletano, con il quale il Paladini era venuto, per ragioni politicomilitari, in stretto contatto. Il Petrarca fu dunque per lui lettura certa, mediata anche dall’ambiente napoletano e dalla grande diπusione della lirica amorosa nell’ultimo trentennio del Quattrocento. Infatti se si esclude la prima edizione rarissima del Canzoniere (Venezia 1470), venticinque furono, come pare, le edizioni del Petrarca che circolarono nell’ultimo trentennio del Quattrocento; dal catalogo degli incunaboli edito da Badalić 3 nel 1952, sappiamo della presenza proprio nella Biblioteca di Ragusa di due incunaboli del Canzoniere, l’edizione del ’72 e quella curata dal Filelfo nel 1492. Altrettanto significativa la notizia resa nota nel corso del convegno di Spalato, di un commento ms. ad alcune liriche del canzoniere, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, 4 e l’altra, della presenza, intorno alla metà del Quattrocento, di un canzoniere ms. posseduto da Volzio Bobali, 5 un nome che rinvia al circolo letterario di Lorenzo Regini. 6 Ma numerose furono anche le edizioni, nello stesso periodo, di rime, delle quali Venezia coi suoi torchi detenne quasi il monopolio. 7 Solo più tardi si avranno con Marco Màrulo, scrittore trilingue, le prime traduzioni in latino di due sonetti del Petrarca, e con Sigismondo Menze la prima versione di un sonetto del Petrarca (Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno) nel  













1   Sul petrarchismo napoletano cfr. quanto meno Ezio Raimondi, Il petrarchismo nell’Italia meridionale, in Premarinismo e pregongorismo, Atti del Convegno internazionale, Roma 19-20 aprile 1971, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1973, pp. 95-123, poi in Idem, Rinascimento inquieto, Torino, Einaudi, 1994, pp. 267-306. 2  Nel Canzoniere sono presenti alcuni componimenti indirizzati al Paladini, tra questi uno, appunto, è di Elio Lampridio Cervino e l’altro è dell’Acciarino: Aelius Lampridius Cervinus/ Pau[lo] Pall[adino] suo; Tydeus Acciarinus; Franc[iscus] Nat[alis]; Pe[trus] Cont[arinus] Naxi Dessignatus; cfr. Paolo Paladini, Canzoniere, in Sante Graciotti, Il petrarchista dalmata Paolo Paladini e il suo canzoniere (1496), cit., pp. 178-182. 3 4   Ivi, p. 72.   Ibidem. 5 6   Ivi, p. 74.  Ivi, pp. 72-74. 7  Cfr. Nadia Cannata Salamone, Per un catalogo di libri di rime 1470-1530. Considerazioni sul Canzoniere, in Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura di Marco Santagata, Amedeo Quondam, Modena, Panini, 1989, pp. 83-89.

milena montanile 96 dodecasillabo doppiamente rimato della lingua croata. 1 E non a caso il Paladini mostra di prediligere proprio il sonetto che è una delle forme metriche più frequenti del Canzoniere, una forma che egli riproduce di preferenza nello schema caudato (12 sonetti su 17 sono caudati). La continuità con i carmi latini è assicurata dalla titolazione in latino di tutti i sonetti in volgare. Già Valerio ha colto una derivazione quasi letterale dei vv. 3-7 del sonetto del Paladini al Pesaro (Pisauro), dai vv. 67-70 della prima canzone in morte di Laura, Che debbo io far? Che mi consigli, Amore? Il Graciotti ha notato che proprio l’uso che Paladini fa di questo luogo specifico dimostra la tendenza al riciclo di materiali petrarcheschi adattati a contesti e situazioni diverse (il compianto del poeta in questo caso è indirizzato non alla donna amata, ma a un compagno d’armi per la morte del fratello). 2 Ma più che la derivazione puntuale di singole parole, o di interi sintagmi, in alcuni casi veri e propri prestiti formali, è evidente che il Paladini riesce a riprodurre il clima della lirica petrarchesca, ricreando soprattutto atmosfere e ambienti, e limitandosi piuttosto alla ripresa, in qualche caso letterale, di luoghi topici o di isolate suggestioni liriche: si veda, ad esempio, il caso della «tortora scompagnata in velo nero» (xxx, 11) nel sonetto All’amica. È evidente la particolare fisionomia di questo Canzoniere, caratterizzato dalla mescolanza, o meglio dalla simbiotica presenza di elementi eterogenei, una mescolanza che tocca in prima istanza il repertorio tematico (con suggestioni petrarchesche, o legate all’ambiente del petrarchismo lirico, mescolate qua e là a ricordi della lirica amorosa di tradizione latina o impreziosite da frequenti reminiscenze classiche), ma anche il livello lessicale (in questo caso venetismi – lessicali («suxo», «giogire»; «vigilamo», «giacio») ma anche grafico-fonetici (Lexinam) – e arcaismi – convivono con un lessico a tratti meno sorvegliato e più popolare («si strenge», «aisto solsticio», «cusì», «ornetia»), per mescolarsi agli inevitabili latinismi, alle grafie latineggianti, alle frequenti metafonesi. Il Paladini riproduce dunque nessi isolati, sintagmi (vedi «mortal stancia» nel componimento vi, 10 Ad amicam), recuperando stilemi ormai in uso nella tradizione della lirica d’amore di derivazione petrarchesca, così le endiadi preziose (nefandi e maledetti, mansueti e casti, sacri et benedetti), le antitesi ricercate, i chiasmi (vota è di pace et rampiuta di horrore; l’indegni sollevar et degni anega), l’accumulazione retorica («esecrandi», «nefandi e maledetti»; «misera», «amara», «isbigotita»; «si abbatte», «rode», «preme», «abagliami»; «rege», «move et governa»), le frequenti dittologie, gli ossimori. Si tratta in più casi di ‘situazioni’ petrarchesche rivissute e rielaborate all’interno della sua vicenda personale e della sua esperienza poetica. Un’opera in qualche modo di contaminatio, e con esiti spesso lontani o estranei alla stessa lirica petrarchesca. Già Sante Graciotti ha fornito un primo catalogo delle coincidenze, a√nità o somiglianze, con isolati elementi petrarcheschi, tentando anche un primo esame contrastivo delle dissonanze, che toccano soprattutto il livello lessicale, e registrando l’uso di termini, sicuramente estranei al Petrarca (e tra questi «avvampa», «mattina», «contumace», «nume», «lutume», «amaritudine», «pestifero», ivi inclusi alcuni sintagmi, quali «matto ardir», e «gire a volo», ecc.), ma riconducibili a ria√oramenti o a contaminazioni di natura diversa. Quanto al repertorio tematico ci troviamo di fronte a riadattamenti di luoghi topici petrarcheschi: l’amore come fiamma ardente che consuma l’anima nel sonetto Erotice ad stellas, dove l’esortazione alle «stelle lucenti» – topos variamente declinato nel Canzoniere – e il riferimento ai tormenti dell’animo e alle pene d’amor, risente di atmosfere petrarchesche. A proposito di ‘celeste fiamma’ è appena il caso di notare il già segnalato calco dal Cariteo,  



1   Nella traduzione del sonetto (RVF 61) Menze si attenne «al canone petrarchesco della rima, dei temi e della rappresentazione graduale della bellezza femminile»; cfr. Ljljana Avirović, op. cit., p. 7. 2   E così l’immagine della fronte penta – ii, 6 Erotice ad stellas del Paladini – evoca chiaramente una immagine simile del Petrarca (RVF, clxix, 5: «se nella fronte fosse ogni penser dipinto»).

sul canzoniere di paolo paladini

97 a riprova di probabili elementi di dipendenza o di contatto con l’ambiente aragonese. Nel componimento iv Exprobratio ad aquas et pluvias, il tema della natura ostile al sentimento d’amore («Nemica di mia pace e di quiete»), si congiunge all’invettiva finale, espressione di un forte risentimento contro la fortuna iniqua, i «sollevati abiecti», inclini a premiare gli indegni e a castigare i degni («L’indegni sollevar et degni aniega»). Ancora petrarchesco è il parallelismo sonno/morte nel componimento vi Ad amicam (Perché il sonno e ‘l morir vanno aguagliati), mentre nel sonetto Ad Lexinam patriam il motivo del distacco dalla donna amata, è ricondotto a momenti o vicende della sua storia personale, come alla sua storia personale, evocata nei sentimenti di vergogna e disonore, riconduce lo sfogo amaro di quello che dovè essere per lui un dramma personale, doloroso e soπerto, aggravato (nell’ultimo componimento, il xxxiv, Ad consobrinum suum Franciscum Gryphicum) dall’amara consapevolezza che è vano ribellarsi al fato («liberarmi d’amor et di flagitio/ perregrinando […] ma nulla isfoca il tanto mio furore / […] dura lege d’amor, iniquo lacio / servar convien con esso il vero exempio / che obstar al fato non val diligentia»). Ma al di là di questi esempi ciò che emerge con chiarezza è il carattere sperimentale del suo lavoro poetico, interessato piuttosto a combinare tradizioni diverse alla ricerca di un’originale elaborazione poetica. Di rincalzo alla ricca esemplificazione prodotta da Sante Graciotti si aggiunge una breve riflessione in tema di discordanza dal Petrarca, che riguarda in particolare il topos della bellezza femminile, centrale in tutta la tradizione della lirica amorosa, da Petrarca in poi. Ebbene manca del tutto nel canzoniere del Paladini la valorizzazione del cliché estetico, fondato sulla triade obbligata dei colori (giallo-rosso-bianco), che regola nella tradizione lirica la nascita del topos. Un elemento che in tutta la tradizione della lirica amorosa incide in maniera vistosa sulla mitografia figurativa della donna amata. Paladini ricorre raramente alla descrizione, o alla semplice citazione del particolare fisico, e laddove è presente esso è tuttavia ben lontano dalla delicatezza che assume nella trasfigurazione amorosa del Petrarca. In Erotice xxxii il riferimento al particolare fisico (gli ‘ochi’, il ‘petto’ e ‘il bianco collo’), scardinato dal ricco corredo dei figuranti metaforici, è finalizzato più che alla definizione del topos, alla rappresentazione simbolica della «celeste fiamma», quella forza d’Amore in grado di sublimare la materialità corporea della donna in una dimensione ideale in cui l’umano si fa rivelazione e luce del divino. Anche in questo caso il Paladini sembra prediligere la tensione verso il superamento della dimensione terrena dell’amore, ma in una prospettiva ben diversa dalla trasfigurazione amorosa del Petrarca. Viene meno nel Paladini il gioco sottile di metafore che conduce in Petrarca all’ammirata contemplazione della bellezza archetipa sul piano concettuale. Una riprova viene proprio dalle suggestive declinazioni del termine ‘lume’, su cui si è fermato ampiamente Sante Graciotti, osservando che in Paladini, come già in Petrarca, il termine è legato «in sintagma inscindibile» con il verbo ‘apparire’, «che è proprio di ogni epifania». 1 In Erotice xxiv sono ancora le bellezze dell’amata, identificate nel particolare fisico («avolio ne le man, cristallo in braccia / carbon ne gli ochi…»), più che la natura circostante («Pogio… Verdigie et onde fresco et chiaro fiume»), a ispirare il poeta. Con l’immagine del «vero lume» calato in «mortal sembianti» («Veggonse profanati, poi che ‘l vero / lume ci aparse en mortal sembianti») – propria della tradizione cortese, ripresa dallo stilnovismo – il particolare fisico diventa il punto di partenza di un processo di sublimazione che conduce all’adorazione dell’idea stessa di Amore, inteso in senso assoluto. La donna, rivelazione e luce del divino, diventa ispiratrice di poesia soppiantando le muse tradizionali della lirica amorosa. Più avanti In avem exprobratio,  

1

  Sante Graciotti, Il petrarchista dalmata Paolo Paladini e il suo canzoniere (1496), cit., p. 84.

milena montanile 98 l’attenzione al particolare fisico, evidente nell’uso di nessi sintagmatici preziosi ma inconsueti nella tradizione del petrarchismo lirico («muscoso sen», «argentate man»), sembra risentire delle suggestioni della lirica amorosa latina (l’immagine dell’uccello scappato via dalle mani dell’amata riecheggia in qualche modo il catulliano Passer, deliciae meae puellae. Se del tutto assente è il riferimento al valore simbolico-metaforico del particolare fisico, ben ricca e intessuta di reminiscenze, spunti, temi topici è invece, come si è visto, l’esperienza d’amore; l’elemento emergente nella lirica del Paladini resta comunque quello riflessivo-personale, che lo porta a scomporre il modello petrarchesco, adattandolo alle vicende della sua vita personale ma anche ‘civile’. Ci soccorre in questo senso la varietà tematica del Canzoniere: anche in questo caso temi convenzionali, ma rivissuti all’interno della sua personale sensibilità. È da osservare intanto che solo otto su diciassette sono le liriche di argomento amoroso, alle quali si a√ancano componimenti che trattano temi diversi (l’amor di patria, l’amicizia, l’esilio, ecc.): un elemento che non va trascurato in un auspicabile lavoro di edizione critica del testo. Nel componimento xviii, ad esempio, dedicato a un imprecisato Macedonio, il Paladini celebra il sapere e le armi, virtù civili, immortalate nelle opere di questo sconosciuto scultore. Nel componimento xvi, dedicato ad Antonio Grimani (Hipothetice ad Imperatorem Antonium Grymanum) comandante militare nell’impresa pugliese di Venezia, le allusioni alla guerra in corso è occasione per esaltare le virtù civili del condottiero veneto. L’immagine ripresa nel sonetto Ad Marcum Beatianum, condensa nella figura dell’imperatore-condottiero le virtù proprie dell’Umanesimo civile (temperancia, fortecia, et iusticia); con un riferimento finale al tema della soπerenza, il ‘gran dolore’, che accomuna le pene d’amore all’esilio forzato, e con una significativa apertura a quell’elemento lirico-introspettivo che percorre l’intero canzoniere. A proposito dei problemi legati alla trasmissione del testo molti sono ancora i nodi irrisolti, le questioni da sciogliere, molte ancora le approssimazioni di letture, le congetture, d’altra parte, al di là della complessa patina linguistica di questo Canzoniere, situazione che già di per sé rende delicato il lavoro di edizione, è proprio lo stato del ms., probabilmente compromesso anche da arbitrari interventi correttori, e in cui molti luoghi si presentano di di√cile se non di disperata lettura, a rendere particolarmente arduo il lavoro del filologo, un lavoro delicato, in alcuni casi di vero e proprio restauro, capace di restituire anche nelle approssimazioni, nelle oscillazioni, nelle incertezze, l’originaria patina linguistica del testo. Un lavoro che dovrà tener conto proprio di questo aspetto, senza trascurare sia la sicura mediazione dell’ambiente napoletano (particolarmente attratto da modelli plurilingui), e sia la singolare stratificazione delle fonti: 1 un progetto ambizioso, indispensabile per un’edizione finalmente a√dabile del testo, che rivendica un’assoluta priorità, nella direzione ormai consolidata di una più feconda utilizzazione della filologia in sede di analisi e di critica testuale. E ciò senza nulla togliere al contributo del Valerio prima e del Graciotti poi, che hanno il merito di aver rimesso in circolazione un autore e un testo rimasto sconosciuto e sepolto fino all’inizio di questo secolo; ma di aver anche tracciato un percorso da cui sicuramente non è possibile prescindere. Il Canzoniere resta indubbiamente per la sua singolarità una testimonianza preziosa del radicamento precoce del Petrarca in terra dalmata, utile anche a valutare, com’è stato detto, 2 il peso che la componente culturale italiana ha avuto in quella simbiosi romano-slava che ha caratterizzato per secoli la cultura e la civiltà dell’oltre Adriatico.  



1   Ci auguriamo che l’edizione critica del Canzoniere, promessa da Vito Luigi Castrignanò, possa presto vedere la luce. 2   Sante Graciotti, Il petrarchista dalmata Paolo Paladini e il suo canzoniere (1496), cit., p. 116.

LA CINA RIFLESSA SULLO SPECCHIO OCCIDENTALE Kim Hee Jung

Q

uando si fa ricerca sul significato della questione ‘Che cosa vuol dire la Cina vista dall’Occidnete?’, la prima di√coltà in cui ci si imbatte è il fatto che entrambi, cioè l’Occidente e la Cina, non sono sostanze definibili. Friedrich Nietzsche, nel suo libro Genealogia della Morale, dice che le cose definibili sono solo i concetti non storici. L’Occidente e la Cina non esistevano fin dal principio, ma sono concetti formatisi nel corso della storia perciò, l’identità tra questi concetti non è l’oggetto di definizione ma quello di interpretazione. 1 Nel momento in cui si parla della Cina vista dal mondo occidentale, l’Occidente è il soggetto di interpretazione, mentre la Cina è l’oggetto. Il ‘problema’ non è la Cina, bensì l’Occidente: questo significa che il mondo occidentale è una comunità immaginaria che è formata per mezzo di un altro mondo, un mondo non occidentale. 2 Se l’identità dell’Occidente è stata creata attraverso lo specchio di un altro mondo, i cambiamenti nella comprensione della Cina da parte dell’Occidente dovrebbero essere studiati in connessione con i processi in cui la stessa identità del mondo occidentale viene formata. Per procedere con questa ricerca, voglio soprattutto spiegare come gli occidentali hanno letto il libro ‘Cina’, 3 e poi analizzare quale ruolo ha svolto quel tipo di lettura durante il processo di self-fashioning, ossia costruzione di se stesso (dell’Occidente). In ogni epoca gli occidentali hanno letto la ‘Cina’ e hanno capito cose diverse. Dell’influsso della lettura sulla formazione di sé dell’uomo, così parla Rick Gekoski: «Ho saputo che i libri che avevo letto mi hanno formato, e attraverso quella comprensione ho potuto anche capire me stesso. Ed alla fine, tramite me stesso, ho conosciuto meglio quei libri». 4 Egli ha scandito in tre tappe la relazione dialettica tra il lettore e il libro. Prima, il libro forma il lettore, e poi questo, per mezzo dello stesso libro, capisce se stesso, e passando per queste due tappe può appropriarsi del significato del libro. Voglio ora provare a riassumere la storia della relazionale tra la Cina e il mondo occi 







1   Geograficamente, al mondo occidentale appartengono più paesi o meno dipendendo dal contesto storico. L’origine dell’Occidente è l’Europa le cui radici sono la civiltà greco-romana, ma nell’Occidente vengono comprese anche le Americhe e l’Oceania dove la civiltà europea è stata trapiantata attraverso l’espansione coloniale. Paragonata all’Occidente, la Cina, dall’antichità, ha mantenuto quasi sempre lo stesso territorio. Cionondimeno, è meglio dire che la Cina non è stata una sostanza così tanto stabile ma una comunità storica creata dalla genealogia della politica. Originalmente la parola ‘Cina’ veniva usata come un nome comune per indicare l’insieme di circa trenta dinastie (dalla dinastia Qin che unificò l’Impero verso la fine del terzo secolo a.C. fino alla dinastia Qing che crollò nel 1911) che erano sorte e poi crollate nella zona di ‘Zhōngyuán (Pianura Centrale)’ che comprende anche Huábei presso il Hwang Ho (il Fiume Giallo). La parola ‘Cina’ ha cominciato a essere usata come il nome proprio, quel nome u√ciale del Paese abbreviato, per indicare il Paese quando è stata fondata la Repubblica di Cina subito dopo la Rivoluzione Xinhai (conosciuta anche come la Rivoluzione Hsinhai, la Rivoluzione del 1911 o la Rivoluzione cinese). Durante l’età moderna, si è inventato la denominazione ‘Popolo cinese’ come parte degli sforzi per convertire il nome comune in un altro proprio che indica la nazione del popolo. 2   Enrique Domingo Dussel, 1492: el encubrimiento del otro : hacia el origen del mito de la modernidad, umsa, Facultad de Humanidades y Ciencias de la Educación Plural Editores, 1994. 3   Un libro di ricerca che ha analizzato i rappresentanti scritti occidentali sulla Cina e ha dimostrato come la Cina era stata distorta nelle menti degli occidentali è quello di Jonathan D. Spence, The Chan’s Great Continent: China in Western Minds, Yale, W. W. Norton & Company, 1998. 4   Rick Gekoski, Outside of a Dog: A Bibliomemoir, Edinburg, Constable, 2009, p. 266.

kim hee jung 100 dentale in base a queste tre tappe di Gekoski. Il libro che ha aperto il primo capitolo della storia relazionale di questi mondi è Il Milione di Marco Polo. Come in ogni incontro, la prima impressione è quella che conta, ed è stato questo libro di Marco Polo a creare la prima impressione della Cina. Oltre a diπondere fantasie sulla stessa tra gli occidentali, questo testo ha avuto un influsso decisivo sulla nascita del mondo occidentale. Pertanto, le questioni oggetto del mio studio sono proprio queste: 1) quale Cina è stata quella che hanno letto gli occidentali nel libro di Polo? ossia, più precisamente: quale tipo di Cina hanno voluto leggere nel libro gli occidentali?; 2) a partire da questa lettura (come eπetto farfalla nella storia di interscambio delle civiltà): come è stata costruita l’identità dell’Occidente?; 3) cosa è stata la Cina per gli occidentali? (feedback). La porta dell’interscambio tra Europa e Asia fu aperta per la prima volta nel xiii secolo in cui i Mongoli dominavano l’Asia centrale e la Cina. In quell’epoca, gli occidentali potevano sentire notizie autentiche della Cina attraverso Marco Polo, una sorta di ‘corrispondente locale’; per cui il libro di Polo fungeva da chiave che apre la porta chiusa tra Europa e Asia. Se la prima storia è quella dei libri, la seconda è un’altra della lettura: questa storia della lettura ci fa sapere come è stata la storia relazionale tra il mondo occidentale e la Cina durante la transizione verso l’età moderna. Il libro di Polo, alla fine del xv secolo, ha preparato la strada per l’apertura di un nuovo capitolo nella storia di interscambio delle civiltà, in quella fase della storia chiamata L’‘Epoca di Grande Navigazione’, invece nel corso del xviii secolo i pensatori dell’Illuminismo hanno cominciato a fare un’altra lettura della Cina con l’intenzione di trovare uno ‘specchio’ che potesse rispecchiare l’Europa dell’età moderna. Però, questi tipi di conoscenza da parte dell’Occidente, sia in positivo che in negativo, hanno i limiti dell’orientalismo. Per esempio, Andre Gunder Frank dice alla gente di leggere la Cina di nuovo nel contesto postmoderno da un punto di vista positivo e capire il concetto di ‘ReOrient’. 1 Qui, però, la parola ‘Cina’ da lui menzionata sotto il concetto di ‘ReOrient’, non si riferisce alla Cina reale ma è solo una falsa immagine che è riflessa sullo specchio del cosiddetto ideale ‘Post-eurocentrismo’. E la parte terza è la conclusione: nella dimensione dell’accettazione del lettore in cui viene sottolineata l’interrelazione tra il libro e il lettore, si cerca una relazione ideale tra il mondo occidentale e la Cina. Questa presentazione-dibattito che tratta la questione di come i lettori occidentali hanno letto il libro ‘Cina’ e l’abbiano assimilata, pone attenzione innanzitutto all’acculturazione, un fenomeno dell’incrocio dell’interiore con l’esteriore. All’inizio della storia relazionale tra l’Occidente e la Cina, c’è stato Il Milione di Marco Polo. Il titolo originale del libro fu Le divisament dou Monde, cioè La descrizione del mondo. Polo ha scelto apposta questo titolo con l’intenzione di metterci insieme le storie riguardanti tutto ‘il mondo’, in altre parole, lui ha così intitolato il libro, poiché ha voluto parlare del resto del mondo, tutto il mondo, tranne l’Europa. Alla sua epoca, non esisteva la divisione dell’Oriente dall’Occidente così come la intendiamo noi oggi. Al contrario, è stato proprio il suo libro ad avere un ruolo decisivo sulla nascita del concetto di divisione di due mondi: l’Oriente e l’Occidente. Da qui gli Europei l’hanno letto e hanno cominciato ad avere fantasie verso un altro mondo, e nei loro sforzi di ricerca di quel mondo si è formata l’identità di sé dell’Occidente. E, come un feedback sul fenomeno, i Giapponesi hanno tradotto il suo libro e poi hanno scelto il titolo I Viaggi di Marco Polo. Questo fatto ci fa arrivare alla conclusione che questo non è altro che un paradosso nascente dall’orientalismo stesso.  

1   Andre Gunder Frank, ReOrient: Global Economy in the Asian Age, Berkeley, University of California Press, 1998.

la cina riflessa sullo specchio occidentale

101 Polo ha viaggiato in Asia dal 1271 fino al 1295 e ha scritto Il Milione narrandoci quello che lui stesso aveva visto e sentito. Si dice che nel 1298 quando era in prigione, ha dettato il libro allo scrittore Rustichello. Ma, non è ancora chiaro se lui abbia veramente servito Kublai Khan, come un suo suddito, restando in Mongolia durante la dinastia Yuan. Si dubita persino che lui sia il vero autore del libro. Il suo libro non rispecchiava la Cina reale dell’epoca, ma era uno ‘specchio’ del suo cuore, nel quale veniva riflesso il suo mondo tanto desiderato. Come lui, anche i lettori hanno utilizzato il suo libro come un loro specchio per vedere il loro mondo desiderato. Si dice anche che Il Milione sia il libro più letto dagli occidentali dopo la Bibbia. Infatti, questo testo è stato per loro la fonte delle immagini della Cina per centinaia di anni. Dunque, la storia della lettura del libro è proprio come quella che vediamo negli specchi riflessi gli uni negli altri. E, questa infinita ripetizione delle immagini viene svolta nella forma di mise en abyme, per cui sparisce la linea di demarcazione tra il vero e il falso. In questo modo, il tema e le variazioni del libro hanno creato, tra gli occidentali, un abisso immaginario che è connesso alla Cina. Cristoforo Colombo è la persona più conosciuta tra quelle che hanno letto Il Milione e hanno contribuito al cambiamento della storia del mondo. La prima edizione del Milione è stata pubblicata nel 1485, perciò Colombo sapeva già di che cosa parlasse il libro prima di partire per i suoi viaggi per mare. Alla sua epoca, il nome ‘India’ veniva usato per indicare l’Oriente, mentre Marco Polo, nel suo libro, ha scritto che il Gran Khan della Mongolia allora regnava sull’India. Dal fatto che Colombo era partito dopo aver ricevuto le due lettere per il Gran Khan della Mongolia dal re Ferdinando e dalla regina Isabella, noi possiamo sapere che l’ultima destinazione del suo viaggio è stata India. Quando è tornato, egli era convinto di essere stato in Asia. Pensava addirittura che la sua navigazione avesse aperto una porta di ponente che conduce all’Asia. A causa dei pregiudizi creati dal libro di Polo, i nativi che vivevano nel continente americano venivano chiamati ‘Indio’. Il libro di Polo che ha portato a scoprire un nuovo continente, come una bussola, è stato quindi usato come una copertura per coprire la storia degli indigeni la cui origine risale a tempi molto antichi. Tornato dal suo viaggio, nel 1496 Colombo ha letto il libro di Polo molto attentamente con l’intenzione di sapere quali merci poteva trovare attraverso il commercio con l’Asia che lui aveva scoperto come ricavare le informazioni sui rischi che potevano esserci durante quel tipo di scambio commerciale. Dopo la lettura di detto libro, ha messo per scritto quasi cento appunti su quel possibile commercio. Cominciando dal 1492, dopo la navigazione di Colombo, l’Europa, che non era ancora al centro del mondo ha potuto andare oltre l’Oceano Atlantico uscendo dall’‘uovo’ delle zone mediterranee. Solo nel 1502, attraverso la navigazione di Amerigo Vespucci, l’errore di Colombo è stato corretto, e di conseguenza si è chiamato ‘America’. Questo nuovo riconoscimento riguardante il continente americano è stato un buon punto di partenza per l’europeizzazione. Con l’inserzione del nuovo continente nell’Europa, è nato il mondo occidentale di oggi. Con l’espansione transoceanica dell’Occidente, in seguito all’inserzione del continente americano nell’Europa, si apre una scorciatoia verso l’età moderna. Tramite questa scorciatoia, le limitate particolarità locali dell’Europa che si potevano constatare nel mondo mediterraneo ormai sono diventate l’universalità di tutto il globo, ovvero c’è stata una grande transizione globale. Sin dal xiii secolo in cui l’impero mongolo regnava sull’Asia, la Cina era stata un mondo tanto desiderato dagli occidentali, ma nel xviii secolo, l’Occidente ha potuto sorpassarla: ha iniziato ad a√orare la Grande Divergenza di Kenneth Pomeranz. 1  

1   Kenneth Pomeranz, The Great Divergence: China, Europe, and the making of the Modern World Economy, Princeton, Princeton University Press, 2000.

kim hee jung 102 La vita è breve, ma il libro è eterno. Le cose scritte nei libri rimangono vive anche dopo la morte dell’autore, e aπascinano il cuore dei lettori. Quando Colombo è partito per i suoi viaggi dopo avere letto il libro di Polo, il Paese Yuan dominato dalla dinastia mongola non esisteva più: la dinastia era già crollata nel 1340. Dopo il crollo della dinastia Yuan, è subentrata la dinastia Ming dell’etnìa Han, ma nel suo cuore ancora l’Impero di Khan regnava ancora sulla Cina. Ogni libro è scritto e composto dall’autore, mentre il suo significato è dato da chi lo legge. Lo studio sulla storia della lettura è quello sulle relazioni storiche tra questi significati creati. Tutto questo ha comportato un mutamento nella storia mondiale: è aumentato molto il numero di quelli che volevano conoscere qualcosa di più sulla Cina per motivi commerciali e per importanza dell’opera svolta dall’istituzione De propaganda fide. L’entrata di molti missionari in Cina ha aπrettato l’arrivo del cosiddetto ‘Secolo cattolico’ menzionato nei libri The China Sightings. Sin dalla fine del xvi secolo, molti membri della Compagnia di Gesù, incluso Matteo Ricci, sono entrati nel Paese della dinastia Ming per propagare la fede cattolica. Loro sapevano bene che per convertire i cinesi al cristianesimo, prima bisognava provare che l’Occidente era più avanzato della Cina. Per questo motivo, hanno scritto tanti libri sulla società e sulla cultura della Cina, analizzandola scrupolosamente. Nel xvii-xviii secolo, gli intellettuali europei potevano ottenere le informazioni necessarie sulla Cina tramite i rapporti di molti viaggiatori e missionari che stavano nel Paese. Specialmente, i missionari hanno tradotto le scritture cinesi antiche in lingue europee e le hanno consegnate ai grandi pensatori illuministi come Montesquieu, Voltaire e Diderot per fargli conoscere l’alta cultura e le avanzate scienze della Cina. Mediante questi loro sforzi di ricerca sulla Cina, gli illuministi hanno cercato di trovare una giusta via attraverso la quale potevano interpretare il mondo in modo razionale. Il loro lavoro di lettura dei testi cinesi è stato svolto come uno specchio che rispecchia un mondo alternativo alla realtà europea del Medioevo. Quindi, la Cina è stata per loro non solo un impulso forte per la modernità europea ma anche un oggetto da superare per impossessarsene. La lettura degli occidentali ha creato tante immagini false di Cina, perciò inevitabilmente ha fatto nascere l’ambivalenza verso il mondo orientale. Da un lato, l’Oriente è stato fonte di ispirazione, sorgente di antica saggezza, civiltà ricca sotto diversi punti di vista. Dall’altro lato, esso è stato una minaccia, seppur debole. Secondo Voltaire, l’Oriente è stato il mondo della civiltà da cui deriva tutto dell’Occidente, e Arnold Joseph Toynbee dice che l’incontro dell’Occidente con l’Oriente è stato uno dei più significativi eventi mondiali della nostra epoca. 1  

1   Cfr. J. J. Clarke, Oriental Enlightenment: The Encounter Between Asian and Western Thought, London-New York, Routledge, 1997, pp. 11-12.

«UN SORDO TUTTAVIA LA MENTE HA PURA». LE SATIRE DI SAVINO DE’ BOBALI Guglielmo Barucci

N

el 1589 usciva, postumo, il ponderoso Rime amorose, et pastorali, et satire di Savino de’ Bobali (1529/30-1585), 1 «Gentil’huomo Raguseo», per i torchi di Aldo Manuzio il giovane (indicato nelle note con la sigla R); un’operazione editoriale interamente nel segno dell’identità ragusina e della maggior gloria della famiglia, i nobili Bobali, a cui appartengono anche i curatori e il dedicatario. Lo stesso Aldo, peraltro, era approdo privilegiato per gli intellettuali ragusei, e basta ricordare nel 1582 la De illustribus familiis quae hodiae Rhacusae exstant di Didaco Pirro. 2 Il ricco paratesto trilingue – italiano, latino e greco – a opera di Vincenzo Giliano insiste sulla lode dell’«alma città, che nel Liburno lido» può fare concorrenza letteraria al Po, «Re dei fiumi», al «famoso Arno», al «Sebeto gentile». 3 Un trycolon che sembra rimandare direttamente alla tripartizione del titolo, in cui l’Arno corrisponderebbe alle rime amorose petrarchesche, 4 il Sebeto di Sannazaro alla poesia pastorale, e il Po della Ferrara ariostesca alle satire. Le Rime del Bobali sono infatti chiuse da un corpus autonomo di nove satire, di misura ampiamente variabile (dai settantatré versi della prima ai centonovanta dell’ultima), ma decisamente inferiore ai parametri ariosteschi e piuttosto riconducibile alla prassi del Bentivoglio. Siamo in epoca immediatamente successiva alla canonizzazione cinquecentesca della satira, dall’edizione congiunta di Ariosto e Alamanni del Ruscelli del 1554 fino ai sansoviniani Sette libri di satire del 1560, con le loro riedizioni, e alle Satire di cinque poeti illustri del 1565. Evidente è che il poeta raguseo si pone in questo solco (l’ultima data interna rimanda all’inizio degli anni settanta), 5 ma alcuni elementi formali vengono rimodulati proponendo un’immagine singolare del genere, e insieme a esso della figura dell’io satirico. Elemento ovviamente tradizionale della satira è la presenza dell’interlocutore, che in molti casi – di là da movenze e moduli epistolari del testo – può espressamente assumere il profilo di un destinatario (esemplare è la chiusa della epistula oraziana I 10); 6 i testi del  











1   In croato, Sabo Bobaljević Mišetić. Poeta bilingue, si produsse anche in alcune Jegjupka, per le quali si è evocato l’influsso della poesia carnascialesca fiorentina; al contempo viene ricordato come «Poetarum italicorum inter nos ipse, aut primus, aut nemini alii secundus» nei Fasti Litterario-Ragusini: sive vivorum litteratoum, qui usque ad annum mdcclxvi, in Ragusina claruerunt ditione […], autore P. F. Sebastiano Dolci a Ragusio, Venetiis, Storti, 1767, p. 55. Si vedano Simeone Gliubich, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, Vienna, Rod. Lechner librajo dell’Università, 1856, p. 43; François-Marie Appendini, Notizie istorico-critiche sulle antichità, storia e letteratura de’ Ragusei […], I, Ragusa, Antonio Martecchini, 1802, pp. 232-233; Arrigo Zink, Savino de Bobali sordo, in Istria e Dalmazia. Uomini e tempi, ii, a cura di Francesco Semi, Vanni Tacconi, Udine, Del Bianco, 1992, pp. 218-219; Dalmazia nazione. Dizionario degli Uomini illustri della componente culturale illirico-romana latina veneta e italiana, a cura di Daria Garbin, Renzo de’ Vidovich, Trieste, Fondazione Rustia Traine, 2012. Piuttosto povere osservazioni in Il’ja Nikolavič Goleniščev-Kutuzov, Il Rinascimento italiano e le letterature slave dei secoli xv e xvi, i, Milano, Vita e Pensiero, 1973, pp. 124-128. 2   Vale quantomeno la pena di ricordare che, oltre ad alcuni trattati di Nicola Vito de Gozze, per Aldo uscirono nel 1595 Della Origine et Successi de gli Slavi di Vincenzo Pribevo (di Lesina) e nel 1597 la traduzione in serbocroato di testi di Sofocle, Tasso, e Ovidio del ragusino Dominko Zlatarić. A Ragusa, inoltre, era morto Girolamo, fratello di 3 Aldo.  R, Alma città, che nel Liburno lido, v. 12, [c. *3v]. 4   Centrali, per la cultura ragusea e per la biografia del Bobali, sono i cinque anni – dal 1555 al 1560 – dell’arcivescovato di Ludovico Beccadelli, alfiere del petrarchismo bembesco e storico della città di Ragusa. 5   Si veda «otto lustri, ch’io nel seno accoglio», R, Voi ve ne andrete, Ciuπarino, in Spagna, v. 60, p. 154, ma altre satire sono ascrivibili al massimo al 1566 poiché si parla di Ruscelli e Caro come ancora vivi. 6   «Haec tibi dictabam post fanum putre Vacunae, / excepto quod non simul esses cetera laetus», Quinto Orazio Flacco, Epistole, 1, 10, 49-50.

guglielmo barucci 104 Bobali presentano però la topica dello scambio epistolare con un’intensità che mi sembra eccezionale. Già la satira incipitale si apre con un «Salvio, la bella, e dotta lettra vostra, / con Amor, con Madonna, e con Fortuna / m’ha ritrovato» 1 che è quasi una dichiarazione, e si sigilla nel verso finale con la stessa chiave «E scrivermi tal volta non v’annoi»; 2 si noti inoltre che le satire del Bobali presentano diversi caratterizzanti topoi epistolari di ‘cortesia’, dalla scrittura come ‘ragionare’ a distanza, al tempo trascorso inavvertitamente durante la stesura della lettera, alla scansione in fogli, ad esempio tutti raccolti in una terzina della seconda satira:  



Ma io, per gran piacer, che prender soglio Mentre con voi ragiono, non m’aveggio D’haverne già pien quasi e l’altro foglio. 3  

O ancora – per concludere una casistica che potrebbe essere ben più ampia – compaiono formule di chiusura che rimandano a impegni o stanchezza come ragioni per l’interruzione della lettera, ad esempio nel finale della quarta satira che sembra riecheggiare certi tratti giocosi del Caro epistolare: perché homai m’agreva il sonno; e mi ritrovo anchora senza cena, et ecco hore tre, che più rileva Qui fo fine 4  

Insomma, una marcatura epistolare che certo risente di una formularistica e di una trattatistica – da Erasmo a Lipsio, ma, ad altro livello, anche dal Segretario del Sansovino ai Concetti del Garimberti – a questa altezza ormai sedimentate e costrittive; ma anche un tratto che forse serve a declinare uno specifico tipo di io satirico, particolarmente poroso nei confronti della scrittura dell’io, e insieme rivelatore del contesto culturale di un intellettuale dell’altra sponda dell’Adriatico. In primo luogo è particolare il rapporto spaziale, e di conseguenza emotivo, tra scrivente e destinatario. Le lettere-satire del Bobali non sono scritte da un otium, campestre o cittadino, segnato da un’autarcheia morale o da un caustico ripiegamento sociale. Le sue missive sono, invece, rivolte ad amici allontanatisi repentinamente, in certi casi definitivamente, da Ragusa e indirizzatisi verso mete negate allo speaker; così è per la satira quinta, «Voi ve ne andrete, Ciuπarino, in Spagna», 5 o quelle per Giambattista Amalteo, o l’ottava indirizzata al concittadino e poeta Caboga: «Già sì tosto, ch’io ’ntesi il vostro gire / A Roma, de lo qual mai nulla voi / Mi diceste, o d’altrui faceste dire, / Sentì tal duol». 6 E già l’incipit di questa satira al Caboga è sintomatico del senso di esclusionereclusione che si insinua in molti di questi testi.  



Dunque così Caboga senza fare Pur motto ad un, che v’ama, e che v’honora, Andaste verso Italia a navigare? Forse havreste tardato assai, s’alhora M’haveste detto, “O vuo’ tu cosa alcuna Bobalio mio, ch’io me ne parto hor’hora?” 7  

Il Bobali, dunque, si presenta come una figura confinata nell’isolamento geografico di Ragusa, e che con ancora più forza avverte la distanza dal polo magnetico dell’Italia, 1

 R, Salvio, la bella, e dotta lettra vostra, vv. 1-3, p. 137.  R, Mille volte fin qui, gentil Giamagno, vv. 150-152, p. 144. 4  R, Par, c’hoggi sian parecchi in questa terra, vv. 145-148, p. 152. 5  R, Voi ve ne andrete, Ciuπarino, in Spagna, v. 1, p. 152. 6  R, Già sì tosto, ch’io’ntesi il vostro gire, vv. 1-4, p. 161. 3

2

 Ivi, v. 73, p. 139.

7

  Ivi, vv. 13-18, p. 162.

le satire di savino de’ bobali

105 che si tratti di Venezia, come nella satira sesta all’Amalteo, o di Roma, nell’ottava, con le loro cerchie intellettuali, Venier, Dolce e Ruscelli per la città lagunare, e in primo luogo il già citato Caro per la città papale. Ma questa separatezza geografica, si diceva, è anche la forma spaziale di un isolamento ben più profondo e che costituisce il tratto caratterizzante della biografia, dell’aneddotica, della configurazione satirica del Bobali. Un isolamento dato dall’impossibilità, un’impotenza imposta dal fato: Ch’io pur vorrei venir con voi anch’io, E mi ci tien legato a mille nodi L’avversa sorte, e ’l Cielo iniquo, e rio. 1  

Il Bobali, come rimarca l’appellativo parlante ‘il Sordo’, fu infatti segnato da una sordità che costituì anche un caso clinico di un certo interesse per l’epoca, e la sordità, a sua volta declinazione ‘patologica’ dell’isolamento, compare in diverse occasioni nei suoi testi, anche con implicazioni comiche (una per tutte, «Io Sordo giudicai, che fosse tuono»). 2 Il momento di maggior rilievo, però, è l’ultima satira – per di più la più lunga, come già detto, quasi a rimarcarne (almeno nelle intenzioni dei curatori) la funzione di explicit macrotestuale, anche nei confronti dell’intero canzoniere –. In quest’ultimo testo, infatti, ancor meglio si evidenzia uno dei tratti più propri del Bobali, ossia la tendenza all’ibridazione dei generi: un tratto caratteristico della satira del secondo Cinquecento – si pensi ai confini incerti con la poesia giocosa e il capitolo bernesco, come avviene per certi versi per lo stesso Bobali –, ma in questo caso con una declinazione piuttosto inusuale per il genere. L’ultima satira, infatti, si inserisce nel fortunatissimo genere dell’encomio paradossale, ed è volta a dimostrare come proprio la sordità sia una condizione privilegiata («vi mostrerò, che l’esser sordo al mondo / È ’l viver più felice infra’ mortali»); 3 anche l’encomio paradossale è un tratto tipico, naturalmente, della poesia burlesca, e infatti il Bobali in questa satira rimanda espressamente alla Ficheide del più volte citato Caro. Sarebbe però riduttivo confinare il testo del poeta raguseo in una dimensione giocosa, che pure è indubbiamente presente. Siamo piuttosto infatti di fronte al vero paradosso, di matrice erasmiana e radicatosi in Italia poi attraverso Ortensio Lando, come ribaltamento ironico di codici e valori, ma sempre segnato da una dolorosa ambiguità, da una permeabilità umana. 4 La sordità, che viene a essere metafora dell’assenza di corresponsione amorosa e dell’isolamento geografico, è anche la difesa da quello stesso mondo desiderato e irraggiungibile. Così la sordità protegge – in una puntata misogina che non può mancare in un satirico – dagli strepiti della moglie, e da una città violenta e rumorosa: «d’inganni, / Di gare, di pregion, di ceppi, e morti», e qui riecheggiano certi elogi della pazzia, o le campane che «rompon … il cervello», e ancora bottai, cardatori, legnaioli, muratori, fabbri, così riattualizzando la polemica della satira contro la vita di città, e basta pensare alla satira terza di Giovenale. Certo, ma la sordità è anche lo schermo contro i discorsi velenosi, le calunnie, e permette ‘paradossalmente’ proprio lo straniamento dagli altri: per chi è in grado di sentire, il contatto con gli altri uomini è un costante tormento, mentre per i sordi una sorta di buπo spettacolo sulla pazzia umana.  





Ecco i sordi veggendo altrui gridare, Han piacer di loro atti, e visi strani: E chi gli ode martir di voci amare. 5  

1

 R, Voi ve ne andrete, Ciuπarino, in Spagna, vv. 19-21, p. 152.  R, Io non posso non fare alcun versetto, v. 45, p. 146. 3  R, Il grande amor, che mi mostrate ogni hora, vv. 20-21, p. 165. 4   Ci si limita a rimandare a Rosalie L. Colie, Paradoxia epidermica. The Renaissance Tradition of Paradox, Princeton, Princeton UP, 1966; Maria Cristina Figorilli, Meglio ignorante che dotto. L’elogio paradossale in prosa nel Cinquecento, Napoli, Liguori, 2008. 5  R, Il grande amor, che mi mostrate ogni hora, vv. 127-129, p. 169. 2

106

guglielmo barucci

Ma soprattutto, la sordità allontana dalla stupidità del mondo, E non san questi tai, ch’un Sordo gode I gravi ragionar, gentili, e lieti: Et essi i pieni di sciochezze, e frode. 1  

Infatti, in una riscrittura della machiavelliana lettera al Vettori, la sordità permette di ripiegarsi in un dialogo con i grandi scriventi, non solo antichi come per il segretario fiorentino, ma anche moderni: Ei parla con Filosofi, e Poeti, Con Historici antichi, e con moderni; Né avien, ch’alcuno il lor parlar gli vieti. Lor ci discopre i suoi pensieri interni Securo, ch’unqua alcun nulla ridica; Né del suo conversar si faccia scherni. 2  

Un dialogo a distanza che non è solo stimolo intellettuale e culturale, ma forse soprattutto un vero succedaneo della comunicazione umana ma senza le meschinità, la fragilità, le paure che si associano al contatto diretto. Un dialogo silenzioso e riparato che è espressione dello stesso impulso all’origine della scelta marcatamente epistolare del Bobali, come parola dell’isolato, geograficamente ed esistenzialmente. L’io satirico del Bobali comincia così a prendere una forma insolita per i parametri della satira: non troviamo infatti – se non in una minima misura fisiologica al genere – la rassegna ironica dei vizi, o l’analisi moralmente superiore delle incoerenze umane, o una critica dei valori altrui in contrapposizione alla propria natura. 3 Né (a parte la terza satira, peraltro brevissima, e limitata a due figure) abbiamo esempi di gallerie di personaggi ridicoli o spregevoli. L’io satirico, anzi, è una figura completamente incentrata nel racconto di sé, e un racconto di sé in chiave per certi versi lirico-melanconica. È un io satirico con chiari toni petrarcheschi – e non a caso un poeta satirico cinquecentesco che sia anche autore di un canzoniere così ampio è decisamente inusuale. E non solo le sue satire, quando si incentrano sul vissuto, presentano una fitta rete di tasselli petrarchisti (da il «viver frale» a «del cor sospir m’elice»), ma non a caso la prima satira si apriva proprio con la ‘fiera giostra’ contro amore, madonna, fortuna. Amore e madonna sono di per sé ovviamente e immediatamente ascrivibili alla dimensione petrarchesca, tratto decisamente inconsueto per il genere satirico, ma è la fortuna (simbolo della malattia, intesa non solo come la sordità) il vero sfondo sul quale si delinea per contrasto la figura dell’io satirico come definizione valoriale di sé. E ciò anche quando il linguaggio si abbassa, toccando il polo comico:  

Fortuna tutta via, perch’io trabocchi, Mi dà certe fiancate in modo tale, che sovente piegar fammi i ginocchi. 4  

Questo io satirico, dunque, aπronta la vita in realtà per lo più dal basso, da una condizione di impotenza, di vittima di una condizione esistenziale infelice; una melanconica riflessione incentrata su di sé, più che sulla società. 5 Ciò a√ora in particolare in due  

1

2   Ivi, vv. 166-168, p. 170.   Ivi, vv. 169-174, p. 170.   Il Sansovino nella Dedicatoria dei suoi Sette libri di satire [1560] definiva «le cose Satirice, come quelle che non solamente muovono, ma che anco fanno eπetto ne gli altri cuori, perciò ché […] sono ardentissime riprenditrici delle cose non buone» [c. *3r]. Lo stesso valore morale era ripetuto nel Discorso. 4  R, Salvio, la bella, e dotta lettra vostra, vv. 22-24, p. 137. 5   Si è portati a pensare alla para-etimologia di satira da Saturno, con i conseguenti tratti caratteriali dell’io satirico 3

le satire di savino de’ bobali

107 epistole (la ii e la vii) in cui viene aπrontata la descrizione della propria giornata. Un tema diπuso nella satira, basti pensare a quella A messer Flaminio di Ercole Bentivoglio o l’ottava di Alamanni, ma senza che vi sia la contrapposizione morale a dismisura, vizi e sciocchezza altrui come è proprio al genere. Al contrario, il Bobali nella seconda satira si descrive come un flâneur inconcludente e svogliato, fin dal gioco metaforico di essere «in stagno» (che poi è la croata Ston) che trascina con sé «Qui, dove sol si sguazza» 1 e l’immagine autoriferita, non elogiativa, della «Rana al fango avezza» 2 che rifiuta l’acqua limpida: lì a Stagno Apollo gli ha negato l’aiuto anche per un solo verso – chiara allusione allo scarto rispetto al Bobali petrarchista – e allora improvvisamente gli è comparso Dioniso, rivendicando il proprio ruolo di ispiratore. Solo dopo una preghiera a Bacco, il Bobali si è sentito colmare da un «furore divino» (bisticcio di nobile tradizione comica) 3 e ha potuto cominciare la descrizione della giornata: lo studio della logica aristotelica al mattino, ma «’n van se n’aπatica», poi la passeggiata in cui prende «baia hor da quello, et hor da questo», e in cui «non disputa, ma loda, aπerma, e cede», e da dopo pranzo fino a sera un po’ di gioco, e fare «in aere castella», senza parlare coi vivi – per via della sordità – né coi morti – perché leggere gli è possibile solo a digiuno. Solo poco prima di cena abbiamo la lettura (ed è un episodio interessante sul ruolo della cultura italiana a Ragusa): talora Ariosto, o Petrarca, ma soprattutto Boccaccio.  





Inanti a cena hor di Gualtier m’adiro, Hor del mastro Simon mi beπo, e rido, Et hor di Lisabetta ho gran martiro. 4  

Con una scelta lessicale (m’adiro, mi beπo, ho gran martiro), quasi da lettore ingenuo, proiettato interamente nel mondo sostitutivo della letteratura. 5 A Stagno, infatti, siamo certo nel regno di Bacco, che prescrive una vita «spensierata, e lieta» – con chiare implicazioni con la vita dissoluta del Bobali – ma è il momento del sonno quello più vero.  

Dopo ’n preda mi lascio al sonno in modo, Che d’ogni mio ben quasi al colmo vengo, Oltra che, san, quanto mai fui, tutt’odo; Ch’alhora (o cari inganni) in braccio tengo Lei, che sol’amo, e ’n humili parole Le narro il mal, ch’ogni hor per lei sostengo. 6  

Il sonno quindi come momento della compensazione, risarcimento sia di quella sordità, sia di quell’amore infelice che comparivano già in testa alla prima satira. La poesia stessa – e qui l’io satirico si proietta nuovamente verso un doloroso io lirico – svolge un simile ruolo. La satira iv, infatti, è una replica a coloro che gli negano il titolo di poeta. Verissimo, osserva il Bobali, l’Ippocrene non gli ha mai bagnato il petto; tuttavia – prima di una seconda parte in cui contesta il diritto a conferire il titolo di poeta a persone (cfr. Attilio Brilli, Introduzione, a Dalla satira alla caricatura. Storia, tecniche e ideologie della rappresentazione, a cura di Attilio Brilli, Bari, Dedalo, 1985, pp. 19-20). Un’anomalia comunque rispetto al sistema satirico che, dopo Ariosto, si pone di fronte alla società o come subalterno o come eversivo (cfr. Piero Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1988, p. 88); qui siamo piuttosto di fronte a un’alienazione. 1 2  R, Mille volte fin qui, gentil Giamagno, v. 40, p. 140.   Ivi, v. 137, p. 144. 3   Sembra di poter riconoscere qui traccia della teoria cinquecentesca, poi confutata da Casaubon, che riconduceva il genere ai satiri del corteggio di Bacco, come si trova ad esempio nella premessa del Sansovino ai suoi Sette libri di satire. 4  R, Mille volte fin qui, gentil Giamagno, vv. 117-119, p. 143. 5   Il ruolo centrale del Decameron torna nell’altra descrizione della giornata (R, Poiché saper vorreste Evandro caro, vv. 40-48, p. 159) anche come elemento costitutivo di una dimensione bassa. 6  R, Mille volte fin qui, gentil Giamagno, vv. 123-128, pp. 143-144.

guglielmo barucci 108 che biasimano testi bellissimi perché dell’Olimpo o del buπone Carafulla, o lodano testi bruttissimi solo perché del Bembo o dell’Ariosto (che è poi un’interessantissima pagina di critica letteraria) – il Bobali osserva che lui poeta lo è perché ottiene ciò che dalla poesia si prefigge: Io [scrivo] sol per discacciare il gran martire Del danno, che mi fe’ la dura sorte, e ’l rio destin, levandomi l’udire. 1  

Ma anche nel racconto della giornata della satira vii, pur ambientata a Ragusa con i suoi impegni e incarichi (e nuovamente con toni che ricordano da presso l’immagine negativa della città contrapposta alla villa) l’io satirico è quello di un uomo che apre la giornata «quasi morto / Dal caldo», che strascina la sua giornata nelle noie, nella stanchezza, nell’incapacità di prender sonno, nel caldo opprimente, pencolando da una parte all’altra come un malinconico passeggiatore petrarcheggiante. Onde, qual huom, che solo a morte guardi Con gli occhi fissi a terra, e con la mente A pensier, vo con passi lenti, e tardi. 2  

Tutto ciò, fino al momento di ri-precipitare nell’incubo della notte: «che tutto ’l resto / sino a l’aurora è l’infernal martire». L’io satirico del Bobali che a√ora, dunque, presenta una dimensione non di giudizio morale sulla società fatto di concretezza o antagonistica libertà, quanto piuttosto una lirico-petrarchesca; 3 non un’autarcheia, morale e materiale, quanto piuttosto il lamento sulla propria solitudine. Così la satira non è strumento volto a correggere i costumi, o ironizzarvi con distanza, ma il versante basso e giocosamente cupo del racconto di sé.  

1  R, Par, c’hoggi sian parecchi in questa terra, vv. 37-39, p. 148. Così poco oltre, ai vv. 62-63, ribadisce: «vo talhor tessendo rime / Sol, che con tal fatica io fuggo i guai». 2  R, Poiché saper vorreste Evandro caro, vv. 73-75, p. 160. 3  Lo speaker satirico non si pone in una dimensione orizzontale ed egualitaria, cfr. Piero Floriani, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 20-21.

LE RIME AMOROSE , PASTORALI ET SATIRE DI SAVINO DE’ BOBALI. ASPETTI LINGUISTICI Pierino Venuto 1. «A’quai […] Lo suo parv’un de’ falli sciocchi e rei»

I

l primo di febraro mdlxxxix Sigismondo e Marino de’ Bobali chiudevano e datavano la lettera dedicatoria per la pubblicazione delle Rime del fratello Savino, 1 «gentil’huomo raguseo»: si tratta di una raccolta contenente duecentocinquantaquattro composizioni del Bobali e sei di risposta stampata in un’elegante edizione aldina. L’autore è un poeta e letterato dalmata, nato a Ragusa nel 1530 e morto a Stagno nel 1585. Personalità irrequieta e spirito contrastato, Savino de’ Bobali Sordo ci oπre in questa edizione postuma delle proprie rime la vivace testimonianza di quanto la lingua toscana fosse non solo ordinariamente conosciuta e praticata in Ragusa, ma anche e soprattutto dei livelli di letterarietà che essa riesce a raggiungere di là dall’Adriatico; la lettura di queste Rime c’immerge in presa diretta su uno sfondo preciso: la Ragusa del xvi secolo, una città di una precisa regione, la Dalmazia, in cui la lingua e la letteratura italiana raggiungono risultati ben degni di gareggiare con altre regioni italiane; ci fa addirittura gustare uno spaccato gustoso sul come Savino stesso e i letterati ed amici ragusei a lui coevi disputassero in fatto di lingua italiana proprio in quel Cinquecento che rappresenta la definitiva consacrazione dell’italiano letterario secondo il modello bembiano:  

Monaldi vi farò ridere alquanto, Se ben sentiste intorno, e mille omei; Hiersera meco fur duo amici miei, Che di gentile hann’altro anchor, che’l manto. A’ quai, veggendo scritto in un mio canto Lo suo; parv’un de’ falli sciocchi, e rei: Onde disser, Non sai, che dire il dei, Non lo? Come hai tu fatto un’error tanto? Nè perch’io fessi lor ciò, che ne parla Il gran Bembo, e del Thosco essempij assai Veder, come lo mio, lo cor, lo quale; Potei lor trarre opinion cotale Del capo: non potendo io dimostrar la Medesma voce, in chi l’altre mostrai. 2  

Ecco dunque un letterato dalmata che al pari di qualsiasi altro letterato italiano si fa cogliere benevolmente in fallo da amici quasi pedanti sull’uso dell’articolo; il poeta che cerca di giustificare «Lo suo» con «essempij», e non esempi a caso bensì con l’autorità stessa del Petrarca e del «gran Bembo»; deve comunque arrendersi e non può convincere gli interlocutori del contrario perché non trova la medesima voce ma di voci simili molte. Ebbene il sonetto proposto è esemplificativo per introdurre da parte mia uno sguardo d’insieme con qualche piccola annotazione linguistica sulle poesie del Bobali: esse sono 1

  Savino De Bobali Sordo, Rime amorose, pastorali et satire, Venezia, Aldo Manuzio, 1589.  Ivi, p. 135.

2

pierino venuto 110 composte nella seconda metà del xvi secolo; quel secolo in cui si era in gran parte superata la polimorfia del Quattrocento e si era raggiunta un’accettabile regolarizzazione delle norme linguistiche. Le Rime del poeta raguseo ne sono viva e pregnante testimonianza: hanno ormai linguisticamente assorbito e fatto propria la lezione petrarchesca del Bembo. 2. Struttura della raccolta L’edizione di riferimento per il mio contributo è quella del 1589, stampata a Venezia presso il Manuzio. Nel primo Settecento il nome del Bobali è tolto dal dimenticatoio ad opera di Agostino Gobbi che nella propria silloge antologica, Scelta di sonetti, e canzoni de’ più eccellenti rimatori d’ogni secolo, 1 sceglie tre sonetti: «Avess’io‘l cor d’un bel cristallo chiaro»; «Mostrati, quanto sai, sdegnosa, e dura»; «Con l’ali de’ pensier volo sovente». 2 Si tratta di sonetti in vita della sua donna pubblicati alle pp. 6, 30 e 35 dell’aldina del 1589; gli unici interventi dell’antologista sono l’eliminazione di alcune h etimologiche e il mutamento del punto e virgola in virgola secondo l’uso a lui contemporaneo. Gli stessi tre sonetti saranno pubblicati a Firenze nel 1835 in un’ulteriore antologia. 3 Nel xviii e nel xix secolo la poesia del Bobali era stata dunque antologizzata mentre successivamente scompare o forse non son stato capace io di trovarne traccia. Tardo settecentesca è un’ulteriore edizione congiunta, stavolta ragusea, delle rime bobaliane e di quelle di Michele Monaldi. 4 L’aldina cinquecentesca è un volume in 4° di 171 pagine numerate; a queste si aggiungono il frontespizio, le 4 pagine delle tavole delle «compositioni» del Bobali, le tre pagine iniziali della lettera dedicatoria dei due fratelli e le 2 pagine con cinque composizioni in lode per Savino e una per Michele di Giamagno (due in italiano, due in latino e due in greco) di monsignor Vincenzo Giliano; un’ulteriore pagina reca il ritratto del poeta e un sonetto elogiativo ed introduttivo per dimostrar che coi canti del Sordo «le muse d’Etruria han chiaro albergo / Ne l’Epidauro ancora» vv. 2-3. Savino de’ Bobali detto il Sordo era morto quattro anni prima, nel 1585, lasciando un cospicuo numero di rime che i fratelli Sigismondo e Marino fanno dunque stampare presso l’importante editore veneziano. La raccolta è varia ed eterogenea; il titolo stesso lo dimostra: 214 sono i sonetti, 16 i madrigali, 9 le canzoni, 2 le ottave, 1 dialogo e 9 le satire; si aggiungono poi 6 sonetti di risposta al poeta: 1 di Benedetto Varchi, 1 di Laura Battiferra e 4 di Michele Monaldi. La tematica è prettamente lirico-amorosa. La prima sezione 5 comprende un’ampia parte delle Rime in vita della sua donna; seguono, 6 con dedica a Domenico Ragnina, le rime arcadico-pastorali: 19 sonetti con lo sviluppo amoroso tra la Bella Clori e il pastor Damone e quindi una canzone e un madrigale 7 sempre di argomento pastorale. Riprendono dunque le liriche amorose in vita 8 seguite da un’ampia sezione in morte della sua donna, 9 ove apprendiamo nella terzina di chiusura di un sonetto la data di morte:  

















Già’n mille cinquecento oltra à settanta Quattro, sul fin del dì decimo e quinto Di Marzo, uscio del corpo l’alma santa. 10  

1

2   Venezia, Baseggio, 17394 [1a ed. Bologna, Pisarri, 1709-1711].  Ivi, pp. 113-114.   Raccolta di lirici e satirici italiani, Firenze, Borghi, 1835, pp. 785-786. 4   Savino De Bobali Sordo, Michele Monaldi, Rime del nobil uomo s. Savino de Bobali Sordo e del Signore Michele Monaldi, Ragusa, Stamperia di Carlo Antonio Occhi, 1783. 5   Savino De Bobali Sordo, op. cit., pp. 1-39. 6 7  Ivi, pp. 40-49.  Ivi, pp. 49-51. 8 9  Ivi, pp. 51-64.  Ivi, pp. 65-91. 10  Ivi, p. 74. 3

le rime amorose, pastorali et satire di savino de’ bobali

111

Le rime prettamente amorose chiudono poco oltre la metà la raccolta bobaliana. L’intera seconda parte si scinde in due sezioni: varie poesie, molte delle quali dedicate (alcune in morte) al padre, ad amici e a letterati non solo ragusei: 1 Sorgo, Darsa, Gradi, Tudisio, Caro, Ciussarina, Giamagno, Amalteo, Benessa, gli accademici Concordi, Luccari, Monaldi, Ragnina, Varchi, Battiferra, Gozze, Veniero, Giorgi, Buona, l’arcivescovo di Ragusa, Salvio, Resti, monsignor Beccadello, Paterno; questo rapido elenco è di per sé su√ciente a dimostrare la vitalità letteraria non solo del Bobali ma della Ragusa cinquecentesca. Chiudono quindi la raccolta le 9 satire in terza rima. 2 Un canzoniere vario dunque e sarebbe sin troppo riduttivo confinare Savino de’ Bobali Sordo nel ristretto cerchio dei petrarchisti. Certo anche linguisticamente il poeta è un petrarchista: la parte prettamente lirica della propria produzione la fa da matrona incontrastata e il suo è un petrarchismo ormai linguisticamente canonizzato dal modello vincente del Bembo; modello che nella seconda metà del Cinquecento si è imposto quasi definitivamente spazzando via le proposte linguistiche poggiate su un ideale cortigiano o sull’uso vivo del toscano fiorentino cinquecentesco. Tuttavia, e soprattutto a livello lessicale, la sezione delle satire ha delle particolarità specifiche con un linguaggio proprio e tipico del genere.  



3. Aspetti linguistici Proverò ad oπrire della raccolta di Savino qualche piccola annotazione linguistica che tracci e confermi la lingua di queste rime – soprattutto quelle amorose – nel solco della tradizione petrarchesca. La grafia delle rime bobaliane è stabile ed uniforme; si nota una patina umanisticolatineggiante, non inusuale per l’epoca, soprattutto in alcuni specifici lessemi. Costante e conservativo l’utilizzo della h iniziale in tutte le forme del verbo avere e nei seguenti lessemi: «herba, 3 herbette, 4 hieri, 5 homai 6 honestate, 7 honor, 8 honora 9, hor, 10 hore, 11 humil, 12 humana, 13 humile, 14 humiltà, 15 humore, 16 huomo»; 17 in ciò il poeta è di certo più vicino alla patina latineggiante dell’aldina bembiana rispetto all’autografo del Petrarca che per taluni lessemi reca esempi di presenza e di assenza della h iniziale. 18 Il gruppo ph è conservato, se gli occhi non mi hanno ingannato, soltanto all’interno del personificato «Nimpha» 19 (nella sezione delle rime pastorali) e del vocabolo «sphera»; 20 quest’ultimo è presente anche senza la h nell’unico dialogo a p. 24: «Di lume più gentile e più soave, / Che mia spera non have»; il Petrarca ha l’unica forma priva della h nel sonetto ccxx: Da quali angeli mosse, et di qual spera. 21 Il gruppo th iniziale è conservato in «thesoro» 22 e «Thosco». 23 La h si  





































1





2  Ivi, pp. 92-136.  Ivi, pp. 137-171.  Ivi, p. 18; riporto soltanto l’indicazione di uno o di un paio di esempi spogliati nella raccolta. 4  Ivi, p. 5. 5 6  Ivi, p. 45; anche nella forma Hiersera, p. 135.  Ivi, pp. 9, 12. 7 8  Ivi, pp. 3, 12.  Ivi, pp. 12, 45. 9 10  Ivi, p. 21.  Ivi, p. 12. 11 12  Ivi, p. 2; anche nelle forme «alhora, anchor, qualhora, talhora».  Ivi, p. 3. 13 14  Ivi, p. 12.  Ivi, p. 105. 15 16 17  Ivi, p. 14.  Ivi, p. 9.  Ivi, p. 4. 18   Maurizio Vitale, La lingua del Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta) di Francesco Petrarca, Padova, Antenore, 1996, p. 30. 19   Savinio De Bobali Sordo, op. cit., p. 41. 20  Ivi, p. 2: «Duo bei lumi, ch’Amore al vivo foco / De la sua sphera accese». 21   Francesco Petrarca, Canzoniere, testo critico e saggio di Gianfranco Contini, note al testo di Daniele Ponchiroli, Torino, Einuadi, 1992 [1a ed. 1964], p. 282. 22 23   Savinio De Bobali Sordo, op. cit., p. 6.  Ivi, p. 135. 3

pierino venuto 112 conserva dopo c e dinanzi ad o nel cultismo grafico «choro». 1 Il gruppo ti dinanzi vocale è conservato in «gratia, 2 ringratio, 3 satia, 4 satio, 5 stratio». 6 La congiunzione et è l’unica adoperata dinanzi a vocale ed è sempre rappresentata in tutta la raccolta dal compendio grafico & con le sole e poche eccezioni in cui è utilizzata al maiuscolo dopo il punto fermo o ad inizio verso; dinanzi a consonante è sempre e costantemente utilizzata la forma e. 7 L’unico accento presente è quello grave e risultano costantemente accentate la preposizione à, la congiunzione ò, il pronome mè e la forma verbale fù. Graficamente infine – e ciò è tipico ancora di tutto il Cinquecento nonostante i tentativi di diπerenziazione – non si fa alcuna distinzione tra u e v. La stampa è nell’elegante corsivo aldino e l’interpunzione è, dopo varie oscillazioni e proposte cinquecentesche, tipica del periodo e delle edizioni aldine in particolare: punto minore, punto fermo, virgola, punto e virgola, due punti, accento grave e apostrofo. Spicca in particolare l’utilizzo massiccio del punto e virgola secondo gli usi cinquecenteschi già canonizzati, forse per la prima volta, nel 1501 e nel 1502 dal Bembo nelle rispettive aldine del Petrarca e di Dante; 8 si tratta però di un uso che diπerisce dal nostro: è adoperato – per dirla con il Migliorini – «in molti casi in cui oggi useremmo la semplice virgola, particolarmente davanti a proposizioni relative»; 9 nella raccolta bobaliana costante è l’uso del punto e virgola non solo dinanzi alle relative ma anche dinanzi a varie proposizioni subordinate e in particolare temporali, consecutive e locative. Quanto alla fonetica quasi costante è il monottongo nella prima persona del presente indicativo «coco», 10 in «cor» 11 e «core», 12 (vocaboli, com’è ovvio intuire, con maggior frequenza), e poi «loco, 13 mora, 14 more, 15 move, 16 noce, 17 nova, 18 nove 19, novo, 20 queto, 21 queta». 22 Anche se non esclusivo come nel canzoniere petrarchesco, si rileva l’uso fortemente maggioritario con consonante intersonantica sonora di «lagrime» 23 rispetto alla sorda di «lacrime». 24 Mantengono la scempia intervocalica il latinismo «imago» 25 e il lessema «mezo». 26 Conformemente all’uso petrarchesco si nota l’alternanza tra il gallicismo «rai» (nei significati di ‘raggi’ e ‘occhi’) e l’allotropo «raggi». 27 Aferesi vocaliche e sillabiche sono – con un uso massiccio dell’apostrofo – costanti in tutta la raccolta; altrettanto dense sono le apocopi vocaliche. Presente anche, ad inizio verso e per squisite ragioni  





















































1

2  Ivi, p. 4.  Ivi, pp. 4, 26, 32. 4  Ivi, p. 16.  Ivi, p. 105. 5 6  Ivi, p. 146.  Ivi, p. 135. 7   Ad es. Et io; tal giorno, e notte ella m’infiamma, ivi, p. 2. 8   «Le iniziative editoriali del grande stampatore Aldo Manuzio, presso il quale Pietro Bembo pubblicò a Venezia nel 1501 la sua edizione delle Cose volgari di messer Francesco Petrarca, diedero un’impronta decisiva alle convenzioni interpuntive», Bice Mortara Garavelli, Prima lezione di punteggiatura, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 124. 9   Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1992 [1a ed. 1960], p. 350. 10   Due occorrenze: a p. 2 e nel sonetto al Monaldi a p. 113; il Petrarca non ha mai la forma alla prima persona ma 11 alla terza: «coce».   Le occorrenze sono 60. 12 13   Le occorrenze sono 54.   Le occorrenze sono 18. 14 15   Le occorrenza sono 8.   Le occorrenze sono 5. 16   Eccezione è la forma nuove nella satira in terza rima a p. 141. Le occorrenze sono in totale 5 con due in rima: una nella prima terzina del primo sonetto di p. 5 con nove e l’altra a p. 141 tra nuove e piove; 17   Hapax, nella satira a p. 157. 18   Ahi, nova acerba..., con cui si apre il sonetto che dà inizio a p. 65 alle Rime in morte della sua donna. 19   Le occorrenze nelle rime amorose sono 3; una è nelle rime pastorali a p. 46 e una quinta nella satira a p. 166. 20   Le occorrenze in tutta la raccolta sono 8; in particolare «miracol novo» (sonetto a p. 17) e «novo piacere» (canzone a p. 56) sono calchi petrarcheschi rispettivamente del sonetto cccix,1: «novo miracol» (con posposizione dell’attributo) e della canzone xxxvii, 65: «Novo piacer». Francesco Petrarca, op. cit., p. 383 e p. 53. 21   Le occorrenze sono 2: a p. 26 e a p. 29. 22   Le occorrenze sono 2: nel sonetto a p. 13 e nella satira a p. 138. 23   Le occorrenze sono 6. Savinio De Bobali Sordo, op. cit., pp. 9, 34, 77, 97, 101, 137. 24   Le occorrenze sono tre. Ivi, pp. 71, 100, 103. 25 26   Le occorrenze sono 5.  Ivi, pp. 13, 119. 27   «Rai» ha 14 occorrenze, «raggi» ne ha 10; in Petrarca le occorrenze sono 8 in entrambe le forme. Cfr. Maurizio Vitale, op. cit., p. 109. 3

le rime amorose, pastorali et satire di savino de’ bobali

113 metriche, l’epitesi consonantica postvocalica «Ned» nel secondo sonetto di p. 28 e nella satira di p. 161. Quanto alla morfologia l’utilizzo dell’articolo avviene secondo i dettami della lingua poetica: la coppia «lo/li» è adoperata soltanto dopo «per». 1 Costante ed esclusivo è poi l’utilizzo delle preposizioni articolate analitiche: «a la, a le, de la, de le» ecc.; in Petrarca tale uso è dominante. 2 Per i numerali «due, duo» l’utilizzo è in gran parte conforme a quello petrarchesco: «[i]l Petrarca usa infatti per il femminile il corrente e usuale due e per il maschile il dotto e latineggiante duo. Si ha così duo soltanto per il maschile […] e si ha due, a parte il caso isolato di 38,7 (due begli occhi) e a parte altri casi in cui ha valore di sostantivo, sempre come aggettivo al femminile». 3 Le Rime del Bobali seguono pedissequamente tale regola: «duo» è adoperato sempre dinanzi al maschile anche nella forma, eccezione per il Petrarca, «duo begli occhi»; 4 «due» è impiegato davanti al sostantivo femminile ma con talune eccezioni: fra le 18 occorrenze di «due», 3 sono impiegate dinanzi al maschile; 5 un’altra impiegata dinanzi al maschile, «due lucenti rai», è riscontrabile in uno dei sonetti d’apertura in lode del Bobali. Frequentissima poi, tra virgole o parentesi tonde, l’interiezione della tradizione lirica e petrarchesca «lasso». 6 Per il verbo spigoliamo riguardo all’imperfetto indicativo l’utilizzo sempre in -a della desinenza della prima persona (neutro e non marcato per il periodo) e un costante uso delle forme della prima e della terza persona in -ea con dileguo della labiodentale dinanzi a consonante; anche in ciò si nota una ripresa linguistica di un preciso uso petrarchesco: le forme senza labiodentale dinanzi a vocale all’interno del verso negli imperfetti in -eva, «con una sola eccezione (“ch’i’ v’aggiungeva col penser a pena: 230.11)». 7 Mi vorrei soπermare proprio su questo aspetto del dileguo della labiodentale per sottolineare come Savino abbia interiorizzato totalmente, forse inconsapevolmente, un preciso uso linguistico dei petrarchisti. L’abitualità in poesia delle forme dell’imperfetto in -ea soltanto dinanzi a consonante era consolidato e lo sarà certamente almeno sino a Leopardi 8 e persino in taluni eversori del linguaggio poetico tradizionale come il Pascoli. Esemplificativa in tal senso è una lettera del Tasso dell’ottobre 1575 a Luca Scalabrino:  















Aveva fra ‘l verso, non seguente vocale, non s’usa dal Petrarca o da’ petrarchisti; né io intendo allontanarmi da loro esempio, non tanto perch’io la stimi grand’imperfettione di numero, quanto perché mi pare che ‘l cercar brighe, dove si possano schivar con suo onore, sia da cervel gagliardo e contenzioso. Sì che mi sarà cara ogni diligenza che ‘l Signore usarà per rimovere da’ miei versi tutte le parole simili: e ‘l supplico e scongiuro a seguir come ha cominciato. 9  

1

  Ad es. «per lo mondo» Savinio De Bobali Sordo, op. cit., p. 157.   «Per le preposizioni articolate, le forme analitiche (con la liquida scempia) sono nei RVF del tutto dominanti, sia davanti a parola cominciante per consonante (che era la regola nel Duecento) sia davanti a parola cominciante per vocale (dove si poteva avere la scempia o la doppia); esse erano quindi per lo più conformi alle condizioni toscofiorentine antiche, così come all’antica tradizione poetica» Maurizio Vitale, op. cit., p. 143. 3   Ivi, p. 278. 4   Savinio De Bobali Sordo, op. cit., pp. 103, 114; le occorrenze di «duo» davanti a sostantivo maschile sono 15. 5   Ivi, pp. 84, 88, 152: «due lustri, due fiumi, due mondi». 6   Ad es. Ò pur (lasso) non son lagrime quelle, ivi, p. 9, passim. 7   Luca Serianni, Introduzione alla lingua poetica italiana, Roma, Carocci, 2001, p. 185 nota 8  Nei Canti del Leopardi si riscontrano 17 forme con 19 occorrenze in -eva e 48 forme con 79 occorrenze in -ea. Il rapporto delle occorrenze è dunque di oltre una su quattro: il tipo abituale del grande poeta recanatese e petrarchista sui generis era dunque -ea. L’unica eccezione nel Leopardi lirico è il v. 63 del Frammento xxxix: E cresceva la pioggia e la bufera; quest’ultimo altro non è se non un lacerto della giovanile cantica del 1816: l’Appressamento della morte; tale opera però è comunque antecedente all’intensa lettura, cercandovi fatti linguistici, che il Leopardi compie delle opere del Tasso, fra cui le Lettere poetiche, iniziata nell’autunno del 1817. Anche nelle mature e satiriche ottave dei Paralipomeni -eva è adoperato solo dinanzi a consonante o in clausola. I dati presentati sono stati ottenuti tramite la Liz 3.0 per Windows, Letteratura italiana Zanichelli. Cd rom dei testi della letteratura italiana, a cura di Pasquale Stoppelli, Eugenio Picchi, Bologna, Zanichelli, 19983 e da me riscontrato in Giacomo Leopardi, Canti, 2 voll., edizione critica e fotografica degli autografi a cura di Emilio Peruzzi, Milano, Rizzoli [1ª ed. 1981]. 9   Torquato Tasso, Lettere poetiche, a cura di Carla Molinari, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, Parma, 1995, pp. 252-253. 2

pierino venuto

114

Quella enunciata dal Tasso sembra abbia il carattere di una puntuale prassi scrittoria poetica: «un verbo in -eva avrebbe potuto usarsi solo in fin di verso (dunque per servitù rimica) o davanti a vocale (dunque con oscuramento della vocale desinenziale per eπetto della sinalefe). Se ne ricava che il tipo abituale della lirica era, o appariva, -ea». 1 Lo stesso Tasso la applica o la fa applicare scrupolosamente nella Gerusalemme Liberata: tutte le trentacinque forme realizzate in sessantaquattro occorrenze di imperfetto in -eva sono seguite all’interno del verso da vocaboli che iniziano per vocale oppure, e nettamente minoritarie (sei su sessantaquattro), si trovano alla fine del verso. 2 Conformemente all’uso del Petrarca, dei petrarchisti ed anche del Tasso nelle Rime del Bobali -ea davanti a consonante è nettamente maggioritario. In tal senso sono corposi esempi: 3 «vivea dolcemente […] havea d’esser» (p. 1); «havea, lieto» (p. 19); «E dicea fra me stesso» (p. 20); «vedea cose […] s’havea / Fatta» (p. 21); «Havea posto» (p. 22); «Dicea; Se vuoi» (p. 27); «n’havea volto» (p. 106); «Ch’i’havea forte» (p. 128); «la potea trovare […] ben parea, ch’ei fusse […] Havea corona […] Si vedea l’uva […] volea dir» (p. 140); «n’a∫igèa, del tutto» (p.149) «Havea di ragionar» (p. 157). Particolare rispetto di tale prassi scrittoria si nota nel verso «Li godeva; e dicea, Com’il tormento», 4 nel quale alla forma con labiodentale segue vocale mentre nel successivo imperfetto davanti a consonante si ha il dileguo. Le forme in -eva sono seguite quindi sempre da vocale; 5 l’unica eccezione, se gli occhi non mi hanno ingannato, di -eva seguita da consonante è «M’haveva, s’acquetò» (con spezzatura sintattica) presente nella prima canzone della raccolta. 6 Il Bobali nelle proprie Rime ha dunque ingurgitato e assimilato questa microlezione linguistica: poeta italiano di Dalmazia e della repubblica di Ragusa in particolare, al pari di qualsiasi altro petrarchista italiano contribuisce a costruire quella lunga, plurisecolare e metaforica autostrada poetica italiana:  











un comodo percorso, quasi un’autostrada, transitabile in tutta la sua estensione senza di√coltà, senza sussulti, senza deviazioni o fratture, a velocità costante. Dall’inizio alla fine e viceversa: dal ‘casello’ Petrarca (per restare al genere della poesia lirica e assumere un terminale ‘grande’) al ‘casello’ Leopardi (per restare nello stesso ordine di grandezza). 7  

E quindi il lessico. Non è di√cile intuire che le Rime amorose abbiano un lessico seletto e petrarcheggiante; calchi lessicali petrarcheschi, spesso con scomposizione e ricomposizione diversa di singoli elementi morfologici, si rivelano ad ogni piè sospinto nelle rime amorose: ad esempio le due occorrenze petrarchesche di «viso leggiadro» 8 divengono nelle liriche di Savino ben sette occorrenze di «leggiadro viso» con anteposizione dell’attributo. 9 Nel sonetto di apertura – com’è stato già notato da Anna Bellio – «[l]e ultime battute [Furon dolce esca e rete; ond’io fui preso] 10 sono evidente reminescenza dell’endecasillabo petrarchesco che recita “Quand’io fui preso e non me ne guardai” nel sonetto III del Canzoniere». 11 Citerò quindi alcuni sintagmi inerenti alla sfera somatologica della donna – e degli occhi in particolare – per dimostrarne la consistenza: le 2 occorrenze  







1

  Luca Serianni, op. cit., p. 185.   Il dato è stato ottenuto dalla Liz 3.0, cit., e da me riscontrato in Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di Lanfranco Caretti, Torino, Einaudi, 1993 [1a ed. 1971]. 3 4   Savinio De Bobali Sordo, op. cit.  Ivi, p. 29. 5 6   Ad es.: «c’haveva entro»; «haveva invidia»; ivi, pp. 20, 90.  Ivi, p. 19. 7   Amedeo Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Modena, Panini, 1991, p. 21. 8   Francesco Petrarca, Canzoniere: sonetti xcvi e clix; «viso sì leggiadro» nel sonetto cccxiii. 9   Savinio De Bobali Sordo, op. cit., pp. 7, 9, 14, 26, 33, 39, 108; a p. 34: «bel leggiadro innamorato viso». 10  Ivi, p. 1. 11  Cfr. Giorgio Baroni, Anna Bellio, Letteratura dalmata italiana, «Rivista di letteratura italiana», 3, 2006, pp. 23-46. 2

le rime amorose, pastorali et satire di savino de’ bobali

115 di «Duo bei lumi» 1 e le 4 di «due stelle»; 2 e ancora le forme «due vaghe stelle», 3 «bei lumi», 4 «due luci», 5 «due celesti, e vaghe luci», 6 «sante luci»; 7 e quindi la caratterizzazione delle chiome «Cresp’oro». 8 Spigolando casualmente si nota un tripudio di singoli lemmi petrarcheschi e della tradizione lirica: ad esempio i latinismi «angue, 9 atro 10 casso, 11 egro, 12 imago»; 13 i gallicismi «augello, 14 augei», 15 («parola simbolo del linguaggio poetico tradizionale»), 16 «guiderdon, 17 rai» 18 e «rimembranza». 19 Particolarità lessicali alquanto distanti dal canone lirico, come accennavo sopra, si ritrovano nelle satire. Qui la lingua si adatta al contesto e al genere e non stupisce quindi di trovare, ad esempio, «Befana, 20 Carneval, 21 mustacchi, 22 aglio 23, pepe». 24 Nelle satire il Bobali dimostra uno spirito arguto, rivela le sue fonti e le sue letture; soprattutto non esita ad autodifendersi e a prendersi gioco, ad esempio, di quei giudici che non lo ritengono degno di esser considerato poeta. Nella terza satira 25 chiedendo sentenza (opinione) al Monaldi sferza infatti quei critici che giudicano «secondo il nome de l’autore» e quindi fanno le pulci e biasimano se l’autore non è molto conosciuto, mentre alzano le loro «grida» fin sulla «Luna» purché l’opera, magari non letta o letta superficialmente, abbia «de l’Ariosto, ò Bembo il segno»: 26  



















































Questa turba, Monaldi, mai non posa Di spandere il suo tosco iniquo sopra Ciascuna cosa vaga, e virtuosa. Questi, se mai vien loro in mano un’opra, non miran s’ella è buona, ò s’ella è trista; che non san men, come tal’arte s’opra. 27  

Il Bobali sbeπeggia dunque coloro che con italiano velenoso lo criticano e vorrebbero demolirne il valore poetico; nel contempo oπre un giudizio sulla propria poesia: «cosa vaga e virtuosa». «Vaga» come la propria lirica petrarcheggiante; «virtuosa» come la propria capacità di cimentarsi non solo nella lirica ma anche nei generi pastorale e satirico; «virtuosa» soprattutto come la propria non comune capacità di profondamente sentire, nella seconda parte della propria vita caratterizzata dalla sordità, i sentimenti talvolta aspri e contrastati del proprio animo. 1   Savinio De Bobali Sordo, op. cit., pp. 2, 109; nel Canzoniere petrarchesco la forma «duo bei lumi» si rintraccia nei sonetti clvi, cciv, cclvii, cccxi; la forma «due lumi» nelle canzoni xxxvii e lxxiii, nella ballata lix e nel sonetto cclxvi. 2  Ivi, pp. 1, 2, 5, 11; nel Petrarca: sonetti clvii e clx. 3  Ivi, p. 9: il sintagma «vaghe stelle», anche se non riferito alla sfera somatologica, si ritrova nel sonetto petrarchesco cccxii. 4  Ivi, p. 36; la forma «due lumi» si riscontra in Petrarca nelle canzoni xxxvii e lxxiii, nella ballata lix e nel sonetto cclxvi. 5  Ivi, p. 154; in Petrarca nel sonetto cxcviii. 6  Ivi, p. 55; in Petrarca «fanno le luci mie di pianger vaghe», sonetto c. 7  Ivi, p. 2; in Petrarca, nel sonetto cviii, l’attirbuto è posposto: «luci sante». 8  Ivi, p. 3; in Petrarca «a l’oro terso e crespo», sonetto clx. 9 10  Ivi, p. 106, «serpente».  Ivi, p. 34, «scuro». 11 12  Ivi, p. 34, «privo».  Ivi, p. 20, «a∫itto». 13 14  Ivi, pp. 10, 33, 106, 115, 133.  Ivi, p. 106. 15  Ivi, p. 106: Gli augei, co’l suo garrir dolce e selvaggio. 16   Luca Serianni, op. cit., p. 68. 17   Savinio De Bobali Sordo, op. cit., pp. 6, 103, «ristoro, premio, merito»; in Petrarca nella forma «guidardon» nei sonetti cxxx e cccxxiv. 18 19  Ivi, pp. 2, 13, 26, 30, 31, 63, 86, 87, 95, 104,113,119,129, 169.  Ivi, p. 15. 20 21  Ivi, p. 147.   Ibidem. 22 23  Ivi, p. 145.  Ivi, p. 151. 24 25   Ibidem.  Ivi, pp. 147-152. 26 27  Ivi, p. 151.  Ivi, p. 150.

LE RIME DI SAVINO SORDO DE’ BOBALI: TEMI E TOPOI Chiara Rosato

N

ell’ambito della fiorente produzione lirica della regione della Dalmazia, ed in particolare della città di Ragusa, chiamata per le sue antichissime origini greche Epidauro d’Illiria, nel corso del xvi secolo ebbero luogo numerose importanti esperienze culturali, caratterizzate da uno scambio ininterrotto e vivo con Venezia e con l’Italia. 1 Non furono casuali in Dalmazia, infatti, le presenze di noti intellettuali e uomini di lettere del tempo: a partire da Nicola Petreo, originario dell’isola dalmata di Curzola che, prima di trasferirsi a Roma, sarà rettore del ginnasio di Ragusa dal 1538 al 1550, fino a giungere a nomi quali Giambattista Amalteo, Segretario di Stato a Ragusa, Nascimbene Nascimbeni (a Ragusa dal 1555 al 1560), Michele Monaldi, la cui famiglia era originaria di Pesaro, e Ludovico Beccadelli, che fu Arcivescovo della città, amico di Pietro Bembo ed esperto di Petrarca. 2 Ognuno di loro sarà in contatto, in tempi e modalità di volta in volta diversi, con Savino de’ Bobali, detto ‘Sordo’: poeta inquieto e dalla straordinaria sensibilità, autore di rime di carattere amoroso, ma anche satirico e pastorale, come reca il titolo del suo ‘canzoniere’ pubblicato postumo nel 1589 per volere dei suoi due fratelli, Marino e Sigismondo, nell’importante edizione a stampa di Aldo Manuzio il giovane, nipote omonimo di Aldo, educato sin da giovanissimo dal padre, Paolo, allo studio dei classici e a stretto contatto con il lavoro tipografico. Disponiamo di alcune essenziali informazioni sulla vita di Savino de’ Bobali, cui spesso si lega un soprannome che è, appunto, quello di ‘sordo’, che richiama alla mente la malattia da cui era a∫itto e alla quale farà accenno anche nelle sue liriche: Savino sarà visitato da Amato Lusitano, il famoso medico portoghese, il quale accennerà al caso della sua sordità (in eπetti, una degenerazione della sifilide) nel trattato Curationum medicinalium pubblicato a Lione nel 1560. La famiglia de’ Bobali, il cui stemma rosso e bianco ra√gurava tre leoni ed una croce, apparteneva all’antica nobilità ragusea: infatti, almeno a partire dal xiv secolo, risultava partecipe alla vita politica della città. 3 Lo stesso Savino, in eπetti, a vent’anni faceva parte del Maggior Consiglio di Ragusa, uno dei principali organi istituzionali dello stato – a costituzione aristocratica – della città e negli anni ’50 del secolo fondò l’Accademia dei Concordi, operazione di grandissima importanza culturale poiché fu la prima accademia, a imitazione di quelle della penisola italiana, attiva in Dalmazia, i cui incontri si svolgevano presso il Palazzo della Dogana, o della Sponza, 4 le cui porte venivano aperte anche alle donne.  







1  Cfr. Giorgio Baroni, Anna Bellio, Letteratura dalmata italiana, saggio online in «Coordinamento adriatico. Archivio multmediale di informazione e cultura», novembre 2009, issn 2239-0758. 2  Cfr. Sante Graciotti, Le molte vite dell’italiano ‘di là da mar’tra Quattro e Cinquecento, «Atti e memoria della Società Dalmata di Storia Patria», xxxiv, 1, 2012, pp. 8-9. 3   Zdenzo Zlater, «Huius… est omnis Rei Publicae potestas»: Dubrovnik’s patrician houses and their partecipation in power (1440-1640), «Dubrovnik Annals», 6, 2002, p. 50 sgg. 4   Il celebre Palazzo della Sponza, oggi sede dell’Archivio Storico di Ragusa (Dubrovacki povijesni arhiv), in Piazza della Loggia, venne costruito all’inizio degli anni ’20 del xvi sec. in uno stile che conservava ancora alcune

le rime di savino sordo de’ bobali: temi e topoi

117 Tra i fondatori dell’Accademia ricordiamo alcuni letterati e umanisti di nota fama non solo entro i confini di Ragusa: si pensi anzitutto al Michele Monaldi, 1 che fu caro amico del Bobali e che avrà un ruolo importantissimo nell’Accademia fino al 1594, anno della sua morte, e ai già citati Nascimbeni 2 e Amalteo. 3 Inoltre, tra i partecipanti comparivano Domenico Ràgnina, 4 Marino Darsa, Marino Caboga, Nicola Nale, Luca Sorgo, Natale Tudisi, le sorelle Giulia e Speranza Bona, Flora Zuzzeri, la poetessa cantata da numerosi poeti ragusei. A causa della sua malattia, molti suoi concittadini «si maravigliavano con ragione ch’egli [Savino] possedesse così bene la lingua italiana senza aver mai veduta l’Italia, e abitando per lo più nella città di Stagno», 5 poco lontano da Ragusa, nella penisola di Sabbioncello. Come abbiamo accennato, le Rime 6 di Savino furono pubblicate postume, quattro anni dopo la sua morte, per volere dei due fratelli, «per molta instancia fattaci da nostri amici», che, in una breve prefazione al libro datata 1 febbraio 1589, omaggiano la memoria del poeta presentando la materia dei suoi canti ed esaltando il suo ingegno «di una singulare prudenza e superiore agli anni suoi», nonché la sua «vera e somma nobilità»: il libro è composto di 254 componimenti (escluse le risposte dei dedicatari di alcuni sonetti), di prevalente argomento amoroso, ma anche satirico, pastorale, e con un nutrito corpus di sonetti scambiati con diversi interlocutori per lo più gravitanti attorno all’Accademia dei Concordi. La struttura delle Rime è piuttosto essenziale: infatti, esso si articola in due parti principali, in vita e in morte 7 della donna amata dal poeta, Margherita Gradi – una delle tre  













caratteristiche dell’architettura e del gusto gotici, ed assunse, nel corso del tempo diverse funzioni, tra cui quella di sede della dogana, o√cina della zecca di Ragusa, tesoreria, armeria. 1   Anche le Rime di Michele Monaldi saranno pubblicate postume e solo sette anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1594. Vi sono studi che hanno contribuito a dare il giusto peso e a riconoscere i meriti letterari dell’autore, tra le voci più interessanti all’interno della produzione lirica dalmata in lingua italiana della seconda metà del xvi secolo: cfr. Milica Popovic, Il culto della bellezza nelle poesie italiane di Miho Monaldiević (Michele Monaldi), «Italica Belgradensia», i, 1975, pp. 201-215; Ljerka Schiffer-Premek, Miho Monaldi. Ličnost i djelo («Michele Monaldi. La persona e l’opera»), Zagreb, 1984; Slobodan Prosperov Novak, Slaveni u Renesansi, Zagreb, 2009, nel capitolo conclusivo, in particolare, Kriza renesansnih ideologema u Hrvatskoj («La crisi degli ideologemi rinascimentali in Croazia»). 2   Com’è noto, Nascimbene Nascimbeni, che fu seguace delle teorie eretiche di Giorgio Siculo, curò l’edizione del De inventione di Cicerone, pubblicata a Venezia nel 1564, mentre, alcuni anni più tardi, nel 1577 fu dato alle stampe a Basilea il suo commento ai primi sei libri dell’Eneide. Per quanto riguarda più specificamente la sua permanenza a Ragusa, fu chiamato in città nel dicembre 1560 dal Segretario della Repubblica di Ragusa, Giovan Battista Amalteo, con l’incarico di rettore delle scuole ed arrivò nel marzo dell’anno successivo. Probabilmente in seguito a uno scandalo provocato dal cugino Pietro Nascimbeni, condannato nel 1567 per aver progettato l’assassinio di un nobile ragusano, Nascimbeni lasciò Ragusa. Per una bibliografia sulla personalità del Nascimbeni, anche in relazione all’eresia di Giorgio Siculo, si rimanda a Carlo Ginzburg, Due note sul profetismo cinquecentesco, «Rivista storica italiana», 78, 1, 1966, pp. 185-227; Adriano Prosperi, L’eresia del Libro Grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Feltrinelli, Milano 2000; Relja Seferovic, Foreign teacher and humanist: Nascimbene Nascimbeni on rhetoric in Dubrovnik, «Dubrovnik Annals», 14, 2010, pp. 99-141. 3   «Circa il 1558 ebbe l’u√cio di segretario presso la Repubblica di Ragusa e lo seguì il fratello Cornelio con la carica di cancelliere. Dalle lettere scritte da Ragusa sappiamo che vi fece chiamare Nascimbene Nascimbeni come pubblico lettore di belle lettere e che non trascurò di ricercare libri greci per l’amico Paolo Manuzio. Alla fine del 1561 o al principio del 1562 rientrò in Italia e si diresse a Roma» (Anna Buiatti, Voce «Amalteo, Giovan Battista», in Dizionario biografico degli italiani, 2, 1960, www.treccani.it) 4   Come ha sottolineato Graciotti: «di Domenico Ragnina 16 sonetti compaiono ne Il secondo volume delle Rime scelte da diversi eccellenti autori, di nuovo corrette e ristampate, a cura di Lodovico Dolce, Venezia, Giolito 1565, e quattro sonetti sono stati tradotti in francese da Philippe Desportes (cfr. Mirko Deanović, Anciens contacts entre la France et Raguse, Institut français de Zagreb, Zagreb, 1950, p. 125)» (Sante graciotti, op. cit., p. 8). 5   Francesco Maria Appendini, Notizie istorico-critiche sulle antichità, storia e letteratura de Ragusei, Ragusa, Antonio Marticcini, 1803, p. 231. 6   Tutte le citazioni presenti in questo saggio fanno riferimento alla stampa delle Rime amorose, et pastorali, et satire del mag.co Savino de Bobali Sordo Gentil’huomo raguseo (Venezia, presso Aldo Manuzio, 1589), conservata presso la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera. Si può disporre di un’utile copia digitalizzata del libro dall’apposita sezione del sito, di cui si fornisce il link: http://www.mdz-nbn-resolving.de/urn/resolver.pl?urn=urn:nbn:de:bvb:12bsb10165947-0. 7   Nella stampa a cui facciamo riferimento l’inizio della parte delle rime in morte è indicato esattamente a p. 65.

chiara rosato 118 sorelle, la più giovane, alle quali si farà riferimento nel componimento Già tre dee 1 – morta il 15 marzo del 1574. 2 Alla prima parte appartiene anche il ciclo cosiddetto ‘pastorale’, in cui la figura centrale è quella della pastorella Clori amata dal pastore Damone, un possibile alter ego del Bobali. Nella seconda parte, forse anche per continuità tematica, sono collocati alcuni sonetti in morte di amici, nell’ordine Pietro Sorgo, Tudisio, Darsa, Ghettaldi, Pietro e Giovanni Gradi, Annibale Caro, Maria Ciuπarina, Martoliza di Giamagno, Giovan Battista Amalteo e, infine, alcuni testi dedicati alla memoria del padre defunto. Vi sono poi altri componimenti indirizzati ad alcuni dei Concordi: Amalteo, Laura Battiferri, monsignor Ludovico Beccadelli, Benessa, Giulia Bona, Michele Bona, Annibale Caro, Ascanio Ciuπarino, Giorgii, Clemente Gozze, Francesco Luccari, D. Mauro, Menze, Michele Monaldi (il gruppo di testi più cospicuo, con risposte), Paterno, Vincenzo Portici arcivescovo di Ragusa, Resti, Salvio, Luca Sorgo, Tudisio, Benedetto Varchi, Venier. Più ci si avvicinerà alla conclusione della raccolta più i componimenti assumeranno toni penitenziali, di raccoglimento religioso e spirituale. Inoltre, separate da un fleuron dai precedenti componimenti, seguiranno nove satire in versi. Tra i numerosi possibili argomenti da evidenziare all’interno della vasta raccolta delle Rime è stata privilegiata un’interpretazione dei testi sulla base di una selezione dei principali temi e motivi, costanti vere e proprie all’interno del libro. Anzitutto, quello che appare sin dall’inizio con chiarezza è la presenza di un preciso lessico figurale astronomico utilizzato da Savino, e mutuato da Petrarca, legato in primis ad immagini stellari e solari, volte soprattutto a definire e rappresentare la donna amata. Sceglieremo alcune sezioni all’interno del libro, collocate in diverse parti della raccolta, per dare un campione di questa costante stilistica e anche un’idea del modo di lavorare sulle figure retoriche da parte del poeta raguseo. Fin dall’inizio della raccolta noteremo alcune immagini, che molto spesso si tramutano in sovrapposizioni e personificazioni: infatti, a partire dal I sonetto Io vivea dolcemente i miei prim’ anni saranno chiari gli attributi assegnati dal poeta alla donna amata:  



Né mi dispiacque: che due stelle, un Sole, rubin, perle, oro, e tanta altra bellezza 3 furon dolce esca, e rete: ond’io fui preso. (vv. 12-14)  

E, in eπetti, se proviamo a isolare questa immagine vedremo che anche nel ii sonetto Da due stelle lucenti un vivo lume vi è un riferimento agli occhi come guida, come luce e sostegno nella ricerca dei «dritto erto sentiero» (v. 13). Gli occhi della donna, significativamente chiamata «dolce mia stella» (v. 5), sono portatori di «vaghi rai» (v. 3), come si legge nel iii sonetto Duo bei lumi, ch’Amore al vivo foco. Al vi sonetto la donna amata addirittura vince il Sole e lo oscura per la sua bellezza e la sua virtù, esattamente come avveniva in Petrarca: E vero è, ch’essa il Sol vince, e oscura cò begli occhi: e coi crin crespi senz’arte 1

  Cfr. sonetto Già tre dee sole ne la selva Idea, p. 92.   Cfr. sonetto Quando mi guida Amor, dove talhora, p. 74. In questo testo in morte, come si accennava, sono datati il giorno, il mese e l’anno della morte della donna amata. 3   Il canone estetico di questa descrizione è di ascendenza chiaramente petrarchesca e ritornerà a breve distanza nel iv sonetto, allorché il poeta descriverà la figura della donna tornando esattamente su questi elementi preziosi: «cresp’oro, vive rose. e neve dura / d’eban rubini e perle un lavor raro» (vv. 1-2). Inoltre, «gli atti pien d’honestate e leggiadria / che n’un punto pon fare ogni human petto / e di speranza colmo, e di timore» (vv. 9-11) si richiamano, seppur in modo implicito e attraverso un lessico per lo più di matrice petrarchesca, a toni tipicamente stilnovistici, laddove la donna amata diviene portatrice di salvezza e pace generando reazioni quasi d’inadeguatezza e timore da parte di chi l’osserva. 2

le rime di savino sordo de’ bobali: temi e topoi

119

di fino oro, legar può Giove e Marte e far loro cangiar stato, e figura. (vv. 4-8)

Anche nei sonetti viii e ix ritorna l’analogia volto-sole, occhi-stelle: in particolare, nell’viii sonetto la donna, «ch’ha ‘l volto un Sol, gli occhi due stelle» (v. 2), rende Epidauro «adorno e chiaro» (v. 4); nel ix sonetto la donna «qual Sol riluce» (v. 5) nel cuore del poeta, liberando il suo animo da pensieri vili. Intriso ancora di elementi astronomici e petrarcheschi è il madrigale Assembra tante stelle, in cui la donna amata è definita «un Sol, la mia nemica» (v. 3), attraverso un contrasto d’immagini che, pur non rappresentando una vera coppia ossimorica, lega tra loro due concetti distanti: il Sole che, come abbiamo potuto accennare, assume sempre nelle Rime connotati positivi – splendore, onestà, superiorità morale – e l’idea di una donna ‘nemica’ perché distante e refrattaria rispetto alla passione del poeta. La prima delle canzoni, Bench’un vago desire ogni hor mi spinge, è anche una importante sintesi di motivi di diversa tradizione letteraria: dallo Stil novo alla teoria degli spiritelli di Cavalcanti – e dunque alla sua pessimistica, distruttiva concezione erotica, che porta alla privazione del libero arbitrio ma anche a vere e proprie reazioni ‘patologiche’ come lo sbigottimento, il tremore, il pallore –; dall’immagine dantesca di Beatrice, trionfante in una nuvola di fiori (Cfr. Purg. xxx, vv. 28-33), alle metafore astronomiche di derivazione petrarchesca (la donna è «vivo Sole», v. 2; gli occhi sono «duo lumi accesi d’immortal bellezza», v. 49; e ancora, un paio di versi dopo, «la qual, com’io più fiso in lor mirai / con un raggio gentil, quasi una stella», vv. 52-53; e poi «i begli occhi… / che parevan quasi stelle», vv. 62-63). Declinate in modo diverso, ma conservando nel lessico la presenza delle immagini stellari, nella sestina Pur mai l’asprezza de l’horribil bosco Savino rielabora alcune delle parole-rima della sestina xxii di Petrarca: tra le sei parole bisillabe in clausola, sole rimarrà invariata e le altre (bosco, core, spine, cielo, fera) graviteranno nella stessa sfera semantica del testo petrarchesco. Ancora, in un altro dei 16 madrigali della raccolta, Un vivo Sol, che ’n beltà l’altro avanza, ad una distanza di nove componimenti dall’inizio delle rime della seconda parte, la donna amata vince la luminosità del sole e abbaglia il poeta, colpendolo fino all’arsura. Più ci si avvicina alle rime in morte, più il poeta ne evidenzia l’approssimarsi con dei testi di presentimento, fino a giungere al sonetto che inaugura la seconda parte del libro Ah, nova acerba. Dunque lei, ch’è Sole e, dunque, conservando fin dal v. 1 la parola ‘sole’ («lei ch’è Sole, / di valor, di vaghezza e d’ honestate, […] hor langue…», vv. 1-4) ancora una volta come metafora di onestà e bellezza senza uguali: inoltre, è in questo sonetto che Savino fa per la prima volta il nome di Margarita (v. 12). Tra i numerosi ulteriori esempi che puntellano le Rime amorose di Savino in questa seconda parte, indicheremo i titoli di alcuni componimenti dove in modo del tutto evidente ritornano le metafore stellari: a partire dal sonetto Tramontato il mio sol, che i lieti giorni, testo dal tono drammatico giocato sull’analogia tra sole che si adombra e la speranza che cede il posto alla paura; 1 o ancora nel sonetto Il mio bel Sol, quando più vago e chiaro, Margherita è un sole che si eclissa (come si legge ai vv. 2-3) provocando attorno, e sulla terra, uno sconvolgimento del ciclo della natura:  

L’aurora più non viene inanzi al giorno Bianca, e vermiglia; né da l’onde fuori guida Febo sul carro d’or lucente: 1   Molto interessante, in questo sonetto, il rimando non solo alla propria condizione di abbandono, ma anche alla desolazione lasciata a Epidauro, la città che aveva fatto da cornice a quest’incontro.

chiara rosato

120

languide son l’erbette e secchi i fiori; torbide l’acque; e ciascun cor dolente senza il suo dolce lume, almo e adorno. (vv. 9-14)

Citiamo ancora, scegliendoli per densità e forza delle immagini, due sonetti: Mille fiate ogni hor con gli occhi ha torno in cui il poeta immagina di poter rivedere la donna amata, considerata un sole capace di raddoppiare la luce del giorno, e Quanto può dar già mai, benigna stella, testo in cui sono lodate le virtù di Margherita e in cui, successivamente, l’accento è posto soprattutto sulla desolazione e l’abbandono che la morte della donna ha provocato. 1 Tra i numerosi temi presenti nel libro, si dovrà almeno fare accenno, oltre al ciclo dedicato a Ràgnina di testi pastorali 2 a cui abbiamo accennato all’inizio, ai componimenti dedicati ad amici. Alcuni sono testi scritti in morte, come – tra gli altri – quelli dedicati al Sorgo, al Caro, al Tudisio e il sonetto Tu già satio del mondo, non che stanco in memoria del padre. Seguono alcuni testi di corrispondenza: si tratta di componimenti abbastanza convenzionali rispetto ai toni della produzione amorosa, ma che sono importanti documenti, utili per la ricostruire la complessa trama di relazioni tra gli intellettuali attivi in quel periodo a Ragusa. Tra questi testi, varrà la pena citare almeno il sonetto dedicato agli Accademici Concordi 3 e quelli al Monaldi (di cui possediamo le risposte). Per i primi, Savino ne immagina la gloria e l’approvazione da parte dei posteri, legando a doppio filo l’esperienza dell’Accademia alla città di Epidauro, «fra ’l monte e ‘l mar assiso» (v. 4). La corrispondenza col Monaldi è invece molto fitta: i due amici si consoleranno a vicenda per la morte del Tudisio, e ancora Savino s’interesserà dello stato d’animo dell’amico, discorreranno insieme degli eπetti dell’amore, 4 lamenteranno la lontananza che li separa. Sono questi alcuni temi, tra i numerosi possibili, che dicono qualcosa sull’identità letteraria di questo poeta: pur non avendo mai visitato l’Italia, come si è potuto vedere, Savino de’ Bobali fonda il proprio idioletto poetico sulla tradizione del volgare italiano ed è nel solco di questa tradizione che s’inscrivono i suoi versi, sia per l’appropriazione del codice petrarchesco che per le spinte manieristiche che caratterizzano alcuni tratti delle sue poesie.  







1   Si noti la prima terzina: «Ma tosto (ohimé) d’un Sol sì vago, e chiaro / fu privo il mondo: e orbo e miser’ io / che vissi sol del suo lume almo, e caro». 2   Incluso nella parte in vita, questo ciclo di testi ruota attorno alla figura del pastore Damone innamorato della pastorella Clori, articolandosi in 19 sonetti (alle pagine 40-49): la trama s’inscrive nel solco della tradizione, presentando una giovane donna ritrosa e incurante dei sentimenti del pastore, il quale dà voce alla propria soπerenza dedicando le rime al suo interlocutore, Araneo (variante classicheggiante e colta del nome della casata dei Ràgnina). L’amore di Damone e Clori, sul finire del ciclo pastorale, troverà compimento: il pastore dirà, infatti, in chiusura «sì felice pastor non è, com’io / in terra e forse in ciel; ma dir non l’oso» (vv. 7-8 del sonetto Lascive pecorelle hor, ch’io gioioso). 3   Si tratta del sonetto Con dolce suono, con sereno viso (p. 108). 4   Indicativi, per questo tema, i sonetti Com’esser può ch’Amor m’agghiacci e scaldi (p. 117) di Savino e la risposta del Monaldi Col cor devoto, e spirti accesi e caldi (p. 118).

UN CONTRIBUTO ALLA BIOGRAFIA DI GIOVANNI NIKOLIĆ, TRADUTTORE DALMATA Marija Bradaš

G

iovanni Nikolić 1 è stato un traduttore e poeta d’occasione dalmata, attivo soprattutto nel secondo Ottocento. Di lui hanno mantenuto una certa notorietà le sue traduzioni italiane di poesia popolare e d’autore, nonché alcune poesie d’occasione pubblicate sui giornali dalmati, ma della sua vita si sapeva ben poco. Oltre alla raccolta Canti popolari serbi, 2 che conteneva le traduzioni dei canti popolari pubblicati da Vuk Stefanović Karadžić, Nikolić ha tradotto anche alcune poesie di Petar Preradović, 3 il poema epico Smrt Smail-age Čengića 4 di Ivan Mažuranić, il dramma Balkanska carica 5 di Nikola I Petrović, nonché il poema epico Gorski vijenac 6 di Petar Petrović Njegoš. Nikolić fu anche autore di un trattato, pubblicato nel 1861 a Ragusa (Dubrovnik) con cui interveniva nell’accesa discussione sul problema dell’annessione della Dalmazia alla Croazia. 7 Nikolić esprime la sua posizione in forma di lettera indirizzata a Niccolò Tommaseo, con cui è in disaccordo. Il trattato prende la forma di una lettera di risposta polemica a Niccolò Tommaseo che, nel suo famoso scritto Ai Dalmati 8 aveva promosso l’idea dell’autonomia della Dalmazia. Nel suo trattatello Nikolić si propone come mediatore tra due culture sorelle, quella croata e quella dalmata, nonché in veste di interprete delle posizioni croate. Vi si trovano interessanti osservazioni sulle peculiarità della cultura dalmata e sull’uso della lingua italiana e quella slava: «Tempo verrà che la lingua degli atti pubblici deve essere anche in Dalmazia la Slava. All’Italia il rispetto, alla Slavia l’aπetto, la mano del Dalmato. Chi sente altrimenti, se anche si dica, Dalmato non è». 9 Tra le prese di posizione politiche trovano posto anche considerazioni di tipo personale che torneranno utili nell’analisi dei documenti d’archivio:  

















La è cosa dura a confessare, che i nostri padri quasi unanimamente tenevano, che un loro figlio non potesse essere uomo, se non finiva in qualche u√cio impiegato. Non voglio con ciò disconoscere, che anche fra i servi dello Stato, si possano contare degli uomini. Ma per i riguardi, che essi devono e alla condizione, e a cento altre eventualità, non è loro sempre dato di giovare al bene della patria. 10  

1

  Preferisco questa alle grafie alternative normalmente attestate: Nicolich, Nikolich o Nikolic.   Canti popolari serbi, tradotti da Giovanni Nikolić, Zara, Stabilimento Tipografico di Spiridione Artale, 1894 e Canti serbi, tradotti da Giovanni Nikolić, seconda edizione corretta e ampliata con note di Niccolò Tommaseo, Zara, Stabilimento Tipografico di Spiridione Artale, 1895. 3   Pietro Preradović, Poesie di Pietro Preradović, traduzione di Giovanni Nikolić, Zara, Tipografia Demarchi-Rougier, 1866. 4   Giovanni Mažuranić, Smaillo Čengić-aga, traduzione di Giovanni Nikolić, Zara, Tipografia del Nazionale, 1869. 5   L’imperatrice dei Balcani, dramma in tre atti di Nicolò I, principe del Montenegro, traduzione dal serbo di Giovanni Nikolić, Zara, Enrico de Schönfeld, 1899. 6   Pietro Petrovich Njegus, Il Serto della montagna: quadro storico del secolo xvii, traduzione dal serbo di Giovanni Nikolić, Fabriano, Premiato Stabilimento Tipografico Gentile, 1902. 7   Giovanni Nicolich, A Nicolò Tommaseo a Firenze, Ragusa, Dalla Tipografia Martecchini, 1861. Lo scritto di Nikolić è stato studiato dallo storico croato Stijepo Obad in occasione del centenario del Risorgimento Nazionale Dalmata, vedi Stijepo Obad, Preporodni spis Ivana Nikolića. Prilog proučavanju narodnog preporoda u Dalmaciji, «Anali Historijskog Instituta jazu u Dubrovniku», 1962, viii-ix, pp. 643-652. 8   Niccolò Tommaseo, Ai Dalmati, Firenze, Tipografia Galileiana di Mariano Cellini, 1861. 9 10   Giovanni Nicolich, A Nicolò Tommaseo a Firenze, cit., p. 15.   Ivi, pp. 12-13. 2

marija brada š

122

Nonostante la feconda attività di traduzione e di collaborazione con i giornali dalmati dell’epoca, manca a tutt’oggi uno studio complessivo della figura di Nikolić dal punto di vista storico-letterario. Solo di recente è stato pubblicato uno studio dedicato quasi integralmente al Nikolić traduttore di Preradović. 1 Qui – come avviene anche negli studi che trattano di Nikolić solo incidentalmente – non sono riportati dati biografici sul traduttore, ma vengono riprese con riserva le parole di Jolanda Marchiori: «Mi è noto solo l’assunto, per nulla confermato, della professoressa di slavistica Jolanda Marchiori, su Giovanni Nikolich di Lesina, e un dato relativo al fatto che già nel primo decennio del xx sec. era ancora attivo». 2 Marchiori identifica infatti Nikolić come lesiniano, 3 seguendo probabilmente l’indicazione contenuta nel libro del suo maestro Arturo Cronia: «Il lesiniano Giovanni Nikolić, traduttore anche dal francese e dal tedesco 4 – oltre che del Preradović, del Mažuranić, del Petrović Njegoš – con i suoi Canti serbi, tolti dal ciclo di Kosovo e di Marko Kraljević, ci riporta semplicemente alle parafrasi di montiana memoria». 5 Anche studi più recenti, collocano Nikolić nell’isola di Lesina (Hvar), richiamandosi appunto alle parole e all’autorità di Cronia. Così anche Maria Rita Leto scrive nel suo saggio: «Il lesiniano, segretario del tribunale, Giovanni Nikolić, traduttore di Mažuranić, Preradović e Njegoš, pubblicò nel 1894 una raccolta di Canti serbi, che nel 1895 fu seguita di una seconda edizione». 6 Alcuni autori identificano Nikolić come zaratino, probabilmente perché la maggior parte delle sue opere erano pubblicate in questa città. Oltre alle scarse notizie negli studi letterari, Nikolić non figura in alcun dizionario biografico italiano, dalmata o croato, e nemmeno nell’Ostereichisches biographisces Lexicon. L’unico a riportare qualche dato sulla vita di Nikolić è il recente dizionario biografico dei serbi di Jovan Radojčić, 7 dove Giovanni Nikolić figura come Jovan, forma con la quale compare nella stampa periodica serba di fine Otto e dei primi anni del Novecento, principalmente nelle segnalazioni e nelle recensioni delle sue traduzioni. In realtà, la voce Nikolić del dizionario biografico di Radojčić è quasi interamente desunta da un necrologio pubblicato nel 1902 sulla rivista letteraria belgradese «Kolo», redatta da Danilo A. Živaljević. 8 La serbizzazione del nome Giovanni, ha molto probabilmente causato la sua inclusione nella categoria dei serbi all’occidente del Danubio e della Drina, adoperata da Radojčić. Alcune informazioni utili, sebbene non del tutto precise, si riscontrano negli studi di taglio puramente storico. Nel già citato studio, Stijepan Obad oπre dei dati biografici su vari personaggi del nome Ivan (Giovanni) Nikolić che ha riscontrato nei documen 















1   Valter Tomas, Giovanni Nikolich e le Primorske pjesmice nel settimanale zaratino ‘La Domenica’ (1888-1892) in Književnost, umjetnost, kultura između dviju obala Jadrana / Letteratura, arte, cultura tra le due sponde dell’Adriatico a cura di Guido Baldassari, Nikola Jakšić, Živko Nižić, Zadar, Sveučilište u Zadru, 2008, pp. 143-168. 2   Ivi, p. 148. 3   Jolanda Marchiori, Aspetti caratteristici delle traduzioni italiane dal serbo-croato, in Actes du V-e Congrès de l’Association Internationale de Littérature Comparée, ed. Nikola Bana, Belgrade 1967, Université de Belgrade, Swets&Zeitlinger, Amsterdam, 1969, p.711. 4   Su Nikolić traduttore dal francese e tedesco non ho trovato ulteriori notizie e poiché Cronia non oπre fonti per supportare questa aπermazione e alla luce di altre imprecisioni, si può supporre che l’informazione riportata non si riferisca in realtà a Nikolić. 5   Arturo Cronia, La conoscenza del mondo slavo in Italia, Padova, Stediv, 1958, p. 549. 6   Maria Rita Leto, La ‘fortuna’ in Italia della poesia popolare serbo-croata dal Tommaseo al Kasandrić, «Europa orientalis», xiv, 1, 1995, p. 269. 7   Jovan Radojčić, Srbi zapadno od Dunava i Drine: biografije, ii, Novi Sad, Prometej, 2009, opera ambiziosa ma, anche per la portata dell’impresa, non sempre omogenea dal punto di vista della qualità scientifica. 8   Nekrolozi, «Kolo», Beograd, iv/5, 1902, p. 307. Vedi anche le recensioni delle traduzioni di Nikolić di Balkanska carica e di Gorski vijenac, «Brankovo kolo», Sremski Karlovci, v, 1899, pp. 95-96 e ix, 1903, p. 763, nelle quali in realtà la redazione non fa altro che riportare giudizi a riguardo da altri giornali, dalmati e montenegrini.

un contributo alla biografia di giovanni nikolić

123 ti dell’Archivio di Stato di Dubrovnik, senza precisare però quale di questi sarebbe potuto essere l’autore della risposta a Tommaseo. Obad si chiede inoltre se l’autore dello scritto e il traduttore, che negli anni seguenti aveva pubblicato a Zara potessero essere la stessa persona. Dai documenti d’archivio Obad conclude con certezza che Nikolić era operativo come segretario del tribunale distrettuale di Ragusa nel 1861 e che in seguito allo scritto risorgimentale era stato processato dalle autorità austriache, dovendo probabilmente lasciare l’impiego. 1 Obad tuttavia ammette la possibilità che Nikolić, una volta rimasto senza impiego, si fosse trasferito a Zara. Passi di due lettere autobiografiche di Nikolić ad Angelo de Gubernatis, pubblicati da Stefano Aloe, sembrano confermare questa ipotesi e ci portano a supporre che Nikolić traduttore e Nikolić autore dell’opuscolo risorgimentale siano eπettivamente la stessa persona. 2 Gli estratti delle lettere oπrono inoltre molti altri dati precisi e a prima vista a√dabili, poiché scritti dalla mano di Nikolić:  



Apersi, direbbe il poeta, i lumi al giorno a Traù a dì 13 Novembre 1828. Non vanto né splendidi natali né ricchezze. Mio padre impiegato Austriaco, poté educarmi. Frequentai l’Università di Padova allora all’Austria soggetta, e là completai il corso legale. Conobbi a Venezia il nostro Nicolò Tommaseo [...]. Rimpatriai e più che la mia vocazione in me poté il bisogno e m’inbrancai colla burocrazia. Balestrato quà e là per le Dalmatiche borgate [...]. Il mio vanto è di aver combattuto per la mia lingua, l’italiana, su terra alla quale di presente si vuol perfino farle cambiar nome e dirla Crovazia. 3  

Da questa prosa altisonante, che abbonda di inversioni e aulicismi, e contiene una citazione dantesca, si scoprono alcuni dati molto interessanti sulla vita di Nikolić: nato a Traù, nel 1828, si è laureato all’Università di Padova, è stato collocato a riposo dall’impiego e, a quanto pare, senza ricevere una pensione. Non meno importanti appaiono le notizie sull’incontro con Tommaseo e sulla pochissima simpatia che Nikolić nutriva per il proprio lavoro. Queste aπermazioni di Nikolić escludono la possibilità che fosse nato a Lesina, e sono supportate anche da alcune ricerche. Lo stesso cognome Nikolić risulta poco lesiniano a giudicare dal registro dei cognomi croati, 4 che infatti riporta il cognome Nikolić solo all’interno del comune di Jelsa sull’isola di Hvar, ma non nella città Hvar o negli altri comuni. L’esame dei registri dell’anagrafe presso lo Župni ured Jelse ha dimostrato che nella prima metà dell’Ottocento nessuno di cognome Nikolić nacque in questo comune, ma fondamentale a provare che Giovanni Nikolić non fu lesiniano di origine è stato il libro Zapisi o zavičaju: stanovništvo Jelse dell’archivista croata Nevenka Bezić-Božanić 5 nel quale il cognome Nikolić figura solo in due occasioni: per identificare una famiglia che ha vissuto a Jelsa nel Seicento e come cognome di un padrino di un battesimo o di un testimone di nozze (kum). Nel secondo caso non si deve però necessariamente trattare di  



1

 Cfr. Josip Vrandečić, Dalmatinski autonomistički pokret u xix stoljeću, Zagreb, Dom i svijet, 2002, p. 101.   Stefano Aloe, Angelo de Gubernatis e il mondo slavo. Gli esordi della slavistica italiana nei libri, nelle riviste e nell’epistolario di un pioniere (1865-1913), Pisa, Tipografia editrice pisana, 2000. Tredici lettere del carteggio Nikolić-De Gubernatis sono conservate nel fondo della bnf, cfr. ivi, p. 278. Ringrazio Stefano Aloe per avermi rese disponibili le riproduzioni fotografiche delle lettere di Nikolić. 3   Ivi, p. 245-246. La prima frase del brano citato proviene da una lettera datata 9 agosto 1894, mentre il resto fa parte della lettera del 30 agosto dello stesso anno. Come si vede dalle lettere indirizzate a De Gubernatis, la posizione politica di Nikolić nel 1894 risulta decisamente cambiata rispetto a quella dell’opuscolo del 1861. Questo potrebbe lasciare spazio al dubbio che non si trattò dello stesso Nikolić autore dell’opuscolo, ma credo sia più plausibile supporre che Nikolić in un arco di tempo così lungo e, anche foriero di molti cambiamenti in Dalmazia, abbia cambiato idea oppure che, in questa circostanza, sia influenzato dall’autorità dell’intestatario della corrispondenza. 4   Leksik prezimena Socijalističke Republike Hrvatske, a cura di Valentin Putanec, Petar Šimunović, Zagreb, Institut za jezik: Nakladni zavod Matice hrvatske, 1976. 5   Nevenka Bezić-Božanić, Zapisi o zavičaju: stanovništvo Jelse, Jelsa, 1982. 2

marija brada š 124 un abitante di Jelsa. Questo ci porta a pensare che Cronia aveva probabilmente confuso Nikolić con Petar Kasandrić, quest’ultimo eπettivamente lesiniano, 1 poiché entrambi erano traduttori di poesia popolare e di Njegoš. Quanto all’anno di nascita, sembra che sia stato riportato appositamente in maniera erronea, perché altrimenti non si spiega un errore di sei anni. Nikolić era nato nel 1822 – lo confermano sia il registro anagrafico dei morti della cattedrale zaratina, cioè la Chiesa di Sant’Anastasia (Sveta Stošija), 2 che si conserva all’Archivio di Zara e che è un documento importante per la ricostruzione della vita di Nikolić, che i registri d’immatricolazione dell’Università di Padova. Come si vede dalla riproduzione fotografica, Nikolić era nato sì a Traù, ma nel 1822 (il mese e il giorno di nascita riportati nella lettera coincidono però con quelli del registro-anagrafe). Rimane perciò da chiarire perché Nikolić si sia ringiovanito nella lettera a De Gubernatis. Si può ipotizzare che si sentisse in imbarazzo davanti al molto più giovane De Gubernatis, a cui si rivolgeva con moltissimo rispetto, quasi come a un maestro.  



hr-dazd-378 Matične knjige umrlih Sv. Stošija (1902-1908), br. 2213.

Dal registro anagrafe dei morti, scopriamo anche la data esatta e il luogo della morte (Zara, 29 agosto 1902), nonché i nomi dei familiari. Il nome del padre (Nicolò Nikolić) viene citato anche nei registri di immatricolazione all’Università di Padova. Come si è visto nella lettera al De Gubernatis, Nikolić dichiara di aver completato il corso legale. Questa informazione però non trova riscontro nelle fonti consultabili presso l’Archivio generale dell’Ateneo dell’Università di Padova. Come vedremo subito, secondo quanto riportato dall’Inventario dei laureati a Padova nell’Ottocento, 3 Nikolić, contrariamente a quanto aveva scritto lui stesso, non sembrerebbe aver conseguito la laurea. Nel 1817 l’Università di Padova istituisce il fascicolo dei propri studenti, contenente ognuno i dati più importanti sugli insegnamenti seguiti e sulla discussione della laurea. 4 Il fascicolo di Nikolić non è reperibile, però questo non ci può portare a concludere che non si sia laureato, perché esiste la possibilità che il fascicolo sia andato perduto.  



1   Per la biografia di Kasandrić, vedi Nikša Stipčević, Petra Kasandrića prevod “Gorskog vijenca”, in Nikša Stipčević, Poređenja, Beograd, Zavod za udžbenike i nastavna sredstva, 2000, pp. 88-91. 2   Fondamentali per reperire il materiale archivistico sono stati l’aiuto e la disponibilità del personale degli Archivi di Zara, Padova e Zagabria. 3   L’inventario, a cura di Maria Grazia Bevilacqua e Gianni Penzo Doria, è di prossima pubblicazione, mentre per adesso viene adoperato solo per usi interni. 4  Cfr. Giampietro Berti, L’Università di Padova dal 1814 al 1850, Treviso, Antilia, 2011.

un contributo alla biografia di giovanni nikolić

125

Università degli Studi di Padova, Archivio dell’Ottocento, Facoltà Politico-Legale, Matricolazione, unità 13. Su concessione dell’Archivio Generale di Ateneo.

Dai registri di immatricolazione si evince con certezza che Giovanni Nikolić di Zara (Dalmazia) si era iscritto alla Facoltà politico-legale dell’Università di Padova nell’anno accademico 1841-42 all’età di diciannove anni. Si era regolarmente iscritto al secondo e al terzo anno, mentre nel registro del quarto anno tra tutti i dati solitamente annotati risulta solo il nome, e non vi è alcuna prova che abbia eπettivamente completato gli studi. La mancanza del suo nome nel registro dei laureati insieme al registro del quarto anno non debitamente compilato portano a supporre che abbia interrotto gli studi al quarto anno, ma in mancanza di ulteriori dati non è possibile aπermarlo con certezza. 1 Nella lettera a De Gubernatis, Nikolić aπerma anche di aver conosciuto a Venezia Niccolò Tommaseo, il che è molto probabile, visto che nel periodo in cui Nikolić aveva vissuto a Padova, Tommaseo si trovava eπettivamente a Venezia. In più, proprio durante il primo anno del soggiorno di Nikolić a Padova (1842), escono a Venezia per i tipi di Tasso, i Canti popolari illirici di Tommaseo che avranno un eπetto consistente su Nikolić. L’incontro con Tommaseo viene ricordato anche in un sonetto scritto da Nikolić per ricordare l’inaugurazione del bronzo eretto in onore di Tommaseo a Sebenico: «Tal m’accoglievi un dì con dolce aspetto / Tu di Venegia nel gentil soggiorno». 2 Stando al fondo tommaseano della Biblioteca Nazionale di Firenze, però, Nikolić non risulta tra i corrispondenti di Tommaseo, nei cui scritti non si è potuto finora trovare alcun riferimento ad un incontro con Nikolić. Ma, anche se non suπragata da un riscontro documentale, la dichiarazione di Nikolić pare attendibile. Tra le tracce presenti nella lettera autobiografica di Nikolić a De Gubernatis, vi erano anche dati sull’impiego di Nikolić nell’apparato burocratico austriaco. Non mi è stato però facile trovare dei documenti che attestassero l’occupazione di Nikolić nei tribunali austriaci in Dalmazia, poiché il fascicolo di Nikolić non risulta presente né all’interno dei fascicoli degli impiegati austriaci pensionati in Dalmazia presso l’Archivio di Zara  



1

  agapd, Matricolazione, unità 13-16.   Giovanni Nikolić, Ai piedi del monumento di Nicolò Tommaseo a Sebenico, «Il Corriere nazionale», 46, 5 giugno 1896; cfr. Živko Nižić, Nedeljka Balić-Nižić, Nikola Tommaseo i dalmatinski tisak, Zadar, Sveučilište u Zadru, 2009, p. 202. 2

marija brada š 126 e nemmeno presso le cartelle degli impiegati, conservate presso l’Archivio di Stato di Zagabria. 1 Il nome di Nikolić appare però qualche volta all’interno di documenti riguardanti concorsi e passaggi di ruolo e soprattutto in relazione alle città di Zara, Ragusa e Pago. Nei documenti conservati presso l’Archivio di Zara, Nikolić viene citato soprattutto negli anni Cinquanta quando era impiegato come cancelliere di prefettura a Pago. Interi fascicoli della Direzione di polizia trattano del comportamento poco decoroso e incompatibile con il servizio che Nikolić prestava a Pago nel 1854. Riporto solo alcuni brani che illustrano bene anche il contenuto delle restanti pagine dei rapporti, verbali e doglianze riguardo alla denuncia contro Nikolić: «Mi viene portato a consegna dal locale direttore di Polizia, che il cancelliere Nicolich della Prefatura di Pago abusa in modo assai rimprovevole della sua modestà d’u√zio, facendo citazioni di donne e ragazze senza motivi u√ciosi, ma puramente collo scopo d’appagare i suoi appetiti carnali». 2 Un altro fascicolo riporta il resoconto indirizzato al Commissario Circolare Dr Mary e «rassegna i rilievi sulla tresca scandalosa attribuita al cancelliere della Pretura di Pago Giovanni Nicolich alla femmina Anastasia Bistrich». Nel resoconto si legge anche: «È certo però che Nicolich non gode buona fama a Pago e per le innebanità della sua maniera, e per lo sconcerto del suo stato economico, e per l’opinione che gode di essere persona dedita ai sensi». 3 Pare che comunque queste denunce non siano state le uniche nella carriera di Nikolić. Oltre al processo condotto contro Nikolić per le sue posizioni antiaustriache espresse nell’opuscolo risorgimentale, Obad nomina anche altre denunce contro Nikolić durante il suo periodo ragusino. 4 Il comportamento di Nikolić, incompatibile con il decoro del servizio e l’essere stato processato per le sue posizioni politiche dagli organi austriaci e austro-ungarici avrebbero potuto causare la confisca dei suoi fascicoli personali, sia presso l’Università di Padova che presso l’apparato burocratico austro-ungarico in Dalmazia, e questo spiegherebbe anche la mancanza di dati precisi sul conseguimento del titolo universitario da parte di Nikolić. 5 Concludendo, propongo qui i dati biografici fondamentali così come suπragati dalla documentazione archivistica: Giovanni Nikolić (1822, Traù-1902, Zara), traduttore e poeta d’occasione dalmata. Nell’anno accademico 1841-1842 si iscrive alla Facoltà politicolegale dell’Università di Padova, dove frequenta i primi tre anni del corso di studi e probabilmente anche il quarto, anche se non ci sono dati certi relativi al conseguimento del titolo legale. In seguito agli studi padovani, ha lavorato come impiegato nell’amministrazione austriaca delle città di Pago e Ragusa. Dopo essere stato collocato al riposo dall’impiego, si è dedicato con maggiore dedizione al lavoro di traduttore, pubblicando anche alcuni componimenti di produzione propria su giornali e riviste dalmate.  









1

  hr-hda-73, Carsko kraljevsko Ministarstvo pravosuđa, kutija 51.   hr-dazd-88, Vlada za Dalmaciju, ii/4, 1854, 210. 3   Ivi, 35. Dalla corrispondenza u√ciale si scopre che in mancanza di prove concrete Nikolić fu assolto, ma che fu raccomandato il suo allontanamento da Pago e la sua collocazione in un’altra sede. 4   Stijepo Obad, Preporodni spis…, cit., p. 651. 5   Per confermare questa ipotesi, si ritengono necessarie ulteriori ricerche presso gli archivi di Ragusa e Vienna. 2

«IL MIO ROMANZO ENCICLOPEDICO». TOMMASEO E LA TENSIONE ALL’ENCICLOPEDISMO Valter Boggione «Prego a San Rocco. Mi si scopre a un tratto dietro l’altare il crocefisso, e mi commove d’aπetto. Sento il Buchez; e in ascoltarlo penso, all’incontrario delle idee di lui, una nuova forma di tempio cristiano; e al mio romanzo enciclopedico» (NT, vol. ii, p. 742). 1  

È

una nota del Diario intimo, datata 8 febbraio 1835. È di√cile dire, a quell’altezza, a che opera Tommaseo intenda riferirsi: certo non al Duca d’Atene, che uscirà a Parigi da Baudry nel 1837. Fede e bellezza, d’altra parte, è ancora lontana: il secondo libro è compiuto all’altezza del 28 settembre 1838. Eppure c’è, in mezzo, un’altra nota, che può aiutare a capire. Mi riferisco ai Propositi del dì 23 maggio 1838:

Bagno nella Loira. I. Epopea drammatica in tre parti: da Adamo all’Annunziazione; dall’Annunziazione alla morte di Giovanni l’Apostolo; dalla morte di Giovanni l’Apostolo alla morte di Luigi Filippo. II. Commedia: la vita. III. Romanzo – Cento amori congegnati insieme e ordinati. IV. Una tragedia delle solite: Alessandro sesto. V. Commedia delle solite: la polizia. VI. Romanzo de’ soliti: una peccatrice. VII. Dramma per musica: la lega lombarda. Signore, datemi purità VIII. Poema descrivente una terra nuova – La famiglia – La Repubblica – La Chiesa – In prosa. IX. Poema de’ soprannaturali. (NT, p. 797).

Il «romanzo enciclopedico» del ’35 ha lasciato il posto a un’infinità di altri progetti. Ma l’idea di enciclopedismo non solo non è venuta meno, si è raπorzata. Innanzi tutto, è implicita nell’ambizione a praticare tutti i generi letterari, dall’epopea alla commedia alla tragedia al dramma per musica al romanzo al poema. Ci sono, numerosi, generi che Tommaseo non sperimenterà mai, mentre ne mancano altri importanti. In particolare, manca la poesia lirica, ampiamente pratica per tutta la vita, che è il genere dell’occasionalità, del frammento, mentre ci sono ben due poemi, a testimoniare un’ambizione che non sarà mai compiutamente realizzata (e il poema è, in virtù dell’archetipo dantesco, il genere enciclopedico per eccellenza). Ma proprio per questo il piano di lavoro è ancora più significativo: perché non riflette una pratica, ma un’idea di letteratura, che va al di là delle realizzazioni concrete e parziali. Il discorso non cambia se dal complesso delle opere passiamo ai singoli progetti. L’epopea ambisce a coprire l’intera storia dell’umanità, dalle origini al mondo contemporaneo. Il romanzo prevede «cento amori»: dove cento è il numero della totalità, il numero dei canti della Commedia e delle novelle del Decameron. Né mi pare senza significato il fatto che, dopo la ricapitolazione della storia dell’umanità, si muova dalla vita («Commedia: 1   Tutte le citazioni saranno tratte da Niccolò Tommaseo, Opere, a cura di Mario Puppo, Firenze, Sansoni, 1968 (indicato con la sigla NT).

valter boggione 128 la vita)», vista nella sua dimensione ricorrente di caduta, colpa e peccato, valida per tutti gli uomini di tutti i tempi («Una tragedia delle solite: Alessandro sesto», «Commedia delle solite: la polizia», «Romanzo de’ soliti: 1 una peccatrice»), verso una prospettiva metafisica, di renovatio: il «Poema descrivente una terra nuova», la terra nuova dell’Apocalisse, in cui dovrebbero trovare posto le tre fondamentali istituzioni – la famiglia, la Repubblica, la Chiesa – cristianamente riformate. Ma che cos’è, precisamente, l’enciclopedismo per Tommaseo? Quali implicazioni riveste? Per rispondere, possiamo far ricorso alla definizione, illuminante, che della voce Enciclopedia è data nel Dizionario:  

enciclopedia. S.f. Alla lett. Educazione o Ammaestramento circolare, ove le dottrine hanno un centro comune, a cui mettono tutti i raggi. […] Le idee di comunanza, d’universalità, d’interezza, che sono in questa parola, dimostrano come all’Enciclopedia vera debba tendere la scienza, non la possa mai quaggiù conseguire. […] 3. Non di tutto il sapere, ma d’una serie importante di dottrine, in quanto ordinate tra sé, e ridotte a unità. […] – Enciclopedia dantesca fu detta la Serie delle dottrine svolte o accennate nel Poema di Dante, e dalla fede e dall’aπetto unificate nella mente di lui. 4. L’opera che tratta in questo rispetto le umane cognizioni. […] Usciva in Francia un giornale, L’Enciclopedia Cattolica, a dimostrare l’unità delle scienze e delle arti, d’ogni verità e bellezza e bontà nella fede. Meglio che trattando tutte le materie dello scibile (cosa impossibile in un’opera sola, per grande che sia), meriterebbe questo nome un lavoro che delle parti varie dello scibile facesse sentire le manifeste e latenti armonie. Questa sarebbe educazione davvero: ma l’ammaestramento oggidì moltiplica le materie disagregate, e annulla la forma vivificante. 2  

Vediamone gli aspetti fondamentali. Innanzi tutto, Tommaseo riconduce il termine all’etimo greco, associandolo all’idea di circolarità. Perché sussista un sapere enciclopedico, dev’esserci dunque un centro intorno al quale le diverse discipline e conoscenze ruotano. Questo centro, pur non esplicitamente indicato, in un testo di carattere ‘scientifico’ come il Dizionario, nella prospettiva del cattolico Tommaseo non può che essere Cristo: lo si può desumere dalla celebrazione dell’Enciclopedia Cattolica, che dimostra come l’unità sia fondata «nella fede», nonché dalla conclusiva «forma vivificante» che è lo «spiritus vitae» di Rom. 8, 2. In quanto tendente al centro che è Cristo, in cui solo la totalità del sapere si concentra e si riassume, l’enciclopedismo non è realizzabile sulla terra, ma è un’aspirazione. Sono però possibili forme più circoscritte di sapere che meritano l’attributo di enciclopedie: l’aspetto fondamentale, in questo caso, non è rappresentato dalla globalità, ma dalla sistematicità. Il modello esemplare di questo modo di interpretare l’enciclopedismo è riconosciuto nella Commedia dantesca. La sola, autentica opera enciclopedica è quella che, rinunciando all’impossibile ambizione della totalità dello scibile, fa tuttavia «sentire le manifeste e latenti armonie» che sussistono tra le varie parti del mondo: perché di enciclopedia si possa parlare, tra la globalità e l’organicità, la presenza di un sistema armonico di relazioni, è decisamente più importante, fondamentale, il secondo termine. Tutto questo, poi, ha una precisa finalità didascalica: tende a un’educazione che non è un insieme di conoscenze staccate, tecniche, finalizzate alla pratica, ma intuizione complessiva della vita e del mondo. A questo punto, il passaggio – nella prima nota del Diario citata – dalla contemplazione del crocefisso all’idea del «suo romanzo enciclopedico» non è più casuale: il sopraggiungere improvviso di un pensiero diverso. È un movimento naturale, necessario: dal centro in cui l’unità si fonda all’opera che da quell’unità si origina e fa sentire agli altri. Non sfugga come l’immagine della «commozione d’aπetto» suscitata dal crocefisso trovi 1

  Miei i corsivi.   Niccolò Tommaseo, Dizionario, ristampa anastatica, Milano, Rizzoli, 1977.

2

tommaseo e la tensione all’enciclopedismo

129 un corrispettivo anche linguistico nella definizione del poema di Dante come insieme delle dottrine «dalla fede e dall’aπetto unificate nella mente di lui». Quanto ai Propositi, è chiaramente improntato a quest’idea di enciclopedismo il progetto di un’epopea drammatica che riassuma la storia intorno al punto centrale e fondamentale dell’incarnazione; ma anche l’altro progetto di romanzo, non soltanto per il numero – cento – degli amori, quanto soprattutto perché tali amori debbono essere «congegnati insieme e ordinati» (e si ricordino le parole del dizionario: «una serie importante di dottrine, in quanto ordinate tra sé, e ridotte a unità»). A questo punto è lecito domandarsi: già pensava, Tommaseo, scrivendo del «suo romanzo enciclopedico», a Fede e bellezza? All’altezza del 1835, non credo. E tuttavia il passaggio da quello ai «cento amori congegnati insieme e ordinati» e infine a Fede e bellezza non si può più ritenere episodico, rappresenta uno sviluppo lineare, coerente. Fede e bellezza è un romanzo enciclopedico. Mi rendo conto che una simile aπermazione può suscitare resistenze, perfino incredulità: nell’opera si è riconosciuto di volta in volta la tensione al superamento delle forme narrative tradizionali per il frammento lirico o il prototipo del romanzo psicologico moderno. Il libro iniziale e quello finale dell’opera hanno una struttura circolare, al cui centro sta il messaggio cristiano. Il primo libro si apre e si chiude su una gita in barca, che muove dalle acque chiuse e protette dell’Odet verso l’‘alto’, il mare aperto. Il valore simbolico, di allegoria del viaggio che è la vita umana, è evidente. L’immagine del viaggio per acqua trama a più riprese il testo, e svela la sua origine dantesca in un passo del quarto libro, dov’è riferita a Maria: «Quietata nel pensiero della vinta burrasca, nell’avvenire non sapeva a√sarsi. Così navicella raccolta in porto, si gode di breve calma, intanto che il mare e il cielo preparano a lei, rinavigatura, tempeste» (NT, p. 595). La ripresa riguarda un solo termine, ma troppo connotato per essere casuale: la «navicella raccolta in porto» dopo la tempesta è la dantesca «navicella» dell’ingegno «che lascia dietro a sé mar sì crudele». Ma tutto il romanzo è trapunto di citazioni dantesche. Tommaseo suggerisce al lettore la necessità di leggere l’opera, del resto strutturata secondo un itinerario di caduta, pentimento ed espiazione, come una moderna Commedia: viaggio non attraverso il mistero di Dio, ma attraverso il mistero dell’animo umano; viaggio non lineare, ma segnato da ricadute e rinnovati pentimenti. Come nella Commedia, l’esperienza individuale dei due personaggi si configura come modello esemplare per l’esistenza di ogni uomo. L’ultimo libro è incorniciato tra una Pasqua che assume per Giovanni disperato il carattere di rinascita a vita nuova, dopo l’incontro con il prete di Pontcroix («Andò, fatto Pasqua, Giovanni a trovarlo», NT, p. 622), e un Natale – nascita alla vita nuova dell’aldilà – che comporta per Maria il passaggio attraverso la Passione e morte pasquale («Padre mio, è giunta l’ora», NT, p. 649). Fede e bellezza si propone come il bilancio complessivo di due esistenze complementari, non nella forma della somma – impossibile – di tutti gli elementi, ma in quella del di√cile tentativo di rivelarne l’intima armonia: «le parole significano alla meglio i sentimenti a uno a uno; non il complesso loro, il contrasto: e in quel complesso è la vita, in quel contrasto il mistero dell’anima» (NT, p. 542). Anche il titolo, allora, è in questo senso significativo: fede e bellezza non sono due alternative che si escludono, ma reciprocamente si illuminano e si completano. Non sono un’antitesi, ma una sintesi. Si ricordino le parole del Dizionario: «dimostrare l’unità […] d’ogni verità e bellezza e bontà nella fede». In quest’ottica si debbono leggere anche i nomi dei due protagonisti, che esprimono un’analoga tensione alla ricomposizione dei contrasti. Giovanni, con la sua sequenza di conquiste femminili («Amore di donna […] non lo poteva mai, neppure nella prima

valter boggione 130 ebbrezza, occupar tutto quanto», NT, p. 599), è il tipo del don Giovanni, che nella riacquistata pace, nel candore ritrovato di Maria (analogo a quello della Vergine) trova il necessario completamento. Ma Maria, con gli innumerevoli traviamenti giovanili, è anche la Maddalena, alla cui Passione Giovanni, il discepolo prediletto che accompagna Cristo ai piedi della croce, assiste. Con questo, è inevitabile fare il conto con un altro concetto, a√ne all’enciclopedismo ma anche da esso ben distinto, e cioè il dongiovannismo. L’enciclopedismo implica la sintesi; il dongiovanni non riesce a trovarla. E c’è in Giovanni un’attitudine a passare senza fine da un amore all’altro, da un’attività all’altra, da un libro all’altro, che fatica a pacificarsi. Leggiamo la pagina del romanzo in cui sono descritti i suoi studi in Corsica (dove, ancora, si segnalano le metafore del ‘navigare’ e di ‘tutto l’oceano’): In Corsica ripres’egli gli svariati suoi studi: ché da un concetto filosofico gli era sollievo passare a una distinzione di vocaboli a√ni, e da un frammento di storia a una varia lezione di codice antico, e da un padre della Chiesa a una locuzione mancante alla Crusca. Scriveva una preghiera a Dio, e un ragionamento sul bello; da un discorso politico correva a un frammento di Saπo, da una lettera teologica a un’ode […]. Ma gli doleva […] non poter navigare sicuro per tutto l’oceano della storia, non poter tentare le aπannose dolcezze della pratica vita (NT, p. 607).

Vale anche per Tommaseo: si pensi all’interminabile sequenza di «ho peccato» nelle pagine del Diario intimo, seguiti da nomi femminili sempre diversi; all’elenco dei libri letti, anche dieci nella stessa giornata, di carattere e di tono completamente diverso tra loro; alle innumerevoli opere composte; al gusto collezionistico delle parole. Ma il dongiovannismo non è passivamente accettato nelle sue potenzialità disgregatrici. Controllato, può rappresentare una forza positiva, la tensione a quella sintesi enciclopedica che in terra non può realizzarsi. Per questo, deve riscattare quanto ha in sé di episodico, di incostante, di incontrollato. Si pensi alle parole di Giovanni che concludono la galleria delle sue donne: «Varietà tremenda, tremenda unità» (NT, p. 554); e ancora: «siate tutte, o aπetti senza nome, in un aπetto rinvolti e in un pentimento» (NT, p. 555). Dagli ‘aπetti’ all’‘aπetto’, attraverso il ‘pentimento’, con in più l’uso pregnante, alla latina, dell’indefinito ‘uno’; dagli amori all’Amore. Vale, questo, non per le donne soltanto, ma anche per gli altri amori di Tommaseo. Prendiamo le parole. Il Dizionario come Tommaseo lo concepisce non è un elenco di termini separati e collezionisticamente posti uno dietro l’altro. Certo, il lessicografo non può rinunciare all’ordine alfabetico: ma ogni volta si preoccupa di precisare il significato dei singoli lemmi in relazione con i loro sinonimi, antonimi, iperonimi, iponimi. Sicché alla fine siamo di fronte a una mappa del linguaggio umano, a una storia coerente della cultura e della vita umana condotta attraverso le parole. Ma pensiamo anche alla riflessione teorica sulla lingua. Mi limito a una nota esemplare, ancora dal Diario intimo: «Le perfezioni sparse delle varie lingue e dialetti, in uno stato di nuova civiltà si uniranno. La lingua vera sarà più analitica insieme e più sintetica di quel che non è» (NT, p. 784). Un discorso analogo si deve fare per la varietà delle strutture. Il racconto della propria vita da parte di Maria ha la forma del romanzo autobiografico in prima persona, quello di Giovanni del diario, nel seguito il racconto in terza persona è interrotto da lettere e da lunghi brani dialogici, prima della conclusione compaiono persino delle sestine. È ormai invalso, per definire questo aspetto della produzione di Tommaseo, l’uso del termine sperimentalismo. In realtà, se esso è tutto sommato appropriato nel descrivere i risultati, è ambiguo in relazione all’atteggiamento dello scrittore. Anche in questo caso si procede per accumulo, non per sperimentazione di forme originali. Tommaseo accoglie in un unico romanzo tutte le possibilità oπerte dal genere, ma – come per la galleria dei ritratti femminili, volti diversi che formano un unico volto – le coniuga all’insegna di

tommaseo e la tensione all’enciclopedismo

131 una sostanziale identità: identità assicurata dalla prospettiva postuma della scrittura e dal costante carattere di confessione, che sempre più assume nel corso della narrazione un aspetto sacramentale. Che anche lo sperimentalismo sia in realtà questione di enciclopedismo dimostrano con chiarezza le poesie. Tommaseo impiega nella raccolta una varietà incredibile di schemi metrici diversi. Perché, allora, non mi sembra del tutto corretto parlare di sperimentalismo? Perché, se si escludono casi rarissimi, tutti quei metri sono già stati sperimentati da altri, e Tommaseo si limita a riproporli. Perché non viene mai meno il legame tra il metro e la materia. Per prendere un caso limite, anche quando Tommaseo arriva ad includere nelle poesie un testo in prosa, e per un attimo si prova un senso di vertigine, come di fronte a un petit poème en prose nostrano, un istante di riflessione basta a ricondurci alla realtà. Siamo di fronte a una Preghiera in prosa dedicata a San Michele, che denuncia senza possibilità di equivoco la propria derivazione dalla prosa ritmica assonanzata della poesia religiosa delle origini, a imitazione dei salmi. Così, gli esametri precarducciani di Voluttà e rimorso sono impiegati per rappresentare le vicende dell’Elena classica, l’ottava della ballata romantica accompagna la storia medievale della Contessa Matilde, il polimetro di Odio e amore rappresenta in forme da melodramma la morte di due giovani amanti separati dalle discordie cittadine. Lo sguardo non è rivolto in avanti, ma all’indietro. Non è sperimentalismo, ma collezionismo di tutte le forme sperimentate dalla tradizione. Anche nelle poesie, tuttavia, quella che appare quasi una mania compulsiva si rivela tensione enciclopedica alla ricomposizione. Si pensi, nella prima raccolta poetica, Confessioni, alla sequenza «Ad una», «Ad altra», «Ad altra», ecc., fino al conclusivo «Tutte»: espressione di una stessa vicenda di «Aπetti», «errore», «ravvedimento» (come recita nella versione definitiva il titolo del componimento d’apertura), in cui a mutare sono soltanto gli attributi esteriori della donna (A giovanetta, A donna povera, A fanciulla ricca, ecc.). Si pensi soprattutto al disegno sotteso alla raccolta ultima, dove la molteplicità dei temi e dei metri si compone in un disegno ascensionale quanto mai evidente. La prima sezione è dedicata ai versi di carattere politico. Nella seconda sono rifusi i testi delle Confessioni, in un ideale percorso dalla caduta, al pentimento, all’espiazione e infine alla salvezza. La terza raccoglie testi che celebrano i valori e le istituzioni fondanti (l’Umanità, la Patria, soprattutto la Fede e la Chiesa). La vita dell’anima rinnovata dal perdono divino è al centro della quarta sezione. La quinta chiude la raccolta con la lode a Dio per le sue creature. L’a√nità con lo schema sotteso al piano di lavoro citato all’inizio è così evidente da non meritare commenti. Soprattutto in quest’ultima parte l’enciclopedismo si configura esattamente nei modi indicati nel Dizionario. Già l’elenco dei titoli chiarisce tale volontà programmatica: Alla terra, Al mare, La luce, I colori, Le forme, giù giù fino ai Contagi e Gli imponderabili. Siamo di fronte alla volontà di racchiudere nella misura del verso, se non tutti gli aspetti del mondo creato, per lo meno il disegno armonico a essi sotteso. Andiamo avanti: Armonia delle cose, Gradi degli enti, Unità, fino al conclusivo La creazione e la redenzione diπusa, che ha per sottotitolo I mondi: l’unità delle forze. Nell’Intero soprattutto, dalla ra√nata struttura speculare, la tensione tra molteplicità e unità, tra frammento e infinito, si compone in un disegno tanto complesso quanto armonico, a esprimere le «manifeste e latenti armonie» del creato. Qui davvero il cristianesimo si configura come religione della sintesi. Di conseguenza, la letteratura che al cristianesimo si ispira non può che tendere alla ricapitolazione enciclopedica a fine didascalico, allo svelamento del sistema armonico di relazioni che sussiste tra i diversi aspetti della realtà, in quanto recanti il comune sigillo della creazione e la traccia fisica dell’opera redentrice di Cristo. La concordia discors classica diventa una

valter boggione 132 sol cosa con la varietà paolina dei carismi, per eπetto della quale la molteplicità si rivela come un aspetto dell’unità. L’enciclopedismo arido, che procede alla moltiplicazione delle materie disaggregate, lascia il posto al vero enciclopedismo cristiano, pervaso della «forma vivificante» dello Spirito: «Divisiones vero gratiarum sunt, idem autem Spiritus: et divisiones ministrationum sunt, idem autem Dominus; et divisiones operationum sunt, idem vero Deus qui operatur omnia in omnibus» (1 Cor. 12, 4-6). Siamo a un convegno sulla letteratura dalmata. C’entra, con tutto questo, l’origine dalmata? Non amo molto l’approccio psicanalitico alla letteratura, e non vorrei chiudere facendo dello psicologismo d’accatto. Eppure mi sento di dire che lo sradicamento adolescenziale dalla terra dalmata, dalla culla delle origini, dall’alvo materno, mai totalmente superato anche per la dolorosa consapevolezza del dissolversi di quel mondo nella sua identità politica e culturale, oltre che biografica, ha un peso decisivo nella tensione all’enciclopedismo. Del resto, anche la psicologia da rotocalco ci insegna che il don Giovanni compensa nel collezionismo degli amori una frattura non superata nel rapporto con la madre. Alla madre è dedicato Fede e bellezza. Ma soprattutto i Propositi enciclopedici citati all’inizio sono preceduti, nel Diario intimo, da tre note relative al sogno del ritorno a casa (immaginato come viaggio per mare) e alla scoperta, ancor più dolorosa in quanto avvertita come colpevole, della morte della madre. L’enciclopedismo, nel suo configurarsi come tensione irrealizzabile compiutamente sulla terra, ma capace di riscattare con il sentimento dell’armonia delle cose le contraddizioni e le fratture, diventa il necessario approdo per chi cerca un’identità unitaria tra i frammenti spezzati del proprio io, la compensazione – religiosa, ideologica e letteraria – dell’attitudine del don Giovanni, alla quale pure Tommaseo non riesce mai fino in fondo a rinunciare.

CARLO CATTANEO RECENSORE DI FEDE E BELLEZZA Francesca Geymonat

D

elle recensioni apparse nel 1840 a ridosso del romanzo di Tommaseo, quella di Cattaneo ha avuto lunga eco: severamente sarcastica, comparve nel fascicolo d’agosto di «Il Politecnico» e nel 1846 confluì, ritoccata, negli Scritti raccolti da Cattaneo, dai quali si cita. 1 La sua notorietà si deve alla critica del toscanismo ostentato nel romanzo, e alla caricatura dei due protagonisti. Dei toscanismi si usa ricordare «dàddoli» ‘moine’ (FeB, p. 70), che sostituisce «delicatezze intime» quando i paragrafi iniziali del romanzo, usciti in anteprima nel 1839, ricompaiono nella princeps, disponibile il 22 marzo 1840 (FeB, pp. 48-49). 2 Nella seconda pagina della recensione Cattaneo apre infatti con «dàddoli» l’elenco di riboboli:  



Noi per certo vorremmo piuttosto tradurre una pàgina di Plàuto, che scommèttere d’indovinar sempre che cosa sìano i dàddoli, e le tetta, e le pezzolate, e il damo, [+ e il codrione,] e il coso, e il viso ammencito, e la donna guitta, e la madre sgargiante, e la fanciulla malita, e le lettere giucche, [+ e i letterati matterugi,] e l’impiegato tarpano e favetta, e la gente trincata, [+ e il vaso incrinato,] e la natura improsciuttita, e l’ànima che aleggia, e poi s’accascia, e grùfola più bestialmente che mai. Dio buono! […] Quale invasione di bàrbari è codesta? Qual ribellione di ortolane e di pettègole e di raccattoni da Fièsole e da Camàldoli [< Pescia] contro la lingua d’una nazione, contro il solo vìncolo della vita e del nome commune? Per fermo quest’è òpera di tènebre e di confusione, contro la quale parlar dovrebbe chiunque ha caro questo prezioso patrimonio dei pòveri e dei ricchi, dei dotti e del vulgo, la lingua, la lingua, che, più dell’alpi inùtili e del mare non nostro, segna il confine e la divisa della nostra gloriosa nazione (AS, pp. 90-91 < Pol, pp. 167-168).

L’elenco comprende «tetta» ‘tetti’, «pezzolate» ‘quantità di roba trasportabile in un pezzo di stoπa’, «damo» ‘corteggiatore’, «coso» ‘tipo’, «ammencito» ‘avvizzito’, «guitta» ‘miserabile’, «sgargiante», «malita» ‘malaticcia’, «giucche» ‘stonate’, «tarpano» ‘ottuso’, «favetta» ‘saccente’, «trincata» ‘furba’, «improsciuttita» ‘rinsecchita’ (realiter «rimprosciuttita»: FeB, pp. 209, 87, 85 e passim, 90 e passim, 118, 87, 93, 100, 158, 135, 200, 106, 181). Ne «Il Politecnico» erano menzionati anche «codrione» ‘coda d’uccello’, «matterugi» ‘scimuniti’ e «vaso incrinato» (Pol, p. 167: FeB, pp. 181, 104, 110), ma «codrione» è cassato da Tommaseo già nella seconda edizione del romanzo, del dicembre 1840 (= FeB2), dove anche «coso» è sostituito da «costui». Il commento di Cattaneo rivela però che la recensione mira ad altro, proseguendo così: Queste parole vostre, che andate con tanto studio razzolando lungo i pagliài di Val d’Elsa o dentro gli ossarii della Crusca, quando son èlleno nate? Se vivèvano già nei giorni di Dante [+ e d’Ariosto], e perché non fùrono […] festeggiate con unànime adozione da tutta l’Italia? Non vedete in questo rifiuto di sei sècoli il loro destino pel sècolo presente e pei futuri? E se sono nate ieri, oggi, come i 1   Carlo Cattaneo, Fede e Bellezza, di Nicolò Tommaseo. Venezia, Gondoliere, 1840, «Il Politecnico», iii, 14, 1840, pp. 166-176 (= Pol), poi in Idem, Alcuni scritti, Milano, Borroni e Scotti, 1846, i, pp. 89-99 (= AS); tra parentesi quadra si segnalano varianti della prima edizione. 2   I rinvii sono a Niccolò Tommaseo, Fede e bellezza, edizione critica, introduzione e commento a cura di Fabio Danelon, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1996 (= FeB); l’anteprima in La viola del pensiero. Miscellanea di letteratura morale, Livorno, Fratelli Sardi, 1839, pp. 169-175, è ivi riprodotta alle pp. 247-250; ne dà notizia anche Niccolò Tommaseo, Fede e bellezza, a cura di Donatella Martinelli, Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, 1997, p. lxxxix (= DM), che si raccomanda per l’annotazione.

francesca geymonat

134

funghi e le muπe, lasciàtele dove stanno; che la nostra lingua è cosa fatta, grazie a Dio, non cosa da fare. Ciò che manca alla lingua italiana non è per fermo la copia dei vocaboli, chè ne abbiamo per mala ventura da farne tre lingue […] Ciò che manca all’Italia, e per colpa di chi troppo sa, non di chi sà poco, è il modo sicuro e fermo e concorde ed uno di valersi della lingua. Siamo per questa parte ancora ai tempi bàrbari, quando ogni baroncello batteva la sua moneta, e tutti gareggiàvano a bàtterla più bassa e più falsa (AS, p. 91 < Pol, p. 168).

L’elenco di toscanismi è chiuso da una citazione estesa: «l’ànima che aleggia, e poi s’accascia, e grùfola più bestialmente che mai» (ritocca FeB, p. 113); è un autoritratto del protagonista che infastidisce Cattaneo, il quale ripete la frase per chiudere le critiche contenutistiche nella seconda parte della recensione: Intanto l’ingegno di Giovanni «sente di salire; e sale! Ma l’ànima aleggia a momenti, poi s’accascia, e grùfola più bestialmente che mai.» E nulla di meno egli esclama: «che gioia dell’èssere sì caro a Dio? Son io degno d’annunciare [< annunziare] agli uòmini il vero?» E noi gli diciamo di no! […] gliel diciamo a nome anche dell’anno presente, che non è tempo di tanta melensàggine da meravigliare queste miserie d’una smisurata e depravata vanità (AS, p. 97: FeB, p. 113).

Se qui il fastidio è di gusto, poco oltre Cattaneo assume il tono paritario del coetaneo: 1  

Le cose che Nicolò racconta di Giovanni si assomìgliano a quelle che Nicolò venne altre volte qua e là narrando di sè medèsimo; laonde, chi non avesse memoria fedele e pronto discernimento, oramài mal saprebbe se si parli di Giovanni o di Nicolò. E noi, che non amiamo mescolarci nei diritti del vìvere privato, eviteremo del tutto questa ricerca; e diremo solo che il mal esempio di queste leggerezze non può perdonarsi a scrittore, che, per aver fatto libri di scuola, è notìssimo alla gioventù (AS, p. 98).

Valore educativo del lavoro intellettuale: Cattaneo, fresco di quindici anni di insegnamento, accenna alla produzione dantesca di Tommaseo (il commento alla Commedia uscì la prima volta a Venezia nel 1837) e al Dizionario dei sinonimi, uscito nel 1830. 2 Parla da lettore esperto, capace di riconoscere «l’ingegno», l’«arte e la novità di certe descrizioni» che «sono la miglior parte del libro» (AS, p. 98), anche perché in esse «lo stile […] lascia le squisite rozzezze del dialetto rùstico per riaccostarsi alla schietta eleganza della lingua commune» (AS, p. 98 < Pol, p. 175); dove «rozzezze» ed «eleganza» acquistano gli aggettivi «squisite» e «schietta» solo nella raccolta in volume, con polemica linguistica insistita. 3 Il piacere letterario e l’impegno didattico non esimono dalla consapevolezza del proprio ruolo civile. Una posizione che non stupisce in chi ha avviato una rivista d’alta divulgazione (la prima serie de «Il Politecnico» esce dal 1839 al 1844), aspira a diventare membro dell’Istituto Lombardo (vi sarà ammesso nel 1843), sarà segretario della Società d’incoraggiamento delle arti e dei mestieri (dal 1845). Coerente con questa scelta di campo la reazione al misconoscimento di Foscolo da parte di Tommaseo; alla fine della recensione Cattaneo denuncia: «Ciò che v’ha di meglio nel suo stile è certamente e assolutamente della scuola di Fòscolo, quantunque egli faccia di tutto per dissimulare e rinegare il possente e indelèbile modello della sua gioventù, e dica ingratamente che la roba foscolesca è pagana e carnale» (AS, p. 98: FeB, p. 100); anche qui i toni si sono alzati  



1   Riferendosi a quel che Tommaseo narra nelle Confessioni (1836) e nelle Memorie poetiche (1838): DM, p. lxvii, e l’intera Nota biografica (pp. lxiii-lxix). 2   La biografia di Cattaneo in Ernesto Sestan, Cattaneo, Carlo, in Dizionario Biografico degli Italiani, xxii, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, pp. 422-439. 3   Lodano le descrizioni anche Luigi Carrer, “Fede e bellezza” di Niccolò Tommaseo, in Idem, Scritti critici, a cura di Giovanni Gambarin, Bari, Laterza, 1969, pp. 374-385, a p. 377 (l’articolo era apparso nella rivista «Il Gondoliere» nel 1840), e Gianfranco Contini, Progetto per un ritratto di Niccolò Tommaseo (1947), in Idem, Altri esercizî (1942-1971), Torino, Einaudi, 1972, pp. 5-24, alle pp. 18-20. Cattaneo apprezza inoltre il discorso passionale di Maria dopo la scena del duello: «Questo è un fiore; ma un fiore non fa primavera» (AS, p. 98).

carlo cattaneo recensore di fede e bellezza

135 rispetto alla primitiva versione (Pol, p. 175), dove a Foscolo Tommaseo doveva solo il «fondo» del suo stile. Il rispetto per i predecessori che sente a√ni detta a Cattaneo anche la rampogna per l’attacco di Tommaseo a Monti: «I suoi giudizi letterarii sono avventati e falsi. Dove trova egli che Monti rinegasse la fede cristiana? Certamente Monti fu dèbole in polìtica; ma Giovanni forse è senza peccato?» (AS, p. 99: FeB, p. 144). Una domanda seguita da altre in difesa di Boileau, Scribe, Béranger (AS, p. 99: FeB, pp. 138-139, 79, 88). Il dissenso è politico: se Cattaneo lavora a√nché gli italiani non restino europei di secondo rango, non può che dissentire dalle ostentazioni antifrancesi di Tommaseo, a Parigi orgoglioso della propria marginalità: Chi èsule e povero trova lavoro in un giornale francese, dove gli è fatto àdito anche a ragionar dell’Italia, con tanto di compenso da camparne la vita, e oltreciò ottiene l’incàrico d’un lavoro letterario e lucroso dalla Commissione illustratrice dei monumenti francesi, ha certamente dovere di rispòndere colla decenza a sì gentile [< delicata] ospitalità. E allora potrà, se vuole, lagnarsi tuttavìa che Lione sia città mesta […] Ma non gli è più lècito venir dicendo per le stampe che Parigi è città odiosa, e i Francesi gente ripetitrice […] che appena intèndono un libro latino […] e che le loro donne hanno soltanto più veli da gettar via, ma che infine del conto trà√cano di sè come schiave nel Brasile! Noi non siamo per fermo adoratori della nazione francese, né d’alcun’altra al mondo, e nemmeno della nostra; ma in nome della civiltà e del diritto delle genti dimandiamo, se con questi abominii è onesto che si paghi dai nostri l’ospitalità, e s’è questo commercio d’insulti e d’infamie che i pensatori viaggianti devono andar promovendo fra le nazioni più incivilite (AS, p. 99: FeB, pp. 142, 201, 94, 162, 190, 128, 107, 138).

Anche questa polemica si accentua nella riedizione in volume, dato che nel 1840 «i pensatori viaggianti» godevano della qualifica di «filosofi» (Pol, p. 176). 1 Cattaneo conosce la vita di√cile degli italiani espatriati: gliene dava notizia Giuseppe Ferrari, trasferitosi nella capitale francese dal 1838 e che in Francia avrà riconoscimenti come l’accesso alla «Revue des deux mondes» e la cattedra di filosofia a Strasburgo nell’ottobre del 1841, dalla quale sarà però destituito dopo quattro mesi per motivi ideologici. 2 Tommaseo reagì alle critiche. Nell’edizione uscita in dicembre ritoccò il giudizio di Béranger, attenuò quelli relativi alla ripetitività dei francesi e all’incompetenza nel latino, cassò quanto aveva detto dell’anima grufolante e di Parigi, espunse il paragone con le brasiliane. Senza nominarli, rispose ai censori nel 1841 in pagine delle Scintille ristampate nel 1852 all’interno della terza edizione del romanzo. 3 In quest’ultima ritoccò quanto scritto dei due lavori ottenuti in Francia, tacendo del secondo. Infine, il 9 dicembre 1851 il Diario intimo recita: «Mi fo leggere l’articolo scritto dal Cattaneo dodici anni fa contro Fede e Bellezza: ingegnoso e velenoso, che ha le sue verità; ma anche il mio libro ha la moralità sua, e migliore». 4 La morale cristiana è contrapposta alle perplessità di Cattaneo relative alla natura «forte e fruttìfera» (AS, p. 93) della fede ostentata dal titolo del romanzo:  







1   I riferimenti sono all’attività di Tommaseo nella rivista «Le Temps» e alla traduzione delle ambascerie venete «a√datagli dal Guzot su istanza del Mignet e del Fauriel»: FeB, pp. 142 e 201, DM, p. lxvii. 2   Franco Della Peruta, Ferrari, Giuseppe, in Dizionario biografico, cit., xlvi, 1996, pp. 609-615, alle pp. 609-610. Cinque lettere di Ferrari da Parigi, scritte tra agosto 1838 e giugno 1839, in Carlo Cattaneo, Carteggi, FirenzeBellinzona, Le Monnier-Casagrande, Serie ii. Lettere dei corrispondenti, a cura di Carlo Agliati, i (1820-1840), 2001, pp. 162, 177, 187, 239, 241; nella prima Ferrari tra l’altro ironizza a proposito di Terenzio Mamiani, Guglielmo Libri della Somaia e Tommaseo, anch’essi a Parigi: «L’Italie c’est moi: voilà ce que dit le grand homme né a Pesaro ou en Dalmatie ou à Florence». 3   L’autodifesa, apparsa in Niccolò Tommaseo, Scintille, Venezia, Tasso, 1841, pp. 160-165 (DM, p. lxxxviii), si legge nell’ultima versione d’autore in FeB, pp. 241-245. 4   Niccolò Tommaseo, Diario intimo, a cura di Raπaele Ciampini, Torino, Einaudi, 19463, p. 419; traggo la citazione dalla Nota al testo di DM, pp. lxxxvii-xcix, a p. xcvii, che conferma FeB, p. 58.

francesca geymonat

136

questo bell’ingegno pare stranamente traviato, e tutto fervoroso di traviare altrùi. Fede e Bellezza sono due voci nelle quali, chi altro non sapesse, a prima giunta correrebbe a sottintèndere purità immacolata. Ma che fede è questa? che fede morta, senz’òpere e senza costume? È l’istoria d’una Maria di Còrsica, pòvera vagabonda, a cui per certo noi peccatori non getteremo la pietra del farisèo; ma solo vorremmo ch’ella si facesse inanzi con altro nome più vero; a cagion d’esempio Fede e Peccati; oppure, dacchè si tratta di modello pur troppo imitàbile: Una turpe e lunga strada per trovar marito (AS, p. 92).

Nella prima versione, più benevola (Pol, p. 169), si propone «La fanciulla abbandonata» e, solo come terza ipotesi, «Una strada lunga per trovar marito»: nel 1846 sono aggiunti «turpe» e, del modello «imitàbile» oπerto dal romanzo, «pur troppo». Ma già nel 1840 le critiche al titolo compaiono fin dall’elenco di regionalismi: «E tutto questo spinaio di voci rùvide e strane e pazze in un libretto che vi si fa inanzi gentile come una fanciulla, con un frontispizio tutto sgombro e puro, e col soave tìtolo di Fede e Bellezza» (AS, p. 90). Citata la descrizione dei sentimenti contrastanti di Maria (FeB, p. 79), si commenta: «queste coserelle sono tratteggiate qui molto graziosamente; e anche in lingua italiana; e sono atti di bellezza; ma non sono atti di fede» (AS, p. 93); con parallelismo instaurato nel 1846: in rivista le «coserelle» sono «in lingua italiana; ma non sono atti di fede» (Pol, p. 170). Il 18 luglio 1840 Cristoforo Negri, giurista destinato a brillante carriera diplomatica e scientifica nel regno d’Italia, mandò un biglietto scherzoso all’amico Cattaneo a proposito degli scienziati che ne frequentano la casa e di un’occasione galante che gli si oπre (Carlo era sposato dal 1835 con la donna anglo-irlandese che gli sarà compagna di vita); il biglietto ha uno scopo preciso: «Il libro che ti accompagno sai di chi è, e poi porta il nome della gentile sua padrona. Mi disse che desideri di leggerlo, e che te lo manda. Bravo! fede e bellezza». 1 Cattaneo dunque recensì il romanzo in due settimane, e nel dissociarsi da una condanna farisaica parla da conoscitore dell’animo umano. Ma è indubbio il sarcasmo nella parte centrale della recensione, relativa ai protagonisti del romanzo: ad esempio Maria che, al conte russo dal quale è mantenuta, «per sommo di virtù cedè, non concesse, non inebriata, ma astratta. Queste distinzioni, che il mondo sèmplice non apprezza gran fatto, si spiègano sottilmente assai dall’autore; il quale pìzzica di metafisico, e fa sovente [< talora] da teòlogo: che Dio gliel perdoni» (AS, p. 93 < Pol, p. 170: FeB, p. 78); 2 Maria che, «“dopo pochi dì, pensando sul serio alla faccenda, cominciò a dire tra sè: e ora come me lo digerisco io quest’uomo?” Vedete gentilezza di modi [+ in un oracolo di lingua]!» (AS, p. 94 < Pol, p. 171: FeB, p. 79). 3 Anche queste critiche hanno aspetti linguistici: si segnalano righe nelle quali si addensano «barchetto», «casuccia», «desinarino» (AS, p. 95: FeB, p. 68); Maria che «s’inamora tosto di Giovanni, e vien pensando al sentimento nuovo, e con elegantìssima frase vi vien dicendo: “questo Italiano ora è venuto per ròmpermi le tasche davvero!”» (AS, p. 95: forzando FeB, p. 128); Giovanni «il metafìsico» il quale «ricava, che non c’è gente più grossolana della gente sensìbile, poiché, dopo straziato per vezzo il cuore altrùi, quand’e’ sèntono scalfito il proprio, bèlano! Oh qual fu il pecoraio che scoprì questa gemma delle metàfore pastorali?» (AS, p. 96: FeB, p. 101); 4 Giovanni che legge testi devozionali arcaici per «inzepparne i vocàboli nella sua prosa amorosa, della qual prosa leggeva all’ìdolo suo qualcosa. E qui si veda qual duro orecchio abbia codesto scrittore, che vi accozza ad ogni tratto le parole  







1

  Carlo Cattaneo, Carteggi, cit., p. 476.   Già in FeB2 «non inebriata ma astratta» è eliminato. 3  In FeB2 «alla faccenda» è cassato. 4   Nel 1852 Tommaseo sostituirà «grossolana» con «dura». 2

carlo cattaneo recensore di fede e bellezza

137 in così neglette assonanze, ed ora vi descrive le acque quiete, ora le erbe, che “col verde vivo avvivavano il lucicare de’ fiori”» (AS, p. 96: FeB, pp. 104 e 67). La polemica contro astrusità linguistica, sentenziosa brevità (AS, p. 98) e morale bivalente svela quanto Cattaneo si rivolgesse anche ad un altro intellettuale e scrittore, più ingombrante del giovane e foresto Tommaseo, ma che a quest’ultimo aveva dato udienza durante il soggiorno milanese di Niccolò (1824-1827). Tra la princeps di Fede e Bellezza e la comparsa della recensione di Cattaneo erano stati distribuiti a Milano i moduli per sottoscrivere l’edizione illustrata dei Promessi sposi, i cui primi sei fascicoli sarebbero apparsi in novembre. All’impresa manzoniana Cattaneo si riferisce all’inizio della recensione: 1  

Ma in Italia, nella terra della bella lingua, tra il dizionario della Crusca e quello dei sinònimi, una pàgina di romanzo è lavoro di più astrusa ragione che non un atto di tragedia od un canto d’epopèa. E nei nostri paesi còrrono formidàbili racconti di decine d’anni omericamente spese a fare un romanzo, od anche solo a premeditarne lo stile, anzi a crearlo; poichè ogni scrittore nostro è troppo grande da scrìvere come gli altri. Sarebbe come chi per fare un borsellino [+ da regalare], cominciasse a tòrcersi e tìngersi da sè le sete variopinte, e fabricarsi le stellette d’oro o le perline d’acciaio. […] da certo tempo in poi nacque la pretesa d’uno scrìvere che taluni chiàmano popolare; e con ciò intèndono una certa compostura di parole, il più delle quali non solo non è inteso da pòpolo alcuno che àbiti cinquanta miglia di paese, ma riesce assai malagèvole anche ai più studiosi (AS, p. 90 < Pol, p. 167).

Siamo alle due prime pagine della recensione. Come i concittadini, Cattaneo attende il risultato che Manzoni ha perseguito negli anni di aristocratica elaborazione della sua prosa. Ma la diπerenza sociale dei due milanesi, e la loro diversa proiezione europea, dettano al più giovane, come incipit, un lungimirante aπresco della civiltà di mercato: Un’istoria d’amore, una monografìa di passioni, è lavoro fàcile e quasi triviale in Francia, in Germania e sopra tutto in Inghilterra, dove grandi scrittori ne apèrsero per tempo il cammino, e dietro l’orme loro un’intera tribù vive descrivendo passioni, come altri vivrebbe copiando mùsica o correggendo stampe. E il mondo leggente colà consuma ogni anno una messe novella di romanzi, non altrimenti che i pacchi di guanti e le casse di tè. E la vasta ed assidua manifattura ha talmente addestrato le menti e domato la lingua, che la mìnima maestrina di pensione scriverebbe un tollerabil paio di volumi, mescolando non senza garbo quegli otto o dieci caràtteri di convenzione e quelle venti o trenta combinazioni di fatti [< d’uso], con cui si può comporre un nùmero qualunque di romanzi, a un dipresso come con un mazzo di carte o con una scàtola di scacchi si può fare un nùmero qualunque di partite. Questa specie di ricamo letterario, colorito, giusta la moda del momento, […] è òpera quasi di memoria e di poco ardimento (AS, pp. 89-90 < Pol, pp. 166-167).

Cattaneo invita le forze intellettuali a non investire in primis nella tradizione linguisticoletteraria, che rischia d’esser travolta dal nuovo commercio librario. Se la soluzione raggiunta da Manzoni si svelerà diversa dall’estremismo del discepolo dalmata, quest’ultimo riuscirà a render fertile la passione linguistica nella grande impresa del Dizionario. 1

  Com’è esplicitato in DM, p. xliv.

LE TRADUZIONI INGLESI DELLE POESIE DI NICCOLÒ TOMMASEO Sergio Portelli

L

a figura di Niccolò Tommaseo come critico e lessicografo nonché come uno dei più influenti personaggi della cultura italiana del secolo xix era riconosciuta anche oltre i confini italiani.1 Nel suo breve necrologio in occasione della scomparsa del Tommaseo, il New York Times definì l’intellettuale dalmata come «uno scrittore assai erudito e versatile, autore di varie opere che gli sono valse una importante reputazione a livello mondiale». 2 Le sue opere poetiche, invece, non hanno avuto grande fortuna nei paesi anglofoni, come testimoniato dall’esiguo numero di traduzioni in inglese pubblicate ad oggi. 3 Tuttavia, una riflessione sulle traduzioni esistenti, sui traduttori e sulla loro scelta delle poesie e delle strategie traduttive, può gettare luce sulla ricezione del Tommaseo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti dalla metà dell’Ottocento in poi. Un altro necrologio, questa volta nella rivista letteraria inglese «The Athenæum» del 16 maggio 1874, diede occasione alla pubblicazione delle prime poesie del Tommaseo in inglese. Prendendo spunto da un accenno nel necrologio alla poesia lirica giovanile dello scrittore dalmata, il poeta, pittore e traduttore Dante Gabriel Rossetti inviò al periodico la traduzione di due liriche tratte dalle Confessioni. Ad esse, Rossetti premise una breve nota nella quale spiegava il motivo per la scelta delle poesie che intendeva presentare ai lettori in omaggio alla memoria del poeta scomparso. Rossetti rilevò come tali composizioni letterarie non fossero legate agli avvenimenti del tempo, come invece ci si sarebbe potuti aspettare in quel particolare momento storico italiano. Pertanto, egli presentava ai lettori le due traduzioni come esempio della sensibilità «delicata e romantica» del Tommaseo poeta. 4 In eπetti, la scelta di Rossetti non era intesa ad illustrare le caratteristiche principali della poetica tommaseana, ma – come osserva Rodolphe Louis Mégroz – era basata unicamente sulle sue preferenze personali. 5 Come traduttore, Rossetti è noto per la sua antologia di traduzioni dei poeti italiani del Duecento e del Trecento, intitolata The Early Italian Poets e pubblicata a Londra da Smith Elder & Co. nel 1861, sebbene le prime stesure delle traduzioni risalgano agli anni 18451849. 6 La traduzione delle due poesie del Tommaseo risale allo stesso periodo, in quanto vennero realizzate entrambe nel 1848. 7 Di conseguenza, le strategie traduttive adottate da Rossetti nelle sue traduzioni dai poeti italiani medievali possono dare indicazioni attendibili su quelle adottate per le liriche del dalmata.  







  





1   Letters of Dante Gabriel Rossetti, a cura di Oswald Doughty, John Robert Wahl, Oxford, Clarendon Press, 196567, iii, p. 1294, nota 3. 2   http://query.nytimes.com/mem/archive-free/pdf?res=9D06E2D6173BEF34BC4A53DFB366838F669FDE (27 gennaio 2015). Traduzione dell’autore. 3  Cfr. Robin Healey, Italian Literature before 1900 in English Translation. An Annotated Bibliography 1929-2008, Toronto, Toronto University Press, 2011. Non risultano traduzioni successive al 2008. 4   «The Athenæum», 2433, 13 giugno 1874, p. 793. 5   Rodolphe Louis Mégroz, Dante Gabriel Rossetti. Painter Poet of Heaven in Earth, London, Faber & Gwyer, 1929, p. 230. 6   Dante Gabriel Rossetti. His Family-Letters with a Memoir, a cura di William Michael Rossetti, i, London, Ellis, 1895, p. 105. 7   The Correspondence of Dante Gabriel Rossetti 6. The Last Decade, 1873-1882, a cura di William E. Frederman, i, Woodbridge, Brewer, 2006, p. 482.

le traduzioni inglesi delle poesie di niccolò tommaseo

139 Nella prefazione alla sua antologia, Rossetti dichiara la sua preferenza per una traduzione che rispetti la metrica e il ritmo dell’originale. In ciò consiste, nella sua opinione, la fedeltà al testo di partenza, mentre la letteralità non è indispensabile. Lo scopo finale sarebbe quello di non trasformare una buona poesia in una cattiva («The life-blood of metrical translation is this commandment – that a good poem shall not be turned into a bad one»). 1 In realtà, il tentativo del traduttore di rendere la prosodia italiana in inglese si rivela molto arduo. Per rimanere il più vicino possibile al metro originale, Rossetti ricorre alla metrica inglese, sostituendo l’endecasillabo col pentametro giambico, il quinario col trimetro giambico e il settenario col tetrametro giambico, e si vede costretto a utilizzare delle rime imperfette. Sul piano del contenuto, invece, egli non esita a modificare ciò che non corrisponde alla propria sensibilità poetica. Come osserva Elisabeth Gitter: «[a]lthough Rossetti never strays far from his originals, by changing their emphasis he transforms them into Victorian poems». 2 Tali strategie sono riscontrabili anche nelle traduzioni dal Tommaseo. Nella poesia intitolata The Young Girl, che corrisponde a Ad altra, la versione integrale di A donna povera dell’edizione del 1872, il traduttore adotta il tetrametro giambico per avvicinarsi il più possibile alla lunghezza dei settenari dell’originale. Le rime sono spesso imperfette o rimerebbero se espresse secondo una pronuncia particolare, un procedimento definito dalla Gitter come l’utilizzo di «cockney rhymes». 3 L’unica divergenza significativa tra le due versioni risiede nella strofa aggiunta da Rossetti alla poesia originale. Nella quinta strofa, infatti, il traduttore espande la descrizione del carattere della ragazza a cui si rivolge il poeta. Nella versione italiana, precisamente nella terza strofa di sette versi, il poeta loda l’umiltà e la sincerità dell’amata: «Né per orgoglio indura / Né si vela il tuo core / Di bugiardo pudore» (vv. 22-4). 4 Rossetti, invece, elabora il concetto in una perifrasi che si estende per una strofa intera (vv. 25-31):  







Not thine the skill to shut The love up in thine heart, Neither to seem more tender, Less tender than thou art. Thou dost not hold apart In silence when thy joys Most long to find a voice. 5  

Egli esplicita l’elemento della tenerezza della fanciulla e dell’impeto giovanile col quale esprime le proprie emozioni, in contrasto con l’estrema sintesi del riferimento fatto dal Tommaseo. In eπetti, il traduttore pone in rilievo la giovinezza della donna – come si evidenzia anche dal titolo stesso scelto per la poesia – e non sull’autenticità dei sentimenti della giovane ed umile popolana, che è l’elemento sul quale si soπerma invece il Tommaseo tanto da chiarire il concetto nella scelta del titolo della versione abbreviata del 1872. Tale deviazione dall’originale corrisponde alla menzionata tendenza di Rossetti – rilevata dalla Gitter – a porre maggiore enfasi sugli aspetti che riteneva più congeniali al proprio temperamento di poeta, senza però scostarsi eccessivamente dalla versione 1

  Dante Gabriel Rossetti, The Early Italian Poets, London, Smith Elder & Co., 1861, p. viii.   Elisabeth G. Gitter, Rossetti’s Translations of Early Italian Lyrics, «Victorian poetry», xxii, 1974, p. 351. Per lo scarto tra la prassi e i principi nelle traduzioni di Rossetti si veda anche Franco Marucci, Dante Gabriel Rossetti traduttore e tradotto, in I Rossetti e l’Italia, a cura di Gianni Oliva, Mirco Menna, Lanciano, Carabba, 2010, pp. 193-212. 3   Elisabeth G. Gitter, op.cit., p. 351. 4   I testi delle poesie del Tommaseo sono tratti da Niccolò Tommaseo, Memorie poetiche e poesie di N. Tommaseo, Venezia, Gondoliere, 1838, pp. 383-385. 5   «The Athenæum», cit., p. 793. In seguito pubblicata in Dante Gabriel Rossetti, The Works of Dante Gabriel Rossetti, London, Ellis, 1911, p. 535.  2

sergio portelli 140 italiana fino a produrre una rottura nel ritmo e nella sequenza logica dei concetti del testo di partenza. La traduzione della seconda poesia Ad altra (A giovanetta nell’edizione del 1872), intitolata in inglese A Farewell, non presenta divergenze particolari dall’originale e segue le strategie adottate dal poeta inglese nelle sue altre traduzioni. Il traduttore, in questo caso, non aggiunge e non omette nulla, dimostrando in tal modo di ritenere che la versione originale corrisponda alla propria sensibilità poetica. Anche in questo caso, come in quello della poesia precedente, vi è una divergenza di prospettiva tra autore e traduttore messa in evidenza dalla scelta del titolo; il Tommaseo si soπerma sulla diπerenza di età tra sé e la giovane donna, tanto da intitolare il componimento A giovanetta nella versione del 1872, mentre per Rossetti è più rilevante l’addio tra i due (A Farewell, appunto), in cui il poeta prende atto dell’impossibilità della nascita di una storia d’amore con la ragazza per motivi generazionali. La scelta delle due poesie da tradurre dimostra come Rossetti si sia soπermato esclusivamente sull’aspetto romantico-sentimentale della poetica del Tommaseo, ignorando di fatto gli altri importanti aspetti che caratterizzano la poesia dello scrittore dalmata, come l’impegno civile, il rapporto tra la fede e la realtà quotidiana dell’uomo, la presenza di Dio nell’universo, il rapporto tra fede e scienza, e il mito del popolo come espressione della parte migliore dell’umanità. A Rossetti premeva riprodurre in inglese la ‘bellezza’ dell’originale, attribuendosi implicitamente il diritto di valutare esteticamente in modo soggettivo l’opera da tradurre per conto del lettore nella lingua d’arrivo. 1 Egli vedeva il testo di partenza come un oggetto di bellezza di cui appropriarsi per arricchire la cultura ricevente, magari ‘abbellendolo’ ulteriormente secondo i canoni estetici del traduttore stesso, piuttosto che della cultura d’arrivo. In questo, Rossetti era un traduttore del suo tempo, in quanto la sua attività di traduzione corrisponde al paradosso pre-raπaellita che vedeva nel testo originale un oggetto di bellezza da venerare e da presentare alla propria nazione, ma che nello stesso tempo è un tesoro che va sottoposto all’attenzione e all’ammirazione esclusiva di una ristretta schiera di lettori colti ed esteticamente ra√nati. 2 Quasi mezzo secolo dopo la pubblicazione delle traduzioni di Rossetti, la poetessa e traduttrice Lorna de’ Lucchi incluse una poesia del Tommaseo nella sua raccolta An Anthology of Italian Poems, 13th-19th Century, pubblicata nel 1922. 3 Poco si conosce della de’ Lucchi: era una donna di nazionalità inglese, nata Lorna Lancaster, che si stabilì in Italia e pubblicò diversi volumi in inglese, tra traduzioni di opere italiane e poesie proprie. L’antologia è la sua opera di maggiore successo, tanto che ebbe ben quindici edizioni tra il 1922 e il 1967. Come Rossetti, si cimentò nella traduzione delle poesie minori di Dante, pubblicandone una raccolta nel 1926. Ciò portò ad un’inevitabile paragone tra le traduzioni della de’ Lucchi e quelle del celebre pre-raπaelita. Nella sua recensione del volume della de’ Lucchi, Albert Edmund Trombly sintetizzò la diπerenza fondamentale tra le traduzioni di Rossetti e quelle della traduttrice in modo lapidario: «He makes poetry of his translations repeatedly; she rarely does with hers». 4 Rossetti, secondo Trombly, era un grande poeta che trasformava le proprie traduzioni in poesie autonome, mentre quelle della de’ Lucchi risultavano rigide e caratterizzate da un lessico aulico simile a quello di Rossetti, ma ormai divenuto arcaico e straniante.  







1   «The only true motive for putting poetry into a fresh language must be to endow a fresh nation, as much as possible, with one more possession of beauty». Dante Gabriel Rossetti, op. cit., p. viii. 2   Sui traduttori pre-raπaeliti si veda Susan Bassnett, Translation Studies, 4° ed., London-New York, Routledge, 2002, p. 71 sgg. 3   Lorna de’ Lucchi, An Anthology of Italian Poems, 13th-19th Century. Selected & Translated by Lorna de’ Lucchi, with a Preface by Professor Cesare Foligno, New York, Alfred A. Knopf, 1922. 4   Alfred Edmund Trombly, The Minor Poems of Dante by Lorna de’ Lucchi: Dante Alighieri, «Italica», iv, 1927, p. 74 (recensione).

le traduzioni inglesi delle poesie di niccolò tommaseo

141 Nella breve introduzione alla sua antologia di poeti italiani, la de’ Lucchi non fornisce indicazioni sulle proprie strategie traduttive. Lo fa invece nell’introduzione del suo volume di traduzioni da Dante, dove dichiara che intendeva coniugare l’esigenza di rimanere fedele allo ‘spirito’ del poeta con quella di mantenersi fedele al testo, aderendo alle forme metriche della versione originale. 1 Tale prospettiva strategica è riscontrabile anche nel caso della traduzione della poesia del Tommaseo Fede, speranza, amore, scelta per l’antologia di poeti italiani. 2 La de’ Lucchi non riporta né traduce il titolo della poesia, mantiene le strofe sa√che (tre pentametri e un dimetro giambico) e nel complesso rimane fedele al testo. Unica eccezione è l’interpretazione sbagliata di un’immagine nella prima strofa, in cui la traduttrice confonde un riferimento allo sguardo dell’uomo che – aiutato dalla luce del sole – arriva lontano e gli fa percepire la grandezza di Dio, fortificandone la fede, con il sole che getta il proprio sguardo oltre i fiumi e sopra i monti, un’interpretazione che di fatto impedisce al lettore di comprendere il concetto originale:  



In povera capanna amico scende Ospite il sole; e il verde, il ciel si vede: Varca i fiumi lo sguardo, i monti ascende: Ecco la Fede! 3  

La traduzione della de’ Lucchi è la seguente: The sun descendeth and sheds friendly beams On humble cot (the sky seems a blue wraith); His glance doth climb the hills and ford the streams Lo, this is Faith! 4  

Sul piano lessicale, infine, si può notare l’impiego di elementi linguistici arcaizzanti (es. la desinenza «-eth» e l’interiezione «lo») che danno alla traduzione un tono più marcato in senso aulico rispetto all’originale. In confronto con la scelta delle poesie fatta da Rossetti, quella della de’ Lucchi – benché limitata ad un solo testo – è più rappresentativa della poetica dello scrittore dalmata. Fede, speranza, amore è una poesia nella quale l’autore percepisce la presenza di Dio nella natura, uno degli aspetti salienti della poetica del Tommaseo. Tale si è dimostrato anche il convincimento di Joseph Tusiani, che incluse il componimento nella sua antologia di versi italiani intitolata From Marino to Marinetti, pubblicata nel 1974. 5 Nato nel 1924 in provincia di Foggia, Tusiani emigrò negli Stati Uniti nell’immediato dopoguerra. Stabilitosi a New York, si dedicò immediamente all’apprendimento della lingua inglese. Divenuto professore universitario, abbinò l’attività accademica ad una prolifica attività letteraria, sia come traduttore che come poeta. Oggi Tusiani è considerato uno dei più prestigiosi esponenti culturali della comunità italo-americana. 6 In oltre mezzo secolo di attività, ha tradotto molti classici italiani dal Medioevo al Novecento, oltre a versi in dialetto, in latino e anche dall’inglese in italiano. Nella sua antologia, Tusiani incluse ben sette poesie del Tommaseo, più spazio di quanto riservato a poeti più rinomati come Foscolo e Gozzano. Nella prefazione, Tusiani spiega che ogni antologia inevitabilmente riflette i gusti del compilatore, e che il suo scopo era di presentare non solo i poeti più acclamati, ma anche di introdurre ai lettori  



1

2   Ivi, pp. 74-75.   Lorna de’ Lucchi, op. cit., p. 293.   Niccolò Tommaseo, Poesie di Niccolò Tommaseo, Firenze, Successori Le Monnier, 1872, p. 207. 4   Lorna de’ Lucchi, op. cit., p. 293. 5   Joseph Tusiani, From Marino to Marinetti. An Anthology of Forty Italian Poets Translated into English Verse and with an Introduction by Joseph Tusiani, New York, Baroque, 1974. 6   http://www.centrostuditusiani.com/index.php?option=com_content&view=article&id=59:profilo-biografico&ca tid=9:uncategorised&Itemid=114 (9 febbraio 2015). 3

sergio portelli 142 anglofoni alcuni altri che meriterebbero maggiore considerazione. Tra questi ultimi, Tusiani menziona proprio il Tommaseo. 1 Più avanti, nella sua breve introduzione alle poesie del dalmata, ribadisce: «Long overshadowed by the fame of his dictionaries, Tommaseo’s poetry is deserving of a calm and serious re-evaluation. His Poesie […] combine exquisite artistry and unmistakable sincerity of feeling». 2 In un’intervista del 1975 rilasciata a Lucia Petracco Sovran sulla traduzione poetica, Tusiani aπerma che la musicalità e il ritmo dei versi sono l’elemento fondamentale da mantenere nella traduzione della poesia, ancor più della rima, in quanto «the sacrifice of the original rhythm destroys the entire structure of the poem». 3 Il traduttore di poesia dev’essere poeta egli stesso, e non può evitare di riflettere la propria personalità nei versi che traduce. Di conseguenza ogni traduzione non può che costituire una nuova poesia. Da tali premesse metodologiche, dunque, si deve partire nell’analisi delle traduzioni fatte da Tusiani dal Tommaseo. Le poesie scelte da Tusiani per la propria antologia, tra le più conosciute dello scrittore dalmata, sono tratte da tutte le sezioni dell’edizione definitiva del 1872, ad eccezione della Parte Quarta, nella quale sono raggruppati i componimenti prettamente religiosi. Dalla Parte Prima, quella in cui il Tommaseo raccoglie i versi dell’impegno civile, Tusiani include la poesia introduttiva, intitolata appunto La poesia, e un’altra dal titolo Coraggio e speranza, mentre dalla Parte Seconda traduce A una foglia e La mia lampana. Dalla Parte Terza Tusiani sceglie due componimenti, Fede, speranza, amore – già tradotta, come visto, da Lorna de’ Lucchi – e D’un quasi cieco e presso a esser vedovo. La poesia scelta dalla Parte Quinta è intitolata Le altezze. Sul piano del contenuto, le traduzioni di Tusiani seguono le versioni originali molto da vicino. Il traduttore riproduce le stesse immagini, senza intervenire sul testo di partenza attraverso aggiunte o omissioni. Tale fedeltà, tuttavia, richiedeva delle modifiche sotto l’aspetto strutturale che egli ha aπrontato secondo la strategia traduttiva da lui stesso esposta nell’intervista citata. Per mantenere inalterato il ritmo delle poesie, Tusiani ricorre al consueto accorgimento di sostituire l’endecasillabo col pentametro giambico ed il settenario col tetrametro giambico. Tuttavia, vi sono alcune eccezioni: in Poetry, ad esempio, Tusiani traspone le due quartine di settenari de La poesia in due quartine con versi di varia lunghezza, mentre in Of One Almost Blind and Soon to Be a Widower, egli sacrifica la regolarità metrica delle quartine (alternanza tetrametro-pentametro) variando la lunghezza del terzo verso delle strofe per mantenersi fedele al contenuto dell’originale italiano, le cui quartine sono composte da settenari alternati ad endecasillabi. Nel complesso, comunque, Tusiani cerca di conservare il ritmo delle poesie del Tommaseo, nonostante le costrizioni derivanti dalla sua volontà di riprodurre le immagini e certe scelte lessicali dell’originale. Meno importanza, invece, viene data alla rima, a conferma di quanto sostenuto da Tusiani nella suddetta intervista. Tutte e sette le poesie del Tommaseo hanno una rima regolare, mentre nelle traduzioni di Tusiani la rima è limitata solo ad alcuni versi (es. solo i vv. 3 e 4 di ciascuna strofa in Courage and Hope) o addirittura assente, come nel caso di To a Leaf, scritta in blank verse, e la già menzionata Of One Almost Blind and Soon to Be a Widower. Il sacrificio della rima in tali componimenti va però a vantaggio della qualità letteraria delle poesie, non solo in quanto traduzioni ma anche come testi autonomi. La sensibilità poetica di Tusiani gli ha permesso di identificare chiaramente ciò che andava reso in inglese – ritmo, concetto e immagine – mantenendosi libero da costrizioni formali che avrebbero rischiato di  





1

2   Joseph Tusiani, op. cit., p. xxxi.   Ivi, p. 200.   Lucia Petracco Sovran, Joseph Tusiani, Problems of Verse Translation from Italian into English: An Interview with Joseph Tusiani, «Italian Americana», ii, 1975, p. 37. 3

le traduzioni inglesi delle poesie di niccolò tommaseo

143 compromettere ciò che caratterizza le versioni originali, verso i quali Tusiani mostra profondo rispetto. Prodotte in tempi diversi da personaggi molto diversi tra loro, le traduzioni delle nove liriche del Tommaseo hanno avuto l’unico scopo di introdurre la figura del Tommaseo poeta ai lettori anglofoni. Tale intento divulgativo, perseguito attraverso scelte del tutto personali, era dovuto alla convinzione dei traduttori che il Tommaseo andava incluso nel ristretto novero dei poeti italiani più rappresentativi dell’Ottocento. Benché la rilevanza culturale e letteraria del Tommaseo risieda soprattutto nella sua attività di lessicografo e di critico, le traduzioni di Rossetti, della de’ Lucchi e di Tusiani costituiscono una testimonianza concreta di come – nell’arco del secolo intercorso tra la pubblicazione delle traduzioni di Rossetti e quella delle traduzioni di Tusiani – lo scrittore dalmata sia stato considerato un poeta meritevole di essere proposto all’interesse e all’apprezzamento del pubblico dei lettori della Gran Bretagna e degli Stati Uniti.

UNO SCAMBIO DI EPIGRAMMI LATINI FRA NICCOLÒ TOMMASEO E BIAGIO GHETALDI Patrizia Paradisi 1.

N

ella seconda metà del 1869 Niccolò Tommaseo decise di partecipare all’annuale concorso di poesia latina bandito dall’Accademia olandese di Amsterdam, il certamen Hoeuπtianum, col poemetto in esametri di soggetto didascalico De rerum concordia atque incrementis. L’aveva indotto a esporsi per la prima volta a un giudizio pubblico – lui ormai settantenne –, il padre Mauro Ricci delle Scuole Pie di Firenze che, dopo aver seguito il componimento nel suo stesso farsi, avrebbe voluto che «rimanesse all’Italia, per opera di lei Dalmata italiano, il primato nello scriver latino». 1 Ma il carme non superò la selezione dei giudici olandesi, e così il Ricci stesso, quasi in risarcimento della delusione fatta patire all’anziano poeta, si oπrì di stamparlo presso la tipografia dell’ordine. Ai primi di ottobre del 1870 erano già disponibili le centocinquanta copie da inviare ai latinisti italiani che Tommaseo aveva elencato al termine del fascicolo come prova «che l’Italia pur nella presente decadenza degli studii, ha scrittori e giudici tuttavia di latino da non la far arrossire, innanzi ai ragguardevoli dotti stranieri». 2 Tra questi personaggi figurava il barone raguseo Biagio Ghetaldi, al quale Tommaseo dà notizia al Ricci di avere inviato l’opuscolo con lettera del 16 ottobre 1870. Il riscontro non tardò a giungere a Firenze: il 6 novembre Tommaseo scriveva ancora al Ricci per farsi decifrare l’epigramma gratulatorio che il Ghetaldi gli aveva inviato. Ma prima di procedere, diamo qualche notizia sui rapporti pregressi dei due dalmati.  



2. Biagio Ghetaldi era nato a Ragusa il 22 dicembre 1788, pronipote del matematico Marino Ghetaldi (1566-1626), e discendente per parte di madre del poeta Pier Francesco Gondola (1588-1638). Nella sua città esercitò vari importanti u√ci pubblici (Consigliere imperiale in Dalmazia), finchè nel 1846 gli fu conferito il titolo di barone. In questo suo ruolo di Amministratore Presidenziale del Governo, ad esempio, nel 1850 si fece promotore della Società agronomica centrale di Zara. 3 Per tutta la vita coltivò la poesia latina, secondo una tradizione tipicamente ragusea ancora molto viva per tutto l’Ottocento nei cenacoli letterari, quale è dipinta da Josip Bersa (1862-1932) nel volume di memorie, uscito postumo nel 1941, Immagini e situazioni di Ragusa 1800-1880:  

Sarebbe lungo annoverare tutti i Ragusei che in quegli anni scrissero i loro testi letterari unicamente in latino e in italiano, ricordandosi solo raramente della loro materna lingua croata. Erano numerosissimi […] vivevano in un’atmosfera di idealità […]. Le loro riunioni erano i momenti più belli della loro vita; gli uni dedicavano agli altri i loro testi poetici. Ma i veri poeti, fra di loro, erano rari. Erano degli abili verseggiatori e uomini di alta cultura. Nei loro incontri si conversava quasi 1  Niccolò Tommaseo, Mauro Ricci, Carteggio dal 1860 al 1874, a cura di Vincenzo Viti, Firenze, L’Arte della Stampa, 1943, pp. 184-191. Mi permetto di rinviare al mio commento, Niccolò Tommaseo, De rerum concordia atque incrementis (Della sempre crescente armonia delle cose), a cura di Patrizia Paradisi, Bologna, Pàtron, 1998, pp. 13-19. 2   Niccolò Tommaseo, Della sempre crescente armonia delle cose. Carme latino, Firenze, Tipografia Calasanziana, 1870. 3  Cfr. Francesco de Borelli, Discorsi sull’economia rurale in Dalmazia e particolarmente nel distretto di Zadar, Zara, Battara, 1850.

uno scambio di epigrammi latini fra tommaseo e ghetaldi

145

unicamente in italiano. […] negli incontri del parroco don Ivan Stojanović con i suoi molti amici ragusei capitava spesso il barone Biagio Ghetaldi che teneva un diario intimo in distici latini e inviava epigrammi latini all’amica tedesca Ida von Duringsfeld. 1  

La tradizione del poetare in latino nel suo svolgersi fin dai secoli del Rinascimento è stata ben illustrata anche da Ildebrando Tacconi (Spalato 1888-Venezia 1973), direttore della «Rivista Dalmatica» per quasi quarant’anni (a Zara dal 1922 al 1943, poi a Venezia dal 1953 al 1969), che tuttavia, stranamente, nella sua pure informata rassegna non sembra conoscere Biagio Ghetaldi: La lingua latina, tenuta a lungo in alto pregio in tutto l’Occidente, ha avuto tradizioni particolarmente nobili in Dalmazia, dove l’uso si protrasse, nelle lettere, più a lungo che altrove, e dette pregevoli frutti, per grazia, mole e novità, quando già dovunque si era essiccata, sopraπatta dalle lingue nazionali. […] In Dalmazia si mantenne fede al latino ancora avanti nel secolo xix. […] Naturalmente, anche fra noi, come altrove, il latino fu sopraπatto dalla prepotente espansione degli idiomi nazionali, che lo sommersero; ma il suo rigoglioso fiorire, la singolare tenace resistenza, di cui esso dette prova in Dalmazia, non è senza significato e va rilevata dovutamente. 2  

Oltre alla traduzione dell’Osman (su cui si veda qui sotto al § 5), del Ghetaldi si conoscono diversi componimenti latini d’occasione, scritti in onore di vari membri della casata asburgica, per le visite in Dalmazia dell’imperatore Ferdinando I nel 1838 e di suo fratello Francesco Carlo nel 1842, 3 ancora per il compleanno dell’imperatore nel 1839, per le nozze di Francesco Giuseppe con Elisabetta di Baviera (la mitica Sissi) nel 1854, e perfino per l’attentato subito dallo stesso Francesco Giuseppe l’anno precedente, il 18 febbraio 1853, da parte di un nazionalista ungherese, a cui era miracolosamente scampato: non si può dubitare del lealismo dinastico dell’autore, prevedibile peraltro, e pienamente comprensibile considerata la sua carriera di funzionario pubblico. Su tutt’altro versante si colloca invece la traduzione latina del xxxiii canto dell’Inferno dantesco, la morte del conte Ugolino, pubblicata a Venezia nel 1864 da Piegadi in un opuscolo che ne conteneva altre di «sei celebri autori» (la traduzione in latino della Commedia è un genere ‘classico’ e assai ben rappresentato della poesia neolatina, al quale si ascrive lo stesso Tommaseo).  

3. I rapporti fra Ghetaldi e Tommaseo si collocano agli estremi delle loro vicende biografiche: a una prima fase giovanile segue un lungo silenzio di vari decenni, con una ripresa dei contatti solo negli ultimi anni di vita dei due, a cui appunto si riferiscono le relazioni oggetto del presente intervento. Si erano conosciuti a Sebenico nel 1821 in occasione di un tragico incidente, e la loro amicizia si era conservata fino al 1830 (periodo in cui Ghetaldi era stato Commissario e Capitano dell’U√cio Circolare di Zara). 4 Nel 1828 Biagio e suo cugino Sigismondo Ghetaldi-Gondola (1795-1860, podestà di Ragusa, barone dal 1845) sposarono le due sorelle Anna e Malvina Orsola Bosdari. Gli amici pubblicarono un opuscolo (in questo caso nell’insolita formula ‘due per uno’), Per le faustissime nozze de’ nobili signori Biagio de Ghetaldi e Sigismondo de Ghetaldi – Gondola con le nobili signore Anna ed Orsola de Bosdari Versi,  

1   Dubrovnačke slike i prilike, Zagreb, Tisak 1941 (cfr. Giacomo Scotti, L’autentica Ragusa dell’Ottocento, «La Voce del popolo. Quotidiano italiano dell’Istria e del Quarnero», 20 settembre 2008). 2   Contributo della Dalmazia alla vita e alla cultura italiana [1966], in Per la Dalmazia con amore e con angoscia. Tutti gli scritti editi e inediti di Ildebrando Tacconi, a cura di Vanni Tacconi, [Udine], Del Bianco, 1994, pp. 845-847 (e cfr. Vigore e vitalità della cultura latina in Dalmazia [1956], pp. 629-642). Tacconi si occupa a lungo invece di Marino Ghetaldi (Pensiero e pensatori dalmati [1942-1943], pp. 569-573) e conosce bene il poema del Gondola (pp. 859-860, 995-996; ma non i suoi traduttori), che considera freddo, artificioso e nel complesso sopravvalutato rispetto ai suoi reali valori letterari ed estetici. 3   Ma nel 1818 Ghetaldi aveva scritto in italiano l’analogo indirizzo di benvenuto Per il fausto arrivo di sua maestà Francesco I in Dalmazia. 4   Così rievocava il Ghetaldi scrivendo a Tommaseo il 14 marzo 1869.

patrizia paradisi 146 Ragusa, Martecchini, 1828. Mi soπermo su quest’episodio perché ritengo di aver fatto una piccola scoperta. Fra i componimenti in latino e croato, tutti regolarmente firmati, c’è solo un Epigramma latino che non porta alcuna firma, ma soltanto la sigla N.N. Il contenuto e lo stile mi portano a credere che sia di Tommaseo (già in precedenza, non volendo rivelarsi, aveva fatto uso di questa sigla): dieci versi finora completamente sconosciuti, di cui anche l’autore sembra avesse perso memoria (non li cita, infatti, nell’elenco delle proprie poesie latine inviato al padre rosminiano Paolo Perez nel 1865). 1 Solo sulla base di un rapporto che era stato evidentemente abbastanza intimo in quegli anni si può spiegare in eπetti il ‘ritorno di fiamma’ di Ghetaldi, la sua improvvisa riapparizione all’orizzonte di Tommaseo dopo quasi quarant’anni, sul finire degli anni Sessanta, e motivata proprio da un’impresa che ha a che fare con la poesia latina, la traduzione dell’Osman. Dopo l’invio del volume agli inizi del 1868, riprende infatti lo scambio epistolare fra i due.  

4. Ma prima di procedere mi sia consentito di riportare il testo dell’anonimo Epigramma nuziale, che propongo di attribuire a Tommaseo. Solus Amor miseris mala tot mortalibus addit Nam ferus, atque inhians ad malefacta Deus. Olli fraterno si foedere jungitur Hymen, plurima fert dulci commoda conjugio. Unanime hoc vinclum prole, et virtutibus auctum Permaneat, canis dum caput inficitur. Auguror et sobolem, magis ut patriamque, genusque Illustret, velut olim, hic socialis amor. Sic iterum dabit ista Domus Vatemque, Sophumque Eximium, et magnos ad fera bella Duces (1) (1) Qui s’intendono Gianfrancesco Gondola Autore dell’Osmanide, Marino Ghetaldi detto Bete insigne Matematico, e Francesco, Matteo, e Girolamo Gondola prodi e illustri guerrieri.

Questa la mia traduzione: Da solo, Amore causa ai miseri mortali tanti mali, infatti è un Dio crudele, e che anela a male azioni. Ma se a lui si unisce in fraterno patto Imene, al dolce matrimonio porta vantaggi grandi. Concorde e arricchito di prole e virtù rimanga questo vincolo finché il capo si tinge di bianco. Il mio augurio è che questo mutuo amore illustri la discendenza e più e più la patria e la stirpe, come un tempo. Così di nuovo codesta casata potrà dare un sommo vate, un insigne scienziato e prodi e illustri guerrieri.

Nella fin troppo evidente trama catulliana (e ovidiana) dei versi, si riconosce subito, a mio avviso, la sensibilità (autobiografica) del Tommaseo nell’esordio pessimista sui «mali» che l’amore, «dio crudele» (Ovidio, Amores, 1, 2, 6), porta agli uomini, anzi agli «infelici mortali» (eco di Virgilio, Georgiche, 3, 65), se non ‘disciplinato’ dal matrimonio («Imene»), che lo fa appunto divenire socialis amor (Ovidio, Epistulae ex Ponto, 3, 1, 73). Ma la ‘firma’ inequivocabile del Tommaseo si trova nel pentametro canis dum caput inficitur. L’indicazione della vecchiaia con il metonimico riferimento ai cani, «i capelli bianchi» rimanda infatti a un «potente» verso di Persio, 5, 65: finem animo certum miserisque viatica canis, «di quei versi che [come ebbe a scrivere molti anni dopo, a suggello della biografia – necrologio di Antonio Rosmini] sono una diretta ispirazione di Dio, e che, illustrati dall’esperienza, non si ripensano senza uno strazio confortatore». 2 Il tradizionale augurio delle nozze allietate dalla prole diventa occasione per il giovane poeta per la celebrazione  

1   Niccolò Tommaseo, Antonio Rosmini, Carteggio edito e inedito iii. Carteggio N. Tommaseo – pp. Rosminiani. Commemorazioni (1855-1873), a cura di Virgilio Messori, Milano, Marzorati, 1969, pp. 94-95. 2   Niccolò Tommaseo, De rerum concordia, cit., p. 18, n. 10.

uno scambio di epigrammi latini fra tommaseo e ghetaldi

147 delle glorie di famiglia, come non esita a chiarire – caso mai ci fossero dubbi – in apposita, esplicita nota in italiano (le uniche parole in italiano di tutta la plaquette). E anche questo non mi sembra un caso: solo nel 1826 infatti era stato pubblicato il poema epico Osman, composto in lingua croata da Gondola nella prima metà del Seicento, 1 ma rimasto inedito per due secoli, fino all’edizione approntata dal tipografo Martecchini di Ragusa, in seguito alla quale Gondola fu subito considerato «l’Omero degli slavi del sud». 2 A ridosso della stampa del poema, vide la luce una traduzione italiana, di cui Tommaseo si era subito occupato. E questo fu probabilmente il motivo immediato che determinò la richiesta al sebenicese, da parte degli amici degli sposi (se non dallo sposo stesso), di partecipare all’opuscolo nuziale con un contributo che avrebbe nobilitato l’insieme dei componimenti raccolti. Non avrà voluto firmarsi per motivi di opportunità politica; e comunque, dato il carattere del personaggio con le sue oscillazioni umorali, non sembra un fatto di cui ci si possa sorprendere più di tanto.  



5. La più tarda renitenza del Tommaseo a recensire la traduzione latina del poema slavo, che il Ghetaldi pubblicò nel 1865, si motiva risalendo alle occasioni e recuperando gli estremi bibliografici di queste prime stampe. Nella prima metà del 1824, quindi prima ancora che uscisse la stampa del poema in lingua originale, aveva segnalato nel «Giornale sulle scienze e lettere delle Provincie Venete» di Treviso 3 (pubblicandone due gruppi di endecasillabi) «un tratto felicemente tradotto da personaggio distinto, che vuol per modestia taciuto il suo nome». Si trattava di Nicola Jakšić (o Giaxich), del quale, ancora anonima, sarebbe uscita solo tre anni dopo la Versione libera dell’Osmanide. Poema illirico di Gio. Francesco Gondola, patrizio di Ragusa. Colla vita da lui scritta dal p. Francesco Maria Appendini, delle Scuole Pie, Ragusa, per Antonio Martecchini, 1827. Tommaseo la recensì allora, fresca di stampa, sul «Nuovo Ricoglitore» di Milano (32, agosto 1827, pp. 571-575): si tratta, come ha sottolineato la Martinelli, di  

una recensione importante, perché testimonia il crescente interesse per i canti popolari. Il Tommaseo raccoglie notizie sulla letteratura popolare ragusea «che trae origine dall’età antica dei bardi illirici, del cui u√zio ci restano presso gli Storici chiare testimonianze»; e invita il traduttore a pubblicare le traduzioni, già compiute, dei canti bardici che risalgono al Mille. «Quanto più la poesia si avvicina al principio suo, tanto ha più di carattere, di e√cacia, di vita sua propria». 4  

Peraltro ancora nel 1838 sarebbe uscita un’altra traduzione italiana, in ottave, del poema croato, L’Osmanide, poema epico dall’illirico in italiano tradotta per Marc-Antonio Vidovich di Sebenico, Ragusa, Francesco Martecchini, 1838: 5 nonostante il traduttore, suo conterraneo, gli fosse ben noto, Tommaseo avrebbe espresso sull’esperimento un giudizio assai negativo.  

1   Composto sul modello della Gerusalemme liberata del Tasso, canta un episodio delle lotte dello slavismo contro l’Islam, ossia la vittoria dell’esercito polacco cristiano sui Turchi a Chocim nel 1621, e culmina con la morte violenta del sultano Osman. 2   Sconosciuta finora alle bibliografie sul poema mi sembra la Lettera del P. lettore Ambrogio Marcovich minore osservante ad un suo amico sulla Osmanide di Gianfrancesco Gondola ultimamente per le sue cure stampata a Ragusa, e su alcune relazioni da lui date circa le opere del medesimo Gondola, Venezia, Simone Occhi Editore, 1828 (che almeno ci fa sapere di chi sia stata l’iniziativa della stampa del poema, nome assente dal frontespizio dell’edizione ragusana). 3   Volume VI, fascicoli 32 e 34, febbraio e aprile 1824. Se ne veda il testo (con l’introduzione di Alessio Cotugno) in Niccolò Tommaseo, Gli articoli del «Giornale sulle scienze e lettere delle provincie venete» (1823-1824), Roma-Padova, Antenore, 2007, pp. 120-128. 4   Donatella Martinelli, Alla ricerca di una nuova identità. La collaborazione del Tommaseo al «Nuovo Ricoglitore» (1825-1833), in Alle origini del giornalismo moderno: Niccolò Tommaseo tra professione e missione, Atti del Convegno internazionale di studi, Rovereto 3-4 dicembre 2007, a cura di Mario Allegri, Rovereto, Accademia Roveretana degli Agiati, 2009 [ma 2010], pp. 1-39, p. 33. 5  Cfr. Egidio Ivetić, La patria del Tommaseo. La Dalmazia tra il 1815 e il 1860, in Niccolò Tommaseo: popolo e nazioni. Italiani, Corsi, Greci, Illirici, Atti del Convegno Internazionale di Studi nel bicentenario della nascita di Niccolò Tommaseo, Venezia, 23-25 gennaio 2003, a cura di Francesco Bruni, ii, Roma-Padova, Antenore, 2004, pp. 595-623, pp. 613-614.

patrizia paradisi 148 Nel 1865 infine vede la luce la traduzione latina realizzata dal Ghetaldi, post diuturna Augustissimi Caesaris stipendia rude donatus, come dice nell’introduzione (ritiratosi a vita privata in patria): Ioannis Francisci Gondulae patricii Ragusini Osmanides a Blasio e baronibus Ghetaldi eius conterraneo latinis versibus expressa, Venetiis, typis Gaspari, 1865. Solo nel 1868 però, ricordatosi per qualche motivo della giovanile amicizia (e avuto il recapito di Niccolò), la fece avere al Tommaseo, che ringraziava (con lettera del 2 maggio) dicendo: «Sentesi […] lo studio lungo de’ buoni scrittori; e intendesi come a Lei debba piacere Virgilio, in cui riconoscere conciliate la semplicità e la grandezza del dire, è lode degna, e meditabile all’arte moderna». 1  

6. Possiamo ora riprendere il filo del nostro discorso dove l’avevamo lasciato nel § 1. Trascrivo, dalla lettera del 30 ottobre 1870 inviata da Ghetaldi a Tommaseo, il suo epigramma gratulatorio: Quod tu panxisti carmen, concordia rerum Crescens quodque tulit, docte Thomasiades, Obstupui relegens, priscis indicta Camoenis Dum prior ipse canis pectine grandiloquo. Par tibi semper ovans, patriam veteremque novamque Claras omnigenis foetibus ingenii. 2 Singularis aestimationis argumento. Ragusae kalendis novembris 1870. Blasius a Ghetaldi rag.nus  

Il Tommaseo rispose, ricambiando a propria volta con un epigramma latino, con lettera del 7 novembre 1870: Illyricam reddis Romano Osmanida versu: immortale tibi mortua lingua sonat. Per te fronde nova gaudens et flore recenti Pullulat e patria nobile germen humo. 3 Questi versucci saranno con più amore letti che un articolo intorno alla sua versione, intarsiato d’italiano e d’illirico e di latino. Non dica addio alla vita per ora, ella che deve fare a me l’epita√o, senz’altro encomio che di qualche parola aπettuosa, la più desiderabile fra le lodi.  

Negli ultimi righi della sua risposta Tommaseo sembra scusarsi indirettamente di non aver appagato il desiderio dell’amico, che gli aveva più volte chiesto un articolo intorno alla sua versione del poema. Sopperì in qualche modo pubblicando subito lo scritto dell’amico e la propria risposta nell’«Istitutore» di Torino, 4 e nello stesso tempo la sola risposta nel periodico fiorentino «La gioventù». 5 Il Ghetaldi fu comunque soddisfatto: il 24 dicembre rispose con una lunga lettera, allegando il testo di alcune sue composizioni latine. Dell’epigramma in sette distici, scritto nel novembre del 1827 per Tommaseo che era andato a visitarlo a Zara, denso di lodi, l’autore, nell’inviarlo, potè giustamente dire: «godo immensamente che i miei vaticinj allora ivi espressi si siano in di Lei riguardo  



1   Dei caratteri di questa traduzione si è occupato Neven Jovanović, Two gentlemen-translators from 19th-century Dubrovnik, al recente International Symposium Latin and the 19th Century, tenuto presso l’Academia Belgica di Roma tra il 17 e il 19 settembre 2014 (i cui atti sono in corso di stampa). 2   Da Niccolò Tommaseo, Mauro Ricci, Carteggio, cit., pp. 210-211. 3   Si noti l’e√cace ripresa di un modulo classico, nella costruzione di sono con aggettivo neutro, col gioco etimologico immortale […] mortua lingua (cfr. Virgilio, Eneide, 6, 50: «nec mortale sonans»). Nella lettera seguono due possibili alternative al secondo distico. 4   «Istitutore» 46, 19 novembre 1870, pp. 726-727 (cfr. Mario Allegri, Tommaseo e l’«Istitutore» torinese: una collaborazione ventennale (1853-1873), in Alle origini del giornalismo moderno, cit., pp. 479-603, p. 602). 5   «La gioventù», serie nuovissima, ix, i, p. 874 (cfr. Massimo Fanfani, Contributi di Tommaseo ai periodici fiorentini prima e dopo il ’59, in Alle origini del giornalismo moderno, cit., pp. 139-298, p. 268). Prima delle due varianti ai suoi distici (di cui alla nota 3 supra), ne pose ancora una terza.

uno scambio di epigrammi latini fra tommaseo e ghetaldi

149 con piena esuberanza avverati». 1 Tommaseo si fa decifrare l’ultimo distico ancora una volta dal Ricci (lettera del 2 gennaio 1871): Eja age doctrinae Tibi sit quum larga supellex, / fac, magis assurgat gloria Dalmatiae! 2 Ma l’ottantenne, evidentemente ancora molto attivo e tenace, Ghetaldi non demorde: il 18 gennaio ringraziava il Tommaseo per le notizie ricevute intorno al p. Ricci e lo pregava di fargli leggere la versione dell’Osmanide. Il 21 maggio arrivava dalla Dalmazia a Firenze una copia del libro personale per il Ricci, che il Ghetaldi mandava «aspirando all’onore d’un’amorevole sua parola». 3 Abbiamo seguito la relazione tra i due fino a quando i documenti lo consentono, non solo per omaggio di pietas alla vecchiezza alacre di due antichi sodali, 4 ma per mostrare come il latino, ancora nella seconda metà dell’Ottocento, nel momento della massima aπermazione delle identità nazionali, sia percepito come strumento ineludibile di interscambio e comunicazione viva. Lo scopo comune di entrambi, pur se provenienti da percorsi biografici diversissimi, per non dire opposti, è la rivendicazione del loro essere dalmati, e il compito che si sono assunti, di illustrare la loro terra con la loro opera, si realizza compiutamente facendo ricorso alla lingua più illustre e nobilitante che possa esserci, quel latino appunto sovranazionale e internazionale (perché pre-nazionale), sentito come matrice unitaria comune che non ha mai smesso di essere attuale e unificante al di là dei confini degli stati nuovi e vecchi, e che proprio per questo immortale sonat.  







1

  Niccolò Tommaseo, Mauro Ricci, Carteggio, cit., pp. 211-212.   Ivi, pp. 228-230 («Suvvia, dal momento che largo possiedi bagaglio di dottrina / fa’ che la gloria della Damazia 3 si innalzi sempre più!»).   Ivi, pp. 240-242. 4   Biagio Ghetaldi morirà nella sua città natale il 27 ottobre 1872, Tommaseo a Firenze il 1 maggio 1874. 2

«E ORA I CONSIGLI DI MIA CUGINA, A TE LI RIPETO, MIO BUON AMICO». A PROPOSITO DI DUE BACI DI TOMMASEO Dušica Todorović

L

’i mportanza conferita al tema dell’interpretazione (del detto e del non detto) sin dall’inizio della novella tommaseiana tende ad anticiparne gli esiti quasi metatestuali. Ricordiamo che il narratore della cornice, cugino interlocutore della protagonista, già in un commento iniziale ribadirà: «Così m’andava non declamando ma discorrendo con semplicità mia cugina […] donna singolare, alla quale erano permessi i pensieri strani e le imagini mezzo poetiche». 1 Il narratore in quell’occasione commenta una «similitudine» della cugina; poco dopo verremo invece a sapere che le similitudini non piacciono al cugino, ed è per questo motivo che lei sceglie di evitare il discorso poetico e di confidare invece la sua verità in forma di racconto della propria esperienza sentimentale, intrecciandovi le emozioni in un discorso intimo: «Lascio le imagini e i consigli, e vengo a un racconto che tu sarai forse voglioso di sentire, e io molto più vogliosa di fare» (p. 98). L’urgenza di questa confessione, che accenna a una valenza anche terapeutica, insieme al profilarsi della promessa di una possibilità del dialogo autentico, fa pensare al rapporto buberiano Io-Tu, 2 soprattutto se si ha in mente il tema della religione in Tommaseo in generale e nella novella in particolare. Comunque, la competenza dialogica è senz’altro sin dall’inizio sentita e tematizzata come un prologo all’ascolto e alla conoscenza dell’altro attraverso la quale si giunge alla conoscenza di se stessi. Ne sono esempio e portavoce sia la donna che l’uomo-confidente privilegiato, che mostra da subito una spiccata sensibilità interpretativa unita ad altrettanta capacità interlocutoria:  



M’accorsi che mia cugina era in vena di tenerezza: e per non inaridire con interrogazioni esploratrici quella ingenua facòndia, mostrai di mutare discorso, e le parlai di mia figlia. La donna non manifesta mai così volentieri i segreti del cuore, come quando si mette a parlare d’altri: allora, giudicando e interpretando gli aπetti altrui (p. 97).

Per conformarsi meglio al suo interlocutore, la protagonista allontana invece dal proprio discorso insieme alle similitudini anche i dubbi sul genere, per così dire, dei sentimenti espressi: «Niente di romanzesco, niente di quello che tu forse imagini» (p. 98). L’educazione all’ascolto, ovvero a una possibilità di dialogo autentico si pone quindi quasi subito come una premessa all’empatia; il cugino spiegherà: «ella s’internava nel proprio cuore per meglio parlare al mio» (p. 97). 3 La donna ascolta, racconta e si racconta. L’uomo ascolta e racconta, senza raccontarsi a sua volta. La confessione è una comunicazione asimetrica, ed è, in questo caso, anche un dialogo didattico, atto a educare il cuore dell’uomo a crescere la propria figlia: «Ed eccoti storia più lunga ch’io non intendessi  

1   Niccolò Tommaseo, Due baci, in Idem, Novelle italiane. L’Ottocento, i, introduzione, note e commenti di Gilberto Finzi, Milano, Garzanti, 1985, pp. 96-118 (indicato in corpo di testo con il solo numero di pagina). 2  Cfr. Martin Buber, Il principio dialogico e altri saggi, a cura di Andrea Poma, trad. italiana di Anna Maria Pastore, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1993. 3  Alla conclusione del racconto, la protagonista dirà invece a proposito del suo rapporto con il marito: «Ingegnandomi di sempre meglio conoscerlo, giunsi ad essere meglio conosciuta» (p. 117).

a proposito di due baci di tommaseo

151 di farla. Fanne ora tu l’applicazione a tua figlia» (p. 118). La parola della confessione è almeno doppiamente articolata: come una confessione a un uomo familiare, un cugino (un fratello, nella prima versione della novella) ma anche (e questo sembra un dettaglio importante e forse troppo poco considerato) come un racconto veicolato dall’uomo, all’educazione (femminile) del cuore del lettore (maschile): E ora i consigli di mia cugina, a te li ripeto, mio buon amico. Né a te parrà esagerata questa esposizione degli eπetti di un bacio. Dopo la parola, il bacio è tra’ più nobili privilegi dell’umana natura, il più eloquente dei muti linguaggi, il più necessario alla donna per isfogare il soverchio della commozione propria, e per rieccitare la commozione dell’uomo. Costa meno, cred’io, una parola falsa che un bacio mentitore: ed era destino terribile che il tristo discepolo, per consumare il misfatto in modo corrispondente all’ineπabile sua nerezza, tradisse con un bacio Gesù. Chi non sa distinguere il bacio dell’amore vero dal bacio di consuetudine, dal bacio di compassione, dal bacio di dovere, non conosce che sia amore vero (p. 118).

La parola e il bacio si ergono alla valenza della parabola; sanciscono la vulnerabilità come una possibilità degli incontri autentici, ma anche come un pericolo di quelli ingannevoli. L’interpretazione vera (o una possibile intentio operis, per dirla con la famosa formula echiana) di un testo (una parola), ma anche di un bacio, è sempre collegata al sentimento sedimentato nelle parole, ed è quindi possibile soltanto dopo una certa esperienza del mondo, o meglio, l’esperienza di se stessi (e delle proprie emozioni) ottenuta grazie all’introspezione. La conoscenza, o la competenza dell’interpretazione giusta, corretta, è ottenuta tramite l’educazione sentimentale, l’educazione femminile del cuore maschile: «certo io credo che quell’uomo, posto in altre condizioni, educato da una donna... Tu ridi? Non credi tu nell’educazione che può dare una donna al cuore più maschio e più duro?» (p. 106). In altre parole, si può estrarre come tema di fondo della novella la concezione di lettura (e il sentire della letteratura) come di un incontro del femminile con il maschile. L’uso della parola è comunque un atto etico, che dipende dalla responsabilità dell’interpretante: Il mio confessore […] si contentò di dirmi: – Spetta a lei esporre le circostanze che crede proprie a rendere più o meno grave la cosa. Dica tutto quello che sa, con ischietta modestia; ma badi, quel che le sembra modestia, non sia orgoglio. Rincorata da quella parola più o meno grave, aggiunsi poche cose, più per aggravare il fatto che per iscusarlo (p. 104).

Il discorso letterario rappresenta l’intimità sempre come estroversa, come ‘estimità’, come un’esposizione. 1 L’appartarsi temporale e spaziale dei cugini in dialogo rende la confessione esclusiva, marcando uno stacco fra il pubblico e il privato, oppure, più precisamente, fra intimo e estimo: 2  



Era già quasi l’alba: e noi due, seduti da prua, vedevamo fuggirci dinanzi le povere isolette e gli scogli del continente deserti, tra i quali biancheggiava qualche croce e qualche cappelluccia, per dirci che su quell’ingrato terreno vivevano nostri fratelli, anime più felici di noi (p. 97).

Una cultura trasforma gli aπetti in sentimenti. I termini dolore, amore, vergogna assumono, non vi è dubbio, diversi significati, rispetto al sistema etico e al contesto storicoculturale in cui sono inseriti: 3  

1   Nel saggio sulla retorica e il discorso letterario dell’intimità Renate Lachmann tratta il linguaggio degli aπetti. Il discorso privato è nella sfera della semantica dell’intimità. Nel discorso letterario, si tratta, paradossalmente, allo stesso tempo di una indiscrezione, complice il lettore. Renate Lachmann, Metamorfoza činjenica i tajno znanje. O ludama, mostovima i drugim fenomenima, cura e trad. di Damir Beganović, Zagreb-Sarajevo, Zoro, 2007, pp. 292-306. 2   Bachtinianamente, invece, si potrebbe parlare del genere del discorso familiare Mihail Bahtin, Problem govornih žanrova Estetika slovesnogo tvorčestva, «Treći program», 47, 1980, pp. 233-270, trad. in serbo di Mitar Popović. 3   Domandandosi in che modo i sentimenti vissuti ricevono la propria espressione linguistica, Rastier si domanda se il mondo sentimentale non sia intrinsecamente legato alla sua rappresentazione, e risponde facendo una ipotesi

dušica todorović

152

i momenti dell’allegrezza e della malinconia più profonda non erano quelli ne’ quali io pensassi all’oggetto de’ miei desideri: ma quando rientravo in me, quando meditavo nel segreto dell’anima i miei vergini sentimenti, quando raccoglievo intorno al pensiero le memorie del passato, i presagi dell’avvenire, le illusioni della fantasia, le rimembranze de’ libri, tutto quanto di più commovente io avessi potuto raccapezzare o creare; allora il cuor mio si sentiva quasi scoppiare dall’esuberante vitalità dell’aπetto. Con questa disposizione, tu vedi che ogni piccola circostanza diventava feconda; ogni parola era soggetto a pensieri infiniti, ogni aπezione altrui era scintilla che non cadeva in fallo: una veduta, una forma, un colore diventavano dentro me amore pretto, poesia viva (pp. 100-101).

Una disposizione naturale al sentimento è quindi propria di un «lettore» ingenuo (del bacio e della parola), pilotato, manipolato, sedotto dal testo, ma anche dalla propria voglia di essere sedotto: Stetti così qualche mese contenta e tranquilla della mia inquietudine stessa. Non so se la perseveranza del mio desiderio si possa spiegare con l’arte che il signor D. sapeva usar bene, di farmi sempre imaginare qualcosa, di lasciarmi sempre con la brama di conoscere tutta l’anima sua, e però di convivere a lungo e libera seco (Ibidem).

L’immedesimazione nella finzione è pericolosa, e questa nota pedagogica, è chiaro, non è esclusivamente tommaseiana: «Di√cile educare il cuor di una donna. […] Chi giungerà a computare gli eπetti che una conoscenza, una parola, un cenno, possono fare sull’animo femminile?» (p. 97). La protagonista si lamenterà ad un certo punto dell’eπetto dei «lunghi colloqui con qualche amica forse più imprudente di me; quindi la smania de’ romanzi, tanto più cari quanto più caricati di tinte, vale a dire dettati da uomini inesperti del mondo» (p. 110). La parola (quella scritta) esercita un potere forte, forse anche determinante, e non pensiamo soltanto all’influsso dei romanzi sull’animo femminile, ma anche a quello della novella. Aggiungiamo però che sia l’oralità che la scrittura a diversi piani del racconto rivelano una dialettica che incide nel processo dell’educazione. L’oralità, il detto (ma anche il non detto, come vedremo), conferiranno alla protagonista gli strumenti per interpretare gli eventi da mettere alla prova della propria intimità. Sono parole che feriscono e irritano, però a volte sono anche in grado di lenire. Vediamone qualche esempio. I comportamenti all’interno della famiglia a un certo punto saranno percepiti dalla nostra eroina come un tradimento, e lei subirà un processo dello straniamento dalla famiglia e dalla comunità 1, necessario comunque per avviarsi verso il cammino dell’individuazione. In questo processo si vive come tradimento non soltanto il detto, ma anche, o soprattutto, quello non esplicitato, non discusso, ma interpretato con una fiducia sottintesa, fatta di stima e di ubbidienza; a volte, poi, si sente come tradimento una contraddizione, l’incongruenza fra il detto e il non detto:  

Le lodi dategli da mio padre una volta, le facilità concedutemi di vederlo, mi tornavano alla mente come tante permissioni, anzi comandi, d’amarlo, tanti lacci tesi alla mia giovanile semplicità. Gli è un tradimento, io dicevo fra me. Il non conoscerne la ragione, invece di rendermi rassegnata, mi irritava più. Erano ingiusti in gran parte i lamenti, lo so: nulla aveva promesso mio padre; ma assai mi aveva promesso, assai che bastasse a rendermi desiderosa, vale a dire, infelice. Quante volte in riguardo al fatto che forse per gli scrittori, e per i loro più assidui lettori, le cose stiano davvero così, e c’è da chiedersi se questo valga anche al di fuori della cultura letteraria: «La mezza dozzina di emozioni di base classificate dagli etologi spiega forse l’esistenza degli aπetti, ma non la varietà dei sentimenti e ancor meno il carattere storico e culturale della loro espressione. I sentimenti, insomma, in quanto forme culturali, variano a seconda delle epoche e delle società». François Rastier, Arti e scienze del testo. Per una semiotica delle culture, Roma, Meltemi, 2003, p. 317. 1   La famiglia può essere considerata, se vogliamo usare una concezione di Lakoπ, come una metafora cognitiva della comunità. Tommaseo sente forte questa analogia.

a proposito di due baci di tommaseo

153

mia vita pensai a questo passo delicatissimo della educazione! Quante volte tremai o di rintuzzare con soverchie annegazioni il cuore di una figlia, o di stuzzicarlo con molli condiscendenze! (p. 105).

Il processo dell’autoeducazione a cui giunge la donna è necessariamente legato a questa sensazione di tradimento subito; la ferita del tradimento è anche una verità da svelare per poter compiere quel pellegrinaggio salutare della crescita. 1 Lo stato dell’estraneità dal nucleo familiare è a sua volta un tradimento; si giudica e ci si giudica con gli strumenti acquisiti sino a quel punto, ma si cominciano a giudicare anche gli strumenti stessi: «ed ero stata allevata in modo che mi sarebbe parso vergogna darlo a conoscere pur con una parola» (p. 107). È interessante inoltre che l’irritazione che sente e di cui parla la donna è un sentimento non concesso, come si vedrà, alla sua madre. Il turbamento della madre diventa, in eπetti, l’irritazione della figlia:  

Fosse la presenza d’un estranio, fosse disposizione d’animo, la vidi all’uscir ch’egli fece, non irritata (e come poteva ella essere irritata mai?), ma turbata. Il signor D., te l’ho detto, aveva pronta per tutti i dolori una lunga serie di consolazioni, variata secondo le circostanze, ma uguale nelle varietà. A me medesima i conforti di lui molte volte parevano atti a irritare più che a sopire il dolore (p. 101).

Ad un certo punto, il padre che è anche il marito involontariamente mette alla prova, in una doppia esposizione, l’aπetto filiale. Il modello maschile ne risulta compromesso: mi rammentava, ma in peggio, lo sguardo esploratore e arido di mio padre. […] Allora mi sfuggì di bocca una parola ch’ella soleva proπerire spesso, e nella quale compendiava tutti i documenti della educazione materna: – Noi siamo nate a soπrire: – le dissi con voce commossa (p. 102).

È il preludio del primo di due baci della novella, quello interpretato da lettrice ingenua, che si lascia condurre e trasportare: Parevami aver trovato un uomo col quale io potessi dimenticare la mia debolezza: e questa è delle più frequenti ragioni per cui le donne inesperte amano; ciò che in quell’atto era troppo forte per una fanciulla allevata rigidamente, me lo rendeva insensibile il bisogno d’essere rassicurata (p. 103).

Siamo, a questo punto, alla pratica dell’‘uso del testo e del bacio’, come di una sovrainterpretazione, ovvero un’interpretazione carica di quell’intentio lectoris echiana. La funzione dell’educazione riguarda, però, anche l’imposizione all’obbedienza, che esige il superamento della sensazione dello straniamento e il ripristino della fiducia della figlia nei confronti della famiglia e della comunità: Mia madre me ne parlò a cosa fatta, per interrogare il mio cuore: ma l’interrogazione era comando a me, che non avrei saputo, neppur pensando, resistere. […] Mio padre aπrettò le nozze; e il buon prete, di cui t’ho parlato, vedendoci forse più chiaro che non ci vedess’io, mi consigliò ad ubbidire (p. 109).

Inizialmente, la parola (ma anche il bacio) del marito, che non seduce, è troppo univoca 2 per placare i desideri del cuore femminile: «nelle sue parole non trovavo quel non so che d’interminato che nei discorsi dell’altro mi persuadeva tanto» (p. 109). La realtà del marito, in cui insieme alla parola univoca domina il tempo strutturato in giochi sociali, incluse le rituali conversazioni dalla ‘parola reificata’, per dirla con Bachtin, non è la verità della donna:  

le parole sempre condite di quella gentilezza usuale che richiede in ricambio una risposta ugualmente comune, e dettata già dalla domanda; molto diletto del vivere, come suoi dirsi, in società, cioè in 1   Processo di autoeducazione comporta la contestazione degli insegnamenti familiari e del mondo degli adulti in generale. Cfr. Paola Maria Filippi, Tommaseo e l’educazione della donna: Due baci, in Niccolò Tommaseo dagli anni giovanili al «secondo esilio», a cura di Mario Allegri, Rovereto, Osiride, 2004, p. 103. 2   A proposito della realtà della parola univoca cfr. in Paola Maria Filippi, Tommaseo e l’educazione della donna, cit., p. 102.

dušica todorović

154

compagnia di persone con le quali consumare una determinata quantità di tempo nei trattenimenti e nei discorsi determinati dall’uso (p. 108).

Il desiderio di imprevedibilità e dell’imprendibilità del ‘non so che’ di seducente è placato più tardi dalla pienezza del rapporto, della totalità della presenza e dell’esperienza di reciprocità della confessione: 1  

Iddio perdona a un minuto di dolore innumerevoli ore di peccato; e io miserabile, dovrò io mostrarmegli sconoscente dell’avermi concessa la felicità del poter dare a tal donna il nome di moglie? Oh no, non ne son degno! E qual uomo è mai degno al mondo d’un aπetto così delicato com’è l’aπetto d’un cuore di donna? No, mia buona Eugenia: noi uomini non sappiamo amare (p. 116).

La donna possiede le chiavi dell’emancipazione sentimentale dell’uomo, è lei che deve educare, elevare e elevarsi; confessandosi, far confessare. La verità rivelata nel dialogo fra il marito e la moglie poteva in un primo momento alle norme sociali sembrare la confessione di un tradimento, ma non lo è nell’intimo sentire della coppia; anzi, è lenitiva: «Lontano com’era da ogni esagerazione, e’ conobbe lo stato mio, e s’accorse ch’io possedeva in me la medicina del male» (p. 115). La parola che risana le ferite è la parola del dialogo autentico, di reciprocità delle confidenze, capace di ridare senso più adeguato, interpretazione più puntuale, più giusta, a posteriori: Certe parole tronche, certi moti del viso, che mi sfuggivano un tempo, trasportati quasi dal vortice dell’aπetto; dopo quattr’anni mi ricomparivano innanzi evidenti: e una sola notizia del presente mi serviva a ricomporre nella mente, a interpretare, a indovinare il passato. Tanta forza ha lo spirito umano, volendo; e tanto profondi, immarcescibili riposano nel suo segreto i germi della verità che risana (p. 117).

L’epifania della parola, quindi, ma solo tramite la verità che risana, dopo l’esperienza della presenza dell’altro, nel buberiano dialogo Io-Tu. 1

  Cfr. nota 3, p. 144.

LA DALMAZIA NEGLI SCRITTI AUTOBIOGRAFICI DI NICCOLÒ TOMMASEO Anna Tylusińska-Kowalska

I

ntorno a Niccolò Tommaseo (1802-1874) recentemente si nota una crescita di popolarità; a partire dal bicentenario della sua nascita questo scrittore italiano (la cui nonna materna fu slava) si guadagnò una nuova ondata di celebrità negli ultimi decenni grazie alla sua duplice provenienza, al suo inter o transculturalismo, termini che vanno ben di moda ai nostri tempi. La duplicità nazional-culturale di Tommaseo lo caratterizzò per tutta la vita, la percepirà a volte come un dono a volte come un peso, come lo rileva negli scritti personali. Tommaseo, spirito ribelle e polemico, uomo di straordinaria intelligenza e universalità di talenti: poeta, narratore, pubblicista, lessicografo-linguista, filosofo, culturologo, come si direbbe oggi, studioso di folklore, nonché politico era anche dotato di una singolare sensibilità che lo portò a vivere in uno stato di soliloquio continuo, di full immersion nel proprio mondo interiore. Giacomo Debenedetti lo chiamerà ‘tipo introvertito’ 1 puntando sulla necessità del poeta di comunicare con altri. Le forme saranno molteplici, ma dietro ognuna, che sia essa una scrittura autobiografica (Memorie poetiche, Diario intimo o carteggi), oppure poesia, si sentirà sempre la sua voce, sempre un io autobiografico. La coscienza del sé impregnata del proprio vissuto, e pure quella interiore di cui farà parte integrante una parentesi importantissima della sua vita: la ‘sua’ Dalmazia. Negli scritti personali di Tommaseo si possono distinguere tre tappe della sua vita in cui la Dalmazia occupa un posto sempre più importante e vi dedica lo spazio ampio anche riferendosi alla famiglia.  

i. La Dalmazia negli scritti del sé di Tommaseo degli anni ’20 (lettere a Niccolò Filippi, Memorie poetiche, Diario intimo) La scrittura autobiografica di Tommaseo abbonda di richiami alla Dalmazia, alla terra natìa, che significa situazione politico-conomica, culturale, ma soprattutto sua personale: lo sguardo sul paesaggio che foscolianamente rivivrà spiritualmente, l’infanzia e l’adolescenza con tutte le tensioni che portano, famiglia, contatti interpersonali. Gli anni Venti che appariranno nelle Memorie poetiche (scritte nel periodo parigino che tuttavia lasciano uno spazio anche se ristretto a quel periodo) nonché nelle lettere e nel Diario intimo vengono segnati soprattutto da un io emotivo e ribelle che aπronta le prime ansie interiori, che lo porteranno a conflitti con se stesso e con la famiglia. Dell’infanzia a Sebenico nelle Memorie poetiche ricorderà con dolcezza «il mormorare della fresc’acqua fuggente al mare vicino». I ricordi lo trasportano in un passato lontano che lo fa immergere in una realtà serena, quella dell’infanzia, appunto: Pure incominciava a parlarmi la bellezza delle cose di fuori; e quando seduto al sereno e caldo sol di febbraio, gli occhi miei chini a terra vedevano il dolce raggio frangersi in gai colori, l’anima 1

  Niccolò Tommaseo, Memorie poetiche, in Idem, Opere, a cura di Mario Puppo, Firenze, Sansoni, 1948, p. 67.

anna tylusińska-kowalska

156

raggiava a quel sole di quieta gioia che tuttavia si rinnova ne’ miei pensieri. E m’è dolcezza tuttavia memorabile il mormorare della fresc’acqua fuggente al mar vicino... 1  

Un’infanzia idealizzata, a distanza d’anni, rievocata ai tempi d’esilio... Dopo la laurea conseguita a Padova fu costretto a ritornare a Sebenico per esercitare l’imparato mestiere. «Era fermo ormai ch’io dovessi lasciare l’Italia», ma era in Italia che il giovane Tommaseo vedeva il suo futuro e il mestiere dell’avvocato non gli ispirava nessun interesse. Non cela quindi la frustrazione dopo il ritorno alla casa paterna. Essa gli vela gli occhi quando, nella lettera all’amico ed ex compagno di studi Niccolò Filippi si lamenta: «Io son qui senz’amico, senza salute, senza prezzo del vivere, senz’amore di lode, senza il raggio di quella luce che brava le nostre italiche notti». 2 I biografi di Tommaseo sostengono che soltanto a Venezia e solo lì il giovane poeta sente «di essere se stesso e di potere sviluppare se stesso come la natura vuole, perché Venezia e l’Italia gli sono entrate nel cuore e glielo hanno bruciato». 3 In un’altra lettera a Filippi del 1822 costaterà: «Fare due miglia di strada sassosa ed arida, salire un collicello sassoso del pari e tutto deserto, ed ivi, per una via sassosa, vicino ad una rustica chiesetta, passeggiar dolorando e dolorando far versi. Dopo due miglia sassose! una collina sassosa! una strada sassosa!». 4 Come osserva giustamente Donatella Rasi, Tommaseo «Condivide col suo corrispondente un rapporto di amore e odio con la terra d’origine tra ritorni forzati e ricorrenti progetti di abbandono per altro realizzati da subito da lui soltanto». 5 In eπetti, il 10 giugno del 1822 il poeta scriverà ancora a Filippi:  







Io se non avessi pochi libri ed un tempio nell’anima mezzo rovesciato d’immagini e di reminiscenze, non saprei invero come tollerare una vita, in cui la noia ed il pentimento, il timore e la speranza combattono senza giorni e senza ragione. 6  

per ripetere ancora con il tono sempre uguale un mese dopo (la lettera di luglio): Senza un’aura di conforto, senza un nobile Oggetto, che mi riscuota da un perpetuo letargo, senza desiderii, senza speranze, io mi son qui, preda alla noia. E materia a me stesso di lacrime. 7  

Nelle Memorie poetiche ritornerà più volte al concetto di chiusura, anche se meno emozionalmente. Le lettere mantengono il tono più autentico. In quell’‘autobiografia di formazione’ si ricorderà in maniera più distaccata di quei tempi: «Eccomi adunque con l’anima grave di memorie, di tedi e di sdegni, povera d’aπetti, d’esperienze e d’idee, ritornato al mio paese, a un dipresso quale me n’ero partito: idoneo a molte cose, adatto a nessuna». 8 Tuttavia con un pizzico d’orgoglio confessa di non aver deluso il padre in qualità dell’avvocato aspirante, ma ciò non gli diede neanche una minima soddisfazione, che ribadisce sottovoce: «Non altro io vedevo che corone d’alloro poetico e ghirlandette di fiori amorosi». 9 Per il resto della vita Tommaseo sarà straziato tra le due realtà: ‘la mia povera patria’, come ha chiamato e chiamerà sempre la Dalmazia (e non solo negli anni ’20 di Sebenico, ma anche ben più tardi, in vecchiaia, 10 ma la ‘nostra letteratura’ sarà invece quella italiana.  





1

  Niccolò Tommaseo, Memorie poetiche, ii, cit., p. 77.   Niccolò Tommaseo, lettera a Niccolò Filippi in Raffaele Ciampini, Prefazione a Diario intimo, a cura di Raπaele Ciampini, Torino, Einaudi, 1938, p. 13. 3 4   Raffaele Ciampini, op. cit., p. 13.   Ivi, p. 21. 5   Donatella Rasi, ‘L’amico degli anni miei primi’, note sul carteggio Tommaseo – Filippi, Atti del Convegno Niccolò Tommaseo, iv, Rovereto, Accademia Roveretana degli Agiati, 2004, p. 42. 6 7   Raffaele Ciampini, op. cit., p. 18.   Ivi, p. 22. 8 9   Niccolò Tommaseo, Memorie poetiche, cit., p. 124.   Ivi, p. 129. 10  Cfr. Niccolò Tommaseo, Trieste, in Idem, Opere, i, cit., p. 47: «Tra i rami alle fatidiche querce volò, ricovero/ della colomba egizia, / e mesta sussurrò: venne alla mia Dalmazia; […]; l’aura nel suo passaggio / colse da te, mia povera / patria, com’ape il nettare / coglie dai vivi fior» (1868). 2

la dalmazia negli scritti autobiografici di niccolò tommaseo

157 Due patrie, due mondi non sempre conciliabili che costituiranno una ricchezza intellettuale che lo distinguerà da letterati del suo tempo. In quel periodo di studi accaniti, di prime prove poetiche, leopardianamente cercava ispirazione nella bellezza della natura, solitario, meditando: Mi rammento ancora il luogo della mia passeggiata dove segnai sì misera meta alla mia vita futura. Io me n’andavo per la via che si stende a destra della città […] avente in basso i poderi, all’altro lato chiusa dal poggio cretoso ed ignudo. E certo l’aspetto de’ luoghi non era tale da ampliare o da rallegrare l’ingegno. Ma la bellezza del cielo mi era in parte compenso; e le varie nuvolette che abbellite dal sole in parte nascosto, abbellivano di gai colori la tranquillità marina; e le notti beate di profondo sereno. 1  

La solitudine, il senso del vuoto spinse il giovane Tommaseo a ritornare in Italia, ma non fu una decisione facile: «Quando penso ai dolori de’ miei, dolore a cui per tanti anni seppe sì male l’anima mia compatire, appena veggo buone azioni e sacrifizi […] che possano espiare il mio fallo». 2 Ma appena si era preparato mentalmente alla partenza, divenne di colpo più sereno: «La primavera che (quando i venti non la spaventano) da noi fa capolino a febbraio, mi si fece tra questi studi sentire lieta; e la già fermata e vicina partenza, e l’animo nobilitato da nuovi pensieri, mi fanno parere che que’ mesi tra il dicembre e il marzo, de’ miei più sereni». 3 Le tracce di quel periodo di√cile le annoveriamo anche nel Diario intimo, dove, sotto la data del 16 ottobre 1824 ripassa nella memoria il momento della partenza da casa: «Parto dalla Dalmazia» e dopo, ormai da Trieste, il 26 ottobre: «Non so s’io debba rimproverare a me stesso l’abbandono d’un padre e di una madre che in me posero, unico, le speranze e gli aπetti della vita». 4 Sappiamo bene che la partenza definitiva da Sebenico segnerà il momento di svolta nella sua vita.  





ii. La Dalmazia nelle lettere e nel Diario intimo del periodo parigino (la Dalmazia ‘sognata’) e veneziano prima del ritorno del poeta nella sua terra Negli anni di esilio in Francia la Sebenico natia entra a far parte degli spazi onirici del poeta che attribuiva una grande importanza ai sogni in quanto un emblematico, freudiano face à face con se stesso. È lecito notare che fino al 1837 i richiami alla terra natale, alla famiglia sono piuttosto sporadici. E negli anni 1835-36 anche se tornerà col pensiero più volte alla famiglia, sarà in occasione delle lettere del padre, del cognato. 5 Dal 1837 in poi sogni lo assaliranno sempre più assidui. 6 Scriverà nel Diario da Monpellieri nel marzo del 1837: «Sogno di ritornare a Sebenico: cammino lungo e solitario: salgo, domando alla serva se mia mamma c’è; [...]. Mi par di vederla in un letto bianchissimo. Prima di riabbracciarla mi desto». 7 Soprattutto il ricordo della madre, le notti in cui si profila la sua figura gli procurano un’ansia infinita 8 e ormai spesso sogna di essere tornato a Sebenico. È poi caratteristico che dopo un sogno ‘dalmata’, familiare, il poeta rimane sconvolto tutta la giornata: non avverte nessuna voglia di intraprendere qualsiasi attività, i sogni gli organizzano il tempo. L’ossessione della morte dei suoi cari, i genitori ormai morti da qualche anno lo perseguita, gli imprigiona la mente. Sono sogni che si riproduco 







1

2 3   Ivi, p. 134.   Ivi, p. 142.   Ivi, p. 151. 5   Niccolò Tommaseo, Diario intimo in Idem, Opere, cit., p. 645.   Cfr. ivi, pp. 753, 760. 6   Ivi, p. 763: «Sogno mio padre dimagrato e mesto nelle tombe del cortile di San Francesco; m’inginocchio a lui». 7   Ivi, p. 782. 8   Ivi, p. 783: «Mi sogno tornato a casa mia: mio padre era in viaggio, mia nonna a letto, mia madre a letto. Temo la sorpresa non le faccia male». 4

anna tylusińska-kowalska 158 no con gli stessi motivi: Sebenico idealizzata dove passeggiare è un piacere e dà una sensazione di pace e tranquillità, ma su questo sfondo si profila un quadro inquietante: appena si avvicina alla porta della casa quasi quasi non osa entrare: «Sogno di navigare verso Sebenico: mi veggo nel borgo di mare: approdo nel salotto di casa mia: [...] Salgo. Domando di mia madre; morta. Mi inginocchio: una lacrima». 1 I sogni ripetitivi hanno per Tommaseo un significato concreto. Il motivo di madre morta lo assale di notte, di giorno lo spinge a meditare la partenza da Parigi. Lo confermano le annotazioni del 10 settembre 1837. 2 All’inizio di dicembre il sogno torna nuovamente, scrive da Nantes:  



Sogno mia madre. La veggo distesa su un letto, ornata, immobile; ma par viva. L’abbraccio, poi esco. Parlo con mia nonna: domando di mia madre: non rispondono: – Dunque è morta! Ma se l’ho veduta or ora! – Era il cadavere suo – mi rispondono, Piango. […] Stasera scrivendo a mia sorella e pensando a mia madre, piango. Un’altra volta sogno di ritornare a Sebenico: pochi mi riconoscono. Entro in casa mia come di furto, per osservare se mia madre è viva. 3  

Sono immagini poi che Tommaseo a√da volentieri al Diario che il poeta scriveva per se stesso, non intendeva pubblicarlo. Nel 1838 da Nantes descrive un altro sogno sebenicano restando sempre in cerca di madre, ma siccome nessuno sapeva informarlo, ormai in dormiveglia abbraccia l’idea di procurarsi il passaporto e tornare realmente alla casa paterna. Ma tornato alla realtà vede un’impossibilità assoluta di tale impresa. E così, qualche settimana dopo risogna la madre e compone una preghiera per lei. 4 I luoghi d’infanzia, la famiglia, ricompariranno nei ricordi come mitici percorsi del subconscio, attimi di sollievo per l’anima stanca di disagi di vita quotidiana, straziata da contraddizioni tra vita in compagnia e la tanto desiderata solitudine. L’11 settembre del 1839 il poeta annota con gioia il suo ritorno a Firenze, ben presto intraprenderà un viaggio reale alla sua terra, viaggio atteso da tempo. Di quel periodo sarà la commovente poesia Alla Dalmazia in cui esprimerà e ribadirà il suo legame, il suo aπetto, ma ugualmente, dopo l’esperienza di esilio la «povera patria mia» sarà diventata una non-patria. 5 Eppure il poeta esprime la speranza in un futuro migliore, nel vento propizio che so√erà da quelle parti, e si solleverà più forte cha mai.  



iii. Una Dalmazia reale e familiare: lettere a Giampiero Vieusseux, Diario intimo – periodo veneziano e anni successivi A fine settembre del 1839 si realizza il tanto meditato ritorno a Sebenico, il sogno diventa realtà. Dopo qualche formalità burocratica a Trieste arriva a Zara da lì a Sebenico. Al riabbracciare la famiglia il verbo ‘piangere’ si ripete più volte. Invece al dì 8 ottobre annota: «Oggi il mio compleanno. Vo a sentir messa a Castello: bacio le tombe di mio padre e mia madre […]. Desino in famiglia con abbastanza cordialità. Sento parlare illirico con piacere, intendo e distinguo il pretto dal guasto». 6 E quindi un orgoglio non aver perso la lingua imparata a casa e sfrutterà il bilinguismo, fenomeno raro nel primo Ottocento, per scrivere Iskrice o Scintille. A Sebenico Niccolò si dà a letture varie elencate puntigliosamente nel Diario, a cose di famiglia cioè successione dopo la morte dei genitori e rivà colla memoria ai genitori, alla madre: «Seggo nel luogo dove sedette mia madre il dì quindici d’agosto del 1831 e prego». Del suo soggiorno successivo a Sebenico nel 1841 si saprà grazie al carteggio con  

1

2   Ivi, p. 786.   Cfr. p. 794. 4   Ivi, p. 796.   Cfr. ivi, pp. 796-797. 5   Niccolò Tommaseo, Alla Dalmazia in Idem, Opere, i, cit., p. 25: «Spregio o pietate alle superbe genti, / o poveretta mia, suona il tuo nome. Siccome il braccio che, da corpo vivo, / mezzo reciso, dolorosa noia, / spenzola, in te così la vita altrui / scarsa, o Dalmazia, e con dolor s’infonde. Serbica e Turca, ed Itala e Francese, / né ben 6 d’altrui né tua ben fosti mai: / patria viva non ha chi di te nacque».   Ivi, p. 826. 3

la dalmazia negli scritti autobiografici di niccolò tommaseo

159 Giampiero Vieusseux a cui Tommaseo in quel periodo scrive regolarmente. Nelle lettere brevi riferisce in modo conciso e asciutto quel che riguarda il suo lavoro creativo, i suoi incontri. 1 Grazie alla precisione nel riportare le date da parte di Vieusseux sappiamo che vi capitò nuovamente a gennaio del 1843, tornato però a Venezia già a fine mese. Nella lettera del 1843 (fine luglio-primi di agosto) Tommaseo informa l’amico sulle opere ‘intorno alla Dalmazia’ che egli chiede al poeta nella precedente. 2 Invece sotto la data 24 gennaio 1844 troviamo un’altra informazione su un successivo soggiorno a Sebenico, legato, come i precedenti a regolare questioni per successione che fu oggetto di querela tra il poeta e la sorella, cosa che lo rendeva molto amareggiato.  



Ritorno dalla mia cittadella natale, ove ho più che mai ricevute prove d’aπetto consolatrici, e datele altrui […]. M’invoglio di scrivere la vita della cattedrale nostra, e fare che la piccola Sebenico rimanga fra le città nominate nel mondo. 3  

Non mancano domande di consigli come aprire a Sebenico una Cassa di risparmio… Ormai la Dalmazia è ben presente nei suoi pensieri, nel suo operare ugualmente. Nel 1845 Tommaseo si trova in missione di fornimento dei volumi importanti alla biblioteca di Sebenico. Il suo Dizionario estetico pubblicato con il finanziamento e cura di Vieusseux in varie copie doveva esservi oπerto. Vi saranno dedicate alcune pagine delle lettere del maggio e giugno 1845. In quella del 4 giugno, più lunga delle sue solite, con il cuore in mano e più amareggiato che mai parla dei suoi problemi familiari, di essere stato escluso da sorella e cognato dalla successione, rivelando la simbolica rendita che gli avevano assegnato. A un certo punto costata: «Vivere in Dalmazia non saprei» e la frase si riferisce non soltanto al fatto che si fosse allontanato da quella mentalità che ormai non è più sua, bensì, ma soprattutto all’ambiente familiare. Così, l’anno dopo annuncia all’amico di recarsi nuovamente a casa paterna il 4 settembre e, in eπetti, l’8 scrive di procedere nella spedizione di libri via Trieste 4 alla quale lettera Vieusseux risponde il 29 settembre recando l’elenco di volumi spediti. Invece da Sebenico, il 15 ottobre partirà una lettera con toni di rammarico e delusione: Tommaseo si renderà conto del fatto che la gran parte della gente non ha apprezzato i suoi sforzi di avvicinare civilmente la sua cittadina all’Italia, una nuova ‘spiacevole’ porterà dunque all’amico. 5 Invece nel Diario intimo annoterà la situazione in famiglia, straziato tra l’amor fraterno e l’amarezza. Il possessivo ‘nostro’ ormai si riferisce alla Dalmazia, alla sua prima patria. La realtà di Sebenico non è più quella ‘sassosa’: nei ricordi del 17 ottobre 1845 appare poetica ma non più idealizzata: «Passeggio fra poggi e chine ignude, e quel po’ di verde che veggo tra il mesto biancheggiare de’ sassi mi fa doppia allegrezza». 6 Ormai la città natale assume un nostalgico valore del nido pascoliano dove tornare per nascondersi dal malessere di vita, dalle proprie ansie.  





Conclusioni Negli anni successivi, immerso nella vita culturale e giornalistica di Venezia, in seguito artefice nonché gestore della Repubblica di Venezia non tornerà più alla natale Sebenico. La sua amicizia, lettere scambiate con amici dalmati, lettere d’amicizia a Mickiewicz, autore del programma politico detto ‘panslavismo’ saranno prova del suo costante legame alla sua prima patria. 1  Cfr. Niccolò Tommaseo, Giovan Pietro Vieusseux, Carteggio Tommaseo-Vieusseux, i, con prefazione e a cura 2 di Virgilio Missori, Firenze, Le Monnier, 2002, p. 92 e 94.   Ivi, p. 206. 3   Niccolò Tommaseo, Diario intimo, cit., p. 849. 4  Cfr. Niccolò Tommaseo, Giovan Pietro Vieusseux, Carteggio Tommaseo-Vieusseux, i, cit., p. 347 e p. 411. 5 6   Cfr. ivi, p. 354.   Ivi, p. 845.

anna tylusińska-kowalska 160 Il biculturalismo tommaseiano viene percepito perfettamente da Raπaele Ciampini nella biografia del Dalmata: È la lingua che ha parlato sua madre, e il padre, e la madre di lei, e che tanti parlano ora a Sebenico intorno a lui, e tanti hanno prima parlato. È la lingua di quel popolo dalmata che è il suo popolo; e come in quel popolo si parlano due lingue, in quella terra hanno confluito due culture, e l’unità è in esso il prodotto di questa duplice vita, così anch’egli vuole accogliere e conciliare in sé stesso le due culture, vuole accogliere la duplice vita. 1  

Ugualmente negli ultimi decenni della sua vita, l’ormai vecchio e provato Tommaseo avrà sempre la Dalmazia nel suo cuore. In uno scritto pubblicato il 17 maggio 1874 sul giornale, «Amici dell’Istruzione» che usciva a Trieste, Alfonso Smoquina considera che si tratta probabilmente dell’ultima lettera che Tommaseo avesse scritto, apparsa sul giornale insieme alla notizia della sua morte. E nella lettera il grande poeta parlava della sua amatissima Dalmazia e come testamento esortava all’amicizia tra il popolo dalmata ed illirico, alla fratellanza. Inizia così: «È più di cinquant’anni ch’io mi partivo dalla casa paterna per andare agli studi in Italia; e la nostra barca, aspettando il tempo buono per la traversata del golfo, gettava l’ancora alla punta di Daila. L’Istria alla Dalmazia è come sorella, e le isole del Quarnero stanno tra l’una e l’altra quasi tenendosi la mano per invitare, e per rendere il passaggio più agevole». I testi di Tommaseo sulla Dalmazia rimangono personalizzati per tutta la sua vita. Sarà la duplicità che lo distinguerà dal mondo letterario suo contemporaneo. 1

  Raffaele Ciampini, Vita di Niccolò Tommaseo, Firenze, Sansoni, 1945, p. 291.

PASOLINI LETTORE E TRADUTTORE (IN FRIULANO) DI TOMMASEO Luigi Martellini

È

opportuno fare, per sommi capi, un excursus nel complesso universo di Tommaseo per vedere l’influenza del Dalmata sul ventenne Pasolini che nel ’43 (sfollato a Casarsa dopo l’8 settembre), tra gli altri autori lesse per la prima volta i Canti del popolo greco del Tommaseo, che definirà tra le «letture fondamentali della mia vita». 1 La coralità di quei Canti, le stranezze del linguaggio da difendere per conservare la memoria che attraverso di essi parlava, le infinite storie d’amore e di morte, di vita e di guerra, la semplicità delle immagini, ricomponevano un mondo popolare in una lingua viva, quella ‘dialettale’, la sola capace di restituirlo intatto con la sua mimesi naturalista e specificità etnico-linguistica. Il Tommaseo derivava la visione dell’armonia sociale e l’amore per i poveri dai valori del cristianesimo e da colui che considerava il ‘divino’ liberatore contrapponendolo ai ‘falsi’ liberatori e anche il suo populismo rivela la radice cristiana dal momento che il popolo è «la parte dell’umanità più diletta a Dio, perché più modesta; meno infelice perché meno esperta e meno avida delle misere felicità della terra». 2 Principi del Vangelo (come in Pasolini) che si inseriscono nel vasto progetto di uno Stato nazionale: si pensi ai popoli slavi, la Serbia cristiana, un’Europa da lui vagheggiata come una christiana societas insieme alla Dalmazia («nazione diletta») miscuglio di genti e storie diverse. Nelle evocazioni liriche del Tommaseo, è quindi presente (con le identità nazionali) l’amore per la natura e il mondo contadino con la sua voce genuina. È questo il caso dei canti popolari greci che colpirono Pasolini, in quanto in essi era possibile rinvenire i dettati di un rapporto con le tradizioni, ritrovare l’epos famigliare e le memorie personali. Se la concretizzazione poetica del ‘mito del popolo’ anima gli scritti del Tommaseo, se ne individuano tracce in molte opere di Pasolini fino al postumo Volgar’eloquio del ’76. In fondo Pasolini (con la sua periferia friulana, poi romana, e Tommaseo (per la Dalmazia che fa di lui lo scrittore più periferico della letteratura italiana) 3 si identificano per la loro esplorazione di aree linguistiche parlanti ai margini di un centro: la piccola Patria friulana e la Dalmazia tommaseiana, terre natali con le loro lingue, le loro culture e alla scoperta della propria identità politico-ideologica. I Canti popolari toscani, corsi, illirici, greci con la loro bellezza, la tradizione, l’epicità, la leggenda, l’anima e la lotta del popolo, indicano il percorso del Tommaseo il quale, soprattutto per i Greci, spiegava come la scelta dei loro Canti era stata distribuita secondo le quattro grandi idee dalle quali tutti gli umani aπetti (anche quello della patria) sono o rinfiammati o compensati, vale a dire l’Amore, la Famiglia, la Morte, Dio.  





1   Pier Paolo Pasolini, recensione al numero 2 dell’«Almanacco dello Specchio», precisamente al libro Il basilisco piumato, di Marianne Moore, 20 maggio 1973, in Idem, Descrizioni di descrizioni, Torino, Einaudi, 1979, pp. 95-99. L’edizione a febbraio (Torino, Einaudi) dei Canti del Tommaseo (sul modello dei Chants populaires de la Grèce moderne di Claude Fauriel del 1824-1825 e di altri autori indicati nella premessa Al lettore) era curata da Guido Martellotti. 2   Cfr. il capitolo sui Poveri, in Niccolò Tommaseo, Dell’Italia (Opuscoli inediti di fra’ Girolamo Savonarola), Parigi, Pihan Delaforest Morivai, 1835, p. 67. 3   Come lo definiva Gianfranco Contini, collocandolo tra una terra troppo antica e un’altra troppo nuova, vale a dire: tra una bara (l’Italia) e una culla (la Dalmazia), in Gianfranco Contini, Progetto per un ritratto di Niccolò Tommaseo, in Idem, Altri esercizi (1942-1971), Torino, Einaudi, 1972.

luigi martellini 162 Questo (ed altro) Pasolini leggeva in Tommaseo che emergerà negli anni come ‘spia’ linguistica nelle pagine di Pasolini, qualche esempio: nell’Antologia della lirica pascoliana del ’45, a proposito dell’oggettivazione del senso estetico, scrive che il Pascoli fa della nota una cosa bellissima degna del Tommaseo e quando parla della poesia Giovannino ritrova negli ultimi due versi una simile chiusa nella poesia Piaghe nascoste del Dalmata con quegli assonanti e violenti colori così distaccati; in Poesia d’oggi del ’49 dichiara la predilezione per la lingua letteraria dei provenzali ed evidenzia ‘l’assolutezza’ e ‘l’abbandono’ della poesia popolare dei Canti di Tommaseo; in Passione e ideologia (del 1948-1958), 1 negli studi panoramici intitolati La poesia dialettale del Novecento e La poesia popolare italiana, si legge (nel primo) che la stupenda versione dei canti del popolo greco si potrebbe indicare quale capolavoro ‘dialettale’ toscano, e (nel secondo) elogia la sintassi, le ellittiche, la carica dei sintagmi, i confronti con la metrica di varie regioni, per le rigorose scelte che configurano un canzoniere quasi di tipo stilnovistico, aristocratico nella sua allegria di popolani parlanti in lingua e viene visto come ‘libro memorabile’ in quanto Tommaseo ci consegna una poesia come ‘atto umano’ che fonda, anzi ‘profonda’ nei sentimenti. Appare chiaro il riferimento passionale e/o ideologico di Pasolini col modello tommaseiano nel rapporto: confronto ‘interiore’ della lettura-confronto ‘esterno’ con la propria vita, ovvero la ‘pagina’ che trova riscontro nella ‘realtà’. Nel volumetto di versi friulani Dov’è la mia patria (1949) Pasolini si chiede: «Si chiamerà italia?» (minuscolo) e risponde nella chiusa: «La patria è per me una sete / chiusa in un petto bruciato dall’arsura»; in Descrizioni di descrizioni (1972-1975) dove c’è la recensione al Tommaseo di Debenedetti del ‘73, attenua il giudizio sul Dalmata, ma aπerma che la traduzione dei Canti popolari greci è la più bella opera della letteratura italiana dell’Ottocento, dopo Porta, Belli, i Canti del Leopardi, i Promessi sposi del Manzoni. Ma soprattutto nei due romanzi brevi Atti impuri e Amado mio del ’46-’47 (pubblicati col titolo unico di Amado mio nel 1982), dove rivela le prime esperienze omosessuali, Pasolini sembra avere le stesse inquietudini di Tommaseo coi sensi di colpa per gli atti impuri, i desideri sessuali, la bellezza dei corpi, la corruzione, la richiesta di perdono a Dio, le promesse di non farlo più, il ricaderci continuamente e l’attesa della punizione divina e, tra le citazioni letterarie (Goethe, Gide, Kavafis, Eliot...) che distinguono dai ragazzi contadini il professorino Pasolini (che porta con sé libri e legge mentre i compagni giocano) 2 c’è il nome di Tommaseo. Tensione religiosa e sensualità, voluttà e misticismo, ricordano le confessioni di Fede e bellezza e le debolezze della vita di due uomini che tra peccato e rimorso, materia e spirito, si muovono tra contaminazione e purezza, trasgressione e sentimento. Da questo contesto scaturiscono tre percorsi pasoliniani: letterario, politico-ideologico, religioso. Ritornando perciò al ’43, tra canti di usignoli e verdi paradisi della «Piccola Patria Friulana», col senso cromatico-uditivo, e visivo-olfattivo dell’odore di fumo dei focolari, il suono delle campane, la chiesetta di paese, i temporali, le primule di febbraio, campi e bagni lungo il Tagliamento tra sagre e gite in bicicletta, 3 Pasolini con alcuni  





1   Milano, Garzanti, 1960. Nel saggio La poesia popolare italiana Pasolini ripropone versi tradotti da tre Canti di Tommaseo: Addio e All’amico lontano (dalla sezione L’Amore) e L’amore della vita (dalla sezione La Morte). 2   Il libro di Tommaseo che Pasolini porta sempre con sé rimane spesso alla portata degli amici che lo sfogliano e leggono alcuni versi dalle poesie: Addio, Al mare, All’amico lontano, Serenata..., riportati in Amado mio (pp. 166, 167, 168, 169, 175) ed ha una presenza così forte che non solo accompagna nei versi la trama di Amado mio, ma resta di√cile non pensare che dalla sezione Desiderii dei Canti di Tommaseo non possa essere derivato anche il nome del protagonista Desiderio. Tommaseo è presente anche in Atti impuri: «Per lo più lo attendevo [Pasolini attende il giovane Bruno col quale ha degli incontri] ore e ore, seduto col mio Tommaseo o col mio Tasso su un bellissimo prato, cinto da un filare di viti e da un fosso stracarico di piante» (p. 54). 3  Cfr. Nico Naldini, Nei campi del Friuli (La giovinezza di Pasolini), e una conversazione di Andrea Zanzotto, Milano, Scheiwiller, 1984 e quindi Pasolini poesie e pagine ritrovate, a cura di Andrea Zanzotto, Nico Naldini, Roma, Lato Side Editori, 1980 e Pier Paolo Pasolini. Un paese di temporali e di primule, a cura di Nico Naldini, Parma, Guanda, 1993.

pasolini lettore e traduttore (in friulano) di tommaseo

163 amici fonda gli «Stroligut» e l’‘Academiuta di lenga furlana’. A sfogliarle le riviste (con varie testate), che dovevano essere lette anche dai compaesani incolti ed esprimere quel mondo contadino, non solo evidenziano il progetto di Pasolini di una lingua (non di un dialetto) friulana dalle possibilità poetiche, ma ne rivendicano l’autonomia filologica sulla scia delle teorie del glottologo Ascoli che lo scrittore stava studiando, come la ‘scuola poetica’ che aveva fondato, nei programmi e negli intenti (il ‘felibrismo’), ci ricorda quella di Mistral per salvare il provenzale ed altri dialetti occitanici e recuperare l’identità culturale della Provenza. Poesie a Casarsa del ’42 (recensito da Contini), poi in La meglio gioventù e le riedizioni in La nuova gioventù (con aggiunta di La nuova forma de La meglio gioventù) fino al dramma di ispirazione storica I Turc tal Friul del ’44 (dove quel Friuli popolato di gente cristiana e contadina è invaso e devastato nel 1499 dai Turchi, 1 come dai Tedeschi nel 1944, e miracolosamente solo Casarsa fu salvata) testimoniano questo spaccato esistenziale con testi articolati sui modelli dei canti funebri degli antichi Greci e delle lamentazioni della Bibbia rintracciabili col loro senso di morte anche nel Tommaseo. E dalla lettura dei Canti, Pasolini individuava quel modo naturalistico e crepuscolare della vita rustica, i valori di un paese col suo Cristo e i suoi Santi, l’umiltà, una sua storia che equivaleva ad un passato di vecchie usanze, la fedeltà ad una religione vera (non quella che scoprirà più tardi), la sepoltura dei morti, la solitudine, il silenzio, i rintocchi dell’Ave, le sacre festività, il destino, le preghiere al Signore: un mondo impregnato di simbologie. Due numeri (aprile e agosto ’44) della rivistina usciranno con la testata di «Stroligut di cà da l’aga» (‘di qua dell’acqua’ del Tagliamento: un’area geografica e linguistica ben precisa e separata da quella che si trovava ‘di là’ del fiume), poi altri due numeri (agosto ’45 e aprile ’46) col titolo «Il Stroligut» (quando allargherà il discorso a tutto il Friuli), e poi ancora in «Quaderno romanzo» (un solo numero nel giugno ’47) per agire in una collettività neolatina più vasta e nella di√cile geografia del Friuli tra annessionismo jugoslavo, residui fascisti, autonomismo. Nello «Stroligut» dell’agosto ’45) c’è l’intervento Academiuta di lenga furlana con alcuni passaggi come: «Il Friuli si unisce con la sua sterile storia, e il suo innocente, trepido desiderio di poesia, alla Provenza, alla Catalogna, ai Grigioni, alla Rumenia, e a tutte le altre Piccole Patrie di lingua romanza [...] La nostra lingua poetica è il Friulano occidentale, finora unicamente parlato [...] Nel nostro Friulano noi troviamo una vivezza, e una nudità, e una cristianità che possono riscattarlo dalla sua sconfortante preistoria poetica». 2 Nella sezione ‘Tradutions’ troviamo col titolo A la so Pissula Patria (Alla sua Piccola Patria) la traduzione in friulano (di Pasolini) della poesia Alla Dalmazia di Tommaseo. In «Quaderno romanzo» ancora uno scritto di Pasolini sul Friuli autonomo, un Fiore di poeti catalani (traduzione e commento a mo’ dei Canti tommaseiani in chiave di riscatto autonomistico dall’assolutismo di Franco, con una nota sulla letteratura catalana), il saggio dal titolo Di alcune concordanze tra friulano e albanese di Francescato sulla «presenza di una antica fascia linguistica che, dall’Italia Settentrionale, attraverso l’Istria e la Dalmazia, si sarebbe spinta, colla forza penetrativa della sua prevalente latinità, fino alla Macedonia ed all’Epiro, lasciando alcune tracce anche nell’albanese» 3 e a chiusura un intervento di Serra sui Racconti della Percoto che il Tommaseo fece conoscere curandoli per Le Monnier nel 1858. Dalle Piccole Patrie alla traduzione di Alla Dalmazia, dalla poetica per una lingua friulana agli scritti  





1   Anche se non abbiamo certezza, non è da scartare l’ipotesi che l’episodio turco-friulano narrato da Pasolini possa essere stato ispirato da analoghi fatti bellici che hanno come protagonisti i Turchi e tradotti dal Tommaseo nella sezione I teschi e i combattenti della parte (intitolata La Morte) dei Canti dove è possibile sapere di combattimenti, imprese, battaglie napoleoniche, fughe, rivolte albanesi, lotte dei Greci, invasioni turche, nell’allegoria di morte. 2   Per queste e le altre citazioni subito dopo riportate si rimanda a Pier Paolo Pasolini, L’Academiuta friulana e 3 le sue riviste, a cura di Nico Naldini, Vicenza, Neri Pozza, 1994, pp. 37-40, passim.   Ibidem.

luigi martellini 164 autonomistici, appare chiara la tendenza pasoliniana ad avere in Tommaseo non solo un modello letterario ma anche politico. Nel Dalmata c’è traccia di tutto questo: nelle Confessioni, nelle Memorie poetiche, nelle Poesie ed altrove, è possibile incontrarsi coi richiami al patriottismo, all’ amore per l’Italia sempre vivo in lui con la percezione continua di sentirsi in esilio e nei saggi critici come negli studi su Italia, Grecia, Illiria, Isole Ionie, Dalmazia, sempre il Tommaseo intende indagare le comparazioni sociali e politiche e rintracciare le analogie storiche, la cultura, gli usi e costumi e con esse l’imbastardimento della lingua, le fazioni localistiche e auspica che quelle regioni possano ritrovare se stesse liberandosi dalle mescolanze degli altri popoli. Ma la sua amata Dalmazia, che nelle aspettative doveva diventare il ponte per eccellenza tra l’Italia e il mondo slavo, lo segnerà di un altro destino, lui che nato al confine di quelle che oggi sono Italia, Croazia e Serbia, sarà mal sopportato in Italia, accusato di tradimento in Croazia e pressochè ignorato in Serbia, lui che irriducibile paladino delle naturali autonomie e delle nazioni che nascono dal popolo e con esso si identificano, è stato alla fine abbandonato da tutti, lui che assegnava alla Dalmazia, sentita e chiamata Nazione, il privilegio di mediatrice con l’Oriente slavo ed ellenico (per altro il filellenismo letterario italiano era molto caro anche a Pasolini). Ricordiamo l’appello ai fratelli Croati di compiangere chi è più infelice di loro, perché la sventura più grave è il divario tra il popolo misero e chi combatte per aπrancarsi. 1 La lezione di Tommaseo è quella di colmare quel fossato tra i grandi e il popolo, ignorato e avvilito, ma sempre depositario di valori autentici, risvegliarne la coscienza, renderlo consapevole di sé: ricordiamo la «sacca storica», il popolo «fuori dalla storia», il «popolo autentico», quel «sogno di una cosa» di cui parlava Pasolini che, dalla forza negli scritti di Tommaseo, trasformava la ‘fede’ romantica del Dalmata (in un Dio-guida che concede il valore ai prodi) nella sua ‘ideologia’ comunista (in un Partito che guida il popolo dentro la storia, elimina la sacca storica ed attua la speranza (sogno) tutta marxista in un mondo migliore. Ritornando alla traduzione di Alla Dalmazia che Pasolini riduce da cinquantré a trentuno endecasillabi, di certo per un principio di attualizzazione del discorso autonomistico che Pasolini faceva sulle Piccole Patrie, sono eliminati dalla traduzione i richiami di Tommaseo alla Serbia ed alla storia della Dalmazia, come i versi 7, 27-33, 41-43 e gli ultimi sei versi (48-53) auspicanti la sua grandezza, che un giorno verrà. I tagli eπettuati da Pasolini mirano a smorzare il tono e il vigore storici del testo di Tommaseo e cercano di adattarlo geograficamente al suo Friuli togliendo anche le «poche ignude isole sparte» del povero lembo di terra tra mare e monte della Dalmazia e sostituendo anche la flora, ovvero il «cedro» e il «mandorlo» delle sue coste coi «gelsi» («morars fluris») di Casarsa: fondendo così le Piccole Patrie (Friuli e Dalmazia) in un solo destino e la «seconda Italia» diventa «Italiuta» (Italietta). Pasolini oltre Alla Dalmazia tradusse la poesia L’imprecazione (dai Canti). 2 Anche qui si tratta di riduzione (a diciotto dei ventiquattro versi), oltre che innovazione, avendola Pasolini trasformata nello schema metrico di doppi settenari. E poiché il canto antologizzato dal Tommaseo è di un donna greca abbandonata («come canna nel campo») dal suo uomo e, tra amore appassionato e odio amoroso, maledice chi rubò con promesse il suo cuore, la scelta di Pasolini di tradurlo è riconducibile, nel significato, ai sentimenti che lo agitavano in quegli anni, tra innamoramenti e abbandoni, e caratterizzano gli incontri descritti in Atti impuri e Amado mio,  



1   Si rimanda a Niccolò Tommaseo, Scritti editi e inediti sulla Dalmazia e sui popoli slavi, 2, a cura di Raπaele Ciampini, Firenze, Sansoni, 1943. 2   Si trova a p. 24 dell’edizione einaudiana, nella prime delle quattro parti: L’amore (sezione Segni d’amore). La traduzione, rimasta inedita e ritrovata tra le carte dello scrittore, prende il titolo dal capoverso: Biela luna lusint, ke ti vas jù pal çamp [Bella lucente luna, che vai al tramonto] ed è oggi leggibile in Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, ii, a cura di Walter Siti, Milano, Mondadori, 2003 («I Meridiani»), nella parte Traduzioni poetiche.

pasolini lettore e traduttore (in friulano) di tommaseo

165 rimandando a Dio (in Tommaseo, al Signore nella traduzione di Pasolini) la volontà di giudicare il suo comportamento. Si diceva, infine, di un terzo percorso pasoliniano proveniente da Tommaseo: quello religioso. La visione che Pasolini ha della Chiesa e della fede, tra tanti scritti, è leggibile ne L’usignolo della Chiesa Cattolica del ’58 quando vive ormai a Roma. Ma i testi de L’usignolo, datati 1943-49, occupano interamente il tempo friulano e contengono tracce di quel ‘cristianesimo primitivo’, di quel Dio più volte invocato e, con la presenza del male di vivere, della morte ineluttabile, formano il magma poetico di una stagione di vita e di letteratura. Sono profonde suggestioni poetiche che nascondono (dietro le feste di paese impregnate di religiosità e di liturgia o una gioventù che è dolore) un mondo (il Friuli) arcaico che nella sua dimensione metastorica conserva intatta l’innocenza primordiale: i vespri, la Chiesa, le litanie e i canti, i tramonti, le albe, la devozione alla Madonna, i villaggi contadini, la vegetazione, i riti funebri. Da questa regressione simbolica emerge una Chiesa trasfigurata, depositaria di speranza e di fede, e un Cristo che nella fisicità di un corpo insanguinato, morto nel supplizio della croce e del calvario, emana purezza e vita, riscontrabili nella figurazione della ‘madre’ (la ‘madre’ Chiesa, la ‘madre’ del Cristo, la ‘madre’ di Pasolini, ovvero la Madonna del suo film Il Vangelo secondo Matteo). Lo scrittore dialoga con questo Cristo al quale non sa abbandonarsi, un Cristo-uomo (uno dei tanti poveri Cristi pasoliniani) che, messo in croce, muore sotto gli occhi di tutti, una morte esibita è il senso del suo esporsi e questo insegna il Cristo inchiodato: essere sulla croce, alla gogna, per «testimoniare lo scandalo». Ma quello di Pasolini è un monologo: dallo scandalo della contraddizione tra intelletto e passione (razionale e divino), è netta la divisione tra un Dio che non ascolta l’estrema voce dell’uomo e una Chiesa-istituzione non più innocenza e purezza e quel Friuli arcaico e metastorico con la chiesetta di Casarsa, contadina e disadorna, sono ormai solo ingenuità e sogno. 1 Tre anni dopo Pasolini pubblica La religione del mio tempo (datata 1955-60). Nel lungo poemetto eponimo è possibile trovare questi versi: «di volume in volume, / – erano Shakespeare, Tommaseo, Carducci... – / faceva d’ogni mia fibra un solo tremito»; 2 oppure:  



la mia religione era un profumo… il senso della vita mi ritorna / com’era sempre allora... Eppure, Chiesa, ero venuto a te. / Pascal e i Canti del Popolo Greco / tenevo stretti in mano, ardente, come se / il mistero contadino, quieto / e sordo nell’estate del quarantatre, / tra il borgo, le viti e il greto / del Tagliamento, fosse al centro;..consumavo le ore / del più bel tempo umano, l’intero / mio giorno di gioventù, in amori / la cui dolcezza ancora mi fa piangere… / Tra i libri sparsi..io davo a Cristo / tutta la mia ingenuità e il mio sangue / ...aspettavo che scendesse la sera, / ...che l’Angelus suonasse, velato / del nuovo, contadino mistero / ...Fu una breve passione..la chiesa del mio adolescente amore / era morta nei secoli..Spazzò la Resistenza / con nuovi sogni il sogno delle Regioni / Federate in Cristo, e il dolceardente / suo usignolo… Nessuna delle passioni / vere dell’uomo si rivelò / nelle parole e nelle azioni / della Chiesa. 3  

Pasolini entrava in Chiesa con i Canti del popolo greco stretti in mani, quasi a verificare se poteva ritrovare la passione e la fede di cui parlava Tommaseo o se fossero rimaste a Casarsa sulle pagine dei Canti, e quindi solo parole lette, non riscontrabili nella realtà. Continua Pasolini: «Guai a chi non sa che è borghese / questa fede cristiana… che la Chiesa / è lo spietato cuore della Stato». 4 La Chiesa di Pasolini, quella di Casarsa e dei Canti non esisteva più, quella religione che il Friulano e il Dalmata vedevano nell’indole del popolo umile, la fede in Dio, nel valore e nel destino dell’uomo, nell’attesa della  

1   Mi sia consentito, per L’usignolo della Chiesa Cattolica e La religione del mio tempo, rimandare al mio Ritratto di Pasolini, Bari-Roma, Laterza, 2006. 2   Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, i, cit., p. 965. 3 4   Ivi, pp. 966-969.   Ivi, p. 970.

166

luigi martellini

Grazia, la gioia che veniva dal dolore, quella religione semplice, il sacrificio del Cristo, erano ormai scomparsi e con loro la speranza. I tempi erano cambiati: quale era dunque l’altra religione? Senza dire, per ovvi motivi, della poesia A un Papa, dove la religione e la Chiesa hanno perduto la pietà e l’amore, la risposta la si può leggere nell’explicit di La religione del mio tempo: tutto distrugge la volgare fiumana / dei pii possessori di lotti: / questi cuori di cani, questi occhi profanatori, / questi turpi alunni di un Gesù corrotto / nei salotti vaticani, negli oratori, / nelle anticamere dei ministri / nei pulpiti: / forti di un popolo di servitori. / Com’è giunto lontano dai tumulti / puramente interiori del suo cuore, / e dal paesaggio di primule e virgulti / del materno Friuli, l’Usignolo / dolceardente della Chiesa Cattolica! / Il suo sacrilego, ma religioso amore / non è più che un ricordo, un’ars retorica: / ma è lui, che è morto, non io, d’ira, / ‘amore deluso, di ansia spasmodica / per una tradizione che è uccisa / ogni giorno da chi se ne vuole difensore; / e con lui è morta una terra arrisa / da religiosa luce, col suo nitore / contadino di campi e casolari; è morta una madre ch’è mitezza e candore… ed è morta un’epoca della nostra esistenza. 1  

In quella che chiamava la Città di Dio, Pasolini sperava di ritrovare la chiesetta di Casarsa e quel Dio di cui il ‘suo’ Tommaseo aveva parlato nei Canti: il Dio delle anime, della preghiera, del pianto, del soccorso, della pietà, dei miracoli, della morte, del mistero, il Dio che è (non sarà), il Dio del perdono che governa e comprende le cose del tempo e dell’eternità, e una Chiesa dove sacramento è l’amore, dal quale il Cristianesimo trae gioia. Ma quel Dio e quella Chiesa di Tommaseo (che Contini aveva definito più un cristiano delle età primitive che un cattolico), non c’erano più, erano morti per sempre. 1

  Ivi, pp. 986-987.

ANTONIO LUBÍN DANTISTA 1  

Giovanni Fighera Brevi cenni biografici

N

on essendo Antonio Lubín una personalità di primo piano, mi pare opportuno ridurre primamente alla memoria sommari cenni biografici. Nato a Traù nel 1809, Lubín si laureò in Filosofia all’Università di Padova nel 1838. Fu poi ordinato sacerdote nella città natale e divenne insegnante di ginnasio e di liceo dal 1842 al 1854 a Zara e Spalato, poi dal 1854 al 1856 al ginnasio Santa Caterina a Venezia. Dal 1857 al 1875 fu docente universitario di Lingua e letteratura italiana presso l’Università di Graz. Divenuto, poi, deputato di Traù, fu ordinato Cavaliere della Corona Ferrea e fu più volte rappresentante presso il Consiglio dell’Impero. Si distinse per l’indefesso impegno in nome dell’autonomia della Dalmazia dalla Croazia. Dopo il pensionamento, proseguì i suoi studi fin quasi alla morte che avvenne a Traù nel 1900. Le opere Erudito, poliglotta, rivolse il suo interesse per lo più al corpus dell’opera dantesca tanto che venne considerato il maggiore dantista dalmata insieme a Niccolò Tommaseo. La sua ricerca risentì profondamente del clima culturale positivista dominante nella seconda metà dell’Ottocento, fu caratterizzata da un’ampia analisi delle fonti e fu protesa alla divulgazione dell’opera dantesca anche al grande pubblico. Oggetto dei suoi studi fu anche il Dante minore e, in particolar modo, la Vita nova. Nel saggio Intorno all’epoca della Vita Nuova di Dante Alighieri Lubín fissa il tempo di composizione dell’opera al 1300, mentre la critica ha tradizionalmente collocato la genesi del testo intorno al 1292-1294. Gli ultimi scritti di Lubín si rivolgono all’astronomia dantesca (Dante e gli astronomi italiani, Il pianeta Venere e la dama filosofica). Lo studio della Commedia Per quanto concerne lo studio della Divina Commedia si segnala in particolare il suo commento la Commedia di Dante Alighieri, preceduta dalla vita e da studi preparatori illustrativi, esposta e commentata. 1   Nella produzione di Antonio Lubín si segnalano: a) studi e saggi critici: Contro l’annessione della Dalmazia alla Croazia incidentemente contro la slavizzazione delle provincie tedesche e italiane dell’Austria, Trieste, Giovanni Balestra, 1898; b) edizioni e studi danteschi: La Matelda di Dante Allighieri, Graz, Giuseppe Kienreich, 1860; Intorno all’epoca della Vita Nuova di Dante Alighieri, Graz, Giuseppe Kienreich, 1862; Allegoria morale, ecclesiastica, politica, nelle due prime cantiche della Divina Commedia di Dante Alighieri, ovvero Dei vantaggi che per l’intelligenza della Divina Commedia si possono trarre dalla conoscenza della cultura del suo autore, Graz, Giuseppe Kienreich, 1864; Scena della terza cantica e sua ragione, Venezia, Giuseppe Antonelli, 1877; Soggetto e piano della terza cantica, Venezia, Luigi Penada, 1878; Commedia di Dante Alighieri, preceduta dalla vita e da studi preparatori illustrativi, Padova, Luigi Penada, 1881; Dante spiegato con Dante e polemiche dantesche, Trieste, Luigi Penada, 1884; Il cerchio che, secondo Dante, fa parere Venere serotina e mattutina, secondo i due diversi tempi e deduzioni che se ne traggono, Bologna, Tipografia Fava e Garagnani, 1892; Dante e gli astronomi italiani: Dante e la donna gentile, Trieste, Giovanni Balestra, 1895; Il pianeta Venere e la dama filosofica, Trieste, Giovanni Balestra, 1898. Per quanto riguarda gli studi critici su Antonio Lubín si segnalano: Ildebrando Tacconi, Contributo della Dalmazia alla vita e alla cultura italiana, «Atti e memorie della Società Dalmata di Storia Patria», v, 1966, p. 90; Francesco Semi, Antonio Lubín e Donato Fabianich, «Istria e Dalmazia. Uomini e tempi», ii, Udine, 1992, p. 388 sgg.; Enciclopedia dantesca, iii, p. 695 sgg.; Rita Tolomeo, Lubín Antonio in Dizionario biografico degli italiani. On-line, Roma, Treccani, 2007.

giovanni fighera 168 Nel «proemio» Lubín aπerma di aver «dato il testo della Commedia, accompagnato da una diligente interpretazione letterale e da note opportune alcune delle quali anche nuove» 1 e di essersi attenuto a Dante, «il quale vuole che nelle composizioni che racchiudono sensi allegorici, si conosca innanzi tutto il senso letterale, e poscia si proceda a discoprire per esso l’allegoria». 2 Per comprendere un poema complesso come la Commedia sono necessarie molte conoscenze, in primis la vita dell’autore e le altre sue opere, «tutte opportunissime a compiere il ritratto dell’uomo, del letterato, del cittadino, ed alcune anche a servire quale ottimo commento a più luoghi della Commedia, ed indispensabili poi alla soluzione d’importanti questioni». 3 Lubín adotta una modalità di esposizione «piana», memore di quelle biografie sul poema dantesco senz’altro notevoli per sublimità di immagini e per ricchezza di erudizione, ma che non rendono più chiara l’opera «sì che dopo la lettura di esse del Poema non se ne intendeva punto più di prima». 4 L’opera è bipartita. Alla prima sezione intitolata Vita e opere di Dante (pp. 9-140) seguono gli Studi preparatori illustrativi (pp. 141-491). Nella Vita e opere Lubín prende in considerazione i biografi di Dante, la storia di Firenze, la genealogia del poeta. Si avvale, poi, delle opere minori per ripercorrere le tappe fondamentali della vita dell’Alighieri. In particolare, la Vita Nova gli oπre l’impalcatura per ricostruire gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza del poeta. Così, Lubín scrive: «Io credo Beatrice donna vera e la Vita nuova storia letteralmente vera: la storia della Musa di Dante, intesa a celebrare la Beatrice fiorentina e la Beatrice allegorica». 5 L’età matura è ricostruita a partire dallo studio delle opere dal Convivio alla Quaestio de aqua et terra. Nella prima parte degli Studi preparatori (pp. 141-285), dopo aver definito la Commedia come la più importante epopea mai scritta, Lubín individua nella Vita Nova la profezia della Commedia. Nel capitolo conclusivo dell’opera giovanile Dante promette di scrivere quanto mai nessun uomo ha composto per una donna. 6 Lubín dedica, poi, un’attenzione privilegiata all’aspetto allegorico della Commedia rintracciando le allegorie degli antichi (Platone, Virgilio, san Paolo, sant’Agostino) come quelle dei moderni (Ugo da San Vittore). Da Ugo da San Vittore Lubín riprende anche la distinzione tra allegorie sacre e profane. Nella seconda parte (pp. 286-491) Lubín analizza i personaggi principali dell’opera dal punto di vista allegorico. Così le tre guide di Dante nel percorso dalla selva oscura alla visione di Dio (Virgilio, Beatrice, san Bernardo) rappresentano rispettivamente la ragione illuminata dalla filosofia, la teologia e l’intelletto. Nel Purgatorio emergono Catone, allegoria del cittadino che oπre la vita in nome della libertà, Stazio che è l’appetito sensitivo, Matelda che rappresenta la vita attiva. Senz’altro eccessiva è l’attenzione riservata alla lettura allegorica della Commedia che rischia di mettere in secondo piano la complessità e la poliedricità del poema. Manca nell’analisi di Lubín la salvaguardia della concretezza e della natura storica dei personaggi che, invece, l’interpretazione figurale di E. Auerbach permette.  











1   Antonio Lubín, Commedia di Dante Alighieri, preceduta dalla vita e da studi preparatori illustrativi, esposta e commentata, Padova, Luigi Penada, 1881, p. 3. 2 3   Ibidem.   Ibidem. 4 5   Ivi, p. 5.   Ivi, p. 15. 6   «Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus» (Dante Alighieri, Vita Nova, xlii).

antonio lubin dantista

169 Agli Studi preparatori segue la Commedia di Dante Allighieri introdotta da un Avvertimento (pp. 495-496) per la lettura, da quattro Tavole illustrative, che permettono al lettore di comprendere meglio il cosmo dantesco, e dalle Tavole sinottiche (pp. 497-522) delle tre Cantiche. «Esse contengono gli Argomenti dei singoli Canti attribuiti al Boccaccio, tratti dalle Rubriche pubblicate da Lodovico Pizzo, Venezia 1859; il Diario del viaggio; le persone vedute nei tre regni dell’altro mondo distinte in classi secondo la loro condizione; la specie dei peccati e delle virtù colle pene e coi premi relativi». 1 Lubín presenta, poi, le tre Cantiche (pp. 523-909) riducendo all’essenziale l’apparato di glosse, limitando gli approfondimenti storici e gli aspetti ermeneutici del testo, prestando attenzione, in particolar modo, al piano allegorico dell’opera. Il fine di Lubín è, infatti, quello di «togliere al novello lettore ed agli stranieri, che imparano la lingua sulle grammatiche, la noia di dover ricorrere alle note per intendere il senso letterale, e spesso senza esserne soddisfatti». 2 All’abbondanza delle note Lubín preferisce apporre a lato al testo della Commedia l’esposizione letterale con l’uso delle parole di Dante senza modificare né la sintassi né i costrutti in modo tale che «a chiunque intenda l’italiano, riesca facile a rilevarne il senso […] preciso». 3 Lubín aggiunge, più brevemente che può, le parole omesse nel testo dantesco presentandole in corsivo e alla parola antiquata sostituisce il sinonimo, ponendo tra parentesi o il termine antiquato o il sinonimo sostituito. Lubín intende, così, facilitare la lettura e la comprensione dell’intera Commedia, normalmente conosciuta solo per la prima cantica e per pochi versi del Purgatorio e del Paradiso. Nell’Avvertimento Lubín sostiene che i lettori, pur se ammirati dalla bellezza dell’Inferno, non si avventurano nella lettura integrale delle altre cantiche per la di√coltà di comprendere il significato letterale del testo. Per le stesse ragioni Lubín tende a non lasciare ambiguità nell’ermeneutica dei versi in nota. Un esempio su tutti è la lettura del verso finale nel monologo del Conte Ugolino. Quel «Poscia, più che ‘l dolor, potè il digiuno» è per Lubín interpretabile in maniera univoca. In alcun modo, si può intendere, avverte Lubín, che il Conte Ugolino, vinto dalla fame, abbia mangiato i suoi figli, perché si toglierebbe tutta la tragicità del personaggio. In tono categorico scrive: «Che Dante potesse presentarci il Conte ridotto all’insania, alla demenza di mangiare la carne dei figli, per i quali avea provato tanto dolore per non poter dar loro del cibo: e mangiarne la carne per prolungar di poco la sua triste vita, poiché di fame doveva pur morire, non lo crederò mai. Il digiuno poté più che il dolore a farlo mangiar de’ figli? No, a farlo morire, ad ucciderlo». 4 A comprova di tale aπermazione Lubín porta il verso «E due dì li chiamai poi ch’e’ fur morti»: «E perché aspettare ancora due giorni per porsi a sfamarsi della carne de’ figli? Ugolino morì di fame, la quale poté su di lui più che il dolore. Ed è tragica morte d’un grande. Il dolore tormenta l’uomo grande, ma non lo spegne: il digiuno però spegne anche lui, poiché non vi è eroe che della fame trionfi». 5  









La polemica con Francesco D’Ovidio L’ostinata propensione di Lubín ad individuare troppo frequentemente simboli nei versi danteschi fece sì che venissero mosse critiche da alcuni studiosi contemporanei, in primis da Francesco D’Ovidio che si scagliò contro Lubín: «Chi non si lascia abbagliare da quella smagliante forma che ha nello scrivere, ma pesa quello che legge, lo deve giudicare privo delle doti al critico necessarie. […] Quelli del Lubín sono sospetti gratuiti e in parte inverosimili […]. Ma son poi tanto più da respingere, in quanto che, a trascinare 1

2

3

5

  Antonio Lubín, op. cit., p. 496. 4   Ibidem.   Ivi, p. 636.

  Ibidem.   Ibidem.

giovanni fighera 170 la composizione della Vita nuova fino al 1300, si va incontro a cento contraddizioni, inverosimiglianze, assurdità». 1 D’Ovidio, inoltre, rinfacciò a Lubín l’esagerato numero di allegorie che riconosce nell’opera dantesca. Per D’Ovidio nella Commedia dantesca Lucia e Matelda sarebbero gli unici esseri non storicamente reali, mentre nella Vita Nova Beatrice è ancora personaggio reale e diventa allegorico solo dopo la morte. Prova ne sia che il numero ‘nove’ compare solo nella prosa, che è successiva alla morte di lei. Lubín replicò in maniera vigorosa e accurata con il Dante spiegato con Dante e polemiche dantesche. Tacciò D’Ovidio di mancanza di rispetto, di presunzione e di sprezzo, «certissimi segni di ignoranza». 2 Lo accusò di agognare la fama attraverso la polemica. Lubín ribadì le ragioni della datazione della Vita Nova al 1300, anno del Giubileo, a cui si allude chiaramente nel capitolo xxxvi nella frase «in quel tempo nel quale molta gente andava a vederlo» 3 quando si mostrava la Veronica per consolazione dei cristiani tutti i venerdì e tutti i giorni di festa. In questo caso, come al solito nella Vita Nova, Dante non dichiarò la data expressis verbis, ma in maniera dottrinale. La data in cui i pellegrini giungono a Firenze deve essere posteriore alla morte di Beatrice (9 giugno 1290), all’apparizione della donna gentile (che Lubín attribuisce all’agosto del 1293) e alla canzone «Voi che intendendo» (datata al febbraio del 1296). Quindi, con certezza, la Vita Nova non fu scritta nel 1291, quando Dante aveva ventisei anni, come aπerma Boccaccio nella Vita di Dante. Lubín ribadì, poi, che la Beatrice della Vita Nova era quella allegorica della Commedia. Dante, «studioso dei classici e dei teologi, volle seguirli anche nell’uso della scienza dei numeri […]. Egli voleva su questo nove costruire la sua allegoria; e però, quanto più ne poteva annoverare, tanto meglio». 4 Il numero ‘nove’ non è presente solo nella prosa della Vita nova, ma anche in un serventese in cui Beatrice compare al numero nove nella graduatoria delle donne più belle di Firenze. Sarebbe questa la prova per Lubín che anche la Beatrice in vita era da Dante concepita in chiave allegorica.  







1   Francesco D’Ovidio, La Vita nuova di Dante ed una recente edizione di essa, «Nuova Antologia», vi, 1884, pp. 238-268. 2   Antonio Lubín, Dante spiegato con Dante e polemiche dantesche, Trieste, Luigi Penada, 1884, p. 26. 3 4   Ivi, p. 41.   Ivi, p. 33.

FORTUNIO LETTORE E FILOLOGO DI DANTE: QUANDO LA GRAMMATICA RISCOPRE LA COMMEDIA Valentino Della Casa

A

lc uni equivoci rendono di√cile un inquadramento biografico corretto o il più possibile vicino alla realtà di Giovan Francesco Fortunio. Del grammatico, infatti, poco si sa, e di quel poco, molto resta avvolto da un alone di incertezza che, con ogni probabilità, ha contribuito a rendere più di√coltosa la diπusione di un’opera in verità importante come le Regole grammaticali della volgar lingua, la prima grammatica della storia della lingua italiana. Contrastano infatti i dati raccolti da studi precedenti, che, al di là della data di nascita (la quale resta a oggi ignota), non trovano un accordo nemmeno sul paese d’origine. Qui, il problema è di natura complessa. Ricorda bene Benedetti, in un articolato saggio a proposito del grammatico che Fino a pochi anni or sono il Fortunio era ritenuto di origine dalmata, ma il dotto critico letterario triestino Attilio Hortis, per primo ha posto il dubbio ch’egli fosse di Pordenone. 1  

In verità, l’Hortis nei suoi studi aggiungeva che «i Veneziani dicono “schiavone” di nascita», 2 portando quindi a tre le possibili attribuzioni della patria del Fortunio: dalmata, friulana, o ancora più genericamente slava. Di queste, la meno probabile resta l’ultima, e deriva da un’errata interpretazione di una lettera che il Muzio scrisse al Varchi all’interno della quale, definito «schiavone» il grammatico, il primo volesse «asserire, scherzosamente, che uno “schiavone” era stato in grado di ingegnare la lingua italiana meglio di un toscano». 3 Molto più incerte, invece, le altre due. Sappiamo infatti che Fortunio, oltre che un umanista e un grammatico, fu prima di tutto un uomo di legge: sul finire del 1497 ottiene a Trieste la carica di vicario, per poi spostarsi a Venezia dove, grazie anche all’importanza politica ottenuta in Friuli, era «appoggiato […] da potenti amici»; 4 infine, diviene e mantiene con grandi apprezzamenti la carica di podestà ad Ancona dove nel gennaio 1517, pochi mesi dopo l’agognata pubblicazione dei primi due libri – il progetto editoriale ne prevedeva altri tre – delle Regole, muore in seguito a un tragico incidente, sotto le finestre del palazzo pretorio. Proprio gli incarichi pubblici hanno permesso, negli archivi delle due rispettive città, di reperire qualche dato in più sulle sue possibili origini: a Trieste, in più carte, il Fortunio viene definito «Portuanoniensis» o «de Portunaone», 5 e lo stesso dato si ottiene in diverse lettere rinvenute e indirizzate  







1   Andrea Benedetti, Gian Francesco Fortunio umanista e primo grammatico della lingua italiana, Pordenone, Tipografia Sanmarco, 1970, p. 6. 2   Attilio Hortis, Notizie di Gianfrancesco Fortunio, «Giornale storico della letteratura italiana», cxi, 333, 1938, pp. 205-212: 206. 3   Andrea Benedetti, op. cit., p. 24. Accolgo la tesi «con qualche fondamento» (p. 23) di Benedetti a proposito dell’ambiguità della parola «schiavone», secondo la quale da Pordenone e Cordenòns (grosso centro abitato vicino alla città friulana) esisteva un villaggio, Sclavòns, «abitato da discendenti di antichi invasori e perciò stranieri», da 4 cui origina l’incomprensione del termine.   Ivi, p. 11. 5   Ivi, p. 7. Ma anche Attilio Hortis, op. cit., p. 206.

valentino della casa 172 proprio al grammatico; ad Ancona, tuttavia, non mancano testimonianze di un Giovanni Francesco Fortunio «de Hyadra», di Zara, 1 a cui si aggiungono quelle del conte Matteo di San Martino, il quale lo definisce «Dalmatino», 2 che si accoda al «homo Delmata pereruditus» 3 di Apostolo Zeno di diversi anni prima. Qui, Benedetti, approvato poi da Dionisotti (che rivede la sua iniziale posizione di un Fortunio dalmata), 4 non trovando riferimenti bibliografici che confermino quanto scritto dal già citato Zeno, anche a discapito del fatto che il nome Fortunich non fosse così impopolare nella Dalmazia settentrionale, sostiene in maniera non priva di fondamento come sia più facilmente ipotizzabile il grammatico di Pordenone, concludendo, inoltre, che «tutti coloro che lo chiamarono dalmata o schiavone, si attengono solamente alla tradizione basata sulla fuggevole asserzione del Muzio». 5 È tuttavia da considerare un episodio storico di rilievo. Ad Ancona, il Fortunio ebbe un incarico pubblico importante e ottenne anche vasti apprezzamenti. Da podestà, per meglio aπrontare la battaglia di Iesi del 1513, chiese l’aiuto del fratello Matteo Fortunio, con il quale era in stretti rapporti e aveva passato non pochi guai a Treviso durante il famoso assedio del 1511 che vedeva i veneziani (al servizio dei quali era Matteo) opporsi ai francesi. In soccorso di Giovan Francesco, con 600 soldati zaratini al seguito, venne quindi questo Matteo, che nei documenti del periodo veniva appellato «Mathio de Zara». 6 Ora, bene fa il Benedetti a ricordare che «non possiamo neppure ammettere che il Fortunio sia stato definito dalmata per aver ricoperto da giovane una carica in quelle città della costa orientale dell’Adriatico perché la gelosa Repubblica Veneta a√dava tali mansioni nelle terre a lei soggette solo a patrizi veneziani», 7 e in eπetti Francesco non ha mai ottenuto incarichi u√ciali in quelle zone, perché non era né veneto, né patrizio. Così, però, anche Matteo, la cui origine zaratina, che viene esplicitamente ammessa a Venezia, porta evidentemente più di un dubbio circa le esatte origini anche del grammatico. Di√cile aπermare quindi con sicurezza la provenienza friulana piuttosto che dalmata di Fortunio, dal momento che i legami di parentela sembrano indicare il contrario. E se le fonti biografiche sono incerte, non è da meno il titolo di primato cronologico delle Regole, messo in discussione con veemente polemica da Pietro Bembo. È questo l’altro equivoco che ha condizionato la fortuna delle Regole negli anni immediatamente successivi la pubblicazione, avvenuta, con non poca fatica, nel 1516. Famosa è la lettera del 27 maggio 1529 che Bembo scrive a Bernardo Tasso, rispondendo a quanto asseriva il Maestro Pellegrino Moretto:  













se ad esso pare che io abbia furato il Fortunio perciò, che io dico alcune poche cose, che egli avea prima dette, egli nel vero non è così. Anzi, le ha egli a me furate con le proprie parole, con le quali io le avea scritte in un mio libretto forse prima, [...] che egli vide ed ebbe in mano sua molti giorni. […] Oltre a ciò io potrò farlo parlare con persone grandi e dignissime di fede, che hanno da me 1   Gino Pistilli, Giovanni Francesco Fortunio, in Dizionario Biografico degli Italiani, xlix, Roma, Treccani, 1997, pp. 257-260. 2 3   Attilio Hortis, op. cit., p. 207.   Andrea Benedetti, op. cit., p. 24. 4   Mi riferisco ai due saggi di Carlo Dionisotti, Ancora del Fortunio, «Giornale storico della letteratura italiana», vol. cxi, 333, 1938, pp. 213-254 e Idem, Il Fortunio e la filologia umanistica, in Rinascimento europeo e rinascimento veneziano, a cura di Vittore Branca, Venezia, Sansoni, 1967 («Civiltà europea e civiltà veneziana. Aspetti e problemi», 3), pp. 11-24. In particolare, nel primo, Dionisotti (pp. 214-215) scrive: «i documenti ci parlano d’un Fortunio […] di Pordenone. […] Per parte mia non credo che i documenti possano in questo caso senz’altro smentire la tradizione, che vuole dalmata il Fortunio». L’idea cambia radicalmente nel secondo (p. 12): «trovandomi di fronte a documenti di vario genere e autorità […] avevo creduto di salvar la capra e i cavoli supponendo questo nostro Fortunio originariamente dalmata, trasferitosi poi a Pordenone e ivi naturalizzatosi. Era se mai esattamente l’inverso, e il prof. Andrea Benedetti […] ha rimesso le cose a posto. Non c’è dubbio che il Fortunio fosse di Pordenone». 5   Andrea Benedetti, op. cit., p. 24. 6   Giovan Francesco Fortunio, Regole grammaticali della volgar lingua, a cura di Brian Richardson, Padova, 7 Antenore, 2001, p. xviii.   Andrea Benedetti, op. cit., p. 24.

fortunio lettore e filologo di dante

173

apparate e udite tutte quelle cose, delle quali costui può ragionare, di molti e molt’anni innanzi, che Fortunio si mettesse ad insegnare altrui quello, che egli non sapea. 1  

Insomma, secondo Bembo, Fortunio non solo non ha redatto per primo la grammatica, ma avrebbe copiato parte del lavoro che il futuro autore delle Prose aveva già iniziato a elaborare e a redigere in una sorta di privato vademecum di cui conosciamo l’esistenza per la correzione del manoscritto degli Asolani. 2 L’accusa è grave e l’auctoritas del Bembo ha la meglio. Non ha dubbi, ad esempio, il Sansovino, che nel 1565 manda alle stampe Le osservationi della lingua volgare de diversi huomini illustri, cioè del Bembo, del Gabriello, del Fortunio, dell’Acarisio et di altri scrittori. La prefazione generale è tutta (o quasi) dedicata a Bembo «la cui veneranda memoria sarà sempre celebrata per tutti i secoli», 3 senza che Fortunio venga mai nemmeno nominato. Quando poi, nelle Osservationi, si arriva a trattare le Regole, la posizione di Sansovino è chiara:  



Quando il Bembo scrisse le sue prose, erano alcuni altri che attendevano a regolar la Grammatica volgar innanzi a lui, ma sentendo che il Bembo havea messo mano a così fatta impresa lasciaron di scrivere cedendo all’autorità e alla dottrina di tanto huomo. Fu tra coloro Gio[van] Francesco Fortunio. 4  

Secoli dopo, condividerà lo stesso pensiero anche l’Hortis: Ch’e’ [Fortunio] le apprendesse in parte da quel solenne maestro che fu Pietro Bembo, e che il Bembo nelle sue Prose lo superasse di gran lunga per eleganza di lingua, grazia di stile e per l’artificio del libro, così da essere considerato giustamente anche da’ Toscani quale istitutore della grammatica volgare, non vale a toglier merito al Fortunio. 5  

Inevitabile, in verità, che un confronto tra Regole e Prose venisse fatto: argomento e periodo storico in cui vengono elaborati coincidono in maniera stringente. Ed è parimenti evidente che la frattura culturale operata da Bembo (e Aldo Manuzio) a inizio del Cinquecento, ponga il Fortunio, «al di qua» 6 di detta barriera, vista la formazione tipicamente quattrocentesca del grammatico, tra i più illustri allievi del Sabellico. Tuttavia, e bene fa Dionisotti a sottolinearlo,  

la questione non tocca il valore né l’originalità delle Regole, tocca l’onestà del Bembo […]. Che in casa di questo o quell’amico del Bembo il Fortunio abbia potuto esaminare quelle norme e trasferirle in parte nell’opera sua alla lettera o quasi, poiché norme erano e la formulazione non poteva di molto mutare, è supponibile senza sforzo. […] Ma prima o indipendentemente almeno da questo [cioè dal Bembo] abbia concepito [Fortunio] come opera d’inchiostro quel che per altri tuttavia era strumento di opere d’inchiostro, aprendo una sua via angusta ma dritta, che doveva poi essere tanto ampliata da servire a troppi, nel Cinquecento e oltre, di elegante e ozioso passeggio. Era un passo innanzi […] ma in verità mettere piede ove ancora non ci sia orma d’altri, perché sia breve il passo, facile non è mai. 7  

Da un lato, quindi, l’innovativa grammatica dal modello ciceroniano di Bembo; dall’altro, invece, un Fortunio che segue «i Grammatici antichi della lingua Latina», 8 come aveva già molto lucidamente riconosciuto il Sansovino. Due opere quindi molto diverse, nonostante l’identica materia trattata.  

1   Pietro Bembo, Lettera a M. Bernardo Tasso, Secretario della signora Duchessa di Ferrara, 27 maggio 1529, in Opere del Cardinale Pietro Bembo. Ora per la prima volta tutte in un corpo riunite, iii, Venezia, Francesco Hertzhauser, 1729, p. 241. 2   Per approfondire la questione: Carlo Dionisotti, Ancora del Fortunio, cit., pp. 250-251. 3   Francesco Sansovino, Le osservationi della lingua volgare de diversi huomini illustri, cioè del Bembo, del Gabriello, del 4 Fortunio, dell’Acarisio et di altri scrittori, Venezia, Fr. Rampazetto, 1556, p. 2.   Ivi, p. Q 3. 5   Attilio Hortis, op. cit., p. 206. 6   Carlo Dionisotti, Il Fortunio e la filologia umanistica, cit., p. 23. 7   Idem, Ancora del Fortunio, cit., pp. 252-254. 8   Francesco Sansovino, op. cit., p. Q 3.

valentino della casa 174 La polemica tra Fortunio e Bembo continua a distanza, e non può a questo punto sembrare casuale il fatto che per le «correttioni degli errori delle stampe di corsive lettere (che così le chiamano)», 1 il grammatico si riferisca alle due edizioni di Canzoniere e Commedia pubblicate da Aldo e curate da Bembo, scritte proprio in lettere corsive. Ed è da questa frase – che chiude il primo libro delle Regole e annuncia le intenzioni di tutto il secondo – che emerge uno dei tratti peculiari della grammatica fortuniana: la castigatio tipicamente latina, l’attenzione, precisa e puntuale, verso tutte le forme grammaticali che compaiono e che vengono studiate con occhio critico, pronto ad analizzarne le incongruenze con ampie argomentazioni all’interno della propria grammatica. In essa, si scriveva sopra, Dante, Petrarca e Boccaccio sono i tre più fulgidi esempi di letteratura volgare da tenere in considerazione per la conoscenza delle regole grammaticali dell’italiano. E dei tre, soprattutto il sommo poeta. Nota bene il Dionisotti che «a diπerenza del Bembo, il Fortunio spessissimo ricorre a Dante, le citazioni del quale risultano anzi, da una agevole e istruttiva statistica, più numerose d’assai nelle Regole di quelle del Petrarca e del Boccaccio». 2 Poco importa che il grammatico contesti a Dante d’essere «molto nelle rime licentioso»: 3 questa, anzi, appare quasi come una nota di merito che pone l’autore della Commedia un gradino sopra gli altri, valevole di una maggiore attenzione anche dal punto di vista filologico. E se la polemica implicita rivolta al contemporaneo (peraltro l’unico chiamato in causa) Bembo si nota soprattutto andando a correggere i supposti errori di stampa, in altri frangenti sembra invece più importante la critica testuale piuttosto che «l’uso corretto del parlare e dello scrivere. Tanto che il Fortunio scrivendo non sempre le osservava». 4 Va dunque in questa direzione l’attenzione che l’autore pone nei confronti della Commedia commentata dal Landino, di cui sicuramente possedeva una copia durante la stesura delle Regole. Più precisamente, del letterato toscano, autore di un’edizione della Commedia altrimenti titolata Dante Alighieri Fiorentino Historiado, Fortunio non aveva sotto mano la princeps, risalente al 1481: le citazioni lasciano infatti pensare a una versione successiva, quella del 1497, 5 ampiamente ritoccata non tanto nella grafia o nel lessico, quanto piuttosto nella morfologia settentrionalizzata dal frate francescano Pietro da Figino o Figline. 6 Oltre al contemporaneo Bembo, e al cronologicamente vicino Landino, Fortunio consultava, seppure in parte minore, anche l’edizione Giunta del 1506, che Mecca 7 riconosce essere molto vicina all’Aldina del 1502 ma che, qualche volta, da essa si diπerenzia trovando, tra gli altri, anche il consenso di Fortunio. 8 Non va poi dimenticata la tendenza, tipica di quegli anni, della citazione a memoria, che in parte altera il testo e che non permette di risalire fino in fondo ai testimoni che il grammatico aveva eπettivamente davanti agli occhi. Si considerino per esempio i versi 1-2 di Inf., xxxii, che Fortunio legge in questo modo:  















S’io havesse le rime aspre e chiocce / come si converrebbe al tristo buco 9  

1

  Giovan Francesco Fortunio, op. cit., p. 126.   Carlo Dionisotti, Ancora del Fortunio, cit., p. 243.   Giovan Francesco Fortunio, op. cit., p. 138. 4   Carlo Dionisotti, Ancora del Fortunio, cit., p. 243. 5   Faccio riferimento agli studi di Richardson in Giovan Francesco Fortunio, op. cit., p. lii. 6   Per ulteriore approfondimento si rimanda al puntuale lavoro di Angelo Eugenio Mecca, La tradizione a stampa della Commedia: gli incunaboli, «Nuova Rivista di letteratura italiana», xiii, 2012, pp. 33-77: 37 e 65 e sgg. 7   Idem, La tradizione a stampa della Commedia: dall’Aldina del Bembo (1502) all’edizione della Crusca (1595), «Nuova Rivista di letteratura italiana», xvi, 2013, pp. 9-59: 27. 8   Si tratta soprattutto di varianti formali, non tanto sostanziali, dal punto di vista fonetico: ad esempio Inf., xxx v 87 «non ci ha» in luogo di «no ci ha» (p. 62); Inf., i v 28 «Poi ch’ei posato un poco il corpo lasso» in luogo di «Po’ ch’ei posat’un poco’l corpo lasso» (p. 73) et similia. 9   Giovan Francesco Fortunio, op. cit., p. 34. 2 3

fortunio lettore e filologo di dante

175

Questa lezione non solo diπerisce dalle edizioni di Landino e Bembo («S’i havesse le rime et aspre et chiocce») e dalla Giuntina («Se i havesse le rime et aspre et chiocce»), ma viene presentata dallo stesso Fortunio come contenuta «nel canto penultimo dell’Inferno», 1 indicazione erronea. Né può questa essere attribuita a uno degli errori del copista, non infrequenti nel corso di tutta la lettura proprio per ciò che concerne l’indicazione dei canti citati: 2 Fortunio infatti non anticipa con indicazione numerica il canto xxxii, ma lo definisce, inequivocabilmente, «penultimo» e lo fa immediatamente seguire da un’altra citazione di Inf., xxxii, «medesimo», dove emerge la reiterazione dell’errore. E non si può nemmeno non considerare che i due versi citati siano proprio quelli di apertura, più facilmente memorizzabili e trascrivibili anche a libro chiuso. È poi interessante notare come, e non raramente, l’autore decida di improvvisarsi editore vero e proprio, andando a emendare dove ritiene «corrottione essere ivi, non lodevole correttione». 3 In questo àmbito, è esemplificativa la spiegazione dell’uso del pronome «lei» che Fortunio riscontrava al solo caso obliquo e che quindi non può essere ammesso in Purg., xxi vv. 25-26, «Ma perché lei che dì e notte fila, non havea tratta a fine» (versi che per altro non corrispondono né all’edizione Landino, né all’Aldina, né alla Giuntina), «ove» asserisce il grammatico «la vera lettura è: Ma per colei che dì e notte fila / non gli era tratta a fine la conocchia». 4 Trattasi di quanto aveva Fortunio  







veduto scritto con penna in uno antico libro di Dante mostratomi dallo eccellentissimo iureconsulto et non meno elegantissimo et giuditioso orator et poeta messere Cornelio Castalio. Et così parmi quadrar bene il senso, senza violenza della grammatica. 5  

L’episodio conferma non soltanto la presenza di almeno un manoscritto sulla scrivania di Fortunio, ma allo stesso tempo l’attenzione filologica al poema dantesco. E se la polemica con Bembo si esaurisce in esempi di natura grammaticale, simile ai casi sopra elencati, non altrettanto si può dire per la critica al commento del Landino, su cui Fortunio si trova spesso in aperto contrasto proprio per quella che è l’interpretazione dei versi. È esemplare la riflessione su cui il grammatico si soπerma per quanto riguarda la parola «Gabbo» («verbo et nome» per Fortunio) e «babbo», «voce la quale gli infanti usano in ver li padri loro, come mostra Dante nel canto xxxii dell’Inferno». 6 Posti gli esempi alla solita maniera, ecco la polemica: «Onde non parmi che il Landino quel loco bene interpretasse dicendo», 7 da cui parte la citazione integrale del commento landiniano. La questione, aperta da Fortunio, viene da lui stesso chiusa qualche riga dopo:  



Io credo, lettori mei, che non vi sia grave in questo libbro della orthographia [cioè il secondo], più che vi sia stato in quello della grammatica [cioè il primo], sotto le occorrenti voci legger alcuna nuova loro dichiaratione col svelamento di molti sensi anchor coperti delli poeti nostri, per arra di quello che dovete da me aspettare. 8  

Ed è proprio questo, in definitiva, l’aspetto probabilmente più interessante, ma allo stesso tempo meno considerato, del lavoro di Fortunio: da grammatico, infatti, non entra mai nel merito dell’ars poetica di chi cita, andando certamente controcorrente rispetto all’usanza dell’epoca. Ma da grammatico e, come ricorda Dionisotti, umanista, Fortunio si 1

  Ibidem.   Dirò rapidamente: trovasi ad esempio a p. 13 l’indicazione in cifre romane Inf., vii anziché Inf., viii; oppure a p. 40 Inf., xv anziché xvi; et similia. 3   Giovan Francesco Fortunio, op. cit., p. 158. Nello specifico, Fortunio fa riferimento a Inf, xiii v. 22, nel quale modifica il verbo «trarre»: «I’ sentia d’ogni parte trarre [e non traher] guai». 4 5   Ivi, p. 44.   Ibidem. 6 7   Ivi, p. 137.   Ibidem. 8   Ivi, p. 138. Si noti la riminescenza dantesca di Inf., xxvi v. 115: «d’i nostri sensi ch’è del rimanente». 2

valentino della casa 176 sente in diritto di commentare e rivedere ciò che altri hanno a loro volta commentato e rivisto, traslando quindi dall’asse della pura e semplice osservazione grammaticale a uno più propriamente riservato all’ecdotica e al commento tout court, all’insegna di quello «svelamento di molti sensi anchor coperti» che l’autore qui solamente accenna, ma promette di approfondire negli «altri tre libbri che sono del rimanente di questa mia opera, le espositioni delle cose posposte overo male esposte da’ commentatori dell’uno [Dante] et dell’altro [Petrarca] volgar poeta». 1 Un’intenzione però che non riuscirà mai a portare a termine. Critica e grammatica, quindi, trovano un forte punto di raccordo, anche metodologico, che condizionerà gli studi in materia per tutto il periodo; e il contrasto tra Fortunio e Bembo, per altro, quasi si a√evolisce. Già nel 1938, il Dionisotti concludeva che sotto un aspetto, sicuramente, le Regole e le Prose si assomigliavano, cioè  

nel sottrarre queste opere grammaticali agli schemi un po’ logori della cosiddetta questione della lingua, e saggiarle invece alla luce di questioni letterarie […]. Perché grammatica e critica letteraria, ivi comprese le più veementi polemiche, erano di regola nella prima metà del Cinquecento una cosa sola. 2  

E la letterarietà, in Fortunio, è tutt’altro che sopita. 1

  Ivi, p. 126.   Carlo Dionisotti, Ancora del Fortunio, cit., p. 254.

2

DANTE ALL’INFERNO. IL CASO MIRKO DEANOVIĆ Attilio Cicchella

L

a vicenda umana e professionale di Mirko Deanović, 1 nato a Ragusa dalmata il 13 maggio del 1890, s’intreccia al filo d’oro della tradizione letteraria italiana lì dove convenzionalmente ha origine: a Firenze. Nella città di Dante, il Deanović si formò all’Istituto di Studi Superiori sotto la guida di Ernesto Giacomo Parodi, Pio Rajna e Guido Mazzoni, 2 grazie ai quali il suo interesse per l’Alighieri e per la Commedia trovò un terreno naturalmente fertile: al periodo fiorentino seguirono infatti numerosi studi sugli influssi del poema nella letteratura croata e, lato sensu, in quella slava. 3 Più in generale, la commistione tra le componenti culturali dalmate e italiane, legate dunque non solo all’Alighieri, rappresentò una parte significativa dell’attività di ricerca dello studioso, avviata con la tesi di dottorato, discussa a Vienna nel 1916, sulle traduzioni in italiano dello scrittore croato Antun Gledević. Il Deanović si dedicò quindi alla trasposizione in serbocroato dei poemetti pascoliani Il bordone, Il vischio e Tolstoi, pubblicati nel 1912, anno della morte del poeta di San Mauro di Romagna, fino ad arrivare al Vocabolario croato-italiano, ammiranda opera lessicografica, in due volumi, redatta in collaborazione con Josip Jernej. 4 Accademico corrispondente straniero della Crusca e dell’Arcadia, dal 1928 fu docente di letteratura italiana presso l’Università di Zagabria, integrando tale insegnamento, nel 1930, con un Seminario di filologia. Le ricerche e gli impegni accademici gli valsero, nel 1938, il Premio Sanremo per gli italianisti stranieri. Studioso eclettico, Mirko Deanović parrebbe aver riservato alla materia dantesca una posizione di assoluto rilievo, facendone oggetto di assidua ricerca e di continuo approfondimento: valgano come esempio gli eventi promossi cinquant’anni or sono per il settimo centenario della nascita dell’Alighieri, come la prestigiosa giornata di studi internazionali tenuta il 26 maggio 1965 presso l’Accademia Iugoslava di Scienze e Arti, incentrata sull’analisi dell’assimilazione della Commedia in Croazia, dal Medioevo al xx secolo, i cui Atti vennero poi raccolti nel volume che mutua il titolo dal significativo discorso inaugurale dello studioso: Dante e noi. 5 Un tema analogo era già stato aπrontato nel 1955 nel saggio dedicato a Dante e i croati, apparso sulle pagine della rivista «Il Ponte», mensile diretto da Piero Calamandrei, e quindi riproposto nella rivista fondata dallo stesso Deanović, «Studia Romanica et Anglica Zagrabiensa», 6 in un supplemento interamente riservato alle celebrazioni dantesche del 1965. Il volume monografico comprende  











1   Per la biografia in italiano di Mirko Deanović rimando, sub voce, al recente Daria Garbin, Renzo de’ Vidovich, Dalmazia Nazione. Dizionario degli Uomini Illustri della componente culturale illirico-romana, latina, veneta e italiana, Trieste, Fondazione Scientifico Culturale Maria e Eugenio Dario Rustia Traine, 2012, p. 118. Una più esaustiva biografia, con un puntuale corredo bibliografico, è disponibile on-line sul sito dell’enciclopedia croata Hrvatski Biografski Leksikon (http://hbl.lzmk.hr/clanak.aspx?id=4418). 2   Si specializzò poi a Vienna in filologia romanza sotto la guida dei professori Wilhelm Meyer-Lübke, Elise Richter e Leo Spitzer. 3   Si veda, per esempio, l’articolata voce ‘Iugoslavia’, in Enciclopedia Dantesca (1970), consultabile anche in rete: http://www.treccani.it/enciclopedia/iugoslavia_(Enciclopedia-Dantesca)/. 4   Mirko Deanović, Josip Jernei, Vocabolario italiano-croato, croato-italiano, 2 voll., Zagabria, Skolska Knjga, 19949. 5   Mirko Deanović et alii, Dante i mi, Zagreb, Jugoslavenska akademija znatosti i umjetnosti, 1965. 6   La rivista fu fondata nel 1956 e venne codiretta da Mirko Deanović con Petar Guberina fino al 1962.

attilio cicchella 178 tre interventi dello studioso ragusano: si ricorda preliminarmente il secondo, dedicato all’analisi dell’esegesi dantesca del teologo luterano noto con il nome di Mattia Flaccio Illirico, autore nel 1556 di un Catalogus 1 in cui era incluso, tra gli scrittori italiani, Dante, del quale veniva antologizzata la Commedia in passi scelti, interpretati in modo propagandistico alla luce della dottrina protestante. Al Flaccio, Deanović attribuì il primato tra i pensatori che riconobbero nell’opera del poeta fiorentino un’ideologia eterodossa, riproponendo pagine rarissime, tratte da una delle poche edizioni del Catalogus sopravvissute all’Inquisizione. Inedita è invece l’ottocentesca traduzione del canto di Ugolino in un dialetto istriota di Rovigno, 2 opera del professore Girolamo Curto, già autore di una Grammatica italiana e di altri quindici scritti danteschi, pubblicata dal Deanović nello stesso volume con criteri diplomatico-interpretativi. Lo studioso, ripercorrendo «la secolare fortuna di Dante in Istria», 3 a cominciare dal Trecento, quando la Commedia già veniva «più volte trascritta, studiata, commentata e anche imitata» in lingua originale, giunge fino alla versione presa in esame, che viene tuttavia definita come una zoppicante «riduzione popolare», essendo il fine certamente pratico, e non già estetico, in quanto corredo antologico di una grammatichetta del dialetto istrioto, anch’essa opera del Curto e inedita. Essa viene tuttavia riconosciuta dal Deanović come la prima e «l’unica traduzione in uno dei dialetti istrioti» nel «mare magnum delle traduzioni dantesche in tutte le lingue del mondo», che per posizione geografica e caratteristiche linguistiche si prestava quindi a essere studiata diacronicamente in relazione ad altre versioni serbocroate. 4 Per Deanović lo studio della Commedia nelle sue traduzioni non rappresentava, infatti, un semplice passo avanti, seppur importante, nella storia della tradizione indiretta dell’opera dantesca; al contrario, cambiando prospettiva, questo tipo di analisi avrebbe permesso di comprendere i modi in cui «le traduzioni di opere letterarie aiutano l’arricchimento e lo sviluppo della espressione poetica e della lingua letteraria» di altre culture. L’analisi comparata delle versioni del canto di Ugolino oπriva dunque, secondo Deanović, la possibilità di «seguire da vicino, su un esempio, l’evoluzione linguistica» 5 della letteratura serbocroata degli ultimi secoli. La Commedia, quindi, diviene per lo studioso dalmata il veicolo privilegiato per un’analisi complessiva, in diatopia e in diacronia, dell’ideale «avvicinamento umano» di lingue e di popoli diversi. Quest’aspetto, invero fondante nel pensiero di Mirko Deanović, consente d’introdurre il terzo approfondimento dantesco incluso negli Studia del 1965. Prima di esplicitarne il contenuto, si rende tuttavia necessaria una breve digressione che integri il novero delle indagini condotte dallo studioso dalmata. Sarebbe infatti riduttivo confinare gli interessi del Deanović nell’alveo esclusivo della dantistica e, in generale, dell’italianistica; le sue ricerche oltrepassarono infatti, e non di rado, gli ideali confini linguistico-letterari italiani: «chi percorra la sua bibliografia», ricordava Gianfranco Folena, «troverà scritti in serbocroato, in tedesco, in francese e in italiano»; non solo, «nel campo letterario il centro delle ricerche è sempre stato costituito dai rapporti slavo-romanzi, fra il dominio letterario serbocroato e francese e italiano». 6 Lo stesso Folena sottolineava come il tema centrale degli interessi linguistici e letterari di Mirko Deanović fosse caratterizzato da un a∫ato universalista, teso al riconoscimento «dei contatti, degli scambi, dei rapporti fra culture e lingue diverse». 7 Tale inclinazione condusse il Deanović a uno dei punti più alti e più ambiziosi della sua carriera: la realizzazione  













1   Mirko Deanović, Dante interpretato da Mattia Flacio Illirico (Vlačić), «Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia», 19-20, 1965, pp. 161-170. 2 3   Ivi, pp. 39-56.   Ivi, p. 39. 4 5   Ivi, p. 49.   Ivi, p. 52. 6   Gianfranco Folena, Omaggio a Mirko Deanović, «Bollettino dell’Atlante linguistico del Mediterraneo. Studi 7 oπerti a Mirko Deanović», 10-12, 1968-1970, pp. vii-xi: ix.   Ivi, p. x.

dante all’inferno. il caso mirko deanović

179 dell’Atlante Linguistico del Mediterraneo, presiedendo con Cesare Battisti il Comitato internazionale dello stesso Atlante, cui parteciparono celebri studiosi quali Gerhard Rohlfs, Giacomo Devoto e Bruno Migliorini. L’impresa è tanto più memoranda e apprezzabile se inquadrata nel suo contesto storico di riferimento: siamo infatti nel 1937, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, nell’alveo di «divergenze e di borie nazionalistiche». 1 L’Atlante si presentava infatti, nelle intenzioni del suo ideatore, come il «prodotto di una nobile vocazione alla collaborazione internazionale», in particolare nella «ricerca suggestiva e civile delle “convergenze”» 2 tra culture diverse di popoli diversi, che nel bacino del Mediterraneo parrebbero trovare un comune denominatore. L’universalità, tuttavia, sarà una categoria che la prosopografia storiografica, in riferimento a quegli stessi anni, avrebbe dovuto applicare a ben altre vicende, avendo la necessità di qualificare la barbarie di una guerra che per la seconda volta nella storia dell’umanità si presentava come globale, sulla scia di nuove follie nazionalistiche, ma con l’aggravante dell’infamia dei genocidi. La notte tra il 10 e l’11 novembre del 1941, all’indomani della formazione dello Stato Indipendente di Croazia, nazione satellite della Germania nazista, 3 Mirko Deanović con altri trentasette uomini di cultura, oppositori del regime, o presunti tali, venne arrestato dalla polizia ustascia, per ordine di Ante Pavelić, il pogvalanik, ossia il ‘duce’, il ‘capo’ del regime croato, condotti dapprima nel campo di concentramento di Jasenovac e quindi il 13 novembre in quello di Stara Gradiška. 4 Questo drammatico episodio si sarebbe sorprendentemente intrecciato, sin dai primi, concitati momenti della cattura, con l’opera di divulgazione della Commedia portata avanti dallo studioso dalmata, per fissarsi, in italiano, proprio nel volume dantesco del 1965 degli Studia Romanica et Anglica Zagrabiensa. In pagine dense di composta drammaticità, Mirko Deanović parrebbe quasi violare un patto di oblìo con la personale memoria del male: la pacatezza del dettato diviene garante della distanza emotiva, che consente allo studioso di raccontare; l’amore per Dante e per la Commedia la ragione, forse l’unica, per cui il silenzio può essere rotto:  







All’inizio della seconda guerra mondiale, durante l’occupazione tedesca, in una notte d’autunno gli agenti della polizia ustascia vennero a perquisirmi l’alloggio a Zagabria. Terminata la perquisizione fui arrestato […]. In quei terribili momenti di apprensione mi balenò l’idea di prendere con me qualche libro e la scelta fu presto fatta. Nella mia biblioteca trovai e misi tosto in tasca la piccola edizione della Divina Commedia in 16° su carta d’India con brevi note di Luigi Pietrobono (Torino, sei, 1934). Quella stessa notte la polizia aveva fatto a Zagabria una retata di una quarantina di uomini di cultura […]. Dopo alcune penose ore di attesa, nell’incertezza della propria sorte, all’alba fummo condotti con i camions alla stazione ferroviaria. Sotto una forte scorta di soldati salimmo nelle vetture di terza classe che portarono a Stara Gradiška […]. Il campo si trovava in una antica fortezza adattata a prigione, alle rive del fiume Sava. 5  

Nell’incertezza per il proprio futuro, Mirko Deanović parrebbe istintivamente riconoscere nelle pagine della Commedia un familiare rifugio e un sicuro conforto. Il poema dantesco, in particolare nella prospettiva dell’Inferno – la cantica più frequentata da quella che viene comunemente definita ‘letteratura dei campi di sterminio’ – è spesso divenuto «la grammatica della narrazione» del lager, risultando intuitivamente la proiezione letteraria della condizione dei dannati-detenuti; la prima cantica, del resto, si presta come naturale 1

2   Gianfranco Folena, Omaggio a Mirko Deanović, art. cit., p. xi.   Ibidem.   Lo Stato Indipendente di Croazia venne fondato u√cialmente il 10 aprile del 1941. 4   Cfr. Ivan Mužić, Masonstuo u Hrvata, Split, Laus, 2000, p. 197. Per la traduzione di testi croati in italiano ringrazio il dott. Vinko Kovačić (Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Zagabria). 5   Mirko Deanović, La «Divina Commedia» in un campo di concentramento nel 1942, «Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia», 19-20, 1965, pp. 201-202. 3

attilio cicchella 180 «serbatoio dal quale attingere immagini mitiche ed espressioni plastiche, incomparabilmente nitide nella loro violenza», 1 lasciando tuttavia emergere in tal modo il senso di giustizia dell’Inferno dantesco, contrapposto al non senso dell’inferno del campo, qui mancando la logica ‘peccato-punizione’. Eppure, nella testimonianza di Mirko Deanović, parrebbe a√orare soprattutto la capacità del poema di diventare rarissima e per questo preziosissima opportunità di momentanea evasione:  

E così il divino poema – continua Deanović – venne a trovarsi nell’inferno di questo famoso campo di sterminio forse per la prima e l’ultima volta. Perché in questi luoghi della «perduta gente» non c’erano né biblioteche né libri e rari vi furono quei poveri che avevano ancora tanta energia da poter leggere in attesa della triste sorte. […] Quando i miei compagni di sventura videro cosa stavo leggendo ogni giorno, cominciarono a interessarsi anche loro del mio livre de chevet. Soprattutto quelli che conoscevano l’italiano. E non erano pochi. Crebbe tanto l’interesse per il Poema che avrebbero voluto leggerlo parecchi. Ma come si fa non avendone che una copia sola? Per contentarli, e nello stesso tempo per non privarmi neanche io della prediletta lettura, proposi di fare un orario per ogni giorno della settimana. […] Dopo che ognuno aveva avuto il libro per un’ora, lo riportava al capezzale del mio “letto”, dove lo trovava poi il seguente lettore, e così di seguito per mesi e mesi. 2  

La singola copia della Commedia diviene presto insu√ciente a soddisfare la sete di lettura dei detenuti: Da principio erano tre quattro gli «abbonati» ma con l’andare del tempo il loro numero crebbe tanto […]. Alcuni li vedevo come copiavano dei brani per impararli a memoria. In quei mesi del mio soggiorno in quella casa del diavolo l’interesse per la Commedia fu tale che fui invitato a tenere un corso su Dante. 3  

Ed è a questo punto che il poema, uno dei punti più alti mai raggiunti dall’ingegno umano, diviene reale strumento di avvicinamento, la prodigiosa arma da brandire nell’estrema lotta della ragione contro il suo grado zero. Nel solo campo di concentramento di Stara Gradiška, dal 1941, in poco meno di quattro anni, trovarono la morte quasi centomila esseri umani: ebrei, zingari e oppositori politici, con il triste primato di vittime tra donne e bambini. Il racconto che segue è dunque tanto più significativo se si considera la straordinaria normalità della scena descritta, un ritratto eccezionalmente pieno di vita: Per questa strana Lectura Dantis un artista aveva disegnato un cartello con la figura di Dante, col piano e coll’orario delle lezioni. Anche durante queste lezioni vedevo come qualcuno faceva delle note sebbene fossero tutti sdraiati su “pagliericci”, non essendovi sedie. Terminata la lezione seguivano poi le domande e le discussioni le quali erano la miglior prova del fascino e della suggestione suscitati dall’eterna poesia dantesca. 4  

In queste parole parrebbe pienamente realizzarsi il senso del monito ulissiaco, nel ricordo, cioè, del fondamento dell’umana «semenza», che risiede nell’invito dell’Ulisse dantesco a «seguir virtute e canoscenza» (Inf., xxvi, 120), concetto invero cruciale soprattutto nelle note riflessioni di Primo Levi in Se questo è un uomo. Nelle parole dello scrittore torinese, la «orazion picciola» si dilata fino a perdersi nell’intera Commedia, che diviene paradigma necessario delle possibilità intellettive dell’uomo e questo perché: il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare. Anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. 5  

1   Rossend Arqués, Dante nell’Inferno moderno: la letteratura dopo Aushwitz, «Rassegna europea di letteratura italiana», xxxiii, 2009, pp. 87-108: 97. 2   Mirko Deanović, La «Divina Commedia» in un campo di concentramento, cit., p. 201. 3 4  Ivi, p. 202.   Ibidem. 5   Primo Levi, Iniziazione, in Idem, Se questo è un uomo. La tregua, Torino, Einaudi, 1989, p. 35.

dante all’inferno. il caso mirko deanović

181

Mirko Deanović condividerà con Levi l’esperienza della liberazione 1 e, come Levi, anche Deanović violerà l’indicibilità della narrazione del male nel segno di Dante. Nel lasciare il campo di concentramento lo studioso dalmata donò «la Commedia a quegli amici che vi dovettero rimanere ancora. Dei quali alcuni vi trovarono anche la morte». 2 I superstiti, invece, ricorda lo studioso concludendo il suo racconto, «si dimostrarono immensamente grati per aver avuto il salutare ristoro di Dante nei più tristi momenti della loro vita e in attesa della morte». 3 Il filologo Giorgio Pasquali, in pagine divenute proverbiali, avvertiva in Filologia e storia che senza memoria «alla vita dello spirito mancherebbe la qualità sua più essenziale», ossia «la continuità»; in altre parole: «chi non ricorda, non vive». 4 Il racconto di Mirko Deanović parrebbe confermarne l’assunto, dimostrando, con Primo Levi e molti altri, che nel ‘libro della memoria’ di ogni essere umano, anche in un campo di concentramento, ci sarà sempre una rubrica che indicherà il ricordo, e quindi l’inizio o almeno la speranza di una ‘vita’, in ogni caso ‘nuova’. Nell’esperienza del Deanović la poesia dantesca fu, anche per coloro che vennero purtroppo giustiziati, una «fonte inesauribile di conforto umano». 5 E lo sarebbe stato ancora di più per i sopravvissuti, nel ricordo, e quindi nella possibilità del racconto, di un prima e un dopo Dante in un campo di concentramento. Il 12 luglio del 1980 il presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini, conferì allo studioso dalmata il più alto riconoscimento al merito previsto dall’ordinamento costituzionale: il Cavalierato di Gran Croce. Mirko Deanović morirà nel 1984, all’età di 94 anni, lasciandoci in dono la sua preziosissima testimonianza: il ricordo della Divina Commedia in un campo di concentramento.  









1   Da una lettera recentemente rinvenuta e pubblicata dalla studiosa Viktoria Franić Tomić, sappiamo che il prof. Miho Barada, scrivendo alla moglie del prof. Grge Novaka, anch’egli detenuto nel campo di Stara Gradiška, alludeva alla presenza di Mirko Deanović in un Consiglio di Facoltà dell’aprile del 1942. Nello stesso studio la Tomić pubblica un documento segreto dello Stato Indipendente di Croazia, datato 11 aprile 1944, in cui il nome di Deanović, a due anni dalla liberazione, compare in una lista di professori della Facoltà di lettere e Filosofia dell’Università di Zagabria ancora monitorati dai servizi segreti ustasci. Nel documento lo studioso dalmata viene considerato «anglofilo, di orientamento iugoslavo, contro lo Stato, ma non è di sinistra. Non pericoloso». Questa la versione originale: «anglofil, jugoslavenski orientiran, protudržavno raspoložen, ali nije ljevičar. Nije opasan». Cfr. Viktoria Franić Tomić, Nepoznati dokumenti o Grgi Novaku i Miroslavu Krleži, koji osvjetljavaju kulturnu atmosferu sredine stoljeća u Hrvatskoj, «Croatia et Slavica Iadertina», vi, 2011, pp. 313-326: 315. 2 3   Mirko Deanović, La «Divina Commedia» in un campo di concentramento, cit., p. 202.   Ibidem. 4   Giorgio Pasquali, Emozione estetica e preparazione linguistica, in Idem, in Filologia e storia, Firenze, Le Monnier, 5 2   Ibidem. 1964 , pp. 7-14: 7.

FIGURE FEMMINILI E ORDINE POLITICO NEL COMMENTO DI TOMMASEO ALLA COMMEDIA Maria Gabriella Riccobono

I

due sondaggi, relativi l’uno alle chiose e al pensiero di Tommaseo circa le donne personaggi e comparse della Commedia e l’altro all’ordine politico da Dante auspicato, sono stati compiuti sulla edizione di lusso per il centenario (Milano, Pagnoni, 1865), l’ultima i cui apparati e corredi siano stati approvati, e in parte rielaborati e ampliati da Tommaseo: 1 a essa mi atterrò sempre in questa sede. 2 Che le donne in genere, certo in modo conforme alla mentalità dei tempi, ricevano un’attenzione blanda è dato capirlo fin dalla prosa intitolata Le donne del poema posposta a Inf. ii (pp. 27-30). Vi si menzionano Matilde, Pia, Piccarda, Cunizza, Sapia, ma non Costanza e neppure Raab; poi sono accennate le donne di Inf. v, Semiramide, Elena, Didone, Cleopatra e Francesca. Lo studioso scrive infine che a suo parere è «cosa notabile che, tranne le anzidette, altre donne egli [Dante, n.d.A] non rincontri nell’Inferno che Taide e Mirra, […], men persone che simboli» (ivi, p. 30). Assai vistosa questa amnesia preliminare relativa a Manto e alla moglie di Putifarre. Salvo errore, il grande esegeta non nota mai (senza dubbio egli si trova in ottima e numerosa compagnia) che la zona dell’aldilà in cui si trova il massimo numero di donne è proprio l’Inferno. 3 Tommaseo di Sapia non sa o non vuole dire nulla, mentre formula acute valutazioni su Manto e su Cunizza; ma preferisco soπermarmi rapidamente sulle signore giovani, belle e sventurate: dunque su Francesca, Pia e Piccarda. Sono toccati bene aspetti importanti. Scrive che Francesca e Paolo, come tutti i dannati, non provano alcun pentimento e che le parole «il nostro mal perverso» implicano «un quasi riconoscersi immeritevoli di pietà» (nella prosa posposta a Inf. v: Francesca, p. 73). Nel verso «“Questi, che mai da me non fia diviso”, la passione disperata si sfoga,  





1   Commedia di Dante Allighieri con ragionamenti e note di Niccolò Tommaseo, Milano, Francesco Pagnoni, Tipografo editore, 1865. Tutti i riferimenti a quest’opera verranno indicati nel testo dello studio o con le sigle Inf., Purg. e Par. seguite dal numero dei canti, se utile o necessario delle terzine, dei versi e delle colonne (ogni pagina contiene due colonne numerate in ordine progressivo) oppure con il titolo delle prose anteposte al poema, posposte a ogni singolo canto e posposte a ciascuna cantica. Le citazioni dalla Commedia sono sempre conformi al testo oπerto da Tommaseo nella Pagnoni 1865. 2   Per ogni informazione attinente il testo di Dante prescelto da Tommaseo e da lui via via rimaneggiato e anche per la descrizione del vario percorso correttorio dalla prima edizione (Venezia, Il gondoliere, 1837), alla seconda (Milano, Reina, 1854) alla terza rinvio alla Introduzione (pp. 11-32) e alla Nota al testo (pp. 35-48) premesse da Valerio Marucci alla sua edizione critica: Niccolò Tommaseo, Commento alla Commedia, a cura di Valerio Marucci, Roma, Salerno, 2004 («Edizione nazionale dei Commenti danteschi», 49), 3 voll. Il testo base del commento riprodotto nella succitata edizione critica è quello del 1865. Per la bibliografia su Tommaseo dantista si digiti la voce Tommaseo nella chiave di ricerca della banca dati bibliografica della Società Dantesca Italiana (http://domino.leonet.it/sdi/ bibliografia.nsf/). 3   Moltissime sono le donne recluse nel limbo, fuori dal castello degli spiriti magni: «le turbe, ch’eran molte e grandi, // E d’infanti e di femmine e di viri» (Inf. iv, terzina 10, vv. 32-33). Insigni o per valore militare o per virtù patriottica vissuta adempiendo i doveri di spose e di madri sono tutte quelle che stanno tra gli spiriti magni. Nella prosa posposta a Inf. iv, Il limbo di Dante (pp. 57-60) Tommaseo nomina solo quelle che compaiono nell’Eneide (tacendo di Lucrezia, di Giulia, di Marzia e di Cornelia). Vistose sono anche altre amnesie relative alle dannate in senso stretto. Non vengono accennate le creature femminili prelevate dalla mitologia, come le terribili Erinni. Le indovine, streghe e fattucchiere recenti, non meritano alcuna menzione.

figure femminili nel commento di tommaseo alla commedia

183 e segna la propria condanna, dacché il veder patire anima amata tanto, è de’ patimenti il piú atroce» (ivi, pp. 73-74). E ancora: «la donna abbellisce la sua passione; e, nel pur dire della bella persona che le fu tolta e del costui piacer, non lascia dubbio che l’amor suo al Poeta paresse cosa degna di cuor gentile, e che l’amata in tal modo non potesse risparmiare il ricambio» (ivi, p.73). Tommaseo spiana così la strada alla tesi secondo cui, attraverso la manipolazione della poesia d’amore aulica compiuta da Francesca, l’Alighieri muova un complesso atto di accusa alla poesia erotica dell’era cristiana, anche a quella di sua penna. Il terreno scientifico viene abbandonato quando l’esegeta ritorna sulla stessa signora nella prosa I vizi del senso, posposta a Purg. xxvi (pp. 467-480). Egli cade qui nella trappola, romantica se così piace, ma in realtà anacronistica, che abbassa a grigio giustiziere Dante per innalzare Francesca, morta, egli scrive «quasi nell’atto del fallo» (ivi, p. 468), e sol per questo dannata. Si procede in crescendo. Pia piace all’esegeta più di Francesca e Piccarda più di Pia. Pia e Piccarda, entrambe anime salve, a parer suo accennano in modo pudico, delicato, privo di ogni rancore le violenze subite, rispettivamente, dal marito e dal fratello (cfr. la prosa La Pia, posposta a Purg. v, p. 87). Francesca, invece, accusa il marito assassino con parole in cui la violenza dell’assassinio e dell’omicida sono espresse in modo vivido. Nelle parole della dannata si sente non solo l’accusa ma quasi il piacere della vendetta che Dio le procurerà (ivi, pp. 87-88). Tommaseo scrive che dopo l’emistichio «disfecemi Maremma» (Purg. v, 134), Pia passa a «distendersi […] nell’imagine dell’amore» (La Pia, cit., p. 87). L’esegeta sta dunque tra coloro secondo cui l’insistenza di Pia sul rito nuziale che la legò a Nello sarebbe segnale di un persistente amore della donna nei confronti del marito e di un implicito atto di accusa nei confronti dell’amante di lui. Nel testo di Dante, in verità, non vi è traccia di amore per il marito, né passato né perdurante. Certi sono quattro dati soltanto: 1) che Pia, ancora traumatizzata, come tutti i morti di morte violenta dell’antipurgatorio, dice di essere stata uccisa o dal marito o da un sicario inviato da quello; 2) che ella è una donna-donna, come Francesca, abituata a prendersi cura della casa e degli uomini di famiglia: si rivolge a Dante dicendogli: «Deh quando tu sarai tornato al mondo, / E riposato della lunga via» (Purg. v, 130-131); 3) che Pia è stata una grande peccatrice – ma il poeta non ci dice se per adulterio o per altro fallo – e si è pentita solo in punto di morte; 4) che Pia è, ancora una volta come Francesca, e diversamente da Piccarda, al di là dell’apparenza fine, leggiadra e delicata, una donna forte e molto determinata: riesce a farsi largo all’interno di una folta schiera popolata da gagliardi uomini d’arme, e a parlare terza con il poeta. Delle tre donne belle e vittime dei loro uomini, mariti e/o fratelli, la più cara a Tommaseo è Piccarda. Per rendere omaggio alla virtù della monachella, egli sposa senza esitazioni la versione dell’Ottimo e di alcuni cronisti secondo cui Piccarda si ammalò e spirò subito dopo il ratto e il matrimonio cui fu costretta (si veda la nota storico-letteraria alla terzina 36 di Par. iii, p. 64). Così, a diπerenza di quel che era accaduto nel discorrere di Francesca e di Pia, Tommaseo lascia quasi subito il terreno scientifico. Secondo l’Alighieri – portavoce del quale è Beatrice (Par. iv, vv. 79-87) –, Piccarda fu rapita dal chiostro, dimorò poi sempre fuori di esso fino alla morte, breve o no che fosse questa dimora, e solo per umana e comprensibile paura di ritorsioni eπerate contro la propria persona non fece alcun tentativo di fuggire dai congiunti carnefici e di ritornare in convento. Tommaseo sostiene, nella prosa La prima sfera (posposta a Par. iii, pp. 67-70), che il verso «Dio lo si sa, qual poi mia vita fúsi» (Par. iii, v. 108) è una reticenza nella quale Dante non aπerma ma neppure nega la quasi miracolosa malattia che, immediatamente dopo il rapimento e prima della consumazione del matrimonio, tolse Piccarda alle nozze forzate per disposizione del cielo, salvaguardandone la verginità. Dunque, Piccarda non sarebbe

maria gabriella riccobono 184 stata in nulla manchevole. Tommaseo va impavidamente oltre nella prosa posposta al canto v di Par., Il libero arbitrio, e i suoi sagrifizii (pp. 101-106); in essa difende Piccarda contro la intransigenza di Dante, il quale, evidentemente, non crede alla malattia e morte ‘miracolose’ della donna. Tommaseo congettura che, se così fosse, se la donna avesse avuto il tempo e il modo di fuggire, probabilmente evitò di tentare il ritorno al chiostro non già per se stessa ma per tema che il marito oπeso si vendicasse facendo del male a suo fratello. L’ipotesi che Dante avesse appreso da fonte fededegna come erano andate le cose non viene avanzata. Le oscillazioni tra mentalità scientifica e vagheggiamento dei fantasmi del desiderio non si spiegano soltanto adducendo intromissioni indebite della Weltanschauung romantica. La lettura di Tommaseo è anche lettura di artista, di persona che è un collega di Dante, e tra i due artisti sorge ogni tanto competizione. Se i casi tolti a esame non sono mero esito di sentimentalismo romantico di che si tratta? In certa misura si tratta di fedeltà dell’artista Tommaseo all’idea dell’arte storica, insomma al componimento misto di storia e di invenzione e alla sua forza istruttiva ed educativa. La Commedia in larga misura si iscriverebbe nell’orizzonte dell’arte storica (cfr. il Proemio, primo tra gli scritti che precedono l’Inferno, p. xxii). Lo studioso giudica attendibili i cronisti e l’Ottimo. Essi e non Dante hanno colmato le lacune del vero storico con l’ipotesi dotata della massima verosimiglianza. Per queste ragioni, rispetto al dissenso circa la virtù eroica o la volontà relativa di Piccarda, il disaccordo in ordine alla dannazione di Francesca è assai più dissimulato, è da Tommaseo espresso al di fuori e lontano dal contesto in cui si trova il personaggio, del quale Dante aveva conosciuto i famigliari consanguinei dopo i fatti narrati in Inf. v. La donna al grande commentatore in assoluto più cara è Matelda, e ciò, dopo quel che sono venuta dicendo, di certo non sorprende. Su di lei il sommo poeta non fornisce alcun ragguaglio, neppure minimo. Dante ha procurato allo studioso romantico, che è anche un artista e un patriota antimonarchico, già propugnatore della federazione degli stati italiani presieduta dal sommo pontefice; Dante, dico, gli ha procurato la libertà di formulare ogni congettura plausibile circa Matelda. Sull’autorità di Pietro di Dante Tommaseo la identifica con Matilde contessa, vissuta nel secolo xi, la quale, con magnificenza, fermezza, liberalità, e devozione alla Chiesa, dominò gran parte d’Italia (cfr. la nota filosofica alla terzina 14 di Purg. xxviii, p. 493; a lemma la voce ‘Donna’, tolta al v. 40). Ella simboleggia la vita attiva. Nella prosa posposta al canto xxxi di Purg., dal titolo Della contessa Matilde, perché collocata da Dante accanto alla sua Beatrice (pp. 565-568), Tommaseo lascia il terreno della congettura fondata su motivazioni forti e vagheggia con cura di letterato provetto e di patriota una sua Gran Contessa ideale. 1 Il titolo della prosa è ingannevole, perché di Beatrice non scrive nulla, avendone già parlato nella prosa posposta al canto precedente. Gli piace immaginare che Matilde, energica, guerriera, e tuttavia di salute cagionevole, fosse bella d’aspetto; e che ella abbia rispettato i suoi mariti ma non li abbia amati e sia anzi vissuta se non sempre, quasi sempre, castamente. Matilde abitò in luoghi lontani da papa Gregorio VII, da lei molto ammirato, ma con indipendenza di giudizio. Ella lo protesse dall’imperare Enrico IV, a lei cugino, ma nello stesso tempo intercesse in favore di Enrico IV presso il pontefice sdegnato. Ella protesse anche i papi successori di Gregorio VII. Piace a Tommaseo immaginare che ognuna di quelle due anime grandi,  

1   Cita come fonti il poema encomiastico di Donizone di Canossa dal titolo Vita comitissae Mathildis (o Vita Mathildis; cfr. adesso Donizone di Canossa, Vita di Matilde di Canossa, edizione, traduzione e note di Paolo Golinelli, con un saggio di Vito Fumagalli, Milano, Jaca Book, 2008) e lo scritto dell’erudito lucchese Francesco Maria Fiorentini, Memoria di Matilde la gran contessa, Lucca, Bidelli e Pellegrino, 1642.

figure femminili nel commento di tommaseo alla commedia

185 Ildebrando e Matilde, abbia dato all’altra consigli schietti e arditi. Ildebrando-Gregorio VII è assente dalla Commedia, come ognun sa, egli è oggetto di assai imbarazzato e imbarazzante silenzio da parte di Dante. Questa assenza permette a Tommaseo di difendere, senza direttamente attaccare il suo poeta, la grande opera politica di Gregorio, antimperiale, volta a contrastare la simonia dei laici, e a promuovere la indipendenza della Chiesa dai poteri temporali. Lo studioso soggiunge che solo grazie alla fermezza di quel papa nei confronti della simonia dei laici, in particolare degli imperatori, l’Italia non era diventata una provincia dell’impero otto secoli prima, ed era stata anzi faro di civiltà a tutta Europa fino alla fine del secolo xvi. Peraltro, il fatto che alla Gran Contessa sia stato riservato nella Commedia un ruolo tanto positivo e importante, basta a dire, a parere di Tommaseo, quale sia l’atteggiamento reale di Dante, del suo cuore patriottico, nei confronti della situazione politica concreta dall’età di Matilde fino a quella del poeta. Alleata dei Veneziani, il solo potentato veramente italiano nella penisola, Matilde contribuì finché visse a evitare quella frantumazione per cui signorotti che aizzarono guerre intestine conquistarono un «miserabile», cioè modesto e feroce, potere locale e municipale. Possiamo, dobbiamo ammettere, d’intesa con Tommaseo, che contro queste guerre intestine e questa frantumazione si schieri anche Dante nella Commedia e non solo in Inf. xxvii o in Purg. vi e xvi. Il rimedio di Dante è la monarchia universale. Tommaseo certo non lo nega, ma, attraverso Matilde, concilia gli ideali politici propri con quelli di Dante, il guelfismo con la monarchia universale. Per ragioni analoghe si batterà, contro ogni evidenza storica, a pro della identificazione del veltro, fin da Inf. i, con Cangrande della Scala. La Gran Contessa, amata e tremenda, coraggiosa, liberale e magnifica nel promuovere gli studi, le leggi, il culto e le arti, fu «l’arra e come il preludio dell’italiana unità; di quell’unità che non soπocasse le libere forze de’ popoli, che li tenesse sottomessi ad un’autorità suprema, ma non soggiogati, di quella unità, che i Ghibellini due secoli dopo dovevano malauguratamente chiedere altrui, come elemosina, sempre promessa e sempre negata, parte per noncuranza, parte per provvida impotenza» (Della contesssa Matilde, cit., pp. 567-568). Pertanto «non è meraviglia che Dante, non ghibellino pretto, ma Bianco, e nato guelfo: e guelfo sempre nell’anima, collocasse Matilde al sommo del monte, onde gli spiriti umani volano al cielo» (ivi, p. 568). Attraverso Matelda, dunque, il sondaggio circa le donne nella Commedia si congiunge all’altro circa il pensiero e gli ideali politici di Dante. Questa sutura era già stata stabilita nella citata prosa introduttiva al gran commento, Le donne del poema. Vi aveva scritto (p. 29): «Ed è imagine storica, trasfigurata, Matilde, nella quale l’antico Guelfo vedeva conciliati a qualche modo i suoi desiderii della riverenza debita alla suprema potestà cristiana residente in Italia colla civile grandezza della nazione e coll’avviamento alla sua futura unità». Il mondo morale e il pensiero politico di Dante sono, secondo Tommaseo, saldamente formati e stabili – malgrado alcune inevitabili oscillazioni – fin dal momento in cui l’impresa di scrivere prende avvio (il poema è stato composto dopo il Convivio, in cui già compare una inclinazione ghibellina, poiché vi si trova abbozzata la tesi della monarchia universale). Discorrendo dell’ordine politico auspicato da Dante Tommaseo tenta di superare un’aspra discrasia. Già nel Proemio, primo degli scritti che precedono l’Inferno, egli indica in Dante il «cantore della rettitudine e della religione, l’amico della patria e del vero» (ivi, p. xxii). Questo patriota fiorentino e italiano (ivi, p. xix), può essere annoverato tra i precursori e padri dell’Italia unita? Tommaseo è prudente. Dopo essere stato costretto a lasciare Firenze, l’antico guelfo si era fatto ghibellino. Egli era dunque tra coloro che invocavano l’assoggettamento dell’Italia a una grande potenza straniera (nella fattispecie

maria gabriella riccobono 186 l’impero germanico), il che è precisamente l’opposto di quel che vuole un patriota vero. La soluzione di Tommaseo, scritta e ripetuta in modo martellante nel commento, è che il veltro, il rettificatore che ricaccerà all’inferno la lupa e riporterà pace e concordia all’interno delle città italiane e nei rapporti reciproci tra le città è, fin da Inf. i, Cangrande della Scala. Il rettificatore è dunque un grande condottiero e uomo politico ghibellino, un vicario imperiale, ma è italiano e non germanico. Il grande esegeta vede le numerose prove contro la tesi da lui sostenuta. A proposito di Purg. vi (con riferimento all’imperatore Alberto d’Asburgo e al suo successore) e di Purg. xx (in cui Dante maledice la lupa e si chiede quando finalmente arriverà il rettificatore), Tommaseo acutamente nota che il poeta evidentemente non sa ancora chi assumerà il ruolo del veltro. Nella nota critico-estetica posposta all’ultima chiosa di Purg. vi, egli osserva che il poeta attribuisce ancor sempre gran pregio alle autonomie municipali perché, deridendo con amarissimo sarcasmo Firenze, le contrappone la virtù di Atene e di Sparta, dunque di due città-stato. Per Dante la suprema giurisdizione dell’imperatore germanico, è compatibile con le libertà delle città stato. Dante però, nota con rammarico lo studioso, vede nel patriziato la struttura portante dei governi municipali (cfr. la noterella critico-estetica posposta all’ultima chiosa a Purg. xvi, p. 278). Nelle note ai vv. 34-45 di Purg. xxxiii il commentatore asserisce che il Dux (il Cinquecento Diece e Cinque) è Cangrande, poiché Arrigo VII doveva essere già morto. Nelle note alle terzine 45 e 46 di Par. (vv. 133-138) egli commenta freddamente l’onore accordato da Dante ad Arrigo, per il quale è già pronto un alto seggio su cui sta una corona regale. Chiosando ogni luogo del poema in cui sia accennato il rettificatore Tommaseo aπerma che questi è Cangrande della Scala; parallelamente lo studioso ammette a più riprese, specie nelle prose collocate in appendice a ogni cantica, che il veltro andò cambiando identità tra l’inizio e la fine del poema e che Dante ripose speranze anche nel «mediocre» Arrigo. L’Alighieri «non chiedeva dal salvatore d’Italia nuovi istituti, lo voleva custode, non padrone della nazione ghibellina, voleva a ciascun municipio serbate le sue istituzioni» (nel discorso Del veltro non nato, secondo tra gli scritti posti in appendice al Purgatorio, p. xxx), «voleva in Italia l’impero tutore del patriziato, non più» (nella prosa Roma, posposta a Par. vi, p. xxx). Il ghibellino Dante si innalza al sopra delle fazioni e dei loro interessi particolari, sconfessando, in nome del suo superiore ideale di giustizia e di concordia civile, coloro che fanno dell’aquila insegna di guerra ingiusta: «Faccian gli Ghibellin, faccian lor arte / Sott’altro segno: ché mal segue quello, / Sempre, chi la giustizia e lui disparte» (Par. vi, 103-105).

ANTONIO LUBÍN E LE POLEMICHE SUSCITATE DAL SUO COMMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA Tiziana Piras

N

el primo capitolo, intitolato Dante spiegato con Dante, Lubín espone uno dei capisaldi del suo «canone ermeneutico»: in ogni questione dantesca, la soluzione vera è quella che si ottiene da Dante. È vero che tale formula fu proposta per primo da Giambattista Giuliani, 1 il quale tuttavia – nota il Dalmata – si valse di altri autori oltre al sommo Poeta; ed è vero che molti critici l’adottarono, ritenendo «aver per essa conseguito il brevetto di infallibilità, o un salvacondotto per i loro errori». 2 Ma Lubín ne rivendica l’applicazione ortodossa e fornisce sette regole per il suo impiego corretto e chiarisce ciò che intende col dare qualche esempio, basato sulla natura allegorica della Commedia. L’osservanza di queste regole «farà dileguare, come un so√o di borea dilegua le nuvole, moltissime questioni dantesche». 3 Inoltre, raccomanda Lubín, bisogna sempre citare testualmente i passi controversi, evitando in più che nei discorsi accademici o negli articoli destinati ai periodici l’autore si faccia prendere la mano dal bello stile: accade infatti che perché  





lo scritto riesca più compatto, più armonico, più scorrevole e solletichi meglio l’orecchio degli scioli (cagione potissima della vacuità di gran parte della prosa italiana), non si citano le parole di Dante come se i lettori avessero a memoria tutte le opere del Poeta. 4  

Insomma è un criterio rigoroso, quasi scientifico, quello proposto da Lubín per procedere all’interpretazione di Dante, e in questo criterio egli ripone grande fiducia. L’articolo successivo, La Beatrice di Dante e i psicologi senza psiche, del gennaio 1884, è dedicato alla figura di Beatrice nella Vita Nuova, in cui Lubín nega di vedere, come qualcuno gli ha attribuito, due donne diverse, una storica e una allegorica. Egli, qui e in seguito, sostiene con veemenza che una è per lui la persona, anche se considerata nei due sensi storico e allegorico, confutando tanto chi pretende di vedere nella Vita Nuova solo la storica quanto chi non vi vede che l’allegorica, e dicendo allegorica intende alludere all’innesto della celeste o divina nella storica. In particolare egli critica l’opinione di Adolfo Bartoli 5 che crede di aver trovato un conforto alla sua ipotesi della ‘donna ideale’ nelle parole di Francesco de Sanctis nei Nuovi Saggi critici (Napoli, 1872), quando aπerma che Beatrice è  

bellezza, virtù e sapienza, un individuo scorporato e sottilizzato, non più individuo, ma tipo e genere; non femmina, ma il femminile, l’eterno femminile di Goethe. [...] Beatrice qui è più che donna, è angelletta bella e nova, è il divino non umanato, l’ideale non ancora realizzato, la faccia o apparenza di tutto ciò che è bello e vero e buono, che attira a sé tutti quelli che hanno virtù d’intenderlo, che hanno intelletto d’amore. 6  

1   Giuliani Giambattista, Metodo di commentare la Commedia di Dante Alighieri, Firenze, Le Monnier, 1861 e Idem, Dante spiegato con Dante. Metodo di commentare la Divina Commedia dedotto dall’Epistola di Dante a Cangrande della Scala, «La Sapienza. Rivista di filosofia e lettere», vi, 3-5, 1881. 2   Antonio Lubín, Dante spiegato con Dante e polemiche dantesche, Trieste, Tipografia G. Balestra & C., 1884, p. 5. 3 4   Ivi, p. 8.   Ivi, pp. 8-9. 5   Adolfo Bartoli, Storia della letteratura italiana. v. Della vita di Dante Alighieri, Firenze, Sansoni, 1884. 6   Francesco De Sanctis, Francesca da Rimini, in Idem, Nuovi saggi critici, Napoli, Romano, 1872, pp. 5-6.

tiziana piras

188

Lubín contesta queste espressioni di de Sanctis, salvo poi protestare di non credere che l’illustre critico si riferisse alla Beatrice della Vita Nuova, ma a quella della Commedia. Ma neppure alla Beatrice della Commedia si convengono le espressioni usate da de Sanctis (quell’«angelletta bella e nova»): perché «nella Beatrice allegorizzata vi rimase l’individuo della Beatrice fiorentina, come in un innesto vi rimane pure il tronco della pianta scelta a farlo, e vi rimane con vantaggio dei frutti che porta il ramo innestato». 1 E poi continua, quasi scandalizzato dall’accostamento, che ha a che fare Goethe con Dante? e Gretchen con Beatrice? Lubín polemizza poi con Bartoli citando i personaggi dei romanzi moderni usciti «dai cervelli dei psicologi che non si curano né di natura né di società, e che ti danno aπetti e passioni ispirate ed eccitate da un fantasma senza psiche concetto nei loro cervelli», ed ecco Dante «tramutato in un idealista che finge di essere tormentato da smanie, da angoscie, da dolori; che piange; dimagra, si consuma, e si fa ludibrio di chi lo conosce per l’amore riposto in un ideale». 2 E continua: per Bartoli Beatrice non è neppure fiorentina e la Vita Nuova non è racconto storico perché tutto vi procede per via di ‘visioni’. Lubín demolisce le argomentazioni dell’avversario, ribadendo che nella Vita Nuova Beatrice non era aπatto l’idealità femminile, bensì «una donna vera in corpo ed in anima» 3 ma solo dov’essa è tale, cioè nell’inizio dell’opera, mentre era donna allegorizzata dopo che Dante fece di essa un simbolo. Lubín chiude l’articolo rivendicando la priorità e l’originalità di quanto aveva scritto negli studi e nella biografia del Poeta e ammonendo di doversi interpretare Dante con le dottrine sue e del suo tempo e non con quelle dell’Ottocento: in tal modo cesserebbe  





quella ripugnanza e quell’avversione che molti, per ciò che inclinati al materialismo e indulgenti alle psichiche teorie dei psicologi che negano l’esistenza della psiche, hanno di ricorrere a fonti teologiche per intendere la Divina Commedia: e il senso di molte cose, che in essa si credono arcane e impenetrabili, ne saranno [sic!] palesi. 4  

Spiegare Dante con Dante, dunque, ma inserendolo nel contesto del suo tempo. 5 L’articolo successivo, Sulle critiche del mio Commento sulla Commedia di Dante in generale, 6 è diviso in due parti: la prima è una Risposta a Francesco d’Ovidio, la seconda è una Risposta a Raπaello Fornaciari. La risposta a D’Ovidio è una confutazione serrata (a volte ironica se non francamente beπarda) delle argomentazioni con le quali D’Ovidio, nella Nuova Antologia 7 del marzo 1884, contestava alcune tesi di Lubín e segnatamente, in venti delle trenta pagine dell’articolo, l’opinione che la Vita Nuova fosse stata scritta nel 1300. Lubín riporta tra virgolette alcune delle aπermazioni del critico per poi smentirle con puntigliosità e acribía. Il linguaggio di queste confutazioni è spesso al limite dell’oπensivo: a D’Ovidio, che parla di «scempia ipotesi del Lubín», Lubín risponde: «E di siπatte espressioni da trivio fa uso un professore d’Università!». E ancora, quando D’Ovidio aπerma: «Sofistica, prima di tutto, al solito suo il Lubín» Lubín replica: «Che modi urbani non ha questo critico, professore di Università [...] privo delle doti al critico necessarie». 8 E dopo aver ribadito che il suo avversario rimacina la farina, anche di Dante, nel suo mulino e che  







1

2   Antonio Lubín, op. cit., p. 11.   Ivi, p. 14. 4   Ivi, p. 17.   Ibidem. 5   Lubín infine polemizza con il direttore del «Fanfulla della domenica», che non gli aveva pubblicato l’articolo accampando quelli che l’Autore considerava pretesti e non gli aveva reso il manoscritto accampando ‘il diritto di non restituzione’. 6   Il titolo completo del libro è Commedia di Dante Alighieri, preceduta dalla Vita e da Studi Preparatori Illustrativi, esposta e commentata, Padova, Penada, 1881. 7   Francesco D’Ovidio, La Vita Nuova di Dante e una recente edizione di essa, «Nuova antologia di scienze, lettere 8 ed arti», lxxiii, 1884, pp. 238-268.   Antonio Lubín, op. cit., pp. 25-26. 3

antonio lubín e il suo commento alla divina commedia

189 D’Ovidio scrive per scrivere, Lubín riporta gli argomenti a sostegno della tesi che il 1300 fosse l’anno di composizione della Vita Nuova. 1 Non possiamo entrare nei particolari piuttosto complicati di questi argomenti, che comporterebbe anche seguire le polemiche, concitate, pungenti e talora velenose, tra Lubín e D’Ovidio: basti accennare a uno di questi argomenti, di carattere astronomico, impiegato dal Dalmata per stabilire l’inizio e la durata dell’amore di Dante per la Donna Gentile, cioè la filosofia. Rilevando che all’epoca di Dante il sistema astronomico accettato era quello tolemaico, basato sugli epicicli, Lubín, dopo aver letto addirittura l’Almagesto, calcola, con l’ausilio di esperti astronomi, che le due rivoluzioni di Venere menzionate da Dante nella Vita Nuova assommano a millecentosessantasei giorni, cioè circa tre anni e due mesi, molto più che i quattrocentocinquanta giorni calcolati da altri dantisti: ciò porta molto più avanti le date (che Dante non menziona mai esplicitamente) degli avvenimenti riportati nella Vita Nuova e quindi, per Lubín, anche l’anno della composizione della parte in prosa. Senza contare che nel commento che Dante stesso redige della Canzone Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete, la prima del Convivio, il Poeta si dimostra astronomo, teologo, filosofo, erudito: dunque non ha soltanto cognizione della Grammatica, ma ha studiato a fondo la filosofia. Per Lubín quindi la parte in prosa della Vita Nuova è stata scritta nel 1300 e non prima, come sostenuto da altri, tra cui l’odiato D’Ovidio. Più breve e meno polemica è la risposta di Lubín allo scritto di Raπaello Fornaciari, Studi su Dante. Editi e inediti, 2 che tendeva a confutare la tesi del Dalmata, esposta nella dissertazione Intorno all’epoca della Vita Nuova di Dante Alighieri (letta nelle tornate di maggio e dicembre 1861 nell’Ateneo di Venezia e pubblicata a Graz nel 1862), che l’opera giovanile del Poeta fosse stata scritta nella primavera del 1300. Dopo aver riassunto gli argomenti della dissertazione, che comportano un’analisi cronologica e interpretativa della Vita Nuova stessa e del Convivio, Lubín interpreta «il racconto del passaggio per Firenze dei pellegrini che andavano a Roma in quel tempo che molta gente andava per vedere la Veronica»: 3 per lui si tratta dei pellegrini che in moltitudine si recavano a vedere la Veronica (il panno, posseduto in principio da santa Veronica, in cui è impresso un volto che si ritiene essere di Cristo e secondo un’altra versione la ‘vera icona’ del volto di Gesù) nell’anno giubilare 1300. Si tratta di un argomento piuttosto debole, che tuttavia Lubín accosta ad altri, più articolati, per confortare la sua tesi. Infatti negli anni ordinari la Veronica era esposta soltanto durante la settimana santa, mentre nell’anno giubilare era esposta tutti i venerdì e tutti i giorni festivi. Quindi «in quel tempo che molta gente andava» può significare tanto l’anno giubilare quanto i pochi giorni d’esposizione negli anni ordinari. Non possiamo qui entrare nelle intricate dimostrazioni oπerte da Lubín a sostegno della sua tesi, che pure appaiono persuasive, ma non possiamo omettere la chiusa della sua Risposta, in cui non perde l’occasione di attaccare D’Ovidio: dopo aver domandato all’imparziale lettore se Fornaciari abbia davvero confutato le prove prodotte da Lubín stesso a sostegno dell’opinione che la Vita Nuova fosse stata scritta nel 1300, così conclude:  





E per ciò che ne sono certo che la risposta sarà negativa, chiedo, se questa confutazione possa dirsi bella, come la disse D’Ovidio, e se Fornaciari prendendo a confutarla m’abbia per essa onorato? – Di tali villanie è capace D’Ovidio, professore di una tanto celebrata Università com’è, a ragione, quella di Napoli?! 4  

1   Un’ampia rassegna di saggi sulla controversa datazione della Vita Nuova si può ora consultare nel sito DaMA (Dante Medieval Archive) http://perunaenciclopediadantescadigitale.eu/istidama/index.php?id=46&L=0. 2   Raffaello Fornaciari, Studi su Dante. Editi e inediti, Milano, Trevisini, 1883. 3 4   Antonio Lubín, op. cit., p. 84.   Ivi, p. 98.

tiziana piras

190

Ancora a Raπaello Fornaciari è indirizzato l’articolo seguente, La Lucia allegorica di Dante di R. Fornaciari, a commento di uno scritto intitolato Sul significato allegorico della Lucia di Dante Alighieri, in Studi su Dante editi e inediti, Milano 1883. E per quanto Lubín dichiari al principio «Non brama di polemizzare, ché il polemizzare è, per più motivi, ben noioso, ma l’amore alla Commedia mi muove a fare delle osservazioni», la polemica c’è, eccome, anche se meno virulenta che quella contro D’Ovidio. Secondo Fornaciari, Lucia sarebbe «un aiuto dato da Dio al poeta qual mezzo per convertirsi, una specie di lume celeste, e quasi una prosecuzione o un appendice della misericordia simboleggiata in Maria. Così Lucia diventa una persona poco necessaria o secondaria almeno, e non ben s’intende perché si rivolga a Beatrice, simbolo della teologia, anziché operare direttamente sul cuor di Dante». 1 A questo ‘secondaria’ Lubín si oppone fieramente, argomentando che Lucia simboleggia la grazia preveniente, necessaria benché insu√ciente alla conversione del peccatore, per la quale «vi vuole quella grazia alla quale l’uomo non resiste mai, comeché abbia il potere di resistere, detta dai Teologi grazia e√cace, cooperante, susseguente, in quanto che gli eccitamenti della prima sulla volontà vengono messi in atto dalla seconda». 2 Ecco perché Dante fa agire entrambe, Lucia e Beatrice, la prima rivolgendosi alla seconda, senz’agire direttamente, così come Beatrice, senz’agire direttamente, scende nel Limbo a pregare Virgilio di salvare Dante. Queste incomprensioni di Fornaciari sono dovute alla scarsa conoscenza dei personaggi principali e delle Guide lungo il viaggio del Poeta e delle loro funzioni, «ciò che da me fu fatto nel mio Commento; e credo per la prima volta […] dimostrando quanto si asserisce con prove tratte dalla Commedia, e dalla biografia di Dante». 3 Un’applicazione esplicita del principio Dante spiegato con Dante, da Lubín propugnato. Non seguiremo nei particolari l’esposizione del Dalmata, ci contenteremo di menzionare la confutazione della tesi di Fornaciari secondo cui Lucia rappresenta il secondo grande attributo della Divinità, cioè la giustizia di Dio (secondo, in quanto il primo è la misericordia, rappresentata da Maria). Questa tesi addirittura scandalizza Lubín:  





La Misericordia di Dio si rivolge alla Giustizia di Dio!!! Non credo che alcun teologo l’abbia mai detto; e lo direbbe un poeta? Se la clemenza di un sovrano è disposta a perdonare il reo di lesa maestà, si rivolge forse il sovrano al ministro di giustizia? no, perché costui manderebbe quel misero senza dubbio alla forca. 4  

Non s’invoca mai la Giustizia di Dio, ma sempre la Grazia. Le considerazioni di Lubín a sostegno della sua tesi e contro quella di Fornaciari proseguono per molte pagine, dimostrando una conoscenza profonda del Poema sacro, il che è naturale, ma anche una padronanza interpretativa molto convincente, che riguarda il triumvirato [sic!] delle Donne (Maria, Lucia, Beatrice), le Guide, le sette Virtù, i Seniori, i quattro animali e in generale tutti i simboli della Commedia: Lucia, conclude il Nostro, «è invisibile perché rappresenta la Grazia, la quale non è visibile, e la si conosce dagli eπetti» 5 e non è, come vuole Fornaciari, la Giustizia divina. L’ultimo articolo del volume è intitolato Notizia del mio Commento alla Commedia di Dante Alighieri a sua difesa e ha per oggetto una delle tante recensioni del ponderoso libro di Lubín Commedia di Dante Alighieri (Padova 1881) in cui «il cortese bibliografo, dopo un breve ragguaglio di esso, accompagnato da parole benevole e lusinghiere... conclude la sua recensione dicendo che il libro, in sostanza, non oπre nulla di nuovo ad un conoscitore di Dante, né dà alcun contributo agli studi danteschi; essere però una coscienziosa e ragionata raccolta enciclopedica dei risultati degli studi finora fatti sulla di 

1

  Ivi, p. 102.   Ivi, pp. 105-106.

4

2

  Ivi, pp. 102-103.

3

  Ivi, pp. 103-104.   Ivi, p. 135.

5

antonio lubín e il suo commento alla divina commedia

191 vina Commedia». 1 Lubín attribuisce questo giudizio poco meno che umiliante per le sue ambizioni di critico alla lettura di qualche precedente recensione che «disse il mio libro un vasto repertorio», insomma un magazzino dal quale gli studiosi potessero estrarre gli strumenti utili per risolvere ogni incertezza sulle questioni dantesche. Inoltre il primo recensore «dice esservi accanto al testo del Poema una parafrasi dello stesso in prosa». 2 Lubín aπerma con decisione che non di parafrasi si tratta, bensì del testo sverseggiato, in cui cioè sono conservate la stessa sintassi e le stesse parole di Dante (salvo sostituire un sinonimo a qualche termine desueto o raro), ma l’ordine ne è mutato per rendere il significato più comprensibile. Lubín è disposto a riconoscere il suo debito verso altri studiosi, in particolare verso l’abate Jacopo Ferrazzi, al cui Manuale deve quasi tutta «la parte eruditiva, concernente la letteratura Dantesca». Rispondendo infine alle critiche, il Dalmata imputa agli altri Commentatori di aver rivolto l’attenzione «alla spiegazione e interpretazione dei singoli passi del Poema», per lo più senza curarsi se queste illustrazioni parziali reggano tra loro e convengano «all’allegoria generale del Poema, la quale non conoscono, perché non si sono curati di cercarla; alcuni anzi, perché negano che la vi sia». 3 Queste parole fanno capire quale sia l’essenziale della rivendicazione di Lubín: in quel Commento egli ha voluto non solo esporre il risultato dei suoi studi, ma anche «tutte quelle dottrine che condussero me a quelle conclusioni, e di presentarne le necessarie per citazioni originali; nell’intento di dare alle mie interpretazioni l’appoggio dell’autorità; di dispensare il lettore dalla gravissima briga di rintracciarle», 4 così che il lettore possa comprender il Poema da sé senza l’aiuto altrui. E viene quindi ad esporre il contenuto del volume: 1. La Vita di Dante, con cenni sulle Opere Minori; 2. Gli studi preparatori alla lettura della Commedia ed Illustrativi della stessa; 3. Quattro Tavole che illustrano l’architettura dei tre regni dell’altro mondo; 4. Le Tavole Sinottiche di tutto il Poema con gli argomenti dei singoli canti attribuiti al Boccaccio; 5. Il Testo della Commedia commentato, con a fronte un’esposizione dello stesso in prosa; 6. L’indice dei nomi propri del Poema e delle cose notevoli contenute nel Volume. Lubín dedica sessanta fittissime pagine all’illustrazione seppure sommaria dei contenuti filosofici, allegorici e teologici che egli rintraccia nella Commedia con il conforto di san Bernardo, sant’Agostino, Riccardo di san Vittore, Ugo di san Vittore e altri. Nonostante la loro densità, queste considerazioni sono ben argomentate, e trasparenti i richiami e le corrispondenze e la descrizione delle facoltà dell’uomo, dalla ragione su su fino all’intelletto intuitivo, e la funzione delle Guide che conducono Dante fino alla contemplazione dei misteri teologali e infine di Dio stesso. Una lettura di grande suggestione, dunque, che giustifica le domande che Lubín pone al suo recensore, il quale nella «Deutsche Litteraturzeitung» del 6 maggio 1882 5 asseriva che nel suo libro non v’era nulla di nuovo e che esso non dava alcun contributo agli studi danteschi. Queste domande esprimono la consapevolezza e il risentimento del Dalmata, il quale conclude con tono battagliero:  









Questo è il sustanziale della mia interpretazione e del mio Commento. Come vi sia riuscito, il giudizi spetta al lettore; ma credo di non poter essere smentito, se io stesso dico che esso contiene molte cose, e tra esse delle sustanziali, non dette dagli altri, e che quindi mi vien fatto torto da chi gli nega ogni contributo agli studi danteschi: che è appunto ciò che volli dimostrare con questo articolo, esteso però anche nell’intento di facilitare, mediante la notizia del mio libro, l’intelligenza del divino Poema. 6  

Per la sua profondità e acribía il saggio Dante spiegato con Dante e polemiche dantesche giustifica la fama di cui Antonio Lubín godette ai suoi tempi: questo studioso dimenticato meriterebbe di essere riportato all’attenzione dei dantisti. 1

2   Ivi, p. 136.   Ibidem. 4   Ivi, p. 138.   Ivi, p. 139. 5   Il recensore è Körting («Deutsche Litteraturzeitung für Kritik der Internationalen Wissenschaft», iii, 18, 6 Mai 6 1882, pp. 642-644).   Antonio Lubín, op. cit., p. 200. 3

I LEGAMI TRA IL LIBRO DELL ’ ARTE DI MERCATURA DI BENEDETTO COTRUGLI E DE RE UXORIA DI FRANCESCO BARBARO Paulina Piotrowicz

N

ella visione che l’uomo ha della realtà, egli diventa un’entità completa e pienamente realizzata solo se riesce a unire diversi aspetti che compongono la sua esistenza: privato, economico e pubblico. Tale quadro normativo regolante la vita dell’uomo è dovuto soprattutto al retaggio culturale classico, al pensiero giuridico laico, nonché all’Umanesimo civile, ciò fa sì che nella discussione sullo stato ideale composto da cittadini modello, sfociata in una sorta di visione utopistica, subentrino da una parte una certa nostalgia del passato e dall’altra la necessità di ripensare la propria identità e l’idea di prestigio sociale. Al pari un adeguato funzionamento di un organismo complesso, qual è lo stato, dipende ugualmente da tutti gli elementi che lo compongono a partire da chi esercita il potere fino ai ceti più bassi, un mancato adempimento ai propri doveri comporta lo sbilanciamento di un fragile equilibrio che mantiene unita la comunità. Da qui nasce l’urgenza di formulare manuali di virtù e di regole di comportamento propri di una data classe sociale, al fine di regolare la vita di cittadini nell’ottica di un vivo sentimento dell’utile comune, 1 a cominciare dall’ambito in cui il pubblico si rispecchia nel privato e dove il macrocosmo si incontra con il microcosmo, vale a dire all’interno della famiglia. 2 Dal momento in cui il nuovo sistema sociale stabilito dai precetti dell’Umanesimo civile si fonda sulla triade organizzazione, centralizzazione e razionalizzazione, 3 risulta indispensabile per i gruppi sociali in continuo sviluppo, plasmare la propria identità, definire se stessi, quindi stabilire dei limiti dal resto della società in modo tale da definire precisamente i ruoli da svolgere. E se nell’interesse del bene comune è mantenere l’ordine civile che dipende dalla corretta politica sociale, diventa decisivo determinare una disciplina famigliare sotto l’autorità paterna dato che equivale al potere che lo Stato esercita sui cittadini. 4 Nonostante la figura della donna non costituisca il punto centrale del pensiero di filosofi e letterati del Quattrocento, il suo ruolo all’interno della famiglia e della società suscita un certo interesse concretizzatosi in molteplici trattati sul governo della famiglia e sulla sposa ideale. Si potrebbe azzardare la tesi che essi rientrino nel genere degli specula e sebbene gli specchi fossero dedicati in modo particolare a prìncipi e in generale a chi governava, altrettanto rilevante pare essere la formazione di alcuni membri della società, come i mercanti che assicuravano la sopravvivenza in termini economici in realtà socio-politiche come Venezia o Firenze; a tal riguardo, Il libro dell’arte di mercatura del raguseo Benedetto Cotrugli (1410-1469) è un esempio di un’opera che si colloca in questo quadro.  







1

  Ugo Tucci, Mercanti, navi monete nel Cinquecento veneziano, Bologna, il Mulino, 1983, p. 21.   Anche Nicolò Vito di Gozze, come si vedrà nella relazione di Maiko Favaro e di Claudio Griggio, stabiliva una correlazione tra governo della famiglia e governo politico-civile. 3   Stanley Chojnacki, Women and Men in Renaissance Venice: Twelve Essays on Patrician Society, Baltimore, The 4 Johns Hopkins University Press, 2008, pp. 27-52.   Ibidem. 2

i legami tra il libro dell’arte di mercatura e de re uxoria

193 Benedetto Cotrugli, mercante e umanista raguseo, 1 ben conosciuto agli storici di economia e di ragioneria in quanto considerato uno dei primi teorici della partita doppia, 2 pian piano conquista un posto anche «all’interno del più vasto panorama della storia e della cultura italiana». 3 Durante i suoi numerosi viaggi d’aπari, come indica Falchetta, 4 entrò in contatto con i personaggi di spicco dell’epoca e con le idee che circolano in un ambiente in fermento quali città-stato della penisola italiana. Tale esperienza, da un lato professionale, dall’altro culturale e letteraria, rende Cotrugli protagonista ed erede, 5 accanto agli autori come Giovanni Morelli, Leon Battista Alberti, Matteo Palmieri, Giannozzo Manetti, Francesco Barbaro, del patrimonio intellettuale dell’umanesimo civile. Ebbene il trattato a prima vista sembra essere «uno di tanti manuali di avviamento al commercio». 6 In eπetti costituisce una sorta di dissertazione filosofica sulla natura dell’uomo, delle sue interazioni con la realtà che lo circonda in ogni suo aspetto, a partire dalla sua vita professionale, famigliare, fino a quella civile, inserendosi perfettamente nella discussione sulla società ideale costituita da uomini universali che domina la letteratura del Quattrocento. In tale ottica Il libro dell’arte di mercatura presenta numerosi punti in comune con le opere della portata de De re uxoria di Francesco Barbaro o I libri della famiglia di Leon Battista Alberti di cui potrebbe aver avuto notizie scritte a Firenze. Il fondamentale contributo di Alberto Tenenti ha analizzato le correlazioni tra De re uxoria e I libri della famiglia 7 e tra I libri della famiglia e Il libro dell’arte di mercatura, 8 nelle pagine che seguono vorrei presentare alcune osservazioni aggiuntive che derivano dalla lettura del trattato del Cotrugli nella chiave pedagogica, risaltando soprattutto i suoi legami con la trattatistica della famiglia, in particolare con il De re uxoria. A tal fine, prima intendo soπermarmi su certi rapporti che collegano Benedetto Cotrugli con la Repubblica di Venezia, la sua cultura, il suo pensiero e le sue usanze. Finora gli studiosi hanno dedicato molta attenzione a mettere in rilievo l’impostazione filosofico umanistica de Il libro dell’arte di mercatura 9 in relazione ai forti legami dell’autore  

















1   Benedetto Cotrugli nasce intorno al 1410 (secondo M. Luzatti nel 1416) a Ragusa in una famiglia di grandi mercanti. Muore nel 1469. Per quanto riguarda i dati concernenti la vita di Benedetto Cotrugli, la sua famiglia e le sue opere informazioni più dettagliate in lingua italiana li riportano: Bojana Bracić, Uno scrittore mercante raguseo del xv secolo: Benedetto Cotrugli e il suo trattato Della mercatura e del mercante perfetto, «Italica Belgradensia», 4, 1995, pp. 121- 241 che nel suo articolo presenta anche i dati biografici della famiglia Cotrugli e i suoi rapporti con la città di Ragusa; Bruna Cinti, Della mercatura e del mercante perfetto, «Studi di lingua e letteratura spagnola», 31, 1965, pp. 351371; Matteo Luzzatti, Cotrugli, Benedetto, in Dizionario Biografico degli Italiani, xxx, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1961, pp. 446-450; Il trattato De navigatione di Benedetto Cotrugli (1464-1465). Edizione commentata del ms. Schoenberg 473 con il testo del ms. 557 di Yale, a cura di Piero Falchetta, «Studi Veneziani», lvii, 2009, pp. 15-335; Benedetto Cotrugli Raguseo: Il libro dell’arte di mercatura, a cura di Ugo Tucci, Venezia, Arsenale Editrice, 1990 che è la prima edizione moderna dell’opera; Mocilo Spremić, Dubrovnik e gli aragonesi (1442-1495), Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti, Palermo, 1986. È di notevole importanza l’articolo di Luca Boschetto (Tra Firenze e Napoli. Nuove testimonianze sul mercante-umanista Benedetto Cotrugli e il suo Libro dell’arte di mercatura, «Archivio Storico Italiano», 606, iv, 2005, pp. 687-715) che mette in luce i rapporti di Benedetto Cotrugli con Firenze e i suoi grandi rappresentati. I testi dedicati a Benedetto Cotrugli in lingua serbo-croata non sono conosciuti all’autrice del presente 2 articolo.   Bojana Bracić, op. cit., pp. 180- 182. 3 4   Luca Boschetto, op. cit., p. 687.   Piero Falchetta, op. cit., pp. 24-25. 5   Oltre a Il libro dell’arte di mercatura Benedetto Cotrugli è autore di altre tre opere di cui solo una è pervenuta ai nostri tempi De navigatione, che è conservato in due redazioni quattrocentesche (Piero Falchetta, op. cit., pp. 25-32). Invece della perduta De uxore ducenda, opera in latino anteriore al 1458, sappiamo dall’autore stesso che ne parla nelle carte della sua opera più importante (tre capitoli del quarto libro de Il libro dell’arte di mercatura ne costituiscono una sintesi). Grazie alla testimonianza di Daniele Farlato, secondo Falchetta, o all’attestazione di biografi dalmati come segnala Luzzati, ci sono arrivate notizie de La natura dei fiori composto in italiano intorno al 1460. 6   Luca Boschetto, op. cit., p. 687. 7   Alberto Tenenti, La res uxoria, in Una famiglia veneziana nella storia: i Barbaro, a cura di Michela Marangoni, Manlio Pastore Stocchi, Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 1996, pp. 43-66. 8   Alberto Tenenti, Famille bourgeoiseet idéologie au Bas Moyen Age, in Famille et parenté dans l’Occident médiéval, Roma, École Françasie de Rome, 1997, pp. 431-440. 9   L’opera di Cotrugli fu composta nel 1458, ma fu pubblicata per la prima volta solo nel 1573 a Venezia da Francesco Patrizi da Cherso. Corregge gli errori accumulatisi secondo il curatore nel corso di trascrizioni avvenute nell’arco di cent’anni passati dalla stesura dell’opera, l’intervento che Ugo Tucci ritiene disastroso (Benedetto Cotrugli

paulina piotrowicz 194 con la corte napoletana degli Aragonesi 1 e con la Firenze dei grandi umanisti. 2 Nella corte di Alfonso d’Aragona Cotrugli strinse amicizia con Giannozzo Manetti. Nella sua opera De terremotu, che descrive il catastrofico sisma del 1456, il Manetti racconta di strani fenomeni avvenuti a casa del suo amico, summus vir, Benedetto Raguseo. 3 Il suo rapporto con Giannozzo Manetti dovrà essere approfondito, ora che sono disponibili un’edizione critica con commenti delle sue principali opere. 4 A questo punto, vale la pena chiedersi quali fossero i legami del mercante-umanista raguseo con Venezia, repubblica mercantile per eccellenza i cui usi si riflettono nelle sue opere. Basti ricordare che dal 1204 al 1348 la città di Ragusa si trovò sotto il dominio veneziano, il che lasciò il segno, per esempio, nella forma del governo da essa adottata. Per giunta, il controllo della Serenissima sull’Adriatico nel corso del secolo xiv è indiscutibile. 5 A confermare che i contatti di Cotrugli con la Repubblica di Venezia avessero luogo fin dal principio della sua attività commerciale, è la decisione del mercante di dedicare la sua opera De navigatione proprio al Senato di Venezia. 6 Qui si ribadisce la profonda conoscenza delle usanze culturali e commerciali veneziane acquisite da Cotrugli, durante lo svolgimento delle mansioni professionali, come nel caso di un viaggio da Venezia ad Aigues Mortes svoltosi nel 1440. 7 Inoltre, Tiziano Zanato, nel suo studio, indica la forte componente veneziana nelle scelte linguistiche del mercante raguseo ne Il libro dell’arte di mercatura, soprattutto a livello fonetico. 8 L’inserimento di Benedetto Cotrugli nel contesto veneziano, spiega bene la conoscenza del De re uxoria di Francesco Barbaro e le tracce riconducibili nel Libro dell’arte di mercatura. Entrambi gli autori toccano questioni comuni, pur avanzando approcci diπerenti. Questo è dovuto al fatto che le due opere presentano caratteri distinti. L’opera di Francesco Barbaro è interamente dedicata alla questione della scelta della sposa perfetta, radicata nella cultura patrizia veneziana dell’epoca, mentre il trattato di Cotrugli riserva delle considerazioni distribuite nel testo. 9 Così il raguseo tende a essere sintetico e ad accennare a questioni centrali che nel De re uxoria sono spiegate in modo ben argomentato pur nell’essenzialità. A ogni modo, ambedue partono da un punto di vista puramente maschile, dove la donna è vista e descritta attraverso gli occhi dell’uomo, avvalendosi del topos comune. La donna è quindi il risultato della deviazione della Natura che avviene nel corso della generazione. La Natura stessa dà alle donne un determinato posto nella gerarchia sociale e famigliare, dove regnano le leggi universali secondo le quali la vita umana si uniforma alla struttura del reale, scandendo il ritmo di adeguamento alle corrispettive funzioni civili. La debolezza della natura  

















Raguseo: Il libro dell’arte di mercatura, a cura di Ugo Tucci, pp. 3-17). Nel 1582 esce la traduzione francese del trattato, eπettuata da Jean Boyron (Bojana Bracić, op. cit., pp. 163-164). La terza edizione italiana esce a Brescia nel 1602 dopodiché segue una serie di edizioni in serbo croato (Bojana Bracić, op. cit., pp. 164-165). Ugo Tucci, autore della prima edizione moderna dell’opera pubblicata nel 1990, nella sua ricostruzione del testo si fonda su due codici fiorentini quattrocenteschi: il Magliabecchiano xix 97 e il Marucelliano C16 della Biblioteca Nazionale di Firenze. Tuttavia Tiziano Zanato (Tiziano Zanato, Sul testo della Mercatura di Benedetto Cotrugli, «Studi veneziani», xxvi, 1993, pp. 15-65) segnala l’esistenza di un altro manoscritto di particolare interesse conservato nella National Library of Malta della Valletta del quale Tucci non era a conoscenza. Allo studio dello Zanato si devono fondamentali accertamenti filologici testuali e approfondimenti linguistici e lessicali. Tutte le citazioni de Il libro dell’arte di mercatura presenti nell’articolo provengono dall’edizione di Tucci. 1 2   Mocilo Spremić, op. cit., pp. 158-164.  Cfr. Luca Boschetto, op. cit. 3   Giannozzo Manetti, De terremotu, a cura di Daniela Pagliara, Firenze, sismel-Edizioni del Galluzzo, 2012, pp. 123-124. 4   Probabilmente proprio a Napoli il Cotrugli conobbe il testo De dignitate et excellentia hominis, la cui influenza su Il libro dell’arte di mercatura è stata messa in evidenza da Luca Boschetto (Luca Boschetto, op. cit., p. 711). Altrettanto rilevanti sembrano i suoi contatti con Francesco Neroni. 5 6   Mocilo Spremić, op. cit., pp. 297-302.   Piero Falchetta, op. cit., pp. 20-21. 7 8   Ivi, pp. 117.   Tiziano Zanato, op. cit., pp. 49-61. 9   Il libro dell’arte di mercatura in lingua volgare è composto da quattro libri, ognuno preceduto da un breve proemio. Ogni parte dell’opera è dedicata a un argomento diverso: rispettivamente trattano della mercatura, la sua natura e forme, della religione, della vita morale del mercante perfetto e infine del governo della casa e della famiglia.

i legami tra il libro dell’arte di mercatura e de re uxoria

195 delle donne, o meglio, la mancata virtù virile e il loro essere difettose, le rende docili e soggette all’uomo, munito di un più rigoroso discernimento di ragione. Il marito, che possiede il diritto assegnatogli in virtù della legge naturale, filosofica, civile e morale, le fa rinascere alla cultura, inducendole la propria dottrina e i propri costumi. È giusto dunque che il maschio e la femmina si uniscano non solo per la necessità di generare, ma anche per la vita domestica, nella quale l’uomo e la donna hanno funzioni distinte e in cui l’uomo ‘reinventa’ la donna grazie alle sue capacità speculative e pratiche. Come nella procreazione, secondo San Tommaso, è l’uomo che svolge la funzione attiva dotato di virtus activa, mentre alla donna è riservata solo il compito di instrumentum procreationis in quanto essere difettoso. Il padre della famiglia esercita il potere sulla propria casa, così come lo stato governa i cittadini. Per questo ha il bisogno di non restare da solo, dato che deve trasmettere i frutti della sua attività economica e della sua ascensione sociale, che ottiene grazie al suo capacità di autocreazione da homo faber. Il matrimonio costituisce uno di questi passaggi simbolici in cui si conclude il processo di maturazione del giovane uomo e, come vediamo, ha inizio per le donne. Proprio dalla definizione del matrimonio, adottata sia dal Barbaro che dal Cotrugli, emerge il radicamento della consacrazione del matrimonio, tanto negli orizzonti cristiani, quanto in quelli laici di matrice classica: principalmente tre beni sono nel matrimonio: fede, prole et sacramento. Debbi havere perfecto amore, perché lo matrimonio fu instituito da Dio a procreatione di figliuoli. 1 Eius institutis nuptiae, quae sacramento, fide, prole firmissimae sunt, sic commendantur, ut prius iussae posterius concessae facile videantur. 2  



La precisazione della natura del matrimonio, inteso come ambito in cui si intrecciano gli interessi pubblici e privati, impone una nuova forma di equilibrio esistenziale in cui i coniugi costituiscono le corrispettive controfigure che si rispecchiano l’uno nell’altra e viceversa, nonché precisa i loro compiti da svolgere che rispondono perfettamente alle esigenze del sacro, del naturale, del sociale e dell’etico. Una netta suddivisione di funzioni all’interno dell’unione coniugale consegna all’uomo il compito di trasmettere valori, anzi, di imprimere nella sposa e nella prole, quasi esecutore del processo di imitatio, trapiantato nel campo dell’etica, imperniato sul ruolo attivo del maschio e quello ricettivo delle sue ‘opere’ da plasmare. Il cuore delle questione consiste nell’intendere il perché dell’importanza del matrimonio come rimedio alla ‘fornicazione ordinata’, che si contrappone all’amore coniugale e definisce la funzione utilitaria della donna: Et però non debbe l’homo exponere del seme suo dove gli agrada, perché di vili et captivi non si generi figliuoli simili a figliuoli di matrimonio, donde la donna si priva del suo honore et figlioli si fa ingiuria, et a ssé per queste cose si fa dishonore. 3 In suos enim ortus semina redeunt. Mirificas fruges esse perspicimus, quas optimae segetes pariunt. Scimus complura et praestantissima quidem baccarum et nucum et fruticum genera, nisi propriis et nobilibus in locis, nullo modo nasci. Quod si ad ignobilem migrarint agrum, ingenuos exuunt animos, pomaque degenerant sucos oblita priores. Egregii quoque surculi, si vilioribus truncis insit sint, deteriores fetusparturiunt. 4  



Nelle famiglie del veneziano e del raguseo, la patria potestà consiste nel saper scegliere la sposa giusta, in modo da poter ricreare la prole perfetta che sarebbe l’immagine impres1

  Benedetto Cotrugli, op. cit., p. 243.   Francisci Barbari, De re uxoria liber in partes duas, a cura di Attilio Gnesotto, Padova, Accademia Pataviana di Scienze, Lettere e Arti, 1915, pp. 6, 9-10. 3 4   Benedetto Cotrugli, op. cit., p. 242.   Francisci Barbari, op. cit., p. 19. 2

paulina piotrowicz 196 sa della virtù del seme del padre nella figura e nell’anima, in grado di «non solamente imitare i padri, ma etiamdio excellere et passarli in qualche virtù». 1 Il padre, dunque, riempie la forma corredata dalla madre procurandosi una superficie, una lastra levigata proprio da lui, che lo rispecchi senza condizioni nello spazio pubblico, fuori dalle porte della casa. Nel caso dei discendenti, l’azione di imitatio viene compiuta sia in modo passivo, dal momento che i figli ricevono virtù naturali innate, sia in modo attivo, visto che ai figli maschi spetta il compito di migliorare l’eredità (etica, materiale, sociale) ottenuta. La loro attuazione dell’imitatio della virtù paterna, conformemente alla teoria ciceroniana di De o√ciis secondo la quale l’uomo dispone di un’inclinazione naturale al discernimento dell’ordine e della misura. I figli, quindi, si articolano come autori consapevoli di tutta una serie di comportamenti pertinenti alla figura dell’uomo universale, «compiuto et dotato di ogni facultà perché possa intendere e comparire in ogni generazione di homini», 2 summus vir che mette a disposizione del bene comune le proprie qualità. Per il maschio, il matrimonio costituisce il coronamento del processo di maturazione in un contesto di categorie morali, sociali e civili, mentre per la sposa solo nel momento in cui varca la soglia della casa coniugale viene finalmente avviata l’acquisizione della propria identità attribuitale dal marito che la forma come se fosse una cera morbida nelle sue mani esperte, finché non diventa lo specchio che rispecchia l’immagine della disciplina dell’uomo. L’uomo, grazie alle sue virtù dell’animo e all’intelletto, è capace letteralmente di formare le donne a sua immagine e somiglianza, giacché da sole, data la loro natura difettosa, diventano un simulacro vuoto in cui non coincidono in nessuna misura honestum e utile necessari per cementare un habitus morale, nonché civile ad appannaggio del bene comune. Malgrado ciò, per non mancare al principio dell’equità che rientra nella cornice di giusta misura o del decorum che regolano le convenzioni di corretto funzionamento sociale, la sposa deve comunque essere portatrice di certi valori che la rendono degna di fronte allo splendor maschile. La scelta della moglie perfetta va fatta procedendo per la scala di valori che prosegue verso l’utilità e il perfezionamento della società. A prescindere dal discorso sulla dote, che sembra non interessare al Cotrugli, ma che è largamente trattato dal Barbaro, la climax di virtù femminili va crescendo verso la visibilità. Ogni gesto della donna – specchio che appare in pubblico, conformemente alle norme del decorum, è misurato e composto come in una messa in scena per mantenere le apparenze, un insieme di comportamenti rigorosamente controllati e dominati, che svolgono un ruolo di notevole importanza nel formare l’identità sociale del mercante-umanista e della sua sposa. L’assoluto controllo di se stessi nello spazio pubblico è risultato del continuo rispecchiarsi del microcosmo della casa nel macrocosmo dello stato, del palazzo – casa nella piazza, dell’uomo nella donna, dell’animo nel fisico e viceversa. Da un altro canto, è proprio l’uomo a rendere la donna visibile che, attraverso il processo di imitatio che nel suo caso consiste nell’essere conforme al modello del marito, riproduce una concreta esperienza percettiva.  



1

  Benedetto Cotrugli, op. cit., p. 206.

2

  Benedetto Cotrugli, op. cit., p. 210.

TRIESTE TRA STORIA, MITO, LETTERATURA. IL FANTASMA DI TRIESTE DI ENZO BETTIZA Carla Carotenuto

N

ato nel 1927 a Spalato e cresciuto nel crocevia di quattro civiltà, parlando tre lingue (serbocroato, italiano, tedesco – cui si aggiunge in famiglia il dialetto veneto; poi il russo, il francese e l’inglese), in una sorta di «sonnambulismo etnico», 1 Enzo Bettiza pone al centro della sua esistenza l’esilio. Definendosi «esule in patria» in quanto cittadino italiano a Spalato per scelta del padre che, dopo il crollo dell’Impero Austroungarico e la formazione del Regno Jugoslavo a seguito del Primo Conflitto Mondiale, optò per la cittadinanza italiana, egli distingue nella sua vita tre esili: il primo, «quasi una deportazione», dovuto agli spostamenti da Spalato a Zara (allora enclave territoriale italiana) dove frequentava, per volontà paterna, il ginnasio italiano; il secondo, «l’esodo vero e proprio, lo strappo definitivo dalle vecchie mura di Spalato» 2 dalla Dalmazia in Italia nella primavera del 1945 (successivo a un breve periodo nell’aprile del 1941 nelle Marche, a «Civitanova Mare»); il terzo per ragioni professionali a Vienna e poi in Russia, a Mosca (fino al 1964): esperienza che consente allo scrittore la ricostruzione dell’identità attraverso il recupero delle radici slave, «quasi seguendo le orme moscovite» 3 del protagonista del Fantasma di Trieste (1958).  





Avevo il vuoto dell’esilio. Mosca […] è stata soprattutto il luogo di una mia intima riscoperta dell’anima e della memoria, l’ideale casa di cura spirituale che per anni avevo cercato invano in altre terre d’esilio. È stata, nell’insieme, la clinica che avevo desiderato, la lingua che avevo smarrito, l’università che non avevo frequentato, la laurea che non avevo conseguito. Dopo la Russia, per fortuna, io non sarei tornato alla “vita di sempre”. Sarei tornato semplicemente alla vita e alla salute. 4  

La «natura sdoppiata» di Bettiza, il suo sentirsi «straniero» ed «estraniato» ovunque gli consentono uno sguardo privilegiato: Per usare un’e√cace immagine di Gide, so benissimo di poter dare l’impressione di vivere come sospeso in eterno sul bracciuolo di una sedia, sempre sul punto di alzarmi e di andarmene altrove nella speranza di trovarvi la sedia giusta su cui fermarmi. Ma proprio il fatto di convivere ovunque e con tutti […] col sentimento precario dello straniero, dell’ospite non sempre gradito, dovrebbe rappresentare almeno per chi mi legge una garanzia. 5  

La scissione identitaria, determinatasi a livello familiare a causa della diversa scelta dello zio paterno Marino che, dopo la fine della Grande Guerra, optò per la cittadinanza jugoslava, caratterizza molti personaggi di Bettiza descritti in zone di confine, come il giovane protagonista e Renato Cossovel del Fantasma di Trieste. I casi di così detta “doppia personalità” sono, qui da noi, all’ordine del giorno. […] Il fenomeno in1   Enzo Bettiza, Autoritratto allo specchio, in Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri. Conversazione con Enzo Bettiza, Milano, Rizzoli, 2001, p. 9. 2   Enzo Bettiza, Prologo, in Idem, Esilio, Milano, Mondadori, 2006, p. 15. 3   Idem, Autoritratto allo specchio, cit., p. 29. 4   Enzo Bettiza, La guerra, in idem, Esilio, cit., p. 349. 5   Enzo Bettiza, Prefazione, in idem, Via Solferino. La vita del “Corriere della Sera” dal 1964 al 1974, Milano, Rizzoli, 1982 (© 1981), pp. 11-12.

carla carotenuto

198

vece s’aggrava quando, in un luogo come Trieste, la “doppia personalità” decida di diventare “una” indivisibile e assoluta, quando decida di espellere l’altra parte di sé e di buttarsi tutta da una parte sola. E non può farlo, senza violenza su se stessa. E allora, ecco, si spiegano i numerosissimi casi di nevrastenia politica che allignano in una città come la nostra. 1  

In questo romanzo «sinfonico» si combinano temi diversi: la decadenza di un’antica famiglia di Trieste, dove si diπondono i «gabinetti psichici», la formazione di Daniele Solospin, «borghese maledetto», destinato a diventare in Russia un capo rivoluzionario, l’irredentismo triestino. 2 Contribuiscono alla composizione narrativa elementi e figure di matrice autobiografica, desumibili da Esilio (1996): 3 l’appartenenza della famiglia protagonista alla borghesia mercantile triestina ricalca quella dei Bettiza all’antico patriziato mercantile dalmata; 4 nella rappresentazione del padre di Daniele, Giovanni, detto Giani (come uno zio paterno dello scrittore), amante della mondanità e dei viaggi, sono rielaborati alcuni tratti distintivi del padre dell’autore. Nel romanzo Il fantasma di Trieste la vitalità, la passionalità, la salute di Giani, «vedovo allegro», sono contrapposte, secondo il modello sveviano, alla debolezza, all’inettitudine, al silenzio e alla malattia di Daniele, considerato «il rovescio nero di suo padre», diverso anche per l’orientamento sessuale. La figura paterna, che cerca di controllare o negare la diversità del figlio, è associata alla città triestina, all’inizio vivace e frivola. La madre del protagonista, morta di tifo e ricordata con nostalgia da lui, in un intreccio tra sogno e realtà, e devotamente dal dottore sloveno Ervino Janovich, evoca la madre di Bettiza, una dalmata di origini montenegrine dalla «bellezza esotica», con i capelli corvini, gli occhi neri e «l’epidermide soπusa di una bianchezza opalescente». 5 Simile è il ritratto di «struggente bellezza» nel romanzo: «da tutta quella bianca figura che non pareva fatta di carne si sprigionava un pallore intenso, abbagliante. Solo gli occhi, scuri, ma tanto forti da sembrare nerissimi, erano tesi nel viso magro con una nettezza di segno impressionante». 6 In Daniele si riscontrano tratti in comune con il giovane Bettiza, solitario e di salute cagionevole. Nel Fantasma di Trieste la malattia polmonare del ragazzo è un rimando autobiografico alla grave pleurite che nel 1942 colpì lo scrittore quindicenne, salvato dal medico croato Janović, interessato alla sua educazione letteraria. Nel romanzo il protagonista, aπetto da un tic nervoso, guarisce dalla malattia fisica, ma è tormentato dal malessere esistenziale che preoccupa lo zio Ugo: «vedo che sei guarito, eppure ti sento malato: ma di che cosa?». 7 L’omonimo dottore assolve la funzione di guida intellettuale e politica di Daniele, in sostituzione del padre, assente, e in contrasto con lo zio Ugo che richiama il giovane all’appartenenza borghese e occidentale. Il confronto tra il medico e il padre si esplicita nell’opposizione tra la natura taciturna e riservata del primo (balbuziente) e quella ciarliera e mondana del secondo: alla sincera amicizia tra Daniele e Janovich corrisponde la falsità del rapporto padre-figlio. La malattia (e la follia), che investe vari personaggi tra cui lo zio Ugo e sua moglie, il Maestro Pfeπer, Ada, assume molteplici significati in connessione con la crescita del  











1

  Idem, Il fantasma di Trieste, Milano, Mondadori, 1996, p. 203.  Cfr. Idem, Autoritratto allo specchio, cit., pp. 26-27.   Il libro è stato oggetto di varie letture critiche tra cui si segnalano: Maurice Actis-Grosso, Contro il memoricidio giuliano-dalmata: Enzo Bettiza tra damnatio memoriae ed epifania romanzesca, in L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura, Atti del Convegno internazionale, Trieste, 28 febbraio-1 marzo 2013, a cura di Giorgio Baroni, Cristina Benussi, PisaRoma, Serra, 2014 («Biblioteca della “Rivista di letteratura italiana”»), pp. 133-138; Federica Millefiorini, Enzo Bettiza e la sua natura «bifida». Tra identità e senso di alterità erratica, ivi, pp. 139-145; Aurora Firta, Riso dissacratore e identità in Esilio di Enzo Bettiza, ivi, pp. 146-151. 4   L’intreccio tra letteratura e autobiografia è esplicitato da Bettiza in Autoritratto allo specchio, cit. 5   Enzo Bettiza, Prologo, in Idem, Esilio, cit., p. 37. 6 7   Idem, Il fantasma di Trieste, cit., p. 18.   Ivi, p. 111. 2 3

il fantasma di trieste di enzo bettiza

199 protagonista, incline al male, e il contesto storico-sociale, letterario di riferimento. È la malattia di un’epoca, ma anche quella dell’Impero Austroungarico che cerca invano di arginare il contagio: Il vecchio, logoro corpo dell’Impero era percorso da fremiti profondi di ostilità e di avversione che si moltiplicavano all’interno di esso con la virulenza rigogliosa delle malattie inguaribili. […] E questo egotismo razziale, sempre più chiuso, più sospettoso, più suscettibile suggeriva appunto alle autorità imperiali, preoccupate da una malattia mia vista prima di allora, di usare sempre più il velluto che il ferro. 1  

Il binomio malattia-morte accosta la madre, fisicamente assente ma resa presente dalla memoria, a Daniele in contrapposizione con il padre, il quale simboleggia la salute-vita. L’associazione madre-amore-morte è ribadita dalla figura materna della balia morlacca, che muore gettandosi in mare dopo vari lutti e la perdita del figlio Petar, e dal giovane irredentista Stefano Narden disposto a morire per l’ideale. La sua bellezza angelica ricorda al protagonista quella della madre. Il «tentato suicidio d’infanzia» di Daniele con una pistola di latta, riferito all’inizio del libro, evidenzia il suo animo inquieto; il gesto, che trae spunto da un episodio verificatosi nell’infanzia dell’autore, ricopre nel romanzo diverse accezioni, in quanto preannuncia il «cieco eroismo suicida» del protagonista durante la rivolta studentesca, il «suicidio di pensiero» (con riferimento a Guido Piovene) da lui attuato nella maturità, ma allude altresì alla fine di un mondo, di un’età, al fallimento della ditta dei Solospin, al declino di questa famiglia e della classe borghese. 2 Nel Fantasma di Trieste si colgono altri rimandi autobiografici: la balia serba, una contadina ortodossa di Drnis nella zona di Kricke in Dalmazia, è un omaggio alla nutrice morlacca dell’autore, Mara Vujnić, «narratrice orale di saghe e di leggende balcaniche», 3 che lo ha allevato nel solco della tradizione serba-ortodossa: «I primi sguardi fantastici della mia mente sul mondo seguirono cioè un tracciato per così dire cirillico e bizantino, non latino, non occidentale, non cattolico». 4 Nel romanzo il nonno materno, magistrato inflessibile dell’Impero Austroungarico, che canta al nipote passi di Verdi e Wagner ricorda il nonno materno di Bettiza intento a recitare a memoria brani di opere serbocroate; lo zio paterno Ugo Solospin, che nel Fantasma di Trieste abita con la moglie nell’appartamento al pianterreno della stessa casa di Daniele, può ricondurre allo zio paterno dello scrittore, Giani, invalido di guerra, sposato senza figli, che viveva nel medesimo spazio. Simile è l’invalidità al polmone, causata a livello autobiografico da una ferita durante la Prima Guerra Mondiale, sul piano finzionale da un incidente di caccia per mano del fratello, padre del protagonista. In Ugo Solospin può adombrarsi altresì la figura dello zio paterno acquisito di Bettiza, Ugo, claudicante per una lesione alla gamba destra a seguito di un incidente automobilistico provocato dal padre dell’autore. Il fantasma di Trieste risponde all’esigenza di Bettiza di ideare un romanzo «totale», in cui confluiscono «vari elementi narrativi, diversi spunti culturali, molti generi contrastanti, narrazione, saggio, filosofia politica, anche certe forme di giornalismo». 5 Sul piano strutturale l’opera recupera l’elemento tradizionale del ritrovamento del manoscritto che assicura veridicità al racconto, ma la vicenda è costruita su più livelli narrativi. I tre quaderni scolastici del protagonista, la cui modalità di scrittura consente  







1

  Ivi, pp. 206-207.  Cfr. idem, Interno borghese con artista, in Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri. Conversazione con Enzo Bettiza, cit., pp. 225-228. 3   Enzo Bettiza, Prologo, in Idem, Esilio, cit., p. 9. 4   Ivi, p. 8. La balia serba, «quasi una seconda madre oltreché istitutrice» dell’autore, è rievocata anche in Idem, 5 Autoritratto allo specchio, cit., pp. 13-14.   Idem, Interno borghese con artista, cit., p. 214. 2

carla carotenuto 200 il paragone con Antonio Gramsci, sono trascritti dal «cronista della sua vita» in un fitto colloquio intertestuale segnato stilisticamente dall’uso delle virgolette e sul piano narratologico dall’alternanza tra la prima persona del protagonista nei frammenti autobiografici e la terza persona (anche plurale) del narratore esterno. Quest’ultima voce conferisce unità al costrutto mediante spiegazioni e interpolazioni che colmano molte lacune delle annotazioni di Daniele. Viene così descritta la crescita del «triste eroe» che all’atto della narrazione, nel decennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale, dopo «delicate operazioni politiche» nella guerra fredda, è morto in circostanze misteriose. Sulla scia della rievocazione giornalistica, il narratore-cronista riporta alla luce la figura riservata di colui che è stato uno «fra i più quotati funzionari di un noto movimento rivoluzionario contemporaneo». 1 Dopo le precisazioni all’inizio del secondo capitolo, la materia è organizzata in capitoli tematici attraverso i principali avvenimenti dall’infanzia di Daniele alla sua adesione alla rivoluzione russa del 1917. Nel percorso, tracciato tra anacronie ed ellissi, sono omessi gli anni della carriera del protagonista fino al suo decesso, eccetto alcuni cenni e un rapido sommario al termine del libro. Per la sua maturazione importanti sono il dottor Janovich, che a maggio 1913 lo invita nella propria villa alle riunioni clandestine del gruppo socialista, e il pittore ebreo Enrico Pfeπer, il quale, con il suo spirito critico e rivoluzionario, la grave malattia che l’a∫igge, esercita un fascino sinistro su Daniele. Successivamente al distacco di Janovich per opposizione alla congiura imperiale, il giovane decide di partecipare, senza ideali e passioni, all’organizzazione dell’attentato contro l’arciduca austriaco Francesco Ferdinando e la consorte in visita a Trieste il 30 ottobre 1913; i preparativi u√ciali e gli accordi cospirativi per tale evento sono a√ancati all’allestimento del matrimonio tra Giani Solospin e la nuova compagna Ria Cossovel fissato nello stesso giorno nella città adriatica, che appare sdoppiata. La tragicità dell’azione politica è contrapposta alla celebrazione della funzione privata, la paura alla gioia, Daniele è opposto a Giani: negli ultimi capitoli si ripete il contrasto iniziale tra giovinezza-morte-terrore e maturità-vita-amore. La prefigurazione dell’atto scatenante la Prima Guerra Mondiale vede il coinvolgimento dello sloveno Stefano Narden, che per patriottismo verso l’Italia ha rinnegato le sue origini, e di Daniele da lui scelto per l’operazione. Un tentativo fallito a causa della sostituzione della coppia illustre con due sosia, ma spia di tensioni che sarebbero sfociate nell’attentato storico del 28 giugno 1914 a Sarajevo ad opera dello studente serbo Gavrilo Princip. Nel Fantasma di Trieste la messinscena se da un lato contribuisce a ricreare il clima di tensioni politiche fra tendenze nazionalistiche, anarchiche, spionaggio, dall’altro raπorza l’atmosfera di teatralità diπusa sin dalle prime pagine: «Ma poi, complice la mia infantile inclinazione alla commedia, al gesto teatrale, in quei timori precoci s’insinuava un certo gusto equivoco per lo scherzo, la parodia, l’esibizione, che non era privo anche, a pensarci bene, di violenza» (p. 12). I riferimenti al teatro, alla rappresentazione, alla commedia, alla recitazione (a Daniele più che vivere «pareva di recitare») accompagnano la rivolta studentesca a Trieste del 17 giugno 1913 che precede la strage-farsa nel medesimo anno: in questo secondo caso l’unico dato ‘veritiero’ è l’intervento dei due ragazzi, incontratisi durante la sommossa studentesca e legati da reciproca attrazione. L’attentato decreta la separazione fra Stefano e Daniele e il capovolgimento delle funzioni. Dopo aver condiviso la passione sentimentale e, in modi diversi, l’azione politica, i due cospiratori seguono un iter diπerente: Stefano, eroe pronto a sacrificarsi per la causa irredentista («Io voglio buttare il mio cadavere in faccia all’Austria e all’Italia! Voglio che l’Austria s’impaurisca, e l’Italia si vergogni del mio inutile coraggio!», p.  

1

  Idem, Il fantasma di Trieste, cit., p. 16.

il fantasma di trieste di enzo bettiza

201 367), muore trasformandosi da angelo in essere diabolico; Daniele, incerto, osserva in disparte l’azione e fugge abbandonando il compagno. Rifugiatosi in casa di Janovich e arruolatosi poi nell’esercito austroungarico allo scoppio del Primo Conflitto Mondiale, diventa in Russia un leader rivoluzionario: «Ma in quel momento la Russia, per realizzare il suo progetto maestoso, aveva bisogno di uomini macerati nel presente, uomini aspri, cattivi, imperfetti. Aveva bisogno di uomini come me» (p. 427). La graduale maturazione del protagonista da soggetto inerte, che si lascia vivere, a individuo capace di agire («Io allora non potevo sapere che proprio quell’assenza d’opinione, quell’incapacità di credere e di decidere, doveva mutarsi un giorno in un’energia spietata e in una capacità di decisione più veloce del fulmine», p. 314) può evocare, sebbene in contesti e con finalità diπerenti, il processo evolutivo dell’inetto sveviano, suggerendo secondo Annarita Zazzaroni connessioni con Zeno Cosini. 1 La pubblicazione del Fantasma di Trieste, apprezzato da Claudio Magris, ha scatenato molte critiche: l’analisi dell’irredentismo triestino «non piacque o perfino sembrò oπendere molti ambienti italiani o italianeggianti della città». 2 Nel saggio Mito e realtà di Trieste (1966), Bettiza spiega la natura di tale irredentismo e l’ambiguità della città evidenziata in più luoghi del romanzo:  



Il particolare tipo di nevrosi che caratterizza l’irredentismo triestino aπonda tra l’altro le sue radici in questo sdoppiamento dell’anima di Trieste ottocentesca in una componente commerciale, legata al retroterra asburgico, e in una componente nazionale sempre più passionalmente vincolata alla penisola italiana. 3 […] Queste oscillanti bivalenze fra rifiuto del dolore e senso della tragedia, tra scoppi di vitalità e di radicalismo, si spiegano sullo sfondo di una città cresciuta in modo bivalente e dialettico. Trieste ha dato forma e coscienza italiane a meccanismi psicologici che erano troppo poco scettici per essere del tutto o solo italiani; ha rivestito il suo irredentismo, paradossalmente, di cultura tedesca e di violenza slava; ha trasformato slavi e tedeschi e greci ed ebrei in nazionalisti italiani; ha desiderato l’Italia vivendo da viennese e odiato Vienna non potendo vivere da italiana; […] ha creato una letteratura scritta in italiano ma pervasa dalle inquietudini che scendevano da Vienna e da Praga. 4  



Lo scrittore si colloca nel solco della tradizione letteraria triestina e mitteleuropea, svelando ascendenze sveviane e collegamenti con Joyce soprattutto in «certe ultime pagine del Fantasma di Trieste dove […] si accavallano innesti e stridori di spezzoni linguistici dialettali, toscani, slavi e tedeschi». 5 Bettiza rappresenta in modo esemplare la complessità e l’ambivalenza di Trieste, attraversata da contraddizioni e inquietudini, sospesa tra dramma e vitalità in un’epoca di radicali cambiamenti.  

1   La studiosa individua nell’inversione attuata tra Stefano e Daniele nel Fantasma di Trieste un riferimento ai personaggi sveviani Guido e Zeno de La coscienza di Zeno: cfr. Annarita Zazzaroni, Trieste, fine e inizio di un mondo. Presenza di Svevo in Bettiza, Rosso e Cialente, in https://weblearn.ox.ac.uk/access/content/user/5076/.../ZAZZARONI. doc (13 marzo 2015). 2   Enzo Bettiza, Autoritratto allo specchio, cit., p. 27. 3   Enzo Bettiza, Continuo saccheggio, in Idem, Mito e realtà di Trieste, Milano, Scheiwiller, 1966 («All’insegna del 4 pesce d’oro»), p. 24.   Idem, Costume anseatico, ivi, pp. 50-51. 5   Idem, Interno borghese con artista, cit., p. 219. Per approfondimenti sulle ascendenze sveviane cfr. Annarita Zazzaroni, op. cit.; sul contesto triestino cfr. Ernestina Pellegrini, La Trieste di carta. Aspetti della letteratura triestina del Novecento, Bergamo, Pierluigi Lubrina, 1987.

IL VIAGGIO NELLA SCRITTURA DI ENZO BETTIZA Michela Rusi

S

i può ripartire dall’esodo, che è stato oggetto di un precedente convegno in questa sede, 1 perché l’esodo implica il viaggio di necessità: lo contiene nel suo significato, esprime nella sua etimologia l’accezione di movimento che di quello è propria. L’esodo è una uscita, e tale partenza che è sempre una diaspora per la collettività che la subisce, per gli individui che ne fanno parte può significare la partenza verso un altro luogo, altre abitudini, verso la formazione di altre radici. Oppure essa può dare inizio ad una continua reiterazione del viaggio, a una sorta di coazione al ricominciamento perpetuo dell’errare. Nel caso di Enzo Bettiza, la ‘condizione erratica’ prima ancora che imposta e subìta per via di determinate circostanze di ordine storico-politico, si inscrive nella specificità della sua origine dalmata. In più luoghi della sua scrittura, che ha esperito – e tutt’ora continua a farlo 2 – i registri della scrittura giornalistica, saggistica, romanzesca, autobiografica, Bettiza è tornato a riflettere sulla ‘dalmaticità’. Vi è tornato come ad una sorta di primum, ad analizzare i caratteri distintivi di una terra e di una etnìa poliedrica di confine che può definirsi ad un tempo per accostamento di elementi diversi – veneti, slavi, latini, germanici – e insieme per la negazione degli stessi: «Dunque, dei dalmati si può dire che sono, allo stesso momento, slavi e latini di frontiera: si può dire che sono insieme questo e quello, oppure che non sono né questo né quello». 3 Si tratta, potremmo dire, di una sorta di accostamento paratattico che non è mai riuscito ad organizzarsi in una struttura articolata, di tipo ipotattico, e che perciò non ha mai assunto la forma della nazione. La Dalmazia, ha ricordato Bettiza,  





si è svuotata per reincarnarsi altrove. Ha fornito legionari e imperatori come Diocleziano ai romani, come Giustiniano ai bizantini, santi eruditi e peccaminosi come il biblista Girolamo ai cristiani, vescovi arroganti e antiromani alle plebi dei Balcani, grandi viaggiatori come Marco Polo e grandi comandanti ai veneziani […] ciurme bellicose alle piraterie adriatiche, capitani di lungo corso agli austriaci, capi risorgimentali come Supilo e Trumbić agli jugoslavi, scrittori bilingui come Tommaseo agli italiani e ai croati, persino un grandissimo romanziere come Zola ai francesi. Il suo impulso profondo era aristocratico e paradossale. Sembrava riassumersi nel motto: la vita per te, il nulla per me. 4  

Di tale condizione, che è esistita come infecondità in loco la quale ha viceversa «spermatizzato con i suoi geni centrifughi il Nord e il Sud, l’Oriente e l’Occidente», 5 lo statuto del nomadismo, del viaggio come esilio e dell’esistenza come iterazione di andate e ritorni, risulta essere la paradossale forma-non forma. Della propria «vita mobile e quasi senza cornice: una vita aperta e nomade, da zin 

1   Si rinvia a L’Esodo giuliano-dalmata nella letteratura. Atti del Convegno internazionale. Trieste, 28 febbraio-1 marzo 2013, a cura di Giorgio Baroni, Cristina Benussi, Pisa-Roma, Serra, 2014 («Biblioteca della “Rivista di letteratura italiana”»). 2   Sulla propria progettualità di scrittore sempre attiva, si veda quanto Bettiza ha dichiarato al riguardo in Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri. Conversazione con Enzo Bettiza, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 38-39. 3   Ivi, p. 21. 4   Ivi, pp. 24-25. Qui e in seguito, i corsivi e i puntini di sospensione posti fra parentesi quadre sono da intendersi 5 come nostri, salvo avvertenza contraria.   Ivi, p. 24.

il viaggio nella scrittura di enzo bettiza

203 garo cosmopolita, da esule consustanziale e perenne oltre che anagrafico», 1 il viaggio come esilio si configura per Bettiza come dimensione originaria, inscritta nell’ambiente famigliare, predestinata a livello genetico e già vissuta a partire dalla fine dell’infanzia nei viaggi di ogni settembre soπerti come una punizione – «quasi una deportazione», li definirà nella sua autobiografia 2 – per andare a Zara a frequentare la scuola italiana:  



Io sono infatti un esule nel più completo senso della parola: un esule organico più che anagrafico, uno che si sentiva già in esilio a casa propria, molto prima di aπrontare la via dell’esodo eπettivo nella scia delle grandi migrazioni che, verso la fine della seconda guerra europea, dovevano stravolgere la carta etnica e geografica dell’Est europeo. Fin dai tempi in cui ero stato costretto a spostarmi di continuo fra il confino scolastico di Zara e l’ambiente nettamente più slavo e più familiare di Spalato, mi sono trascinato addosso il disagio di un ragazzo bilingue, sdoppiato, spesso quasi estraneo a se stesso. Un ragazzo che non sapeva mai bene a chi e a che cosa appartenere; sempre in bilico perplesso e interrogativo fra genitori, nonni, zii, cugini, amici, amiche, nutrici, servi di diversa nazionalità; sempre precario in una terra nella quale, soprattutto dopo il crollo dell’Austria, i risentimenti e i contrasti nazionali erano diventati l’acido pane quotidiano di cui si nutrivano i suoi irrequieti abitanti. 3  

C’è un nucleo semantico ricorrente nella prosa di Bettiza, che è quello dell’‘errare’, nel significato proprio di vagare, viaggiare, che egli usa a definire la specificità di sé come scrittore e, per via metonimica, della propria scrittura: «erratico genio illirico», 4 «erratica attività per il mondo», 5 «maniera errabonda», 6 «tirocinio educativo […] erratico» 7 la sua formazione scolastica a Zara. E ancora «esule e scrittore viaggiante» 8, «scrittore itinerante» 9, e così via. In tali definizioni è possibile individuare come operante nello scrittore una sovrapposizione tra Ulisse e Omero: tra l’Ulisse polýtropos dalle molte forme e che ha molto vagato, quale l’eroe greco viene definito in apertura dell’Odissea, 10 e una sorta di riluttante Omero, che alla stesura di Esilio viene forzato dalle circostanze storiche a dare corpo e voce ai propri fantasmi, ai personaggi del proprio passato individuale e collettivo. Una sorta di Omero pirandelliano quindi, assalito dai propri personaggi che chiedono di «essere restituiti alla verità che gli fu propria», ma certo anche memore della visionarietà delle Furie di Piovene, dove centrale è la tematica dei ricordi come folla di fantasmi dolorosi da rimuovere, con i quali, però, giunge imprescindibile il momento della resa dei conti. 11 Scriverà nel Prologo della propria autobiografia:  















Per anni ho continuato a rimuovere, a rinviare, quasi obbligandomi a dimenticare. Curiosamente ho seguitato a difendermi dall’assedio, talvolta strettissimo, talaltra più allentato e per così dire sotto1

  Ivi, p. 37.   Enzo Bettiza, Esilio, Milano, Mondadori, 1996, p. 46. 3   Ivi, p. 17. La condizione descritta da Bettiza potrebbe essere sintetizzata con l’espressione out of place scelta da Said come titolo per la propria autobiografia: Edward W. Said, Out of place, London, Granta Books, 1999. L’edizione italiana del volume è uscita per i tipi di Feltrinelli e la traduzione di Adriana Bottini nel 2000, con il titolo Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia. 4   Enzo Bettiza, Saggi viaggi personaggi, Milano, Rizzoli, 1984, p. 26. Sui criteri che presiedono alla organizzazione del volume, si veda la Premessa che si legge ivi, alle pp. vii-xvi. 5 6   Così Bettiza in Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri, cit., p. 37.   Ivi, pp. 36-37. 7   Enzo Bettiza, Esilio, cit., p. 50. 8   Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri, cit., p. 37 9   Rinvio a Enzo Bettiza, Sogni di Atlante. Memorie di un viaggiatore, Milano, Mondadori, 2004, p. 4, dove Bettiza esprime il desiderio di poter essere inserito nella tradizione degli ‘scrittori itineranti’. 10   Si veda a tale proposito il saggio di Pietro Pucci, La scrittura di Ulisse, in Ulisse nel tempo. La metafora infinita, a cura di Salvatore Nicosia, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 563-577. Al poema omerico e al tema del viaggio non come evasione, bensì «quale iniziazione formativa, avventura pedagogica e maieutica, scoperta di frammenti ignoti del nostro io messo a confronto, a prova d’attrito, con l’ignoto all’esterno di noi», Enzo Bettiza ha dedicato il saggio Odissea, in Idem, Sogni di Atlante, cit., pp. 9-12. Sul viaggio e sulla figura di Ulisse come archetipo dell’errante imprescindibili i rinvii agli studi di Boitani, e in particolare a Piero Boitani, L’ombra di Ulisse. Figure di un mito, Bologna, il Mulino, 1992; inoltre, a Idem, Esodi e Odissee, Napoli, Liguori, 2004. 11   Sul legame di stima e amicizia che cementò la collaborazione anche di lavoro fra Bettiza e Piovene, rinvio a Dante Fertilio, Arrembaggi e pensieri, cit., soprattutto le pp. 66-73 e 175-176. 2

michela rusi

204

cutaneo, che intorno alla mia memoria riluttante cingevano tanti volti insieme familiari e spettrali, tanti eventi lontani ormai informi e quasi indecifrabili. Essi mi chiedevano di quando in quando udienza, attenzione, chiarezza, perspicacia mnemonica: esigevano, ora petulanti ora sommessi, di essere restituiti alla verità che gli fu propria una volta, prima che la sabbia del tempo 1 li seppellisse e inghiottisse. Ma io regolarmente lasciavo inevasa la loro richiesta. Ora però, da quando è scoppiata la guerra e la Dalmazia si è ridotta a un’isola sperduta ai confini del baratro bosniaco, quei ricordi sempre repressi, quei volti ostinatamente rimossi, quegli eventi dimenticati hanno fatto ressa e massa critica all’improvviso. Hanno formato tutt’insieme come un gorgo incandescente intorno alla mia ostinata pigrizia mentale. Vogliono venir fuori, sgusciare fra le sbarre del passato. Direi che, cercando d’impormi con energia quasi medianica la loro prorompente spettralità, vogliano partecipare in maniera diretta, come testimoni d’oltretomba, come ineludibili punti di riferimento, alla feroce saga balcanica che ha squartato la Jugoslavia e scoperchiato le dimore dei vivi e i sepolcri dei morti. 2  



Si può parlare di un Omero riproposto in chiave novecentesca dunque, ma anche foscoliano, secondo un rapporto speculare rispetto ai Sepolcri. Tale specularità è riconoscibile nel movimento di risalita dei volti e nomi del passato che vanno verso lo scrittore per chiedergli di essere raccontati, di contro all’Omero di Foscolo che penetra negli avelli ad abbracciare le urne e ad interrogarle, e ancora nella ripresa e centralità del tema della sepoltura: laddove il carme pone al centro del proprio assunto l’importanza del sepolcro in patria, in Esilio il punto di vista è rovesciato, a sottolineare le derive dell’esule che è costretto ad abbandonare i sepolcri nella terra natale: L’eco delle sindromi, insomma, si prolunga vibrante al dilà delle prime e dure sottrazioni che l’esodo impone all’esule: la rinuncia alla terra e all’identità, la dimenticanza della lingua natale, le privazioni materiali, il deperimento dei legami coniugali, la perdita del contatto fisico con la tomba dei propri defunti (ho potuto di persona constatare come l’allontanamento dai sepolcri, l’oblio dei morti di famiglia, acceleri nell’esilio il declino dei vincoli di parentela). 3  

Se anche per l’esule foscoliano non si dà concreto ritorno, ed esso si può realizzare solo nello spazio-tempo del mito espresso tramite il canto, 4 per il dalmata Bettiza, ‘esule organico’, esule di fatto dopo essere stato esule in potenza già in patria e nella stessa famiglia, non si dà ricomposizione e ritorno neppure tramite la scrittura. Ripetutamente nella scrittura saggistica e autobiografica egli è tornato su quello che a Spalato veniva definito come «il complesso di Diocleziano», 5 cioè quella parabola comune a molti dalmati e della quale antesignano fu l’imperatore romano, dell’autoclausura, dell’esilio interiore: il paradosso ossimorico dell’«esodo immobile». 6 Come nella natura propria dei dalmati, infatti, si può osservare nella scrittura di Enzo Bettiza un movimento continuo di contrazione ed espansione, l’erraticità nomade della scrittura che ricerca però nel diverso il dato per lui primigenio della mescolanza: delle lingue, delle etnie, dei sapori dei cibi. Da ciò deriva l’amore del viaggiatore Bettiza per i luoghi dove è evidente l’intreccio delle culture, l’innesto di diverse civiltà: per Venezia ad esempio, e ancora per quelli che egli definisce come «gli inganni labirintici» di Praga. E l’amore per l’ibrido anche nella cucina: i sapori sfuggenti e speziati, la mescolanza di  





1   La ‘sabbia del tempo’, si ricorderà, è sintagma dannunziano che dà il titolo al secondo dei Madrigali dell’estate: rinvio a Gabriele d’Annunzio, Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, con un avvertimento di Ugo Ojetti, 2 Milano, Mondadori, 196810, p. 740.   Enzo Bettiza, Esilio, cit., pp. 7-8. 3   Ivi, p. 379. Il passaggio si situa nella descrizione delle conseguenze a livello emotivo della condizione di esilio: cfr. in particolare pp. 376-386. 4   A questo riguardo mi si consenta il rinvio a Michela Rusi, Breve nota foscoliana: sul problema dell’unità nei ‘Sepolcri’, in Un tremore di foglie. Scritti e studi in ricordo di Anna Panicali, a cura di Andrea Csillaghy, Antonella Riem Natale, Milena Romero Allué, et alii, i, Udine, Forum, 2011, pp. 435-443. 5   Enzo Bettiza, Esilio, cit., p. 454. Sulla figura di questo imperatore Bettiza torna ripetutamente nei suoi scritti: si veda al riguardo in Idem, Saggi viaggi personaggi, cit., la Parte i. Le radici, pp. 3-27. Inoltre, anche quanto in Dario 6 Fertilio, Arrembaggi e pensieri, cit., pp. 34-36.   Enzo Bettiza, Esilio, cit., p. 455.

il viaggio nella scrittura di enzo bettiza

205 cultura orientale e occidentale come a Macao, e viceversa la scarsa simpatia per le civiltà dalle linee troppo rigide, precise, inequivoche. E, ancora, il ritorno sugli stessi temi nella contemporanea sperimentazione dei registri di scrittura più diversi, l’insopprimibile coazione al viaggio ma anche la tendenza alla felicità nichilistica dell’autoannullamento nella steppa materna russa, che è il rischio che egli vivrà durante gli anni del suo soggiorno a Mosca, la verifica dell’impossibilità del ritorno, perché tutto quello che egli troverà in Dalmazia gli si imporrà come «nuovo e inconsueto», 1 ma nel contempo l’esperienza del quasi-ritorno e «quasi guarigione», cioè del ritorno sfasato, tangenziale, mediante il recupero parziale delle proprie radici non a Spalato ma a Mosca, diciotto anni dopo aver abbandonato la Dalmazia, tramite il riconoscimento del comune substrato fonetico delle lingue slave. 2 Neppure nella scrittura, dunque, è possibile il ritorno, e una forma di agnizione di sé, delle proprie origini, può semmai avvenire in una dimensione anteriore a quella, come lo scrittore registra in alcune pagine dell’Epilogo della sua autobiografia: se l’«erratica esistenza» dell’imperatore Diocleziano si conclude nel granito e nella pietra della cittàcarcere che egli si fece costruire e che diventerà il nucleo di Spalato, una sorta di riconoscimento delle proprie origini, cioè dell’intrecciarsi della storia della città con quella della sua famiglia, può, per Bettiza, realizzarsi nella storia, che è fatta di tempo e pietra. La vera misura di Spalato, egli scrive, «più che nello spazio geografico, va cercata nello spessore del tempo e della pietra. La storia, che è tempo e pietra ancor prima che scrittura, è l’autentica dimensione in cui è germinata e vissuta questa città sorta quasi direttamente dalle voragini petrose della Brazza». 3 Costruite con pietre squadrate e unite dal ferro immerso nel piombo fuso, quali Bettiza trova descritte in una lettera di Costantino Porfirogenito, nelle mura della città nate dal palazzo di Diocleziano è per lui possibile individuare l’origine e una sorta di pre-figurazione della dinastia imprenditoriale della propria famiglia: «Quelle squadrate pietre dioclezianee, già allora armate col ferro e col piombo, non sembravano quasi preannunciare i moderni cementi blindati della Gilardi § Bettiza?». 4 La scrittura erratica, invece, non chiude mai, non può avere fine come non ha fine l’erranza continua di Ulisse, secondo una lettura dell’Odissea che ha attraversato l’intero corso della civiltà occidentale da Virgilio ai giorni nostri; 5 quella dell’esule, peraltro, di chi sta ai margini non può che essere la forma dell’intellettuale contemporaneo, come ha già chiarito Edward Said, perché è l’unica condizione che consente allo scrittore la libertà dello sguardo critico. 6 Per quest’ordine di motivi, il medesimo movimento di contrazione ed espansione che ho individuato nel percorso di scrittore di Bettiza si può riconoscere come attivo secondo un medesimo respiro di sistole e diastole nel movimento centrifugo della sperimentazione dei registri più diversi e in quello centripeto della ricomposizione  











1

  Ivi, p. 400.   Ivi, pp. 382-383. «Questo vuol dire – scrive Bettiza – che, per uscire in parte dal mio male oscuro, ho dovuto consumare nevroticamente in esilio, dalla primavera del ’45 alla primavera del ’63, la stessa esatta porzione di vita trascorsa in Dalmazia prima dell’esilio. Ho dovuto impiegare cioè un’altra vita, una seconda vita di diciotto anni, per neutralizzare alfine le morbose conseguenze del distacco dalla prima» (ivi, p. 382). Si legga al riguardo anche Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri, cit., pp. 29-34. 3 4   Enzo Bettiza, Esilio, cit., 451.   Ivi, p. 452. 5   Rinvio per il punto su tale lettura dell’Odissea al saggio di Pietro Pucci, la scrittura di Ulisse, già citato alla nota 10 di p. 197. 6   A tale condizione, il comparatista di origine palestinese ha dedicato il seguente studio: Edward W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, traduzione di Maria Gregorio, Milano, Feltrinelli, 1995. L’edizione originale in lingua inglese risale all’anno precedente, con il titolo Representations of the Intellectual. Sull’esilio, sempre di Said si veda anche Edward W. Said, Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, traduzione di Massimiliano Guareschi, Federico Rahola, Milano, Feltrinelli, 2008 (titolo originale dell’opera Reflections on exile and Other Essays, Cambridge, Harvard University Press, 2000). 2

michela rusi 206 degli stessi nel progetto di «romanzo totale» che egli persegue, e che definisce anche come «postromanzo». Si tratta di una forma nella quale, così egli spiega, «il momento positivo della ricostruzione deve dialetticamente prevalere su quello della decostruzione, che esso non deve ignorare ma, contenendola, riassorbire e depurare nel corso di una restaurazione il più possibile ampia e accurata». 1 Ma la scrittura erratica, come ho già detto, non chiude mai: se il Prologo di Esilio termina con il ricordo del ‘piccolo esilio’, cioè del viaggio per mare ‘lungo e freddo’ che ogni settembre conduceva i fratelli Bettiza da Spalato a Zara, l’Epilogo si conclude con il racconto dell’inizio dell’esodo, quando il peschereccio che doveva condurre via da Spalato l’intera famiglia si allontana sempre più dalla riva:  

Il peschereccio, schiacciato dal peso di quell’umanità fuggitiva, levò le ancore e puntò la prua su Bari. Fino all’ultimo, io guardai l’amico che, in piedi sul molo, senza mai agitare la mano, diventava via via sempre più minuto, più fragile, più evanescente. Quando si ridusse a un grigio puntolino nell’azzurro, capii che il mio esilio era davvero cominciato. 2  

Il viaggio dunque continua, in quella «mia contea ideale anfibia [aπermerà Bettiza in quella sorta di autoritratto costruito insieme a Dante Fertilio], al confine d’incontro e di scontro fra una nitida lingua occidentale e una paludosa geografia orientale». 3  

1

  Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri, cit., p. 214.   Enzo Bettiza, Esilio, cit., 467.   Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri, cit., p. 38.

2 3

«CON L’ITALIA DAVANTI E LA BOSNIA A RIDOSSO»: LA DALMAZIA DI ENZO BETTIZA Federica Millefiorini Fra i tanti libri e articoli, che ho compilato nella mia vita, alla Dalmazia e a Spalato avrò dedicato di scorcio e di fretta non più di qualche avara decina di pagine. Ho scritto infinitamente più su Trieste, o addirittura su Mosca, che su Spalato. […] Per anni ho continuato a rimuovere, a rinviare, quasi obbligandomi a dimenticare. 1  

S

ebbene, con queste parole contenute nel Prologo di Esilio (1996), sminuisse il ruolo rivestito dalla sua terra d’origine nella propria produzione, Enzo Bettiza ha spesso parlato della Dalmazia, anche se per cenni o «trapiantandone certi elementi in altri contesti storici e geografici». 2 Nel 1984 ad esempio aveva scritto:  

Mi pare di aver già accennato all’Illiria, la terra marina, rocciosa e meticcia dove […] nacqui […]. Ma molti, ancora oggi, quando io tento, con una punta di malinconico orgoglio, di descrivere il paesaggio grigio violastro, scorticato, quasi lunare, sul quale i miei occhi si aprirono per la prima volta […] mi domandano incuriositi e ignari: dov’è quest’Illiria?, cos’è questa tua Illiria? […] Tanta vaga ignoranza e quasi incredulità si spiegano bene. L’Illiria esiste. Ma è esistita così intensamente, si è aggrovigliata di storie così opposte, è trasmigrata così spesso con la sua gente nomade e poliglotta da un impero all’altro da perdere, alla fine, la bussola della propria identità. 3  

Con queste frasi intrise di elementi autobiografici, ma pensate per un romanzo all’epoca in preparazione, 4 Bettiza tentava di definire la sua terra natale, la Dalmazia che chiama col nome storico di Illiria. Il passo, comparso per la prima volta nel volume Saggi viaggi personaggi, che antologizza scritti giornalistici e saggi scelti da Edmondo Aroldi e Dario Staπa, era destinato al fluviale romanzo I fantasmi di Mosca, che avrebbe visto la luce nel 1993. 5 Le date ci dicono non solo i tempi lunghi di elaborazione dei romanzi bettiziani e di quello appena citato in particolare (cosa ovvia, considerando che conta più di duemila pagine), ma anche l’urgenza, emersa già a quell’altezza cronologica e ria√orante negli anni, di descrivere la terra d’origine e di tratteggiarne l’identità sfuggente, di fissarla sulla carta per non disperderne la memoria. Quelle parole, seppur attribuite al suo personaggio, svelano molto dello stesso Bettiza, uomo di confine, bilingue, cresciuto con un profondo senso di scissione e duplicità, in una città e in una famiglia intrise di contrasti, e che in Esilio confesserà di aver stentato a riconoscere se stesso. 6 La di√coltà di riconoscere la propria identità, ossia la consapevolezza della propria esistenza continuativa nel tempo, 7 ha dei riflessi addirittura a livello onomastico, dato che  







1

2   Enzo Bettiza, Esilio, Milano, Mondadori, 1996, p. 7.   Ibidem.   Enzo Bettiza, L’Illiria, patria enigmatica, in Idem, Saggi viaggi personaggi, Milano, Rizzoli, 1984, p. 23. 4  Nella Nota bibliografica, il capitolo era definito «stralcio inedito di un romanzo in preparazione»; ivi, p. 473. 5  Cfr. Idem, I fantasmi di Mosca, Milano, Arnoldo Mondadori, 1993, pp. 38-39. Il passo, con qualche variazione, ricomparirà in Enzo Bettiza, Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri. Conversazione con Enzo Bettiza, Milano, Rizzoli, 6 2001, p. 24.  Cfr. Enzo Bettiza, Esilio, cit., p. 17. 7   Per una sintetica definizione del concetto in ambito sociologico si veda Loredana Sciolla, Identità personale e collettiva, in Enciclopedia delle scienze sociali, http://www.treccani.it/enciclopedia/identita-personale-e-collettiva_ (Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/. 3

federica millefiorini 208 l’autore attribuisce spesso ai personaggi nomi soggetti, nel corso del racconto, a ripetute variazioni, rispecchiando l’instabilità politica della zona e la conseguente incertezza identitaria dei singoli. Eclatante il caso del cognome della famiglia materna, che continua a cambiare in seguito alle trasmigrazioni del clan. In Esilio infatti l’autore racconta che gli antenati di sua madre «avevano portato in origine il nome di Razmilli, trasformato alfine in Razmilić» e ancor prima «quel nome in continua metamorfosi nella desinenza etnica e topografica aveva avuto un suono inconfondibilmente turcomanno: Razmil». 1 Il cognome ricompare nel romanzo Il libro perduto, ambientato in Illiria nel 1943, dove il protagonista è un adolescente dal nome italianizzato, Marco Razmilo, che, trasferitosi a Parigi e divenuto un famoso pittore, si farà chiamare col nome d’arte Mark Razmil (che sembra fondere il suono francese e quello turcomanno); ma quando, nel 1973, deciderà di tornare, per la prima volta dopo l’esilio, nella sua terra d’origine, incontrerà un colonnello che porta il nome di Vinko Razmilović. Marco commenterà: «Razmilović? Un cognome che sembra una versione più lunga e più slava del mio»; 2 e poi scoprirà che il colonnello è un suo lontano parente. Anche nell’ultimo romanzo, La distrazione, il protagonista viene incalzato dalle domande del Dottor Molnar, lo psicanalista che gli chiede delucidazioni sul suo nome: «Peter? Petar alla croata? Pëtr alla russa? Pierre alla francese? Oppure Pietro all’italiana?». Il giovane, che – si noti – è una spia, non ha alcuna urgenza di autodefinirsi e cristallizzare la sua identità multiforme e stratificata in un nome, e infatti risponde: «Dottor Molnar, Petar o Peter o Pietro, non ricordo più come l’ho scritto, per me fa comunque lo stesso. Sono talmente abituato, fin da ragazzo, che mi si chiami in un modo o nell’altro!». 3 Per Bettiza dunque, dapprima esule in potenza a casa propria, poi esule de facto dal 1945, infine girovago per ragioni professionali, l’acquisizione di una piena consapevolezza di sé è un percorso lungo e tortuoso. Il problema identitario è un tema che, seppur rimosso per tanto tempo (come dice l’autore stesso), percorre in filigrana opere diverse, quanto a tempi di pubblicazione e a genere letterario. Un bisogno incessante di scandagliare il passato mnemonico alla ricerca della propria identità ha spinto Bettiza a tornare più volte, ossessivamente, sugli stessi temi, su alcune caratteristiche della sua terra mitica e storica, sulle costanti dell’uomo illirico, quasi che ribadirle a se stesso e al lettore valesse a raπorzare la coscienza di sé, a far sì che l’autore si riscoprisse dalmata e si riconoscesse. La scrittura (non solo autobiografica) è servita per riannodare i fili della memoria e ha avuto un eπetto terapeutico. 4 Raccontare l’Illiria è stato un modo per tentare di definire se stesso. Ma la Dalmazia è di√cilmente definibile, in quanto è terra di confine, compresa tra mare e montagna, destinata dalla storia a continui passaggi di mano, terra in cui «la slavità s’intreccia alla latinità» e Spalato si trova «in bilico fra gli spettri dell’archeologia e i verdetti della geografia, con l’Italia davanti e la Bosnia a ridosso», 5 a significare che la sua anima mediterranea rischia di essere snaturata e divorata dalla Morlacchìa (come i dalmati chiamano l’entroterra). La Dalmazia non poteva essere tratteggiata come un’entità univoca e definita, ma andava esplorata e raccontata per approfondimenti successivi, proprio come Bettiza ha fatto nel corso della sua lunghissima carriera.  









1

  Enzo Bettiza, Esilio, cit., p. 42.   Idem, Il libro perduto, Milano, Mondadori, 2005, p. 418. 3   Idem, La distrazione, Milano, Mondadori, 2013, p. 235. 4   «Ritrovare il filo della memoria è, per un esule, un’operazione molto più importante che per un individuo nato e cresciuto e rimasto, senza strappi, nel proprio ambiente naturale. Per l’esule, immerso troppo a lungo nella malsana 5 palude dell’oblìo, ricordare è guarire»; Idem, Esilio, cit., p. 443.   Ivi, p. 435. 2

la dalmazia di enzo bettiza

209 Non a caso, nel capitolo citato di Il fantasma di Mosca, l’autore fa pronunciare al suo personaggio una frase che chiarisce bene come l’attraversamento di quella terra misteriosa e misconosciuta sia anche una discesa nel proprio io (quasi una riedizione personale del duplice viaggio del conradiano Heart of darkness) e come la scrittura si faccia strumento di autoanalisi e autocoscienza: So che l’Illiria è per me, per il sentimento sempre più strano che ho del mio passato, una sorta di tenebra melmosa e fantastica. Ho dovuto attraversarla, dovrò riattraversarla, non solo per dire chi sono, ma per spiegare come e perchè sono proprio così. 1  

Nelle pagine del 1984 vengono individuate alcune delle peculiarità di quella zona della penisola balcanica e dei suoi abitanti, caratteristiche sulle quali Bettiza tornerà in sedi diπerenti: articoli giornalistici, memorie autobiografiche e romanzi. 1) L’autore sottolinea innanzitutto il fatto che quella terra è un groviglio di genti diverse e poliglotte, spesso di sangue misto, quindi è terra di vibranti contraddizioni. 2 Per questo l’uomo dalmatico è ambiguo, dicotomico, come Bettiza segnalava già in un capitolo pubblicato nel volume Via Solferino, dove spiegava di aver accennato «ai contrasti della sua natura sdoppiata» per «rilevare quel tanto di straniero e di estraniato che […] ovunque vada, anche in Dalmazia, si porta sempre addosso». 3 In Esilio il tema della scissione è centrale, tanto che l’autore vede in ogni cosa il suo contrario, seguendo in questo l’amato Dostoevskij. 4 Come ho mostrato in altra sede, l’opera ha un’elevata incidenza della figura retorica dell’ossimoro, è popolata da personaggi intimamente contradditori e inseriti in un sistema di coppie oppositive. 5 Anche nel romanzo Il libro perduto, l’autore ricerca le situazioni intricate e mette in scena personaggi sdoppiati, come il Maestro Igor Perty, mezzo slavo e mezzo parigino, «Un misto di gran signore occidentale, di diplomatico d’alta carriera, di funzionario di pompe funebri specializzato in esequie e requiem di prima classe» 6, che dipinge con entusiasmo le rovine dei bombardamenti, perché sostiene che le guerre generano «traumi vivificanti». 7 Personaggio sfuggente e dicotomico è Tasja Nachtigal, «un ibrido incerto fra un ragazzo maturo e una donna ancora in crescita», una persona «senza età precisa, senza sesso ben pronunciato, senza tinte ben definite», 8 che nel corso del romanzo subirà continue e misteriose trasformazioni. Non sono solo i personaggi ad essere contraddittori, ma l’intero paesaggio, che è dominato dal color grigio, ossia una commistione di nero e bianco, emblema della compresenza degli opposti, 9 e persino le notazioni temporali, come in apertura del romanzo, laddove si dice che «stava per scoccare il mezzogiorno», ma «l’atmosfera era […] crepuscolare». 10 Un eclatante esempio di sdoppiamento della realtà è riscontrabile poi a livello strutturale: il Marco adulto, che nel ’73 racconta l’epilogo della sua storia con Tasja al colonnello Razmilović, fornisce una versione che si scoprirà falsa (ma costruita «rimescolando, ricomponendo caselle, pezzi e rottami del passato da lui realmente vissuto»), 11 cui fa seguito un secondo racconto, la «verità ordinaria», 12 forni 



















1



2   Idem, L’Illiria, patria enigmatica, cit., p. 27.   Ivi, p. 23.   Enzo Bettiza, L’Italia, patria sconosciuta, in Idem, Via Solferino, Milano, Rizzoli, 1982, ora in Idem, Saggi viaggi personaggi, cit., p. 8. 4   Enzo Bettiza, Dostoevskij, in Idem, Grandi città del mondo – Qui Mosca, Milano, Touring Club Italiano, 1974, ora in Idem, Saggi viaggi personaggi, cit., pp. 407-416. 5  Cfr. Federica Millefiorini, Enzo Bettiza e la sua natura «bifida». Tra identità e senso di alterità erratica, in L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura, Atti del Convegno internazionale, Trieste, 28 febbraio-1 marzo 2013, a cura di Giorgio Baroni, Cristina Benussi, Pisa-Roma, Serra, 2014 («Biblioteca della Rivista di letteratura italiana»), pp. 139-145. 6   Enzo Bettiza, Il libro perduto, cit., p. 33. 7 8   Ivi, p. 45.   Ivi, p. 176. 9   Michele Dell’Aquila, recensendo questo romanzo, parlava di «natura fatta di forza e di dolcezza, di luce marina e ombrosità montane»; cfr. Michele Dell’Aquila, Nel libro perduto la luce forte e dolce della Dalmazia, «La Gazzetta 10 del Mezzogiorno», 12 giugno 2005, p. 26.   Enzo Bettiza, Il libro perduto, cit., p. 16. 11 12   Ivi, p. 519.   Ivi, p. 520. 3

federica millefiorini 210 ta dal libro perduto, quasi a dire che l’uomo dalmata è talmente ambiguo da non riuscire a distinguere tra verità e menzogna. 2) Una seconda caratteristica degli uomini illirici ravvisata da Bettiza è il loro singolare rapporto con la morte. In Esilio egli si soπerma sul divieto, per gli spalatini, di manifestare in pubblico i propri sentimenti («l’ostilità al sentimentalismo era nella vecchia Spalato così diπusa e inveterata, direi anzi così preconcetta e codificata, da assumere quasi la toga di un permanente editto municipale»). 1 L’autore racconta che «al lutto, quando arrivava in casa, essi usavano reagire più spesso con una liberatoria battuta cinica che col cordoglio compassionevole», 2 e indulge a spiegare la ritualità dei funerali della famiglia Bettiza, dominati dalla figura frenetica del becchino Mitrovič, che scatenava la sua involontaria vis comica. Il riso è un modo per liberarsi dallo sgomento e dimostrare che la morte non fa paura; 3 è l’antidoto per contrastare la morte, il dolore, il piagnisteo. «Quella scrosciante risata corale a cadavere caldo, quella travolgente, dissacrante, disinfestante risata pagana, era quanto di più illiricamente spalatino si potesse immaginare». 4 Qualora la beπa non fosse stata praticabile, i dalmati sceglievano la freddezza di fronte alla morte. Esempi di questa seconda strategia si trovano nei romanzi. Nel Libro perduto il Maestro, insensibile agli orrori della guerra, dipinge, tranquillamente seduto sul suo sgabello, le rovine fumanti e il corpo di un impiccato, per vendere i propri carboncini al mercato nero. Nella Distrazione il protagonista rievoca un episodio della giovinezza, avvenuto durante una gita in barca da Spalato a Lesina, quando un ragazzo era caduto in mare. Egli aveva reagito con «una strana indolenza, mista a un senso di fatalità passiva», salvo poi risvegliarsi dal torpore e aπermare: «Non ho mai visto un pesce così enorme e così rigido». 5 Il protagonista aggiunge che nessuno lo aveva rimproverato per la sua frase irriverente, perché «L’idea dell’aldilà non ha mai esercitato un grande fascino sullo spirito sarcastico e talora sacrilego dei dalmati» e anzi alcuni avevano creduto che l’avesse pronunciata «per minimizzare la disgrazia, per esorcizzare e schernire la Signora Nera». 6 3) Terza costante dell’originale carattere dalmatico è il gusto per la beπa sfrenata ai danni di disabili ed emarginati. Già in un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» (28 agosto 1971), poi incluso nella citata antologia del 1984, Bettiza si soπermava sul trattamento che a Spalato veniva riservato ai redikuli, ossia i «dementi veri o presunti, i folli placidi, i gobbi e gli storpi con un loro carattere comico», che venivano «derisi, alimentati, […] venerati in questa stramba città in cui lo scherno e la parodia venivano praticati come un culto civile». 7 A dispetto della serietà asburgica, a Spalato si usava prendere in giro i malati, i deformi, gli ultimi della società, ma anche dedicare loro dei fastosi banchetti, organizzati dalle autorità e finanziati dai cittadini facoltosi, che diventavano momenti di divertimento collettivo. È un uso che si riallaccia alla tradizione dei nani di corte, introdotta nell’impero persiano, proseguita presso i greci e i romani e dilagata nelle corti rinascimentali. Nell’Ottocento si diπonderanno anche le esibizioni dei cosiddetti fenomeni da baraccone, che da un lato garantiscono il sostentamento economico a persone altrimenti costrette all’indigenza, e dall’altro «assumono la funzione di rassicurare lo spettatore della propria normalità», inducendolo a «considerare il “mostro” come altro» 8 da sé.  















1

2   Idem, Esilio, cit., p. 150.   Ivi, p. 152.   Questa era anche la posizione di Michail Bachtin; cfr. Giulio Ferroni, Il comico nelle teorie contemporanee, Roma, Bulzoni, 1974, in particolare pp. 183-186. Si veda al riguardo il saggio di Aurora Firta, Riso dissacratore e identità in Esilio di Enzo Bettiza, in L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura, cit., pp. 149-151. 4   Enzo Bettiza, Esilio, cit., p. 163. 5 6   Idem, La distrazione, cit., p. 39.   Ibidem. 7   Enzo Bettiza, I fantasmi di Spalato, in Idem, Saggi viaggi personaggi, cit., p. 9. 8   Matteo Schianchi, Storia della disabilità. Dal castigo degli dèi alla crisi del welfare, Roma, Carocci, 2012, pp. 165178: 175. 3

la dalmazia di enzo bettiza

211 La dinamica descritta da Bettiza prosegue proprio questa tradizione: tali feste, in cui l’ordine sociale viene momentaneamente sospeso o invertito, avevano la funzione di oπrire temporaneo sollievo e nutrimento ai marginali, ma anche, come osservava Bachtin, di liberare i convitati dalla paura attraverso il riso. 1 Perseguitare con ilarità smodata i più deboli può sembrare crudele, ma, come Bergson aveva illustrato sin dal 1900, nel noto saggio sul riso, era un modo per castigare i comportamenti sociali inadeguati. 2 Si noti che Bettiza parla di questo tipico rito spalatino non solo nell’articolo del ’71 ripubblicato nell’84, ma anche in Esilio (pp. 151-152) e nel Libro perduto (pp. 569-572), dove anzi riprenderà quasi alla lettera (inserendoli in una visione onirica) alcuni passi di quel suo lontano articolo. Risulta evidente la continuità tra l’attività giornalistica e quella letteraria, già segnalata da Anna Storti Abate 3 e riconosciuta da Bettiza stesso, 4 continuità nel senso che molti articoli sono scritti in forme narrative, ma soprattutto nel senso che riflessioni sviluppate sulla stampa sono poi state riutilizzate in opere letterarie, anche scritte parecchi anni dopo. 4) Inoltre, quarto elemento distintivo della Dalmazia è per l’autore la «rinuncia volontaria alla potenza». 5 Egli ne parla in L’Illiria, patria enigmatica come di una costante degli imperatori illiri, ma già nell’articolo del ’71 si era soπermato su questa tendenza all’abdicazione, ricordando che Spalato è nata per l’atto di misantropia di Diocleziano. 6 In Esilio infatti l’autore racconta diπusamente l’origine della città, sorta dopo la decisione del tetrarca illiro di farsi costruire un palazzo fortificato e di chiudersi lì, con la sua superbia solitaria, ad aspettare la morte. 7 Caratteristica dei dalmati sarebbe quindi il complesso di Diocleziano, o claustromania, che però fa da contraltare alla natura cosmopolita e aperta di Spalato. Il finale del Libro perduto, che vede il protagonista, convinto del proprio fallimento, gettare per sempre i pennelli e scegliere di seppellirsi in una villa nei pressi di Aix-enProvence, sembra porre Marco sulle orme di Diocleziano: proprio nel momento in cui abbandona l’Illiria, egli sceglie l’autoesclusione dal consesso umano, il che equivale a riconfermare la sua identità illirica. 5) Infine, un’ulteriore costante dalmata (o l’estremizzazione della precedente), indicata in L’Illiria, patria enigmatica, è l’«istinto d’autosacrificio», 8 una sorta di desiderio di annullamento, che si manifesta nell’intero popolo, pieno di inventiva e di spirito d’iniziativa, ma non su√cientemente «cupido né animalesco» 9 da riuscire a costituirsi in nazione; e si manifesta anche nell’istinto suicida di molti personaggi bettiziani. Pensiamo alla scena del teatro, nel Libro perduto, in cui Rogovskij avrebbe dovuto solo recitare il suo suicidio, che invece diventa realtà (perchè morirà di setticemia), e a Ines, di La distrazione, la quale si suicida nella clinica che avrebbe dovuto praticare la terapia antisuicidio (ma forse subdolamente suggerisce il suicidio terapeutico). Situazioni paradossali e contraddittorie. A sua volta questa vocazione di morte degli spalatini (punto 5) convive, in coppia oppositiva, con la tendenza a ridicolizzare il momento del trapasso (punto 2).  

















1

  Giulio Ferroni, Il comico nelle teorie contemporanee, cit., p. 186.  Cfr. Henri Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, prefazione di Beniamino Placido, Roma-Bari, Laterza, 1982. 3   Anna Storti Abate, L’opera di Enzo Bettiza, «La Battana», xxvii, 97-98, 1990, p. 77. 4   Enzo Bettiza, Premessa, in Idem, Saggi viaggi personaggi, cit., p. xv: «Se non l’osmosi perfetta, c’è stata, fra i due [scrittore e giornalista], una simbiosi utile». Forse anche da questo punto di vista Bettiza si scopriva simile a Dostoevskij, del quale aveva scritto: «in Dostoevskij, il nesso fra il giornalista e il romanziere, così nello stile come nell’ispirazione, doveva farsi evidente fino dagli esordi»; Idem, Dostoevskij, cit., p. 413. 5   Idem, L’Illiria, patria enigmatica, cit., p. 24. 6 7   Idem, I fantasmi di Spalato, cit., p. 12.   Idem, Esilio, cit., p. 451. 8 9   Idem, L’Illiria, patria enigmatica, cit., p. 25.   Ivi, p. 26. 2

federica millefiorini 212 In fondo tutte le peculiarità dell’uomo illirico individuate fin qui possono essere ricondotte all’innata e insanabile ambiguità dalmatica, il che sembra portarci a un circolo vizioso. La scrittura autobiografica o narrativa non può trovare una coerenza che de facto non c’è; tanto è vero che in Esilio Bettiza nota, in merito alle proprie domande sulle caratteristiche della Dalmazia e dei dalmati: Interrogativi rimasti sempre per me senza risposta. Mi riesce più facile evocare, descrivere, raccontare anziché spiegare. Insomma, nel tentativo di chiarire agli altri qualcosa che non ho mai saputo chiarire fino in fondo a me stesso, posso tutt’al più soπermarmi su qualche squarcio o spicchio di ricordo: qualche dettaglio singolare, caratteristico o pittoresco. 1  

Bettiza non riesce a spiegare razionalmente l’originalità del carattere dalmatico (infatti la prosa bettiziana non è argomentativa né segue l’ordine logico-cronologico); però sa raccontare, con la forza della sua prosa ammaliante, le costanti umane dell’uomo illirico. Così, per squarci e scene memorabili, compone il ritratto della Dalmazia e in quel ritratto scopre qualcosa in più di se stesso. Non può che scoprire un se stesso duplice; ma avverte anche che la duplicità è elemento qualificante del vero scrittore, il quale, per essere tale, deve saper svelare le contraddizioni della realtà. «Direi che l’ambiguità è consustanziale ad ogni scrittore autentico», aπerma infatti Bettiza nell’intervista a Dario Fertilio. 2 Già nella premessa a Saggi viaggi personaggi egli aveva osservato:  

La lacerazione interiore tra opposti mondi idiomatici e culturali, la continua tensione filologica, lo sdoppiamento psichico che si riflette nella contorsione sintattica […], tutto ciò può arricchire l’intimo tessuto di un libro, rendendolo quanto mai insolito, eccitante, esotico. 3  

La dicotomica natura dalmata, quell’identità illirica sfuggente e ricca di contrasti, intimamente sperimentata e poi lungamente indagata nelle sue opere, si rivela quindi «nutrimento stimolante» per la formazione, la crescita e l’intera produzione di un letterato e giornalista originale e complesso come Bettiza. 1

  Idem, Esilio, cit., p. 150.   Enzo Bettiza, Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri, cit., p. 220.   Enzo Bettiza, Premessa, in Idem, Saggi viaggi personaggi, cit., p. xiv.

2 3

LA TRIESTE DI ENZO BETTIZA. DALL’ANALISI DI IL FANTASMA DI TRIESTE E MITO E REALTÀ DI TRIESTE Silva Bon

L

a prima edizione di Il fantasma di Trieste risale alla fine degli anni Cinquanta: precisamente nel 1958 la Casa Editrice Longanesi pubblica il romanzo a Milano. Trieste è da poco tempo ritornata a far parte dello Stato Italiano, soli quattro anni, dal momento che appena nel 1954 si chiude il periodo di gestione della città da parte del Governo Militare Alleato. Trieste, ‘cara al cuore’ degli Italiani, è in realtà assai poco conosciuta, per non dire tout court quasi del tutto sconosciuta alle genti italiane che vivono oltre l’Isonzo. Enzo Bettiza in quel tempo svolge il lavoro di giornalista, saggista, narratore. Collabora con i più importanti organi di stampa nazionali quotidiani come «La Stampa», per cui è corrispondente da Vienna. Successivamente pubblica i suoi articoli su quotidiani e su riviste settimanali, come «Il Giornale», «Il Corriere della Sera», «Epoca», «L’Espresso». Il fantasma di Trieste è la sua seconda produzione letteraria dopo La campagna elettorale edita nel 1953. A queste opere seguirà una vasta mole di produzione letteraria e saggistica, collegata tra l’altro anche alla sua permanenza come inviato speciale in Russia e alla sua conoscenza delle lingue slave. Esilio rappresenta una delle sue ultime fatiche e uno dei suoi più grandi successi, legato al suo essere e sentirsi esule dalla natia Spalato. In realtà l’opera in questione, Il fantasma di Trieste, è di√cilmente definibile dal punto di vista dei generi letterari: si tratta di un ampio testo di scrittura che sta in bilico tra il romanzo e il saggio. Infatti vuole dare spessore narrativo a una materia molto densa, storicamente complessa: a mio avviso si può definire un saggio poetico. Il libro si svolge nell’arco di circa quattrocento pagine, divise in quattro parti, con un proprio ricco intreccio, quasi un romanzo di formazione che narra la vita di un triestino, Daniele Solospin; parte dalle esperienze fattuali ed emotive della prima infanzia, attraversa la di√cile e drammatica giovinezza per concludersi in Russia, dove si trova proiettato dalle vicissitudini di soldato dell’esercito asburgico nella prima guerra mondiale.

Qui (in Russia) mi ambientai, più facilmente, naturalmente. La steppa, in fondo, mi ricordava un Carso più vasto e più pericoloso; e la loro scrittura, la loro religione, a me, che da bambino avevo pregato nelle chiese ortodosse e imparato a leggere i caratteri cirillici, sembrarono tutt’altro che estranee. La lingua parlata, poi, mi sembrò un serbo-croato più morbido, più invertebrato. Sparii inghiottito nella grande Russia sconvolta dalla guerra civile con un sentimento di felicità e di liberazione e, a un certo punto, se di me si può dire che io possa amare qualcosa, la amai. 1  

La scelta di Daniele di vivere in Russia sembra adombrare la personalità di Enzo Bettiza, il suo radicamento lavorativo nella terra e nella cultura russa, che per il protagonista del romanzo rappresenta una sorta di liberazione da un peso, da una catena, da una imperfe1   Enzo Bettiza, Epilogo, in Idem, Il fantasma di Trieste, Trieste, Euromeeting italiana/Mediasat, 2003 («La Biblioteca del Piccolo»), p. 381.

silva bon 214 zione, l’amore per Trieste, che lo fa concludere epigraficamente: «Daniele Solospin non ritornò mai più a Trieste». 1 Sulla descrizione di molti personaggi (la balia morlacca, un nonno un po’ strambo, un padre vedovo allegro, un pedagogo austero, lo zio debilitato dalla malattia polmonare, i tanti amici occasionali), ha naturalmente la preminenza il protagonista, che è anche attore in prima persona attraverso la finzione letteraria del rinvenimento di un diario autografo, e si sdoppia con la figura del narratore onnisciente, conduttore del filo della storia. Tale fortunato escamotage letterario costituisce un’anticipazione del punto clou della storia, che denuncia, analizzandolo, lo sdoppiamento, il male oscuro che corrode i triestini, un malinteso eccesso di ‘infatuazione nazionalistica’; di esso Enzo Bettiza parla in modo esteso in un capitolo centrale, Le notti bianche di Stefano, cui intendo dare risalto con una specifica citazione in un passo successivo di questo mio saggio. La vicenda de Il fantasma di Trieste si ambienta dunque a Trieste, nei primi anni del Novecento: essa si proietta tutta sulla costruzione di una parabola narrativa che trova il climax nella preparazione e nell’esecuzione di un attentato contro le figure dell’arciduca Ferdinando e di sua moglie, in visita a Trieste in rappresentanza dell’imperatore dell’Austria Ungheria il 30 ottobre (di un ipotetico 1914?): lo stile un po’ gotico, un po’ noir di Enzo Bettiza conclude in maniera grottesca le gesta eroiche del complotto di un piccolo nucleo di giovani irredentisti triestini, tra cui milita anche il protagonista; in realtà le esplosioni dinamitarde cadono contro e sulle povere figure di due figuranti, sosia degli alti personaggi di cui rivestono gli abiti esteriori e che di fatto non si erano mai presentati in città. Ma tutto il libro costruisce quasi un intreccio – pretesto per calare nella corposità di figure concretamente umane la Storia della città giuliana; il suo sviluppo che parte dalla seconda metà del 1700; il mondo borghese imprenditoriale; l’alterità slovena ed ebraica: ogni personaggio sviluppa nella sua persona un’ideologia politica, diventa medium vivente di riflessioni sociali, tramite di giudizi più generali, che sono riconducibile allo stesso Autore. Il Carso e la bora sono il leit motiv che corre lungo tutto il romanzo, in cui trovano spazio però anche descrizioni marine della costa istriana e dalmata e dell’interno morlacco, attraverso i capitoli delle due prime parti che narrano dell’educazione del giovane protagonista Daniele Solospin e di un viaggio di piacere in Dalmazia. Mi sembra che ci sia perfino anche un intento didattico dietro alla trasposizione letteraria di un complesso mondo giuliano, che si allarga da un punto di vista geopolitico nella Mitteleuropa e nella Penisola Balcanica, e che da questi territori confinanti viene influenzato in uno scambio sociale, economico, politico, culturale, che gli irredentisti negano, in una lotta politico-culturale contro le pluralità di stirpe, di parlata, di nazionalità. Le figure del suddito e del funzionario asburgico; la frenetica attività del porto di Trieste; lo splendore delle isole della Dalmazia; l’introduzione colta e salottiera della psicanalisi; ma anche le proposizioni del sindacalismo massimalista; dell’irredentismo; dell’ebraismo; trovano spazio in un’analisi che vuol essere anche esplicativa, illustrativa della realtà dell’anima di Trieste e dei suoi abitanti:  

Per chi non sia nato nelle ambigue, sfuggenti, assurde zone di confine, sarà sempre di√cile capire, capire veramente, una certa psicologia morbosa, esaltata, una certa sorda follia cui, in queste nostre di√cili zone, soggiacciono anche persone intelligenti e in parvenza equilibrate. I casi di cosiddetta ‘doppia personalità’ sono qui, qui da noi, all’ordine del giorno. Qui, può darsi benissimo che una persona rispettabile, educata, corretta sotto ogni punto di vista, che per anni aveva parlato soltanto l’italiano, una sera impazzisca, s’ubriachi e, fra lo stupore improvviso degli amici, cominci a be1

 Ivi, p. 382.

la trieste di enzo bettiza

215

stemmiare in slavo come un facchino; viceversa può darsi benissimo il caso di un facchino slavo, ritenuto per anni ottuso ignorante, s’innamori, e cominci d’un tratto a parlare con la sua ragazza in un italiano che nessuno mai avrebbe sospettato potesse fiorire sulle sue labbra. Ma, fin qui, nulla di grave. Passata l’ubriacatura, passato l’amore, sia la persona rispettabile, sia il facchino ritorneranno al loro linguaggio consueto e faranno rientrare tranquillamente nell’inconscio quella loro ‘seconda’ personalità. Il fenomeno invece si aggrava quando, in un luogo come Trieste, la ‘doppia personalità’ decida di diventare ‘una’ indivisibile e assoluta, quando decida di espellere l’altra parte di sé e di buttarsi tutta da una parte sola. Ciò non può farlo, senza violenza su se stessa. E allora, ecco, si spiegano i numerosissimi casi di nevrastenia politica che allignano in una città come la nostra e che spesso, erroneamente, o, per lo meno, imprecisamente, vengono classificati sotto il termine sommario di nazionalismo. Perché non di questo si tratta, ma d’una infatuazione nazionalistica, la quale infatuazione, si capisce, può sembrare e forse è più sincera, più emotiva, più convinta e più tragica di qualsiasi autentico nazionalismo… Il nazionalista di confine è povero, diseredato, e non gli rimane altro che soπocare mezza sua personalità a vantaggio dell’altra metà, non gli rimane che l’esasperazione a vuoto dei propri sentimenti; non gli rimane cioè che la nevrastenia. Egli non è, egli sceglie di essere italianissimo… gli italiani veri, della penisola, gli sembrano falsi, poco italiani, ed egli, assurdamente, dopo aver deciso di essere uno di loro, e voluto essere come loro, comincia a disprezzarli in segreto non avendo tuttavia il coraggio di confessarselo chiaro e tondo, questo disprezzo: confessato infatti il disprezzo, tutta l’impalcatura crollerebbe. Riemerge così, più approfondita, la frattura della personalità. 1  

Questa ampia citazione di una pagina memorabile del romanzo-saggio si propone come documento dell’analisi lucida e disincantata di Enzo Bettiza, che drammaticamente, dolorosamente, incide su un nervo scoperto della complessa realtà politico-sociale di Trieste, e lo fa attraverso la trasposizione mitopoietica, propria della scrittura letteraria. Qualche anno più tardi Enzo Bettiza ritorna a parlare di Trieste agli Italiani, e lo fa attraverso una serie di articoli, frutto di un’inchiesta svolta per «Il Corriere della Sera», dal 6 al 25 ottobre 1966. Il saggio Mito e realtà di Trieste pubblicato a Milano per i tipi All’insegna del pesce d’oro, a cura di Vanni Scheiwiller, nella Collana «La coda di paglia» n. 3, nel novembre 1966, raccoglie quei testi in un prezioso libretto monografico, diviso in quattro parti. Il titolo rispecchia fedelmente e lucidamente la struttura del lavoro, che parte da un’immersione nella storia e nella cultura triestina ottocentesca, base di partenza di molteplici mitologie e narrazioni, per ribadire il concetto delle due anime della città, che creano quella frattura, quella divisione, quella ‘nevrastenia’ di cui parla anche ne Il fantasma di Trieste. E cioè la presenza della forte cultura italiana, che anela al respiro più ampio con/nella nazione italiana, calata nelle necessità concrete, contingenti, emporiali del porto, che si vede strettamente legato al retroterra mitteleuropeo e al confinante mondo balcanico in una funzione geopolitica di mediazione portante ed attiva. Dal discorso più squisitamente storico e culturale, Enzo Bettiza passa alla realtà del momento attuale, del 1966, in cui scrive con riferimenti precisi alla crisi politica e morale provocata a Trieste dalle ultime iniziative economiche discusse e imposte dalla programmazione dello Stato italiano: si tratta del Piano c.i.p.e. (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica), relativo alla riorganizzazione del settore cantieristico. Esso prevede, tra l’altro, lo smantellamento del Cantiere San Marco e la fine della vita autonoma dei c.r.d.a. (Cantieri Riuniti dell’Alto Adriatico) e della Fabbrica Macchine, proprio dei luoghi cioè sui quali operava la mitizzazione retrospettiva delle fortune della vecchia Trieste. Ci furono grandi scioperi e disordini anche gravi, alle elezioni amministrative (novembre 1   Enzo Bettiza, Le notti bianche di Stefano, in Idem, Il fantasma di Trieste, Trieste, Euromeeting italiana/Mediasat, 2003, («La Biblioteca del Piccolo»), pp. 185-187.

silva bon

216

1966) si ebbero un recupero indipendentista e dieci mila schede bianche; ma i partiti dell’area governativa mantennero la maggioranza. 1  

Del resto il filone dell’indipendentismo corre come un fil rouge attraverso la recente storia di Trieste: di esso, inteso come una malattia degenerativa, parla anche lo storico di indirizzo socialista Carlo Schiπrer, in quegli stessi anni attraverso la rivista politica giuliana «Trieste», con una serie di articoli in cui difende l’indirizzo e l’operato dello stato italiano, pur evidenziando la peculiarità dell’area giuliana: Trieste: primo porto petrolifero dell’Europa. 2 La dimensione sorpassata della città “municipale”. 3 Il “buon governo” dello Stato Italiano. 4 La posizione di Enzo Bettiza rispetto alla risposta contestataria della città è di netta presa d’atto e d’appoggio del piano del Governo italiano: la sua militanza nelle file del Partito Liberale Italiano lo portano ad illustrare la nuova funzione che Trieste può assumere, inscritta in un rilancio industriale della città  





che va visto in una prospettiva organica ed europea, comunque non municipalistica, l’oleodotto, come la fabbrica Iri-Fiat per motori Diesel, (e che) porta l’integrazione dell’iniziativa privata in quella pubblica. 5  

Enzo Bettiza conclude la sua disanima con enfasi calda rispetto al cuore della città giuliana e sottolinea in modo magistrale, ancora una volta, la dicotomia, la frattura che si insinua come una malattia nell’anima di Trieste e della sua gente: [Le] oscillanti bivalenze fra rifiuto del dolore e senso della tragedia, tra scoppi di vitalità e di radicalismo, si spiegano sullo sfondo di una città cresciuta in modo bivalente e dialettico. Trieste ha dato forma e coscienza italiane a meccanismi psicologici che erano troppo poco scettici per essere del tutto o solo italiani; ha rivestito il suo irredentismo, paradossalmente, di cultura tedesca e di violenza slava; ha trasformato slavi e tedeschi e greci ed ebrei in nazionalisti italiani; ha desiderato l’Italia vivendo da viennese e odiato Vienna non potendo vivere da italiana; ha dato vita, sul Mediterraneo, a una borghesia mercantile di mentalità e costume piuttosto anseatici che mediterranei, ed ha creato una letteratura scritta in italiano ma pervasa dalle inquietudini che scendevano da Vienna e da Praga. 6  

Naturalmente lo sguardo di Enzo Bettiza, che diventerà Senatore e anche europarlamentare, non può che rivolgersi al futuro, dopo aver delineato il passato. Conclude il suo lavoro con un auspicio: Il discorso su una nuova cultura triestina, che non ha ancora contorni precisi ma intenti già chiari, era necessario: esso completa il discorso sull’avvenire economico della città. 7  

Questo auspicio sarà disatteso un decennio dopo: la sindrome della città tradita esplode in tutta la sua forza di protesta dopo il Trattato di Osimo, quando il movimento della Lista per Trieste raccoglie nei primi mesi del 1976 sessantacinquemila firme di adesione; così si porta all’assunzione della responsabilità amministrativa della città, contro un piano di industrializzazione sul Carso, a cavallo sul confine con la Repubblica Federativa di Yugoslavia, che, tra l’altro, avrebbe snaturato la composizione nazionale di Trieste. Enzo Bettiza ha il merito di aver ‘spiegato agli Italiani’ Trieste con lavori creativi e pionieristici, ben prima di Angelo Ara e Claudio Magris che nel più tardo 1982 creano il

1   Cfr. Giorgio Negrelli, Introduzione, in Carlo Schiffrer, Dopo il ritorno dell’Italia. Trieste 1954-1969. Scritti ed interventi polemici presentati da Giorgio Negrelli, Udine, Del Bianco, 1992 («Civiltà del Risorgimento»), p. 11. 2   Carlo Schiffrer, Trieste: primo porto petrolifero dell’Europa, «Trieste», 76, 1966. 3   Carlo Schiffrer, La dimensione sorpassata della città “municipale”, «Trieste», 74, 1966. 4   Carlo Schiffrer, Il “buon governo” dello Stato Italiano, «Trieste», 67, 1965. 5   Enzo Bettiza, Mito e realtà di Trieste, Milano, Scheiwiller, 1966 («All’insegna del pesce d’oro»), p. 36. 6 7  Ivi, pp. 50-51.  Ivi, p. 51.

la trieste di enzo bettiza

217 mito della Trieste letteraria, della città di carta posta su un fragile crinale di frontiera 1 e sottolineano come  

Nel Fantasma di Trieste … la triestinità diviene esplicita e la letteratura triestina diviene una letteratura sulla triestinità, esposta talora alla sterilità e al calcolo di queste operazioni; una letteratura consapevole di questa letterarietà al quadrato. 2  

Ma aggiungono criticamente: L’atmosfera si lascia evocare, ma non definire: Bettiza per esempio la rappresenta fin troppo suggestivamente nel Fantasma di Trieste, per via indiretta, ma la riduce a stereotipo pittoresco e colorito quando vuole declinarla in termini espliciti nel suo saggio Mito e realtà di Trieste. 3  

A mio avviso questo taglio un po’ riduttivo della lettura dei due testi non è generosa né equanime nei confronti dell’Autore dalmata: a me sembra che Enzo Bettiza abbia proposto in modo creativo, concreto, magistrale, sia in forme ampie narrativo-poetiche, sia in termini agili e concisi propri di un pamphlet, i di√cili snodi della storia e della realtà giuliana; quelli che gli stessi triestini faticano a riconoscere lucidamente e oggettivamente, perché sfuggono a ogni forma di facile autocelebrazione. 1

  Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste: un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1982. 3  Ivi, p. 108.   Ibidem.

2

ENZO BETTIZA LETTORE DI GUIDO PIOVENE Francesca Bottero

E

nzo Bettiza, nell’intervista rilasciata ad Antonio Gnoli sulla «Repubblica» del 4 gennaio 2015, ancora una volta torna a evocare «nell’intreccio di amicizie e conoscenze» l’«amico di strada», Guido Piovene, immancabile presenza nel percorso formativo dello scrittore e giornalista; si accompagnano al ricordo di quel «conservatore illuminato» 1 le immagini di Dino Buzzati, nella duplice veste di giurato al «Premio Hemingway» 1952, che lo vide battersi inutilmente per assegnare il riconoscimento a La campagna elettorale, 2 e poi di collega nei corridoi di via Solferino, oltre che quelle di Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone per il periodo che li unì nella direzione di «Tempo presente». Ma se Buzzati fu il promotore della pubblicazione dell’opera prima dell’esordiente Bettiza, presso la casa editrice Bianchi-Giovini di Milano, tra il 16 e il 19 luglio 1954, quello stesso libro diede lo spunto a Piovene, direttore a distanza di «Epoca lettere», per presentare il giovane aiuto-redattore della rivista nell’estemporaneo quanto sofisticato salotto letterario di San Pellegrino Terme, in occasione del convegno dal titolo Romanzo e poesie di ieri e di oggi. Incontro di due generazioni. 3 Il viso sfolgorante di Piovene, baciato dal sole di quelle giornate estive e carico di una luce quasi surreale, rifletteva il momento di gloria transeunte dello scrittore e ne celava solo apparentemente il lato oscuro, quella ineludibile e sottile tensione a dissezionare la vita con cinismo e disincanto. Un ritratto pieno e grato fatto a posteriori dalle pagine della «Stampa» − e poi raccolto ne La cavalcata del secolo − nel quale si innesta la lucida consapevolezza di una congenita e dissacrante ambiguità letteraria che non poteva sfuggire al giovane Bettiza:  





Qualcosa che somigliava a un sortilegio benigno, quasi una forma di demonismo positivo, coinvolgente la sua anima e il suo corpo, pareva custodirlo da dentro e da fuori e accompagnarlo in gloria 1   Antonio Gnoli, Enzo Bettiza: «Vengo da un mondo che non c’è più, con la parola ho difeso la mia identità», «La Repubblica», 4 gennaio 2015, p. 48. 2   «Era poco più che ventenne, nel ’52, quando inviò il suo primo dattiloscritto al premio (un altro, non quello di oggi) che Ernest Hemingway aveva voluto istituire per esordienti. […] E Bettiza, che aveva battuto su una vecchia Olivetti il romanzo d’esordio Campagna elettorale, vide nell’iniziativa il passaporto per le stampe: “C’erano in palio, mi sembra, trecentomila lire. Per un giovane scapestrato come me erano davvero una grande somma. E poi, soprattutto, c’era l’oπerta di pubblicare il libro nella Medusa mondadoriana”. Quella Campagna […] ambientata nella Pavia delle elezioni del ’48, in una sezione del Pci, venata di scontri e drammi, di neorealismo e anticomunismo, era destinata alla vittoria. Ma qualcosa si inceppò. “Vittorini e Debenedetti – ricorda – bocciarono il dattiloscritto per ragioni ideologiche. Mentre Dino Buzzati e Cantoni si erano espressi a favore. Il quinto della giuria, Alberto Mondadori, figlio dell’editore, fece il Ponzio Pilato e disse “Noi lo segnaliamo, senza dargli il premio”. Così andò. E non ci furono vincitori”» (Bruno Ventavoli, Il giornalista-romanziere, dopo il «Campiello», vince il premio «Hemingway», «La Stampa», 9 maggio 1997, p. 23). 3   «Confesso che quando Giuseppe Ravegnani, che ha organizzato e diretto l’incontro, mi invitò a essere uno dei nove presentatori, accettai volentieri, ma con molte intime riserve. Sull’utilità dell’incontro, soprattutto sulle premesse, ero, devo ammetterlo, scettico; e ne dirò i motivi. L’incontro era prospettato come un confronto artificiale tra due generazioni. Non credo all’urto tra le generazioni, come non credo al “problema” dei giovani. In nessuna parte del mondo questo “problema” si presenta e si ripresenta in forma tanto acuta come in Italia, e non potrebbe essere diversamente. Un Paese come il nostro, povero, aπollato, stretto, in cui è tanto di√cile realizzare completamente le proprie capacità intellettuali, è fatalmente condotto a scorgere anche l’arte e la cultura sotto l’angolo di un antagonismo perpetuo» (Guido Piovene, Più che cinquantenne il giovane poeta, «Epoca», v, 199, 25 luglio 1954, p. 67). Piovene in quegli stessi giorni rispondeva all’inchiesta lanciata da «La Fiera letteraria» sulla narrativa nuova con un articolo significativamente provocatorio, Non credo alle generazioni («La Fiera letteraria», ix, 29, 19 luglio 1954, p. 3).

enzo bettiza lettore di guido piovene

219

per le più ripide e perigliose scalate della creazione artistica. Sennonché, dietro un convolvolo opaco del suo labirinto interiore, c’era sempre in agguato il chiaroscuro della tenebra avvinghiata alla luce. C’era e si sentiva sempre il dèmone nichilista e distruttivo, accanto a quello aπermativo, in tutte le cose che Piovene pensava e scriveva. 1  

Il lettore accanito ricalca le orme del suo autore prediletto in un percorso lavorativo pressoché parallelo, dapprima nella redazione della rivista mondadoriana «Epoca» – con la quale Piovene collabora fino al 1960 – e poi come corrispondente per la «Stampa»: lo scrittore veneto dal 1953 al 1974 e dal 1957 al 1964 Bettiza, che dismettendo il suo incarico di reporter moscovita, passa al «Corriere della Sera» per rimanerci fino al 1974. In quell’anno nevralgico le strade dei due amici e colleghi si riuniscono in una nuova impresa, quella del «Giornale nuovo» di Indro Montanelli, per poi dividersi per sempre quando in novembre Guido Piovene si spegne in una clinica londinese, prostrato dopo anni di lotte contro la sclerosi amiotrofica bilaterale. Nella malattia l’epilogo del maestro diviene chiave di lettura per le opere ultime e postume in un tracciato che colloca le prime avvisaglie della nichilistica visione pioveniana già nei romanzi d’esordio, ma che si consolida e apre un nuovo ciclo con il romanzo Le furie (1964) e poi oltre ne Le stelle fredde, Premio Strega 1970, del quale, avvisa Bettiza, non bisogna sottovalutare la componente ironica: «Mi sembra che a molti che ne hanno parlato sia sfuggito l’elemento ironico che c’è nella rappresentazione di questo Aldilà secondo Piovene, siano sfuggiti proprio due filoni del romanzo: un intreccio continuo di catastrofe e di ironia». 2 Il motivo circolare, pur con quelle sfumature via via più intense che connòtano la critica di Piovene al mondo che descrive e di cui lui stesso fa parte, si ricompone in una fuga continua da quella società deprivata fino all’osso dei suoi attributi più grossolanamente umani: «L’impressione che ci dà una rilettura aperta della sua opera narrativa, interrotta dalla morte, è di un viaggio faustiano profondo, ma concentrato entro uno spazio ristretto. Insieme fuga e ritorno concentrici, sempre sullo stesso luogo e sugli stessi punti fissi». 3 A mettere insieme i pezzi di una lunga carriera di scrittore proprio il testo introduttivo alla coppia di Meridiani Mondadori, usciti a due anni dalla sua scomparsa, un viaggio tra le macerie dell’uomo pioveniano che procede nel suo iter autoeliminatorio per giungere al riparo di un Dio assente, «il niente e l’assoluto» evocati nel titolo omonimo del saggio. Bettiza compone qui una perfetta analisi dell’uomo che scrive, misura di tutte le cose ovvie e meno ovvie che lo circondano, occhio disingannato e indagatore sulla squallida degenerazione del mondo circostante, dalle sue finzioni compiaciute al malessere dilagante che esilia l’uomo in se stesso, senza speranza di pace: «In senso lato, suggerisce Piovene, [l’inversione] fra l’uomo moderno e il mondo: resi sempre più estranei l’uno dall’altro da un intreccio fenomenologico che ormai appare del tutto stravolto, per esempio, rispetto a quello che legava i classici al loro universo antropocentrico, o più tardi i cristiani al loro Dio antropomorfico». 4 Piovene, nella sua dimensione di veneto aristocratico e borghese insieme, possiede, secondo Bettiza, la chiave di lettura per quel territorio al confine che si spinge al di là delle campagne vicentine e in cui, dal suo punto privilegiato d’osservazione, ha saputo  





1   Enzo Bettiza, Un’acqua minerale per il Gattopardo (occhiello: La cavalcata del secolo 28), «La Stampa», 10 luglio 1999, p. 25, poi in Idem, La cavalcata del secolo, Milano, Mondadori, 2000, p. 182. 2   Enzo Bettiza, Tavola rotonda sul romanzo di Guido Piovene. Le stelle fredde: l’esistenza “in negativo”, «La Stampa», 17 aprile 1970, p. 14. 3   Enzo Bettiza, Il niente e l’assoluto in Guido Piovene, in Guido Piovene, Opere narrative, i, a cura di Clelia Martignoni, Milano, Mondadori, 1976, p. xx. 4   Enzo Bettiza, Il niente e l’assoluto in Guido Piovene, cit., p. xxii.

francesca bottero 220 assorbire l’influenza di una letterarietà impura: «Con sensibilità di lombardo-veneto, adattissimo a comprendere la nevrastenia mitteleuropea di Trieste, Piovene scriveva che emanano da questa città così laica e così poco mistica, “un bisogno di felicità, una fiducia che essa esista, che possono diventare anche disperazione”». 1 Le caratteristiche di autore al confine si riconoscono anche nella sua natura di ‘scrittore viaggiante’ prestato alla carta stampata e capace di unire «alla cosa vista il bulino e la pazienza della buona scrittura». 2 Quell’imprescindibile passaggio tra uno spazio letterario e l’altro che l’inviato speciale fa proprio, incrociando la resa cronachistica con l’arte del racconto, trova nel viaggio una molteplicità di spunti che Enzo Bettiza sente necessari per «una duplice ricognizione, interiore ed esteriore» 3 e di cui Guido Piovene preserva il fascino dell’iniziatore. 4 Per Bettiza la linea letteraria di Piovene, ispirata da quella contiguità con l’universo di frontiera del Nord-Est italiano e con le sue suggestioni culturali, verso le quali lo scrittore veneto si dimostra in primo tempo critico severo nei giovanili attacchi rivolti dalle pagine della rivista «L’Ambrosiano» all’opera sveviana, 5 sembra potersi sviluppare, fin dalla sua opera prima, risalente al biennio 1927-1928 e pubblicata postuma sul finire degli anni ’90. Il ragazzo di buona famiglia ha il sapore di una premonizione, anticipando, nella tensione autodistruttiva che in questo testo si risolve nel suicidio di uno dei protagonisti, il percorso letterario e personale del giovane Piovene di cui Bettiza parla nella prefazione al testo del 1998:  









Il suicidio, la tentazione suicida, l’anelito all’autoannullamento, concreto o immaginario che sia, resteranno poi una costante in molte opere di Piovene. Fino a raggiungere il punto culminante nella splendida e spietata metafora del “suicidio di pensiero”, che aleggerà come una vertigine sinistra, come un concetto estremistico, per le pagine più disperate di Verità e menzogna, l’antiromanzo della fine che uscirà postumo e incompiuto nel 1975. 6  

L’antiromanzo di Piovene è il punto di arrivo di un insieme di generi che vengono mescolati e che contribuiscono a fare di questa apparente incongruenza una forza, ma l’importanza di questo testo risiede soprattutto nell’analisi precoce della condizione dell’infermità irreversibile, della prescienza rispetto alla fine, uno status a mezza via tra la lucida e drammatica consapevolezza e la negazione: Quel prematuro romanzo di formazione, costruito su una dolente traccia autobiografica, che Piovene non volle mai pubblicare, era la perla nera del «non detto» segregata a doppia chiave nel suo blindato cassetto d’autore. […] Raramente un libro segreto, tenuto nascosto per così lungo tempo, era riuscito a dirci altrettante cose sul destino dell’autore ch’era stato e resta uno dei più intensi scrittori visionari del ventesimo secolo. 7  

1   Enzo Bettiza, Saggi, viaggi, personaggi, Milano, Rizzoli, 1984, p. 172, poi in Idem, Non una vita, Milano, Rizzoli, 1989, p. 129. 2   Enzo Bettiza, Il viaggiatore incantato, «La Stampa», 11 giugno 2004, p. 27, poi in Idem, Sogni di Atlante, Milano, Mondadori, 2004, p. 3. 3   Enzo Bettiza, Il viaggiatore incantato, cit., p. 27, poi in Idem, Sogni di Atlante, cit., p. 11. 4   «Io appartengo alla generazione successiva [rispetto a Montale, Piovene, Emanuelli, Buzzati, Moravia, Montanelli], forse meno ricca di vocazioni e di talenti, ma ancora intimamente legata alla lezione di stile e alla “forza degli occhi”, per dirla con Alfonso Gatto, che faceva di quei maestri qualcosa di unico nel panorama letterario e giornalistico italiano ed europeo. Non c’era per loro scarto, o cambio di marcia, tra dignità di scrittura e resoconto di giornale. Si muovevano in una dimensione in cui l’inchiesta e il saggio colto, il ritratto, lo squarcio di costume, l’intervista col personaggio significativo venivano trattati nello stesso momento con scrupolo narrativo e rigore d’informazione» (Enzo Bettiza, Il viaggiatore incantato, cit., p. 27, poi in poi in Idem, Sogni di Atlante, cit., pp. 3-4). 5   Si veda a tal proposito il testo di Guido Piovene comparso su «L’Ambrosiano» del 16 luglio 1931 e inserito nella raccolta Biglietti del mattino col numero romano xxvii, edizione a cura di Sandro Gerbi, Torino, Aragno, 2010, pp. 77-79. 6   Enzo Bettiza, Prefazione a Guido Piovene, Il ragazzo di buona famiglia, Milano, Rizzoli, 1998, p. vi. 7   Enzo Bettiza, Piovene, l’occhio ossidrico, «La Stampa», 29 febbraio 2004, p. 23.

enzo bettiza lettore di guido piovene

221

Dal romanzo di formazione all’antiromanzo, la figura di Piovene assume senza ombra di dubbio i tratti della guida, che sa combinare insieme le sue molteplici capacità di autore e di inviato: un concetto ribadito a più riprese da Bettiza nel tirare le fila dell’opera del maestro, come nelle pagine introduttive alla raccolta Biglietti del mattino del 2010. Proprio qui, nei «mattinali di servizio» riordinati da Sandro Gerbi per Aragno, il Bettiza critico sottolinea in questa vocazione multipla del suo autore un segno oltremodo distintivo: «La sua specifica grandezza consisteva e attingeva per l’appunto a quell’impurità pluridimensionale, a quella commistione dei generi, che gli è stata spesso rimproverata dai critici puristi e didascalici, i quali, pur lodandone l’acume, tendevano a vedere in lui una sorta di letterato dimezzato». 1 L’idea di un romanzo impuro, nato dallo sforzo di conciliare il linguaggio di narratore e di articolista, di viaggiatore e di saggista proietta Piovene oltre i suoi estremi cronologici di scrittore, attraverso una lettura che Bettiza sente congeniale per se stesso e per tentare di sondare il peso della letteratura di confine, triestina, tedesca, slava, nella definizione della modernità letteraria:  

Non farei una distinzione, se non di genere [tra romanzo e giornalismo]. Per un esule, quale sono stato, la parola era il solo modo per difendere la mia identità. Sono nato a Spalato. Ho avuto un’infanzia privilegiata. La famiglia era ricca. Un nonno industriale del cemento. Poi la guerra. I rivolgimenti. La rapida fine di un mondo. Il mio mondo. Conoscevo il tedesco, il croato, l’italiano. In casa si parlava veneto. La Dalmazia aveva avuto una lunga storia con Venezia. La marina della Serenissima era composta di istriani e dalmati. Mi aπascinavano le mescolanze di lingue, di storie e di uomini. 2  

Il demone nichilista e distruttivo che infiammava Piovene negli ultimi anfratti di vita e che lo rendeva in parte ben diverso dallo scrittore ra√nato ed elegante delle origini, ha pagato il prezzo di un percorso professionale e umano che, concludendosi con la lenta malattia, ha accentuato i caratteri di una letteratura che deve scendere a patti con la vita e le sue domande, con la realtà e le sue catastrofi. Il Bettiza che legge quelle pagine ha poco del critico quanto dell’amico tradito da una dipartita certa, l’usura psicologica della perdita che si aggrappa agli ultimi lampi vitali, all’ultima scia di vigore intellettuale per denudare sulla carta la malattia e l’estrema investigazione dell’uomo votato ormai alla causa della verità e di un inesausto andare e venire tra gli abissi del mondo. 3 Ecco allora come da una lunga conversazione tra due grandi autori del nostro presente letterario, possa ria√orare il senso forse perduto di quella narrativa, sempre in esilio, che nel suo atavico logorio esistenziale, nella sua fattura composita, marca il distacco con i vuoti cosmici contemporanei:  

Se confronto [alcuni testi di Claudio Magris] con certi passaggi dei romanzi di oggi, che hanno abbandonato Manzoni e discendono senza saperlo da d’Annunzio, ho l’impressione che la grande storia dia fastidio a chi vuol raccontare solo storie minori. Costoro si levano a stento il cappello per Svevo, mentre Saba e Marin, Giotti, Slataper e Michelstaedter, e più in là, nel Veneto occidentale il grande, ignorato e frainteso Piovene, sono dimenticati. Ma io preferisco restare con loro. Della noia e dell’ammirazione stupefatta per quel Cagliostro militarizzato della letteratura che fu d’Annunzio 1

  Enzo Bettiza, Prefazione a Guido Piovene, Biglietti del mattino, cit., p. xi.   Antonio Gnoli, Enzo Bettiza, cit., p. 48.   «Poche volte il niente era stato immaginato, descritto, trafitto, assolutizzato, deriso e infine ripudiato con una simile intensità astrattiva e visionaria nello stesso momento. Intensità rappresentativa sempre nuova, mai libresca, ricreata sempre nel vivo della pagina, sempre violentemente abrogativa delle mezze verità rivelate o consuetudinarie. Il vuoto opaco e assoluto, il vuoto allo stato puro, evocato dallo sdegno karamazoviano di Piovene, finisce, finisce quasi col materializzarsi davanti a lui nel simulacro prismatico e sinistro di un cadavere vivente; un morto paradossalmente più vivo dei terrestri semivivi che esso, prima di ingurgitarli, illude e schiaccia con l’ipotesi di paradisi e inferni inesistenti» (Enzo Bettiza, Il beniamino della morte, in Idem, L’ombra rossa, Milano, Mondadori, 1998, p. 161). 2 3

francesca bottero

222

(Italia novecentesca al cubo) oggi non mi resta che la noia. Fiume meritava più navi e commerci che puttanieri in stivali e “alalà”. 1  

In questo giudizio aspro, quasi risentito, tipicamente ‘bettiziano’, si condensa la stima per un autore di cui, negli schematismi congeniti alla nostra tradizione letteraria, si fatica a comprenderne le peculiarità. Un autore che nella capacità di vagliare con l’occhio dell’osservatore interno, l’ambiguità umana, la diplomazia dei sentimenti, le falsità visionarie, il ripudio nichilistico dell’aldiqua come dell’aldilà – seguendo un elenco caro al Bettiza critico di Piovene – fissa nei grandi temi storico-esistenziali le basi di un’inestinta modernità: Sì, la caccia alla totalità, nella letteratura cui apparteniamo, porta necessariamente all’incompiutezza. A diπerenza dello scrittore italiano, quello di frontiera è adatto a travalicare i confini e rompere le chiusure, favorendo il travaso di un secolo, il Novecento, solo apparentemente concluso. Le cinquecento pagine del mio Fantasma di Trieste, le duemilasette dei Fantasmi di Mosca sono la testimonianza di questa mia ricerca della totalità. Non per titanismo o superomismo, sia ben chiaro. Ma perché altrimenti, secondo me, non si possono più scrivere romanzi seri e credibili. Devono confluirvi vari elementi e generi contrastanti, come la narrazione, la filosofia politica, anche certe forme di giornalismo: nel tentativo di ricreare, dopo l’antiromanzo, il post-romanzo. 2  

1   Dario Fertilio, Conversazione con Enzo Bettiza e Claudio Magris. Novecento il secolo del Male, ancora in cerca di scrittori forti, «Corriere della Sera», 2 aprile 2010, pp. 46-47. 2   Dario Fertilio, Conversazione con Enzo Bettiza e Claudio Magris, cit., p. 47.

IL LIBRO PERDUTO ,

OVVERO LA LETTERATURA DELLA TOTALITÀ Gianni Cimador Conclusa è la strada, iniziato il cammino. György Lukács

I

l libro perduto di Enzo Bettiza attesta, in un momento in cui si è esaurita la spinta propulsiva della modernità, anche il compiersi, con essa, del destino del romanzo che, in termini lukácsiani, rappresenta «l’epopea di un’epoca, per la quale la totalità estensiva della vita non è più data sensibilmente, per la quale l’imminenza vitale del senso si è fatta problematica e che tuttavia ha l’anelito alla totalità». 1 Le due parti del libro traducono una dialettica irrisolta tra la tensione a scoprire e ricostruire la nascosta totalità della vita, così come la intravede un adolescente, e quella a dare un senso al proprio percorso esistenziale dal punto di vista della maturità. Bettiza mette in scena un tentativo di anamnesi, per risalire alle origini della propria identità e realizzare una mimesis dell’Erlebnis, con una forma aperta che aspira a cogliere il divenire nella sua attualità e che finisce per essere costantemente alla ricerca di se stessa, anzi non è altro che questa ricerca, come puntualizza l’autore stesso quando dichiara che «mentre scrivo ho sempre l’impressione di compiere la bivalente operazione estetica di un romanziere che cerca di costruire nello stesso momento il suo romanzo e di ricostruire la storia e la genesi del suo romanzo». 2 La stessa tensione alla totalità e a un’opera assoluta spinge Bettiza a recuperare le forme narrative della tradizione letteraria. L’opera si sviluppa come una Ring Composition, inizia con l’approdo di una nave e finisce con la partenza di un’altra nave, sospese tra due tempi, il 1943 e il 1973, e tra due autunni che segnano l’inizio di una nuova consapevolezza. Se la prima parte assume i caratteri del Bildungsroman o dell’Erziehungsroman, la seconda è un nostos che sancisce una circolarità incompiuta e documenta l’esaurimento del senso dell’esperienza che caratterizza l’uomo contemporaneo e che, come sottolinea Agamben, rende insopportabile l’esistenza quotidiana, in cui si consuma un’esperienza della morte, un’esperienza separata dalla conoscenza. 3 Con le parole di Blanchot, potremmo dire che il tempo è la sostanza stessa del romanzo, ma il tempo di cui parla è un «tempo vuoto», fuori dal mondo, «tempo della solitudine e dell’abisso, che noi possiamo rappresentare, poiché esso sfugge alla sua nozione astratta, soltanto attraverso l’angoscia stessa del tempo». 4 Già all’inizio si proclama questo diverso spessore di un tempo non misurabile nell’immagine della clessidra e nella necessità di infrangerla. Il senso del tempo viene distrutto, i meccanismi mnemonici e psicologici si inceppano e si bloccano, si mescolano passato e presente, che sono qualcosa di impensabile. La realtà è inconoscibile, non esiste. Anche la scrittura è essenzialmente  







1   György Lukács, Teoria del romanzo. Saggio storico-filosofico sulle forme della grande epica (1916), traduzione italiana di Francesco Saba Sardi, introduzione di Lucien Goldmann, Milano, Sugar, 1962, p. 89. 2   Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri. Conversazione con Enzo Bettiza, Milano, Rizzoli, 2001, p. 224. 3  Cfr. Giorgio Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Torino, Einaudi, 1978, p. 11. 4   Maurice Blanchot, Passi falsi (1943), traduzione italiana di Elina Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti, 1976, p. 291.

gianni cimador 224 problematica, continuamente minata dal dubbio sulle proprie possibilità e sulle proprie fonti: la sua essenza è in questa discrepanza, in una dialettica negativa. Per la presenza di generi diversi (il diario, il giallo, il romanzo sentimentale, il romanzo di formazione, il saggio), Il libro perduto riformula l’aspirazione di Bettiza al «romanzo sinfonico» o «totale», nel quale «devono confluire vari elementi narrativi, diversi spunti culturali, molti generi contrastanti, narrazione, saggio, filosofia politica, anche certe forme di giornalismo, nel tentativo di creare, dopo l’antiromanzo, il postromanzo», con una tensione al «momento positivo della ricostruzione» rispetto a quello della distruzione. 1 Per il fatto di presentarsi come un’opera che «è ricerca in atto di se stessa, indagine filosofica colta nel suo divenire», è anche un vero e proprio metaromanzo, come rivela la fictio del libro perduto e poi ritrovato, dei diari che «rispondono al bisogno pratico dell’autore di ritrovare se stesso, dopo la propria nullificazione nell’opera, ma in nessun caso possono figurare in essa». 2 Il romanzo autentico diventa il diario del romanzo, cresce con l’anelito verso un possesso irraggiungibile: l’opera diventa il simbolo di se stessa, non c’è qualcosa di reale al di là di essa e della sua circolarità dove ricerca e scacco sono complementari. In questo senso, anche per quanto riguarda il riutilizzo dei generi, il «romanzo totale» a cui pensa Bettiza, che ammette «l’attrazione per l’incompiuto, per il non finito, per l’opera aperta senza sigillo finale» e per «la sinfonia incompiuta del grande romanzo musiliano», 3 cade nel double bind di quella che Blumenberg definisce la «forma ereditata», 4 per cui, di fronte alla consapevolezza che l’epica e le sue condizioni ideali non sono più possibili e di fronte al venire meno della concreta evidenza dell’Io empirico e della diretta corrispondenza tra essenza individuale e destino, sopravvivono solo tentativi epici di cui non si può fare a meno, senza tuttavia crederci. La forma romanzesca tenta di ricostituire una totalità, ma si tratta di una cattiva infinità, che si confronta con la propria impossibilità e che si può avvicinare piuttosto ai caratteri della tragedia che, come segnala sempre Lukács, «sia pure trasformandosi, ha conservato intatta la propria essenza nel tempo nostro, laddove l’epopea ha dovuto sparire e lasciare il posto a una forma tutta nuova, il romanzo»: 5 la totalità del romanzo è chiusa in se stessa, astratta, e finisce quindi per confermare l’insuperabile abisso tra l’ideale e il dover essere. L’autodissolvimento della forma si manifesta anzitutto nel fallimento della struttura tradizionale del romanzo di formazione, che ha la pretesa di ra√gurare una totalità, e nel fallimento della costruzione identitaria attuata attraverso la memoria con cui si realizza l’unità di personalità e mondo, attraverso un processo di riflessione che porta all’autocoscienza. Salta la «forma dell’avventura», così come l’aveva codificata il romanzo della modernità, il cui contenuto «è la storia dell’anima, che qui imprende ad autoconoscersi, che delle avventure va in cerca, per trovare, in esse verificandosi, la propria essenzialità»: 6 lungo tutto il romanzo Marco Razmilo, sia da adolescente che da adulto, vive in una condizione di perenne dislocazione, mentale e fisica, non si trasforma interiormente, è un personaggio intimamente inaπerrabile, liquido. È lontano il tempo in cui lo spirito trova nel mondo la propria casa, in cui «ogni atto dello spirito acquista significato e pienezza in questa duplicità: totalità nel senso e per i sensi; pienezza, perché l’anima in sé riposa nel corso dell’azione […] perché il suo fare da esso si distacca e, autonomiz 











1

 Cfr. Dario Fertilio, op. cit., p. 214.   Mario Perniola, Il metaromanzo, Genova, Silva, 1966, p. 114. 3   Dario Fertilio, op. cit., p. 229. 4   Hans Blumenberg, The Legitimacy of the Modern Age (1966), Cambridge (Mass.), mit Press, 1985, p. 116. 5   György Lukács, op. cit., p. 70. 6   Ivi, p. 132. 2

il libro perduto, ovvero la letteratura della totalità

225 zandosi, trova un suo proprio centro e attorno a se stesso traccia un cerchio concluso». 1 La vita ha perso l’immanenza dell’essenza in una realtà complessa e informe, dominata dal principio di eterogeneità e da «una specie di invecchiamento precoce dello spirito» che Marco avverte sin dall’inizio del libro, quando vaga in uno stato di sonnambulismo attraverso la città precipitata nell’anarchia con l’arrivo dei tedeschi. Nella sensazione di precarietà, che corrisponde a quella della famiglia di Marco e di una Spalato mai nominata esplicitamente, si acuisce il carattere di non identità degli Illiri, di un limbo anazionale e dall’identità multiforme come è la Dalmazia, «terra che non riuscì mai a coagularsi in una vera nazione compiuta», «metafora virtuale di qualcosa che poteva accadere e non è accaduto», espressione di «un nazionalismo assai strano: un nazionalismo del contrario e del negativo», 2 esasperato dai momenti storici di incertezza. Nel passaggio dalla pubertà all’adolescenza, Marco ha l’impressione di sdoppiarsi. L’inaπerrabilità del mondo circostante si trasferisce all’amico Matej nel quale tutto è contrasto e paradosso e in cui si manifestano il «mistero della dissonanza», l’«inferno della ragione». Tra loro c’è un’attrazione ambigua, legata anche alla parte slava dell’identità di Marco. La madre detesta Matej, vede in lui «un tipico esemplare illirico andato a male», un paleoslavo «fosco e intraducibile». 3 Tasja unisce e nello stesso tempo divide i due, ha i tratti di un efebo adolescente, anch’essa inaπerrabile come i legami di bruciante profondità che si creano in un’età «enigmatica e problematica», quella che «interessa e commuove di più il libro perduto», intesa come età della possibilità, ispiratrice di promesse continuamente rinviate e mai mantenute, prefigurazione del futuro, dove tutto tende a ripetersi serialmente con la stessa irrealtà. Bettiza rappresenta nei personaggi le possibili direzioni dell’esistenza. La guerra estrae l’essenza cupa, violenta della vita, riduce tutti ad automi, in una condizione larvale. Solo la pittura riempie quel vuoto. Marco cerca così la salvezza nella dimensione estetica, nel maestro Perty che tenta una sintesi tra la natura e il sogno della natura:  





Con la tua pittura fantastica e ribelle, quelle angurie volanti, quei luttuosi fili spinati, tu dai l’impressione di voler divorare e vomitare il mondo ancor prima di conoscerlo. Io, con la mia ansia di sapere e di catalogare tutto, vorrei perlustrare lucidamente un mondo odioso prima che la guerra lo inabissi nel nulla. Ecco, è qui la sintonia conflittuale che ci unisce e ci separa nello stesso momento. 4  

In Marco c’è ancora una tensione alla classificazione enciclopedica come nell’eroe dell’epica, ma al mondo dell’epopea che «esprime l’adeguamento dell’anima e del mondo, dell’interiorità e dell’esteriorità, l’universo in cui cioè le risposte sono presenti prima ancora che siano formulate le domande; in cui si danno pericoli ma non minacce, ombre ma non tenebre; in cui il significato è implicito in ogni aspetto della vita e richiede solo di essere formulato, e non già scoperto» si sostituisce il mondo della tragedia che «è la forma letteraria dell’essenza pura, della solitudine e della negazione di qualsiasi vita». 5 È una tragedia senza catarsi, senza riconoscimento, che si riflette anche nelle modalità drammaturgiche del romanzo, strutturato in scene, dialoghi, monologhi. Nell’atto di un dramma non c’è oggettività, non esiste nessuna visione assoluta, i fatti vengono filtrati attraverso il punto di vista dei personaggi, le cose non esistono se non percepite e il loro valore dipende dalla coscienza. Al lettore è precluso ogni accesso diretto alla verità delle cose, le coscienze degli altri non possono essere conosciute che attraverso i loro atti e questi sono per definizione ambigui: di questo  

1

  Ivi, p. 55.   Dario Fertilio, op. cit., pp. 24-25. 3   Enzo Bettiza, Il libro perduto, Milano, Mondadori, 2005, pp. 285-286. 5   György Lukács, op. cit., p. 26. 2

4

  Ivi, p. 185.

gianni cimador 226 mondo Dostoevskij è il nume tutelare, con la sua letteratura che arriva al metaromanzo attraverso l’analisi psicologica. L’eroe in cui si proietta l’immaginario di Matej e Tasia è Ippolit dell’Idiota di Dostoevskij, «è uno come noi, è come il nostro Gavrilo Princip, è l’eterno adolescente ribelle e folle del mondo slavo, consegnato dalla morte prematura e ingiusta al nulla: è lui l’eroe oscuro che ci portiamo sempre dentro». I due giovani si atteggiano a gemelli spirituali del povero tisico russo, mentre Marco controbilancia la lettura di Dostoevskij con quella di Tolstoj: per lui Ippolit è un imbroglione, è «robaccia ortodossa», e Dostoevskij è «un mediocre scrittore sentimentale riscattato da un geniale umorista». 1 La tragica ambivalenza della messa in scena dostoevskijana guidata dalla coppia Rogovskij, che richiama la moda contagiosa della dostoevsčina, l’ondata di suicidi tra i giovani colti di Belgrado, e il finto suicidio di Vasilij, cui assiste Marco, rappresentano un momento culminante della sua adolescenza, proprio come nell’Idiota, dove il vertice viene raggiunto nei momenti di follia e delirio. Intorno al giovane si aggroviglia una matassa di finzioni che invadono e contaminano tutto. Marco è vittima di una pantomima, come lo sarà nella seconda parte del romanzo, nel contesto allucinante della Jugoslavia comunista. Nello spazio della Poljana, che sembra un teatro in disuso, e nella sua vastità si riverbera una visione della storia balcanica come «storia cupa di esaltazioni religiose, leggende, misteri», come «mondo monologante, onirico, larvale» segnato dalla «fissità circolare, intercambiabile, di un’identica monomania autodistruttiva». 2 Il tuπo nella «molle infinità russa» provoca un «capogiro da panico» e implica un «gioco pericoloso», una «mimesi che tendeva a farsi completa e autofaga»; 3 si spalanca un continente spirituale infinito, che produce un eccesso di immedesimazione e di claustromania, una deriva introversa, irresistibile in un mondo magmatico e incantato. Nella Jugoslavia in cui Marco ritorna nel 1973 e dove si svolge la vicenda paradossale del suo trattenimento, il disagio prende forma in una città capovolta e irriconoscibile, nella sensazione di trovarsi in una terra straniera che pure lo attrae, in un labirinto vuoto, dove l’oblio mette radici. È l’epilogo di «una storia incompiuta e fallita». Al posto delle cose è subentrata l’angoscia delle cose:  





Ma era in Illiria, proprio nella nativa Illiria, che il germe preesistente era venuto fuori tutt’intero dalla tenebra alla luce portandolo alla soglia dell’autodistruzione. Quel viaggio alla ricerca dell’adolescente scomparso era in realtà un viaggio di inganno senile. Era lì in Illiria, che si celava da sempre il verme della sconfitta e della disperazione, il fallimento non era che un sinonimo dell’Illiria in cui ora gli pareva di non essere nato. 4  

La «retorica dell’allucinazione», con la sua «viscida ebbrezza della degradazione e della autoflagellazione morale» e con la tendenza a parodiare la realtà fino a dissolverla, sigla il trionfo della menzogna, di «una deformante prospettiva relativistica in cui la verità, mimata e insultata, si vendicò allucinando e vampirizzando uno stesso volto in più volti frantumati». 5 Questa visione paranoica, nullificante, in cui si riflette l’impulso irrefrenabile degli Slavi a infliggersi stragi reciproche, genera narrazioni molteplici che non formano una memoria coerente e condivisa. Di conseguenza ogni personaggio ha una fisionomia indefinibile e metamorfica, a maschere sovrapposte, e sembra ordire inganni nei confronti di Marco: è un’altra tappa della maturità, con la scoperta che Perty, con Matej e Tasja, ha giocato con la verità come si gioca con l’inganno, per sentirsi demiur 

1

  Enzo Bettiza, Il libro perduto, cit., pp. 268-271.   Enzo Bettiza, L’Hôtel Lux, in Idem, Saggi, viaggi, conversazioni, Milano, Rizzoli, 1984, p. 91. 3   Dario Fertilio, op. cit., pp. 33-34. 4   Enzo Bettiza, Il libro perduto, cit., p. 626. 5   Enzo Bettiza, L’Hôtel Lux, in Idem, Saggi, viaggi, conversazioni, cit., pp. 83, 86, 89, 90. 2

il libro perduto, ovvero la letteratura della totalità

227 go. La sensazione di una deriva fantastica e di essere vissuto in un sogno, propria di «una stagione e√mera, senza nome, una stagione incompiuta da lui attraversata con l’aπanno di un fuggitivo», si trasferisce nella maturità e diventa quasi una cifra generazionale. Ci sono più tipi di memoria e allo stesso tempo più tipi di storia, come conferma anche l’incontro con il generale Vinko Razmilović, che ripresenta la tendenza del mondo balcanico alla mitopoiesi e il nesso vischioso fra investigazione e invenzione nella vicenda del «povero Lolez», una pecora nera della famiglia, un anarchico autodistruttivo della terza generazione, «quel composito fenomeno di declino, di ribellione iconoclasta, di ripudio dell’etica capitalista da parte di un rampollo matto del capitalismo stesso»: 1 è proprio il giallo di questo borghese fuggitivo, che si è ucciso nella brughiera, proiezione simbolica dell’anima slava, ad attivare in Marco un processo di anagnorisis, un senso di liberazione da un dolore sordo e ostinato, che deriva dalla consapevolezza della verità ignorata dal mito. Anche Marco si riconosce infatti in quel ramo ‘maledetto’, alternativo e rimosso, di cui non è rimasta traccia negli aπreschi della sua casa, dove c’è la storia di una famiglia borghese di cui il padre Doimo, un illirio con diverse e inconciliabili identità, è l’epigono, e dove possiamo individuare la parabola della imprenditoria borghese in Europa, la misteriosa parentela fra progresso e declino, fra tecnica e catastrofe. Nel vuoto rappresentato dall’assenza del ritratto di Doimo («Non si è accorto che quel vuoto è il mio vero ritratto?») si inserisce Marco che, anche da artista realizzato, continua a vivere in uno stato di trance, come un «sonnambulo veggente», e soπre di una «sindrome da estraniazione», che lo avvicina al personaggio di Hanno nei Buddenbrook di Thomas Mann, vivendo la stessa tragica scissione di una doppia anima borghese e artistica, di una nuova totalità priva dell’innocenza della totalità epica, di un senso di dissonanza che nell’uomo vivente dell’azione si ricomponeva nella costruzione di un destino. In questo nuovo scenario il grande mondo dell’epica non prende più forma nell’azione trasformatrice, ma nell’immaginazione, nel sogno, nell’illusione, in quella condizione che Bloch definirebbe «contemporaneità del non contemporaneo», che produce una disposizione sincronica degli eventi, diversamente dall’epica che è linearità. Il mondo balcanico è l’emblema di questa temporalità sospesa, con il suo cuore tenebroso, con le sue «stravaganze bibliche e apocalittiche» che stimolano la produzione memoriale, fanno sognare. Quando capisce come si gioca la partita, anche Marco si rivela un giocatore più astuto del previsto, inventando una seconda vita, mescolando pezzi e rottami del passato realmente vissuto («Fu così che, a suon di musica, di omissioni, di ricordi obliqui e falsati, il pittore delle realtà nascoste aveva fatto arenare la partita in uno stallo alla periferia della verità ordinaria»). Non c’è più confine tra sogno e memoria, il libro perduto stesso può essere soltanto un sogno. La storia è illusione e anarchia, è un fallimento, una fine, dove la possibilità non è diventata realtà e l’esperienza dell’attualità non è la stessa per tutti, in cui si intrecciano passato e futuro e il presente è sempre sul punto di disintegrarsi, non ha mai una conclusione definitiva. Siamo lontani dalla totalità epica in senso hegeliano, come totalità vivente e inseparata dall’individualità, anche se, come sottolinea Moretti, l’imperfezione delle opere-mondo è il segno che vivono nella storia e rivelano «una discrepanza tra la voglia totalizzante dell’epica, e la realtà suddivisa del mondo moderno». 2 Si tratta di una discrepanza che Marco tenta di ricomporre attraverso la pittura che è metafora della soπerenza della forma, del dolore metafisico del soggetto e della sua tensione alla compiutezza della ra√gurazione, che lo spinge a creare, dal momento che  



1

  Idem, Il libro perduto, cit., p. 437.   Franco Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi, 1994, p. 7. 2

gianni cimador 228 «Solo l’artista che con tanta lucidità ha saputo contemplare dentro di sé la metastasi del caos, che ha saputo assorbirne il lezzo di cadavere e vomitarlo, soltanto lui saprà rappresentarne con potenza adeguata la furia devastante e nullificante: lui sì potrà immortalarsi nell’opera che gli sopravviverà come qualcosa di assoluto, di neutrale, di autonomo alla sua stessa volontà creativa»: 1 è il messaggio che Perty consegna a Marco e in cui Marco si riconosce fino a quando scopre che anche il maestro è un falsario e che non è possibile distinguere in lui la verità dall’inganno. Il ritorno nel mondo slavo, dove le figure dell’adolescenza sono ormai fantasmi, incrementa ulteriormente la sensazione di estraneità e di vertigine, che si ripresenta nel viaggio di ritorno di fronte al campo di reclusione di Goli Otok, emblema della predestinazione al male e alla maledizione che sembra determinare la circolarità delle tragedie balcaniche e che ria√ora con il Comunismo, con la sua pulsione verso la falsificazione semantica e verso la distruzione. Con l’esaurirsi del valore dell’esperienza non ha più senso neppure la funzione della pittura, come indica la scelta finale di Marco di non dipingere più e di ritirarsi ad Aixen-Provence: vengono così siglate la mancanza di una concordanza tra l’interiorità e l’esteriorità, l’incapacità di trovare la forma della coerenza, di riunire e mettere in relazione l’eterogeneità del reale sotto lo sguardo creante della soggettività. Anche nel caso del Libro perduto, possiamo aπermare, con Olivier de Magny, che «privata del sapere, la letteratura è oggi una letteratura del non sapere, dunque una letteratura impossibile, e di conseguenza alla ricerca della sua impossibilità, all’inseguimento di sé stessa, condotta a scegliersi come il suo proprio oggetto». 2 La letteratura mette in campo un gioco pericoloso con la propria morte, dato che «fa finta di distruggersi come linguaggio-oggetto senza distruggersi come meta-linguaggio». 3 Il metaromanzo, con la sua pretesa totalizzante di stabilire una coincidenza tra vita e letteratura e di raggiungere una autocoscienza assoluta, è spinto fino alle sue estreme conseguenze.  





1

  Idem, Il libro perduto, cit., p. 253.   Olivier de Magny, Écriture de l’impossible, «Les Lettres nouvelles», 32, février 1963, p. 131.   Roland Barthes, Letteratura e metalinguaggio (1959), in Idem, Saggi critici, traduzione italiana di Lidia Lonzi, Torino, Einaudi, 1966, p. 67. 2 3

IL PENSIERO POLITICO NEI TESTI DI ENZO BETTIZA Corinna Gerbaz Giuliano

L

e corrispondenze giornalistiche e le opere letterarie dello scrittore spalatino Enzo Bettiza 1 sono permeate da un pensiero politico da cui emergono posizioni chiare e legittime nei confronti di momenti di storia contemporanea. Di conseguenza il contributo di Bettiza, dalla cronaca alla produzione letteraria, è da considerarsi un bacino prezioso di scambi di idee in cui il rapporto tra memoria ed esperienza collettiva funge da leit motiv, da piattaforma concettuale ad una scrittura impegnata (in parte autobiografica) che caratterizza la sua produzione letteraria. Giornalista, corrispondente estero di prestigiose testate italiane, scrittore, politico italiano ed esperto di problemi riguardanti l’Europa orientale e la storia complessa dell’ex-Jugoslavia, nasce a Spalato nel 1927 da una famiglia agiata, plurilingue e multiculturale. Il padre era di origini italiane mentre la madre, nativa dell’isola di Brazza (Brač) era montenegrina e proveniva da una famiglia di origini caucasiche. Bettiza ha vissuto a Spalato fino all’età di diciotto anni e a conclusione della Seconda Guerra Mondiale, in seguito alla nazionalizzazione della fabbrica di cemento, ha abbandonato con la famiglia la sua terra d’origine e si è trasferito in Italia condividendo la sorte di numerosi italiani che hanno intrapreso il faticoso cammino dell’esilio. Il presente contributo cercherà di mettere in rilievo la sua scrittura impegnata attraverso l’analisi di alcuni testi campione quali La primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata 2 ed Esilio. 3 Le opere in questione sono legate da un filo conduttore riscontrabile in un’idea politica che lo scrittore ha del comunismo, un’idea critica mirata a sviscerare i falsi miti legati al concetto di comunismo. I libri sono da considerarsi degli autentici aπreschi dei drammi novecenteschi che hanno interessato la storia dell’Est europeo di cui Bettiza, attento osservatore, è un interprete diretto. Lo scrittore spalatino è venuto a trovarsi a metà strada tra giornalismo e letteratura: ha iniziato come scrittore e grazie al suo primo romanzo 4 è approdato al mondo giornalistico, una professione che a detta dello stesso autore è:  







1   Enzo Bettiza è autore di numerosi saggi tra cui: L’altra Europa. Filologia del revisionismo nei paesi dell’Est, Firenze, Vallecchi, 1966, L’altra Germania. Inchiesta sulla repubblica di Ulbricht, Milano, Longanesi, 1968, Quale Pci? Anatomia di una crisi, Milano, Longanesi, 1969, Il diario di Mosca, Milano, Longanesi, 1970, Milano, Mondadori, 2000, Il comunismo europeo. Una verifica critica dell’ipotesi eurocomunista, Milano, Rizzoli, 1978, Il mistero di Lenin, Milano, Rizzoli, 1982, Via Solferino. La vita del “Corriere della Sera” dal 1964 al 1974, Milano, Rizzoli, 1982, Saggi, viaggi, personaggi, Milano, Rizzoli, 1984, L’anno della tigre. Viaggio nella Cina di Deng, Milano, Mondadori, 1987, Non una vita, Milano, Rizzoli, 1989, L’eclissi del comunismo, Torino, Edizioni La Stampa, 1994, L’ombra rossa, Milano, Mondadori, 1998, Mostri sacri. Un testimone scomodo negli anni del consens, Milano, Mondadori, 2001, La cavalcata del Secolo. Dall’attentato di Sarajevo alla caduta del muro, Milano, Mondadori, 2000, Corone e Maschere. Ritratti d’Oriente e Occidente, Milano, Mondadori, 2001, Viaggio nell’ignoto. Il mondo dopo l’11 settembre, Milano, Mondadori, 2002, Sogni di Atlante. Memorie di un viaggiatore, Milano, Mondadori, 2004, 1956. Budapest: i giorni della rivoluzione, Milano, Mondadori, 2006, L’Archivio del non detto, Milano, Mondadori, 2007, La primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata, Milano, Mondadori, 1989, La fine del Novecento, Milano, Mondadori, 2009. Bettiza è autore anche di romanzi tra cui: La campagna elettorale, Milano, Bianchi-Giovini, 1953, Milano, Mondadori 1987, Il fantasma di Trieste, Milano, Longanesi, 1958, Milano, Mondadori, 1996, I fantasmi di Mosca, Milano, Mondadori, 1987, Esilio, Milano, Mondadori, 1996, Il libro perduto, Milano, Mondadori, 2005, La Distrazione, Milano, Mondadori, 2013. 2  Cfr. Enzo Bettiza, La primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata, Milano, Mondadori, 2008. 3  Cfr. Enzo Bettiza, Esilio, Milano, Mondadori, 1998. 4  Cfr. Enzo Bettiza, La campagna elettorale, Milano, Bianchi-Giovini, 1953; Milano, Mondadori, 1987.

corinna gerbaz giuliano

230

faticosa e stimabile se fatta con scrupolo e serietà, io, giovanissimo l’avevo sposata più per necessità di vita che per autentica vocazione o spirito d’avventura. Mia vera e unica vocazione, venatasi poi di tanti rimorsi, era di scrivere romanzi e saggi, o meglio romanzi saggistici. Letterariamente e cronologicamente non nasco come giornalista che poi scrive un libro, nasco come uno scrittore puro che, per sbarcare il lunario, diventa giornalista. 1  

Oscillando tra le due realtà, quella di corrispondente estero della «Stampa», del «Corriere della Sera», del «Giornale» intento a cogliere attentamente la realtà e di scrittore aπermato, in eπetti, non placa mai del tutto il conflitto interiore. Come sottolinea l’autore spalatino «anzi, via via che il giornalista cresceva e, per così dire, primeggiava sullo scrittore, lo scrittore seppur umiliato non demordeva: esigeva la sua parte di compresenza, incalzava, spesso sopraπaceva il giornalista». 2 Per il giornalista e scrittore Bettiza era necessario allora raggiungere un compromesso che nello specifico si traduce in «giornalismo narrativo, se non addirittura letterario», 3 in una saggistica e prosa riflessiva che di seguito sarebbe divenuta il tratto distintivo di tutta la sua produzione giornalistica. Enzo Bettiza ama definirsi uomo di frontiera. Nascendo in Dalmazia da una famiglia mistilingue e pluriculturale, l’autore si inserisce a pieno titolo nella koinè mitteleuropea, ovvero in quel lembo di terra, crocevia di popoli e culture che è stata l’ex-Jugoslavia, le cui vie d’accesso naturali «hanno da sempre rappresentato “il passaggio obbligato e il baluardo delle strade che conducono all’Europa sudorientale”», 4 rendendo la zona attraente a popoli migratori e a una folta schiera di invasori tanto da creare nel corso dei secoli una storia che  





è in gran parte la storia delle grandi potenze che si sono continuamente contese il dominio dei territori dell’odierna Repubblica [...] Ma è anche la storia della resistenza degli slavi del sud agli attacchi contro la loro indipendenza e il loro carattere nazionale e, nello stesso tempo, della lotta di questi popoli per raπorzare la loro posizione e dei tentativi degli uni di unificare, assorbire o dominare gli altri. 5  

La Dalmazia è stata da sempre un luogo d’incontro (e anche di scontro) di popoli e culture che hanno tessuto un quadro multietnico di cittadinanza. Lo stesso Bettiza ha dichiarato a più riprese di esser rimasto aπascinato da quelle mescolanze di lingue, di storie e di uomini che erano di casa in Dalmazia. Anche il pluringuismo rappresentava una costante del dna dalmato, nella fattispecie spalatino. In casa Bettiza, nella maestosa villa di famiglia, si parlavano il veneto, il tedesco, il serbocroato e l’italiano, indice di un mondo variegato che costituiva il tessuto urbano di Spalato. La componente italiana in città non era tanto forte, nonostante ci fossero stati una lunga storia e fitti rapporti commerciali con Venezia. Nella storia lunghissima e complessa del territorio dalmata la Seconda Guerra Mondiale e il maggio del 1945 segnano un ennesimo spartiacque. A conclusione del Secondo Conflitto Mondiale, i territori di Fiume, dell’Istria e della Dalmazia entrarono a far parte della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, ma i problemi con l’Italia rimasero irrisolti fino al 1947. Seppure in casa Bettiza si parlasse il dialetto veneto e lo stesso autore fosse nato bilingue, lo scrittore fa notare che: fino all’età di sei anni ho parlato, prima dell’italiano, quasi esclusivamente, una lingua slava. Il mio stesso italiano era scarso perché si riduceva al duro e lento dialetto veneto, pieno di slavismi e di 1

2   Enzo Bettiza, Saggi, viaggi, personaggi, Milano, Rizzoli, 1984, p. 12.  Ivi, pp. 12-13.   Dario Saftich, Bettiza, dalla cronaca alla storia, «La Battana», 178, 2010, p. 83. 4   Henry Clifford Darby, Robert William Seton-Watson, Robert George Dalrympl Laffan, et alii, Storia della Jugoslavia. Gli Slavi del sud dalle origini a oggi, a cura di Stephen Clissold, Torino, Einaudi, 1969, p. 13. 5   Ivi, pp. 13-14. 3

il pensiero politico nei testi di enzo bettiza

231

germanismi, che una volta si parlava in Dalmazia. Impadronirmi della vera lingua italiana, riuscire a scriverla bene, è stato quindi per me uno sforzo non indiπerente. Il serbocroato, con la sua complessa struttura sintattica, si sovrapponeva all’italiano che sovente, nella mia bocca o sotto la mia penna, assumeva il ritmo un po’ falso, un po’ alterato, di una traduzione macchinosa. 1  

La padronanza della lingua italiana, perfezionata durante il periodo che l’autore definisce «esilio scolastico» 2 trascorso a Zara, gli ha permesso, nel periodo dell’esodo, di fare della parola (italiana) 3 il solo modo per difendere la propria identità. 4 A√nando lo strumento linguistico che avrebbe fatto in seguito la sua fortuna, Bettiza diventa in primis uno scrittore di lingua italiana e poi un giornalista. Le attività di corrispondente estero lo hanno condotto in diverse parti del mondo: nei paesi dell’Est europeo, in quelli dell’Europa occidentale, in Asia e nelle Americhe. Le sue accurate e taglienti indagini condite da una lucidità percettiva e da un linguaggio schietto lo hanno portato a cimentarsi nelle analisi di questioni internazionali e negli editoriali di carattere ideologico. Obbiettivo principale del giornalista e autore spalatino era sì di annotare scrupolosamente la cronaca, in particolare nei paesi dell’Europa orientale, ma il fine ultimo da raggiungere era quello di combattere il comunismo considerato «come il peggiore dei mali politici». 5 Bettiza ha avuto da sempre un rapporto di amore-odio con il comunismo in quanto è stato proprio il comunismo di Tito insieme agli orrori della guerra ad allontanare la sua famiglia da Spalato. Giunto in Italia, si era avvicinato al comunismo e aveva aderito al movimento per poi distaccarsene e prevederne tutti gli eπetti devastanti. Nella Primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata Bettiza ripercorre il vissuto da inviato del «Corriere della sera» di quei momenti incandescenti della rivoluzione bianca che passerà alla storia con il nome di «Primavera di Praga». Il movimento, prima culturale e poi politico, si sviluppa nella Cecoslovacchia comunista a partire dall’estate 1967 quando si leva la protesta dei partecipanti al vi Congresso degli scrittori a Praga (giugno 1967) che chiedono la libertà di stampa e accusano il regime comunista per gli abusi commessi in passato. Sulla scia delle contestazioni studentesche e in generale delle masse che si erano espanse a macchia d’olio in tutti i continenti, la Cecoslovacchia cercava di svincolarsi «dai despoti del comunismo sovietizzato. Era la faccia più intensa, alla fine più disperata, del ’68 europeo» 6 annota Bettiza. L’intellighenzia cecoslavacca aveva colto i segnali di un inasprimento della politica sovietica e aveva promosso notevoli cambiamenti politici che avrebbero inaugurato una serie di riforme. La prima conseguenza fu il cambio della guardia a Segretario generale del Partito comunista cecoslovacco. Bettiza dipinge Alexander Dubček 7 quale «riformatore cauto e moderato: un leninista ragionevole, uno slovacco pacato, amico dei russi, ex allievo disciplinato e leale delle scuole partitiche» 8 che aveva da sempre promosso un revisionismo morbido, anche se aveva dato ascolto alla spinta della masse operaie e degli intellettuali «promettendo come alibi ideologico il miraggio di un “socialismo dal volto umano”». 9 Lo scrittore spalatino ripercorre nel lunghissimo capitolo intitolato Dalla crisi all’occupazione l’evolversi della  















1

  Enzo Bettiza, Saggi, viaggi, personaggi, Milano, Rizzoli, 1984, p. 13. 3   Enzo Bettiza, Esilio, Milano, Mondadori, 1998, p. 49.  N.d.A. 5   www.repubblica.it/cultura/2015/01/04/news/enzo_bettiza-104260529.   Ibidem. 6   Enzo Bettiza, Primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata, Milano, Mondadori, 2010, p. 13. 7   Il nome di Alexander Dubček (Uhrovec, 1921-Praga, 1992), esponente politico cecoslovacco, è legato alla Primavera di Praga e al cosiddetto processo riformatore della politica cecoslovacca. Dubček fu un grande sostenitore del processo rinnovatore del partito comunista. Successe a Novotný nella carica di primo segretario del Partito. Il processo riformatore si interruppe con l’invasione sovietica del 20 agosto 1968. Fu arrestato insieme ad altri esponenti politici cecoslovacchi e portato al Cremlino. Nel 1989 ritornò a calcare la scena politica, e partecipò alla manifestazioni popolari che portarono alla caduta del regime. Nel dicembre del 1990 fu eletto presidente dell’Assemblea federale cecoslovacca, ruolo che ricoprì fino al 1992. 8   Enzo Bettiza, Primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata, Milano, Mondadori, 2010, p. 15. 9   Ivi, p. 18. 2

4

corinna gerbaz giuliano 232 Primavera di Praga che nella notte del 20 agosto 1968 segnerà la fine delle aspirazioni del partito e di buona parte della popolazione cecoslavacca. Il testo, di carattere saggistico, che presenta tutti i retroscena del ’68 in Cecoslovacchia, mette il luce il Bettiza giornalista e scrittore impegnato che però non riesce a farne a meno dell’autobiografismo. Particolare attenzione desta il passo in cui l’autore descrive l’arrivo del maresciallo Tito a Praga. Acclamato dalla folla, Tito giunge a Praga «non solo nella veste di un capo di Stato, ma anche di quella di presidente della scismatica Lega dei comunisti jugoslavi». 1 Alla base della rottura con il Cominform, avvenuta nel 1948 stava, secondo il Partito Comunista Jugoslavo (pcj), lo sfruttamento economico compiuto dall’urss ai danni degli altri paesi del blocco sovietico attraverso il commercio internazionale. Poiché un paese imponeva agli altri paesi socialisti rapporti economici fondati sullo scambio capitalistico di merci, si dedusse che le cause di tale comportamento dovevano trovarsi necessariamente nelle strutture interne del paese. La politica promossa da Tito aveva ottenuto un’eco inviadiabile nella maggioranza dei paesi dell’Est europeo. Risulta chiaro perchè nel bel mezzo dei disordini della rivoluzione bianca l’arrivo del Maresciallo jugoslavo fosse tanto atteso. A smontare, però, la visione dell’immaginario collettivo sulla figura di Tito ci pensa Enzo Bettiza che ne propone una visione diversa:  

noto per la sua vanità [...] di porsi al centro di raggruppamenti regionali eterogenei [...] il presidente jugoslavo vorrebbe finire la sua fortunosa carriera con quella che da tempo è la sua aspirazione massima: una leadership di una costellazione minore, neutralista, antibloccarda nell’Europa danubiana. Una sorta di sogno asburgico in chiave comunista. 2  

Il discorso di Tito al pubblico di Praga non ottenne il successo sperato. L’indomani venne indetta una conferenza stampa soltanto per i giornalisti jugoslavi e cecoslovacchi a cui Bettiza, giornalista italiano, partecipò grazie all’aiuto di un amico cronista jugoslavo e grazie, soprattutto, alla sua ottima conoscenza della lingua serbocroata. La presa di coscienza di questo sua anima duplice l’autore spalatino l’aveva avuto già mentre si trovava a Mosca e proprio in quell’occasione la sua anima slava è ria√orata da un cantuccio remoto della coscienza. Anche in Esilio l’autore prende coscienza della sua identità duplice, di quella dichiarata origine italiano-slava nella quale confluiscono le esperienze di vita vissute tra la madre montenegrina e il padre italiano. Lo scrittore si riappropria della sua condizione di uomo di frontiera attraverso un importante e doloroso scavo memoriale. Per troppo tempo egli aveva rimosso la sua vera natura di uomo plurilingue e pluriculturale. È stata la guerra in Croazia, l’ultima sanguinosa guerra dei Balcani, a spingerlo a recuperare il tempo perduto e a fissare sulla carta quei ricordi relegati nel subconscio troppo a lungo. Scrive Anna Storti Abate che è proprio attraverso questa operazione di recupero memoriale che lo porta a riconoscere e ricostruire, dentro di sé, la componente serba e ortodossa della sua composita formazione culturale, come se volesse riuscire a capire, empaticamente, le ragioni e la natura di azioni politiche e militari feroci e violente, che sul piano morale non poteva che condannare. 3  

Bettiza non resiste difronte allo scempio compiuto dall’esercito regolare jugoslavo contro gli antichi monumenti di Ragusa (Dubrovnik) e all’accanimento dei cannoni decide di non tacere e denuncia quei fatti all’ Occidente distratto. Si mette all’opera e compone la saga autobiografica cui fanno da sfondo i cambiamenti politici, storici, sociali, antropologici e identitari avvenuti in Dalmazia nel ventesimo secolo. La coscienza di sé diventa 1

2   Ivi, p. 77.   Ivi, p. 78.   Anna Storti Abate, L’Esilio di Enzo Bettiza, «La Battana», 160, 2006, p. 167.

3

il pensiero politico nei testi di enzo bettiza

233 direttamente proporzionale con il dilagare della ferocia di quello che Bettiza chiama il ‘morbo serbo’ e ribadisce: I truci fragori dello stupro culturale sferrato dalle artiglierie serbe contro gli spalti di Ragusa, avevano, non so come, acceso quasi per sintonia colpevole dentro di me una sorta di rimorso e di pentimento. Quei colpi di cannone e di mortaio non mi facevano sentire in regola né con la memoria né con la coscienza. 1  

Anna Storti Abate rileva una concomitanza tra la distruzione dei monumenti e l’intimo dell’autore tanto da aπermare che si fa strada nella sua mente la consapevolezza di essere stato egli stesso responsabile, fino a quel momento, di un “memoricidio”per “aver tentato di estirpare a poco a poco dalla memoria il variegato microcosmo di frontiera in cui era nato e dal quale era partito”. 2  

Al di là dello scavo memoriale che riporta l’autore a riconoscere e riappropriarsi di quella radice slava a lungo repressa nell’intimo della sua anima emergono forti e chiare le denunce all’attacco serbo nei Balcani. Come fa notare Cristina Benussi «Bettiza non può giustificare chi vuole cancellare i reperti artistico-archeologici di una civiltà che resta parte integrante della storia della Dalmazia». 3 L’autore aveva cercato di rimuovere i ricordi, di cancellare quasi dalla memoria l’identità originaria, legata alla terra d’appartenenza duplice e variegata, ma non ci riesce, la voglia di giustizia prende il sopravvento. La sua condizione di cittadino del mondo, le sue esperienze politiche iniziali, i suoi successi professionali lo avevano portato, per molti versi a tagliare i ponti con il passato lasciandogli dentro un vuoto tale da procurargli addirittura un malessere fisico. A rompere questa sensazione di malessere e a colmare il vuoto ci si mette l’impegno sul fronte della verità e della libertà, una missione, la sua, che si misura e punta il dito contro tutti i mali in generale. Il giornalista si butta a capofitto per comprendere la natura del male, un male orchestrato intento a colpire chi la pensa diversamente e che persegue altri ideali rispetto all’idea della Grande Serbia promossa dall’esercito regolare jugoslavo. Di fronte all’operazione di memoricidio Bettiza fa uscire allo scoperto non solo le sue memorie d’infanzia, ma anche tracce molto più profonde, quasi ataviche, del suo animo. Ancora una volta emerge l’aspirazione bettiziana alla libertà e alla democrazia, all’obbiettività e alla descrizione fedele della realtà in cui l’autore si misura «con consapevolezza e razionale avversione» 4 a quel fiume di odio che esploderà in contemporanea a tutti gli odi continentali, attizzati in particolare dai regimi totalitari. La sua risposta all’esplosione di passioni sarà ancora di tipo politico, ideologico e di massima condanna.  



1

  Enzo Bettiza, Esilio, Milano, Mondadori, 1998, p. 9.   Anna Storti Abate, op.cit., pp. 166-167.   Cristina Benussi, Storie e memorie letterarie, «La Battana», 160, 2006, p. 56. 4   Marcello Sorgi, Prefazione, in Enzo Bettiza, Corone e maschere. Ritratti d’Oriente e Occidente, Milano, Mondadori, 2001, p. vi. 2 3

KEZICH TRA SVEVO E JOSEPH ROTH: LA CRUDELTÀ DELLO SCRITTORE Raffaele Cavalluzzi 1. Il ‘Saggio’ di Kezich su Svevo

L

’in crocio multietnico nelle origini del dalmata-triestino (il nonno era stato Kaiserjaeger nella Prima Guerra Mondiale) Tullio Kezich, critico cinematografico e scrittore di tv teatro e cinema tra i più brillanti della seconda metà del Novecento, lo autorizza giustificatamente a sentirsi erede – pur con «una vera passione italiana» (Cosulich) – del sentimento dell’utopia unitaria della tragica Mitteleuropa di inizio secolo, e però dopo il trionfo e la catastrofe del Primo Grande Conflitto, a un’altra svolta drammatica della storia della sua regione, la Seconda Guerra Mondiale – quando Trieste aveva conosciuto l’occupazione di Tito –, interprete anche del conseguente disincanto critico. Kezich, tale disincanto, lo avrebbe colto fondamentalmente nella rappresentazione a teatro e in televisione della Coscienza dello Zeno sveviano con il romanzo e altre pièce, e nella narrazione dello sdoppiamento autobiografico che ne evidenzia tensioni e, a un tempo, lacerazioni, particolarmente attraverso l’impianto originale e la stesura del saggio su Svevo. 1 Premessa – non casualmente –, al fondo della nota di introduzione al libro, l’evocazione della folta schiera dell’«esercito spettrale del passato» – il ‘mondo’ defunto dei contemporanei dello scrittore –, Svevo e Zeno vi appaiono «come profeti di “serena disperazione” (per chiamarla come un altro grande ebreo triestino) sullo sfondo della loro città straziata e depauperata, fra genitori, mogli, suoceri, cognate, cognati, cugini, cugine, nipoti, amici, conoscenti che formano tutti insieme» 2 quell’esercito. La ricostruzione delle due biografie è graficamente fatta scorrere – nel libro – su due fasce parallele di scrittura – verticali e distinte – dei dati scanditi dagli anni e dagli eventi principali della storia cittadina di Trieste, e non solo, che dal 1857, immaginato come anno di nascita di Cosini, giunge al settembre 1928, mese e anno della drammatica scomparsa del suo Autore. Il personaggio di Zeno, nelle pagine di Kezich, è più di un fantasma letterario, e sembra del tutto fisicamente autonomizzato sin dall’origine, raccontandosi come fosse nato da famiglia benestante in una villa alla periferia di Trieste. Intanto Svevo ricorda come Aron Hector Schmitz, nella realtà del 19 dicembre 1861, nacque a sua volta da famiglia ebraica di facoltosi commercianti. I due personaggi, dunque (anche Svevo, evidentemente, lo diventa nel corso del saggio), sono accomunati dalla medesima condizione sociale. Tuttavia, nella prima giovinezza, Schmitz-Svevo matura la vocazione letteraria, e, all’ombra di una persistente ‘malinconia’, diventa sempre più acuta la sua crisi esistenziale, mentre, per Cosini, il tempo scorre quasi nella banalità quotidiana, tra la prematura morte della madre e l’ossessiva dipendenza dallo stimolante fumo del tabacco. Kezich, frattanto, segnala eventi di grande rilievo simbolico a circoscrivere le due storie: il 1876, anno del primo approdo a Trieste dello studente Sigmund Freud per una ricerca sulle go 



1   Tullio Kezich, Svevo e Zeno, due vite parallele. Cronologia comparata di Ettore Schmitz (Italo Svevo) e Zeno Cosini con notizie di cronaca triestine ed europee, Prefazione di Claudio Magris, Milano, Scheiwiller, 1970 («All’Insegna del pesce 2 d’oro»).   Tullio Kezich, Svevo e Zeno, due vite parallele, cit. p. 11.

kezich tra svevo e joseph roth: la crudeltà dello scrittore

235 nadi delle anguille, 1 e il 1878, il momento delle prime dimostrazioni e proteste di piazza in Italia sul tema dell’irredentismo. Un decennio più tardi (1890), nella vicenda immaginata di Zeno dopo la morte particolarmente traumatica del padre, diventano decisivi prima l’incontro con la famiglia delle quattro sorelle Malfenti, poi l’innamoramento per la bellissima Ada, e infine l’improvvisa e inopinata scelta di sposare la sorella maggiore, la scialba Augusta. L’anno successivo è quello, invece, reale dell’abolizione del portofranco per Trieste con l’angosciato, ma lucido commento del quotidiano cittadino «Il Piccolo». Frattanto, il romanzo di Cosini evolve intorno al matrimonio di Ada con Guido Speier, le traversie economiche che accompagnano il sodalizio di costui con il protagonista, la relazione di Zeno con la cantante Carla Gerco, la grave malattia che aggredisce l’ancora amata Ada, e il suicidio di Guido. E nel 1896 Ettore Schmitz, che, intanto, dopo il fallimento paterno era passato alle dipendenze della Banca Union di Venezia, aveva esordito nelle lettere con alcuni racconti, aveva firmato con lo pseudonimo di Italo Svevo il suo primo romanzo, Una vita, e lavorava a un secondo che prenderà il titolo di Senilità, sposa Livia Veneziani, figlia di una sua cugina dal lato materno della famiglia, ed erede del ricco industriale Gioacchino Veneziani, dal suo canto «inventore di una formula chimica segreta per le vernici sottomarine» che farà la fortuna internazionale della ditta coinvolgendovi felicemente lo stesso scrittore. Nel febbraio 1896, pochi mesi prima delle nozze, mentre Svevo, anch’egli schiavo come il suo personaggio del vizio della sigaretta, promette alla sua fidanzata (e Kezich lo rileva da numerose sue pagine autobiografiche) di «smettere il fumo», Cosini, per ‘sviziarsi’, dietro il consiglio di Augusta, accetta di «farsi rinchiudere per qualche tempo in una casa di salute». Nel contempo, Guido della Coscienza era stato immaginato come rovinato dal gioco in borsa, ma, pochi anni dopo, rispetto a quelli riscritti nel romanzo, è Schmitz che in realtà comincia a giocare in borsa per sanare il debito di un amico, così via via sempre più arricchendosi, e continuando ancora però con la sua passione per le lettere, considerata la pubblicazione del suo secondo romanzo, Senilità. Kezich ricorda quindi che il 6 giugno 1900 lo scrittore, in una lettera a Livia, le rivelerà: «Sai ad onta che io sia tutto intento a divenire nel più breve tempo possibile un buon industriale e un buon commerciante, io di pratico non ho che gli scopi. Resto sempre dinanzi a un nuovo oggetto l’antico sognatore», sebbene un anno dopo (dicembre 1901), in una pagina di diario dichiari: «Io, a quest’ora e definitivamente, ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura» (così ironicamente postillata da Livia: «Per non cedere alla tentazione di scrivere si dedicò con assiduità al violino»). Intanto la ditta Veneziani internazionalizza sempre più il suo mercato e Svevo la sua vita, mentre tra il 1902 e il 1907 cresce la tensione tra Innsbruck, Trieste e l’Istria. A ventitré anni, poi, il suicidio, nel 1903, di Otto Weininger, filosofo e antropologo, ma anche grande studioso della sessualità femminile, anticipa da giovanissimo le modalità della fine, nel romanzo, di Guido Speier (che, mediato evidentemente dallo scrittore, con Weininger avrebbe avuto, per le donne, qualcosa in comune). Kezich non può che sottolineare, più avanti, che, accanto ancora a Weininger, continua a europeizzarsi la sua cultura in virtù dell’incontro, nel 1907, con James Joyce, e soprattutto la conoscenza, problematica, della nuova scienza della psicoanalisi di Sigmund Freud (più tardi, dopo la guerra, l’interesse di Svevo si rivolgerà verso i letterati francesi Valery Larbaud e Benjamin Cremieux, e, più decisamente che nel passato, verso la cultura italiana contemporanea). Nel romanzo La coscienza di Zeno di Svevo-Schmitz, poco tempo dopo la cura reale del  

1   Su Svevo e la psicanalisi cfr. Giacomo Debenedetti, Svevo e Schmitz, in Idem, Saggi critici. Seconda serie, Milano, Il Saggiatore, 1971, e Mario Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Torino, Einaudi, 1975.

raffaele cavalluzzi 236 cognato Bruno a Vienna presso Freud, è segnato l’inizio – immaginato nel 1914 – del trattamento psicanalitico di Zeno presso il Dottor S. A questo punto per Kezich date di storia e date del racconto (che tornerà indietro, come si sa, nella narrazione, a partire dagli anni della giovinezza del protagonista) s’incrociano, si accavallano, slittano le une sulle altre, con un solo punto fermo: lo scoppio della disastrosa Prima Guerra Mondiale. Gli eventi bellici, tuttavia, volgono, nel procedere della scrittura del romanzo e delle vicende narratevi, a evidenziare sempre più, nella coscienza del protagonista, la centralità delle relazioni familiari: così come avviene, fa intendere Kezich, nelle testimonianze sulla propria vita consegnateci per quel periodo da Italo Svevo. Solo che la storia esemplarmente mediocre – ma non per questo povera di sulfurei umori – di Zeno ritornerà al «simulacro di attività» di sempre, mentre Svevo, il 25 settembre 1925, vedrà porsi un sigillo problematico alla sua geniale, ma anche ironica, rievocazione del ruolo rivoluzionario della psicoanalisi, nella letteratura più che nella vita, dal xvii Congresso italiano di freniatria che si terrà a Trieste, e che vedrà contrapporsi, come avveniva spesso in quella fase, Freud e gli scienziati ‘organicisti’, psicanalisti e psichiatri. Infine, con la beπarda casualità del tragico incidente d’auto che in poche ore porta alla morte (il 13 settembre del 1928) l’ormai aπermato romanziere, si chiude il racconto di Kezich, riconducendo la vicenda all’abbraccio della quotidiana dimensione di emotività e di dolore della sua città e dei suoi conterranei. 2. Multietnicità, autobiografismo, sdoppiamento L’umore cittadino di quella provincia di confine, che neppure la guerra aveva sciolto dai suoi ambigui e però fecondi legami, rivela, quindi, in Kezich, l’interesse preminente, attraverso Svevo-Cosini, di un contenitore antropologico e non solo linguistico (la multietnicità) attraverso il disegno quasi ossessivo dello sdoppiamento (Ettore Schmitz-Italo Svevo, prima; Italo Svevo-Zeno Cosini, poi). L’autobiografismo dei romanzi di Svevo, e soprattutto della Coscienza di Zeno, colpisce nel profondo la regionalità di Kezich, e gli rivela la particolare crudeltà o «serena disperazione» dello scrittore che percorre questa strada di gravosa verità con sempre più costanza nel tempo della modernità. 1 Per Svevo, infatti, l’autobiografismo letterario, con la carica appunto di questa sorta di lukacsiana spietatezza, non significa guardarsi passivamente allo specchio, bensì oggettivare con accorata sintonia la realtà per via dell’ambigua figura dello sdoppiamento. E la multietnicità, nello sdoppiamento, trova a sua volta un’altrettanto e√cace forma di espressione letteraria. Il caso di Ettore Schmitz, poi Italo Svevo, incontra così la misura di quella peculiare crudeltà (impersonalità) del realismo in Zeno Cosini; e Kezich forse sente l’attrazione di Svevo proprio tramite la complessa verifica del doppio. Del resto, per Kezich, nei suoi multiformi interessi culturali, sarà poi anche il rapporto con Joseph Roth a costituire un altro momento, in questo senso specificamente significativo, in virtù della sceneggiatura scritta a quattro mani con l’autore per il film di Ermanno Olmi La leggenda del santo bevitore nel 1988, e con l’autobiografismo tragico del racconto trasposto nella pellicola. C’è da dire che già in Svevo la componente religiosa (ebraismo) si manifesta con sottile incidenza identitaria: ne sono prove evidenti la me 

1   Del resto, nell’Introduzione ai suoi Saggi sul realismo, György Lukàcs acutamente scriveva: «Uno scrittore realista della statura di un Balzac, quando l’intimo sviluppo artistico delle situazioni da lui riposte e delle figure da lui create vengono in contraddizione con i suoi pregiudizi più cari e con le sue più sacre convinzioni, non esiterà un istante a metterle da parte e a scrivere ciò che egli vede in realtà. // Questa crudeltà di fronte alla propria immagine soggettiva del mondo, è la più profonda etica letteraria del grande realista, ben diverso in ciò dai piccoli scrittori, i quali riescono quasi sempre a conciliare la propria concezione del mondo con la realtà, ossia a imporre quella alla immagine corrispondentemente contraπatta e alterata dalla realtà» (György Lukàcs, Saggi sul realismo, Torino, Einaudi, 19763, p. 21).

kezich tra svevo e joseph roth: la crudeltà dello scrittore

237 diazione del destino filiale in occasione della morte del genitore nella Coscienza di Zeno, e poi quella aπollata parentela rilevata da Kezich nel su richiamato saggio, e la intensa amicizia cittadina che lo accompagnò per tutta la vita sino alla fine. In modo analogo, sebbene la sua origine ebraica sia ben diversa dalla religiosità cattolica del protagonista della Leggenda, Roth fa riferimento a quella medesima componente per raccogliere in unità la multietnicità. 1  

3. La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth Per Joseph Roth, austriaco di confine (della Galizia, vicina al territorio russo), il 1939 fu l’anno in cui, esule a Parigi a causa delle persecuzioni naziste, egli lavorò alla Leggenda, sua ultima opera narrativa uscita postuma: in quello stesso anno infatti morì, prostrato da una condizione acuta di alcolismo e di depressione (accentuatasi alla notizia del suicidio dello scrittore Toller). La leggenda del santo bevitore 2 dal suo canto è un piccolo gioiello, un racconto dai risvolti autobiografici rilevabili dallo stato di abbattimento psicologico del protagonista Andreas Kartak, dopo una tragica vicenda passionale, dalla sua dipendenza ossessiva dall’alcol, dalla povertà vissuta tra «sciagurati» (sentiti però come «fratelli» e «compagni di sventura») sotto i ponti della Senna, nel buio della sera che si contrappone ai lampioni argentei della «gaia notte di Parigi». Tutto rimanda, com’è evidente, alla tristissima, estrema vicenda della vita dell’autore che, in un passaggio, sembra appunto fermarsi a vedersi emblematicamente sdoppiato nel suo personaggio in un’immagine allo specchio. Tuttavia, man mano, nel racconto, si profila anche un radicale riscatto da un’esistenza degradata, e, tramite la devozione che insorge improvvisa e felicemente assurda per la santa di Lisieux (la piccola Teresa), addirittura la conversione religiosa, culminata il giorno del suo compleanno con il pagamento del debito promesso all’inizio a una sorta di misterioso messaggero della salvezza, e finalmente, in chiusura, in un attimo, con «una morte così facile così bella» perché improvvisa. L’evento risolutivo era stato intanto preparato da una catena di sorprendenti miracoli, propiziati soprattutto dall’apparire, sui margini del fiume, di quell’anziano, distinto ed enigmatico signore, che oπre al vagabondo duecento franchi con l’impegno di restituirli la domenica successiva alla statua di Santa Teresa venerata nella chiesa di S. Maria di Batignolles. Tuttavia, nonostante ‘la grazia’ si fosse posata su di lui, Andreas non abbandona né i pernod né le donne, mentre, segno di un’angoscia esistenziale che si va mutando in ansiosa conquista della trascendenza, per lui la paura si materializza una volta, intensa e con una forza metafisica, nella solitudine di una scena vissuta in una camera d’albergo, prima di immergersi, aprendo una porta che sembra evocare il mistero, in un salutare lavacro di una luccicante toilette. Peraltro, questo suo stupefacente scorcio di vita – tra immanenza della perdizione e sussulti dello spirito verso il riscatto – è accompagnato non a caso dalla tenerezza di incontri con alcuni emblematici personaggi femminili: Gabby, la ballerina-prostituta, che spicca per ambiguo attaccamento e sensualità tra le femmine facili delle sue avventure; Caroline, l’amante ritrovata e poi di nuovo persa della sua passione («pallida, gonfia, col respiro pesante, dormiva il sonno mattutino di una donna che invecchia»); l’anonima, deliziosa giovane commessa di negozio che in un attimo sembra innamorarlo; la piccola Teresa, che si confonde, nella sua mente dolcemente eccitata, con  

1   Su Svevo e ‘lo spirito ebraico’ cfr. Giuseppe Antonio Camerino, Italo Svevo e la crisi della Mitteleuropa, Napoli, Liguori, 2002. Dell’Europa, poi, «Nei suoi romanzi – rileva Claudio Magris – Roth ra√gura tutto lo smarrimento, il disordine dei sentimenti e la nichilistica disperazione subentrati negli animi dopo lo sfacelo dell’Impero» (Claudio Magris, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino, Einaudi, 1963, p. 277). 2   Joseph Roth, La leggenda del santo bevitore, Milano, Adelphi, 2013.

raffaele cavalluzzi 238 l’apparizione della Santa che va riconducendolo a Dio. Nel contempo lo stile passa dal realismo poetico (da Francia del Fronte popolare), rappresentato particolarmente dalla figura di un casuale amico, l’ex-minatore Woitech (poi pugile nel film) e dalla taverna di Tari-Bari, al surreale, che aleggia su tutto il racconto, collocandosi tra il personaggio del generoso signore ‘grassissimo’ che una volta si oπre d’aiutarlo e l’atmosfera carica di tensione spirituale della chiesa di Batignolles. 4. Kezich sceneggiatore del film di Olmi Kezich dunque si avvicina a questo Roth estremo tramite il regista Ermanno Olmi, e conosce Olmi a Venezia al tempo in cui questi stava per mettere mano al Sergente nella neve di Rigoni Stern. Ne riceve una prima proposta di sceneggiare con lui un film a episodi sul tema del lavoro (un Paisà da percorso rovesciato, dalle Alpi alla Sicilia), e con lui fonda una società di produzione, la ‘22 dicembre’, cui partecipa la potente azienda elettrica della Edison. E Kezich è colpito dal grandissimo talento tecnico di Olmi, che si era già aπermato, con eccezionale sensibilità, con Il posto (1961). Ma, ancor più, lo colpiscono certi caratteri stilistici del suo cinema, fatto di ‘tempi larghi’ (non all’americana) e di toni bassi, specie nelle performance degli attori sfidati da una macchina da presa che legge nel pensiero. Per il vero, alla Leggenda del santo bevitore di Roth pensò per prima la moglie Lalla che lo propose al regista, e questi, accettando, chiamò a collaborare alla sceneggiatura lo stesso Kezich, già critico cinematografico tra i più aπermati. Claudio Magris di Roth ha posto in rilievo la ‘desacralizzazione della vita’ colta da uno ‘sguardo religioso’, il quale dalla disperazione, nella sconfitta, dell’esercito austroungarico è portato a considerare la fine dell’Europa (come ha visto Pietro Citati). E la storia ormai come una caduta senza limiti. A Parigi lo scrittore intensifica la sua battaglia contro i potenti a favore dei disgraziati emigrati politici, dei più poveri e indifesi. Dal suo canto, la dimensione metafisica c’è, ma è quasi impalpabile: è interiorizzata poi proprio dagli sceneggiatori del film, che in questo modo rifanno il racconto seguendo il percorso con eccezionale sensibilità. 1 Dato questo risultato, è impossibile separare il distinto ancorché convergente contributo dei due sceneggiatori. D’altro canto Kezich ci teneva a porre in rilievo la diversa misura dell’e√cacia artistica della scrittura di Olmi rispetto alla sua, dichiarata per modesta: egli, in un’intervista al regista 2 rivelava che, come critico cinematografico, la sua dote era ‘guardare’ piuttosto che ‘creare’ un film. Tuttavia La leggenda del santo bevitore è firmata a pieno merito anche da lui, e forse non ha valore secondario la percezione del doppio nell’autobiografismo di Roth, a sua volta alimentato dalla sua drammatica personalità multietnica: è qui più che mai presente, allora, Kezich. Infatti la trasposizione del testo letterario nel film è tutt’altro che meramente illustrativa, ed è invece assolutamente fedele alla fonte per la coincidenza delle distinte e diverse poetiche (tra Roth e Olmi), con un’accentuazione della fenomenologia di carattere spirituale. E certamente, le peculiarità di Olmi grande regista stanno ad esempio nella capacità di individuare il tempo storico della Parigi degli anni Venti-Trenta anche attraverso un uso particolarmente evocativo, nella colonna sonora, delle musiche di Stravinskj; oppure quelle peculiarità consistono nella magia che è propria del linguaggio olmiano e che aleggia intensamente nel film grazie a un ‘tempo’ che potremmo dire ‘deleuziano’ del mistero (un tempo soggettivo del regista invece di quello rappresentato), accompagnato da  



1  Cfr. Claudio Magris, Prefazione a Tullio Kezich, Piero Maccarinelli, Da Roth a Olmi. La leggenda del santo bevitore, Siena, Nuova immagine cinema, 1988. 2   Tullio Kezich, Tra Olmi-pensiero e Olmi-metodo. Breve frammento di un lungo dialogo, in Tullio Kezich, Piero Maccarinelli, Da Roth a Olmi, cit., pp. 142-157.

kezich tra svevo e joseph roth: la crudeltà dello scrittore

239 un originale adattamento delle luci e da una misurata scansione dell’azione, e «attento al linguaggio segreto del film, che è muto – come pensa Olmi – anche nel cinema sonoro». Ma di chi fu l’idea di moltiplicare con forte intenzionalità iconica l’eπetto di sdoppiamento più sopra rilevato dalla scena dello specchio, se non forse – azzardiamo un’ipotesi – di chi era abituato, appunto, a ‘guardare’ e a guardarsi attraverso l’immaginazione speculare, cioè il critico cinematografico? D’altronde tra gli «apostoli di qualche idea o del Nulla» – come sottolineava Italo Svevo riferendosi in generale agli antieroi della letteratura novecentesca – Roth si ritrova adeguatamente spaesato direbbe invece Adorno, nella sceneggiatura e nel film, e poi ritrovato in una sorta di aura europea alla vigilia del nuovo, orribile disastro della Seconda Guerra Mondiale; e Tullio Kezich non poteva essere insensibile proprio a questo carattere del racconto dell’austriaco, che vede nella tragedia oggettiva della realtà il sentimento metafisico delle cose e i suoi impercepiti miracoli. Il disincanto, o la crudeltà, di Kezich intellettuale di confine – già dolorosamente provato nel rapporto sveviano – trova dunque in questo racconto-testamento (e in questo film) un solido appiglio per agganciare una post modernità in cui un destino di salvezza al di là della pena di vivere torna nelle forme misteriose e probabilmente illusorie, dal suo punto di vista, del sacro. A conferma della straordinaria sensibilità dello scrittore d’origine dalmata: che sa essere giustamente cosmopolita pur dentro le contraddizioni multiculturali dell’inizio, e, ancora una volta, esteticamente ‘crudele’ nella rappresentazione del reale – l’ingiusto degrado che porta alla morte e contemporaneamente sublima l’altro io nella trascendenza.

NEL NOME DI D’ANNUNZIO. LEDVINKA E LE IMPRESE ITALIANE PER TERRA, ARIA E MARE Francesca Strazzi

G

abriele d’Annunzio è stato uno dei pochi scrittori italiani di successo a essere riuscito a trasformare la sua arte in vita. Se è vero che Marinetti cantore delle macchine, dopo un primo incidente automobilistico, preferisce 1 un lento calesse a rombanti motori, è altrettanto risaputo che d’Annunzio fece di velocità e altezza un proprio modus vivendi. All’inizio del xx secolo in Italia divampa la passione per il volo, non solo tra meccanici e piloti, ma tra il popolo, grazie anche a due importanti manifestazioni aeree, la prima nel circuito di Brescia (1909) e la seconda a Milano (1910). Le personalità di spicco dell’epoca si fanno fotografare negli hangar o accanto ai piloti, e fanno la fila per poter salire sugli aerei. 2 d’Annunzio diventa il poeta di tale passione sia proiettandola nei territori del mito, 3 sia concependo la grande epopea eroica del volo con il romanzo Forse che sì forse che no. Egli è artista a proprio agio con i tempi nuovi e con le moderne tecnologie, non si limita a contemplare ed elogiare gli aerei, ma di questi conosce i meccanismi e con essi compie spericolate imprese: celebre è il volo sopra Trieste con lancio di volantini auspicanti la libertà italiana dal giogo dello straniero. D’Annunzio progetta, inoltre, una ricognizione aerea su Zara, ma la spedizione non avviene a causa della morte del collaudatore Giuseppe Miraglia. Il poeta, comunque, continua a studiare i volumi dedicati alla storia dell’Istria e della Dalmazia presso la Biblioteca Marciana di Venezia, 4 mostrando un nuovo e viscerale interesse per questa terra. Uomo carismatico, d’Annunzio ha condizionato l’arte e l’animo del popolo italiano, interpretandone gli umori alla fine del primo conflitto mondiale. Il Comandante, come ama firmarsi nelle carte successive la presa di Fiume, è il punto di riferimento per i giovani artisti e soprattutto per coloro che vedono in lui la guida spirituale e politica dopo gli accordi stipulati tra le nazioni vincitrici, come l’Italia, nel patto di Londra. All’imperativo dannunziano «disobbedisco» 5 si mobilita la popolazione dalmata, perché si apre uno spiraglio per rimediare all’unità mutilata e con la beπa di Buccari per le strade si intona «l’Eia Eia […] Alalà» della Canzone del Quarnaro. 6 Per tale motivo molte delle opere di italiani, nati e cresciuti in zone di confine tra Italia e Serbia, si plasmano sui lavori del d’Annunzio fiumano.  











1

 Cfr. Walter Vaccari, Vita e tumulti di F. T. Marinetti, Milano, Omnia, 1959, pp. 176-177.   Morasso sull’«Illustrazione italiana» scrive: «Quanta gente ha voluto fare il suo volo, per poter esclamare, al ritorno in famiglia con atteggiamento eroico: Anch’io ho volato! […] Il poeta futurista Marinetti si è concessa una vera orgia di voli e i suoi quattrini ne avranno procurata un’altra non meno genuina al suo pilota». Mario Morasso, Dopo il circuito aereo di Milano, «Illustrazione italiana», xxxvii, 41, 9 ottobre 1910, p. 358. 3   Mi riferisco al Ditirambo iv, raccolto nella silloge Alcyone, nel quale le imprese di Blériot e le sperimentazioni di quegli anni diventano il pretesto per una rivisitazione della storia di Icaro così come viene narrata da Ovidio nelle Metamorfosi. 4  Cfr. Annamaria Andreoli, I voli di d’Annunzio durante la Grande guerra, in D’Annunzio e Trieste nel centenario del primo volo aereo, a cura di Eadem, Roma, De Luca editori d’arte, 2003, p. 27. 5   Gabriele d’Annunzio, Disobbedisco, «L’Idea nazionale», 1° luglio 1919; ora in Idem, Scritti giornalistici 1889-1938, II, a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, 2003, pp. 956-962. 6   Idem, La Beπa di Buccari, Milano, Treves, 1918. Nel medesimo libro da pagina 63 a pagina 70 è possibile leggere La canzone del Quarnaro. 2

ledvinka e le imprese italiane per terra, aria e mare

241 Esempio di quanto fin qui detto è l’opera artistica e letteraria dello scrittore zaratino Nico Ledvinka, 1 «legionario fiumano, fece parte del Battaglione Rismondo e all’annunzio del Trattato di Rapallo, tenne un appassionato discorso […] per esprimere il dolore dei dalmati per la politica rinunciataria del governo». 2 In Dalmazia eroica Ledvinka, il quale si firma Nicolò Delvinca, per dare una maggiore patina di italianità al proprio nome, narra le concitate giornate che seguono l’occupazione di Zara fino all’annuncio del ritiro da Fiume di d’Annunzio e dei suoi legionari. Egli, come molti suoi conterranei, si oppone agli accordi tra Italia e Jugoslavia 3 perché:  





Alla Dalmazia non si deve rinunciare; perché là non solo si difende una lingua, una tradizione, un popolo, una religione, ma si difende l’Adriatico e l’Italia. 4 […] Fiume, D’Annunzio, Dalmazia Alalà! Dei diritti storici e geografici; dei diritti di vita libera e sicura che legano la Dalmazia all’Italia. […] Le visioni della nostra terra arsa dal sole e dalla bora, accomunate alla nostra passione fatta di amore infinito e di delusioni; il nostro sacrificio di cento anni di servaggio, vengono proiettate dalla parola calda violenta e possente dell’oratore sulla folla; Viva la Dalmazia! 5  



Ledvinka nasce a Zara sul finire dell’Ottocento, sperimenta, perciò, il dolore dell’esilio in una patria che non li ha voluti riconoscere figli. Dalmazia eroica, edito nel 1935, mette in luce tali sentimenti, alternando la voce dei combattenti e del popolo a quella dello scrittore abruzzese, il quale si discosta dagli echi mondani e salottieri del Piacere, per avvicinarsi in quanto ad amore patrio e a verve oratoria a Niccolò Tommaseo; quest’ultimo è considerato da Ledvinka uno dei primi sostenitori dell’unità italiana, perché nel ’48 non si è inchinato, come i nostri romantici all’«Austria trionfante», 6 ma ha atteso una flotta da condurre nella sua terra. Alto senso civico e patriottismo fanno da chiave di lettura di Dalamzia eroica, dove si rievocano i nomi dei propri paladini resi mitici dall’opera dannunziana. La figura di Francesco Rismondo 7 riecheggia nel testo ledvinkiano così come appare nell’articolo di d’Annunzio L’Assunto di Dalmazia: 8  





L’uomo inerme e ferito solo contro la ferocia barbara degli accaniti avversari…Viva la Dalmazia d’Italia, anche i nemici da un fremito d’orrore furono pervasi e di spavento. […]. Quell’urlo lo sentì il poeta che armava in Venezia le squadriglie alate verso Cattaro e verso Vienna e ne fece un volto che in sé rispecchiasse quell’anima urlante. E quel volto lo diede ad una delle tre teste ringhianti dell’azzurro labaro di Dalmazia, che sopra il suo giaciglio di guerra ad incitamento posava, per non dormire sulla conquistata gloria. E lo chiamò l’Assunto di Dalmazia. 9  

1   Niko Ledvinka nasce a Zara nel 1899 e muore a Varese nel 1969. Dopo la laurea in ingegneria elettromeccanica, fu valente pittore d’avanguardia, e scrittore dotato di buone doti creative ed espressive. A tali competenze si aggiunge un’eccellente competenza in campo musicale, fu, infatti, valente pianista e scrisse articoli politici e di cultura su personaggi di spicco della sua terra (basti citare gli scritti su Sabalich e su Cronia apparsi sulla «Rivista dalmatica»). Ledvinka è descritto come uomo ribelle a ogni atteggiamento remissivo, spirito ardente e amante della libertà, anche a costo di scontrarsi con le alte istituzioni. L’attività di Ledvinka è poliedrica e spazia dal campo delle lettere a quello dell’aereonautica, dall’arte alle imbarcazioni per il diporto e tutte queste attività confluiscono nella scrittura che fu, da sempre, la sua passione più grande, come dimostrano i libri: Remi sull’Adriatico (1933), Dalmazia eroica (1935), Ali dell’Egeo (1955) e Dau il saracino (1967). Per maggiori informazioni biografiche si rimanda a Beppo Marussi, Nico Ledvinka, «Zara», xviii, 6, 1970, pp. 8-9 e Daria Garbin, Renzo de’ Vidovich, Dalmazia nazione, Trieste, Fondazione Scientifico Culturale Maria e Eugenio Dario Rustia Traine, 2012, p. 267. 2   Beppo Marussi, Nico Ledvinka, «Zara», xviii, 6, 1970, p. 8. 3   Con il Trattato di Rapallo, sottoscritto nel novembre del 1920 tra il Regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, i territori della Dalmazia vengono spartiti tra le due nazioni. Cfr. Massimo Bucarelli, Luciano Monzali, Italia e Slovenia fra passato, presente e futuro, Roma, Studium, 2009, p. 29. 4   Nicolò Delvinca [Nico Ledvinka], Dalmazia eroica, Milano, Zucchioberdan, 1935, p. 36. 5 6   Ivi, p. 34.   Ivi, p. 51. 7   Francesco Rismondo è il giovane dalmata che, stando al racconto dannunziano, si sarebbe arruolato nell’viii battaglione dei Bersaglieri ciclisti dell’esercito italiano durante il primo conflitto mondiale e avrebbe strenuamente difeso il tricolore. Ferito sul San Michele viene barbaramente ucciso dagli austriaci che ne temono la forza e oppongono la violenza all’amore patrio dimostrato dal giovane. 8  Cfr. Gabriele d’Annunzio, L’assunto di Dalmazia, «La Vedetta d’Italia», 1920. Ora in Idem, Scritti giornalistici 1889-1938, ii, cit., pp. 1148- 1153. 9   Nicolò Delvinca [Nico Ledvinka], Dalmazia eroica, cit., pp. 92-93.

francesca strazzi

242

Riportando l’episodio narrato da d’Annunzio sulle pagine della «Vedetta d’Italia», 1 Ledvinka vuole emulare l’arte oratoria del Comandante per suscitare nei dalmati il sacro fuoco della libertà conquistata mediante il sacrificio. Per questo motivo i legionari zaratini di Dalmazia eroica si servono di testi dannunziani per trovare la forza di continuare nella loro impresa:  

Un aereo rotea su di noi. 2 Il comandante non ci abbandona. Piove dal cielo freddo la condanna al traditore dei dalmati. “Un uomo è caduto. Un uomo resta”. Ci basta lui solo per osare ancora l’inosabile. 3  



Un uomo è perduto. Un uomo resta è il titolo di un articolo in cui il Vate, sotto forma di dialogo, incita il Popolo e i Legionari a resistere all’Italia e al mondo finché il suo «corpo sanguinante» sarà «tra l’Italia e Fiume, tra l’Italia e le Isole, tra l’Italia e la Dalmazia». 4 Nelle fasi più concitate della battaglia Ledvinka si a√da al verbo del comandante, l’eletto dalla sorte per difendere la città venduta, dalla quale si levano le urla dei combattenti: «esiste un uomo solo oggi in Italia […] quell’uomo è Gabriele D’Annunzio». 5 Il Comandante è l’eroe recante al popolo oppresso la «buona novella», 6 egli assurge, agli occhi di Ledvinka, al ruolo di profeta perché è il solo italiano a non abbandonare Zara e a battersi per essa con la penna e con i cannoni. Egli infonde coraggio ai legionari mediante l’esempio di chi ha combattuto per l’unità d’Italia: Giovanni Randaccio è il militare avvolto da d’Annunzio con la bandiera tricolore dopo la conquista della zona sovrastante il fiume Timavo. 7 Il medesimo drappo «sarà sudario di tutti i sacrificati» 8 promette il Vate ledvinkiano ai combattenti di Zara, perché anche loro emulino le imprese eroiche di chi li ha preceduti. Il testo di Dalmazia eroica viene così a configurarsi come un serrato dialogo tra il Comandante di Fiume e il popolo dalmata, al quale Ledvinka presta la voce, sullo sfondo di fatti storico-politici che hanno portato a parecchie frizioni tra lo Stato e i cittadini di Istria e Dalmazia. Tali tensioni sfociano, tra il 24 e il 31 dicembre del 1920, nello scontro tra legionari ed esercito regolare; 9 nel capitolo Natale, Ledvinka riprende il discorso dannunziano noto come Natale di sangue: «L’Italia celebra la notte di Natale facendo strage di soldati italiani in Fiume d’Italia». 10 Il Comandante è la guida morale e politica dei dalmati, per questo nel testo ledvinkiano non vi è alcun riferimento al d’Annunzio dell’Alcyone o del Piacere, in quanto per l’autore il Vate è quello di Quarto, del Cattaro e quello del volo  













1   «La Vedetta d’Italia» è la testata scelta da d’Annunzio per gli articoli redatti nel periodo fiumano. Il giornale si presenta con una veste austera, quattro pagine senza illustrazioni e diventa la sede per la pubblicazione dei comunicati, dei messaggi, «dell’attività di comando e [degli] indirizzi ideologici e politici» di d’Annunzio. Annamaria Andreoli, Note, in Gabriele d’Annunzio, Scritti giornalistici 1889-1938, ii, cit., p. 1783. 2   Mi sembra possibile azzardare che l’aereo citato da Ledvinka sia quello sul quale Guido Keller, aviatore e legionario, volò verso Zara lanciando volantini recanti le parole di d’Annunzio, sdegnato con Millo per i fatti avvenuti in città. Il discorso di d’Annunzio fatto pervenire a Zara da Keller è lo stesso citato nella «Vedetta d’Italia» Un uomo è perduto. Un uomo resta. Cfr. Ferdinando Gerra, L’impresa di Fiume nelle parole e nell’azione di Gabriele d’Annunzio, Milano, Longanesi, 1966, pp. 576-579. Il testo dannunziano è riprodotto anche in Gabriele d’Annunzio, Scritti politici, a cura di Paolo Alatri, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 245-250 e in Idem, Scritti giornalistici 1889-1938, ii, cit., pp. 1276-1279. 3   Nicolò Delvinca [Nico Ledwinka], Dalmazia eroica, cit., p. 89. 4   Gabriele d’Annunzio, Un uomo è perduto. Un uomo resta, «La Vedetta d’Italia», 1920. 5 6   Nicolò Delvinca [Nico Ledvinka], Dalmazia eroica, cit., p. 78.   Ivi, p. 114. 7   Per un approfondimento sull’argomento e per scoprire il ruolo di d’Annunzio nell’impresa del Timavo in cui perse la vita il capitano di fanteria Randaccio si possono leggere le memorie di Saverio Laredo de Mendoza, Gabriele d’Annunzio fante dei Veliki e dei Faiti, Milano, Impresa Editoriale Italiana, 1932. 8   Nicolò Delvinca [Nico Ledwinka], Dalmazia eroica, cit., p. 115. 9   Cfr. Ivi, p. 109. Ledvinka narra dell’arrivo a Zara di Bonfanti Linares, mandato dal governo a sciogliere i gruppi legionari formatisi nella città. Per un approfondimento storico si rimanda a Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia 1914-1924, Firenze, Le Lettere, 2007, pp. 244-246. 10   Nicolò Delvinca [Nico Ledvinka], Dalmazia eroica, cit., p. 126. Il testo citato da Ledvinka si trova in: I. E. Torsiello, Gli ultimi giorni di Fiume dannunziana. Cronache e documenti fiumani, Bologna, Oberosler, 1921, p. 182.

ledvinka e le imprese italiane per terra, aria e mare

243 su Vienna. In Dalmazia eroica lo scrittore zaratino traccia il ritratto di un poeta capace di infuocare le folle con la sua sagacia, i suoi proclami di guerra, l’incitamento ai soldati ed è soprattutto l’uomo coraggioso che imbraccia le armi per dimenticare l’onta di Caporetto e vendicare la vittoria mutilata. d’Annunzio, come per la maggior parte dei suoi legionari, è per Ledvinka, l’eroe di guerra, il patriota, ma soprattutto, come ben spiega Renzo De Felice, colui che per primo ha assestato il colpo più pesante al regime liberal-democratico italiano. Infatti nonostante la conclusione negativa del Natale di sangue, l’occupazione di Fiume da parte del Comandante ha dimostrato l’importanza di scuotere il cuore patriottico delle folle per mettere in crisi la classe dirigente italiana e costringerla al compromesso. 1 Il d’Annunzio presentato in Dalmazia eroica è l’uomo politico, attento alle problematiche sociali come dimostra la Carta del Carnaro e incarna il nuovo ruolo del letterato, non chiuso nella sua torre d’avorio, ma interprete delle necessità del popolo. Perciò la voce del Vate diventa il vessillo della spirito della Dalmazia, con i suoi echi patriottici e risorgimentali, con l’elogio della guerra combattuta nel ricordo dei giovani martiri (Rismondo e Randaccio) ed è sempre per tali motivi che Ledvinka sceglie di concludere il suo lavoro riportando per intero il testo della lettera con la quale il Comandante rassegna i suoi poteri nelle mani della rappresentanza comunale di Fiume:  

Io venni il 12 settembre 1919, dal cimitero di Ronchi colmo di fanti con pochi fedeli alla vittoria dei morti […]. Liberai la città. […]. Fu confermata con voto popolare la dedizione alla patria. […]. Noi siamo fieri di aver potuto testimoniare col sangue la nostra devozione a una gente di così pura tempra e di così alta fede. 2  

Terminato il testo della lettera dannunziana Ledvinka aggiunge alcune battute dell’«alalà funebre» 3 pronunciato da d’Annunzio nel lasciare Fiume: «stanotte i morti e i vivi hanno il medesimo aspetto» 4 preannunciando la fine della vicenda e del libro con quel «ghigno funereo che sembra derida il futuro». 5 Se in Dalmazia eroica lo scrittore abruzzese è il protagonista indiscusso, è altrettanto vero che le opere di Ledvinka da Remi sull’Adriatico alle Ali dell’Egeo rappresentano un ulteriore e velato omaggio alla vita e all’arte del Vate. Entrambi conoscitori dei meccanismi dell’aereo, 6 ne hanno cantato le lodi e lo scrittore dalmata ha scelto un modello trimotore da bombardamento S. 81 come personaggio principale di una serie di racconti apparsi nel 1955. S.81 si è guadagnato tra gli aviatori il soprannome di Papà 81 perché durante le campagne d’Africa e Spagna non ha ucciso nessuno ed è facilmente manovrabile dalle reclute; inoltre esso rappresenta: «quella generazione di aviatori che facevano la guerra come i cavalieri antichi: maestria, coraggio, abnegazione». 7 Lo scrittore si accosta, ancora una volta, all’esempio letterario di d’Annunzio, in quanto l’aereo mostra l’uomo moderno con il suo bisogno di varcare il confine, spingendosi, come era stato per il mito icarico, verso il sole. Scrive Ledvinka:  









1  Cfr. Renzo De Felice, D’Annunzio, Mussolini e la politica italiana 1919-1938, in Carteggio d’Annunzio-Mussolini (1919-1938), a cura di Renzo De Felice, Emilio Mariano, Milano, Mondadori, 1971, p. xi. 2   Ivi, p. 157 e p. 159. In Dalmazia eroica il testo integrale della lettera dannunziana reca la data: Fiume, 29 dicembre 1930; probabilmente c’è un errore di stampa perché la data corretta del proclama è 29 dicembre 1920 ed è pubblicato sia sulla rivista newyorkese «Il Carroccio» con il titolo La ferocia contro il miracolo d’amore (xiii, 2, 1921, p. 145), sia nel già citato testo di Torsiello, con il titolo La rinuncia da pagina 125 a pagina 129 e infine in una pubblicazione per le edizioni La Vedetta d’Italia, sempre del ’21, con il titolo di La legione dei Ronchi. Documenti delle cinque giornate di Fiume. 3   Nicolò Delvinca [Nico Ledvinka], Dalmazia eroica, cit., p. 160. 4   Ibidem. Ledvinka riporta le ultime parole del testo dannunziano L’Alalà funebre apparso sulla rivista «Il 5 Carroccio», xiii, 2, 1921, p. 142.   Ivi, p. 161. 6   Durante la Seconda Guerra Mondiale fu arruolato quale ingegnere nella Regia Aeronautica con destinazione Rodi (Cfr. Beppo Marussi, Nico Ledvinka, «Zara», cit., p. 8); mentre sappiamo che d’Annunzio aveva ideato tipi speciali di pneumatici e la sua biblioteca pullulava di volumi su bielle e spinterogeni (Cfr. Annamaria Andreoli, La promozione del volo, in D’Annunzio e Trieste nel centenario del primo volo aereo, cit., p. 13). 7   Nico Ledvinca Liburnico, Ali dell’Egeo, Napoli, Istituto Editoriale del Mezzogiorno, 1955, p. 5.

francesca strazzi

244

in quell’uomo che vola, lo spazio diventa una necessità: la quota, la velocità e il fremito dell’alto diventano un tale bisogno fisiologico che non si può più farne a meno. 1  

Come non leggere in questa aπermazione le parole di d’Annunzio dopo il volo nel Circuito di Montichiari: «è una cosa divina. Non penso che a volare ancora». 2 Per entrambi gli scrittori la magia del volo si traduce in poesia, ardimento e sogno. L’aereo è la:  

macchina pulsante, proprio corpo, anima propria: nell’immensità. […]. Ridono con negli occhi la bellezza del volo che li rende signori dello spazio. Il volo è gioia, entusiasmo, fede. È agone di nervi, di forza, di genialità. 3  

L’essere ‘signori dello spazio’ rimanda al mito eroico del volo: quello cantato da d’Annunzio per i fratelli Wright o nella Canzone dei Trionfi e che sperimenterà da protagonista per difendere l’unità della Patria, la stessa patria che Ledvinka non dimentica, portando nel cuore «la gloria della lontana Dalmazia». 4 Lo scrittore firma i lavori successivi al 1935 con l’epiteto Liburnico. Tale aggettivo è ripreso dal greco (liburnikov~) e dal latino (liburnoì) e significa appartenente al popolo dalmata e istriano. Inutile dire che questa parola viene utilizzata sia da d’Annunzio nelle Prose di ricerca, di lotta e di comando sia da Tommaseo nel proprio dizionario marittimo militare. 5 Quella del mare, del resto, è stata l’altra grande passione di Ledvinka, ne sono una dimostrazione le avventure dei protagonisti di Remi sull’Adriatico i quali compiono un viaggio da Zara a Rovigno su un’imbarcazione a remi, e le peripezie marinare di Dau il saracino rimandano alle avventure dei pirati dalmati sulle liburne, le piccole navi leggere e veloci che lo scrittore ben conosce, perché anch’esse fanno parte della storia della sua ‘eroica’ ed amata terra.  



1

  Ivi, p. 13.   Luigi Barzini, st, «Corriere della sera», 11 settembre 1909. 4   Nico Ledvinca Liburnico, Ali dell’Egeo, cit., p. 121 e p. 122.   Ivi, p. 144. 5  Cfr. Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, ix, Torino, Unione Tipografica Torinese, 1975, 41. 2 3

FLORA, LA «DALMATA ITALIANA» DI MARIA ROSARIA DOMINIS Cinzia Gallo

D

edicata «A tutte le bambine senza paese» 1 e «opera di fantasia», 2 La panchina di pietra, edita nel 2010, segna un momento nuovo nella letteratura dell’esodo degli ultimi anni. Presentando, infatti, nel primo capitolo, la protagonista, Flora, nel momento in cui, all’età di dieci anni, sta abbandonando la Dalmazia insieme alla madre, dopo l’avvento dei titini e la politica di slavizzazione da loro avviata, si distingue subito da romanzi come Quando ci batteva forte il cuore, sempre del 2010, di Stefano Zecchi, in cui l’io narrante racconta la propria esperienza, da altri, come Storia di un gatto profugo (2006), di Piero Tarticchio, in cui, nella forma dell’apologo, della storia fantastica, viene ricostruita la repressione titina che, a Pola, induce la famiglia Bonivento all’esodo, nel maggio 1945; ancora da altri testi come Nata in Istria (2005) di Anna Maria Mori o Storia di Argo (2006) di Maria Grazia Ciani, non propriamente romanzi. La panchina di pietra, invece, che, ponendosi quale opera di fantasia a partire da un fatto storico, l’esodo, sarà seguita da Rossa terra (2013), di Mauro Tonino, in cui, però, ha ancora molto spazio il viaggio di ritorno in Istria, alla riscoperta delle proprie origini, si configura inizialmente come un romanzo giallo, in ossequio alla rinascita che questo genere conosce negli ultimi tempi, a partire da Camilleri: nelle prime due pagine, difatti, in corsivo per essere distinte dal resto del libro, secondo il procedimento già usato da Consolo in Retablo, Flora, adulta, scopre Silvestro morto, pare ucciso. Nelle altre parti in corsivo, che interrompono la narrazione, costruita come una lunga analessi, si assiste allora alle indagini, che concentrano i sospetti su Flora, fino a quando due testimoni svelano la verità: si è trattato di un incidente, nel corso di una lite fra Flora e il marito, ormai «squilibrato». 3 Solo nella conclusione, dunque, nel quattordicesimo capitolo della terza parte, i due livelli diegetici si unificheranno, in quanto il racconto avrà raggiunto il tempo primo della storia. Seguendo, allora, le indicazioni di Genette, il primo capitolo, in cui abbiamo la partenza di Flora dall’isola della Dalmazia in cui è nata e cresciuta, può essere indicato con B4. Il narratore, eterodiegetico, riferisce subito, tramite indiretti liberi, i pensieri di Flora, che in preda a uno sgradevole «Senso di fine» e «di umiliazione», 4 paragona il viaggio con quello compiuto precedentemente a Zagabria. La passata impressione positiva, marcata dall’anafora, («Ricordava la pioggia sui vetri del vagone nel buio della sera e un vago malessere del quale però non si era lamentata. Ricordava un elegante scompartimento di prima classe, le voci ovattate e un signore distinto che conversava con la mamma») 5 contrasta con lo squallore del trasferimento presente, al termine del quale (C5) i profughi si ritrovano apolidi, in un paese in provincia di Torino che si saprà, dopo, essere Bardonecchia. La narrazione prosegue, quindi, su due piani: da una parte vi sono i contatti di Flora con una realtà diversa da quella fino ad allora conosciuta, contatti che rappresentano le tappe di un processo di formazione / integrazione, dall’altra le resisten 









1

  Dominis (pseudonimo di Maria Rosaria Dominis), La panchina di pietra, Genova, De Ferrari, 2010, p. 5. 3   Ivi, p. 2.   Ivi, p. 248. 4 5   Ivi, pp. 12-13.   Ivi, p. 13. 2

cinzia gallo 246 ze e i pregiudizi nei confronti degli esuli. Il narratore riporta, per esempio, le opinioni di Igino su Ludovico, in parte con indiretti liberi: Forse, dalle sue parti, il giovane sarà stato anche un benestante, ma Igino, il fruttivendolo, aveva le sue riserve: lì era uno sconosciuto e uno spiantato. Il modo di fare di Ludovico, la sua capacità di svolgere qualsiasi lavoro senza umiliarsi e sentirsi umiliato rendevano Igino, uomo semplice, ancor più di√dente. Una cosa era dare una mano a un simpatico ragazzo in pericolo, altro averlo come genero. Perciò gli fu grato per aver rispettato la sua figliola. 1  

Ripercorrendo, ancora a ritroso nel tempo, la vita condotta dalla famiglia di Flora dopo l’arrivo degli Slavi (D1, Ludovico arriva in Italia, al paese; E2, arriva Fabiana; F3, arriva Tonci), l’esodo viene presentato, come di consueto, quale inevitabile. Difatti anche Bruna, la madre di Flora, a cui sembrava impossibile dover lasciare la terra in cui era vissuta da generazioni, aveva dovuto capitolare, di fronte al sequestro dei propri beni, alla prospettiva di slavizzarsi, di deformare il proprio cognome (G4). Dal capitolo iv, che ci riporta in Italia (H5), il tempo della storia procede, nella prima parte, in ordine pressoché lineare, fatta eccezione, come già detto, per il breve ritorno al tempo primo, alla fine del dodicesimo capitolo. I salti temporali (nel capitolo x Flora ha quattordici anni, nel capitolo xiii è al terzo anno di collegio) rendono il tempo della storia maggiore del tempo del racconto, allo scopo di sottolineare quanto l’esodo abbia influito sulla personalità di Flora. Sono dapprima gli oggetti (le brandine al posto dei letti, la bambola di pezza, la tovaglia con un buco, i mobili vecchi) a dimostrare a Flora il suo passaggio da «bambina privilegiata» a «bambina povera»; 2 la sostituzione del suo libro in croato con uno in italiano conferma l’inizio di una nuova vita, profondamente influenzata, però, dalle esperienze passate. Così, a scuola, il compito in cui descrive la sua casa in Dalmazia, «immersa nel buio e popolata da personaggi antichi» 3 viene lodato, mentre Flora non prova alcuna simpatia per la storia, una delle «scemenze», che tratta «solo di guerre e confini che si spostavano». 4 A questa sfiducia per la storia, che sembra rinnovare le critiche di Manzoni, ed anche quelle dei postmodernisti, corrisponde un atteggiamento relativistico, espressione della mancanza di certezze e di un profondo pessimismo:  





Le guerre dividevano il mondo. I giusti, i martiri e gli eroi appartenevano sempre alla nazione in cui ti trovavi. Gli oppressori, i prepotenti, i profittatori, i guerrafondai erano immancabilmente gli altri. Se cambiavi nazione cambiava la storia, cambiavano i buoni e cambiavano i cattivi. 5  

Flora prova, invece, un grande conforto al profumo del prezzemolo, che lo zio Ludovico ha seminato e che le ricorda, con nostalgia, l’odore del «forte prezzemolo dalmata», un modo per acquistare sicurezza, stabilendo «punti in comune fra i luoghi della sua vita»: 6 lo stesso valore avrà una bambola di cartapesta che le è stata regalata dalla madre. Alle di√coltà incontrate a scuola corrispondono le di√coltà degli adulti con cui vive, i problematici rapporti con la madre; solo lo zio Ludovico, in realtà non direttamente parente, le mostra un po’ di aπetto: anche la famiglia, dunque, che in molti testi della contemporaneità è «il luogo dei valori da preservare, solo rimedio ai disordini e agli smarrimenti patiti dall’individuo», 7 non è qui tale per Flora, a dimostrare quanto i tragici fatti subiti abbiano lasciato ripercussioni nel comportamento di tutti, non solo di Flora. Del resto, è stata provata scientificamente, da Paola Cardellicchio 8 l’esistenza di uno  





1

2   Ivi, p. 21.   Ivi, p. 27. 4   Ivi, p. 37.   Ivi, p. 35. 5 6   Ibidem.   Ivi, p. 41. 7   Raffaele Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, il Mulino, 2014, p. 93. 8   Paola Cardellicchio, Vite sospese: letteratura e identità nell’esperienza del migrante, http:// www. babelonline.net/ home/002/editoria_online/.../cardellicchio.pdf (15 febbraio 2015). 3

flora, la «dalmata italiana» di maria rosaria dominis

247 stretto legame fra esperienza dell’esodo e disagio psichico, come Anna Maria Mori rileva nell’Anima altrove, 1 ed è ormai assodato che l’esodo, dramma collettivo, ha determinato reazioni diπerenti nei vari individui coinvolti: «la storia privata di un soggetto non deve essere dissolta in una indiscriminata medesima condizione esistenziale». 2 Il narratore, perciò, sottolinea le diπerenti reazioni dei protagonisti di fronte allo sradicamento: in particolare, emerge una diπerenza fra Bruna, madre di Flora, che rifiuta di procurarsi un lavoro, ancora legata al suo passato, e gli altri familiari, che cercano in tutti i modi di integrarsi, lavorando. Si spiega, in tal modo, pure l’atteggiamento di Flora, che tenta di «sottrarsi alla realtà», di «inventarsi un mondo suo», che la possa aiutare a superare «gli scossoni della vita», 3 che la possa risarcire di tutto quello che ha perso: «Il padre, il paese d’origine, le piccole amiche, i compaesani, il linguaggio, l’identità, il ruolo nella società, la realtà economica, le tradizioni, il mare, la bora, le favole dell’infanzia; forse l’infanzia stessa». 4 Al tempo stesso, però, si vergogna per l’atteggiamento della madre, «che sembrava non accettare ancora, a distanza di anni, che la loro vita fosse cambiata radicalmente e per sempre». 5 E così, a causa della sua incapacità ad aπrontare la realtà, Bruna riesce solo a procurarsi qualche lavoretto presso una maglierista mentre la suocera, Tonci, si conquista la stima della ricca signora presso cui lavora come governante, il cui figlio la giudica «molto più signora di certe» 6 sue amiche. La distanza fra queste due donne si accresce quando Flora, decisa ad organizzare autonomamente la propria vita, si reca da Beatrice, ammirata da Tonci per aver avuto il coraggio di seguire i propri sentimenti, con tutte le di√coltà che questo aveva comportato, e ritenuta uno scandalo da Bruna, come dalle altre «malelingue» 7 del paese. In eπetti la condizione di Beatrice, emarginata dalla società, testimonia che l’esilio può essere una condizione esistenziale, come dichiara Bettiza: «Io sono […] un esule nel più completo senso della parola: un esule organico più che anagrafico, uno che si sentiva già in esilio a casa propria, molto prima di aπrontare la via dell’esodo eπettivo». 8 Tale è anche Flora che, «Senza radici, confusa e smarrita, in mezzo a una famiglia confusa e smarrita», non ha «esempi, tradizioni, attività» 9 a cui fare riferimento, pur non avendo dimenticato le sue origini. È consapevole, difatti, di essere una «dalmata italiana», benché si senta un «fantasma», 10 in quanto priva di passato, presente, e futuro: in questo modo si presenta ad Antonio, nipote di madama Lazzari, che la sorprende seduta alla panchina di pietra, dove è solita fantasticare, dopo essere ritornata a casa per le vacanze, al terzo anno di collegio. Con lui vive la prima esperienza amorosa che la lascia «sconquassata», 11 mettendola di fronte ai pregiudizi di un mondo chiuso e provinciale (Antonio «Deve assolutamente laurearsi e farsi una posizione» mentre lei è una «spiantata»). 12 In questo modo, il nostro testo supera i confini della vicenda personale, del tema dell’esodo, per configurarsi quale aπresco di un mondo più vasto, la società piccolo borghese di Bardonecchia, inserendosi in quella tendenza al realismo che caratterizza, dagli anni Novanta del Novecento, la narrativa italiana. Perciò, come precisa Donnarumma, «La vita quotidiana è […] lo scenario in cui si misura, in modo problematico e senza garanzie, la ricerca dei valori collettivi e il senso  























1   La Mori scrive: «la dimensione dell’esilio diventa una dolorosa parte integrante della personalità dell’esule, del suo stare al mondo, della sua anima, e come tale ha […] a che fare con la psicoanalisi» (Anna Maria Mori, L’anima altrove, Milano, Rizzoli, 2012, p. 9). 2   Maurizio Actis-Grosso, Anna Maria Mori e le metamorfosi del lutto esiliaco, in «Già troppe volte esuli». Letteratura di frontiera e di esilio, a cura di Novella Di Nunzio, Francesco Ragni, i, Perugia, Università degli Studi, 2014, p. 279. 3 4   Dominis, La panchina di pietra cit., p. 46.   Ibidem. 5 6 7   Ivi, p. 52.   Ivi, p. 65.   Ivi, p. 111. 8   Enzo Bettiza, Esilio, Milano, Mondadori, 1996, p. 17. 9 10   Dominis, La panchina di pietra cit., p. 82.   Ivi, p. 83. 11 12   Ivi, p. 97.   Ivi, p. 105.

cinzia gallo 248 dei destini individuali». 1 Ciò è chiaro nella seconda parte, che ha un ritmo più lento, coprendo un periodo di circa due anni, con due brevi analessi, ai capitoli vi e x, e un ritorno al tempo primo, al capitolo xv. La ricerca, da parte di Flora, del significato della propria vita, delinea, in modo preciso, i contorni di una società crudele, in cui gli unici valori sembrano essere le apparenze, il tornaconto personale. Silvestro Elennio, difatti, che conduce un matrimonio di facciata con Marta, paralizzata in seguito a un incidente, oπre un lavoro a Flora, di dirigere un negozio di tessuti ed abbigliamento in Riviera, soltanto per farne la sua amante. Marta, che ha capito tutto, non ne è risentita ma sollevata, perché così può continuare la sua vita autonoma rispetto a quella del marito. Solo quando si rende conto dei pettegolezzi, delle chiacchiere della gente si preoccupa. La stessa Bruna, senza Flora a casa, ha finalmente raggiunto un equilibrio con la suocera e ha un corteggiatore, Sergio, con i cui sentimenti, però, gioca. Sergio ha difatti lasciato la sua fidanzata, per lei, che, in realtà, non desidera avere un nuovo marito ma ritiene «divertente» 2 avere un corteggiatore, senza correre il rischio di essere considerata «una donna leggera». 3 Bruna, comunque, può dire di essersi integrata, così come Ludovico che, oltre a svolgere l’attività di maestro, tiene la contabilità di alcuni commercianti, fa da mediatore fra acquirenti e venditori. L’unica, allora, a non aver superato il «trauma esiliaco», 4 la fase di dolore che lo stesso Freud collega alla perdita della patria, è Flora. Il suo allontanamento dalla casa di Bardonecchia, dunque, non è felice, come per gli eroi delle fiabe: sembra ripetere l’esodo. Quando, difatti, per porre fine alla «situazione ambigua», 5 Flora decide di trasferirsi in Australia, dalla zia, viene assalita da dubbi ed esitazioni, che confermano come la condizione di esiliato venga elaborata diversamente dai singoli individui:  









Di nuovo emigrare, cambiando addirittura continente questa volta? Buttarsi alle spalle tutto ciò che aveva vissuto dalla vita fino a quel giorno? Morire in un posto per reincarnarsi in un altro? Essere certa che non avrebbe mai più rivisto la nonna, Silvio e Cristina? Antonio. Al Paese aveva passato il tempo a rimpiangere la Dalmazia. In Città si era sorpresa a rimpiangere non solo la Dalmazia, ma anche il Paese. In Australia li avrebbe rimpianti tutti e tre, Città compresa? Era spaventata da ciò che si accingeva a fare. 6  

Flora è però estranea al sistema di valori dominante: pensa di dover partire per permettere a Silvestro, Marta e Cristina di ritrovare «il loro equilibrio» 7 ma poi, dopo la morte di Marta, decide di restare per aiutare Cristina, di cui il padre, anche lui chiuso nel suo dolore, si disinteressa. Le conseguenze di questa scelta mettono in luce storture ed aspetti positivi della piccola comunità, permettendo di riconoscere nel nostro testo quella «fame di storie vere» 8 che caratterizza, secondo Donnarumma, la narrativa più recente. Le vicissitudini di Flora, in eπetti, nella terza ed ultima parte del romanzo, che si svolge, all’incirca, nell’arco di un biennio 9 e in cui, come abbiamo detto, si ritorna al tempo primo (che risulta essere l’anno 1966-67), sembrano disegnare delle vicende di vita quotidiana assolutamente ordinarie, quasi di cronaca, e che perciò possono essere sentite quali «utili, eticamente spendibili, psicologicamente riappropriabili». 10 La definizione di Elennio come personaggio negativo, anche a parere della sua stessa figlia, serve allora a far considerare inaccettabile il suo comportamento nei confronti  







1

  Raffaele Donnarumma, Ipermodernità cit., p. 62. 3   Dominis, La panchina di pietra cit., p. 147.   Ivi, p. 152.   Maurizio Actis-Grosso, Anna Maria Mori e le metamorfosi del lutto esiliaco cit., p. 279. 5   Dominis, La panchina di pietra cit., p. 170. 6 7   Ivi, p. 171.   Ibidem. 8   Raffaele Donnarumma, Ipermodernità cit., p. 84. 9   La terza parte inizia nel 1965: «Era l’anno 1965». (Dominis, La panchina di pietra cit., p. 194). 10   Raffaele Donnarumma, Ipermodernità cit., p. 84. 2

4

flora, la «dalmata italiana» di maria rosaria dominis

249 di Flora, maltrattata anche con riferimento alle sue origini, a renderlo distante dal lettore, nel patto narrativo che questi instaura con l’autore. Così, per esempio, il giorno successivo la celebrazione del matrimonio, i canti dalmati intonati durante il rinfresco sono criticati da Silvestro, che li definisce «usanze da osteria». 1 L’infondatezza di questo giudizio è dimostrata, a livello soggettivo, da Flora, che ricorda la buona educazione dei suoi familiari e, a livello oggettivo, dai parenti contadini di Silvestro: ciò, poi, diventa occasione per richiamare alla mente di Flora, attraverso il meccanismo della memoria involontaria, il disagio, suo e della sua famiglia, a dover «trattare da amiconi degli sconosciuti o quasi sconosciuti solo perché mangiavano insieme e dividevano le stesse paure, mentre erano diversissimi per educazione e abitudini», 2 testimoniando come l’esperienza dell’esodo non abbia cancellato abitudini e tradizioni. E, difatti, Tonci, prima di partire per Torino con madama Liliana, saluta Flora facendole il segno della Croce dalla fronte al petto, ripetendo, cioè, il segno di benedizione con cui le madri dalmate accompagnavano «i figli nel di√cile percorso della vita» 3 mentre, quando muore, sceglie, come fiori, dei garofani rossi, pur essendo, questi, «il simbolo di ciò che aveva decretato la loro rovina e l’esilio», 4 in quanto crede che Flora li ami. È, quindi, naturale che a Silvestro Flora appaia «straniera ed estranea» 5 e che, per oπenderla, la chiami «brutta zingara senza paese». 6 In coincidenza con la spannung, in eπetti, quando Flora ha appreso di essere figlia, in realtà, di quella che ha creduto sua zia, la sorella di Bruna emigrata in Australia, si sente «un’altra. […] smarrita, anzi, perduta, disperata». 7 Il suo atteggiamento sancisce come per l’equilibrio di un individuo sia importante la conoscenza delle proprie origini, e avere un radicamento. Flora si domanda, con indiretti liberi, in uno stato di profonda solitudine:  













Era un’altra. E nelle vesti di quest’altra avrebbe dovuto avvicinarsi a tutto ciò che fino ad allora le era stato familiare. Sua madre non era sua madre, ma sua zia. E sua zia non era sua zia, ma sua madre. E suo padre chi sarà mai stato? E la nonna sarà stata sua nonna davvero? Era aπranta e delusa da tutti. […] Aveva paura della vita e non sapeva come aπrontarla. 8  

Un aiuto le viene da Ludovico, secondo cui Flora avrebbe dovuto trovare dentro di sé «equilibrio e serenità» 9 e anche da Fabiana: con loro si recupera il valore della famiglia. Dice, perciò, a Flora, Ludovico: «Non è bene che tu vada da sola a bussare alla porta di tuo marito. Deve sapere che hai una famiglia. Presente. Che gli piaccia o no». 10 Nell’Epilogo, ormai nel racconto primo, il lieto fine, di conseguenza, con Flora che ritrova l’amore di Antonio, dopo essere stata sollevata da qualsiasi responsabilità riguardo la morte di Elennio, e si riappropria della sua vita, inserendosi, pure, nel tessuto sociale della città tramite attività di beneficenza, è frutto, in parte, dell’aπetto, dell’interessamento che mostrano, nei suoi confronti, i suoi familiari. L’Epilogo va, perciò, letto anche come conclusione di un percorso di integrazione, che inserisce perfettamente La panchina di pietra nella tendenza della più recente narrativa contemporanea a prediligere temi ‘impegnati’, trasformati, però, «in storie». 11  





1

2   Dominis, La panchina di pietra cit., p. 199.   Ivi, p. 201. 4   Ivi, p. 210.   Ivi, p. 233. 5 6   Ivi, p. 221.   Ivi, p. 222. 7 8   Ivi, p. 238.   Ibidem. 9 10   Ivi, p. 241.   Ivi, p. 242. 11   Raffaele Donnarumma, Ipermodernità, cit., p. 202. 3

PRIMI APPUNTI SULLE INTIME LIRICHE DI VIRGILIO PAGANELLO Nicolò Massucco

N

el 1920 il giovane poeta zaratino Virgilio Paganello pubblica a ventisei anni la sua prima raccolta di poesie intitolata Intime liriche. Le parole di esordio sono indicative del tono che conserveranno i componimenti successivi: Uno sbadiglio infecondo di tinte livide, smorte, ne l’agonia del tramonto.... Col murmure de le fronde sussurranti al vento, s’intreccia, si confonde in un ondeggiamento di toni bassi un fruscio lene lene di passi. Silenzio: ella viene! 1  

I dati sul Paganello, purtroppo, sono però molto scarsi: 2 nato probabilmente a Zara nel 1894, compose in tutta la sua brevissima vita un solo libro di poesie, le Intime liriche appunto, iniziandone a scrivere un altro di cui daremo conto al termine di questo intervento. Dalle poche informazioni che si riescono a recuperare circa questo personaggio, sappiamo che si sposò con una certa Maria, dalla quale ebbe tre figli: Lidia, Mario e Itala. 3 Come vedremo più avanti, la famiglia sarà centrale nella sua esistenza, diventando uno dei temi a cui sarà più aπezionato. La vita non gli regalò la possibilità di godersi tutto ciò che aveva costruito: morì infatti giovanissimo nel 1922, a ventotto anni. Questa raccolta, dunque, è il testamento di una figura che rimane a tutti gli eπetti una nebulosa nel panorama della rarefatta letteratura dalmata del primo Novecento. Le Intime sono un libro eterogeneo sia dal punto di vista dei componimenti, sia per i diversi temi che aπrontano, tutti in qualche modo velati da una ossessiva presenza della morte che aleggia sui testi. A uno sguardo più generale, il volume conta sessantuno componimenti ripartiti in sei sezioni (in ordine Rina, La Madre, Anniversario, Natale, I Canti de l’Innocenza e Melodie dalmatiche) contenenti ciascuna un diverso numero di pezzi. 4 I temi aπrontati ruotano intorno alla più concreta quotidianità: la famiglia e la vita  





1

  Virgilio Paganello, Attesa, in Idem, Intime liriche, Zara, Tipografia E. De Schönfeld, 1920, p. 13.   Desidero qui perciò ringraziare Giorgio Varisco, segretario della Società Dalmata di Storia Patria di Venezia e Confratello della Scuola Veneziana Dalmata dei SS. Giorgio e Trifone, senza il cui prezioso aiuto non sarei riuscito a recuperare nemmeno quelle poche informazioni utili a ricavare almeno la data di nascita e di morte del Paganello. 3   Ricavo qui le notizie dal sito: http://www.amazon.it/Intime-liriche-PAGANELLO-Virgilio/dp/B005WVRS3 O/ref=cm_cr-mr-title, che riporta un commento (probabilmente di una bisnipote) a una delle ancora poche copie in vendita della raccolta. Per quanto riguarda il figlio Mario, invece, sappiamo che, nato nel 1919, morirà sul fronte russo nel gennaio del 1943 (cfr. Oddone Talpo, Per l’Italia. Centocinquanta anni di storia dalmata 1797-1947, Zara, Editrice periodico Zara, p. 158, dove si legge di un certo «PAGANELLO Mario, di Virginio, nato a Zara, classe 1919»: l’errore circa l’indicazione del padre è da imputare molto probabilmente alla somiglianza tra i due nomi). Sulle vicende delle altre due figlie non si hanno, invece, notizie. 4   Riporto qui nel dettaglio, il numero di poesie per ciascuna sezione: Rina: 3; La Madre: 6; Anniversario: 1; Natale: 1; I Canti de l’Innocenza: 34; Melodie dalmatiche: 16. 2

primi appunti sulle intime liriche di virgilio paganello

251 di tutti i giorni dominano in quasi tutte le sezioni. Già a partire dall’epigrafe-dedica i legami familiari si manifestano chiaramente con il pensiero rivolto alla «madre morta»: a la madre morta il figlio che disse ah madre se tu potevi immaginare tutto il mio dolore tu non morivi 1  

Accanto all’elemento familiare, questi pochi versi mostrano come anche la morte sia un elemento centrale del volume, che attraversa tutti quanti i testi in maniera più o meno visibile; è soprattutto nel ricordo della madre che questo tema a√ora con tratti più nitidi e la sezione a lei dedicata è, da questo punto di vista, esemplare per comprendere come questo evento abbia lasciato una ferita profonda nell’animo del poeta. La sua diventa perciò anche una poesia che sonda «il fascino sublime di un mistero». 2 La Madre si apre con un componimento che rievoca forse il giorno più triste per l’autore, quello del funerale:  

Stamane, quando il sol lieto rideva su quella fossa muta che al guardo mio per sempre ti chiudeva, io sentii dentro il seno rialzarsi la mia speme caduta, e dissi: «Ti piaceva, o madre, il sol; il sol ti resti almeno». (p. 28)

Ma la consapevolezza è quella di chi ben sa che da questo evento non riuscirà a riprendersi mai («a gl’infelici / nulla ottenere è dato»), 3 perché il sonno della madre non sarà un eterno riposo ma un lungo tormento dal quale non troverà pace:  

Niente ti conforta, povera morta! Persino là dove la povera vita tace, dove vanisce ogni umano soπrire, non puoi trovar la pace. (p. 29)

Nemmeno in sogno il poeta può sperare ricongiungersi con la figura amata («Sognai ne la notte di ieri / un sogno felice: sognai / che infine ridata tu m’eri»)4 che scompare con la fine del sonno («Da questa mattina svegliato / ti cerco, ma non ti ritrovo»): 5 è una nuova morte, forse ancora più dolorosa di quella vera. Tra un resoconto dell’annus horribilis (xxxi decembre mcmxv) e una nuova visita alla tomba della defunta (In camposanto), la sezione si chiude con un lungo componimento eponimo che ha come sottotitolo ‘visione’: diviso in sette stazioni titolate, il testo riprende un motivo che avrà molta fortuna anche nella poesia italiana del Novecento, vale a dire quello dell’incontro e del colloquio con i morti. 6 Nello scambio di battute che avviene tra l’io lirico e la defunta, la ferita provocata dalla dipartita del genitore sem 



1   In verità, questi versi sono ripresi da uno dei componimenti presenti nella stessa raccolta, intitolato In camposanto (p. 40). 2   Virgilio Paganello, In campagna, in Idem, Intime liriche, cit., p. 121. 3   Virgilio Paganello, vii settembre mcmxv, in Idem, Intime liriche, cit., p. 28. 4   Virgilio Paganello, Disillusione, in Idem, Intime liriche, cit., p. 31. 5   Virgilio Paganello, vii settembre mcmxv, in Idem, Intime liriche, cit., p. 28. 6   Basti pensare alla poesia di Pascoli e del primo Montale. Ma è nel secondo Novecento che questo tema tornerà molto popolare tra i poeti: per questo rimando ai saggi contenuti nel volume di Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999 e in particolare La colpa di chi resta. Poesia e strutture antropologiche.

nicolò massucco 252 bra risanarsi: al termine del testo, infatti, la madre, dopo aver avuto la sicurezza circa la tranquillità dei cari che ha lasciato, può «ritornar dentro l’oscura / caligine [...] / contenta». 1 La visione termina però con le parole del poeta che, nonostante le rassicurazioni e la benedizione della madre, altro non vede «in mezzo a la calma notturna, / [...] l’esanime vuoto / di un’urna». 2 Attorno a queste poesie ci sono poi le altre sezioni della raccolta, non meno importanti: Rina, che si posiziona in apertura del libro, è un insieme di tre poesie strutturate in forma di poemetto che molto probabilmente narrano di un amore di gioventù del poeta con la ragazza del titolo. Di√cile dire di più non possedendo informazioni al riguardo, anche se possiamo supporre che la giovane donna andò incontro a un destino non fortunato, se nell’ultimo testo di questa parte il poeta è di fronte al mare a contemplare il dolore per la sua assenza:  



Or eccomi a la tua riva, ov’ella sovente veniva, ove fece sagramento, solo: solo nel silenzio: solo col mio tormento! (p. 22)

Continuando la nostra ricognizione della raccolta, Anniversario ci riporta al tema familiare: la dedica alla moglie ci fa entrare in una sezione dove il poeta ricorda il loro matrimonio che segna, per la ragazza, l’abbandono definitivo del «natio tetto» 3 per abbandonarsi alla «tenera promessa» 4 del suo sposo. Ma nonostante la gioiosa ricorrenza, c’è sempre un velo di pessimismo nelle parole del poeta, un profondo malessere che sembra non volerlo abbandonare:  



Vero è ben che la vita è una ruina eterna. Ma il rifletterci che giova? Despota è il tempo, e al suo voler t’inchina! (p. 55)

Come per Rina, anche qui l’intero componimento è diviso in tre parti e costituisce una sorta di poemetto dall’andamento narrativo, struttura che ricorre abbastanza frequentemente nel corso della raccolta. Natale è la sezione più corta dell’intero volume: consta infatti di un solo testo dove al poeta preme ricordare la scansione degli eventi che caratterizza la notte più attesa dai bambini. Anche qui, a fare da cornice, l’atmosfera familiare regala un quadro dalle tinte calde che però non oπre particolari spunti di riflessione. Le sezioni invece più interessanti sono, a mio giudizio, insieme alla Madre, le ultime due. I Canti de l’Innocenza si distingue per essere la più numerosa in quanto a componimenti; l’innocenza del titolo è qui da intendersi come sinonimo di infanzia: infatti, tutti i testi presi nel loro insieme costituiscono un piccolo canzoniere dedicato alla figlia Lidia: Lidia, sono per te. Facili, brevi, teneri: sono i canti del mio cuore. Esso così cantava a te il suo amore quando tu ancora non lo conoscevi. (p. 63)

Paganello compie qui un vero e proprio racconto in versi dell’infanzia della piccola figlia, un «libricino» da consegnare alla ragazza non appena l’inchiostro sarà asciutto: Di un grande amore chiudo il picciol suono: Lidia, compiuto è il libricino nostro. 1

2

3

4

  Virgilio Paganello, La madre (visione), in Idem, Intime liriche, cit., p. 50.   Virgilio Paganello, Anniversario, in Idem, Intime liriche, cit., p. 53.

  Ibidem.   Ibidem.

primi appunti sulle intime liriche di virgilio paganello

253

Ecco guarda, ancor umido è l’inchiostro. Aspetta che l’asciughi, e te lo dono. (p. 99)

Dalla nascita ai primi anni di scuola, seguiamo il percorso della piccola Lidia anche nei momenti all’apparenza più anonimi della vita quotidiana, come dimostrano i titoli delle poesie a lei dedicate: Dopo il bagno, Lidia è malata, Lidia è guarita, ecc. Le Melodie dalmatiche infine, abbandonano gli intenti narrativi delle sezioni precedenti per alzare il tono: attraverso la scelta di alcuni paesaggi, di semplici animali o momenti del giorno il poeta trasfonde il proprio sentimento in queste visioni. Si va quindi dal Mattino all’imbrunire, dalla cittadina alla via, dal rosignolo ai passeri che diventano specchio dell’animo del poeta. Un esempio su tutti: nella prima di queste Melodie (Laude a la primavera) il poeta compie un elogio della stagione primaverile nel quale mostra come il paesaggio, al suo apparire, sembra in qualche modo risvegliarsi dal torpore dell’inverno; la terra si riscalda, le notti si fanno serene e le brezze leggere solcano l’erba e il cielo. In questo tripudio di rinascita, anche l’anima del poeta si apre a un nuovo giorno: Benedetta ancor sii tu nel risveglio de l’anima mia, che da l’inerzia ria di un sonno infecondo si scuote, per dir le tue lodi. (p. 104)

E questa raccolta non poteva non chiudersi con l’aria malinconica che la caratterizza, ritornando a parlare della morte: è infatti A’ fantasmi, miei compagni che il poeta si rivolge quali immaginari dedicatari nell’ultimo testo del volume (riprendendo il topos del colloquio con i morti, già aπrontato in precedenza), quasi a volerla eleggere come l’unica compagnia che in qualche modo non lo abbandonerà mai, che il tempo non riuscirà a intaccare: Io per voi, ne la pensosa solitudine de l’ora, dopo il pianto che addolora trovo il pianto che consola, e lo fisso su le carte, mentre fuori rugiadosa, meco piange l’alta notte. Grazie o fida compagnia non mai stanca ne la lunga ed aspra via. Ma la mèta è ancor lontana; ed in me lo spirto manca, per la veglia, forse ahi vana! (p. 140)

Dal punto di vista della metrica, le Intime liriche non trovano continuità: se nei temi la raccolta si mantiene tutto sommato compatta, i singoli testi variano sia per l’uso dei versi sia per la struttura. L’endecasillabo, che comunque è il verso dominante della raccolta, si alterna molto spesso con il settenario e altre tipologie tutte comunque canoniche della tradizione metrica italiana. Sulla struttura dei singoli testi, invece, c’è ancora meno da dire: a strofe di più ampio respiro se ne alternano di più corte. Solo le poesie dedicate alla piccola Lidia sembrano trovare una certa regolarità, con venticinque componimenti su trentaquattro costituiti da due quartine. Virgilio Paganello, dunque, non può certo essere considerato un poeta di primo livello, un autore da canone insomma, ma merita comunque una menzione in questo vastissimo panorama per la capacità di tradurre in versi gli «umili e buoni aπetti della famiglia

nicolò massucco 254 […] la giornaliera attività di vissute e sentite vicende, in mille e mille atteggiamenti, abbozzati, con grazia contenuta di ritmi, nel quadro della intima pace segreta della dolce casa che amava». 1 Purtroppo, la sua triste vicenda non gli ha regalato fortuna; ma da un articolo commemorativo uscito sulla «Rivista dalmatica» due anni dopo la morte del poeta, veniamo a conoscenza di un secondo libro di poesie in preparazione, ma mai dato alle stampe perché incompiuto. Piace qui ricordare questo giovane ragazzo con alcuni inediti riportati nel numero di quella rivista, «fiori che ora sembrano cresciuti sulla sua tomba»: 2  



il macigno i Sotto il pallido gelo de la luna, con la sinistra foscheggiante mole ingombron le montagnee l’aria bruna, are innalzate da una strana prole di tribolati ad un Principio ignoto, in una stanca nostalgia di sole. Su la conca del mar sonnecchia immoto l’umido vento: asfissiante grava sovra le terre lo squallor del vuoto. Corrode l’acqua, ne la notte, e lava; lava e corrode dolorosamente: il salso morso un’ardua roccia scava, trita, consuma, ne la sua apparente inerzia. Col remeggio di bianc’ala che languida declini, a l’occidente, la luna dietro le montagne cala. ii Tenebrore e silenzio!... Ne le cupe ombre il travaglio di uno sforzo immane puntella il dorso ossuto de la rupe. Dormon tacite, in giro, forme strane di cose, tutte avvolte nel mistero d’altre cose che dormon, più lontane. Pioviscola da l’alto l’aere nero sul tedio de le forme addormentate una malinconia di cimitero. L’acqua corrode e lava le intaccate radici de lo scoglio: ne l’eterno riasciugamento de le sue sorsate geme il singulto di un aπanno interno. iii Un timido esitar di luce scialba.... un riso di risveglio che scintilla dentro un profumo di freschezza... L’alba!

1   Francesco Semi, Vanni Tacconi, Istria e Dalmazia. Uomini e tempi, ii, Dalmazia. Le figure più rappresentative della civiltà dalmata nei diversi momenti della storia, Udine, Del Bianco, 1991, p. 686. 2   Liriche di Virgilio Paganello, «La Rivista dalmatica», vi, 4, 1923, p. 52.

primi appunti sulle intime liriche di virgilio paganello Ne l’oriente s’apre una pupilla fulgida, a poco a poco. Su le cose, sciolto dal suo torpor lo spazio oscilla. S’alzano in cielo nugoli di rose porporeggianti fra una nebbia d’oro: un trionfo di tinte vaporose. Esulta un trillo, ne l’aria, sonoro e lungo: mille canti in un sol canto s’aggruppan, mille cori in un sol coro. Natura scuote il rugiadoso manto, e attende, nel sorriso de l’aurora, grand’anima sospesa, a l’inno. Intanto più vivo l’oriente s’incolora. iv Ed il macigno dorme, dorme ancora. Eppur già ogni creatura è desta: ma lui non sa, il macigno: dorme e ignora. Non lo sfarzo di tinte, non la festa del risveglio, non la magia del suono de le voci inneggianti, nulla il desta. Lui dorme ancora, immobilmente, prono, tutto costretto ne lo scoramento d’un muto inconsolabile abbandono, solo con sé, solo col suo tormento. il vecchio Il fiume corre corre a la sua foce e con lucido salto si dà al mare. Il vecchio vede quell’andar veloce, ma l’occhio volge, e non lo vuol guardare. Siede accasciato, il capo a terra chino, e ripensa la fonte ove, bambino, stando un giorno ozioso a meriggiare, avea sognato sì lontano il mare! la calletta Deriva da la piazza, stretta stretta col ciottolato lustro ed inuguale, e dritta si dilunga la calletta. Su rozze scranne, a’ lati, o su le scale, ad intervalli brevi, contadine vedi cucire, con le teste chine sul rigonfio cuscino del ricamo. Nel fondo, irresistibile richiamo, in un perpetuo lene tremolare azzureggiando si dischiude il mare.

255

nicolò massucco

256 pioggia

Ne l’afa mattinale mi sembra che crocchi una pigna, poi brusco un frullo d’ale che investa, incalzando, la vigna. Più furioso assale. Per poco. La pioggia benigna continua con crepito uguale giù giù da la vôlta ferrigna. Per l’aria senza vento s’aggira il guardo beato come in un mare d’argento; mentre fresco un a∫ato quasi di rinnovamento corre attraverso il creato.

LA SUGGESTIVA POETICA DI LUIGI MIOTTO SPALATINO (1924-2012) Irene Visintini

F

a parte dell’illustre tradizione di studiosi e memorialisti del mondo dalmata il noto poeta e saggista Luigi Miotto, nato a Spalato nel 1924, profugo a Trieste, dove è vissuto dopo l’esodo della sua antica famiglia, fortemente radicata in Dalmazia, di cui Miotto è divenuto il testimone e, soprattutto, il cantore. Una Dalmazia vissuta, goduta, e poi sognata e perduta, una Dalmazia che nelle sue pagine liriche, narrative e saggistiche, in poesia e in prosa, si innalza nella dimensione del mito. I riflessi della sua tragedia di esule si esprimono nella sua sensibilità di scrittore, nella sua poetica, nelle sue inquietudini, accompagnano costantemente la sua opera letteraria che si è sviluppata, per più di un sessantennio, con varietà di forme, linguaggi, registri espressivi, in cui prevale il corpus poetico con le sue suggestive immagini simboliche e metaforiche. La sua formazione, nell’infanzia e nell’adolescenza, aπonda le radici a Spalato, l’amata e rimpianta città natale, in cui frequentò le elementari italiane e poi a Zara, dove lo ritroviamo studente al Ginnasio e Liceo ‘G. d’Annunzio’. Da profugo, consegue invece la maturità classica al Liceo Classico ‘F. Petrarca’ di Trieste e la laurea in Filosofia presso la neocostituita Facoltà di Lettere e Filosofia della sua città d’adozione (1947). Autore di numerose raccolte di poesie, che ha iniziato a scrivere giovanissimo, nel ’42, anno della pubblicazione delle prime sillogi Autunnale 1 e Ragnatele, 2 Luigi Miotto ha continuato a percorrere il suo lungo itinerario poetico a Trieste, pubblicando oltre una decina di opere liriche, sino alla raccolta Accendere parole, 3 mantenendo intatto il nucleo tematico dell’amore per la sua patria perduta, sia pur accentuando la dimensione metatemporale dell’eternità. Il suo nome è legato anche a vari studi storico-letterari, tra cui prose, antologie di racconti, testi vari dedicati alla storia e al folclore dalmata, alle credenze popolari dell’Alto Adriatico, sino a Prose e poesie, 4 edito nel 2006 dall’Associazione delle Comunità Istriane, nonché un originale vocabolario sul dialetto veneto – dalmata, pubblicato sulla «Rivista Dalmatica» di Roma. Esso contiene circa cinquemila parole dialettali trattate in un contesto fraseologico, con proverbi, modi di dire, canzonette popolari, ecc. Molte le sue composizioni dedicate alla sua città d’adozione; è autore, inoltre, della Preghiera dell’uomo di mare, con approvazione ecclesiastica del 1979, musicata per organo. Rilevanti i suoi studi eruditi su Tommaseo, San Girolamo e altri pubblicati per lo più sulla «Porta Orientale», sulla «Rivista Dalmatica», sulla «Voce Giuliana», ecc. Sono saggi che esprimono la meditazione intima e pensosa che caratterizza tutta la sua produzione: messaggi privi di ira e di odio, che evocano echi lontani permeati di umanesimo. Noto per la sua lirica ricca di risvolti psicologici, di trasfigurazioni paesaggistiche, il poeta esule ricostruisce lentamente i frammenti dell’originaria totalità frantumata e per 







1

  Luigi Miotto,   Luigi Miotto, 3   Luigi Miotto, 4   Luigi Miotto, 2

Autunnale, Spalato, Tipografia Commerciale, 1942. Ragnatele, Spalato, Tipografia Commerciale, 1942. Accendere parole, Trieste, Luglio, 2008. Prose e poesie, Trieste, Associazione delle Comunità Istriane, 2006.

irene visintini 258 duta del suo mondo dalmata, i lontani luoghi che ne ricompongono l’immagine, delinea i ritratti luminosi della terra e del mare dei suoi avi, i volti dei personaggi di una piccola patria non più sua: una profonda nostalgia, quella di Luigi Miotto, che pare stemperarsi quasi in un addio alla vita, nonostante l’approdo e l’esistenza successiva a Trieste, nella sua nuova città d’elezione. Le sue composizioni liriche sono per lo più brevi, essenziali, caratterizzate da una pregnanza analogica, allusiva e simbolica; tematiche destinate ad allargarsi seguendo vari interessi umani e culturali: accanto al nucleo centrale della Dalmazia, costantemente ricordata con tono aπettuoso, arioso e colorito, compaiono, negli anni successivi, il tema religioso della preghiera e dell’invocazione a Dio, il tema esistenziale con le sue problematiche tribolazioni, la violenza del male nei lager, e altri. Questa poesia dell’esilio, con le sue illuminazioni rapide, che lasciano nitide immagini ed evocano musiche nostalgiche che riflettono il dolore per un regno infantile perduto, ha avuto vari critici e interpreti importanti, noti anche a livello nazionale (Bettiza, Stuparich, Magris, ecc.); in particolare il grande poeta gradese Biagio Marin, che ha seguito l’evolversi della poetica dell’autore spalatino, come si può rilevare dalle lettere del breve epistolario tra loro intercorso. Questa tragedia personale dei tanti nostri che hanno dovuto lasciare la propria terra, la città e i paesi sul mare o tra i colli, le case con nelle finestre il mare sereno, i brevi cortili con un albero di fichi o di susini, non ha avuto avuto ancora un’espressione d’arte che la esaurisca... Questi versi di Luigi Miotto, del dalmata che ha lasciato la sua città marina, portando nei suoi occhi le visioni solari di quel suo mondo, perduto proprio quando stava per impossessarsene con l’avidità di un amante, non si devono ignorare.1

Così ha scritto, in una lettera degli Anni Cinquanta, Biagio Marin, che evoca gli ‘attacchi’ struggenti delle poesie di Miotto, quelle che lasciano nel cuore echi di canto, o se vuoi intonazioni di salmo, che ti danno quasi un dolore fisico... Già il titolo di una delle prime sillogi dell’autore, Memoria del sole 2 del ’55, induce Marin a denominarlo «uomo d’occhi», ossia lo porta a focalizzare quella profonda capacità visiva interiore ed esteriore di Miotto che permette al poeta spalatino di catturare vivide immagini cromatiche col suo verso essenziale e musicale, ma anche di esternare il suo mondo introspettivo e intimistico, di osservare lo spettacolo dell’esistenza e della natura del suo particolare microcosmo dalmata, scrutandolo con ra√nata intensità, senza pace contemplativa, anzi con un’interna inquietudine, legata alla consapevolezza del disfacimento e dell’abbandono delle cose amate. Una realtà sempre più lontana, la tristezza che si muta in musica, sono i fili conduttori di un mondo poetico in cui la nota della memoria, della malinconia descrittiva ed elegiaca si eπondono in intensi momenti lirici, in una dimensione mitica. Il dramma dello sradicamento, lo stigma dell’assenza, la perdita della propria terra, la Dalmazia, della propria città, Spalato, e infine del proprio io si evidenziano, per esempio, nella suggestiva silloge Tempo di vivere, tempo di morire, pubblicata a Trieste nel 1973, nella prestigiosa collana «Il Timavo» della Società Artistico Letteraria di Marcello Fraulini. Indelebili sono i segni lasciati dalla diaspora, la voce del poeta si eleva a una sfera collettiva ed evidenzia il senso di estraneità, di angoscia, propria dell’esule che non ritornerà, non ricalcherà più i luoghi amati. Restano i morti: egli proietta in oggetti e figure il senso più profondo del suo dolore: «I morti sono rimasti laggiù / perché / più nessuno / li separa dal sasso / perché / più nessuno / li separa dal buio». 3  



1   Citazione tratta da una lettera privata di Biagio Marin a Luigi Miotto. Questa citazione fu dettata verbalmente alla sottoscritta da Miotto; verosimilmente la lettera può essere datata 1955 (carteggio di proprietà Luigi Miotto). 2   Luigi Miotto, Memorie del sole, Trieste, Tipografia Monciatti, 1955. 3   Luigi Miotto, Tempo di vivere, tempo di morire, Trieste, Società Artistico Letteraria, 1973, p. 28.

la suggestiva poetica di luigi miotto spalatino (1924-2012)

259 Il microcosmo dalmata ricompare nell’ultimo ra√nato volumetto di liriche Accendere parole, 1 ancora una volta incentrato su intensi motivi di carattere psicologico, esistenziale, familiare e amoroso. Miotto dedica, in questa silloge, versi suggestivi al trascolorare del tempo, all’attenuarsi del ricordo, pur sempre vivo della sua Dalmazia, terra di porte auree e argentee, terra che ha avuto colori a olio, che erano ancora luce e grido, che si è poi stemperata in acquarello, nebbia che lentamente saliva... Adesso, secondo il poeta, non gli resta che qualche tratto di matita, un orizzonte per la vela, che si fa gabbiano, e così si allontana. Da un degradato mondo postindustriale sale l’invocazione a Dio come unico approdo; gli elementi naturalistici si decantano, perdono ogni residuo pittorico. La vena del poeta è più malinconica e oscura, le riflessioni sempre più amare. Si avverte la caducità del transitorio e dell’e√mero, l’appressamento della morte. La barca ha paura di allontanarsi dal molo, la poesia è una bottiglia a mare in cui nessuno crede, il poeta una vela tradita dal vento. Inutile tornare al paradiso perduto, inutile tornare a Itaca. Una delle opere più complesse di Luigi Miotto è tuttora il libro Prose e poesie 2 edito dall’Associazione delle Comunità Istriane; il proposito di Luigi Miotto è quello di descrivere le bellezze paesaggistiche della Dalmazia, ma soprattutto quello di narrare, attraverso le notizie, le vicende, il folclore, le curiosità, i proverbi, ma anche i sentimenti, i colori e i profumi, l’autenticità del popolo dalmata di un tempo, la sua quotidianità, espressa con ricchezza di dati significativi e sentimenti di viva partecipazione. Si tratta di una cinquantina di prose, più o meno brevi, bilanciate tra lo struggente ricordo del passato e l’amarezza, la rassegnazione del presente, cui si aggiungono quattordici ispirate liriche: i testi in prosa tramandano il ricordo della vita comunitaria, un patrimonio di usi e costumi, un percorso interessante, intenso, spesso drammatico. Il libro si apre con un capitolo dedicato a una Dalmazia prostrata dall’infierire della ‘morte nera’, come veniva definita la peste che per secoli, e ancora sino ai primi anni dell’800, colpì questa terra. Miotto ha vissuto l’infanzia in Dalmazia, un’età della vita in cui volti, colori, sapori si imprimono nella mente: egli sa cogliere anche le voci, i suoni, le amorose musiche di casa sua, che la gente ormai non usa quasi più, ma che ha sentito da bambino, interiorizzando le parole, i versi, i vecchi strambotti, le canzoni e le canzonette della Dalmazia veneta. Anche la ‘gusla’, antichissimo strumento musicale e i ‘guslari’, antichi bardi, nomadi vecchi e ciechi, che sanno rievocare le gesta epiche di Marco Kraglievich nella guerra contro i turchi invasori, assumono una statuaria grandezza nelle pagine di Miotto. Da tempo immemorabile i proverbi, i motti, le sentenze, i precetti morali, le superstizioni e le credenze in esseri soprannaturali, quali le streghe, gli stregoni, il diavolo, variamente legati ai momenti e agli eventi dell’anno solare e religioso, come pure alla vita contadina, hanno contribuito a determinare le peculiarità umane e morali di una popolazione come quella dalmata. Lo schietto estro popolare si esprime anche nell’immagine sfaccettata e articolata della donna, vista attraverso proverbi arguti, modi di dire spesso umoristici, che definiscono anche il vino e la tavola, centro aπettivo della casa. Nella vasta produzione letteraria di Luigi Miotto, legata a quelli che Cergoly definisce «i teatrini della memoria», appaiono quadretti, spaccati della città e della campagna, meravigliosi paesaggi marini della terra natìa, ritratti di personaggi, come quello del fratello scomparso o del vecchio pescatore che vuol morire in mare, non all’ospedale, cui si contrappone l’immagine solare della ‘mularìa’, cittadina o campagnola, sempre sana e vigorosa.  



1

  Luigi Miotto, Accendere parole, cit.

2

  Luigi Miotto, Prose e poesie, cit.

irene visintini 260 Ma sono soprattutto gli elementi paesaggistici – il mare, il cielo, il sole, le innumerevoli isole di pietra – a comparire con evidenza visiva e scintillante cromatismo e a costituire il centro di queste composizioni prosastiche, cui è sottesa una profonda liricità. Lo splendore delle coste e delle isole dalmate, «gettate sopra il velluto del mare», calcinate dal sole, avvolte da un colorismo fiabesco, sembra emergere da remote lontananze; così pure molti sono i fenomeni che caratterizzano questa Dalmazia straordinaria, magica, sospesa tra terra e cielo. Nella mitologia della propria terra perduta, compare spesso il mare visto anche come spazio di lavoro e di commerci, di imbarcazioni di tutti i tipi, tra cui le famose ‘brazzere’, colme di merci, mentre l’antica saggezza dei pescatori è espressa con un lessico e gergo che indica con precisione i nomi dei pesci e la toponomastica locale, indicati con espressioni dialettali. Luigi Miotto, ben consapevole che l’identità del suo mondo è intrecciata alla lingua, usa talvolta il suo dialetto anche nelle liriche, spesso improntate a religiosità e misticismo. Egli sembra avvertire con sensibilità e intensità anche l’animismo della natura, le presenze vegetali e animali che popolano la terra, il mare e il cielo: col gabbiano, creatura del mare e del cielo, stabilisce, per esempio, un contatto quasi francescano. La Dalmazia ‘una e trina’ appare nelle sue pagine: quella aurifera, frondosa e pescosa, legata cioè alle miniere d’oro dei tempi antichi, allo sfruttamento e al commercio del legno e al ricco patrimonio ittico, caratterizzato dalla varietà più che dalla quantità. Si staglia, nelle pagine dell’autore, anche una Dalmazia favolosa nelle bellezze del suo sempre vario paesaggio montano e marittimo, terrestre e insulare, nelle monumentali testimonianze della sua storia, verso la quale volavano una volta le aquile di Roma e gli alati leoni di Venezia. Una Dalmazia dalle tante sfaccettature che rivive attraverso le tradizioni, i ricordi, la nostalgia dell’autore: una terra leggendaria, folcloristica, comica e irriverente anche, ma altrettanto austera, religiosa oltre che tormentata nelle sue vicende storiche. Una voce, quella dell’autore spalatino, che acquista la propria specificità, senza staccarsi dalla propria microstoria autobiografica, psicologica e sentimentale da una parte, regionale e ambientale dall’altra. Un bilancio artistico, o forse il desiderio di evidenziare il senso unitario della propria, ormai lunga vicenda esistenziale e culturale. Una storia umana segnata, non dimentichiamolo, dalla dolorosa, tragica esperienza dell’esodo che ha condizionato l’esistenza dell’autore, nel cui intimo qualcosa sembra essersi spezzato, per sempre irrisolto. Sollecitato da una nostalgia inguaribile per la sua terra, la sua città e i suoi dintorni, nei quali trova la vera ragione del suo esistere, egli riporta impressioni, immagini impareggiabili che evocano richiami interiori. Ma ampio è pure lo spazio che acquistano nel libro alcuni particolari concreti, come la vite e l’olivo, tipiche coltivazioni mediterranee, le piante e le erbe e, in genere, il mondo vegetale che nell’area dalmata è collegato alla vita economica, sociale e culturale della popolazione. Un mondo vegetale di cui conserva le singole denominazioni dialettali, che rappresentano un patrimonio da tramandare. L’autore sa, dunque, cogliere la realtà complessa, sommersa e nascosta, ma ancor viva e tenace del mondo dalmata e portarla in superficie, soprattutto attraverso la memoria; particolare evidenza acquistano il vagheggiamento del mare, delle corone di isole, anch’esse dettagliatamente descritte. Forte di legami antichi, indissolubili, egli si esprime, nella suggestione dell’amore per la sua terra e la sua gente, con uno stile asciutto, sobrio, genuino e semplice, in cui si evidenzia la componente descrittiva, ma anche quella esistenziale e psicologica. Accanto alle peculiarità fisiche e geografiche della sua regione,

la suggestiva poetica di luigi miotto spalatino (1924-2012)

261 rappresenta anche i modi di vita, i mestieri di un tempo, ora in disuso, il carattere, la saggezza della popolazione e le sue terribili vicende storiche, dalle sanguinose guerre con i turchi, alla presenza inquietante degli zingari, alle eπeratezze dei pirati che persino intingevano il pane nel sangue dei loro nemici. Così pure, nelle sue liriche, appare una vasta gamma di temi e motivi, dall’esilio al terremoto in Friuli, alle atroci guerre fratricide degli ultimi anni, al ritratto di personaggi illustri quali il vescovo Santin o il poeta Biagio Marin. Miotto ci oπre preziose esperienze e conoscenze del passato di questo mondo ormai lontano, ma anche una nuova opportunità per dimostrare l’appartenenza della Dalmazia a Venezia, alla civiltà veneta, al mondo mediterraneo: le sue pagine ripercorrono pure la storia gloriosa della navigazione, dei trasporti, delle attività commerciali, delle iniziative imprenditoriali (dai tempi gloriosi di Venezia), dei porti adatti all’attracco di pescherecci di vario tipo; rileva le forti tradizioni marinaresche di origini antichissime dell’area del Quarnero: Spalato, Zara e le isole del Quarnero hanno ospitato da sempre le sedi di grandi e importanti compagnie armatoriali, mentre nella popolazione autoctona è innata la vocazione dell’‘andar per mare’, mantenuta fino ai giorni nostri. Ed è proprio l’universo marino ad attrarlo in modo particolare, il vagheggiamento del mare, sede istintiva di bellezza e di vitalità, di avventura, un vero e proprio mito che infrange la superficie naturalistica ed esprime, con ra√nate cadenze evocative ed allusive, la sfera dei sentimenti dell’autore e dei suoi viaggi nel passato, che gli permettono di ricostruire la sua città, le sue meditazioni esistenziali, spesso incentrate sul proprio destino di esule. Con il passare del tempo si avvertono, però, in questi schizzi lirici, in queste prose poetiche, anche il disagio del vivere, la solitudine, l’inquietudine, il dissidio tra presente e passato che talvolta si fa angoscia; la vena lirica solare trascolora nell’oscurità, diventa sempre più cupa. I coriandoli carnevaleschi si fanno sempre più neri, impauriscono le fin troppo simboliche maschere dai mantelli neri e dai teschi ghignanti. Consapevole della sua condizione storica ed esistenziale di solitudine e di esilio, da cui è impossibile ogni fuga o evasione, se non il ricupero dell’infanzia e dell’adolescenza trascorse in Dalmazia, Luigi Miotto non vagheggia, non vuole inutili ritorni. Ed è questa ‘la chiave di volta’ del libro, come l’ha definita l’autore stesso. Lo sfumare del sogno e il decomporsi del suo universo felice e luminoso, il definitivo addio a una Dalmazia fortemente amata e perduta per sempre, una Dalmazia divenuta paesaggio mentale, mondo di bellezza e suggestioni fiabesche, visto ormai solo da lontano, da Trieste, punto estremo di un mondo intimamente vissuto, compare nelle pagine conclusive del libro: è una Dalmazia sprofondata nel ricordo, con la sua natura incontaminata, le sue isole – gioiello incastonate nell’azzurro e nel verde del mare divino quella che Luigi Miotto ha saputo rievocare e cantare mirabilmente, oπrendone al lettore un imperituro ricordo.

LA DIMENSIONE STORICA DELLA DALMAZIA ENTRO GLI SPAZI NARRATIVI DI ANNAMARIA TIBERI Eliana Moscarda Mirković

P

artendo dal presupposto che il concetto di ‘frontiera’ 1 (assieme a quelli correlati di ‘cultura/letteratura di frontiera’) è intimamente legato a Trieste e che le frontiere siano da sempre esistite ed abbiano da sempre giocato un ruolo fondamentale non solo nella storia della nostra regione, ma in quella dell’umanità intera e che esse siano al tempo stesso spazi di scambio culturale e commerciale, di guerre e tregue, di scoperte ed esplorazioni, non crediamo temerario aπermare che ogni civiltà, in definitiva, ha bisogno delle proprie frontiere, poiché esse fanno parte del naturale processo di auto-definizione. La nozione di ‘frontiera’ ingloba tre diverse tipologie di ‘spazio’: quello per così dire ‘interno’, dell’identità; quello, ‘esterno’, dell’alterità; quello, infine, dei rapporti tra il primo e il secondo, ovvero il vero e proprio spazio della frontiera. Quest’ultimo è, inevitabilmente, caratterizzato dalla necessità di fuggire l’identificazione con ciascuno degli spazi adiacenti, dai quali si trae alimento al tempo stesso in cui li si rifiuta, e ha il tratto distintivo della commistione, dell’indeterminatezza e della dinamicità.  

Il confine indica un limite comune, una separazione tra spazi contigui; è anche un modo per stabilire in via pacifica il diritto di proprietà di ognuno in un territorio conteso. La frontiera rappresenta invece la fine della terra, il limite ultimo oltre il quale avventurarsi significa andare al di là della superstizione contro il volere degli dèi, oltre il giusto e il consentito, verso l’inconoscibile che ne avrebbe scatenato l’invidia. 2  

Lo spazio entro il quale si colloca l’opera letteraria di Annamaria Tiberi 3 è quello della frontiera adriatica da Trieste, la città dove è nata e cresciuta, alla Dalmazia, e a Spalato in particolare, dove aπonda parte delle sue radici. Le sue poesie e prose portano l’impronta del paesaggio marino della costa dalmata e delle sue memorie culturali, storiche e sociali. Vi emergono paesaggi dalmati spesso inseriti in una sorta di scenario mentale fatto di «luci e maree» – come recita il titolo di una sua silloge – filtrato attraverso la dimensione del ricordo, e pertanto immerso nell’estensione del mito. Per alcuni aspetti, secondo Irene Visintini, l’autrice avrebbe precorso i tempi di un’apertura europea, dello spirito di fratellanza e pacifica convivenza tra i popoli; per altri, invece, ha ricalcato i modelli di una preterita koinè adriatica, avendo ambientato la pro 

1   Il concetto di ‘frontiera’, con riferimento a Trieste e Gorizia, fu elaborato all’inizio del Novecento da intellettuali come Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, Scipio Slataper, per poi essere continuamente messo in discussione, nei suoi vari aspetti, da numerosi scrittori e uomini di cultura, anche non appartenenti a quest’area, tra i quali si distinguono Giuseppe Ungaretti, Elias Canetti, Milan Kundera, Ervino Pocar, fino a Claudio Magris, Fulvio Tomizza, Angelo Ara, Joseph Zoderer, Alois Rebula, Franz Tumler, Camillo Medeot, Celso Macor. 2   Piero Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Milano, Mondadori, 2000, p. 10. 3   Annamaria Tiberi (Trieste, 1932-2004) nacque a Trieste da madre spalatina e padre abruzzese. Sviluppò un particolare legame con la città della madre, dove incontrò anche il marito. Tra le sue opere ricorderemo: Capogiri di vento, Padova, Rebellato, 1970; Foglio delle istruzioni, acqueforti di Giuliana Consilvio, Milano, Laboratorio delle Arti, 1977; Vivisezione di una donna: poesie, Roma, Gabrieli, 1982; Lui diceva sempre: racconti, Brescia, Edizioni bresciane, 1984; Una famiglia bergamasca alla periferia dell’impero veneziano, con Mladen Čulić Dalbello, s.l., s.n., 1990; Luci e maree: Dalmazia 1969-1996, Milano, Hefti, 1997; Sole nero, Rijeka-Fiume, Edit, 1999; Nirvana, Striano, Biblioteca di Presenza, 2000; Donna di frontiera realtà e sogno: racconti, Empoli, Ibiskos, 2001.

263 la dimensione storica della dalmazia in annamaria tiberi pria produzione artistica al di qua e al di là da quel mare che solo nel corso del secondo dopoguerra, era divenuto un confine di profonda divisione. 1 Nella raccolta Sole nero, 2 della Dalmazia Annamaria Tiberi ci oπre una visione cinquecentesca, cogliendone alcuni aspetti socio-ideologici nel magma storico dell’epoca. Il volume comprende quattro racconti (L’eredità mancata, Il sangue sul rosmarino, El bataor, Una domenica del 1573) a√ancati dalla versione in lingua croata di Srećko Cuculić. I primi tre abbracciano il versante narrativo storico d’azione (con una concatenazione, a livello della trama, tra il finale del primo e l’incipit del secondo) mentre il quarto, cronologicamente ambientato appunto nel 1573, si sviluppa nel nucleo più antico di Spalato, piazza del Duomo, presentando uno scenario prettamente urbano, con al centro la storia di una psicosi collettiva che sfocia nella persecuzione di una presunta strega, a testimonianza di un inflessibile e programmatico, secolare accanimento contro le donne. La recensione del libro è stata a√data al marito dell’autrice, Mladen Čulić Dalbello. La scrittura di Tiberi, in questi racconti, non può certamente essere definita ‘rivoluzionaria’: vi si riscontrano gli elementi usuali della narrativa breve, volta all’essenzialità, di presa immediata e di facile lettura. L’ambientazione è storica, come si è detto, e l’ambiente geografico è, in tutti i racconti, prevalentemente riconducibile all’area dalmata all’epoca della battaglia di Lepanto fra l’Impero Ottomano e la flotta cristiana di Venezia, 3 con squarci di cronaca romanzata in cui l’azione prevale, assieme al dato descrittivo, sulle note storico-informative. Trattandosi di finzione letteraria, nei racconti, pur non mancando precisi riferimenti storici (come quello all’assalto e al successivo assedio, nell’agosto del 1571, della città dalmata di Curzola da parte di Uluç Ali Paşa), vengono perlopiù a mancare un preciso inquadramento storico e la lucidità dell’inchiesta scientifica; pertanto nella metafora dell’eclissi, sia a livello visivo (l’immagine di copertina) sia nel titolo (Sole nero), ci sembra di cogliere, soprattutto, la volontà di denuncia, da parte dell’autrice, della centralità degli aspetti socio-antropologici all’interno del più vasto quadro di un’epoca di contraddizioni e di crisi, quale fu quella cinquecentesca, durante la quale la popolazione dalmata, politicamente e culturalmente alleata di Venezia, si trovò alle prese con una realtà molto distante dalla propria, quale quella delle incursioni corsare turche lungo le proprie coste. Sole nero o semplicemente eclissi, quindi, forse proprio perché la storia, in definitiva, non può dar luogo a una sistematizzazione e non può essere integrata in un ordine stabilito, e quella illustrata dall’autrice è una dimensione storica che rappresenta una rottura dell’ordine in cui gli uomini, indistintamente ed indipendentemente dal rispettivo credo religioso, sono posti di fronte alle proprie debolezze. Ciò che la scrittrice ci oπre è una visuale su una durezza di vita ed esistenziale senza precedenti; su uomini e donne molti dei quali, nel vortice degli avvenimenti storici, furono chiamati ad essere protagonisti loro malgrado. E la rappresentazione dei singoli caratteri si accompagna a quella corale di gruppi umani diversi, dissimili ideologicamente e culturalmente, in un mondo quasi costretto alla violenza dal confronto e dallo scontro tra mondi e mentalità incompatibili. I racconti focalizzano lo sguardo sulla società dalmata della seconda metà del Cinquecento ripercorrendone la struttura, le sfide e gli scenari, articolati e costruiti intorno ad attori individuali e/o collettivi, protagonisti e/o comparse di cui un narratore onniscien 





1  Cfr. Carlo Cetteo Cipriani, Ricordo di Annamaria Tiberi Čulić Dalbello, «Atti e Memorie della Società Dalmata di Storia Patria», xxvi (n.s. xv), 6, 2004, pp. 251-252. 2   Annamaria Tiberi, Sole nero-Crno sunce, Rijeka-Fiume, Edit, 1999. 3   La battaglia di Lepanto (1571) fu la prima grande vittoria di un’armata o flotta cristiana occidentale contro l’Impero Ottomano. La sua importanza fu perlopiù psicologica, dato che fino a quel momento i Turchi erano stati per decenni in costante espansione territoriale ed avevano vinto tutte le principali battaglie ingaggiate contro i cristiani d’Oriente.

264 eliana moscarda mirković te extradiegetico (che ama mantenere la forma dialogica dei turni di parola), narra le vicende entro una trama soggetta a continue variazioni d’ambientazione, che circoscrive la regione dei possibili eventi narrabili entro un mondo vitale in cui si intrecciano e si mettono in sequenza unitaria le interazioni degli appartenenti ai vari gruppi sociali, le cui azioni, pur partendo da Spalato, si spostano continuamente lungo un itinerario che va da Curzola alla piana della Narenta, a Mostar, a Sarajevo, per ritornare a Spalato attraverso Livno, Sinj, Clissa. Il mattino dopo pioveva e faceva quasi freddo, per quanto si fosse in estate. Che clima aveva Sarajevo? […] Ma dove correvano tutti? Pareva che nessuno lavorasse, se si escludevano le donne che oπrivano dolci e i mercanti accosciati, che salmodiavano i meriti delle merci. Era un mondo troppo diverso dal suo, che non gli piaceva. Mancava in esso quel senso d’ordine, d’armonia, quella gioiosa necessità di fare, che erano propri del mondo che aveva lasciato. 1  

Edda Serra, nella prefazione alla raccolta, osserva come «potrebbe meravigliare il fatto che all’aprirsi del terzo millennio, mentre gli intellettuali si interrogano sul postmoderno o sulla postavanguardia e si provvede a giudicare le cose per destrutturare, e ci si disancora da una prospettiva storicistica – e dalla storia – un’autrice si rivolga alla narrativa storica per fermarsi su fatti lontani più di quattro secoli». 2 Una connessione con l’avanguardia, all’interno di questi racconti, ci sembra invece si possa cogliere, attraverso il rapporto inter-mediale, rappresentato in maniera sia occulta che esplicita, esistente tra la scrittura e la pittura, intesa quest’ultima come artefatto bimediale. Non ci riferiamo soltanto alle illustrazioni che corredano il testo, bensì anche alla modalità di scrittura dell’autrice, i cui brani descrittivi, che ci fanno muovere in un paesaggio di architetture, strade, vie, piazze, palazzi, chiese, mercati e moschee, torri di difesa, oggetti d’arte (ma anche oggetti legati alla quotidianità), riprendono la convenzione organizzativa delle arti visive. Né mancano espliciti riferimenti agli artisti che hanno dato vita alle opere d’arte della Dalmazia.  

Ed ora le sue navi erano giunte nel porto di Curzola. Se ne accorsero Ottavio e il Priore, ma non c’era più tempo per mettersi in salvo. Il fatto è che stavano esaminando un bataor di bronzo, attribuito a Giorgio Orsini di Sebenico. La figura centrale e gli animali, che la contornavano, delineando la forma del picchiotto, erano stati scolpiti, insieme ai tralci floreali, da una mano abilissima. 3  

I racconti di Sole nero si sviluppano secondo una struttura pressoché lineare nella quale convergono le narrazioni delle vite dei singoli personaggi implicati negli eventi storici, generalmente traumatici, e trovano posto una serie di casualità, conflitti e intrusioni che ne modificano di volta in volta, più o meno sensibilmente, la progressione. Mentre le trame dei racconti si sviluppano in ordine cronologico, le descrizioni in essi contenute sono al contrario sincroniche e ra√gurano quadri statici che si estendono nello spazio e non nel tempo, ponendosi così in rapporto paradigmatico – ‘concorrenziale’, si potrebbe dire – con le arti figurative, in particolare con la pittura e con l’architettura. 4  

1

  Annamaria Tiberi, Sole nero-Crno sunce, cit., pp. 64-65.   Edda Serra, Prefazione, in Annamaria Tiberi, Sole nero-Crno sunce, cit.   Annamaria Tiberi, Sole nero-Crno sunce, cit., p. 57. Giorgio di Matteo o Giorgio da Sebenico, Giorgio Orsini da Sebenico, o anche solo Giorgio Orsini, in croato prevalentemente Juraj Dalmatinac (Zara 1410 circa-Sebenico 1475) fu uno scultore, architetto e urbanista dalmata. Fu uno degli esponenti principali di quel particolare tipo di Rinascimento (Rinascimento adriatico) che si diπuse tra Dalmazia, Venezia e le Marche, caratterizzato da una riscoperta dell’arte classica accompagnata però da una certa continuità formale con l’arte gotica. La sua arte va collocata tra proto-rinascimento e tardo-gotico. Le sue opere rappresentano il momento più alto dell’arte medioevale-rinascimentale in Dalmazia e nelle Marche. 4  La contrapposizione si nota anche a livello linguistico con l’utilizzo del perfetto, o presente storico (tempi dell’azione-tempi del primo piano), nella narrazione dell’intreccio, e l’uso invece dell’imperfetto nelle descrizioni paesaggistiche (tempo della descrizione-tempo dello sfondo). 2 3

265

la dimensione storica della dalmazia in annamaria tiberi

La pianura era come una gran piazza verde e tranquilla: in fondo, appena un poco elevata sul mare, illuminata dal sole del pomeriggio, la città fortificata, con le sue torri e i campanili, si delineava nitida. E pareva piccola, tra il mare, il cielo e i contorni fuligginosi delle isole. […] Verso la punta dell’isolotto di Bua, due galere avanzavano, con le vele flosce per la bonaccia, a forza di remi. […] Erano agili e maestose e parevano grandi uccelli marini, che procedessero silenziosi sull’acqua. 1  

Si tratta insomma di testi che, oltre alla matrice narrativa, rivendicano a sé, appunto, anche quella visiva, attraverso la capacità della letteratura di attingere al mondo dell’arte pittorica, nel tentativo moderno di varcare i limiti classici della ‘monodimensionale’ descrizione verbale. Ci sembra quindi appropriato aπermare che, all’interno di questi racconti, arti visuali e letteratura non si incontrino in maniera occasionale, ma che tra le une e l’altra si instauri una proficua co-operazione. La scelta di parlare di inter-medialità è principalmente giustificata dal fatto che, inframmezzate alle non molte pagine (quarantacinque in totale) occupate dai racconti di cui qui ci stiamo occupando, appaiono complessivamente ben dieci illustrazioni (tre ad opera della scrittrice stessa – Cavaliere sotto la pioggia; Contemplazione; Ai confini con la Bosnia –; frutto invece, le restanti, dell’abilità artistica di Livio Rosignano, Ferruccio Benzan, Glauco Dimini e Roberto Ferruzzi), poste di norma in posizione di apertura di capitolo (o di racconto), ricorrendo ad un isolamento visivo dei paragrafi con una funzionalità che, senza contaminarne le intenzioni narrative, ci pare deliberatamente integrativa rispetto al co-testo verbale. Se infatti è vero che il testo propriamente detto non rappresenta un commento ed un’interpretazione delle immagini, e allo stesso modo queste ultime non possono essere ricondotte sotto il dominio testuale (anche se alternate al testo, rimangono pur sempre un elemento ‘separato’ da esso), la successione delle illustrazioni permette di conferire una prospettiva ‘temporale’ alla narrazione e allo stesso tempo di configurarla come una sorta di catalogo espositivo. Le illustrazioni, quindi, anziché mettere in luce i limiti della narrazione finzionale nei confronti della diretta esperienza visiva, fungono da elemento in grado di favorire l’eπetto realistico. Le potenzialità oπerte dall’unione di questi media si esplicano dunque nell’apertura e nella fluidità del modello icono-testuale che ne scaturisce, e soprattutto nella sua flessibilità. L’apertura all’interpretazione è da ritrovarsi nel carattere palinsestuale di questo prodotto artistico: sarebbe infatti sbagliato leggere in maniera scollegata le due dimensioni testuale/verbale e visiva; esse devono essere messe in comunicazione tra loro, così che da esse possa scaturire un ‘oggetto’ unico di per sé. Il palinsesto che nasce dal rapporto intra-mediale è a sua volta in dialogo col lettore che, attraverso la lettura e l’interpretazione, può ulteriormente dilatarlo apportandovi anche la propria esperienza ermeneutica extradiegetica. In un simile atto scritturale – caratterizzato da una contaminazione, sempre funzionale, per cui tra testo e illustrazioni si stabilisce una sorta di ‘dialogo’ – il lettore è chiamato a trasformarsi anche in osservatore, anche se diπerenti sono, di volta in volta, le modalità del suo coinvolgimento: egli può infatti essere, indirettamente, parte del racconto, nell’atto in cui vede le immagini; può addirittura divenire la condizione stessa di ricezione dell’artefatto bi-mediale; può limitarsi ad essere il destinatario del racconto; può infine, semplicemente, osservare lo sviluppo delle vicende. La scelta di collocare in copertina un’immagine che rinvia al titolo dell’opera fa sì che i racconti, pur auto-convalidandosi da un lato, dall’altro si mettano, in un certo senso, in discussione. I lettori sono portati ad identificare l’immagine in copertina con la narrazione, ma a misura del procedere di questa, scoprono che il dipinto di copertina è 1

  Annamaria Tiberi, Sole nero-Crno sunce, cit., p. 23.

266 eliana moscarda mirković avulso dalla diegesi. Proprio per tale ragione possiamo parlare in questo caso, di utilizzo dell’ècfrasi come procedimento di figurazione narrativa, cioè di evocazione, nella mente del lettore, di un’immagine specifica volta alla trasposizione mediatica, alla dilatazione in un sistema verbale di un elemento nato in un sistema non-verbale. Due illustrazioni, in particolare, meritano la nostra attenzione, perché ripropongono l’atto illustrativo come vero e proprio processo di costruzione di un canale di comunicazione inter-mediale: Ansia, di Ferruccio Benzan (in apertura del racconto L’eredità mancata) e Contemplazione (firmata dall’autrice). Trattasi di due immagini tra loro molto diπerenti per espressione, e che, pur nella loro diversità, propongono entrambe l’incontro dei protagonisti con l’esperienza traumatica che gli uomini e le donne della Dalmazia, accomunati da una stessa sorte, vivono in questi racconti e che è poi diventata un tratto distintivo della loro realtà umana. Entrambe le illustrazioni rimandano al racconto Il sangue sul rosmarino, sia alla figura del giovane cristiano rientrato a Spalato dopo la battaglia di Lepanto e successivamente deceduto per le ferite riportate, sia a quella del predatore Turco «anche lui […] caduto in mezzo ai cespugli di rosmarino», 1 mentre il personaggio femminile di Contemplazione si fonde con quello della protagonista Clara. Le due immagini rimandano anche ad una condizione più universale: l’uomo rannicchiato nella propria ansia subisce lo scorrere della vita accanto agli eventi storici; eventi di fronte ai quali l’individuo si pone spesso in atteggiamento contemplativo, nel tentativo di coglierne l’essenza in attesa che da un orizzonte marino arrivi un segno di speranza. Ma non diversa è anche la contemplazione di tutte le donne dalmate, spose di uomini di mare e novelle Penelopi, che da sempre, in ogni istante della loro esistenza, si sono dovute armare di pazienza, amore e buona volontà per il bene dell’unità della famiglia. Il ruolo, che Annamaria Tiberi, a√da al lettore è pertanto anche quello di ‘colmare la distanza’ tra testo e co-testo iconografico: compito, questo, che può essere condotto a termine solo attraverso il ricorso ad un atteggiamento critico inter-mediale – nel caso di specie, una lettura del prodotto bi-mediale atta a mettere in luce le reciproche influenze tra i due media. Una lettura, quindi, che dovrebbe promuovere l’istituzione di uno ‘spazio delocalizzato’ nella mente del lettore/osservatore, uno spazio in cui possa riflettersi la complementarità tra arte testuale ed arte visiva. Proprio perché la lettura inter-mediale è facoltà del lettore, non nasce cioè per autogenesi dal testo stricto sensu, ma richiede un testimone esterno capace di porre in relazione i co-testi verbale e iconico, risulta possibile parlare del ruolo attivo (addirittura, per certi versi, creativo) che l’autrice richiede nei confronti della propria narrazione.  

1

  Annamaria Tiberi, Sole nero-Crno sunce, cit., p. 47.

UNA COSMOLOGIA SETTECENTESCA TRA FILOSOFIA E SCIENZA: RUGGERO GIUSEPPE BOSCOVICH INTERLOCUTORE DI NEWTON E DI LEIBNIZ Dario Sacchi

R

uggero Giuseppe Boscovich nacque a Ragusa nel 1711 dall’agiato mercante Nicola Boscovich, raguseo di nascita nonostante gli avi erzegovesi e, come tutti i ragusei di allora, italiano per lingua e cultura, e da Paola Bettera, proveniente da una religiosa e colta famiglia di ceppo lombardo, bergamasco per l’esattezza. Dunque sarebbe stato italiano anche se non avesse vissuto gran parte della sua vita in Italia, prima a Roma e poi a Milano, il che d’altronde è ulteriormente e significativamente testimoniato dal fatto che scrisse tutte le sue opere in latino o in italiano senza mai usare il croato, benché avesse appreso nella sua infanzia anche questa lingua. Entrato nella Compagnia di Gesù a 14 anni, frequentò lo Studio gesuitico della sua città per un solo anno; nel 1726 infatti lo troviamo già nella capitale della cristianità, allievo del prestigioso Collegio Romano della Compagnia di Gesù, ove terminerà i suoi studi manifestando ben prima dell’ordinazione sacerdotale uno straordinario talento per le discipline scientifiche e conquistandosi nel 1740 la cattedra di matematica. Nel 1759, per contrasti insorti in seno al Collegio Romano, lascia l’insegnamento e si reca in Francia e in Inghilterra, viaggiando anche a Vienna per una missione diplomatica e a Costantinopoli per un’osservazione astronomica: connesso a quest’ultima vicenda è il suo principale scritto in lingua italiana, il Giornale di un viaggio da Costantinopoli in Polonia (che sarà pubblicato vari anni dopo a Venezia, nel 1784). Al rientro in Italia gli viene di nuovo assegnata, nel 1764, una cattedra di matematica, questa volta all’Università di Pavia; decisivo è il suo contributo alla fondazione dell’Osservatorio di Brera a Milano. Gli ultimi anni della sua vita sono purtroppo avvelenati dalle polemiche con i confratelli; muore a Milano nel 1787. Un’edizione nazionale delle opere e della corrispondenza di Boscovich è stata pubblicata su CD-ROM a cura di una Commissione Scientifica nazionale istituita nel 2006. Mente versatile e poliedrica, a suo modo un autentico genio leonardesco, di certo il più grande scienziato dalmata di tutti i tempi, astronomo, matematico, fisico, geodeta, ottico, sicuramente versato nelle applicazioni tecniche del sapere scientifico – non a caso i pontefici e i principi dell’epoca lo interpellarono spesso in merito a importanti questioni di ingegneria, di idraulica e di misurazione della superficie terrestre –, ma al tempo stesso tutt’altro che alieno da notevolissime aperture teoriche e da grandi visioni generali, al punto che può considerarsi non semplicemente uno scienziato ma un vero e proprio filosofo della natura: ed è unicamente in quest’ultima veste, la più vicina alle competenze di chi scrive, che verrà qui considerato. Boscovich ebbe l’idea feconda di un’interpretazione del cosmo che completasse la verità scoperta da Newton, integrandola in una legge più vasta che ne esplicasse appieno, arricchendolo ulteriormente, il contenuto. Le dissertazioni De viribus vivis (Romae: sumtibus Venantii Monaldini bibliopolae in via Cursus : typis Komarek, 1745), De continuitatis lege et consectariis pertinentibus ad prima materiae elementa eorumque vires (Romae: ex typographia

268 dario sacchi Generosi Salomoni apud Venantium Monaldini, 1754), De lege virium in natura existentium (Romae: typis Joannis Generosi Salomoni apud Venantium Monaldini bibliopolam in via Cursus, 1755) preparano il terreno per la poderosa sintesi dell’opera maggiore, Philosophiae naturalis theoria redacta ad unicam legem virium in natura existentium (Viennae Austriae: apud Augustinum Bernardi, universitatis bibliopolam 1759), nella quale egli espone non solo un’originale teoria fisica ma soprattutto una concezione nuova, di grande interesse speculativo, sulla struttura della materia in rapporto alle forze dell’universo. Qui non solo si rielaborano con originali intendimenti le principali idee di Newton ma si opera un superamento dei problemi da lui lasciati insoluti, nella forma di un complessivo quadro meccanico dell’universo, la cui vita viene ricondotta, nei suoi multiformi aspetti materiali e dinamici, a una legge sola, più comprensiva e più universale di quella della gravitazione, la quale non ne esprimerebbe che un aspetto e una singola manifestazione. Sicché, pur accettandone il presupposto dinamico dell’azione a distanza, egli apporta alla dottrina di Newton decisive correzioni che l’esperienza di oltre due secoli successivi di indagini e di ricerche scientifiche, lungi dall’infirmare, sembra almeno in gran parte confermare. La concezione secondo la quale a fondamento dei fenomeni non vi è qualcosa di inaccessibile che li ‘sostenga’ o sorregga staticamente stando ‘dietro’ di essi ma un’attività che in essi si esplica, è una novità indiscutibile nel pensiero di Boscovich, che egli trae in gran parte dall’attivismo monadologico di Leibniz, da lui però rielaborato in modo originale. Ogni corpo nei suoi caratteri sensibili non è che apparenza, in cui si rivela una sostanza che va considerata non come un suo substrato immobile ma come forza, come una legge immanente, che mantiene l’identità di quel corpo e guida le varie reazioni della sua attività in rapporto con gli altri membri del cosmo. Ciò che appare fenomenicamente come materia è in realtà composto di punti metafisici, centri di forza, senza dimensione, che si attraggono e respingono reciprocamente in modo da conservare fra loro distanze specifiche. Boscovich arguisce matematicamente che le forze possedute da tali centri possono variare distanza pur mantenendosi, sotto date condizioni, sempre in equilibrio stabile, a definiti intervalli. I caratteri della materia nella sua apparenza sensibile – la dimensione spaziale, l’impenetrabilità, la coesione, la resistenza dei corpi – risulterebbero tutti dalle sole azioni reciproche di questi centri dinamici omogenei e inestesi, dalle loro posizioni relativamente all’insieme e in genere dai loro reciproci complicati rapporti. In questa prospettiva è insita però un’incongruenza, essendo impensabili atomi-forza privi di dimensioni che pur possiedono un loro modo di essere in un luogo e in un tempo determinati. Evidentemente il fisico e l’astronomo in lui non sanno come sottrarsi al concetto di un reale substrato oggettivo dei corpi e dei fenomeni, e quando l’idealità dello spazio gli si aπaccia come una logica conseguenza delle sue premesse egli, piuttosto che rinunciare alla realtà delle forze e alla realtà degli atomi preferisce arrestarsi a metà strada pur di non negare la possibilità di una conoscenza metafisica della materia e delle forze in essa operanti, che sono il fondamento e l’origine di ogni sviluppo della sua dottrina. Comunque, privati gli atomi della dimensione e negata la realtà allo spazio continuo ne segue logicamente che le idee dell’inerzia, impenetrabilità, estensione dei corpi non possono originarsi in noi da un diretto contatto con la realtà naturale ma per un complesso gioco di rapporti la cui intima ragione dipende dalle caratteristiche di quella stessa realtà così come sono state appurate dall’intelletto. 1 Il corpo nella sua essenza è forza e la sua figura spaziale, il suo volume, il suo movimento sono eπetti di questa forza. La sensibilità coglie il corpo spazialmente, la ragione lo vede attivisticamente. Il realismo di Boscovich si limita dunque all’aπermazione della realtà dei suoi centri di  

1

 Cfr. Ruggero Giuseppe Boscovich, Philosophiae naturalis theoria, cit., §§ 159-164.

ruggero giuseppe boscovich interlocutore di newton e di leibniz 269 forza e della legge universalissima che li governa. Il risultato finale della sua speculazione è dunque l’uniformità più completa nel campo della materia e delle sue leggi, uniformità che poggia su una rigorosa omogeneità dei principi che la costituiscono e delle forze che la animano. Leibniz presupponeva per le monadi una reale relazione spaziale che non è quella dello spazio sensibile, nemmeno del puro spazio geometrico, perché l’uno è in noi come nostra rappresentazione e l’altro è nel nostro intelletto come astrazione di quello, bensì quella dello spazio intelligibile, ove stanno in realtà le monadi, non per noi che le intuiamo appena con il nostro pensiero metafisico, ma per un’intelligenza che le veda e le viva quali esse sono in realtà: l’intelligenza divina, insomma. Così le monadi, sebbene l’esteso non sia che illusione, sono in un luogo e in un tempo, hanno una loro esistenza spaziotemporale, che però non ha a che fare con il nostro spazio-tempo, puramente soggettivo. Il problema che si impone dunque alla filosofia della natura è di trovare il rapporto che intercede fra questi spazi, tanto da poter ridurre gli eventi dello spazio sensibile a quello intelligibile o almeno da porli in relazione diretta gli uni con gli altri. La geometria non può essere la scienza dei rapporti interni allo spazio intelligibile, essendo essa una pura astrazione di quello sensibile. Non per questo, osserva Boscovich, perde il suo valore come scienza astratta, in quanto è una scienza di relazioni che trae da determinate premesse le sue conclusioni: in rapporto ai suoi postulati quanto essa conclude è vero. Questo punto di vista è tanto più attuale oggi, dopo lo sviluppo delle geometrie non euclidee: la cui possibilità d’altronde egli in qualche modo comprese, così come gli si aπacciò alla mente la quarta dimensione 1 e fors’anche la possibilità dello spazio curvo. Ogni atomo possiede un suo modo di essere spaziale e temporale, che esiste con l’atomo e che senza di esso non è che astrazione. E come l’atomo non è che un punto metafisico così il suo modo di essere spazio-temporale è anch’esso un punto indivisibile, sia in estensione che in durata. Questi spazi e tempi inestesi e senza durata, che sono modi di essere dell’atomo-forza, sono pure il fondamento dei rapporti spazio-temporali fra gli atomi, cosicché aπermare che due atomi sono fra loro in una reciproca relazione di distanza significa che hanno ciascuno un suo determinato modo di essere spaziale, i quali modi per sé producono quel rapporto e quella distanza. I princìpi reali, atomi-forza, ciascuno con il suo modo di essere, sono naturalmente impenetrabili gli uni agli altri perché semplici e inestesi (giacché solo i corpi estesi hanno parti che possono toccarsi, penetrarsi e infine confondersi insieme). Essi formano dunque uno spazio discreto che non ha nulla a che fare con l’estensione continua della nostra rappresentazione spaziale, sia fisica che geometrica. Naturalmente la monade percipiente di Leibniz, in cui l’estensione è un processo mentale e lo spazio un prodotto puramente ideale, non può confondersi con l’atomo-forza il quale, sebbene inesteso, ha un suo dove e un suo quando, per cui esige la realtà di quel vuoto, che lo separa dagli altri princìpi, attraverso il quale questi agiscono in reciprocità di azione e reazione, secondo le leggi dinamiche di Newton. Data la sua concezione delle forze agenti a distanza, lo spazio vuoto non può essere una pura possibilità ma deve assumere un’esistenza reale, se si vuole ammettere che fra gli atomi-forza intercedano distanze e intervalli specifici. Boscovich dunque, pur immaginando l’atomo alla stregua della monade leibniziana, lo anima delle forze repulsive e attrattive su cui poggiava la meccanica di Newton. Partendo dal dibattito ancora vivo ai suoi tempi fra cartesiani e newtoniani, fra la concezione che ammetteva in meccanica la possibilità di mutamento solo per impulso e  

1

  Ivi, § 518.

270 dario sacchi diretto contatto fra i corpi, e l’altra che aπermava la possibilità di un’azione reciproca fra le masse attraverso lo spazio vuoto, egli giunge alla conclusione che i corpi non possono trovarsi, sia come aggregati o come semplici elementi, a contatto immediato fra loro ma devono essere separati da definiti intervalli, in rapporto reciproco mediante forze attrattive e repulsive. È la legge di continuità (in base alla quale «qualsiasi quantità, passando da una grandezza a un’altra, deve attraversare tutte le grandezze intermedie della stessa classe» 1) che gli porge gli argomenti più decisivi per la sua tesi, con il classico esempio delle due sfere cozzanti fra loro. Se il moto si comunica per impulso, cioè per immediato contatto, fra due sfere rigide in cozzo, la loro velocità si muta per saltum, e ciò che vale per i corpi vale anche per i loro elementi. Se si vuol tener fede alla legge di continuità e alla impenetrabilità si deve concludere che né i corpi né gli atomi riescono mai a superare, fino al contatto immediato, l’intervallo che li separa, sì che le forze gravitazionali attrattive devono inevitabilmente mutarsi in repulsive, nelle minime distanze, e quale che sia la velocità dei due corpi e per quanto diminuisca l’intervallo fra loro la repulsione eguaglierà in continuata misura la velocità, per cui diminuendo la distanza all’infinito anche la forza repulsiva aumenterà nella stessa misura 2. Solo così può essere salva la legge della continuità perfetta. Ma se la forza repulsiva aumenta all’infinito in proporzione diretta con il diminuire delle distanze ne consegue che nessuna parte di materia può essere contigua a un’altra: quella forza ne impedirebbe il contatto. Gli elementi primi del mondo non possono dunque essere atomi rigidi, estesi, composti di parti in continuo immediato contatto, sebbene fisicamente indivisibili, bensì soltanto atomi assolutamente semplici e privi di dimensione. La continuità vuole che la forza gravitazionale, per cui si attraggono i corpi secondo la legge della distanza, si trasformi per le distanze minime in repulsione. Per le minime come per le estreme distanze non vale dunque la legge gravitazionale scoperta e disciplinata da Newton, secondo i noti rapporti delle masse e dei quadrati delle distanze. La gravitazione sarebbe un caso particolare di una legge più vasta, di cui non indicherebbe che parziali rapporti: come in fondo aπerma oggi la teoria della relatività generale. Nelle minime distanze le forze reciproche tra le masse o tra i loro elementi sono repulsive e crescono in ragione inversa della distanza; con l’aumentare di questa diminuiscono fino a un punto limite oltre il quale si mutano in attrattive, per passare ancora, con alterna vicenda, una nell’altra, finché passano finalmente nella gravitazione, per le distanze eguali a quelle che percorrono le comete e i pianeti nel sistema solare. 3 Il merito maggiore di Boscovich è stato quello di avere preconizzato una moderna e feconda concezione, che sostituisce l’energia alla materia, i centri di forza agli atomi, determinando una radicale trasformazione nell’idea dell’atomo. La sua teoria, rivoluzionaria per i suoi tempi, non poteva certo prevalere sul paradigma newtoniano, che proprio in quella fase storica dispiegava tutta la sua potenza. Newton aveva stabilita la legge di gravitazione e inventata quella meccanica celeste che ebbe tante e trionfale conferma dall’astronomia: non ultima la predizione dell’esistenza di un pianeta del sistema solare, Nettuno, vari decenni prima della possibilità di osservarlo con i telescopi. A tali e tante riprove la dottrina di Boscovich non poteva reggere, carente com’era, per giunta, di un’adeguata formalizzazione matematica. La sua dottrina originale venne sopraπatta specialmente dal cumulo delle conferme che all’antica teoria atomica apportava anche il crescente sviluppo della chimica, finché nel Novecento non si è giunti alla concezione del corpuscolo elementare elettrizzato, l’elettrone, unità elettrica della natura. Ma anche questa fase dell’evoluzione delle idee, in cui l’antico atomo persisteva come supporto  





1

  Ivi, § 32.

2

  Ivi, § 76.

3

  Ivi, §§ 9-10.

ruggero giuseppe boscovich interlocutore di newton e di leibniz 271 delle cariche, fu superata. E nell’elettrone, che dapprima si presentò ancora, concettualmente, come una carica strettamente associata a una massa, quest’ultima finalmente perse contorno e realtà e, identificandosi con la prima, si ridusse a pura massa elettromagnetica, dunque a sua volta a energia. L’energia si comporta come se avesse una massa, e questa non è che una forma dell’energia. L’elettricità non è più una proprietà della materia; essa ne ha preso il posto, sostituendola del tutto. Nell’elettricità è dunque racchiusa l’unità fondamentale delle cose che noi ci rappresentiamo sensibilmente. Così si ritornava, oltre che all’unità dinamica, anche alla vicenda delle forze teorizzata da Boscovich, meglio intesa come fenomeno elettrico che non lo fosse come fenomeno meccanico, quale egli l’aveva concepita. La fisica è dunque tornata dopo due secoli alla concezione dinamica di Boscovich. L’elettrone, nella sua essenza, non è molto dissimile dall’atomo centro di forza concepito dal cosmologo dalmata. Nella storia dell’atomismo Boscovich è il solo precursore della fisica moderna che sia giunto per argomentazione filosofica, dunque senza l’ausilio delle preziose scoperte dovute a oltre due secoli di pazienti e fortunate ricerche, a quella profonda unità elementare ove la materia e la forza perdono ogni distinzione e assumono la stessa natura identificandosi. La materia con tutti i suoi caratteri, quale noi ce la rappresentiamo sensibilmente, non è che una manifestazione dell’energia, considerata a sua volta in forma corpuscolare, quale l’aveva concepita Boscovich. Non è senza significato che in Inghilterra nel 1922 abbiano sentito il bisogno di tradurre la Philosophiae naturalis theoria, in cui l’atomistica di Boscovich ha trovato la sua più completa espressione. Lo spazio vuoto, con i suoi caratteri di infinità, eternità, continuità, divisibilità e immobilità, non è una realtà assoluta, come credeva Newton, ma è una costruzione della nostra mente, una interpretazione soggettiva nostra dei rapporti ultra-spaziali intercorrenti fra i punti reali metafisici, distanti per definiti intervalli, secondo l’equilibrio delle forze che li governano. Eppure Boscovich ha bisogno per la sua atomistica di uno spazio che, sull’esempio di Newton, è portato a trattare quasi senza accorgersene come un realtà assoluta, recipiente degli atomi-forza, che attraverso di esso agiscono gli uni sugli altri come attraverso il mezzo in cui si esplicano le forze operanti nel movimento. Il fatto è che la concezione della materia secondo la quale massa ed energia sono termini equivalenti, cosicché sotto date condizioni eccezionali l’elettrone potrebbe trasformarsi in energia e viceversa, non poteva costituirsi con i mezzi che la meccanica classica oπriva a Boscovich Soltanto con le ricerche sulla natura della luce, dell’elettricità e magnetismo e sull’irradiamento del calore, rinunciando cioè a spiegare meccanicamente tutti i fenomeni fisici, si poté enunciare l’ipotesi che tutte le forme di energia fossero manifestazioni di una causa sola, e che gli stessi fenomeni meccanici fossero anzi da considerarsi come fenomeni di natura elettromagnetica, mentre l’atomo conseguentemente diventava un prodotto del campo, e la sua massa si riduceva a una funzione dell’energia e si confondeva con l’etere stesso, come un punto centro di condensazione e di movimento. In un universo siπatto, che è quello della relatività generale, non si concepisce più l’azione a distanza, la gravitazione non è più una forza ma una proprietà dello spazio, il quale, deposto ogni residuo di realtà fisica e di universalità, si fa relativo al tempo (tempo locale), cosicché entrambi costituiscono la materia che nasce da un loro intimo rapporto. Si ottiene così quell’unità indissolubile (il cronotopo) annunciata da Minkowsky sulla scorta di Einstein, ove gli interspazi di Boscovich non hanno più né significato né ragion d’essere e il mondo si trasforma davvero, come il cosmologo dalmata aveva intuito, in un immenso campo di forze in equilibrio variabile, nel quale spazio-tempo-materia sono uno stesso evento.

LA DRAMMATURGIA MUSICALE DI CRISTOFORO IVANOVICH NELLA CRISI DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE: IL CASO DI IL CORIOLANO Enrico Zucchi

L

a fortuna di Cristoforo Ivanovich, nato a Budva nel 1620, è rimasta legata per lo più alla stesura delle Memorie teatrali di Venezia, importante saggio sulle prerogative ideologiche dell’attività drammaturgica veneziana – nonché sulla pratica impresariale che la innervava –, arricchito da una preziosa cronistoria delle vicende sceniche della città lagunare, grazie alla quale si meritò il titolo di primo storico del teatro veneziano. 1 Le Memorie, pubblicate in coda alla Minerva al tavolino, hanno a lungo oscurato la produzione librettistica di Ivanovich che, per quanto non troppo originale rispetto al panorama operistico veneziano, contiene elementi non privi di interesse almeno sul piano storico-politico. Il primo libretto composto dal poeta dalmata, giunto a Venezia nel 1657 dopo un breve passaggio per Verona, è L’Amor guerriero (1663), il quale, come ha rilevato Anna Laura Bellina, porta già in qualche misura il segno dei trascorsi biografici dell’autore, costretto a lasciare quel tumultuoso «clima epirotico» che fa da sfondo alla vicenda, proprio a causa del protrarsi della guerra di Candia, che lo indusse a lasciare la Dalmazia per Venezia. 2 Forse anche per questo motivo egli conferisce alla propria composizione un tono celebrativo nei confronti della Serenissima che ben compendia la descrizione di Venezia proferita da Amore nel prologo. 3 La seconda prova di Ivanovich, la Circe, allestita sfarzosamente nel 1665 alla corte di Vienna, da un lato, conferma la capacità del librettista di calarsi all’interno di una dimensione tout court cortigiana, dall’altro costituisce un breve allontanamento dalla rappresentazione di vicende legate alla Repubblica di Venezia, ai suoi domini adriatici e alle  





1   Tale apostrofe risale al saggio di Miloš Velimirovic, Cristoforo Ivanovich from Budva: the first historian of Venetian Opera, «Zvuk: the Yugoslav Music Review», lxxvii-lxxviii, 1967, pp. 135-145. Le Memorie hanno costituito un documento di eccezionale interesse per gli storiografi del melodramma veneziano. Fra i contributi più significativi sul trattato di Ivanovich si ricordano: Thomas Walker, Gli errori di Minerva al tavolino, in Venezia e il melodramma nel Seicento, a cura di Maria Teresa Muraro, Firenze, Olschki, 1970, pp. 7-20; Silvano Benedetti, Il teatro musicale a Venezia nel ’600: aspetti organizzativi, «Studi Veneziani», viii, 1984, pp. 185-220; Norbert Dubowy, Un dalmata al servizio della Serenissima. Cristoforo Ivanovich, primo storico del melodramma, in Il teatro musicale del Rinascimento e del Barocco tra Venezia, Regione Giulia e Dalmazia, a cura di Ivano Cavallini, Trieste, Circolo della Cultura e delle Arti, 1991, pp. 21-31. 2   Anna Laura Bellina, Brevità, frequenza e varietà. Cristoforo Ivanovich librettista e storico dell’opera veneziana, «Musica e storia», viii, 2, 2000, pp. 367-390. Sulla produzione drammaturgica di Ivanovich si erano soπermati in precedenza anche Miloš Miloševic, Il contributo dei libretti e della corrispondenza di Cristoforo Ivanovich nell’evoluzione del melodramma seicentesco, in Il libro nel bacino dell’Adriatico, a cura di Sante Graciotti, Firenze, Olschki, 1992, pp. 111-124 e Ivano Cavallini, Questioni di stile e struttura del melodramma nelle lettere di Cristoforo Ivanovich, in Giovanni Legrenzi e la Cappella Ducale di San Marco, a cura di Francesco Passadore, Franco Rossi, Firenze, Olschki, 1994, pp. 185-199. 3   «In quest’alghe palustri / vedrai città che con regal suo piede / premendo il mar altero / sin là dove tu sorgi / dilaterà l’impero / e quest’Adriache piagge, / ch’or solitarie scorgi, / avrà pietà per nido, Astrea per sede, / ch’adeguerà su la bilancia i regni / e per genio sagace / sarà sempre temuta in guerra e in pace», Cristoforo Ivanovich, L’amor guerriero, Venezia, Nicolini, 1663, p. n. n. Sul prologo encomiastico si soπerma, oltre alla Bellina, anche Ellen Rosand, la quale nota nei versi di Ivanovich, definito «the enthusiastic immigrant», la ripresa dei topoi iconografici tipici della celebrazione di Venezia: Ellen Rosand, Opera in Seventeenth Century Venice: the Creation of a Genre, Berkeley, University of California Press, 1991, p. 149.

la drammaturgia musicale di cristoforo ivanovich

273 vicende politiche che la riguardavano. Nel volgere dei pochi anni che intercorrono fra la composizione di Il Coriolano, allestito in pompa magna al Teatro Ducale di Piacenza nel 1669 per la corte di Ranuccio II Farnese e della moglie Maria, principessa d’Este, e la pubblicazione del Lisimaco (1674) si percepiscono – fin dagli apparati paratestuali – frequenti allusioni alla turbolenta situazione politica veneziana, duramente provata dal protrarsi ventennale della guerra di Candia, conclusa proprio nel 1669 con esito nefasto per la Repubblica. Nell’Oda che introduce lo sfarzoso dispositivo encomiastico predisposto dall’Ivanovich per l’edizione piacentina de Il Coriolano è presente un sommario aπresco del contesto politico europeo coevo, nel quale l’Europa «d’incendi bellicosi / avvampava» e si era ferocemente risvegliato «dal sonnachioso oblio l’Osman Pianeta». Dai versi di Ivanovich trapela l’insoπerenza nei confronti di un conflitto che si trascinava da anni non senza che ne fosse a più riprese messa in discussione l’utilità: Ranuccio II Farnese, alleato della Serenissima nella difesa di Candia, viene ra√gurato «con l’Ulivo in man» come un «Numa novel» in grado di riportare la pace sospirata. 1 La scelta stessa del soggetto del dramma pare vincolata, più che all’imitazione del Coriolano di Shakespeare, 2 ad un preciso disegno storico-politico che tentava di inquadrare, avvalendosi della consueta sinopia della Roma repubblicana, la sciagurata evoluzione della politica interna veneziana nel corso dell’ultimo ventennio, secondo una prospettiva filo-aristocratica che peraltro si confaceva all’ambiente della corte parmense che ne ospitava la rappresentazione. Nella disputa tra il virtuoso Coriolano, membro di una antica e prestigiosa famiglia patrizia, e la dispotica plebe romana, Ivanovich parteggia risolutamente per il primo, tratteggiandolo lungo tutto il corso della vicenda come un personaggio positivo, preoccupato per la libertà di Roma piuttosto che teso a soddisfare un desiderio di vendetta personale. Una prima importante spia di questa strategia rappresentativa si trova già nell’argomento del dramma:  



Uno de’ più segnalati Patricij, era Caio Martio, che per la morte dell’ultimo Tarquinio, ottenne primo in Roma il fregio della Quercia. Per haver’egli conquistato Coriolo, Città de’ Volschi, s’acquistò il glorioso sovranome di Coriolano. Fu sempre nemico alla Plebe, che con le forme insolenti, e cervicose negava l’ubbidienza a quel Senato; quindi cospirando alla di lui morte, difesa da Appio Claudio Senatore, fu mandato ad un perpetuo esiglio. Per desiderio di vendetta s’unì con i Volschi già suoi nemici, da’ quali fatto loro Condottiere, vittorioso, e formidabile, s’avanzò con l’assedio alle Fosse Clelie, poco distanti da Roma. Fu glorioso il dissegno di Coriolano, volendo egli coll’Armi de gli stessi nemici, su l’oppressione dell’insolentita Plebe, stabilire la superiorità assoluta dell’ordine Patricio (pp. 9-10).

Le posizioni dei due contendenti sono ben delineate fin dall’esordio: da una parte la statuaria grandezza dell’eroe eponimo, mosso dalla volontà di ristabilire l’ordine e la legge a Roma, dall’altra la meschinità di una plebe che, dopo essere entrata in scena per accompagnare la preghiera rivolta dai consoli alle «guerriere deità» (i, 1), rimane ai margini della pièce facendo percepire la propria torva presenza lungo l’arco dell’intera azione: è il popolo ad inseguire Vetturia e Volunnia con l’intenzione di ucciderle per sfogare il 1   Cristoforo Ivanovich, Il Coriolano, Piacenza, Bazachi, 1669, pp. 6-7. D’ora in poi le citazioni tratte da questo libretto saranno segnalate direttamente a testo con il riferimento al numero di pagina. 2   L’ipotesi di una derivazione shakespeariana del libretto di Ivanovich è stata recentemente formulata in Piero Gargiulo, Teatro per musica e lingua tradotta. I libretti italiani dal Coriolano di Shakespeare (1669-1749), in Con-scientia musica. Contrappunti per Rossana Dalmonte e Mario Baroni, a cura di Anna Rita Addessi, Ignazio Macchiarella, Massimo Privitera, et alii, Lucca, Lim, 2010, pp. 257-278. Tuttavia i rilievi testuali addotti per dimostrare l’esistenza di un rapporto di diretta filiazione del testo di Ivanovich dal Coriolanus appaiono poco persuasivi, in quanto più facilmente attribuibili ad una rielaborazione della fonte plutarchiana piuttosto che alla tragedia di Shakespeare, la cui conoscenza da parte del poeta dalmata resta tutta da dimostrare.

enrico zucchi 274 proprio risentimento nei confronti di Coriolano («contro la genitrice, e in un la Figlia / qui di Coriolano, / di sollevata Plebe è l’insolenza», I, 2, p. 24); allo stesso modo nel finale, quando Coriolano è vinto dalla supplica della madre, l’ombra sinistra della plebe torna a fare capolino nel discorso apologetico con il quale, ex post, il protagonista della vicenda giustifica di fronte a Sesto la sua azione eversiva come dettata da una suprema volontà di riportare la libertà a Roma: E quando fui nemico? Odi. La Patria non odiai: de la vendetta il fine era la Libertà. E che cedesse omai la plebe il fasto, macchiar non deve il fregio coll’attioni indegne un sangue egregio (iii, 15, p. 85).

Gli elementi di continuità con la Roma repubblicana che condizionano fortemente lo sviluppo del teatro veneziano seicentesco – e sui quali insiste lo stesso Ivanovich nelle Memorie teatrali 1 – si ritrovano anche nel libretto in questione: in primo luogo viene esaltato il destino bellico di Roma; 2 ciò porta Coriolano a considerare innaturale l’imposizione di una eventuale pace. Inoltre è inequivocabile la sovrapposizione delle figure della madre e della patria, capaci di imporre ai figli /cittadini, attraverso la propria amorevole sollecitudine, obbedienza e rispetto. Tuttavia ciò che non si ritrova nella Roma tratteggiata da Ivanovich è quella concordia ordinum grazie alla quale tre costituzioni di diπerente natura si fondono armoniosamente in un unico statuto. La conclusione del dramma infatti, per quanto lieta, piuttosto che sancire l’inizio di un periodo di rinnovata pace sociale, parrebbe svelare l’equilibrio fragile sul quale poggia una repubblica in cui lo scontro fra ceti concorrenti rimane un problema tutt’altro che risolto. Se dunque vi è analogia tra i destini di Roma e quelli della sua naturale erede repubblicana, la Venezia seicentesca, sarà doveroso rilevare un netto cambiamento di prospettiva, operato nel Coriolano, rispetto al precedente L’Amor guerriero, dove campeggiava il ritratto solenne di una Venezia capace di ricreare i fasti dell’impero romano. Le ragioni di questo cambiamento sono certamente molteplici; innanzitutto è diverso il destinatario, non più il Maggior Consiglio e l’élite veneziana, ma i duchi di Parma e Piacenza, con un sensibile spostamento da un contesto aristocratico, ma fondamentalmente repubblicano, a quello di una corte principesca. In secondo luogo tra il 1663 e il 1669 le vicende della guerra di Candia, da cui dipendeva anche la politica interna veneziana, subiscono una svolta sostanziale. Negli anni immediatamente precedenti alla scrittura del primo libretto (1658-1662) la Francia era intervenuta in aiuto della Serenissima attraverso un contributo prima economico e poi di uomini. In questo frangente Venezia non aπrontava più da sola il nemico turco, diventato una minaccia anche per l’Impero asburgico, e l’esercito navale veneto riusciva a conquistare importanti vittorie, come quella ottenuta a Milo nel 1661. 3 Al momento della composizione del secondo libretto,  





1   Per provare la rivendicazione di questa eredità è su√ciente richiamare l’esordio del trattato di Ivanovich: «Non vi fu mai alcuna Repubblica nel Mondo, che meglio superasse tutte le altre Repubbliche, che quella di Roma; nè alcun’altra, che meglio imitasse questa, che la Repubblica di Venezia», Cristoforo Ivanovich, Memorie teatrali di Venezia, in Idem, Minerva al tavolino. Lettere diverse di proposte e risposta a vari personaggi, sparse d’alcun componimento in prosa e in verso, Venezia, Pezzana, 1681, p. 369. 2   Particolarmente significativa a questo proposito la serie di sticomitie tra Coriolano e Vounnia nel terzo atto: alla richiesta di pace avanzata dalla moglie il condottiero risponde: «Chiedi Volunnia invano / ciò che la patria oπende», iii, 8, p. 77. 3   Per un dettagliato resoconto del conflitto e di tutte le sue implicazioni internazionali si veda Ekkehard Eickhoff, Venezia, Vienna e i Turchi: bufera nel Sud-Est europeo, 1645-1700, Milano, Rusconi, 1991. Un’introduzione sintetica ma e√cace ai risvolti politici, economici e giuridici della guerra di Candia si trova inoltre in Gaetano Cozzi, Dalla riscoperta della pace all’inestinguibile sogno di dominio, in Storia di Venezia, vii, a cura di Gino Benzoni, Gaetano Cozzi, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1997, pp. 3-104.

la drammaturgia musicale di cristoforo ivanovich

275 invece, la guerra di Candia volge rovinosamente al termine, in un clima di continue accuse reciproche tra gli alleati francesi e veneziani, nonché di tradimenti che si rivelarono decisivi per la capitolazione. 1 La Repubblica usciva stanca e spossata da un conflitto durato vent’anni che le aveva imposto sacrifici pesantissimi, costringendola ad alterare irrimediabilmente la propria fisionomia costituzionale. Il Maggior Consiglio aveva infatti permesso alle famiglie veneziane più abbienti di entrare a far parte del patriziato dietro pagamento di una cospicua somma di denaro utile a finanziare le operazioni belliche; tale scelta era destinata a stravolgere gli equilibri del rapporto fra le classi nella Serenissima, mettendo di fatto in discussione i valori dell’antica aristocrazia veneziana impoverita e incapace di far fronte all’aggregazione di nuovi soggetti ‘borghesi’. Questo provvedimento accelerava in modo definitivo quel processo di crisi della nobiltà veneziana tardo-seicentesca che segnerà in un certo senso l’avvio, per lo stato veneto, di un lento ma inesorabile declino. 2 Ivanovich, canonico di San Marco, legato ai Grimani e ai Contarini da un rapporto di amicizia e di clientelismo culturale, nonché appassionato cantore in morte della virtù di Battista Nani 3 – colui che nel corso della correzione del 1677 si era battuto per imprimere alla costituzione veneziana un’impronta oligarchica –, non poteva rimanere indiπerente di fronte a questi eventi, e rifletteva nei propri scritti una posizione filo-patrizia che si poteva appieno dispiegare nella rappresentazione della vicenda di Coriolano presso la corte Farnese. Il soggetto ben si presta a farsi carico delle rivendicazioni del vecchio patriziato veneto, risentito per la perdita del proprio prestigio a vantaggio di una classe assai più ricca ma gretta e spregevole, la quale, proprio come l’inquieta plebe romana – che, mutatis mutandis, e con un’ennesima sferzata beπarda, si confaceva a rappresentare la nuova aristocrazia veneziana –, rifiutava sfacciatamente l’autorità dell’ordine patrizio. Da questa angolazione pare infatti più semplice comprendere la parabola dell’eroe Coriolano tracciata da Ivanovich: questi, pur potendo declinare tale soggetto secondo una logica marcatamente repubblicana, insiste nel Coriolano, non tanto sul funzionamento delle istituzioni romane entro i cui ranghi alla fine il protagonista ritorna, quanto piuttosto sul sentimento di rancore provato dal condottiero nei confronti di una patria che ha a√dato il proprio destino ad un nuovo ordine di persone, considerato privo del valore e della nobiltà di spirito necessari a legittimare tale promozione sociale. In ciò sembra consistere la peculiarità del dramma di Ivanovich, dal quale si allontanano i rifacimenti successivi di Francesco Silvani (Martio Coriolano, 1683), Giovanni Andrea Moniglia (Gneo Marzio Coriolano, 1686) e Matteo Noris (Marzio Coriolano, 1698). Il libretto di Silvani, rappresentato al teatro Grimani, è giocato per lo più sui vari intrecci amorosi che coinvolgono tutti gli attori, a partire da Coriolano, conteso dalla moglie Volunnia e dall’amazzone Flavia; il condottiero romano è presentato sin dall’argomento come un ribelle «esiliato dalla Patria per gl’oltraggi fatti a Tribuni della Plebe», 4 bramoso di vendicare l’onta subita grazie al suo indomito coraggio che viene ribadito lungo il corso dell’intera pièce. Nel finale, in cui manca la scena del ravvedimento del  







1   La portata del tradimento veneziano nella conclusione della guerra è stata studiata da Giuseppe Gullino, Tradimento e ragion di stato nella caduta di Candia, in Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia, 1570-1670, Venezia, Arsenale, 1986, pp. 146-147. 2   Per una illustrazione di tale fenomeno si rinvia a Piero Del Negro, Venezia allo specchio: la crisi delle istituzioni repubblicane negli scritti del patriziato (1670-1797), in Transactions of the Fifth International Congress on the Enlightenment, ii, Oxford, Voltaire Foundation, 1980, pp. 921-926 e Idem, Forme e istituzioni del discorso politico veneziano, in Storia della cultura veneta, iv/2, Vicenza, Pozza, 1984, pp. 407-436. 3   Cristoforo Ivanovich, Minerva al tavolino, cit., pp. 111-113. 4   Frencasco Valsini (anagramma di Francesco Silvani), Martio Coriolano, Venezia, Nicolini, 1683, p. 5.

enrico zucchi 276 protagonista per merito dell’intervento della madre, esclusa dal novero dei personaggi, trionfa la magnanimità di Coriolano, in grado di mettere in ginocchio Roma soltanto per compiere un’azione dimostrativa, come documenta la risoluzione conclusiva dell’eroe che risparmia la vita dei consoli e sceglie di tornare ad essere un semplice cittadino romano (iii, 12). Moniglia, al contrario, presenta nel suo Gneo Marzio Coriolano un protagonista combattuto tra «dolce pietà» e «giusto furor»: sono molteplici i momenti in cui il dibattimento interiore di Coriolano dà adito ad arie vibranti che costituiscono il cuore della versione lirica del libretto, nel quale la dimensione politica fa da sfondo inerte. 1 Sostanzialmente diπerente la versione di Noris, che recupera il contenuto politico della vicenda, ma lo piega ad un fine aπatto diverso rispetto a quello perseguito dal Coriolano dell’Ivanovich, celebrando le ragioni della monarchia, unica forma di governo con l’autorità di soggiogare la superbia del popolo. Rivolgendosi al tribuno Galba, il quale lo pregava di ritornare sui propri passi e di sospendere l’assedio a Roma, il Coriolano di Noris prorompe in un severo rimprovero alla costituzione romana che sposta il vettore ideologico del soggetto dalla prospettiva oligarchica ad una decisamente monarchica, peraltro giustificata dalla dedica a Carlo, Conte di Manchester e ambasciatore del re inglese Guglielmo III presso la Serenissima:  

Il senato ingiustissimo di Roma, pupillo è senza lumi, discepolo da sferza. Governo di Repubblica che sia ancor non sa; né apprende costume di dominio, e non l’intende. Dove più d’uno ha scettro, Galba, è rischio la plebe. E umil se la calpesta sovranità real, se la blandisce di serpe alza la fronte e insuperbisce. Senti, e tu impara, Roma, il popolo servil, se da principio, domo non è, se tema nol ritiene, chiede un dì, l’altro vuole, e il terzo ottiene. 2  

Il dalmata Cristoforo Ivanovich, appassionato sostenitore della costituzione repubblicana di Venezia per quanto fedele alla causa dell’antico patriziato, si mantiene ben al di qua delle rivendicazioni monarchiche espresse dal Coriolano del Noris e, pur mostrando nel suo libretto i limiti di un modello politico che la guerra di Candia aveva deteriorato irrimediabilmente, lascia spazio in chiusura ad un finale lieto: la riconciliazione di Coriolano con i consoli permette infatti di ristabilire – sospeso per un attimo il timore di future, tutt’altro che scongiurate, sedizioni popolari – quella pace che era in grado di garantire a Roma un periodo di respiro dalle fatiche belliche. L’esperienza di ‘drammaturgo di corte’ di Ivanovich si chiude su uno sfondo simile a quello delineato nel Coriolano: la Serenissima era finalmente uscita dal ventennale conflitto di Candia, ma sconfitta e malconcia, economicamente e politicamente ridimensionata, e chiamata a rivestire, nello scacchiere d’Europa che le guerre di successione avevano ridisegnato, un ruolo secondario. La prova successiva del poeta dalmata, il Lisimaco (1673), 3 si situa infatti piuttosto nel genere del libretto alla veneziana, ed è significativamente dedicato non più a un principe Farnese o alla maestà asburgica, ma a Giovanni Michiel. Sebbene l’asse principale del  

1

  Giovanni Andrea Moniglia, Gneo Marzio Coriolano, Firenze, Vangelisti, 1686.   Matteo Noris, Marzio Coriolano, Venezia, Nicolini, 1698, p. 62. 3   Cristoforo Ivanovich, Lisimaco, Venezia, Nicolini, 1674. 2

la drammaturgia musicale di cristoforo ivanovich

277 dramma sia costituito dalla narrazione degli intrighi amorosi e delle peripezie dei protagonisti, non viene del tutto esclusa la dimensione politica, che a√ora tuttavia in maniera significativamente diversa rispetto al passato, fin dalla scelta del soggetto: un sanguinoso episodio della lotta di successione ad Alessandro Magno in seguito alla spartizione dell’immenso impero macedone. Del valoroso Alessandro, lodato nell’argomento, non resta che il fantasma, mentre le lotte intestine vedono protagonisti i minori Lisimaco ed Antigono, personaggi di un’età argentea che probabilmente il drammaturgo scorgeva nella stessa Venezia del dopoguerra: persa la grande campagna di Candia e intaccato il dominio sull’Adriatico, prendeva avvio una parabola discendente che imponeva l’abbandono dei soggetti repubblicani e la rinuncia ad una drammaturgia militante, in grado di celare una sostanza politica dietro alla predisposizione di apparati sfarzosi e alla rappresentazione di vicissitudini amorose.

AUTORI DALMATI NELLA BIBLIOGRAFIA DEL MONTENEGRO DI PERO CHOTCH Danijela Janjić

N

ella preziosa Bibliografia del Montenegro di Pero Chotch, uscita nel lontano 1924 come edizione dell’Istituto per l’Europa orientale in Roma, troviamo elencate pubblicazioni in varie lingue, tra le quali anche quelle degli autori italo-dalmati e proprio esse ci serviranno per dimostrare i veri pregi del lavoro di Chotch. Inoltre, in questo articolo si analizzano il contesto in cui nacque la Bibliografia del Montenegro, i motivi che spinsero l’autore a crearla e alcuni difetti della sua opera, la quale, poi, viene messa a confronto con le opere dei predecessori di Chotch. Tutto ciò serve per oπrire un quadro completo della Bibliografia di cui si discute nel presente saggio. Pero Chotch (Pero Šoć) nacque nel 1884 a Ljubotinj, in Montenegro e morì nel 1966 a Belgrado, in Serbia. Fu uno scienziato e politico. Si occupò di letteratura e di storia, scrisse articoli da pubblicista e lavorò come Ministro degli Aπari Esteri del Montenegro. La biblioteca nazionale del Montenegro ‘Djurdje Crnojević’ cura il suo fondo che comprende non solo le sue pubblicazioni, ma anche il materiale d’archivio e i suoi carteggi (sono importanti le lettere scambiate con i personaggi pubblici e famosi all’epoca). Nonostante l’intensa attività politica, trovava sempre tempo per le ricerche storiche e letterarie e si mostrò uno studioso serio e costante. I suoi interessi riguardavano soprattutto la cultura e la storia del Montenegro e perciò con la sua Bibliografia del Montenegro non sorprende il pubblico come autore, anche se il genere della bibliografia non era ancora sviluppato. La novità sta altrove ovvero nel fatto che Chotch fu il primo autore montenegrino di una bibliografia relativa al Montenegro. Prima di lui solo Marko Dragović svolse una ricerca bibliografica, però con la collaborazione di Cesare Tondini de Quarenghi, autore principale e ideatore del progetto (in seguito Dragović pubblicò anche da solo alcune aggiunte alla bibliografia montenegrina). Prima di Tondini de Quarenghi, un altro italiano incluse il Montenegro in una delle proprie imprese bibliografiche. Si tratta del famoso Giuseppe Valentinelli e del suo Specimen bibliographicum de Dalmatia et agro Labeatium, stampato a Venezia nel 1842, mentre nel 1855 ne uscì una nuova edizione intitolata Bibliografia della Dalmazia e del Montenegro. In più, Valentinelli pubblicò due supplementi alla sua bibliografia; fu una lunga ricerca che si protrasse fino al 1875. Invece, dopo Tondini de Quarenghi, nel 1896 Annibale Tenneroni realizzò una raccolta di lemmi bibliografici relativi al Montenegro in varie lingue e la pubblicò con il titolo Per la bibliografia del Montenegro. Valentinelli, Tondini de Quarenghi e Tenneroni furono i primi bibliografi a interessarsi del Montenegro e molto spesso, come abbiamo visto e com’era logico, il loro interesse mirava la Dalmazia allo stesso tempo. Il fatto che tutti e tre furono italiani rappresenta un’ulteriore conferma degli stretti legami fra l’Italia, la Dalmazia e il Montenegro. Perciò non stupisce la decisione di Chotch di pubblicare la sua bibliografia in lingua italiana. E in più, fu una pubblicazione dell’Istituto per l’Europa orientale in Roma, che curava anche la rivista «L’Europa orientale». Era l’anno 1924, e nel 1925 lo stesso istituto pubblicò la seconda edizione della Bibliografia del Montenegro.

autori dalmati nella bibliografia del montenegro di chotch

279 Chotch scelse la lingua italiana anche per la notevole presenza degli scritti in italiano i quali trattavano vari aspetti storici e culturali della sua patria. Si trattava degli autori italiani e anche italo-dalmati. Prevalgono, quindi, i testi in italiano, e per inquadrare meglio l’argomento, il nostro riporta anche i titoli degli scritti in altre tre lingue: Questa bibliografia non contiene che le pubblicazioni in italiano, francese, tedesco e qualcuna in russo, che ho potuto riunire in varie biblioteche, specialmente di Roma e Parigi. Omissioni sono inevitabili in tal genere di lavoro. Accoglierò perciò con gratitudine tutte le osservazioni che i lettori vorranno inviarmi. P. Chotch Roma – Via Veneto, 79 Gennaio 1924 1  

Chotch nella dedica indica chiaramente anche il motivo che lo spinse al lavoro bibliografico: «A nobili stranieri diπensori della mia sfortunata Patria». 2 Gli scritti raccolti hanno tutti un argomento unico, il Montenegro e i suoi varissimi aspetti, dalla storia, economia, società e letteratura fino alla flora e alla geografia. Nella Bibliografia del Montenegro sono elencati anche i predecessori dell’autore, Valentinelli, Tondini de Quarenghi e Tenneroni:  

Tenneroni Anibale. Per la bibliografia del Montenegro. 9 pagine. Roma 1896. 3 Valentinelli Giuseppe. Specimen bibliographicum de Dalmatia et agro Labeatum (Montenegro). Typis Caecinianis; p. 18-21; 13 titoli. Venetiis 1842. 4  



Per Tondini de Quarenghi leggiamo addirittura due indicazioni, di cui la prima rinvia alla voce Petrovitch Pietro II: Tondini Cesare. (Vedi Petrovitch Pietro II). 5  

E se andiamo a vedere la voce suggerita, ci assicuriamo che si tratta di Tondini de Quarenghi, dato che questa volta il suo cognome si cita per esteso. L’incoerenza, invece, riguarda adesso il nome di Pietro Petrovich, indicato in francese, anche se il primo titolo è in italiano ed è proprio una traduzione a cura di Tondini de Quarenghi: Petrovitch-Niégoche Pierre II. Il Montenegrino all’Onnipotente. Ode. Traduzione di Cesare Tondini de Quarenghi. Roma, 1901. 6  

Il secondo lemma relativo a Tondini de Quarengi è più sintetico, senza ulteriori rinvii, però il cognome è completo. Ovviamente, Chotch ha voluto separare la traduzione dall’opera d’autore: Tondini de Quarenghi. Il Montenegro. («Rassegna nazionale», 46). 1889. 7  

Allo stesso tempo, i titoli che si potevano raccogliere sotto voce di Petar Petrović Njegoš, una delle figure più importanti per la storia e per la cultura del Montenegro, facevano di per sé un gruppo a parte e perciò la traduzione a cura di Tondini de Quarenghi non è stata citata per esteso sotto il suo nome. Quindi, come abbiamo visto, Chotch ha elencato alcuni scritti dei suoi predecessori, però non specifica quali siano state le fonti della sua ricerca, limitandosi alla frase introduttiva che come fonte indica nel modo generico «varie biblioteche» da Roma a Parigi. Tra l’altro, omette di inserire nell’elenco bibliografico un nome importante, quello di Francesco Maria Appendini le cui Memorie spettanti ad alcuni uomini illustri di Cattaro del 1811 sono 1   Pero Chotch, Bibliografia del Montenegro, Roma-Napoli, Istituto per l’Europa orientale in Roma-Ricciardi, 1924, p. 6. 2 3 4   Ivi, p. 5.   Ivi, p. 77.   Ivi, p. 80. 5 6 7   Ivi, p. 78.   Ivi, p. 62.   Ivi, p. 78.

danijela janjić 280 anteriori anche a Specimen bibliographicum de Dalmatia et agro Labeatium di Valentinelli. Appendini aveva addirittura dei motivi simili a quelli di Chotch quando si mise a raccogliere i dati biografici dei personaggi di rilievo per l’area geografica delle Bocche di Cattaro: Fra quei letterati, che imprendono a scrivere di cose erudite, niuno, a mio credere, può meglio conciliarsi la stima de’ suoi contemporanei, ed aspirare con maggior diritto alla gratitudine, e riconoscenza dei posteri, quanto coloro, che raccolgono, e danno in luce le memorie biografiche di quei personaggi, che hanno colle loro virtù, e coi loro talenti contribuito a nobilitare il proprio paese. 1  

Rimase fuori dall’elenco anche Simeone Gliubitch (Šime Ljubić) con il famoso e dettagliato Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia (1856) e non venne inclusa nemmeno la Bibliografia dalmata tratta da’ codici della Marciana di Venezia (1845) di Valentinelli, un prezioso approfondimento del lavoro svolto tre anni prima: Nell’anno 1842 io pubblicai un Saggio bibliografico sulla Dalmazia e sul Montenegro (Specimen bibliographicum de Dalmatia et Agro Labeatium. Venetiis, Typis Caecinianis et Soc., in 8.o) frutto delle mie autunnali peregrinazioni per que’ paesi. Scontratomi in seguito in molte Opere da me per lo innanzi o non conosciute, o non abbastanza analizzate, mi aπezionai di vantaggio all’argomento, e mi sentii quindi portato ad istituire indagini più accurate e pazienti, onde raggiungere, per quanto è possibile, l’intento. […] credo servire alla Scienza bibliografica particolare, col produrre a mano a mano i risultati delle mie ricerche. Precipuo tra questi è il presente lavoro desunto dai molti e pregiati Codici della nostra Marciana. 2  

In realtà, è molto di√cile giudicare del sistema adottato da Chotch dato che lui non stese nessuna introduzione. A prescindere dalle mancanze della Bibliografia del Montenegro, il valore del contributo di Chotch è indiscutibile e diverso dal contributo dei bibliografi dei suoi tempi. Prima di tutto, la sua bibliografia rappresenta un aggiornamento che in quel momento era più che necessario se teniamo conto del fatto che erano passati quasi trent’anni dall’uscita del contributo Per la bibliografia del Montenegro di Tenneroni. E rispetto a Valentinelli, la forma è decisamente più moderna, dato che le schede sono ogranizzate secondo i nomi degli autori e non secondo i titoli permettendo di radunare le opere sotto nomi e di riacquistare una certa sistematicità. Adottando questo criterio, Chotch si avvicina al metodo di Simeone Gliubitch. Non riporta i dati biografici, però in un certo senso arricchisce il patrimonio italo-dalmata. Vediamo su alcuni esempi in che modo la bibliografia di Chotch conserva e raπorza il ricordo degli autori italo-dalmati. Per esempio, il lavoro di Mariano Bolizza nel Dizionario di Gliubitch è descritto minuziosamente e si dice che di lui si ha «una relazione del Sangiacato di Scuttari, e la descrizione di Castel Nuovo e Risano, coi loro villaggi», 3 però Chotch è molto più preciso e riporta il lunghissimo titolo dell’opera:  

Bolizza Mariano, nobile di Cattaro. Relatione et descritione del Sangiacato di Scutari dove si dà piena contezza delle città et siti loro, villagi, case et habitatori, rito, costumi, havere et armi di quel popolo et quanto di considerabile minutamente si contenga in quel ducato. (Descrizione completa del Montenegro). Venetia 1614. 4  

D’altro canto, Gliubitch ci oπre pure l’informazione che il «codice cartaceo» si trova presso la Marciana. Procede con zelo e arriva anche a Minuccio Minucci, da lui segnato come Minuccio de Minuci, e dopo l’esposizione dei dati biografici fin dalla sua nascita, passa all’elenco delle sue opere. Il primo posto occupa la Storia degli Uscocchi: 1   Francesco Maria Appendini, Memorie spettanti ad alcuni uomini illustri di Cattaro, Ragusa, Antoni Martechini, 1811, p. 3. 2   Giuseppe Valentinelli, Bibliografia dalmata tratta da’ codici della Marciana di Venezia, Venezia, Tipografia Cecchini e Naratovitch, 1845, pp. 3-4. 3   Simeone Gliubitch, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, Vienna, Rod. Lechner, 1856, p. 45. 4   Pero Chotch, op. cit., p. 18.

autori dalmati nella bibliografia del montenegro di chotch

281

1. Storia degli Uscocchi in italiano stampata nel 1602 a Venezia in 4o, e di nuovo nel 1831 a Milano, continuata da Fra Paolo Sarpi fino il 1615 (Venezia in 4o – 1617 in 8o Venezia con Supplem.). Questo lavoro fu tradotto in francese da Amelot de la Houssaye. Parigi 1682 in 12o (nel III. Tomo dell’Histoire du gouvernement de Venise. Amsterdam 1605). 1  

Chotch è di nuovo più preciso nell’indicazione del titolo: Minucci Minuccio, arcivescovo di Zara. Historia degli Uschochi coi progressi di quella gente sino all’a. 1602. Venezia 1613. 2  

Inoltre, la scheda è apprezzabile per il chiarimento che esiste anche un’edizione veneziana del 1613, e per il fatto che è aggiornata la grafia del cognome dell’autore (Minucci, non più de Minuci). La grafia è diversa anche per Luccari Giacomo di Pietro, annotato come Lucari Giacomo di Ragusa nel Dizionario di Gliubitch, il quale gli dedica un passo non troppo lungo, però abbondante di piccoli cenni a un suo scritto: Lucari Giacomo di Ragusa, scrisse la storia di sua patria. La prima edizione vide la luce in Venezia presso Antonio Leonardi nel 1605, l’altra in Ragusa dal Trevisan 1790. Quivi un’ammasso inordinato di notizie antiche, moderne storiche, geografiche e politiche, appartenenti a molti luoghi ed oggetti, per cui a ragione disse di lui il Dolci: aliena potius quam nostra scripsit. 3  

Presso Chotch troviamo finalmente il titolo dell’opera: Luccari Giacomo di Pietro, Gentiluomo Rauseo. Copioso Ristretto degli annali di Rausa. Venetia 1605. 4  

Gliubitch a volte giudica con libertà quali titoli vanno segnalati precisamente al lettore e quali no e perciò possiamo dire che Chotch riporta alla memoria le opere che rischiavano di finire dimenticate. Oppure, quando Gliubitch è favorevole nei confronti di uno scrittore e non risparmia le lodi nel descrivere il frutto del suo lavoro, Chotch rimane sempre quello che alla fine oπre l’informazione completa che ci serve per trovare un libro: Farlatti. Illyricum Sacrum, 6 tom Venetiis, 1751-1800. 5  

Ed ecco la bella e indubbiamente vivace descrizione di Gliubitch: Egli è per noi, ciò che l’Ughelli per l’Italia. A nostro parere spose nell’Illyricum Sacrum la storia delle chiese illiriche con occhio, mente, cuore, parola superiori a tutta sorte di lode. E quantunque occupasse tutta la vita in questo lavoro, pure nel frattempo tenne nelle adunanze di dotti alcune disputazioni filosofiche, e recitò panegirici, prediche ecc. nelle chiese di Padova con plauso. 6  

Mancano, però, l’anno e il luogo di pubblicazione dell’Illyricum Sacrum, invece riportati da Chotch, come abbiamo potuto leggere. È strano solo come Chotch abbia omesso il nome di Farlatti, annotato da Gliubitch il quale addirittura usa scrivere Daniele nella nota biografica: «Daniele prese un altro piano di questo lavoro». 7 In base agli esempi appena esposti si vede bene che i pregi di Chotch come bibliografo erano molti. Si trattava di un bibliografo sobrio, imparziale e preciso e la sua bibliografia dovrebbe essere presa in considerazione ogni volta che si intendono ripercorrere le bibliografie relative alla Dalmazia e al Montenegro. Per le questioni di spazio, non possiamo ricordare tutti gli autori italo-dalmati che lui salvò dalla dimenticanza, conservando la memoria delle loro opere. Tuttavia, siamo sicuri che questi pochi esempi elencati dimostrano il vero valore della Bibliografia del Montenegro di Pero Chotch.  

1

  Simeone Gliubitch, op. cit., p. 214.   Pero Chotch, op. cit., p. 57. 4   Pero Chotch, op. cit., p. 52. 6   Simeone Gliubitch, op. cit., p. 130. 2

3

  Simeone Gliubitch, op. cit., p. 184.   Ivi, p. 34. 7   Ibidem. 5

STEFANO SCIUGLIAGA. ALCUNE OSSERVAZIONI SULLA COMMEDIA NELLE NOZZE INVOLONTARIE DELLA SIGNORA COMMEDIA ITALIANA COL SIGNOR CONTE POPOLO SIGNOR DEL BASSO PIANO CON QUALCHE ACCENNO

ALLE ALTRE SUE OPERE Marijana Milkovic

S

tefano Sciugliaga Garmogliesi o Stijepo Šuljaga Grmoljez (1719-1780), raguseo, negoziante, successivamente direttore di una stamperia a Venezia e segretario del governo austriaco a Milano, arriva a Venezia nel settembre del 1747, dunque un po’ prima dell’inizio del periodo di grande competizione tra Carlo Goldoni e Pietro Chiari. Negli anni 1754 e 1755 interviene nella polemica in difesa dell’amico Goldoni. Più tardi, quando Goldoni parte per Parigi, diventa il suo procuratore e rappresenta i suoi interessi presso Francesco Vendramin. Sciugliaga ha avuto l’autorizzazione da parte del commediografo di poter intervenire sulle sue opere. Quest’ultimo non gli ha mai dedicato un’opera teatrale, ma lo ritiene degno di amicizia, stima e aπetto. Nelle Mémoires lo descrive così:

Je n’oublierai pas M. Etienne Sugliaga en Garmogliesi de la ville de Raguse, et actuellement Secrétaire Royal et Impérial à Milan: cet homme trèssavant, ce philosophe estimable, ami chaud et intéressant, dont le coeur et la bourse étoient toujours ouverts pour moi, cet homme enfin dont le talent et les moeurs étoient également respectables, entreprit de répondre aux traits satyriques qu’ on lançoit contre moi, et sa prose vigoureuse et éloquente faisoit encore plus d’eπet que le clinquant des vers et les images poétiques. 1  

La commedia Nozze involontarie della Signora Commedia Italiana col Signor Conte Popolo Signor del Basso Piano 2 è uscita a Ferrara nel 1755. È stata pubblicata adespota, ma poi attribuita proprio a Sciugliaga. 3 In questa breve panoramica osserviamo la coerenza tra alcuni punti di tale commedia metateatrale e altri scritti critici e teorici di Sciugliaga. Non abbiamo evidenza in merito al fatto che la commedia sia mai stata rappresentata.  



1

  Carlo Goldoni, Tutte le opere di Carlo Goldoni, i, a cura di Giuseppe Ortolani, Milano, Mondadori 1935, p. 383.   Nozze involontarie della Signora Commedia Italiana col Signor Conte Popolo Signor del Basso Piano, Commedia parte in versi sciolti, che non son versi, e parte in versi detti Martelliani che non son Martelliani. Dedicata all’Illustrissimo Signore Santorio Santorio, Segretario dell’Eccellentissimo Senato Veneto. In Ferrara, 1755. Con licenza de’ Superiori. Si vende in Venezia da Pietro Bassaglia, a San Bartolommeo. 3   Il primo ad associare l’opera con lo scrittore raguseo è stato Gaetano Melzi nel suo Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, Milano, Pirola, 1852, p. 255. Non tutti concordano con questa attribuzione. Frano Čale e Marco Catucci ritengono che il testo probabilmente non sia di Sciugliaga, Bodo Guthmüller invece non ha dubbi nel riconoscerla come opera del Raguseo: Frano Čale, Stefano Sciugliaga difensore del Goldoni, «Studia Romanica et Anglica Zagrabiensia», Zagabria, Odsjek za romanistiku, Odsjek za talijanistiku i Odsjek za anglistiku Filozofskoga fakulteta Sveučilišta u Zagrebu, 21-22, 1966, pp. 201-257; Marco Catucci, Il teatro esotico dell‘abate Chiari: il mondo in scena tra décor e ragione, Roma, Robin, 2007; Bodo Guthmüller, Il Conte Popolo sposa la Commedia Italiana. Teatro e mercato a Venezia nel 1755, «Studi Goldoniani», 2, 2013, pp. 59-70. 2

stefano sciugliaga. osservazioni su alcune delle sue opere

283 I personaggi che portano nomi suggestivi sono il Marchese Bizzarro, il Conte Popolo Signor del Basso Piano, la Commedia Italiana, il sindaco Criticone, i medici Buongenio, Farfallone, Incostanza, la Commedia Francese, suo padre Molière. Il Marchese Bizzarro ha promesso sua sorella Commedia Italiana in sposa a Criticone, poi ha intuito la possibilità di un maggior profitto nel matrimonio con il Conte Popolo che però non piace alla sposa promessa a causa del suo cattivo gusto e delle sue infime inclinazioni. Inoltre, ella si è di recente ripresa da una lunga malattia: il matrimonio con un Conte così incostante e stravagante potrebbe di nuovo far peggiorare il suo stato di salute. A curarla è stato il dottor Buongenio che la ha aiutata a guarire, ma le ha anche, per un certo periodo, somministrato medicine che le nuocevano. Buongenio confessa la colpa: il suo agire è stato determinato dalla paura di essere battuto dal suo avversario, il dottor Farfallone, e dai consigli della propria moglie Incostanza. Infine, su insistenza del fratello Marchese e su consiglio degli amici, la Commedia accetta di sposare il Conte, però gli pone certe condizioni. L’allegoria si coglie facilmente. Il Conte Popolo sta per il pubblico, i due medici alludono ai due poeti: Buongenio al Goldoni e Farfallone al Chiari. Bodo Guthmüller, nel suo studio, scrive che il Criticone «ha il ruolo di rappresentare la giusta concezione della commedia, quella dei grandi scrittori dell’antichità classica, del Rinascimento italiano e del classique francese», e vede nel Marchese Bizzarro i proprietari dei teatri e gli impresari. 1 L’allegoria nel suo complesso vuole illustrare la situazione nei teatri d’allora, nella quale interagivano commediografi, impresari, pubblico e riforma. In quel preciso momento il teatro a Venezia ha una particolare importanza, è un fenomeno sociale sul quale influiscono il cambiamento della società e i rapporti tra i ceti che la compongono. Il teatro si è aperto e non appartiene più soltanto a una cerchia ristretta, socialmente elevata, ma a tutti coloro che sono disposti a pagare il biglietto. Le rappresentazioni teatrali sono diventate merce da vendere e gli impresari e i proprietari dei teatri, per trarre maggior guadagno, si adattano alle richieste del pubblico, spingendo i commediografi a produrre secondo i gusti degli spettatori. Essi in questo modo sono diventati indirettamente un partner nella scrittura delle commedie. Perciò anche quello che succedeva al di fuori dei teatri assumeva rilevanza. Le persone parlavano degli spettacoli, se ne discuteva nei caπè, tra gli intellettuali, le notizie giravano per Venezia e ne uscivano anche. Riportiamo qui come esempio un frammento dalla lettera di Steafno Carli, fratello del più noto Gianrinaldo Carli, che il 3 novembre 1753 scrive una lettera a Girolamo Gravisi, nobile capodistriano dell’Accademia dei Risorti:  

Da S. Luca diretto dal Goldoni ebbi la comedia intitolata La Sposa Persiana del tutto nuova. Sono stato interessantissimo a vederla, per aver inteso ne’ pubblici caπè le diverse oppinioni 2  

Carli scrive che a Venezia si parlava delle commedie, ma la lettera ci rivela anche che quello che succedeva nella Laguna nell’ambito teatrale superava i confini della città e faceva discutere anche gli intellettuali altrove. Si trattava dunque di una «rivoluzione» teatrale che coinvolgeva sia il popolo sia il ceto intellettuale, sia i Veneziani sia quelli che non venivano neanche a contatto diretto con quegli avvenimenti. Ed è proprio la popolarizzazione del teatro che ha cambiato la dialettica tra l’autore, l’impresario e il pubblico. Il pubblico, partecipe come il Conte Popolo nella commedia, si veste di ricerca del nuovo e stravagante, ma anche di incostanza: nelle sue aspettative, seppur esigente, non è sempre univoco. Buongenio distingue tra i saggi, cioè i colti che non coincidono con il ceto alto ma con gli spettatori in cerca di equilibrio e misura, e la plebe che è la personificazzione dei bassi inclini. Nelle Istruzioni per il teatro comico Sciugliaga è chia1

  Bodo Guthmüller, art. cit., p. 63.

2

  Pokrajinski arhiv Koper, SI_PAK/0299/005/001/003.

marijana milkovic 284 ro: far ridere gli ultimi non richiede grande sforzo, diventa invece di√cile far ridere il pubblico di uomini sensati e istruiti che ridono delle verità ricercate che «possono dirsi sublimi, le quali sieno rappresentate in un modo, che facciano vedere il ridicolo rinchiuso anche negli oggetti e ne’ soggetti più seri». 1 Il desiderio di compiacere il Conte Popolo ha indotto per un certo periodo il dottor Buongenio, influenzato anche dai consigli della moglie Incostanza, a cambiare le cure e√caci e a somministrare alla Commedia italiana medicine nuove che ne fanno peggiorare la salute:  

Egli in ver lungamente ha coltivato La vostra sanitade; e convien dirlo Per qualche tempo siete stata bene. Ma quei preservativi, che al presente Vi va somministrando, a dirvi il vero, Non mi piacciono un fico; e mi rincresce Ch’ei badi tanto a quella Dottoressa Di sua Moglie insostanza. Ora vi porge Rimedj alla Francese, ora all’Inglese, Un’altra volta poi alla Persiana. Vi fa sino parlar in varie foggie, A suono di Martello. 2  

Buongenio si difende dicendo di aver paura di non piacere quanto piace il concorrente Farfallone che prescrive al Conte Popolo quello che vuole lui senza tener conto dell’arte medica. Farfallone sa come accontentare il popolo con il «bello scrivere». Valeria Tavazzi nota che Sciugliaga riconosce a Chiari l’armonia del verso e la capacità di aπascinare l’uditorio con i martelliani. Farfallone viene tuttavia presentato in modo estremamente negativo. Quando compare sulla scena per la prima volta è deriso dalla Commedia Italiana e da quella Francese per le sue lungaggini e lo stile ampoloso. In seguito il suo operare poetico è ricondotto alla consapevole cinica scelta di adulare il Conte Popolo e di dare a lui e ai suoi ammalati quello che vogliono senza troppi scrupoli. 3  

Mentre Buongenio viene giustificato per essere caduto in errore, Farfallone viene accusato di un cosciente operare nocivo. Sciugliaga prende una decisa posizione contro il verseggiare dei due scrittori, Goldoni che in quel periodo, presso il San Luca, dà alla luce le sue opere di timbro esotico come la Sposa Persiana e il Filosofo Inglese, per lo più scritte in martelliani, e Chiari, maestro nei martelliani e nello stile opulento e gonfio, che si trova al centro della critica del raguseo. Nella Lettera anonima che Sciugliaga scrive come risposta a Chiari e al suo attacco nella sua commedia Il poeta comico, lo nomina «versificatore stimatissimo». 4 Gli spiega poi che il poeta non si misura con i versi portando come esempio Marco Tullio che definisce infelice versificatore e felicissimo poeta. Secondo lui Chiari piace al popolo perché «l’arditezza dello stile incanta il popolo» e perché «il giudizio presente del popolo va drieto la rima, non drieto le cose». 5 Nell’opuscolo Parossismo dell’Ipocondria 6 viene rimproverato a Goldoni di aver dimenticato se stesso in alcune opere per accontentare il popolo curioso. Comunque giudica bene la maggior parte del suo lavoro, cosa assai logica dato che il testo fa parte del suo operare critico  





1   Stefano Sciugliaga, Istruzioni per il teatro comico scritte a maniera di lettera dal Signor N. N. e mandate ad un suo amico, ch’è voglioso di comporre Commedie, Mantova, Erede di Alberto Pazzoni 1754, p. 10. 2   Nozze involontarie, cit., pp. 1-2. 3   Valeria G. A. Tavazzi, Le commedie sulle gare teatrali, «Rivista di letteratura teatrale», 6, 2013, pp. 72-73. 4  Cfr. Stefano Sciugliaga, Lettera anonima all’autore della Commedia o sia disertazione, intitolata il “Poeta Comico”, Ferrara-Venezia, Giuseppe Rinaldi 1755, p. 14. 5   Ivi, p. 14. 6  Cfr. Stefano Sciugliaga, Il Parossismo dell’Ipocondria di Giusto Ascanagelfi, Venezia, Simone Occhi, 1754.

stefano sciugliaga. osservazioni su alcune delle sue opere

285 e teorico in difesa di Goldoni, svolto negli anni 1754 e 1755, e pone la sua scrittura sulla linea di Terenzio e Molière: Assomiglierei il primo autore a Terenzio, ed anche al Molière, (benché con sua pace, lo chiamerei mostruoso dove si scosta dalla natura in cui è maestro); ed il secondo l’assomiglierei alle Metamorfosi d’Ovidio; né gli permetterei di scusare le commedie quando sono difettose, col dire che la copia rassomiglia all’originale, qualora quelle rappresentano i difetti umani. Lo specchio, per esser fedele nel rappresentare gli oggetti, deve esser perfetto, benché mostri i difetti dell’oggetto. 1  

Sono aπermazioni che trovano conferma anche nella commedia metateatarale. Buongenio viene presentato come degno successore di Molière, il quale in questo testo e nei trattati di Sciugliaga appare come una figura centrale sul cui esempio basare la commedia italiana del Settecento. Buongenio, tentato di voler piacere al Conte Popolo, oltre a nuocere alla malata ha anche perso il vantaggio che aveva rispetto a Farfallone. Non è riuscito a sodisfare le aspettative di quella parte del pubblico, del mondo colto, che non si accontenta solo del nuovo e maraviglioso. Al pubblico si deve dare la «buona commedia» 2. E qui Sciugliaga insiste particolarmente sulla necessità di perseguire la verisimiglianza, la verità, la realtà, la natura, l’armonia, la proporzione e l’equilibrio. L’altra diπerenza che nelle Nozze distingue Buongenio e Farfallone è il loro intento. Farfallone non si cura del fatto che adula il Popolo al solo fine di avere successo, mentre Buongenio si pente e si preoccupa della salute della sua paziente. Lui e il Criticone sono coscienti della responsabilità che hanno verso la Signora Commedia e si preoccupano della sua sorte nelle mani di Farfallone e Marchese Bizzarro che sono in cerca di profitto:  

Criticone Che commiato gentil prendon costoro! Di bestie han poco meglio; ma degg’io Forse sdegnarmi del poco rispetto? Doni eguali ad ognun non diede il Cielo, Natura, educazion; forte ed impiego variano i sentimenti, ed il costume. E sarebbe inprudenza, ed ingiustizia L’esigere finezza di maniere Da chi, senza sua colpa, ebbe vil culla, Bassa coltura, ed esercizio abbietto. Perciò l’Uom saggio tollera, ch’esali Ogn’erba il proprio odor soave, o ingrato. Or riflettendo agli accidenti intesi; Qual strana mai rivoluzion di cose! Starò a veder, e riderò de’ pazzi; E poichè è un’impossibile intrapresa Il voler, che le leggi di prudenza Loro servan di norma; al precipizio Si lascin pure andare a lor talento. Infelice Commedia! a me in Consorte Fu destinata; e poi a me si toglie Per darla al Conte Popolo; da questo Vien riπutata, o pur si vuol che faccia La figura di amica, e non di moglie. Misera condizion d’inclita Donna! Nata sol perchè forse altrui di specchio. Onde emendar le macchie, ed i difetti! Or si vuol, che divenga Concubina. Mi fa pietà; ma non è in poter mio 1

  Ivi, p. 34.   Cfr. anche Nozze involontarie, cit., pp. 8, 18 e Bodo Guthmüller, art. cit., pp. 64, 69.

2

marijana milkovic

286

Mitigare la sua trista fortuna. Dunque che far poss’io? starò a vedere, Ridendo di sì strane frenesie. 1  

Lo scopo dell’opera è anche quello di «emendar le macchie e i difetti», dunque secondo Criticone la commedia ha un importante ruolo in campo morale: fare degli spettatori persone migliori e dirigerli verso il buon gusto. Sciugliaga tratta la questione della morale e la funzione educativa nella sua opera critica Istruzioni per il teatro comico. 2 Il teatro deve «servire di correzione» e mentre la tragedia lo fa mettendo in evidenza i fatti più mostruosi dell’umanità e dei singoli umani per portare lo spettatore a detestarlo, la commedia deve battere strada diversa:  

La commedia poi (destinata si voglia o non si voglia a far ridere) non deve mai rappresentare le cattive ed inique azioni, ma solamente quelle che sono ridicole, voglio dire que’ tali casi ne’ quali un galantuomo, che potrebbe essere stimato, si fa ridicolo, e diventa la favola del paese. Si può far vedere per es., che la sordida avarizia mette l’uomo in disprezzo; che il giuoco lo riduce in miseria e gli fa perdere quegli avanzamenti che naturalmente poteva sperare; che l’amore lo rende pazzo e tal volta lo disonora. Questo è il genere di correzione che conviene alla commedia, la quale in questo modo diventa utile agli spettatori, sub lato jure nocendi, come dice Orazio. Ma se porterete un vizio grave in una rappresentazione ridicola, non potrete mai farlo conoscere abbastanza odioso. 3  

Sciugliaga è convinto che la commedia non debba soltanto far ridere, ma anche correggere il vizio. La retta via deve essere seguita malgrado l’inevitabilità delle leggi del mercato che spingono i commediografi ad abbandonare l’arte poetica e mirare al mero successo commerciale. Alla spregiudicatezza di accontentare il gusto spesso di basso livello del popolo e alla ambizione di guadagno viene a contrappeso il compromesso, quello che deve fare la Commedia Italiana sposando il Conte Popolo, e quello che devono fare Goldoni e gli altri scrittori di commedie per poter seguire le loro ambizioni letterarie, così da sopravvivere nel sistema Settecentesco. Bodo Guthmüller ritene che il tema centrale della commedia Nozze involontarie sia proprio la rete dei rapporti intercorrenti tra teatro e mercato nel sistema del teatro commerciale del suo tempo. 4  

Conclusioni L’operare di Stefano Sciugliaga si situa in un periodo di forte concorrenza fra i teatri, di discussioni tra gli intellettuali e nel popolo, e nel quale il pubblico e le leggi del mercato sono diventati fattori ormai non più trascurabili nel processo di scrittura dell’opera teatrale. In questa riflessione, seppur limitata nella sua frammentarietà, sono stati individuati alcuni punti di a√nità tra la commedia Nozze involontarie della Signora Commedia Italiana col Signor Conte Popolo Signor del Basso Piano e i libelli di Sciugliaga: la divisione del pubblico secondo le diverse aspettative in merito alle rappresentazioni, i criteri della scrittura della commedia come il rifiuto dei martelliani, dello stile romanzesco e ampolloso e delle tematiche di tipo esotico, l’attingere ai modelli dell’antichità classica e del classicismo nella preoccupazione per la verità, la verisimiglianza, la naturalezza e nel rispetto della funzione educativa della commedia. 1

  Nozze involontarie, cit., pp. 39-40.  Cfr. Stefano Sciugliaga, Istruzioni per il teatro comico, cit., pp. 20-23. 4   Bodo Guthmüller, art. cit., p. 59. 2

3

  Ivi, pp. 22-23.

GIULIO BAJAMONTI POETA: MORALITÀ E SCIENZA NELL’EPISTOLA IL VIAGGIO (1784) Anna Maria Salvadè

N

ato a Spalato nel 1744, Giulio Bajamonti è senza dubbio una delle personalità più cospicue della Dalmazia del secondo Settecento. 1 Compì gli studi universitari a Padova, dove, anche per il tramite dell’amico naturalista Alberto Fortis, venne a contatto con illustri esponenti del mondo accademico, da Melchiorre Cesarotti a Giuseppe Toaldo, da Antonio Vallisneri junior a Leopoldo Marcantonio Caldani; in seguito, pur desideroso di ottenere prestigiosi incarichi di insegnamento (medicina e filosofia morale) presso l’ateneo patavino, non riuscì mai ad allontanarsi in maniera definitiva dalla città natale, e fu appunto qui che si trattenne prevalentemente, e che esercitò la professione medica, fatta eccezione per il quinquennio trascorso come medico comunale a Lesina (1787-1791). Musicista e compositore, membro di numerose accademie e società scientifiche, 2 Bajamonti vanta una ricca produzione saggistica; tra le opere più conosciute, la Storia della peste che regnò in Dalmazia negli anni 1783-1784 (Venezia 1786), l’Elogio del Boscovich (Ragusa 1789), e il fortunato Morlacchismo d’Omero, del 1797 (poi ridotto in esametri latini dal raguseo Giorgio Ferič), che individua elementi comuni tra la poesia popolare illirica e i poemi omerici, tra la vita degli eroi dell’Iliade e dell’Odissea e quella dei morlacchi. 3 Si dedicò inoltre alla poesia, dettando componimenti in italiano, in latino, in francese, in croato, molti dei quali rimasti inediti. I pochi versi approdati alla stampa sono per la maggior parte d’occasione; encomiastici (quelli per Angelo Diedo, «provveditor generale in Dalmazia ed Albania», editi, insieme alle liriche di altri poeti dalmati, a Venezia, nel 1789), epitalamici (l’ode Per le faustissime nozze dell’egregio cavaliere conte Raπaelo Gozze colla ornatissima dama contessa Marina Sorgo, Ragusa 1790), celebrativi di fauste circostanze (il sermone in versi sciolti per la conversione al cattolicesimo di due giovani ebrei, del 1777) 4 o di eventi considerati decisivi per la storia civile e sociale del paese (l’ode per La prima stamperia in Dalmazia, avviata a Ragusa nel 1783 dal tipografo veneziano Carlo Antonio Occhi). 5  









1   Sulla vita e sulle opere di Bajamonti cfr. Ivan Milčetić, Dr. Julije Bajamonti i njegova djela, «Rad Jugoslavenske Akademije znanosti i umjetnosti», cxcii, 1912, pp. 97-250; la voce di Arturo Cronia per il Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, v, 1963, pp. 280-281; nonché gli Atti del Convegno del 1994 Splitski polihistor Julije Bajamonti. Zbornik Radova sa znanstvenog skupa, održanog 30. listopada 1994. godine u Splitu, a cura di Ivo Frangeš, Split, Književni Krug, 1996. 2   Quelle di agricoltura di Udine, agraria ed economica di Cesena, di medicina di Venezia, degli Unanimi di Torino; fondò la Società economica di Spalato (cfr. Arsen Duplančić, Ostavština Julija Bajamontija u Arheološkome muzeju u Splitu i prilozi za njegov životopis, in Splitski polihistor Julije Bajamonti, cit., pp. 13-80: 70-71). 3   Giulio Bajamonti, Il morlacchismo d’Omero, «Nuovo giornale enciclopedico d’Italia», x, marzo 1797, pp. 77-98 (cfr. anche «La Voce dalmatica», ii, 20, 1861, pp. 161-163, e 21, pp. 170-172); Giorgio Ferich, Ad clarissimum virum Julium Bajamontium Spalatensem […] Epistola, Ragusii, excudebat Andreas Trevisan, 1799. 4   A due fanciulli Ebrei passati al grembo della S. Chiesa sotto gli auspicj e la paterna assistenza dell’Ill. e Rev. Mons. Luca Garagnini, Arciv. di Spalatro e Primate della Dalmazia, Venezia, Palese, 1777; una recensione che uscì quello stesso anno lodava l’autore per aver unito le idee della religione e della filosofia («Giornale enciclopedico», novembre 1777, pp. 97-99). 5   Carlo Antonio Occhi era annoverato fra i «Libreri e stampatori non esercenti in alcun luogo, ma volanti» (cfr. Mario Infelise, L’editoria veneziana nel ’700, Milano, FrancoAngeli, 1989, p. 325). Stabilitosi a Ragusa per impiantarvi una tipografia con il favore del governo, fu qui attivo fino almeno al 1785, con opere in italiano, latino e croato.

anna maria salvadè 288 Caratteri aπatto diversi ha invece il poemetto epistolare Il viaggio, opera di ampio respiro, cui Bajamonti volle evidentemente a√dare la propria fama di poeta, e che contribuisce a completare il profilo di un autore eclettico, capace di contemperare interessi diversi (la nautica, le scienze naturali, la letteratura latina, i canti popolari, la storia). Bajamonti fu un viaggiatore instancabile; visitò fra l’altro le isole del Quarnaro, e, per incarico diplomatico, al seguito di una delegazione veneziana, nel maggio 1780 si inoltrò fino a Livno e a Travnik, in Bosnia. A testimonianza di questa passione sarebbe su√ciente ricordare che fu compagno di Alberto Fortis durante la spedizione descritta dall’abate padovano nel Viaggio in Dalmazia (1774); gli fece da guida nell’entroterra, e gli fornì preziose indicazioni per gli studi di carattere etnografico. 1 Il viaggio, che per Fortis costituiva il fulcro della pratica scientifica, garantendo l’osservazione diretta dei fenomeni, nell’epistola di Bajamonti diviene pretesto per formulare riflessioni fra letteratura e filosofia. Pressoché assente nelle biblioteche italiane (ne è censito un solo esemplare nella Biblioteca Universitaria di Padova; segn. BOT.7.34.22), l’opuscolo uscì senza indicazioni tipografiche a Ragusa, nel 1784. 2 L’epistola, di oltre ottocento endecasillabi, è articolata in due parti (parte prima, vv. 1-326, e parte seconda, vv. 327-824), che ripercorrono un itinerario compiuto sulle coste della Dalmazia, le cui tappe vanno oltre il dato puramente descrittivo, e servono all’autore per evocare allusivamente una serie di personaggi, quasi tutti riconducibili alla ristretta cerchia di amici ragusei raccolti intorno al conte Michele Sorgo, con ogni probabilità il dedicatario del componimento («Signor», vv. 1, 240, 621). 3 La struttura è circolare; il resoconto odeporico si apre nel malinconico ricordo di quell’«eletto crocchio» (v. 4), in compagnia del quale l’autore trascorreva momenti sereni durante i soggiorni a Ragusa, e si chiude con una immagine non estranea agli influssi del sensismo, nel nome dell’amicizia, capace di arricchire ogni esperienza umana, conferendole valore, proprio come fiamma che ra√na un metallo prezioso:  





Oh quante volte non ignobil pensier franco s’aπaccia dell’anima al confine, e i messaggieri spirti s’avviano già pronti a recarlo della loquela alle sonore fibre; né ritrovando chi lo accolga, ei riede alle mute sue sedi e muore in culla. Tal nella cupa sua profonda cava prezioso metallo oscuro giace, e vi rimane sepolto e sconosciuto, se tratto non ne sia da braccio industre, che poscia alla fornace il purghi e a√ni (vv. 810-821).

Le Rime amorose, e pastorali, et satire di Savino de Bobali Sordo furono il primo lavoro (1783); una scelta, quella di ristampare un petrarchista del Cinquecento, criticata da Alberto Fortis nel «Nuovo giornale enciclopedico» del 1784 (cfr. la lettera a Teresa Bassegli Gozze del 1° novembre 1783, in Dall’epistolario di Alberto Fortis. Destinazione Dalmazia, a cura di Luana Giurgevich, Pirano, Società di studi storici e geografici, 2010, pp. 261-262). 1   Per i rapporti tra i due autori cfr. Vito Morpurgo, Incontri e dialoghi fra Alberto Fortis e Giulio Bajamonti, «Studia Romanica et Anglica Zagabrensia», 29-32, 1970-1971, pp. 481-492; Žarko Muljačić, Putovanja Alberta Fortisa po hrvatskoj i Sloveniji (1765-1791), Split, Književni Krug, 1996, pp. 70-101 e 119-139; Dall’epistolario di Alberto Fortis, cit., pp. 33-130. 2   Per la data, il luogo di stampa e il nome dell’autore cfr. Žarko Muljačić, Novi podaci o splitskom knjizevniku Juliju Bajamonti, «Prilozi za knjizevnost jezik, istoriju i folklor», 27, 1-2, 1961, pp. 45-53: 48, nota 1. 3   Scrittore e poeta a sua volta, Michele Sorgo (1739-1796) sarebbe stato, tra il 1793 e il 1796, l’animatore della Società patriottica di Ragusa. Gli altri personaggi cui accenna l’epistola (vv. 34, 290, 323, 357, 643) sono Luca Sorgo (1734-1789), fratello di Michele, Giacomo Bassegli (1720-1805), Giunio Antono Resti (1755-1814; cfr., qui, anche la nota 1 a p. 285) e, naturalmente, Alberto Fortis.

giulio bajamonti poeta: moralità e scienza nell’epistola il viaggio 289 Così, se nell’esordio il poeta dichiara di aver sempre tratto conforto nei momenti più di√cili (allorché si trattò di solcare «in cavi legni il mar», o di aπrontare uno «scosceso orrido calle», «e sterpi e spine e ghiaja e zolle e balze», vv. 9, 11, 16) dalla presenza in spirito degli amici più cari, è nella dimensione onirica che l’epistola trova naturale conclusione, quando il protagonista sembra ridestarsi dal sogno, e le fattezze degli immaginari compagni di viaggio svaniscono definitivamente: O cari del mio cuor, meco in eterno restate. Il vostro consolante aspetto, gli accenti vostri… Ah! m’abbandona alfine il troppo grato error, qual sogno lieto che gl’infelici alletta, e a mani vote li lascia tosto; o qual delirio ameno, cui farmaco crudel dissipa in breve (vv. 774-780).

In questa cornice, adatta a conciliare l’immediatezza dell’esperienza odeporica con una costruzione letteraria stilisticamente elaborata, il ragionamento si articola nel tono colloquiale e disinvolto di una conversazione familiare con dotti interlocutori. Su tale registro, in un fitto reticolo di citazioni e di vere e proprie parafrasi (in primis da Orazio, Giovenale, Ovidio, Lucrezio, ma anche da Columella e Luca Valenziano), il poeta illustra il viaggio per mare fino a Ragusa, in balia dell’Austro, «dominante torbo / del mar d’Adria inquieto» (vv. 24-25), 1 sviluppando il tema topico della stoltezza dell’uomo, che, con empia e temeraria audacia, sfida gli elementi a rischio della vita, solcando acque un tempo a lui proibite (vv. 19-78). L’approdo sulla spiaggia di Ragusa e la vista delle rovine della città oπrono poi il destro alla rievocazione del terremoto del 1667, punto di rottura, per Bajamonti come per molti altri autori dalmati, nella storia secolare della Repubblica Adriatica. Anche qui vengono sfruttate appieno le tessere di un repertorio erudito comune agli interlocutori, memori del recente passato e delle opere dei conterranei Stefano Gradi e Benedetto Stay, che di quel sisma avevano scritto in esametri nel 1675 e nel 1744. 2 Lasciando per un momento da parte l’approccio analitico del medico e dello scienziato, e prima ancora dei volgarizzamenti procurati da Luca Stulli nella prima metà dell’Ottocento, 3 Bajamonti provvede a far conoscere i due poemi di Gradi e di Stay, dei quali propone in compendio i passi più suggestivi. La rappresentazione tragica dell’«eccidio orribil» di Ragusa (v. 141) in alcuni punti ricorda i toni apocalittici e il registro lugubre delle visioni (allora molto apprezzate) del ferrarese Alfonso Varano, cantore del terremoto di Lisbona (1755), con dettagli raccapriccianti: alcuni, che cercano scampo fuggendo, «colla sparsa / pioggia di sangue segnano la terra» (vv. 197-198); altri vagano fra le macerie, «dietro a sé traendo / le sbranate da’ colpi e rotte membra», e procedono «carpon pe’ sassi, i suoi chiamando / in ajuto», per poi stramazzare «come branco di bovi in abbandono / lasciati» (vv. 203-208); altri ancora vanno incontro a «una morte / ben più feroce, che le vive membra / colle fiamme discioglie» (vv. 235-237). Una volta ricondotta la responsabilità di quel cupo resoconto agli scrittori presi a modello («da loro appresi i miserandi eventi», v. 249), il poeta ricompone le fila del discorso, esaltando l’integrità del popolo dalmata e la purezza dei suoi costumi, nutriti di «umanità, beneficenza, /  





1

  Quinto Orazio Flacco, Carmina, iii, 3, 4-5 («Auster / dux inquieti turbidus Hadriae»).   Stefano Gradi, De laudibus Serenissimae Reipublicae Venetae et cladibus patriae suae carmen, Venetiis, typis Io. Francisci Valvasensis, 1675; Benedetto Stay, Philosophiae […] versibus traditae libri sex, Venetiis, excudebat Franciscus Storti, 1749, lib. iv, vv. 1722-1859, pp. 195-199 (è l’edizione utilizzata da Bajamonti). 3   Luca Stulli, Le tre descrizioni del terremoto di Ragusa del mdclxvii di Gradi, Rogacci, Stay. Versione dal latino, Venezia, Simone Occhi, 1828. 2

anna maria salvadè 290 disinteresse, onoratezza», «ordine e pace» (vv. 261-263); la digressione permette all’autore di elaborare una sorta di consolatio per l’amico Giacomo Bassegli, cui è toccato prendere la soπerta decisione di mandare il giovane figlio Tommaso a studiare nella Confederazione elvetica, le cui genti, frugali e modeste, guidate da un governo fondato sulla rettitudine delle leggi, possiedono le doti appena ricordate degli abitanti di Ragusa (vv. 270-326). 1 La seconda parte presenta la medesima cifra allusiva; le varie località suggeriscono di volta in volta un argomento diverso al poeta, che, senza soluzione di continuità, trascorre dai toni vivaci del racconto autobiografico a quelli sentenziosi del monito sociale, dalle modulazioni liriche e intimistiche agli accenti satirici della parodia dei costumi femminili. Accade così che Narona («dove cotanto ebbe a stentar Vatinio», v. 342), fiorente un tempo, ora luogo insalubre e paludoso, susciti riflessioni sul destino delle città e sulla potenza della natura, inesorabile nella sua opera di distruzione e trasformazione delle cose (vv. 327-354); 2 che il passaggio davanti a Makarska accenda il ricordo dell’avventura vissuta in compagnia di Alberto Fortis (che a sua volta la registra nel Viaggio in Dalmazia) sul monte Biocovo, quando Bajamonti corse il rischio di essere ucciso dagli uomini che gli facevano da guida per aver raccolto da terra una vipera morta, da essi creduta uno spirito maligno (vv. 355-375); 3 e che la stessa ambientazione alpestre dell’episodio determini un lungo inserto moraleggiante dove gli eccessi dei cittadini sono contrapposti alle virtù autentiche delle popolazioni rurali e montanare della Dalmazia (vv. 376-443). All’arrivo nella natia Spalato, cui allude il riferimento all’ormai decadente palazzo di Diocleziano («magnifico albergo, ove privato / quei s’appartò che del Romano impero / sprezzar l’autorità seppe e la pompa», vv. 446-448), la memoria dolorosa del padre, 4 spirato mentre il figlio si trovava distante da casa, si fa preponderante, dando l’avvio alla più ampia sezione dell’epistola (vv. 443-619), scandita da tradizionali meditazioni sulla morte del giusto e sulla vanità di una vita dedicata ad accumulare onori e ricchezze, e pervasa di malinconiche cadenze tibulliane, non senza una memoria petrarchesca nella descrizione della morte serena del genitore:  







alfin qual face che in sul finir più chiara avvampa e brilla, e non per forza ma da sé si estingue, mancandole alimento appoco appoco, senz’agonia, senza tumulto o sforzo col nome del tuo figlio allor lontano fra le già immote e scolorite labbra, esalasti dal sen l’alma tranquilla, e fu l’aspetto tuo d’uomo che stanco soavemente si riposa e dorme (vv. 598-607). 5  

1   Tommaso Bassegli (1756-1806), esponente di spicco dell’illuminismo raguseo, studiò all’Università di Berna su consiglio di Alberto Fortis, a discapito del parere di Ruggiero Giuseppe Boscovich, che aveva suggerito alla famiglia Bassegli di mandare il giovane a Friburgo, e di quello di Michele Sorgo, che invece avrebbe preferito Zurigo. Fu accompagnato in Svizzera dallo stesso Fortis, che descrive il viaggio nella lettera a Teresa Bassegli Gozze del 18 settembre 1781 (Dall’epistolario di Alberto Fortis, cit., pp. 252-253). 2   Publio Vatinio, console nel 47 a.C., fu inviato da Cesare come proconsole in Illiria tra il 45 e il 43; è tra i protagonisti delle Familiares di Cicerone, al quale scrive una lettera nel gennaio 44, lamentando il freddo di quella regione (v, 10 a). Esempio opposto a Narona è Pietroburgo, che ha «cangiato in delizie il prisco orrore» (v. 337); si può supporre che il «Francesco» giunto sulle coste «del remoto / Finnico seno» (vv. 332, 333-334), e qui chiamato in causa perché ne rechi testimonianza, sia Algarotti, di cui Bajamonti conosceva bene gli scritti musicali, e che nel 1764 aveva pubblicato i Viaggi di Russia (a Pietroburgo si era recato nel 1739, con una delegazione inglese). 3   Alberto Fortis, Viaggio in Dalmazia, a cura di Eva Viani, introduzione di Gilberto Pizzamiglio, Venezia, Marsilio, 1987, p. 187; la princeps è Venezia, Milocco, 1774. 4   Giovanni Domenico Bajamonti (1711-1782). 5   Francesco Petrarca, Triumphus Mortis, i, 160-164; anche sui vv. 609-610 («se può dirsi morte / un transito sì bello») agisce un’eco petrarchesca (Triumphus Mortis, i, 171: «era quel che morir chiaman gli sciocchi»).

giulio bajamonti poeta: moralità e scienza nell’epistola il viaggio 291 Cenno a parte merita poi il segmento che, ricordando i modi dell’ironia pariniana sulle letture del «giovin signore», allinea i titoli di un breve catalogo letterario; se da apprezzare sono le «dotte carte» dei «vetusti scrittor», sicuramente preferibili alle opere dei contemporanei qualora si voglia a√nare la mente e il gusto del lettore (come sa bene l’amico «Giunio», il poeta raguseo Giunio Resti, allora non ancora trentenne, ma già elegante interprete dei classici), si potranno senza danno ignorare «l’opre dette di spirto, ove tutt’altro / che spirto si ritrova; e le pretese / sublimi o graziose poesie, / in cui fin la grammatica patisce» (vv. 633, 639, 643, 655-658). 1 Di non minore interesse è infine la digressione satirica sui vizi delle donne (vv. 678771), tema anticipato al principio dell’epistola, dove, a proposito dei rischi della navigazione, si dice che la donna, causa delle «tempeste / tormentatrici dell’umana stirpe» (vv. 90-91), è incostante come il mare. Pur senza i toni dell’invettiva e delle realistiche rappresentazioni della sesta satira, Giovenale è modello indiscusso, soprattutto per alcuni dei tipi femminili tratteggiati; ma i costumi sono volti in ridicolo piuttosto che stigmatizzati. Ne risulta una serie di caricature, come monito per gli interlocutori a√nché sappiano operare sagge scelte. La casistica registra dunque la donna seguace delle mode, che «tutto / da capo a piè ti squadra, e se conforme / alla più ricercata e nuova foggia / non le sembri a puntin, ne prende sdegno» (vv. 689-692); quella superstiziosa, ferma nelle proprie sciocche credenze, «d’ogni discorso e d’ogni prova ad onta» (v. 697); l’accanita giocatrice di carte; la bugiarda; l’ipocondriaca, che accusa malanni «a capriccio», e che «a forza esige / che il fisico vi creda, e che vi porga / o soperchi rimedj o non adatti» (vv. 712-715); la donna arrogante e presuntuosa; quella sfrontata e maliziosa; quella, infine, che, credendosi emancipata, fa sfoggio del proprio sapere («De’ semidotti al mondo / non v’ha genia più incomoda e più trista», vv. 733-734). Di contro, sarà da preferire colei che, disdegnando lo sciocco vanaglorioso, pronto a millantare conquiste e a ostentare prestanza fisica, rifiuta anche la compagnia di individui troppo lontani da equilibrati modelli di onestà e di ragionevolezza («spezie diversa non già sol da quella / de’ Neutoni, de’ Boscovich, ma pure / dalla spezie total d’ogni discreta, / onesta e ragionevol creatura», vv. 768-771). L’indole argomentativa di una scrittura che alterna riflessione filosofica e critica sociale riconduce il componimento alla linea satirico-morale dell’epistola oraziana. 2 Ma il poemetto è anche un esempio singolare di letteratura odeporica collocabile al principio di una lunga tradizione di sciolti dedicata al viaggio, che, sostenuta sul versante teorico dagli scritti di Giuseppe Toaldo (1791) e dell’abate modenese Ildefonso Valdastri (1789), produrrà gli esiti migliori negli anni Novanta con i Viaggi di Ippolito Pindemonte (1793) e di Vittorio Alfieri (1797). 3 L’epistola di Bajamonti, pur non inscrivendosi appieno in  





1   Dopo essere stato senatore della Repubblica di Ragusa, nel 1797 Giunio Antonio Resti si ritirerà dalla vita politica per dedicarsi alla composizione di satire. 2   È degno di nota che l’epistola esibisca un registro non alieno dal vocabolario delle recenti scoperte scientifiche; ad esempio, quando viene illustrato il meccanismo del parafulmine («Sfida di Giove i fulmini; dal cielo, / emule di Prometeo, il fuoco fura, / e su verghe metalliche lo innesta, / onde raccolto in quelle, e giù condotto, / nell’umido terren s’attu√ e smorzi, / né tocchi il tuo da lor munito albergo», vv. 128-133), o quando i fenomeni dell’elettricismo e della gravità sono usufruiti per restituire l’idea del potere dell’amicizia («In mezzo a voi / maggior divengo di me stesso, e sento / qual da elettrica forza in me destarsi / del vostro fuoco una scintilla», vv. 628-631; «Possente Nume che i miei voti ascolti, / […] là mi guida / dove, qual grave al centro, il mio cor tende», vv. 822-824). 3   Giuseppe Toaldo, Del viaggiare, Venezia, Storti, 1791; Ildefonso Valdastri, Due discorsi filosofici, e politici. L’uno sull’influenze degli spettacoli nelle nazioni, l’altro su quelle de’ viaggi nell’educazione, Modena, Società Tipografica, 1789, pp. 115-211; Ippolito Pindemonte, I viaggi, Venezia, Palese, 1793 (un ampliamento considerevole è nei Sermoni del 1819, dove gli endecasillabi passano da 984 a 1232; per le due versioni cfr. Idem, Epistole e Sermoni, a cura di Salvatore Puggioni, Padova, Il Poligrafo, 2010, pp. 453-502 e 507-533); Vittorio Alfieri, Satire, ix, I Viaggi, in Idem, Scritti politici e morali, iii, a cura di Clemente Mazzotta, Asti, Casa d’Alfieri, 1984, pp. 128-152.

anna maria salvadè 292 quella consuetudine, i cui modelli principali (rispettivamente in verso e in prosa) vanno individuati nell’Épître sur les voyages (1765) di Delille e nel Sentimental Journey (1768) di Sterne, ne possiede tuttavia alcune caratteristiche; tra queste, il motivo, suggerito dallo spunto odeporico, dell’esperienza come approfondimento della conoscenza di se stessi. In Alfieri il tema si traduce in «calda vaghezza», a riprodurre, nel gusto frenetico della corsa e del movimento, l’incessante peregrinare del protagonista; mentre nella versificazione di Bajamonti l’immediatezza dell’esperienza personale si stempera in una dimensione pedagogica, nutrita di ascendenze classiche e, in misura molto minore, dagli esiti più ragguardevoli della letteratura dei Lumi.

LUCIANO MORPURGO: LA POETICA DELL’EBRAISMO SPALATINO Carlo Cetteo Cipriani

L

uc iano Morpurgo Spalatino, personaggio poco noto, non è un letterato classico, poeta o romanziere. Merita tuttavia che se ne parli in quanto autore di poche opere, che hanno un buon valore letterario, e non solo. Luciano Morpurgo, di Spalato, è stato soprattutto fotografo ed editore. Le sue opere pubblicate 1 sono racconti di vita spalatina e del periodo della persecuzione antiebraica in Italia. Inoltre sono state pubblicate alcune relazioni di viaggio. Ma è nell’opera di fotografo delle tradizioni popolari e di etnografia che è maestro; i cinquantamila negativi che ha lasciato sono una preziosa testimonianza per la Dalmazia, per l’Italia, oltre che per alcuni stati balcanici e per la Palestina in cui aveva condotto viaggi di studio: una forma di poesia scritta in maniera non classica. Accanto alla poesia e prosa fotografica Morpurgo ha posto alcune opere di prosa scritta. In due libri parla di Spalato: Quando ero fanciullo 2 e Cuore d’Israele. Poesia della famiglia ebraica. 3 Il volume Caccia all’uomo 4 raccoglie le sue memorie dal 1938 al 1944, dalla promulgazione delle leggi razziali alla liberazione di Roma. Sono racconti più o meno lunghi che narrano singoli episodii o personaggi da cui si comprende l’intricata personalità del Morpurgo forgiata tra identità ebraica, dalmata, italiana. E i racconti son emblematici, in maniera diπerente da come di norma viene rappresentata, della complessità della Dalmazia. Se Caccia all’uomo è un non meditato resoconto di anni di quotidiano tormento, Fig. 1. Cuore d’Israele è il frutto di tanti anni di  







1   Il suo archivio sembra disperso. La maggior parte delle foto furono da lui stesso vendute all’allora Gabinetto Fotografico Nazionale, altre dalla figlia Silvana furono date alla Alinari. Una parte del materiale è di sicuro stato disperso in quanto sul mercato filatelico si trovano molte cartoline a lui inviate. Si può ritenere dunque che non ci siano ulteriori inediti, le poche carte conservate ora dall’iccd sono relative all’attività di fotografo ed editore. 2   Luciano Morpurgo, Quando ero fanciullo, Roma, Dalmatia, 19453. 3   Luciano Morpurgo, Cuore d’Israele. Poesia della famiglia ebraica, Roma, Società Dalmata di Storia Patria, «Studi 4 e Testi», xvii, 2014.   Luciano Morpurgo, Caccia all’uomo, Roma, Dalmatia, 1945.

294

carlo cetteo cipriani

amoroso lavoro. È in quest’ultimo, ove descrive feste, usi, riti, della sua famiglia e della comunità Israelitica spalatina, che troviamo le pagine più tenere nel ricordo dei familiari e dei vecchi Ebrei, tutti scomparsi per le malattie, l’età, la barbarie nazista. Quando completò l’opera nel 1959, egli era rimasto uno dei pochissimi superstiti della famiglia e di Spalato antica, quella di prima della prima guerra mondiale, dove vivevano slavi ed italiani, con un piccolo gruppo di Ebrei, ma tutti ancora forgiati dalla cultura e dalla lingua veneta ed italiana. Sono ricchi di pathos i racconti dell’ultimo saluto al padre, dell’avvenuta morte della nipotina Ines, della morte di sua madre – col nipotino che cerca la nonna. Nato in Spalato nel 1886 nella famiglia Morpurgo tanto rilevante sia per la comunità israelitica locale che per la città, 1 a quattordici anni fu mandato a studiare a Venezia, ritornando poi a Spalato, dopo la laurea in Economia e Commercio presa nel 1907, per occuparsi delle Fig. 2. attività di famiglia. Nel 1915, allo scoppio della guerra, si rifugiò a Roma che diverrà la sua città. È in questi anni che, già appassionato, fece della fotografia la sua attività professionale, che poi amplierà con quella editoriale. Nel 1938 pubblicherà il primo volume di memorie Quando ero fanciullo, che dovrà ritirare subito dopo a seguito dell’applicazione delle leggi razziali. Riuscirà a ripubblicarlo nel 1942 con lo pseudonimo ‘Luciano Spalatino’ e cambiando il nome alla sua casa editrice in Dalmatia, e di nuovo nel 1945 unendo nome cognome e pseudonimo in Luciano Morpurgo Spalatino. Contemporaneamente aveva iniziato anche a scrivere Cuore d’Israele. Poesia della famiglia ebraica, che è simile al primo. Se quello raccontava i ricordi d’un fanciullo a Spalato, senza accenni alla religione, il secondo è profondamente ebraico ma non venne pubblicato. Ci aveva lavorato tanto; già nelle 1938 era praticamente pronto per la pubblicazione, ma evidentemente la campagna antiebraica che in quegli anni s’avviava in Italia gli sconsigliò di pubblicare. 2 Quindi in un lungo soggiorno in Spalato nel 1940 aveva avuto l’aiuto del fratello maggiore per precisare situazioni e nomi ed era arrivato a una stesura definitiva nel centenario della nascita del padre. Aveva fatto anche tradurre il testo in serbo-croato, 3 l’aveva rifinito più e più volte, fino alla fine degli anni Cinquanta, quando sperava di pubblicarlo, come dice nel Congedo, finale del testo. Solo  





1   Daniela Di Castro, Luciano Morpurgo (1886-1971), fotografo, scrittore, editore, in Palestina 1927 nelle fotografie di Luciano Morpurgo, a cura di Gabriele Borghini, Simonetta Della Seta, Daniela di Castro, Roma, Bozzi, 2001; Mariantonietta Lanzillotta, Luciano Morpurgo, ebreo-dalmata-italiano e cittadino d’Europa in Luciano Morpurgo, Cuore d’Israele, cit., pp. 131-137. Molti Morpurgo furon Capi della Comunità Israelitica Spalatina. 2   È anche ipotizzabile che in un primo momento si trattasse di un’unica scrittura ma che a un certo punto decidesse di pubblicare un volume di lettura meno impegnato, lasciando la parte coi ricordi ebraici a un momento successivo, a un’edizione più riflettuta. 3   Traduzione eπettuata da Vinko Lozovina col titolo solo di Poezija jevrejske obitelji, non pubblicata.

luciano morpurgo: la poetica dell’ebraismo spalatino

295 di recente la Società Dalmata di Storia Patria, con una dura e lunga battaglia, è riuscita a far pubblicare il dattiloscritto. Caccia all’uomo invece inizia nel 1938 come raccolta delle vicende d’un ebreo romano nelle morse delle leggi antisemite, della progressiva emarginazione che colpiva gli Ebrei dal 1938 in poi, anche quando tornato a Spalato per sei mesi nel 1940 il console italiano lo escludeva dalla vita sociale della comunità nazionale lì presente. E dal 1943 diviene sempre più drammatico racconto delle violenze naziste sugli Ebrei e non solo, delle fughe da un rifugio all’altro, delle drammatiche vicende di Ebrei e non solo, vittime dei nazisti e delle troppe spie italiane. Per lo più autobiografico, raccoglie anche alcune testimonianze di altri, Ebrei e no. Ne sortisce una visione della resistenza, cui Morpurgo in qualche modo partecipò, almeno a Roma, più umana nell’espressione dei sentimenti di increFig. 3. dulità per il comportamento inumano dei tedeschi, il popolo di Ghoete e di tanti letterati e umanisti, che gli sembra incredibile sia divenuto così folle da accogliere Hitler e far nascere i nazisti, ma anche in parte riscattato da singoli che si comportano da uomini, non da belve. E si coglie l’incredulità, l’intima rabbia, per il popolo e la nazione italiani che avevan perso ogni ruolo e autorità, sopraπatti dai nazisti, non tralasciando le parole di sprezzo per coloro che li aiutavano con delazioni e rastrellamenti. Di tutto questo dava colpa a Mussolini che aveva accettato la guerra insieme al dittatore tedesco. Di un Mussolini di cui dà parzialmente un giudizio diverso da quello di altri autori 1 che lo dipingono quasi demone del male assoluto, ma senza nessuna assoluzione per l’entrata in guerra e la promulgazione delle leggi razziali. Rilevante è quanto dice nell’indirizzo A chi legge, scritto nell’immediatezza della stampa. Rifà la storia del libro e ringrazia tutti coloro che l’avevan aiutato, protetto e nascosto nei nove mesi dell’occupazione nazista di Roma, fra essi «le più alte autorità pontificie, a Capo il sommo Pontefice Pio XII, Eugenio Pacelli, che ci aiutò e ci difese con tutti i mezzi a sua disposizione». 2 Come sappiamo in seguito Pio XII sarà accusato da molti di non aver fatto abbastanza per difendere gli Ebrei, con polemiche che ogni tanto vengon rialimentate: non era questa l’opinione di Morpurgo. Per il resto il libro alterna pagine di avvincente lettura a pagine meno entusiasmanti, ma sempre espressione dei drammi vissuti nei mesi dell’occupazione nazista: il ricatto dell’oro alla Comunità Israelitica Romana e la deportazione dell’ottobre 1943, il con 



1   Di Mussolini ricorda la visita a un salone del libro nel 1932 e l’aiuto economico che gli fece avere tramite il ministro Guarnieri, quando si trovava in di√coltà per il forzato ritiro dalla vendite del volume Quando ero fanciullo; 2 Luciano Morpurgo, Caccia all’uomo, cit., p. 60.   Luciano Morpurgo, Caccia all’uomo, cit., p. 9.

carlo cetteo cipriani

296

tinuo fuggire e cambiare nascondiglio, le violenze alle case dei contadini nelle campagne di Velletri e l’uccisione del vignaiolo diciassettenne. La rappresentazione dell’umana pietà di molti insieme all’umana paura di altri, cose sempre accadute ma che quando t’investono direttamente sono percepite molto dolorosamente. Morpurgo pubblicherà il volume a fine 1946, con la sua casa editrice Dalmatia; prevedendo riedizioni che poi non ci furono. Nella dedica iniziale, datata del marzo 1946, quando avviava alla pubblicazione il volume, ricorda i fratelli, amati, Vittorio ed Eugenio, spariti nell’ottobre 1943: fratelli maggiori, uniti a noi nel grande amore della nostra vecchia famiglia, […] siete spariti, forse morti, questa è purtroppo la terribile realtà, soli, senza nessun conforto, in terra straniera, tra nemici senza cuore e senz’anima, tra i soldati di Hitler, immolati, […], alla grande Germania, al grande moloch, che la bestialità teutone creò a disonore proprio e dell’umanità. 1

Fig. 4.



Se Caccia all’uomo è quasi un diario, gli altri due volumi sono vere e proprie costruzioni letterarie. Quando ero fanciullo è un libro di letteratura infantile. Pensato per i ragazzi, scritto con linguaggio semplice, ma anche presentato fisicamente e stampato in maniera che non risultasse pesante per i bimbi, pur essendo di trecento pagine; stampato con ampi spazi e interlinee, con disegni illustrativi. Sono particolari in genere non rilevanti per la letteratura, ma qui significativi essendo l’autore anche editore. Si ha l’impressione visiva, confermata da quanto scrive, che oltre a curare il testo Morpurgo ne abbia curato anche la confezione esteriore al fine di render completo il racconto ed il coinvolgimento dei lettori. Quando non c’erano i mezzi di comunicazione visiva disponibili oggi, inserire disegni era il modo di render più gradevole, soprattutto al pubblico giovanile, la lettura. E Morpurgo si a√dò a quattro giovani: due veneziani, un triestino, un romano, per disegnare tavole illustranti taluni dei racconti e ‘finalini’, ovvero piccoli disegni in fondo alle pagine, che sono riferiti ai racconti o vedute di Spalato e della Dalmazia. Si comprendono chiaramente le diπerenti mani, acerbe o più mature, in relazione alle capacità dei singoli giovani disegnatori. L’ispirazione a scrivere, dice l’autore, gli venne dalla lettura d’un testo dell’accademico Abel Bonnard, pubblicato da «Il Messaggero» di Roma del 13 dicembre 1931: Il Natale […] è il momento dell’anno che maggiormente ci riconduce ai ricordi dell’infanzia. Se un uomo fosse abbastanza grande poeta per scrivere un libro che si intitolasse «Quando ero fanciullo» e che corrispondesse a questo titolo, farebbe un racconto di fate. […] Sarebbe desiderabile […] il 1

  Ivi, p, 5.

luciano morpurgo: la poetica dell’ebraismo spalatino

297

Fig. 5. libro di uno che, malgrado l’esperienza, le delusioni, le vicissitudini, fosse rimasto fanciullo in un angolo del proprio «io». 1  

Iniziò a scrivere lo stesso giorno, in un periodo che descrive come doloroso, nel quale traeva sollievo dal dirigere il pensiero all’oasi di pace e felicità, amore e bellezza, che ricordava esser stata la sua gioventù. Ricordare l’infanzia, quando era nulla per tutti, ma un tesoro grande per la madre che gli morirà (dopo mesi di malattia) che lui era adolescente, gli dava la forza di vivere: ristoro e pace, riposo e gioia. Il libro è dedicato alla madre, che rimpiange: 1

  Luciano Morpurgo, Cuore d’Israele, cit., pp. 20-22.

carlo cetteo cipriani

298

Fig. 6. mi lasciasti sperduto ed ignaro del mondo, quando avevo solo tredici anni. Tanto tempo è passato, ma quel momento è rimasto nel mio cuore, nel mio animo dolorante. Mai altro aπetto si è potuto e si potrà sovrapporre all’unico e solo amore che nella nostra vita può ancora contare. E nella mia ormai lunga strada percorsa, solo questo vero amore ebbi, l’amore tuo grande e dolce che mi ha sempre accompagnato. 1  

I singoli racconti scorrono semplicemente, senza grandi costruzioni sintattiche o poetiche, cercando un linguaggio volutamente leggero, narrando della bontà dei suoi familiari, del padre, della madre troppo presto scomparsa, degli zii senza figli. Un mondo che non poteva tornare ma il cui ricordo è riposo e nostalgia, popolato anche dagli altri ragazzi più o meno discoli, dal personale di servizio, dagli operai della ditta di famiglia, gli animali, gatti, uccelli e galline, anziani vicini, e tanti altri. E spesso si percepisce l’intento didattico ed educativo che Morpurgo ha voluto dare alle pagine, esplicitato nella presentazione. Per un adulto leggere queste pagine induce a confrontare le esperienze di Morpurgo con le proprie, in quanto molte avventure dei bimbi son comuni a tutti: il primo barbiere che fa scomparire i ricci ed i boccoli infantili, i dispetti degli altri bimbi, i giochi e le costruzioni di casette instabili, la cattiveria umana dell’uccisione di gattini da poco nati o dei bimbi crudeli che ammazzavano insetti e perseguitavano i gatti, le storie paurose inventate dagli adulti per far dormire i bimbi. 1

  Luciano Morpurgo, Quando ero fanciullo, cit., p. vi.

luciano morpurgo: la poetica dell’ebraismo spalatino

299 Benché il volume sia pensato per bambini, è una lettura adatta anche per gli adulti: rasserenante, semplice, avvincente. Morpurgo terminò di scrivere sulle rive del Mar Nero il 3 marzo del 1936, come dichiarato alla fine del testo. Come apprendiamo da Cuore d’Israele, se l’era portato al seguito per anni, aggiungendo e limando finché, proprio in Romania, dopo averlo fatto leggere a varie persone ed anche nelle scuole (a brani), aveva compreso d’aver raggiunto il livello migliore per la pubblicazione: questa conclusione lo faceva sentire felice, leggero, sereno. 1 Ed infatti rientrato in Italia avvierà la pubblicazione, che vedrà la luce a inizio 1938, incontrando però quasi subito il bando, dunque ritirato dal commercio, in quanto di autore ebreo, in un’Italia che si avviava alla pratica del razzismo. 2 Fig. 7. Lo scritto è del tutto anonimo dal punto di vista religioso, senza nessun riferimento specifico a riti o fedi. Invece Cuore d’Israele. Poesia della famiglia ebraica, pur adottando lo stesso stile di Quando ero fanciullo, ha un obiettivo diverso: raccogliere, preservare, tramandare i ricordi della sua famiglia ebrea e della piccola Comunità Israelitica Spalatina. Talvolta sembra quasi la riscrittura del primo in chiave religiosa, taluni episodii dell’uno si completano nell’altro volume. Tramandare la tradizione è una costante di tutti i popoli, ma di quello ebraico in particolare che nel racconto delle sue vicende, a cominciare dall’annuale haggadà del Seder di Pesach, trae alimento per l’educazione dei giovani alle regole e all’adesione alla fede mosaica. In tutti i popoli il racconto delle storie, delle tradizioni di famiglia e della comunità, era mezzo importante, forse unico, per far entrare i giovani nel nesso sociale, inserirli nella comunità come parte viva e cosciente. In origine il racconto era orale, con l’avvento della stampa di massa il mezzo fu usato per lo stesso scopo con la possibilità di render fisso il racconto, non soggetto alle varianti introducibili, più o meno volontariamente, dal narratore. Il tutto è stato stravolto in anni recentissimi dai mezzi di comunicazione elettronica che permettono di portare il racconto da un luogo all’altro del vasto mondo. Ma in più permettono, i mezzi elettronici, internet in particolare, un accesso libero, senza possibilità di controllo o di verifica preventiva sulla serietà delle cose scritte. Morpurgo invece scrive in un periodo in cui c’era praticamente solo la stampa e si pubblicavano solo scritti ‘a√dabili’. In più Morpurgo fa parte del popolo ebreo che è per eccellenza il popolo della memoria, che scorre prevalentemente lungo due canali: il ‘rito’ e la ‘recitazione’. Memoria religiosa per lo più, ma che contiene continue memorie storiche, anche se talvolta trasfuse dalla poesia o dalla leggenda. 3 Ma sono memorie serie  









1

  Luciano Morpurgo, Cuore d’Israele, cit., pp. 20-22.   Delle vicende del libro dopo la pubblicazione Morpurgo dà conto nella presentazione della terza edizione e nel volume Cuore d’Israele, cit., alle pp. 113-115. 3   Sulle origini della storiografia ebraica, una bella interpretazione dà Yosef Hayim Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Parma, Pratiche, 1983, in particolare da p. 17 a p. 38 2

300

carlo cetteo cipriani

Fig. 8. e controllate, che vengono accettate nel canone religioso solo dopo un lungo periodo di sedimentazione, studio, analisi. La Torah deve esser scritta da amanuensi particolari, con riti particolari, su pergamena nuova e senza errori. 1 Il Talmud è l’insieme dei precetti, massime, racconti di santi rabbini. Morpurgo sembra aggiungere un iota nella grande tradizione ebraica della memoria. Questa sua parte di traditio Morpurgo la dedica al padre, in maniera esplicita col capitolo A mio Padre e implicita, profonda, terminandolo nell’anniversario centenario della sua nascita e dicendo più avanti: «mio padre uomo pio e buono». 2 Ed in più fa pensare, soprattutto a chi abbia gli anziani genitori lontano, la breve descrizione, in Dicembre 1920, dell’ultimo saluto al padre e poi della morte cui lui non era presente, come d’ un racconto sfrondato, essenziale, per l’incapacità di esplicitare il dolore profondo, anche quasi venti anni dopo. Alla stesura iniziale col tempo si sono aggiunti anche racconti più recenti e più personali, in linea con la tendenza dell’ebraismo moderno che nel racconto delle proprie storie ha messo ora anche le persecuzioni dell’Ottocento e Novecento in tanti parti d’Europa e Asia. Infatti il volume racconta bene i riti della comunità israelitica di Spalato, della gentilezza dei suoi membri, a cominciare dal papà Giuseppe, capo della Comunità per  



1   La scrittura dei rotoli della Torah è soggetta a prescrizioni che garantiscano l’assoluta correttezza. Non possono contenere nessun errore, pena la loro impurità, per cui quando l’amanuense che copia una Torah sbagliasse nella trascrizione dovrebbe gettare tutto il lavoro fatto. 2   Si può quasi pensare che ad ogni genitore abbia voluto dedicare un volume, scegliendo per ognuno quello che è il legato avuto: la serenità della fanciullezza dalla madre, l’appartenenza religiosa e familiare dal padre.

luciano morpurgo: la poetica dell’ebraismo spalatino

301 molti anni, ma anche papà amorevole che manda i biscotti nei periodi di festa per far sentire l’aria di casa, che invita i compagnucci a visitare la Sinagoga di sabato per far capire che le celebrazioni di questo gruppo di ‘strani’ Ebrei non avevano nulla di magico. Ma altresì narra delle persecuzioni antiebraiche e della distruzione del Tempio di Spalato nel 1942. Sono ricordi a tutto campo quelli di Cuore d’Israele. I riti ebraici innanzi tutto: le preghiere comunitarie e casalinghe, la festa del sabato che iniziava al tramonto del venerdì, le feste ebraiche, il Tempio di Spalato, descritti in maniera semplice e poetica. Il testo potrebbe avere anche una valenza di reperto linguistico, avendo l’autore riportato molti termini ebraici nel modo in cui si pronunciavano a Spalato. La comunità ebraica spalatina moderna era nata nel Cinquecento con Ebrei d’ogni provenienza che commerciavano nel porto all’epoca del dominio veneto. In maggioranza erano Fig. 9. Ebrei sefarditi e levantini, cacciati nel 1492 dalla Spagna e dall’Italia meridionale, che si diπonderanno in tutto il Mediterraneo mantenendo lo spagnolo come lingua d’uso accanto all’ebraico per le questioni religiose ed alla lingua locale per la vita quotidiana; non essendo persone di elevata cultura, le lingue si corrompevano. A Spalato gli Ebrei parlavano l’italiano, o meglio il dialetto veneto-dalmata-italiano, e l’ebraico per le questioni religiose; lo spagnolo s’era perso col passare dei secoli, lasciando qualche traccia. Morpurgo quindi riporta taluni termini e frasi nell’ebraico e nella parlata veneto-dalmata in uso a Spalato a fine Ottocento. Merita notare come Morpugo annoti la di√coltà avuta a scuola dove la lingua d’istruzione era divenuto il croato per tutti, dopo che nel 1883 circa le autorità comunali del Partito annessionista avevano cambiato in tutte le scuole la lingua d’insegnamento da italiano a croato: 1  

poco ne masticavo di croato, o per dir meglio di serbo-croato, il papà non si acconciava neppure a 1   La Dalmazia, popolata da più etnie, fu percorsa da un acceso nazionalismo da metà Ottocento. Tradizionalmente la popolazione delle città e delle isole era italofona (dialetto veneto-dalmata che incorporava elementi del dalmatico – lingua neolatina estinta, cui si aggiungeva l’italiano per gli elementi più colti o più ricchi). Col rinascere delle nazionalità l’intellighenzia della Croazia rivendicò la sua dignità aπermando che la Dalmazia fosse terra croata; questa rivendicazione si estese a taluni notabili della Dalmazia benché per lo più parlassero male il croato e non fossero in grado di scriverlo. Da culturale il dibattito divenne politico e si crearono due partiti: l’unionista croato e l’autonomista italofono (solo a fine Ottocento divenne italiano e irredentista). In varii modi il partito croato riuscì via via ad ottenere la maggioranza. Quando la conquistava in un singolo comune una delle prime azioni era tramutare la lingua d’insegnamento dalla italiana alla croata (pur esistendone già in lingua croata). L’organizzazione delle scuole era infatti competenza comunale sulla base dei programmi comuni formulati dal governo viennese. Ovviamente questo provocava problemi agli studenti italofoni. In Spalato ciò avvenne dopo il 1882 quando il Comune fu conquistato dal partito croato, di cui uno zio di Luciano, Vito Morpurgo, fu uno dei capi.

carlo cetteo cipriani

302

chiamarlo così ma ricorreva al vecchio nome, ormai tramontato, ‘Jillirico’. […] per me era uno scoglio, tanto più che a casa si parlava sempre il dialetto veneto cominciarono le di√coltà, […] il latino, col croato come lingua d’istruzione non era proprio l’ideale. 1  

Fig. 10. 1

Molte più frasi nella parlata veneto-dalmata in uso a Spalato presenta Quando ero fanciullo, insieme a trascrizioni delle filastrocche dei bambini, di alcune preghiere e canzoncine. Nel complesso dunque la produzione letteraria di Luciano Morpurgo in prosa è la poesia della vita ebraica, la poesia della fanciullezza, la poesia della serenità, la poesia di Spalato come se non fosse colpita dalle tensioni nazionaliste. Ma anche la poesia cruda della persecuzione e della morte: della morte del padre e della madre, dei fratelli ma anche di altri: amici e conoscenti, inghiottiti dallo scatenarsi della cieca violenza del Nazismo.

  Luciano Morpurgo, Cuore d’Israele, cit., p. 35; Idem, Quando ero fanciullo, cit., p. 88.

FRANCESCO CARRARA: UN PONTE TRA LA CULTURA ITALIANA E DALMATA Elena Rondena Qual è colui che forse di Croazia viene a veder la Veronica nostra, che per l’antica fame non sen sazia, ma dice nel pensier, fin che si mostra: “Segnor mio Iesù Cristo, Dio Verace, or fu sì fatta la sembianza vostra?”. 1  

N

el xxxi canto del Paradiso, Dante, quasi al termine del suo lungo viaggio, accanto a san Bernardo, prima di osservare la Candida Rosa, si paragona al pellegrino che si mette in cammino per andare ad ammirare il sudario della Veronica sul quale è impresso il Volto santo. In questa similitudine, piena di commozione e di stupore, la lontana provenienza del pellegrino acquista un valore significativo perché fa supporre un percorso, magari accidentato e faticoso, vista la distanza, motivato dal desiderio di raggiungere la reliquia divina. Il poeta fiorentino, nel descrivere il suo cammino, ha sempre fatto «sentire» che «il punto di partenza» comincia «dalla realtà», pertanto, per comprendere il suo viaggio spirituale, non ha mai trascurato la dimensione spaziale, così come quella temporale. 2 Non è dunque una casualità che il luogo citato sia proprio la Croazia. Infatti non è solo una generica regione lontana da Roma, 3 tanto che l’autore avrebbe potuto indicarne altre, ma è il segno che quel luogo è sempre stato tenuto in grande considerazione dalla nostra penisola italiana, anche quando non si parlava ancora di italianità. Ciò che divide l’Italia dal mondo slavo «non sono paletti, pietre miliari, valichi di frontiera», ma il mare, un confine totalmente indefinito. L’Adriatico, per molti secoli, «prima che l’orrenda meschinità ideologica» lo rendesse «cortina di acqua, è stato il luogo privilegiato di incontri, di dialoghi, di sinergie operative» in cui «la prospettiva della particolarità si connetteva a quella della universalità». 4 Questo mare è stato il trait d’union tra le particolarità etniche, culturali, sociali, economiche e territoriali delle due sponde. Tutta la storia della Dalmazia testimonia quanto siano profonde le radici di questo legame. 5 Tra le infinite rotte tracciate sul mar Adriatico, dall’una all’altra riva, è interessante ridare volto e nome a quelle personalità che hanno permesso la continuità di questa vicinanza. La questione adriatica non è importante solo per comprendere le divergenze attuali che ora mostrano una chiara distanza se non ostilità, ma per conoscere quel «macrosistema» che racchiude una «multicultura ovvero una identità fatta di parti  







1

  Par. xxxi, vv. 103-109.   Giovanni Fallani, Il Canto xxxi del Paradiso, Torino, Società Editrice Internazionale, 1964, p. 5.  Commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi ai vv. 103-105 in Dante Alighieri, Commedia, Milano, Mondadori, 1998, p. 868. 4   Arte per Mare. Dalmazia, Titano e Montefeltro dal primo Cristianesimo al Rinascimento, a cura di Giovanni Gentili, Alessandro Marchi, Milano, Silvana, 2007, catalogo della mostra San Leo, Palazzo Mediceo, San Marino Città, Museo san Francesco 22 luglio-11 novembre 2007, p. 4. 5   Si veda Giuseppe Praga, Storia di Dalmazia, Padova, cedam, 1954. 2 3

elena rondena 304 diverse, ma consapevoli l’una dell’esistenza delle altre, ed accomunate dalla basilare essenza europea». 1 Il letterato, religioso, archeologo, storico, geografo Francesco Barnaba Diomo Carrara (1812-1854) è uno dei ponti tra l’Italia e la Dalmazia. Il suo nome è caduto nell’oblio dopo la sua morte; tuttavia farne conoscere la vita e le opere vuol dire mostrare che cosa significa recuperare la propria cultura e riscoprire i contatti con le culture vicine. Carrara nasce a Spalato il 16 novembre 1812, è interessante constatare che ha delle origini italiane, infatti il padre, nativo di Endenna, una piccola frazione di Zogno in provincia di Bergamo, si trasferì a Spalato con le truppe francesi napoleoniche; la famiglia della madre proveniva anch’essa dall’Italia ed era giunta proprio a Spalato nel Seicento. Egli, nel seminario vescovile della sua città, studia grammatica, retorica e filosofia distinguendosi per la sua «vasta ed acuta intelligenza, di pronta e tenace memoria». 2 All’età di 18 anni entra nel seminario di Zara per compiere gli studi di teologia; è lì che conosce Ciobarnich che lo avvia allo studio di Plutarco e dell’archeologia, una disciplina che sarà fondamentale per il suo percorso di vita. A Vienna prosegue gli studi di teologia dove si laurea con il massimo dei voti e dove celebra la sua prima santa messa nel 1838. Mons. Godeassi lo richiama in patria per a√dargli la cattedra di ‘religione storia universale’ nell’istituto storico del seminario, lo stesso dove studiarono Foscolo e Tommaseo. Successivamente diventa conservatore dell’I.R. Museo dell’antichità e poi si addottora in teologia a Padova. Le città occidentali sono quindi i luoghi dove attua quella koinè di contenuti fra la cultura italiana-europea – mi si passi il termine – e quella dalmata. La valorizzazione della sua terra d’origine, la Dalmazia, attraverso lo studio dei monumenti antichi, viene, infatti, incentivato dal confronto e dal dialogo con la cultura al di là del mare. Come Carrara, furono diversi gli studenti che provenivano dalle terre dell’Adriatico orientale per studiare all’università di Padova perché essa era considerata una alma mater. Nella Repubblica veneziana del Settecento le tradizioni e i canti del popolo balcanico erano diventate patrimonio della cultura illuminista europea proprio in virtù di quegli studenti e degli scrittori veneziani come Gozzi, Goldoni e Fortis, fortemente interessati a quei territori. Sappiamo bene che dopo il crollo della Repubblica veneziana nel 1797 e il breve dominio austriaco tra il 1797 e il 1805, l’Istria e la Dalmazia vengono annesse al Regno d’Italia con Napoleone imperatore e Milano capitale. Questa città accoglie la recente eredità illuminista e la rielabora secondo le esigenze della mutata società civile, fino a trasformarla in ciò che di lì a poco sarà il clima romantico, coniugato in chiave nazionale e risorgimentale. Questo movimento di idee pervade il mondo slavo e balcanico. Inoltre dopo la dominazione napoleonica, la Dalmazia diventa una provincia austriaca e con il governo del cancelliere Metternich (1815-1848) vive il clima degli anni della restaurazione. 3 Carrara si inserisce in questo contesto. Durante i suoi anni di studio a Vienna e a Padova legge i giornali locali e le opere di scrittori quali Pindemonte, Pellico, Byron, Lamartine, Schiller, Goethe, Hugo. Riscopre manzonianamente l’ideale del sentimento nazionale, vale a dire le origini del suo paese, del suo popolo, della lingua, della storia; diventa «una metafora della cultura e della ricerca del suo tempo». 4 Come aπerma uno degli studiosi più vicini a lui e più conosciuti,  







1   Pasquale Guaragnella, A proposito della diπusione della lingua italiana e delle relazioni interculturali nell’Adriatico, in La questione adriatica e l’allargamento dell’Unione europea, a cura di Franco Botta, Italo Garzia, Pasquale Guaragnella, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 21-22. 2   Manlio Cace, Francesco Carrara di Spalato, patriota, martire, archeologo, storico, geografo, letterato, «La Rivista dalmatica», Zara Venezia, Associazione Nazionale Dalmata, 44/2, 1973, pp. 111-123. 3   Josip Vrandečić, L’italia e i movimenti nazionali in Serbia e in Croazia: dal Risorgimento alla Prima guerra mondiale, in La questione adriatica e l’allargamento dell’Unione europea, cit., pp. 27-28. 4   Daria Garbin, Salona negli scavi di Francesco Carrara, Trieste, Centro Ricerche Culturali Dalmate-Spalato, 2007, p. 25.

francesco carrara: un ponte tra la cultura italiana e dalmata 305 Antonio Bajamonti, che gli ha dedicato la biografia più insigne a tutt’oggi, 1 è proprio attraverso le sue opere letterarie e il suo lavoro da archeologo che abbiamo un ritratto completo di questo religioso. Gli scritti di Carrara permettono, in modo quasi esaustivo, di conoscere la storia della Dalmazia. Egli parte innanzitutto dalle fonti, cioè ricerca tutto quel materiale che può testimoniare i fasti e le di√coltà di questa regione. Infatti ricostruisce l’Archivio del Capitolo di Spalato che con l’arrivo degli austriaci era stato spostato a Vienna e quindi non era più consultabile, né conosciuto. Trova duecentocinquantuno documenti che raccontano «le glorie e le sventure della Dalmazia nei suoi vari mutamenti politici» 2 tra il 1078 e il 1694 e li raccoglie nel volume Archivio Capitolare di Spalato tratto dall’i.r. Archivio Secreto di Casa di Corte e di Stato. 3 Carrara si trova spesso nella condizione di confutare tesi e aπermazioni di altri studiosi, il più delle volte inimicandoseli. È il caso della Chiesa di Spalato un tempo salonitana, 4 opera nella quale corregge gli errori di cronologia e di interpretazione di Maria-Francesco Appendini, contenuti in Notizie storico-critiche sulle antichità. Storia e letteratura di Ragusa. Carrara, nella prefazione al volume sulla chiesa spalatina, aπerma che nei suoi studi non è mai spinto da «vanità letteraria», ma dall’«amore per la Patria». 5 Questa è la sola e unica ragione per la quale decide di iniziare gli scavi del sito archeologico di Salona. Se questa antica città è tornata alla luce nel suo splendore è proprio in virtù del lavoro di Carrara. Prima di lui se ne erano occupati Gianluca Garagnin (1804), rampollo di una famiglia di Traù e Carlo Lanza, primo direttore del Museo archeologico di Spalato, ritrovando lapidi, statue e altri reperti. Carrara, con moderni metodi scientifici, delinea l’esatta ubicazione della città, traccia il perimetro, ritrova le mura, le porte, una sezione del teatro, dell’anfiteatro, il Battistero, monete, epigrafi, statue. Attraverso, quindi, questi scavi, l’abate spalatino permette di riscoprire un centro di irradiamento romano significativo per il mondo occidentale e orientale, segno di un’origine di unità fra le culture; 6 unità raπorzatasi con il diπondersi del cristianesimo, come si può constatare dal rinvenimenti di pavimenti un tempo a mosaico e di alcune sepolture. 7 Le di√coltà e le lotte che Carrara ha dovuto aπrontare anche in questa valorosa impresa archeologica non lo hanno fatto desistere dall’essere il paladino della Dalmazia. Il suo capolavoro è l’opera La Dalmazia descritta, 8 la «pietra miliare della dalmatologia» 9 perché, anche se rimasta incompiuta, tracciando la geografia, la politica e la topografia di quelle terre, ha un valore tuttora enciclopedico. I risultati delle ricerche dell’abate spalatino non sono solo il frutto dello suo studio e della sua tenacia, ma anche dei rapporti epistolari intrattenuti con numerosi intellettuali del suo tempo: quali il redattore della «Favilla» triestina, l’abate Dall’Ongaro, il poeta Gazzoletti, Tommaseo, Strmić, Cantù, Paravia, Betteloni, Tipaldo, Furlanetto, Seidl, Viviani. 10 Questi carteggi, poco noti, sono dei documenti preziosi perché fanno conoscere il  



















1   Antonio Bajamonti, Della vita e degli scritti dell’Abate dr. Francesco Carrara, Spalato, Tip. V. Olivetti e Giovanizio, 1854. 2   Manlio Cace, Francesco Carrara di Spalato, patriota, martire, archeologo, storico, geografo, letterato, cit., p. 114. 3   Francesco Carrara, Archivio Capitolare di Spalato tratto dall’i.r. Archivio Secreto di Casa di Corte e di Stato, Spalato, Tip. Olivetti, 1844. 4   Francesco Carrara, Chiesa di Spalato un tempo salonitana del professor abate dottor Francesco Carrara, Trieste, i. Papsch e C. Tipografia Del Lloyd adriatico, 1844. 5   Manlio Cace, Francesco Carrara di Spalato, patriota, martire, archeologo, storico, geografo, letterato, cit., p. 115. 6   Pochi sanno che Salona, fondata dagli illiri e conquistata dai greci e poi dai romani, è stata la seconda città dell’Impero Romano al tempo di Diocleziano. 7   Francesco Carrara illustra il suo lavoro archeologico nell’opera Topografia e scavi di Salona, Trieste, tipografia del Lioyd austriaco, 1850. 8   Francesco Carrara, La Dalmazia descritta dal professore dottor Francesco Carrara, con 48 tavole miniate rappresentanti i principali costumi nazionali, Zara, Fratelli Battara, 1846. 9   Daria Garbin, Salona negli scavi di Francesco Carrara, cit., p. 54. 10   Mate Zorić, Italia e Slavia: contributi sulle relazioni letterarie italo-juguslave dall’Ariosto al D’Annunzio, Padova, Editrice Antenore, 1989, 387-417.

elena rondena 306 romanticismo minore, i suoi protagonisti e i «complessi intrecci delle relazioni culturali nello spazio adriatico». 1 Una delle corrispondenze più significative è quella con Niccolò Tommaseo. Nel centenario della morte dell’autore di Sebenico, Vittore Branca, aprendo i lavori del convegno, così delinea questo personaggio:  

Forse in Italia nessun’altra figura, nonostante la rigorosa formazione classica, è così rappresentativa del messaggio spirituale e civile del romanticismo, e insieme così rabdomanticamente anticipatrice di climi e di situazioni di oggi e dell’avvenire. 2  

Alla luce di questo giudizio così lucido che tratteggia la figura di un autore dalla molteplicità di interessi e dalla sterminata attività letteraria, è interessante evidenziare il ruolo che Carrara ha avuto nella sua vita. Tommaseo nutriva nei suoi confronti una grande stima che gli fa scrivere negli Studi critici: Alle cose dalmatiche gli esteri finora pensarono più attentamente di noi. Un giovane abbiamo adesso, che dalla Dalmazia ebbe l’origine, dalle lettere italiane la prima coltura, dall’istituzione germanica l’amore e l’uso de’ solidi studi, Francesco Carrara; il quale promette sapere amare gli studi severi con quel fervore passionato che pochi ormai sanno amare gli ameni. E veramente gli è tempo che ci stringa cura di noi. 3  

Il rapporto fra l’abate di Spalato e Tommaseo inizia quando Carrara, inviandogli il suo primo libretto Theodora Ducaina, 4 nel quale confuta le opinioni del celebre Sestini, in una missiva del 16 maggio 1841, riceve le lodi del maestro. Successivamente, in occasione dell’uscita del romanzo Fede e Bellezza, Carrara scrive un articolo in difesa dell’autore per le numerose critiche che gli erano state mosse – Tale articolo non fu mai stampato a causa della censura austriaca –. Inoltre, come si deduce dal diario personale dell’abate, i due uomini illustri si incontrano diverse volte per cui cresce la stima reciproca. Tale rapporto, che andrebbe approfondito, è l’esempio di uno scambio culturale che unisce ulteriormente le due sponde dell’Adriatico. Due sono le circostanze che si vogliono ricordare per mostrare questo legame tra le due culture e tra questi due autori. Tommaseo chiede proprio a Carrara di raccogliere alcune poesie popolari serbocroate perché, evidentemente, aveva compreso che l’abate condivideva i suoi concetti slavofili e romantico-liberali. La richiesta mossa dall’autore di Sebenico è importante perché si inserisce in quel suo più ampio e noto studio che porta ai Canti illirici. Inoltre a partire da questa ricerca Carrara segue le orme del maestro; traduce dodici canti popolari morlacchi e pubblica i Canti del popolo dalmata. 5 In questo modo recupera l’eredità orale del popolo slavo dalmata e la mette a disposizione dei lettori italiani. L’altra circostanza è quella rappresentata dagli studi su Ugo Foscolo. Nel Diario intimo di Tommaseo si legge: «16. Pensare alla biografia del Tipaldo. 17. E al suo Foscolo». 6 Nella biografia foscoliana, che Emilio De Tipaldo stava preparando, il breve periodo trascorso a Spalato dall’autore di Zante era ancora in ombra. Tommaseo, trovatosi in Dalmazia tra l’8 dicembre 1843 e il 18 gennaio 1844, e, come già ricordato, avendo studiato nello stesso seminario di Foscolo, si rivolge a Carrara. Nel Museo Archeologico di Spalato, nel copioso lascito di Carrara vi sono tre minute di lettere autografe inviate a Tommaseo. In esse Carrara trascrive le notizie da lui scoperte sull’infanzia di Foscolo, sulla sua famiglia, sui condiscepoli e contemporanei del poeta. Come aπerma lo studioso  





1

  Ivi, p. 41.   Vittore Branca, Nel centenario del Tommaseo, in Niccolò Tommaseo nel centenario della morte, a cura di Vittore Branca, Giorgio Petrocchi, Firenze, Olschki, 1974, p. 9. 3   Niccolò Tommaseo, Studi critici, Venezia, Andruzzi, 1843, p. 326. 4   Francesco Carrara, Theodora Ducaina, Vienna, Tipografia dei Mechitaristi, 1840. 5   Francesco Carrara, Canti del popolo dalmata, Zara, s. e., 1849. 6   Niccolò Tommaseo, Diario intimo, Torino, Einaudi, 1946, p. 96. 2

francesco carrara: un ponte tra la cultura italiana e dalmata 307 Mate Zorić, che ha ricostruito con grande precisione i passaggi di queste ricerche dell’abate spalatino, il merito di Carrara non è solo quello di aver ‘frugato’ negli archivi comunali, nel registro del seminario e in quello parrocchiale dei morti, ma soprattutto quello di aver raccolto la tradizione orale che, con il passare del tempo, sarebbe andata persa. 1 Carrara scrive: «ho fatto scervellare tutti i vecchioni di Spalato, e mi convenne sentire, con santa rassegnazione delle balordaggini e trar qualche memoria nuova». 2 Il lavoro di Carrara è prezioso perché gli anni spalatini, se pur brevi, (1785-1788), Foscolo non li ha mai dimenticati, tanto da scrivere in diverse lettere del 1797 «io, nato in Grecia, educato tra i Dalmati». 3 In quella regione, infatti, Foscolo ha ricevuto nozioni, principi scientifici, ammaestramenti; si è formato come uomo e poeta e quindi essa ha «contribuito non poco a quella grandezza, a cui giunse il Grande cantore delle Grazie e dei Sepolcri». 4 A partire dalle informazioni di Carrara, è quindi rilevante constatare l’importanza del ruolo che la Dalmazia ha avuto nella vita del Foscolo. Inoltre occorrerebbe rileggere tutta quanta la sua produzione letteraria tenendo presente le informazioni dell’abate. In Scorciatoie e raccontini Umberto Saba a proposito di Foscolo scrive: «Nel cielo meraviglioso del sonetto ALLA SERA – in tutto il cielo della poesia del Foscolo – navigano strani colori, quali vedi accendersi e spegnersi sull’altra riva dell’Adriatico». 5 Quel cielo è lo stesso che hanno visto Foscolo, Tommaseo e Carrara; tre personalità unite dalla Geografia e Storia della letteratura italiana – per usare il titolo di un noto saggio e libro di Carlo Dionisotti – e dall’attaccamento alla patria che, anche se in modi e tempi diversi, è valso loro l’esilio. Carrara riscopre tradizioni, ritrova cimeli, intreccia rapporti diplomatici, viene insignito di diverse cariche, eppure nel 1847, in occasione del ix Congresso degli Scienziati Italiani, tenutosi a Venezia, in seguito alla sua relazione sullo stato di lavoro degli scavi archeologici salonitani, attira sospetti e di√denze da parte delle autorità austriache e del clero di Spalato, per la sua conclamata simpatia alla Repubblica veneta. Tale circostanza aprirà nella restante vita di Carrara un dilemma, non ancora risolto, vale a dire se sia stato «un archeologo della romanità protetto dagli Asburgo o dalmata veneto inviso ai nazionalisti austriaci». 6 Pertanto viene destituito dal ruolo di professore, gli vengono tagliati i fondi per continuare i lavori degli scavi di Salona e viene allontanato dalla Dalmazia. Francesco Carrara fa quindi parte di quel primo esodo di intellettuali, politici, letterati, artisti italiani dalmati che sono stati costretti ad abbandonare la loro terra, oggetto di una sistematica «snazionalizzazione» ai danni della componente italiana. Se pensiamo che gli ultimi anni della vita di Carrara, passati tra Vienna e Venezia, lo vedono addirittura impegnato nella stesura di un’Antologia italiana 7 per le scuole superiori dei ginnasi austro-italiani, non possiamo che sottolineare quanto l’operato di questo abate di Spalato sia un esempio da emulare per raggiungere l’unità fra le due culture oltremare.  













1   Mate Zorić, L’educazione del Foscolo a Spalato, in Atti dei convegni foscoliani, Venezia, ottobre 1979, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1988, pp. 88. 2   Mate Zorić, Ancora sul soggiorno di Ugo Foscolo a Spalato, «Studia Romanica et Anglicana Zagrabiensia», Facultas Philosophica Universitatis Studiorum Zagrabiensia, Zagreb, Pogon, 8, dicembre 1959, pp. 31-39. 3   Tale aπermazione di Foscolo si legge nelle lettere indirizzate A Vittorio Alfieri, A Deodata Saluzzo di Roero e Alla Municipalità Provvisoria. Si Veda Ugo Foscolo, Epistolario, i, a cura di Plinio Carli, Firenze, Le Monnier, 1949, pp. 42, 43, 56. 4   Bartolomeo Mitrović, Ugo Foscolo a Spalato, Trieste, Stabilimento tipografico di Lodovico Hermanstorfer, 5 1882, p. 25.   Umberto Saba, Scorciatoie e raccontini, Milano, Mondadori, 1963, p. 77. 6   Daria Garbin, Salona negli scavi di Francesco Carrara, cit., p. 11. 7   Francesco Carrara, Antologia italiana proposta alle classi dei ginnasi liceali, Vienna, Direzione della vendita de’ libri scolastici, 1853. L’autore vedrà stampato solo il primo volume, i due successivi saranno pubblicati a cura del prof. Giuseppe Jacopo Terrazzi.

RICCARDO FORSTER E L’AVVENTURA DI «FLEGREA» (1899-1901) Daniela De Liso

I

l ruolo di instancabile animatore culturale, di apprezzato critico d’arte, che Riccardo Forster svolse fino al 1938, anno della sua morte, non è evidentemente stato su√ciente a sollecitare la scoperta critica di questo intellettuale, che aveva lasciato la sua patria irredenta per essere italiano. Al Forster è toccata quella iniziale damnatio memoriae, cui una certa critica del dopoguerra aveva condannato, con eπetti assai duraturi, il vate abruzzese, suo amico. La sua adesione al Fascismo, – inizialmente molto convinta, poi sempre più defilata in verità, come dimostra la rimozione dalla direzione del quotidiano «Il Mattino» – e quella purtroppo invitta di√denza che la critica letteraria conserva nei riguardi dei letterati giornalisti hanno relegato in un quasi assoluto silenzio critico lo zaratino. 1 Riccardo Forster nacque a Zara il 29 dicembre 1869. Nascere a Zara, nella seconda metà dell’Ottocento, subito dopo l’ennesima annessione al Regno Austro-Ungarico, che sembrava metter fine ai sogni italiani degli irredentisti dalmati, significava crescere in un ambiente multi-etnico e particolarmente vivace e probabilmente costringeva abbastanza presto a scegliere da che parte stare. Il giovane Forster, che in città aveva portato a termine gli studi superiori, doveva aver qui respirato le suggestioni irredentiste, che sarebbero diventate il suo credo negli anni universitari a Vienna. Nella capitale austriaca, infatti, presto era divenuto esponente del movimento irredentista dalmata. Perseguitato dalla polizia asburgica, fu, quindi, costretto a riparare in Italia. A Roma si laureò in Lettere ed entrò subito in contatto con gli ambienti intellettuali più fervidi del giornalismo romano, grazie all’amicizia con Adolfo De Bosis, che lo introdusse nel cenacolo del «Convito». 2 Qui conobbe Gabriele d’Annunzio, Angelo Conti, Diego Angeli e l’ambiente estetizzante di questa rivista ne influenzò profondamente la scrittura giornalistica, che presto, soprattutto grazie all’amicizia col vate, si espresse su molti periodici italiani. Scrisse, in questi anni, sul «Fanfulla della domenica», «La Nuova Antologia», «Emporium», la «Rivista d’Italia», occupandosi prevalentemente di cultura, costume e arte. Al d’Annunzio Forster fu debitore di un’importante amicizia, quella con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, che dal 1898 lo vollero al «Mattino», 3 il quotidiano di Napoli fondato nel  





1   La bibliografia per Forster è abbastanza esigua: Teodoro Rovito, Dizionario dei letterati e giornalisti italiani contemporanei, Napoli, Tipografia Melfi e Joele, 1907, p. 104; Antonio Procida, L’Uomo e la Vita, «Il Mattino», 20 dicembre 1938; Saverio Procida, Riccardo Forster, «Roma», 20 dicembre 1938; Ildebrando Tacconi, Riccardo Forster, «Rivista dalmatica», xix, 4, 1938, p. 54; Achille Vesce, In silenzio, «Il Mattino», 20 dicembre 1938; Francesco Barbagallo, Il Mattino degli Scarfoglio, Milano, 1979, pp. 70, 115, 208, 210; Gianni Infusino, La storia del Mattino, Napoli, Società editrice napoletana, 1982, pp. 113, 167, 179, 291; Mariapia Metallo, Riccardo Forster, «Critica letteraria», 1981, iii, 32, pp. 548-568; Raffaele Giglio, Letteratura in colonna, Roma, Bulzoni, 1986, pp. 86-99; Roberta Gisotti, La nascita della terza pagina, Letterati e giornalismo 1860-1914, Lecce, Capone, 1986, p. 53; Silvia Trombetta, Riccardo Forster, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1997, xlix, p. 110, ad vocem. 2   Il «Convito», fondato a Roma da Adolfo de Bosis, mecenate e finanziatore, nel 1895, annoverò, sin dall’inizio, tra i suoi collaboratori Gabriele d’Annunzio. Apparvero dodici numeri su carta a mano, in una veste tipografica lussuosa, ad intervalli irregolari dal 1895 al 1907. In realtà solo i primi nove numeri, dal gennaio 1895 al dicembre 1896, possono essere considerati come rivista, dal momento che i fascicoli successivi furono interamente scritti dal De Bosis (Cfr. Emanuela Scarano, Dalla Cronaca bizantina al Convito, Firenze, Vallecchi, 1971). 3   Il primo articolo, La lega balcanica, apparve il 20-21 settembre 1898; il secondo, Lettere balcaniche, il 26-27 settembre 1898. Ma già il 5-6 ottobre dello stesso anno, con un articolo intitolato Per l’Arte drammatica, Forster diventava il critico d’arte di «Il Mattino».

riccardo forster e l’avventura di «flegrea» (1899-1901)

309 1891, che avrebbe anche diretto dal 31 dicembre 1925. 1 Dalle colonne del quotidiano lo zaratino fu inizialmente corrispondente dai Balcani, per poi diventarne prevalentemente il critico d’arte, ma continuando a firmare, all’occorrenza, articoli di fondo o di spalla su temi di costume e cultura. Furono gli anni napoletani di Forster, quelli in cui frequentava i salotti, le librerie e i caπè, in cui si faceva cultura, dove s’incontravano Benedetto Croce, Ferdinando Verdinois, Francesco Cimmino, Carlo Del Balzo, i coniugi Scarfoglio e, spesso, il comune amico d’Annunzio. A Napoli nasce anche l’avventura di «Flegrea», la rivista di cui Riccardo Forster fu, non solo il direttore, ma l’ideatore, l’anima policroma. Negli anni di «Flegrea» non interruppe l’attività di critico d’arte, continuò a scrivere e pubblicare novelle e poesie. 2 Insomma non riuscì a smettere l’abitudine della letteratura tout court, come in preda a quell’ansia di dire, demone imprescindibile di ogni artista. L’esperienza del «Convito» aveva indicato, senza dubbio, al Forster la strada da seguire; gli incontri con Igino Petroni, Benedetto Croce, Giuseppe de Lorenzo, Ramiro Ortiz, Giuseppe Vorluni, e molti altri gli avevano probabilmente suggerito l’urgenza della fondazione di una rivista, che riuscisse a proporre un’idea nuova di giornalismo culturale e che desse inizio alla sprovincializzazione della cultura italiana, arroccata intorno a posizioni bizantine. Grandi sono, infatti, le ambizioni di «Flegrea», 3 che così si annuncia al suo pubblico il 5 febbraio 1899:  





La nostra Rivista, col titolo espressivo ed ardente che porta, cercherà d’esplicar ancor meglio la forza e far risplendere il valore, e ciò che di franco, di puro, di libero oπre la produzione italiana moderna verrà attratto entro i confini delle pagine di flegrea. 4  

Napoli, con la vivacissima attività pubblicistica di quegli anni, non rappresentava un luogo facile. Riviste e giornali nascevano e morivano con straordinaria frequenza; la loro ambizione era contribuire al processo di unificazione culturale del Paese, ora che l’Unità politica era stata raggiunta. Tuttavia dovevano scontrarsi con la barriera di un analfabetismo diπuso e con una povertà materiale, che non rendeva certamente il giornale o la rivista un bene primario, per così dire. 5 Auspice il mecenatismo dell’armatore Antonio Stevens, tuttavia, Forster «abbandona al pubblico la sua Rivista», 6 a soli sei mesi dall’arrivo in città. «Flegrea», col sottotitolo di ‘Rivista di Lettere, Scienze ed arti’ viene pubblicata dalla  



1   Forster fu nominato direttore di «Il Mattino» per volontà di Mussolini nel dicembre del 1928; il suo compito era quello di fascistizzare il giornale, ma il suo fascismo fu forse considerato troppo moderato, se nel marzo del 1928 lo stesso Mussolini provvide a sostituirlo con Nicola Sansanelli e Francesco Paoloni (Cfr. Silvia Trombetta, Riccardo Forster, cit.). 2   La produzione letteraria di Forster consta di un dramma, Rivelazione: dramma in un atto, e alcune novelle, pubblicate su giornali e riviste: Il Libro, «Flegrea», i, i, p. 102, 20 febbraio 1899; Le tre donne, «Regina», x, 10, 31 ottobre 1913; Lello e Selvetta, «Regina», xi, 12, 15 dicembre 1914; Due attori, «Regina», xii, 4, 15 aprile 1915; La fantasia e la realtà, «Regina», xvi, 3, marzo 1919; Il riso, «Il Mattino», 7 marzo 1937. Tutte le liriche furono raccolte in Riccardo Forster, La fiorita, Napoli, s.e.m., 1905 (Cfr. Mariapia Metallo, Riccardo Forster, cit.). 3   La rivista è interamente conservata in dodici volumi nella Sezione napoletana della Biblioteca Nazionale di Napoli ‘Vittorio Emanuele II’, (coll.: Sez. Nap. Per. 108). La prima e la seconda annata sono conservate anche presso la Biblioteca Universitaria di Napoli (coll.: Per. 568). La Biblioteca Alessandrina di Roma possiede la terza annata (coll.: riv-n-147). Copie di «Flegrea» si trovano anche presso la Società Napoletana di Storia Patria di Napoli, la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e di Firenze, la Biblioteca Comunale Classense di Ravenna, la Biblioteca Civica Centrale e la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, la Biblioteca Civica di Vercelli. 4   Riccardo Forster, Al lettore, «Flegrea», i, i, 1899, p. 5. 5   Per la cultura ed il giornalismo napoletani di fine Ottocento: Antonio Palermo, Napoli nella letteratura dopo il ’60, in Napoli dopo un secolo, a cura di Giuseppe Galasso et alii, Napoli, Esi, 1961, pp. 359-397; Benedetto Croce, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, in Idem, La Letteratura della Nuova Italia, iv, Bari, Laterza, 1964, pp. 251-331; Emma Giammattei, La letteratura 1860-1970: “Il grande romanzo di Napoli”, in Napoli, a cura di Giuseppe Galasso, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 383-412; Antonio Palermo, La vita letteraria, in Napoli lungo un secolo, Studi raccolti in occasione del centenario del Circolo Artistico Politecnico, a cura di Fulvio Tessitore, Napoli, Editoriale Scientifica, 1992, pp. 208-234; Daniela De Liso, «Flegrea» (1899-1901), Napoli, esi, 2006, pp. 29-38; Raffaele Giglio, Di letteratura e giornalismo, Napoli, Loπredo, 2012. 6   Riccardo Forster, Al lettore, «Flegrea», i, i, 1899, p. 6.

daniela de liso 310 libreria Detken e Rocholl. 1 La rivista 2 ha una periodicità quindicinale: i suoi ventiquattro numeri annuali sono datati il 5 ed il 20 di ogni mese. Ogni numero consta di 96 pagine e costa 1 lira. L’ultimo numero sarà pubblicato il 20 dicembre 1901. Ogni fascicolo tenta di tenere fede alle promesse della presentazione di Forster, una presentazione che, in toni ‘convitiani’, parla di poliedricità. Saggi, novelle, poesie, romanzi a puntate si contenderanno lo spazio con rubriche e rassegne, il cui carattere, contrariamente agli annunci, sarà sporadico. Tra le rubriche ci saranno: Bibliografie, dedicata allo spoglio delle pubblicazioni italiane e straniere d’ispirazione decadente e simbolista; I Libri, che, sostituendo la precedente, ne conserverà gli indirizzi; L’Arte e il Teatro, talvolta assorbita in Bibliografie; la Rassegna Marittima, curata da Federico Di Palma, necessario tributo ai mecenati finanziatori. Alla domanda che molti si saranno posti all’esordio di «Flegrea» e che forse ci si pone ogni volta che nasce una nuova rivista – quale bisogno c’era di un’altra rivista? – Forster risponde nell’incipitale articolo Al lettore:  



Sono molte le Riviste in Italia e godono con giustizia diπuse simpatie; non sono però tante da rendere vana l’apparizione d’una nuova compagna, surta coll’idea precipua di raccogliere, senza paure e sgomenti, i giovani attivi e operosi devoti all’Arte, in una ideale fraternità di sogni e di lavoro. 3  

Insomma, l’idea di Forster è quella di catalizzare intorno alla sua Rivista l’attenzione di nomi noti della pubblicistica contemporanea, ma anche di nuovi letterati giornalisti. Il progetto culturale è di ampio respiro; Forster sa che la stampa «è la letteratura d’ogni dove […] la nostra biblioteca circolante», come scriveva Colautti 4 e vuole fare di «Flegrea» uno dei libri di quella «biblioteca circolante»; perciò, la rivista si occuperà di letteratura, arte, politica, filosofia, storia, religione ed economia e le sue pagine rivelano il rispetto degli annunci programmatici. Tra le firme spiccano quelle di Benedetto Croce, Mario Morasso, Remy De Gourmont, Napoleone Colajanni, Ugo Ojetti, Diego Angeli, Angelo Conti, Gabriele d’Annunzio, Matilde Serao, Giovanni Pascoli, Adolfo De Bosis, Federigo Verdinois, Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Arturo Colautti e molti altri, che val la pena di scoprire. L’eterogeneità di queste firme ci pone subito di fronte a una realtà così variegata da guadagnare alla rivista l’accusa di mancanza di una precisa linea editoriale. Lo spazio dedicato alla poesia estetizzante, nella quale lo stesso Forster si cimenta, è analogo a quello dedicato alla poesia intimista. La produzione in lingua e quella in dialetto coabitano; la narrativa italiana e quella straniera, soprattutto russa grazie alle traduzioni e alla cura di Verdinois, si alternano nei vari fascicoli. Da una lettura complessiva della rivista si può desumere che, per quanto siano rispettate le promesse eclettiche dell’incipitale presentazione Al lettore, alla letteratura e all’arte sono assegnate posizioni dominanti nell’economia del progetto. Articoli di politica, filosofia, costume ed economia fanno piuttosto da corredo, pur fregiandosi di firme autorevoli. È interessante notare che in ogni fascicolo sia ospitata almeno una lirica, in una posizione di solito immediatamente successiva ad un testo di argomento politico,  

1   La redazione e l’amministrazione della rivista, inizialmente collocate a Napoli, in piazzetta Mondragone (Stabilimento Tipografico Pierro e Varaldi nell’Istituto Casanova), furono poi trasferite alla Libreria Detken e Rocholl in Piazza Plebiscito, nel Palazzo della Prefettura (Tipografia Sangiovanni, via Ventaglieri a Montesanto, 87), sotto la gerenza di Achille De Waure. Sul ruolo di questa libreria nel panorama culturale napoletano: Edmondo Borselli, Una gloriosa libreria internazionale: la libreria Detken di Napoli, «Atti dell’Accademia Pontaniana», xxiv, 1975, pp. 107110; Benedetto Croce, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, in Idem, La letteratura della Nuova Italia, cit., p. 300. 2   Per una disamina accurata di «Flegrea»: Domenico Cantone, Una rivista di fine Ottocento a Napoli: Flegrea, «Accademie e biblioteche d’Italia», lviii, 3, luglio-settembre 1990, pp. 9-18; Alfredina D’Ascenzo, «Flegrea» (1899-1901). Saggio introduttivo, indici e appendice, Pescara, Edizioni Campus, 2001; Daniela De Liso, «Flegrea» 3 (1899-1901), cit.   Riccardo Forster, Al lettore, «Flegrea», i, i, 1899, p. 6. 4   Arturo Colautti, Le brutte lettere, «Fortunio», i, 28 ottobre 1888, p. 1.

riccardo forster e l’avventura di «flegrea» (1899-1901)

311 filosofico o critico: la poesia appare così come una sorta di intermezzo, quasi allo scopo di smorzare i toni, di suggerire leggerezza. Come si è accennato, non è possibile fare di «Flegrea» la rivista del Decadentismo estetizzante, come lascerebbero presagire la storia ed i gusti del suo direttore. Accanto a d’Annunzio c’è Pascoli, accanto a Severino Ferrari, l’allievo prediletto del Carducci, c’è Eugenio de Castro, poeta simbolista portoghese, accanto al Forster ci sono Vittoria Aganoor ed Enrichetta Capecelatro, la traduttrice di Tolstoj. Se «Flegrea» non ‘sceglieva’ la sua linea poetica, oπriva ai lettori la possibilità di farlo, mettendo preziosamente a confronto tendenze, scuole, suggestioni di diversa natura e provenienza. Leggere la narrativa sulla rivista del Forster significava essere direttamente catapultati in una dimensione europea: la Serao, Capuana, Russo e Di Giacomo stanno accanto a Dmìtrij Merejkòvskij e ad Anton Čechov, a Maksìm Gòr’kij ed Ivàn Turgènev, a Dante Gabriele Rossetti, a Pierre De Bouchaud e Remy de Gourmont. 1 In questo caso Forster seguiva più che il gusto italiano contemporaneo, quello napoletano; la città, infatti, sede dell’Istituto Universitario Orientale, si era aperta sul finire dell’Ottocento al fascino dei grandi narratori russi, che qui vantavano i loro migliori traduttori e che la città prediligeva ai cugini francesi, più in voga nel resto della penisola. Forster, critico d’arte del «Mattino», non può non dedicare ampio spazio nella sua rivista alla critica teatrale e alla produzione drammaturgica contemporanea, italiana, dialettale e straniera. L’importanza attribuita al teatro dal direttore si evince chiaramente dalla recensione da lui dedicata, nell’ambito della rubrica Rassegna letteraria, alla Gioconda di d’Annunzio, cui egli attribuiva il merito di aver risvegliato le sorti del teatro italiano. Nella recensione Forster suggeriva, inoltre, che il teatro moderno si assumesse l’onere di guidare la letteratura italiana attraverso uno strutturale processo di svecchiamento e di adesione alle innovative tendenze d’oltralpe. 2 Sulle pagine di «Flegrea» Forster intendeva contribuire a questo necessario processo di svecchiamento, dando spazio a interventi critici su Ibsen e Shelley e a una produzione drammaturgica che annovera La leonessa di Enrico Corradini, Il libro di Forster, la Serena di Capuana. Altro imprescindibile contributo le pagine di «Flegrea» danno alla critica letteraria. Da Francesco D’Ovidio a Cesare De Lollis, da Pascoli a d’Annunzio, da Rémy de Gourmont ad Adolphe van Bever, da Adolfo Albertazzi a Ramiro Ortiz, a Francesco Cimmino e Giuseppe Vorluni si discute di letterature comparate, di letteratura italiana, francese, spagnola, inglese, russa, tedesca, svedese e orientale, in linea con la vocazione europeista della rivista. Sulle pagine di «Flegrea» si scriverà di letteratura indiana, di Walt Whitman e delle sue Foglie d’erba, di Shelley e Leopardi, di Fogazzaro e del Modernismo. È evidente, credo, che «Flegrea» appaia troppo onnivora per piacere a una tradizione pubblicistica abituata a sapere esattamente da che parte sta ogni rivista in circolazione. Le ‘colpe’ sono, ovviamente, dalla critica contemporanea e moderna, attribuite a Forster, alla sua incapacità di stabilire una precisa linea editoriale. Forster non avrebbe saputo rendere veramente ‘utile’ nel panorama della pubblicistica italiana la sua rivista, che così moriva, ex abrupto, dopo tre anni, senza neanche una lettera di congedo ai lettori. In realtà la fine di «Flegrea» dipese verosimilmente dalla mancanza improvvisa di finanziamenti. È presumibile che i finanziatori avessero preannunciato al Forster la loro decisione. Ma allora perché quel direttore che tre anni prima annunciava con tale roboante ottimismo la nascita della sua creatura, non aveva spiegato ai suoi lettori le ragioni della chiusura? Forse perché Forster non era abituato ai fallimenti. Non ammetterà di  



1

  Cfr. sull’argomento: Daniela De Liso, «Flegrea» (1899-1901), cit., pp. 59-125.   Riccardo Forster, Rassegna letteraria, «Flegrea», i, i, 1899, p. 82.

2

daniela de liso 312 aver fallito neanche quando, molti anni più tardi, Mussolini lo rimuoverà dall’incarico di direttore del «Mattino», per la sua evidente incapacità di ‘fascistizzare’ pienamente il giornale. I tre anni di vita di «Flegrea» avevano metaforicamente portato a Napoli grandi firme del giornalismo, della letteratura, dell’arte, della cultura italiana e straniera. Le pagine di questa rivista erano state teatro di tutte le contemporanee querelles culturali, in una dimensione europea. Ma Napoli e il Mezzogiorno, nello stato di arretratezza e declino economico in cui versavano, non erano pronte all’utopia di Forster e dei suoi; si sarebbero piuttosto sentite rappresentate e tutelate dal progetto oculato e selettivo della «Critica» crociana, impegnata nel tentativo di ricostruire la tradizione culturale del vecchio ceto intellettuale, ponendolo al riparo dai fragori delle ultime novità. Forster aveva creduto di riuscire a fare di Napoli e del Mezzogiorno il fulcro di un rinnovamento culturale italiano, ma gli era forse sfuggito che la città era molto lontana da quella penisola, cui Garibaldi l’aveva consegnata. Se ne era accorto, invece, lo Stevens, che, dopo quasi tre anni di investimenti, aveva visto tramontare il suo obiettivo di fare di «Flegrea» il veicolo pubblicitario per il rilancio dell’economia mercantile napoletana su base europea e l’aveva chiusa. Nell’iniziale presentazione ai lettori, Forster aveva scritto: Risuona di tratto in tratto la triste parola che in Italia ogni ardita iniziativa intellettuale non trovi che tiepidi e solitarii banditori e che il bando dilegui, come una voce fioca in un abisso, senza echi e senza conforti. È triste favola; molti fatti e prove la smentiscono e la distruggono. 1  

Sfortunatamente di quella «triste favola» fu vittima la sua «Flegrea», che voleva portare la cultura italiana in un futuro, per il quale forse non è ancora pronta. 1

  Riccardo Forster, Al lettore, «Flegrea», i, i, 1899, p. 5.

LA RICEZIONE CRITICA DELLE OPERE TEATRALI DEL LETTERATO ZARATINO GEROLAMO ENRICO NANI Martina Damiani · Fabrizio Fioretti

L

o scrittore zaratino Gerolamo Enrico Nani, dopo aver iniziato la sua carriera come giornalista, una volta esiliato in Italia si dedica anche al teatro 1 ed esordisce con il dramma Una tempesta nell’ombra (1899). Un’importante recensione dell’opera appare nella «Rivista d’Italia» del 15 luglio 1899, nella quale un’intera rubrica del Bollettino bibliografico è riservata alla sua «singolare fortuna», derivata dalla capacità dell’autore di portare in scena, con una «rara e√cacia drammatica», un fatto di cronaca avvenuto a Lecce, dove un marito, colpito da cecità assoluta, scopre l’infedeltà della moglie e ne uccide l’amante. 2 Nella «Rivista dalmatica» del 1 luglio 1899 viene precisato, invece, che per il suo tema, Nani deve aver tratto certamente ispirazione dal dramma in tre atti Il cieco (1893) di Francesco Bernardini, concludendo però, dopo una capillare analisi testuale, che nell’opera del letterato zaratino «la psicologia dello svolgimento intimo» dei personaggi risulterebbe di gran lunga migliore rispetto al dramma del Bernardini. 3 Per giustificare una recensione così entusiasta, la «Rivista dalmatica» riporta un articolo apparso su «La Nazione» di Firenze nel quale si descrive non solo la calda accoglienza della pièce in Toscana, ma in particolare la meticolosità con cui Nani ha «fatto copiare interi volumi di documenti inviatigli da Lecce per istabilire i vari caratteri e i fatti del dramma», che quindi non può considerarsi frutto di plagio. 4 La ripresa di un’altra opera non viene rilevata invece nella prefazione al dramma, anche se un’allusione ad essa traspare nelle parole del criminologo Scipio Sighele, che valuta il merito dell’autore per aver trattato da una prospettiva diversa un tema molto frequente in letteratura:  







Il delinquente per passione […] è il tipo più comune, perché più facilmente osservabile, di tutte le letterature. A Lei tutta via va data lode per la coscienza con cui seppe riprodurre sulla scena non solo il fatto centrale, ma tutti i particolari e tutte le sfumature psicologiche che nella realtà lo accompagnano. 5  

Lo studioso considera inoltre la «fortunatissima» opera «un piccolo gioiello che ha meritamente varcato in breve tempo i nostri confini, portando all’estero un raggio d’arte 1  Cfr. Martina Damiani, Fabrizio Fioretti, L’esilio degli intellettuali italiani dai territori asburgici: il percorso di Nani Mocenigo, in «Già troppe volte esuli». Letteratura di frontiera e di esilio, ii, a cura di Novella di Nunzio, Francesco Ragni, Perugia, Università di Perugia, 2014, pp. 123-127. Nani è autore di ben dodici drammi, di questi si analizzeranno qui soltanto i cinque più noti e quindi maggiormente presi in considerazione dalla critica; inoltre diverse sue opere teatrali, come Vergogna di vivere, L’ora universale, Amore africano e I delitti impuniti, risultano inedite. Cfr. Felix Philippi, Casa d’Oro, traduzione di Gerolamo Enrico Nani, Zara, Biblioteca Editrice Internazionale, 1913, p. 38. 2   [Anonimo], Bollettino bibliografico, «Rivista d’Italia», iii, 7, 1900, p. 598. 3   A. C., Notizie, «Rivista dalmatica», i, 2,1899, p. 217. 4   L’opera del Bernardini appare solamente come una fonte d’ispirazione secondaria che ha portato lo scrittore zaratino a compiere delle ulteriori ricerche: «il Nani s’invaghì del tema, e ricostruì, con documenti nuovi, attinti dagli incartamenti tribunalizi, il fatto selvaggio nella terribile sua tragicità». Ibidem. 5   Scipio Sighele, Lettera di Prefazione, in Gerolamo Enrico Nani, Una tempesta nell’ombra. Dramma in un atto, Roma, Voghera, 1899, p. 8. Dalla stessa fonte apprendiamo che Nani dedicò Una Tempesta nell’ombra al Sighele proprio perché fu lui a parlargli dell’assassinio di Lecce, ma quest’ultimo sminuisce la propria influenza elevando la bravura dell’autore nell’essere riuscito a far sì che la sua opera venga «salutata dall’applauso del pubblico». Ivi, p. 7.

martina damiani · fabrizio fioretti 314 italiana». 1 Nella «Rivista dalmatica» viene, infatti, precisato che il dramma, già molto gradito al pubblico italiano, nella traduzione tedesca fu replicato a Francoforte per oltre cinquanta sere consecutive, dimostrando così lo straordinario successo, anche europeo, di quest’opera teatrale. 2 Nonostante l’immediata fortuna di Una tempesta nell’ombra, tradotta in inglese, francese e spagnolo, è curioso scoprire che inizialmente diversi capocomici e primi attori si rifiutarono anche solo di leggere il copione dell’allora sconosciuto autore, per cui passò del tempo prima di ricevere un riscontro positivo dall’attrice Pia Marchi Maggi, la quale riconobbe la potenzialità di quello che sarebbe diventato il capolavoro di Gerolamo Enrico Nani. 3 Un capolavoro che sarà lodato, tra gli altri, da Edmondo De Amicis che lo definirà un «dramma semplice e potente»; da Giulio Piccini, il quale lo descriverà come «una rivelazione di un non comune ingegno di drammaturgo»; da Virginia Marini e Giovanni Bovio, infine, che ne parleranno come di un’opera «genialissima» e ammaliatrice. 4 Nel 1900 esce un altro dramma degno di nota, Malocchio, che ottiene la simpatia del pubblico sin dalla sua prima rappresentazione, a Roma, al Teatro Valle. 5 Nell’introduzione alla pièce, l’autore non manca di sottolineare che tra le altre opere eseguite presso lo stesso teatro soltanto la sua destò un particolare interesse:  









Al Valle erano cadute le otto novità francesi e, caso singolare, invece, una sola, pervenuta modestamente alla ribalta, l’italiana, la mia, incontrò il favore del pubblico. 6  

Nello spazio Commedie e drammi, che compare tra le pagine della «Rivista d’Italia» del 15 giugno 1900, il recensore ricorda che nella versione a stampa venne inserito anche un quarto atto, assente nella prima stesura, e dichiara che questa aggiunta «è destinata ad accrescere il successo del dramma»: Come condotta scenica il lavoro raggiunge una grande e√cacia, l’azione è rapida, serrata; l’attenzione è fortemente incatenata allo svolgimento dei fatti; il dialogo è disinvolto, privo di ogni convenzionalità, lo stile è forbito e tale da dare giusto risalto ai vari momenti dell’azione. 7  

Oltre agli indubbi pregi stilistici, il commediografo Lodovico Muratori, nella lettera di prefazione al dramma, evidenzia il merito del Nani nell’aver aπrontato sulla scena italiana il problema della superstizione: Mancava dunque un’opera letteraria viva, studiata lungamente nei nostri paesi nelle nostre case, che esposta con verità, presentasse al pubblico tutto il ridicolo di un pregiudizio degradante, abietto e dannoso. 8  

L’argomento dell’opera, basato sulla sorte di un medico forestiero che dopo la morte di una bambina viene etichettato come uno iettatore, presenta in modo critico un aspetto, quello della superstizione, insito nella tradizione popolare italiana, per cui la bravura dell’autore diventa, per il Muratori, ancora più evidente: 1

  Ibidem.  Cfr. A. C., Notizie, «Rivista dalmatica», cit., pp. 217-218.  Cfr. Giuseppe Cauda, Chiaroscuri di palcoscenico. Ricordi – aneddoti – impressioni, Savigliano, Tipografia Galimberti, 1910, pp. 182-184. 4  Cfr. Giudizi letterari in Sudermann Hermann, Johannes, traduzione di Gerolamo Enrico Nani, Roma, Dante Alighieri, 1900, p. 115. 5   Gerolamo Enrico Nani, Preambolo, in Idem, Malocchio. Dramma in quattro atti, Roma, Voghera, 1900, p. 5. 6   Gerolamo Enrico Nani, Malocchio, cit., p. 5. La seconda città a ospitare il dramma è Napoli e l’opera ottiene, ancora una volta, un grande successo nonostante il timore dell’autore che essa non venisse accolta con approvazione in un luogo dove la superstizione era ancora molto forte tra la popolazione. Cfr. Presentazione dell’Editore, in Gerolamo Enrico Nani, Nuovi tempi, Milano, La Poligrafica, 1902, p. xx. 7   [Anonimo], Commedie e drammi, «Rivista d’Italia», iii, 6, 1900, p. 367. 8   Secondo il Muratori tale problematica è stata già esposta dallo scrittore francese Théophile Gautier nel suo breve romanzo Jettatura, ma mancava un simile approccio nella letteratura italiana. Lodovico Muratori, Lettera di Prefazione, in Gerolamo Enrico Nani, Malocchio, cit., pp. 8-9. 2 3

la ricezione critica delle opere teatrali del letterato nani

315

Ella, egregio signore, coraggiosamente si è posta all’opera, e conservando le tradizioni della nostra buona ed antica arte italiana, ha, in forbito stile, scritto Malocchio, dramma interessante, utile, onesto, pienamente riuscito, come lo dimostra il trionfo che ottenne sulle principali scene d’Italia. 1  

Dello stesso parere è anche Marco Praga, che evidenzia il coraggio dell’autore nell’aπrontare con tanta abilità un tema, quello del malocchio, «così poco simpatico e sì povero di risorse sceniche». 2 Molti sono ancora i giudizi positivi che si possono leggere su questo dramma e il più importante è certamente quello di Edmondo De Amicis, che dichiara di essersi avvicinato a quest’opera con «trepidazione» ma che, una volta letta, non ha potuto che constatare l’ingegno e l’abilità drammaturgica dell’autore. 3 Le recensioni entusiastiche vanno di pari passo con lo straordinario successo che questo dramma ebbe, non solo in Europa, ma anche oltre oceano. Alla pubblicazione in volume del 1900 fanno infatti seguito la traduzione in inglese della scrittrice americana Marie Walsk e la fortunata rappresentazione del dramma presso i teatri di Brooklyn e New York. 4 Dopo un simile riscontro nel pubblico e nella critica, non passa inosservato neanche il dramma dal titolo Urla, urla!... Scene marinaresche (1902). Nella prefazione, l’editore ricorda l’ambientazione della trama a Porto Recanati, proprio di fronte alle «patrie rive dell’Autore, che della Patria sua è decoro e vanto». 5 Il vanto degli zaratini si riflette nell’assiduità con cui lo scrittore è nominato nei periodici in Dalmazia; 6 in particolare, si parla del dramma appena citato nel giornale «Il Dalmata» del 2 maggio 1900 che, nello spazio intitolato I lavori drammatici di un nostro concittadino, riporta i giudizi tratti dall’«Opinione» di Roma e ricorda come «le note scene marinaresche» furono «accolte con tanto favore del pubblico italiano». 7 La recensione in questione si ricollega alla fama ottenuta in Italia e all’estero con la rappresentazione dell’opera, avvenuta per la prima volta a Roma nel 1899:  











L’Urla, urla! … ebbe il suo battesimo a Roma […] fra tante messe di repliche e di applausi, onde l’eco se ne ripercosse subito anche al di là dei confini; dove, poco di poi, il forte dramma, tradotto il lingua tedesca dal dott. Massimiliano Claar, otteneva un nuovo trionfo. E meritamente. 8  

La rinnovata riuscita di un dramma di Nani sulle scene tedesche si riferisce al già citato successo riscosso un anno prima a Francoforte con Una tempesta nell’ombra. 9 Visti gli ottimi risultati ottenuti, nel 1902 la commedia satirica Nuovi tempi esce con una Prefazione incentrata sulla crescente notorietà dell’autore che rende necessaria la stesura  

1   Ivi, p. 9. Anche nella seconda lettera, firmata dal dottore Silla Passarini, si ricorda il trionfo dell’opera: «alla soddisfazione degli applausi e delle lodi che la Sua opera in ogni tempo e in ogni luogo meritamente riscosse, aggiunga il premio più caro: – quello di veder altri valorosi dalla scena, dalla cattedra, dalla stampa, seguirla in questa nobilissima missione». Silla Passarini, Lettera di Prefazione, in Gerolamo Enrico Nani, Malocchio, cit., p. 12. 2 3   Marco Praga, Giudizi letterari, in Sudermann Hermann, Johannes, cit., p. 116.  Ivi, p. 117. 4   Emanuel Fenzi, Notizie, «Rivista dalmatica», ii, 1, 1900, p. 112. 5   Prefazione dell’Editore, in Gerolamo Enrico Nani, Urla, urla!... Scene marinaresche in due parti e un intermezzo, Trieste, Ferretti, 1902, p. 7. 6   Per i numerosi articoli sullo scrittore che escono nei periodici zaratini la «Rivista dalmatica» e «Il Dalmata», cfr. Nedjeljka Balić-Nižić, Girolamo Enrico Nani, in Scrittori italiani a Zara negli anni precedenti la prima guerra mondiale (1900-1915), a cura di Rita Tolomeo, Roma, Il Calamo, 2008, pp. 125-129. 7   [Anonimo], I lavori drammatici di un nostro concittadino, «Il Dalmata», xxxv, 35, 1900, p. 3. 8   Prefazione dell’Editore, in Gerolamo Enrico Nani, Urla, urla!... cit., p. 7. 9   Una tempesta nell’ombra debuttò a Francoforte proprio nel giorno in cui venne uccisa l’imperatrice d’Austria, Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, pugnalata da un italiano. Il traduttore dell’opera e Nani, che erano presenti a teatro, temevano che il pubblico avrebbe dimostrato una certa ostilità nell’assistere a un dramma di un italiano, che terminava con la scena di un uomo che uccideva una donna. L’opera fu invece accolta dall’applauso del pubblico, cosa che confermerebbe, secondo l’editore, il valore artistico dell’autore. Cfr. Presentazione dell’Editore, in Gerolamo Enrico Nani, Nuovi tempi, cit., pp. xviii-xix.

martina damiani · fabrizio fioretti 316 della sua prima biografia, che è la più completa, e pur tuttavia lacunosa, ricostruzione della vita dello scrittore dalmata, che secondo l’editore «era degno assai prima d’ora d’esser meglio conosciuto» 1. Il nuovo dramma viene così classificato come «il maggior lavoro del Nani» particolarmente significativo per la satira rivolta alle classi sociali più agiate, resa attraverso la smania di arrivismo di un giovane avvocato che per far carriera trascura la famiglia. 2 Il finale dell’opera, che vede l’uomo pentito e consapevole dei propri errori in seguito alla morte della figlia, conterebbe, secondo una recensione comparsa nel periodico «Il Dalmata», «scene di toccante bellezza», che la rendono un «capolavoro, degno senza dubbio di grande elogio». 3 Nonostante le lusinghiere opinioni, la commedia non ottiene l’esito sperato e dalla sua uscita passeranno ben nove anni prima di vedere pubblicato un altro lavoro di Nani, l’ultimo: il bozzetto drammatico in un atto La voce del sangue (1911). Nella trama compaiono unicamente due personaggi (al contrario dei ventisette di Nuovi tempi) la figura di un padre premuroso che, rimasto vedovo, vive per la figlia. 4 La sua serenità appare ostacolata dalla scoperta di alcune lettere d’amore della moglie che lo fanno sospettare che la bambina non sia sua figlia, dubbio che tuttavia passa in secondo piano quando questa, giocando, rischia di annegare. Nella Presentazione del dramma, il Conte Giuseppe Cesare Barbavara di Gravellona elogia la «struttura semplice» del componimento, che conduce il lettore (o lo spettatore) a «una conclusione imprevista e insperata». 5 L’opera è ritenuta di un «reale valore letterario», per cui all’autore viene augurato di «ottenere nella schiera degli scrittori di teatro quel posto cui ha diritto di aspirare per forza di ingegno e per invitta costanza di lavoro». 6 Il suo contributo in ambito teatrale è apprezzato anche per le traduzioni dal tedesco all’italiano dei drammi degli autori più conosciuti di allora, tra cui spicca il nome di Hermann Sudermann. 7 Nani acquista la fiducia e la stima del celebre scrittore tedesco con la traduzione del Johannes (1900), che diviene nota in Italia proprio grazie alla sua versione, pubblicata inoltre da Giuseppe Chiarini sulla «Rivista d’Italia». 8 Sudermann lo sceglie come suo unico traduttore italiano autorizzato, lasciandogli «ampia libertà di adattamento alle scene italiane» e ne elogia la riscrittura, come sottolinea il drammaturgo stesso in una lettera indirizzata a Nani: «Ella, con forza sinceramente poetica e creatrice, ha riedificato nella di Lei bella lingua ciò ch’io aveva tentato di fabbricare nella mia». 9 La riuscita dell’opera nella versione italiana può essere riassunta nel parere di Ernesto Mezzabotta, il quale dichiara che lo scrittore, eseguendo la traduzione «in modo perfetto», «elevò a poesia persino le descrizioni». 10 Grazie alla sua notorietà come autore e traduttore di opere teatrali, il Nostro ottiene addirittura una propria collana editoriale intitolata Collana drammatica di Gerolamo Enrico Nani, che conta, oltre alle sue opere più note, anche le sue notevoli traduzioni.  



















1

2   Ivi, p. ix.   Ivi, p. xxiv.   [Anonimo], Una nuova commedia del Nani, «Il Dalmata», xxxvi, 100, 1901, p. 1. L’articolo esalta, in generale, la capacità del drammaturgo di trattare temi molto di√cili e sottolinea i suoi «progressi nella tecnica e nello spirito di osservazione e di analisi». Ibidem. 4   A proposito della presenza sulla scena soltanto del padre e della figlia, il critico che firma la prefazione all’opera si stupisce della capacità dell’autore di creare, «con due soli personaggi», «un intreccio ed una soluzione, che abbiano tanta virtù d’incatenare l’attenzione e di commuovere l’animo». Giuseppe Cesare Barbavara di Gravellona, Prefazione, in Gerolamo Enrico Nani, La voce del sangue. Bozzetto drammatico in un atto, Torino, O√cina Poligrafica Editrice Subalpina opes, 1911, p. 15. 5 6   Ivi, p. 16.   Ibidem. 7   Oltre alla tragedia intitolata Johannes, Nani ha tradotto anche i seguenti drammi dell’autore tedesco: Sudermann Hermann, I fuochi di San Giovanni, Milano, La Poligrafica, 1901; Idem, Evviva la vita, Milano, Treves, 1902; Idem, Pietra fra pietre, Milano, Treves, 1906; Idem, Sylvia, Roma, Stabilimento tipografico cromo-litografico, 1908; Idem, Rose. Trilogia, Milano, Biblioteca Teatrale, 1909; Idem, L’idolo, Roma, Nuova Antologia, 1909. 8   Gli atti della tragedia escono in cinque numeri della «Rivista d’Italia», dal 15 maggio al 15 agosto del 1900. 9   Presentazione dell’Editore, in Gerolamo Enrico Nani, Nuovi tempi, cit., p. xxiii. 10   Ernesto Mezzabotta, Drammi e commedie, «Rivista d’Italia», iii, 8, 1900, p. 742. 3

la ricezione critica delle opere teatrali del letterato nani

317 Il successo che ha contraddistinto la carriera letteraria di quest’autore e che, come si evince dalla nostra analisi, è testimoniato dai giudizi positivi della critica, oggi risulta invece quasi completamente ignorato. È dunque in qualche modo paradossale costatare che non si registrano studi più approfonditi su questo drammaturgo zaratino dopo il 1915, anno della sua dipartita. 1 In altri termini: nonostante i trionfi ottenuti e l’apprezzamento da parte di letterati del calibro di Edmondo De Amicis, il teatro di Gerolamo Enrico Nani sembra esser morto con lui.  

1   L’unico studio che presta attenzione all’attività drammaturgica dello scrittore dalmata è il già citato saggio di Nedjeljka Balić-Nižić, Girolamo Enrico Nani, cit., pp. 127-129. La scarsa considerazione per quest’autore potrebbe essere dovuta al fatto che le sue opere teatrali non hanno avuto riedizioni, rendendo di√cile anche la sola consultazione di quei pochi libri sparsi per le biblioteche italiane.

FRANCESCO DE SUPPÉ DEMELLI: MUSICA E POETICA DELLA LEGGEREZZA Claudio D’Antoni

F

rancesco de Suppé Demelli, noto a un vasto pubblico con nome e cognome germanizzati, Franz von Suppé, ebbe i natali nel 1820 in una famiglia di ascendenza belga stanziatasi a Cremona da più generazioni. Come luogo di nascita del celebre musicista viene indicata la città di Spalato, benché le attestazioni documentino la sua venuta al mondo su una nave in prossimità della costiera dalmata nell’occasione di uno dei viaggi di lavoro del padre. Come usava allora, gli vennero attribuiti numerosi nomi di battesimo, per cui il neonato fu registrato come Francesco Ezechiele Ermenegildo Cavaliere Suppé Demelli. 1 Favorevoli condizioni ambientali e familiari propiziarono l’accostamento del de Suppé, ancora in età scolare, all’arte dei suoni; a undici anni iniziava a seguire corsi regolari di flauto e di armonia. A tale impegno precoce corrisposero risultati fruttuosi, evidenze di una personalità artistica tutta da coltivare. Già nel 1835, sulla scia dell’apprezzamento di una sua breve composizione intitolata Der Apfel (La mela), eseguita in un contesto privato nel 1834, presso la Chiesa francescana di Zara veniva eseguita un’importante composizione di genere sacro del compositore ancora quindicenne, la Missa dalmatica (1835). Nonostante le esternazioni artistiche testimoniassero di un potente talento innato, intendendo farne un professionista forense, venne obbligato dal padre all’iscrizione all’Università di Padova per seguire un severo percorso giuridico. Negli ambienti della città veneta, in quel periodo animata da una certa vivacità culturale, entrò in contatto con quelle che sarebbero divenute due figure di riferimento per la sua formazione, i maestri Giovanni Ferrari e Giuseppe Cigala (1805-1857). 2 Da quel periodo e per l’intera esistenza intraprese un vorticoso, incessante lavoro compositivo. Dopo la scomparsa del padre, la madre, rimasta la sola guida del figlio, decise di trasferirsi a Vienna, dove venne raggiunta dal musicista, dopo un breve lasso di tempo. Nella capitale austroungarica il giovane artista raggiungeva l’età in cui si è chiamati a scegliere la strada professionale, nel suo caso, entro una rosa di possibilità congruenti a quello che la realtà oπriva, la carriera di stampo piccolo-borghese – e in qualche modo rassicurante – dell’insegnamento dell’italiano, quella ricca di soddisfazioni – benché lontana dal mondo artistico – della professione medica, o quella della musica, la più di√cile. Giocò a favore della scelta di quest’ultima l’essere divenuto studente di Seyfried, celebre direttore d’orchestra viennese. 3 Dopo essere stato per un breve periodo il sostituto di  





1  The New Grove Dictionary of Music an Musicians, a cura di Stanley Sadie, xxiv, New York, Macmillan, 2001, p. 717 s. 2   Die Musik in Geschichte und Gegenwart, Allgemeine Enzyklopädie der Musik, a cura di Friedrich Blume, xii, Kassel, Bärenreiter, 1965, p. 1754 sg. 3   Ignaz Xaver Ritter von Seyfried (Vienna, 1776-1835) fu un celebre compositore, direttore d’orchestra e didatta, fratello del drammaturgo Joseph. Secondo diverse fonti avrebbe studiato pianoforte con Mozart e Kozeluch, composizione con Albrechtsberger e Winter, dedicandosi per un breve periodo anche a studi filosofici presso l’Università di Praga. Dal 1797 divenne direttore presso il Freihaus-Theater di Schikaneder e successivamente presso il Theater an der Wien. Diresse nel 1805 la prima del Fidelio beethoveniano. Si occupò della riorchestrazione e della rielaborazione di lavori di compositori dei secoli precedenti. Cfr. The New Grove Dictionary of Music and Musicians, a cura di Stanley Sadie, xxiii, New York, Macmillan, 2001, p. 184.

francesco de suppé demelli: musica e poetica della leggerezza

319 questi, venne ingaggiato come direttore d’orchestra al Theater Josephstadt, anche se per incarichi non remunerati. Dopo i primi impegni direttoriali a Presburgo e Baden, intorno al 1862 il suo nome entrò stabilmente nel cartellone di alcuni teatri viennesi di un certo rilievo, il Theater an der Wien, il Theater Quai e il Theater Leopoldstadt e, verosimilmente, alla sua presenza stabile su quei palcoscenici si deve il suo definitivo proporsi con nome e cognome in versione germanizzata. Nel 1844 fu rappresentata una sua composizione su un testo shakespeariano, Sommernachtstraum 1 (Sogno d‘una notte d‘estate), cui seguì Der Krämer und sein Commis (Il droghiere e il suo commesso). Nel 1847 fu in cartellone al Teatro an der Wien, dove nel mese di agosto ebbe luogo la prima di Das Mädchen vom Lande (La ragazza di campagna), il suo primo vero successo. Dieci anni più tardi (1858) il suo Singspiel Paragraph drei (Paragrafo tre) contribuì a diπonderne la fama nel Nord della Germania; da quel momento prese a produrre ancora più copiosamente. Il musicologo Wurzbach comprende nel catalogo dei lavori di de Suppé due grand opéra, centosessantacinque numeri tra farse, comediettas e vaudevilles, ecc., oltre alla Missa dalmatica e a un requiem eseguito a Zara nel 1860 intitolato L’estremo Giudizio. Alla fine dell’Ottocento alcuni lavori di de Suppé avevano conquistato una certa notorietà fuori dalla Germania; tra essi la gustosissima Fatinitza, operetta che debuttò a Vienna nel gennaio 1876, ripresa all’Alhambra Theatre di Londra nel 1878 e presso il Nouveautés Théâtre di Parigi nel marzo del 1879. La sua operetta più significativa del periodo è Boccaccio, rappresentata per la prima volta nel 1879 e replicata a Londra presso il Comedy Theatre nel 1882. L’ouverture Dichter und Bauer (Il poeta e il contadino) rimane il suo lavoro più noto; già all’epoca fu oggetto di numerose trascrizioni per diversi organici strumentali pubblicate principalmente a Monaco di Baviera e a Württemberg. Dopo un’esistenza di successi, de Suppé morì a Vienna nel 1895. Di de Suppé il musicologo Wurzbach cataloga quarantanove opere che solo in parte riesce a riferire a una cronologia precisa. Un altro elenco di ventuno lavori è proposto da Pougin nel suo supplemento al lavoro enciclopedico di Fétis, benché i titoli siano riportati solo in francese e relazionati a date spesso non del tutto congruenti con le risultanze biografiche. Alcune pièces di de Suppé sono, nella sostanza, riprese in chiave comica di opere del grande repertorio. Due esempi emblematici sono il Tannenhauser, parodistico anche nel titolo, dove è dato leggere una storpiatura del Tannhäuser wagneriano, e Dinorah, oder Die Turnerfahrt nach Hütteldorf (Dinorah, ovvero La gita sportiva a Hütteldorf). Per la particolarità del tema è da segnalarsi il Singspiel dal titolo Franz Schubert, il cui soggetto è basato sulla biografia dell’autore viennese, un lavoro nella cui costruzione musicale compaiono esclusivamente spunti tutti tratti dai lieder del compositore viennese prematuramente scomparso. Nel Lexikon di Eiermann a de Suppé viene attribuito un numero incredibilmente cospicuo di composizioni nel prediletto genere operettistico, addirittura centottanta creazioni originali. L’operetta viennese si aπerma nei paesi di lingua tedesca in seguito al successo riportato dai lavori di Oπenbach, nato a Colonia nel 1819, creatore dello specifico genere, del quale già nel 1856 era stata rappresentata nella capitale asburgica l’operetta Les deux aveugles (I due ciechi), seguita da numerosi altri titoli, nonché sulla scia dell’entusiasmo suscitato dalle opere degli altri compositori francesi che riempivano i cartelloni dei numerosi théâtres de boulevard.  

1

  The New Grove Dictionary of Opera, a cura di Stanley Sadie, iv, New York, Macmillan, 1994, pp. 603-606.

claudio d’antoni 320 A un confronto tra operetta parigina e operetta viennese si nota nella seconda una funzionalità emancipata della musica e l’adozione di forme musicali quali il valzer, il Lied, di danze da salotto di vario tipo, oltre alla ricorrenza di finali d’atto d’estensione alquanto ragguardevole. Per contro, in essa si ravvisa una riuscita meno e√cace di scene e dialoghi, non disgiuntamente dalla non e√cace rilevanza conferita ai pretesti ripresi nelle trame e trasferiti nelle linee musicali mediante una qualche corrispondenza analogicoimitativa tra eπetti sonori e narrazione. È palese che gran parte dei testi venissero presi da commedie francesi. Le trame originali venivano definite lokal quando il soggetto era di ambientazione popolare urbana o contadina. Tra i maggiori librettisti assurse a una certa notorietà Camillo Welzel, noto come F. Zell, spesso in coppia con Richard Genée. Altri autori alquanto noti furono Marie Geistinger e Alexander Girardi. Per l’influsso dell’operetta viennese, nacque in seguito la più aspra operetta berlinese. Alcuni studiosi individuano le ragioni della diπusione di tale genere principalmente nell’interesse per le farse popolari (Possen), se non anche nell’adesione ai canoni del Singspiel, il genere teatrale nazionale in lingua tedesca a cui Mozart fornì l’importante contributo del Zauberflöte. L’origine dell’operetta viennese viene riportata al 1871 e precisamente al lavoro intitolato Indigo (Indaco) di Johann Strauss figlio; una configurazione più matura viene messa a fuoco nel 1874 con l’operetta Die Fledermaus (Il pipistrello) dello stesso autore, essendo ormai consuete le rappresentazioni di lavori nello specifico genere al Theater an der Wien e al Carltheater. Boccaccio è un’operetta in tre atti di Francesco de Suppé su testo di Zell (Camillo Welzel) e Richard Gené su un racconto di Bayard, de Leuven, Brunswick e de Beauplan, una libera rielaborazione a più mani di alcune suggestioni del Decamerone di Boccaccio. La prima esecuzione fu data al Carltheater di Vienna il 1 febbraio 1879. Una domenica mattina, come di consueto, una folla di gente va ad assistere alla messa nella chiesa fiorentina di Santa Maria Novella. Nell’occasione, Boccaccio (mezzosoprano) si camuπa da mendicante per avvicinare Fiammetta (soprano), figlia del Duca di Toscana e figlioccia del droghiere Lambertuccio (baritono). Boccaccio si compiace nel basare le proprie storie di intrighi amorosi su vicende reali, con grande scandalo dei fiorentini, dipinti come uomini fedifraghi. Per tale motivo essi decidono di liberarsi dello scomodo scrittore, con la determinazione di fare dei suoi libri un falò. Nel secondo atto Boccaccio, travestito da contadino, in combutta con una comitiva di studenti suoi complici di burla, si presenta ai cortigiani di Lambertuccio e del bottaio Lotterenghi (baritono). Deve riuscire a persuadere Lambertuccio che uno dei suoi alberi è magico. Può avvalersi dei suoi servigi per coprire i suoi amici Leonello (baritono) e Pietro (tenore) nello spingere al tradimento dei rispettivi consorti le mogli di Lambertuccio e di Lotterenghi, Beatrice (soprano) e Isabella (contralto), mentre Boccaccio deve riuscire a rimanere solo con Fiammetta. Nel terzo atto, in una sala viene celebrato il matrimonio tra Fiammetta e Pietro, che a un certo momento si scopre essere il Principe di Palermo sotto mentite spoglie. A Boccaccio viene chiesto di occuparsi del trattenimento nuziale al cospetto degli ospiti. Fiammetta è stupita nell’apprendere che il giovane da lei amato è il famoso autore satirico, mentre i cittadini sbugiardati impallidiscono per la sua presenza. In conclusione, Boccaccio convince i presenti del valore di testimonianza e della portata umoristica dei suoi scritti, e la morale, tipicamente da commedia dell’arte, induce Pietro a concludere che l’uomo che Fiammetta deve sposare è l’uomo che sinceramente ama: Boccaccio. In un’opera ricca di parti comiche i numeri più rilevanti includono la tenera espressione sentimentale di Fiammetta al cospetto dell’amato Boccaccio (Hab’ich nur deine Liebe – Ho solo il tuo amore –), la narrazione comica del rumore prodotto dalla costruzione delle

francesco de suppé demelli: musica e poetica della leggerezza

321 botti per mano di Lotterenghi che viene a coprire il brontolio della moglie (Tagtäglich zankt ein Weib – Ogni giorno mia moglie strepita –), e il valzer duettato di Boccaccio e Fiammetta nel terzo atto (Florenz hat schöne Frauen – Firenze ha belle donne –). Primi interpreti di questa operetta furono Antonie Link nella parte di Boccaccio, Rosa Streimann in quella di Fiammetta e Karl Blasel in quella di Lambertuccio. Fatinitza è un’operetta in tre atti su un libretto di Zell e Richard Gené ispirato alla commedia di Eugéne Scribe La Circassienne; fu rappresentata per la prima volta a Vienna al Carltheater il 5 gennaio 1876. Durante la Guerra di Crimea (1853-1856) il generale russo Kantschukoπ (basso) s’infatua di una giovane donna di nome Fatinitza. In realtà Fatinitza è un giovane luogotenente, Wladimir (mezzosoprano), che si è travestito da donna per spingere la sua fidanzata Lydia (soprano), nipote di Kantschukoπ, a sottrarsi allo sguardo vigile dello zio. Mentre è camuπato Wladimir viene catturato dal nemico e in men che non si dica, sotto quelle mentite spoglie, si ritrova in un harem turco. La peripezia è svolta sugli equivoci che si sviluppano in un trattamento brillante prima che Kantschukoπ si convinca che Fatinitza non esiste e che Wladimir e Lydia intendono sposarsi. La prima esecuzione del Singspiel fu data con Antonia Link nella parte di Wladimir, Hermine Meyerhoπ nella parte di Lydia, Wilhelm Knaak nel ruolo di Kantschukoπ. Detto lavoro è noto per la marcia Vorwärts mit frischem Muth (Avanti con coraggio ritemprato). L’operetta Die schöne Galathee (La bella Galatea), in un atto, è composta su testo di Poly Henrion, pseudonimo di Kohl von Kohlenegg; fu rappresentata per la prima volta al teatro Meysel’s di Berlino il 30 giugno 1865. Lo scultore Pigmalione (tenore) ha realizzato la statua di una bella donna, Galathea, e il ricco collezionista d’arte Mydas, (buπe baritone) desidera acquistarla. Pigmalione non vuole cedergliela. Desidera che la sua creatura possa divenire un essere reale e prega Venere a√nché essa venga alla vita. A un certo punto, Galatea (soprano) si anima, ma, pur dotata di una bellezza speciale, è una causa continua di guai di svariata natura, problematiche che si verificano in occasione dei suoi incontri con Ganimede (mezzosoprano), servo di Pigmalione, poi durante la trasformazione di pietre in gioielli a opera dei poteri di Mydas, in occasione del suo gustare il vino e in ogni sua altra bizzarria. Pigmalione arriva a pregare la divinità che Galatea ridiventi una statua di pietra, una supplica che viene esaudita in una maniera così letterale che i gioielli di Mydas tornano a essere anch’essi pietra. Solo a questo punto Pigmalione è felice di vendere la statua a Mydas. Per la verve scenica e per la riuscita dell’impalcatura musicale tale lavoro rappresenta una valida risposta viennese a Oπenbach. La ricca vena melodica di Suppé si libera nella sua composta e peculiare maniera umoristica in numerose pagine, ad esempio nell’aria di Mydas Meinem Vater Gordios (Al padre mio Gordios), in occasione del risveglio di Galatea nell’aria Sie regt sich, sie erwacht (Si muove, si sveglia), nella sua canzone dell’ebbrezza Hell im Glas (Luce nel bicchiere), nel solo di Ganimede Wir Griechen (Noi Greci), nel trio dei gioielli Seht den Schmuck (Vedete che gioielli), e nel duetto in cui Ganimede bacia Galatea Ach, mich zieht’s zu dir (Oh, io sono attratto da lei). Alla prima esecuzione, data a Vienna il 30 giugno 1865 presso il Carltheater, nella parte di Ganimede cantò Anna Grobecker.

LA ‘GRAMMATICA DEL GIUDIZIO’: APERTURE A OPZIONI NON PURISTICHE NELLA GRAMMATICA DELLA LINGUA ITALIANA

DI GIOVANNI MOISE Francesco Sestito

N

egli studi dedicati alla speculazione grammaticale e alla produzione di grammatiche della lingua italiana nel secondo Ottocento l’opera, pur imponente, dell’abate dalmata Giovanni Moise non ha mai goduto di una grandissima considerazione. Due studi fondamentali quali Ciro Trabalza, Storia della grammatica italiana, Bologna, Forni, 1963 e Giuseppe Patota, I percorsi grammaticali, in Storia della lingua italiana a cura di Luca Serianni, Pietro Trifone, vol. i. I luoghi della codificazione, Torino, Einaudi, 1993, pp. 93137 non si soπermano infatti sul contributo, pur rilevante per contenuti e mole di lavoro, del religioso dalmata. 1 In realtà, pur penalizzata da un successo di pubblico probabilmente inferiore ai suoi meriti (avrà anche inciso la mole dell’opera nell’edizione maggiore), 2 la grammatica di Moise attira legittimamente l’attenzione da molteplici punti di vista. È bene chiarire che in questa sede, dato anche il limitato tempo a disposizione, non si intende assolutamente dare un quadro esaustivo sull’argomento, piuttosto fornire alcuni spunti di riflessione e richiamare l’attenzione su alcuni aspetti particolari, soprattutto sulle moderate aperture a opzioni antipuristiche riscontrabili nell’opera. Si impone una considerazione di ordine filologico: Moise dedicò alla scrittura di grammatiche un’ampia parte della sua vita, circa quattro decenni, e i risultati della sua attività si possono così sintetizzare: la Grammatica della lingua italiana pubblicata a Venezia nel 1867, ponderosa opera di più di mille pagine divisa in tre volumi, e ispirata a criteri eterodossi per quanto riguarda l’ortografia (infatti Moise accolse temporaneamente le proposte di riforma ortografica formulate dal linguista e lessicografo Giovanni Gherardini, che auspicava, per scarsa considerazione nei confronti della pronuncia corrente e per ossequio al modello latino, grafie come abandonare con una b o commune con due m); 3 una seconda edizione che vide la luce a Firenze nel 1878, stavolta rinunciando all’ortografia gherardiniana per tornare a quella più usuale; una versione ridotta, soprattutto a uso delle scuole, data alle stampe nel 1881 e poi, dopo la morte dell’autore, nel 1889. In questo contributo si fa riferimento all’edizione fiorentina del 1878. 4 Come accennato, non è questa la sede adatta per un’analisi approfondita della gram 







1   Alcune utili considerazioni sulla grammatica di Moise sono invece contenute in Luca Serianni, Il secondo Ottocento: dall’Unità alla prima guerra mondiale, in Storia della lingua italiana a cura di Francesco Bruni, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 66-67. 2   L’opera di Moise «non ebbe grandissimo successo nella scuola» secondo Luca Serianni, Il secondo Ottocento, cit., p. 66. D’altronde, il buon numero di ristampe depone a favore di una buona fortuna editoriale. 3   Cfr. Luca Serianni, Il primo Ottocento: dall’età giacobina all’Unità, in Storia della lingua italiana a cura di Francesco Bruni, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 53-54. 4  Giovanni Moise, Grammatica della lingua italiana dedicata ai giovani studiosi, seconda edizione corretta e accresciuta, 3 voll., Firenze, Tipografia del Vocabolario, 1878.

la ‘grammatica del giudizio’

323 matica moisiana. Penso tuttavia che si possano legittimamente identificare due caratteri fondamentali: il primo è una sorta di intelligente eclettismo, per cui l’autore non si limita a corroborare le sue aπermazioni con una nutritissima messe di esempi d’autore (dai più classici fino ai contemporanei), ma trae interi brani da opere grammaticali a lui precedenti, qualora le ritenga utili e condivisibili per la trattazione dei singoli fenomeni, e in non pochi casi seleziona l’esposizione che considera migliore dopo averne accuratamente confrontate diverse. Ad esempio, a proposito dell’interpunzione, Moise aπerma «nessuno, ch’io sappia, ha trattato dell’interpunzione meglio che il Gherardini; e però ho creduto bene di qui arrecare parola per parola quanto egli ne scrisse nell’Appendice alle Grammatiche italiane, p. 572 e segg.», 1 a cui segue una lunga citazione di numerose pagine. La seconda caratteristica identificabile nella trattazione grammaticale di Moise è quella che mutuando un’espressione usata dallo stesso autore si potrebbe definire ‘grammatica del giudizio’, ossia l’equilibrio fra posizioni puristiche e conservatrici e aperture a relative innovazioni, talvolta consacrate dall’uso coevo ma non dalla lingua degli autori classici. Un primo esempio si può cogliere già all’inizio dell’opera, riguardo la denominazione delle lettere dell’alfabeto. Il tipo ‘bi’, ‘ci’, ecc. per alcune consonanti era in origine solo fiorentino, dato che nel resto d’Italia si pronunciava per lo più ‘be’, ‘ce’, ecc.; si tratterebbe anzi di uno dei casi – a dire il vero, molto rari – in cui un fiorentinismo si estese all’italiano standard in epoca postunitaria. 2 Se nel 1857 la grammatica di impostazione puristica di Basilio Puoti prescriveva solo le forme con ‘e’, Moise nell’edizione veneziana della sua opera ammette, come toscanismi, anche le forme con ‘i’; 3 e nell’edizione fiorentina del decennio successivo l’abate dalmata modifica la sua posizione, mostrando di aver colto un mutamento linguistico avvenuto in quegli anni: 4  







Quelle lettere che hanno due maniere di pronunzia, si pronunziano nella prima maniera da’ Fiorentini e dalla più parte dei rimanenti Toscani, e si pronunziano nella seconda dagli altri popoli d’Italia; sebben l’uso quasi generale d’oggidì sia di pronunziarle da per tutto alla maniera de’ Fiorentini (p. 1).

Si può ora vedere come Moise tratta un argomento tradizionalmente controverso, e rimasto in parte tale fino a oggi, della grammatica italiana, ossia la distribuzione dei pronomi soggetto di terza persona. Se ‘egli’ ed ‘ella’, per limitarsi alle forme singolari, erano l’unica alternativa esistente nella lingua antica, e sono tradizionalmente prescritti da alcune grammatiche scolastiche fino all’epoca contemporanea, è noto come nell’Ottocento si ebbero aperture all’innovativa estensione di ‘lui’, ‘lei’ e ‘loro’, fra cui quella dello stesso Manzoni, che come si sa inserì questi pronomi con funzione di soggetto nell’ultima stesura dei Promessi Sposi. Un buon termine di confronto è dato ancora dalle Regole grammaticali di Puoti, che nel solco della tradizione ammette solo ‘egli’, ‘ella’ e simili; 5 molto meno rigida è la posizione di Moise:  

Fuori dei casi notati sotto il N.° precedente, noi consigliamo i giovani di non adoperare alla sbadata Lui, Lei, Loro in caso retto, e ciò per la ragione da noi altrove accennata, che dove la lingua somministra tali modi da provvedere alla chiarezza del discorso, troppo è mal consigliato chi trascura di giovarsene. Purnondimeno chi talvolta si lasciasse per qualsisia cagione scappar dalla penna un Lui, o un Lei, o un Loro, per un Egli, o un Ella, o un Eglino o un Elle, se ne potrebbe scusare (oltrechè coll’odierno uso toscano, seguito ad ogni piè sospinto da valenti scrittori pur toscani) con l’autorità di molti esempj antichi (p. 403). 1

 Giovanni Moise, Grammatica, cit., p. 79.   Cfr. Arrigo Castellani, Italiano e fiorentino argenteo, in Idem, Saggi di linguistica italiana e romanza (1946-1976), Roma, Salerno, 1980, tomo i, pp. 17-35 (alla p. 34). Cfr. anche Luca Serianni, Il secondo Ottocento, cit., p. 88. 3   La contrapposizione fra i due grammatici è già sottolineata da Arrigo Castellani, op. cit., p. 34. 4   Qui e in seguito si cita da Giovanni Moise, Grammatica, cit. 5   Cfr. Basilio Puoti, Regole elementari della lingua italiana, Milano-Torino, Guigoni, 1860, p. 50. 2

francesco sestito

324

Il grammatico dalmata, insomma, riconosce a ‘egli’ e a ‘ella’ il valore conferito da una tradizione secolare, ma non solo: raccomanda questi pronomi non soltanto per tradizionalismo, ma anche per un principio razionalistico, ossia «dove la lingua somministra tali modi da provvedere alla chiarezza del discorso, troppo è mal consigliato chi trascura di giovarsene»: in altre parole, il fatto di poter distinguere fra pronomi soggetto e complemento presenterebbe vantaggi di natura pratica a cui sarebbe opportuno non rinunciare. D’altro canto, Moise non proscrive del tutto ‘lui’, ‘lei’ e ‘loro’ in funzione di soggetto, avvalorando questa opzione sia con l’uso toscano vivo, sia con l’autorità di «valenti scrittori», dei quali allega numerosissimi esempi – si va da Dino Compagni a Machiavelli a Cellini – e conclude con un’ulteriore professione di antipurismo: Dopo tutti questi esempj (e altri ancora ne potremmo addurre, se pur ce ne bastasse la pazienza ed e’ ne portasse il pregio) basterà egli la fronte ai pedanti di condannar d’errore e giudicar reo di grave peccato dinanzi al tribunale delle lettere chi talvolta nello stile umile o in servigio della rima si facesse lecito di così adoperare Lui, Lei, Loro? (p. 405).

Insomma, Moise assume una posizione equilibrata che mira a conciliare diverse opzioni, e appare lontana dall’oltranza puristica, ma anche dall’opposta e non meno rigida corrente felicemente denominata da Giuseppe Patota «arcadia grammaticale manzoniana» (ossia la tendenza ad assumere come modelli assoluti Manzoni stesso e ancor più l’uso fiorentino popolaresco), ben rappresentata all’epoca da un’opera come la Grammatica della lingua italiana di Policarpo Petrocchi: questa grammatica, neanche a dirlo, raccomanda esplicitamente come pronomi soggetto di terza persona ‘lui’, ‘lei’ e ‘loro’. 1 Sempre per quanto riguarda i pronomi soggetto di terza persona, ma stavolta con riferimento alle forme proclitiche ‘la’ e ‘le’ per ‘ella’ ed ‘elle’, Moise si pone in opposizione alla Crusca – che aveva ritenuto queste forme poco ricorrenti nei grandi autori del passato – e dopo la consueta lista di attestazioni, il grammatico dalmata aggiunge un’altra dichiarazione di sia pur moderato liberalismo, facendo riferimento a una «grammatica del giudizio» posseduta per natura dal parlante e dallo scrivente, e implicitamente considerata un modello più valido, benché empirico, del tradizionale oltranzismo:  

le suddette voci La e Le ben possono adoperarsi per Ella ed Elle, e che non debbonsi avere nel loro uso altri riguardi da quelli che vengon suggeriti, come direbbe il Salvini, dalla Grammatica del giudizio, Grammatica che non s’insegna, ma da natura si riceve, benchè con la lettura de’ buoni scrittori si a√ni e renda perfetta (pp. 381-382).

Quanto a un’altra questione tradizionalmente piuttosto spinosa relativa all’uso dei pronomi, ossia la liceità dell’uso di ‘gli’ con funzione di complemento di termine al femminile singolare o al plurale, Moise, più che condannare senza appello l’estensione di ‘gli’ – come naturalmente aveva fatto prima di lui Puoti 2 – si rifà alla tradizione, ma pur sempre ammettendo qualche deflessione, ancora una volta chiamando in causa sia i «classici esempj» (e non mancano citazioni da autori quali Dante, Boccaccio, Giovanni e Matteo Villani), sia «l’odierna parlata del popolo toscano»:  

Meritamente poi collocano i Grammatici tra gli usi poco regolati il dir Gli per Le in significato di A lei, o per Loro in significato di A loro. Tuttavia chi cadesse in tale abuso se ne potrebbe scusare con l’autorità di classici esempj e con l’odierna parlata del popolo toscano (p. 406).

E ancora, a proposito dell’uso di ‘gli’ con funzione di complemento di termine per la terza persona plurale: 1

  Cfr. Giuseppe Patota, op. cit., pp. 128-130.   Cfr. Basilio Puoti, op. cit., p. 52.

2

la ‘grammatica del giudizio’

325

Noi non neghiamo che quest’uso e abuso possa per avventura alcune volte piacere e dare eziandio un non so che di grazia e di eleganza al discorso, ma a ciò fare sommo giudizio ci vuole e gran pratica della lingua; per la qual cosa crediam bene di consigliare i giovani ad astenersene (p. 407).

Insomma, se l’uso in sé non è propriamente raccomandato, appare ancora risolutivo il principio del ‘giudizio’, nel quadro di una cauta apertura alla sensibilità linguistica del lettore, purché su√cientemente dotato di pratica ed esperienza di lingua. Per chiudere con questa rassegna di esempi di istituti grammaticali, si può vedere la posizione di Moise riguardo a un altro tratto non classico e non puristico, ed entrato nella lingua comune nello stesso Ottocento per influsso toscano (e anche grazie all’avallo manzoniano), cioè la terminazione ‘-o’ alla prima persona singolare dell’indicativo imperfetto: 1  

Sarà pur lecito di adoperare e in verso e in prosa le voci avevo per aveva [...] E qui crediamo bene di avvertire che non solo il verbo Avere, ma qualunque altro verbo potrà terminare in o anzi che in a la prima persona singolare del passato imperfetto dell’indicativo, potendosi dire amavo, temevo, nutrivo. [...] Ma noi consigliamo i giovani di usare piuttosto le voci comuni, e di servirsi di queste altre allora solamente quando le leggi dell’armonia rendessero necessario od almeno utilissimo un tale permutamento. E avvertiamo per ultimo che le voci amavo, temevo, nutrivo, ec., non si sogliono adoperare oggigiorno che nello stil familiare (pp. 459-460).

Anche in questo caso, sebbene lungi dal raccomandare l’opzione innovativa, Moise cerca di relativizzare il suo giudizio: il tipo tradizionale rimane da consigliare, come visto in precedenza, soprattutto ai «giovani» (da supporre meno scaltriti nella pratica linguistica), ma è tollerabile qualche sia pure limitata apertura nei confronti dell’innovazione. Un adeguato termine di paragone può essere rappresentato da un’altra grammatica ottocentesca di stampo puristico, quella di Francesco Soave, per cui il tipo ‘io amavo’ è senza mezzi termini «da doversi fuggire». 2 Per ragioni di tempo e di spazio è impossibile moltiplicare il numero degli esempi, ma anche dai pochi succitati sembra potersi rilevare da parte del grammatico Moise una posizione intelligentemente equilibrata, che non intende rompere con la tradizione ma in determinati casi rimane aperta alla sensibilità linguistica contemporanea, e di saper dosare il giudizio, prendendo le distanze da posizioni estremistiche. Questo equilibrio fra tradizione, supportata da un imponente ma non assolutistico ricorso all’autorità dei classici, e moderata innovazione permette a mio avviso di accostare legittimamente Moise a un altro e più celebre suo conterraneo e contemporaneo, il Tommaseo del Dizionario della lingua italiana. Un’ultima considerazione, forse non inopportuna dato il contesto in cui ci troviamo: l’abate Giovanni Moise, che dedicò buona parte della sua vita alla speculazione grammaticale sull’italiano, nacque nell’isola di Cherso e dalla sua isola si allontanò sempre poco, pur avendo compiuto in gioventù alcuni viaggi nella penisola italiana. Risulta abbastanza significativo che in una posizione geografica apparentemente appartata e periferica questo studioso abbia dato contributi così importanti allo studio della lingua italiana, e abbia manifestato una conoscenza così approfondita della stessa lingua nazionale, sia nella dimensione storica e letteraria sia in quella direttamente ispirata all’uso, tanto più in un’epoca in cui si compì l’unificazione politica italiana, lasciandosi però fuori, per note questioni storiche e politiche, la Dalmazia; e tanto più, verrebbe da dire, in un’epoca in cui studiosi di ispirazione più o meno manzoniana spargevano i proverbiali fiumi d’inchiostro su una presunta identificazione dell’italiano con i dialetti toscani. 3  



1

  Su cui in generale cfr. Arrigo Castellani, op. cit., pp. 33-34.   Cfr. Francesco Soave, Grammatica ragionata della lingua italiana, Napoli, 1828, p. 68. 3   Cfr. in generale Luca Serianni, Il secondo Ottocento, cit., pp. 83-89 (il paragrafo è significativamente intitolato Il trionfo del toscano parlato). 2

NICOLA PETREO DI CURZOLA E LA SUA CULTURA GRECA NEL SALENTO DEL XVI SEC. OGGI DARIO FERTILIO IN DIALOGO CON BETTIZA Fabio Russo

P

er vie trasversali indirette, qui omesse in stesura ridotta, emerge quanto unisce Piccolomini, Vergerio, Bruno in un quadro con Bembo e Della Casa a quel ‘fiorentino’ patrizio originario di Gallipoli stabilitosi a Zollino sulla strada verso Otranto, Sergio Stiso (Zollino 1485-1528 circa), notevole figura di grecista italiano (con l’insigne collega e coevo Giovanni Pellegrino), ‘fiorentino’ per la sua consuetudine con la nazione fiorentina di Lecce attraverso il bibliotecario di Lorenzo il Magnifico Giano Lascaris, visitatore zelante dello studio di lui, piccolo importante scriptorium a Zollino, particolarmente nel 1491 prima del suo viaggio da Otranto per la Grecia, intrapreso alla ricerca di manoscritti richiestigli dal Magnifico. La corrispondenza epistolare di recente emersa fra lo Stiso e l’allievo suo fedele seguace, dà notorietà al Maestro ma mette in luce qui l’allievo grecista (non nominato nei Dizionari storici), Nicola Petreo. 1 Nasce questi il 1486 nell’Isola dalmata di Curzola «che porta lo stesso nome greco e latino dell’isola di Corfù», 2 donde la confusione indotta dal suo frequente farsi precedere il nome dall’appellativo di Corcyraeus, cosa da aver fatto pensare al Legrand  



che egli fosse greco di nascita e originario dell’isola di Corfù. Se le cose stessero veramente così, non si comprenderebbe molto perché il suo Maestro Stiso si complimenti con lui per aver scritto la sua lettera interamente in greco, 3  

lui alle prese con trascrizioni e pazienti correzioni di manoscritti, anche copiati da gente poco esperta, nello Scriptorium a Zollino. Le scarse informazioni biografiche lo vedono comunque impegnato in discorsi e poemi, presente tra Ragusa, Venezia, Bologna, Roma, mentre in Terra d’Otranto trascorre cinque anni all’apprendimento del greco, riferibili al 1518-1520. È noto soprattutto per la sua edizione del De generatione animalium di Aristotele «accompagnato dal Commentario di Jean Philipon, di cui il testo greco apparve a Venezia nel febbraio 1526, seguito qualche mese più tardi da una traduzione latina [nota n. 37]». 4 Di famiglia benestante, da permettergli il suo patrimonio considerevole l’acquisto di manoscritti greci, e munifico lui nell’attendere agli studi, dona infine alla città natale «la copiosa sua biblioteca di greci, latini e volgari autori, lasciandola in custodia ai monaci dello Scoglio della Badia, dove oggi si trovano molti codici vetustissimi», 5 cioè del Convento francescano di Santa Maria di Curzola. Muore a Roma nel 1568, sepolto nella Chiesa di S. Girolamo degli Schiavoni.  



1   André Jacob, Sergio Stiso de Zollino et Nicola Petreo de Curzola. A propos d’une lettre du “Vaticanus gr. 1019”, in Bisanzio e l’Italia, Raccolta di studi in memoria di Agostino Pertusi, Milano, Vita e Pensiero 1982, pp. 154-168, pure in versione italiana Sergio Stiso di Zollino e Nicola Petreo di Curzola. A proposito di una lettera del “Vaticano gr. 1019” in Sergio Stiso tra Umanesimo e Rinascimento in Terra d’Otranto, a cura di Paolo Pellegrino, Galatina, Congedo, 2012, pp. 129-148. cfr. pure ivi, pp. 213-218. 2 3   Sergio Stiso di Zollino e Nicola Petreo di Curzola. […], cit., pp. 128-148.   Ivi, pp. 138-139. 4   Ivi, p. 137. Ora la sua nota n. 37 (omessa nella citazione): «É. Legrand, Bibliographie hellénique ou description raisonnée des ouvrages publiés en grec par des Grecs aux xv et xvi siècles, i, Paris, A. Picard et fils, 1885, pp. 183-187». 5  Ivi, pp. 140-141.

nicola petreo di curzola e la sua cultura greca nel salento

327

Bene in tono su tale cultura le parole di Filippo Melantone, nella ben nota orazione tenuta nel 1518 a Wittenberg, de corrigendis adolescentiae studiis: “In primis hic eruditione graeca opus est”. Il “maestro” della Germania esorta solennemente: “Abbiate il coraggio di sapere, studiate gli antichi latini, fate vostra la cultura greca”. A Norimberga, nel 1526, l’irradiazione dell’umanesimo è delineata con precisione, sia nel suo movimento dall’Italia, anzi da Firenze, verso l’Europa, sia nei suoi eπetti, non solo sul piano letterario, ma anche su quello etico-politico e religioso, 1  

e aggiungerei su quello etnico-territoriale proprio di una geografia dei nuovi stati nazionali di varia identità in crescente movimentata aπermazione, rispetto al senso medievale che superava le diverse aree e parlate nello spirito di un’unità religiosa preminente. Grecità dell’anima nel Salento, anche per il tramite della cultura bizantina. Da qui le nuove prospettive di nessi socio-culturali che Stiso apre, per l’attività raccolta da Nicola Petreo e il prestigio riconosciuto di magister, e per quell’altra del conterraneo Matteo Tafuri (Soleto, nel Salento, 1492-1582), vicino al quasi contemporaneo non coetaneo non conterraneo Giordano Bruno, 2 e a richiami accattivanti in questa stagione di contatti e scambi. Lo spirito dell’Umanesimo culturale aveva facilitato rapporti di rilievo fra luoghi e genti diverse, stabilito incontri fra Mediterraneo e ambiente boemo, e non solo, cioè l’influenza umanistica e mercantile italiana ben nota specie nella Cechia del Quattro e Cinquecento (favorente da parte inversa il diπondersi del ‘male riformatore’). Aveva messo in moto frequentazioni di aree distanti anche per la diversa spinta religiosa, dando luogo a piccoli Tours, mete per nulla trascurabili di pellegrinaggi, quale il fulgido centro e Santuario di Loreto. 3 Una vicinanza e familiarità da qui maggiori, ma con nuovi maggiori problemi. Non solo quindi la cultura greca (nel Salento), ma quella latina (anche per via religiosa) e bizantina nel bacino adriatico (a Ravenna, nell’Istria costiera), e veneta specie in quello orientale sulla fascia costiera (in Istria, Dalmazia, Albania). Si veda la venezianità dei continui riferimenti alla documentazione e la veneticità dell’area interessata nel lavoro di ricostruzione di Fulvio Tomizza in Il male viene dal Nord e più in L’abate Roys e in La presunzione [di santità] di Maria Janis. Poi rispetto al Cinquecento la veneticità dell’area adriatica messa in rilievo dal triestino Antonio de Giuliani a fine Settecento. L’esperienza di Vergerio allora, lui esule e ormai al sicuro, lontano da Venezia (dalla sua Capodistria terra di San Marco), in area dei Grigioni secondo episodi e battute riferite dal Tomizza nella parlata reto-romancia, poi nella Svizzera riformata, proprio a Basilea, che gli ricorda la celebre università fondata da Enea Silvio Piccolomini, lui Vergerio sfiorata Trieste per recarsi in barca da Capodistria a Grignano, nella piccola insenatura ospitante il ritiro del vescovo triestino Bonomo, fa capire il fermento di siπatto intrecciarsi complicato e serrato di avvenimenti, mossi a volte da un fremere di pianificazioni occulte, di obliqui interessi. Poco più tardi, di paradigmatica esemplarità il tormentato  



1

  Sergio Stiso tra Umanesimo e Rinascimento in Terra d’Otranto, cit., p. 45.   Tafuri, filosofo e medico, aveva lui pure il gusto dell’arte magica nel clima culturale di Pico della Mirandola, del Ficino con la sua traduzione e ripresa degli Scritti ermetici nella linea del Neoplatonismo e per l’ambiente della Biblioteca dei Medici. Infatti «forse a Napoli coltivò la magia naturale […]. A Napoli studiò pure astrologia, acquistando quel penetrante spirito di divinazione che gli valse l’appellativo di “mago” […] lo troviamo a Venezia [1525] e della sua permanenza nella Repubblica di S. Marco ne parla Luba Gurico nel libro Nativitatem […]. Forse per questo, tornato a Venezia, bruciò una notevole raccolta di libri e probabilmente i propri manoscritti. Passò, poi, in Polonia e verso il 1535 intraprese, a scopo scientifico, lunghi viaggi attraverso la Germania, la Francia, la Spagna […]». Così Paolo Pellegrino, ii. Il ‘mago’ Matteo Tafuri nella terra di Raimondello, in Sergio Stiso tra Umanesimo e Rinascimento in Terra d’Otranto, cit., pp. 80-81. Chiamato Doctor Parisiensis, precede singolarmente e di poco il Bruno, specie per quanto riguarda l’iter tormentato per il Bruno e per lui impegnativo toccante, Venezia, la Germania, la Francia. 3   Floriano Grimaldi, La historia della chiesa di Santa Maria de Loreto, Loreto, carilo, Cassa di Risparmio di Loreto, 1993, pp. 197-206. 2

fabio russo 328 itinerario europeo di Giordano Bruno, in centri cruciali tra cui Helmstedt la città di Lutero nonché del consentaneo Melantone, e Venezia dove proveniente da Francoforte non è scampato all’Inquisizione solo per la propria ignara fiducia nei confronti del suo mecenate Giovanni Mocenigo. E Vergerio coinvolto con il Bonomo in una situazione oscura, mostra non meno da parte sua, di Vergerio, il ruolo dell’Adriatico protagonista ineludibile. Con questo, la portata politico-esistenziale della Serenissima fra liberalità e rigidità quale quella impressa da Giovanni Della Casa, il centro attivo proteso sul mare di Ancona che vede pure impegnato Papa Piccolomini (ma colto da improvvisa morte) a partire per la ‘sua’ Crociata, e quelli floridi della Puglia, ancora le vitali città della costa dalmata e albanese di fronte, 1 piene d’intraprendenza strategica propria di un Centro Europa anche marittimo, da non trascurare. Dario Fertilio oggi (Modena 1949), formato nella scuola del «Corriere della Sera», fondatore con Indro Montanelli di «Il Giornale», saggista e romanziere ironico quanto investigativo (un romanzo sul Novecento comunista I fantasmi di Mosca), mostra viva la denuncia degli orrori (i ‘Comitati per le Libertà’, fondati nel 1998) mossa dal suo spirito ribelle contro il potere ingiusto e l’autoritarismo. Di antica famiglia originaria dell’Isola di Brazza (per altri Curzola) e gravitante a Spalato poi dislocatasi a Milano (anche a Zagabria e a Santiago del Cile). Attento al mondo dalmata (è presente in Dalmazia con l’Associazione ‘Dalmati Italiani nel Mondo’ e dal 2014 dirige la rivista trimestrale «Il Dalmata»), egli lo vede da Milano con un taglio d’interessi alle sue problematiche storiche, etniche, di costume culturale. Qui il colloquio con Bettiza risponde all’istituto dell’intervista (im)possibile. Possibile sì, ma condotta in una linea ‘solitaria’ dell’intervistatore, pronto a costruire la risposta dell’intervistato, la sua materia di idee e di calcolata reazione in battute a confronto. Fa da spalla silente Bettiza alle idee di Fertilio, questi facilitato dall’impianto di Il fantasma di Trieste, svolto sul modulo della narrazione ‘totale’ secondo dialogo reale/immaginario e dinamica dei personaggi. Che gli ha permesso quella sintonia di colloquio interiore (un soliloquio fra due viventi) durato vent’anni, come precisa egli stesso in Postfazione dopo vent’anni di intervista ideale ad Arrembaggi e pensieri. 2 E quanti pensieri, di una lucidità gra√ante senza mistero. La Spalato di Bettiza sta poco sotto Sebenico, «Il fedelissimo Sebenicho» come suona il titolo di una ra√gurazione cartografica (Venezia 1500) leggibile oggi su parete nell’atrio dell’Istituto scolastico ‘Ugo Foscolo’ di Trieste (in via Gatteri). La fedeltà a Venezia era maggiore dalla Dalmazia che non dalle località del Veneto (il pianto dei Dalmati, «Ti con nu, e nu con vu»). 3 Quadro problematico di Trieste Il fantasma che dà Bettiza nell’avventura non facile del giovane protagonista Daniele, anzi ‘comodamente’ fraintendibile da un vasto pubblico. Identità (che Bettiza sostiene) della Dalmazia soπerta da «straniero in patria», lui «esiliato senza andare in esilio, esule organico più che anagrafico, […] già in esilio a casa propria». 4 Colta invece la Dalmazia di Fertilio da un non nativo e non residente, con risultato in ciò diverso:  







1   La Soleto nel Salento ha la sua antica origine, «nell’età del ferro, […] una realtà complessa e aperta a scambi intensi […], in particolare con i centri della sponda illirica dell’Adriatico» (Paolo Pellegrino, I. Sergio Stiso agli albori del Rinascimento salentino, in Sergio Stiso tra Umanesimo e Rinascimento in Terra d’Otranto, cit., p. 85), anche nella storia recente. 2   Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri. Conversazione con Bettiza, Milano, Rizzoli, 2001. In corsivo le domande della conversazione, in tondo le risposte. 3   Lo sottolinea tanto nel suo saggio veneto-adriatico il compianto collega e amico Miroslav Čabrajec, Venezia nella prosa viaggiatoria di Slavko Batušić [Venezia 1997], in Miroslav Čabrajec, Mozaik, Rijeka, Izdavački Centra Rijeka, 2001. 4   Enzo Bettiza, Esilio, Milano, Mondadori, 1996, p. 17, passim (in particolare: pp. 454 e 464).

nicola petreo di curzola e la sua cultura greca nel salento

329

Se ripenso all’albero genealogico della mia famiglia, anch’essa dalmata, mi ritrovo nomi appartenenti a diπerenti lingue e nazionalità (italiane e venete, slave, germaniche) mescolati tra loro […]. La nostra è un’appartenenza plurima, o piuttosto il segno di un’identità particolare? – Si potrebbe dire che la singolarità «anazionale» dei dalmati, spesso etnicamente slavi e culturalmente latini, sia un tratto distintivo di una terra che non riuscì mai a coagularsi in una vera nazione compiuta: di qui il famoso autonomismo dalmatico, detto anche illirico, che di volta in volta poteva assumere forme sia italiane nell’Ottocento, sia slave più tardi. Oggi, per esempio, nell’ambito della nuova Croazia postjugoslava, esistono a Spalato correnti di pensiero, riviste, movimenti d’ispirazione veterodalmatica 1  

dove solleva problemi considerevoli di «promiscuità» come non mai nel Mediterraneo (specie nelle isole dalmate più grandi), richiama «il complesso di Diocleziano» con quell’«immenso palazzo semicarcerario», 2 e l’archetipicità dalmata secondo un semplificato concetto di Illirico e di «Illiria». 3 Egli ipotizza, nell’attribuire sempre la parola a Bettiza, un suo trovarsi bene con i costumi della «madre Russia» (qualche attinenza con le impressioni di Quarantotti Gambini), e (ma) sorpreso a cercare nelle radici dell’antico croato «miei sentimenti di a√nità e di simpatia per la «madre Russia», dove il caso, o il destino, mi aveva portato. 4  





Fu così che, passando gli anni, mi sentii sempre meno forestiero in quella grande e assorbente terra slava. Sempre meno sradicato di altri sradicati. […], capii che dovevo interrompere quel gioco pericoloso [più “russificato” di altri occidentali]. […]. Capii che mi ero “russificato” troppo e identificato troppo intimamente con la Russia. 5  

E (ma) da qui il suo bisogno opposto di «disrussificarsi», in ciò mutando (Fertilio stesso?) un atteggiamento altre volte all’inizio fermo se non rampante. Così un senso di dalmaticità (già complesso per sé) si rompe in presenza di cognomi non solo italiani. Mentre la Lussino rievocata da Giani Stuparich non perde di significanza italiana per un cognome tedesco di parentela acquisita, quello del grande cantante irredentista Giuseppe Kaschmann. Oggi […] questa ricerca va oltre la curiosità ed ha un significato, direi, pieno di gratitudine e di amara fierezza […]. Perciò […] andai subito a vedere la storia della mia famiglia. Gli Stuparich, nome abbreviato di Stuparovich, dalla costa dalmata si trapiantarono nell’isola fin dal lontano ’600, quando Lussingrande e Lussinpiccolo non erano che due borgatelle di pescatori. Nella famiglia degli Stuparich la serie dei sacerdoti si alternava a quella dei proti, cioè dei capi o direttori tecnici di cantiere, e da questi ultimi son venuti fuori i navigatori come mio nonno […]. L’altro ramo invece della famiglia di mio padre, quello della nonna, non era autoctono di Lussino; vi si era trapiantato più recentemente dall’interno dell’Austria […] nell’800 […]. Ma io voglio ricordarne specialmente uno, il fratello della nonna Eufrasia, Giuseppe Kaschmann, che fu cantante famoso. […] egli non volle fare [nel 1878] il soldato combattente dell’impero austro-ungarico e scappò in Italia. 6  

Invece avverte l’impoverimento graduale italiano Bettiza. E Biagio Marin lo riscontra in certe pagine vibranti dei Diari e dei Paesaggi, ma con occhio insieme di ricognitore storico in altre pagine degli stessi Diari e dei Paesaggi, e ancor più in determinati saggi di Autoritratti e impegno civile, quindi negli ultimi suoi contatti e commenti sul mondo adriatico orientale. Colpa di noi italiani, il giovane Marin, per una inadeguata coscienza europea nostra. L’adulto e vecchio Marin, per la cultura italiana ora isolata in Dalmazia: 1

  Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri. Conversazione con Bettiza, cit., pp. 22-23 (cfr. pure pp. 23-25). 3   Ivi, pp. 34; cfr. pure pp. 34-35.   Ivi, pp. 23-24; cfr. pure pp. 24-25. 4 5   Ivi, p. 32.   Ivi, pp. 32-33. 6   Giani Stuparich, Ricordi istriani, a cura di Anita Pittoni, scritti di Pier Antonio Quarantotti Gambini, Francesco Gabrieli, Lorenzo Gigli, et alii, Trieste, Edizioni dello Zibaldone, 1964; cfr., in particolare pp. 51-54 sgg., 55-58 (Un baritono famoso), e pp. 152-160 (Velieri lussignani). 2

fabio russo

330

Ancora oggi chi va in Dalmazia rimane sorpreso per la vista di città che sembrano miracoli di bellezza e di arte. È toccato a me pochi anni or sono di arrivare a Cattaro e di scoprire in essa una magnifica grande piazza veneta rettangolare oblunga, come tutte le piazze veneziane; ma la sorpresa maggiore fu quella di vedere sopra un portone una grande tabella di marmo in cui a grandi caratteri era incisa una parola: “Municipio”. Potrà apparire che questo sia un episodio senza importanza; a me parve allora la rivelazione della grande civiltà dei Veneziani, se dopo la loro caduta e il loro allontanamento da quelle terre gli abitanti di quella città avevano rispettato quel nome dato alla gelosa istituzione municipale. 1  

o quest’altro suo passo: Recentemente sono stato in gita in Dalmazia, a Zara e a Sebenico […]. La storia della Dalmazia è stata per secoli storia nostra. Così almeno pareva a noi. E certo noi abbiamo avuto lì una grande funzione: ma, eravamo solo degli importati, dei conquistatori […]. Guardavo a Zara, a Sebenico la gioventù croata muoversi più naturalmente che a Pola, che a Parenzo, che a Rovigno, come già gli antichi abitanti di quelle contrade. Noi li avevamo sempre ignorati, ma a torto. In realtà per secoli noi avevamo imposto loro la nostra civiltà e la nostra cultura, ma essi avevano collaborato con noi, eran vissuti con noi in una magnifica simbiosi. Tanti leoni di S. Marco, tante colonne romane, tanti perfetti monumenti d’arte nostra: ora sono loro patrimonio, e […] a buon diritto. I figli ereditano i beni dei padri. 2  

Che s’incontrano per buon caso con alcuni quesiti di Fertilio, magari da una visuale ricca più obiettiva seppur severa amara del Marin. Posti secondo quello spirito di «arrembaggi» (anche nelle battute attribuite a Bettiza) avvincente, però talvolta ad eπetto. Per questo non si possono condividere (prevale Fertilio su Bettiza) l’attributo di «gesti disperati alla Oberdan», 3 o certa intercambiabilità a Trieste fra Sant’Antonio Nuovo/Borsa o la Borsa/Chiesa, laddove Sant’Antonio Nuovo sul Canale similmente al prospetto neoclassico della Gran Madre di Dio sul Po si riconduce al modello del Pantheon, e la Borsa riprende il modulo, adattato, del portale classico con colonne del tempio antico. Senza dire di Trieste solo laica, «la sua assenza di religiosità e di radici religiose»(!), «Strana città» 4 con i suoi Triestini (di fronte a talune pagine di Spaini in Autoritratto triestino). Ed equivoco il significato di Illiria posto non su base storica. 5 Qui oggi la presenza in diretta dell’Autore avrebbe dato vita in più ai suoi pensieri, sul Male, sull’Europa, quale rapida intervista ‘possibile’.  





1   Discorso agli Istriani e ai Dalmati convenuti a Grado il 22 marzo 1985, in Giovanni Gregori, Biagio Marin ai Gradesi, presentazione di Edda Serra, prefazione di Elvio Guagnini, Grado, Centro Studi ‘Biagio Marin’-Edizioni della Laguna, 2009, p. 76. 2   Incontri con l’Istria, «Voce Giuliana-L’Istria di Biagio Marin», Supplemento al Quindicinale n. 535, Trieste, 16.12.1991, riportato in Giovanni Gregori, Biagio Marin ai Gradesi, cit., pp. 75-76 e n. 65. 3   Dario Fertilio, Arrembaggi e pensieri. Conversazione con Bettiza, cit., p. 25; cfr. pure pp. 24 e 27. 4   Ivi, cit., p. 27. 5   L’Albania rivendica la propria identità insidiata da pressioni turche poi slave riconoscendola nell’antico Illirico preslavo (non solo su area balcanica, anche tosco-romagnola), così Illirico non equivale a Balcanico e a Slavo: Zef Chiaramonte, Kosovo: le antiche radici di una guerra moderna, «aib Notizie», Associazione Italiana Biblioteche, xi, 6, 1999.

LA DALMAZIA DEI SENSI. IL PAESAGGIO SINESTESICO DI LUIGI MIOTTO Marianna Deganutti 1. Pagine di Dalmazia

T

ra i maggiori poeti dalmati e giuliani del Novecento, un posto di spicco spetta senza dubbio allo spalatino Luigi Miotto (1924-2012), autore che ha fatto spesso vertere la sua produzione poetica, prosastica e saggistica attorno ai ricordi del paese natale. Miotto intatti, lasciata Spalato in seguito all’annessione di quest’ultima alla Jugoslavia titina, si è ritrovato esule a Trieste, città nella quale, oltre a svolgere la professione di insegnante di Lettere italiane e di Storia, ha coltivato la memoria della terra d’origine divenuta ormai irraggiungibile. Quella di Miotto è stata quindi una Dalmazia rivissuta tramite i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, che spesso si sono condensati nell’ampia produzione letteraria, di cui vanno senz’altro ricordate: le raccolte di poesia che si stendono nell’arco di oltre un cinquantennio – Memoria del sole (1955), 1 Poesie a Liliana (1956), Canne d’organo (1957), Una terra nell’anima (1958-1959), Tempo che scorre (1962), Tempo che soπre (1964), Poesie (1968), Poesie alla madre (1974), Tempo di vivere tempo di morire (1974), Accendere parole (2008); saggi, articoli e collaborazioni di varia natura, alcuni dei quali dedicati alla cultura dalmata e alle sue figure di maggior rilievo e perfino un vocabolario del dialetto veneto-dalmata (1984). Nella produzione di Miotto rischiano però di passare inosservate, per la loro natura frammentaria, le Pagine di Dalmazia. Si tratta di una raccolta di brevi saggi (quattordici in totale) comparsi su «La porta orientale: rivista mensile di studi giuliani e dalmati», una pubblicazione promossa dalla Compagnia volontari giuliani e dalmati tra il 1931 e il 1973, che ha fortemente contribuito alla trattazione del patrimonio culturale e letterario delle terre giuliane. I saggi di Miotto, usciti a puntate tra il 1956 e il 1963 e proposti successivamente anche in forma di estratto, sono stati solo in un secondo tempo rimaneggiati dall’autore e sottotitolati, per confluire nella raccolta Prose e poesie, edita dall’Associazione delle Comunità istriane nel 2006. In questa sede verranno però prese in considerazione le Pagine di Dalmazia nella loro versione originale, dove si presentano ancora come corpus piuttosto eterogeneo, all’interno del quale l’aspetto saggistico dominante lascia talvolta spazio a cenni lirici o a prolungate descrizioni paesaggistiche. Questo materiale, non ancora suddiviso in singole tematiche, sembra rispondere a molte esigenze, in quanto mira a introdurre la Dalmazia con la sua storia, natura, tradizioni e costumi a quanti non la conoscessero; riprende e sfrutta il contributo di illustri viaggiatori e letterati, tra cui ad esempio l’abbate Fortis, oppure Niccolò Tommaseo e infine sollecita le reminiscenze dell’autore. Infatti è proprio «sul filo della memoria che Miotto scrive di Dalmazia, terra ormai lontana e perduta, che invece di scolorire negli anni sbiadendosi in ricordi sempre più vaghi, si raπorza in immagini vividissime e tenaci». 2 Ciò che conta ai fini di quest’analisi è un ulteriore aspetto: in queste pagine Miotto si  



1

  Le raccolte Autunnale e Ragnatele sono invece state entrambe pubblicate a Spalato nel 1942.   Marianna Deganutti, Luigi Miotto: il poeta della Dalmazia perduta, «La Panarie», 167, dicembre 2010, pp. 23-31.

2

marianna deganutti 332 abbandona a momenti di intenso lirismo, quasi si valesse di questo spazio per sperimentare figure e immagini da utilizzare in poesia. Pagine di Dalmazia si potrebbero intendere quindi come un laboratorio per l’esule e per il poeta, ovvero uno spazio in cui far fluire i ricordi, rimpastandoli a proprio piacimento senza ferrei principi sequenziali, ma anche un luogo dove creare nuove associazioni a cui attingere magari per fare poesia. A conferma di ciò ci sarebbe il fatto che alcuni passaggi sono poi diventati versi e che i medesimi sono costellati da un’elevata concentrazione di figure retoriche, quali metafore, metonimie, similitudini, sineddoche, personificazioni e non solo. Quest’analisi si propone di analizzare la presenza di sinestesie all’interno dei passaggi più marcatamente lirici, in quanto, proprio grazie alla sovrapposizione sensoriale, Miotto sembra dar maggiore forma e consistenza alla sua terra. 2. Sinestesia e paesaggio Per aπrontare la trattazione della sinestesia nelle Pagine di Dalmazia di Miotto è necessario innanzitutto soπermarsi sul significato da attribuire a questa figura retorica. Pur essendo ampiamente utilizzata (spesso anche inconsciamente) nel linguaggio quotidiano – si pensi a ‘un colore freddo’ – la sinestesia rischia spesso di venire confusa o mal interpretata, sia perchè sovrapponibile ad altre figure sulle quali si troverebbe innestata, sia in quanto potrebbe essere percepita anche laddove non sussiste. Per chiarire alla radice l’insorgere di questo genere di inesattezze, sarà bene ricordare che per sinestesia si intende la ‘percezione simultanea’ di più sensi, grazie all’accostamento di due termini appartenenti a livelli sensoriali diπerenti. Nella definizione di Lamberto Pignotti: “Sinestesia”, in base alla sua etimologia greca – syn, insieme; aisthánesthai, percepire – significa “percezione simultanea”. Più precisamente la si può definire come un’associazione di sensazioni diverse avvertite contemporaneamente da un individuo o anche come un fenomeno in cui la percezione di determinati stimoli è accompagnata da particolari immagini proprie di un’altra modalità sensoriale. 1  

Per quanto possa risultare semplice individuare la simultaneità di più sensi, quando si aπronta la sinestesia non si deve pensare a una libera associazione di tatto e vista, oppure di gusto e olfatto, quanto a una ‘percezione simultanea’ basata su stretti vincoli logicosintattici, che mettono in luce l’eπettiva sovrapposizione delle sfere sensoriali. In altri termini, l’alternarsi oppure il susseguirsi di diverse sensazioni, legate per esempio alla vista e al tatto, non sarebbero su√cienti a formare una sinestesia, in quanto è necessaria la ‘sincronizzazione’ dei sensi. Tonino Tornitore, che si è soπermato dettagliatamente sull’analisi della figura, ha sottolineato come una sinestesia, per essere tale, debba sottostare a due regole ferree (anche se piuttosto generali): Perché si abbia una sinestesia, occorrono due condizioni necessarie e su√cienti, che chiamerò postulati di base, e che richiedono: I) compresenza di due o più domini sensoriali (sensi e/o sensazioni), reali o virtuali distinti e diversi, tra i sei convenzionalmente classificati (in conformità alla griglia di Ullmann, che distingue la sensazione termica da quella tattile); II) fra i suddetti domini sensoriali eterogenei deve sussistere un tipo di legame di sintesi (dall’analogia all’identificazione), e non di accumulazione o parallelismo. 2  

L’associazione sensoriale si presta a essere sperimentata innanzitutto nel paesaggio, in quanto la natura di cui è composto risulta essere una delle maggiori fonti di stimolo. Pur essendo solo una porzione limitata di territorio, il paesaggio implica solitamente suoni e rumori, profumi e odori, potenzialmente sapori e soprattutto chiama in causa l’occhio 1

  Lamberto Pignotti, I sensi delle arti: sinestesie e interazioni estetiche, Bari, Dedalo, 1993, p. 15.   Tonino Tornitore, Sinestesie. Proposta di definizione e classificazione, «Lingua e stile», 2, 2000, p. 303.

2

la dalmazia dei sensi. il paesaggio sinestesico di luigi miotto

333 e lo sguardo. Se «il soggetto si separa sempre più dall’oggetto» e pertanto «la separazione del vicino e del lontano (primo piano e sfondo) è la condizione della nascita del paesaggio», 1 ne segue che la vista diventa il senso predominante su tutti. Essa per prima percepisce un luogo, ne dà forma e materia, definendolo quale entità, mentre le altre percezioni potrebbero subentrare in un secondo tempo, una volta definiti i ‘contorni’. L’incipit delle Pagine di Dalmazia conferma la supremazia della vista sugli altri sensi, in quanto Miotto cerca innanzitutto di delineare i luoghi sui quali si soπermerà successivamente in dettaglio e i ‘perimetri’ del suo mondo dalmata.  

L’altopiano, la costa, quel mare li ricordo abbandonati alla violenza dei venti periodici. Le acque diventate basse e striate da rapide correnti […] I gabbiani volteggiano come sempre nell’aria e si chiacchiera nel porticciolo. Sono tutti pescatori con volti anneriti dal sole, labbra tagliate nello stringere il piombo della rete, mani forti per il timone che andrà dentro alla scia che bolle, per il remo che troverà dura l’acqua. […] Qualcuno è sicuro che l’orizzonte si rischiara e che il tempo migliora. Così un gruppo di barche prenderà il golfo con tante vele rosse. 2  

Il paesaggio dalmata, già in questo primo delinearsi, viene tratteggiato con tinte forti e nel connubio di uomo e natura. Per quanto alcune componenti di questo cosmo implichino altri sensi oltre alla vista – si potrebbe facilmente immaginare che l’aria provochi qualche rumore, oppure che il mare produca odore di salso – Miotto fornisce innanzitutto immagini. Le stesse variazioni, quali l’orizzonte che si rischiara, rientrano tutte nella sfera visiva, confermando che il lettore dapprima visualizza e pertanto conosce; poi ode o ascolta, assapora e gusta, grazie alle fusioni sensoriali e ai nessi creati dall’autore. La priorità concessa alla vista era stata notata dallo stesso Biagio Marin, che in una recensione a quattro raccolte di poesia di Miotto, aveva definito il poeta spalatino «Uomo d’occhi». 3  

3. L’abisso, il mare e i limoni Una volta stabilitasi visivamente, la Dalmazia di Miotto lascia che i suoi elementi fluiscano liberi, fino ad accostarsi e soprattutto sovrapporsi, stimolando anche altri sensi. Tra le più rilevanti sinestesie di Pagine di Dalmazia si possono elencare le seguenti: «Aria sempre più cruda» (i, 3), 4 «Silenziose ardono le lampare» (i, 5), «Il mare è… pieno di sussurri, di grida, di corrucci» (i, 6), «brontola l’orizzonte» (ii, 113), «isole fumanti di bosco» (ii, 113), «arde il meriggio» (ii, 114), «Il vento rastrella, zappa, vanga» (ii, 116), «Un lontano parlottio di mare» (ii, 116), «pini sono… caldi di sole» (ii, 116), «Lunghe e dolci piogge di aghi» (ii, 117), «alberi luccicanti di vento» (iii, 3), «casa tiepida di stalle» (iii, 3), «Odore del vigneto caldo di sole» (iii, 4), «dolce il sole» (iii, 4), «Tiepido fiata l’abisso» (iii, 7), «il silenzio dell’acqua» (iv, 5), «Muro fumante di sole» (v, 131), «ventate rumoreggianti» (v, 131), «urlo che è nero come il bosco» (v, 135), «mare squamoso» (vi, 356), «tante barche… senza voci» (vi, 356), «Rami caldi di sole» (vi, 358), «il vento è diventato carezza» (vi, 358), «una quiete profumata di terra e di salsedine» (vi, 358), «l’acqua cupa e profonda delle voci maschili» (vi, 373), «Costa… dolce di alghe» (vi, 385), «Limoni che squillano come il sole» (vi, 361), «Gustare odorosa e calda quella frutta di mare» (xiii, 54). Premesso l’elenco, vale la pena soπermarsi almeno su tre delle sinestesie più significative. La prima «tiepido fiata l’abisso» si colloca nel terzo saggio, che Miotto dedica alle  

1   Giorgio Bertone, Letteratura e paesaggio, Liguri e no. Montale, Caproni, Calvino, Ortese, Biamonti, Primo Levi, Yehoshua, Lecce, Manni, 2001, p. 43. 2   Luigi Miotto, Pagine di Dalmazia, «La porta orientale: rivista mensile di studi giuliani e dalmati», i, 1957, p. 3. 3   Biagio Marin, Poesia dell’esilio nei quaderni di Luigi Miotto, «Il Piccolo», 10 gennaio 1963. 4   I riferimenti sono tratti da Luigi Miotto, Pagine di Dalmazia, op. cit., i-xiii comparsi tra il 1956 e il 1963.

marianna deganutti 334 gite a Trau e dintorni, fra strade sterrate e sassi. Delle pietraie alle spalle dell’isola-città, l’autore descrive la vegetazione scarna e mediterranea: Qualche ginepro odora nell’estate, poche foglie arrossano nell’autunno e fischiano sempre le vipere e ogni tanto si spalancano nere grotte dalle quali tiepido fiata l’abisso. 1  

«Tiepido fiata l’abisso» è riconducibile a tre sfere sensoriali, che sono la vista dell’abisso, l’udito richiamato dal verbo fiatare e infine il tatto dell’aggettivo tiepido. La grotta scura per mancanza di luce, che viene paragonata a un iperbolico abisso, dando l’idea di una cavità senza fondo, si anima con il respiro dell’estate. L’idea di questo so√o sembra crearsi proprio grazie alla diπerenza di temperatura esistente tra la fresca gola dell’incavo e la stagione rovente. Alla fine tale inevitabile scambio d’aria calda e fredda produce una sensazione tiepida e quindi tattile. Infatti il respiro dell’abisso, con quel suo moto così debole e scarsamente percettibile che proviene dal fiatare, sembra giungere da profonde cavità, la cui aria si intiepidisce solo quando giunge in superficie. In questa tripla sovrapposizione sensoriale Miotto, sfruttando la sequenza tatto-udito-vista basata su di una poetica anastrofe, riesce a creare un forte impatto nel lettore, in quanto anticipa la stimolazione tattile e uditiva a quella visiva. La seconda sinestesia presa in analisi è «mare squamoso», contenuta nel sesto saggio, quello in cui l’autore si soπerma sulle varietà di acqua presenti in porto, a seconda che ci sia alta o bassa marea, oppure che so√ bora o maestrale. Dopo aver descritto le mattine con il mare «fiorito» di onde, Miotto si soπerma sui pomeriggi: Meriggi dal mare squamoso o come lana arruπata dal vento con tante barche disseminate nella pesca, immobili, senza voci, alcune più vicine altre più lontane. 2  

In questa sinestesia l’autore associa la rappresentazione visiva del mare a un aggettivo che ricade nell’ordine tattile, «squamoso», rifacendosi agli ispessimenti cutanei presenti principalmente nei rettili. Quest’ultima sensazione viene raπorzata dalla similitudine successiva «o come lana arruπata dal vento», volta a raπorzare l’idea di un mare mosso, con onde dalle creste bianche, che si susseguono una dopo l’altra. La sinestesia in questione rende già di per sé l’immagine di un mare fatto a scaglie, quasi la sua superficie diventasse solida e compatta e lo si potesse toccare. Qualora inoltre, come spesso avviene, si estendesse il significato di squame alle scaglie del pesce, si potrebbe perfino intuire la trasposizione, per estensione, della superfice squamosa del pesce a quella, ben più estesa, marina. L’ultima sinestesia presa in analisi è quella dei «limoni che squillano come il sole», posta a chiusura del medesimo saggio. L’immagine dei limoni subentra proprio all’uscita dalla pescheria nella quale Miotto aveva descritto varie tipologie di pesce, i profumi e i colori tipici del locale: Questo pesce che sa di fumo può anche essere gustoso: ma non è più il mio pesce se la gente già spinge verso l’uscita, se già si esce dalla pescheria per trovarsi nella strada, davanti al carretto della donna a vendere dei limoni che squillano come il sole. 3  

Miotto sovente si soπerma sull’impossibilità di ritornare nella nativa Dalmazia 4 e la scena dell’uscita dalla pescheria va, ancora una volta, a incrementare il senso di perdita dell’esule, messo in risalto proprio dal contrasto fra una doppia prospettiva: quella dei ricordi  

1

2 3  Ivi, iii, 1957, p. 7.  Ivi, vi, 1958, p. 356.   Ivi, p. 361.   Come scrive nel saggio successivo: «Anche se sorrido, anche se rispondo che è più lontana dell’America sento di non mentire, di dire la verità, posso rispondere sicuro di me stesso, così lontana che da quella terra le navi io le so ancora e sempre in alto mare, senza più nemmeno la compagnia di un gabbiano, spentosi all’orizzonte anche l’ultimo faro», ivi, vii, 1959, p. 8. 4

la dalmazia dei sensi. il paesaggio sinestesico di luigi miotto

335 che si scontrano con il presente, ovvero ciò che oggi potrebbe accadere nei medesimi luoghi, secondo l’immaginazione del poeta. 1 Dopo aver costruito un amaro parallelismo, che rischia di vanificare peraltro la briosa narrazione condotta fino a quel momento, la sinestesia «limoni che squillano come il sole», lascia però al lettore un’immagine vivace e potente di congedo. Fondendo la vista all’udito, la sinestesia «limoni che squillano» viene raπorzata dalla similitudine squillano «come il sole» e quindi la sfera visiva, passando a quella uditiva, sembra tornare, circolarmente, alla prima. Nella trasposizione metaforica, quando trasferisce il significato semantico dal piano uditivo del suono acuto e vibrante a quello visivo, per cui il colore giallo del limone abbaglia quasi come il sole, Miotto consente di accentuare il nesso esistente fra l’astro e il frutto, creando associazioni anche inconsce con un alto livello di poeticità.  

4. La magia di una terra Come si è anticipato all’inizio dell’analisi, Miotto nelle Pagine di Dalmazia utilizza la sinestesia per dare forma e concretezza alla sua terra d’origine. È proprio la mescolanza delle sfere sensoriali a fare in modo di riformulare ciò che inevitabilmente è andato perduto con l’esodo, soprattutto in termini materici. Solo il connubio dei sensi concederebbe infatti all’autore la possibilità di far rivivere nuovamente una Dalmazia pluridimensionale e pertanto più simile al ‘reale’. L’immagine tratteggiata da un ricordo, oppure un suono e un gusto presi indipendentemente, risulterebbero come cristallizzati e statici. Invece grazie alla sinestesia la rappresentazione di quei luoghi rimane viva, fomentando il ricordo. Il ruolo svolto dalla sinestesia però non si ferma alla rielaborazione mnemonica, in quanto mediante la fusione dei sensi Miotto adempie a un’altra funzione, che deve essere cercata nel significato della figura stessa. Questa porta anche a una estensione sensoriale, facendo sì che da associazioni originali e inedite nascano, di volta in volta, sensazioni che fino a quel momento non erano ancora state formulate. A questo va aggiunto che l’innovazione non solo riguarda l’accostamento, bensì anche le modalità dello scambio e della fusione dei sensi, che possono, a prescindere da quanto viene accorpato, far giungere a qualcosa di nuovo. Per questo motivo, come sottolinea Giorgio Cavallini, la sinestesia agisce a ricreare un eπetto «di novità, di espressività, di tensione, a volte di sorpresa». 2 Il «mare squamoso» ad esempio propone un’associazione visivo-tattile di una superficie che di√cilmente viene concepita ‘solida’, in quanto il mare è per antonomasia liquido e, come tale, soggetto a continua fluttuazione. Pertanto l’idea di renderlo palpabile – parrebbe quasi di sfiorare un’enorme pesce con le sue scaglie – ne incrementa il potenziale sensitivo. Non va però dimenticato che la sinestesia, come molte altre figure retoriche, si basa su parole scarne e secche e anche su nessi lessicali e sintattici talvolta inusuali. In altri termini, sarebbe il frutto di una lingua che si svincola dagli usuali procedimenti, per creare nuove trasposizioni. Pertanto la sinestesia tende a forgiare un idioma fratto e frammentato, in cui «la parola è sottratta al contesto logico, sintattico e ritmico della frase per venire restituita alla sua verginità e consistenza primigenia, al suo valore originario e creativo, smarrito attraverso l’usura del linguaggio». 3 Potrebbero insorgere oscurità, che non sempre riescono a essere del tutto disciolte. Del resto, come mette in luce Valeria  



1   Si veda Marianna Deganutti, Lina Galli e Luigi Miotto: scrivere per tornare, in L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura, Atti del Convegno internazionale, Trieste, 28 febbraio-1 marzo 2013, a cura di Giorgio Baroni, Cristina Benussi, Pisa-Roma, Serra, 2014 («Biblioteca della “Rivista di letteratura italiana”»), pp. 110-116. 2   Giorgio Cavallini, “La scintilla che dice”: su alcune sinestesie nella poesia italiana contemporanea, «Critica letteraria», 3 xxix, 111, 2001, p. 347.   Ivi, p. 348.

marianna deganutti 336 Capelli: «un linguaggio fondato sulla sinestesia» è basato «su procedimenti analogici fitti e mai del tutto aπerrabili nei loro potenti richiami». 1 Forse è proprio questo il messaggio ultimo della sinestesia nelle Pagine di Dalmazia di Miotto, ovvero il cercar di ricreare una terra mediante l’aπascinante uso di sfere sensoriali sovrapposte, che oltre a stupire e sorprendere, espandendo la capacità sensoriale, abbiano la forza di riportare il lettore a luoghi ormai perduti. Grazie a essa, la Dalmazia che Miotto aveva definito «favolosa», «comica», «irriverente», «gastronomica», «monumentale», «leggendaria», «folcloristica», «austera» e «tormentata», 2 può anche assumere quei tratti «magici» e pertanto aπascinanti e oscuri, che spesso l’autore aveva considerato i più propri.  



1

  Valeria Capelli, Ottocento e Novecento: un percorso di letteratura, Milano, JacaBook, 1998, p. 98.   L’autore si soπerma su questi aspetti nei saggi Luigi Miotto, La mia Dalmazia, «La Rivista dalmatica», 2010, xcviii, 1, 2010, pp. 44-47 e in Luigi Miotto, Dalmazia nell’anima, in Idem, Prose e poesie, Trieste, Associazione delle Comunità istriane, 2006, pp. 75-78. 2

LA NOZIONE DI POESIA IN LIANA DE LUCA Pietro Zovatto

P

enso che per una poetessa vivente non sia ancora maturo il tempo per una scheda iniziale bibliografica completa. 1 Uno schizzo, comunque, credo sia doveroso (almeno in nota) per inseguire la sua presenza poetica e fermare l’attenzione su uno dei filoni tematici. Sotto questo profilo vale la pena di cercare la nozione di poesia che la De Luca è andata cercando per scoprire la sua pregnanza, descriverne i contorni, onde pervenire a una comprensione colta e consapevole. Ella va spesso alla ricerca della sua vocazione e si domanda il significato del poetare. In altri termini desidera autocomprendersi nella sua attività durata ormai una vita intera. A partire dalla silloge Il cuore disadattato (la poesia La nostra casa) la De Luca descrive il terreno prossimo di quest’arte che diventa una specie di sogno proteso alla speranza.  

L’erba dei prati donerà un tappeto di speranza e ci proteggerà il tetto dell’attesa. […] Le nostre parole ritroveranno gli antichi valori perduti. E i nostri gesti saranno ritmi d’equilibrio nell’accordo dei pensieri tornati innocenti. 2  

Il primo accesso alla poesia coerentemente sembra configurarsi come casa, ove l’equilibrio architettonico della parola, «i pensieri tornati innocenti», provoca una metamorfosi aprendo l’anima alla ‘speranza’. Si assume quindi un atteggiamento di coltivare dentro le mura domestiche della propria interiore personalità un emergere dello slancio del vivere nella speranza (la virtù più di√cile secondo Péguy), nella purificazione intellettuale di un esistere alla scoperta di una ritrovata innocenza. Speranza, catarsi, armonia sono le componenti della vocazione che il poeta si propone. Anche la poesia Terra Dalmata (da Oasi), «fra la nostalgia di selvagge praterie», rinnova la speranza «nel folto / degli uliveti canta la speranza / aspettando le vele del ritorno» 3 come Ulisse alla amata Itaca. Nel componimento La Poesia come trasloco evidenzia ciò che nella poesia non va, sia nella scelta dei temi, sia nelle ideologie (poetiche) egemoni con «l’assurdo da evitare»  

1   Per una scheda di compendio sulla De Luca, vedi Liana De Luca, La Grata, Torino, Genesi Editrice, 2000, pp. 367-368; e bibliografia su di lei, pp. 373-393; Una rassegna critica, pp. 369-372; tra i nomi autorevoli della letteratura italiana compaiono: Antonio Baldini, Mario Bonfantini, Mario Soldati, Giuliano Gramigna, Elio Gioagnoli, Vittoriano Esposito, Luciano Luisi, Giorgio Bàrberi Squarotti; Antonio Catalfamo, Liana De Luca tra mito e quotidianità, Foggia, Bastogi, 2014; Giovanni Chiellino, L’onda dell’esistere nel mare mosso della scrittura di Liana De Luca, «Vernice», 45, 2011, pp. 219-224. È nata a Zara di origine illirico-partenopea, laureata in lettere insegnò a Bergamo e a Torino. Collabora a «Poesia», «Città di vita», «Atelier», «Resine», «Vernice», «Il Sodalizio», «Arena di Pola», «La Rivista di Bergamo», «Nuovo contrappunto», «Il Ragguaglio librario». A Bergamo fu confondatrice del Cenacolo Orobico; a Torino è membro attivo nel direttivo del Centro di Studi e Ricerche Mario Pannunzio, Associazione di libero pensiero, liberale, laica e apartitica. 2   Si citeranno le poesie da La Grata, raccolta fatta dall’autrice stessa. Vedi Eadem, La nostra casa, p. 117. Della De Luca desidero segnalare anche una delle sue raccolte più care all’autrice (lei me la suggeriva), Il Posto delle ciliege, presentazione di Giuseppe Conte, Torino, Genesi, 1995, importante per le molteplici poesie originali di carattere religioso. 3   Liana De Luca, La Grata, cit., p. 20. In Le due mie città, da Le Occasioni, p. 353 – che sono Bergamo e Torino – sente di continuo: «il mare tremola nella memoria», ovviamente il mare Adriatico della città natale. E ancora più in Nostalgia di Zara, da Le Occasioni, p. 359, ella vede «l’impronta dell’infanzia nella sabbia».

pietro zovatto 338 di «non fare la poesia dei sentimenti». 1 Alludendo all’incontro con Umberto Saba a cui s’era rivolta omaggiando a Trieste la sua prima silloge nella storica libreria antiquaria di via san Nicolò. Fu rudemente ricevuta, e secondo l’umore variabile del poeta – le donne non godevano molto stima sotto il profilo artistico – si sentì, tuttavia, gratificata da una lezione privata molto significativa per chi si dedica a quest’arte ra√nata d’artigiano, sempre apprendista del bello. Nel primo cartoncino che gli capitò tra le mani egli vergava in tre livelli distinti un trinomio sintetico nel processo generativo del poetare.  

Stile-Testa-Cuore 2  

Poi Saba tracciò una verticale dall’alto verso il basso, come per indicare le tre componenti intellettuali, aπettive e di senso della misura che intervengono nella composizione. Il linguaggio elitario e distinto, la ragione lucida nel dosare il profilo per raggiungere l’armonia. E, infine, il sentimento di cui le donne dispongono in abbondanza. Lamentela questa, già sottolineata dal Carducci a cui abbinava i preti – («Donne e preti non sono poeti!») –. E Saba argomentava questa negatività, specifica delle donne, essendo essa già creativa per privilegio di natura, e non può – quasi per necessità metafisica univoca – diventarlo nuovamente spendendo la sua forte carica emotiva volta alla figliolanza. Mentre l’uomo è creativo solamente con la conquista personale della intuizione e della ragione. Per Saba unica eccezione ammessa nella storia della letteratura mondiale era stata Saπo. «E Saπo?». «Saπo era una rondine e una rondine non fa primavera», diceva desolato (Scorciatoie e raccontini, n. 588). Su questa posizione la De Luca sembra prendersi la rivincita nel suo bel saggio le Donne di carta, quando dedica un articolo sostanzioso alla figura di August Bebel 3 che nell’ultimo scorcio del xx secolo, cronologicamente in contemporanea al Carducci, abbina la rivendicazione della classe operaia a quella della donna per spezzare il predominio dell’uomo, uniti dalla solidarietà del medesimo riscatto di liberazione. In questa situazione la De Luca – sempre continuando il suo discorso sulla nozione di poesia – snobba apparentemente i canoni sabiani (anche se con un temperamento volitivo e lucido lei stessa li applica). E aπerma: «Scrivere per scrivere: mi basta […]. E in fondo sono stufa di raccogliere / tutte le mie esperienze a beneficio / di chi legge pensando ai casi suoi». Del resto ella stessa nota con melanconia e insieme con realismo che Pirandello, il premio Nobel per la letteratura e i veneti: Biagio Marin, Andrea Zanzotto, 4 hanno pubblicato le prime sortite letterarie e poetiche pagando di tasca propria i loro lavori. E si potrebbe continuare la lista, tra cui anche il nostro Italo Svevo pagò i suoi tre romanzi, persino la Coscienza di Zeno (1923), quella che lo lanciò ad una notorietà europea. Di fronte a questa presenza nella repubblica letteraria, così aspra per chi soprattutto si prefigga di scalare l’Olimpo dell’arte, Liana de Luca prova un moto di ribellione «Ma certo. Tu mi dici: Ribellarsi, / il poeta, per essere poeta: / deve sparare la via, non aspettare / tergiversando nell’attesa incerta». E allora a che vale «irritarsi, agitarsi, constatare […] tornerà / la sana igiene della ghigliottina». E rivolgendosi al lettore – quasi un congedo immaginato – scrive:  



Tu che per caso leggi, non pensare d’essere quello cui mi rivolgo. 1

2   Liana De Luca, La Grata, cit., p. 127.   Liana De Luca, Donne di carta, Torino, Genesi, 1999.   Liana De Luca, Donne di carta cit., pp. 175-179; di August Bebel, cfr. Le donne e il socialismo (1889), con diverse trad. italiana, in cui si espone la rivendicazione che egli fa, esponendo la storia della schiavitù delle donne nei riguardi del maschio e il riscatto alla libertà, visti dalla ‘ortodossia marxista’. 4   Lo scrivente stesso ha sentito pubblicamente Andrea Zanzotto a fine anni Novanta lamentarsi di aver sostenuto le spese delle prime sillogi in una conferenza a Cortina durante le vacanze culturali di agosto. 3

la nozione di poesia in liana de luca

339

Tu sei vezzo desunto dalle troppe letture montaliane (che m’impongo). Passata è l’ora del tempo e la dolce stagione in cui credevo potesse esistere altro da me capace di comprendermi. Tu sei soltanto l’io pirandelliano che irrideranno i presunti colleghi in carta e biro ( per non ricordare i ciclostilati in stampa alternativa). 1  

‘L’io perandelliano’ (non l’io inetto di Cosini della Coscienza di Zeno) diventa protagonista, e non può essere altro che lo sdoppiamento della personalità, quella pubblica e quella intima – la vera – nascosta nei recessi delle profondità. In questa si possono celare vari atteggiamenti: qualcuno leggendo (la prima categoria) «tacerà pigro», un secondo «scriverà lettere stupefatte», infine arriverà la recensione stroncatrice: forse uno stamperà una rovente recensione: quella appunto che voglio, che mi aspetto per scoprire se ancora qualche cellula resta viva di me. 2  

E per il poeta si profila una soluzione finale «ll silenzio» composto nella dignità intellettuale negata o riconosciuta, o accettare il proprio fallimento nella ruvida via per l’aπermazione di sé. “La colpa è tua” mi dici, e hai pienamente ragione, ma capisci che il silenzio vuol dire la serena accettazione della fine, il rogo della carta e della carne, lasciarsi andare per forza d’inerzia. 3  

E nella sensazione della sconfitta constata: «Ho fallito il mio compito, quel fine, / sacro dagli anni della mia infanzia. / Oggi non basta denudarsi a fondo / togliendosi la buccia dalla pelle, / sterilizzarsi oltre la ricerca / filologica degli ossi di seppia, / ma mettere la lingua sul braciere / e trovare il linguaggio del mutismo, / del simbolo dei gesti». 4 E allora cos’è il poeta e di quali sentimenti bisogna essere ornati per stendere sul bianco foglio componimenti con faticosa elaborazione d’immagini. Dopo il tentativo di trovare «l’equilibrio tra il vero e il falso» si riparte da capo cercando un’altra via:  

Quindi torno alle origini: dopo il logaritmo esistenziale, la radice semantica, il teorema sentimentale e l’equazione sociale, mi sovviene l’antica rima cuore con amore e – a fondo pagina – con fiore. 5  

Così lambiccando tra le facoltà intellettuali di ragione, di sentimento, di rapporti filologi1

  Liana De Luca, La Grata, cit., p. 145. 3   Ivi, p. 147.   Ivi, p. 148. 4 5   Ivi, p. 151.   Ivi, p. 153. 2

pietro zovatto 340 ci e possibili reazioni degli addetti al mestiere ha passato «una notte fortunata» e può ben dire, aπaticata ma serena, per aver assunto con serietà (o per gioco) – la sua vocazione poetica: «Ho finto un senso al mio presente». E anche se si era impegnata a prendersi sul serio, si mette in gioco con la sua stessa esistenza in un crogiuolo di ironia che frantuma l’io stesso (rischiando di echeggiare Albert Camus nella concezione dell’esistere come assurdo). «Oggi non basta denudarsi a fondo», ma anche questo non è ancora poesia, «sarà troppo eloquente» come i gesti profetici. «E tutto il resto / est littérature» nell’attuale temperie culturale che i sociologi-filosofi già considerano «società liquida» (Zygmund Bauman), per marcare la provvisorietà di ogni valore bruciato in rapida successione, in cui è sempre arduo reperire una risposta a un quesito di orientamento. Cosa posso se tutto è incerto e non c’è una risposta e neanche non la cerco perché so che nessuno potrebbe risolvere l’uguaglianza X = poesia verso il 2000. 1  

Dopo un’attenta disamina alla ricerca di cos’è la poesia, rischiando ‘l’accusa di banalità’, sembra introdursi nel posto più nascosto del proprio io poetante: lo spazio di una consapevolezza di intellettualità autocosciente, e ammettere con umiltà l’antica sapienza: E dunque la poesia è confessare di non conoscerla. 2  

Di fronte a questa posizione di socratica soglia del limite, al poeta altra alternativa non resta che la deriva di un tempo perduto nella futilità dell’intrattenimento dei mezzi di comunicazione. Privarsi del piacere intellettuale e disperdere l’essere, e quindi: guardare Caroselli e revivals, bere whisky seduti sul tappeto ascoltando il free jazz, elaborare uno slogan personale. Povero pulcinella intellettuale. 3  

Ci si potrebbe chiedere a quale poetica s’ispiri esplicitamente Liana De Luca nella dozzina di sillogi pubblicate fino all’apparizione della Grata del 2000? Al di là della delineata concezione della sua poetica, ella stessa definisce l’esistenza del poeta «un’oasi di sogni, che disseta / i fiori del deserto», un vivere «d’illusioni, sorridenti / come echi di bimbo», (da L’oasi) quasi fosse uno scoprirsi uno spazio parallelo al corso esistenziale, ma che, tuttavia, dà forza di sopportare il peso del grigiore quotidiano. Nella sua origine Liana De De Luca si fotografa, come Scipio Scataper, come una mescolanza di alchimia misteriosa e ancestrale, individuando nella sua Bildung culturale le radici della componente latina assieme a quella slava: Nel mio sangue s’alterna l’inquieta stanchezza latina al tacito anelito slavo. (Sono venuta da Folta stagione) 4  

E se a lei – zaratina di nascita – ben si addice la confessione autobiografica di san Girolamo «Parve mihi, Domine, quia dalmata sum» (messo come esergo alla raccolta Poesie) – 1

2

3

4

  Ivi, p. 150.   Ibidem.

  Ivi, p. 149.   Ivi, p. 42.

la nozione di poesia in liana de luca

341 sottolineando l’impetuosità del sentire e del reagire – alla poesia viene attribuito il ruolo benefico di guarigione dalle ferite aperte (Raposodia Notturna da Poesie) in connessione alle tenebre notturne nel mistero del buio, quando: alle finestre accostate restano appese le anime come panni distesi ad asciugare. 1  

Per introdurre in questo modo nell’esercizio del poetare la metafisica della purificazione esistenziale, secondo la saggezza classica dell’estetica greca, il disinteresse dell’arte. Oppure riflettendo con insistenza sul prontuario della poesia aπerma essere sorta dall’infanzia «trasognata di fiabe e di solitari giochi». Proprio in questa prima esperienza del vivere ella vede generarsi il germe del verso: «Per questo / non è colpa se il ritmo a me più noto / è il fruscio delle pagine d’un libro / e l’orizzonte s’apre in cieli chiusi». Nel Mio incontro con Saba in Donne di carta e in Elogio della poesia 2 (prolusione al premio dei Murazzi di Torino) la De Luca riprende e descrive analiticamente quell’incontro col poeta triestino. È notorio che Saba non riservava alle donne particolare carisma poetico. E ricevette Liana con quella nervosità irritata e innocente che in definitiva si rivelò benevola e illuminante sotto il profilo di maestro dei poeti. Come accennato, sul cartoncino improvvisato scrisse Stile-Testa-Cuore. Il sottile equilibrio del dosaggio e la giusta interconnessione di questi tre elementi hanno come esito miracoloso la poesia. La poesia si configura quindi come un germogliare del quid di ispirazione originale, espressione della creatività tipica del vero poeta. E nel 1911 – ricorda la De Luca – Umberto Saba si vide rifiutare l’articolo inviato alla «Voce» di Prezzolini: Quello che resta da fare ai poeti. 3 L’assunto di quel saggio rifiutato (forse perché direttamente attaccava il d’Annunzio e implicitamente anche il Croce) prende spunto in Saba da due autori: il Manzoni e il poeta dalla «vita inimitabile». Sul primo la storiografia del tempo si attardava a discutere quanto di giansenismo incombeva su di lui e quali erano i rapporti con il Tosi; oppure si disquisiva sugli umili e sui grandi dei Promessi Sposi. Sul secondo si cercavano le ragioni del mito del successo presente «nei magnifici versi». Mentre il Manzoni in Inni sacri e in Adelchi esibiva «versi mediocri e immortali». Saba rivela la sua acutezza di critico nel rilevare in d’Annunzio «passioni finte e ammirazione» proprie del suo temperamento magniloquente e barocco. Questo «peccato contro lo spirito», (così lo definisce), la falsità del sentire hanno solo lo scopo di perseguire una «strofa più appariscente», «un verso più clamoroso». Al contrario il Manzoni si pone sulla posizione della sincerità «nella costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione» e alla verità di un autentico sentimento. Da questa situazione emerge «la responsabilità» morale dello scrittore che compie la sua missione «di poesia onesta», in coerenza con una visione della vita che gli conferisce una credibilità vitale tra il protocollo dei valori creduti e lo stile di vita realizzato nella prassi quotidiana. Il filosofo goriziano Michelstaedter, direbbe in questo caso, che lo spartiacque determinante si pone tra «la retorica e la persuasione». La prima è verbosa e immaginifica senza fondamento di verità, la seconda porta l’argomentare che matura nella adesione della convinzione razionale. Privilegiando così nell’esercizio poetico la grande  



1

  Ivi, p. 50.   Liana De Luca, Donne di carta, cit.; Eadem, Premio di Poesia i Murazzi (Prolusione), Torino, Associazione Elogio della Poesia, 2009. 3   Umberto Saba, Quello che resta da fare ai poeti, Trieste, Edizioni dello Zibaldone, 1959 con prefazione e a cura di Anita Pittoni. Carlo Levi portò alla Pittoni questo manoscritto inedito, rimasto per quasi cinquant’anni in un cassetto. Con la sua prefazione lo inserì nella sua collana dello Zibaldone. Nell’artistica edizione si trovano pure due foto (tavole fuori testo), una ritrae Saba nella posa che servì da modello ispiratore al ritratto di Vittorio Bola√; e la seconda di Saba con Giani Stuparich nella libreria di San Nicolò. 2

pietro zovatto 342 virtù della sincerità che risulta essere un valore morale sempre attuale, proprio per la sua precarietà di risultare, a una verifica, spesso inattuale nella società contemporanea. Certo «il poeta – continua la De Luca – è per sua natura libertario», ma secondo il magistero di Gadamer 1 «il testo sia sempre se stesso» pur «nella infinita possibilità di interpretazioni, poiché contiene in sé una pluralità di significati ermeneutici». La De Luca anche se favorevole a questa allusività aperta respinge una concezione di «intellettuale organico» gramsciano. E sfugge anche ad una concezione crociana della «poesia pura», totalmente svincolata dalla eticità, dalla politica o dalla didascalicità, per non diventare «missionaria». Croce è irremovibile nell’aπermare: essere la poesia la verginità della bellezza lirica intuitiva e nient’altro. La De Luca ammette al massimo, al di là di un ruolo consolatorio, o sfogo dell’anima «un ammaestramento», così come l’intendeva Dante. Per avviarci alla conclusione si deve necessariamente ammettere che la De Luca è una rara voce nel panorama della letteratura italiana. Tra tutte le donne emergenti non si è mai lamentata di essere donna e di trovarsi in una situazione di rivendicazione «di quota rosa». Sembra si debba aderire alla constatazione di Sandro Gros Pietro apparsa nella prefazione alla Grata: «Si può definire grande scrittore quando egli abbia saputo delineare una presenza sempre nitida e di riconosciuto valore per un lungo arco di anni, indipendentemente dal riscontro di successo». Vale l’assidua presenza nelle riviste letterarie, ai convegni e l’apprezzata «liturgia creativa dei i poeti». Merita ancora ribadire la sua sottolineata fruizione della «libertas poetandi» nel suo essere presente con quest’arte artigianale sempre in fieri da oltre mezzo secolo. La concezione classica del suo narrare in maniera esperta e colta, senza appesantire di troppa erudizione il suo dettato, così come avviene ad alto livello in Maria Luisa Spaziani. E lei, che si sente quasi esente da ogni credo o passivamente intruppata da una scuola, non piange sopra la propria sorte di essere donna o sul male di esistere. Anche se accusa la noia melanconica de l’appetitus essendi, ma con spontaneità così fluida da essere a ragione chiamata per la sua vena naturaliter poeta. È come pervasa da un innocente istinto creativo che ha come origine e esito un’autentica ispirazione. Possiede un’alleanza sovrana con le parole, piegate con dolce violenza alle più varie significazioni, fino a portarle a esiti di accordi inusitati. E le citazioni dantesche, leopardiane, foscoliane, quasimodiane – di peso riportate – s’inseriscono nel suo tessuto poetico con la duttilità dell’assimilazione senza forzature, pur conservando dei grandi della letteratura un distacco emotivo – segno di una personalità autonoma –. Questa distinzione le permette una leggerezza avvincente. Al termine della prolusione per il Premio di Poesia per la carriera (I Murazzi, Torino, 2009) ella fotografa la sua definizione quando aπerma: «La poesia si fa allo scrittoio, componendo le regole, matematica e invenzione. Forse è inutile ma il suo abbaglio è innegabile», implicitamente riecheggiando Saba, Zanzotto e Montale e la sua personale prova di sincerità di «poesia onesta».  

1   Hans Georg Gadamer, Ermeneutica etica. Filosofia della storia, Milano, Mimesis, 2014. La De Luca mostra di essere al corrente sul filosofo e storico (discepolo di Heiddeger) che di più ha indagato l’ermeneutica nel secolo scorso. Su di lui, oltre a Valerio Verra, che studiò l’ermeneutica filosofica, cfr. Paolo Colombo, Ermeneutica e teologia: verità e storia in H. G. Gadamer, Milano, Glossa, 1995.

L’UNIVERSO FEMMINILE NELL’OPERA DI LIANA DE LUCA Gianna Mazzieri Sanković

N

ella saggistica relativa alla produzione letteraria di Liana De Luca, prevalgono analisi riguardanti la sua identità duplice, la dichiarata origine illirico-partenopea nella quale confluiscono le esperienze di vita vissute tra la madre zaratina e il padre napoletano. Un’identità che si è nutrita del contesto relazionale molteplice in cui è nata capace, in quanto tale, di perptuare quella che Šuran definisce «un’essenza perenne in modi e manifestazioni anche molto diverse, in risposta a stimoli e sfide ambientali di vario genere». 1 Un mondo eterogeneo in cui realtà e ricordo trovano entrambi spazio. Ricostruendo il suo attaccamento alle radici e il costante ritorno alle sponde dell’infanzia e dell’adolescenza, quelle dell’Adriatico orientale, De Luca ritesse, nel contempo, una miriade di relazioni con i percorsi letterari della tradizione, con il sogno, con la realtà esterna e il vissuto quotidiano, fonti primarie di scritture diverse. Nata a Zara, Liana De Luca abbandona la città dal 1943, si trasferisce a Bergamo e di seguito fissa la sua residenza a Torino. Giornalista, pubblicista, narratrice, organizzatrice di cultura, dedica la maggior parte della sua attività creativa alla poesia, un amore nato ai tempi dei banchi di scuola. Già dopo i primi libretti giovanili pubblicati durante il periodo liceale, la giovane poetessa ottiene il consenso della critica che la definisce «naturaliter poeta». Più tardi sarà inclusa in diversi dizionari, antologie e rassegne critiche. 2 La scelta dell’esodo da parte della famiglia De Luca segnerà profondamente il percorso umano della scrittrice e, di conseguenza, vedrà maturare pure quello poetico. Una voce poetica del tutto atipica, che Giacomo Scotti definisce poesia discorsiva nella sua meditata liricità, priva di «stridenti contrasti nelle inevitabili diverse fasi di sviluppo attraverso i decenni, presentandosi, essenziale nella sua validità, riconoscibile e personalissima da sempre». 3 Liana De Luca rimane dunque fedele alla tradizione, la sua poesia è colloquiale e comprensibile ma anche legata strettamente ai temi esistenziali riguardanti la condizione dell’uomo e il suo destino. La critica contemporanea indica da tempo i debiti che la poesia oggi nutre verso la grande lirica ermetica individuando in Ungaretti, Montale ma pure in Saba i punti di riferimento sicuro da parte degli autori. La poetica e l’arte della De Luca attingono oltre facendo tesoro pure dell’esperienza di autori più distanti quali l’Ariosto e il Tasso, oppure di quelli dalla singolare esperienza creativa, quali Gozzano. Il correlativo oggettivo come pure l’accostamento nominale aiutano ad avvicinare l’autrice alla verità. Una tradizione che, insomma, viene rivissuta, risemantizzata senza far crollare un’esperienza letteraria millenaria ma, al contrario as 





1   Fulvio Šuran, Etnos e coscienza collettiva tra identità, diversità e pluralità, Pola, Editore Università ‘Juraj Dobrila’ di Pola-Sveučilište Jurja Dobrile u Puli, 2014, p. 61. 2   Dajana Jurkin, La nostalgia di Zara nella poesia di Liana De Luca, in Tempo e memoria nella lingua e nella letteratura italiana, a cura dell’Associazione Internazionale Professori l’Italiano, Atti del xvii Congresso a.i.p.i., Ascoli Piceno, 22-26 agosto 2006, «Civiltà italiana», 5, 2009, pp. 60-73. 3   Giacomo Scotti, Liana De Luca: radici di Zara in La forza della fragilità, a cura di Elis Deghenghi Olujić, Fiume, edit, 2004, p. 218.

gianna mazzieri sanković 344 sorbendola per tradurla nell’oggi. Facendo proprie radici letterarie che hanno segnato la poesia italiana, radici geografiche, culturali, identitarie, De Luca accoglie pure radici di genere trasmesse da millenni negli spazi della poesia e accolte come testimone prezioso dell’essere uomo/donna. Il contributo intende dedicare spazio al mondo femminile descritto dall’autrice nella sua opera poetica. Questa oπre sotto un’ottica aperta e in continua evoluzione ritratti di donne, ragazze, vecchiette, madri, eroine di tante pagine letterarie, figure fiabesche e della memoria quanto reali e quotidiane. Nell’osservazione deluchiana è doveroso notare la componente onirica, il passaggio frequente dal dato oggettivo alla sua rielaborazione pensata e quindi alla fantasia che lo confina nel sogno. Le esperienze dell’autrice non si concludono mai nell’analisi fine a se stessa ma trascendono a forme nuove, in cui il vissuto viene aπrontato con dovuta ironia diventando palestra di vita. Riflessione e ironia emergono da innumerevoli ritratti nei quali De Luca aπronta la femminilità di ieri e di oggi, l’universale nella donna con correlazioni agli antichi miti ma pure con partecipazione attiva nell’osservazione attenta del quotidiano. Si soπerma sulla natura femminile cercando di definirla nelle sue molteplici manifestazioni presentandoci, una donna che «c’è sempre, c’è tutta; e somiglia a tutte le donne nelle loro innumerevoli diπerenze, da Nefertiti a Elena di Troia, da Melisenda a Penelope e Cassandra. Incontriamo Ilaria e Lucrezia, le shakespeariane Giulietta, Desdemona e Ofelia; la pronipote di Nonna Speranza». 1 Particolarmente significativa a tal riguardo la raccolta in versi del 2004, Ragazze e vecchiette, 2 e quindi un’opera appartenente alla maturità della De Luca. I versi si presentano a momenti nella forma di un’elencazione, altre volte sembrano un insieme di appunti, un susseguirsi di abbozzi e di ritratti che riflettono il pensiero dell’autrice. Acuta osservatrice del quotidiano Liana De Luca annota le contraddizioni della vita e dei valori della contemporaneità, come nei versi: «La ragazza che tiene nello zainetto / tra i libri di scuola nascosto il diario / [...] /Ai videogames preferisce la storia / di Cappuccetto che rincorre il lupo / e lo colpisce con la pistola / nascosta tra i dolci nello zainetto». 3 Negli anni l’autrice si ricuce uno stile personale racchiuso tra il ritmo classico e il verso libero, tra parole appartenenti alla quotidianità «zainetto, training autogeno, elettrodi, gel, libro pulp, tastiera, computer, transgenico, internet», e immersioni continue nel passato, nel mito nell’antica letteratura, greca e latina, riconosciuta la radice di un discorso esistenziale a cui non è possibile sottrarsi. Non mancano, in tutte le raccolte, riferimenti al mito e ad altri autori di cui la De Luca mima motivi e stilemi: Medea, Euripide, la Gioconda, la Madonna, Elena, Ofelia, Cleopatra, Cenerentola. Le fiabe antiche, il mondo greco e romano vengono inseriti organicamente nel quotidiano, come esempi di ritualità, cerimonie, sentimenti di ogni tempo a cui ci si deve rapportare:  





La ragazza fermata nella foto [...] con lunghi e biondi capelli sollevati da un vento sottile sembra la Simonetta del Boiardo. 4  

Frequenti le accezioni umanistiche, culturali, storiche, letterarie alle quali si accompagna un uso attento di termini tecnici. Diventa riduttivo inserire la sua produzione nella sezione appartenente all’autobiografismo che in sé implica l’introspezione psicologica. 1

  Giacomo Scotti, Liana De Luca: radici di Zara, cit., p. 218.   Liana De Luca, Ragazze e vecchiette, Torino, Genesi, 2004. 3 4   Ivi, p. 32.   Ivi, p. 57. 2

l’universo femminile nell’opera di liana de luca

345 È evidente l’esperienza concreta, personale, vissuta ma accanto a questa si profila quella non meno partecipe della rielaborazione interiore del reale, un mondo di riflessioni aperte e segni da decodificare per scoprirne le molteplici sfumature. Questo il motivo che induce la critica 1 a non voler parlare, nelle ultime produzioni, di «fine del percorso letterario» essendo nella natura intima della De Luca naturale il respingere la possibilità di raggiungimento di una ‘fine’. Trattasi, nel suo caso specifico, di un «percorso in continuo cammino, incompiuto tra ombre della memoria, malessere esistenziale e colto divertissement ironico-parodico». 2 Linguaggio nuovo, originale, della quotidianità, di occorrenza che tiene conto delle nuove realtà comunicative che riscontriamo (di Internet, del personal computer) paragonabile per certi versi all’autrice Lina Galli 3 dalla quale si discosta per uno stile meno legato alla tradizione. Lo scrivere, seppure nella leggerezza di immagini, diviene una missione impegnativa che cerca di trovare una collocazione nuova per l’uomo nello smarrimento e nel caos del nostro tempo.  





La ragazza dalla mani aπusolate trattenute dallo spillo dei polsi suona la tastiera del computer incasella notizie nomi date sullo spartito del video. Intanto sogna d’essere solista al pianoforte in un grande teatro. 4  

La raccolta Ragazze e vecchiette, risulta originale sia per il suo argomento sia per la scelta di aπrontare la tematica femminile in modo speculare rapportandosi a due condizioni antitetiche e anteposte, quella della ragazza e quella della vecchietta. Nel confronto tra il passato e il presente, tra la donna di oggi e quella di ieri, tra le abitudini ataviche ed eterne che vedono sostanzialmente mutamenti di contesto ma comportamenti identici nella sostanza (nel tempo), la De Luca oπre una tela ad incastro, simile a quelle ordite dagli autori di poemi rinascimentali, per cui ogni momento si unisce e si specchia ad un altro nella sua sequenzialità temporale e concettuale riflettendone nuovi aspetti e nel contempo lasciando aperta la risposta definitiva o meglio non consentendone la conclusione. Un insieme di riferimenti che aiutano a definire la donna, nella sua continua evoluzione. Per valutarne le esperienze, la De Luca ne esibisce ritratti diversi, a rapide pennellate, frammenti di immagini, quadretti di vita quotidiana che per il loro relazionarsi assumono nuovi significati diventando quasi esemplificativi. Volutamente oggettivo il modo di presentare il ventaglio di figure femminili racchiuse in momenti di vita singolari, di persone comuni che agiscono in perfetta sinergia con l’insieme nel ripetersi ciclico a distanza di decenni, di gesti e riflessioni. Nasce così nelle liriche la forza vitale del mondo femminile che si nutre del presente vissuto nello scambio tra persone, ruoli, e nella successiva loro ricomposizione a distanza di anni. In Ragazze e vecchiette la rappresentazione è contesa tra due estremi che si avvicendano e contrappongono per fondersi, a momenti, in quadri speculari. Diversi fotogrammi di vita in cui la poetessa racchiude i volti, le esperienze, le riflessioni. 1

2   Giacomo Scotti, Liana De Luca: radici di Zara, cit., p. 226.   Ibidem.   Edda Serra, Lina Galli tra percezione e persistenza, in L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura, Atti del Convegno internazionale, Trieste 28 febbraio-1 marzo 2013, a cura di Giorgio Baroni, Cristina Benussi, Pisa-Roma, Serra, 2014 («Biblioteca della “Rivista di letteratura italiana”»), p. 95. 4   Liana De Luca, Ragazze e vecchiette, cit., p. 24. 3

gianna mazzieri sanković 346 Decisamente armonica, la ra√gurazione risulta studiata in ogni minimo dettaglio. Segno questo di una misura creativa nel dire i colori, i pensieri, il paesaggio, prevalentemente urbano e caotico, in cui la donna rischia di perdersi se non fosse per la sua determinazione a riconoscersi nei ruoli e nelle relazioni con il quotidiano e con il vissuto. Nella produzione novecentesca predomina l’assenza di appigli, di piedistalli, di certezze, di fronte a quello che viene vissuto spesso quale caos del contemporaneo, ma nella scrittura femminile della De Luca, di fronte alla denuncia del caos circostante, della riproduzione di una Babele di tipologie umane diverse, rimane spazio per l’ordine riscontrabile nello stesso esser uomo, individuo su questa terra avente compiti e competenze precise. Le donne della De Luca sono tutte impegnate: ad aπrontare il mercato, a fare da badanti, a studiare, a corteggiare, ad attraversare semplicemente la strada, ma si relazionano allo spazio e al tempo presente e vi trovano una collocazione precisa. In questo senso la donna viene immersa in un ambiente materializzato e concreto che rientra nella corporeità sia delle cose sia del vissuto. Sono le cose che parlano, non in sé bensì in relazione alla loro funzione e al loro rapportarsi all’uomo e al tempo. Il vissuto si sprigiona anche attraverso la forza evocativa delle immagini per cui anche le cose, gli oggetti, le frasi apparentemente insignificanti, si coprono di una valenza nuova attraverso la quale il presente e il passato vengono immortalati in tanti istanti di vita (abiti, oggetti, profumi, sapori, odori...). Questi, provenienti da epoche diverse, risultano un singolare accostamento di sensazioni ricordi, emozioni, dati che si intrecciano in una coerente interpretazione e in associazioni che liberamente si accastellano nel momento in cui rievocano immagini del passato. Il continuo risalire nel tempo, la mediazione tra i due piani temporali, passato rivissuto e presente, riplasmano completamente l’esperienza osservata mettendo in gioco le infinite immagini espresse in forme frastagliate e mai circoscritte. Si entra così dentro a quelle che Cristina Benussi definisce «prospettive plurime, anche contradditorie, come voleva il sapere femminile. Cosa significa raccontare, infatti? Significa parlare in relazione a qualcosa che va comunicato a un ascoltatore esterno, e sondare la propria coscienza per sforzarsi di tener conto di tante possibili angolature da cui valutar l’accaduto. Significa mettersi anche dalla parte dell’altro». 1 Sdoppiamenti di immagini di ragazze che poi diventano vecchiette eppure entrambe viste nel tempo presente che a volte si trasforma nel tempo del mito diventando onnipresente. Simmetrie e parallelismi che tendono a unificarsi ma anche a segnalare discrepanze rendendo di√cile a momenti il ricongiungimento. Nell’introduzione al volume GrosPietro osserva che «si tratta di quel gioco di specchi tra realtà, verisimiglianza, fantasia che da sempre De Luca utilizza per dilatare a dismisura l’ampiezza e la profondità della vita, arricchendo la quotidianità dei fatti con la ricostruzione alternativa di mille vite parallele, solo sognate o descritte dalla letteratura, utilizzando come modelli i classici». 2 La riproduzione delle cose e della realtà in alcuni tratti viene piuttosto espressa in uno stato di sospensione che consente all’autrice di osservare dall’esterno divenendo narratore e non partecipe del descritto. Emergono incongruenze tra il tradizionale modo di aπrontare la vita della comunità e le certezze intime dell’individuo. È sottile il richiamo alla psicologia femminile. Si interpreti in questa chiave la riflessione della vecchietta nel dover attraversare il passaggio pedonale mentre intimamente spera che nessuno l’accompagni al semaforo. Negando i propri anni, ricusa il tempo e i limiti imposti dalla società:  



1

  Cristina Benussi, Cambiare il mondo, Milano, Unicopli, 2014, p. 105.   Sandro Gros-Pietro, Prefazione in Liana De Luca, Ragazze e vecchiette, cit., p. 12.

2

l’universo femminile nell’opera di liana de luca

347

La vecchietta che [...] spera nessun boy-scout le si avvicini per farle scorta nella traversata lungo le zebre pedonali, in quanto coi nuovi occhiali ci vede benissimo il suo passo è ancora sicuro e soprattutto la infastidisce la pressione sudata della mano sulla pelle sensibile del braccio. 1  

Passato e presente, per quanto divisi, riescono a reggere l’impatto del tempo sul mondo e far collimare in molti punti gli aspetti di un’umanità che ritorna seppure modificata da nuove esperienze. Si manifesta in forme diverse ma sostanzialmente non contradditorie. La prospettiva della De Luca risulta in ultima analisi conciliante seppure oscilli tra il reale e l’onirico. La sua scrittura, registrando il vissuto e il quotidiano divora passato e presente facendoli diventare un tempo unico, immobile. Il percorso della donna deluchiana è comunque pieno di ostacoli che questa aπronta trovando piena collocazione nella certezza del legame profondo con la terra (ovvero la madre), le origini e le radici. La figura della madre, che in questa raccolta risulta oggettivata, nelle altre sillogi poetiche è determinante, chiave (cruciale) e segna il percorso dell’autrice «al mare ricordo mia madre:/ la sua impronta di punta mi precede». 2 L’immagine della madre, della tradizione, del recupero dell’identità e della crescita si percepisce nei versi di Surf in cui l’autrice con abile contrapposizione realistica di un’immagine moderna aπronta la sua esperienza di vita:  

Nuoto controcorrente e lascio che le onde mi sollevino e mi depongano come u surf. Così mi dovevo sentire quando la mia nonna mi cullava con mano più esperta di quella materna. 3  

L’origine e l’appartenenza a uno spazio non si ritrovano solamente nella terra dell’infanzia, quella terra dalmata perduta eppure viva nei ricordi, ma anche, e certamente più intensamente, nelle certezze di una civiltà che trasmessa dalla letteratura si radica profondamente nel pensiero dell’autrice dandole una possibilità singolare di leggere il presente. Analogamente ad altre scrittici contemporanee la De Luca presenta figure femminili che risultano esser state vere e proprie maestre di vita, donne che hanno contribuito alla sua formazione culturale e soprattutto identitaria e che le hanno inculcato valori che altrimenti sarebbero andati perduti. 4 Tra queste emergono la figura della madre e della nonna anche in versi che cercano di render universale l’immagine della vecchietta che: «Non apre gli occhi neanche quando irrompe / la frotta numerosa dei nipoti / esortati a far piano dalla figlia». 5 Nella ra√gurazione completa della realtà non manca un aspetto determinante per l’espressione della propria identità: la lingua materna. In Ragazze e vecchiette De Luca inserisce pure una poesia scritta nel dialetto di Zara riportando le atmosfere particolari con ricchezza di sentimento e recuperando, nella sua forza evocativa, il dialetto che  



1

  Liana De Luca, Ragazze e vecchiette, cit., p. 48. 3   Liana De Luca, Okeanòs, Torino, Genesi, 2005, p. 49.   Ivi, p. 38. 4   Cfr Corinna Gerbaz Giuliano, Gianna Mazzieri Sanković, Non parto, non resto... I percorsi narrativi di Osvaldo Ramous e Marisa Madieri, Trieste, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, 2013, p. 136. 5   Liana De Luca, Ragazze e vecchiette, cit., p. 53. 2

gianna mazzieri sanković 348 appartiene alla sua infanzia e, di conseguenza, l’infanzia stessa. La scrittura diviene uno strumento eccezionale attraverso il quale la scrittrice-donna, in un modo chiaro e scorrevole non privo di ironia, privilegia la narrazione della vita, la ricomposizione di una realtà complessa e intensa nell’impegno dichiarato di capire e far capire. Pur condividendo l’aπermazione di Liliana Martissa per cui «Le donne, per la loro peculiare sensibilità e capacità di introspezione sono portate a essere le ‘vestali della memoria’, custodi delle storie familiari e delle tradizioni della propria terra che sono fondanti per l’identità sia dell’individuo che di una collettività» 1 e riscontrandone ampi esempi nella produzione deluchiana specie in testi dedicati al ricordo della terra natia e alla famiglia, 2 è doveroso ravvisar pure la volontà dell’autrice di aprirsi, di superare lo specifico territoriale – identitario, per rivolgersi a un universale riguardante, nel caso della raccolta Ragazze e vecchiette, tutte le donne di tutte le età e di tutti i tempi.  



1

  Liliana Martissa, L’esodo giuliano nella scrittura al femminile, in L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura, cit., p. 262.   Cfr. Dajana Jurkin, La nostalgia di Zara nella poesia di Liana De Luca, in Tempo e memoria nella lingua e nella letteratura italiana, cit., pp. 64-65. 2

GIORGIO GASPAR: RACCONTI DELL’ESILIO Carmen Sari L’Istria, a guardarla dall’alto, sembra un cuore che si sporge sul mare, una grande conchiglia. Un lembo di terra che, nell’interno, cambia forma col passare degli anni. E delle guerre. E dei trattati di pace. Una linea sposta i confini, e sposta le vite delle persone. Per questo fazzoletto di terra sono passati tutti: italiani, austriaci, francesi, ungheresi, slavi. I territori di confine sono così: multilingue, multietnici. Le culture si incontrano, si mescolano, e magari provano a capirsi. Oppure si fanno la guerra. 1  

C

on queste poche righe Simone Cristicchi, nella premessa al volume Magazzino 18, intitolata Una terra a forma di cuore, interseca le immagini di un passato doloroso con quelle di un turismo di massa, che conosce solo il mare splendido, i tramonti da sogno e le città antiche, al fine di veicolare un’italianità ancestrale ancora ignota ai più. Anche Giorgio Gaspar, scrittore nato a Zara nel 1935, mette al centro della sua narrazione la terra a forma di cuore e pone il focus sulle terribili vicende dell’Istria e della sua gente degli anni Quaranta. Un fiore sulla carta. Ricordi di un esule, edito nel 2010, è una raccolta di ventitré racconti che narra la vita nei centri raccolta profughi con riflessioni sulle soπerenze degli esuli istriani e dalmati. Tali testi, pubblicati in Italia e all’estero, tradotti in lingua croata e inglese, alcuni dei quali vincitori di premi nazionali e internazionali, rappresentano squarci di vita di un popolo travolto da una spietata guerra, costretto ad abbandonare le radici, le tradizioni, per poter vivere o almeno sperare in un mondo libero. In questo volume trovano spazio e risonanza le tematiche più significative della storia friulana, quali le invasioni subite, le guerre mondiali, le emigrazioni, gli echi degli avvenimenti più remoti. Gaspar narra l’esodo giuliano-dalmata, focalizzando l’attenzione, in modo particolare, sul dramma umano, familiare, corale: Ho vissuto all’inferno per un solo anno, ma ne conservo i tristi ricordi e i segni profondi, come ne avessi vissuto cento. [...] L’inferno, noi esuli giuliani e dalmati lo abbiamo conosciuto molto bene: prima sotto le bande titine e poi in Italia. L’inferno è qualcosa che ti brucia dentro, qualcosa che ti annienta nel fisico e nello spirito, dove la fame, la miseria, l’umiliazione e il degrado ti aπossano, ti fanno sentire inutile e ti auguri che questo flagello finisca presto, bene o male. Questo è quello che abbiamo soπerto noi giuliani e dalmati: uomini, donne, bambini nei campi profughi italiani, dopo la seconda guerra mondiale. 2  

L’atto del ricordare è rappresentato quale un dovere per il sopravvissuto quanto per chi non lo è, e che del primo acquisisce una forma di memoria collettiva. In questo libro, scritto a scopo di liberazione interiore, i ricordi corrono lungo due distinte correnti: una governata dallo scrittore come personaggio (Gaspar nei campi profughi), l’altra dall’autore in qualità di narratore (Gaspar nel ruolo di sopravvissuto che scrive le sue memorie). Il mattino ci si svegliava molto presto tra le parti fatte di coperte militari di lana spesso unte e il 1   Simone Cristicchi, Premessa. Una terra a forma di cuore, in Idem, Magazzino 18. Storie di italiani esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia, con la collaborazione di Jan Bernas, a cura di Simona Orlando, Milano, Mondadori, 2014, p. 3. 2   Giorgio Gaspar, Memorie di un esule, in Idem, Un fiore sulla carta. Ricordi di un esule, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2010, p. 3.

carmen sari

350

continuare a dormire era impossibile tra il pianto stridulo dei bambini, il tossire insistente e prolungato degli anziani e qualche lite tra donne. Una convivenza impossibile! L’aria era irrespirabile e guardando il so√tto si vedeva stagnare una nebbia di fumo di sigarette e vapore acqueo e quando qualcuno cercava a fatica e furtivamente di aprire le ampie finestre della camerata, allora si alzavano inviti non tanto bonari a richiuderle perché entrava del freddo, il riscaldamento non c’era e così si viveva in quell’atmosfera. Ma bisognava continuare, stringendo i denti per sopravvivere, nella speranza che presto tutto sarebbe cambiato. 1  

Tali rimembranze indicano il passaggio dal mondo dell’adolescenza e della spensieratezza a quello della maturità e della consapevolezza della realtà storica, nonché delle sue conseguenze sulla popolazione giuliano-dalmata. Ritornano vivi i momenti felici e tranquilli trascorsi quotidianamente nelle città e nei paesi abbandonati, tutti sono travolti da un mare lontano di ore serene. Un desiderio impellente di pace, tranquillità e riposo si impossessa di questa umanità e per molto tempo regna il più assoluto silenzio, molti trattengono persino il respiro, sembra che un profondo sonno sia calato. 2  

Si procede dalla prospettiva del reduce all’angosciosa contemplazione dell’esodo. La struttura del racconto in prima persona è tale che i due assi tendono spesso a convergere, a misura che l’autore-personaggio diventa l’autore-narratore. Caro Giorgetto, posso dirti solo che se oggi hai riposto quei tristi momenti della tua fanciullezza, vissuti in una stagione che doveva essere serena, in un angolo del tuo cervello, non dimenticarli e raccontali a chi non ha vissuto la triste esperienza dell’esodo. 3  

La mente ritorna ai giorni terribili dell’esodo e ne rievoca i momenti più tragici, portando in superficie l’odore della vita-non vita dei campi profughi, della privazione della propria identità e della morte che governava e imperava in quei luoghi remoti geograficamente ma vicini mentalmente. Il lavarsi con l’acqua ghiacciata era una tragedia, non solo per i bambini e gli anziani ma anche per i giovani: non parliamo di farsi una doccia, roba da rimanere stecchiti! Ricordo che verso le undici di mattina uscivo con i miei per dirigerci nell’attuale Ospizio di S. Giovanni e Paolo, dove era stata allestita una mensa per noi giuliani e dalmati, solo per il pranzo. Stavamo tutti in fila ad aspettare il nostro turno per poi sederci su dei lunghi tavoli in una sala, anche questa fredda, sul lato sinistro dell’entrata, per mangiare un piatto di minestra calda, in fretta, molto in fretta, perché c’era altra gente in piedi che aspettava. 4  

Si tratta di dare voce a un aπresco storico, etico, sociale, politico, culturale, per certi versi, ancora ignoto al grande pubblico. Agli inizi del dopoguerra, numerosi treni carichi di una moltitudine di esuli giuliani e dalmati sono stati convogliati verso i centri di raccolta profughi. L’aria stagnante e soπocante che si respirava all’interno dei vagoni, i sedili di legno consumati dall’uso, la presenza di uomini e donne con vecchie valigie di cartone, di bambini aπamati e assetati, ricordano «i prigionieri che i tedeschi portavano verso i lager». 5 La soπerenza per la mutilazione identitaria è condensata da Gaspar in uno dei suoi ritratti più mirabili per tragicità ed intensità emotiva, magistralmente consegnato alle pagine de Il treno. Si tratta di Neta, una anziana signora, «di corporatura robusta, una bella carnagione, capelli di un bianco quasi angelico, con lo scialle appoggiato sulle spalle», la quale sedendo accanto al marito, un uomo magro, mani rugose e pallide, il cui aspetto denota lontane soπerenze e preoccupazioni, con sulle esili gambe un grosso e pesante involucro contenente indumenti e qualche attrezzo per il suo lavoro, mormora tra sé:  

1

  Ivi, p. 24.   Ivi, pp. 17-18.

4

2

  Ivi, p. 24.

3

  Ivi, p. 84.   Ivi, p. 21.

5

giorgio gaspar: racconti dell’esilio

351 «Cossa gavemo fato? Dove andemo adesso? Gavemo lassà la nostra tera, le nostre cese, cossa ne resta? Niente, proprio niente!». Sul viso dell’uomo si accende uno spento sorriso, gli occhi si illuminano e stringendo la mano della moglie, con voce stanca sussurra: «Adesso gavemo la libertà». 1 Durante il viaggio, nei momenti di silenzio, la mente trasmigra lontano dal treno della disperazione e ritorna ai paesi natii, lasciati involontariamente, sui quali sembra essere calato il sipario. Tali processi involontari della mente appaiono violenti per la loro stessa natura: l’autore, infatti, presenta in parallelo un movimento lungo l’altro asse della memoria, dal campo di concentramento al momento normale della sua gioventù. Attraverso le contaminazioni aggressive di sogni, odori e profumi si incontranoscontrano due mondi opposti: a seconda della direzione prospettica intrapresa il presente può apparire, simbolo di morte e desolazione, e il passato, cifra intrisa di speranze ormai svanite. Il timore che il presente possa contaminare ed annientare quanto conosciuto e fatto proprio nel mondo precedente serpeggia in ogni racconto, come si evince dal seguente passo: «Quando avevi solo otto anni nel 1943, lo ricordi caro Giorgetto, eri felice e spensierato, aspettavi la domenica in trepidante attesa perché finalmente i tuoi ti acquistavano Il Corriere dei Piccoli o L’Avventuroso, due giornali per bambini, anche se i contenuti erano diversi». 2 Le particolarità della prosa di Gaspar non sono solo la forte comunicatività, la concisione, la chiarezza espositiva, ma anche quella peculiare tessitura di prosa riflessivomorale che ha nella forma del racconto breve la massima espressione. Tale asserzione trova conferma in modo particolare nel racconto Morire a Zara, in cui Gaspar tratteggia con pennellate chiaroscurali la figura di Giacinto Trupiano, un insegnante di matematica, proveniente dalla Toscana, il quale costretto a lasciare le aule scolastiche per indossare la divisa di sottotenente, il 26 maggio 1942 rimase vittima, assieme ai suoi uomini e al prefetto della provincia, avvocato Vezio Orazi, delle bande titine. Così lo scrittore lo ricorda:  



Giacinto Trupiano era un giovane elegante e bello, con la parlantina sciolta, il suo modo di fare aπascinava le sue giovani allieve delle magistrali, che lo guardavano con gli occhi sognanti. Conobbi questo giovane professore in casa di mia nonna quando veniva a dare ripetizione a una zia. [...] Fu l’ultimo ad essere colpito da diverse ra√che di mitraglia. Con il sangue che cadeva copiosamente dal suo corpo e con la pistola ancora fumante levò gli occhi al cielo e il suo pensiero fu per la sua Toscana, sua madre e per Zara che amava, che ora sapeva persa per sempre! 3  

Oltre alla finalità civile e storica della testimonianza, Gaspar comunica con parole austere e super partes l’esigenza di liberazione interiore sottesa all’atto della testimonianza stessa. Sono uomini scalmanati, dallo sguardo crudele con bocche spalancate, bandiere rosse, qualche cartello con frasi provocatorie e ostili, bloccano la speranza di questi esuli italiani che non capiscono il perché di tanto odio crudele, di ottusità da parte dei fratelli italiani, nei quali un’ideologia ha oscurato e annullato ogni più semplice sentimento di umanità cristiana. 4  

Altro aspetto fondamentale è la funzione allocutoria. Il racconto ha significato solamente nel contatto con il lettore o con l’ascoltatore, a cui è delegato il giudizio sugli eventi narrati. «La funzione testimoniale dell’opera» – osserva Franco Baldasso a proposito della produzione di Levi – «non solo determina lo statuto di verità del narratore, ma tramite 1

  Ivi, p. 22.   Ivi, pp. 31, 32.

3

2

  Ivi, p. 81.   Ivi, p. 25.

4

carmen sari 352 gli stessi intenti programmatici del libro e le conseguenti strategie formali, ne costruisce la figura attraverso il patto con il lettore e l’intrinseca dialogicità». 1 L’atto del ricordo acquisisce una forma di memoria collettiva, anche quando tale azione sembra una violazione della propria intimità e stendere un velo sui ricordi consente di guardare il presente con sorriso, anche se appena accennato.  

Spesse volte, forse per mancanza di idee da mettere su fogli bianchi, uso prendere dei raccoglitori da uno scaπale pieno di polvere, con qualche piccola ragnatela, ripetendo tra me perché li conservo ancora colmi di appunti per racconti, fotografie, ritagli di giornali, copertine di riviste. Il farlo mi rilassa, mi allontana dal presente ossessivo, ripetitivo e mi porta lontano nel tempo vissuto con momenti di gioia, ma anche con tanta profonda tristezza. 2  

Nel racconto La valigia, un signore anziano risponde così al suo nipotino Alvise, che gli domanda perché conservasse ancora la vecchia valigia con cui assieme a sua nonna aveva lasciato un’Istria non più tale, polverizzata da bombardamenti che dilaniavano persone e oggetti: «Dentro ci sono le illusioni, le speranze, le soπerenze mie e di tua nonna, le radici profonde della nostra famiglia di esuli istriani e quando sarai diventato adulto e io non ci sarò più, aprila dolcemente e ricordando le mie parole capirai la tragedia che ha colpito non solo i tuoi nonni ma tutte le genti giuliane e dalmate». 3 La memoria umana «è uno strumento meraviglioso ma fallace» 4 – scrive Primo Levi in apertura al primo capitolo dei Sommersi e i salvati. Tale aπermazione trova rispondenza anche nei racconti di Gaspar, in cui la narrazione ha il compito di sedimentare nella memoria le atrocità del passato, per consegnare alle generazioni future le combinazioni di casseforti rimaste per troppi anni blindate. La svolta etica dalla memoria involontaria a quella volontaria si fonda, per certi versi, su un’altra dualità, quella riguardante la mente e il corpo. Gaspar, come altri esuli, risente in modo drammaticamente acuto del trauma derivante dalla deportazione. La memoria sensoriale e involontaria costituisce il leit-motiv e si sviluppa su tre elementi cardine: i sogni, gli odori, la musica. Questi ricordi che contrassegnavano la realtà degli esuli prima di essere tali, a√orano e violano in senso positivo l’involucro protettivo e soπocante, costituito da divieti e privazioni, che avvolge i prigionieri insonni. Riporto qui, a titolo esemplificativo, un passo tratto dal racconto Dio, fermali!, in cui un signore anziano racconta ad un interlocutore anonimo, ma che possiamo facilmente identificare in Gaspar, le immagini e le scene di un passato, ormai lontano, che ancora aπollano la sua mente e che tormentano le sue notti: «Di notte rivive con soπerenza e tormento questo triste periodo vissuto nel lager, si agita, invoca aiuto, altre volte si sveglia di soprassalto con la bocca spalancata, lo sguardo vuoto e si guarda le mani con angoscia». 5 La realtà precedente ria√ora e cancella il presente, invertendone il rapporto sia con il ricordo che con il passato, facendo del presente un sogno e dell’incredibile e crudele passato la vera dimensione esistenziale. Nel racconto Uomo, ancora pochi secondi, un anziano supplica l’ombra nera della morte che lo sta chiamando a sé, di concedergli qualche attimo in più per ripercorrere, novello Proust, la sua infanzia attraverso l’immagine di alcuni bambini che giocano felici sotto lo sguardo vigile dei genitori. I suoi occhi spenti, vitrei, si illuminano improvvisamente e sulle labbra screpolate compare un lieve sorriso.  





1

  Franco Baldasso, Il cerchio di gesso. Primo Levi narratore e testimone, Bologna, Pendragon, 2007, p. 28. 3   Giorgio Gaspar, Un fiore sulla carta, cit., p. 100.   Ivi, p. 53. 4   Primo Levi, Sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 3. 5   Giorgio Gaspar, Un fiore sulla carta, cit., p. 67. 2

giorgio gaspar: racconti dell’esilio

353

Ricorda quando giocava nei giardini pubblici della sua città, tanti e tanti anni fa, assieme agli amici ormai scomparsi nel nulla, attenti al richiamo delle madri che chiacchieravano in disparte sempre preoccupate: prima controllavano i figli e poi tendevano l’orecchio al cielo per percepire eventuali rumori lontani. Spesso il terrore, la paura, la morte, la disperazione accompagnate da un cupo rumore di motori venivano dal cielo. Come quella triste domenica del 28 novembre 1943, quando un fuoco infernale all’improvviso piombò su di una giostra colma di felici bambini mentre i colpevoli si allontanavano nel limpido cielo. 1  

La mente dell’uomo rivive ancora momenti dolorosi, vissuti intensamente, tra i quali spiccano i crampi della fame che hanno tormentato il suo stomaco di bambino per molti anni, le immagini di uomini e donne legati, segnati dalle immani soπerenze, i loro occhi imploranti aiuto e i piedi sanguinanti. Nel concedersi alla sua interlocutrice, le ribadisce che «le nostre soπerenze non moriranno finché vivranno i ricordi e come disse Ezra Pound: quello che veramente ami non ti sarà strappato». 2 In Il bambino che sognava, Gaspar racconta brandelli della sua vita, l’esodo compiuto dalla famiglia quasi per fissare i ricordi nella mente, per impedire che anche essi venissero spazzati via come la popolazione giuliano dalmata. Giorgetto, come aπettuosamente chiamato, ha frequentato le scuole primarie in diverse città.  

Avevi frequentato nella lontana Zara, presso la scuola Cippico, la prima e la seconda elementare con un’anziana e severa maestra, vestita con uno stretto camice nero, dal quale mancavano diversi bottoni. [...] La terza e la quarta elementare le frequentasti a Lussingrande e Lussinpiccolo, due meravigliosi paesi. [...]. A Venezia, caro Giorgetto, frequentasti la quinta elementare in un ambiente tranquillo. 3  

Si pone anche l’accento sull’atmosfera che si respirava nelle varie località ospitanti ma non accoglienti, le quali si dimostrano ostili verso coloro che non conoscono, che avvertono come straniero, consapevoli o inconsapevoli di condividere la medesima nazionalità, come emerge dal seguente passo: Non conoscevi nessuno e nessuno voleva conoscerti. I compagni di classe cercavano di starti alla larga, influenzati dai discorsi delle famiglie. Ti chiamavano: slavo, fascista, figlio di ladri che rubano il posto di lavoro e le case agli italiani. 4  

L’entrata dell’Italia nel Secondo Conflitto Mondiale è paragonabile al crollo di un muro alto e protettivo, che ha posto in evidenza la fragilità, la soπerenza, la finitezza dell’essere umano. Gli Istriani hanno percepito la sensazione di essere esposti a una bora violenta e senza fine, di essere stati proiettati all’interno di un vortice in cui si sarebbero uditi solo lamenti, pianti, voci esprimenti il vuoto interiore che albergava nel loro animo. Su tutti gli esuli istriani e dalmati imbarcati pesa incessantemente il ricordo delle radici recise all’improvviso con violenza, l’aver abbandonato in oscure mani i loro morti, le chiese dove con solenni cerimonie vennero o√ciati battesimi, matrimoni, funerali, funzioni liete e tristi dei loro avi durante la loro esistenza terrena, la cattiva e ostile accoglienza dei fratelli italiani e la preoccupazione per il dover aπrontare una vita in una terra sconosciuta con usanze, lingua e costumi diversi. 5  

Protagonista del racconto La lacrima spezzata è Giuseppina Antonietti, una giovane maestra, figlia di un impiegato postale trasferito a Rovigno per ragioni di lavoro. Giuseppina, dopo aver esercitato la sua professione nei paesini di Lussino e Cherso, nel 1943, in quanto insegnante italiana, venne prelevata dalla sua abitazione di Confanaro, tra le urla disperate e imploranti della madre. Il corpo di Antonietta viene violato per giorni, le for1

  Ivi, pp. 69-70.   Ivi, pp. 11-12.

3

2 4

  Ivi, p. 12.

  Ivi, p. 72.   Ivi, p. 58.

5

carmen sari 354 ze gradualmente l’abbandonarono, lei, immobile, urlava il nome del marito, «scomparso nel nulla una sera mentre ritornava a casa dal lavoro». 1 Antonietta, fuggita da tali violenze, con i vestiti laceri, scalza, i piedi sanguinanti, gli ematomi visibili sul volto, i capelli scomposti, gli occhi terrorizzati, vaga senza meta per un tempo imprecisato, fino a quando un giovane militare, vedendola, ricorda gli insegnamenti ricevuti in seminario qualche anno prima e decide di aiutarla. Viene visitata, curata, ma «le violenze, le continue paure, le visioni di morte, avevano distrutto non il suo fisico abbastanza robusto e giovanile, ma oπuscato per sempre la sua povera mente». 2 Antonietta viene ricoverata presso l’ospedale psichiatrico nell’isola di San Servolo e qui, abbandonata da tutti, «come tante altre vittime innocenti dell’odio razziale, si spense soπocata da un mondo di paura e malvagità nel maggio del 1946». 3 I protagonisti maschili dei testi di Gaspar sono anziani, camminano con passo insicuro, hanno volti segnati da profonde soπerenze, occhi acuti, mani callose e tremanti, braccia scarne, il petto pieno di profonde cicatrici «provocate dalla siba (frusta) che i carcerieri, con qualche bicchiere di troppo, usavano per ogni più piccola infrazione al regolamento del lager». 4 Nessun testimone vuole che si citi il suo nome e Gaspar aπerma a tale proposito: «è triste pensare che a distanza di decenni la paura abbia ancora profonde radici in lui». 5 Quel desiderio di privacy equivale a mettersi davanti a uno specchio e raccontare non tanto agli altri, quanto a se stessi gli orrori vissuti, ammettendo che proprio loro, quei ragazzi un tempo felici ed ingenui, sono stati protagonisti di quegli eventi. Concludo questa mia breve comunicazione, citando alcuni versi di Borghese che Gaspar ha anteposto al racconto La lunga linea dell’orizzonte: «Non è vero che il pane che mangio e il vino che bevo in questa terra, a me sempre straniera, è lo stesso di prima. Nulla è più com’era. Tutto è qui diverso anche l’aria che respiro. Ed anche noi, gli emigrati lo spazio e il tempo ci ha ormai mutati». 6  











1

2

3

4

  Ivi, p. 46.   Ivi, p. 50. 5   Ivi, pp. 73-74.

  Ivi, pp. 49-50.   Ivi, p. 66.   Ivi, p. 57.

6

SPORT E POESIA: UNA SCHEDA PER FUGHE NEI SECONDI DI VLADIMIRO MILETTI Alberto Brambilla 1. Un testo pionieristico

C

ome ben sanno gli addetti ai lavori, il rapporto fra sport e scrittura 1 e in particolare quello tra sport e poesia, è, per diverse ragioni, tra i più complessi e dibattuti, ed è ancora lontano dal trovare una soluzione (se mai sarà possibile) soddisfacente. 2 Nonostante un notevole lavoro di riflessione e commento compiuto in questi ultimi decenni, si ha l’impressione che ancora manchino all’appello, e dunque all’esame storico-critico, non pochi testi, forse sepolti in fogli o riviste minori e periferiche, o magari a√date a plaquettes che ebbero scarsa se non nulla visibilità nazionale. Essi dunque corrono il rischio di essere per sempre dimenticati, a meno di avviare minuziose ricerche mirate oggi rese meno di√cili dagli strumenti elettronici. Da qui si avverte la sensazione di continuare ad aπrontare i soliti testi, numericamente piuttosto limitati, senza per altro la forza e la costanza per costruire un primo, sia pure provvisorio, canone della cosiddetta ‘letteratura sportiva’, e di conseguenza anche un catalogo criticamente fondato della ‘poesia sportiva’ italiana. In questa situazione di generale incertezza – e tuttavia carica di potenziali sorprese – un posto di rilevo è storicamente riconosciuto a Trieste e all’area giuliana, se non altro per le Cinque poesie per il gioco del calcio (1934) di Umberto Saba, veri e propri archetipi della moderna poesia sportiva. 3 L’interesse per tale genere di scrittura non è però limitato all’apporto  





1   Per un primo quadro d’insieme, cfr. Sapere di Sport. Le parole le finzioni le culture dello sport, a cura di Stefano Jacomuzzi, Torino, Guanda-Comune di Torino, 1983; Letteratura e sport, Atti del Convegno di Foggia, 22-23 maggio 1985, a cura di Carmen Prencipe Di Donna, Bologna, Nuova Universale Cappelli, 1986; Alberto Brambilla, Sergio Giuntini, Scrittura e sport. Primi sondaggi otto-novecenteschi, Verona, Libreria editrice universitaria, 2003. Contemporaneamente a quest’ultima pubblicazione sono apparsi (solo preceduti da un notevole volume monografico di «“Versants”. Revue suisse de littératures romanes», 40, 2001, su Sport et littérature) gli Atti di ben tre convegni cronologicamente riavvicinati: Letteratura e sport, Atti del Convegno su Letteratura e sport, Roma 5-7 aprile 2001, a cura di Nicola Bottiglieri, Arezzo, Limina, 2003; Corpi letterari. L’esperienza sportiva nella cultura contemporanea, Atti del Convegno Sport e letteratura, Vercelli 1-2 ottobre 2004, a cura di Giusi Baldissone, Edoardo Tortarolo, Novara, Interlinea, 2005; Letteratura e sport. Per una storia delle Olimpiadi, Atti del Convegno internazionale, Alessandria-San Salvatore Monferrato 18-20 maggio 2005, a cura di Giovanna Ioli, Novara, Interlinea, 2006. Da segnalare anche Campioni di parole: letteratura e sport, a cura di Giorgio Bàrberi Squarotti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1995, il volume di Carla Boroni, Lo sport nella letteratura del Novecento, Brescia, Vannini, 2005, ripreso e sviluppato in Eadem, Gli scrittori e lo sport, Latina, Ghenomena, 2012, nonché l’antologia curata da Folco Portinari, Il campione caduto alla difesa. Il calcio e il ciclismo nella letteratura italiana del Novecento, Lecce, Manni, 2005, ed il libro di Rosella Frasca, Il corpo e la sua arte. Momenti e paradigmi di storia delle attività motorie, da Omero a Pierre de Coubertin, Milano, Unicopli, 2006. 2   Per l’impostazione di questo problema rinvio agli interventi di Folco Portinari, Lo sport: autopsia di un cadavere, e di Angelo Stella, Delle di√coltà di una poesia sportiva, entrambi inseriti nel già citato volume Letteratura e sport. Per una storia delle Olimpiadi, cit., pp. 119-126 e pp. 127-140. 3  Cfr. Umberto Saba, Tutte le poesie, a cura di Arrigo Stara, Milano, Mondadori, 2001 («I Meridiani»), pp. 440444 (ivi, alle pp. pp. 1074-1080, la bibliografia relativa alla storia editoriale dei testi). Su di esse vedi Luigi Surdich, Novanta minuti di verde, in Il calcio è poesia, a cura di Luigi Surdich, Alberto Brambilla, Genova, Il Melangolo, 2006, pp. 11-18; Paolo di Sacco, Saba, i poeti e il calcio, in Saba extravagante. Atti del Convegno internazionale di studi, Milano, 14-16 novembre 2007, a cura e con Introduzione di Giorgio Baroni, «Rivista di letteratura italiana», xxvi, 2-3, 2008, pp. 125-129; Alberto Brambilla, Cinque poesie per il gioco del calcio: un esercizio di filologia sportiva, in “Si pesa dopo morto”. Atti del Convegno internazionale di studi per il cinquantenario della scomparsa di Umberto Saba e Virgilio

alberto brambilla 356 – a dire il vero circoscritto ed episodico – di Saba, ma si inserisce in un contesto storico e sociale assai vivace dal punto di vista della pratica sportiva, e quindi della sua celebrazione attraverso varie forme di scrittura. 1 È appunto in tale speciale milieu che si deve collocare la figura del triestino, ma di antiche tradizioni familiari dalmate, e più precisamente originarie di Cattaro, Vladimiro Miletti (1913-1998). Precoce seguace del variegato movimento futurista (e in quanto tale partecipa nel 1933 alla Mostra Nazionale d’arte futurista di Roma), Miletti esordisce appena ventenne in ambito narrativo con il libro Novelle con le giarrettiere (Trieste, O√cine Grafiche Della Editoriale Libraria, 1933), che già respira le novità dell’avanguardia guidata da Marinetti; mentre l’anno successivo pubblica il poemetto, di inequivocabile stile futurista, Aria di jazz: parole in libertà, per i tipi delle Edizioni dell’Alabarda. 2 Nel 1937 esce, ancora a Trieste, il volumetto che a noi qui interessa, ossia Fughe nei secondi. Poesie sportive, Edizioni dell’Alabarda del Sindacato interprovinciale fascista autori e scrittori, con un’originale copertina di Marcello Mascherini (1906-1983). Vista la rarità bibliografica di quest’opera, stampata dalla Tipografia Renato Fortuna, e sostanzialmente nota solo in ambito locale, vale la pena di descrivere nei dettagli il contenuto. Il libretto (in totale di 54 pagine, ma il testo è solo nelle pagine di destra a numerazione dispari) si apre con un’importante premessa dell’autore (pp. 7-11); seguono poi venti testi poetici, che occupano lo spazio di una pagina ciascuno, secondo questa scansione: Stadio, p. 13; Scherma, p. 15; Corsa piana, p. 17; Canottaggio, p. 19; Nuotatore, p. 21; Veleggiando, p. 23; Tuπo, p. 25; Tiro a segno, p. 27; Sciatori, p. 29; Motociclista, p. 31; Corsa al galoppo, p. 33; Staπetta, p. 35; Ciclisti, p. 37; Giavellotto, p. 39; Corridore automobilista, p. 41; Pallacorda, p. 43; Ciclisti in salita, p. 45; Roccia, p. 47; Pugilatore, p. 49; Atleta in riposo, p. 51; conclude l’Indice, collocato a p. 53. 3 Si tratta dunque di una raccolta organica, interamente ed esplicitamente consacrata al rapporto tra sport e poesia, dove il primo termine ha un ruolo centrale e non è un semplice pretesto – come spesso accade ai letterati che si occupano episodicamente di eventi agonistici – per parlare d’altro. In quanto tale, Fughe nei secondi si presenta come un unicum nella tradizione italiana, 4 ed impone perciò un’attenzione particolare che certo porterà ad una profonda revisione del canone sin qui timidamente abbozzato dagli specialisti.  







2. Un Futurismo quasi cancellato La sequenza delle poesie è dunque, come si può vedere, inaugurata da Stadio, testo che delimita e sottolinea il luogo privilegiato («ciascun di noi, / quassù, / rinasce un poco Giotti (Trieste 25-25 ottobre 2007), a cura di Giorgio Baroni, Cristina Benussi, «Rivista di letteratura italiana», xxv, 1, 2008, pp. 155-159. 1   Per ciò rinvio a Cesare Pagnini, Manlio Cecovini, I cento anni della Società Ginnastica Triestina, Trieste, Società Ginnastica Triestina, 1963; Luciano Spangher, Cent’anni della «Ginnastica Goriziana», Gorizia, Unione Ginnastica Goriziana, 1968; Oddone Talpo, Eugenio Dario Rustia-Traine, Narciso Detoni, I cento anni della Società Ginnastica Zara, Roma, Associazione Nazionale Dalmata, 1976 (sui quali è importante l’intervento di Stefano Pivato, Socialisti e sportisti «di frontiera», in Idem, La bicicletta e il sol dell’avvenire. Sport e tempo libero nel socialismo della Belle époque, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992, pp. 180-219); Alberto Brambilla, Riflessioni su sport e scrittura: una scheda giuliana, «Otto/Novecento», xviii, 2, 1994, pp. 245-251. 2   Traggo questi dati biobibliografici dall’opuscolo Vladimiro Miletti (1913-1998): uno scrittore triestino tra futurismo e avanguardia (Catalogo della mostra documentaria tenuta nella sala delle esposizioni della Biblioteca statale di Trieste 23 marzo-20 aprile 2000, Trieste, 2000). Da esso si ricavano altri dati relativi a successive pubblicazioni del Miletti: Portare le armi: poesie (Trieste, Ed. Moderna, 1940); Orme d’impulsi, Trieste (Società Artistico Letteraria, 1967); Sassate agli usignoli: piccole storie (Trieste, Mario Cozzi, 1991). Importante materiale sulla vita e l’attività del Miletti è raccolto nel Fondo Miletti conservato nel Centro di Documentazione sulla Cultura Regionale del Dipartimento di italianistica dell’Università di Trieste. 3   Nelle citazioni che seguono, pertanto, viene indicato solo il titolo e la pagina. 4   L’aπermazione ha valore, come è ovvio, escludendo la più recente produzione; ma anche in questo caso gli esempi sarebbero pochissimi, e tra essi spiccherebbe il volume di Fernando Acitelli, La solitudine dell’ala destra, Torino, Einaudi, 1998.

una scheda per fughe nei secondi di vladimiro miletti

357 / nel grembo san / del prato e della pista») della competizione e insieme della crescita personale, ottenuta attraverso la costante applicazione, che è tuttavia vissuta con allegria («e noi c’irrobustiam della gaiezza / che ci dà la fatica / compiuta intera»). Esso è altresì il luogo in cui l’atleta può essere osservato ed apprezzato dal pubblico, soprattutto quello femminile («Intanto le fanciulle / ci guardano trepide e attente / e già sentono dediti a noi, forti / i loro saldi / seni di nozze»). Se alcune situazioni, ad esempio la scelta dello stadio come spazio positivo di sfida ma anche di incontro (addirittura definito come «grembo san») possono richiamare alla memoria alcuni versi di Saba – che Miletti sicuramente conosceva – qui è evidente il cambiamento di direzione, perché è l’atleta stesso non solo ad essere oggetto del discorso, ma a parlare di sé e della sua prestazione. Diversa invece è la prospettiva adottata per Atleta in riposo che non a caso chiude la serie dei componimenti (e in eπetti Miletti alterna liberamente nel corso della raccolta la ‘voce narrativa’): dopo «lo sforzo estremo / della vittoria, posa l’atleta». Il suo corpo è ancora stravolto dalla fatica, la sua mente («l’anima») è ancora piuttosto confusa, ma poco alla volta egli recupera «una nuova, “sua”, tranquillità», ossia una soddisfazione interiore (è «beato» scrive di lui il poeta) che gli fa presto dimenticare i sacrifici e le avversità («immemore dei crucci e dei rancori)». Si tratta dunque di una sorta di ‘rinascita’, non a caso evocata nei versi iniziali di Stadio. Nonostante il taglio prospettico diverso, la prima e l’ultima poesia sembrano dunque incominciare e concludere un identico percorso ‘agonistico’, che coinvolge positivamente corpo e mente. All’interno di questi estremi della raccolta è invece di√cile individuare una sola logica propriamente sportiva, visto che nello svolgimento poetico si alternano discipline tra esse molto diverse, senza un evidente rapporto. Nella vasta gamma proposta, non mancano naturalmente gli sport più propriamente ‘moderni’ e come tali esaltati dal Futurismo, come per esempio il motociclismo e l’automobilismo; altri titoli, Corsa piana, Corsa al galoppo, pur riferendosi a discipline tradizionali paiono puntare, almeno nel titolo alla celebrazione della velocità. Al contrario, curiosamente non ha spazio quella che allora era considerata l’attività agonistica più in crescita nell’ambito nazionale, ossia l’aviazione. 1 E ugualmente stupisce, vista la data di pubblicazione, la mancanza del calcio, che invece si avviava ad aumentare la sua popolarità, grazie ai successi internazionali della nazionale italiana, vincitrice ai Campionati mondiali (1934) ed alle Olimpiadi berlinesi (1936). Qui è però da mettere in conto il riferimento a Saba: dopo le sue poesie consacrate al calcio, era impossibile aggiungere altro, soprattutto nella sua Trieste; da qui, credo, la precisa scelta di Miletti di escludere il football. La sua giovanile formazione e militanza culturale, rinvia necessariamente anche ai suoi rapporti con il movimento futurista – molto vivace in ambito giuliano –, 2 su cui è opportuno soπermarsi. In linea di massima Fughe nei secondi sembra sul piano dei contenuti aderire, sia pure con qualche libertà, ai dettami futuristi, là dove essi appunto esaltavano la velocità, l’aggressività, lo sforzo fisico, la tensione emotiva e quella ner 



1   Per un confronto autorevole è al riguardo su√ciente sfogliare la Prima antologia degli scrittori sportivi, curata da Giovanni Titta Rosa, Franco Ciampitti, Lanciano, Carabba, 1934 (ma si veda ora la ristampa anastatica, curata ed introdotta da Alberto Brambilla, Arezzo, Limina, 2005, dove l’aviazione è molto ben rappresentata). 2   Per un quadro generale cfr. Umberto Carpi, Personaggi e vicende della letteratura giuliana d’avanguardia negli anni Venti, nel catalogo Frontiere d’avanguardia. Gli anni del futurismo nella Venezia Giulia, a cura di Bruno Passamani, Umberto Carpi, Gorizia, Musei Provinciali, 1985, pp. 63-83; Parole in libertà. Libri e riviste del futurismo nelle Tre Venezie, catalogo a cura di Dino Barattin, Marino De Grassi, Maurizio Scudiero, Edizioni della Laguna, Monfalcone, 1992; Marino De Grassi, Libri e riviste dell’avanguardia giuliana: materiali a confronto con il futurismo italiano, Monfalcone, Edizioni Della Laguna, 1996; Massimo De Grassi, F. T. Marinetti e il Futurismo giuliano: vicende, riviste e libri di un’avanguardia di frontiera 1908-1929, in Giordano Bruno Guerri, Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, l’avanguardia giuliana e i rapporti internazionali, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2009, pp. 277-301; sempre utili sono gli accenni presenti nel libro pionieristico di Claudia Salaris, Storia del futurismo, Roma, Editori Riuniti, 1985.

alberto brambilla 358 vosa, tutti elementi che trovavano agevolmente spazio nelle attività agonistiche prese in considerazione dal Miletti. Tutto ciò è invece contraddetto a livello formale, perché sia sul piano sintattico (ad esempio reintroducendo l’uso della punteggiatura) sia su quello propriamente grafico, Miletti dimostra di allontanarsi non poco dai suggerimenti ‘tecnici’ avanguardisti della poetica futurista, che pure aveva con successo seguito in precedenza. 1 Attraverso una profonda rielaborazione formale rispetto ad alcuni testi già anticipati in rivista, 2 egli sceglie di ritornare a una soluzione, se vogliamo, meno eversiva, che per intenderci guarda ora con interesse al modello ungarettiano di Sentimento del tempo o a quello, solo in apparenza più classico, di Saba. 3 Per verificare tale atteggiamento, basteranno due prelievi dalla raccolta; il primo riguarda la poesia Scherma:  





Gli scatti snelli guidano i corpi in decisioni d’un attimo e finte flessuose. Le lame incrociate moltiplicano lampi di velocità in cozzi di tranelli. (p. 15)

Il secondo invece è intitolato Ciclisti in salita: Le pugna scrollano i manubri. I corpi calcano i loro pesi. Straripa un fiume di dorsi, tentoni. (p. 45)

I due esempi consentono di approdare ad alcune considerazioni finali, che confermano la straordinaria importanza – e non solo sul piano storico-letterario – di Fughe nei secondi che è confermato dal contenuto del breve ma intenso testo con cui Miletti introduce la sua silloge poetica. Per la prima volta, per quanto almeno mi risulta, un autore si pone concretamente il problema del rapporto tra evento agonistico e scrittura, con l’espresso desiderio (e questo è un altro fattore di novità) di porre al centro della sua poesia unicamente lo sport. Rileggiamo dunque tale testo: Concepisco la poesia sportiva come poesia che, nata dallo sport, in esso si svolge ed esaurisce. Poesia, cioè, la quale, senza lasciarsi sedurre dai molti pretesti che lo sport oπre al poeta per deviare in simboliche divagazioni derivabili dalla sua essenza di volontà, di forza, di ottimismo realizzatore, canti lo sport nelle sue manifestazioni ed impressioni intrinseche, nei suoi caratteri naturali già densi di lirismo crudo ed intenso. (p.7) 1   Ad esempio nelle tavole parolibere contenute nel già citato Aria di jazz, su cui si vedano le fini osservazioni di Giorgio Rimondi, La scrittura sincopata. Jazz e letteratura nel Novecento italiano, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 238-252 (in cui peraltro si segnala l’uso di alcuni termini derivati dall’ambito sportivo); cfr. altresì Monica Farnetti, Giorgio Rimondi, Scrivere il jazz: l’esperienza di Vladimiro Miletti, «Metodi e ricerche», n.s. xii, 1, gennaio-giugno 1993, pp. 3-23. 2   Un primo sondaggio consente di recuperare almeno due componimenti, Canottaggio e Nuoto (entrambi pubblicati ne «Il Piccolo della sera», il 10 novembre 1933 ed il 27 aprile 1934), che ancora si muovono in ambito ‘futurista’, e che saranno invece completamente riscritti per inserirsi in Fughe nei secondi. 3   È anche quanto sostiene un fine lettore come Silvio Benco, La poesia sportiva di Vladimiro Miletti, «Il Piccolo», 4 luglio 1937, che scrive: «Avevamo intraveduto qualcosa di individuale in Vladimiro Miletti anche quando il giovanile suo futurismo era tuttora stretto ai canoni di quella scuola. Oggi non si può asserire di lui che egli la disdica, né senza il futurismo si concepirebbe la sua nuova poesia […]. Ma il futurismo non è tutto in questo geniale libretto, e nemmeno è il solo maestro: vi trovereste concisi richiami della poesia ungarettiana e forse anche quell’intima classicità che è propria di certe plastiche del Saba».

una scheda per fughe nei secondi di vladimiro miletti

359

Forse rivolgendosi polemicamente a Saba, 1 il Miletti sottolinea il suo intento sostenendo che lo sport possiede intrinsecamente dei caratteri fortemente poetici; come tale basta a se stesso e non ha dunque bisogno di «pretesti» o di «divagazioni». Restava solo da precisare, e il Miletti non si esime da questo compito, come fosse possibile descrivere oggettivamente l’evento sportivo. Anche in questo caso la risposta è sorprendente:  

Per gli specialissimi aspetti intimi e per la stessa sua essenza, lo sport richiede una espressione poetica del tutto propria: veloce, impulsiva, gioconda; sensibile al drammatico groviglio di tempo, spazio e sforzo tesi a sublimarsi in una rapidità unica e totale; rispondente alla commozione tattile, polmonare, cardiaca, muscolare e visiva che inesauribilmente scaturisce in forme diverse dai diversi esercizi sportivi imprimendosi tanto in chi li esplica quanto in chi vi assiste. Poesia in cui il ritmo assume principalmente una funzione descrittiva variando secondo le esigenze della descrizione poiché è inconcepibile di inquadrare lo sport entro un ritmo chiuso e regolare, misurato soltanto in funzione di sé stesso. (p. 9)

All’interno dell’ampia varietà di discipline agonistiche, il Miletti non indica un generico procedimento descrittivo, ma individua alcune caratteristiche oggettive che sono proprie dei singoli sport; tali caratteristiche, propriamente fisiche, coinvolgono direttamente gli atleti e gli spettatori. La cifra descrittiva in grado di sintetizzare la specificità dei singoli sport sta per Miletti nel «ritmo», 2 in quanto  

Ogni sport ha il suo «ritmo» proprio per sé e per la poesia: il canottaggio si svolge con un «ritmo» completamente diverso da quello, ad esempio, della scherma o del pugilato. E il «ritmo» varia anche durante le fasi di svolgimento del singolo sport, prendendo balzi, pause, battute regolari, attenuazioni improvvise e riprese di forze che poi tutte si risolvono in uno slancio sinfonico che perdura oltre lo sport e quindi oltre la poesia che lo esprime. (pp. 9-11)

Ecco dunque la chiave proposta da Miletti per entrare finalmente nel cuore dello sport e coglierne la sua essenza. Che ci sia davvero riuscito in Fughe nei secondi, è di√cile da sostenere; ma il suo tentativo, poetico accompagnato da una consapevolezza anche teorica merita il nostro rispetto. E comunque un fatto è certo: d’ora in poi non si potrà più scrivere di sport e di poesia senza prendere in considerazione Vladimiro Miletti. 1  Come è noto, in Storia e cronistoria del Canzoniere (che leggo nell’edizione curata da Arrigo Stara: Umberto Saba, Tutte le prose, Milano, Mondadori, 2001 («I Meridiani»), pp. 288-295, Saba si preoccupa soprattutto di spiegare le origini della sua poesia ‘calcistica’; in tal modo indirettamente conferma che essa in fondo non ha come oggetto specifico lo sport, che in eπetti diviene appunto pretesto per riprendere ed approfondire in modo forse originale alcuni nodi tipici della sua poetica. 2   Il che, se vogliamo, ci riporta, sia pure in tutt’altra dimensione applicativa, all’ispirazione centrale di Aria di jazz.

VLADIMIRO MILETTI, TRA FUTURISMO E RESTAURAZIONE Fulvio Senardi

N

ato nel 1913 Miletti si aπaccia sul mondo delle lettere nel 1933, con le Novelle con le giarrettiere. 1 Il poco spazio a disposizione ci obbliga a portare subito il discorso sui caratteri salienti del volumetto, animato dall’esuberanza intellettuale e ‘ormonale’ di un giovane che indirizza verso declinazioni di ironico maschilismo una fede futurista che risponde ai suoi bisogni di vitalità, novità, modernità. In eπetti nel libro compaiono non pochi stilemi del Futurismo moderato, e troveremo allora – in una sintassi di snodo tendenzialmente tradizionale, dove sono conservati gli aggettivi e rispettate le coniugazioni – numerosi esempi di sostantivi doppi (come prevedeva del resto il Manifesto tecnico del futurismo del 1912: uomo-torpediniera, donna-golfo): marito-dinamo, occhi-cuore, baciogomma arabica; onomatopee; una certa elasticità nell’uso di minuscole e maiuscole e nell’iterazione dei fonemi con valore intensificante (artificio che oggi, nell’età dei fumetti, non stupisce più nessuno, ma che scandalizzò a suo tempo i benpensanti):  

Tonfo tttttuuuonooo fumo debole schegge spruzzzzzo spuma groviglio scombussolamento del mare rosso. Renato, con un balzo poderoso, ha sorpassato l’avversario ma il suo motore è scoppiato nello sforzo. Due brividi paralleli, freddi, serpeggiano dai fianchi alle spalle di Lalla. Dov’è? dov’è? dov’è? Nnoooooo!!! ECCOLO che nuota poderosamente, arruπato, sbrindellato, verso terra. Veloce. Arriva. Tutti intorno. Brraaavoooooo!!! (N, 19) 2  

Sanzin, l’uomo di punta del Futurismo giuliano ricorderà, in un suo rapido profilo autobiografico, questo libro d’esordio, lodando poi, con entusiasmo meno condizionato, il successivo Aria di Jazz. Qui infatti risuona, è il caso di dirlo, tutt’altra musica: non è forse casuale, del resto, che la seconda opera di Miletti esca nel 1934, dopo che lo scrittore partecipando, l’anno precedente, alla Mostra nazionale d’Arte Futurista di Roma, aveva avuto occasione di ‘sprovincializzarsi’. Un lavoro originale che ha richiamato l’attenzione della maggiore studiosa italiana del Futurismo, Claudia Salaris, 3 e che si è meritato la più ampia riflessione fin’ora apparsa sulla produzione di Miletti, Scrivere il jazz: l’esperienza di Vladimiro Miletti, 4 di Monica Farnetti e Giorgio Rimondi (da a√ancare, per acutezza ed empatia cordiale al saggio di Fraulini, che fu amico dello scrittore, premesso all’antologia milettiana Orme d’impulsi 5): siamo in un contesto di scrittura di consapevole e coerente futurismo, dove il jazz, che le Avanguardie consideravano con favore, è al tempo stesso tema e modello formale, realizzando in tal modo un emblematico aspetto di quella ‘simultaneità’ che faceva parte integrante dell’estetica futurista. Paroliberismo e sinestesia marcano la sperimentazione poetica, determinando anche il «livello vistoso e ausiliario della resa grafica e dell’impaginazione» 6, con il risultato di far assumere al poemetto milettiano un «non trascurabile spessore di documento culturale» 7 della disponibilità  









1

2   Vladimiro Miletti, Novelle con le giarrettiere, Trieste, c.e.l.v.i., 1934, p. xii.   Ivi, p. 19.   Claudia Salaris, Storia del futurismo, Roma, Editori Riuniti, 1985, p. 229. 4   Cfr. «Metodi e ricerche», xii, 1, gennaio-giugno 1993, pp. 3-23. 5   Vladimiro Miletti, Orme d’impulsi, «Il Timavo», 3, Trieste, s.a.l., 1967. 6   Monica Farnetti, Giorgio Rimondi, Scrivere il jazz: l’esperienza di Vladimiro Miletti, «Metodi e ricerche», xii, 7 1, 1993, p. 14.   Ivi, p. 4. 3

vladimiro miletti, tra futurismo e restaurazione

361 avanguardistica a individuare, con indagini di ampio raggio, esperienze correlative alla propria tensione innovativa. Inizia da qui, del resto, la lunga militanza milettiana di «ascoltatore e diπusore del verbo jazzistico, che lo condusse a inventarsi il ruolo di ‘critico’ musicale e organizzatore di serate di ascolto commentato di notevole successo», 1 e ne fece, anche nel secondo Dopoguerra, la figura più rappresentativa degli ambienti triestini interessati alla cultura del jazz. Chiarissima per altro, fin dalla pagina programmatica, la progettualità estetica di Aria di jazz – parole in libertà (premiato con la medaglia del Comune di Trieste alla Prima Grande Gara Giuliana di Poesia indetta dal Sindacato Interprovinciale Fascista Autori e Scrittori di Trieste):  

1 rendere la simultaneità di suono-impressione provocata dal jazz 2 sincronizzare i ritmi delle parole in libertà con quelli del jazz 3 vivificare e sintetizzare l’ambiente caratteristico del jazz 2  

Ambiente che è quello moderno e dinamico della metropoli, frastornante di voci e di passi, tumultuosa e vivace. L’unico contesto congeniale all’espressività veloce, sincopata e a tratti perfino caotica della musica che meglio interpreta lo slancio svecchiatore del presente. E della «Metropoli», canta Miletti, il rincorrersi di luci, di piani, di suoni Brusio di voci, di passi Salvagente del marciapiede – paradiso nell’inferno – circolazione agitarsi urti carezze Fermarsi: allettamento allineato delle vetrine […] Nel mezzo: ridda di luci – fanali – raggi – segnali clacson – ruminare rabbioso dei motori – nubi artificiali (sorgeresparire) – corse – riprese – fermarsi (un attimo) – lampada bianca – via – rossa – stop metropolitano – accelerare – stop per non urtare l’altra automobile al crocicchio, come le formiche quando s’incontrano. 3  

Lirismo della modernità, di cui è il jazz è chiamato a rappresentare la più autorizzata colonna sonora, secondo una concezione del valore e della funzione dell’arte nell’epoca inaugurata dalla ‘rivoluzione’ fascista che si riallaccia all’idea della città come specifico ambiente socio-culturale dell’umanità di massa (tema, come si sa, bontempelliano) Ma prima di proseguire il discorso sarà opportuno ancora insistere sul 1934 che è, per il Futurismo e Trieste, un anno decisivo. Al 25° anniversario della fondazione del Futurismo il «Piccolo della Sera» di martedì 20 febbraio dedica infatti un paginone celebrativo (illustrato da fotografie delle realizzazioni futuriste in architettura e nelle arti figurative), intonato da una lettera aperta di Marinetti al capo indiscusso del Futurismo triestino e suo personale amico, Bruno Sanzin, che gli fa eco con due fitte colonne, «Siamo perché saremo», dove presenta le finalità e riassume la storia del Movimento. Al ventunenne Miletti tocca il compito di ricordare, con una «sintetica cronistoria 1

  Ivi, p. 7.   Vladimiro Miletti, Aria di jazz, Trieste, Edizioni dell’Alabarda, 1934, p. 7. 3   Ivi, p. 9. 2

fulvio senardi 362 […] l’intransigente italianità» del Futurismo, «non puro e semplice movimento artistico, ma nuova spiritualità e norma di vita», scandendola attraverso sei tappe cruciali: «Ieri», «Interventismo», «Guerra», «Rivoluzione fascista», «Oggi», «Domani». Oggi, in particolare: Tutti i futuristi agli ordini del Duce, capo insuperabile, figura impareggiabile d’innovatore politico e sociale. Nel campo artistico: lotta ad oltranza contro l’esterofilia per l’aπermazione di un’arte italiana, fascista, originale. Il futurismo è patrimonio spirituale del Fascismo: esso definisce nell’arte i caratteri dell’italiano nuovo, audace, veloce e svecchiatore. 1  

Tuttavia, il «Domani» che si annunciava («Una grandezza italiana tale da oscurare la grandezza romana stessa. E questo domani si avvicina velocissimo, azionato e guidato dai ritmi volitivi del genio mussoliniano») non sarebbe stato propizio alla rivoluzione di sensibilità e di forme d’arte patrocinata dal Futurismo. Nel corso negli anni Trenta, infatti, e con crescente intensità a partire dalla seconda metà di quel decennio, la mutata situazione internazionale che vede l’Italia contrapporsi alle democrazia occidentali oltre che all’urss e comporta l’avvicinamento sempre più stretto alla Germania nazista, provoca polarizzazioni ideologiche nel campo stesso del Fascismo, facendo fervere con inusitata violenza il dibattito artistico-culturale. Come ha spiegato autorevolmente Salaris, 2 nell’Italia ‘imperiale’, dove si avverte e si impone, con urgenza prima ignota (e non solo per ragioni tattiche dettate dalla volontà di una più intima fratellanza italotedesca), il problema della ‘difesa della razza’, tutto ciò che era in odore di esterofilia, o pareva ricollegarsi alle espressioni artistiche di popoli ‘inferiori’, o sembrava contraddire i crismi di chiarezza e monumentalità di un’arte ‘romana’ che si voleva promuovere al ruolo di arte di stato, veniva attaccato spietatamente come ‘degenerazione’ dal sempre più aggressivo fascismo di ‘destra’. Sensibilità e modo di porsi che, nella ‘marca’ giuliana del fragile Impero, trovavano eco autorevole sul «Piccolo della Sera», in un articolo di Palatino (20.iv.1937) che commentava la famosa Inchiesta sul Novecentismo (Milano, 1936) di Della Porta in termini di battaglia a favore della tradizione italiana contro una troppo oltranzista «frenesia di novità». Inutile aggiungere che, se la tradizione nazionale intesa nel senso più opacamente conformista veniva posta come modello privilegiato delle esperienze dell’arte, per conservare agli italiani – nel segno del Fascismo – il loro autentico spirito di razza, quel fruttuoso incontro tra avanguardia futurista e musica dei «Negri d’America» 3 rappresentato da Aria di jazz di Miletti doveva finire per apparire un esperimento pericoloso, deprecabilmente ‘anti-littorio’ perché troppo disponibile nei confronti di forme di esotismo e internazionalismo. Non sarebbe forse ozioso cercare di capire, con indagini di maggior dettaglio nell’ambiente culturale dell’avanguardia triestina, e in particolare del Sindacato interprovinciale fascista autori e scrittori di Trieste (indagini problematiche però anche sul solo piano documentale) quanto convinta o piuttosto indotta fosse la svolta del giovane Miletti, di cui stiamo per parlare: rimane il fatto che la raccolta del 1937, Fughe nei secondi. Poesie sportive, 4  





1

  Vladimiro Miletti, Il futurismo - oggi, «Il Piccolo della sera», Trieste, 20.ii.1934, p. 8.   «Il problema posto sul tappeto, negli anni Trenta, per futuristi, razionalisti e astrattisti, è quello di cercare di tenere in vita i legami con l’avanguardia europea, mentre settori della destra fascista combattono con accuse di esterofilia tutta l’arte moderna italiana. Queste frange conservatrici pretendono che il regime sostenga e appoggi esclusivamente il monumentalismo ‘romano’ contro le nuove tendenze funzionaliste e il più piatto naturalismo contro l’arte ‘incomprensibile’ dei futuristi e le deformazioni di marca espressionista dei novecentisti». Cfr. Claudia Salaris, Artecrazia. L’avanguardia futurista negli anni del fascismo, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 137. 3   Questo il jazz secondo la voce omonima dell’Enciclopedia italiana, (volume xviii, 1933): «Arte di interpretazione», spiega l’anonimo estensore, «come tutta l’arte musicale dei Negri d’America. […] Penetrata sotto il segno del ritmo». 4   Con una interessante operazione editoriale la Fondazione Rustia Traine di Trieste ha riproposto, a cura di Renzo 2

vladimiro miletti, tra futurismo e restaurazione

363 che segue Aria di Jazz, risente di tutt’altra impostazione. Solo il titolo e l’impetuosa nota introduttiva 1 farebbero pensare a un rinnovato omaggio al culto futurista della velocità, mentre in eπetti il dettato poetico risulta di diπerente natura: in un’atmosfera di restaurazione e di tradizionalismo che rinnega ogni aspetto della tecnica futurista (atmosfera resa plastica anche dai caratteri tipografici, eleganti lettere ‘imperiali’ che rimandano, sobrie e solenni, alle iscrizioni presenti nelle varie mostre ed esposizioni u√ciali dell’era fascista), 2 si manifesta la simpatia per la prosodia tradizionale, spicca l’impiego di parole tronche secondo il più trito costume ‘passatista’ («san» per sano, «sol» per solo), spesso con l’intento di far quadrare l’endecasillabo («e noi c’irrobustiam della gaiezza», «sol che il vento s’adagi nelle vele», ecc.), si dispiega un metaforismo più che discreto; e se a tratti il poeta sembra propendere per una messa in opera ‘ungarettiana’ della parolaverso, il risultato complessivo va invece nella direzione di una tronfia solennità: parole scandite, più che prosciugate. Insomma il correlativo artistico più coerente delle liriche delle Fughe appare la stentorea statuaria dello Stadio dei marmi nel Foro Mussolini di Roma, con le sculture di regime di Marescalchi e di de Veroli. Il quoziente di sfida e di rischio intrinseco al Futurismo, la novità trasgressiva sul piano della percezione, della sensibilità e delle forme, vengono del tutto azzerate.  



Veleggiando Sol che il vento s’adagi nelle vele scivoliamo come un ricordo bianco sull’ampia distesa del mare crucciato, in gara di rabbie salmastre con l’onde in fuga. 3  

In realtà c’è di più che mere supposizioni a permetterci di capire il nuovo orientamento di Miletti, ed è l’ampio articolo – un vero e proprio saggio di critica e di poetica – che egli pubblica, sotto il titolo di Leopardi e i giovani – Suoi aspetti più cari, sua attualità, suoi ammaestramenti, 4 su quello stesso giornale di regime, il «Popolo di Trieste» che andava accogliendo, nella pagina periodica riservata alla guf le poesie delle Fughe (in data 28.viii.1937, per esempio, «Pallacorda», in data 21.x.1937 «Veleggiando», ecc.):  

Considerando ora parte dell’odierna poesia italiana, quella parte che si vorrebbe far passare come detentrice esclusiva della modernità tipicamente nostra, la troviamo scostata dall’altro vigoroso collegamento alla classicità che avrebbe potuto darle il Carducci. […] Son cose queste dalle quali un ritorno alla classicità potrà liberarci. Ritorno alla classicità che non significa – si badi bene – presa di modelli, ma rivalutazione dei concetti di massima e delle peculiarità indistruttibili della classica poesia nostra. […] Non mancano i poeti che sanno essere spontaneamente moderni e sinceramente attuali de’ Vidovich, le milettiane Fughe nei secondi (Trieste, 2008) a√ancandovi le tavole che il pittore futurista Tullio Crali aveva disegnato per il libro dell’amico. 1   «Concepisco la poesia sportiva come poesia che, nata dallo sport, in esso si svolge ed esaurisce. […] Per gli specialissimi aspetti intimi per la stessa sua essenza, lo sport richiede una espressione poetica del tutto propria: veloce, impulsiva, gioconda; sensibile al drammatico groviglio di tempo, spazio e sforzo tesi a sublimarsi in una rapidità unica e totale; rispondente alla commozione, tattile, polmonare, cardiaca, muscolare e visiva che inesauribilmente scaturisce in forme diverse dai diversi esercizi sportivi imprimendosi tanto in chi li esplica quanto in chi vi assiste» (Vladimiro Miletti, Fughe nei secondi, Trieste, Edizioni dell’Alabarda, 1937, pp. 8-9). 2   Vien da pensare, per esempio, alla ‘Sala di Icaro’, dell’Esposizione Aeronautica Italiana del 1934, dove si leggeva una frase di Gabriele d’Annunzio, e che non dovette passare inosservata agli intellettuali giuliani perché nata dalla collaborazione di un architetto parentino, Giuseppe Pagano (Pogatschnig) e di uno scultore triestino, Marcello Mascherini, lo stesso che disegna il frontespizio di Fughe nei secondi. 3   Vladimiro Miletti, Fughe nei secondi, cit., p. 23. 4   Vladimiro Miletti, Leopardi e i giovani – Suoi aspetti più cari, sua attualità, suoi ammaestramenti, «Il Popolo di Trieste», 25 novembre 1937, «Pagina del guf», p. 5.

fulvio senardi

364

anche richiamandosi ai classici. Valga per tutti un illustre esempio: Giuseppe Ungaretti, che pone in netto rapporto con la tradizione il rinnovamento delle sue forme poetiche che tengono come punti di riferimento il Petrarca ed il Leopardi. […] E voglio ancora citare nel nostro campo un fascista universitario, Leonardo Sinisgalli, già littore di poesia per l’anno xii: ‘Qui accosto alla siepe / ove t’ascolto Appennino / fa radice la sera / e il suo acre sentore / mi risale sul dorso’. 1  

È fin troppo ovvio che la polemica vuole colpire l’Ermetismo; ma coinvolge nella critica ogni forma di ‘modernolatria’, soprattutto se nutrita di spirito ‘esterofilo’. A partire da Fughe nei secondi la scelta a favore della tradizione risulta per Miletti, un’opzione definitiva. L’imbarazzante Portare le armi, silloge ‘militare’ del 1940, nata tuttavia prima della guerra, dall’esperienza del Corso u√ciali, e posta sotto il segno autorevole di una frase di colui che allora ‘aveva sempre ragione’ sposa le banalità della ‘mistica fascista’ a un linguaggio letterario di stampo tradizionalista: Pensiero della mamma Per questa vita più vera e piena luminosa di forza e fiera di scatto, soltanto, mamme, vi ringraziamo d’averci dato muscoli e cuore italiani 2  

Il ‘fascistissimo’ Miletti, una volta spezzatasi la consustanzialità di futurismo e fascismo, sceglie di mantersi fedele al credo politico, con piena adesione agli imperativi, anche estetici, di un regime ormai ‘imperiale’. Restano i documenti di tale sintonia di valori, e non solo nel senso di esplicite, più che ossequienti professioni di fede politico-ideologica, 3 ma anche nella forma di emblematiche espressioni di impegno letterario, 4 imbevute di spirito nuovo. Andata perduta la produzione letteraria degli anni di guerra, Miletti ritorna alla vita civile, avendo superato (o forse solamente silenziato), le scalmane della camicia nera. Orme di impulsi (1967) raccoglie antologicamente qualche lirica d’anteguerra e presenta  



1   Vladimiro Miletti, Leopardi e i giovani – Suoi aspetti più cari, sua attualità, suoi ammaestramenti, «Il Popolo di Trieste», 25 novembre 1937, «Pagina del guf», p. 5. 2   Vladimiro Miletti, Portare le armi, Trieste, Edizioni Modena, 1940, p 8. 3   Si veda per esempio l’attacco del citato articolo Leopardi e i giovani, dove il primo pessimismo del Recanatese è attribuito alla consapevolezza della «miseria della patria sua», tale da far risuonare in lui la «voce di un giovane di fede, che sa la missione dell’italiano indomo e che incita anche noi, giovani di Mussolini, a renderci degni e meritevoli della nostra sorte che magnanimamente ci concede di vivere nell’epoca dell’integrale ricostruzione italiana e di appartenere ad una generazione che passerà indelebilmente nella storia come quella che aπrontò e aπronterà con traboccante cuore, pronti i muscoli e lo spirito, ogni sacrificio per la grandezza e la prosperità del popolo italiano, nel nome d’Italia o nella visione del futuro». Oppure si legga l’intervento del 1.xi.1938, Smantellare le fortezze, in una pagina del GUF sul «Popolo di Trieste» tutta dedicata ad esaltare l’impegno fascista contro il giudaismo, e posta nel segno di qualche aspra frase del Gog di Papini. Battaglia contro la «massoneria giudaica» che Miletti approva in pieno perché promette di spazzar via, lasciando aperta la strada a giovani italiani di ingegno, quelle «persone prive di ogni sensibilità politica verso la vita fascista, cioè vita costruttiva e collettivista, avente per obbiettivo l’elevazione del popolo». 4   Per esempio sul «Piccolo della sera», 3.xi.1936, Caduti d’Africa – «I corpi all’ignoto deserto / per segno di tappe raggiunte / lasciammo. // Memorie che i fratelli, / raccolte, composero / e seco portarono / in fertili marcie. // Alla Tua grandezza / ci donasti / o Patria. // L’alito nostro ancor nel cuore acceso / dei camerati / ritrova l’ansia della corsa indoma / alla conquista. / Ritrova l’immane respiro / delle dure battaglie, / ripete il grido ingordo, / felice, della Vittoria. // Non siamo soli e non abbiamo freddo, / gran Madre immortale; / i nuovi tuoi figli ci portano in fronte / marciano davanti le loro legioni. // Ardiamo d’avvenire. // Patria nostra, concedi ancora / di coglier nei fausti tuoi giorni / il sorriso del nostro strenuo amore. – Miletti, Roma 28.x, xv – ii dell’Impero». Oppure ancora sul «Piccolo della sera», 20.iv.1937, «Assedio – Non ci fermammo: ci guidava il passo / il pulsar del cuor delle Legioni, / nuovo oltre la Storia. / Uniti nel Littorio, vivemmo / le nostre più intense ore d’alba. / Valutammo sui muscoli il destino / legato al diritto / del nostro popolo fiorente / che i barbari ignari credevano chiuso / in un informe tempo di rinuncia. / Ci irradiava il destino mai smentito / di nostra civiltà. // Non ci conobbe il dubbio, né ritardi / ebbe la marcia verso il giusto sole. / La memoria sui giorni vigilava / del forsennato assedio. / Preparava il futuro le sue norme / approntavano i campi il nostro pane / l’ingegno della stirpe rinforzava / la ferma resistenza. // O nostra Fede, come ti sentimmo / una, divina, vigorosa e grande. / E chi pensò d’abbattersi al tuo giogo / barbara coalizion? Chi ti temeva? / Negli occhi del Duce splendeva l’auspicio / nella sua voce ardeva l’avvenire. – Miletti».

vladimiro miletti, tra futurismo e restaurazione

365 nuove raccolte, Note di guerra, Battimani, Tratteggi, Orme nei giorni, dove spicca un impiego maturo del verso libero, un po’ alla maniera di Cardarelli (Leopardi non è stato evocato invano), con evidente valorizzazione degli istituti letterari e con prevalenza di un tono malinconico e discorsivo, di una dizione di composta eleganza, ben lungi però da esiti di fredda solennità. Pause dolci-amare di pensieri sull’uomo, contemplazioni autunnali della vita e dei sentimenti dove prevalgono i momenti riflessivi e descrittivi, con una tendenziale staticità anche dei movimenti di fantasia, e su uno spartito elegiaco che facendo discretamente tesoro degli acquisti più solidi delle poesia del Novecento va a collocarsi agli antipodi rispetto al breve momento, fervido e spavaldo, dell’infatuazione futurista. Citiamo, per ragioni di spazio, una sola lirica, tratta da Tratteggi: adolescenti Scontrose dolcezze, quei tempi: ci smarrivamo in attimi di sguardi; le nostre labbra ancora leggiere, tremavano grevi parole. 1  

L’ultima fatica letteraria di Miletti è Sassate agli usignoli, una raccolta di ‘scorciatoie e raccontini’, uscita nel 1991. Vi si finge un gusto iconoclasta che va a sfogarsi in innocua ironia nei confronti della modernità, del progresso, dell’Uomo, una sensibilità ben bilanciata dalla pietas per le vicende umane, descritte asciuttamente con un occhio che parrebbe spietato ed è invece, l’età porta saggezza, aπettuosamente partecipativo. 1

  Vladimiro Miletti, Orme di impulsi, Trieste, s.a.l., 1967, p. 60.

«ALLORA DALMAZIA FELICE SORGERÀ». LA POESIA DI NICCOLÒ IVELLIO TRA CRONACA, POLITICA E SENTIMENTO Giulia Delogu

I

primi anni dell’Ottocento furono caratterizzati, come già il secolo precedente, da quella che, per l’Istria, è stata non a torto definita un’«epidemia» 1 poetica. Ciò è vero anche per aree limitrofe, da Trieste alla Dalmazia. Il florilegio poetico di fine Settecento e primo Ottocento non era però dovuto alla sola moda accademica e scolastica, ma scaturiva da più profonde esigenze. In un’età segnata da profondi rivolgimenti politici e lunghi periodi di guerra, la poesia oπriva un e√cace strumento comunicativo: come ha sottolineato Luciano Guerci, la poesia sapeva «parlare più al “cuore” che alla “mente”» 2 e quindi raggiungere un pubblico più vasto, infatti, grazie alla sua stessa forma retorica, composta di «artificio, versi, rima, ritmo […] è in grado di rendere gli oggetti [anche i concetti astratti] ‘presenti’», 3 rendendoli quindi più facilmente comprensibili. Con l’ascesa al potere di Bonaparte, compito primario della poesia divenne la celebrazione dei fasti napoleonici. Il nuovo corso trovò di√cile aπermazione nell’area adriatica e nei cosiddetti domini ex-veneti quali Istria e Dalmazia. Fin dai primi anni della Rivoluzione era fiorita, soprattutto nel centro propulsore di Trieste, una ricca produzione letteraria di segno antifrancese. Dal 1809, però, con la creazione delle Province Illiriche e la stabilizzazione del dominio francese, di√cile divenne esimersi dall’elogio del nuovo sovrano. A Trieste l’opposizione continuò comunque ad essere forte, come testimoniano i versi antifrancesi di Domenico Rossetti e di Lorenzo Rondolini ancora oggi conservati sul quaderno dei Passatempi piacevoli 4 o le veementi accuse contenute nella Veglia dello stesso Rossetti; 5 tuttavia non mancarono espressioni in favore di Napoleone, più o meno sentite, come il discorso pronunciato da Pietro Nobile nel 1810 per l’inaugurazione della Società di Minerva 6 o i versi ed i sermoni di padre Giovanni Rado. 7 A Capodistria, invece, le idee rivoluzionarie penetrarono più a fondo, anche grazie all’azione della locale loggia massonica, fortemente legata al Grande Oriente di Francia prima e in seguito a quello d’Italia, che era comunque un’emanazione del potere napoleonico. 8 Non è un caso dunque che, la raccolta poetica dello spalatino Niccolò Ivellio,  















1

  Baccio Ziliotto, Storia letteraria di Trieste e dell’Istria, Trieste, La Editoriale Libraria, 1924, p. 57.   Luciano Guerci, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell’Italia in rivoluzione (17961799), Bologna, il Mulino, 1999, p. 132. Amedeo Quondam parla, per il periodo dalla Rivoluzione al Risorgimento, di «primato della poesia» (cfr. Amedeo Quondam, Risorgimento a memoria. Le poesie degli italiani, Roma, Donzelli, 2011, p. 10). 3   Hans Ulrich Gumbrecht, Presence, in Idem, The Princeton Encyclopedia of Poetry and Poetics, Princeton, Princeton University Press, 2012, p. 1105. 4   Biblioteca Civica di Trieste ad rp. Ms 2-43/ ii Società di Minerva, Passatempi piacevoli. 5   Domenico Rossetti, La veglia e l’aurora politica di un solitario, s.n.t., 1814. 6   Gino Pavan, Pietro Nobile: discorso per l’inaugurazione del Gabinetto di Minerva. Trieste, 1 gennaio 1810, «Archeografo triestino», iv, liii, 1993, pp. 9-21. 7   Giovanni Rado, Napoleone Pacificatore, s.l., Stamperia del Magistrato, 1809; Idem, Omaggi Religiosi alla Maestà di Napoleone il Grande, Trieste, Stamperia dell’Imperial Marina, 1811; Idem, Il Busto di Napoleone il Grande, s.l., Tipografia dell’Intendenza dell’Istria, 1812. 8   Giovanni Quarantotti, Trieste e l’Istria nell’età napoleonica, Firenze, Le Monnier, 1954, p. 256. 2

la poesia di niccolò ivellio tra cronaca, politica e sentimento

367 dedicata al governatore delle Province Illiriche Auguste Marmont, sia stata stampata nel 1810 proprio nel centro istriano. 1 Le Poesie scritte nell’ultima guerra di Ivellio rappresentano una notevole testimonianza poetica, nella quale si fondono prospettiva universale e punto di vista personale. I testi sono, infatti, sia epico racconto delle imprese napoleoniche culminate con l’ingresso trionfale in Vienna, sia cronaca della campagna di Dalmazia condotta dal generale Marmont, sia sentimentale resoconto delle di√coltà patite a causa della guerra, come la struggente separazione dalle figlie. La raccolta è popolata di figure pubbliche quali Napoleone e Marmont, assoluti protagonisti, ma anche di amici e intellettuali dalmati come Giovanni de Creglianovich Albinoni, Bernardino Bicego e Antonio Tochich. La raccolta si apre con una dedica a Marmont, il cui arrivo viene ricordato come momento gioioso: «Il vostro passaggio per la Croazia, preparò alla storia un complesso di fatti che i posteri ricorderanno con entusiasmo e meraviglia». Si tratta, questa, di un’antitesi netta rispetto a quanto invece descritto dal memorialista triestino Giuseppe Mainati, che, compilando le sue cronache cittadine, all’altezza del 1809 scrisse: «Ormai siamo giunti all’epoca infausta nella quale Trieste dalle sue franchigie, e dalla sua opulenza si vedrà passare allo stato di depressione, ed avvilimento». 2 La pubblicazione di Ivellio rappresenta l’altra faccia della medaglia: è infatti il racconto poetico di una storia filofrancese alternativa rispetto alla versione filoasburgica allora imperante nelle aree limitrofe. Fin dalle prime frasi della dedica il poeta dimostra di aver assimilato a fondo gli stilemi e le immagini proprie della ben orchestrata propaganda napoleonica, a partire, innanzitutto, dalla caratterizzazione di Marmont secondo il paradigma del Grand Homme, allora incarnato al massimo grado da Napoleone. Marmont, infatti, non è elogiato in quanto guerriero, ma anche e soprattutto come uomo di pace:  



Come unir Voi sapete al genio per la guerra, il talento di procurar in ogni occasione il pubblico bene? Non è già la sola Dalmazia che nell’Allievo di Napoleone abbia ammirato l’uomo intento a promuovere la prosperità dei popoli, e a renderli degni dei destini ai quali il Sommo degli eroi li ha riservati: la Dalmazia però, che vi ha fortunatamente posseduto per tre anni, vi deve in singolar modo rispetto e riconoscenza. 3  

La riflessione su quali caratteristiche dovesse possedere un uomo per essere definito grande e virtuoso era stata, fin dalla fine del Seicento, un tema largamente dibattuto, soprattutto in Francia, dove, con la Rivoluzione, era esploso un vero e proprio culto laico dei grandi del passato; un culto che aveva poi preso anche una dimensione tangibile con la consacrazione del Panthéon e la traslazione delle spoglie di Mirabeau, Voltaire, Marat e Rousseau. In seguito Napoleone sfruttò la retorica già impiegata per la caratterizzazione dei grandi uomini, istituendo di fatto un culto della sua persona, esteso a tutte le aree dell’impero. 4 Il ritratto dello stesso Bonaparte nel tempo subì un’evoluzione: da giovane generale repubblicano (si pensi all’Ode a Bonaparte di Liberatore di Foscolo) a statista, capace non solo di guidare i soldati alla vittoria, ma anche di amministrare i suoi domini in tempo di pace. La duplice (e quasi ossimorica) immagine di Napoleone era stata catturata quindi in molti versi, da Lorenzo Mascheroni a Vincenzo Monti, e aveva anche trovato una plastica ra√gurazione nel Marte Pacificatore di Antonio Canova. 5 Nella medesima  



1   Niccolò Ivellio, Poesie dell’avvocato Niccolò Ivellio da Spalato scritte nell’ultima guerra, Capodistria, Dalla tipografia Sardi, 1810. 2   Giuseppe Mainati, Croniche ossia memorie storiche sacro-profane di Trieste, vi, Venezia, Picotti, 1816, pp. 3-4. 3   Niccolò Ivellio, Poesie, cit., pp. ii-iii. 4   Sul concetto di Grand Homme, vedi David Bell, The Cult of the Nation in France: Inventing Nationalism, 1680-1800, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2001; Jean-Claude Bonnet, La Naissance du Panthéon: Essai sur le Culte des Grands Hommes, Paris, Fayard, 1998. 5   Giulia Delogu, La virtù in versi. Ritratti di uomini ideali nella poesia civile francese e italiana tra Illuminismo, Rivoluzione, Età Napoleonica, «Il Confronto letterario», 61, 2014, pp. 55-63.

giulia delogu 368 linea si pone anche Ivellio, che apre la raccolta con un dittico di sonetti A Napoleone il Grande. 1 Nel secondo, in particolare, la tensione «dei bellici portenti» si risolve infine nella promessa di una «pace eterna»:  

Che sono innanzi a Te, Sir degli eventi, / le imprese e i fasti della prisca storia? / Sparve il passato: alle future genti / restan solo il tuo Genio e la tua Gloria. / D’Africa e d’Asia nelle arene ardenti / del tuo Nome immortal vive memoria; / Assorta ne’ tuoi bellici portenti / prostrarsi Europa a’ piedi tuoi si gloria. / Ma qual dai venti regni e dalla doma / tracotanza dei Re, prepari a noi / sorte che non conobbe Atene e Roma? / S’occhio v’è così fral che non discerna, membrando ciò che festi e quanto puoi, / io la dirò: virtute e pace eterna. 2  

Nelle pagine successive il poeta si concentra sulla guerra da poco conclusasi tra Napoleone e la quinta coalizione guidata dall’Inghilterra e dall’Impero Asburgico. Interessanti sono soprattutto i cambi di inquadratura, dal particolare all’universale. Ivellio, nel Passaggio della Croazia prodigiosamente eseguito dall’armata di Dalmazia comandata da S. E. l’illustre General in capo Marmont, inizia descrivendo con dovizia di particolari fisico-geografici il teatro di guerra illirico: «Della Liburnia in seno / ardisce penetrar: ciglioni algenti / cingonla intorno, e la difende un fiume; / inospite è il terreno / di massi ingombro; barbare le genti / di genio, di favella e di costume» (p. 5). Lo sguardo dell’autore si sposta poi verso gli scontri principali, raccontati nella Presa di Vienna in maggio 1809: Pien d’un Dio che lo guida, lo accende / vola il forte alla dura tenzon; / con novelli prodigi sorprende / sconosciuti all’umana ragion. / Urta e piomba qual Giove tonante / più veloce del caldo pensier; / i suoi prodi hanno l’ali alle piante, / nelle destre, di morte di poter. / […] / Vienna echeggia del Nome immortale, / e s’inchina al Sovrano dei Re: / vinto cade e ferito nell’ale / il bicipite augello a’ suoi piè. 3  

Il testo dedicato alla conquista di Vienna, inoltre, contiene una singolare presa di posizione, ripetuta più volte nel corso di tutta la raccolta, secondo la quale vera e unica responsabile della guerra sarebbe stata l’Inghilterra. Viene così assolto l’imperatore d’Austria Francesco I, del quale, in più luoghi, verrà sottolineata la bontà: «Anglia infame che i serpi alimenta, e l’olivo ricusa sul crin, / […] / di Francesco avvelena il cor buono / e lo sforza discordia ad amar» (p. 14). Tale lettura non deve stupire, se inserita nel contesto storico di allora: nel 1810 furono celebrate le nozze tra Napoleone e Maria Luisa, figlia di Francesco I, che inaugurarono (una brevissima) età di amicizia tra Francia ed impero asburgico. Inoltre pochi anni prima, nel 1806, lo stesso Ivellio, visitando Trieste non aveva perso l’occasione per elogiare pubblicamente la casa d’Asburgo, con una serie di stanze dedicate all’arciduca Carlo d’Asburgo-Teschen, pubblicate anche sull’«Osservatore triestino». 4 Il poeta ritorna poi alla descrizione della propria esperienza personale di fronte agli orrori della guerra. In un componimento Al coltissimo amico Bernardino Bicego vicentino, professore di amena letteratura nel Seminario di Spalato, coglie l’occasione per narrare i momenti di trepidazione vissuti nella pur bellissima Traù: nemmeno l’amenità del luogo può, infatti, mitigare la preoccupazione del poeta.  

In quest’amena parte / ove di sue bellezze il vago incanto / spiega Natura senza velo ed arte, / disfogo, amico, la tristezza e piango. / Degli usignoli il canto / l’onda che gorgogliando irriga il prato / non migliora il mio stato: / fra dubbiosi pensieri solo rimango; / volgo lo sguardo in giro, / sopra il monte lo arresto e poi sospiro. / Di nobile verzura / spuntan due zolle del ciglione in vetta / dominanti la fertile pianura, / che estendesi e verdeggia in vario aspetto. 5  

1

  Sul culto di Napoleone, vedi Vittorio Criscuolo, Napoleone, Bologna, il Mulino, 1997, pp. 161-191. 3   Niccolò Ivellio, Poesie, cit., p. 2.   Ivi, p. 15. 4   Niccolò Ivellio, Stanze del conte Niccolò Ivellio di Spalato per la festa onomastica dell’arciduca Carlo generalissimo, 5 «Osservatore triestino», 7 novembre 1806.   Niccolò Ivellio, Poesie, cit., pp. 29-30. 2

la poesia di niccolò ivellio tra cronaca, politica e sentimento

369

Picco drammatico della raccolta è la poesia Separazione da mie figlie in agosto 1809; nel quale il poeta racconta, in modo in verità assai trasfigurato, il doloroso momento nel quale dovette separarsi dalle sue tre figlie, onde metterle al sicuro dal «cieco vulgo» sobillato, secondo Ivellio, da agenti austriaci quali Andrea Dorotich, professore di filosofia a Sebenico e padre provinciale dei Frati Minori Osservanti. Il testo è tutto permeato del contrasto tra i sentimenti puri del padre (e l’innocenza delle figlie) e la furia fanatica dei nemici. A diπerenza del componimento precedente, nel quale non vi era corrispondenza tra la descrizione realistica dell’ameno paesaggio e il dolore del poeta, in questo caso Ivellio preferisce tratteggiare una visione naturalistica burrascosa e spaventosa, quasi che la stessa natura si ribellasse agli eventi ai quali è costretta a far da sfondo. Inoltre il poeta spalatino fa qui ricorso a termini allora correnti del linguaggio politico (diritto, ragione, fanatismo) e, in un e√cace rovesciamento della propaganda controrivoluzionaria, accusa proprio gli oppositori dei francesi di aver trasformato l’Illirio in un inferno in terra: 1  

Amor di padre cui stampò natura / in uman cor, oh quanto sei possente? / Oh come in mezzo ai palpiti dell’alma / imperi sugli aπetti, alterni i moti / del piacer, della doglia, e amara e dolce / rendi la vita! O santo amor, ti sento, / sento la forza di tue leggi, e tutto / consacrato al tuo culto, io ti tributo / i singulti, le lagrime che spreme / dal mio cor la tristezza. / Io veggo il cielo / d’atre nubi, il vento irato / odo fischiar nella foresta, piena / d’orror Natura, rifuggir l’aspetto / d’ogni vivente. Dal profondo seno / della terra una voce rimbomba: / “Vanne, fuggi, ti salva; il diritto è spento, / spenta è ragion; il Fanatismo insano / coll’Idre sue spira veleno e rabbia / nel cieco vulgo che non vede il lume”. / […] / O Natura Natura, io più non posso / a me stesso pensar; l’anima mia / vive trasfusa in tre soavi pegni / di mutua tenerezza; io più non veggo / che la triste lor sorte; il guardo io giro, / e scorgo innanzi a me pallide, oppresse, / le care figlie palpitanti; ascolto / le tenerelle lor voci innocenti. 2  

Finita ormai la guerra, si canta la promessa di un futuro radioso. Anche il componimento Al coltissimo amico Giovanni Creglianovich Albinoni, scritto per celebrare la pubblicazione delle Memorie per la storia della Dalmazia, 3 diventa così un pretesto per far l’elogio di Napoleone. Il racconto delle glorie passate della Dalmazia viene, infatti, riletto come prefigurazione del presente, che si configura come una vera e propria età dell’oro. Il mito dell’età dell’oro non era solamente un motivo poetico e letterario, quanto piuttosto uno dei temi portanti della riflessione settecentesca, che aveva via via identificato la felice età dell’uguaglianza e della virtù nell’antichità classica, in quella egiziana o in quella indiana e aveva poi elaborato progetti – da quello massonico a quello rivoluzionario – per ricrearne le condizioni in terra: 4  



Spirito cortese / che di sode dottrine attinse al fonte, / squarcia la notte che t’avvolge e, pieno / della tua gloria, qual tu fosti accenna / e quanta in te stava possanza: ardito / figlio di Clio, tu dissipasti il velo / de’ remoti destini, ed i diversi / casi d’Illirio: io tue vergate, Amico, / pagine scorro; grandeggiar mi sento / all’alte gesta e alla sublime imago / di vetusto poter. 5 Spunta fulgido il giorno: un Genio sorge, / si annunzia all’Orbe stupefatto, e tutta / rigenera la Terra. Usanze rudi, / compri delitti, fanatismo insano, / dispotico poter, procace orgoglio / spariscono repente, Il diritto regna / sulle ruine della colpa: il bello / dal disordin rinasce e allegra il Mondo / di sue sembianze animatrici. […] / il santo coro / delle pure virtù, congiunte assieme, / tesse la fila d’una nuova etade / che dell’oro fia detta. 6  



1   Luciano Guerci, Uno spettacolo non mai più veduto nel mondo. La Rivoluzione francese come unicità e rovesciamento negli 2 scrittori controrivoluzionari italiani (1789-1799), Torino, utet, 2008.   Niccolò Ivellio, Poesie, cit., p. 39. 3   Giovanni Creglianovich Albinoni, Memorie per la storia della Dalmazia, Zara, Anton Luigi Battara, 1809. 4   Dan Edelstein, The Terror of Natural Right: Republicanism, the Cult of Nature and the French Revolution, Chica5 go-London, University of Chicago Press, 2009, pp. 11-14.   Niccolò Ivellio, Poesie, cit., p. 61. 6   Ivi, pp. 62-63.

giulia delogu

370

Chiudono la cronache della campagna del 1809 due componimenti che, come avverte una nota dello stesso autore, furono recitati «in un pranzo imbandito in giugno p. p. per le vittorie riportate dal Generale in Capo dell’armata di Dalmazia Duca di Ragusa». Il primo (All’armata di Dalmazia) è opera di Ivellio, il secondo (Ode) porta la firma di Antonio Tochich, professore di filosofia a Spalato e già suo maestro. I testi presentano caratteristiche simili quali versi brevi e rime cadenzate (molte sono tronche), che li rendono di più immediata comprensione e che li diπerenziano dal resto della raccolta, rivelandone la funzione ‘da recita pubblica’. Anche il contenuto è uniforme, entrambi contengono, infatti, un chiaro messaggio: da un lato la celebrazione delle vittorie francesi, dall’altro la prefigurazione della futura grandezza della Dalmazia che finalmente «felice sorgerà». Salve, Marmont, fra’ duci / duce maggior del Fato, / di Liburnia l’ingrato / suol di Te parli ognor; / parli Liburnia e il Mondo / della tua impresa ardita, / ed Anglia sbigottita / tremi del tuo valor. / Salve, o prodi seguaci / del primo Duce invitto; / in fronte Onor v’ha scritto: / o vincer, o morir. / O come chiara splende / la vostra eccelsa gloria! / Ricorderà la storia / il vostro immenso ardir. 1 Regio Augel, i nostri voti / deh riporta al tuo Signor, / dì che i Dalmati devoti / gli oπron fede, il brando, il cor. / Se qualch’alma rozza, ignara / il protervo aπascinò, / or pentita in doglia amara / terse il fallo e il cancellò. / All’Illirica pendice / un sol guardo di pietà / volga il Grande, e allor felice / la Dalmazia sorgerà. 2  



La lettura della raccolta di Ivellio oπre un’interessante testimonianza soprattutto di ordine storico e culturale. Pochi invero sono i pregi letterari dei testi antologizzati, tuttavia di fondamentale importanza è il quadro che permettono di ricostruire. Dalle poesie di Ivellio emergono, infatti, sia la penetrazione in Dalmazia di motivi che avevano caratterizzato il dibattito culturale sette e ottocentesco (si pensi alla questione dei Grands Hommes o a quella dell’età dell’oro), sia la ricezione e la rielaborazione degli stilemi della propaganda politica, che, a partire dai primissimi anni della Rivoluzione francese, aveva coinvolto tutte le arti, ivi compresa e con un ruolo di primo piano, la poesia. L’avvocato di Spalato mette la sua penna al servizio di Napoleone, elogiandolo secondo la duplice immagine u√ciale di grande guerriero e uomo di pace, ma, a diπerenza di altri prodotti coevi (si pensi, ad esempio, ai testi di Rado e, su più ampia scala italiana, di Vincenzo Monti), riesce a infondervi note personali. Il trionfale ed epico racconto della vittoria napoleonica è, infatti, inframmezzato dalla vibrante descrizione dei sentimenti di paura e angoscia del poeta e della sua famiglia, donando all’insieme un tocco di originalità, che, pur con tutte le cautele del caso, lo situa nell’alveo della sensibilità romantica. 1

 Ivi, pp. 77-78.

2

  Ivi, pp. 80-81.

SERGIO MARIA KATUNARICH, UNA CONVERSIONE NELLA LETTERATURA DALMATA Chiara Galassi

L

o scrittore nasce a Fiume (1923) ma la sua famiglia ha origini dalmate:

I Katunarich per moltissime generazioni, erano sempre stati gente di mare. Padroni di velieri o barche. Con il crollo della navigazione a vela si erano presto diramati in varie direzioni. Un ramo si era dato al commercio, di tessuti se non sbaglio, e pare che avesse seminato sulla costa dalmata magazzini che Tito provvederà poi a fare propri. Uno di questi Katunarich di Spalato avrà salva la vita, grazie a una conoscenza di mia madre. […] Un altro ramo aveva preferito lo studio e l’arte. Il vecchio Ante, professore d’arte e scrittore di commedie, era ben noto a Spalato e sarà tra i primi maestri e sostenitori del grande scultore Mestrovich, […] unico della famiglia, infine nonno […] Marino […] aveva risalito la Dalmazia e si era stabilito alla periferia di Fiume. 1  



Anche nella sua poesia Katunarich ricorderà la tanto amata terra: «Era figlio di dalmati / dalmati duri / di dure parole». 2 Così a√orano i luoghi della memoria, «dei mii veci antichi», 3 quei microcosmi popolati da genti e culture con un’ampia visione del mondo, abituati a vivere in modo composto, pieno di tolleranza sociale e religiosa, espressione variegata di grande civiltà che contribuiranno a formare l’educazione del giovane Sergio da sempre alla ricerca di tracce e radici degli avi, «Braza / che me ga ‘namora / […] a scartabelar libroni / de nassite e matrimoni / e sulle tombe / […] metarò do fiori», nella speranza di sentirsi riconosciuto «brazan patoco». 4 Lo scrittore studia scienze politiche a Trieste e a Padova, nel 1946 entra nella Compagnia di Gesù, consegue i gradi accademici di filosofia a Gallarate, quelli di teologia a Torino e il dottorato in teologia all’Università Gregoriana di Roma. È ideatore e cofondatore a Gorizia di «Incontri Culturali Mitteleuropei». Qui assieme a amici fiumani si dedica a incontri e dibattiti per poi promuovere a Roma le edizioni del Dizionario del Dialetto Fiumano. A Milano tiene corsi e seminari all’Università Cattolica e a Roma collabora a «La Civiltà Cattolica». Molte e varie le sue pubblicazioni; saggi religiosi, studi sul dialogo ebraico-cristiano, poesie, filastrocche e poesia in dialetto, una interessante autobiografia. Quest’ultima è un viaggio con connotazioni pressanti e concrete che rimanda a esperienze dirette, intimamente legate a un costante pensiero poetico-nostalgico che attraversa tutto il suo vissuto, viaggio-metafora trasparente del grande viaggio di Katunarich nell’interiorità, nel recupero della fanciullezza, degli anni giovani, e nella contrapposizione del mondo adulto a quello materno. Il padre va per assenze, 5 quale continua ricerca  













1

  Sergio Maria Katunarich, Frammenti di una vita fiumana, Udine, Del Bianco, 1994, pp. 37-38.   Ivi, p. 229.   Sergio Maria Katunarich, S.J., Zibaldone Fiumano-Dalmata-Istriano, Milano, Spirali, 2000, p. 125. 4   Ivi, pp. 169-170. 5   Sergio Maria Katunarich, Frammenti di una vita fiumana, cit., p. 40: «Di mio padre in casa non si parlava mai. C’era una foto tra le poche di famiglia, che mi ritraeva bimbetto, con una tutina che tradiva la casalinga fabbricazione materna, vicino a un signore che dicevano essere mio padre. I miei ricordi non andavano più in là. E erano decisamente sgraditi». 2 3

chiara galassi 372 dell’áncora del tempo, flash di un arcano misterioso per strade segrete, come quella della conversione-rivelazione in solitudine, a Venezia, che attraversa il passato e torna via via a ricomporsi. È proprio in questo processo che si attua ‘l’andare’, in un ardente desiderio del ritorno al mondo della madre, a mantenere in vita le radici e i luoghi cari. Ma la fuga a ritroso nella memoria è conscia in ogni momento, della labilità. Katunarich conosce bene il percorso, e dietro la frenetica ricerca di un luogo dove fermarsi c’è il continuo pulsare del bene perduto e del soccorso divino, primo termine e ultimo. Il movimento continuo di chi si sente condannato a vivere nel presente e ne avverte l’instabilità ontologica. Il presente è accettazione di un luogo che alla fine si nega e si dissolve, il passato si colloca nelle coordinate stabili delle proprie radici, della prima individuazione di sé nel mondo. Tratto peculiare di questa scrittura è un’immobilità come centro stabile di una vorticosità creativa che, su questo punto fermo, trova la via di un ordine e di interrogazione continua sul dispiegarsi dell’avventura umana, nei molteplici e sempre complessi itinerari, al di là del bene e del male, nella dimensione obliqua della quotidianità. Sergio Katunarich vede la scrittura come concetto di identità che ridona alla mente e al corpo la forza perduta nel continuo peregrinare. Presente e passato si incontrano sempre e finiscono per innescare un movimento che regressivo e progressivo, al tempo stesso, si oπre come tensione verso un orizzonte utopico dal quale prendere le mosse per ricostruire un’identità perduta. Tuttavia lo scrittore non si ferma, va avanti. Quasi una sorta di paradosso temporale, vuole tornare indietro, approdare ai momenti nei quali la vita scorreva semplice e libera nella terra d’origine. Alla luce della sua produzione, le città della scrittura diventano anche cartografie della memoria segreta: l’isola di Brazza, la sua Fiume, Venezia, Trieste, Milano, Roma, Gerusalemme. E, se è vero che per l’uomo pubblico, esistono tante città, tante terre, per lo scrittore, al contrario, si staglia unicamente e simbolicamente la sua terra, lo spazio sacro e inviolabile che fornisce la materia prima alla scrittura. La sottile sensibilità di Sergio Katunarich non vuole piegarsi alle logiche spietate della Storia, ma ambisce a quella dimensione dello spirito che la superi con un antico alfabeto, per giungere all’armonia del mondo, a quell’ordine che il mondo ha da sempre perduto. Utopia e speranza che l’esperienza ha sfaldato e disgregato, si oπrono al suo pensiero, in continuo e travagliato pellegrinaggio. Egli sa che soltanto la parola può riconquistare il punto profondo dove possono ritrovarsi finalmente congiunte le origini e la memoria. Qui va detto però che il locus di osservazione di Katunarich non è astratto: lo scrittore, con una passione pari alla sua devozione topologica, assume la terra natia e i suoi paesaggi come momenti fondamentali di un sentire che si connota sempre nelle radici. La memoria non è soltanto ars memoriae ma traduzione spirituale del passato. E a un tratto Katunarich realizza in sé l’armonia del conscio e dell’inconscio, per raggiungere l’equilibrio dinamico dei contrari riconciliati, l’unione del razionale e dell’irrazionale, dell’immaginazione e dell’intelletto, del reale e dell’ideale. La totalità riesce a unificarsi in lui. Gli stati d’animo che si succedono fanno ria√orare le immagini del passato, una fuga a ritroso, con il desiderio struggente di fermare la memoria. L’accostamento dell’antico al nuovo, avviene con naturalezza e ha la capacità di abolire la distanza nel tempo, restituendo l’immagine di un universo omogeneo, perché interiorizzato. Un viaggio continuo, senza fine, che va dallo scenario pragmatico della quotidianità a quello metafisico, che guida una rotta di costante ritorno all’Uno, con segnali che via via si rivelano. L’opera allora diventa importante per tutto ciò che rappresenta: per l’uomo e il suo vissuto di ogni giorno, per i drammi immensi che ne a∫iggono l’esistenza, per il timore di non trovare comprensione nell’altrui indiπerenza e per non sentirsi sempre  







katunarich, una conversione nella letteratura dalmata

373 riconciliato con se stesso. 1 È palese un desiderio incontestabile di dare respiro a un altro se stesso, in pagine colme di nuova vita alle quali è a√dato il compito di rivelare il suo ‘essere’ e di essere interpretate con una attenzione appassionata. Non troviamo nei suoi testi parole o pensieri espressi con superficialità, solo per il desiderio di raccontarsi, ma una motivazione profondamente connaturata alla segreta essenza di una natura soπerente e generosa. Sono i suoi principi etico, estetico, filosofico i testimoni del grande desiderio di saggezza e di ordine, che si identifica nella totalità metafisica inseguita da sempre e soπerta visibilmente. Katunarich vuole anche trasmettere rassicurazione, perché è questa la grande esigenza dell’uomo moderno: trovare risposta alle proprie ansietà. E con i suoi scritti invita a riflettere sulla drammaticità dell’esistenza, trasmettendo un desiderio irrefrenabile di porgersi, di rivelarsi, di trascinare il lettore dalla propria parte, lasciandosi suggestionare dalla spontaneità di un linguaggio che nello Zibaldone diventa disordinato, quasi infantile, incontrollabile e incontrollato, per farsi comprendere meglio e creare le premesse di quell’intesa universale che esiste al di là delle parole, dove tutto è segno e tutto parla. Fatti, immagini sono interiorizzazione e tesaurizzazione semiotica, flash eudemonico che, sottraendosi al tempo, si traduce in parole e non si consegna a un nichilismo senza speranza, a una via distruttiva mai redenta dal miracolo di un raggio di luce. La parola che va oltre se stessa si oπre metafora di una salvezza possibile, di un orizzonte etico-assiologico ancora raggiungibile: metafora della vita stessa, ne accoglie certezze e incertezze, unico modo per avviare quel movimento centripeto che significa conquista dell’identità ultima. Si sa, ci si aπaccia sui testi per specchiarvisi e ritrovare i lineamenti di una comune condizione umana. È costante infatti la ‘litania’ d’amore con quella per la salvezza, come è costante il ‘canto’ di fraternità che consiste nel volere recuperare con la forza dell’esaltazione spirituale, l’unità e l’unicità. La grande ambizione dello scrittore è di mantenere aperta la comunicazione con l’Infinito, per impedire all’uomo di limitarsi solo al mondo delle cose concrete, di interrompere il filo sottile che lo lega a quella dimensione invisibile e parallela della realtà. Per fare ciò, Katunarich gioca anche con le parole, strutturandole in un linguaggio privo di acquisizioni pregresse. Sembra quasi che la scrittura prenda a prestito il ritmo dalla musica rap, rivisitandolo, per ampliare al massimo la comprensibilità del messaggio veicolato da una ripetizione ossessiva. Nessuno si stupisce infatti se il rap entra trionfalmente in ogni fascia di età, anche in quelle più avanzate; regna infatti in antropologia il primato della soggettività sul decadimento fisico. 2 Per ogni scrittore senza dubbio, la singola espressione letteraria, si tratti di poesia, romanzo, evento cinematografico, dramma o tragedia, non basta interpretarla, limitandola negli spazi stretti della struttura letteraria. Al contrario occorre andare oltre, cercare il senso di un qualcosa che trascenda tale struttura, evidenziando e privilegiando al tempo stesso relazioni di ordine psicologico, sociologico, morale e filosofico, le sole realmente in grado di rappresentare la dimensione metafisica entro cui gravita la totalità dell’universo di Katunarich. È un universo complesso, singolare che ha caratterizzato ogni sua opera, di poesia, biografica, religiosa. Possedere questa chiave significa entrare in sintonia oltre che con il testo, con l’autore, da un punto di osservazione privilegiato, identificando creatore-creazione, scritturascrittore, espressione viatica-individualità, riconoscendolo così in ogni sua opera, interpretandola e interagendo soltanto attraverso i sentimenti e le esplicitazioni dello scrittore.  









1   Sergio Maria Katunarich, S. J., Zibaldone-Fiumano-Dalmata-Istriano, cit., p. 156: «parevo grande forte e destinà / a robe grandi / e, inveze, / son finì bel che falì». 2  Cfr. Marc Augé, Il tempo senza età, Milano,  Cortina, 2014.

chiara galassi 374 È questa la testimonianza vissuta di un universo particolare da cui traspaiono generosità di impegno e una singolare, struggente umanità. Prenderne atto significa sentirsi impegnati a rivivere l’atmosfera di un’individualità assoluta, quella che ci fa ritrovare l’Uomo che ha già vissuto ogni parola, ogni pensiero, ogni più piccolo gesto e sentimento dell’animo e sente il disperato bisogno di sapere che la sua opera non andrà perduta: A... O cara bimba chiara che adoro cui vanto sarà un giorno il canto piccolo che elevo io longevo mendico d’amore io cantore sognante. 1  

1

  Sergio Maria Katunarich, A…, in Idem, Frammenti di una vita fiumana, cit., p. 234.

«L’ACUME DELLA CRITICA, L’ELEGANZA DELLO STILE, E UNA CERTA ONESTA LIBERTÀ». APPUNTI SULLE RELAZIONI FRA PIER ALESSANDRO PARAVIA E ANGELO PEZZANA Rosa Necchi

I

l 26 febbraio 1834 lo zaratino Pier Alessandro Paravia (da due anni docente di eloquenza italiana all’Università di Torino) esprimeva per lettera ad Angelo Pezzana, autore delle Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, il proprio apprezzamento per «l’acume della critica, l’eleganza dello stile, e una certa onesta libertà» di pensiero rinvenuta nel quarto e ultimo volume dell’opera, pubblicato pochi mesi prima; senza tale libertà, precisava Paravia, «io credo che avremo de’ Panerigici o delle Satire, ma vera e legittima Storia non mai». 1 Analoghi attestati di stima accompagneranno la stampa di altri lavori di Pezzana, dal 1804 direttore della Biblioteca Palatina di Parma; così avverrà ad esempio nel 1838, per la biografia dell’abate Michele Colombo (defunto nel giugno di quell’anno), considerata da Paravia, a sua volta stimato autore di profili biografici, sicuro modello del genere («così si debbe scriver la storia letteraria, e non a foggia di romanzo, come si usa oggidì»). 2 Avviata nel 1827 da Paravia per rispondere all’invito di Pezzana agli studiosi italiani a porgergli «notizie sugl’illustri Letterati Parmensi», 3 e protrattasi (salvo brevi interruzioni) fino al 1855, la corrispondenza (costituita di oltre ottanta missive, divise fra la Biblioteca Palatina di Parma e la Biblioteca del Museo Correr di Venezia) può ben rappresentare uno degli strumenti privilegiati per indagare le relazioni intercorse fra i due uomini di lettere; 4 che insieme erano stati nominati, il 17 dicembre 1826 (ovvero pochi  







1  C. 1r (Biblioteca Palatina di Parma [d’ora in poi bpp], Epistolario Parmense, cass. 218, Carteggio Pezzana; quando non altrimenti indicato, si rinvierà tacitamente a tale collocazione). Si tratta delle Memorie degli scrittori e letterati parmigiani raccolte dal padre Ireneo Aπò e continuate da Angelo Pezzana, Parma, Ducale Tipografia, 1825-1833, 4 voll. (ora nella rist. anast. di Sala Bolognese, Forni, 1973). Su Paravia (Zara, 1797-Torino, 1857) si veda ora Francesca Brancaleoni in Dizionario biografico degli Italiani, lxxxi, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2014, pp. 303-306. 2   Lettera del 10 novembre 1838, c. 1r; e cfr. Angelo Pezzana, Alquanti cenni intorno alla vita di Michele Colombo. Seconda edizione con aggiunte, Parma, Paganino, 1838 (il profilo era già comparso nella Biografia degli Italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo xviii [...], vi, a cura di Emilio De Tipaldo, Venezia, Alvisopoli [poi Cecchini e Comp.], 1838, pp. 97-118). A partire dal 1838, nel carteggio si infittiscono gli scambi di notizie su opere e autografi di Colombo. Tramite Pezzana (Parma, 1772-San Lazzaro Parmense, 1862), nel 1839 Paravia oπrirà alla Palatina sei lettere dell’abate (cfr. le missive al bibliotecario del 22 maggio e del 18 giugno 1839); nello stesso anno Paravia pubblicherà nel «Subalpino» («giornale che con tutto il suo merito è poco noto, e fa picciol viaggio», lamenterà il dalmata il 16 gennaio 1839) venti missive di Colombo ad Angelo Dalmistro, facendole precedere da una propria Lettera a stampa a Pezzana, datata 24 febbraio 1839. Su Pezzana, cfr. Marica Roda, in Dizionario biografico degli Italiani, cit., lxxxii, 3 2015, pp. 819-822.   Si cita dalla lettera di Paravia del 16 febbraio 1827, c. 1r. 4   Inaugurato da Paravia il 16 febbraio 1827, il carteggio si chiude con la minuta di lettera di Pezzana dell’8 luglio 1855; sono privi di corrispondenza gli anni 1828, 1832, 1835, 1846, 1850-1854. Quarantacinque missive di Paravia (con l’aggiunta di una minuta di Pezzana, datata 14 giugno 1827, e di alcuni allegati) sono conservate in bpp, Epistolario Parmense, cass. 218, Carteggio Pezzana (si veda Giuseppina Allegri Tassoni, Il carteggio Pezzana della Palatina, «Archivio storico per le province parmensi», xiv, 1962, pp. 277-325, a p. 314). Il Copialettere di Pezzana, anch’esso custodito in bpp, restituisce quarantaquattro minute di lettere a Paravia (cfr. Giuseppina Allegri Tassoni, Il Copialettere di Angelo Pezzana, «Archivio storico per le province parmensi», xv, 1963, pp. 287-346, a p. 327). Trentasei

rosa necchi 376 mesi prima che lo scambio epistolare avesse inizio), soci corrispondenti dell’Accademia delle Scienze di Torino. 1 Il carteggio si svolge all’insegna di scambi di novità editoriali, di documenti e di informazioni bibliografiche. Dapprima impegnato a fornire notizie biografiche su letterati parmensi (in particolare Clemente Bondi, «poeta, forse troppo lodato a’ suoi giorni, e troppo oggi vituperato») 2 e attento lettore di opere pubblicate nel ducato padano (così per gli Idillj del piacentino Giuseppe Taverna, «tutti pieni d’un’aπettuosa eleganza e di una morale purissima», opera di «uno de’ più colti e gentili scrittori che abbia oggi l’Italia»), 3 quindi desideroso di presentare al corrispondente i propri lavori (per tutti, l’edizione delle Lettere di Plinio il Giovane che, grazie ai buoni u√ci di Pezzana, inutilmente il traduttore aveva auspicato di poter dedicare alla duchessa Maria Luigia d’Austria, o l’allestimento, nel 1844, di un volume miscellaneo in occasione della «festa secolare della nascita di Torquato Tasso», di cui la Palatina sottoscriverà la stampa su indicazione del bibliotecario), 4 Paravia trovò in Pezzana un interlocutore competente in diverse discipline (dalla letteratura alla storia, dalla bibliologia alla bibliografia), oltre che un intermediario in grado di somministrargli notizie e contatti di ambito ducale. Fra le notizie scambiate nel carteggio inedito, si impongono quelle di carattere biografico. Nel 1829 Pezzana viene interpellato in occasione della stesura dell’elogio del letterato e bibliofilo Tommaso Giuseppe Farsetti, i cui versi latini erano stati ristampati a Parma nel 1776; Paravia ottiene indicazioni sull’editore del volume (il tipografo di origini piemontesi Giambattista Bodoni), 5 insieme alla copia di una lettera del Farsetti al torinese Paolo Maria Paciaudi (giunto a Parma nel 1761 in qualità di antiquario del duca Filippo di Borbone e, poi, di primo direttore della Palatina, era stato il principale promotore delle relazioni culturali mantenute fra il Ducato parmense e lo Stato sabaudo nella seconda metà del xviii secolo). 6 Infruttuosa si rivelerà invece, nel 1833, la ricerca di autografi goldoniani presso Pezzana, in vista della pubblicazione (portata a compimento sei anni dopo) di una selezione della corrispondenza del commediografo. 7  













missive eπettivamente inviate da Pezzana a Paravia si trovano presso la Biblioteca del Museo Correr di Venezia [da qui innanzi mcv], Mss. Bernardi, 14, 70, 86 (secondo un ordinamento ancora provvisorio); negli Atti del Convegno Jacopo Bernardi. Un veneto testimone dell’Ottocento, tenutosi a Venezia, presso l’Ateneo Veneto, il 26-27 novembre 2014, è in corso di stampa il contributo di Piero Lucchi ed Elisabetta Molteni, Archivi aggregati. Le carte Paravia. 1  Cfr. Vittorio Cian, Vita e coltura torinese nel periodo albertino e postalbertino. Dal carteggio edito ed inedito di P. A. Paravia, Torino, Bona, 1931, p. 355. 2   Lettera del 22 maggio 1827 (c. 2r), con uno Spicilegio delle lettere dell’Ab. Bondi all’Ab. Carlo Belli ex-gesuita (dal 10 luglio 1796 al 15 luglio 1816); e si vedano le missive di Paravia del primo semestre del 1827. Cfr. Intorno a Clemente Bondi parmigiano epistola di Angelo Pezzana, Parma, Paganino, 1821; e Angelo Pezzana, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, cit., iv, 1833, pp. 491-516. Un profilo del Bondi (già pubblicato nel 1822 nel «Giornale di Treviso») confluirà negli Opuscoli varii di Pier-Alessandro Paravia, raccolti ed emendati dall’autore, Torino, Marietti, 1837, pp. 225-229. 3   Missiva del 9 giugno 1829 (c. 1r); e cfr. Giuseppe Taverna, Idillii, Brescia, Pasini, 1820. Sull’opera del piacentino si veda William Spaggiari, Giuseppe Taverna e la tradizione dell’idillio [1993], in Idem, La favolosa età dei patriarchi. Percorsi del classicismo da Metastasio a Carducci, Roma, Archivio Guido Izzi, 1996, pp. 103-167. 4   Le lettere di Plinio il Giovane, tradotte ed illustrate da Pier-Alessandro Paravia jadrense, Venezia, Tipografia di Commercio, 1830-1832, 3 voll. (poi più volte ripubblicate). Il 2 luglio 1827 Pezzana era stato incaricato di verificare la possibilità della dedica alla Duchessa di Parma. Si cita dalla lettera di Paravia del 19 febbraio 1844 (c. 1r); si tratta della Festa secolare della nascita di Torquato Tasso celebrata in Torino il giorno xi marzo mdcccxliv, Torino, Marietti, s.a. [ma 1844]. 5  Cfr. Josephi Farsetii patricii Veneti equitis bajulivi Hierosolymitani Carminum libri duo, Parmae, ex Regio typographeo, 1776 (la prima edizione, parigina, risaliva al 1755). Nulla di sicuro, invece, Pezzana riesce a comunicare riguardo al committente della stampa, probabilmente veneziano. 6  La missiva segnalata da Pezzana (del 20 marzo 1779) è conservata in bpp, Epistolario Parmense, cass. 75, Carteggio Paciaudi; si veda la lettera di Paravia del 3 aprile 1829, con la risposta del bibliotecario del 7 aprile 1829 (mcv, Ms. Bernardi, 86; per la minuta, bpp, Angelo Pezzana, Copialettere, viii, 1828-1831, pp. 105-107). Allo stesso anno risale Delle lodi dell’ab. Filippo Farsetti patrizio veneziano orazione di Pier-Alessandro Paravia. Orazione recitata nella I. R. Accademia di Belle arti in Venezia il giorno 2 agosto 1829 per la solenne distribuzione dei premi, Venezia, Picotti, 1829 (e cfr. Pier Alessandro Paravia, Opuscoli varii, cit., pp. 77-105); poi, in sintesi, in Biografia degli Italiani illustri, cit., iv, 1837, pp. 62-64. 7  Cfr. Lettere di Carlo Goldoni pubblicate per le felici nozze del sig. dottore Michele Corinaldi con la signora Benedetta Treves

appunti sulle relazioni fra paravia e pezzana

377 Per assicurarsi materiale epistolare e informazioni bibliografiche, Paravia si rivolge al bibliotecario tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, al tempo del laborioso allestimento della biografia del padovano Giuseppe Bartoli, già professore nell’ateneo torinese. Polemicamente presentato come «uno di que’ lavori di pazienza e di schiena, a’ quali non v’è oggi un cane in Italia che dia un’occhiata», 1 il profilo biografico (pubblicato a Torino nel 1842, resterà a lungo lo studio più dettagliato sul professore padovano) stava particolarmente a cuore a Paravia. L’interesse per Bartoli era del resto antico; risaliva infatti al 1818 l’edizione dei suoi Sonetti, di cui facevano parte anche le Memorie intorno alla vita e alle opere dell’autore. 2 Sollecitato a collaborare, Pezzana procurerà al corrispondente le copie di alcuni autografi bartoliani diretti a Paciaudi, e fornirà la data di ascrizione di Bartoli all’Accademia di Belle Arti parmense; 3 non potrà invece rinvenirne a Parma alcune opere poetiche a stampa, con speciale riguardo per il poco diπuso poema epico Imeneo secondato da Amore e da Piacere, composto da Bartoli in occasione delle nozze del 1775 fra il principe ereditario Carlo Emanuele di Savoia e Maria Adelaide Clotilde di Francia, sorella di Luigi xvi. 4 Senza risultato rimarrà anche lo sforzo (compiuto sul principio del 1842) di stabilire un autore per gli anonimi Sciolti per le reali nozze di Carlo Emanuele Principe di Piemonte con Clotilde Adelaide di Francia, privi di indicazioni editoriali, ma assegnabili al 1775 e all’attività tipografica di Bodoni (responsabile altresì della lettera dedicatoria al marchese di Aigueblanche, funzionario sabaudo). 5 Si attua, in questo caso, un’interessante cooperazione erudita fra il Piemonte e l’Emilia. Esaminato l’esemplare della torinese «Biblioteca del Re», 6 Paravia si convince (assecondato in ciò da Pezzana) che gli sciolti, dall’incipit «Cetra, che all’Atestin Panaro in riva», possano essere attribuiti a «un Modenese, o almen dello Stato»; l’ipotesi verrà meglio precisata dai due corrispondenti, concordemente propensi a identificare in Agostino Paradisi il possibile autore dei versi. 7 A questo punto la richiesta di collaborazione viene estesa a Gaetano Melzi, occupato nella stesura del Dizionario di opere anonime e pseudonime, 8 oltre che a un non meglio specificato letterato modenese (incaricato delle ricerche da Pezzana). Nonostante l’impegno profuso, ben ricostruibile attraverso la documentazione manoscritta, il componimento non potrà infine essere sottratto all’anonimato. 9 Oltre a Paravia (il quale, ad eccezione di brevi spostamenti in Veneto, risiedette stabil 

















nobile di Bonfil, Venezia, Antonelli, 1839. Sull’interesse per Goldoni si veda Edgardo Maddalena, Il Paravia e il Goldoni [1927], «La Rivista dalmatica», xxviii, 4, 1957, pp. 19-32 (per l’edizione delle lettere, pp. 29-32). 1   Si cita dalla lettera a Pezzana del 19 febbraio 1844 (c. 1r). 2   Cfr. il discorso Della vita e degli studi di Giuseppe Bartoli [...] (Torino, Fontana, 1842), e Sonetti di Giuseppe Bartoli raccolti e messi in luce da Pier-Alessandro Paravia (Padova, Bettoni, 1818). Ancora a Paravia si deve la ‘voce’ relativa a Bartoli della Biografia degli Italiani illustri, cit., ix, 1844, pp. 52-63. 3   Le missive di Bartoli sono in bpp, Epistolario Parmense, cass. 67, Carteggio Paciaudi. Cfr. il carteggio del 1839 e del biennio 1841-1842. Paravia non mancherà di ringraziare il corrispondente per l’aiuto ricevuto (cfr. Pier Alessandro Paravia, Della vita e degli studi di Giuseppe Bartoli, cit., p. 76). 4  Cfr. Giuseppe Bartoli, Imeneo secondato da Amore e da Piacere […], Ciamberì, Dufour, 1775. 5  L’edizione verrà segnalata come bodoniana da Antonenrico Mortara, Catalogo cronologico della collezione bodoniana la più ricca di quante mai furono e sono di Antonenrico Mortara […], Parma, G. Ferrari e figli, 1879, p. 54. 6   È la copia della Biblioteca Reale di Torino, Misc. 109 (27 bis). 7   Cfr. la missiva di Paravia del 2 febbraio 1842 (da cui si cita), e la risposta dell’11 marzo 1842 (mcv, Ms. Bernardi, 86; per la minuta, bpp, Angelo Pezzana, Copialettere, cit., xiv, 1840-1843, pp. 326-327). 8   Si tratta di Gaetano Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani o come che sia aventi relazione all’Italia, Milano, Pirola, 1848-1859, 3 voll. (ora nella rist. anast. di Sala Bolognese, Forni, 1982). Pezzana aveva interpellato Melzi il 27 marzo 1842 (bpp, Angelo Pezzana, Copialettere, cit., xiv, 1840-1843, pp. 338-340, a p. 339). 9   Si veda la già ricordata risposta di Pezzana dell’11 marzo 1842; e cfr. Pier Alessandro Paravia, Della vita e degli studi di Giuseppe Bartoli, cit., pp. 89-90. Sul poemetto, tuttora privo di paternità, cfr. Olga Pinto, Nuptialia. Saggio di bibliografia di scritti italiani pubblicati per nozze dal 1484 al 1799, Firenze, Olschki, 1971, p. 211 (n. 1571); Leila Di Domenico, Per le faustissime nozze. Nuptialia della Biblioteca Braidense (1494-1850), Cremona, Linograf, 2003, p. 104 (n. 346).

rosa necchi 378 mente a Torino dal 1832 al 1857, anno della morte), 1 la rete delle relazioni epistolari piemontesi di Pezzana annoverava altri personaggi di un certo spicco nello Stato sabaudo (il linguista Giuseppe Grassi, il naturalista Giacinto Carena, l’orientalista e filologo Amedeo Peyron, il letterato Antonio Carlo Boucheron, il bibliografo Costanzo Gazzera, il senatore e ministro Luigi Cibrario, lo storico Giuseppe Vernazza di Freney); alla maggioranza dei quali, ricordati con frequenza nel carteggio con Paravia, il parmense risultava legato quasi esclusivamente in virtù del suo u√cio di bibliotecario. 2 Anche il dalmata si avvantaggia dei servigi oπerti dal direttore della Palatina, non perdendo occasione per esprimergli il proprio compiacimento per le dotte ricerche portate di volta in volta a termine («Ella fa bene a mantenere in onore questo genere di letteratura, a cui poco si attende in questi nostri giorni, tutti dediti a’ nebbiosi romanzi e alle più nebbiose utopie», notava il dalmata nel febbraio 1844); così, negli anni degli studi sul poeta veneziano Bernardo Cappello, Paravia otterrà delucidazioni su manoscritti già appartenuti alla biblioteca ducale, insieme a ragguagli biografici ricavati da repertori parmensi inediti. 3 Proprio nel nome delle fervide relazioni culturali intrattenute fra Parma e Torino fin dalla seconda metà del Settecento, il 20 dicembre 1837 Paravia richiede notizie su alcuni piemontesi defunti (fra gli altri, il già ricordato Bodoni e l’ebraista Giovanni Bernardo De Rossi), giunti a Parma su suggerimento di Paciaudi; ma già il 16 novembre 1836 il dalmata aveva riferito di un’accademia letteraria, tenuta nel proprio corso universitario, sui Piemontesi illustri, fra i quali «non si potea dimenticare l’immortale Bodoni», in onore del quale uno studente «consacrò un’ode, che non è gran cosa, ma che per la solenne circostanza in cui fu recitata, e per il caro soggetto a cui è dedicata, non rincrescerà all’egregia Vedova di quel grand’uomo». 4 Al di là degli onori tributati al tipografo, Paravia non poteva tuttavia celare al corrispondente le di√coltà connesse alla cessione (allora tentata in Piemonte) del materiale bodoniano passato in eredità alla vedova Margherita Dall’Aglio, stante che «i ponzoni e le matrici bodoniane non sono più oggidì in tanta voga; per cui tutta quella suppellettile è più cosa da lusso, che da speculazione, più oggetto di curiosità che di commercio». 5 Ripetutamente interpellato da Pezzana sulla questione, il 21 dicembre 1837 Paravia si risolverà a informare la Vedova sull’esito sfavorevole della vendita proposta alla Reale Stamperia di Torino, di cui Cesare Saluzzo, «governatore de’ Regj principi», era stato intermediario; la richiesta di un vitalizio restava, secondo il dalmata, l’unica via praticabile per concludere la transazione. 6 Solo nel 1843, al termine di oltre un ventennio di contrattazioni con interlocutori italiani e stranieri, grazie alla disponibilità finanziaria della duchessa Maria Luigia e alla negoziazione dello stesso  











1  Cfr. Jacopo Bernardi, Vita e documenti letterari di Pier-Alessandro Paravia […], Torino, Marietti, 1863, 2 voll.; Vittorio Cian, op. cit. 2   Mi permetto di rinviare al mio Angelo Pezzana e la cultura piemontese, in corso di stampa negli Atti del Convegno Cultura emiliana e cultura europea nell’Ottocento: intorno ad Angelo Pezzana, tenutosi a Parma, presso il Palazzo della Pilotta, il 17-18 maggio 2013. 3   Cfr. il discorso di Pier Alessandro Paravia, Sui codici delle rime e sulla vera causa dell’esilio di Bernardo Cappello, in Idem, Memorie veneziane di letteratura e di storia, Torino, Stamperia Reale, 1850, pp. 129-201, a pp. 138, 165-166, 185; e le lettere degli anni 1848-1849. 4   C. 1r. Cfr. Pier Alessandro Paravia, Allocuzione per l’Accademia su’ Piemontesi illustri tenuta il giorno 7 giugno 1836, in Jacopo Bernardi, op. cit., ii, pp. 368-375. Per cura di Paravia, «Il Subalpino» (a. ii, vol. ii, 1838, pp. 560-573) accoglierà alcune Lettere d’illustri piemontesi (a pp. 560-561 si trova un ringraziamento a Pezzana), «seguitate da un brano di mia lezione, dove insegno al Sig. Villemain [docente della Sorbona] a informarsi delle nostre cose prima di tenerne discorso» (l’allusione è al polemico Del Villemain e dell’Alfieri. Squarcio di lezione). Si cita dalla lettera a Pezzana del 20 maggio 1838 (c. 1r); e si veda la risposta del 19 giugno 1838 (in mcv, Ms. Bernardi, 86; per la minuta, bpp, Angelo Pezzana, Copialettere, cit., xii, 1837-1838, p. 203). 5   Così Paravia il 20 dicembre 1837, c. 1r; e si veda l’ancor più esplicita missiva del 20 maggio 1838. 6   C. 1r (bpp, Corrispondenti vari a Margherita Dall’Aglio vedova Bodoni, cass. 63). Nel dicembre del 1837 Pezzana aveva comunicato a Paravia le lagnanze della Vedova riguardo alle trattative condotte dal Saluzzo (si veda bpp, Angelo Pezzana, Copialettere, cit., xii, 1837-1838, pp. 15-16; l’originale inviato da Pezzana, privo tuttavia di datazione, è conservato in mcv, Ms. Bernardi, 86).

appunti sulle relazioni fra paravia e pezzana

379 Pezzana, il patrimonio fusorio, librario e documentario di Bodoni verrà infine acquisito dalla Biblioteca di Parma. 1 L’intermediazione di Pezzana sarà essenziale anche nel caso della stampa parmense di una raccolta di saggi già editi di Paravia. Al bibliotecario saranno infatti delegati i contatti con l’editore Pietro Fiaccadori, lo stesso presso cui Giuseppe Biamonti, predecessore di Paravia a Torino, aveva pubblicato, nel 1841, i tre volumi delle proprie Opere precettive, oratorie e poetiche. Avviate nel 1844 le trattative con Fiaccadori (a detta di Pezzana, uomo non «facile a pregarsi»), 2 il volume di Prolusioni e discorsi, per il quale l’autore pronosticava un’ampia diπusione (non solo piemontese), vedrà la luce poco più di un anno dopo, con una breve premessa di Antonio Bertani, nipote e collaboratore del bibliotecario; 3 l’iniziale proposta rivolta dall’autore a Pezzana, per «una prosetta semplice e modesta, che servisse come di preambolo, e che non odorasse di ciarlataneria, né paresse un pezzo concertato con me», aveva infatti ricevuto un cortese diniego («vi si oppone il costante rifiuto da me dato a più amici viventi che per la loro grande amorevolezza mi fecero somigliante invito ed i quali si oπenderebbero dal sapere ch’io avessi derogato al mio costante proposito»). 4 Interrotta alla fine degli anni Quaranta, l’erudita corrispondenza fra il Piemonte e l’Emilia riprenderà nel 1855, oπrendo l’opportunità a Paravia di richiedere una copia della Storia della città di Parma, in allestimento per cura di Pezzana in continuazione di quella di Ireneo Aπò (già direttore della Palatina). L’opera, scriveva Paravia, era richiesta (e similari istanze erano state rivolte ad altri letterati, italiani e stranieri) non «per me, ma per Zara mia patria, dove fondo una pubblica biblioteca col dono della mia, parte in vita, e il resto in morte». 5 Il dalmata, che in tante occasioni aveva dichiarato la propria soddisfacente integrazione a Torino (e sabaudo d’adozione lo considerava Pezzana quando lo associava «agli altri amici di Piemonte, perché parmi ch’ella sia da guardarsi come Allobrogo: ubi bonum, ibi patria»), 6 avviava proprio allora un’iniziativa culturale in favore della città che gli aveva dato i natali. E sul progetto di fondazione della biblioteca di Zara (inaugurata nell’estate del 1857, pochi mesi dopo la morte di Paravia) il bibliotecario Pezzana non poteva che esprimere, nella lettera di chiusura del carteggio (sempre mantenuto nei termini di un’operosa, qualificata collaborazione), la propria convinta approvazione:  











Di questa fondazione io me le congratulo in modo tutto particolare. Dall’animo generoso di lei era da aspettarsi tanto nobile divisamento. Così per doppio rispetto il suo nome sarà caro alla posterità: all’uno già da pena acquistò diritto colle sue opere; all’altro lo va acquistando per così insigne liberalità. 7  

1  Cfr. Andrea De Pasquale, La fucina dei caratteri di Giambattista Bodoni, Parma, mup, 2010, pp. 7-41; Idem, Una donna tra libri e caratteri. Margherita Dall’Aglio Bodoni. Catalogo della Mostra (Parma, 8 marzo-10 aprile 2012), Parma, Museo Bodoniano, 2012, pp. 26-30: 27-29. 2   Minuta di Pezzana del 10 dicembre 1844 (bpp, Angelo Pezzana, Copialettere, cit., xvi, 1844-1845, p. 222). Il primo cenno alla collaborazione editoriale risale al 19 febbraio; e si veda la corrispondenza degli anni 1844-1845. In mcv (Ms. Bernardi, 126) si trova la lettera di giustificazione inviata da Fiaccadori a Paravia il 3 gennaio 1846, con l’elenco delle di√coltà incontrate nella stampa (priva, secondo il dalmata, di «quella venustà delli tempi nostri»), attribuite in massima parte all’onerosa tassazione vigente nel Ducato. 3  Cfr. Antonio Bertani, A chi vorrà leggere, in Pier Alessandro Paravia, Prolusioni e discorsi […]. Nuova edizione riveduta ed emendata dall’Autore, Parma, Fiaccadori, 1845, pp. iii-viii. 4   Si cita, rispettivamente, dalla lettera di Paravia del 5 novembre 1844 (c. 1r) e dalla già segnalata minuta di Pezzana del 10 dicembre 1844 (bpp, Angelo Pezzana, Copialettere, cit., xvi, 1844-1845, pp. 222-223). Per ulteriori notizie, si veda la lettera del dalmata del 21 febbraio 1845. 5   Così il 22 maggio 1855 (c. 1r). Si tratta della Storia della città di Parma, continuata da Angelo Pezzana, Parma, Ducale Tipografia, 1837-1859, 5 voll. (ora nella rist. anast. di Bologna, Forni, 1971). Sulla fondazione della biblioteca cfr. Giuseppe Ferrari-Cupilli, Della persona, degli scritti e della biblioteca di Pier-Alessandro Paravia zaratino. Tributo alla sua memoria […], Zara, Fratelli Battara, 1857, pubblicato Per la inaugurazione della Biblioteca comunale Paravia di Zara nel xviii agosto mdccclvii; e Lettere del Paravia riguardanti la fondazione della Biblioteca Comunale di Zara, a cura di Arrigo Zink, «La Rivista dalmatica», xxviii, 4, 1957, pp. 45-88. 6   Minuta dell’11 marzo 1834 (bpp, Angelo Pezzana, Copialettere, cit., ix, 1831-1834, p. 453). 7   Così nella minuta dell’8 luglio 1855 (bpp, Angelo Pezzana, Copialettere, cit., xxii, 1855-1857, p. 11).

L’ORAZIONE DEL SENTIMENTO DOMESTICO NELLE SUE RELAZIONI CON LA LETTERATURA

DI PIER ALESSANDRO PARAVIA: UN’APPASSIONATA ESORTAZIONE A ‘SENTIRE’ PRIMA DI SCRIVERE Milena Contini

L

’or azione Del sentimento domestico nelle sue relazioni con la letteratura 1 di Pier Alessandro Paravia (Zara, 1797 – Torino, 1857), filologo, poeta, accademico della Crusca e professore di eloquenza alla Regia Università di Torino dal 1837 fino alla morte, fu recitata il 3 novembre 1841 presso l’Ateneo subalpino e venne pubblicata in Prolusioni e discorsi (Parma, 1845). Lo scritto è un veemente ammonimento a «vivere prima di scrivere»: il tema, certamente non nuovo, è trattato dal Paravia con grande entusiasmo e con argomentazioni stimolanti e suggestive. Il Paravia apre la propria orazione dichiarando come la sensibilità e l’empatia siano doti imprescindibili per lo scrittore che voglia emozionare e coinvolgere il proprio lettore. Queste rare qualità (che egli chiama «delicatezza» e «forza di sentimento») non possono essere imparate su banchi di scuola né sfogliando le pagine di un libro, perché sono innate. L’eloquenza si basa sul ‘sentire’ e sul ‘far sentire’, quindi, la di√cile arte del dire poggia sui sentimenti. La formazione di un uomo, e di conseguenza di uno scrittore, si fonda su tre ‘sentimenti’ fondamentali: la religione, la patria e la famiglia. Dei primi due l’autore ha già parlato in orazioni precedenti (e precisamente nel Delle relazioni del cristianesimo con la letteratura 2 e nel Del sentimento patrio nelle sue relazioni con la letteratura), 3 ora desidera concentrarsi sul terzo. L’orazione inizia con un riferimento all’incondizionato e disinteressato amore materno che accompagna il figlio dal primo vagito all’età adulta. Un uomo che abbia ricevuto le aπettuose cure materne saprà descrivere tutta una gamma di sentimenti al contempo intensi e delicati con poche pennellate. Le citazioni e le allusioni letterarie proposte come esempi sono tutte tratte dalla Commedia: ritroviamo, infatti, i versi 37-42 del canto xxiii dell’Inferno, in cui Dante paragona Virgilio a una madre che, spaventata da un incendio, esce di casa svestita, curandosi solo della salvezza del piccolo. 4 Mentre le altre similitudini sono prese dal Paradiso, in cui il rapporto tra Dante e Beatrice è spesso paragonato a quello tra madre e figlio («Ond’ella, appresso d’un pïo sospiro, / li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante / che madre fa sovra figlio deliro»; 5 «come parvol che ricorre / sempre colà dove più si confida»; 6 «e quella, come madre che soccorre / sùbito al figlio  











1   Pier Alessandro Paravia, Del sentimento domestico nelle sue relazioni con la letteratura, in Idem, Prolusioni e discorsi, Parma, Fioccadori, 1845, pp. 103-162. 2   L’orazione fu letta il 3 novembre 1837 (anch’essa è contenuta in Idem, Prolusioni e discorsi, cit., pp. 1-50). 3   L’orazione fu letta il 5 novembre 1839 (anch’essa è in Idem, Prolusioni e discorsi, cit., pp. 51-102). 4   «Lo duca mio di sùbito mi prese, / come la madre ch’al romore è desta / e vede presso a sé le fiamme accese, / che prende il figlio e fugge e non s’arresta, / avendo più di lui che di sé cura, / tanto che solo una camiscia vesta». Tutte le citazioni dalla Commedia sono tratte dall’edizione di Anna Maria Chiavacci Leonardi (Dante Alighieri, Commedia, con il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1997) e non da quelle riportate in nota dal Paravia, ovviamente scorrette dal punto di vista filologico. 5 6   Par., i, vv. 100-102.   Par., xii, vv. 2-3.

un’appassionata esortazione a ‘sentire’ prima di scrivere

381 palido e anelo/ con la sua voce, che ’l suon ben disporre»; 1 «E come fantolin che ’nver la mamma/ tende le braccia, poi che ’l latte prese, / per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma» 2). Passa poi in rassegna velocemente l’amore paterno per soπermarsi su quello fraterno, con la citazione dei versi shakespeariani «Un fratricidio! Fu la colpa questa / Maledetta da Dio la prima volta» 3 (riferititi all’esempio negativo di Caino e Abele), una non scontata allusione all’orazione Post Reditum ad Quirites, nella quale Cicerone ricorda con aπetto Quinto, disperato fino alla follia durante l’esilio del fratello, e un riferimento alla dedizione di Anna nei confronti della sorella Didone. Il Paravia torna poi al più potente degli aπetti: l’amore di un genitore verso i figli, scegliendo esempi al pari potenti. La scena della Tebaide in cui la nutrice e la madre di Archemoro urlano di dolore di fronte al bambino stritolato dal serpente, il racconto guicciardinesco delle eroiche gesta compiute da Roberto della Marcia «sol per campare dalle cruente» mani nemiche «i caduti suoi figli», 4 i celeberrimi versi dell’Iliade nei quali Ettore saluta il figlioletto, togliendosi il cimiero dalla testa per non impaurirlo.(libro vi) e nei quali Priamo chiede ad Achille la restituzione del corpo di Ettore (libro xxiv) e l’altrettanto famoso brano dell’Eneide in cui l’eroe fugge da Troia con Anchise sulle spalle e Ascanio per mano. A questo punto il Paravia propone una serie di esempi tratti dalla Gerusalemme liberata e indugia in particolar modo su alcuni episodi della vita del Tasso (la folle disperazione per la morte dell’anziano padre e l’insicurezza patologica che lo portò a travestirsi da messo e comunicare alla sorella la propria morte per osservare la reazione di quest’ultima) che mostrano l’eccessiva sensibilità dell’autore, come a voler sottolineare che le soπerenze psicologiche siano state superate (noi diremmo ‘sublimate’) nella stesura del poema eroico. Questi rifermenti fungono da liana per passare a trattare un’altra forma di sentimento: l’inquieta e tormentata passione amorosa. Secondo il Paravia, questo è il sentimento più di√cile da esprimere, giacché, se i poeti tratteggiano questo amore in modo troppo astratto e spirituale, non ci convincono; se usano tinte, al contrario, materiali, non muovono la nostra stima; se lo coprono con un manto platonico, ci annoiano; se, di contro, lo scoprono con lascivia, ci disgustano. E aggiunge che l’arduo compito di emozionare il lettore con versi amorosi non è stato portato a termine nemmeno da Petrarca e i suoi infiniti emuli. Dopo un ulteriore diluvio di esempi (in cui trovano spazio Bembo, Vittoria Colonna, Bernardo Tasso, Giambattista Spolverini, Foscolo, Pindemonte, Salomone Fiorentino ecc.), egli sentenzia che nessuna passione amorosa può paragonarsi a quella degli aπetti domestici trattati sopra: «Non sia adunque aπetto alcuno, per quantunque da’ poeti accarezzato, che osi venire col domestico in concorrenza; perché ove anche possa esser più vivo, non sarà mai ch’esser possa più santo». 5 Questa considerazione moralistica serve al Paravia per sottolineare come la funzione delle tragedie greche fosse quella di insegnare al pubblico come non comportarsi tra le mura domestiche («perché [...] imparassero i Greci a non violare e snaturare il domestico sentimento, veggendo a che eccessi corra e in che sciagure trabocchi chi nol rispetta»): 6 le lugubri vicende dei Pelopidi e dei Labdacidi terrorizzano gli spettatori, che però sono ‘ricompensati’ da figure cristalline come quelle di Antigone e Merope. Il riferimento al Maπei e all’Alfieri è scontato: il secondo, sottolinea con enfasi il Paravia, aveva dedicato la Merope alla madre («quasi un ricambio di quelle toccanti situazioni e di que’ nobili  











1

2   Par., xii, vv. 4-6.   Par., xxiii, vv. 121-123.   William Shakespeare, Amleto, iii, 3. 4   Pier Alessandro Paravia, Del sentimento domestico cit., p. 122. Il Paravia fa riferimento al libro xi della Storia d’Italia. 5 6   Pier Alessandro Paravia, Del sentimento domestico cit., pp. 136-137.   Ivi, p. 137. 3

milena contini 382 sentimenti, ch’egli mai non avrebbe saputo sì bene esprimere, se da lei prima non li avesse imparati»). 1 Visto questo commento, è evidente che il professore non avesse letto con acume (e malizia) l’incipit della Vita alfieriana, nel quale scavando sotto la catasta di complimenti e amabilità, si avverte tutta l’ostilità dell’autore nei confronti di una madre che lo aveva ‘spedito’ a balia, costringendo il padre a fare kilometri sotto la neve per andare a trovarlo (kilometri che gli furono fatali, dato che morì di polmonite quando il figlio aveva da poco compiuto un anno) e di essersi risposata con un giovane parente del defunto vecchio padre. 2 Al di là di questo esempio poco azzeccato, notiamo che il professore, riguardo alla tragedia greca, mescola funzione paideutica e funzione catartica, trasferendole, inoltre, sul piano privato piuttosto che su quello pubblico e sociale (preminente, come sappiamo, nelle polis): egli, quindi, con un’operazione del tutto anacronistica, assimila il teatro antico agli esempi terrificanti, spesso usati dai predicatori cristiani per ammonire il gregge. Del resto anche lo stile dell’orazione Del sentimento domestico in alcuni passaggi ricorda quello dei predicatori, con continui richiami alla Provvidenza e tirate moraleggianti. Egli però non è interessato a parlare dell’eloquenza sacra, tema aπrontato poco tempo prima da Guglielmo Audisio nella fortunata opera Lezioni di sacra eloquenza . 3 Dopo una serie di esempi pagani, si arriva, verso la fine dell’orazione, alla Sacra Famiglia, emblema del sentimento domestico, al matrimonio mistico (e qui il Paravia si concede un ricordo personale: l’emozionante contemplazione dello Sposalizio mistico di Santa Caterina di Paolo Veronese a Venezia) e all’esaltazione delle opere (in particolar modo le orazioni funebri nelle quali è palpabile il santo aπetto nei confronti dei congiunti e degli amici) di Gregorio Nazianzeno, di Basilio Magno, di Giovanni Crisòstomo, di Gregorio di Nissa, di Sant’Ambrogio e di Sant’Agostino. Il discorso si chiude con un’appassionata esortazione a vivere con pienezza gli aπetti domestici; il Paravia si rivolge, in particolar modo, ai giovani, stimolandoli a non cercare nei libri ciò che possono trovare nel proprio vissuto:  





voi, o cari giovani, accolti nel santuario de’ paterni lari, cresciuti all’alito delle paterne virtù, voi con invidiata eccezione non farete pompa di sentimenti non vostri, non direte alle vostre pagine di sentire per voi, non mentirete altrui né a voi stessi; ma forniti di quella gentilezza, di quella moderazione, di quella pietà, che mal s’imparano fuori del consorzio domestico, per quel segreto accordo che è fra il cuore e la mente, voi vedrete di queste preziose qualità informarsi altresì il vostro ingegno, imprimersi le vostre opere; le quali sparse di caste immagini e di nobili sentimenti, tutte spiranti aπetto e virtù, renderanno testimonianza di quella gran verità: che la eloquenza provien dal cuore, e che innanzi di scrivere convien sentire. 4  

Il tema trattato dal Paravia è tutt’altro che nuovo (basti ricordare, tra i molti esempi, la massima di Quintiliano «Pectus est enim quod disertos facit» 5 oppure la frase di Francesco di Sales «il su√t de bien aimer pour bien dire» 6): l’orazione del Paravia è lardellata di citazioni e riferimenti multiformi, che, se da un lato valorizzano le argomentazioni, dall’altro, in alcuni passaggi, soπocano il testo e stordiscono il lettore. L’autore, inoltre, come abbiamo visto, modella a proprio uso gli esempi in modo anche spregiudicato. Al di là di questi limiti, l’orazione resta un documento interessante in quanto testimonia la volontà del Paravia di attirare ancora una volta l’attenzione su un tema cruciale per l’eloquenza, che verrà ripreso più volte durante il xix secolo. 7  





1

  Ivi, p. 139.   Si veda a questo proposito Vittorio Alfieri, Vita, Epoca i, capitolo 1.   Guglielmo Audisio, Lezioni di sacra eloquenza, Torino, Stamperia Reale, 1839. 4   Pier Alessandro Paravia, Del sentimento domestico cit., p. 150. 5   «È infatti il cuore che rende eloquenti» (Quintiliano, 10, 715). 6   François de Sales, Oeuvres complètes, Paris, Didot, 1821, i, p. 326. 7   Si veda, ad esempio, l’incipit del discorso Dell’eloquenza e dei mezzi per acquistarla di Giovanni Veronesi (Giovanni Veronesi, Dell’eloquenza e dei mezzi per acquistarla, Volterra, Sborgi, 1870, pp. 10-11). 2 3

«FORMAR NON SOLO IL GRANDE SCRITTORE, MA, CIÒ CHE È PIÙ, IL VERO CITTADINO». PIER ALESSANDRO PARAVIA STUDIOSO DELLA LETTERATURA ITALIANA Annalisa Listino

P

ier Alessandro Paravia si accostò allo studio delle letteratura italiana fin dalla gioventù. A testimoniarlo non sono soltanto i saggi dedicati negli anni Venti alla lingua dei poeti, 1 ma altresì la sua vivace corrispondenza con Antonio Rosmini, che insieme a Nicolò Tommaseo fu compagno di studi del Nostro negli anni dell’Università a Padova e per il resto della vita amico fidato. Proprio dalla lettura di queste missive si può desumere come l’interesse dello studioso dalmata per le lettere italiane lo portò a concepire, nonostante la giovane età, un progetto davvero ambizioso: la scrittura di una storia della letteratura italiana completa. «Da quanto si manifesta negli appunti manoscritti […] e si appalesa nelle corrispondenze epistolari che tenne – scrive Jacopo Bernardi nella sua biografia –, sembra che [Pier Alessandro Paravia, n.d.c.] avesse in animo dettare una storia della letteratura o almeno della italiana poesia». 2 Probabilmente egli aveva già dato inizio ai lavori se, in una lettera a Rosmini del gennaio 1919, confessava:  



circondato come sono da cure noiose, prendo maraviglioso diletto nel recarmi col pensiero alla dotta Padova ed ai coltissimi amici che vi ho lasciati, fra’ quali voi non siete ad alcun altro secondo. E parmi proprio di fare adesso quei lunghi e caldi parlari che per noi di que’ giorni si istituivano ora sull’uno, or sull’altro soggetto di amena letteratura, ne’ quali le nostre idee si accordavano per forma, che ciò che l’uno diceva non era sovente che il pensiero dell’altro. E per darvi prova della vivissima impressione che hanno fatto in me que’ nostri ragionamenti, ho io deliberato di unire insieme in questi fogli quelle idee, che secondo mi correvano alla mente, vi venia liberamente sponendo. 3  

Questo progetto, nato dal confronto di tre uomini d’altissimo ingegno, richiedeva un’attenzione e una dedizione pressoché esclusiva che probabilmente in quel momento della vita Paravia non poteva dedicargli; la grande sfida venne così rimandata a una «età più riposata e matura», 4 ma negli anni successivi non trovò mai compimento. Per le cure di Paravia, uscì soltanto una raccolta antologica intitolata Canzoniere nazionale, edita a Torino nel 1849. 5 Nelle sue pagine lo studioso riportò le migliori composizioni poetiche di argomento patriottico che erano state prodotte nel corso dei secoli, operando una scelta che non includeva soltanto i versi dei più grandi autori italiani (Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Bembo, Tasso, Parini, Alfieri, Monti, Foscolo,  



1   Su tutte, si ricordino: Pier Alessandro Paravia, Di alcune osservazioni di lingua fatte sopra le ultime poesie di Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico. Lettera di Pier-Alessandro Paravia Jadrense all’eccellentiss. sig. marchese Don Giovan Jacopo Trivulzio, Treviso, Francesco Andreola Tipografo, 1824; Idem, Di alcune osservazioni di lingua fatte singolarmente sopra l’ultima edizione della vita di Dante, scritta dal Boccaccio. Lettera del dottore Pier-Alessandro Paravia Jadrense al cav. Vincenzo Monti, Treviso, Francesco Andreola Tipografo, 1825. 2   Iacopo Bernardi, Vita e documenti letterari di Pier-Alessandro Paravia, professore nel r. Ateneo di Torino, Torino, Giacinto Marietti Tipografo-Libraio, 1863, p. 35. 3 4   Ivi, pp. 36-37. I corsivi sono dell’autore.   Ivi, p. 35. 5   Pier Alessandro Paravia, Canzoniere nazionale scelto e annotato da Pier Alessandro Paravia, Torino, Stamperia reale, 1849.

annalisa listino 384 Leopardi), ma anche quelli di poeti di secondo e terz’ordine, da Tebaldeo a Molza, da Beccuti a Rota, da Pignotti a Borghi, oltre naturalmente a se stesso. Se dunque, come si può desumere da quanto detto, «l’animo del Paravia, inclinato alla letteratura, anelava segnalarvisi per quelle vie che vi oπrissero più sollecite e secure», in lui «questo vivo desiderio […] non era mai scompagnato da quello del bene, che ne potesse ridondare all’italiana gioventù». 1 Tacconi osserva che, nella produzione saggistica di Paravia,  

orazioni, lezioni di varia letteratura, di storia patria piemontese o veneziana, biografie, epigrafi, elogi funebri, tutto tende a uno stesso fine, alla risurrezione di un mondo migliore, ch’era nella coscienza di molti, ma non ancora nella vita, auspicato con una sincerità commuovente, con un convincimento saldo di cooperare alla grandezza della Patria. 2  

Questo stretto rapporto fra la legge morale e le lettere verrà definito nelle opere dello studioso dalmata in modo via via più chiaro, fino a trovare pieno compimento in alcune prolusioni torinesi, composte «pel riaprimento degli studi nella Regia Università di Torino» nel 1845, 1847 e 1854 e intitolate Della eccellenza e utilità degli studi poetici rispetto allo scrittore, Della eccellenza e utilità degli studi poetici rispetto al cittadino e Della responsabilità dello scrittore. In un’epoca caratterizzata da una scarsa considerazione per studi letterari, Paravia fa appello ai giovani a√nché si dedichino con passione e impegno allo studio della poesia, dal momento che «essa contribuisce, più che altri non pensa, a formar non solo il grande scrittore, ma, ciò che è più, il vero cittadino». 3 I più grandi letterati d’Italia costituiscono l’esempio a cui i giovani poeti, oratori e critici devono tendere: essi infatti hanno saputo fondere nelle loro opere altissimi concetti in una lingua «e√cace, copiosa ed armonica»; 4 hanno di volta in volta reinventato lo stile, in modo da piegarlo a esprimere nuovi contenuti; hanno rifuggito «il volgare e l’abbietto», le «locuzioni che odorino la o√cina ed il banco» e «i forestieri vocaboli». 5 Nel risvegliare non solo i piaceri dell’intelletto, ma anche quelli del senso, nell’associare cioè l’istruzione al diletto, come si accennava testé, la poesia diviene mezzo necessario pure alla formazione dei semplici cittadini: «ben lungi adunque dal biasimare il poeta, noi lodare e ringraziare il dovremo qualunque volta, per guarir l’uomo delle sue debolezze, per emendarlo delle sue imperfezioni, verrà spargendo sulle une e sulle altre quelle facezie e que’ motti che di ragione diconsi sali perché sono il condimento delle conversazioni, come delle faccende serie», 6 talvolta attraverso la poesia tragica, talaltra attraverso quella comica, satirica, lirica, religiosa o didascalica. Quella del poeta non è dunque una semplice professione, ma una vera vocazione a cui lo chiama «il Dio che lo ha creato». 7 Grande è la sua responsabilità, soprattutto quando si accosta al delicato tema della fede: «sia pur libero a chicchessia di pensare e credere come meglio gli torna, anzi di nulla credere, se così stima; ma non sia poi così perverso, anzi barbaro, da annichilare le credenze degli altri». 8 La condanna è rivolta non solo verso i poeti che osteggiano apertamente la religione o la deridono, ma anche verso tutti  











1

  Iacopo Bernardi, op. cit., p. 36.   Ildebrando Tacconi, Pier Alessandro Paravia, in Francesco Semi, Vanni Tacconi, Dalmazia: le figure più rappresentative della civiltà dalmata nei diversi momenti della storia, Udine, Del Bianco, 1992, p. 347. 3   Pier Alessandro Paravia, Della eccellenza e utilità degli studi poetici rispetto allo scrittore. Orazione pel riaprimento degli studi nella Regia Università di Torino, Torino, Stamperia Reale, 1945, p. 8. 4 5   Ivi, p. 21.   Ivi, p. 29. 6   Idem, Della eccellenza e utilità degli studi poetici rispetto al cittadino. Orazione pel riaprimento degli studi nella Regia Università di Torino, Torino, Stamperia Reale, 1947, pp. 21-22. I corsivi sono dell’autore. 7   Idem, Della responsabilità dello scrittore. Orazione pel riaprimento degli studi nella Regia Università di Torino, Torino, 8 Stamperia Reale, 1954, p. 10.   Ivi, p. 27. 2

pier alessandro paravia studioso della letteratura italiana

385 quegli autori «incauti» che riportano nelle loro opere distinzioni troppo sottili per essere colte dal pubblico, come coloro che distinguono sempre «ciò che è emanazione di Dio di ciò che è abuso dell’uomo», 1 e che rischiano così di produrre eπetti distruttivi sulle menti di uomini semplici, pur desiderando in realtà renderli più consapevoli. Questi problemi, che hanno evidentemente una portata morale non indiπerente, si ritrovano in quasi tutti gli scritti di Paravia, compresi quelli letterari, ai quali ora ci accosteremo un po’ più nello specifico. Quella per la letteratura fu infatti molto più di una passione giovanile transitoria, destinata a sfiorire con gli anni: pur non riuscendo nel grande progetto di scrittura di una storia della letteratura italiana completa, Pier Alessandro Paravia si confrontò per tutta la vita con le patrie lettere, avvicinandosi sia ai testi (con un’acuta attenzione critica e filologica), sia ai loro autori (sperimentando i generi della biografia e dell’elogio) e introducendo sempre, a fianco dell’elemento strettamente scientifico, quello morale. Nell’impossibilità di passare in rassegna in questa sede tutti gli scritti di argomento letterario, si è scelto di oπrire un breve resoconto di alcuni saggi, che possano esemplificare la vastità degli interessi e delle competenze di Paravia: prenderemo dunque in esame un discorso di elogio per Carlo Goldoni, una biografia di Vittorio Alfieri che si ricava dalla somma di quattro scritti a lui dedicati, un intervento di stampo filologico dedicato a un verso della Divina Commedia e alcune suggestioni critiche sulla Gerusalemme liberata di Tasso. Se si cerca nella produzione di Paravia un esempio di elogio ci si può soπermare su un discorso pronunciato il 26 dicembre 1830 e intitolato Per la inaugurazione del monumento posto nell’atrio interno del Teatro della Fenice in Venezia ad onore di Carlo Goldoni. 2 Non si tratta in realtà di un encomio stricto sensu, dal momento che Paravia non si limita a lodare le virtù del commediografo, ma prova a individuare le ragioni per cui la città di Venezia gli debba essere particolarmente riconoscente. Anzitutto, aπerma Paravia, «grande obbligo ha Vinegia col suo Goldoni per la gloria che le ha procacciato in qualità di grande scrittore», 3 insuperato e probabilmente insuperabile «per la fertilità delle invenzioni, per la felicità degli intrecci, per la verità de’ caratteri, per la vivezza del dialogo, e per quella fedel pittura della umana società»; 4 l’eccellenza delle sue opere, continua Paravia, induce ogni anno le compagnie teatrali anche al di fuori della terra veneta a mettere in scena le sue opere («Non v’ha comica compagnia, che delle tue classiche produzioni non onori il suo repertorio»), quando non addirittura ad assumere il suo nome («miete applausi per tutta Italia una illustre società comica, e dal tuo nome si chiama»). 5 Altri motivi dovrebbero indurre i veneziani a essere profondamente riconoscenti nei confronti di Goldoni: il fatto che sempre egli «onorò la sua patria», che dedicò «le sue commedie quasi sempre a veneziani patrizj», che fece «ricordo di questa cara Venezia il più spesso che potè», 6 che diπuse non solo il costume veneziano, ma anche il «veneziano dialetto», tanto che «gli scrittori […] del veneziano vernacolo, per ciò che il Goldoni ne ha tanto diπuso la conoscenza e l’amore, sono letti e gustati per tutta Italia». 7 Per ricostruire la biografia di Vittorio Alfieri, invece, Pier Alessandro Paravia si avvalse della collaborazione di Luigi Schiaparelli: lo studioso astigiano lo aiutò a far luce sugli eventi che segnarono gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza del tragediografo, elementi necessari, a detta dello studioso dalmata, capire una personalità  











1

  Ivi, p. 21.   Pier Alessandro Paravia, Per la inaugurazione del monumento posto nell’atrio interno del Teatro della Fenice in Venezia ad onore di Carlo Goldoni, in Idem, Opuscoli varii di Pier Alessandro Paravia raccolti ed emendati dall’autore, Torino, Giacinto Marietti Tipografo-Libraio, 1837, pp. 107-127. 3 4   Ivi, p. 110.   Ivi, p. 113. 5 6 7   Ivi, p. 114.   Ivi, p. 117.   Ivi, p. 122. 2

annalisa listino 386 complessa come quella di Alfieri. La biografia dell’illustre piemontese venne tracciata da Paravia nel corso di alcune lezioni presso l’Università di Torino, dove gli era stata a√data, a partire dagli anni Trenta, la cattedra di Eloquenza e Storia Patria. Lo studioso ne cavò «tre pezzi che ce lo rappresentano in tre diverse città, e con tali accidenti, che nella sua Vita o sono taciuti o non sono dichiarati»: 1 in breve, vi si illustrano le circostanze che portarono in Torino alla composizione dei primi esperimenti poetici e alla sistemazione della prima tragedia alfieriana, Cleopatra; si narrano poi le «vere pene […] che gli procurava l’amore» 2 e la passione per la Contessa d’Albany, che lo portò a trasferirsi da Firenze a Roma; infine si raccontano gli anni parigini, caratterizzati da incontri e frequentazioni importanti (con Carlo Goldoni, ma soprattutto con Ippolito Pindemonte, che divenne in qualche modo suo consigliere poetico), 3 coronati nel 1789 dalla stampa delle sue tragedie in sei volumi e altresì caratterizzati da «entusiasmo di libertà» 4 per i primi moti della rivoluzione francese, destinati tuttavia a sfiorire in breve tempo. Ancora all’illustre astigiano sono dedicati i brevi saggi Inesattezze del Signor Villemain in proposito dell’Alfieri 5 e Chiusa delle lezioni di eloquenza italiana nell’anno 1837-38: 6 in quest’ultimo intervento, lo studioso dalmata mette in luce le «tre grandi utilità» che si possono dedurre dalla vita dell’Alfieri: «prima utilità adunque, che ognuno di voi caverà dal suo esempio, sarà quella di fuggire una vita molle, dissipata, infingarda»; 7 «seconda utilità […] quella sarà di proporre un’alta e nobile meta a’ vostri studi, e a quella meta di continuo tendere»; «la terza e massima utilità, […] quella sarà di proporre uno scopo morale e civile a’ vostri studi». 8 Passando ora agli interventi sui testi, ci si può innanzitutto soπermare su un breve scritto dalla chiara impronta ecdotica, intitolato Sopra un verso di Dante ed uno del Berni e stampato nel volume miscellaneo Discorsi accademici e altre prose. 9 Nelle parte dedicata a Dante, Paravia accoglie e arricchisce di nuovi particolari e suggestioni sue proprie una intuizione del fiorentino Paolo Attavati, che era solito ricercare «preziose varianti» nelle opere di Dante, a√nché «mercè di esse migliorar si possa in più luoghi la lezione della Divina Commedia»: «dal fascio di queste varianti – aπerma lo studioso dalmata – io ne cavo fuori una, che mi par bellissima». 10 Ci troviamo nel v canto dell’Inferno e precisamente alla terzina dedicata a Semiramide. Il verso 58 («Che succedette a Nino e fu sua sposa») non si accorda per senso alle terzine che lo precedono e lo seguono:  



















Confesso che questa circostanza mi è sempre paruta estranea al soggetto di questo canto; perocchè se Dante voleva mostrarci Semiramide rotta talmente a vizio di lussuria, che libito fe’ licito in sua legge, perché soggiungere: Che succedette a Nino e fu sua sposa? È forse un delitto, è forse una pruova di disonestà il succeder che fa la donna al marito che è morto?

Paravia previene ogni obiezione, precisando «che quel succedette potrebbe anche esser detto in senso ironico, alludendo al modo crudele e sleale con cui Semiramide, per testimonianza di Diodoro e di Plutarco, si disfece del marito e gli successe nel trono»; ma, 1   Idem, Vittorio Alfieri. Squarci di lezioni. Introduzione, in Idem, Memorie piemontesi di letteratura e di storia, Torino, Stamperia Reale, 1853, p. 180. 2   Idem, Vittorio Alfieri. Squarci di lezioni. L’Alfieri in Roma, in Idem, Memorie piemontesi, cit., p. 186. 3   A proposito dei rapporti con Pindemonte, cfr. Idem, Vittorio Alfieri. Squarci di lezioni. L’Alfieri in Parigi, in Idem, 4 Memorie piemontesi, cit., p. 190.   Ivi, p. 193. 5  Cfr. Idem, Vittorio Alfieri. Squarci di lezioni. Inesattezze del Signor Villemain in proposito dell’Alfieri, in Idem, Memorie piemontesi, cit., pp. 198-201. 6   Idem, Vittorio Alfieri. Squarci di lezioni. Chiusa delle lezioni di eloquenza italiana nell’anno 1837-38, in Idem, Memorie piemontesi, cit., pp. 195-197. 7 8   Ivi, p. 195.   Ivi, p. 196-197. 9   Idem, Nota sopra un verso di Dante e uno del Berni, in Idem, Discorsi accademici ed altre prose, Torino, Fontana, 1843, 10 pp. 170-173.   Ivi, p. 171.

pier alessandro paravia studioso della letteratura italiana

387 osserva a ragione lo studioso, «allora Dante l’avria cacciata nella Caina fra’ traditori de’ propri parenti, e non già in questo cerchio, dove sono tormentati i lascivi». 1 Eppure, sarebbe su√ciente, a giudizio di Paravia, intervenire ope ingenii su quel verso per comprenderne il senso:  

tutte queste di√coltà, che apporta la lezione di quel verso sin qui ricevuta, svaniscono nella lezione dell’Attavanti, il quale reca quel verso così: Che sugger dette a Nino e fu sua sposa. Oh! questo fatto, sì, mette il suggello a questa rotta lascivia, di che il poeta l’avea macchiata nel precedente terzetto: poiché infatti non v’ha pruova maggior di libidine in una donna, né più triste esempio di dissolutezza in una reina, che il vivere in disonesti abbracciamenti con quel desso, a cui, come a proprio figliuolo, già diede il latte. 2  



In conclusione di questo intervento, ci si fermi ancora a discutere del Tasso. Dell’illustre poeta, Paravia non si occupò soltanto in articoli scientifici, ma anche in occasione u√ciali e mondane: «nel 44 – aπerma Francesia – invitò a Torino il fior degli ingegni italiani per celebrare la memoria centenaria del grande e miserando Torquato; […] e fu pur egli che indusse il Municipio di Torino a dar il nome del poeta al palazzo da lui abitato». 3 Fra gli scritti che gli dedicò si ricordano invece Sopra il Torrismondo del Tasso. Lezione accademica 4 e Nota sopra un duello descritto da un poeta arabo e dal Tasso, 5 oltre alle tre lezioni che vennero inserite nel volume La Gerusalemme liberata, uscita per i tipi della torinese Tipografia dell’Oratorio di S. Francesco di Sales nel 1869: la prima oπre una dettagliata biografia dello scrittore, la seconda una curata sintesi del suo capolavoro per canti, la terza una ragionata discussione critica ancora intorno alla Gerusalemme, su cui ci soπermeremo sebbene solo per un poco. All’inizio dell’intervento, Paravia dichiara di voler «fare conoscere i principali pregi di questo poema, e di mostrare come esso contenga tutti i principii della vera e grande epopea». Il primo punto che egli prende in considerazione è dunque l’argomento: «non vi ha dubbio che niun altro poteva essere né più illustre, né più solenne» 6 per «lo splendore religioso di questo tema» e «le utilità politiche che ne derivarono»; 7 soprattutto «il restituire alla venerazione dei veri credenti de’ luoghi consacrati dalla religione e toglierli alle profanazioni degl’infedeli» portò Paravia a sottoscrivere le parole di Michaud: «il soggetto della Gerusalemme Liberata è più meraviglioso di quello dell’Iliade». 8 Lo studioso dalmata passa poi a descrivere i «caratteri» del poema (dedicando particolare attenzione a Goπredo e Tancredi, ma sottolineando altresì che non «minor cura pose il Tasso nel cavar dalla storia e nel colorire i personaggi della parte avversa ai cristiani»), 9 a considerare l’elemento «maraviglioso», necessario «a render avviluppata l’azione e a tener sospesa l’attenzione e desto l’interesse del lettore»10 e la capacità di creare con le parole «sfoggi di immagini, di aπetti, di stile». 11 Dopo averne evidenziato i pregi, lo studioso dalmata non rinuncia a mettere in luce pure i difetti e le carenze della Gerusalemme liberata: l’«aver messo sovente nel luogo dei cavalieri della croce, quali erano veramente, cavalieri  















1

2   Ibidem.   Ivi, pp. 171-172.   Giovan Battista Francesia, Brevi cenni biografici del prof. e cav. Pier Alessandro Paravia, in Torquato Tasso, La Gerusalemme liberata con tre lezioni sulla vita ed opere di Pier Alessandro Paravia, Torino, Tipografia dell’Oratorio di San Francesco di Sales, 1869, p. v. 4   Pier Alessandro Paravia, Sopra il Torrismondo del Tasso. Lezione accademica, in Idem, Discorsi accademici e altre prose, cit., pp. 135-148. 5   Idem, Nota sopra un duello descritto da un poeta arabo e dal Tasso, in Idem, Discorsi accademici e altre prose, cit., pp. 149-151. 6   Idem, Lezione terza, in Torquato Tasso, op. cit., p. lix. 7 8   Ivi, p. lxi.   Ivi, p. lxii. 9 10 11   Ivi, p. lxxx.   Ivi, p. lviii.   Ivi, p. lxxxiii. 3

annalisa listino 388 romanzeschi e fantastici, quali s’incontrano solo nel Boiardo e nell’Ariosto» 1 e alcune inesattezze storiche come il «supporre Gerusalemme in mano dei Turchi, e in potere di un re; quando sappiamo che gli Egiziani intanto che i crociati stavano in Antiochia, s’impadronirono di Gerusalemme». 2 Tuttavia, il più grande difetto che si possa imputare al Tasso è che «le descrizioni della Gerusalemme Liberata paiono ispirate dal clima della bella Italia piuttosto che dal malinconico e severo aspetto della Palestina». 3 Verdus aveva ragione: «sfogliando gli stampati e gli inediti, si scopre come i corsi annuali del Paravia si andassero dilatando in tutti i campi: dalla lirica al romanzo, dalla poesia epica all’eloquenza sacra, sempre con costanti riferimenti alle letterature classiche e straniere». 4 Questo intervento ha inteso dare un saggio di tutto ciò; l’aver consultato documenti inediti di grande interesse fa sperare in un futuro proseguimento di questo lavoro.  







1

2 3   Ivi, p. lxxxvi-lxxxvii.   Ivi, p. lxxvi.   Ivi, p. xc.   Antonio Just Verdus, P. A. Paravia: l’uomo-il letterato-il patriota, «La Rivista Dalmatica», xxviii, iv, 1957, p.

4

14.

LA PATRIA E L’EDUCAZIONE GIOVANILE. LE PROLUSIONI TORINESI DI PIER ALESSANDRO PARAVIA Paolo Ambrosi

I

l giorno 4 novembre 1836 Pier Alessandro Paravia introdusse con queste parole un’orazione scritta per la riapertura della Regia Università di Torino:

In sin d’allora che la Maestà del Re Carlo Alberto mi tolse a’ modesti ozi delle paterne mie case, e mi collocò nel temuto splendore di questa cattedra; in sin d’allora, io vel confesso, mi si rappresentarono al pensiero questo giorno, questa solennità, questa udienza; e in sin d’allora io n’ebbi non so se più dica, confusa la mente, o l’animo perturbato. Imperciocché, chi son io, andava meco medesimo considerando, chi son io, che straniero di patria osi venire in una città, la quale tanto è lungi dal patire inopia d’illustri ingegni, da poterne anzi adempiere l’altrui difetto? 1  

Pier Alessandro Paravia, l’esule, lo straniero, come più volte si definì nei suoi scritti, fu scelto e tenuto in così alta considerazione dalla corte sabauda da poter diventare il fedele cronista degli eventi che interessarono il Piemonte tra il 1832 e il 1849. Nato a Zara nel 1797, trascorse la sua giovinezza a Venezia, a quel tempo sotto il potere austriaco, e compì gli studi universitari a Padova. Proprio in questa città, ebbe modo non solo di conoscere e stabilire una profonda amicizia con Antonio Rosmini e Niccolò Tommaseo, ma anche di stringere rapporti con alcuni dei più illustri uomini di lettere del xix secolo, protagonisti del Risorgimento italiano con cui mantenne negli anni a seguire una fitta corrispondenza: Vincenzo Monti, Ippolito Pindemonte, Alessandro Manzoni, Giovan Pietro Vieusseux, Gian Giacomo Trivulzio, Scipione Maπei, Gino Capponi, Silvio Pellico e Vincenzo Gioberti. Noto agli ambienti patriottici e antiaustriaci, Paravia venne chiamato a Torino nel 1832, appena trentacinquenne, per ricevere del re Carlo Alberto di Savoia l’incarico di ricoprire la cattedra di eloquenza, la più prestigiosa dell’ateneo cittadino. Scrive l’abate Iacopo Bernardi, il più autorevole biografo del Dalmata: Il Paravia recavasi a Torino ad assumere il nuovo incarico, non con quella formidabile temerarietà con la quale oggi, appoggiandosi troppo alla svogliatezza leggiera degli uditori ed alla vana ampollosità di alcune superficiali e riboccanti parole poste all’ordine del giorno dai frequentatori dei circoli, delle associazioni, dei caπè e delle consorterie si sale qualunque cattedra ed in qualunque ora; ma sì colla coscienza dell’uomo integerrimo, del letterato operoso, del precettore nobilmente compreso dalla dignità del suo magistero, che ha mediato e conosce essergli a√date le intelligenze e i cuori di una porzione sì cara e sì eletta della società, e che intende alacremente e severamente, per quanto è da lui, non venire meno ai doveri importantissimi che gli sono imposti. 2  

Era questo un incarico di primissimo piano – come sostiene Antonio Just Verdus – 3 assegnato dal Re, con il progetto di sottrarre la futura classe dirigente del regno sabaudo  

1   Pier Alessandro Paravia, Orazione prima recitata il giorno iv novembre mdcccxxxvi, in Idem, Carlo Alberto e il suo regno, i, Voghera, Tipografia di Cesare Giani, 1852, p. 3. 2   Iacopo Bernardi, Vita e documenti letterari di Pier Alessandro Paravia, Parte prima, Torino, Giacinto Marietti, Tipografo-librario, 1863, p. 87. 3  Cfr. Antonio Just Verdus, P. A. Paravia: l’Uomo – il Letterato – il Patriota, «La Rivista dalmatica», xxviii, iv, 1957, p. 12.

paolo ambrosi 390 all’influenza della retorica troppo legata alle tradizioni regionali. A Torino, infatti, gli studi e gli scritti di Paravia seguivano un corso ben preciso e dovevano risolversi in lezioni di eloquenza e di storia patria. Un ingente numero di lavori del Paravia è costituito da orazioni, pronunciate in occasione delle più importanti cerimonie pubbliche torinesi, come le inaugurazioni degli anni accademici della Regia Università, al principio di novembre. 1 Con le prolusioni accademiche, successivamente raccolte in due volumi dal titolo Carlo Alberto e il suo regno, Paravia traccia un ritratto di «quel regno splendido e veramente operoso» 2 e di quel principe che mostrò impegno nel far diventare il Piemonte uno stato progredito e capace di guidare le spinte patriottiche verso l’unità nazionale. 3 Come si ricava dai discorsi di Paravia, Carlo Alberto lavorò assiduamente nel riformare il suo Stato attraverso una nuova legislazione che permettesse di a√evolire quell’assolutismo che aveva caratterizzato tanti decenni di governo dei suoi predecessori: «le leggi son di presidio ai popoli, non di vergogna, né più le armi le impongono, ma la ragione», 4 scriveva l’oratore zaratino. Come è noto, il re non era insensibile ai problemi sociali, forse sulla scia di quelle idee che scaturirono dalla Rivoluzione Francese sui diritti dell’uomo e del cittadino. In contatto con gli ambienti dei cosiddetti ‘santi sociali’ torinesi – basti pensare alle profonde spinte umanitarie nate a Torino con il lavoro del Cottolengo o di Don Bosco – Carlo Alberto cercò di arginare la situazione dei poveri mendicanti con l’apertura di ospizi di mendicità. Tuttavia ciò che sembra importante, nelle parole di Paravia, non è tanto il mettere in luce la bontà dell’impegno del Re, certo degno di lode, quanto l’impegno dello stesso cittadino nella costruzione di una nazione: «chi si sente prosperoso e gagliardo, non istenda la mano all’oziosa questua, ma all’util telaio; giovi alla patria con le sue fatiche, non la disturbi con le sue strida; ricambi in qualche guisa quella società, che il benefica». 5 Dunque, impegno del cittadino per la costruzione di uno Stato e impegno di ogni uomo per rendere salda una Nazione. Fondamentale, però, nel raπorzamento di un’identità nazionale è l’opera dello scrittore. L’epoca in cui vive e opera Paravia, secondo le sue stesse parole, non è il secolo per una letteratura composta per diletto o per esercizio; è il tempo del progresso civile e morale dei popoli. 6 L’oratore dalmata cerca di trasmettere ai suoi discepoli la consapevolezza di un valido impegno letterario perché è attraverso la letteratura che un popolo esprime le sue idee, i suoi sentimenti, i suoi bisogni: è la parola scritta che travalica i confini di tempo e spazio e raggiunge quella gente italiana di cui scrisse Alessandro Manzoni in Marzo 1821: «Una gente che libera tutta / o fia serva tra l’Alpe ed il mare; / una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor» (vv. 29-32). 7 La storia – consigliera dei re e maestra dei popoli –, la scienza, l’arte, la letteratura, tutto il sapere va rivolto alla ragione del progresso, che concorre al perfezionamento morale del cittadino. 8 Paravia  















1   Si trova memoria dell’incarico concesso dal Re nei copialettere conservati nell’Archivio storico dell’Università di Torino. 2   Pier Alessandro Paravia, Prefazione, in Idem, Carlo Alberto e il suo regno, cit., p. xi. 3   Infatti Paravia dedicò buona parte dei suoi studi a stabilire l’origine italiana dei re di Savoia a discapito di una discendenza francese, aπermazione di non poco conto con lo scopo di alimentare la causa nazionale. Si veda la conclusione dell’orazione pronunciata il 4 novembre 1838: «O Carlo Alberto, come voi, principe veramente italiano, nulla aveste più a cuore che il progresso di quegli studi e il patrocinio di quelle arti, che formano l’antica e propria eredità, che lo straniero, il quale le ha tanto invidiato e tanto rapito, le può invidiare in ogni tempo, ma non potrà rapirle in eterno» (Pier Alessandro Paravia, Orazione seconda recitata il giorno iv novembre mdcccxxxviii, in Idem, Carlo Alberto e il suo regno, cit., p. 71). 4 5  Ivi, p. 101.  Ivi, pp. 106-107. 6  Cfr. Idem, Del sentimento patrio nelle sue relazioni con la letteratura. Orazione recitata nella R. Università di Torino il 5 di novembre mdcccxxxix, in Idem, Prolusioni e discorsi, Parma, Pietro Fiaccadori, 1845, pp. 92-93. 7   Alessandro Manzoni, Poesie. Inni sacri. Odi. Poesie non approvate o postume, a cura di Ferruccio Ulivi, Milano, Mondadori, 1985, p. 70. 8  Cfr. Pier Alessandro Paravia, Delle relazioni del cristianesimo con la letteratura. Orazione recitata nella R. Università di Torino ai 3 di novembre mdcccxxxvii, in Idem, Prolusioni e discorsi, cit., pp. 8-10.

le prolusioni torinesi di pier alessandro paravia

391 invita il perfetto uomo di lettere a vedere nella cultura il suo più grande alleato ed ecco che lui stesso cerca un trait d’union tra il compito dello scrittore e i sentimenti patriottici del suo tempo, espressi nella triade Dio-Patria-Famiglia. Sembrano significative, a questo proposito, le già citate orazioni Delle relazioni del cristianesimo con la letteratura, Del sentimento patrio e Del sentimento domestico, tenute rispettivamente negli anni 1837, 1839 e 1841. Sono «i tre sentimenti […] che formando l’uomo, per natural conseguenza formano lo scrittore, ciò sono la religione, la patria e la famiglia», 1 collegati in un movimento ascendente che trova le sue basi nell’amor di patria. Da questo primo e fondamentale attaccamento scaturisce l’amore per la famiglia: «perché amiam quel terreno – scrive il Paravia – ove sorgono le case e son le tombe de’ nostri parenti; perché amiam quella lingua, che prima udimmo a sonare sulle labbra di una tenera madre e di un’aπettuosa sorella». 2 Ma solo con il cristianesimo si raggiunge il grado più alto di amore, incarnato in una Madre e in un Figlio, dono di carità. È il cristianesimo, assieme ai princìpi morali che professa, a dare impulso a una nuova e migliore letteratura, che sappia educare gli animi al bene individuale e comune. 3 Un’intera generazione di esponenti del governo sabaudo fu allieva del Paravia: i ‘giovani’ a cui sempre si rivolgeva nella conclusione delle sue orazioni. Durante il tempo della sua onorata carriera accademica, Paravia non perse mai di vista il compito principale per cui era stato chiamato a Torino e dell’importanza dell’educazione parlò diπusamente in svariati interventi pubblici. Basti ricordare queste parole per dare esempio delle profonde convinzioni dell’oratore zaratino: «Coltivate gli studi, per cui tanto s’aggiunge splendore agli Stati; dacché sono le armi che li fanno temuti, sono le leggi che li fanno ordinati, sono le arti e il commercio che li fanno fiorenti, ma sono le lettere che li fanno gloriosi». 4 Paravia dipinge lo Stato sabaudo come attento all’istruzione dei propri giovani, preoccupazione che già nel passato era stata mostrata dal primo re di Sardegna, Vittorio Amedeo ii, il quale aveva voluto fondare il ‘Collegio delle Provincie’, con lo scopo di consentire a giovani meritevoli provenienti dalle diverse zone del Regno di accedere agli studi universitari con l’assegnazione di un alloggio. Carlo Alberto, sempre secondo le parole dell’oratore, si pone sulla stessa linea dei suoi antenati vedendo nell’istruzione una sicura strategia civile, e ovviamente politica, per dar lustro e progresso al suo regno; 5 Paravia dà notizia, infatti, della fondazione dell’Accademia di Belle Arti e della costituzione di una biblioteca nel Palazzo Reale di Torino, ancora oggi custode delle ricchezze librarie di casa Savoia. Quella proposta dal Dalmata non era un’istruzione fine a sé stessa, volta alla sola educazione dei giovani nel parlare e scrivere in bello stile, alto ed elegante, ma traeva le sue ispirazioni dal sogno di costruzione di una Nazione. Spese le sue intere forze a smuovere gli animi nel credere in un’Italia libera e unita dalle bianche Alpi alle Isole del Sud, quella Italia a cui si rivolge con accorate parole: «O sacra terra, a cui concedevano i cieli di ravvivare, dopo una lunga notte vandalica, la fiaccola della civiltà e del sapere; terra immortale non men per que’ figli di cui piangesti l’esilio, che  









1   Idem, Del sentimento domestico nelle sue relazioni con la letteratura. Orazione recitata nella grande aula della Regia Università di Torino il giorno iii di novembre dell’anno mdcccxli dal professore Pier-Alessandro Paravia, in Idem, Orazione pel riaprimento degli studi nella Regia Università di Torino, Torino, Stabilimento tipografico Fontana, 1841, p. 7. 2   Ivi, pp. 12-13. 3   Idem, Delle relazioni del cristianesimo con la letteratura, in Idem, Prolusioni e discorsi, cit., p. 12. 4   Idem, Del sentimento patrio nelle sue relazioni con la letteratura, in Idem, Prolusioni e discorsi, cit., pp. 90-91. 5   Riporto le parole pronunciate dallo stesso Carlo Alberto, di cui dà notizia il Paravia: «Promuovere con ogni possibile mezzo la pubblica istruzione, che ci sia grandemente a petto, si come base primaria della felicità di un popolo» (citato in Idem, Orazione quarta recitata il giorno iv novembre mdcccxlii, in Idem, Carlo Alberto e il suo regno, cit., p. 167).

paolo ambrosi 392 per quegli altri di cui custodisci le ceneri». 1 Paravia non ha altro scopo che provare che l’Italia è una, nella sua storia e nel suo costume, come scrisse giustamente Ildebrando Tacconi. 2 L’idea di patria coinvolgeva anche la Dalmazia, al cui ricordo Paravia restò legato aπettivamente negli anni. L’atto più significativo per instillare nel popolo dalmata la consapevolezza di una discendenza italiana si può individuare nella fondazione della biblioteca di Zara, che promosse con la donazione della sua intera collezione libraria e l’invito rivolto a uomini illustri di tutta la Penisola a fare altrettanto. Avendo attraversato trasversalmente anni di discorsi pubblici, sebbene non sia stata considerata l’intera opera di Paravia, si ricava il ritratto di un uomo saldo nel tempo, fedele al suo Re e al sogno di un’Italia unita. Personalità di alta dignità morale, in grado di scrivere parole degne di imperitura memoria, in cui si ritrovano i sentimenti e gli entusiasmi di un’intera epoca: «Proponetevi alla mente e al cuore la patria; custodite le sue credenze, vendicate le sue glorie, rispettate le sue sventure; considerate ciò che a voi chiede e ciò che aspetta da voi». 3  





1

  Idem, Orazione terza, in Idem, Carlo Alberto e il suo regno, cit., p. 123.   Ildebrando Tacconi, Pier Alessandro Paravia, in Francesco Semi, Vanni Tacconi, Dalmazia. Le figure più rappresentative della civiltà dalmata nei diversi momenti della storia, Udine, Del Bianco Editore, p. 347. 3   Pier Alessandro Paravia, Del sentimento patrio, in Idem, Prolusioni e discorsi, cit., pp. 94-95. 2

«PRINCIPAL LUME DELLA VOLGAR LINGUA E POESIA». PIER ALESSANDRO PARAVIA LETTORE DI DANTE Massimo Colella Proposto […] al Re [Carlo Alberto] il Paravia per la Cattedra di eloquenza italiana [presso l’Università di Torino], l’ebbe sin dal 1831; e durante il corso di più di venticinque anni s’adoperò e√cacemente nell’istruire la gioventù piemontese in quella letteratura che è tanta parte della gloria italiana, e che dobbiamo cercare che divenga più e più istromento di vera civiltà. 1  

C

osì scriveva nel 1857 Federigo Sclopis di Pier Alessandro Paravia (Zara, 1797-Venezia, 1857) 2 all’indomani della sua morte. La caratura civile-morale dell’insegnamento paraviano, adombrata nel breve excerptum appena citato, è più volte autoesplicitata dall’intellettuale zaratino stesso:  

ciò, a che posi in queste mie lezioni perpetuamente la mira, si è di formar con esse alla mia giovine udienza non solo il gusto, ma il cuore; e di mantener così quell’accordo, che la Provvidenza ha stabilito tra la morale e le lettere, a fine di ottenere il perfezionamento dell’uomo. 3  

È all’interno della theorésis e della pràxis di tale orientamento pedagogico complessivo che risulta necessario collocare e conseguentemente analizzare l’interesse paraviano per la figura e l’opera dell’Alighieri. Occorre innanzitutto evidenziare che il profilo di Dante uomo e scrittore assurge, nella riflessione e nell’insegnamento paraviani, in consonanza intellettuale, culturale ed ideologica con le linee portanti della temperie risorgimentale, ad exemplum altissimo di encomiabile èthos. Paravia lucidamente addita, anche e soprattutto sulla base della comune «utilità morale e politica» delle loro opere poetiche, l’assimilazione del pater delle lettere italiane al massimo poeta epico greco; discutendo infatti dell’«aureo Discorso accademico sopra gli studi della gioventù» di «uno de’ più splendidi fregi di questo illustre Ateneo, il cardinale [Giacinto Sigismondo] Gerdil [1718-1802]», 4 il letterato dalmata scrive:  

Ma quando il Gerdil, dopo avere […] magnificata la eccellenza de’ poemi omerici, e mostratane la utilità morale e politica; […] si fa a chiedere, qual sia il moderno poeta epico, che possa sustituirsi […] all’epico antico; “che narrando le cose avvenute in qualche parte del globo …, descriva sì bene i luoghi, che egli solo basti a formarne una geografica descrizione […]; quale, che rappresenti una […] sì variata moltiplicità di caratteri, una … sì doviziosa copia di sentenze, […] di descrizioni de’ 1

  Federigo Sclopis, Pier-Alessandro Paravia, «Archivio storico italiano», iv, 2, 1857, pp. 258-261: 258.  Cfr. Simeone Gliubich, Pier-Alessandro Paravia, in Idem, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia […], Vienna-Zara, Lechner-Battara e Abelich, 1856, ristampa anastatica: Bologna, Forni, 1974, pp. 236-238; Ranieri Varese, Vita di Pier Alessandro Paravia, in Pier Alessandro Paravia, Notizie intorno alla vita di Canova, a cura di Ranieri Varese, Bassano del Grappa, Istituto di ricerca per gli studi su Canova e il Neoclassicismo, 2001, pp. xlv-lvii; Francesca Brancaleoni, Pier Alessandro Paravia, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 81, 2014. 3   Lezioni di varia letteratura di Pier-Alessandro Paravia, Napoli, Tipografia del Diogene, 1871: Prefazione [1852], pp. 3-6: 5. 4   Pier Alessandro Paravia, Prelezione de’ 12 novembre 1851. Appendice a Idem, Orazione pel riaprimento degli studi nella regia università di Torino l’anno mdcccli, Torino, dalla Stamperia Reale, 1851, pp. 87-108: 101. 2

massimo colella

394

fenomeni naturali, delle produzioni delle arti […]; talché riducendo il tutto in ordine se ne potesse formare un […] corpo di dottrine […];” quando […] il Gerdil si fa a chiedere questo poeta dov’è? Noi gli risponderemo: egli è in Italia, egli è Dante. 1  

Se Gerdil pare anticipare con notevole acume esegetico la celebre interpretazione havelockiana dei poemi omerici come «enciclopedia tribale», 2 Paravia con fine operazione di shifting, individua nella Commedia dantesca la declinazione moderna e cristiana dell’antica funzione etico-enciclopedica. In particolare, mostrando, come è stato detto da Agostino Bertani, nel corpo stesso della sua arte oratoria i corretti principi dell’eloquenza, 3 attraverso l’utilizzo di una suggestiva partitura retorica binaria, soprattutto antitetica, 4 il professore zaratino magnificamente delinea l’ambivalente e onnicomprensiva grammatica generativa dell’opera dantesca:  





Dante […] si può dir l’Omero de’ secoli cristiani, sì come l’altro è il poeta per eccellenza del gentilesimo; […] al pari di Omero, […] prese a colorire un poema di vastissima tela […], nel quale la rabbia de’ dannati e la consolazione de’ giusti, le strida dell’inferno e i cantici del paradiso, […] i ricordi della mitologia e i dogmi del cristianesimo, […] la natura sensibile e il mondo ideale […]; tutto che udì e vide, […] tutto che la memoria e l’immaginativa, tutto che l’arte e la natura […] può somministrare a un poeta di nuovo, di maraviglioso, di grande, tutto in quel poema ha […] addensato a perpetuo documento di quanto valga un intelletto e di quanto possa una penna. 5  

Di qui il categorico imperativo di accostarsi, nei tempi delle pratiche attive di costruzione dell’unità italiana, al vigore del modello dantesco: Or come i Romani e i Greci studiavano di continuo in Omero, noi altresì […] studieremo nel nostro Omero che è Dante; e poiché lo studio e l’amore di questo poeta fu sempre in Italia il termometro […] delle sue condizioni politiche; poiché quando i tempi volser per noi molli e corrotti, Dante fu lasciato in disparte; ma quando si fecer maschi e gloriosi, tornò il suo studio a fiorire; ora che i tempi corron pieni di tante glorie per il Piemonte, e di tante speranze per l’Italia […], voi ben vedete, se studio di alcun poeta sia più opportuno a’ dì nostri. 6  

L’opzione dantesca è concepita in vibrante opposizione alla ‘disimpegnata’ tenuità petrarchesca e petrarchista della lirica amorosa: il Canzoniere nazionale, antologia della poesia civile italiana che ha il suo cominciamento nella canzone ritenuta dantesca O patria degna di trionfal fama 7 e in cui si preannuncia l’appaiamento Dante/Omero («terzo poeta con Omero e con Shakespeare, alle cui originali bellezze verranno sempre a inspirarsi tutti i poeti del mondo»), 8 persegue l’obiettivo di «giovare l’italiana poesia di un salutare indirizzo», fornendo alla «nostra gioventù […], che nell’odierno moto politico ha sì grand’uopo di manifestare col ministero del verso le sue speranze» taluni «esemplari, che rinvigorendo il nerbo de’ suoi sentimenti, ne rendano la espressione più e√cace», 9 e il «fine» di «purgare l’italiana poesia dall’accusa» concernente una predominanza petrarchesca di vanitates e suspirationes prive di civile ossatura:  





1

  Ivi, pp. 102-103.   Eric Alfred Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone [1963], traduzione di Mario Carpitella, Roma-Bari, Laterza, 19952, p. 77. 3  Cfr. Agostino Bertani, A chi vorrà leggere, in Prolusioni e discorsi di Pier-Alessandro Paravia […], Parma, per Pietro Fiaccadori, 1845, pp. iii-viii: v-vii: «Discepoli fortunati [quelli del Paravia], che, mentre pendono dal labbro del precettore a√n di apprendere in teorica le più recondite leggi del bello, per insensibil maniera s’appropriano tanta e tal messe da renderne a sé agevole […] il modo di porre poscia quelle stesse leggi luminosamente in opera!». 4  Cfr. Federigo Sclopis, Pier-Alessandro Paravia, cit., p. 259: «I suoi concetti pigliavano colore da certa felicità d’antitesi». 5 6   Pier Alessandro Paravia, Prelezione, cit., pp. 103-104.   Ivi, p. 104. 7  Cfr. Canzoniere nazionale scelto e annotato da Pier-Alessandro Paravia […], Torino, dalla Stamperia Reale, 1849, p. 4, nota 1: «Questa canzone si giudica fattura di Dante, a cui il Perticari […] non dubitò di attribuirla»; ma si legga a tal proposito l’Enciclopedia dantesca (voce O patria degna di trionfal fama): «Nove codici […] assegnano a D. questa canzone, che più verisimilmente appartiene ad Albertino della Piagentina o a qualche guelfo bianco». 8   Pier Alessandro Paravia, Canzoniere nazionale, cit., p. 305. 9   Pier Alessandro Paravia, Prefazione a Idem, Canzoniere nazionale, cit., pp. iii-xviii: iv-v. 2

pier alessandro paravia lettore di dante

395

Si accusavano i poeti italiani di aver troppo trascurato l’[…] esempio di […] Dante Allighieri; di avere anteposto alla selvaggia sua selva “L’erbetta verde e i fior di color mille” dell’innamorato Petrarca; 1 di avere impiegata […] quella loro lingua così numerosa […] o in accademiche vanità, o in sospiri di amore; di avere […] mantenuta […] una scuola poetica, che era bensì italiana di forma, ma non già italiana di spiriti. 2  



Se le tre stelle polari dell’agire umano, bussola e zenit dell’èthos (la religione, la famiglia e l’amor patrio) «hanno certa e grande vita nell’arte», 3 non può sorprendere che il trittico oratorio incentrato sulle relazioni dei tre poli morali con la letteratura trovi in Dante un pregnante riferimento esemplare, sia che si tratti, per quanto concerne il cristianesimo, del valore religioso dell’umiltà e del ra√namento spirituale delle umane passioni, 4 sia che si tratti, a proposito del sentimento patrio, dell’esilio e del potente sentimento di coappartenenza alla patria, 5 sia che si tratti, nel campo del sentimento domestico, del «sublime spettacolo del materno amore». 6 All’occorrenza, la Commedia può divenire il repertorio da cui estrarre agevolmente un vocabolario comportamentale di carattere attualizzante e di immediata fruibilità, come nel caso dei Documenti danteschi inscritti in una vivace rivista torinese quale il «Museo scientifico, letterario ed artistico», che qui traggo dalla trascrizione manoscritta operata da Alessandro Torri, importante figura di intellettuale dell’Ottocento pisano, il cui fondo denominato ‘Biblioteca dantesca’, conservato presso la Biblioteca della Scuola Normale Superiore, 7 conserva numerose tracce dell’amicizia e della stima reciproca tra i due letterati. I Documenti si incentrano, con assoluta brevitas sentenziosa, sull’importanza del tempo agli occhi del sapiente, sull’invidia come vizio costitutivamente estraneo alla personalità del saggio, sulla calunnia del popolo che colpisce i perdenti, sulle doti del buon consigliere, sul profilo di chi, superbo con gli umili, si piega dinanzi ai potenti, sulla diπerenza tra la biasimevole ira e lo giusto sdegno: tutti temi, questi, che si giovano di opportune citazioni dantesche, oltre che di auctoritates accresciute dall’anonimia. Si leggano ad esempio i seguenti fragmenta:  









Per l’uomo massimamente studioso si può dire che il tempo sia, dopo l’ingegno, il più necessario elemento. Onde avea ragione di dire colui: “Il mio tempo è il mio podere” 8 […]. Lo sventato, il dissoluto, l’ozioso, oh! questi sì non sa che farsi del tempo, e può tutti cercare i mezzi di accelerarne  

1   Pattern ricorrente nella scrittura paraviana, questo della contrapposizione tra la «selva selvaggia» dantesca e «l’erbetta verde e i fior di color mille» petrarcheschi: cfr. Del sistema mitologico di Dante. Ragionamento del cavaliere Pier-Alessandro Paravia […] [1837], in Esercitazioni scientifiche e letterarie dell’Ateneo di Venezia, iii, Venezia, dalla tipografia di Francesco Andreola, 1839, pp. 149-161: 161: «si vedrà […] come l’essersi lungamente trascurata dagl’Italiani la selva selvaggia ed aspra e forte del rigido Allighieri, e coltivato invece l’erbetta verde e i fior di color mille del dilicato Petrarca, abbia, infra gli altri danni, recato ancor questo», e Pier Alessandro Paravia, Del sentimento patrio nelle sue relazioni con la letteratura. Orazione recitata nella R. Università di Torino ai 5 di novembre mdcccxxxix, in Idem, Prolusioni e discorsi, cit., pp. 51-101: 74: «[la letteratura italiana cinquecentesca esibisce] una compiuta obblivione della selvaggia selva di Dante, e […] un forsennato correre sulle orme del Petrarca […] che si disfà in sospiri e in lagrime». 2   Pier Alessandro Paravia, Prefazione a Idem, Canzoniere nazionale, cit., pp. iii-iv. 3   Pier Alessandro Paravia, Prefazione a Idem, Lezioni di varia letteratura, cit., p. 6, nota 1. 4   Pier Alessandro Paravia, Delle relazioni del cristianesimo con la letteratura. Orazione recitata nella R. Università di Torino ai 3 di novembre mdcccxxxvii, in Idem, Prolusioni e discorsi, cit., pp. 1-50: 29-31. 5   Pier Alessandro Paravia, Del sentimento patrio nelle sue relazioni con la letteratura, cit., pp. 66-72. 6   Pier Alessandro Paravia, Del sentimento domestico nelle sue relazioni con la letteratura. Orazione recitata nella R. Università di Torino ai 3 di novembre mdcccxli, in Idem, Prolusioni e discorsi, cit., pp. 103-161: 112-114. 7  Cfr. Pino Simoni, Profilo bio-bibliografico di Alessandro Torri, «Studi storici Luigi Simeoni», xlii, 1992, pp. 117-146. Per la presente ricerca sono stati consultati tre dei cinquantasei volumi, predisposti dal Torri, di Opuscoli sopra Dante (comprendenti 619 opuscoli complessivi); molto interessante l’autodescrizione della ‘Biblioteca dantesca’ fornita dal Torri in una lettera ad Alessandro D’Ancona datata 20 giugno 1856 (a proposito dei volumi di opuscoli si legga la seguente dichiarazione: «ho formato un’apposita classe di opuscoli diversi raccolti in ben 60 volumi, che ne contengono complessivamente da circa 700, la maggior parte dei quali rarissimi a rinvenirsi»). 8   «Tempus mea possessio, tempus meus ager» (Girolamo Cardano): cfr. I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento. Commentario di Giambattista Corniani […], i, Milano, coi tipi di Vincenzo Ferrario, 1882, p. 479.

massimo colella

396

il corso […]. Tutto il contrario avviene al sapiente; e però ben disse il divino Poeta: “che il perder tempo a chi più sa più spiace” (Purg. c. III, v. 78). Il savio non s’adira mai; 1 questa è massima di buona filosofia. Ma quanto è biasimevole l’ira, altrettanto è laudabil lo sdegno, quando è mosso in noi dal laido aspetto dei tristi! […] quando [Virgilio] […] vide [Dante] indegnato contro quella mala lana di Filippo Argenti (Inf. c. VIII [vv. 43-45]); […] il chiamò […] con [il titolo] di alma sdegnosa, quasi che in quella parola sdegnosa tutte volesse restringere le virtù e le lodi di Dante. 2  



Ma l’approccio largamente etico-morale alla scrittura dantesca non può e non deve celare agli occhi dell’indagatore l’altra tipologia di appressamento al testo della Commedia: la visione, cioè, propria di un critico ra√nato ed ermeneuticamente attrezzato, capace di fornire proposte talora personalissime alla decodifica delle terzine dantesche. Ne è esempio molto alto Del sistema mitologico di Dante, in cui le ragioni di un celebre gesto virgiliano («E ’l duca mio distese le sue spanne, / prese la terra, e con piene le pugna / la gittò dentro a le bramose canne», Inf., vi, 25-27) sono rintracciate – dopo un’attenta analisi dello status quaestionis – nella voluntas dantesca di utilizzare sì la mitologia pagana, ma di evidenziarne la degradazione rispetto alla Verità cristiana: «gli esseri mitologici introdotti nel suo poema aveano perduto, dinanzi al lume del Cristianesimo, tutto quel prestigio che aver poteano presso gli antichi». 3 Allo stesso modo, un testo molto raro, 4 l’epistola indirizzata a Michelangelo Lanci Di alcuni luoghi della Divina Commedia, una cui bozza di stampa è nel Fondo Torri, 5 è puntuale recensione a Degli ordinamenti onde ebbe informata Dante Alighieri la prima cantica della Divina Commedia. Investigazioni di Fortunato Lanci, fratello di Michelangelo (Roma, 1855): recensione che, oltre al rinsaldamento incipitario della definizione dell’Alighieri come «Omero italiano del medio evo», propone alcune incursioni nel poema secondo un calibrato andamento di approvazione e disapprovazione dell’opera di Fortunato. Così, se ben dice Fortunato che «il primo canto è quasi un fuor d’opera», non è invece corretto aπermare che prima dell’incipit del terzo canto «non solo non è parola di discesa, ma si accenna per molte maniere evidentemente a salita» in quanto il «cammino alto e silvestro» (Inf., ii, 142) alluderebbe a profondità e a catabasi; inoltre, se «piacemi che il vostro signor fratello abbia mantenuto al poema dantesco l’epoca del 1300», anno del primo giubileo, non però il Paravia può essere d’accordo sulla data specifica della cronologia dello smarrimento dantesco, che non andrebbe spostata al 9 aprile, bensì mantenuta, come nell’Orologio di Dante del Ponta, 6 sulla lancetta del 3 aprile, ai fini del disvelamento cognitivo di una Provvidenza regolante la consonanza temporale di due delle tre corone trecentesche; ancora, l’intellettuale dalmata non può concordare sulla distinzione in due schiere, «nel vestibulo dell’Inferno», tra «le anime triste  







1  Cfr. Volgarizzamento delle Quistioni Tusculane di Marco Tullio Cicerone fatto nel buon secolo della favella, testo di lingua citato nel Vocabolario della Crusca, pubblicato per cura di Michele Dello Russo, Napoli, Stamperia del Diogene, 1851, p. 103: «Non mai adunque il savio s’adira». 2   Pier Alessandro Paravia, Documenti danteschi, «Museo scientifico, letterario ed artistico», iii, 1841, pp. 12, 52, 122 [trascrizione manoscritta di Alessandro Torri]. 3   Pier Alessandro Paravia, Del sistema mitologico, cit., p. 156. 4  Cfr. Scritti su Dante di Giuseppe Todeschini […], Vicenza, Tip. Reale Gir. Burato, 1872, i, pp. 30-31: «già tenne saviamente il Daniello […] che ivi il poeta non parli […] di accidiosi, bensì di gente dominata da cupa rabbia […]; e tristi, non accidiosi, disse que’ peccatori il Torricelli […]. La sentenza de’ quali critici venne di recente avvalorata […] dal mio […] compianto amico […] Paravia, in una lettera al professore […] Lanci, che fu delle ultime cose da lui date in luce. E poiché io non credo […] che quella lettera venga alle mani di molti, essendo stampata in un giornale torinese poco diπuso, stimo opportuno […] riferirne alcuna parte». 5   Pier Alessandro Paravia, Di alcuni luoghi della Divina Commedia. Lettera al ch. signor Professore D. Michelangelo Lanci [24 maggio 1856], bozza di stampa; in fondo alla terza pagina si legge la notazione manoscritta del Torri: «Ultimo dono fattomi dall’Autore morto nel 18 marzo 1857. Sit tibi terra levis». 6   L’orologio di Dante Allighieri a conoscere con facilità e prontezza la posizione dei segni dello zodiaco, le fasi diurne, e le ore indicate e descritte nella Divina Commedia, immaginato e dichiarato da Marco Giovanni Ponta, Roma, per i tipi delle Belle Arti, 1843.

pier alessandro paravia lettore di dante

397 degl’infingardi» e il «cattivo coro degli angeli», né sulla compresenza nella palude stigia degli iracondi e degli accidiosi (secondo il Paravia, gli accidiosi coincidono de facto con gli ignavi puniti nel vestibolo e il «fumo accidioso» non pertiene ad una dichiarazione poematica relativa all’ordinamento delle anime). E anche nella Nota sopra un verso di Dante ed uno del Berni, 1 il letterato zaratino dimostra le sue doti di attento interprete della lictera dantesca, spingendosi su un terreno propriamente filologico: il verso «che succedette a Nino e fu sua sposa» (Inf., v, 59) è infatti filologicamente corretto, sulla base del testo indirettamente tràdito da Paolo Attavanti, in «che sugger dette a Nino e fu sua sposa». 2 L’interesse paraviano nei confronti dell’opera dantesca può dunque indirizzarsi anche a problemi specificamente testuali, interpretativi e filologici, ecdotici ed ermeneutici; si tratta di questioni che possono essere fruttuosamente aπrontate esclusivamente in quella auspicata lentezza di studio che sola può assicurare l’introiezione dei modelli, formali e tematici, dei classici:  



a questa perfezione della propria lingua non si perviene […] senza […] quella lenta riflessione, che troppo è opposta a quella funesta rapidità con che oggi si scrive e si stampa. […] credo, che col vapore si possa fra pochi anni percorrere in picciol tempo tutta quanta l’Europa; ma non crederò mai che col vapor acquistar si possan le idee, non crederò mai che a vapor far si possano i libri. 3  

Le due metà del cielo paraviano-dantesco si ricompongono: gli «scrittori classici» sono tali perché «riusciron uomini non men di pensiero che d’opera» («non solo attesero agli studi […] negli esercizii umbratili […], ma il lor talento impiegarono […] nel sole e nella polvere degli aperti campi di guerra»), 4 e Dante è il classico moderno, l’Omero cristiano, alla cui scuola ra√nare lingua e pensiero, forma ed azione. I classici sono palestra indispensabile di áskesis intellettuale funzionale all’azione a favore degli interessi della patria:  

a questo altare de’ classici accostiamoci, o cari giovani, con reverente animo […], se vogliam […] gl’interessi giovar della patria. 5  

Dante può insegnare ai giovani, in primis ai giovani piemontesi a√dati al professore dalmata, a portare a compimento la loro identità italiana, mediante l’altissimo èthos esistenzialmente e letterariamente additato e il sublime magistero della lingua. La lingua è «arma perpetua di resistenza», 6 ma per appropriarsene occorrono impegno e lentezza: la stessa lentezza di cui abbisogna lo studioso per emendare ecdoticamente versi, comprendere la portata della gestualità di un personaggio del viaggio oltremondano, ricostruire la validità di un sistema mitologico, discutere con competenza dell’ordinamento delle anime nei gironi infernali. Dante, «principal lume della volgar lingua e poesia», auctor di un «poema, che fu sì glorioso principio e monumento sì splendido di una letteratura veramente nazionale», è formidabile via pedagogico-didattica di saldezza morale e «energia della parola», 7 strumento notevolissimo di perfezionamento etico e ammaestramento  



1   Pier Alessandro Paravia, Nota sopra un verso di Dante ed uno del Berni, in Idem, Discorsi accademici ed altre prose, Torino, Fontana, 1843, pp. 170-175. 2   La scelta della variante è eπettuata sulla base della plausibilità semantica: se la colpa di Semiramide fu quella di succedere crudelmente al marito nel governo babilonese, altro sarebbe stato il locus della sua pena; l’incesto, invece, enfatizzato da una ricca tradizione, benché storicamente non accertato, ben si accorderebbe al profilo della lussuriosa regina orientale. 3 4   Idem, Prelezione, cit., p. 91.   Ivi, p. 88. 5 6   Ivi, p. 105.   Ivi, p. 91. 7   Ivi, p. 108. Sulle posizioni puriste del Paravia, cfr. per esempio Storia letteraria d’Italia. L’Ottocento, a cura di Guido Mazzoni, Milano, Vallardi, 1934, cap. vi La questione della lingua e il Purismo, pp. 328-377, e Ranieri Varese, Pier Alessandro Paravia, biografo di Canova, «Venezia arti», 13, 1999, pp. 59-66: 60: «La […] scultura [canoviana] […] indica un ‘valore’ che corrisponde […] alla difesa della lingua da ogni impurità».

massimo colella 398 alle leggi di un’eloquenza che sappia stimolare alla costruzione di un’unità nazionale sentimentalmente e moralmente determinata. Arma et linguae (lo diceva a’ suoi dì il Campanella) unica regnorum instrumenta; […] parola e spada, […] quando sian bene impiegate, sono non meno […] fregio, che difesa […] di un popolo. 1  

La parola, iuxta la perpetua validità della funzione-Dante, è prefigurazione di un progetto in cui pensiero ed azione, teoria e prassi, italianità linguistico-culturale e italianità politica, «la morale e le lettere» trovano l’altissima correspondance di necessaria reciprocità, il sublime destino di un’indispensabile unità. 1

  Pier Alessandro Paravia, Prelezione, cit., p. 107.

PROFILO DI BEATRICE SPERAZ Patrizia Zambon Leggendo Numeri e Sogni, il nuovo romanzo dell’infaticabile Bruno Sperani, ci siamo rivolti di nuovo un quesito che già ci proponemmo quando uscì il penultimo e notevole suo romanzo: Nell’Ingranaggio. A quale delle scuole, a quale delle chiese, o confessioni, o comunque vogliano chiamarsi, in cui si divide e forse si frantuma l’arte moderna, a quale indirizzo e criterio di produzione letteraria appartiene questa scrittrice?

L

a p  roposizione è di Filippo Turati; la formula su «Cronaca rossa» nel luglio 1887, in apertura ad una lunga recensione dedicata a quello che è – con il precedente Nell’ingranaggio (1885), qui pure citato, e il successivo La fabbrica (1894) – uno dei romanzi di maggior impegno compositivo della scrittrice che la critica ‘di sinistra’ segue al momento con maggiore e convinta volontà di sostegno, tra le autrici significativamente attive nella civiltà letteraria della nuova Italia: accanto a Turati, sono senz’altro da segnalare gli interventi di Arcangelo Ghisleri, e la lunga fedeltà di Felice Cameroni, che dedica a Sperani numerose note della rubrica di recensioni letterarie che tiene con regolarità, e impeto, su «Il Sole»: si pensi che a proposito, appunto, di Numeri e sogni, Cameroni addirittura annoterà: «Bisognerebbe essere miopi d’intelligenza, o senza cuore, per non comprendere la confortante conclusione di Numeri e sogni. Con essa, si eleva la Sperani ai vasti e generosi ideali altruistici del Tolstoj. Aiutare i soπerenti e perdonare gli errori di quelli, che inconsciamente fanno soπrire». Non c’è una grande identità, in realtà, tra le opere di Bruno Sperani e la statura letteraria e di pensiero di Tolstoj, ovviamente; ma il paragone, oltre che molto lusinghiero, nel suo rimandare quale riferimento – Cameroni scrive nel 1887 – al grande romanziere russo, della parte orientale dell’Europa, quindi, è forse non privo di interesse per noi. 1 Bruno Sperani, infatti, è una scrittrice. Si chiama in realtà Vincenza Pleti Rosić Pare Sperać: è nata in Dalmazia, a Salona, il 24 luglio 1839. 2 La madre è istriana, Elena Alessandri, e appartiene a una famiglia di vecchia nobiltà provinciale; il cognome slavo è quello del padre, Marino Sperac/Speraz: la famiglia paterna è di radicata tradizione spalatina – nel 1915 diventerà protagonista della narrazione memoriale di Bice, nelle intense pagine dei Ricordi della mia infanzia in Dalmazia; 3 la madre, invece, si è trasferita in Dalmazia con il matrimonio, per entrare nella famiglia del marito, come d’uso, e portando tuttavia con sé una zia, a sostenere e incrementare il suo lato famigliare, italofono. In quel 1887 Bice Speraz vive ormai da diverso tempo nel Regno d’Italia, prima a Firenze e poi a Milano – piuttosto complessa è la sua storia famigliare – dove opera  





1  Cfr. Felice Cameroni, Interventi critici sulla letteratura italiana, a cura di Glauco Viazzi, Napoli, Guida, 1974, p. 286. 2   Si vedano Gian Luca Baio per il Profilo biobibliografico che accompagna, pp. 169-176, la riedizione di Bruno Sperani, La fabbrica, a cura di Siobhan Nash-Marshall e Gian Luca Baio, Lecco, Periplo, 1996, e l’intervento Bruno Sperani: cenni di vita e arte, in Ritratto di signora. Neera (Anna Radius Zuccari) e il suo tempo, a cura di Antonia Arslan, Marina Pasqui, Milano, Comune di Milano, 1999, pp. 87-94; Edda Fonda, Il percorso umano e letterario di Beatrice Speraz in arte Bruno Sperani, «Atti e Memorie della Società istriana di Archeologia e Storia patria», xlviii 2000, pp. 319-351. 3   Milano, Antonio Vallardi, 1915. Su questo testo sono intervenuta con un capitolo del mio libro: Patrizia Zambon, Scrittrici: Scrittori, saggi di letteratura contemporanea, Padova, Il Poligrafo, 2011, al quale il contributo che ora si presenta fa più volte riferimento.

patrizia zambon 400 come scrittrice. Fa parte di quel folto numero di scrittrici che lavorano a costruire quella che Croce avrebbe chiamato, nel suo insieme (linea maschile e linea femminile), la letteratura della nuova Italia: narratori e narratrici d’area e di istanze realiste, di sensibilità e figurazione decadentista, e a volte anche apertamente simbolista (si pensi a Nel sogno e Anima sola di Zuccari, 1893 e 1895, ad esempio), della rêverie crepuscolare, intimista o immaginativa dell’entre deux siècles, poi dell’autobiografismo letterato del primo Novecento, e altro ancora. Bice Speraz è senz’altro autrice che sceglie le dinamiche realiste, anzi, apertamente di militanza sociale: si veda, fra i davvero tanti possibili, l’esempio di La fabbrica (1894), con la sua storia di esagitata speculazione capitalistica ambientata nel mondo dei cantieri edili di Milano e con la figurazione apertamente di militanza socialista del personaggio di Francesco Bitossi, l’operaio che all’impresario Piloni oppone le ragioni delle maestranze, che nel cantiere lavorano, con matura consapevolezza politica (e invano, però; per raccontare il sopravanzare su tutto dell’avidità di lucro, fino a travolgere in un incidente mortale l’uomo amato dalla protagonista Luisa Terragni: Bitossi, appunto). Ma qualcosa delle stratificazioni della stagione che attraversa tocca anche la sua scrittura, qua e là venata di una attenzione piuttosto penetrante alle complessità interiori, intime, del sentimento specificamente assunte, come avviene – un esempio anche qui – nel romanzo Sulle due rive, 1896; nel quale le due rive sono quelle ideali – ed esplicitamente ideologiche – dei due sposi, esponente di prestigio del partito conservatore lui (addirittura ex primo Ministro, a far toccare anche da Speraz il genere del romanzo parlamentare così in auge nel fine secolo, il Daniele Cortis, 1885, di Fogazzaro, La conquista di Roma di Serao, sempre 1885, I viceré di De Roberto, 1894, per richiamare almeno le occorrenze più rilevanti), apertamente tesa all’aπermazione di una linea di ‘progressismo’ lei: ma la tensione politica si coniuga qui, ed è sensibilmente attraversata da quella dei sentimenti, uomo potente e maturo lui che ha sposato per passione d’amore una donna assai più giovane e bellissima, e teme e soπre la sua inadeguatezza ad essere amato dalla giovinezza di lei. Beatrice Speraz esordisce, a quanto mi è noto, nel 1879 – il vero maestro di quella stagione culturale, Giovanni Verga, ha già pubblicato Rosso Malpelo ma non ancora I Malavoglia – quando pubblica con Brigola il romanzo Cesare – che diverrà poi Anime avvelenate, più volte riedito: nel 1893 Carlo Aliprandi stampava la terza edizione, accolto da una buona attenzione della critica, Capuana e Roberto Sacchetti, tra gli altri. È autrice di altri diciassette romanzi, raccolti con intensa frequenza nel decennio tra 1885 e 1896, undici in undici anni, e che poi si stemperano attraversando il crinale del secolo, Macchia d’oro nel 1901, Signorine povere nel 1905, La dama della regina 1910; sono cambiate anche le tonalità, l’ultimo, Teresita della Quercia, trova edizione nella «Collezione Salani», «i migliori lavori della letteratura romantica» (e ‘romantico’ non è più aggettivo storiografico, di appartenenza letteraria). È ormai l’anno 1923: Bice muore a Milano nei primi giorni di dicembre. E naturalmente, come è uso fondamentale nel periodo, come tutti i narratori della nuova Italia fanno, è anche autrice di novelle e racconti scritti per il ‘sistema’ di riviste dell’Italia umbertina, e poi raccolte in sette volumi, anch’essi in buona parte collocati tra 1881 (Sempre amore, Sotto l’incubo: dunque dopo l’esordio di Cesare, nel romanzo quindi, i primi anni della narratrice furono soprattutto nella misura breve) e il punto di svolta costituito dal 1895, La commedia dell’amore; e anche le raccolte di novelle con una ripresa fortemente novecentesca (unica questa), quando nel 1920, a Firenze, Battistelli pubblica Nel turbine della vita. 1 Sappiamo, perché ce ne informa lei, che le avvenne di lavorare  

1   Per la bibliografia di e su Beatrice Speraz rimando al sito Le Autrici della Letteratura Italiana. Bibliografia dell’Otto/ Novecento, a cura di Patrizia Zambon, portale dell’Università di Padova, Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari: aperto nel 2005 e in costante aggiornamento.

profilo di beatrice speraz

401 anche più esplicitamente come articolista per le testate della stampa periodica, così numerose e attive nel tardo Ottocento e nell’entre deux siècles; e sappiamo che si occupò anche di traduzioni, l’altro grande strumento professionistico del lavoro letterario otto e novecentesco: a noi è occorso di vedere la sua traduzione di Il violinista, di Hans Christian Andersen, a puntate su «La Perseveranza» (e poi, in volume per Treves, 1879). 1 Se non è una/uno delle/dei grandi autrici/autori della stagione letteraria che rispecchia e vive i complessi nodi della cultura, perché della società, di secondo Ottocento e di quella che fa transitare la civiltà letteraria italiana dalla temperie ottocentesca a quella di sperimentale e inquieta modernità dell’aperto primo Novecento – troppo problematico lo strumento stilistico, più volte troppo ‘di mestiere’ gli intrecci, o troppo fragile la tenuta narrativa che dovrebbe sostenere l’intensità della penetrazione tematica – Bice Speraz è certamente, però, un’autrice capace di contribuire con una sua riconoscibile significatività a raccontare, infittendolo di senso, il tessuto letterario e culturale di un’epoca che apre e certamente già appartiene alla narrativa contemporanea. Nel luglio 1887, dunque, s’è detto, su la «Cronaca rossa di letteratura, scienza ed arte» Filippo Turati recensisce con simpatia Numeri e sogni. Non è l’unico intervento che il giornale, un quindicinale, dedica quell’anno a Bruno Sperani, scrittrice vicina, evidentemente. Il 6 novembre (i, 15, pp. 7-8) esce sulla rivista milanese un lungo contributo biografico su Speraz, dal titolo, di rubrica e di soggetto, Profili. Bruno Sperani. Non è firmato, la rivista lo assume come pezzo redazionale, lo sottoscrive infatti con il nome della testata: in calce, il testo ha la ‘firma’ Cronaca Rossa. Non è un testo pienamente attribuibile alla bibliografia di Beatrice Speraz, quindi. E tuttavia la scrittura, per i significati, per lo svolgimento analitico, per l’intimità di alcune riflessioni, per la penetrazione dello stile, certamente la coinvolge. Sia eπettivamente di mano sua il Profilo che la assume a soggetto (cosa probabile), o siano suoi passaggi e snodi tematici che hanno incontrato poi mani (altrui) straordinariamente capaci di assumerli e simpaticamente (nel senso etimologico) lavorarli – la mia opinione, in eπetti, è che il testo possa essere stato redatto ‘a quattro mani’, con un corpo centrale di Beatrice e una premessa e un’ultima parte di descrittività più esterna: ma si tratta solo di un’interpretazione personale, non dispongo di alcuna attestazione documentaria – certo il Profilo di Bruno Sperani dice su Beatrice Speraz cose – informazioni e sensi – di primario rilievo; una delle fonti più significative, mi pare, per conoscere questa scrittrice per la quale, in realtà, le fonti documentarie oggi note non sono moltissime. Per tale ragione, oltre che per la buona qualità letteraria di questa pur breve ‘opera’, questo mio contributo agli atti del congresso sulla Letteratura dalmata italiana lo assume come suo tema principale e ne dà la prima edizione moderna (con qualche nota di commento). 2  



Profili Bruno Sperani Le male arti si spezzano; dinanzi alla forza e all’ingegno, dinanzi al lavoro coscienzioso e sereno della evoluzione scientifica dell’oggi saggiamente rifecondato, non è più il contrasto e la lotta che turbano 1   Traduceva dal tedesco, appreso negli anni di frequenza a scuola nella Trieste partecipe dell’Impero AustroUngarico (tema questo sul quale polemizzerà esplicitamente nei Ricordi della mia infanzia in Dalmazia – Milano, Antonio Vallardi – che hanno (connotata) edizione nella primavera 1915); e dal francese, letteratura dalla quale tradusse, a quanto oggi noto, opere di Daudet e di Zola. Quanto alle traduzioni coeve di opere di Speraz, è nota la traduzione in lingua ceca di Il marito: si veda Manžel, traduzione di Karel Klostermann, V Praze, Nakladatel Jos. R. Vilimek, [1882]; Edda Fonda, inoltre, nel suo vasto saggio, già citato, dà informazione dell’esistenza di una traduzione in francese di Numeri e sogni, edita a puntate su «Le Figaro» con il titolo La realité et le rêve e di L’avocat Malpieri, a puntate su «Le Progrès du Nord», di Lille, e in volume: trad. di Jean Cotteuax, Lille, Dugardin, 1891. 2   Si sono corretti i refusi e riviste alcune modalità grafiche, senza darne ulteriore segnalazione.

patrizia zambon

402

la mente della scrittrice; non più la febbre dell’incertezza, né il martirio d’un domani dubbioso, che accasciano l’animo di Bruno Sperani. È un so√o sereno di gloria e di pace, un applauso sincero che le arriva da ogni parte; un attestato di riconoscenza e di aπetto ben meritato che mitiga in parte le dolorose ricordanze d’un passato di pene e di fatiche. Numeri e sogni, l’ultimo lavoro di Bruno Sperani ha rivendicato l’artista tanto immeritatamente bistrattata fin dal suo esordire. Noi non ci occuperemo più della sua nuova opera; già troppo bene e con molta competenza ne scrisse nella nostra Cronaca Filippo Turati: 1 ci basta constatare il plauso unanime che ne è venuto dalla stampa di tutta la penisola – ci occuperemo unicamente e brevemente di lei, di Beatrice Speraz, della sua vita e delle sue opere, in quel modesto modo che ce lo comportano il tempo e lo spazio. Quanto al fisico, Edmondo De Amicis così l’ha descritta: «Alta de estatura, ágil, pálida, de un hermoso óvalo el rostro, con dos ojos azules y extraños, de una expresión intensa y triste, con una sonrisa a menudo sardónica, y otras veces, tristemente lánguida, la Speraz vuelca en sus libros toda la naturaleza calurosa, nerviosa, acre, mudable, orgullosa, que se adivina en su persona» (Dal Siglo). Una cosa che sommamente dispiace a Bruno Sperani, forse a cagione della sua indole stessa fiera e robusta, è la moda invalsa oggidì di cercare sotto lo scrittore l’uomo o la donna. Ardita nello scrivere com’è coraggiosa e risoluta nelle vicende della vita, Bruno Sperani è timida nelle relazioni sociali: quasi selvaggia. 2 Nessuno conosce quanto le sia costato il dedicarsi al giornalismo; esporsi ai sarcasmi del pubblico, e aπrontarne gli occhi curiosi. Epperò, appena ha potuto, appena il romanzo – la sua vera vocazione – cominciò a fruttarle, lasciò il giornalismo e col giornalismo la società, i pubblici ritrovi, specialmente i teatri, nei quali non mette mai piede di proprio impulso, quando non sia per amore della musica che per lei è, più che un diletto, un bisogno morale e fisico. In complesso la Sperani invidia gli scrittori impassibili, coloro dei cui romanzi non ci si chiede – come disse Filippo Turati – «quante lagrime, quanti sconforti, quante amare voluttà hanno costato all’autore». 3 Vorrebbe essere assolutamente impassibile, ma la sua indole vi si oppone. Del resto, se gli uomini sono in generale e veramente delle contraddizioni che camminano, la Sperani è tutta una conferma della sentenza. Nata da padre slavo di origine plebea, da madre latina di origine aristocratica, ha subito e subisce con una intensità spesso dolorosa, le attrazioni e le repulsioni delle due razze che s’incrociano in lei. 4  







1   Filippo Turati, «Numeri e sogni» di Bruno Sperani, «Cronaca rossa», i, 7, 3 luglio 1887: «Il titolo di Numeri e Sogni riassume l’intreccio. È la lotta fra le esigenze positive della vita e gli aneliti dell’ideale, la lotta che tutti hanno provata e soπerta, tranne i facilmente adattabili ossia i mediocri, studiata in un ciclo di pittori e di artisti e nell’ambiente lombardo contemporaneo. È il dissidio fra le esigenze dell’arte alimentare, dell’arte che si fa per il pubblico, e quelle dell’arte vera che si fa per sé stessi e per pochi intelletti simpatizzanti col proprio; tema assai trito e banale nel mondo degli artisti e dei letterati che vivono dell’arte e ne muoiono. L’autrice, che dell’arte vive, dev’essersi certo più volte, scrivendo, ricordata di sé stessa». 2   Come è facilmente verificabile da questo testo, gli pseudonimi, tanto usati dalle narratrici e dalle poetesse italiane dell’entre deux siècles, sono, nella larga maggioranza dei casi, semplici noms de plume, moda letteraria dell’epoca (qualcosa di assai simile, con tutti i distinguo che pur appartengono a due epoche tanto lontane, ovviamente, a quanto in uso negli anni settecenteschi d’Arcadia) non assunzioni di ruolo: come si vede, l’identità di donna di Bruno Sperani non è minimamente né sottaciuta, né mascherata; al contrario, dato piano e certo, nella lettura nemmeno si rileva la (possibile) incongruenza di quel Bruno. 3   È indispensabile leggere il testo di Turati per comprendere la determinazione della risposta di Speraz. Turati aveva definito un’appartenenza realista (usa esplicitamente l’espressione «verismo»; francese, però) della scrittrice, ma l’aveva poi in qualche modo posta sotto condizione. Si legge: «L’autore non fa irruzioni inopportune dentro all’azione per dirci il suo parere sugli eventi, per inocularci direttamente le vedute e i sentimenti suoi. Non c’è la tesi preconcetta e predisposta, la tesi scoperta e materiale, che piega a sé la logica dei fatti. [...] Su questo senso i romanzi di Sperani sono veramente impersonali e moderni. Ma c’è qualchecosa che scevera e stacca questa scrittrice dallo stuolo dei naturalisti puri. L’ambiente non è mai protagonista; appena se è richiamato e colorito quanto basta per fare da sfondo ai personaggi e perché circoli con esso un po’ d’aria in mezzo all’azione. Nessuna di quelle compiacenze di descrittore per professione, che dominano così spesso nel romanzo verista francese. [...] Ciò che muove la sua penna è sempre l’impazienza dell’aπetto e del fatto umano. Ogni pagina serve all’impero di un implicito pensiero morale, di una, per quanto velata, riflessione filosofica della vita. Vi è insomma l’impersonalità ma non l’impassibilità dell’arte veramente oggettiva. [...] Leggendo un romanzo di Zola potete chiedervi quanto l’autore, per scrivere quel libro, ha veduto, ha notato, ha coordinato, ha riassunto. Nel romanzo della Sperani vi chiedete quanto, per farlo, le è bisognato della sua propria vita, quante lagrime, quanti sconforti, quante amare voluttà le è costato. [...] Del naturalismo piglia l’ossequio spregiudicato alla verità, l’analisi fina e positiva dei fatti psicologici senza farle olocausto delle tendenze personali sue proprie. Forse l’assoluta impassibilità in arte – come in ogni altra cosa – è al disopra o, per meglio dire, al di fuori delle facoltà femminili» (pp. 4-5) – penso che Beatrice abbia rilevato quest’ultima frase. 4   Davvero suggestiva la sonorità che sarà di Saba – lo straordinario poeta della complessità triestina (e famigliare):

profilo di beatrice speraz

403

Avendo perduti i genitori in tenera età, fu educata presso i parenti della madre, vecchi nobili di provincia, decaduti o sul decadere, e crebbe in un ambiente pesante, malinconico e frivolo. Da ragazzina imparò presto a ribellarsi. Una delle sue vecchie prozie leggeva sempre; ma le aspirazioni di costei nulla avevano di elevato, il suo pensiero aπogava nel mediocre; il carattere aveva debole; del resto buona, religiosa, superficiale, era schiava delle convenienze. Incapace di decifrare il carattere complesso e di√cile della nipote, la sagrificava credendo di renderla felice. La ragazza reagiva, ma non abbastanza: una tenerezza inconscia, un bisogno di blandizie e di aπetto la rendeva debole e controvoglia sottomessa. Aveva scatti nervosi, repentini. Il sentimento religioso infiltrato nell’anima sua si esaltava fino al misticismo, forse per la nausea inconsapevole della religiosità frivola e tutta esteriore da cui era circondata: non potendo diventare incredula da un momento all’altro, cercava di innalzarsi con la fantasia al supremo ideale. La vecchia prozia le aveva attaccata la passione dei libri; disgraziatamente, neppure in questo i loro gusti si accordavano. Dopo di aver imparato a sillabare sui drammi lirici di Metastasio, dopo di essere stata iniziata alle favole più o meno divertenti della mitologia, ai romanzi cavallereschi e alle poesie arcadiche; dopo di aver dovuto leggere e rileggere ad alta voce e nell’originale le avventure del famoso Telemaco, la giovane lettrice dichiarò alla vecchia che quei libri l’annoiavano mortalmente: che Telemaco era uno sciocco, Mentore un antipatico. La vecchia – che era un pezzo di Settecento messo in conserva – si scandalizzò e presagì tutti i malanni possibili ad una creatura dotata di una intelligenza così capricciosa e precocemente pervertita. 1 Intanto a sedici anni, e di nascosto, la Sperani scriveva i suoi primi romanzi, che vennero distrutti inediti. In convento aveva fatto recitare alle sue compagne La Commedia dell’arte, improvvisata sopra qualche canovaccio metastasiano. Si mise a leggere Leopardi, e si innamorò di quell’anima grande. Solo allora comprese quello che le mancava, e perché era infelice! Se fosse nata ai tempi di lui, se lo avesse conosciuto, lo avrebbe amato, si sarebbe fatta amare, e sarebbe stata felice! E fantasticando e sognando, arrivò ad amare quel morto, come non poteva amare nessun vivo, di un vero e profondo amore. Alcuni anni più tardi, in un periodo di tristezza più acuta, tornò a provare il bisogno di un conforto, di una fede, e, messo da parte il desolato Recanatese, si rivolse al Manzoni. Pur conservando parte del pessimismo leopardiano, sentiva il bisogno di vivere, d’avere un appoggio, e lo spiritualismo severo del Manzoni l’assorbì per qualche tempo. Poi studiò Schiller e Goethe, in un periodo relativamente sereno per lei. Aveva una su√ciente esperienza della vita, allorché le capitò tra le mani il primo libro di Heine:  

«Egli era gaio e leggero; mia madre / tutti sentiva della vita i pesi. / Di mano ei gli sfuggì come un pallone. // «Non somigliare – ammoniva – a tuo padre.» / Ed io più tardi in me stesso lo intesi: / Eran due razze in antica tenzone» – cfr. Umberto Saba, Tutte le poesie, a cura di Arrigo Stara, Milano, Mondadori, 1994 («I Meridiani»), p. 257; pur rilevando, naturalmente, che le implicazioni personali non collimano –. Ma anche nella nota che precede un richiamo sabiano non sarebbe forse stato del tutto fuor di luogo, e si sarebbe dovuto trattare allora del Saba che scrive la Storia e cronistoria del Canzoniere, a fronte della chiara volontà speraniana di fare soggetto della propria scrittura l’interpretazione (discutibile nella lettura altrui) della propria opera. 1  Come avviene (o meglio: avverrà) ad altre rilevanti narratrici della temperie culturale otto/novecentesca, Bice Speraz scrive nel primo Novecento, quindi quando ormai larga parte della sua attività d’autrice ha già avuto realizzazione, le pagine del suo ‘tempo perduto’, le memorie – e assai di più – dell’infanzia ormai così lontana, degli eventi, dei luoghi abitati rivisti dentro la percezione di perdita e insieme di una insopprimibile fascinazione, delle persone fondamentali della sua vita bambina, i nonni, i genitori, prima di tutto. Lo faranno anche Anna Zuccari, con Una giovinezza del secolo xix, 1919; Ada Negri, con Stella mattutina, 1921; Grazia Deledda, con Cosima (quasi Grazia), 1936. Speraz è la prima di questa (abbreviata) sequenza: pubblica Ricordi della mia infanzia in Dalmazia nel 1915 (Milano, Antonio Vallardi). Vi compare anche la ‘zia’ che qui – quasi trent’anni prima – sola era stata evocata presente nella formazione culturale della ragazza adolescente. Scriverà nel 1915: «Ella era allora [al momento dell’infanzia di Bice] una donna d’aspetto assai decorativo, avendo varcata da poco la cinquantina [...]. Quando mia madre si sposò e dovette seguire il marito in Dalmazia, la zia la seguì, e restò con noi per sempre. Io la chiamavo zia, naturalmente; e ricorrevo a lei nelle grandi angoscie. La mia mamma, colpita, appena arrivata a Salona, dai miasmi della vicina palude, era quasi sempre malazzata; il babbo stava molto fuori per la campagna, a caccia di selvaggina, per valli e monti, per boschi e dirupi: era la sua passione. [...] Io era abitualmente a√data ai nonni e alla prozia. Questa possedeva una discreta coltura: conosceva bene la storia antica: famigliari le erano i grandi poemi di Omero, di Virgilio, dell’Ariosto e del Tasso. Della Divina Commedia invece non conosceva che i due celebri episodi di Francesca e del conte Ugolino; il Petrarca la lasciava fredda. Metastasio le era assai più caro, poi Alfieri e Monti e Foscolo. Non amava Manzoni, al quale rimproverava amaramente la soppressione delle favole mitologiche nella poesia. E detestava il Leopardi. L’aveva educata un vecchio prete del Settecento, plasmandole lo spirito alla sua guisa; e tale era rimasta» (pp. 21-22).

patrizia zambon

404

i Reiselbilder: l’impressione fu straordinaria, incancellabile. Il riso ironico e doloroso le arrivava in buon punto. Heine fu letto e riletto con passione, con entusiasmo sempre crescente, quasi esclusivo – eppure non fu amato come Leopardi! Aveva avute troppo amanti, lui; e la donna, gelosa in tutti i suoi aπetti, improntava del suo esclusivismo anche gli amori intellettuali della scrittrice. Intanto Bruno Sperani aveva perduta quasi tutta la voglia di scrivere; le sembrava fatica sprecata: se avesse potuto avrebbe studiato medicina, per fare qualcosa di meno vano. Quando si rimise finalmente a scrivere, nel 1876, lo fece, cedendo all’urgente bisogno di lavorare per campare la vita. La sua prima novella fu pubblicata nella «Perseveranza». Poi, scrisse ‘corrieri’ per «La Nazione», per il «Caπaro», per la «Gazzetta letteraria» di Torino, per il «Bersagliere», firmando sempre ‘Bruno Sperani’; più tardi per il «Fracassa», col pseudonimo di ‘Donna Isabella’. Nel medesimo tempo la Casa Treves le faceva tradurre, specialmente dal tedesco, dei grossi volumi. 1 Di tratto in tratto qualche novella, qualche racconto, qualche abbozzo di romanzo, sollevavano il suo spirito. Il suo primo libro uscì nel 1879 col titolo di Cesare. Era un romanzo pieno di amarezza, nel quale non pochi trovarono qualcosa di originale: i pedanti furono implacabili: tutti insieme i critici dissero che il libro era stato scritto con troppa precipitazione. E allora, forse non ebbero torto. Ma l’autrice sorrideva amaramente; aveva dato a quel lavoro tutto il tempo di cui poteva disporre. L’anno prima il «Piccolo» di Napoli aveva pubblicato un racconto di lei, firmato ‘Livia’; l’«Antologia» ne pubblicava un altro. Anche il Cesare era stato pubblicato con lo stesso pseudonimo di ‘Livia’, qualche anno prima, nelle appendici del «Pungolo», col titolo: Da morte a vita. Quando comparve in volume col nuovo titolo, alcuni lettori del «Pungolo» sostennero che era un plagio di ‘Bruno Sperani’ a danno di ‘Livia’. 2 Altre novelle, pubblicate in altri giornali, furono raccolte in un volumetto, Sotto l’incubo, dall’editore Gargano. Ebbe un discreto successo, che non si ripeté per la seconda raccolta di novelle: Sempre amore. La Veronica Grandi, piccolo romanzo, uscito nelle appendici della «Nazione» nell’estate dell’83, fu rivenduto al Sonzogno, che fece pompa della sua autocrazia seppellendolo. Una lunga e di√cile traduzione dal tedesco, un libro d’arte pubblicato dal Treves, le corrispondenze ai giornali ed altri lavori, toglievano alla scrittrice non la lena, ma il tempo materiale di scrivere i romanzi che meditava. Numeri e sogni era già nella sua mente; molto materiale di già raccolto fin dall’estate e autunno dell’82, passati in Bergamo e in Valle Brembana; ma non voleva sciupare quel soggetto. Preferì scrivere Nell’ingranaggio, di tema più facile. Questo romanzo apparve prima nelle appendici della «Nazione»; poi fu venduto al Sonzogno per poche centinaja di lire, e per sempre! Non ostante la misera edizione e i molti errori di stampa, il romanzo ha avuto buon esito; è stato il solo volume della Biblioteca romantica di cui la critica si sia occupata. Nell’autunno dell’85, il signor Torelli Viollier diede alla Sperani la commissione di scrivere un romanzo per il «Corriere della sera». 3 La grave traduzione del libro d’arte era appunto finita: abbandonate a poco a poco tutte le corrispondenze ai giornali, ella prese il suo soggetto lungamente accarezzato; lo ordinò, e si mise a scrivere senza fretta, senza alcun pensiero estraneo all’arte, senza stancarsi mai. E questa volta chi parla di fretta s’inganna davvero. Quando parlammo con la Sperani di certe accuse che le vennero mosse di aver messo nel suo romanzo troppi personaggi e troppi particolari, e d’aver incominciato Numeri e sogni come un romanzo d’arte, cangiandolo poi in un romanzo di passione, posando, senza scioglierla, la tesi del divorzio,  





1   Interessante la varietà delle sedi, comune peraltro a diversi autori e autrici di secondo Ottocento, che permette di rilevare ancora una volta quanto fitte siano le relazioni professionali e la circolazione degli scrittori nel ‘sistema’ di giornali e riviste che connota con tanta abbondanza l’attività editoriale della nuova Italia: come noto «La Perseveranza» era edita a Milano (e diretta da Ruggiero Bonghi), «La Nazione» a Firenze, «Il Caπaro» a Genova, la «Gazzetta letteraria» ovviamente a Torino (diretta da Vittorio Bersezio), «Il Bersagliere» a Roma, «Capitan Fracassa» (quello delle pagine di d’Anunzio, Serao, Scarfoglio, Cattermole) ancora a Roma. Più avanti Speraz cita «Il Pungolo» – Milano, come si sa – nelle cui appendici esordisce con il suo primo romanzo: la stessa sede dell’esordio narrativo di Camillo Boito, quindi, di quello (successivo) di Anna Zuccari, dei ‘capolavori’ degli scapigliati, la Fosca di Tarchetti, Le memorie del presbiterio di Emilio Praga (e via elencando) 2   Cambierà titolo una terza volta: si veda Bruno Sperani, Anime avvelenate, Milano, Carlo Aliprandi, 1893. 3   In quel torno d’anni, i narratori di maggior rilievo della nostra letteratura di secondo Ottocento che scrivevano per il «Corriere della sera» erano Maria Torriani, presente sia come articolista che come narratrice, Luigi Capuana, critico letterario sul «Corriere» e in questo netto anticipatore di quella che sarà la più avvertita ‘pagina culturale’ del giornalismo italiano, Giovanni Verga che vi anticipò alcune delle novelle del notevolissimo Don Candeloro e C.i (Papa Sisto, sul «Corriere della sera» tra 28 e 31 luglio 1893; Gli innamorati, il 28-29 dicembre e Fra le scene della vita, il 29-30 dicembre 1893).

profilo di beatrice speraz

405

essa ci disse: Prima di tutto di non aver voluto scrivere né il romanzo dell’arte, né un romanzo basato sulla tesi del divorzio; d’aver voluto, invece, ritrarre un artista povero e superiore, al quale la Natura aveva fatto dono di un’anima appassionata e nobile, e ritrarlo nei suoi rapporti con la società e con la famiglia; d’aver voluto dare un’idea dello svolgimento del suo intelletto, delle sue aspirazioni, delle intime, aspre battaglie sostenute; delle sue delusioni, e de’ suoi attriti con gli uomini e con le cose come artista e come uomo. Perché lo Zola ci ha descritto in Claudio Lantier un personaggio nel quale l’uomo è quasi completamente annullato dall’artista, non è detto che tutti gli artisti debbano essere di quella tempra! Lantier è un genio ammalato, una dolorosa eccezione, e adatto al genio dello scrittore che l’ha scelto. Superti è un forte e robusto ingegno, un uomo sano e complesso come ve ne sono tanti, un vero spogliato dalle comuni ipocrisie e sinceramente descritto in tutti i momenti della sua vita, uomo e artista, non genio e niente nevrotico. 1 Quanto ai molti personaggi e ai molti particolari, l’autrice li ha creduti necessarj alla riproduzione di un brano di vita moderna, a dare il sentimento del vero, delle cose vissute. Certo questo sistema presenta gravi pericoli e di√coltà; certo è assai più facile immaginare dei personaggi isolati nel mondo, sospesi in aria, agitati da una sola passione, guidati da un solo desiderio: è più facile, ripetiamo, ma generalmente meno conforme alla verità, nella nostra vita odierna tanto varia e complessa, e mettendo in scena veri uomini, nel cui seno si agitano prima o poi tutti i problemi, tutte le battaglie della esistenza; uomini che non possono vivere in mezzo ai loro simili senza in qualche modo modificarli ed esserne modificati. Dopo Numeri e sogni, la Sperani ha scritto un altro romanzo disgraziatamente ancora pel «Corriere della sera»: l’Avvocato Malpieri, la cui pubblicazione nelle appendici del detto giornale è terminata da qualche giorno. Vico Malpieri è un giovane di molto ingegno, ambizioso e appassionato, dal cuore tenero, dallo spirito pervertito. Nella lotta della vita egli sacrifica la propria indipendenza politica, la coscienza che crede di non avere, a una soddisfazione ambiziosa e all’amore della vita agiata. Poi, non potendo essere cinico, non sa darsi pace di quello che ha perduto, né di quello che egli è, e si consuma miseramente, condannato a vivere nel fango con la nostalgia incurabile delle cose alte. 2 Ma Vico Malpieri non è il solo protagonista del romanzo a cui dà il nome; vi campeggia in esso una figura femminile assai più simpatica e nobile: la donna che Vico ama fino alla morte. L’azione si svolge a Milano, fra l’80 e l’85: comincia con un Comizio al Teatro Castelli. Non si può dire che l’Avvocato Malpieri sia veramente un romanzo a tesi; ma esso ha un concetto e un concetto alto: che l’ideale è necessario alla vita come l’amore, come il pane. Ed ora, l’infaticabile Bruno Sperani sta scrivendo Il Romanzo della Morte.  



1   Claude Lantier è il protagonista di Émile Zola, L’œvre, Paris. G. Charpentier et C., 1886: in italiano («unica traduzione italiana di G. Palma», e con il sottotitolo articolato di Vita d’artista, gran romanzo parigino), già nel 1886, per lo Stabilimento tipografico della Tribuna di Roma (poi, dal 1893, Milano, Treves). Ma il tema dell’artista, come noto, è tema ormai da tempo largamente presente anche nella tradizione narrativa italiana e milanese sulla quale Speraz si innesta, tra «nevrotici» e «genio»: dai tre protagonisti di Amore nell’arte (1869) di Tarchetti ai pittori che si muovono nelle Storielle vane (1876 e 1883) di Camillo Boito, dalla notevole figurazione di Enrico Lanti nella Eva (1873) di Verga a quella di Odda nella Storiella pedante (1877) o di Augusto Cato in Prima morire (1881) di Maria Torriani, al Gualdo in movimento tra letteratura italiana e letteratura francese dei racconti e dei romanzi, e via elencando. 2   Più che la significatività dolente e positiva della The Battle of Life di Dickens – che pure in dintorni cronologici non lontanissimi aveva edizione a Milano in traduzione italiana: una prima volta La battaglia della vita uscì a Milano, da Daelli, nel 1863; una seconda volta, tradotta da Arturo Bortolotti, fu edita, sempre a Milano, da L. Bortolotti e C., 1877 e nuovamente, in seconda edizione, a data 1888 – mi pare che qui l’eco sia verghiana (ma si noti quanto significativa è la trasformazione del ‘per’ la vita verghiano – «ciascuno ... ha avuto la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione...» – nel, dickensiano, appunto, ‘della’ vita); in eπetti la fondamentale prefazione del 19 gennaio 1881 a I Malavoglia enunciava nel suo progetto anche l’ambizione, che doveva avere figura nell’Onorevole Scipioni; si vedano, poi, almeno L’onorevole Ercole Mallardi di Giacosa (1884), La conquista di Roma di Matilde Serao (1885), più avanti L’imperio di De Roberto (1894).

IL MONDO PROLETARIO CONTADINO: UN’ALTALENA DI SENTIMENTI CONTRADDITORI IN TRE DONNE DI BEATRICE SPERAZ (PSEUDONIMO BRUNO SPERANI) Marwa Abdel Moneim Abdel Raouf Mohamed Tantawy 1.

B

runo Sperani è un nome maschile con cui Beatrice Speraz viene conosciuta nella vita pubblica, 1 e nel campo giornalistico, entrando nell’Ottocento in un territorio, già riservato in gran parte agli uomini. Produce un numero notevole di novelle e romanzi su cui prevale il carattere socialista verista e femminista, nell’arco che va da 1881 fino al 1923. Si nutre, da giovane, della sensibilità per l’architettura e l’arte, e trova sfogo nella lettura e nella scrittura ch’è, per lei, amore e passione ma anche esigenza. L’aspetto polemico delle sue scritture, il suo aspetto fisico «un po’ esotico», e il suo pensiero virile 2 attirano l’entusiasmo e l’interesse di alcuni letterati e artisti che la descrivono come una donna sicura di sé, che sa misurarsi non solo con le persone con cui viveva, ma anche con la realtà del suo tempo. Fra le cose interessanti che hanno determinato la scelta speraniana per il mio lavoro, va ricordato, in primo luogo, il senso di soπerenza, d’ansia e tristezza invincibile che l’accompagna per tutta la vita: dalla diversità di razza dei gentori ai vari spostamenti da una città all’altra; dall’attrazione per le immagini della terra dei nonni alla repulsione per il momento di distacco, dalle debolezze, ai pregiudizi e alle contraddizioni. Attiva emancipazionista, Sperani esamina con forme drammatiche e nette gli aspetti negativi cui sono da sempre soggette le donne per un «radicato bisogno d’ordine». Le sue tematiche risultano più connesse alla riflessione sulla fatalità, ispirate dalle sue esperienze personali segnate dal dissidio sorto in seguito allo sradicamento dalla patria d’origine e all’identità nazionale perduta. La mia ricerca nasce, quindi, dalla volontà di gettare una luce chiarificatrice sulla vita speraniana combattiva ed equilibrata, produttiva e cosciente; su questo palcoscenico, per così dire, pieno di sentimenti contradditori. Ciò che contribuisce a creare l’humus della formazione culturale della scrittrice dalmata sono una vasta esperienza e una filosofia acquistate dalla sua partecipazione attiva nel campo politio-sociale e quello letterario. Nel periodo denso di conflitti, di crescita del  



1   È figlia di Marino Pare-Spèrac, uno slavo d’origini modeste, e di Elena Alessandri, istriana appartenente alla vecchia nobiltà provinciale. Nasce a Salona, a sei chilometri da Spalato, già colonia imperiale romana, in Dalmazia il 24 luglio 1839. Perde i genitori in età giovane e passa la prima giovinezza in Istria. La sua notorietà nel campo delle lettere nasce prima come traduttrice dal francese e dal tedesco, poi come collaboratrice assidua ai diversi giornali e periodici. Negli ultimi anni della sua malattia resta a Milano fino alla morte, avvenuta il 2 dicembre 1923. Partecipa a Cronaca Rossa, insieme a Filippo Turati e altri; riguardo alle sue collaborazioni significative si approfondisca I periodici di Milano, Biblioteca e storia, a cura di Franco della Peruta, Milano, Feltrinelli, 1956. 2  Cfr. Ugo Valcarenghi, Rievocazioni, Milano, L’Editrice Italiana, 1932, pp. 24-25; Edda Fonda, Il percorso umano e letterario di Beatrice Speraz in arte Bruno Sperani, «Atti e Memorie della Società istriana di Archeologia e Storia patria», xlviii, 2000, pp. 332-333.

il mondo proletario contadino

407 nazionalismo e di sviluppo delle diverse correnti del femminismo che si colloca fra la fine dell’800 e i primi decenni del ’900, Speraz aπronta le tematiche sociali con parole franche e giudizi netti, restituendo la vita che osserva intorno a sé con verità. Nella sua opera è presentata la campagna lombarda con le abitudini di vita e i modi di pensare delle classi popolari, la dipendenza totale del contadino dal fittavolo, le convenzioni sociali ed i moderni costumi. La scrittrice cerca di mimare, attraverso la sua sobria e sincera scrittura, campioni di realtà piú o meno rappresentativi della stessa; tentare di esorcizzare la realtà nel suo aspetto forse più inquietante e più angoscioso. Tre sono per Speraz le vere piaghe della società: la miseria, l’ozio e l’ignoranza. Per descriverle essa utilizza una tecnica che registra il dettaglio, il frammento di dialogo, la descrizione asciutta, usando la penna come uno stetoscopio: «Allo spuntar del giorno arrivò il fittabile stralunato, ringhioso; e tentò di gettare una parte di colpa sui contadini che non si erano aπrettati a raccogliere il riso melone, già maturo; come se non fosse toccato a lui a dare gli ordini!». 1 La citazione è di Tre donne, oggetto del presente studio, ch’è uno dei libri speraniani che focalizza l’attenzione su quella figura del fittavolo, prepotente proprietario delle terre che suscita l’odio dei contadini nei suoi confronti, rispecchiando quella «rete di capi, sottocapi e garzoni [...] vi sono infine dipendenti fissi addetti a mansioni gerarchiche e braccianti obbligati». 2 La scrittrice presenta un coro d’uomini e donne che costituiscono una società di braccianti e contadini, su una terra colma di famiglie bisognose, amori infelici, povertà e miseria, privazione di ogni cosa più elementare, accettazione della fame e dell’infelicità. La messa in scena implica un confronto fra la classe sfruttatrice e la controparte debole incapace di reagire o organizzarsi.  



2. La scelta dei personaggi femminili che lavorano, nell’opera di Sperani, nasce dalla sua sensibilità per la psicologia femminile e dalla battaglia femminista che conduce per il diritto della donna al lavoro come strumento d’emancipazione, anche nelle carriere tradizionalmente maschili, che richiedono istruzione superiore, e per la parità salariale. Non sono, però, meno importanti il bisogno che lei difende per la donna d’aπermare la propria dignità dentro e fuori la famiglia, di un amore come «dato della realtà psichica femminile»; oltre alla presenza d’«unioni liberamente scelte al di fuori dei condizionamenti del nucleo di origine». 3 Gran parte di questi ideali, allora obiettivi della battaglia delle emancipazioniste della Lega femminile, spicca in Tre donne. Fra i personaggi più positivi del romanzo è Cristina Scaramelli, la giovane proletaria «ardita» che vive in campagna che pecca con don Giorgio Castellani, il giovane curato di Gel, a causa, sembra suggerire Sperani, delle condizioni sociali in cui è costretta a vivere. Descritta come un «bel pezzo» di ragazza, Cristina non è il tipo femminile della martire, soggetta alle convenzioni e ai rispetti sociali, privata della propria identità femminile. Anzi, avendo coscienza di sé, si ribella alla vitaccia che conduce insieme ai suoi compaesani. Sfuggendo ai costumi, si sposa con don Giorgio, l’uomo amato, perché è bisognosa d’aπetto e protezione fisica e intellettuale; infine, emigra in America avviandosi sulla ‘via della libertà’. Essa viola così il destino predeterminato della sua condizione femminile, una condizione di minorità e servitù. Peraltro, la distanza abissale tra la nobiltà e il proletariato si risolve in perfetto silenzio con il matrimonio dei due innamorati, colmando l’abisso tra ‘umili’ e ‘potenti’ e superando l’opposizione delle due classi sociali: «Da due  

1

  Bruno Sperani, Tre Donne, Milano, Libreria Editrice Galli, 1891, p. 171.   Guido Crainz, Padania: il mondo dei braccianti dell’Ottocento alla fuga dalle campagne, Roma, Donzelli, 1994, p. 28. 3   Marinella Colummi Camerino, Donne nell’ingranaggio. La narrativa di Bruno Sperani, in Les femmes-écrivains en Italie (1870-1920): ordres et libertés, études réunies et presentées par Emmanuelle Genevois, Paris, Chroniques ItaliennesUniversité de la Sorbonne Nouvelle, 1994, p. 82. 2

marwa abdel moneim abdel raouf mohamed tantawy 408 giorni Dio mi ha fatto la grazia [...] concedendomi la lucidezza di mente e la sicurezza di spirito di cui avevo bisogno [...] Non tremare, anima mia!». 1 Il tema prevalente del sacrificio nella narrativa speraniana lo incarna la figura di questo curato che, per risollevare la situazione critica della sua carriera e quella della figlia della famiglia Rampoldi, si sacrifica facendo prevalere in sé «l’amore e l’intelligenza contro i pregiudizi e gl’istinti ereditari». 2 Per interi capitoli, Speraz porta avanti questa vicenda familiare con grande commozione e amarezza, e per concluderla fa intervenire la Provvidenza manzoniana, anziché ricorrere alla fine rapida e felice. Questo prete convertito all’amore, è una figura già esistente nel romanzo sentimentale spagnolo con la figura di ‘don Giovanni innamorato’, nella letteratura moderna.  



3. Con il suo spirito provocatorio Sperani si ostina con degli interrogativi a far credere che sia possibile istigare questa classe ignorante, subalterna che contribuirà risolutamente ad una mera rivoluzione, cioè il soggetto storico della rivolta non è ancora organizzato. Qui la scrittrice non indugia in dettagli sulla realtà storica della lotta di classe di fine Ottocento, invece, in La fabbrica sono tratteggiate le prospettive dei movimenti socialisti e le manifestazioni degli operai edilizi nella città milanese in ascesa capitalistica: «I martiri siamo noi... [...] i battistrada, i pionieri; noi, che abbiamo l’obbligo di lavorare, di soπrire, di combattere per quelli che verranno, se non per noi. Questa sarà la nostra gloria». 3 Tuttavia, anche in Tre donne fra contadini e lavoratori serpeggiano voci di scioperi e si sentono discorsi di chiara matrice socialista: «Intorno a lei bisbigliavano sommessamente di fatti inauditi [...] i contadini erano stanchi di soπrire, che si ribellavano, scioperavano, uccidevano!... – Dove?... Quando? – chiedevasi da voci strozzate. / – Poco lontano... / [...] – Nel Mantovano... / – Più in qua... / – Sul Comasco... / – ... a Gallarate... / – ... da per tutto.../ Tutti parlavano: – il lavoro languiva». 4 Essa vuol che si pensi al rapporto precapitalistico servo-padrone nella sua forma più classica: si mette l’abito del difensore di quegli ‘umili’. Rievocando il mito borghese dello stato di natura perduto e quello del contadino e dell’operaio poveri, essa li difende accanitamente contro i ricchi padroni sprovvisti di carità e pietà. Dietro queste figure appartenenti alle classi subalterne, descritte con attributi di semplicità ed onestà, nei loro sentimenti e vendette, nei desideri e vizi, sta «il patetico sentimento di un antico stato di natura irrimediabilmente perduto». 5 La scrittrice non sta dentro al racconto in qualità di finto personaggio come nel romanzo sentimentale; ma ha l’autorità mediatrice che le viene dal distacco apparente con cui guarda l’opera. Essa non nasconde di manipolarla dall’alto di una consapevolezza globale, creando una finzione di oggettività su una materia programmaticamente volta al problema sociale, intrisa di critica all’ipocrisia, all’egoismo, alla vigliaccheria delle classi egemoni, all’idea del matrimonio come valore sociale; e al bisogno di nutrire un ideale. Animata da una vera coscienza critica d’artista ed uno spirito di ribellione «fustigatrice», vuole fare della sua opera narrativa uno strumento di emancipazione sociale. Obiettivo di questa critica sociale è la società patriarcale in questo lembo di terra fra i più miseri che ha il nome di Val Mis’cia nella pianura lombarda, una società al cui interno spicca il personaggio di Pietro Rampoldi, la figura dell’unico uomo ricco, e fratello maggiore d’una famiglia contadina di condizioni agiate. Egli, avendo un «grosso» po 





1

  Bruno Sperani, Tre donne, cit., pp. 121-122.   Idem, Il romanzo della morte, Sesto San Giovanni, Madella, 1912, p. 211. 3   Idem, La fabbrica, Voci negate, 2, Scrittrici italiane tra ’800 e ’900, a cura di Antonia Arslan, Lecco, Periplo, 1996, p. 4 53.   Idem, Tre Donne, cit., p. 212. 5   Renzo Paris, Il mito del proletariato nel romanzo italiano, Milano, Garzanti, 1977, p. 5. 2

il mondo proletario contadino

409 dere, si ostina a mantenerlo sacrificandosi senza risparmio e costringendo anche la bella moglie Virginia in un lavoro superiore alle sue forze. Allo stesso modo costringe Sandro, suo fratello, per necessità d’avere una lavoratrice a casa, a sposarsi con la brutta figlia di Marco Scaramelli, cioè Maria. Per tutta la storia egli appare un uomo pacifico, ossia come commenta il narratore, «quel minchione di Pietro non s’addava di nulla. O marito ciuco!». 1 Uomo onesto sano e semplice, non poteva sospettare che ci fosse un rapporto tra la moglie e il fratello. È un pover’uomo incapace di accorgersi della furbizia e dell’egoismo della donna, avida di possedere tutta la ricchezza dei due fratelli nelle mani, in modo di «contentare i suoi vizi capitali di contadina: l’avarizia e la gola». 2 Virginia è un tipo del tutto diverso dalle sorelle Scaramelli: essa incarna la proletaria egoista, ma meschina – poiché, sottolinea Sperani – che pensa a farsi la parte più comoda nella vita, a spese di chi le circonda senza «violenza, adoperando i vezzi, le moine, le astuzie». 3 L’intreccio conduce inevitabilmente allo scioglimento tragico: in seguito alla morte della cara moglie (traditrice), Pietro prepara il fucile buono, e con il braccio saldo abbatte il fratello ‘Giuda’ senza lasciargli il tempo di pentirsi o di dire ‘amen’.  





4. Nel percorso della narrazione, troviamo che la vera protagonista del libro è forse Maria Scaramelli, personaggio che non mostra nessuna attitudine alla ribellione, ma socialmente trionfa e si riscatta, alla fine, dalle sue tristezze. Essa simboleggia la donna nata per soπrire in silenzio (orfana di madre e rimasta col padre vecchio ubriacone), dentro il focolare, mai si lamenta con le vicine, lavora a diverse cose a seconda delle stagioni e dei mesi: con la sua caratteristica perspicacia contadinesca «aveva tutto compreso, e tutto sintetizzava, senza studio nè esperienza, nella sua sublime ignoranza, guidata dal solo divino intuito dell’anima femminile. Era una creatura superiore quella povera donna». 4 È il personaggio principale, ma non gioca il ruolo di quell’eroe che vendica i suoi oppressi: anche se appare come una contadina comune e sa i suoi diritti, trionfa con la propria natura innocente ed onesta e sconfigge i nemici dopo molte lunghe traversie. Sempre piena di aπanni e senza mai una luce di speranza, ché alla fine si fa giustizia da sé, rinunciando all’amore oπertole da un nobile medico, e preferendo vivere con i suoi compaesani, in campagna, con i propri ricordi. È una «roccia di fede», e mira diritta alla santità; pur non avendo coscienza di sé, non si sposta un millimetro dalla dignità della sua persona. Il libro mette a tema piuttosto le donne come soggetto storico e, a maggior ragione, tenendo conto dei due generi, degli uomini e delle donne che insieme abitano questa terra e delle relazioni tra di loro che strutturano la divisione del lavoro, la distribuzione delle risorse, i rapporti di potere e le forme stesse di riproduzione e sopravvivenza della specie. Esistono le donne con il loro modo individuale e originale col quale ognuna si è confrontata e scontrata con gli stereotipi o con le condizioni materiali oπerte al proprio genere in una data situazione. Attorno alle tre donne protagoniste, che sono le più consistenti, ruotano molte donne minori ma significativi come la vecchia Nunziata Meroni dal viso scarno e giallo dietro la cui cordialità si accende una passione precisa e personale, cioè l’invidia; la Menica, povera donna, con quella faccia di febbre; e la giovane Giulia che doveva essere il ritratto della salute e della bellezza fisica, morta tragicamente dopo che la macchina, allo stabilimento dove si lavorava la canapa, «l’aveva pigliata per una cocca del grembiale!». 5 C’è da mettere in conto che i proletari speraniani non sono profondamente tristi: pur nelle peggiori situazioni, nel terrore della miseria e nella fame più spietata, la vita  





1

2

3

5

  Bruno Sperani, Tre donne, cit., p. 37. 4   Ibidem.   Ivi, p. 204.

  Ivi, p. 56.   Ivi, p. 3.

marwa abdel moneim abdel raouf mohamed tantawy 410 riprende fiato. Il contadino speraniano è buono, secondo il mito rousseauiano del buon selvaggio: Sandro è «buono, religioso» – sembra suggerire Maria – malgrado il peccato commesso, ché crede fedelmente alla Provvidenza che penserà a riparare i torti: «Dio perdona». Il romanzo si conclude dopo un lungo periodo di malattia di Maria che torna a lavorare nei campi di riso, dopo di che, sentendo che i contadini nelle città vicine si ribellano contro i proprietari terrieri, lei è così presa dallo spirito di rivolta che inizia a cantare «Canto dei lavoratori»: «Su fratelli, su compagne, ⁄ su, venite in fitta schiera; ⁄ sulla libera bandiera ⁄ splende il sol dell’avvenir.» ⁄ «Nelle pene, nell’insulto ⁄ ci stringemmo a mutuo patto; ⁄ la gran causa del riscatto ⁄ niun di noi vorrà tradir». 1  

5. Tre donne è chiaramente un romanzo con un programma politico-sociale: le tre protagoniste hanno in comune la soπerenza. La rappresentazione persuasiva di femmine di lunga soπerenza non è certo per aiutarle ad accettare il loro status subordinato nella società: vergini, mogli, madri o vedove. In questo romanzo di linea realista, la scrittrice rievoca, in modo accorato e commosso, la miseria dei contadini; il simbolo e il centro di questa vita misera dei contadini è la polenta asciutta sera e mattina, la minestra malcondita con un po’ d’olio di linosa e riso bacato. Nel libro si riscontra l’impegno alla documentazione dei costumi e dei drammi di quella gentaccia. L’immagine della miseria non ha, però, «la chiusa tragicità del verismo verghiano». 2 In quella campagna malinconica, dove i contadini aspettano per esperienza l’arrivo di un’annata cattiva che porta via il loro poco raccolto, a√ora «il conscio orrore della troppo lunga ingiustizia. Erano schianti di angoscia, gridi di rivolta, appelli disperati». 3 Non si può fare a meno di notare l’ellissi che si incontra di frequente, nei testi speraniani: nel momento culminante della narrazione, e forte la curiosità di sapere, d’improvviso sulla pagina Speraz apre un buco bianco dove campeggia il non detto. Questo procedimento ha spesso eπetti molto forti di sorpresa e incertezza. Certe «diseguaglianze» di stile, peraltro, si può incontrare, oltre a qualche ‘cedimento’ nella trama o la presenza di personaggi «non rifiniti». Secondo la scrittrice dalmata è necessario «lottare», perciò riesce a costruire storie di grande tensione, giocando sulle reazioni psicologiche di personaggi e di lettori e soprattutto portando al centro del quadro vivo l’angoscia della classe subalterna, e l’indiπerenza d’una società incapace d’interessarsi alla sorte dei deboli: una specie d’analisi sociologica, quindi, d’una situazione di crisi generalizzata. Si può concludere, mettendo in rilievo che tutta la filosofia del libro in esame si riassumerebbe in una frase esclamativa reiterata per tre volte che a Maria sorge spontanea di fronte al suo seduttore: «non so fare a servire: sono troppo contadina!». 4 Le duecentoquindici pagine componenti dell’opera segnano il frutto dell’esperienza di donna e artista di Speraz, tracciando una lunga e paziente ricerca nella vita sociale, oltre a «un delicato gentile amoroso sentimento» della nostra esistenza comune. In questo grumo di contraddizioni degli stati d’animo, fra l’idillio, la passione e il ragionamento; la convinzione dell’inevitabile, il cuore che cede e il fato che trascina, l’inesauribile vena ingegnosa di questa scrittrice strappalacrime abilmente si rivela e risplende. E l’immagine storico-artistica che il lettore crea in mente leggendo i libri speraniani è veridica e profonda: ogni creatura che descrive la scrittrice, si muove senza sosta nell’universo narrato, nel suo contesto familiare e palpita di vita e di desiderio, d’amore o d’odio, di gioia o di dolore, di magnanimità o d’invidia.  





1

  Ivi, p. 214.   Patrizia Zambon, Il filo del racconto. Studi di letteratura in prosa dell’Otto/Novecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, p. 98. 3 4   Bruno Sperani, Tre donne, cit., p. 88.   Ivi, p. 204. 2

GLI STUDI DANTESCHI DI SERAFINO RAFFAELE MINICH Cecilia Giordano

M

atematico, letterato, Rettore, Deputato e ingegnere idraulico, 1 Serafino Raπaele Minich nacque a Venezia l’8 novembre 1808 da una famiglia di commercianti dalmati. Fu autore di più di un centinaio di pubblicazioni scientifiche riguardanti principalmente l’analisi, la geometria diπerenziale e la meccanica razionale. Ricoprì incarichi prestigiosi presso numerose accademie e società scientifiche quali l’Accademia dei Lincei, l’Accademia Nazionale delle Scienze, l’Accademia Galileiana delle Scienze, delle Lettere e delle Arti, senza dimenticare la carica di Magnifico Rettore dell’Università di Padova. Morì a Padova il 29 maggio 1883, a 74 anni. Accanto agli studi scientifici di Minich brillano, seppur sottovalutati, anche quelli letterari ai quali il matematico dalmata non ebbe mai intenzione di rinunciare. Sotto la guida del professor Giovanni Bellomo presso il Liceo di Santa Caterina, apprende l’insegnamento delle lingue classiche e pone le basi per la sua solida erudizione scientifica e letteraria congiungendo un’ampia e profonda cultura della letteratura italiana a una conoscenza della lingua e della letteratura latina che a√ancheranno i suoi studi matematici per tutta la vita. La sua passione per le lettere forse gli servì per svincolarsi in parte dalla rigidità del solo ambito scientifico pur riuscendo a conservare anche negli studi letterari quella nota originale di metodo caratteristica di ogni suo lavoro scientifico. Nel corso della sua esistenza vissuta interamente «nello studio e per lo studio» 2 Minich si dedicò alla stesura di alcuni componimenti poetici in latino, italiano e in dialetto veneziano; la maggior parte dei suoi lavori fu pubblicata, ma un buon numero venne lasciato inedito senza riuscire a esaurire quella insoddisfazione che lo portava continuamente a dolersi «per non aver fatto di più». 3 Minich dedicò a Dante il maggior numero dei suoi scritti umanistici. Nel poeta fiorentino tutto lo attrae: ammirando in lui il genio che gli permise di unire in un nodo indissolubile la poesia con la scienza, Minich ne indaga in modo approfondito le dottrine astronomiche, 4 si addentra in disquisizioni riguardo il cognome dell’Alighieri, 5 gli amori della sua vita 6 (difendendo la fama del poeta dall’accusa «di profani e volgari amori» 7 – mossagli in primis da Boccaccio – ed esaltandone i nobili sentimenti che avevano condotto l’animo di Dante a portare con sé sì amore, ma per «i più nobili oggetti») 8 e la  















1   Per la biografia di Minich si faccia riferimento ad Antonio Favaro, Commemorazione di Serafino Raπaele Minich (1808-1883) in Michela Marangoni, Commemorazioni dei soci eπettivi 1843-2010, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2011, pp. 464-502. 2 3   Antonio Favaro, Commemorazione, cit., p. 488.   Ibidem. 4   Sulla sintesi della Divina Commedia e sulla interpretazione del primo canto secondo la ragione dell’intero poema, Considerazioni del professore Serafino Raπaele Minich, Padova, Co’ tipi di Angelo Sicca, 1854. 5   Serafino Raffaele Minich, Il cognome di Dante Alighieri, Memoria, Padova, G. B. Randi, 1865. In questo studio Minich riprende e approfondisce i passi in cui Dante stesso fa riferimento all’origine del proprio cognome nel Paradiso xv, con qualche accenno anche al racconto di Boccaccio. 6   Serafino Raffaele Minich, Degli amori di Dante, veri e supposti, Discorso, Padova, Premiata Tipografia F. Sacchetto, 1871. 7 8   Ivi, p. 7.   Ivi, p. 33.

cecilia giordano 412 vicenda dell’esilio, 1 a√ancando inoltre un lavoro filologico di interpretazione sui versi più complessi e rimanendo sedotto in particolare dalla figura di Matelda 2 che tenta di riscattare elogiandone i nobili sentimenti. In quest’ultimo studio Minich tratta dell’allegoria di una tra le più enigmatiche figure del poema dantesco – soπermandosi anche su alcune congetture che riguardano il significato letterale – giungendo a smentire le ragioni che avevano portato i maggiori commentatori a vederne rappresentata la ‘vita attiva’, quando invece, a parer suo, non solo non rappresenterebbe alcun personaggio storico realmente esistito, ma costituirebbe una ra√gurazione allegorica dell’‘innocenza’ della vita, mettendo così a freno una fitta rete di divergenti opinioni tra eruditi a lui contemporanei o più antichi. Minich, infatti, ammettendo una reale di√coltà a penetrare il pensiero di Dante per «profondità dei concetti e severità della forma», 3 basa il proprio lavoro da una parte sulla logicità razionale degli stessi concetti, quindi sul loro significato preciso, analizzando le modalità con cui essi vengono espressi nella frase, dall’altra «colla guida di storici documenti» 4 su uno studio e un confronto di alcuni dei maggiori commentatori, da Benvenuto da Imola a Francesco da Buti, da Boccaccio al Landino, dal Witte al Vellutello a Ludwig Gottfried Blanc fino ad arrivare al Torricelli e al Rossetti. L’obiettivo del matematico dalmata è quello di gettare nuova luce sui passi del poema meno compresi, di fronte ai quali non disdegna di aggiungere una ricca serie di proprie interpretazioni e congetture soprattutto sui versi con maggiori valenze simboliche, oppure oscurati da un velo di incertezza ancora non chiarito dalla critica. Nello studio della Divina Commedia Minich però rimane pur sempre un matematico, guidato da un raziocinio che mira a scovare le leggi di una scienza esatta, cercando dunque di sviscerarne la sintesi dopo un attento e ampio lavoro di indagine sulla vita del poeta. Proprio questa nota originale di metodo e di indirizzo caratterizza ogni suo lavoro letterario procedendo (sia che tenti un riordinamento del Canzoniere o che lavori per una nuova edizione della Gerusalemme liberata o ancora che cerchi di arrivare a una ‘sintesi’ della Commedia) con un metodo secondo il quale lo studio delle opere degli autori riceve nuova luce dallo studio della loro vita: per Minich tra la vita e le produzioni dell’ingegno di uno scrittore esiste sempre un nodo indissolubile e un intimo rapporto. Questa caratteristica risulta particolarmente chiara ed evidente nel discorso Delle relazioni tra la vita d’esilio di Dante e la composizione del Sacro Poema che Minich lesse nel maggio 1865 all’Istituto veneto di Scienze e Arti di Venezia, «un breve saggio di un lungo lavoro di interpretazione del sacro poema», 5 in cui viene investigato lo stretto rapporto tra la composizione del poema e le vicende dell’esilio; in quest’ottica la Divina Commedia non risulterebbe solamente opera dell’ingegno del grande poeta, ma soprattutto frutto della forza d’animo che Dante oppose all’ingiusta condanna e alle sventure della sua vita, mentre la secolare ovazione da parte dei lettori non rappresenterebbe unicamente un omaggio alla sua fama ma anche una sorta di risarcimento e riconoscenza al suo genio. Per Minich lo studio delle correlazioni tra vita e poema di Dante rappresenta un mezzo e√cace e indispensabile per approfondire e chiarire l’interpretazione del sacro poema anche sotto un altro punto di vista: se, come sostiene il matematico, alla produzione della Commedia concorsero quelle stesse sventure che avrebbero invece annichilito il potere della mente di qualsiasi altro scrittore e, dunque, senza l’esilio il poema non sarebbe  









1   Serafino Raffaele Minich, Delle relazioni tra la vita d’esilio di Dante Alighieri e la composizione del sacro poema, Discorso, Venezia, G. Antonelli, 1865. 2   Serafino Raffaele Minich, Sulla Matelda di Dante, Venezia, Segreteria dell’Imperial Regio Istituto, 1862. 3   Ivi, cit., p. 5. 4 5   Serafino Raffaele Minich, Delle relazioni, cit., p. 6.   Ivi, p. 9.

gli studi danteschi di serafino raffaele minich

413 come lo conosciamo noi oggi, dal momento che i concetti e la composizione di questo corrispondono alle vicende della vita di Dante stesso, appare evidente l’intento morale che ha animato il poeta, ovvero la volontà di eternare se stesso, rigenerando la patria e propugnando i principi che reggono l’ordinamento sociale. Inoltre, nella sua vasta produzione, un unico pensiero lo domina e lo ispira: onorare la ‘sventura’, per lui troppo spesso compagna indivisibile del genio (non a caso era solito utilizzare spesso l’appellativo ‘sventurato poeta’ per parlare di Dante). 1 È alla luce di questo modus operandi che vanno intese le produzioni del matematico, con un occhio di riguardo in particolare ad alcuni studi danteschi che ho preso in considerazione e messo in luce in questo mio lavoro e che si distinguono per acume di metodo, sebbene alcuni esiti non siano più condivisibili oggi. 2 In questi lavori Minich esprime le ragioni e i principi che lo hanno guidato a comprendere la ragione del sacro poema, con la consapevolezza di essere giunto a discernerne la sintesi e averne riconosciute l’intima relazione e le piene corrispondenze con i mezzi e il fine. Come emerge dalle pagine dello studio del 1854 intitolato Sulla sintesi della Divina Commedia 3 il matematico studiando il poema sacro cerca di sviscerarne «il primordiale concetto che tutto lo domina» 4 e che tende a quell’altissimo scopo morale che per Minich sta alla base di tutto, studiandone le ragioni e i mezzi sublimi di cui si servì il poeta per «creare armoniosamente la stupenda creazione». 5 L’ammirazione di Minich per Dante nasce dalla piena consapevolezza del messaggio che il fiorentino seppe brillantemente veicolare soprattutto con il sacro poema, ovvero quanto la scienza non possa nuocere alla poesia ma, al contrario, quanto queste vadano congiunte in un nodo indissolubile. È proprio in questo lavoro che lo studio interpretativo di Minich riguardante il senso allegorico di un numero significativo di passi delle tre cantiche (soprattutto a proposito di alcune dottrine astronomiche) raggiunge l’apice, dandogli l’impressione di essere giunto a discernere quella che chiama ‘sintesi’ del poema, grazie al riconoscimento di relazioni e corrispondenze tra le ragioni con i mezzi e il fine dell’opera. Nello specifico, l’obiettivo che il matematico dalmata si propose fu quello di tentare una spiegazione adeguata, uniforme e completa almeno del primo canto dell’Inferno tanto da non lasciare neppure una frase senza una delucidazione del senso dantesco, che corrisponda non solo all’idea del poeta, ma anche sia coerente con i princìpi utilizzati, fino ad arrivare a spiegare le ragioni e l’intento poema in toto. Ancora una volta Minich non esita a ricordare come gli studi degli antichi commentatori si basassero su interpretazioni in senso allegorico e morale, sbagliando a non occuparsi delle relazioni tra la narrazione con le circostanze, il tempo e le vicende della vita di Dante, rendendo così i loro commenti insu√cienti a una completa comprensione dell’opera. Una tesi, questa di Minich, che, almeno a priori, risulta convincente, ma che forse impallidisce di fronte alle di√coltà rappresentate dalla raccolta di tutte le notizie sulla vita del poeta fiorentino e che sicuramente agevolerebbero l’interpretazione del poema, come del resto ammette lo stesso matematico. Di fronte a questo limite Minich, che vedeva nel sacro poema non solo una grande composizione poetica ma soprattutto  









1

  Sulla sintesi della Divina Commedia, cit., p. 5.   Una delle inesattezze che qui riporto a titolo di esempio è costituita da una errata disposizione dei limiti cronologici di composizione del poema sacro che Minich colloca tra il 1302 e il 1321, anticipandone decisamente troppo l’inizio della prima cantica, portando fede al racconto boccacciano sui primi sette canti scritti da Dante ancora a Firenze a ridosso della condanna in esilio. Cfr. Serafino Raffaele Minich, Appendice alle considerazioni sulla sintesi della Divina Commedia ed introduzione ad uno studio analitico delle tre cantiche, Padova, Co’ tipi di Angelo Sicca, 1855. 3   Sulla sintesi della Divina Commedia, cit., p. 5. 4   Antonio Favaro, Commemorazione, cit., p. 475. 5   Sulla sintesi della Divina Commedia, cit., p. 5. 2

cecilia giordano 414 un monumento della scienza contemporanea, aπerma la necessità di un approccio allo studio della scienza degli antichi e del Medioevo per trovare il senso originale della Commedia. Cercando dunque di rimediare alle imperfezioni dei tentativi intrapresi fino ad allora dalla maggior parte dei commentatori e critici danteschi, il lavoro di Minich risulta particolarmente interessante e originale perché parte da un’interpretazione del poema in chiave mistico-morale fino ad arrivare a proporre una vera e propria ‘sintesi’ del poema: quello che il poeta fiorentino tentò fu innanzitutto una riabilitazione morale di sé stesso dovuta a una ingiusta condanna – visibile già in alcuni passi di Inferno i – senza dimenticare di promulgare la giustizia divina ricomponendo la società negli ordini temporali e morali, a√ancando una restaurazione civile – accennata in primis nell’Inferno ii e che si palesa poi in tutto il Purgatorio e in alcuni passi del Paradiso – tenendo costantemente fede a una forza d’animo ineguagliabile che gli consentì di portare a termine, seppure tra stenti, un’opera così mirabile. A solo un anno di distanza, nel 1855, Minich pubblica un’Appendice alle considerazioni sulla sintesi della Divina Commedia, in cui tenta di mettere in atto i princìpi esposti nelle Considerazioni, dimostrando come potessero essere applicati a ogni porzione di testo del poema e costituissero una guida per indagare tutto il pensiero dantesco, andando a costituire una specie di «breve commento analitico della Divina Commedia». 1 Soπermandosi principalmente sulle questioni di cronologia che ancora oggi tormentano gli studiosi del poema dantesco, Minich evidenzia ancora una volta come la maggior parte delle descrizioni e delle immagini che il poeta fiorentino ci presenta alludano alle circostanze e agli eventi della vita di lui stesso, andando ad analizzare il procedimento e lo sviluppo della composizione delle tre cantiche. 2 Convinto che tali princìpi e idee non fossero mai stati congiunti prima di allora in un unico sistema, ne sottolinea la centralità in un commento che, seppure parziale e con alcuni vistosi limiti, permetta al lettore di avvicinarsi in maniera più attenta e critica alla comprensione dell’intero poema. Concentrandosi sui passi più controversi e meno indagati e analizzando canto per canto le allegorie, i significati e soπermandosi soprattutto sui riferimenti all’esilio, alla realtà politica contemporanea fiorentina, alla Chiesa e al potere temporale Minich dà vita a un vero e proprio commento interpretativo tutto incentrato sul senso morale: tra tutti i sensi quello più sottovalutato dai commentatori, responsabili della sua relegazione a puro velo trasparente e impercettibile, a cui viene debitamente restituito la sua fondamentale importanza e quel ruolo cardine a√datogli dallo stesso Alighieri. A questo proposito significative le parole di Minich a commento dei vv. 19-21 di Purgatorio viii: 3 «Così almeno opinavano gli antichi commentatori. Ma i moderni, dopo il Vellutello, costrinsero questi versi ad esprimere un avviso opposto, pensando che se il senso occulto fosse agevole a comprendersi, non sarebbe rimasto ignoto fino al presente. Ora il significato morale di que’ due Canti è veramente agevole a decifrarsi, solo che si badi alla ragione del poema, definita ed intesa nel modo da me proposto». 4  







1

  Serafino Raffaele Minich, Appendice, cit., p. 2.   Minich in questo caso fa espliciti riferimenti agli studi di Giovanni Marchetti, di Carlo Troya, di Brunone Bianchi e di Cesare Balbo. Cfr. Serafino Raffaele Minich, Appendice, cit., pp. 45 e seguenti. 3   «Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, / ché ‘l velo è ora ben tanto sottile, / certo che ‘l trapassar dentro è leggero» (Purg., vii). Minich utilizza questo riferimento, che dice essere un avviso uscito dalla bocca dello stesso Dante, per giustificare il proprio lavoro di interpretazione fatto su Purgatorio vii e viii per svelarne il senso morale «non mai finora additato, e che pur dev’essere agevolmente compreso». 4   Sulla sintesi della Divina Commedia, cit., p. 38. 2

GLI STUDI DANTESCHI DI ADOLFO MUSSAFIA Lilith Meier

N

el 1865, in occasione delle celebrazioni del seicentesimo anniversario della nascita di Dante, il trentenne Adolfo Mussafia, da cinque anni professore di Filologia romanza all’Università di Vienna, commemora il poeta fiorentino di fronte al collegio dei professori della Facoltà di Filosofia e a un migliaio di studenti, nel Salone delle Cerimonie dell’Accademia delle Scienze. Il discorso, intitolato Dante Allighieri e volto a disegnare a grandi linee il ritratto umano e poetico di Dante, verrà in séguito pubblicato, dopo un’ampia revisione, all’interno di una rivista ebdomadaria viennese. 1 L’intento dello studioso spalatino è divulgativo: si rivolge infatti a un pubblico abbastanza ampio, senza dubbio erudito, ma non di soli specialisti. Parallelamente manda alle stampe un volume dalla più specifica destinazione e dal maggiore impegno, dedicato ai manoscritti della Divina Commedia conservati a Vienna e a Stoccarda. 2 L’incisiva abilità dell’autore nel tratteggiare nel profilo biografico i punti focali della vita e dell’opera di Dante, rivelandone con entusiasmo la grande suggestione, e l’acutezza e la modernità delle riflessioni a√date al secondo studio citato, colpiscono in misura ancor maggiore se valutati alla luce della storia personale e culturale del Mussafia, che, come alcuni ebbero a notare, ha un che di romanzesco. 3 Le vette eccelse raggiunte nel campo della neonata Filologia romanza e in una sterminata produzione che guarda da diverse angolazioni all’intero universo neolatino 4 – tanto da fargli guadagnare gli appellativi di «primo filologo italiano nel senso moderno del termine, e, con l’Ascoli, anche il nostro primo linguista», 5 e di «iniziatore degli studi di sintassi storica» 6 – furono risultato d’una formazione del tutto autodidatta. Oppure, con le parole di Lorenzo Renzi, «si può dire che egli fu l’allievo d’un libro», 7 della Grammatik der romanischen Sprachen del Diez, punto di partenza e imprescindibile termine di paragone di tutti gli studi di Mussafia nel campo della lingua e della letteratura. A partire dal 1860 lo studioso spalatino ottenne una cattedra straordinaria di Filologia romanza a Vienna; e la Filologia fu per tutta la sua vita l’interesse primario, per quanto accompagnato da numerose e interessanti incursioni in altri campi. Notevole ad esempio l’impegno giovanile nella comparatistica: per il centenario dantesco aveva ipotizzato uno «studio su Dante e il Medio Evo; in cui si raccogliessero tutte le traccie di tradizioni medievali che vi sono nella commedia. […] Raccogliere più che si possano passi provenzali, francesi, spagnuoli e mettervi di fronte una traduzione». 8 E non si dimentichi che, oltral 















1   Adolfo Mussafia, Dante Allighieri, «Österreichische Wochenschrift für Kunst und öπentliches Leben», v, 1865, pp. 577-584, 614-621, 646-655. 2   Adolfo Mussafia, I codici della Divina Commedia che si conservano alla Biblioteca imperiale di Vienna ed alla Reale di Stoccarda, «Sitzungsberichte der Philosophisch-historischen Classe der Kaiserlichen Akademie der Wissenschaften», xlix, 1865, pp. 141-212. Cfr. il contributo di Donato Pirovano in questi stessi Atti. 3  Cfr. Elise Richter, Adolf Mussafia. Zur 25. Wiederkehr seines Todestages, «Zeitschrift für französische Sprache und Literatur», lv, 1932, pp. 168-193 e Lorenzo Renzi, Adolfo Mussafia. A sessant’anni dalla morte, «Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», cxxiii, 1964-1965, pp. 369-403. 4   La bibliografia completa si può trovare in Adolfo Mussafia, Scritti di filologia e linguistica, a cura di Antonio Daniele e Lorenzo Renzi, Padova, Antenore, 1983, pp. xxvii-lxxxviii. 5   Lorenzo Renzi, Adolfo Mussafia, cit., p. 369. 6   Gianfranco Folena, Ernesto Giacomo Parodi (nel centenario della nascita), «Lettere italiane», xiv, 1962, pp. 3957 420, a p. 400.   Lorenzo Renzi, Adolfo Mussafia, cit., p. 392. 8  Lettera xxii del 6 Dicembre 1864 al D’Ancona.

lilith meier 416 pe, il nome di Mussafia è legato in primo luogo alla Italienische Sprachlehre, grammatica italiana che conobbe un successo enorme, tanto da essere riedita ben ventisei volte tra 1860 e il 1900. Eppure, sottolinea il Meyer-Lübke, «Mussafia war nicht Sprachforscher, er war Philologe»; 1 ciò in cui si distinse fu la solerte e tenace pazienza nel vagliare, con matematica meticolosità («Filigranarbeit», la definisce il Meyer-Lübke) ed evitando congetture arbitrarie, interminabili elenchi di codici e lezioni, discutendo con occhio acuto e ponderato proposte di lezioni e correzioni. Ancora per l’anniversario dantesco, scherzosamente si dipinge così a Paul Meyer, riprendendo compiaciuto un epiteto datogli dallo studioso parigino, «homme aux petits faits»:  

Io sono ora tutto Dante; all’Università, in un piccolo cerchio privato, a casa sempre Dante. E perché io senza collazionare manoscritti e raccogliere varianti, io uomo dei petits faits non so vivere, fo uno studio sui due manoscritti Viennese e di Stoccarda, e lo publicherò per il Giubileo. 2  

Questa attenzione tutta filologica per i «petits faits», per le questioni più minute e particolari, emerge anche da uno studio specificatamente generico quale il profilo biografico Dante Allighieri. L’articolo, suddiviso al suo interno in cinque sezioni, si apre con una breve trattazione volta a inserire la biografia dantesca nel panorama letterario e politico italiano; le origini della nostra letteratura e l’inquieta situazione politica della Firenze di quegli anni vengono ripercorse nell’elegante e incisiva prosa tedesca del Mussafia, che ci dà – qui e in tutto l’articolo – ulteriore conferma di una felice capacità di sintesi. Il quadro prospettato dall’autore è, per quanto generico, molto preciso e continuamente farcito da giudizi personali; al suo interno spiccano pause di riflessione più profonda, corredate ora da secchi giudizi morali, ora da chiarimenti storici più approfonditi. Così, dopo una rapida panoramica sull’infanzia di Dante e sulla sua formazione, il Mussafia si dilunga sul primo incontro con Beatrice e sulla Vita Nuova, descrivendo con grande espressività le reazioni fisiche ed emotive di Dante di fronte all’amata; ciò che in particolare importa all’autore spalatino – ed ecco i «petits faits» – è rendere con esattezza la natura di questo sentimento, nel quale l’elemento spirituale è senza dubbio predominante, ma non annichilisce la componente più concreta e terrena. Si entusiasma di fronte all’abilità di Dante – in cui «der Dichter und der Philosoph waren so innig verbunden» 3 – nel coniugare armonicamente allegoria e realtà, e ammonisce chi, di fronte a un così ingegnoso apparato speculativo, giunge a considerare tutta la Vita Nuova fredda allegoria. Al contrario:  

Die Lyrik Dante’s übt einen eigenen Zauber durch ihr ernstes, man möchte sagen feierliches Gepräge aus; man hört die Stimme der wahren, tiefen glühenden Leidenschaft, man fühlt das Schlagen des jungen Herzens, welches sich zum erstes Mal der Liebe erschliesst, und doch drückt sich dieses Gefühl in so erhabener Art aus, die Wirkungen, die es hervorbringt, sind so ungewöhnlich, dass man sich wie in eine fremde Region versetzt fühlt. 4  

Così anche, nel ricordare i duri rimproveri di Beatrice a Dante nella Divina Commedia, ne sottolinea i toni da «donna ferita, profondamente addolorata dal sapere che lui avrebbe potuto esserle infedele… proprio lui che le aveva dedicato l’intera vita!». 5  

1   «Mussafia non era un linguista, era un filologo». Wilhelm Meyer-Lübke, Necrolog von A. Mussafia, «Almanach der k. Akademie der Wissenschaft», lvi, 1906, pp. 329-335, cit., pp. 333-334. 2   Lettera a Paul Meyer s.d., ma del 1864 da Vienna. 3   «Der Dichter und der Philosoph waren in ihm so innig verbunden» (Il poeta e il filosofo erano in lui così profondamente collegati). Adolfo Mussafia, Dante Allighieri, cit., p. 618. 4   Ivi, p. 581: «La poesia di Dante esercita il suo particolare fascino attraverso uno stile austero e, potremmo dire, solenne; si avverte in essa la voce della passione vera, profonda, incandescente. Si sente il battito di un giovane cuore, che per la prima volta si apre all’amore; ma tuttavia questo profondo sentimento si esprime in modo talmente nobile, e gli eπetti che provoca sono così inconsueti, che ci si sente quasi trasportati in un mondo sconosciuto e 5 straniero».   Ivi, p. 650.

gli studi danteschi di adolfo mussafia

417 Prima di dedicarsi diπusamente alla Commedia, il Mussafia ricorda le cause che portarono all’esilio di Dante e le peregrinazioni del poeta; ne loda con infuocata retorica il fervore morale, si soπerma a esporre la teoria dei due soli, e passa brevemente in rassegna Convivio, Monarchia e De Vulgari Eloquentia. L’ultima sezione dello studio rende evidente quanto, nel progetto del Mussafia, tutte le informazioni precedenti fossero tessere di un unico mosaico, propedeutiche a una maggiore comprensione della Commedia, espressione massima dell’universo culturale e ideale dantesco. Lo studioso dalmata riassume il fascino della poesia di Dante in modo molto suggestivo: Wie jene wunderbaren Denkmale der Baukunst, welche die Kühnheit des Mittelalters ersann, mit den Tausenden von Standbildern, die sie füllen, eben so mächtig wirkt auf uns die Göttliche Komödie mit ihrem nach strengem Masse geordneten Baue, mit jener Fülle von charakteristisch gezeichneten Gestalten, welche sie beleben. 1  

Edificio del quale il Mussafia scandaglia alcuni minuti e intriganti dettagli, nella convinzione che «la concezione fondamentale della Divina Commedia percorre come un filo rosso tutta la sua poesia, e si fa riconoscere tanto nel complesso quanto in tratti minuti e quasi impercettibili». 2 E dunque, ne deduce che il veltro – del quale ricorda ironicamente le interpretazioni più disparate – non possa che essere simbolo dell’imperatore tanto atteso. Riprendendo un altro grande dantista tedesco, Wegele, ricorda la preoccupazione di Dante sul non esser degno di intraprendere il cammino tra i regni ultraterreni, espressa non a caso con le parole «Io non Enea, io non Paulo sono» (Inf., ii 32), a ricordare le due tematiche basilari della Commedia, la politica e la fede, la vita terrena e la vita eterna. Insiste a lungo sulla profonda e autentica religiosità di Dante, che non può tacere di fronte alla decadenza dei costumi del clero e del papato, ma che sa comunque mantenere il dovuto rispetto, evitando parole troppo dure nei confronti di Nicola III, inginocchiandosi di fronte ad Adriano V, compatendo Bonifacio VIII. 3 Mussafia tenta inoltre di comunicare al proprio uditorio il profondo realismo della Commedia, che consente al lettore di immergersi a fondo nella poesia dantesca, con spirito di intensa partecipazione, poiché «dappertutto vi è il sentire e l’agire di uomini come noi», cosicché «non solo chi ne comprende il pensiero, ma anche chi rimane all’oscuro del significato più profondo, trova in questa poesia una fonte perpetua di enorme godimento, di nobili sentimenti e di incredibili dottrine». 4 E ricorda: «quando la filosofia, nel Paradiso terrestre, ha terminato il suo compito e deve lasciare a un essere superiore la guida di Dante, il poeta sa descrivere in modo incredibilmente commovente la tristezza per la perdita dell’amico. Torrenti di lacrime si versano sulle sue guance, e persino il lettore più impassibile, ripetendosi che si tratta solo della filosofia che lascia il posto alla teologia, non potrà non commuoversi di fronte alla forza e alla spontaneità del sentimento». 5 L’articolo termina con un accenno al successo enorme della Commedia fin dai primi anni successivi alla sua pubblicazione, e con l’immagine del Boccaccio che il 23 ottobre 1373, già piegato dalla malattia, sale sul pulpito della chiesa di S. Stefano di Firenze per  







1   Ivi, p. 649: «Così come quello delle straordinarie opere architettoniche concepite dall’audacia medievale, arricchite da centinaia di statue, altrettanto potente è l’eπetto che ha su di noi la Divina Commedia, con la sua costruzione ordinata secondo severi criteri, con la sua incredibile quantità di figure disegnate in modo così caratteristico, da 2 renderla viva».   Ivi, p. 648. 3   Mussafia nacque in una famiglia sefardita, e il padre era rabbino della comunità locale, nonché autore di alcuni testi di teologia ebraica. Alla morte del padre, decise di convertirsi al cattolicesimo, mutando il suo nome da Abraham ad Adolfo. 4 5   Adolfo Mussafia, Dante Allighieri, cit., p. 649.   Ivi, p. 650.

lilith meier 418 illustrare di fronte al popolo la Divina Commedia, quando tante delle faide narrate da Dante non si erano ancora sopite, e dunque l’opera poteva ancor di più scuotere nel profondo un uditorio così prossimo alle vicende narrate. Per Lorenzo Renzi, la sporadica attività del Mussafia nella critica letteraria si è sempre mantenuta nei «limiti di una diligente mediocrità». Lo studioso liquida ad esempio come «insopportabilmente moralistica» 1 l’opera dedicata al De genealogia deorum del Boccaccio, Difesa d’un illustre. Entrambi i giudizi sono a mio parere trasferibili, anche se attenuati, al profilo Dante Allighieri; l’enfasi retorica domina lo scritto, tanto da raggiungere pagine davvero notevoli di prosa di fin de siècle, ma pochi sono i dati concreti. Nonostante ciò, non si può negare l’abilità comunicativa dello stile del Mussafia, capace di trasmettere a un uditorio composto per lo più, come si è detto, da non specialisti, il senso umano, poetico e morale della poesia dantesca, e in particolar modo della Commedia, rivelandone il grande fascino. E le reazioni dell’uditorio – di cui Mussafia racconta, compiaciuto e vanitoso, all’amico Paul Meyer – paiono confermare la carica emotiva del discorso:  

C’era un concorso di circa mille studenti nell’Aula Magna, ed il discorso da me tenuto in tedesco fu ascoltato con la massima attenzione, sebbene durasse cinque quarti d’ora; ed alla fine tutta l’assemblea irruppe, per dirla collo stile dei giornali, in fragorosi applausi. 2  

È interessante valutare l’intento divulgativo del profilo biografico Dante Allighieri nell’àmbito del più vasto progetto culturale del Mussafia. Lo studioso dalmata spese, insieme ad altri grandi dantisti tedeschi della sua generazione, notevoli energie alla diπusione del culto di Dante in terra germanica; fu uno dei promotori, insieme al Witte e al Wegele, della nascita della Deutsche Dante-Gesellschaft nel 1865, della quale il principe Giovanni di Sassonia assunse il protettorato. Il clima era senza dubbio promettente per gli studi danteschi: ne è dimostrazione che per i lavori pubblicati in occasione del centenario, il Mussafia ricevette dall’Imperatore la prestigiosa goldene Medaille für Kunst und Wissenschaft, prima d’una fitta serie di onorificenze di cui lo studioso poté fregiarsi nel corso della sua carriera accademica. In quell’età aurea degli studi di linguistica e di filologia che fu l’Ottocento, le due neonate discipline, ancora alla ricerca di aπermazioni e approvazioni per assurgere al ramo di scienze universalmente riconosciute, sorgono grazie alle fatiche e ai continui scambi culturali di un manipolo di cultori e propugnatori sparpagliati in tutta Europa, e in particolar modo tra Germania, Francia e Italia. Una generazione di studiosi cresciuti con il romanticismo del Diez, animati dalla fede positivista nella scienza, «a quei tempi inseparabile da un modo di sentire e d’agire cosmopolitico e sovranazionale», 3 di cui è aπascinante cogliere tra le pagine dei fittissimi epistolari l’entusiasmo e l’intensa collaborazione. Il Mussafia cresce in un clima decisamente interculturale: italiano d’Austria, aveva appreso nella casa paterna il giudeo spagnolo e il veneziano, durante il Ginnasio l’italiano, il latino e il croato, a Vienna il tedesco e fondamenti di rumeno e di francese. Apertura culturale che si accompagna, senza alcuna contraddizione, a un forte senso d’appartenenza alla Dalmazia. Pur avendo vissuto quasi tutta la sua vita lontano da Spalato, rimase profondamente legato alla sua terra natia, di cui fece conoscere le glorie letterarie in lingua italiana nel volume Dalmatien. 4  



1

  Lorenzo Renzi, Adolfo Mussafia, cit., pp. 383-384.   Lettera a Paul Meyer, da Hietzing, 25 maggio 1865. 3   Lorenzo Renzi, Dall’epistolario di A.M. con Gaston Paris e Paul Meyer, «Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», cxxv, 1966-1967, pp. 75-88, cit., p. 76. 4   Adolfo Mussafia, Italienische Literatur Dalmatiens in Die Österreichisch -Ungarische Monarchie in Wort und Bild, x, 1891, Vienna, pp. 152-170. 2

gli studi danteschi di adolfo mussafia

419 Nel 1855, nella sua prima – e precoce – pubblicazione scientifica, la risposta a un quesito grammaticale proposto da Giovan Battista Bolza sulla «Rivista ginnasiale», 1 spicca il moto d’aπetto del giovane Mussafia per la sua città natale:  

Io, che la piccola città che mi vide nascere amo d’aπetto, immagino Roma antichissima, ricca de’ monumenti di una gloria di secoli, e la magnificenza sua e de’ suoi tempi riproduco e ripeto nella mia mente, e mi formo l’idea di Roma ben dieci volte, e mi esprimo: “Ho più cara Spalato mia che non dieci Rome”. 2  

E a chi lo chiamava tedesco, rispondeva d’essere italo dalmata, sottolineando l’altrettanto forte legame con l’Italia; e fu per lui un’enorme delusione non riuscire a ottenere, nonostante i numerosi tentativi, una cattedra in Italia. A Firenze finì la sua vita, il 7 giugno 1905, ucciso dalla malattia dei nervi che lo aveva a∫itto fin da giovane età, causandogli la perdita di un occhio e rendendogli di√cile negli ultimi anni dedicarsi agli amati studi. Pur lavorando sempre a Vienna, scrisse una buona metà dei suoi lavori in italiano; nominato membro della Herrenhaus, il Senato austriaco, combatté senza risultato per l’istituzione di una Università italiana a Trieste. La delusione per l’insuccesso lo spinge a sfogarsi con le amiche Richter con parole davvero illuminanti: Non crediate che io sia giammai per dimenticare quello che debbo alla Germania. Tutte le mie forze le spesi col proposito di riavvicinare la scienza tedesca e quella dei popoli latini, massime dell’italiano: io non ho mai considerato le due nazioni sorelle come due campi nemici. 3  

Dai numerosissimi carteggi del Mussafia con studiosi italiani 4 emerge con evidenza il desiderio dello studioso dalmata di aggiornare gli amici sulle più recenti conquiste e scoperte fatte oltralpe, di modo da ammodernare quella vecchia erudizione italiana di cui più d’una volta si lamenta, bacchettando e schernendo i «filologi antidiluviani». 5 Comunica le ultime pubblicazioni di rilievo, corregge sviste ed errori, grazie anche a una biblioteca mentale incredibile: «l’abbondanza delle informazioni che il Mussafia riusciva a procurarsi in questo campo, sia con la ricerca personale nell’inesauribile Biblioteca di Corte viennese e nei cataloghi di biblioteche di diversi paesi, sia per mezzo di una rete epistolare in tutto il mondo, ha dello strabiliante. Sono pochi i casi in cui il Mussafia non segnali qualche codice sfuggito all’editore e spesso a tutti gli studiosi». 6 Dunque, il suo vivere a cavallo tra Austria e Italia, lo rende il principale diπusore delle conquiste della più moderna filologia tedesca in Italia, e un grande divulgatore di cultura italiana in Germania: e con l’ideale d’una armoniosa collaborazione tra le due terre, che avrebbe ricevuto nei decenni successivi così tragiche smentite, si chiude anche il profilo Dante Allighieri:  





Weit über die Marken seiner Heimat hinaus erstreckt sich der Einfluss dieses Dichters. […] Mit gerechtenen Stolze kann vorzüglich Deutschland auf seine Leistungen auf dem Gebiete der Dante-Litteratur hinweisen: ist es doch einer der schönsten Vorzüge des deutsche Volkes, dass es auch fremde Grösse und fremdes Verdienst bereitwillig anerkennt und neidlos die Freude fremder Völker 1   Il quesito era: «Qual è la forma plurale dei nomi di città, borghi o villaggi, che nel singolare escono in “o” ed “e”, a cagion d’esempio nelle seguenti proposizioni: non v’ha due Milan, due Firenz, a qual modo che si dice: Non v’ha al mondo due Rome?». La risposta di Mussafia denota una grande maturità, e, nota Lorenzo Renzi, «c’è in questo lavoretto acuto e preciso qualcosa che si troverà più tardi raramente nel Mussafia: il segno di una meditazione ancora aperta sulla natura e sui problemi della lingua» (Lorenzo Renzi, Adolfo Mussafia, cit., p. 371). Infatti «la precoce maturità è un tratto caratteristico dell’attività del Mussafia, che porta del resto con sé la contropartita d’una scarsa o nulla capacità di evoluzione e di autosuperamento» (ivi, p. 374). 2   «Rivista ginnasiale e delle scuole tecniche», ii, 1855, pp. 753-755. 3   Lettera n. 159 del novembre 1904 del carteggio con Elise e Helene Richter. 4   Cfr. in particolare il carteggio col D’Ancona: Carteggio D’Ancona-Mussafia, a cura di Luca Corti, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1978. 5 6  Lettera xviii al D’Ancona del 6 Dicembre 1864.   Lorenzo Renzi, Adolfo Mussafia, cit., p. 383.

420

lilith meier

über ihre bedeutenden Männer theilt. Deutschland zählt eine Reihe tre∫icher Männer, welche Dante und dessen Werke zum Gegenstande allseitiger gründlicher Forschung gemacht haben, und Italien gedenkt mit dankbarem Sinne ihrer Namen. 1  

1   Adolfo Mussafia, Dante Allighieri, cit., p. 655: «L’influenza di questo poeta si estende ben al di là dei confini della sua patria natia. Con giustificato orgoglio, la Germania può richiamare l’attenzione sui suoi risultati nel campo della letteratura dantesca: è d’altronde uno dei più grandi meriti del popolo tedesco riconoscere con piacere la grandezza e i meriti di nazioni straniere, condividendo senza invidia la gioia degli altri popoli per i loro uomini più importanti. La Germania può vantare una fitta schiera di eccellenti studiosi che hanno compiuto su Dante e sulle sue opere ricerche approfondite, e l’Italia commemora con gratitudine i loro nomi».

MACHIAVELLI E BIONDI: DA CESARE BORGIA A RICCARDO III Alessandro Montevecchi

L

a figura di romanziere e di storico di Giovan Francesco Biondi è tra le più note del suo secolo. 1 Laureatosi in diritto a Padova, fu diplomatico veneto in Francia e in Inghilterra ed ebbe rapporti con Paolo Sarpi; 2 divenuto protestante, si stabilì in Inghilterra per molti anni. Più noto come romanziere, scrisse anche una Istoria delle guerre civili d’Inghilterra 3 dove esprime interesse e ammirazione per gli ordinamenti statali e la vita economica di quel paese. La narrazione storica è costantemente accompagnata da valutazioni politiche in cui si sente, almeno in parte, l’eco di Machiavelli o comunque di un pensiero laico di origine rinascimentale, poste accanto a giudizi etici fondati sul provvidenzialismo religioso. 4 Già nell’Introduzione Biondi spiega la scelta dell’argomento aπermando che non bisogna studiare solo il proprio paese o gloriarsi del suo passato, ma volgersi verso le realtà straniere che stanno emergendo. L’accento è quindi posto non sulla devozione umanistica verso un passato glorioso, ma su esperienze nuove ed originali in grado di superare i modelli del passato. Le guerre civili che hanno a lungo tormentato l’Inghilterra da un lato sono state un disastro, ma dall’altro erano inevitabili «perché essendo il mondo qual egli fu, e ch’è per essere infino alla sua consumazione, le mansuetudini non deono riputarsi che virtù individuali», mentre sono inutili nella vita pubblica. In una singola persona la mansuetudine può essere compatibile con la «fortezza», ma non «in una nazione intera» ove sarebbe dannosa, 5 essendo la «piacevolezza» in questo caso non una virtù, ma una forma di debolezza. Già si può osservare la capacità analitica di Biondi nel collegare vicende e considerazioni generali secondo una catena causale e induttiva, non puramente cronologica. Le virtù e i vizi sono valutati non in «termini morali o teologici» ma agli eπetti pratici (Claudio Varese, op. cit., p. 639). Gli stati divisi sono «preda» di chi li assale. Gli «spiriti primi alitarono avidamente la  









1   Nato a Lesina (Hvar) nel 1572, morì ad Aubonne (Svizzera) nel 1644. Cfr. Benedetto Croce, Nuovi saggi sulla Letteratura Italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1931, pp. 31-45; Claudio Varese, Teatro, prosa, poesia, in Storia della Letteratura Italiana, v, Il Seicento, diretta da Emilio Cecchi, Natalino Sapegno, Milano, Garzanti, 1967, pp. 639-647. Il Fantuzzi (Marco Fantuzzi, Meccanismi narrativi del romanzo barocco, Padova, Antenore, 1975) dal canto suo ammette l’«indubbia origine machiavellica» di alcune riflessioni politiche di Biondi (p. 40), ma sembra ridimensionare il valore delle molte osservazioni etiche e politiche sparse nei romanzi (pp. 175, 205, passim). Sui romanzi di Biondi cfr. anche Alberto Asor Rosa, La narrativa italiana del Seicento, in Letteratura Italiana, iii, 2, Torino, Einaudi, 1984, pp. 724-728, 732. Per una completa notizia sul Biondi, cfr.: Gino Benzoni, ad vocem, Dizionario Biografico degli Italiani, x, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1968. 2   Gaetano Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l’Europa, Torino, Einaudi, 1979, p. 116; Giorgio Spini, Ricerca dei libertini, la teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 151-155; Giovanni Getto, Paolo Sarpi, Pisa-Roma, Vallerini, 1941, p. 113. 3   L’Istoria delle guerre civili d’Inghilterra tra le due Case di Lancastro e Iorc. Si descrive in Riccardo II l’origine di esse, il progresso nelle vite dei Re susseguenti, cioè di Arrigo IV, V e VI, d’Odoardo IV e V, di Riccardo III e di Arrigo VII, nel quale finirono. Scritta in tre volumi dal Cavaliere Gio: Francesco Biondi Gentiluomo della Camera privata della Serenissima Maestà della Gran Bretagna, i, Venezia, Pinelli, 1637; ii, ivi, 1641, iii, ivi, 1644. L’opera è dedicata al re Carlo I, datata Londra, 1 luglio 1636. Avvertiamo che l’Introduzione non ha le pp. numerate e che abbiamo modernizzato la grafia per quanto concerne l’uso delle maiuscole e della punteggiatura, rendendo inoltre ç con z. 4   È ciò che osserva giustamente Varese (op. cit., p. 647): «In questa indagine il giudizio politico e quello religioso si distinguono e non si confondono». 5   Si può pensare, per un riferimento al pensiero di Machiavelli, a: Principe, capitoli xv e xvii, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, proemio e libro i, 2 (ma anche Istorie Fiorentine, v, 1), oltre alle tante discussioni cinquecentesche sullo stato misto.

alessandro montevecchi 422 libertà» per cui si ribellarono ai re (i popoli per amore della libertà possono diventare «testerecci e sediziosi»), ma poi hanno accettato un re assoluto. In Inghilterra la monarchia, retta da regole precise, garantisce la sicurezza e il benessere economico anche dei contadini, che negli altri paesi sono miserabili. Il Re ha meno «entrate» forse di altri, ma non deve subire la «rapacità de’ grandi», né sprecare denaro per fortezze, mercenari o spie. I re d’Inghilterra camminano «per l’ecclitica del loro governo, retti da due giusti contrapesi: dall’autorità reale che li rende ubbiditi e dalle leggi, equilibrio adeguato a proporzionare una ben constituita aristodemocratica monarchia». Dalla contrapposizione naturale delle classi sociali nasce la necessaria unità del comando, cosa che non conoscono i sudditi delle monarchie tiranniche. Se la «contrarietà» e i correlativi «contrapesi» sono necessari, tanto sono invece dannosi i disordini che portano gli stati alla rovina. Anche se non si deve aπatto escludere che queste lodi al tipo di reggimento inglese possano essere frutto di adulazione (anzi è noto che Carlo I fu decapitato nel 1649 dopo un violento scontro col Parlamento), non c’è dubbio che il discorso ha una sua coerenza organica, fondandosi su convinzioni generali che l’autore professa anche altrove. Alcune di queste analisi, sia pure sotto lo schermo della finzione narrativa, si trovano anche nei romanzi, particolarmente La Donzella Desterrada, 1 ove un druido aπerma che il mondo «e gli accidenti suoi» sono sempre stati i medesimi, ma qui l’asserzione ha valore essenzialmente religioso, nel senso che la realtà sublunare dipende dagli dei e l’uomo non può padroneggiare la fortuna, così che ogni forma di potere è destinata a compiere il suo ciclo. Il mondo è «una scena», dove i sovrani non possono illudersi di perpetuare il loro potere, essendo solo i personaggi e√meri di una commedia. L’uomo deve farsi guidare dalla coscienza religiosa, ma anche da quella naturale che gli ispira quella ripugnanza per il male che provano anche i bruti. Ma poi il «druido» (che è in realtà un principe) aπerma che le lotte violente devono avere un termine nella monarchia assoluta, in cui trovano un assetto naturale. In contrasto con la visione del mondo come una irrilevante scena di commedia (una storia apparente e insensata, quindi), sta il potere immanente della natura e del Cielo stesso (cioè la serietà e autenticità del processo storico), che esigono la forza ordinatrice della monarchia, così come i pianeti sono dominati dal sole o la famiglia è retta dal padre. Una volta saldamente stabilita, la monarchia può anche evolvere dalla volontà arbitraria del re assoluto verso un «legittimo e necessario magistrato» (pp. 57-63). Alternando in modo non sempre consequenziale motivazioni di ordine mondano ad altre legate alla prospettiva provvidenzialistica, a prova della scarsa tensione dimostrativa che, nel peculiare spazio romanzesco, lascia coesistere concezioni potenzialmente inconciliabili, l’autore arriva comunque alla conclusione, ribadita anche al termine dell’Introduzione, che il popolo deve obbedire al governo, mentre l’unità dello stato è la risultante della dialettica interna. Nel racconto storico della vicenda di Riccardo III, che più ci riguarda (Istoria, libro viii), Biondi comincia col distinguere tra l’aperta violenza del masnadiero, che si impadronisce del potere «con la spada in mano» in un duello leale, e il metodo seguito da Riccardo, che col ricorso esclusivo a «inganni, frodi, crudeltà e tradimenti» ha ridotto la politica ad una sceneggiata perfida e bugiarda, sottraendosi ad una sfida coraggiosa per cui l’«animo» non gli sarebbe mancato, anzi era la sua unica qualità non finta (p. 65). Qui compare quella che è stata definita una delle riflessioni più «curiose» (Benedetto Croce, op. cit., p. 42) e interessanti dell’Istoria:  

Se a chi scrisse il Principe fosse occorso questo soggetto, l’avrebbe preso, lasciando il duca Valentino per idea del suo tiranno. Non che la diπerenza tra di loro fosse grande, ma perché quella che vi fu, fu nel più essenziale. Il Valentino con vizi, se non più esecrabili, più disonesti; Ricardo con più 1

 Cfr. Giovan Francesco Biondi, La Donzella Desterrada, Venezia, Pinelli, 1637.

machiavelli e biondi: da cesare borgia a riccardo iii

423

esecrabili, ma più sicuri. E sì come sopra ogni credenza pessimi entrambo, Ricardo nondimeno con la morte di pochi intimorì gli altri, facendosi re: il Valentino con quelle d’infiniti non seppe conservarsi il principato. E se si dica che Ricardo levò le forze al regno decollando quelli, che facendosene capi potevano contrastarlo, ch’essendo della Casa reale ebbe molti fautori; al Valentino per contrario nimiche provincie, principi e repubbliche: sarà tanto più rimarcabile la prudente malizia dell’uno, che conobbe il suo vantaggio, e l’imprudente temerità dell’altro, che col fondamento delle forze ecclesiastiche sole (terminabili con la morte del papa) imprese ciò che non era riuscibile o, per lo meno, non conservabile per lungo tempo (Istoria, cit., p. 66).

La successiva narrazione della spietata prassi di Riccardo presenta, come ormai sappiamo che è tipico di Biondi, sia elementi tratti dall’antropologia politica rinascimentale, sia giudizi etici negativi che si richiamano ad una concezione religiosa. La condanna morale di Riccardo non sembra qui in contrasto con la precedente critica della «mansuetudine» nella vita pubblica, poiché lo storico intende biasimare un eccesso di violenza e di frode, uno scelus che va oltre le dure necessità della politica, ed è fonte non di un ordine ristabilito sia pure con mezzi estremi, ma di ulteriore disordine. Riccardo è dominato dall’ambizione, che lo induce a disprezzare la sua stessa vita se non consegue il potere: «il superbo all’ambizione pospone ogn’altro interesse e pensiero, quello della vita non eccettuato. I suoi spiriti perciò si stesero tutti in questo, e per arrivarci superò se stesso, fece de’ vizi virtù.» Simula il bene mentre pratica il male ed è «di paragone a niuno che a se stesso», cioè conosce una sola regola morale, quella che egli stesso si dà, senza temere minimamente le «ammonizioni divine», cioè gli interventi provvidenziali per cui erano morti malamente i re di nome Riccardo e i duchi di Gloucester, eventi da non subire per mera superstizione ma neppure da disprezzare (pp. 67-68). Riccardo è dunque un eroe del potere mondano, dotato di grande ingegno rivolto al male. La sua «scala» al potere è tutta una recita in cui ostenta ottime qualità mentre si macchia di una lunga serie di crimini, esposti dallo scrittore attraverso l’assiduo confronto fra il loro valore pragmatico e il giudizio etico. Questa continua tensione fra etica e politica rende sobria la narrazione, che rallenta solo nell’ampia scenografia delle cerimonie di incoronazione. Già era stato voluto dal diavolo il matrimonio adultero di Edoardo IV, che ha provocato «l’ira di Dio» (p. 69). Riccardo, che fa dichiarare bastardi i figli del Re e adultera la sua stessa madre, alla fine viene eletto Re dal Parlamento. Più che essere amato per le sue virtù vuole essere temuto per la sua «possanza» (p. 71), perché regna «in verga di ferro». Mortagli la moglie (non senza sospetti che ne sia lui l’assassino), vuole sposare Elisabetta nonostante sia sua stretta parente e per questo corrompe la regina madre, poiché «chi non cura onore non cura vergogna» (p. 116). Anche il matrimonio ha valore politico e non concerne minimamente la sfera degli aπetti privati, ignota a Riccardo. Prima della battaglia in cui il Re sarà sconfitto e ucciso la vicenda è dominata esclusivamente dai valori militari, in cui egli eccelle. Abbiamo così le due classiche allocuzioni ai soldati di Riccardo e del conte di Richmond. Il Re mette in gioco tutto se stesso, senza limiti (è risoluto a «non uscire della battaglia che vincitore o morto»), secondo una coerente scelta di vita la cui totale dedizione al potere esclude ogni altro valore umano, pubblico o privato. L’allocuzione di Richmond insiste invece, esattamente all’opposto, sulla trasgressione di tutti i valori compiuta dal Re, un «crudele e mostruoso tiranno» di cui occorre sbarazzare il mondo (p. 135). Riccardo cade «valorosamente combattendo […] con la spada in pugno tutta tinta di sangue», da quell’eroe del potere mondano che è, rifiutando il cavallo che avrebbe potuto trarlo in salvo (invece il personaggio di Shakespeare lo chiede disperatamente per andare all’attacco, come è noto). Il canonico bilancio finale della sua vita è diviso tra il riconoscimento delle qualità politiche e militari e il giudizio morale, che però, di fronte alla prospettiva assoluta della dannazione eterna, finisce con l’avvolgere e significare l’intera vicenda. Quello di Riccardo è stato

424

alessandro montevecchi

un confuso miscuglio di virtù. La prudenza nel conoscere i pericoli da non fuggirsi, e la fortezza nel risolversi al morire, per non potere scansarsi […] ebbero gran ragione gli scrittori d’aπermare che guadagnasse più onore in queste due ore morendo, che non ne guadagnò in tutto ‘l tempo, ch’ei visse. Per quello poi che tocca all’eterna salute, è potente il signor Iddio a suscitar dalle pietre figliuoli ad Abramo, ma quando gli piace (pp. 139-141).

Dio è certo onnipotente, la sua parola fu su√ciente a creare il mondo, tuttavia «secondo i nostri umani concetti» possiamo ammettere che gli è, se non più facile, più ordinario «salvare il naturalmente buono che il naturalmente cattivo», la bontà naturale essendo la prima materia di quella possibilità di salvezza, che «ci fu dalla sua misericordia gratuitamente donata». La «regola cristiana» ci induce a non voler giudicare della dannazione di nessuno, però non ci impedisce di dubitarne a proposito di Riccardo: proprio come un albero, che dà buoni frutti, ma anche «vermicolosi e guasti», così l’uomo, creato per la «fruizione della gloria celeste», è sicuramente esposto alla dannazione se è «vermicoloso» per malizia, malafede e ostinazione nel male. Ritornando ora al parallelo fra Riccardo e Cesare Borgia, si osservi che i temi presenti nel testo sono almeno due: anzitutto entrambi i personaggi hanno trasgredito qualsiasi norma di comportamento (morale ma anche naturale, come Biondi ha già opportunamente distinto), che non sia la ricerca del potere, proprio come per l’autore del Principe la stessa salvezza eterna era da rifiutare se comportava la rinuncia alla grandezza e alla dignità mondana. Questo fa di Riccardo e di Cesare due esseri ugualmente tragici, «esecrabili», «pessimi», senza speranza di riscatto o di perdono se non ultraterreno. Ma Biondi non si abbandona troppo allo scandalo morale perché è preso, ed è il secondo tema di questo brano, dal significato politico che le due vicende assumono, in rapporto con due situazioni nazionali profondamente diverse. Il discorso non ha tempo per diπondersi sui particolari delle due personalità, perché la sua finalizzazione è tutta razionale e politica (maiora premunt, insomma); anche il successo dell’uno o l’insuccesso dell’altro sembrano dipendere meno dalla maggiore capacità di Riccardo rispetto a Cesare, quanto piuttosto dalla diversa realtà dei due paesi, lo stato monarchico inglese a confronto con la disgregazione politica e sociale italiana (Biondi ha già accennato alla «rapacità de’ grandi», alla disorganizzazione degli stati che si reggono sui mercenari). Se vi è una cosa addirittura «essenziale» è la radicale diπerenza fra una situazione che consente il successo anche senza grandi stragi e un’altra in cui al massimo sforzo di violenza e di frode, alla trasgressione di tutte le leggi etiche ma anche civili, corrisponde un tragico fallimento. La constatazione si esprime in un parallelismo ben disegnato: Riccardo usò mezzi «esecrabili» come Cesare, ma più «sicuri»; all’inglese bastò uccidere pochi avversari per farsi ubbidire da tutti, mentre Cesare con la strage di «infiniti» non conservò il potere; l’uno usò «prudente malizia», l’altro «imprudente temerità»; Riccardo era della casa reale (cioè apparteneva ad un’istituzione legittima) e poteva contare su molti fautori, Cesare poggiava in modo precario sulle sole forze mortali del papa. Poteva essere sì, come Riccardo, un «soggetto», un’«idea», il personaggio di una scenografia tragica, ma le analogie si arrestano di fronte alla barriera della razionalità politica. Anche se è sempre pericoloso prestare ad un autore idee nostre, moderne, sembra comunque di poter dire che Biondi dimostra di possedere una concezione abbastanza chiara dell’importanza di una stabile struttura statale al cui interno (quasi entro un solido ‘contenitore’) possano anche avvenire grandi sconvolgimenti senza che la struttura ne sia disgregata, tanto che Richmond può rapidamente ristabilirne la continuità etica e legale. Sappiamo già che per Biondi sono inevitabili le lotte politiche di fazione entro uno stato, ma che è anche necessaria la monarchia, e quella inglese può far fronte all’insopprimibile agonismo in cui l’uomo

machiavelli e biondi: da cesare borgia a riccardo iii

425 scarica i suoi peggiori istinti, evitando che le lotte si traducano in disordini distruttivi attraverso un potere monarchico ben equilibrato. Non sembra improprio chiedersi, a questo punto, in che misura il racconto di Biondi abbia un rapporto con quello messo in scena da Shakespeare in due drammi, Enrico VI e Riccardo III. Senza porci la questione estrinseca se Biondi conoscesse o no quelle opere, si può osservare che in entrambi gli autori (pur nella diversità fra il linguaggio razionale della storia e quello tragico, e – ovviamente – si parva licet) gli atti e le scelte del duca di Gloucester e poi re sono concepiti come la manifestazione di una volontà demoniaca, di cui Machiavelli costituisce il termine estremo di riferimento, palese o sottinteso, come mera incarnazione del male, trasgressione sistematica di ogni vincolo morale. Sappiamo che questa era la rappresentazione di Machiavelli (e soprattutto del machiavellismo) che prevaleva nella società inglese dell’età elisabettiana, 1 e che solo pochi erano quelli che conoscevano direttamente le opere del Segretario Fiorentino ed erano in grado di valutarle criticamente. In Enrico VI (parte iii, atto iii, scena ii), l’allora duca di Gloucester ribadisce l’inaccettabilità, per chi si trova nelle sue infelici condizioni fisiche, di un’esistenza che lo inserisca nella normale comunità umana. A lui non resta che la scelta, comunque tragica, fra il potere regio o l’autodistruzione. Dovrà negarsi ogni buon sentimento privato, ogni virtù, ed invece simularli dando «lezioni a quell’assassino di Machiavelli» («set the murd’rous Machiavel to school»). In Riccardo III il duca decide che tradirà tutti e accetta consapevolmente un destino di perdizione, ingannando, tradendo e assassinando i suoi congiunti. Anche qui (Atto v, scena iv) il Re compie prodigi di valore («The King enacts more wonders than a man») e muore combattendo. Di specificamente machiavellico nel Riccardo di Shakespeare può esserci forse l’ostentazione ipocrita di bontà e di religione 2. In conclusione, per fermare alcuni elementi che caratterizzano Biondi nella definizione della vicenda esemplare di Riccardo, possiamo osservare che se, nel parallelo tra Riccardo e il Valentino egli sembra accogliere la diπusa concezione del pensiero machiavelliano come pura negatività etica, in altre parti della sua opera storica (soprattutto nell’Introduzione) egli mostra di possedere una conoscenza (diretta o indiretta) di Machiavelli lontana dallo scandalo morale e assai più critica. Inoltre egli non ha distaccato enfaticamente dalla narrazione storica l’usurpazione compiuta da Riccardo, ma l’ha inserita, con una prosa raziocinante, in un più ampio svolgimento in cui c’è spazio anche per valutazioni politiche, etiche e religiose (può preoccuparsi anche del problema della salvezza dell’anima dell’irriducibile peccatore), e dove a dominare non è la rottura tragica, ma la positiva e infine vincente continuità della monarchia inglese.  



1  Cfr. Mario Praz, Machiavelli in Inghilterra ed altri saggi sui rapporti letterari anglo-italiani, Firenze, Sansoni, 19622, pp. 97-151; vedi anche Giorgio Melchiori, Shakespeare genesi e struttura delle opere, Bari-Roma, Laterza, 20052, particolarmente pp. 307, 540, 596. Procedendo per grandi linee di storia delle idee, nulla vieta di inserire Shakespeare nella cultura rinascimentale, vicino a Machiavelli oltre che ad altri grandi: ad esempio cfr. Benedetto Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari, Laterza, 19615, p. 102; Giorgio Bàrberi Squarotti, La forma tragica del “Principe” e altri saggi sul Machiavelli, Firenze, Olschki, 1966, pp. 279-280; Agnes Heller, L’uomo del Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia, 1977, pp. 314-317; Josef Macek, Machiavelli e il machiavellismo, Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. 126, 197, 2 201.   Mario Praz, op. cit., p. 127.

LE INTEMPERANZE DI UNO STUDENTE. GIOVANNI LOVRICH, BIOGRAFO DI UN MALFATTORE E ORGOGLIOSO TESTIMONE DELLE COMUNITÀ DEL «TRIPLICE CONFINE» Massimiliano Pecora

A

voler riprendere un’importante considerazione di Božidar Jezernik, 1 nei diari di viaggio elaborati per esaminare la complessa realtà della Dalmazia agisce una sorta di errore post-percettivo: l’informazione empirica è condizionata dalle attese del contesto storico-culturale in cui il resoconto odeporico cade. In eπetti, la governabilità dei possedimenti dalmatico-veneziani rappresentò sempre un problema per i provveditori generali chiamati a guidare la di√cile provincia contesa alla dominazione turca e legata agli interessi di una repubblica che, da lì alla conclusione delle sette terribili guerre con l’Impero Ottomano, era destinata a soccombere all’invasione napoleonica. Attraverso gli studi di Larry Wolπ sappiamo quanto fu contraddittoria, nel corso del Settecento, l’impressione del mondo dalmata all’interno di quella veneziana società illuministica che, ancora nel 1774, parlava della minacciosa patria dei morlacchi. 2 In seguito, né gli stereotipi letterari della Dalmatina goldoniana né le osservazioni delle Memorie inutili di Carlo Gozzi migliorarono l’idea di una comunità politico-amministrativa ancora avvertita come ‘esotica’. È in questo stato di cose che, a vent’anni della legge agraria Grimani e dai primi assunti della Histoire naturelle di Georges Louis Leclerc de Buπon, Alberto Fortis, seguendo il corso della Cettina, compie il suo viaggio in Dalmazia per esaminare rilievi, bacini idrografici e per rivelare il grande patrimonio artistico-letterario di un mondo in cui, fin dai tempi dell’Illyricum sacrum di Daniele Farlati, la componente latina si adeguava al processo di ‘venetizzazione’. Per quanto poco disposto ad a√darsi a notizie riportate, lo studioso padovano, desideroso di ottenere la cattedra di Storia naturale, trovava serie di√coltà nell’applicare il metodo empirico ai fenomeni culturali «che richiedevano ripetute osservazioni poiché in gran parte irripetibili in maniera esatta, o irreversibili». 3 Proprio su questo si concentravano le obiezioni di Giovanni Lovrich, vale a dire proprio su quegli elementi che, favorevoli alla nascita del «morlacchismo», segnarono il successo internazionale del Viaggio, subito tradotto in francese e in inglese e poi eletto, u√cialmente e u√ciosamente, a fonte di ispirazione, nell’incipiente romanticismo europeo, della riscoperta della poesia popolare slava. Tuttavia, se «in the unexpected trajectory of Lovrich’s joke about Morlack breasts we can trace the slow evolution of Europe’s cultural centres and its peripheries», 4 domandiamoci perché la ricusazione  







1  Cfr. Božidar Jezernik, Europa selvaggia. I Balcani nello sguardo dei viaggiatori occidentali, prefazione di Drago Jančar, traduzione dall’inglese di Gianna Masoero, Torino, edt, 2010, passim. 2   Cfr. Larry Wolff, Venezia e gli Slavi. La scoperta della Dalmazia nell’età dell’illuminismo, traduzione di Giuliana 3 Scudder, Roma, Il Veltro, 2006, pp. 15-45.   Božidar Jezernik, op. cit., p. 59. 4   Wendy Bracewell, Lovrich’s Joke: Authority, Laughter and Savage Breasts in an 18th-c. Travel Polemic, «Études Balkaniques», 2-3, 2011, pp. 224-249: 249.

le intemperanze di uno studente

427 lovrichiana del Viaggio di Fortis non vada considerata un mero esercizio di dichiarata e «inalterabile ostilità». 1 Di questo giovane studente, morto più che ventenne, conosciamo molto poco e la sua notorietà è a√data alle Osservazioni sopra diversi pezzi del Viaggio in Dalmazia del Signor Abate Alberto Fortis con l’aggiunta della Vita di Socivizca che, apparentemente, sembrano prodursi nei termini di una nazionalistica rivendicazione. Sappiamo che era nativo del «circolo principale» del ‘nuovo acquisto’ della Repubblica di Venezia e che era giunto a Padova per portare avanti i suoi interessi di biologia e di botanica. 2 Possiamo, però, riscontrare altro. Nella decisione di italianizzare il proprio nome e di polemizzare con il suo illustre antagonista, Lovrich, più volte, mostra di voler inquadrare il suo dissenso in seno all’empirismo razionalistico che nutriva le pagine del Viaggio in Dalmazia. 3 In sostanza, quello con Fortis è uno scontro germinato da un diverso modo di interpretare la realtà sociale. Per il più intransigente Lovrich, il mondo morlacco va esaminato attraverso un’analisi autoptica, laddove per Fortis è necessario avvalersi di uno schematismo astratto che non rifugga da generalizzazioni antropologiche. 4 In tal senso la presunta irriverenza imputata allo studente di Signo deve essere rigettata, come mostra la notizia della Serie dei testi di lingua italiana che riqualificava il valore delle Osservazioni. 5 La polemica puntualità dei rilievi lovrichiani, oltre a rappresentare un importante precedente storico per decifrare l’accoglienza dalmata del Viaggio di Fortis, nasconde un dato rilevante. Già all’altezza del 1824, quindi ben prima delle osservazioni di Giuseppe Vedova nella prima edizione delle Efemeridi politiche, letterarie e religiose, leggiamo un resoconto biografico tutt’altro che entusiastico sulla figura dell’abate padovano: «ma il suo carattere ardente, e la sua capricciosa immaginazione non gli permisero giammai di applicarsi alla composizione d’un’opera di lungo lavoro. Passeggiava, per così dire, col suo talento in modo assai rapido, quantunque profondo, sopra diversi oggetti». 6 All’ironico giudizio di valore sul dotto naturalista e sulla sua saggistica fa da contraltare la riabilitazione dell’opera e della figura di Lovrich: «Su tale produzione [Il viaggio in Dalmazia, n. d. a.] si conviene in generale che la fantasia dell’Autore lo ha trascinato un po’ troppo lungi, e che egli ha prestata troppa confidenza a delle autorità sospette. Tale è l’opinione dei Dalmati che viene sostenuta da un’eccellente dissertazione di Giovanni Lovrick [sic]». 7 In ragione di ciò le rampogne del Sermone parenetico di Fortis-Sclamer meritano una smentita. A ben guardare, il punctum dolens del Viaggio in Dalmazia consisteva, secondo il giovane studioso, nel fatto che la descrizione del costume e delle abitudini dei morlacchi era fin  













1

  Larry Wolff, op. cit., p. 356.  Simeone Gliubich, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, prefazione di Niccolò Tommaseo, Lechner, Vienna, 1856, p. 182. 3  Vito Morpurgo, L’originaria cultura morlacca nell’interpretazione di Alberto Fortis e di Giovanni Lovrich, «Studia romanica et anglica zagrabiensia», 33-36, 1972-1973, pp. 841-847, p. 842. 4   A mo’ di esempio, consideriamo che Alberto Fortis non esitava a equiparare i costumi morlacchi a quelli degli ottentotti. Cfr. Alberto Fortis, Viaggio in Dalmazia, i, Venezia, Alvise Milocco, 1774, pp. 52-56. 5   Il luogo di composizione delle Osservazioni è apertamente dichiarato da Giovanni Lovrich. A questo proposito, cfr. Giovanni Lovrich, Osservazioni di Giovanni Lovrich sopra diversi pezzi del Viaggio in Dalmazia del Signor Abate Alberto Fortis con l’aggiunta della Vita di Socivizca, Venezia, Francesco Sansoni, 1776, pp. 45-46. Per quanto attiene alla rivalutazione letteraria italiana di Lovrich, vale considerare l’edizione ampliata della Serie dei testi di lingua italiana e di altri esemplari del ben scrivere. Cfr. Giuseppe Vedova, Alberto Fortis, in Serie dei testi di lingua e di altre opere importanti nella italiana letteratura scritte dal secolo xiv al xix, a cura di Bartolommeo Gamba da Bassano, Venezia, Tipi del Gondoliere, 1839, p. 688. In realtà il giudizio sembra una perfetta traduzione di quanto già aveva scritto Charles Nodier che, per quanto non esente da mistificazioni letterarie aπerenti alla poesia serbo-croata e dalmata, aveva seguito pedissequamente il trattato fortisiano nei suoi articoli per il «Telegraphes» del 1813. Cfr. Charles Nodier, Melanges de Litterature et de critique, ii, Paris, Raimond Libraire, 1820, p. 4. Inoltre su una possibile fortuna letteraria di Lovrich in terra francese, sebbene la cosa vada ancora indagata, cfr. Maria Rita Leto, La “Fortuna” in Italia della poesia popolare serbocroata dal Fortis al Tommaseo, «Europa orientalis», xi, 1, 1992, pp. 109-150, pp. 125-126. 6   Eπemeridi politiche, letterarie e religiose, Prima edizione italiana, Verona, Società tipografica editrice, 1819-1825, p. 171. 7   Ivi, p. 172. 2

massimiliano pecora 428 troppo condizionata dal rousseauiano mito del ‘buon selvaggio’. Nel 1776, allorquando appaiono le Osservazioni, Lovrich, cresciuto all’interno di una cultura che aveva assimilato – e non certamente introiettato – importanti valori morlacchi, biasima i risultati di un’indagine ottenuta più per vie deduttive che per constatazioni dirette. Di sicuro, troppo severo è il giudizio che lo studente dalmata muove intorno alle incapacità traduttive del naturalista padovano, specie se si considera che la conoscenza dell’illirico consentì a Fortis di acquisire la lingua russa in un momento storico in cui la flotta di Caterina II costruiva un cordone di contenimento nell’Adriatico veneziano e ottomano. 1 Ciononostante, nel contrapporre, con il Sermone parenetico, la pseudo-identità chersina del fittizio Pietro Sclamer alla presunta nazionalità di Lovrich, Fortis non faceva alcuna diπerenza tra Signo e la comunità morlacca. Più che nella lettera aperta e nel Sermone parenetico, la posizione dell’abate appariva ben chiara nella corrispondenza con l’amico Rados Antonio Michieli Vitturi: desideroso di opporsi pubblicamente alla «corona dei moderni scrittori illirici» e contestatori, sollecitava la traduzione delle Osservazioni che, apparse contestualmente all’edizione bernese del Viaggio, ne avrebbero antiteticamente suπragato l’attendibilità. 2 Consideriamo, però, il documento pubblicato nelle «Efemeridi letterarie di Roma» del 26 luglio 1777. Il testo, scritto sotto la forma di una recensione al Sermone parenetico di Pietro Sclamer-Fortis, non risparmia a Lovrich nemmeno gli insulti. Le rampogne allo «scimunitello» di Signo sono formulate sotto forma di richiamo alla struttura compositiva delle Osservazioni e, collocando Sign in Morlacchia, inopportunamente eleggono a regione storico-naturale l’oggetto di una polemica letteraria. A fronte di ciò, possiamo veramente concordare sul fatto che «il Sig. Lovrich non avrà altro pregio nella Repubblica delle Lettere che quello di aver dato occasione» 3 alla requisitoria di Fortis? Non possiamo escludere che l’epiteto ‘morlacco’ fosse adoperato da Fortis in senso ingiurioso. E ingiurioso restava per il dotto naturalista l’atteggiamento del dalmata e colto Lovrich di fronte alla comunità morlacca tanto diπusa nell’area di Sign, ormai completamente ‘venetizzata’ nelle sue strutture urbane. Infatti, dai resoconti scientifici più recenti ricaviamo che a Signo vigeva ancora la tradizione della sostra, il carosello celebrante la vittoria riportata dai Veneziani sui Turchi nel 1715. 4 Inoltre, all’altezza del 1874, la patria di Lovrich fa registrare una forte «impronta italiana». In questi termini la posizione del giovane studente non risulta nazionalisticamente compromessa e, una volta ridimensionate nel loro portato contestatario, le Osservazioni meritano di essere riconsiderate secondo una prospettiva storico-letteraria. L’aspetto delle traduzioni e degli interessi letterari di Fortis è stato già analizzato con molta attenzione 5 e resta acclarato il fatto che, per il naturalista padovano, le indagini scientifiche erano più importanti degli studi sulla cultura e sulle usanze. 6 E allora perché i giudizi di Sclamer-Fortis includono anche osservazioni d’ordine linguistico-letterario? 7 Se da una parte siamo lontani dal proporre un’analisi retorico-stilistica delle Osservazioni di Lovrich, è altrettanto vero che La vita di Socivicza resta l’esempio di un breve «romanzo» etnografico scritto alla maniera di una storia avventurosa.  













1   Circa questa notizia, cfr. Cesare Giuseppe De Michelis, L’abate Fortis traduttore di Caterina II, «Europa orientalis», 3, 1984, pp. 103-112. 2   Si tratta della lettera datata 1 ottobre 1778. Cfr. Alberto Fortis, Dall’epistolario di Alberto Fortis: destinazione Dalmazia, a cura di Luana Giurgevich, Pirano, Società di studi storici e geografici, 2010, p. 87. 3   Recensione a Sermone parenetico di Pietro Sclamer chersino al Sig. Giovanni Lovrich nativo di Sign in Morlacchia, «Eπemeridi letterarie di Roma», 30, 26 luglio 1777, pp. 238-239, p. 238. 4  Carlo Yriarte, Dalmazia, Pordenone, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2014, p. clxxix. 5  Maria Rita Leto, La “Fortuna” in Italia della poesia popolare serbocroata cit., p. 116. Inoltre, cfr. Arturo Cronia, La conoscenza del mondo slavo in Italia. Bilancio storico-bibliografico di un millennio, Padova, O√cine grafiche Stediv, 1958, 6 passim.  Vito Morpurgo, L’originaria cultura morlacca cit., p. 484. 7   Cfr. Larry Wolff, op. cit., pp. 376-381.

le intemperanze di uno studente

429 Il testo seguì la stessa sorte delle Osservazioni a cui era allegato; venne tradotto, come ricorda Maria Rita Leto, 1 in francese, in inglese e in tedesco; probabilmente influenzò la stesura di Les morlaques di Giustiniana Wynne; la sua fortuna letteraria, occorsa parallelamente a quella del Viaggio fortisiano, venne ribadita da Bartolommeo Gamba nella seconda parte dell’edizione del 1828 della Serie dei testi di lingua italiana e di altri esemplari del bene scrivere. Come si spiega tutto ciò? Fin dagli esordi delle Osservazioni Lovrich ammette che non farà parola della storia naturale,2 aggiungendo che la natura, prodigiosamente, predomina sull’arte. 3 Questa constatazione viene infortita dalla menzione dei Pensieri notturni di Edward Young 4 e culmina nell’esclamazione «Oh prodigiosa varietà della natura». 5 Da questo momento in poi, nel corso dell’opera, frammiste ad allusioni e a citazioni letterarie di alto pregio, 6 troviamo le puntualizzazioni al Viaggio in Dalmazia. 7 Per quanto Lovrich dimostri grandi capacità sul fronte delle scienze naturali, 8 della paleografia e della conoscenza dei processi della chimica dello zolfo, 9 egli preferisce intrattenersi sulla prodigalità dei morlacchi, la cui etica comportamentale «è quella istessa, ch’è comune a tutte le Nazioni del mondo». 10 E in questo locus lo studente di Signo osserva: «Non voglio più dilungarmi sopra le scienze de’ Dalmatini, poiché nella stessa brevità, che parlai, vi potrebb’essere qualche cosa di parziale agli occhi degli stranieri. Io sono lontanissimo dal dar pregio ad una cosa per lo Spirito Nazionale». 11 Questa dichiarazione è esattamente conforme al bisogno di rivalutare la propria terra a dispetto sia delle presunte certezze della teoresi illuministica sia dei proclami identitari e nazionalistici. 12 È in questo contesto che si insinua la Vita di Socivizca, presentata da Lovrich secondo uno stratagemma che, caro alla letteratura odeporica, impiega i meccanismi del romanzo d’avventura fin dall’esordio, occupato dall’importante citazione mutuata da Annales IV, 33. Il breve estratto tacitiano ha un duplice valore: da un lato fa riferimento alla funzione testimoniale della letteratura quando di questa si consideri la capacità di penetrazione psicologica; dall’altro l’esergo, collocandosi nel novero della ripresa veneziana del coevo tacitismo storiografico, chiarisce il legame tra la biografia di Socivizca e le Osservazioni. Infatti, anche solo a scorrere in modo cursorio la Vita, ricaviamo che Lovrich è molto attento a mettere in luce le contraddizioni morali dell’aiducco, costretto a vivere in una realtà complessa. Alla lotta contro il nemico turco – specie il terribile Pascià di Trebigne e il feroce capitano Pa√ch – si aggiungono le incertezze di un uomo che «è in continua agitazione per non poter esser certo del suo destino», 13 perché stretto tra la morsa  



  



















1  Maria Rita Leto, I Morlacchi. Un nome per l’Altro, in Rotte adriatiche. Tra Italia, Balcani e Mediterraneo, a cura di Stefano Trinchese, Francesco Caccamo, Milano, FrancoAngeli, 2011, p. 59. 2 3  Giovanni Lovrich, op. cit., p. 7.   Ivi, pp. 15-16. 4   Il testo di Young viene citato adoperando la forma vulgata del titolo, le Tristissime notti, ivi, p. 17. 5   Ivi, p. 19. 6   Si va dal catulliano carme 61 fino al Metastasio della Semiramide, passando sia per autorevoli rappresentanti della letteratura classica sia per autori della tradizione minoritaria contemporanea a Lovrich. 7   Tuttavia lo spirito correttorio di Lovrich investe tutti gli autori che hanno parlato della Dalmazia. A mo’ di esempio, consideriamo l’emendamento a Dione Cassio per quanto riguarda la fortezza di Kerka e le rovine di Gradiva. Giovanni Lovrich, op. cit., p. 30, p. 64. 8   Si pensi a questioni come quella delle «acque eventuali» e della «terra ampelitica» del bacino orografico intorno a Sign, aπrontate da Lovrich in aperta polemica con Fortis. Ivi, pp. 46-48. A ciò si aggiungano le dissertazioni sui coloranti naturali, come il sapino, il tipo di abete che, per i suoi aghi, viene usato per annerire ancora di più i ba√ dei morlacchi. Ivi, p. 88. 9   È il caso dell’individuazione di acque sulfuree e della descrizione di un minerale che, a tutta prima, potrebbe essere associato alla sfalerite. Ivi, p. 60. 10   Ivi, pp. 101-102. 11   Ivi, pp. 169-170. La testimonianza lovrichiana è molto attendibile, come dimostra il fatto che, parlando del mondo accademico spalatino, lo studente di Padova anticipa le conclusioni a cui giunge Carlo Yriarte intorno al 1874. Cfr. Carlo Yryarte, op. cit., p. cxl. 12   A questo proposito si pensi a come, nella Vita di Socivizca, venga parodiato il pensiero di Montesquieu. Cfr. 13 Giovanni Lovrich, op. cit., p. 239.   Ivi, p. 230.

massimiliano pecora 430 dell’Impero Ottomano e le insidie del provveditore veneziano che non vuole sacrificare la diplomazia politica ai suoi concittadini. Una serie continua di analessi traccia gli episodi salienti della vita di Socivizca, mentre i flashforward narrativi della sezione centrale del racconto, contemperando l’elogio del generale Carlo Contarini, si concludono con l’epifonema «lupo non mangia lupo», posto a suggellare la storia di Signo e di tutta la Dalmazia. 1 In nome di ciò l’autore pensa di cedere la parola a Socivizca che, definito come un «proteo» 2 perennemente in fuga, si erge a protagonista-narratore dello scontro di Smaich. 3 Mentre le allocuzioni al lettore appaiono quali spie delle preoccupazioni di Lovrich circa la verosimiglianza del testo, 4 di maggiore e√cacia antropologica è la nota con cui il biografo commenta la battaglia di Vilenbegh e l’inganno perpetrato dall’aiducco: «Questi fatti sembrano romanzeschi, ma la necessità, l’entusiasmo della gloria, l’amor della vita che dominano negli Aiduczi, li fanno diventar ingegnosi per forza». 5 Tale inserto metaletterario fa della Vita la testimonianza di un uomo costretto a sopravvivere di fronte a una situazione di pericolo. Giustificando pienamente l’esergo tacitiano, l’osservazione di Lovrich contribuisce ancora di più a rendere l’uomo morlacco il protagonista di un mondo complesso, che solo la letteratura, coniugando la storia reale con quella dei sentimenti e dei costumi di un popolo, può aiutarci a capire. La Vita di Socivizca non è, così, un atto di accusa contro i morlacchi e gli aiducchi, ma verso tutti i criminali che, con il favore della fortuna, possono dirsi fondatori di nazioni e di popoli. Con questa allusione a Venezia e, soprattutto, al dominio ottomano, Lovrich, distinguendo l’eroismo di Socivizca da quello degli «assassini di strada», dimostra, attraverso la forza persuasiva dell’artificio letterario, quanto sia di√cile discriminare tra il giusto e l’ingiusto quando la storia politica di una comunità è relegata tra le maglie delle dominazioni straniere.  









1

2   Ivi, p. 235.   Ivi, p. 247.   Ivi, p. 241. A questo proposito, di particolare interesse si potrebbe rivelare l’analisi della traduzione della Vita di Socivizca, che, pubblicata nel 1817 sul «London Times», si configura come un’opera nuova dove l’io narrante è l’aiducco, adirato per le inesattezze del suo biografo morto ormai da quasi trent’anni. Cfr. Maria Rita Leto, I Morlacchi. Un nome per l’Altro, in Rotte adriatiche, cit., pp. 51-58. 4 5  Giovanni Lovrich, op. cit., p. 244.   Ivi, pp. 248-249, nota a. 3

UNA BIBLIOGRAFIA DALMATA DIMENTICATA (OTTO VON REINSBERG DÜRINGSFELD, 1856) Željko Djurić Come opera esattamente la forza dell’oblio? Col dipingere di nero le cose o facendole precipitare nel buio di un abisso? Forse, ma questo succede magari alla fine. Prima invece comincia a smembrare quello che era integro e sensato, a staccare le parti l’una dall’altra, a spezzarle in particelle; poi anche a ricongiungere i pezzi in modo furbescamente sbagliato, per confondere e far perdere le tracce. Veljko Popović

N

egli Studi critici di Giovanni Antonio Kaznacich, avvocato e scrittore raguseo, oggi piuttosto dimenticato, raccolti in volume dopo la precedente pubblicazione nell’«Osservatore dalmato», troviamo un testo prezioso per la comprensione del contesto culturale in cui nasce l’Esquisse bibliographique o Les auteurs dalmates et leurs ouvrages del barone Otto Reinsberg Düringsfeld (forse l’unica reazione critica e pubblicata a quella bibliografia). Tutto infatti è iniziato quando i coniugi Ida e Otto Reinsberg Düringsfeld hanno deciso di fare un viaggio in Dalmazia che doveva in primo luogo servire alla moglie Ida, scrittrice tedesca di discreta fama le cui opere sono state tradotte in diverse lingue, anche in italiano, come fonte di ispirazione per qualche nuova opera letteraria. Previsto o imprevisto, il viaggio è durato quasi due anni interi (1854-55) ed era stato preceduto da un soggiorno preparativo a Trieste dove alcuni rappresentanti dell’alta società triestina, signore o signori che fossero, sorpresi della strana decisione della coppia tedesca tentarono di dissuaderla da quel viaggio «nella terra dei cannibali» consigliandole anche di rifornirsi «a Trieste di polvere contro gl’insetti» 1 e via dicendo. Il viaggio e il lungo soggiorno in Dalmazia dei coniugi Reinsberg Düringsfeld sono stati pienamente realizzati nonostante tutto e i frutti non sono mancati. La signora ha scritto un lungo e dettagliato resoconto del viaggio letterario suddiviso in tre parti (pubblicato a Praga nel 1857) 2 di cui il marito ha curato tutta la parte documentaria scrivendo più di cento pagine di note e spiegazioni di ordine storico, culturale e letterario. Le stesse ricerche e lo stesso materiale accumulato per commentare il libro della consorte è stato utilizzato dal barone Reinsberg Düringsfeld per trarne la sua Esquisse bibliographique pubblicato nel 1856 nel «Bulletin de Bibliophile belge». 3 L’avvocato Kaznacich ha inserito la pubblicazione del bibliografo tedesco nel gruppo dei dodici libri riguardanti la cultura dalmata che sono usciti nell’anno 1856 giudicato, per questo, particolarmente fruttuoso e importante:  





1

  Giovanni Antonio Kaznacich, Studi critici, Zara, Tipografia dei fratelli Battara, 1856, p. 26.   Ida von Düringsfeld, Aus Dalmatien i-iii, Prag, Karl Bellmann’s Berlag, 1857. 3   Othon, baron de Reinsberg-Düringsfeld, Les auteurs dalmates et leurs ouvrages. Esquisse bibliographique, «Bulletin du Bibliophile Belge», tomo xii, 1856, pp. 37-56, 117-144, 196-210. Kaznacich parla dell’‘opuscolo’ e nel suo elenco delle opere importanti del 1856 la bibliografia di Otto Reinsberg è citata come «extrait du tome XII du Bulletin du Bibliophile Belge», alla p. 8 di Giovanni Antonio Kaznacich, Studi critici, cit. 2

432

željko djurić

Scelgo per primo tema le notizie bibliografiche dei Dalmati del barone di Reinsberg-Düringsfeld e ciò per la dovuta preferenza al bel sesso, giacché il barone Ottone di Reinsberg ha la fortuna di avere per moglie Ida di Düringsfeld, il cui nome è favorevolmente conosciuto nella moderna letteratura tedesca. 1  

Prosegue scrivendo maggiormente della moglie che «or son due anni fece lungo soggiorno allo scopo di conoscerci da vicino, e d’ispirare la sua poetica immaginazione nel bello che le avrebbe oπerto la nostra poco conosciuta provincia». 2 Riproduce in seguito una lunga descrizione della città di Ragusa ripresa dalla rivista «Europa» di Lipsia e tradotta dal tedesco. Solo nella parte finale del testo Kaznacich volge la sua attenzione alla bibliografia dalmata del barone Reinsberg-Düringsfeld:  

“Chi vuol conoscere il marito studii la moglie”, dice un proverbio arabo, ch’io, come vedi, applicai, con pindarico ardimento, all’Esquisse bibliographique des auteurs dalmates et leurs ouvrages par Othon Baron Reinsberg Düringsfeld. E come dal complesso dello schizzo riportato sopra Ragusa, traspare un’aπettuoso interesse per quanto concerne la gloria della nostra città; così nel saggio di bibliografia dalmata, questo cortese sentimento s’estende a tutta la provincia. 3  

Come cercheremo di mostrare, «il cortese sentimento» veramente trapela dalle pagine dell’autore tedesco nonostante si tratti di una materia in sé asciutta e formale. All’inizio, il barone Reinsberg Düringsfeld con precisione «tedesca» definisce il fine del suo lavoro: Les livres aussi bien que les noms des célébrités y restent pour ainsi dire emprisonnés. Hors de ces notabilités littéraires qui ont quitté leur patrie, pour chercher ailleurs une sphére plus conforme à leur activité, il n’y a que très-peu de Dalmates illustres qui soient connus à l’etranger. Ni leur noms ni leurs ouvrages n’ont passé les frontières étroites de la Dalmatie. 4  

Per questo motivo, pur conoscendo i principali libri sulla Dalmazia (Fortis, Concina, Stiegliz, Wilkinson etc) che «ne se sont occupés qu’en passant de la litterature», 5 l’autore tedesco si pone come fine quello di «donner dan les pages suivantes sur les auteurs dalmates et leurs ouvrages une esquisse un peu plus détaillée». 6 «Tale impresa», leggiamo nuovamente il nostro avvocato Kaznacich, «di√cile per tutti, doveva riescire di√cilissima per uno straniero fermatosi per non intieri due anni tra noi». 7 In una specie di prefazione alla sua rassegna bibliografica il barone Reinsberg raggruppa e descrive in maniera sintetica le fonti di cui si era servito lasciandocene dedurre anche il suo modo di operare:  





Le plupart des ouvrages dont’ai recueilli les titres, se trouvent dans les bibliothèques de MM. Romagnoli à Scardona, Macchiedo à Lesina, Franceschi, Bajamonti et Dudan à Spalato, Kaznacich, Alexis 8 et Nikolajevich à Ragusa, Cattalano à Cattaro, et surtout dans celles du comte Antonio Fanfogna-Garagnin à Traù, du professeur Nisiteo à Città-Vecchia et des Franciscains à Raguse et au couvent de la Maria delle Paludi près de Spalato. 9 Les notices biographiques sont tirées des recueils faits par Appendini, Carrara, Cicarelli et Fabianich et des biographies écrites par Bajamonti, Ballovich, Bassich, Bizarro, Carrara, Ferrari-Cupilli, Franceschi, Ivicevich, Kaznacich, Ljubich, Michieli-Vitturi, Nikolajevich, Paulovich-Lucich, Pozza (Orsat), Petranovich, Raπaeli, Svilovich, Tommaseo (Nicolo) et d’autres, qui sont publiées soit à part,  



1

  Giovanni Antonio Kaznacich, Studi critici, cit., p. 10. 3   Ivi, p. 11.   Ivi, p. 25.   Othon, baron de Reinsberg-Düringsfeld, Les auteurs dalmates, cit., p. 38. 5 6   Ivi, p. 39.   Ibidem. 7   Giovanni Antonio Kaznacich, Studi critici, cit., p. 28. 8   Kaznacich, a p. 33 di Idem, Studi critici, cit., scrive: «Confesso d’ignorare l’esistenza di una biblioteca Alexis a Ragusa, di cui parla l’autore nella prefazione al suo opuscolo». 9   Othon, baron de Reinsberg-Düringsfeld, Les auteurs dalmates, cit., p. 39. 2

4

una bibliografia dalmata dimenticata

433

soit dans les journaux et et feuilles périodiques, comme la Dalmazia, Gazzetta di Zara, l’Osservatore dalmato, l’Avenire, Zora dalmatinska, Srbsko-dalmatinski Magazin, Dubrovnik et Rammentatore Zaratino. 1  

Trovava, dice il barone, le porte spalancate di tutte quelle biblioteche: «le propriétaires et les bibliothécaires m’ont accordé l’accès avec le plus grande facilité». 2 Andava da casa a casa (o da palazzo a palazzo), svolgeva una vivace comunicazione con gli intellettuali dalmati che lo aiutavano in tutti i modi, procurandogli i volumi rari, i manoscritti, le informazioni preziose. Un ruolo particolarmente importante è assegnato dal barone all’abate Simeone Ljubich, le cui opere bibliografiche (allora non ancora pubblicate) 3 gli erano risultate di grande utilità («m’ont été de la plus grande utilité»). 4 Nomina anche un certo Baldassare Cattanj, autore di un manoscritto così intitolato: Notizie storiche e letterarie sulla Dalmazia. Giovanni Antonio Kaznacich scrive che il nostro barone nella sua Esquisse bibliographique ha raccolto trecentosessanta nomi; il che è vero se si fa il conteggio dei soli lemmi (stampati a maiuscoletto). La situazione si complica invece, quando leggiamo i contenuti dei singoli lemmi: vi scopriamo alle volte altri nomi, altre esistenze umane e i diversi frutti delle loro attività culturali. Così il sopra menzionato Baldassarre Cattanj, con il suo manoscritto del tutto sconosciuto, non occupa un lemma, non è neanche un sottolemma ma è «il padre» («son père») di Cattanj Nicolò «né à Spalato d’une ancienne famille noble originaire de Comacchio en Italie», 5 autore, a sua volta, di una Dissertazione sopra le acque minerali di Spalato (Padova, 1836) ecc. Ma c’è anche la madre, «sa mère, Maria de Cattanj... renommée par sa connaissance de la botanique et surtout des algues». 6 In questo modo, sotto un lemma vi sono tre nomi al posto di uno, c’e’tutta la famiglia. Nell’«Indice personale» della bibliografia di Valentinelli 7 ci sono due indicazioni su Nicolò (introvabili, però, nel testo) mentre della madre o del padre non c’è traccia né in Valentinelli né tra i lemmi del volume Dalmazia nazione. 8 Spesse volte i bibliografi della letteratura dalmata trattano i diversi rappresentanti delle stesse famiglie di modo che un cognome abbraccia due, tre o più nomi. Ad esempio, il cognome Bisanti (di Cattaro, «une des familles les plus illustrés et les plus fécondes en célébrités») 9 è ripetuto nella nostra Esquisse quattro volte di seguito. C’è prima Bisanti Trifone: «Dr j. u., philosoph. théolog. professeur de littérature greque et latine à Bologne et Perugia, écrivit élégamment en prose et en vers; mais ses écrits ont été perdus». 10  

















1

2   Ivi, pp. 39-40; nomi, cognomi e titoli dell’Esquisse sono prodotti senza modifiche.   Ivi, p. 39.   La più famosa di quelle, Il dizionario bigrafico degli uomini illustri della Dalmazia usciva a Vienna lo stesso anno della bibliografia di Ottone Reinsberg. La seconda opera nominata dal barone, Poviest Dalmatinske narodne književnosti, non è mai stata pubblicata; la descrizione dettagliata troviamo in: Zlata Bojović, Povijest narodne dalmatinske književnosti, Šime Ljubića, «Naučni sastanak slavista u Vukove dane», ix, 1978, pp. 79-103. Reinsberg cita un’altra cosa interesantissima: «La traduction de l’ouvrage français d’Eichhoπ sur la littérature slave Mss.» (Othon, baron de Reinsberg-Düringsfeld, Les auteurs dalmates, cit., p. 130). 4   Othon, baron de Reinsberg-Düringsfeld, Les auteurs dalmates, cit., p. 39. 5 6  Ivi, p. 53.   Ibidem. 7   Giuseppe Valentinelli, Bibliografia della Dalmazia e del Montenegro, Zagabria, Coi tipi di Ljudevito Gaj, 1855. 8   Daria Garbin, Renzo de’ Vidovich, Dalmazia Nazione, Dizionario degli Uomini Illustri della componente culturale illirico-romana latina veneta e italiana, Trieste, Fondazione Scientifico Culturale Maria e Eugenio Dario Rustia Traine, 2012. 9   Othon, baron de Reinsberg-Düringsfeld, Les auteurs dalmates, cit., p. 46. 10   Ibidem. È significativo il fatto della perdita dei manoscritti; c’è nel nostro bibliografo uno spiccato gusto delle vicende umane e dei fatti di cronaca: parlando di Francesco Niconisio dice, alla pagina 138: «Il écrivit beaucoup, mais en 1531, il perdit à Rome, par une inondation du Tibre, presque tous ses écrits sur la jurisprudence»; Gian Francesco Fortunio «à Ancone où fut podestà, tomba en démence et mourut en se jetant par la fenetre du palais prétorien» (p. 121); di Giovanni Lucio scrive (p. 132): «Returné a Traù, il se livra entièrement aux recherches nécessaires puor son histoire; mais son compatriote et rival, Paolo Andreis, jaloux, le calomnia et le força de quitter sa ville natale»; mentre di Lodovico Pasquali leggiamo, a p. 140, che «fut, à Candie, fait prisonnier par les Turcs et transporté en Afrique; meis bientôt délivré». 3

434 željko djurić Il barone, però, nello stesso lemma prosegue: Un autre de ce nom, archiprêtre et ensuite évêque de Cattaro, assista aux conciles de Latran en 1512 et 1517, et informa son patron, le cardinal Domenico Grimani, des accidents de la guerre contre les Turcs par des lettres latines écrites avec beaucoup d’élégance, dont Coleti a publié quelques-unes dans son ouvrage: Illyrium sacrum. 1  

Quanti Trifoni ci sono? Due personaggi diversi, secondo il bibliografo tedesco. Uno solo invece, secondo il libro Dalmazia nazione: Nasce probabilmente a Cattaro in data incerta. Non ci sono notizie sulla sua formazione e studi, ma è certo che è dottore in filosofia, teologia e legge ... insegna letteratura greca e latina nelle università di Bologna e Perugia ed è bibliotecario del duca di Modena.... Nel periodo dal 1513 al 1532 è vescovo di Cattaro ed è ricordato come promotore di studi letterari, teologici e scientifici, frequenta il Cenacolo umanistico di Cattaro ed eminenti teologi. Su invito di Papa Giulio II partecipa alle sedute del Quinto Concilio Lateranense, tenutosi tra il maggio 1513 e il maggio 1517... Le Lettere latine indirizzate all’amico e mecenate cardinale Domenico Grimani nelle quali lamenta le disgrazie provocate dai turchi 2  

Nel medesimo modo scrive Simeone Ljubich nel suo Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia. 3 Invece, per il barone tedesco, che da Ljubich aveva preso molte notizie, nel caso di Trifone Bisanti è stato più plausibile il testo di Francesco Maria Appendini, Memorie spettanti ad alcuni uomini illustri di Cattaro, in cui c’è la netta distinzione dei due Trifoni:  

Trifone Bisanti da Arciprete del Capitolo di Cattaro fu fatto vescovo dell’istessa città da Leone X nel 1513. mentre appunto si trovava a Roma. Assistè quivi in quell’anno istesso alla ix. Sessione del Concilio Lateranense iii, 4 sicome pure si ritrovò poi alla Sessione xii. 5  



Alcune pagine dopo, Appendini parla di un altro Trifone Bisanti: fra gli uomini di lettere tiene il primo luogo Trifone Bisanti, di cui così ci parla il più volte citato Girolamo Bigarella: Etenim quibus interim laudibus eπeram doctissimum illum Tryphonem Byzantium tam legum, quam Philosophiae, ac Theologiae, excellentissimum doctorem, qui et Bononiensi, et Perusina Accademia Graecas, Latinasque litteraas tam copiose, tam feliciter pubblice professus est.... Io suppongo essere questi quell’istesso Bisanti, che dicesi essere stato Bibliotecario del Duca di Modena... 6  

Seguono, nell’Esquisse bibliographique, Bisanti Paolo, Bisanti Gregorio (di cui si parla anche nella Dalmazia nazione: «Trascrive e revisiona l’Ofizio di San Trifone ... e lo pubblica a Venezia nel 1738. Questo lavoro gli agevola la nomina a vescovo di Cattaro, da parte del papa Gregorio XIV»; 7 si tratta invece di Benedetto XIV come esattamente scrivono sia Ljubich nel Dizionario biografico che il barone Reinsberg nella sua annotazione; sembra, in questo caso, che tutti e due abbiano attinto al testo di Appendini; alla fine, c’è semplicemente Bisanti «dont le prénom est inconnu» 8 che aveva raccolto «Repertorio di tutti gli atti del foro di Cattaro». Di nuovo il nostro autore segue il testo di Appendini: «Ad un altro della famiglia Bisanti è dovuta la compilazione in vari volumi manoscritti del Repertorio di tutti gli atti del Foro di Cattaro». 9 Se avesse letto Ljubich, avrebbe potuto vedere anche il nome di quel Bisanti: Nicolò. 10  







1

  Ibidem.   Daria Garbin, Renzo de’ Vidovich, Dalmazia Nazione, cit., p. 52.   Simeone Ljubich, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, Trieste, Rod. Lechner librajo del I. R. Università e Zara Battara e Abelich libraji, 1856, pp. 35-36. 4   Francesco Maria Appendini sbaglia qui il Concilio, si tratta del v. 5   Francesco Maria Appendini, Memorie spettanti ad alcuni uomini illustri di Cattaro, Ragusa, Antonio Martechini, 6 Ragusa, 1811, p. 11.   Ivi, p. 17. 7   Daria Garbin, Renzo de’ Vidovich, Dalmazia Nazione, cit., p. 51. 8   Othon, baron de Reinsberg-Düringsfeld, Les auteurs dalmates, cit., p. 46. 9   Francesco Maria Appendini, Memorie spettanti ad alcuni uomini illustri di Cattaro, cit., p. 17. 10   Simeone Ljubich, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, cit., p. 37. 2 3

una bibliografia dalmata dimenticata

435 Il barone Reinsberg aggiunge alla fine, nello stesso lemma «senza nome», un’ultimo Bisanti, «comte Antonio, écrivit la “Cronologia di Cattaro Mss, qui va jusqu’à l’an 1687”». 1 Quel conte Antonio Bisanti non si trova però tra i Bisanti registrati da Appendini; il barone lo ha trovato in Ljubich e forse da lui direttamente ebbe a sapere l’annata fino alla quale arrivava la cronologia. Di Giovanni Bizzaro (o de’ Bizzaro), il prossimo nome nella bibliografia del barone Reinsberg, scrive un lungo e dettagliato articolo Simeone Ljubich nel suo Dizionario. 2 Il bibliografo tedesco ne fa altrettanto ma verso la fine del suo testo su Giovanni Bizzaro, attento com’era ai legami familiari, aggiunge:  



Son fils, Baldovino qui s’est aussi distingué par ses poésies, ses articles et ses traductions dans les journaux dalmates, mais qui est mort très-jeune a Raguse, sa ville natale, a écrit la biographie de son père. 3  

Nel Dizionario di Ljubich Baldovino Bizzaro precede Giovanni (per ragioni di ordine alfabetico) ma non viene stabilito nessun legame fra i due. 4 Nella Dalmazia Nazione invece, la distanza è aumentata, il padre e il figlio sono separati irrimediabilmente: Baldovino si trova alla pagina 53 con il cognome Bizzaro e Giovanni alla pagina 124 con il cognome de Bizzaro. Simeone Ljubich avrà avuto le proprie fonti per comporre il testo su Giovanni. Il barone Reinsberg, invece, utilizza proprio la biografia scritta dal figlio. Se ne capisce da molti dettagli:  

Ses traductions de: Varii opuscoli latini sopra storia ragusea, raccolti ed illusstrati per il senatorre Michele di Sorgo, libro IV dell’Eneide et d’Erifile tragedia di Voltaire, sont restées inédites. 5  

Mentre Gliubich queste opere le annovera tutte quante tra le cose pubblicate , nella biografia di Baldovino leggiamo:  

6

la traduzione di varii opuscoli latini sopra la storia ragusea, raccolti ed illustrati per il Senatore Michele de Sorgo. Ma ne qusta traduzione ne quella del iv libro dell’Erifile tragedia di Voltaire di molto posteriore (anno 1812) videro mai luce. 7  

Un altro dettaglio che riporta il barone: «et y mourut en 1833, laissant à sa famille un volume de poésies inédites», 8 inesistente in Ljubich, trova il riscontro nella biografia scritta di Baldovino: «Ci restarono inedite fra le altre poesie contenute in grosso volume autografo presso la famiglia». 9 Baldovino, de Bizzarro, come egli stesso firma il testo, chiude la biografia del padre con le parole aπettuose e toccanti:  



Ove avesse sortito di nascere altrove, G. Bizzarro sarebbe degno di miglior ricordanza: in patria, la mano del figlio dovea solamente dargli il tributo di laude, e provvedendo al maggior lustro del genitore, disacerbare un sanguinoso dolore, che per allontanamento di tempo nel suo cuore non ristagna ne menoma. 10  

Dopo ancora qualche nome, nella bibliografia del barone tedesco, troviamo due lemmi con il cognome Buchia. Nel primo dei due stanno insieme i gemelli Vincenzo e Dome1

  Othon, baron de Reinsberg-Düringsfeld, Les auteurs dalmates, cit., p. 46.   Simeone Ljubich, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, cit., pp. 41-42. 4   Ivi, p. 47.   Ivi, pp. 40-41. 5   Othon, baron de Reinsberg-Düringsfeld, Les auteurs dalmates, cit., pp. 46-47. 6   Simeone Ljubich, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, cit., p. 42. 7   Baldovino de Bizzarro, Notizia intorno alla vita et agli studi di Gio. de Bizzarro, «La Dalmazia – foglio economico letterario», iii, 12, 1847, pp. 89-90. 8   Othon, baron de Reinsberg-Düringsfeld, Les auteurs dalmates, cit., p. 47. 9   Baldovino de Bizzarro, Notizia intorno alla vita et agli studi di Gio. de Bizzarro, cit., p. 108. 10   Ivi, p. 109. 2 3

436 željko djurić nico: «frères jumeaux d’une famille illustre de Cattaro, tous le deux dominicains, trèsinstruits et vertueux». 1 Li aveva trovati, così uniti, nelle Memorie di Francesco Appendini:  

Vincenzo, e Domenico da Cattaro furono ambedue dell’illustre famiglia Buchia ultimamente estintasi a Ragusa, ed in Cattaro, nacquero ambedue in un parto... ed ambedue professarono l’istituto dominicano, al quale, siccome alla loro patria apportarono gran lustro. 2  

Sono uniti anche nel Dizionario di Ljubich; 3 ma nel libro Dalmazia Nazione i gemelli non solo sono separati ma uno dei due (Vincenzo) scompare dall’ elenco dei Dalmati illustri. Vi troviamo invece un altro Vicenzo Buchia, di cui parlano sia Appendini che Gliubich ma che visse un secolo dopo. 4 Il testo del barone Reinsberg su Pietro Nisiteo, di cui possiamo leggere anche nel Dizionario di Simeone Ljubich, 5 rivela ancora una volta la vivacità intellettuale e l’interesse scientifico della sua bibliografia dalmata: «écrivit sur la botanique un grand ouvrage, qui resta inédit, parce que la publication du système de Linné l’avait rendu superflu». 6 Un’annotazione suggestiva che allude al problema del mancato contesto europeo o del carattere marginale della cultura dalmata. Nel brano che segue leggiamo informazioni sulle attività imminenti del dotto Dalmata che, a nostro avviso, egli stesso aveva dato al barone durante le loro conversazioni a Città Vecchia. Sono informazioni di prima mano, a nostro avviso ricevute, a viva voce, in diverse occasioni durante il viaggio dei coniugi Reinsberg Düringsfeld. Si legge ad esempio nel libro della moglie Aus Dalmatien, nella seconda parte, a pagina 112 sgg., sul viaggio che la coppia tedesca ha fatto fino alla casa di Pietro Nisiteo, con l’utilizzo di muli. Proseguiamo con il testo del nostro bibliografo:  







Ajourd’hui il s’occupe àranger sa belle collection des inscriptions grecques et latines de toute Dalmatie, et à préparer, pour l’impression, ses “Memorie staccate”, qui contiennent: Diomede illirico. – Genzio. – Demetrio Fareo. – Della palude Stige. – Dall’oracolo di Dodona. – Delle Colonie illiriche in Italia. – Dinastia de’ re illirici. – Dell’Commercio del mare pontico col mare illirico. – Dell’isole elettridi. – Della derivazione egizia dei Cochi et della loro colonia alle coste illiriche. – Pirateria e navigazione degli Illyrici. – Culto di Amone in lesina e Curzola. – Mitologia illirica appropriatasi dai Greci. – Sulla lingua albanese. – Delle vesti antiche illiriche adottate da Romani. – Nome dei Dalmati. 7  

Pietro Nisiteo stava dunque preparando per la pubblicazione un libro, Memorie staccate, cioè «non formanti un tutto», che ha tratto dalla mole enorme dei suoi scritti inediti. Di quella mole si era occupato, sulle pagine del Manuale del Regno di Dalmazia, Giovanni Vidovich che aveva presentato ben venticinque volumi di scritti eruditi raggruppati per argomenti. 8 I sedici saggi prescelti da Nisiteo per la pubblicazione trattano maggiormente la storia antica della Dalmazia e sono presi dai primi due volumi di manoscritti come li presenta Vidovich. Giacomo Scotti, invece, parlando delle Memorie staccate di Nisiteo scrive: «è rimasta inedita una grande opera dal titolo Memorie staccate sulla storia antica della Dalmazia in ben 25 fascicoli». 9 Ci sembra che sia più probabile la nostra ricostruzione in base al testo del barone Reinsberg Düringsfeld. Abbiamo toccato, quasi a caso, solo alcuni punti e alcuni nomi dell’Esquisse biblio 



1

  Othon, baron de Reinsberg-Düringsfeld, Les auteurs dalmates, cit., p. 49.   Francesco Maria Appendini, Memorie spettanti ad alcuni uomini illustri di Cattaro, cit., p. 18.   Simeone Ljubich, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, cit., pp. 68-69. 4   Daria Garbin, Renzo de’ Vidovich, Dalmazia Nazione, cit., pp. 65-66. 5   Simeone Ljubich, Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia, cit., p. 227. 6 7   Othon, baron de Reinsberg-Düringsfeld, Les auteurs dalmates, cit., p. 139.   Ibidem. 8   Giovanni Vidovich, Pietro Nisiteo, «Manuale del Regno di Dalmazia per l’anno 1874», Zara, iv, 1874, pp. 137-142. 9   Giacomo Scotti, Terre perdute riscoperta dell’italianità della Dalmazia, Firenze, Elea, 1994, p. 60. 2 3

una bibliografia dalmata dimenticata

437 graphique del bibliografo tedesco; per suggerire le diverse possibilità di lettura, di interpretazione e di uso di quel testo che non solo risulta utilissimo ai fini storico-letterarie e filologici ma, in quanto una specie di rassegna bibliografica vissuta, asssume il carattere di un testo passionevole, intrigante e umanamente empatico, leggibile perciò anche come un’opera letteraria. La parola, alla fine, all’avvocato Kaznacich che nei suoi Studi critici ha saputo mettere in piena evidenza l’altissimo valore letterario e culturale dell’Esquisse bibliographique del barone Reinsberg Düringsfeld: La Dalmazia manca intieramente fino ad ora di un’istituzione che raduni in uno la preziosa eredità del sapere, tramandatale ne’ scritti de’ suoi figli. Chi si occupa di studi patrii, deve perder un tempo prezioso nel rivangarne i monumenti, or barbaramente negletti, or celati da ignorante gelosia, talvolta ignorati e sempre stranamente dispersi. .... E se la mia debole voce può divenire eco a quella del benemerito sig. abate Ljubić, essa di tutta lena gli si assoccia per invitare i Dalmati tutti, onde istituiscano una biblioteca in una delle città nostre, destinata a rendere di pubblico diritto i tesori bibliografici della provincia tutta. – Allora soltanto potremo possedere un completo Dizionario bibliografico, i cui dati non dovranno più essere or mancanti, ora incerti, ora errati... Fino a che questo voto non sia eπettuato, sia reso il dovuto encomio agli sforzi di coloro, che con tante cure cercarono di supllire a tale mancanza, ed i di cui lavori avranno sempre il merito di guidarci, spero, all’eπettuazione di questo patrio progetto. E tra questi sarà sempre distinto il barone di Reinsberg, che, straniero, additò agli stranieri le doviziose fonti della nostra letteraria celebrità. 1  

1

  Giovanni Antonio Kaznacich, Studi critici, cit., pp. 28-29.

FIDELIA VENT’ANNI DOPO

Anco Marzio Mutterle

T

ra gli impegnati romanzi sempre legati all’attualità 1 che Colautti produsse, Fidelia occupa uno spazio particolare. In eπetti non si tratta proprio del maniacale lavoro di rifacimento indicato nelle bibliografie, di quello che senza dubbio fu il suo prodotto narrativo di maggiore successo presso il pubblico – ristampe presso Sonzogno nella ‘Biblioteca Romantica’ continuavano a circolare ancora alla metà degli anni Trenta; esse, in eπetti, continuavano a riprodurre l’edizione 1904. 2 Massiccio invece l’impegno di rifacimento vero e proprio tra l’edizione 1884 e la già nominata del 1904, che evidenzia un lavoro sistematico e una evoluzione narratologica mirata; il che colloca questo romanzo in una posizione privilegiata e ricca di implicazioni. Siamo in presenza di una robusta architettura tra sentimentale (gusto e derivazione francese, ma non saranno da trascurare i russi) e storia contemporanea con forti agganci alla realtà politica di fine secolo. Per quest’ ultimo aspetto un Piccolo mondo moderno più esagitato e pesante; il diπuso eclettismo fa pensare al d’Annunzio sommarughiano e alle svariate problematiche innestate dall’ esplodere dell’orizzonte scientifico. Anche, opera che si allinea a pieno titolo con la cosiddetta letteratura antiparlamentare. Queste direttrici, infatti, vengono concretate nei due personaggi principali: la soπerente inquieta Fidelia e il consorte di essa, il famoso medico e scienziato, l’apolitico Bruno Speraldi. Problematica sulla scienza e lotta (meglio, corruzione) della vita politica si intersecano in un forte aπresco dello stile di vita della Nuova Italia. Anche se non ambientato a Roma, bensì nella Riviera Ligure di Ponente, Montecitorio costituisce il riferimento costante delle ambizioni sbagliate di quei personaggi, e della lotta soccombente dell’idealità di fronte a quanto è volgare. L’ assunto in entrambe le versioni è identico: la lotta vittoriosa in apparenza dello scienziato medico Speraldi per salvare la malata di tisi Fidelia (allusione ironicamente beethoveniana) si risolve in una disfatta. L’infatuazione di Speraldi per la giovane lo aveva indotto a un matrimonio che però egli non consuma in attesa di avere guarito la donna che adora. Non senza umorismo involontario e un pizzico di grottesco, la storia di tale attesa che sembra sul punto di venire colmata per le iniziative regolarmente finite a vuoto ora dell’uno ora dell’altro coniuge, si trova vanificata dal fatto che le esigenze sentimentali di Fidelia finiscono per gratificare un amante nordicamente esotico, l’ingegnere tedesco Moriz Spielmann. Schiacciata tra una gravidanza scandalosa e le trame maligne di un’amica, Fidelia finirà per soccombere a un attacco decisivo della malattia mai davvero debellata: e la conclusione, sensazionalistica e melodrammatica – nell’una e nell’altra versione – consisterà nell’autopsia estemporanea improvvisata da Speraldi che ha finalmente intuito la verità: tragedia di sentimento e vocazione scientifica si sovrappongono in un testo dove i possibili punti di vista e le possibili verità sono fatte convergere e incrociate.  



1  Storie di esagerata passionalità intrecciata a interessi sordidi, con soluzioni a tinte fosche: dal terrorismo nella Russia imperiale (Nihil) agli artisti e aristocratici romani (Il figlio) fino all’ambiente della lirica teatrale in Primadonna: la denuncia del disfacimento morale è ininterrotta, trattisi della società zarista come del cinismo dell’Italia postrisorgimentale. 2   Circa la versione pubblicata in precedenza sulle colonne del padovano «L’Euganeo» non ho avuto modo di documentarmi».

fidelia vent’anni dopo

439 Le divergenze tra le due edizioni si presentano non clamorose, ma insistite e costanti. Si può parlare di un continuo lavoro di riscrittura, che alla fine cerca l’approdo a un testo radicalmente diverso. Le innovazioni possono essere ridotte a tre categorie: spostamenti di blocchi testuali; ampliamenti o in alternativa riduzioni che puntano a influire sul ritmo della narrazione; processi sostitutivi sul piano linguistico e stilistico. In termini di macrostruttura, le diπerenze sono comunque cospicue: il testo Galli, Milano 1884, consiste di xxiv capitoli disposti consecutivamente senza alcuna pausa interna; totale pagine 464. Nella ‘Nuova edizione rifatta’ 1904 della milanese Libreria Editrice Nazionale il materiale figura suddiviso in 5 Parti, rispettivamente di 4, 12, 10, 5, 9 capitoli – complesso dei capitoli 40, che quasi raddoppiano almeno sul piano del conteggio i 24 originali. Totale di pagine, 626. La zona iniziale porta in presenza di uno spostamento testuale abbastanza spiccato. Sparito il cap. i che nel 1884 trattava la solitudine annoiata di Fidelia nello splendido villino messole a disposizione dal marito. La versione 1904 Parte Prima cap. I si apre con un ritratto di Speraldi, che recupera il cap. ii dell’84; quest’ultimo si è geminato in due, considerato che continua anche nel cap. ii Parte Prima. A partire dai 2 capp. iii si acquisisce un riallineamento. Sono entrambi dedicati a spiegare retroattivamente l’origine dell’interessamento di Speraldi per la propria paziente e futura moglie. Ma, nuovamente, il iii ’84 si gemina interrompendosi, e la sua parte terminale dà luogo a iv Parte Prima. Questa Parte si configura quindi in qualità di una sorta di preambolo, riservato allo scienziato e alle problematiche etiche ed intellettuali non sue soltanto ma dell’epoca. Al tempo stesso viene fornito il supporto per una struttura ad anello, con la parte finale che, come accennato, riproporrà Speraldi da protagonista. Rileggeremo Fidelia, con il suo bovarismo non del tutto immotivato del cap. I 1884, al cap. I ma della Parte Seconda. La procedura pare evidente: più che nuovi inserti, una volontà di creare primi piani alquanto esposti in alternanza: i due protagonisti si stagliano separati, titolare ciascuno di un lungo segmento narrativo. Non è ritenuta necessaria, al fine di tali risultati, l’inserzione di materiale nuovo, quanto uno spezzettamento e un ampliamento del già dato. La spezzatura in due di un capitolo preesistente assume eπetti di pausa e al tempo stesso di ampliamento. Come del resto, sul piano degli interventi minimi, riveste funzione di rallentamento l’introduzione frequentissima degli ‘a capo‘ che sminuzzano l’architettura dei lunghi, eloquenti paragrafi su cui ci si era strutturati nel 1884. Assai diπusi gli interventi che generano più che spostamento, un eπetto che può venire definito di slittamento, ossia la geminazione di un capitolo in due segmenti più brevi. Addirittura, nella Parte Quinta, per ben due volte, da un capitolo ne vengono ricavati 3: il xxiii 1884 origina, con qualche variazione, iv, v, e vi della Parte Quinta. Sempre nella Parte Quinta, xxiv dà origine, sia pure con varianti e inserimenti, a vii, viii e ix. Così, risulta evidente che le innovazioni hanno puntato, più che sui contenuti diegetici, sul ritmo: ne sortisce una narrazione sincopata, a segmenti brevi. L’eπetto di teatralizzazione, addirittura di melodramma, è lampante. Non casualmente questo genere di intervento è acuito nella parte finale che ne riceve una forte valenza scenica. Il romanzo del 1884 presentava, pur tra volute esuberanze di stile, un taglio problematico che poteva sfiorare persino la scrittura saggistica; nel 1904 si procede verso un riequilibrio che implica misure oggettive e quasi pittoriche, ma pure un trasferimento o per dire meglio potenziamento del sentimentalismo che ne garantisce la sopravvivenza. Con questo, si osserva pure una accentuazione di taluni profili psicologici che finiscono per proporre una diversa lettura di significato: Diana De Marchis in origine era un personaggio intrigante e frustrato ma non provvisto di speciale malvagità; nella versione finale se

anco marzio mutterle 440 ne fa una sorta di essere demoniaco che favorisce addirittura l’adulterio – ovviamente per danneggiarla – dell’amica, ne coltiva in seguito i sensi di colpa e smarrimento, per tradirla con vergognosa volgarità alla fine con l’uomo che Fidelia ritiene di amare. Qui meriterebbe di essere avanzato un discorso sulla maniera, non propriamente indulgente, con cui Colautti illustra le figure femminili, scorrendo tra l’arida malvagità della De Marchis e l’incoscienza in buona fede ma molto più incauta di Fidelia adultera innanzitutto per noia e ingratitudine. Complessivamente nel tessuto del romanzo i casi di capitoli nuovi sorti per scissione in una coppia di capitoli brevi da un capitolo originale, o addirittura per triplicazione come nelle circostanze già accennate, superano la decina, con tendenza a collocarsi dalla parte centrale in poi. Va da sé che la procedura non è del tutto semplice né meccanica, e sovente finali o incipit di capitolo sono aggiustati con frasi esclamative –interrogative: in altri termini, si provoca un aumento dell’emotività. Per addurre un esempio: l’esclamazione «Un pretesto! Un pretesto!...» che corona una tumultuosa riflessione di Diana costituisce la battuta di chiusura del cap. i, Parte Quarta (p. 447); ma in origine all’altezza del 1884, compresa nel cap. xviii, senza ricorso alla cesura di una fine capitolo, si collocava in una normale sequenza narrativa e proseguiva ulteriormente: In quella specie di roulette elettorale, bisognava occuparsi del banchiere piuttosto che degli altri giuocatori. Un colpo solo, ma giusto, e il banco sarebbe saltato. Essa invocava, cercava, fiutava un pretesto. Ed era tentata di gridare: - La mia onestà per un’occasione! (pp. 342-343)

Oppure, all’interno di cap. xvii si legge: «Insomma, aveva paura. Paura di che? Fidelia aveva preso tutte le sue precauzioni» (p. 319): verrà scisso in due tra inchiesta e risposta, l’una al finale di cap. ix, Parte Terza e l’altra all’incipit di cap. x (pp. 416-417). Spezzettamento che corrisponde alla ricercata crescita di tensione drammatica. Esiste una procedura sistematica per cui ciò che nell’ edizione ’84 veniva espresso in forma diretta, grazie a una probabile tendenza a registrare di sapore giornalistico, viene reverso nella forma del discorso indiretto libero, con una palese duplicità tra discorso realistico, parlato, e movimentazione emotiva del personaggio. Verifichiamo qualche caso di simile a√namento narrativo: il primo riguarda una prima visita di Diana a Fidelia nel villino di questa: - Siamo arrivati stanotte. Un viaggio eterno! Ho avuto appena il tempo di visitare il mio Nido… qualche cosa di poetico… un castello, mia cara! Che fortuna trovarti qui! Avete avuto una magnifica idea di fare la luna di miele nel nostro collegio!... Figurati: mio marito deve pronunciarvi un discorso, che non farà ribassare i fondi. Sono venuta per questo e anche un pochino per vederti. Ti accomoda? (1884, cap. I, p. 7).

Nuova versione: - Siamo arrivati stanotte. Un viaggio eterno! Che fortuna trovarti qui! Avete avuto una magnifica idea di passare la luna di miele nel nostro collegio. Figurarsi! Suo marito, in qualità di deputato uscente, doveva pronunciarvi un discorso, che non avrebbe fatto ribassare i fondi. Fra due mesi avrebbero le elezioni generali sulle braccia, e bisognava per tempo preparare il terreno… Ed ella era venuta per questo, e anche un pochino per rivedere l’amica d’una volta, diventata miracolosamente sua cugina… (1904, Parte Seconda, cap. II, p. 77).

In questo caso la trasformazione coinvolge la prima parte soltanto del primitivo discorso diretto, dando luogo a una sorta di ibrido nella redazione finale. Più frequentemente il passaggio è limpido, senza mediazioni. Parole di Fidelia, da un suo fitto dialogo con Diana nel primo caso; ma nella seconda versione muta il punto di vista, esse sono attribuite a Diana:

fidelia vent’anni dopo

441

- Dicono, prima di tutto, che il vostro pranzo è indigeribile, che il vostro vino ha la filossera, che il vostro caπè è un surrogato… Soggiungono che siete degli intriganti spiantati, degli avventurieri in busca, che so io? Dei parassiti del bilancio… E finiscono per concludere che tuo marito non è degno di rappresentare una parrocchia e che tu… (1884, cap. v, p. 102).

Versione del 1904: Sciocchezze! Dicevano, forse, che il loro pranzo era indigeribile, che il loro vino sapeva di filossera, che il loro caπè era un surrogato?... Soggiungevano ancora che erano intriganti spiantati, avventurieri in busca, venditori di fumo, parassiti di bilancio?... (Parte Seconda, cap. v, p. 136).

La metamorfosi, evidente, è da rintracciarsi nel riequilibrio da un esagitato romanzo di denuncia e sentimenti, a un’opera di costume dove la denuncia e la passione politica permangono, ma allontanati e dimensionati a sfondo, sovrapponendo o fondendo teatralizzazione ritmata ed esplosioni soggettive. È il momento di accennare ai numerosissimi microinterventi di cui il testo definitivo è costellato praticamente ad ogni pagina. E qui non si pensa ai ritocchi di contenuto e leggero allargamento dello spazio concesso a personaggi di contorno, che vengono introdotti all’altezza dell’edizione 1904: la sorella di Fidelia, Gilda, figura col nuovo nome di Maria Grazia / Graziella e l’età sua è ritoccata da quindici a sedici anni. Introdotta ex novo la figura – del tutto ininfluente, in verità – della bambina tisica chiamata Stregolina, quasi un doppio di Fidelia, che la ribattezzerà Mammola. Talune circostanze, prima tra tutte la gravidanza di Fidelia, vengono evidenziate e collocate maggiormente in chiaro. Viene aggiornato tutto il settore, per chiamarlo così, dell’attualità, che lascia una traccia ben consistente del trascorrere di un ventennio. Ad esempio, cavalli e carrozze sono in via di sparizione, sostituiti da quel cavallo d’acciaio che fu la bicicletta, o addirittura da una robusta automobile Fiat. In qualche caso, la volontà di aggiornamento influisce pure sulla trama, favorendo piccole innovazioni che giovano a drammatizzarne in misura maggiore lo sviluppo; la tresca tra Fidelia e Moriz veniva scoperta casualmente, da lontano, dalla amica-nemica Ada e altri; nel 1904, la circostanza viene aggravata dallo scatto di una fotografia (il Kodak!) che poi verrà fatta circolare contribuendo a distruggere l’immagine sociale della protagonista – un frammento ne verrà reperito alla fine proprio da Speraldi che così sarà l’ultimo a sapere e comprendere. Alla figura del conte di Lantana, concorrente politico di De Marchis maschio – fino a che ne viene distolto grazie a manovre non precisate ma intuibili di Diana – viene data dignità di personaggio, mentre prima il suo peso si limitava a poco più che un nome. Ancora: per ciò che concerne l’apparato di riferimenti scientifici di cui Colautti si giova, i nomi della ricerca scientifica maggiormente avanzata prendono il posto di altri meno stimolanti. Oppure, nell’ultima versione si precisa che la cura decisiva è basata sul radio. Non sono soltanto i nomi collegati alla scienza, per la verità: si tratta di tutto l’apparato, coltissimo anche se è problematico verificare quanto approfondito, che coinvolge la cultura di fine secolo, compresa quella musicale: è un bisogno continuo di appoggio, come se la pagina altrimenti non fosse in grado di sorreggersi. Analogo fenomeno coinvolge l’attenzione verso il socialismo e il favore incontrato dalle società operaie. La prosa di Colautti rimane infarcita di citazioni, necessitata a continui riferimenti all’attualità, motivandosi con una volontà sferzante di critica e parodia del vissuto storico e soprattutto politico. Diciamo che rispetto ad altri romanzi, in Fidelia tale tendenza è addirittura acuita, perché alimenta lo sguardo ironico e il procedere per paradossi. Nella scrittura di Colautti è essenziale il ricorso agli epiteti, alle apposizioni indignate e gonfie di rancore moralistico: giudizi impliciti e sintetici, che si intrecciano con vere e

anco marzio mutterle 442 proprie apostrofi, tirate sarcastiche contro il malcostume dell’Italia di fine secolo. Ebbene, anche questa componente viene sottoposta a revisione, con una evidente riduzione della violenza linguistica. Se «voce pornofonica» (p. 305) veniva detto riferendosi allo stile di conversazione della seducente signora De Marchis; nella redazione definitiva si parla di «melopea pornofonica» (p. 396), sintagma che verrà nobilitato immediatamente dopo con riferimento a un luogo wagneriano. Parole che potevano riuscire troppo pesanti e giornalistiche si trovano ad essere sostituite oppure eliminate: «serraglio» – sempre s’ intende con valenza dispregiativa – prende il posto di «casotto», con riferimento al ‘Belvedere’. Tutto quanto linguisticamente può riuscire aggressivo in eccesso viene limato o neutralizzato: frequentissima l’introduzione di iperbati che avvicinano la nuova scrittura a un ambito maggiormente letterario. Rimane tuttavia una pulsione espressiva verso il grottesco che spesso perviene a eπetti di comicità autentica, che quasi sembrano sovrastare l’intenzionalità tragica del racconto: si vedano le macchiette del piccolo mondo di provincia, e la vivacità dei banchetti o balli a sfondo politico, dove le figure specie femminili propongono soluzioni di franca comicità. Gli svariati «lui e «lei» della versione originaria cedono il campo ai più letterari ed educati «egli», «ella». «Lei» e «codesto» sostituiscono rispettivamente «voi» e «questo». Concludendo, l’edizione rifatta, grazie a un labor limae paziente di ritocchi e integrazioni, perviene a un romanzo molto più ordinato, persino simmetrico e si vorrebbe dire classico, dato che nelle due parti centrali, terza e quarta, scenario politico e di costume, e distruzione progressiva che viene operata sul personaggio di Fidelia, si integrano e alternano. Abbiamo sottolineata l’evoluzione della figura di Diana: l’averla condotta ad essere una sorta di Jago al femminile, funge da collante per la dinamica della trama. Il messaggio risulta, chiaramente, una diagnosi di pessimismo assoluto, rivolta alla società moderna ma più ampiamente anche nei confronti della storia e della natura. E non parliamo del mito del femminile. Colautti lavora su una vicenda in cui soccombe l’essere più debole, fisicamente e culturalmente. A questo fine, le forze agenti non sono però l’economia o l’ereditarietà, ma alcuni fattori morali: crudeltà e corruzione sociale, impotenza della scienza che si è fatta presuntuosa illusione. Rimane aperto qualche quesito circa la valenza, etica e letteraria, dell’edizione ’84: certo, meno eleganza e maggior forza polemica, quasi al livello di un pamphlet. Minore accortezza nel rifinire le figure, schierate a comporre un forte dramma sentimentale. Ma appunto, questo era prevalente rispetto alle motivazioni dello sfondo sociale e della degenerazione del costume politico. Il lavoro di riaggiustamento e ampliamento che viene proposto a distanza di un ventennio ha perseguito una saldatura tra scienza, politica, psicologia, oπrendo il sarcastico aπresco di una società senza speranza. Un ultimo accostamento praticabile sarebbe con un altro ‘irregolare’, egli pure impulsivo e generoso quanto refrattario alla compostezza e alla misura: Alfredo Oriani. Per lui come per Colautti si potrebbe adattare il sintagma coniato dallo Speraldi 1904: «volgarità sublime» (p. 68). Ma si trattava dell’amore; noi invece ci si riferisce allo stile.

«L’AMANTE È UN LADRO»? OTELLO NEL FIGLIO DI ARTURO COLAUTTI Paola Ponti «Il Figlio» tra Zanardelli e Shakespeare

U

scito nei primi anni Novanta dell’Ottocento e poi ripubblicato per più lustri da vari editori, Il figlio 1 narra una storia complicata che unisce passione, tradimento, alcolismo, prostituzione, processi e uxoricidi. Contrariamente a quanto la trama del libro parrebbe suggerire, il romanzo non vuole tanto raccontare un’eπerata e sanguinaria storia d’amore extraconiugale, quanto oπrire al lettore più chiavi di lettura sul tema del tradimento e sulla legittimità della vendetta che ne consegue. La prima scelta dell’autore è di collocare la storia del protagonista, Enea De Liberi, tra cronaca e letteratura. Da una parte, infatti, Colautti richiama ben due casi di uxoricidio (De Liberi e Bertini), facendoli commentare dai giornali e da illustri studiosi dell’epoca che si rifanno al codice Zanardelli allora in vigore. 2 Dall’altra, inanella una cospicua serie di richiami che si muovono tra pagine di classici celebri, libretti d’opera, trattati giuridici, criminologici e persino politici. Si compone così una prismatica biblioteca, in parte latente e in parte esibita, nella quale il personaggio letterario a cui Enea De Liberi è più spesso assimilato, in ragione della gelosia e del tradimento subiti, è Otello. La vendetta, modellata sull’esempio archetipico e moderno del Moro di Venezia, è per Colautti schema inevitabile? Il romanzo sembrerebbe rispondere aπermativamente, ma il percorso che conduce a questa conclusione è tutt’altro che lineare.  



«Le prove, le prove». La vendetta senza il suicidio Giovane e avvenente capitano della regia marina, Enea de Liberi viene più volte paragonato al Moro con la sua bianca e nivea Desdemona. 3 Anche negli scartafacci del romanzo, consultabili nel Museo del Risorgimento, una delle poche parole leggibili negli appunti dello scrittore relativi al Figlio, è appunto Otello. 4 Non potendo, per ragioni di spazio, prendere in esame tutte le occorrenze che rimandano al personaggio scespiriano, ci siamo limitati a tre soli casi di intertestualità che riguardano sia la tragedia di Shakespeare, sia il libretto di Boito, messo in scena per la prima volta alla Scala di Milano il 5 febbraio 1887. 5 La prima occorrenza riguarda il momento in cui Enea comincia a dubitare della since 





1   Si cita da Arturo Colautti, Il figlio, Milano, Galli di C. Chiesa e F. Guindani, 1894 (d’ora in poi con la sigla F, seguita da n. di pp.). 2   Il codice Zanardelli entra in vigore nel 1889, l’anno prima dell’inizio della storia che è ambientata nel 1890 (F, p. 69). 3   Si dà sintetica indicazione dei principali passaggi del Figlio, che chiamano in causa il personaggio di Otello: oltre a quelli qui analizzati, anche capp. ii, p. 42; v, p. 92; ivi, p. 99; ivi, p. 104 – qui con implicito riferimento alla tragedia, i, iii, 294; vii, p. 142; xiii, p. 278; ivi, p. 279. 4   Cfr. il faldone 44, Manoscritti di opere edite e inedite, in cui è contenuto un insieme di fogli manoscritti pinzati da graπetta e privi di catalogazione, contenenti lo schema dei vari capitoli del Figlio. La scrittura di Colautti è illeggibile e spesso cancellata, ma vi si distingue la parola Otello, che conferma la presenza del personaggio scespiriano nella fase di ideazione del volume (Archivio Colautti, Fondazione G. Castellini, Biblioteca del Risorgimento di Milano). 5   Anna Busi, Otello in Italia (1777-1972), Bari, Adriatica, 1973, p. 99.

paola ponti 444 rità dell’amata, che la cameriera aπerma essere non solo infedele ma anche prostituta di alto bordo («vi inganna», «vi burla», «si vende»). 1  

Poco mancò che Enea non gridasse, come l’eroe dello Shakespeare e del Verdi: «Miseria mia!». Ma, certo, il Moro di Venezia non dovette soπrire molto più di lui, dopo l’inoculazione famosa. Quel piccolo Jago in gonnelle lo aveva attossicato abbastanza. […] Quelle cose terribili e stolte, insopportabili e assurde, lo rendevano più stupido d’un vitello. Doveva pigliarle sul serio, o farne una risata? 2  

Più che sulle insinuazioni di Benvenuta, che agisce nella parte femminile di Jago, il narratore insiste sulle reazioni di Enea geloso e incredulo, facendogli pronunciare le stesse parole di Otello nel libretto di Boito: «Miseria mia!!». L’esclamazione è nel Figlio subito seguita dalla richiesta delle prove, e il Moro è qui di nuovo espressamente citato: «– Le prove! le prove! – ripeteva il giovane, senza accorgersi di contraπare Otello». 3 Citando «Miseria mia!!», Colautti richiama l’attacco del noto passo del melodramma – atto ii, scena iii –, che mette in stretta successione i passaggi a cui è consegnata la sorte dell’uomo tradito: l’indagine e la prova, da una parte, la vendetta e il suicidio, dall’altra.  

Miseria mia!! - No! il vano sospettar nulla giova. Pria del dubbio l’indagine, dopo il dubbio la prova, Dopo la prova (Otello ha le sue leggi supreme,) Amore e gelosia vadan dispersi insieme! 4  

Il prelievo testuale e il rimando al Moro rendono presente uno schema obbligato, che Enea vagheggerà senza poi realizzarlo. Egli infatti è una ‘contraπazione’ di Otello e il prelievo del testo boitiano funziona come indice della distanza dal modello di partenza. Lo stretto implicarsi di vendetta e suicidio – tipica del delinquente per passione, come voleva il positivista Ferri, a cui presto sarà data la parola – viene infatti a mancare. E a morire sarà solo la donna, non più moglie fedele bensì amante-prostituta. Il richiamo alle «prove» ha anche un legame meno visibile con la struttura del libro e con la prospettiva non univoca che Il Figlio vuole oπrire sulla vendetta. Mentre accerta il contegno sessuale della donna amata, Enea si trova a dubitare di quello della madre che scopre, proprio da un anodino articolo de «La Riforma», essere morta per uxoricidio il 13 maggio 1883. L’articolo riportato testualmente è in realtà frutto di invenzione, – dato che sul giornale citato non compare aπatto –, ma conferisce alla storia i tratti della perfetta verosimiglianza: la moglie di Paolo De Liberi, padre di Enea, era stata scoperta in flagranza di adulterio e uccisa dal marito. Enea è dunque portato a giudicare dell’infedeltà femminile da un punto di vista terzo, quello della vittima innocente delle colpe dei genitori. Un’ottica che sembrerebbe mettere in discussione le leggi supreme di Otello. Se infatti le «prove» che invoca sulla scorta del melodramma e della tragedia ne fanno il giudice per eccellenza – «Non era più un figlio: era un giudice, il più sacro, il più legittimo, il più inesorabile giudice» - 5, gli esiti dei suoi accertamenti confliggono irrimediabilmente tra loro: la legittimità della vendetta muta a seconda che le prove siano considerate con gli occhi dell’uomo tradito o con quelli del figlio orfano.  

L’adulterio come furto dell’onore Il narratore non si limita a raccontare la storia di Enea De Liberi, ma desidera anche aπrontare la questione dell’adulterio in modo autonomo dal suo personaggio. Inserisce 1

2 3   F, p. 59.   Ibidem.   F, p. 61.   Otello. Dramma lirico in 4 atti, versi di Arrigo Boito, musica di Giuseppe Verdi, Milano, Ricordi, s.d, p. 30. 5   F, p. 235. 4

otello nel figlio di arturo colautti

445 così una sorta di pausa narrativa al caπè Aragno, dove alcune personalità note dell’epoca, realmente esistite e ancora viventi, commentano il recente uxoricidio Bertini di via Firenze, rifacendosi al codice Zanardelli e alla sua abolizione della pena di morte.. Quasi tutti i punti di vista espressi prendono le mosse dalla definizione dell’amante come ladro, che questa volta chiama in causa l’Otello di Shakespeare. In merito al parallelo, si esprimono in particolare Edoardo Arbib (giornalista e scrittore), Enrico Ferri (penalista e criminologo), Salvatore Barzilai (politico e giornalista) e Francesco Durante (medico chirurgo), anche se poi intervengono altri nomi, come Enrico Panzacchi e Luigi Arnaldo Vassallo che sposteranno la riflessione sull’uxoricidio verso l’ipotesi del divorzio («il divorzio è il disarmo»). 1 Il primo a prendere la parola è il romanziere Arbib. Citato nel volume come autore delle Tre contesse, si pronuncia nettamente a favore dell’uxoricidio:  

23

Ha fatto benissimo! […] Quando posso, ne ammazzo sempre nei miei romanzi… Infatti, che cosa è un drudo? Un ladro, poiché viene a rubare in casa nostra ciò che abbiamo di più caro e di più sacro: l’onore. 2

Good name in man and woman, dear my lord, Is the immediate jewel of their souls: Who steals my purse steals trash; ’tis something, [nothing, ’Twas mine, ’tis his, and has been slave to thou[sands; But he that filches from me my good name, Robs me of that which not enriches him, And makes me poor endeed. 3  

Per quanto a proposito della legittimità della vendetta Arbib aπermi di «stare con Alessandro Dumas», la questione del furto dell’onore ci pare rimandi anche ad Otello, che verrà esplicitamente chiamato in causa poco dopo. Le aπermazioni di Arbib sembrano contrarre più di un debito lessicale con il passo centrale della tragedia scespiriana, atto iii, scena iii, versi 158 sgg., laddove Iago paragona la sottrazione indebita di un oggetto materiale, una borsa di denaro («purse»), a quella di un valore immateriale, il buon nome («good name»), un bene prezioso e non monetizzabile, che va irrimediabilmente perso con l’infedeltà femminile. Grazie all’uso di verbi semanticamente a√ni (to steal, to rob, to filch), il passo insiste sull’idea del furto e sulla diversa entità dei suoi eπetti, che si rivelano irreparabili proprio quando il bene sottratto non è concreto. Mentre infatti la borsa di denaro è stimata un’entità trascurabile, che si mantiene inalterata passando di mano in mano, non così accade con il buon nome: un «gioiello» prezioso, la cui perdita impoverisce tanto chi viene derubato (il marito tradito), quanto chi ruba (l’amante). 1   F, p. 130. Le aπermazioni di Arbib riprendono, a livello più generale, quelle del padre di Enea, Paolo De Liberi, che già nel II capitolo taccia il figlio di essere un «ladro», poiché frequenta una donna sposata: «Non ti accorgi, dunque, di essere un ladro? – Francamente, no…Io non rubo: accetto…», F, p. 32. La medesima definizione torna anche nel VII capitolo, poco dopo alcuni riferimenti ad Otello, in un intervento di Fantasio: «L’amante è un ladro, 2 non un assassino. Egli si piglia la donna d’altri solo per restituirla…» (ivi, p. 146).   F, p. 116. 3   «Il buon nome per l’uomo e per la donna, mio caro signore, è il giojello più prezioso della loro anima; chi mi ruba la borsa non mi toglie che una vil materia; egli è qualcosa, egli è nulla; era mio; era suo, e fu in potestà di mille; ma chi mi toglie il mio buon nome mi ruba quello che lui non arricchisce e me riduce in povertà» (Otello o il Moro di Venezia, tragedia di Shakspeare voltata in prosa da Carlo Rusconi, sesta edizione col testo inglese di riscontro, Firenze, Le Monnier, 1867, p. 121). Non è dato sapere in quale edizione Colautti abbia letto il testo di Shakespeare (si veda per le più importanti edizioni ottocentesche, Anna Busi, Otello in Italia (1777-1972), cit., pp. 35-102). Si è scelto di citare il passo in inglese sia perché è presente in una delle edizioni dell’Otello più diffuse nell’Ottocento – quella di Rusconi, verosimilmente conosciuta dall’autore –, sia perché dà modo di evidenziare nell’originale l’uso di termini sinonimici attinenti all’area semantica del furto. Va detto che la traduzione di «good name» è resa da Rusconi e Maffei (per quest’ultimo, cfr. Firenze, Le Monnier, 1869, pp. 110-111) in modo letterale, come «buon nome», mentre Carcano la traduce come «fama», in un’accezione più vicina al concetto di reputazione (si cita dalla seconda edizione napoletana del Teatro di Shakspeare, scelto e tradotto in versi da Giulio Carcano, Napoli, s.e., 1860, p. 353; si noti, per inciso, che Colautti scrive Il figlio a Napoli, dove questa edizione di Carcano viene pubblicata).

paola ponti 446 I rapporti che Colautti istaura con il passo scespiriano riguardano, più esplicitamente, la definizione dell’amante come ladro dell’onore (‘colui che ruba il buon nome’), ma sottendono anche la metafora del «furto in casa»: entrambe le occorrenze esprimono metaforicamente il tradimento subito come la sottrazione indebita di un bene personale. Il «good name», definito da Iago «the immediate jewel of their souls», viene riformulato nel discorso di Arbib come «ciò che abbiamo di più caro e di più sacro: l’onore». I due passaggi individuano nella buona reputazione legata al contegno sessuale della donna un’entità preziosa, dotata di un valore inestimabile. 1 In particolare, l’immagine del «furto in casa», mentre fa immediatamente pensare alla sottrazione di denaro o di gioielli – richiamando implicitamente i termini presenti nel discorso di Iago –, dà piuttosto evidenza al danno subito con l’adulterio. Ciò accade perché l’argomentazione di Arbib mutua dal testo scespiriano e dal personaggio del villain, l’uso di un linguaggio di matrice economica, come spiega Heilman, basato sull’idea del guadagno indebito e della perdita irreparabile. 2 Quest’ultimo concetto, riferito al furto dell’onore in termini molto concreti, enfatizza l’entità dell’ingiustizia subita, al punto da rendere plausibile una riparazione basata sulla vendetta personale e modellata sull’esempio di Otello. Va inoltre aggiunto che il denaro, unico termine assente nel passo di Colautti, ha nel Figlio una declinazione molto particolare, che tende a connotare la sessualità della donna nei termini di risarcimento per una prestazione (nel testo di Shakespeare, Bianca è una cortigiana). Il padre di Enea consiglia di avere rapporti amorosi solo a pagamento («Vuoi goderne? – insisteva il vecchio – Paga e saluta…») e la donna amata da Enea, Costanza, esercita in segreto la professione di escort per garantirsi un ragguardevole tenore di vita. 3 Il denaro non è entità vile e altra dal buon nome, ma termine decisivo nelle relazioni sessuali e nel danno inferto alla dignità personale. Un terzo passaggio riguarda la vendetta e consente di chiarire come Arbib legga il contegno del Moro:  





Otello è un uomo rispettabile, benché uccida un’innocente. E questo avviene perché la morte è forse l’unico lato serio della vita… 4  

La vendetta nel Figlio diventa anche il correttivo irrinunciabile dell’irrisione che accompagna chi viene tradito (o chi è figlio di un genitore cucu). Il ricorso alla giustizia retributiva, che il testo in più occasioni chiama la legge del taglione, 5 non è necessariamente frutto di un accertamento del reato; può anzi addirittura prescindere da un’attendibile ricostruzione dei fatti, laddove intervenga a preservare l’onore dal senso del ridicolo: «come difendersi dal ridicolo? Il nume invisibile delle mille bocche che ridono sempre». I frequenti ricorsi all’onore oπeso e al riso come sanzione sociale di un torto o di un inganno subito, sono certo un tratto distintivo e centrale del testo di Colautti. Enea, in particolare, ritiene insopportabile l’idea di essere stato «corbellato» da Costanza. Nel passo citato, Arbib fa riferimento al personaggio di Otello, senza però che vi sia una citazione o un evidente rapporto di intertestualità. Va tuttavia considerato che nel libretto  

1   Charles Barber, The theme of honour’s tongue. A study of social attitudes in the English drama from Shakespeare to Dryden, Göteborg Sweden, Acta Universitatis Gothoburgensis, 1985, p. 12: «There were however three groups of ideas which were expecially connected with it [honour]: the first group had to do with high rank, title, noble birth; the second was concerned with the regulation of the behaviour of the gentry, and the third, concerned with chastity, was more specifically directed to the conduct of women». Per il concetto di onore, cfr. ad vocem, Enciclopedia del diritto, xxx, Milano, Giuπré, 1980 (triplice accezione: «intimo valore morale della persona»; «coscienza della propria dignità»; «stima di terzi». 2   Per il passo citato (iii, iii, 158 sgg.) e i suoi legami lessicali con l’intera tragedia, cfr. Robert B. Heilman, The Economics of Iago and Others, «pmla», 68, 3, 1953, pp. 555-571. 3   F, p. 31. A proposito della vendita della propria onorabilità: «anche l’onore è una merce: la si baratta con un’altra. Ciascuna paga come può; ma tutte vogliono spendere ugualmente», F, p. 283. 4 5   F, p. 120.   F, p. 123.

otello nel figlio di arturo colautti

447 di Boito sono espunti tutti i riferimenti relativi al furto della donna e del buon nome; ben rilevata è invece, rispetto alla tragedia, la scena dell’irrisione, quella in cui il Moro pensa che Cassio si be√ di lui in quanto marito tradito: (L’empio trionfa, il suo scherno m’uccide; Dio frena l’ansia che in core mi sta!) […] (L’empio m’irride – il suo scherno m’uccide; Dio frena l’ansia che in core mi sta!). 1  

Se Otello ritiene di essere ucciso dallo scherno dell’amante, e non solo dall’infedeltà dell’amata, è necessario che la morte ristabilisca la serietà in tema di tradimento. Esattamente come aπerma lo scrittore Arbib e come nel romanzo sarà più volte ribadito. 2Anche in questo caso tuttavia la storia di De Liberi, pur ricalcando quella del Moro, ne rappresenta una sorta di ‘contraπazione’. Nell’eseguire la vendetta, Enea sarà infatti preceduto da suo padre che uccide Costanza colpendola con un martello alla testa. Questa sostituzione viene giustificata nel romanzo per motivi giuridici, dato che Enea nel ruolo di amante (e non di marito) non avrebbe goduto di alcuna attenuante in sede processuale e avrebbe scontato un’intera pena per assassinio. Vi è anche una ragione ulteriore, che appunto funge da correttivo rispetto allo schema tragico o melodrammatico che inscena la morte. Il padre alcolista che attua la vendetta al posto di Enea non è direttamente implicato nella vicenda amorosa. Può pertanto compiere l’omicidio nel ruolo di chi agisce per amore del figlio e non della donna. La scena finale che descrive Costanza in «una giacitura tra oscena e pietosa», si chiude con il macabro riso del vecchio padre («rideva, rideva, rideva») che appunto può schernire la vendetta per amore, mentre Enea cade svenuto.  

L’adulterio come ‘irredentismo psicologico’ Tutti gli altri interlocutori al caπè Aragno, prenderanno le mosse dall’equazione amanteladro, lanciata da Arbib sulla scorta di Shakespeare. Un’equazione feconda, le cui variazioni attenuano la portata tragica del tradimento subito. In particolare, Barzilai definisce l’«adulterio una «compartecipazione abusiva» – un prestito, non un furto –, dato che la moglie continua ad essere ‘proprietà’ del marito; Francesco Durante lo ritiene addirittura un «regalo», dato che comporta, in linea teorica, la possibilità di un figlio illegittimo («sofisticazione della paternità»). La replica più importante, tuttavia, è quella di Enrico Ferri, docente di diritto penale in varie università italiane, avvocato notissimo, autore del fortunato volume Socialismo e criminalità (1883). Ferri è teorico del passaggio dallo studio del reato come ente giuridico astratto, cioè indipendentemente dalla persona che lo commette, allo studio del reato come «fatto naturale e sociale»: al centro della sua attenzione c’è quindi «l’uomo delinquente». Nei casi di vendetta per adulterio, egli ricorre spesso all’esempio del Moro di Venezia, che conosce molto bene e definisce il tipo classico del «delinquente per passione». 3 Ferri tende a confutare le posizioni letterarie di Arbib, attraverso l’osservazione della  

1

  Arrigo Boito, Otello, cit., atto iii, scena v, pp. 51-52.   Si veda F., cap. viii, p. 167, in riferimento all’uxoricidio di via Bertini: «Sì, la punizione era giusta; la vendetta era logica. La legge non tutela il mio nome? e io mi sostituisco alla legge. Il mondo ride? e io converto il sogghigno in brivido. La rivoltella non ammazza solo l’adultera: ammazza anzi tutto il ridicolo; il ridicolo che è il vero colpevole…» (corsivi miei). 3   Enrico Ferri si rifà proprio alla figura di Otello, per indicare il tipo emblematico del «delinquente per passione», come dimostra a suo avviso il suicidio («la immediata reazione suicida all’accesso omicida è un sintoma specifico nel delinquente per passione», da intendersi come «reazione immediata del senso morale, transitoriamente soπocato dall’uragano psicologico della passione»), Enrico Ferri, I delinquenti nell’arte, Genova, Libreria Editrice Ligure, 1896, p. 54. 2

paola ponti 448 fenomenologia del tradimento. L’amante non è più un ladro che si impadronisce di ciò che non gli appartiene, è invece un «figlio della selezione» che tende a riappropriarsi di un terreno ‘innaturalmente’ precluso dalla convenzione matrimoniale. Nei suoi studi Ferri avrebbe più volte sottolineato come la «selezione matrimoniale» avvenisse su base economica e sociale, con il risultato di impedire «l’unione degli individui più sani e più belli», e di «avvelenare l’unione coniugale, fin dall’origine, colle preoccupazioni finanziarie», «senza contare la conseguenza dell’indiπerentismo conjugale, dell’adulterio sportivo, dell’abbandono morale». 1 In fondo, lo stesso Otello aveva avuto Desdemona infrangendo le consuetudini nobiliari veneziane, che volevano la giovane accasata con un suo pari di pelle bianca. E Iago non manca di sottolineare i «pensieri innaturali» della donna («thoughts unnatural», iii, 3, 237), che ha rifiutato «molte proposte / di matrimonio del suo paese, della sua pelle, / del suo rango, a cui vediamo che, in ogni cosa, / la natura tende» (ivi, 233-235)». 2 L’amore adulterino è dunque conseguenza inevitabile di matrimoni mal assortiti. 3  





L’amante è un figlio della selezione: il coniuge, un prodotto della società. La prima proclamava la libertà sessuale: l’altra stabiliva il monopolio. […] Come tutti i contratti, il matrimonio va soggetto alle violazioni; come tutti i servaggi, va soggetto alle ribellioni. L’adulterio è un irredentismo psicologico, non più illegale e non meno naturale di quell’altro…quello dell’amico Barzilai… 4  

Si arriva così alla definizione di «adulterio come irredentismo psicologico», che per correggere le posizioni scespiriane di Arbib, associa l’ottica del giurista positivista a quella del politico irredentista, ponendo una sorta di analogia tra il «servaggio» della donna a un marito imposto e il servaggio delle terre della Venezia Giulia a un governo sentito come estraneo. Ferri allude in eπetti al volumetto del suo interlocutore Barzilai, L’irredentismo, ecco il nemico!, uscito proprio nel 1890. 5 Il breve saggio espone le ragioni per cui le terre delle Venezia Giulia dovevano essere a buon titolo annesse all’Italia. Nel ragionamento di Ferri, le posizioni scespiriane di Arbib sembrano ribaltate, in quanto l’adulterio, lungi dall’essere un furto, viene visto come una naturale (e inevitabile) riaπermazione di un diritto leso. Il libro non risolve queste «antinomie», anzi le mette in stretta successione: adulterio inevitabile, vendetta necessaria. Se sul piano della cronaca, il dibattito al caπè Aragno arriverà a chiamare in causa anche l’ipotesi del divorzio, come possibilità di porre fine all’unione coniugale senza che intervenga la morte – il divorzio è «disarmo», aπerma Vassallo –, la vicenda di Enea resta ancorata a una salvaguardia personale e privata dell’onore: «sovra tutto l’amante, ha il diritto di uccidere. La giustizia personale comincia dove la sociale s’ arresta. V’hanno delitti non contemplati dalla legge, che andrebbero altrimenti impuni». 6 Nel romanzo di Colautti positivismo e letteratura approdano dunque «all’idea ereditaria della vendetta»: essa è un tratto patrilineare decisivo che, di generazione in generazione, replica nei figli le colpe dei padri. 7 «Se l’adulterio è un furto, l’uxoricidio è un plagio…», 8 aveva aπermato Panzacchi al caπè Aragno, richiamando ancora le parole di Iago. Per porre rimedio al furto dell’onore, deve scorrere sangue. Il figlio del titolo non è aπatto il giudice innocente di un genitore uxoricida, bensì il suo erede legittimo e, per Colautti, l’ennesima contraπazione di Otello.  







1

  Enrico Ferri, Sociologia criminale, Quarta edizione, Torino, Bocca, 1900, p. 577.   Si cita dalla traduzione di Alessandro Serpieri, (Venezia, Marsilio, 2009, p. 171). Cfr. anche Arturo Cattaneo, Shakespeare alla sbarra. Giustizia e processi nel Mercante di Venezia e in Otello, in Giustizia e letteratura, i, a cura di Gabrio Forti, Claudia Mazzucato, Arianna Visconti, Milano, Vita&Pensiero, 2012, pp. 19-25: 24. 3 4  Cfr. Tony Tanner, Adulterio nel romanzo, Genova, Marietti, 1990, p. 24.   F, p. 118. 5   Salvatore Barzilai, L’irredentismo, ecco il nemico!, Trieste, Il Circolo Garibaldi, 1890. 6 7 8   F, pp. 291-292.   F, p. 288.   F, p. 130. 2

ARTURO COLAUTTI GIORNALISTA A NAPOLI Raffaele Giglio

C

ome ogni personalità non partenopea di nascita e di formazione che giunge a Napoli, anche il Colautti fu preso da un amore e un odio nei confronti della società in cui visse, anche se in due periodi cronologici separati, 1 alcuni fecondi anni, espletando il ruolo di giornalista, di poeta, di critico, di romanziere, di librettista. All’ombra del Vesuvio Arturo Colautti espletò per intero quella che fu la sua grande passione di intellettuale ottocentesco, che lo sostenne poi per l’intera sua esistenza. 2 Nella città bagnata dal sole e dal mare, ma ricca di contraddizioni e gravante su una struttura sociale, che ancora risentiva dei fenomeni negativi del regno borbonico e del passaggio a una nuova dimensione statale e politica, il Colautti, in virtù del suo carattere teutonico e della sua formazione, non batté ciglio di fronte alle di√coltà e ai tentennamenti di un ambiente politico legato, allora come oggi, ai propri vantaggi personali, e portò avanti la battaglia ideologica per la quale era stato chiamato. 3 Colautti aveva alle sue spalle già una discreta e variegata attività giornalistica svolta tra Spalato, Zara, Padova e Milano. 4 A questi impegni esplicati prettamente nel giornalismo politico aggiunse poi quella più accattivante come redattore al «Nabab», l’ultimo giornale fondato da Angelo Sommaruga a Roma e diretto da Enrico Panzacchi. 5 Con l’arresto dell’editore Sommaruga e la chiusura del giornale il 27 febbraio 1885, il Colautti, senza quotidiano lavoro, continuò a collaborare a periodici letterari pubblicando versi e prose, che saranno poi riversati in raccolte successive. La sua posizione politica e la personalità dimostrata con articoli a sostegno dell’ideologia liberale gli furono utili per ottenere la direzione, seppure per pochi mesi, di un giornale l’«Unione liberale» di Perugia, creato in occasione delle elezioni politiche. Fu qui che conobbe Leopoldo Franchetti, che lo segnalò all’amico Sonnino per futuri impegni giornalistici. Il posto era già disponibile. A Napoli, presso il «Corriere del Mattino», 6 allora tra i più diπusi nei  











1  Cfr. Sergio Cella, Arturo Colautti, in Dizionario Biografico degli Italiani, 26, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1982, ad vocem, dove le indicazioni temporali sul secondo incarico direttivo napoletano del Colautti sono erroneamente riportate agli anni 1889-1902, assegnandogli la direzione del «Corriere di Napoli» negli anni in cui il direttore era Edoardo Scarfoglio. Da qui le diverse inesattezze, riscontrabili negli interventi successivi di altri studiosi del Colautti. Il Cella, illustre studioso della storia dalmata, ha dedicato non pochi studi ad illuminare il giornalismo liberale e padovano del periodo. Tra l’altro si legga il capitolo da lui dedicato ad Arturo Colautti nel volume La stampa liberale nel giornalismo padovano (1866-1915), Padova, Draghi-Randi, 1967. 2   Per una bibliografia sull’attività di Arturo Colautti rinvio a Giorgio Baroni, Arturo Colautti, «Otto-Novecento», xiii, 6, 1989, pp. 73-82. La bibliografia critica evidenzia che manca ancora uno studio completo sul Colautti giornalista; e sarebbe auspicabile che nei prossimi anni questa lacuna fosse sanata. Per questo futuro lavoro oltre allo spoglio dei periodici cui collaborò per un doveroso riscontro delle fonti, rinvio anche ad Anna Bellio, Tanto per parlare d’amore, «Rivista di letteratura italiana», xiv, 1-3, 1996, Il gusto del raro, pp. 169-179, che alla p. 169 descrive sommariamente l’Archivio Arturo Colautti conservato presso la Biblioteca del Risorgimento di Milano. In verità il volume di Ofelia Novak Colautti, Arturo Colautti. Il poeta della vigilia italica, Milano, Oberdan Zucchi, 1939, scritto dalla figlia adottiva di Arturo su ricordi ed appunti non sempre è attendibile per le evidenti inessattezze che contiene. In questo volume si vedano le pp. 49-85 riguardanti il periodo napoletano del Colautti. 3   Per un esame dell’ambiente partenopeo del tempo, oltre ai due volumi qui citati alla fine del Giglio su Scarfoglio e su letteratura e giornalismo in quella città tra Otto e Novecento (con ampia ed aggiornata bibliografia), si veda Antonio Ghirelli, Napoli italiana. La storia della città dopo il 1860, Torino, Einaudi, 1977, pp. 66-134. 4   Rinvio qui agli scritti di Sergio Cella; in particolare al volume La stampa liberale nel giornalismo padovano (18661915), cit. 5  Cfr. Giuseppe Squarciapino, Roma bizantina. Società e letteratura a Roma ai tempi di Angelo Sommaruga, Presentazione di Pietro Paolo Trompeo, Torino, Einaudi, 1950, pp. 225-228; 441-445. 6   Nelle citazioni indicato con la sigla CdM.

raffaele giglio 450 territori dell’ex capitale del Regno delle Due Sicilie, fondato da Martino Cafiero, uno dei grandi artefici del giornalismo italiano. Edoardo Minieri e Matteo Schilizzi erano i principali finanziatori del quotidiano e ne a√darono la direzione al giovane e brillante giornalista Arturo Colautti. Quindi l’avventura giornalistica di Arturo Colautti a Napoli iniziò il 26 settembre 1885 quando per la prima volta firmò, in qualità di Direttore, il «Corriere del Mattino», pubblicando l’articolo Una protesta, con il quale si presentò ai lettori del quotidiano manifestando le proprie idee irredentiste e per le quali era stato chiamato a difendere questa esigenza politica ritenuta dai finanziatori del foglio prioritaria rispetto alla conquista delle terre africane. Su questo periodico egli firmò con la sigla a.c., o con la firma estesa Arturo Colautti e adoperò lo pseudonimo ‘Noi’. Sulle colonne di questo quotidiano il Colautti poté dimostrare a pieno il valore della sua scrittura giornalistica. D’altra parte l’incarico a√datogli soddisfaceva ampiamente il suo credo politico: monarchico, difensore della potenza italiana, impegnato nella conquista delle città irredente, Trento e Trieste. Ma gli si chiedeva anche di invogliare l’Italia ad ampliare il bacino commerciale nel Mediterraneo con la conquista di terre africane per tenere il passo con le altre potenze europee. Il compito al quale era stato chiamato fu da lui assolto con vigore intellettuale. Seppe coniugare abilmente, anticipando uno stile che a Napoli farà grande poi Edoardo Scarfoglio, la forza delle idee con una capacità di scrittura chiara, talora ironica, ma non aliena da quella cultura umanistica di base ch’egli aveva. La lettura dei suoi fondi risulta sempre piacevole perché in essi grandeggiano le sue idee di una Patria unita, sovrana in Europa al pari delle altre nazioni, grande militarmente e avviata per la strada del benessere economico necessario per far risorgere in modo particolare il meridione d’Italia. Nella rassegna, necessariamente breve, che farò dei suoi interventi, cercherò di dare la parola al Colautti per darvi un esempio della sua prosa giornalistica chiara, limpida, senza fronzoli e carica di sentimento patriottico nel messaggio da lanciare ai lettori e ai governanti. Ovviamente iniziò con l’indicare le priorità delle politica estera italiana; non dimenticò le due città irredente: La verità vera è che bisogna risolversi. […] È suonata l’ora di scegliere tra l’Africa, terribile serena, tra la Turchia agonizzante e l’Austria ringagliardita, tra la Cirenaica e la Giulia. […] Si pensi che l’abbandono anche provvisorio dell’Istria e del Trentino esige dei degni corrispettivi. Prendere la Tripolitania, passi. […] Ma sostituire Trieste con Bellul e Trento con Zula, fosse pure con Suakim, sarebbe un insultare le due città martiri, le eterne Cenerentole dell’Austria. (Le due irredente, CdM, 27. 9. 1885)

Pur nell’esame della febbre africanista che prese l’intera Europa e il ritardo italiano nelle sue scelte, non gli mancò l’umorismo commisto ad uno sfoggio di dotti riferimenti letterari e musicali: Tutti in Africa! Ecco, per esempio, un titolo superbo […] per un’altra operetta di Strauss […] Se messer Francesco Petrarca rivivesse, il galante canonico non dedicherebbe più a quel continente qualche centinaio di esametri latini e cattivi, ma presiederebbe probabilmente un congresso africano. (La terra d’altri, CdM, 12.10.1885)

Non dimenticò di difendere gli interessi dei proprietari del giornale, specie Schilizzi, se giustificò in tal modo la necessità della politica espansionistica italiana in terra d’Africa, pur non dimenticando le città del cuore, Trento e Trieste. Nello stesso tempo invitò lo stato italiano a non accogliere supinamente le regole imposte da altri paesi europei, ma ad agire con spirito pratico accantonando i principi dell’‘umanitarismo’: Noi siamo entrati quasi inconsciamente, più per imitazione che per convinzione, nell’orbita del movimento transmediterraneo. Noi si trascura Trento per Massaua e Trieste per Tripoli, tanto per non

arturo colautti giornalista a napoli

451

restare isolati, per non essere sopraπatti. La politica dalle mani pulite è un bel sogno d’antan. Ed eccoci diventati dei ladri territoriali, come tutti gli altri. (Positivismo, CdM, 28.1.1886)

L’analisi ch’egli fece della politica italiana, e soprattutto del modo con cui si approntano le truppe per combattere in terreni a noi sconosciuti, dell’a√damento a giovani generali inesperti sono dei temi che seguono gli eccidi di Saati e di Dogali del 26 gennaio 1887. Qui «A Dogali tutte le regioni d’Italia, dal forte Piemonte alla fiera Sicilia, erano degnamente rappresentate. Non una che mancasse: non una che mentisse al nome italiano. Il battaglione de Cristoforis era la nazione in estratto; una piccola sintesi dell’Italia, un’epitome breve del suo nuovo valore». Parole non di circostanza, ma di immenso valore scrisse per l’occasione, soprattutto quando la città di Napoli accolse i resti dei nostri gloriosi soldati: L’Italia è fatta ... E gl’Italiani sono fatti con essa. […] Ieri 300,000 cittadini, accorsi a salutare i gloriosi avanzi di Dogali, hanno oπerto un esempio luminoso di serietà civile, quasi fossero in chiesa piuttosto che in istrada […]. Tutta una grande città si è riversata nelle sue vie sorrise dal sole e coperte di lauri, senza rompere un istante solo la religiosa solennità del silenzio […]. O Massaua o Trieste, Tripoli o Trento: ecco il dilemma imposto alla nostra ignavia apparente. […] Piangano pure le prefiche radicali sulle 430 vittime dell’avventura africana. Non lacrime imbelli, non muliebri omei, […] vogliono sopra ogni cosa pronte vendette. (In alto!, CdM, 23.2.1887)

Il tema della vendetta lo sosterrà per molto e scriverà con tono ancora più marcato, ritrovando nella sua cultura esempi calzanti per spingere a combattere l’Austria: Non monumenti di pietre rubate a un re preistorico, ma monumenti di ossa tagliate dalle nostre armi, attendono gli eroi giovanetti di Dogali. Non in un foro di Roma bizantina e borghese, ma là sul colle maledetto venga innalzato l’obelisco perenne, e sia un obelisco di teschi di stinchi nemici come quelli già eretti dai condottieri osmani per le terre d’Oriente. [...] ben più del sasso di Roma, esso dirà all’attonito viandante che gl’Italiani sanno non pure combattere, ma vincere morendo; e che non inclemenza di cielo o lontananza di mare o di√coltà di erario ci distrasse dalla riscossa, finché non fosse purgato l’oltraggio crudele e sciolto il nobile voto. (Il vero obelisco, CdM, 7. 6. 1887)

L’eccidio di Dogali aveva dato la possibilità al movimento antifricano, presente in ogni città italiana, sorto sotto l’egida del partito repubblicano, di organizzare manifestazioni per invitare il governo a chiudere ogni esperienza africana per evitare ulteriori perdite e dedicarsi esclusivamente alla conquista, anche con le armi, di Trento, di Trieste e della Dalmazia tutta. A Napoli il rappresentante più autorevole di questa opposizione era Matteo Renato Imbriani; assieme ad altri aveva annunciato un comizio per chiedere appoggio ai napoletani contro la politica africanista del governo italiano. Nelle more della manifestazione, Arturo Colautti il 12 giugno 1887 pubblicò sul quotidiano un articolo dal titolo Filoabissini nel quale, tra le altre osservazioni sulle origini radicali del movimento, scriveva che Napoli per più ragioni non avrebbe potuto accogliere le idee di un gruppo votato alla ‘codardia’. Ecco l’espressione: Chi sono gli organizzatori di questo pontificale della codardia? […] Noi vogliamo sperare tuttavia […] che il troppe volte annunciato comizio antiafricano e antieroico non seguirà nemmeno oggi, e che la nuova proroga non tarderà a convertirsi in rinuncia definitiva. Così, invece dell’abbandono di Massaua, avremo l’abbandono di questa corbelleria superflua – abbandono molto meno di√cile e molto più economico certamente. Se non sarà un trionfo dell’umanità, sarà una vittoria della serietà: un buon compenso, insomma. Tanto di guadagnato per tutti, specie per i filoabissini. (Filoabissini, CdM, 12.6.1887)

A questo articolo i giovani organizzatori del comizio risposero stampando e diπondendo in città una protesta, accompagnata da una veemente lettera di Matteo Renato Imbriani, che iniziava così: «Leggo i due articoli pubblicati nel Corriere del Mattino […]; l’uno

raffaele giglio 452 intitolato Guerra d’Africa-Piombo e canape riportato da altro giornale, e l’altro Filoabissini, firmato Noi – cioè un tale che fa della penna mercato – se italiano che disonori l’Italia, o croato od uscocco si sia, ignorasi – e risponde al nome di Arturo Colautti». Una copia di questo cartoncino uscito dalla Tipografia dell’Iride è conservato al fondo manoscritti della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli 1 assieme ad altra documentazione relativa al duello che la polemica provocò tra il Colautti e l’Imbriani. Il «Corriere del Mattino» del 17 giugno 1887 pubblicò in seconda pagina le motivazioni e l’esito del duello. Il Colautti ritenendosi oπeso, al pari dell’Imbriani, da quanto era stato scritto nella lettera pubblica, mandò la «sfida al sig. Imbriani per mezzo dei signori tenente colonnello Carlo della Rocca e tenente Teodoro de Conciliis». L’anziano uomo politico accolse la sfida e nominò suoi padrini Giovanni Bovio e Antonio Gaetani di Laurenzana. L’arma fu la sciabola col guantone. Il duello si tenne alle ore 6,30 al Lago d’Averno. Al quinto attacco il Colautti ricevette una ferita alla bozza frontale destra. I chirurghi presenti chiusero il duello, mentre gli avversari si strinsero «spontaneamente la mano». Il chiasso suscitato da questo duello fu enorme, in città e nella nazione intera. Il giorno successivo il quotidiano assicurò tutti i colleghi della stampa italiana che la ferita non era grave e che le condizioni di salute del Colautti non erano preoccupanti. Questo scontro con l’Imbriani fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Lo Schilizzi iniziò a stancarsi del Colautti, sobillando contro di lui gli altri finanziatori di minoranza. Il fiuto commerciale, che tanto gli aveva fatto guadagnare, fu utilizzato anche per la scelta dei nuovi giornalisti a cui a√dare la direzione del giornale. Infatti il livornese puntò tutto sulla coppia Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, che nel 1887 navigavano in un mare di debiti con il loro «Corriere di Roma illustrato». Nel novembre del 1887, a fronte dell’ennesima richiesta di danaro dei due giornalisti, lo Schilizzi propose loro di trasferirsi a Napoli a dirigere «Il Corriere del Mattino» assumendosi in cambio il pagamento di tutti i debiti da loro contratti. La proposta fu accolta. Intanto dal 13 novembre 1887 Arturo Colautti lasciò la direzione del quotidiano; a Roma Scarfoglio il 13 novembre mandò in macchina l’ultimo numero del «Corriere di Roma illustrato», che porta la data del 14 novembre 1887. Nel frattempo Scarfoglio, pur intento a chiudere la propria baracca romana, sostituì il Colautti nella direzione del giornale, che visse ancora sino alla fine dell’anno. Lo Scarfoglio presentandosi al pubblico partenopeo attraverso le colonne del «Corriere del Mattino» nell’articolo Da un anno all’altro del 20 dicembre 1887, oltre a ricordare l’impegno giornalistico del fondatore, Martino Cafiero, riconobbe che i  

Tre anni di lavoro di Arturo Colautti, malgrado il diverso temperamento dello scrittore e dell’uomo, hanno consolidata l’opera di Cafiero, e l’eredità che io raccolgo oggi, è una delle più cospicue che la stampa italiana oπra. (Da un anno all’altro, CdM, 20.12.1887)

Con questo encomio dell’impegno giornalistico del Colautti iniziò l’avventura partenopea della coppia di giornalisti, che chiederanno a Schilizzi di compiere l’ultimo sforzo: chiudere la testata «Corriere del Mattino» ed accendere un’altra, dal titolo caro ai due giornalisti, di «Corriere di Napoli». E poiché era una testata già attiva, seppure di scarsissimo valore, lo Schilizzi la comprò dall’ex socio Minieri e l’a√dò a Scarfoglio e alla Serao. Le colonne del nuovo foglio ospitarono testi letterari del Colautti, in virtù dell’amicizia dei due colleghi giornalisti-letterati. Qui terminò la prima avventura partenopea del nostro Arturo, che sperimenterà nella laguna veneta altre esperienze direttoriali, seppure non entusiasmanti. 1

  Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli, Sez. Mss, Carte Imbriani, Ba xxxvii117.

arturo colautti giornalista a napoli

453

* Con l’abbandono forzato del giornalismo quotidiano, iniziò ora a Napoli a manifestarsi, con presenza più assidua, l’altra passione del Colautti, quella letteraria. Sebbene avesse già a√dato alle colonne del proprio quotidiano nei numeri strenna, di cui abbiamo già fatto cenno, versi e prose, dal 1888 lo zarino sperimentò in forma più consistente la partecipazione ai periodici letterari napoletani. La collaborazione fu per le testate migliori: «Fortunio» (1888-1898), creatura di Giulio Massimo Scalinger; 1 «Flegrea», creata da Riccardo Forster, 2 altro zarino presente a Napoli, redattore del «Mattino» di Scarfoglio e Serao, di cui poi diventerà direttore; 3 «Cronaca partenopea» di Vincenzo Della Sala. 4  







* La seconda avventura giornalistica partenopea di Arturo Colautti iniziò il 5 dicembre del 1901. Negli anni della sua assenza da Napoli, la città aveva assistito e sostenuto l’ascesa giornalistica di Scarfoglio, che a fine del 1891 lascerà il «Corriere di Napoli» per fondare «Il Mattino». Dal 1892 al 1901 il «Corriere di Napoli» di Schilizzi visse una vita anonima, perdendo col tempo lettori ed appoggi politici. Per tentare di risalire la china si pensò di riportare in città un giornalista che sapeva maneggiare la penna come, e forse meglio di Scarfoglio; che sapeva ingaggiare polemica politica e difendere gli interessi dei proprietari. Inoltre il suo acerrimo nemico, Matteo Renato Imbriani-Poerio era deceduto il 13 settembre 1901. La via del ritorno era stata spianata anche dal destino. Arturo Colautti fu chiamato a dirigere il «Corriere di Napoli», la prima creatura giornalistica partenopea dello Scarfoglio. Il 5 dicembre 1901 firmò il giornale nella qualità di direttore e pubblicò, in apertura, un articolo, Ritornando, che è una prosa poetica di indiscutibile valore. Vi leggo solo pochi passi. Ecco l’attacco: Anelito di luci, bramosie di tepori, bisogno d’incantamenti, riflusso di ricordi, rinascita d’aπetti, mi sospingono ancora e sempre alla terra benedetta dal sole, alla marina meravigliosa cui non io vo chiedere, come altri più venturati, il riposo. Invano, durante l’assenza non breve, mi colse il fastidio delle pubbliche cose; invano mi sopraπece il disprezzo per gli uomini anche minori dei tempi: invano, invano mi ritrassi o scorato o sdegnoso nella solitudine del disinganno, chiedendo all’Arte materna maliose lusinghe e nobili conforti. (Ritornando, CdM, 5.12.1901)

E, più oltre, espresse il suo impegno nell’assunzione della direzione del giornale; in queste parole è facile risentire l’eco delle passate polemiche, delle accuse che gli furono rivolte dal Comitato che si opponeva alla guerre africane. Così si presentò il Colautti: Non io reco un verbo nuovo e possente; non io mi vanto professore di etica, né apostolo di saggezza; non io, dunque, sarò l’aspettato vindice della morale, né il portentoso solutore del pubblico problema. Mi basta portare nel mio tenue bagaglio uno scampolo di fede, un grano di coerenza, uno scrupolo di sincerità. Dire ogni giorno con garbo, nel bel paese delle ipocrisie, nella dolce epoca delle transazioni, una mezza verità, magari un quarto di verità: tale il mio compito e il mio desiderio più audace. E, forse, la voce di un uomo spoglio di ogni politica ambizione, che nulla domanda 1

  Si veda «Fortunio» (1888-1899), a cura di Vincenzo Santomauro, Bologna, Millennium, 2005, pp. 491-492.   Si veda Daniela De Liso, «Flegrea» 1899-1901, Napoli, esi, 2006, passim. 3   Sulla collaborazione al «Mattino», ristretta agli anni 1893-1895, si vede Stefania Della Badia, «Il Mattino» 1892-1917, Napoli, Loπredo, 2011, p. 49. 4   Sulla presenza di Colautti sui periodici partenopei si vedano Raffaele Giglio, Letteratura in colonna. Letteratura e giornalismo a Napoli nel secondo Ottocento, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 168, 175-189 e dello stesso, Letteratura e giornalismo a Napoli tra Otto e Novecento, Napoli, Loffredo, 2012, pp. 151-186 e 227-229. 2

raffaele giglio

454

tranne la onesta libertà dell’esame, sarà da qualcuno intesa e ripetuta. Ed ora, poiché ho dichiarato e giustificato il ritorno, invocando il favor degli amici e l’indulgenza degli altri, ricominciamo… (Ritornando, CdM, 5.12.1901)

Questa seconda esperienza non si diversificò molto dalla prima. Colautti aπrontò nella discussione quotidiana i medesimi problemi con diversi uomini politici; l’espansione africana, la guerra balcanica, il movimento socialista, l’acquedotto, la ferrovia NapoliRoma, sono gli argomenti che egli tratterà firmando per la maggior parte gli articoli con lo pseudonimo di Fram. 1 La sua scrittura giornalistica, ferma ai propositi enunciati nell’assunzione della direzione, riuscì a dare al «Corriere di Napoli» una rotta a sostegno del meridione, della politica africana e di una nazione forte. In verità erano le stesse idee portate avanti sull’altro quotidiano napoletano, «Il Mattino», da Scarfoglio. Diversi erano, però, i mezzi invocati per riuscire nell’intento, e i politici appoggiati da Colautti non erano quelli al potere, amici-nemici di Scarfoglio, da lui in parte dipendenti, ma anche finanziatori delle sue imprese. L’opposizione del Colautti alla politica dello Zanardelli e del Giolitti provocò, meglio, concretizzò un’idea di Scarfoglio: acquistare la testata del «Corriere di Napoli» e a√darla a persone amiche del governo. Nel numero del 13 gennaio 1903, in apertura del foglio, appare questo comunicato:  

Da domani il Corriere di Napoli e il Mattino formeranno un solo giornale col titolo IL MATTINO Corriere di Napoli. Poche parole basteranno a spiegare lo scopo e l’importanza di questa fusione. I due giornali, fondati entrambi da Edoardo Scarfoglio, non solo serbavano i segni esteriori dell’origine comune, ma proseguivano, malgrado divergenze sul terreno politico, un somigliante programma: la difesa degl’istituti rappresentativi e degl’interessi meridionali. […] molti redattori del Corriere daranno il loro concorso allo sviluppo del nuovo organismo. Tutti i collaboratori straordinarii gli continueranno la loro cooperazione. Non si tratta, dunque, che di una trasformazione… (CdM, 13.1.1903)

In questo programma non rientrò, di sicuro per sua scelta, Arturo Colautti, che il 13 febbraio del 1903 concluse definitivamente la sua esperienza giornalistica a Napoli. 1

  Altri pseudonimi utilizzati dal Colautti: Doremi e Claudio Frollo.

LA FIGURA DI FEDORA: DALLA MITOLOGIA GRECA AL DRAMMA LIRICO DI COLAUTTI Zosi Zografidou

V

ictorien Sardou, il drammaturgo francese (nato a Parigi il 5 settembre 1831 e morto nella città francese l’8 novembre del 1908) 1 viene ricordato per le sue opere che hanno ispirato libretti d’opera che in seguito sono diventati famosi, tra cui La Tosca, scritta nel 1887, su cui è basata la Tosca (1900), la celeberrima opera omonima di Giacomo Puccini e Fedora, scritta nel 1882, che ha fatto nascere l’omonimo libretto d’opera, del musicista compositore foggiano Umberto Menotti Maria Giordano 2 il quale diventa una delle sue opere più note. 3 Sardou ha raggiunto grandissima fama e popolarità scrivendo il dramma Fedora interpretata nel 1879 da Sarah Bernhardt (Henriette Rosine Bernard), 4 la famosa attrice francese, «una personalità fortissima sulla scena e nella vita», 5 che sapeva «armonizzare, con prodigioso senso della scena, slancio lirico, e√cacia drammatica, plasticità di atteggiamenti», 6 la quale aveva già interpretato nel 1873 il ruolo di Aricia, personaggio della Phedre di Racine e in seguito nel 1874 e 1879 il ruolo di Fedora sempre della stessa opera. Grazie all’opera di Bernhardt il dramma ha avuto un successo clamoroso. 7 Sardou grazie al suo straordinario talento teatrale è diventato uno dei più importanti drammaturghi dell’epoca insieme a Guillaume Victor Émile Augier e Alexandre Dumas. Leggiamo:  













Egli mancava dell’humor, dell’eloquenza e del vigore morale del primo e della passione e dello spirito dell’altro, ma era maestro nel tessere dialoghi e√caci e nell’immaginare soluzioni sorprendenti. Era insomma padrone del mestiere che manifestò magistralmente in tutte le sue opere, dalla commedia brillante al dramma storico. 8  

La bellissima interpretazione di Fedora di Sardou dalla parte di Bernhardt a Parigi nel 1   Sardou, Victorien, in Treccani.it, L’enciclopedia italiana on line http://www.treccani.it/ enciclopedia/victorien-sardou/ (data di consultazione: 22 gennaio 2015) 2   Alan Mallach, The Autumn of Italian Opera. From Verismo to Modernism, 1890-1915, ny, Northeasten University Press, 2007, pp. 42, 44, 84-90 (anche in https://books. google.gr/ books?id=foOntoqFSc0C&pg=PA464&dq=colautti+arturo&hl=el&sa=X&ei=eqPnVJzwKpHraPT2gPAO&ved=0CEgQ6AEwBg#v=onepage&q=colautti%20 arturo&f=false (data di consultazione: 20/02/2015) 3   Fedora, drame de Victorien Sardou, reduit entrois actes pour la scène lyrique par Arthur Colautti, musique de Umberto Giordano, adaptation francaise de Paul Milliet, Milan, Edouard Sonzogno, 1906; Fedora, a lyric drama in three acts by Victorien Sardou, music by Umberto Giordano, Entered according to Act of Congress in the year 1906 by F. Rullman, at the o√ce of the librarian of Congress at Washington, pubblished by F. Rullman, New York, 1906. 4   Sarah Bernhardt, Ma double vie, Paris, 1907; traduzione italiana: La mia doppia vita, Milano, Savelli, 1981, p. 208; Bernhardt, Sarah, in Treccani.it, L’enciclopedia italiana on line http://www.treccani.it/enciclopedia/sarahbernhardt/ (data di consultazione: 22 gennaio 2015); Michele Girardi, Fedora, una prima donna sull’orlo di una crisi di nervi, in Fedora di Giordano, Torino, Teatro Regio di Torino, 2000, pp. 9-20; già in http://www-5.unipv.it/girardi/ saggi/fedora.pdf (data di consultazione 12 gennaio 2015) 5   Michele Girardi, Fedora una prima donna, cit. 6   Bernhardt, Sarah, in Treccani.it, L’enciclopedia italiana on line http://www.treccani.it/ enciclopedia/ sarahbernhardt/ (data di consultazione: 22 gennaio 2015); 7   Carlo Santulli, ‘Fedora’ di Sardou/Giorgano ed il giallo nell’opera, Le rubriche di Progetto Babele /Rivista Letteraria in http://www.progettobabele.it/ rubriche/fedora.php (data di consultazione: 25/01/2015) 8   http://it.wikipedia.org/wiki/Victorien_Sardou (data di consultazione: 20/02/2015)

zosi zografidou 456 1889 1 ha lasciato incantato Giordano. 2 Sardou inizialmente non voleva dare a lui i diritti per la riduzione del dramma a libretto d’opera e li ha concessi dopo trattative di tanti anni e solo dopo il successo mondiale che ha ottenuto l’opera di Giordano, Andrea Chénier nel 1896. 3 Basatosi allora sull’omonimo dramma di Victorien Sardou, grazie al suo talento musicale Arturo Colautti, scrittore zaratino (nato a Zara il 9 ottobre 1851 – morto a Roma il 9 novembre 1914) 4 attivo a cavallo dei secoli xix e xx, 5 compone il dramma Fedora, conformato sul modello del teatro di Sardou per Giordano, un libretto articolato in tre atti, dove «c’è tanta ispirazione e commosso a∫ato poetico a certi atti, come la drammatica invocazione di Fedora (atto iii, scena vi) quanto in quelle di altri librettisti famosi». 6  











Dio di giustizia, che col santo ciglio scruti le angoscie e noveri i rimorsi; Dio di pietà, che non ricusi ascolto a chi t’implora per l’altrui salute, non indulgere a me, che sono indegna, ma salva Loris, salva l’amor mio...7

La prima rappresentazione dell’opera è avvenuta il 17 novembre 1898 al Teatro Lirico di Milano e grazie anche a Enrico Caruso, ancora sconosciuto, ed anche a una delle più celebri cantanti dell’epoca, Gemma Bellincioni Stagno, il successo era immediato. Dopo una ricerca che ha cercato di fare luce sulla fortuna dell’opera in Grecia mi sono riuscita a isolare che Fedora viene interpretata dalla solista greca Marika Papaioannou per l’Orchestra dell’Opera Nazionale Greca nel febbraio del 1952. 8 Fedora è un dramma che contiene gli stessi elementi della Tosca, è pieno di vendette, di trame politiche, di indagini di polizia, di lettere misteriose, di fucilazioni, di vari sentimenti, di amori e di tradimenti. Tutti elementi che si incontrano in «un giallo in piena regola», come definisce Carlo Santulli. 9 E che si ripropongono tematiche e si ri-incontrano elementi della mitologia e della tragedia greca. Al di là della somiglianza fonetica, Fedora la protagonista di Sardou e Colautti con la Fedra di Euripide, la protagonista del dramma Ippolito, hanno la stessa tragica fine: il suicidio. Tutte e due, Fedra e Fedora, sono tragedie con storie piene di amori infelici, intrighi, morti consecutive, catena di suicidi, tragedie. La protagonista Fedra di Euripide, seconda moglie di Teseo, s’innamora di Ippolito. Il giovane è figlio di Teseo, re di Atene, che si dedica alla caccia e al culto di Artemide, non mostrando nessun interesse per le donne. Afrodite, dea dell’amore, decide per questo  



1

  Carlo Santulli, ‘Fedora’ di Sardou/Giorgano, cit.   Michele Girardi, Fedora, una prima donna, cit. 3   http://it.wikipedia.org/wiki/Victorien_Sardou (data di consultazione: 20/02/2015); Carlo Santulli, ‘Fedora’ di Sardou/Giorgano, cit. 4   Germano Paoli Palcich, Arturo Colautti: la vita e le opere. Nel 70° anniversario della morte, «Rivista dalmatica», 55, 4, 1984, p. 269; Colautti Arturo. Giornalista, scrittore, esule in Italia, in Daria Garbin-Renzo de’ Vidovich, Dalmazia Nazione. Dizionario degli uomini illustri della componente culturale illirico-romana latina veneta e italiana, Trieste, Fondazione Scientifico Culturale Maria e Eugenio Dario Rustia Traine, pp. 90-91; Sergio Cella, Arturo Colautti, in Dizionario bibliografico degli italiani, xxvi, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, p. 706; per i dati biografici e l’attività letteraria e politica si veda Nedjejka Balić-Nižić, Mito, storia e attualità nel poema dantesco Terzo Peccato di Arturo Colautti, «Civiltà Italiana Pubblicazioni dell’Associazione Internazionale Professori d’Italiano», Tempo e memoria nella lingua e nella letteratura italiana, Atti del xvii Congresso a.i.p.i., Ascoli Piceno, 22-26 agosto 2006, 5, 2009, p. 27 (disponibile anche in internet: http://www.infoaipi. org/attion/ascoli_vol_4.pdf – data di consultazione: 17/01/2015) 5   Nedjejka Balić-Nižić, Mito, storia e attualità, cit. 6   Germano Paoli Palcich, Arturo Colautti, cit. 7   Fedora, a lyric drama in three acts by Victorien Sardou, op. cit., p. 64. 8  Vd. http://digital.lib.auth.gr/ record/108434 (data di consultazione: 23/12/2014) 9   Carlo Santulli, ‘Fedora’ di Sardou/Giorgano, cit. 2

dalla mitologia greca al dramma lirico di colautti

457 motivo di punirlo suscitando in Fedra, la seconda moglie di Teseo e quindi matrigna di Ippolito, una insana passione per il giovane. Non riuscendo più a tenere dentro di sé tale sentimento, la donna si confida con la propria nutrice che, tentando in buona fede di aiutare Fedra, rivela il segreto ad Ippolito, facendogli giurare di non parlarne con nessuno. La reazione del giovane è rabbiosa e oπensiva, al punto che Fedra, sentendosi umiliata, decide di uccidersi, lasciando però per vendetta un biglietto in cui accusa Ippolito di averla violentata. Quando Teseo scopre il cadavere della moglie ed il biglietto, invocando Poseidone lancia un anatema mortale nei confronti di Ippolito. Il giovane dice al re di non avere alcuna responsabilità, ma non può raccontare l’intera storia perché è vincolato dal giuramento che ha fatto alla nutrice. Teseo però non gli crede e la maledizione puntualmente si compie: mentre Ippolito sta lasciando la città su un carro, un mostruoso toro uscito dal mare spaventa i cavalli, che, imbizzarriti, fanno schiantare il carro contro le rocce. Appare quindi Artemide ex machina. La dea espone a Teseo come si sono svolti i fatti, dimostrando quindi l’innocenza di Ippolito. Il re si rivolge allora al figlio, ottenendone in punto di morte il perdono. La storia di Fedra di Euripide ha attratto tanti amanti della tragedia greca. Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65), il francese drammaturgo Jean Racine (1639-1699), il poeta tedesco Friedrich von Schiller (1788-1805), Gabriele d’Annunzio, il poeta greco Ghiannis Ritsos. 1 Tutti riprendono le parole di Euripide e ognuno crea la sua Fedra, vittima della propria passione per Ippolito. 2 La principessa Fedora Romazoπ, dall’altra parte, una Fedra moderna, è la protagonista del dramma lirico dell’omonimo libretto di Colautti, una donna non più giovanissima, una figura legata all’eros, assume un ruolo importante nella trama, diventa una figura tragica come ce ne sono tanti personaggi tragici femminili nella mitologia greca e nelle tragedie del teatro greco. La vicenda si svolge alla fine del xix Secolo ed è ambientata nel primo atto a San Pietroburgo, nel secondo atto a Parigi e nel terzo atto in Svizzera. Fedora ha per protagonista una figura femminile simile per molti versi a quella dell’opera Tosca: se Tosca, in preda alla disperazione, uccide Scàrpia compiendo un gesto estremo, che la ridurrà a un repentino pentimento, Fedora vuole a tutti i costi vendicare il suo fidanzato ucciso il giorno prima del loro matrimonio per mano di Loris, denunciandone i parenti: ma la situazione – complice l’inesorabile destino – le sfuggirà di mano. Nel primo atto ci troviamo una notte invernale del 1881 nel palazzo del conte Vladimir Andrejevich a San Pietroburgo. La principessa Fedora, che deve sposare il giorno dopo il conte, arriva e canta il suo amore per lui, ignorando che il conte l’abbia tradita. Il conte viene portato ferito mortalmente. Sono convocati medici e un dottore, e vengono interrogati anche i servitori. Si ritiene che probabilmente a ferirlo sia stato il conte Loris Ipanov, sospettato di essere simpatizzante del movimento nichilista. Il diplomatico De Siriex e l’ispettore di polizia Grech organizzano un’indagine. Il conte purtroppo muore e Fedora giura che si vendicherà per la morte del conte. Nel secondo atto siamo a Parigi. Fedora ha seguito Loris Ipanov per vendicare la morte del suo fidanzato. Durante un ricevimento a casa di Fedora Ipanov arriva e dichiara il suo amore per lei. La principessa gli dice che tornerà in Russia il giorno dopo. Loris è disperato perché è stato esiliato dalla Russia e non può seguirla. Confessa a Fedora che è lui l’assassino del conte Vladimir. Fedora gli chiede di tornare dopo che il ricevimento  



1

  Ghiannis Ritsos, Poiimata tetarti diastasi 1956-1972 (Poesie quarta dimensione 1952-1972), Atene, Kedros, 2009.   Nedjejka Balić-Nižić, Mito, storia e attualità, cit.

2

zosi zografidou 458 sia finito per raccontarle tutta la storia. Quando è sola, Fedora scrive una lettera al capo della Polizia Imperiale in Russia per accusare dell’omicidio del conte Andrejevich l’esiliato Ipanov ed essere lui arrestato. Loris torna e confessa di aver ucciso il conte perché ha scoperto che lui e sua moglie sono amanti. Vladimir gli ha sparato e lo ha ferito mentre Ipanov ha risposto al fuoco e ha ucciso Vladimir. Fedora si rende conto che lei è innamorata di Ipanov, e che lui non ha ucciso il suo promesso sposo per fini politici, ma per difendere il suo onore. Fedora decide allora di salvare Loris. Nel terzo atto siamo in Svizzera. Loris e Fedora, sono adesso amanti e vivono nella villa di lei. Fedora sente che il fratello di Loris, Valeriano, è arrestato per essere complice per uccidere il conte Andrejevich ed è imprigionato in una fortezza sul fiume Neva, ma lì il giovane annegò. Quando la madre di Loris sente la notizia, sviene e muore. Fedora è angosciata, per essere responsabile di due morti. Loris riceve una lettera da un amico in Russia, che gli racconta della morte di sua madre e di suo fratello e che la causa era una donna che vive a Parigi la quale ha scritto una lettera di denuncia alla polizia. Loris è disperato, Fedora cerca di consolarlo ma provoca la sua ira. Fedora confessa a Loris che ha scritto lei la lettera e chiede il suo perdono. Lui inizialmente la rifiuta e la maledice. Fedora beve il veleno che è nascosto nella croce bizantina che porta sempre al collo. Quando Loris supplica il medico Boroπ di salvarla, è troppo tardi e Fedora muore tra le braccia del suo amante che la perdona. Fedora si trova in una situazione che non può dominare, si dispera, l’unica soluzione rimane il suicidio e decide di tolgersi la vita bevendo il veleno che teneva nascosto nella croce bizantina, che portava sempre al collo, dono del fidanzato, il conte Vladimir Andrejevich. La figura di Fedora raccoglie tutte le caratteristiche che assume una figura tragica. Già quasi dall’inizio, dal momento dell’omicidio del fidanzato la sua sorte, il suo destino comincia a essere tragico e a rivelare che la storia non sarà felice. Fedora come la più famosa condannata, Francesca da Rimini, ripresa anche da Colautti il quale ha imitato il modello dantesco 1 seguendo «unicamente la traccia del divino poema», come avverte il drammaturgo nella prima edizione di Paolo e Francesca, 2 avrà la sua morte tragica. Diventa vittima di una situazione che inizialmente non era lei la colpevole, ma anche lei era vittima di un pathos esagerato, di una vendetta che ha condotto e provocato la morte di tante persone. Alla fine sente senza altra speranza e salvezza e decide di dare fine alla sua vita, suicidandosi. Con la sua morte Fedora cerca di dare la soluzione, la catarsi, e anche questa azione contiene eroismo, ma tutto questo dopo la provocazione di altre morti che fanno soπrire il suo nuovo amante, vittima di un pathos e di una vendetta, anche lui, rimasto da solo che «scoppia in pianto disperato». Una lotta che non ha via di uscita e provoca la morte della protagonista, di Fedora, di questa figura femminile passionale che, come giustamente scrive Girardi,  



risulta nel suo complesso, un personaggio vivo e appassionato e, se non suscita particolari simpatie per via dell’eccessivo accanimento persecutorio, tuttavia la sua morte muove la pietas dell’ascoltatore, per l’ironia tragica con cui il passato le piomba addosso, annientandola. La sua fine si compie nel segno della rinuncia alla felicità, tipico delle eroine suicide della fin de siècle, da Sélika a Gioconda, sino a Adriana Lecouvreur e Butterfly, e glorifica un mito femminile prigioniero della più romantica delle regole: Amore e morte. 3  

1   Nedjejka Balić-Nižić, Mito, storia e attualità, cit.; Paolo e Francesca; dramma lirico in un atto, versi di Arturo Colautti, musica di Luigi Mancinelli, Milano, Sonzogno, 1907, p. 7 (disponibile in https://archive.org/details/paoloefrancesca d00manc, data di consultazione 22/12/2014). 2 3   Paolo e Francesca; dramma lirico, cit.   Michele Girardi, Fedora, una prima donna, cit.

dalla mitologia greca al dramma lirico di colautti

459

C’è in Fedora una ricorrenza di temi che potrebbe far pensare ad una certa ripetitività di argomenti trattati della mitologia e delle tragedie greche, una pluralità di soggetti rappresentati e leggendo Fedora si possono isolare alcuni temi più ricorrenti: le uccisioni, la vendetta, che è un sentimento cardine, la colpa che non sempre è vera o consapevolmente commessa, e in conseguenza di tutto questo la protagonista subisce la sorte tragica. Sardou e Colautti mescolando insieme il mondo greco e quello europeo ripropongono una figura femminile di grande fascino che dà anche il nome al dramma, una figura allora che raccoglie elementi di eroine tragiche rivisitate in chiave moderna e che le fanno avvicinare agli eroi del passato. Il dramma diventa il campo di investigazione per la definizione di un modello di donna protagonista dell’azione, la cui condizione ambigua, insieme di ‘vittima’ e di ‘colpevole’.  

460

zosi zografidou

dalla mitologia greca al dramma lirico di colautti

461

Mousikokritikav shmeiwvmataÚ h Mousikhv Ebdomav~

(Appunti critici di musica):

Umberto Giordano, Faudwvra (Fedora): Greek National Opera Orchestra (solista Marika Papaioannou) [giornale H Kaqhmerinhv (I Kathimerini), 28/2/1952] Scrittore dell’articolo: Lingua:

Dounias, Minos

Disponibile online:

http://digital.lib.auth.gr/ record/108434

greca

LA RAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FIDELIA DI ARTURO COLAUTTI, TRA SGUARDO ESTETICO E DIAGNOSI MEDICA Michela Toppano*

C

ome è stato sottolineato da Giorgio Baroni e Anna Bellio, 1 e da diversi autori in questo volume, nell’opera di Colautti uno spazio importante è consacrato alla donna: dalla diafana Fidelia, nel romanzo omonimo, all’infida Wanda di Nihil, alla carnale Costanza di Il figlio. In tutti questi casi, ne emerge una visione ancora fondamentalmente conservatrice, come testimonia la condanna che pesa sulla figura scandalosa della donna sensuale, ma infeconda, incarnata da Costanza, sulla freddezza di Diana nei confronti della figlia, sulla crudeltà della Wanda infanticida. Questa concezione tradizionale sembra relegare la donna in uno spazio ben delimitato e in una posizione subordinata rispetto all’uomo. Tuttavia, ad un’analisi più attenta, la scrittura di Colautti rivela più una grande inquietudine per una virilità minacciata che l’espressione di un dominio maschile incontrastato. Questo atteggiamento ambivalente traspare in modo significativo dalla maniera specifica in cui viene rappresentata la donna in Fidelia. 2 Le due principali figure femminili del romanzo sono Fidelia, la moglie del dottor Speraldi, malata di tisi, e Diana, la provocante moglie del deputato De Marchis. Speraldi, innamorato di Fidelia, prima di possederla, vuole guarirla per evitare di trasmettere la malattia alla discendenza. Diana, respinta da Speraldi, intrattiene una relazione ambigua con Fidelia. Quest’ultima, influenzata anche dalle maligne insinuazioni dell’amica, si persuade che Speraldi non l’ami e l’abbia sposata solo per interesse scientifico. Finisce così nelle braccia di Spielman, un ingegnere tedesco, che sta dirigendo i lavori di costruzione della ferrovia locale, ma che la considera una semplice diversione. Fidelia, che aspetta un figlio da lui, muore soπocata da uno sbocco di sangue. Speraldi, insospettito da una foto di Spielmann trovata accanto alla moglie morta, disseziona il cadavere e scopre la maternità della moglie. La specificità della rappresentazione della figura femminile risiede nel fatto che viene eπettuata attraverso la sovrapposizione di due sguardi, uno estetico e uno medico. 3 Il narratore ricorre alla mediazione di riferimenti letterari o mitologici per descrivere Diana e Fidelia, ricollegandole a due modelli estetici diπerenti se non addirittura opposti. La bellezza di Diana risiede nel contrasto: la bianchezza della carnagione si oppone alla sensualità delle labbra, le braccia tornite alle mani infantili, la lussuria apparente alla castità reale. Il narratore paragona Diana a figure femminili caratterizzate dalla procacità,  





* Centre Aixois d’Etudes Romanes, Aix-Marseille Université. 1   Cfr. Giorgio Baroni, Arturo Colautti, «Otto/Novecento», xiii, 6, 1989, pp. 73-84: 73-79; Anna Bellio, Tanto per parlare d’amore, «Rivista di letteratura italiana», xiv, 1-3, 1996, pp. 169-181. 2   Il romanzo è apparso prima a puntate sull’«Euganeo» (1883-1884), poi in volume presso Galli (1884). Noi utilizzeremo l’edizione seguente: Arturo Colautti, Fidelia, Milano, Barion, 1919. Essa presenta delle diπerenze rispetto all’edizione originale, ma non sono significative per la tematica qui trattata. 3   Sull’influenza della cultura positivistica nella rappresentazione della donna nella letteratura a cavallo tra Otto e Novecento, cfr. Annamaria Cavalli Pasini, La scienza del romanzo. Romanzo e cultura scientifica tra Ottocento e Novecento, Bologna, Pàtron, 1982, pp. 205-257.

la rappresentazione della donna in fidelia di arturo colautti 463 dalla sensualità o addirittura da una perversa perfidia che può sfiorare la minaccia castratrice: così evoca Ebe, Frige, Pomona, Semiramide, Messalina o Giuditta. Attraverso lo sguardo di Spielman, Diana viene paragonata essenzialmente a modelli pittorici. La donna gli ricorda le madonne di palazzo Pitti (anche se ne oπre una versione più ambigua, quella di «una Madonna impura») e le figure femminili del pittore salisburghese Makart. Queste ultime corrispondono perfettamente alla bellezza dissonante di Diana. In eπetti, oπrono la sintesi perfetta di modelli estetici opposti: in esse si uniscono Fede e Voluttà, la bellezza classica e quella romantica si fondono per approdare ad una bellezza moderna, caratterizzata nello stesso tempo dalla severità della civiltà nordica e dalla mollezza insinuante della civiltà pagana. 1 Spesso la descrizione della figura femminile sembra l’ekphrasis di un ritratto, a tal punto la penna dello scrittore è sensibile alle sfumature dei colori e alla composizione del quadro, come nella scena del colloquio tra Spielmann e Diana, dove la rappresentazione della donna è a√data alle mille tonalità del bianco della veste e al contrasto tra la luminosa silhouette femminile e lo sfondo cupo che la circonda. 2 Fidelia, invece, presenta caratteristiche opposte. Bionda, dagli occhi azzurri, segnata dalle tracce della malattia, viene associata a figure femminili diafane ed evanescenti, attinte sia alle arti che alla letteratura. Sembra una figura mistica uscita dagli aπreschi della Porziuncula o da un quadro del Pinturicchio. 3 Risveglia nella memoria di Spielman il ricordo dei profili femminili disincarnati e freddi della pittura o della letteratura nordica: è «una delle tante isteriche del Dürer o una delle vergini disgraziate del Goethe». 4 Fidelia appare addirittura come un disegno appena abbozzato: «una di quelle ‘macchiette’ dai pittori facili ai pentimenti abbandonate sovente sul cavalletto» (p. 131). Se Diana propone la floridezza prepotente di una madonna rinascimentale, Fidelia è dotata di una bellezza tenue, «bizantina» e «preraπaellesca». 5 Il narratore delinea così un’opposizione tra due ideali femminili abbastanza convenzionali, uno sensuale, carnale e voluttuoso, considerato il tipico frutto della razza latina; l’altro frigido, astratto, ascetico, ritenuto più caratteristico delle popolazioni nordiche, anche se, in questo caso particolare, è sorprendentemente incarnato da una donna italiana. Ma in Fidelia, la rappresentazione della donna non si a√da solo a questo sguardo estetico. Essa viene costruita anche per mezzo di uno sguardo medico, anatomico e fisiologico, che il narratore può sfruttare metodicamente grazie alla presenza del personaggio di Speraldi, dottore e scienziato. Speraldi disseca la donna e ne penetra, col suo armamentario concettuale e scientifico, il corpo e la psiche, in senso metaforico, ma anche letterale, come mostrerà la scena conclusiva del romanzo. Attraverso quest’ottica, la donna diventa un organismo da osservare come ogni altra forma vivente. Speraldi apprezza la bellezza femminile, ma « il suo non era l’entusiasmo dell’esteta, che adora l’armonia delle linee: il suo era il compiacimento del notomista, che ammira il trionfo degli organi» (p. 18). L’adozione di questo sguardo permette di mantenere la donna a distanza, di trasformarla in un passivo oggetto d’indagine da esaminare a piacere. Speraldi infatti «l’[il misterioso essere femminile] aveva studiato nei letti e nei cataletti, l’aveva frugato col pensiero e con lo scalpello, l’aveva posseduto vivente ed esamine» (p. 17). Tale ottica medica consente di ridurre la donna, con le sue complicazioni psicologiche e morali, a femmina, unicamente consacrata alla sua funzione riproduttrice. La bellezza e il fascino femminile vengono spiegati in chiave fisiologica e subordinati al compito  











1

 Arturo Colautti, Fidelia, Milano, Barion, 1919, p. 249. 4   Ivi, p. 47.   Ivi, p. 130.

3

2

  Ivi, pp. 261-262.   Ivi, p. 40.

5

michela toppano 464 principale consistente nella generazione. Questa demistificazione delle attrattive femminili spunta la principale arma a disposizione della donna. Infatti, la bellezza e l’armonia della forme ottundono i sensi e la ragione dell’uomo, facendogli perdere il controllo di sé. L’interpretazione scientifica permette di neutralizzare quest’influenza ingannatrice e ammaliatrice. Lo sguardo medico riesce a lacerare la rete diabolica, a penetrare al di là della bellezza apparente e pericolosamente seducente per ricondurre gli aπascinanti orpelli femminili a funzioni meno pericolose per i sensi e l’immaginazione. La maniera più e√cace per proteggersi dal pericolo della bellezza femminile consiste nel concepire la donna come un organismo malato. L’ottica medica si presta particolarmente bene a quest’operazione. Anche se il narratore insiste sull’amore di Speraldi per Fidelia, la giovane donna appare agli occhi del medico innanzitutto come una malata da curare. Viene definita un «bel caso», un «fenomeno», 1 e attira in parte il dottore proprio per la sfida lanciatagli dalla malattia. Se Fidelia, a causa della tisi, è sottomessa in modo particolare a questo sguardo medico, anche Diana, con la sua bellezza solare e la sua salute insolente, si trasforma sotto l’esame di Speraldi e perde tutte le sue attrattive. Durante un colloquio in cui la donna dispiega tutta la sua seduzione, Speraldi innesca una strategia difensiva immaginando lo splendido corpo femminile come una tavola anatomica, o peggio ancora, come un ammasso di cellule in cui possono proliferare il cancro e la malattia. In questo modo, Diana si trasforma, nell’immaginazione del dottore, in un repellente carcinoma che Speraldi «andava incidendo e cauterizzando mentalmente» (p. 202). Così, di fronte alla donna-malattia, Speraldi si trova in una rassicurante posizione di superiorità. Si presenta come l’uomo caritatevole, il salvatore, cui la donna deve la vita, come nel caso di Fidelia. Oppure assume le vesti del perito freddo e distante, che riduce la donna e le sue malìe ad un ammasso informe di tessuti, come nel caso di Diana. In entrambi i casi, riesce a sottrarsi alla pericolosa seduzione femminile. Questa è tanto più minacciosa quanto più la donna è sana, padrona del proprio corpo e dalle forme perfette. Per questo Speraldi si sente attratto dalla donna malata e vagheggia la donna sana solo se quest’ultima ha contratto con lui un debito di gratitudine tale da trasformarla in una creatura sua, eternamente dipendente. La sua relazione con Fidelia si fonda proprio su questo presupposto. Quest’atteggiamento nei confronti della donna è segnato da una profonda ambiguità. Lo sguardo medico appare come lo strumento di una violenza inconfessata. La sua brutalità è rivelata dal disagio da cui è presa la donna quando si scopre così osservata, violata nella sua intimità fisica e psicologica, come sottolinea Fidelia stessa: «Già, le sue visite erano troppo regolari: la guardava, la toccava, la frugava, la investigava dappertutto. Ella si sentiva notomizzare sotto al suo sguardo, scrutare dalla sua mano. Impossibile nascondere! impossibile mentire!» (pp. 60-61). Anche Diana prova un malessere simile nella scena già evocata, in cui appare agli occhi di Speraldi come un mostruoso carcinoma. Infastidita dal suo sguardo allucinato, viene colta da un senso improvviso di pudore e scatta in piedi per interrompere l’esame del dottore. Come si vede, la crudeltà dell’atteggiamento inquisitoriale dell’uomo viene pienamente colta dalle figure femminili e rimanda eπettivamente ad una volontà di dominazione e di violazione simbolica non esente da connotazioni sessuali. Quest’aspetto traspare in particolar modo attraverso un’associazione di idee suggerita in maniera implicita e quasi subliminale nel corso della narrazione. Infatti, viene progressivamente instaurata un’equivalenza inquietante tra la donna e l’animale, più precisamente l’animale vivisezionato. 2  



1

  Ivi, p. 69.   Quest’identificazione tra la donna e l’animale vivisezionato nella seconda metà dell’Ottocento era ricorrente nella letteratura europea del tempo. Molti romanzi, soprattutto anglosassoni, mettevano in scena dottori o scienziati 2

la rappresentazione della donna in fidelia di arturo colautti 465 Come già notato, il motivo della donna anotomizzata e dissecata per mezzo dello sguardo emerge dalle stesse parole di Fidelia. Ma quest’idea non rimane allo stadio di una semplice metafora. Nel primo capitolo il narratore fa esplicitamente riferimento a una dissezione praticata dal dottore sul cadavere di una prostituta negli ospedali per i poveri. Più tardi, s’instaura progressivamente un parallelismo tra la donna anatomizzata e gli animali, in particolar modo gli animali vivisezionati. Speraldi, infatti, per trovare un rimedio alla tisi di Fidelia, compie i suoi esperimenti sulle cavie in un laboratorio situato al primo piano della loro villetta. Questa stanza e le atrocità che vi si compiono suscitano l’orrore della moglie. Diverse volte il narratore allude al rifiuto della donna di entrare in questo laboratorio infernale. Il ribrezzo che Fidelia prova nei confronti della sorte delle cavie sembra quasi dovuto all’intuizione di una specie di parentela tra il suo destino e quello degli animali. Anch’essi, come lei, soggiaciono agli esperimenti e alle disanime intrusive di Speraldi. Non solo: questi animali straziati dagli strumenti chirurgici anticipano la scena finale del romanzo. In eπetti, Speraldi disseca il cadavere di Fidelia per scoprire che è incinta, così come aveva vivisezionato gli animali per scoprire il rimedio alla tisi. Colautti oπre un punto d’osservazione privilegiato per analizzare questo motivo, che non compare – almeno non con questa nettezza – in altre opere italiane di quel periodo. Si riscontra invece in molta letteratura anglosassone, dove l’identificazione tra la donna e l’animale vivisezionato serve a denunciare la perversione del medico dedito alla vivisezione. In questi casi, gli abusi compiuti sulle donne dalla curiosità e dalla pratica medica sono esplicitamente apparentati a una volontà deviata di possesso sessuale. In Colautti, invece, il narratore assume una posizione ben più ambigua nei confronti della figura del medico. Spesso traspare un certo compiacimento quando lo sguardo analitico si posa sulla donna, la rende inoπensiva, amputandola del suo potere seduttore e facendola annaspare nel disagio dell’intimità violata. Nello stesso tempo, però, il narratore, adotta una strategia di denegazione e rifiuta di assumere la brutalità implicita in questo sguardo. Al contrario, giustifica quest’intrusione come una nobile missione. Nel caso di Fidelia, non attribuisce l’approccio medico a un desiderio inconfessato di possesso, ma all’amore per la moglie, che lo spinge ad analizzarla per guarirla. 1 Questa dedizione viene presentata dal narratore come un atto di nobiltà e di amore, da parte di un uomo che ha la forza morale di reprimere i suoi istinti, vietandosi di possedere la sua propria donna, in nome della salute e della sopravvivenza di quest’ultima. In realtà, entrambi gli sguardi descritti, sia quello estetico che quello medico, rivelano un profondo disagio, poiché tradiscono nello stesso tempo il desiderio e l’impossibilità di decifrare la sfinge femminile. Lo sguardo estetico la riconduce a stereotipi rassicuranti e gratificanti per il fantasma maschile, ma completamente scollati dalla realtà. Il narratore attribuisce ad una rappresentazione falsa e libresca la donna italiana passionale e voluttuosa che Spielman si era aspettato di trovare nella penisola. 2 Inoltre, gli stereotipi esteriori attraverso i quali viene vista la donna non permettono di coglierne l’identità profonda. Fidelia, dalle sembianze nordiche, dalla fisionomia preraπaelita, cede alla voluttà e alle esigenze della sua animalità latente e tradisce il marito. 3 Diana, dalla bellezza  





dediti alla vivisezione, che conducevano le loro ricerche anche sulle donne, compreso sulle loro mogli, infliggendo loro soπerenze. Esempi di queste opere sono Paul Faber, the Surgeon (1878), di George Mac Donald, The Professor’s Life (1881), di Leonard Graham, e soprattutto Heart and Science (1882), di Wilkie Collins. Quest’ultimo è stato rapidamente tradotto in Italia e pubblicato nel 1884 da Sonzogno. Per le radici storiche e culturali di questo fenomeno e le sue conseguenze sociali, cfr. Coral Lansbury, Gynaecology, Pornography and the Vivisection Movement, «Victorian Studies», 28, 1985, pp. 413-437. 1 2   Arturo Colautti, op. cit., p. 70.   Ivi, p. 253. 3   La ‘bestialità’ della donna, opposta alla spiritualità dell’uomo, era un motivo diπuso nella cultura del tempo. Cfr. Annamaria Cavalli Pasini, op. cit., pp. 211-222.

michela toppano 466 esuberante e carnale, è fedele, anche se per interesse, e refrattaria alla passione e all’abbandono dei sensi. Anche lo sguardo anatomico si rivela in fin dei conti impotente a penetrare il mistero femminile. Un dubbio sull’autorità della scienza medica viene avanzato fin dall’inizio. Il romanzo si apre con una riflessione di Speraldi sull’insu√cienza e l’incapacità della scienza di fronte alla morte. La donna, in particolare, oppone un’irriducibile resistenza allo sguardo scientifico, un’opacità che si converte in fonte di paura: «Sentiva di conoscerla poco: ecco perchè la temeva assai. Aveva studiato la femmina senza indovinare la donna. L’animale, lo possedeva: l’anima gli sfuggiva...» (p. 18). Quest’impotenza sarà confermata dall’esito della vicenda. Infatti, malgrado il suo sguardo penetrante, Speraldi non si accorge del tradimento di Fidelia, interpreta i segni del suo miglioramento come la prova del successo della propria cura e scopre che si tratta invece delle manifestazioni della gravidanza, dovuta ad un altro uomo, solo dopo la morte della moglie. Quindi, la donna, alla fine del romanzo, mette in una situazione di scacco la scienza, mentre fino a quel momento molte strategie narrative sembravano farne un oggetto passivo, trasparente e malleabile. Come spiegare questo capovolgimento? Per capirlo, bisogna prendere in considerazione un’evoluzione più generale che interessa la fine dell’Ottocento, quando si delineano incertezze sulla virilità dovute alla modificazione dei rapporti tradizionali tra i sessi. In quel torno di tempo, le donne ispirano una paura crescente suscitata dalle loro nuove esigenze e rivendicazioni, dalla loro presenza, divenuta insistente, in luoghi che una volta erano esclusivi dell’uomo, dai permessi inediti di guardare, di leggere, di andare a teatro, di circolare liberamente, di esibirsi, dalla confusione che ne deriva tra la donna onesta e la donna che si vende. 1  

Quest’invasione dello spazio maschile da parte della donna, la ridefinizione del suo ruolo provocano una confusione delle frontiere tra i generi che tocca in particolar modo il letterato, e più precisamente il romanziere. In un contesto di specializzazione crescente delle attività intellettuali, infatti, la prosa romanzesca, rispetto a quella scientifica, sembrava una forma di scrittura più simile alla pratica scrittoria femminile. 2 Inoltre, l’incertezza della produzione e della redditività del mestiere di scrittore poteva far scivolare questa pratica verso la sfera, tipicamente femminile, delle attività gratuite. Il romanziere poteva apparire così come un individuo che si consacra ad una pratica ludica, poco seria, appartenente all’universo del privato, di solito riservato alle donne. Infine, lo scrittore, alla fine dell’Ottocento, intrattiene indiscutibilmente un rapporto privilegiato con le donne, che costituiscono la maggior parte del suo pubblico, e che devono essere adulate, aπascinate, sedotte. 3 Colautti non è estraneo al malessere generato dalla minaccia della femminizzazione che plana sullo scrittore, come testimoniano le prime pagine di Fidelia:  



Oh! egli aveva un bel rinnegare la donna: l’eterno femminino si vendicava abbastanza. Perchè questo medico-artista era una vittima della femminilità, malattia e forza insieme del suo secolo. Egli, che disprezzava il sesso inferiore, ne aveva tutte le generosità e tutte le debolezze. Natura 1   Alain Corbin, L’injonction de la virilité, source d’anxiété et d’angoisse, in Histoire de la virilité, ii, Le triomphe de la virilité. Le xix e siècle, a cura di Alain Corbin, Jean-Jacques Courtine, George Vigarello, Paris, Seuil, 2011, p. 365 [nostra traduzione]. 2   Cfr. Sylvain Venayre, Les valeurs viriles du voyage, in Histoire de la virilité, ii, Le triomphe de la virilité. Le xixe siècle, op. cit., p. 319. 3   Un’inquietudine simile si ritrova, ad esempio, in Federico De Roberto. Cfr. Michela Toppano, Federico De Roberto. La folie de la vie et l’ordre de l’écriture, Aix-en-Provence, Presses Universitaires de Provence, 2012, pp. 211-214.

la rappresentazione della donna in fidelia di arturo colautti 467 contradditoria, appunto perchè femminea, sarebbe stato capace del suismo più apatico, come del sacrifizio più attivo. 1  

Il paradosso della vittoria finale della donna deve essere ricondotto a questa problematica. Colautti, permettendo alla donna di sottrarsi alla dominazione medica, rimette in causa la supremazia della scienza, ambito di competenza prettamente maschile secondo gli stereotipi dell’epoca. In questo modo, riabilita invece il mestiere dello scrittore, che ha il potere di discreditare l’onnipotenza della scienza attraverso quella stessa scrittura romanzesca che tende a farlo ascrivere all’universo femminile. Da un lato, Colautti non può non condividere i pregiudizi difensivi dell’epoca nei confronti della donna e cerca di sottolineare le diπerenze e di ribadire la superiorità maschile. Dall’altro, la prossimità inquietante tra lo scrittore e la donna comporta una parziale identificazione che fa sì che la vittoria finale femminile sulla scienza diventi anche una vittoria del romanziere su attività intellettuali concorrenti che rischiavano di marginalizzarlo. 2 Nel sistema di valori del romanzo, la posizione dell’autore è dunque molto complessa, poiché è caratterizzata nello stesso tempo dalla distanza e dalla prossimità sia nei confronti della figura femminile che di quella maschile. Proprio attraverso queste oscillazioni si manifesta la maniera personale con la quale l’autore dalmata mette in scena e tenta di ricomporre, con compromessi instabili, conflitti di valori legati alla problematica del genere e allo statuto dello scrittore tra Otto e Novecento.  

1

  Arturo Colautti, op. cit., p. 19.   Sull’importanza assunta dallo scienziato e dallo studioso di scienze sociali, cfr. Giovanni Ragone, La letteratura e il consumo: un profilo dei generi e dei modelli nell’editoria italiana (1845-1925), in Letteratura italiana, ii, Produzione e consumo, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1983, p. 701. 2

L’AMORE DANTESCO OLTRE LA MORTE NELL’OPERA DI ARTURO COLAUTTI Pedro Luis Ladrón de Guevara

A

tutti è nota la passione che Arturo Colautti 1 aveva per Dante Alghieri, come di mostrano alcune delle sue opere: le liriche de Il terzo peccato, La nave di Dante o il libretto Paolo e Francesca. In esse amore-morte si collegano. Alla morte dedica il primo capitolo di Il terzo peccato, intitolato «La grande ora», dove la morte appare come nemica degli amanti: rappresenta la fine della vita terrestre e di conseguenza l’impossibilità ormai di godere del corpo dell’altro. L’amore tra Francesca da Rimini e Paolo Malatesta, che serve a Colautti come fonte letteraria di Il terzo peccato, è un amore non riconosciuto da Dio, una passione incontrollabile, lussuria, primato della carne, e perciò la morte è presente nei primi versi del libro non come disgrazia ma come conforto, forza liberatrice che concede la calma ai peccatori:  

“Morte, buona sorella del conforto, Pallida musa de’ cantor sognanti, Nocchiera estrema per estremo porto;” “Morte, nimica a’ venturosi amanti, De’ cuori umiliati alta salvezza, Aurora vesperal de’ doloranti;” 2 “Adunque, Morte, o madre ultima, o pia Liberatrice, o messaggera bianca, Odi ‘l sospir della miseria mia”. 3 “Morte, ridammi la perduta calma, Il mio punisci inglorioso aπanno, E ritogli ad Amor l’ultima palma!.” 4 “Libero in morte, per disfida a Dio”. 5  







È veramente paradossale parlare di morte avendo come riferimento la Divina Commedia, poiché quest’opera vuol mostrare precisamente che la morte non esiste, che la fine della vita terrestre è, in realtà, l’inizio di un’altra esistenza, certo non necessariamente migliore – c’è Inferno, Purgatorio, Paradiso – ma qualcosa di diverso dai campi aperti sulla terra e sotto il cielo. Il poeta Mario Luzi metteva in evidenza la diversità del mondo terrestre e il mondo celeste e di oltretomba al collocare nientemeno che in bocca di Gesù di Nazareth la passione per un mondo terreno a cui si era troppo aπezionato: 1   La principale fonte sulla vita di Arturo Collautti, è il libro scritto dalla figlia adottiva Ofelia Novak Colautti, Arturo Colautti. Il poeta della vigilia italiaca. Documentario storico biográfico aneddotico corredato di illustrazioni lettere e poesie del poeta, Milano, Casa editrice Oberdan Zucchi, 1939, pp. 281. Altre informazioni: Saverio Procida, Ricordi intimi su Arturo Colautti, «La Lettura: rivista mensile del Corriere della Sera», Milano, 2, 1915, pp.135-142; Germano Paolo Palcich, «Rivista dalmatica», 4, ottobre-dicembre, 1984, pp. 245-284; Giuseppe Picciòla raccoglie le poesie Aprile antico, La veneziana, Primo quarto, Vigilia d’armi in Poeti italiani d’oltre i confini, canti raccolti da Giuseppe Picciòla, Firenze, Sansoni, 1914 [edizione anastatica con postfazione di Elvio Guagnini, Roma, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, 2006, pp. 223-231]; Sergio Cella, Arturo Colautti in Dizionario biografico degli Italiani, 26, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1982. 2   Arturo Colautti, Il terzo peccato. Poema degli amori in canti xxiii, Milano, Attilio Piazza, 1902, p. 3. 3 4 5   Ivi, p. 6.   Ivi, p. 7.   Ivi, p. 12.

l’amore dantesco oltre la morte nell’opera di arturo colautti 469 È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto tra gente povera, amabile e esecrabile. Mi sono aπezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, le vigne, perfino i deserti. È solo una stazione per il figlio tuo la terra ma ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case e i loro ricoveri mi dà pena doverli abbandonare. 1  

Mondo terrestre e mondo celeste. Nella passione per la terra acquista uno speciale valore il condividere le giornate, il finire il nostro percorso terrestre accanto alla persona amata. La massima espressione degli amanti consiste precisamente nell’oltrepassare la soglia insieme, nel finire il percorso vitale uniti. Già il grande Ovidio ci mostrò il più bel regalo che due persone che si amano potrebbero chiedere agli dei, siano queste persone giovani o anziani che abbiano vissuto insieme una vita lunga e condivisa. Nell’ottavo libro della Metamorfosi Giove e Mercurio vogliono dare il più bel regalo che si possa fare alla coppia degli anziani, Bauci e Filemone, per averli accolti generosamente nella loro povera e misera casa. Questi, che potevano chiedere ricchezze, giovinezza, gli fanno sapere che il più grande desiderio che hanno è morire contemporaneamente: Scambiate poche parole con Bauci, Filemone comunica la loro scelta comune agli dei: “Chiediamo di essere sacerdoti e guardiani del vostro tempio, e poiché siamo vissuti d’accordo tanti anni, ci porti via la stessa ora: non voglio vedere la tomba di mia moglie e neanche essere sepolto da lei”. 2  

All’unione degli amanti – sia nella vita sia nella morte – fa riferimento anche Baudelaire nella nota poesia «La mort des amants», sulla morte degli amanti: Une soir fait de rose et de bleu mystique, nous échangerons un éclair unique, comme un long sanglot, tout chargé d’adieux; et plus tard un Ange, entr’ouvrant les portes, viendra ranimer, fidèle et joyeux, les miroirs ternis et les flammes mortes. 3  

Morire uniti, essere eternamente insieme diventa la parola d’ordine per gli amanti. Si trova in molte opere della letteratura universale, ma vorrei ricordare specialmente il Filippo alfieriano, dove nel morire si produce l’unico contatto fisico degli amanti: Carlo: Oh ferro!... te caldo ancora d’innocente sangue, 1

  Mario Luzi, La Passione. Via Crucis al Colosseo, Milano, Garzanti, 1999, p. 59.   Ovidio, Metamorfosi, libro viii, 611-714. Alessandro Perutelli, Guido Paduano, Elena Rossi, Storia e testi della letteratura latina, Bologna, Zanichelli, 2010. 3   In una sera fatta di rosa e di mistico azzurro / ci scambieremo un unico lampo / come un lungo singhiozzo, tutto carico d’addii; / e più tardi un angelo, aprendo le porte, / verrà a rianimare, fedele e giocoso, / gli oπuscati specchi e le fiamme morte. http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-in-lingua-straniera/poesia-26153 [23-02-2015]. 2

470

pedro luis ladrón de guevara liberator te scelgo. – O tu, infelice donna, troppo dicesti: a te null’altro riman, che morte: ma il velen deh! scegli; men dolorosa fia... D’amor infausto quest’è il consiglio estremo: in te raccogli tutto il coraggio tuo: – mirami... Io moro... Segui il mio esempio. – Il fatal nappo aπerra... non indugiare... Isabella: Ah! sí; ti seguo. O morte, tu mi sei gioja; in te... […] Isabella Viverti al fianco?...io sopportar tua vista?... Non fia mai, no... Morir vogl’io... Supplisca al tolto nappo.... il tuo pugnal... Filippo T’arresta... Isabella Io moro... Filippo Oh ciel! che veggio? Isabella ... Morir vedi... la sposa,... e il figlio,... ambo innocenti,... ed ambo per mano tua... – Ti sieguo, amato Carlo... 1  

Ugualmente il protagonista Paolo, nel libretto Paolo e Francesca di Colautti, cerca un ultimo e minimo contatto fisico, «appressa il proprio capo alla fronte di Francesca: questa glielo recinge delle sue braccia»: Francesca: Paolo, la tua mano!... Paolo: Il cor mi dona! Francesca: E la bocca… Paolo e Francesca (insiememente) O pio bacio!...o dolce morte!... (In un bacio supremo i due cognati esalano gli spiriti). 2  

Bacio pio e dolce, molto lontano dalla scena scritta da d’Annunzio: Francesca: Baciami gli occhi, baciami le tempie e le guance e la gola... tieni, e i polsi e le dita... così... Prendemi l’anima e riversala Paolo. Dammi la bocca. Ancora! Ancora! Ancora! 3  

La storia di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta deve il proprio successo nel tempo alla molteplicità di aspetti che si trovano nel rapporto amoroso fra cognato e cognata. L’adulterio degli amanti («la bocca mi bacciò tutto tremante. / Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: / quel giorno piú non vi legemmo avante», Inferno v, 136-138) è evidente, non soltanto perché sono stati condannati all’Inferno eterno, ma anche perché dal momento che interrompono la lettura non tornano più al libro. Certamente la storia mostra anche la crudeltà di un marito violento che non esita a uccidere fratello e moglie pur di lavare l’oπesa. Ma questa storia ci mostra altri aspetti che non sempre sono riconosciuti: la morte contemporaneamente dei due amanti unisce due anime oltre l’eternità, il che provoca il contrario di ciò che l’omicida cercherebbe: la separazione degli innamorati. Il dono ormai più apprezzato per loro è restare uniti per sempre. Dante allora concede agli adulteri una condanna o un premio? 1   Vittorio Alfieri, Tragedie. Filippo – Polinice – Antigone – Virginia – Agamennone, Firenze, Sansoni, 1985, pp. 194-195. 2   Arturo Colautti Paolo e Francesca, dramma lirico in un atto, versi di Arturo Colautti e musica di Luigi Mancinelli, Milano, Edoardo Sonzogno Editore, 1907, p. 37. 3   Gabriele d’Annunzio, Francesca da Rimini, musica di Riccardo Zandonai, Milano, Ricordi, p. 72.

l’amore dantesco oltre la morte nell’opera di arturo colautti 471 Il grande amore vuole andare oltre, desidera l’unione al di là della morte, la compagnia indissolubile dei due amanti. La storia mostra lo scontro fra l’amore libero grande ed unico, che tutto può, e gli accordi sociali (il matrimonio forse combinato) che ha i propri legami e i propri limiti; allora siamo fra la visione poetica della vita e la visione teologica. Fra il poeta che si piega davanti all’amore vero, e il teologo-giudice che castiga il delitto con la pena dell’inferno. Già Benedetto Croce aveva scritto «Dante come teologo, come credente, come uomo etico, condanna quei peccatori; ma sentilmentalmente non condanna e non assolve: si sente interessato, turbato». 1 Sappiamo che Dante mostra i due giovani degni della pietà, che vengono diπerenziati dagli altri: mentre questi gridano e urlano contro Dio («Quando giungon davanti a la ruina, / quivi le strida, il compianto, il lamento, / bestemmian quivi la virtú divina» Inferno, V, 34-36) la coppia lamenta che con le loro azioni si siano allontanati da Dio in un’ inimicizia eterna («se fosse amico il re de l’universo, / noi pregheremmo lui de la tua pace, / poi c’hai pietà del nostro mal perverso» Inferno v, 91-93). Il poeta Dante dedica la sua pietà anche a chi storicamente ha mostrato un’evidente passione carnale: Semiramide, regina degli Assiri, ordinò di uccidere il marito per succedergli al trono; Didone, regina di Cartagine (e innamorata di Enea per l’intervento di Venere), che si suicida dopo la partenza dell’eroe, e che Enea ritrova nell’Ade, e capisce così che è stato proprio lui la causa della sua morte; Elena, Cleopatra, Tristano innamorato di Isotta per un filtro magico. È la forza dell’amore impossibile di evitare ciò che colpisce il poeta. Ma Francesca è l’unico di questi personaggi a cui si permette di essere accompagnata dalla persona amata. Ma in Colautti – «vagabondo eterno, cristiano errante», così si autodefinisce – 2 non c’è nessuna pietà per gli amanti, anzi non parla tanto di amore quanto di lussuria, di passione carnale. Per lui l’amore di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta non esiste, scompare per diventare soltanto desiderio, abbandono ai piaceri sessuali, appena giustificato da alcuni critici dal fatto che Francesca doveva sposare inizialmente Paolo, come fece secoli dopo – nel suo Filippo – Alfieri con Isabella di Valois, moglie del vecchio re spagnolo Filippo, e il figlio don Carlo, innocentemente innamorati, giustificando il loro amore per il matrimonio combinato dai due giovani prima che il Re decidesse di sposarla, così come Tristano e Isotta vedono crescere il loro amore e la loro passione per il filtro amoroso. Nonostante questo nell’avvertenza iniziale di Paolo e Francesca Colautti aπerma la fedeltà del suo libretto al testo dantesco:  



Nel comporre il presente dramma lirico fu seguita unicamente la traccia del divino Poema, senza soverchi scrupoli di storica esattezza, volendosi serbare intatta ai due primarî personaggi la ideale purificazione, loro concessa per tutti i secoli avvenire dal sommo Dittatore dell’Arte. 3  

C’è nell’opera colauttiana un’atmosfera religiosa dal momento in cui nell’orto dove si svolge l’azione c’è una Madonna («Vi campeggia in sua nicchia una rozza statua della Vergine, dinnanzi alla quale arde argentea lampadetta votiva: sotto è un gradino per le genuflessioni»). 4 Si perde nel libretto l’empatia e la pietas per gli amanti: Paolo è un giovane che comanda e gioca con il falco («Paolo prende dalle mani del Falconiere il girifalco e lo impugna, avanzandosi baldamente» 5 mentre Francesca si mostra disgustosa con la figura del Matto («il Matto devotamente si piega fino a baciarle un lembo della veste lunghissima. – Ella ne ritorce il viso con aperto disgusto, ritraendo dispettosamente  



1

  Benedetto Croce, La poesía di Dante, Bari, Laterza, 1921, pp. 19-20, 77-79.   Ofelia Novak Colautti, Arturo Colautti. Il poeta della vigilia italiaca, cit., p. 52. 3   Arturo Colautti, Paolo e Francesca, cit., p. 7. 4 5   Ivi, p. 9.   Ivi, p. 11. 2

pedro luis ladrón de guevara 472 lo strascico. Il giullare, crudamente ferito, biascica parole di rammarico e d’ira»). 1 L’ira del matto provoca la vendetta, dal momento che sarà lui a far crescere il sospetto del marito su un adulterio inesistente, occupando il ruolo di Iago shakespeariano. L’incorporazione di questo personaggio è simile al buπone, giullare o il grazioso, e parla con un doppio senso che preannuncia ciò che succederà ma che in certo modo è lui a provocare:  

Qual più feroce, uom od augello rapace? E questo e quello al suo fratello nuoce; ma l’uno e l’altro scaltro al suo fratel soggiacce… 2  

E dopo aggiunge in modo burlesco: Signori miei, tal foggia principesca di falconar direi non già tedesca, o barbaresca, ma un’esca – alla… francesca… 3  

L’atteggiamento del Matto provoca l’ira di Paolo, presentandolo non come un uomo innamorato ma violento, il che lo allontana della figura oggetto di pietas creato da Dante: «Paolo, pallido d’ira, – scrive Collauti – aπerra il giullare alla gola, lo ribalta, e il preme col ginocchio al suolo». 4 Il Matto è un disabile, il che deve servire più a compassione che non oggetto di violenza fisica, nonostante le sue parole avvelenate. La violenza e il disprezzo verso di lui può provocare nello spettatore-lettore un atteggiamento che non favorisce la simpatia verso i giovani amanti, così come neanche lo scontro fra i due fratelli, che sembra più la lotta per una possessione qualunque:  

Paolo Come predon di bosco, me l’hai rapita! 5 Gianciotto Era mio dritto… ora è mia vita.. 6  



Paolo desidera partire, ma quando Gianciotto capisce che ama Francesca la gelosia non glielo permette. Collauti introduce l’argomento della gelosia, anche se questa comporta amore e invece il marito viene presentato più come un padrone che non come un uomo innamorato che attrarrebbe la simpatia del lettore. Gianciotto «si copre il volto con le palme in atto doloroso» e dedica un sonetto alla gelosia: O gelosia, reina degli afanni, gelida arsura e brivido di morte, mentr’io discendo la scala degli anni, perchè mi serri nelle tue ritorte? Per te la terra è gran selva d’inganni, ospizio di dolor è ogn’aurea corte: ellèboro non val contra tuoi danni; nè contra tua malìa gorgiera è forte. 1

2

3

4

5

6

  Ivi, p. 15.   Ibidem.

  Ivi, pp. 10-11.   Ivi, p. 23.

  Ivi, p. 17.   Ivi, p. 24.

l’amore dantesco oltre la morte nell’opera di arturo colautti 473 Non più sogni di gloria e di ventura! Non più vigilie di preghiere e d’armi! Non più, non più di giocondezza carmi!... Come ruggine rode l’armatura, silenzioso vermo dell’onore, tu mi consumi in lenta febbre il core!... 1  

Il collegamento fra Il terzo peccato e Paolo e Francesca viene stabilito dal primo momento: Questo libro di poesia, cresciuto all’ombra della grande opera dantesca, e misurato al suo ritmo innumerevole, non è un libro d’orgoglio, o un folle esperimento di temerità letteraria. Esso è rampollato da un cuore doloroso “vestito di umiltà”, e da una mente travagliata dalle sua febbre e dalle visioni di quel tragico amore che ha, nel v Canto dell’Inferno, il suo commento più profondo e la sua illustrazione più vasta. 2  

Il pensiero dello scrittore dalmata rievoca la figura dei personaggi di Dante per mostrare la soπerenza della sua carne mortale: Così fu che dalle figure dei duo cognati mosse il coro sanguigno dei grandi colpevoli d’amore, tal che l’autore di questi canti –pur richiamando qualche più antica figura di leggenda e di storia- li noverò e li raccolse dal giorno della tragedia fino a’ dì nostri, rivelando, senza ambagi e senza veli, quante angosce e spasimi e impurità può esprimere la nostra carne mortale. 3  

Nonostante il casto bacio Colautti fa diventare Francesca e Paolo esempio della lussuria; perciò prende i sette peccati capitali (superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia) e sceglie Il terzo peccato – titolo del libro – dove «se è costretto a cantare la triste magnificenza della Lussuria, accoglie e celebra le fragranze dello Spirito e le luci dell’Ideale», 4 e costruisce il libro in ventitré capitoli, tra cui i Seduttori (cap. x), le Adultere (cap. xiii), gli Incestuosi (cant. xiv), i Suicidi, per finire con l’Abbandono (cap. xxii) e il Ritorno (cap. xxiii). 5 Per lui – che era stato costretto a sposare una giovane prima dei venti anni per averla lasciata incinta e di cui non era innamorato né aveva nulla in comune 6 – l’amore verrà sempre legato alla carne, e allontana l’essere umano da Dio, e perciò acceca la ragione e l’intelligenza:  





“Quel amor, che scemò la tua ragione, Veramente eternal morte richiede? Non t’esprime l’Età miglior tenzone” 7 “Non più Morte, che suo passo dilunga, Soccorritrice chiamerai per ira, Ma speranza che al Ben ti ricongiunga.” 8  



Collauti, parlando di Francesca, porta in ballo la figura di Beatrice. Anche se apparentemente non sono collegate, Beatrice e Francesca diventano i due poli dell’Amore: la prima 1

  Ibidem.   Arturo Colautti, Introduzione, in Idem, Il terzo peccato. Poema degli amori, in canti xxiii, nel vi centenario della Divina Commedia, Milano, Attilio Piazza, 1902, p. 1. 3 4   Ibidem.   Ivi, p. 2. 5   Secondo Saverio Procida «il Terzo peccato era, originariamente, in tre canti. Crebbe a ventitre» (Saverio Procida, Ricordi intimi su Arturo Colautti, cit., p. 137). 6   Ofelia Novak Colautti, Arturo Colautti. Il poeta della vigilia italiaca, cit., pp. 83; 131: «“Ho vent’anni, sicuro!” ed era già padre di una figliola, ch’egli più tardi vide morire demente con suprema angoscia paterna» (p. 83); «Non ero per anco ventenne. Quella ragazza, non più giovane, aveva passata oltre la trentina […] era nata una bambina; fui costretto perciò a disubbidire l’adorata Madre mia. E sposai contro la sua volontà […] – Io, poeta, turlupinato, ingannato da quella scaltra analfabeta, più di me avveduta, che trovò l’esca al mio spirito romantico, che si compiaceva a mandarmi lettere d’amore scritte, chissà da quale pubblico scrivano, o forse anche peggio» (p. 131). 7 8   Arturo Colautti, Il terzo peccato, cit., p. 17.   Ivi, p. 19. 2

pedro luis ladrón de guevara 474 sorridente, felice ma in solitudine, senza la persona amata; la seconda con la tristezza del condannato, porta con sé il trionfo dell’amore oltre la tomba, in compagnia dell’uomo amato. Il teologo trova la vittoria davanti alla presenza del paradiso divino, il poeta amoroso la trova nell’unione eterna degli amanti («verso il centro delle perdizioni eterne, là dove non Beatrice sorride, ma Francesca condannata, sospira, travolta dalla perpetua bufera dei venti»). 1 Nessuna speranza c’è per chi non segue il Vangelo. Si diventa nemico di Dio (si ricordi la Francesca dantesca: «Se fosse amico il re dell’universo / noi pregheremo lui de la tua pace» Inferno V, 91-92). È vero che Gesù perdona, ma soltanto a chi si pente e fa il sacrificio. Ma in questo caso non c’è pentimento poiché si vuole la compagnia dell’altro ad aeternum:  

La donna del Vangel fu liberata Per quell’amor che è tutto sacrifizio, E riamar perdona ad ogni amata: Queste, per cui richiami ‘l buon giudizio, Onde un giorno sorrise l’Uliveto, Non amarono in terra altro che il vizio 2  

Colautti trasforma Amore in passione carnale, in una chiara contrapposizione fra Fede e Amore («Io ristetti, tra Fede e Amor diviso»). 3 Per lui il vero amore non esiste senza la presenza di Dio, e pensare il contrario significa negare la realtà:  

Non è amor senza Dio, che tutto impola, E all’anime smarrite è chiaro porto, E umanamente per amar s’immola. “Equa condanna per iniquo torto Qui grava ognun che il sommo Amor non vide, E, nol vedendo, disse: “Amore morto!” 4  

Fra il teologo e il poeta, Colautti rimane dalla parte del teologo che invoca la sua passione per la vita («L’anima mia benedicea la Vita»), 5 anelando anche un suo ritorno nella patria natia:  

E alla fresca bianchezza mattutina, Di tra’ vetri vampanti in lingue d’oro, Riconobbi la dalmata marina. 6  

1

2

3

4

5

6

  Ivi, p. 1.   Ivi, pp. 287-288.

  Ivi, p. 190.   Ivi, p. 335.

  Ivi, p. 21.   Ivi, p. 333.

PAOLO SARPI, IL MARE ADRIATICO E GLI USCOCCHI Pasquale Guaragnella

T

ra Cinque e Seicento la questione del dominio del mare Adriatico era una questione foriera di conflitti. Una guerra tra Venezia e gli Arciducali d’Austria era sempre sul punto di scoppiare. Questi ultimi erano convinti di poter insidiare l’attività veneziana con la guerriglia uscocca, ma non s’aspettavano una decisa reazione veneta lungo il confine orientale nelle terre gradiscane. L’aver «mobilitato l’insolenza uscocca doveva incontrare la resistenza veneziana nonostante il compiacente aiuto e la fraterna collaborazione spagnola, di un duca d’Ossuna, così tenero per gli interessi arciducali, e così sprezzante per quelli veneti». Il viceré di Napoli partecipava infatti con altezzosa malevolenza e con sfrenata ambizione allo scontro con Venezia per il possesso dell’Adriatico. Alle operazioni belliche di terra, al confine orientale, si aggiungevano quelle per mare, da parte degli Uscocchi, e ancora nell’Adriatico meridionale tra le isole e i porti dalmati investiti e presi d’assalto dalle squadre navali ispano-napoletane. 1 Ricettacolo degli Uscocchi era la città di Segna. Situata nei pressi di Fiume, «sotto un’aridissima montagna detta Morlacca, senza acqua, senza terra e persino senza legna per qualche miglio all’intorno, la città di Segna non aveva nemmeno un porto o una scala sicura per ospitare navigli». La città risultava imprendibile non solo dal mare, ma appariva sicura anche dalla parte di terra. «Ladri, scelleratissima gente, nefandi ladroni e così via erano abitualmente definiti costoro. Raramente si vide così ristretto nucleo di uomini suscitare più annosa questione internazionale». Nel secondo decennio del Seicento, «in una atmosfera avvelenata di passioni, di rancori, di odi, la polemica sopra il dominio veneziano del golfo», e cioè del mare Adriatico, «raggiun[se] la fase di maggior sviluppo, che si sintetizzava nel nome di Paolo Sarpi». 2 È possibile rinvenire una testimonianza dell’avversità tra la monarchia spagnola e la Serenissima – ma anche dell’ottica opposta a quella veneziana e sarpiana – nel Mundo caduco di Francesco de Quevedo, opera nella quale sono presenti due discorsi «non ascrivibili ad un eroe, ma ad una categoria collettiva»: i pirati uscocchi, per l’appunto. La prima orazione, in particolare, è basata su un’antitesi fondamentale, perché «all’esiguità degli Uscocchi corrisponde un grande valore, mentre i Veneziani sono una moltitudine solo apparente, poiché non combattono in prima persona ma si a√dano a mercenari, sono mercanti, “apenas son hombres”, cittadini di una “república ramera”». Nella seconda orazione, d’altro canto, i Veneziani, «che non riconoscono l’autorità imperiale e ostentano la loro indipendenza», sono contrapposti agli Uscocchi, i quali «hanno intrapreso azioni militari contro la Serenissima non tanto per vendicarsi dei soprusi commessi nei loro confronti ma soprattutto, da sudditi fedeli, per difendere l’onore dell’Impero». 3  





1   Roberto Cessi, La repubblica di Venezia e il problema adriatico, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 1953, pp. 198199. Per un inquadramento storico-critico del problema adriatico, si veda il contributo di Filippo De Vivo, Historical justifications of Venetian power in the Adriatic, «Journal of the History of Ideas», 64, 2003, pp. 159-176. 2   Alberto Tenenti, Venezia e i corsari, 1580-1615, Bari, Laterza, 1961, p. 54 sgg. 3   Valentina Nider, Quevedo e l’’ars historica’: le «Oraciones» e le «Conjecturas», in Narrazione e storia tra Italia e Spagna nel Seicento, a cura di Clizia Carminati, Valentina Nider, Trento, Università degli Studi di Trento, 2007, pp. 260-261. Altrettanto interessante – per quanto caratterizzato da immagini iperboliche – risulta l’epicedio che lo stesso

pasquale guaragnella 476 In questo articolato panorama il problema adriatico rappresentò forse il momento più delicato, perché diventò una questione di di√cilissima soluzione politica. Ha rilevato un maestro di studi sarpiani, Gaetano Cozzi, che la lotta tra Venezia e gli Arciduchi d’Austria era «espressione del travaglio dell’Europa, intensissimo» in cui si fronteggiavano mondo cattolico, «sulla via della riscossa», e il mondo della Riforma, «diviso tra luterani e calvinisti», sullo sfondo di una Europa che «sentiva scricchiolare le vecchie strutture rinascimentali dei suoi stati, il profilarsi sempre più accentuato di una crisi economica e lo sconvolgimento della vecchia cultura per l’aπermarsi di una scienza nuova». Coloro che, come Paolo Sarpi, erano stati coinvolti nella disputa dell’Interdetto con la Sede Apostolica si erano convinti che solo «una guerra in cui si fronteggiassero i due blocchi» avrebbe potuto scuotere l’Italia, instillando «nuovi spiriti di libertà», e rinnovare la vita religiosa e politica di Venezia. 1 Alla guerra tra Venezia e gli arciducali d’Austria seguiva una di√cile pace. Questo, dunque, il complesso di temi, contese, rivendicazioni che costituiscono il retroterra del Trattato di pace et accomodamento, nel cui esordio Sarpi rileva che il suo proponimento è scrivere solo le trattazioni e conclusioni di pace e che, non esercitando la professione militare, non potrà scrivere convenientemente dei fatti di guerra. Tuttavia, anche queste dichiarazioni sembrano rientrare nella sapienza della sua arte di scrittore. Infatti, trattando della pace stipulata, a Parigi, tra Venezia e gli Arciducali, Sarpi scrive: «A nessuno delli ministri spagnoli in Italia riuscì grato l’aviso della conclusione della pace di Parigi così per il desiderio intenso che la guerra continuasse, come per esser stata conclusa in Francia, e massima perché non mancavano di quelli che di ciò si valevano per estenuazione della reputazione delle armi di Spagna et essaltazione delle francesi, per timore delle quali fossero stati costretti accomodarsi al volere del Cristianissimo. Il governator di Milano […] non ne fece demostrazione»; 2 il duca d’Ossuna, al contrario si essacerbò in estremo, proruppe non solo nelle solite minaccie, ma in molto più aspre, accendendosi in pensieri enormi, giurando di voler mettere quel Regno e la vita e non tolerar tanta indignità della Corona di Spagna. Si diede più sollecitamente alle provisioni, e mandò li vasselli a Messina, per star preparati all’arrivo delle galere veneziane per tornar in Colfo. Dell’uso sapiente di una tecnica e di un metodo storiografici nuovi, fondati sull’attenzione e la precisione, tutte secentesche, dei dettagli, è testimonianza appunto il Trattato di pace et accomodamento, in cui lo scrittore, seguendo il filo degli avvenimenti sino al 1619, vuole dimostrare la vastità e la profondità della trama contro Venezia; e, soprattutto, vuole richiamare l’attenzione di quanti, all’interno della classe dirigente veneziana, «non avevano compreso il pericolo che sovrastava le sorti della Repubblica». 3 L’arte sarpiana della scrittura, fatta di acume psicologico e ironia, sostanziata dalla sottile conoscenza delle sfumature dell’animo umano già rivelata in una dimensione tutta  





Quevedo fa del duca di Ossuna, di cui il poeta fu segretario precisamente durante il periodo del viceregno in Italia: «Lloraron sus invidias una a una / con las proprias naciones las extrañas; / su tumba son de Flandres las campañas; / y su epitafio la sangrientia luna. / En sus exequias encendió al Vesubio / Partenope, y Trinacria al Mongibelo; el llanto militar creció en diluvio. / Diole el rnejor lugar Marte en su cielo; / la Mosa, el Rin, el Tajo y el Danubio / murmuran con dolor su desconsuelo». Francisco de Quevedo, Musa I. Clio canta elogios y memorias de Principes y Varones ilustres, in Idem, Antologia poetica, Madrid, Espasa Calpe, 2007, pp. 52-53. 1   Gaetano Cozzi, Nota storica a Paolo Sarpi, La repubblica di Venezia, la casa d’Austria e gli Uscocchi, Laterza, Bari, 1965, pp. 424-425. Cfr., inoltre, Idem, Paolo Sarpi tra Venezia e l’Europa, Torino, Einaudi, 1978. 2   Paolo Sarpi, Trattato di pace et accomodamento, in Idem, La Repubblica di Venezia, la casa d’Austria e gli Uscocchi, cit., pp. 122-123. In proposito si veda Giovanni Da Pozzo, Venezia e il problema degli Uscocchi: una nuova opera sarpiana, «Giornale storico della letteratura italiana», cxlii, 440, 1965, pp. 557-580. 3   Gaetano Cozzi, Luisa Cozzi, Paolo Sarpi, in Storia della Cultura veneta. iv. Il Seicento. Dalla Controriforma alla fine della Repubblica, ii, a cura di Girolamo Amaldi e Manlio Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1984, p. 34.

paolo sarpi, il mare adriatico e gli uscocchi

477 privata dalla redazione dei Pensieri medico-morali, 1 si conferma nel ritratto di Pietro Giron duca d’Ossuna. Uomo «d’ingegno acuto, capace d’ogni mal misurato pensiero, inquieto ancora, e prodigo, li beni del quale già alquanti dalla giustizia di Spagna sono stati applicati alli creditori suoi, riservati a lui li soli alimenti; e non meno bisognoso di onore che di robba, pigliò impresa audace et irrespettiva di vilipendere, insidiare et oπendere 2 tutte le cose della Repubblica. Se ciò facesse per spontanea volontà, o per ordine di chi gli commanda, resterà il giudicio alla prudenza di chi leggerà le azzioni sue», di cui «sarà piena la presente relazione per necessaria connessione, o antecedente o conseguente, che quelle azzioni hanno con le cose trattate in Spagna, per stabilire o per turbare la pace». 3 Sarpi conferisce particolare rilievo alle parole deliberatamente poco meditate del duca d’Ossuna, il quale «né s’astenne di pubblicamente dire che i Veneziani trattavano pace a Roma et in Spagna né s’avvedevano d’esser in uno e l’altro luoco burlati; che il re [di Spagna] gli commetteva di proseguire contra loro sino all’esterminio; che egli averebbe colorito li dissegni del duca d’Alcalà», che fu viceré di Napoli dal 1558 al 1571, «di far riunire allo Stato di Milano tutte le terre di Lombardia», cioè il territorio della Repubblica di Venezia, «et alla Puglia le isole dell’Adriatico senza sfodrar in quei luochi spada». Il duca d’Alcalà non aveva realizzato quei piani poiché si mostrava, a giudizio di Ossuna, «troppo dato al caminar sicuro, cosa che non era per trattener lui, perché perdendo perderebbe il re, guadagnando acquisterebbe Ossuna nome, utile e gloria». Nella visione storiografica di Sarpi «il movimento che può esser determinato dalla volontà del singolo, in relazione all’intera situazione in cui essa si trova ad agire, resta [spesso] irretito nelle maglie di quella situazione. Ma se c’è un personaggio che costituisce un’eccezione in tal senso, questi è il duca d’Ossuna». L’Ossuna diventa, «nell’immaginazione sarpiana, il personificato bersaglio polemico della tracotanza e della doppiezza spagnola. Ed è certo per questo che, in una pagina mirabile, proprio dell’Ossuna viene ricostruita in sintesi la teoria politica». Sarpi scrive infatti di aver parlato «con persona di buon senso, e che aveva qualche cognizione delli costumi e pensieri di quel ministro» e di aver mostrato una certa meraviglia nel vedere che il duca da un canto «maneggiava li negozii con vantaggio e con accortezza esquisita, et in ogni accidente prendeva partiti mirabili, argomento di prudenza», e dall’altro «parlava con tanta giattanza et impertinenza che dimostrava più tosto pazzia, che imprudenza; mi rispose che io lo giudicava qual veramente era dalle azzioni, che non potevano venire se non da persona avveduta e diligente: e le parole, che avendo apparenza di vanità mostrano il contrario, proceder parimente dalla medesima accortezza, et esser inviate alli medesimi vantaggi e profitti». Il duca d’Ossuna viene descritto da questo uomo a lui vicino come  





sommamente desideroso di gloria e di utile, che è d’opinione che nessuna grand’impresa si possa fare se non precipitosamente, che tutti li gran prencipi e capitani non paiono temerarii perché le cose gli sono riuscite, ma però hanno sempre arischiato il tutto e messolo in gioco della fortuna; che ogni gran fatto di Alessandro Magno e di Cesare ben esaminato è fatto con temerità. 4  

Tuttavia «l’esser solo ad usarla meritar ben nome d’imprudenza e pazzia; conveniva avere molti cervelli di quella qualità per ministri da metter in eπetto li precipizii; questi bisogna conoscerli e scoprirli, il che non si può fare se non con scoprirsi a loro e dargli 1   Sia permesso rinviare a Pasquale Guaragnella, L’arte di leggere gli Antichi nei Pensieri medico-morali di Paolo Sarpi, in Idem, Tra antichi e moderni. Morale e retorica nel Seicento italiano, Lecce, Argo, 2003, pp. 81-116. 2   Non deve stupire che il servita veneziano, sodale di Galilei, adoperi, nei suoi scritti, una terminologia che rimanda alle scritture apologetiche galileiane. In merito, rinvio a Pasquale Guaragnella, Dispute in scena. Galileo dalla polemica sul compasso geometrico al «Saggiatore», in Idem, Teatri di comportamento. La «regola» e il «diπorme» da Torquato Tasso a Paolo Sarpi, Napoli, Liguori, 2009. 3 4   Paolo Sarpi, Trattato di pace et accomodamento, cit., p. 195.   Ivi, p. 292.

pasquale guaragnella 478 sicurezza di manifestarsi; che non lo poteva fare chi parlava riservato e tra li termini della prudenza». Sarpi conclude aπermando che ha voluto «recitar qui» questo colloquio «acciò servì a ciascuno che leggerà li fatti di Ossuna, li quali mostreranno vanità o furia, a penetrarne la vera causa». 1 Attento a rilevare il contrasto tra parole e fatti, Sarpi narra intanto, con apparente distacco, «la ripugnanza» tra «le buone parole di Spagna e li sinistri eπetti d’Italia» che ingenerava «meraviglia, e desiderio di sapere se li ordini di Spagna erano poco sinceri o pure dalli ministri sprezzati. Quei che consideravano la bontà e religione che si professa in Spagna, non potevano persuadersi che le buone parole tanto constantemente date, e tante volte replicate, e ancora giurate fossero con fine d’ingannar altri. Vi aggiungevano ancora il termine di riputazione, poiché se bene le insidie in questo secolo 2 corrotto non sono stimate tanto inumane, come nelli megliori [secoli], si teme che tuttavia nascano di bassezza d’animo, e siano argomento di viltà, e mai si potrebbe dire principe grande e generoso potesse volersi con dignità di arte tanto abietta». Tuttavia, «gl’uomini di buon senso non potevano persuadersi che li ministri», ossia Toledo e Ossuna, «così continuamente contraoperassero alla parola e promessa del principe, altrimenti converrebbe credere che il re fosse senza autorità, e li ministri arbitri del maneggio». D’altronde, poiché il Re e il consiglio spagnoli sembravano tutt’altro che deboli, appariva evidente che «le operazioni de’ ministri fossero appoggiate ad ordini, overo almeno a sensi di Spagna». Del resto, sottolinea Sarpi, è ormai «al mondo noto che le arti del governo spagnolo, con quali superano le altre nazioni, sono quelle dei negozii, nei maneggi de’ quali hanno per massima il promettere quanto bisogna et osservare quanto torna bene; e che la riputazione e dignità sono apparenze per valersi in mancamento di altra ragione, ma non da stimare quando si tratta d’accrescere le proprie forze, o sminuire quella del vicino, poiché la dignità segue la misura del potere. Ma o dalli ministri, o da più alto luoco procedesse la deliberazione, certo rimaneva che non si poteva discerner sicurezza nel trattar con loro». 3 Ma una considerazione a margine dei passaggi testuali appena riprodotti: in questi è pure presente un procedimento, «già ampiamente sfruttato nelle opere precedenti di Sarpi», ossia una «suspensione nel giudicare». Sarpi, ha rilevato acutamente Gaetano Cozzi, «riporta su un fatto, su un personaggio, su un problema, varie opinioni anonime, esposte in una specie di crescendo» evitando tuttavia di riferire «un’opinione banale o sciocca, neppure quando evidentemente è quella che egli attribuisce ai suoi avversari. Sarebbe stato contrario ai suoi principi, che gli imponevano di presentare le cose nel modo più plausibile se si voleva che fossero credute». La prima opinione «che è di solito quella che Sarpi vuole confutare, è logica e intelligente e attira favorevolmente l’attenzione del lettore», di modo che, «quando questi passa alla successiva e la trova ancor più acuta, intessuta spesso di una critica finissima sulla precedente, ne è conquistato»; quando, infine, è presente una terza opinione, questa «rappresenta una sfumatura, più pacata e misurata, della seconda, e ne attenua le eventuali punte polemiche, trascinando anche il lettore più restio». 4 Intanto, il duca d’Ossuna aveva ritenuto di «armare li suoi vasselli e mandarli in Colfo con pensiero di non dessistere dal perturbare le cose della Repubblica» e lasciava credere di agire senza alcun ordine del Re di Spagna, «anzi gli diceva di più, averli scritto il re  







1

  Ivi, pp. 292-293.   Sulla larga diπusione dell’immagine del Seicento come secolo corrotto, cfr. Antonio Maravall, Le tensioni sociali e la coscienza di crisi nel diciassettesimo secolo, in Idem, La cultura del Barocco. Analisi di una struttura, Bologna, il Mulino, 1985, pp. 39-98. 3   Paolo Sarpi, Trattato di pace et accomodamento, cit., pp. 327-328. 4   Gaetano Cozzi, Paolo Sarpi, in Storia della letteratura italiana, diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Milano, Garzanti, 1979 (1982) p. 407. 2

paolo sarpi, il mare adriatico e gli uscocchi

479 che non mandasse le sue regie nel Colfo: però le voleva mandare non con le insegne di sua Maestà ma con le sue proprie acciò quella non potesse dolersi che [Ossuna] avesse mandato le sue insegne contra la sua regia volontà». Il viceré sosteneva, inoltre, che «non si sperasse di pace, non potendosi quella fare se prima non era levato lo stato al duca di Savoia e castigato molto bene». Sarpi sottolinea la «gran contrarietà» esistente «tra le parole et azzionj di Spagna e quelle del ministro», il cui scopo era «confondere ognu’uno che ha gusto d’ingannarsi, ma di molto facile risoluzione con la massima che alle opere sole convien risguardare», quando il pensiero e l’azione appaiano contraddittori. 1 Il duca d’Ossuna, inoltre – informa Sarpi – «ricevette sotto la protezzione sua gl’Uscocchj, li diede ricetto et assicurò per la Puglia, e per tutto il Regno diede loro patenti, concesse molte immunità, li diede facoltà di vendere le prede in qualunque luoco, e fece dichiarare per l’arcivescovo di Chieti che da ogn’uno potevano essere comprate con sicura conscienza». Il viceré ordinò persino che «dovunque capitassero fossero spesati del pubblico, assegnò anco ponti diversi a ciascuna barca di loro, acciò potessero più allargarsi et ordinò che dalli abitanti in le terre di quelli li fosse somministrata provisione». Sarpi si mostra al corrente del fatto che il duca di Ossuna avesse discusso con gli Uscocchi, non solo durante «negoziazioni secrete» ma anche «nei luoghi reconditi delle sue recreazioni» ed «eziandio in publico», circa «i danni che potessero far in Dalmazia et Istria, e discorse come potessero entrare nel porto di Malamoco et abbrugiare li vaselli che ivi si trovassero, e come penetrar anco in Venezia, e metter fuoco nell’arsenale». 2 Ma la barca degli Uscocchi fu presa dai Veneziani e «condotta a rimorchio, et era di 18 banchi [di remi] e con le insegne del re di Spagna e del duca di Ossuna dipinte sopra la poppa, e con bandiere del medesimo re». Informato della cattura della barca dei corsari, il duca d’Ossuna «diede in strepiti; fece formar processo che le genti venete fossero con le armi in mano sbarcate nel Regno; e fece scrittura, la quale mandò in Spagna con aspre querele che la gente della Repubblica fosse sbarcata con le armi e violato il terreno del re». 3 Basterebbe la sapiente narrazione di questo episodio per farsi un’idea dell’arte istorica di Sarpi. Nel Trattato è «la conferma di una convinzione e di un metodo, di un modo di guardare il mondo». È l’esigenza di scrivere la storia, sia pur polemicamente, in maniera moderna, senza compiacenze retoriche o dottrinarie, con «una continuità di racconto di√cile e severa, tutta rivolta agli uomini del proprio tempo». 4  







1

  Paolo Sarpi, Trattato di pace et accomodamento, cit., pp. 202-203. 3 4   Ibidem.   Ibidem.   Ibidem.

2

I SENTIERI DI LUCE DI TULLIO BRESSAN: APPUNTI PER UNA TEORIA DELLA LETTERATURA GIOVANILE Elis Deghenghi Olujić Dobbiamo essere fermamente convinti che i buoni libri, soprattutto destinati all’infanzia e alla gioventù, salvano l’uomo dal male, perché stimolano l’esercizio del pensiero evolutivo, svelano il fascino della conoscenza del mondo, aprono un dialogo con le più alte menti dell’umanità e propongono il significato della vita. Tullio Bressan, Sentieri di luce. Teoria della letteratura giovanile, 1984.

Introduzione

P

resentare a questo convegno un intervento che ha per argomento la letteratura giovanile (o letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, come più spesso viene definita questa particolare branca della letteratura secondo una dizione accettata e fatta propria dagli addetti ai lavori), 1 significa interrogarsi sulla complessità e sulle potenzialità ermeneutiche di un universo letterario che sollecita costantemente a più profonde e sempre nuove letture e interpretazioni, significa ripensare alla natura e alle finalità di una disciplina che solo in tempi recenti, superati definitivamente antichi pregiudizi e ormai inaccettabili preconcetti ideologici e culturali, sta vivendo un sempre crescente interesse da parte degli studiosi (pedagogisti, letterati, psicologi, ma anche storici, filosofi e studiosi del costume e dei processi culturali), 2 che si interrogano circa il ruolo del libro e   



1   La diπormità delle dizioni usate per designare la letteratura concepita o adatta per soggetti in età evolutiva (letteratura per la gioventù, infantile, giovanile, letteratura dei bambini e dell’infanzia...) attesta le di√coltà di un inquadramento critico e di definizione degli stessi ambiti cronologici di fruizione di questo particolare settore narrativo e sottende l’irrisolta presenza di un dibattito insieme estetico, letterario e psicopedagogico, che ancora risente della pregiudiziale crociana, forse malintesa, come lamenta lo stesso Bressan nell’Introduzione a Sentieri di luce. Teoria della letteratura giovanile, certamente non priva di incongruenze e contraddizioni. La dizione letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, che a noi pare la più idonea, va considerata a partire dai tre dati che la costituiscono: la ‘letteratura’, il ‘per’ in qualche modo finalistico, e ‘l’infanzia’ e ‘l’adolescenza’ come oggetti della destinazione. Quello che appare importante è che questa dizione ammette l’esistenza di una ‘letteratura’ destinata a un periodo della vita fortemente connotato. In maniera speculare, ammette che l’infanzia e l’adolescenza abbiano il diritto di ricevere opere scritte riconoscibili come ‘letteratura’ nello stesso senso in cui lo si dice per le opere di narrativa e poesia in prospettiva adulta. 2   Si fa riferimento alla pregiudiziale crociana che tanto negativamente ha inciso, anche a seguito di frettolose e pedisseque interpretazioni, sullo status e sul riconoscimento della dignità artistica della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, della quale si è addirittura giunti a negare l’esistenza. La narrativa rivolta al soggetto in formazione non sarebbe autentica creazione artistica, secondo Croce, in quanto «basta il semplice riferimento al pubblico bambinesco come a un dato fisso del quale faccia d’uopo tener stretto conto, per turbare il lavoro artistico» (Benedetto Croce, La letteratura della nuova Italia, Bari, Laterza,1922, p. 116). D’altronde, prosegue Croce a p. 119 della medesima opera, «l’arte pura […] richiede, per essere gustata, maturità di mente, esercizio d’attenzione e molteplice esperienza psicologica. Lo splendido sole dell’arte non può essere sostenuto dall’occhio ancor debole dei bambini e dei fanciulli». Non c’è ancora oggi un testo a carattere critico-storico che non senta il dovere di nominare il giudizio crociano. Si deve ammettere che l’egemonia crociana ha di certo condizionato in modo pesante non solo e non tanto la produzione di opere per l’infanzia, quanto piuttosto la considerazione critica dell’intero settore, lasciato con degnazione alla cultura pedagogica e magistrale. Senza ripercorrere le tappe di un ormai storico dibattito, coronato talora da originali e autonome conclusioni, ci si limita in questa sede a rilevare che la critica, non chiusa

i sentieri di luce di tullio bressan

481 della lettura nell’attuale civiltà post-alfabetica, nella quale l’infanzia e l’adolescenza sono preda della seduzione totalizzante delle strumentazioni e dei linguaggi digitali, e sono quotidianamente investite da un flusso incessante e multiforme di stimolazioni e messaggi provenienti da un frastornante e al tempo stesso seducente universo di immagini. Sul piano intellettuale, questa situazione genera nei giovani un’evidente passività di ricezione, l’ottundimento dello spirito critico e l’inibizione dell’autonomia di giudizio che, associati a impoverimento della fantasia e a mortificazione della creatività, si traducono in un ostacolo allo sviluppo, all’integrazione e del perfezionamento delle facoltà superiori dell’intelligenza e del pensiero, nel mentre i personal media (computers e videogiochi) introducono nuovi schemi di ragionamento e tendono a modificare unilateralmente i tradizionali processi cognitivi. Il contributo ha lo scopo di rimarcare con consapevolezza la funzione imprescindibile che il libro, la lettura e la letteratura per l’infanzia e l’adolescenza hanno esercitato ed esercitano come veicolo di significati, linguaggi, modelli di comportamento, e come strumenti per la costruzione dell’immaginario individuale e collettivo. Tra gli studiosi che in Italia, a partire dalla metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo, si sono occupati in modo più diretto e sistematico di letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, un contributo significativo per l’incremento degli studi e l’individuazione di nuove fonti e itinerari di ricerca è stato dato da Antonio Faeti, al quale va riconosciuto il merito di aver avviato un nuovo indirizzo di ricerca che ancora oggi costituisce l’ormai consolidato impianto attorno cui continua a lavorare la cosiddetta ‘scuola bolognese’; da Pino Boero e Carmine De Luca, dalla pedagogista padovana Anna Maria Bernardinis e dal gruppo di studiosi di cui è a capo, dalla pedagogista pavese Egle Becchi, da Franco Cambi, Renata Lollo, Anna Ascenzi, Emy Beseghi, Angelo Nobile, per citare solo alcuni autorevoli nomi. Gli studiosi qui citati hanno espresso la necessità di un approccio multidisciplinare allo studio della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza: un approccio che, mentre esamina la disciplina alla luce di una costante ottica psicopedagogica, si avvale dell’apporto di varie scienze e competenze, allo scopo di approdare (anche) alla fondazione di una teoria della letteratura giovanile sul tipo di quella elaborata da Tullio Bressan nell’opera di cui diremo nel prosieguo di questo intervento. Una teoria, quella di Bressan, che ha valore solo in quanto opinabile, e sulla cui impostazione si può sempre tornare a discutere. La teoria della letteratura giovanile secondo Tullio Bressan Nato a Zara nel 1916 e vissuto a Trieste dal 1946, Tullio Bressan è stato consulente pedagogico e docente nelle scuole primarie e secondarie. Giornalista e critico letterario, ha svolto un’intensa attività di animatore culturale, ha promosso corsi di letteratura giovanile sia per genitori sia per docenti delle scuole dell’obbligo a Trieste e presso le scuole con lingua d’insegnamento italiana dell’Istria e di Fiume, organizzati con la collaborazione dell’Università Popolare di Trieste. Ha pubblicato centinaia di articoli e saggi, tra i quali: Alla ricerca di una forma nella letteratura giovanile (1962), Cent’anni di letteratura giovanile regionale (1967), Letteratura per l’infanzia e la gioventù nel Friuli-Venezia Giulia (in Enciclopedia a un’attenta considerazione dei fattori estetico-letterari, tende ormai a convenire sull’autonomia di questa specifica letteratura e sul pieno riconoscimento della sua dignità artistica. La letteratura per l’infanzia e l’adolescenza non è più ritenuta «un’arte minore»: nella varietà dei generi e dei temi, si può difatti fare riferimento a un corpus di opere connotate da una scrittura che, pur di qualità estremamente diversificata, possiede segni di autonomia, di libertà creativa e manifesta quindi la presenza della responsabilità autoriale. La letteratura per l’infanzia e l’adolescenza usa una più semplice strumentazione formale che, alla luce di arbitrari e superficiali paragoni, può emarginarla dallo spazio critico usato per approfondire il patrimonio di testi adulti. Invece, proprio perché strutturalmente più semplice, essa rivela meglio i meccanismi culturali e ideologici che la connotano e le persistenze dell’immaginario collettivo che tramanda.

elis deghenghi olujić 482 del Friuli-Venezia Giulia, 1978). Il suo saggio più noto, Non ammazzate Pinocchio, nel quale dichiara la difesa della teoria estetica crociana, risale al 1979 (Napoli, Guida). Nel 1967 ha fondato la rivista «L’Ora del Racconto», di apertura e prestigio internazionali, nella quale ha divulgato i problemi teorici e pratici della letteratura giovanile, elevata a forma specifica di letteratura universale. Come scrittore per l’infanzia ha collaborato alla Rai di Trieste. Contesa tra televisione, videogiochi e nuovi media elettronici, infatuata di miti divistici e consumistici, in una società ormai apertamente anomica, refrattaria alla lettura e sempre più estranea al patrimonio di civiltà, di razionalità e di cultura di cui il libro è depositario, la popolazione giovanile sembra avallare, in un inquietante scenario postalfabetico, le apocalittiche profezie della fine della galassia di Gutemberg e del trionfo della comunicazione per immagini. Al mondo delle immagini Bressan preferisce di gran lunga il mondo dell’alfabeto. Avverte il pericolo della desuetudine delle nuove generazioni con la pagina scritta. Teme le conseguenze negative della società odierna, ne conosce i difetti, è consapevole che, nel tempo in cui viviamo – come pessimisticamente evidenziava George Steiner – «la frase letta è in fuga davanti alla fotografia, la ripresa televisiva, l’alfabeto di immagini dei fumetti e dei manuali di addestramento. L’uomo medio legge sempre di più le didascalie a vari generi di materiali grafici. La parola è soltanto l’ancella dello shock sensoriale». 1 Del resto anche Luigi Pirandello, nel Taccuino di Bonn che risale agli anni 1889-1893, aveva scritto questo inquietante appunto: «Che cosa oggi può importare alla gente della poesia, che anela a vivere nell’avvenire, oggi, che la gente non ha neppur tempo di vivere il presente, tanto la vita s’è fatta varia e diversa?». 2 Bressan guarda al domani con fiduciosa attesa, perché crede nella capacità dell’uomo di riscattarsi e di rompere ogni schematismo e soprattutto perché convinto che i giovani, nonostante tutto, abbiano a loro disposizione un mezzo sostanziale di umanizzazione e di arricchimento spirituale: il libro. Scrittore lui stesso per ragazzi, Bressan convoca i giovani lettori all’avventura infinita della lettura. Spera in cuor suo che, in una società aridamente tecnocratica e in rovinosa rottura con il passato, il libro sia ancora quello che è sempre stato: un medium individuale che si rivolge al singolo, entra nell’intimità della coscienza, apre orizzonti nuovi di cultura, fa conoscere esperienze umane, personaggi, caratteri da cui il giovane lettore attinge elementi importanti per la sua formazione. Un’umanità infantile senza libri, secondo Bressan, è destinata a un futuro buio e pieno di pericoli. Il libro è la sola strada maestra per portare il lettore alla civiltà, ai valori morali, al gusto estetico, alla conoscenza dell’uomo. Scrive a proposito: «Il libro si rivela non solo strumento didattico, ma strumento di vita perché il lettore concresce nella sua lettura e per la sua lettura insieme ai maggiori interpreti della storia umana». 3 Ci viene da pensare a quanto scrive Borges a proposito del libro: «Fra i vari strumenti dell’uomo, il più stupefacente è, senza dubbio, il libro. Gli altri sono estensioni del corpo. Il microscopio, il telescopio, sono estensioni della sua vista; il telefono è estensione della voce; poi ci sono l’aratro e la spada, estensioni del suo braccio. Ma il libro è un’altra cosa: il libro è un’estensione della memoria e dell’immaginazione». 4 La lettura, come evidenzia Bressan, «implica una riduzione dei fatti e degli avvenimenti alla misura del proprio pensiero; è un metodo riflessivo di sviluppo costante; è un raccoglimento delle proprie forze spirituali; è un centro di riferimento per tutta la realtà esteriore e interiore». 5 Il libro e la  









1

  George Steiner, Parola e silenzio, Milano, Garzanti, 2001, p. 308 (ed. inglese 1958).   Luigi Pirandello, Taccuino di Bonn, in Idem, Saggi, Poesie, Scritti varii, Milano, Mondadori, 1960, p. 1235. 3   Tullio Bressan, Sentieri di luce. Teoria della letteratura giovanile, Trieste, L’Ora del Racconto, 1984, p. 134. 4   Jorge Luis Borges, Oral, Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 17 (traduzione di Angelo Morino). 5   Tullio Bressan, Sentieri di luce. Teoria della letteratura giovanile, cit. p. 134. 2

i sentieri di luce di tullio bressan

483 lettura sono pertanto indispensabili strumenti di sensibilizzazione etico-pedagogica, rappresentano la continuità con la tradizione, con le secolari radici umanistiche, sulle quali si è costruita la civiltà occidentale. Libro e lettura sono garanti di formazione integrale e multidimensionale della persona, di ordinata convivenza civile, di saldi orientamenti etico-valoriali, di modalità di ragionamento sequenziale e procedurale. Di fronte a quanti temono la scomparsa o la perdita d’importanza del libro, della lettura e della letteratura giovanile, Bressan rivendica il loro valore e il loro essere quel «sentiero di luce» verso l’ideale di vita. Pur consapevole dei rapporti di√cili che ormai ci sono tra libro e mass media, e del pericolo che il libro venga messo a servizio di quella industria culturale che domina ormai la nostra civiltà, dove anche la cultura diventa spettacolo, Bressan si sforza in vari modi di richiamare il libro per ragazzi alla sua essenza: la parola, e alla sua funzione primaria: la formazione. Convinto del ruolo della parola come strumento di umanizzazione e di arricchimento spirituale, nei suoi scritti ha avanzato alcune proposte interessanti. Molto opportunamente ha sostenuto il ruolo della biblioteca scolastica suggerendo l’introduzione nella scuola di una nuova figura di docente: il bibliotecario scolastico, che con una preparazione particolare sui libri e sulla letteratura giovanile aiuta e consiglia gli scolari nelle scelte e interviene nel collegio docenti per dare un contributo sostanziale nell’organizzazione di tutte quelle attività che sono connesse con il libro, in modo che la biblioteca scolastica diventi centro di iniziative culturali polivalenti: il «biblitecario docente», spiega, «non si imporrà con le sue scelte, ma in eπetto susciterà nei ragazzi interessi e curiosità, conoscendo tendenze latenti del lettore, desideri, attitudini anche pratiche». 1 In questa prospettiva propone corsi di biblioteconomia e di letteratura giovanile (Incarichi in biblioteca: o√cina di lavoro, in Tullio Bressan, Sentieri di luce. Teoria della letteratura giovanile, cit., pp. 128-129), e dichiara: «Senza bibliotecario la scuola è mutila. Solo un insegnante vigile e colto può comprendere la sua preminente funzione, non solo di distributore di conoscenze, ma soprattutto suscitatore di iniziative» (Il bibliotecario docente: nuova funzione, in Tullio Bressan, Sentieri di luce. Teoria della letteratura giovanile, cit., pp. 130-131). Bressan guarda con favore anche a forme più strette di rapporto tra la scuola e le biblioteche comunali, le librerie, nelle quali vedrebbe di buon grado istituite delle speciali sale per ragazzi. In seguito a una meditata convinzione del ruolo insostituibile del libro e della lettura nella Bildung della persona, senza per altro preconcette chiusure nei confronti di nuovi strumenti di comunicazione, e sorretto dal pensiero che «solo una critica della critica, cioè una critica teorica, fondata su basi scientifiche, possa convalidare e consolidare con le sue direttive e con le sue rettifiche una letteratura giovanile moderna, la quale per se stessa e da se stessa, potrà liberarsi da ogni attributo di minorità e da ogni sterile frammentarismo», 2 nel 1984 Tullio Bressan pubblica i Sentieri di luce. Teoria della letteratura giovanile, opera prima del genere nel senso che vi è tracciata una struttura teorica della letteratura giovanile, la più possibile sistematica e organica, anche se non esaustiva: come evidenzia l’autore, l’opera è «un trattato dal quale d’ora in poi bisognerebbe comunque partire per circoscrivere la teoria letteraria specifica come analisi critica dei principi della letteratura giovanile, delle sue componenti, dei suoi generi, dei suoi rapporti con la scuola e con i mass media e argomenti a√ni, distinguendola dalla letteratura e dalla critica letteraria in genere, benché partecipe della stessa matrice teorica e storica della letteratura italiana e universale». 3 Emerge nell’opera l’idea della primarietà della letteratura giovanile, non più considerata come appendice alla storia della pedagogia e della sociologia, ma come autonoma disciplina letteraria: «Vincolata inizialmente alla morale  





1

  Ivi, p. 130.

2

  Ivi, p. 12.

3

  Ivi, p. 11.

elis deghenghi olujić 484 e alla educazione ottocentesca, e successivamente per decenni a un dominante nazionalismo, la letteratura giovanile italiana ha trovato una grande esplosione dopo la Seconda Guerra Mondiale superando i vincoli stessi di una mentalità didascalica e scolastica e pareggiando per estensione e qualità le più alte espressioni letterarie», 1 dichiara Bressan, e prosegue: la «struttura teorica della letteratura giovanile, a livello estetico, etico, psicologico, linguistico e sociale, apre nuovi orizzonti alla stessa e la rende impegnata nella creatività e nella formazione della gioventù, conferendole dignità primaria di cultura e di civiltà». 2 Dalla lettura dell’opera si evince che, per quanto compartecipe all’essenza e alle sorti della letteratura e della critica, per la sua spiccata specificità, la letteratura giovanile, definita spesso «disciplina di confine», è particolare, con molti versanti che chiedono di essere esplorati perché è un ambito poliedrico, problematico, complesso, caratterizzato da una molteplicità di riferimenti che contribuiscono a definirne l’orizzonte epistemologico. L’impresa conoscitiva, dunque, non si presta ad analisi riduttive: questa letteratura, come suggerisce Bressan, contiene un insieme di rimandi e svelarli è ormai un appuntamento ermeneutico a cui non si può mancare. Secondo il Nostro, perché richiama alle «radici dell’umanità, [la letteratura giovanile] ha la facoltà e le finalità di infondere nei giovani quel dovere di crescere in armonia con l’umanità e di lottare per il trionfo della ragione universale». 3 Sentieri di luce. Teoria della letteratura giovanile si presenta con un taglio originale: è un’opera ‘aperta’, composta cioè da osservazioni dell’autore, note di studiosi celebri e spazi per gli ‘appunti del lettore’. La prima parte ha funzione introduttiva. Comprende una sintesi dei problemi principali della letteratura giovanile e raccoglie un insieme di temi e di giudizi psicologici, etico-pedagogici ed estetici, con frequenti richiami a Benedetto Croce, alla cui estetica Bressan riconduce la propria teoria letteraria. Nell’Introduzione difatti dichiara:  





L’estetica crociana era la più alta espressione estetica che derivava dal classicismo greco, da Kant e da Hegel e dava all’Italia una prospettiva europea: l’ispirazione formale la legava al criticismo e all’idealismo europeo; essa rigenerava la scienza del pensiero di tutta l’epoca dal 1900 al 1950. Non è una estetica, una poetica: è l’estetica. Accanto ad essa, soprattutto negli studiosi stranieri, dilagavano altre estetiche e poetiche personalistiche di carattere filosofico e scientifico; ma l’estetica di Croce dominava soprattutto in Italia ed era l’espressione più alta del significato dell’arte, alla quale la stessa nostra letteratura giovanile poteva chiedere lumi, strutture, essenze e fini. E non l’ha fatto, per colpa di una storiografia critica impreparata, mancante di forze di concentrazione e di attitudini a livello universitario. 4  

La seconda parte del volume, intitolata Le componenti della letteratura giovanile, si articola in quattordici rapidissimi capitoli, che consegnano al lettore una serie di riflessioni sulla letteratura giovanile, le sue caratteristiche, le sue funzioni. Le componenti della letteratura giovanile, individuate e analizzate da Bressan con intelligenza, sensibilità e con la sua preparazione culturale generica e specifica, sono tre: la componente estetico-letteraria sulla quale, trattandosi di lettori di età minima, si innesta naturalmente la componente psicologico-evolutiva. La terza è la componente etico-pedagogica. Gli altri capitoli del libro sono: Le forme estetiche o generi, Le forme composite, Letteratura e scuola e Letteratura, cultura, libertà. Muovendosi in spazi sempre ampi, nel volume Bressan tende a ricuperare una visione teoretica della letteratura giovanile. La sua è una scelta impegnativa, perché impone una ricerca d’insieme e una definizione dei principi fondamentali ai quali ancorare l’intero discorso. Le sintesi allora diventano a volte di√cili e il pericolo della 1

2

3

4

  Ivi, p. 102.   Ibidem.

  Ivi, p. 82.   Ivi, p. 16.

i sentieri di luce di tullio bressan

485 genericità è sempre in agguato. L’autore non lascia però il lettore nel dubbio, ma prende significativamente posizione sui problemi che con il libro sono connessi, aπronta una tematica larga, che rinvia, da una parte, alla questione specifica della lettura, dall’altra a quella più generale della comunicazione. A livello universitario, nel capitolo intitolato Università e cattedre di letteratura giovanile, Bressan lamenta la carenza in Italia di cattedre di letteratura giovanile, che dovrebbero agire come centri di studio e di collegamento per studiosi e critici del settore, per scrittori, che invece operano spesso isolatamente e in modo frammentario. Il Nostro scrive a proposito: «Gli Statuti delle nostre università rivelano una insensibilità riguardo alla letteratura giovanile, la quale ha rarissime cattedre o insegnamenti […] Le cattedre di letteratura giovanile si rendono ormai indispensabili anche perché agirebbero da centri di studio e di collegamento rispetto a tanti studiosi, scrittori e critici che nel campo nazionale specifico rischiano la dispersione e il frammentarismo, pur giunti attualmente a talune punte di alto livello». 1  

Conclusione A oltre trent’anni dalla pubblicazione dell’opera di Bressan, la letteratura per l’infanzia e l’adolescenza si configura come un filone letterario complesso, oggi al centro di una vera e propria ‘riscoperta’ da parte degli studiosi impegnati a promuovere, come auspicava il Nostro, una riflessione sempre più approfondita sulle attuali problematiche epistemologiche, pedagogiche e culturali che interessano una disciplina divenuta nel tempo un interessante laboratorio dove si sperimenta un incrocio di generi e spesso una intelligente contaminazione tra vari media. La responsabilità degli studiosi è alta, perché comporta una continua attività di informazione e una seria valutazione delle novità attraverso la messa a punto di un adeguato corredo di strumenti critici e interpretativi. Quali strumenti, dunque, attivare per un’attenta esplorazione del libro per ragazzi e della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza? La metodologia adottata nell’aπrontare la complessa vicenda di questa letteratura deve tenere conto di una pluralità di approcci in quanto il contesto della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza è storico, l’ambito è letterario, le fondamenta sono filosofiche, la specificità del destinatario è pedagogica, i rimandi sono iconografici, i prolungamenti massmediologici. Per il rigore della trattazione, l’originalità dell’approccio, la sintesi che opera, le prospettive che schiude e le soluzioni che addita, il lavoro di Bressan fin qui esaminato si presenta come occasione di riflessione e strumento di puntuale informazione per quanti sono investiti di compiti e responsabilità educative e comunque impegnati nella di√cile scommessa di avvicinare le giovani generazioni al libro. 1

  Ivi, p. 138.

IL ROMANZO DALMATA MODERNO: ALCUNE CONSIDERAZIONI Cristina Benussi

Q

uando si parla di letteratura, sembra opportuno sottolineare, come sostengono le più recenti teorie critiche, 1 che lo spazio non può essere concepito solo come sfondo, ma deve essere considerato come componente attivo della storia. La Dalmazia sta nel mare e sul mare, ed è regione unica nel modo di vivere e di esistere come civiltà cosmopolita: in questa terra fatta anche di luce e di vento per secoli si sono incrociate numerose vie culturali e mercantili. Le lotte per l’egemonia prima e l’accettazione poi da parte di tutte le città dalmate della protezione della Serenissima postulano che dall’altra parte dell’Adriatico quella regione ebbe per secoli arsenali, fondachi e fortezze essenziali per i suoi tra√ci marittimi lungo le vie del sale, delle essenze, delle spezie, degli oli, dei vini e del pesce. La cultura elaborata da queste popolazioni impegnate a navigare, per pescare o commerciare, diversamente da quella contadina, ha dunque di necessità riferimenti a una ‘dimensione addizionale’, non «naturale». 2 Infatti la fluidità e l’uniformità dell’acqua obbligano il navigatore-pescatore a utilizzare punti di riferimento esterni, a calcolare una rete di punti terrestri, i punti di mira e i punti di rotta, o celesti, le stelle e le costellazioni, a elaborare insomma una mappa, per giungere alla meta o per individuare i luoghi di pesca, costieri e d’altura, più vantaggiosi, o ancora per segnalare le secche. 3 Quando pescatori e mercanti vogliono lasciare ai figli la loro ricchezza, trasmettono essenzialmente il loro sapere, dato che lo spazio di mare non è ereditabile. A diπerenza delle popolazioni agricole, che possono accumulare territori, la ricchezza della gente marinara è piuttosto un patrimonio cognitivo per sfruttare risorse sempre mobili e instabili, perché ‘non’ è attraverso il lavoro costante e metodico di seminazione, fertilizzazione, cura quotidiana che si ‘riproduce’ il raccolto, ma piuttosto attraverso uno sfruttamento intelligente delle risorse potenzialmente infinite che comunque giacciono in un mare su cui ci si deve continuamente spostare e i cui pericoli e trabocchetti vanno pervicacemente aggirati. La donna, in antitesi a quella celebrata dall’archetipo agrario, non viene necessariamente consegnata al ruolo di madre, per aumentare il patrimonio di giovani braccia a sostegno della famiglia, ma deve piuttosto avere il fascino dei sorrisi che ammaliano, e curare la propria bellezza. 4 Dunque, le esigenze di questa cultura supportano una precisa gerarchia di valori. Innanzitutto l’intelligenza, che per certi aspetti è conoscenza e capacità dialettico-argomentativa, per altri è astuzia e abilità di metamorfizzare se stessi per garantirsi, a seconda delle circostanze, il dominio sugli altri: sono le qualità dei mercanti che anche sulla non sempre prevedibile variabilità di alcuni fattori giocano per aggirare le insidie del  







1   Basti citare, tra i tanti che si sono occupati di geocritica, Bertrand Westphal, La Géocritique, Réel, Fiction, Espace, Paris, Éditions de Minuit, 2007. Per quanto riguarda i testi letterari rimando al mio Scrittori di terra, di mare, di città. Il romanzo italiano tra storia e mito, Milano, Pratiche, 1998. 2   Gordon Hewes, The rubric “fisching and fisheries”, «American Anthropologist», 50, october 1948, pp. 238-246. 3   Gabriella Mondarini Morelli, Saperi e cattura nella pesca. L’accesso al territorio del mare dell’Asinara, «La Ricerca folklorica», 11, aprile 1990, pp. 14-20. 4   Marcel Detienne, Jean Pierre Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’an­tica Grecia, Roma-Bari, Laterza, 1984; Marcel Detienne, I giardini di Adone, Torino, Einaudi, 1975.

il romanzo dalmata moderno: alcune considerazioni

487 mercato. Ma, a un altro livello, sono le tecniche usate anche dai pescatori, che devono accerchiare con le reti il pesce, tendere le trappole con orecchio e occhio vigile, dirigere l’imbarcazione contro i venti del mare sgattaiolando tra gli elementi. L’uomo di mare insomma si trova di fronte a un ignoto che non può conoscere nella sua reale conformazione, ma solo immaginare e verificare nella sua realtà mediata dalla rappresentazione, che può variare nel tempo senza necessariamente giungere a una verità esaustiva. La conseguenza è un relativismo conoscitivo che presuppone, almeno in via di principio, il doversi continuamente adattare alle cognizioni acquisite: indagare l’abisso, il non noto, cioè dare un assetto a un sommerso (naturale, coscienziale, mnestico, onirico, pulsionale, sociale, storico o altro) costituisce una spinta forte a misurarsi con categorie interpretative che possono discostarsi da quelle generalmente accreditate, e con le quali la partita è sempre aperta. Un’altra caratteristica di questa cultura è la presenza costante del pensiero della morte, se il pericolo del naufragio (e della perdita della merce) è sempre ben presente ai naviganti. Il romanzo restituisce perfettamente questi valori, a cominciare da Niccolò Tommaseo (1802-1874). Come si sa è scrittore cattolico, per cui ci si attenderebbe un romanzo perfettamente in linea con i principi di una morale accettata nella sua totale aderenza a scelte di vita conseguenti. Esule nella vita come nel romanzo, lo scrittore dalmata ricalca, con la confessione dell’«umor mio vagabondo», 1 quel peregrinare tra stati d’animo diversi: Giovanni, il protagonista, si sente dunque individualista e superiore al sentire comune. In questo racconto che Manzoni non a caso etichettava come mezzo giovedì grasso e mezzo venerdì santo, Giovanni naviga tra lo sforzo di portar alto il nome di una patria, per la quale rischia la vita in un duello, e quello di trovare un’intesa con la sua donna, Maria, nonché tra il bisogno di sostenere il primato della fede e la condanna della ragione che la mette in dubbio. Con questa certezza dichiarata la drammaticità delle antitesi poste in campo dovrebbe placarsi in un’aspettativa teleologica che non delude. Eppure Tommaseo dispone il testo secondo le modalità di una scrittura che non rinuncia a interrogarsi sulla fenomenologia di un’esi­stenza in sostanza priva di scopo. Nella trama contano molto i moti dell’anima: «gli occhi miei, non ad altro acuti che a tessere insidie all’anima» 2 sono dunque quelli di un eroe orgoglioso come la sua donna. È qui, nel cedimento alla bellezza, stimolo peccaminoso da cui si riscatta con un impegno patriottico fattosi tutt’uno con l’a∫ato mistico-religioso, si cimenta la sua strategia di ricerca di un piacere che però è indissolubilmente legato alla presenza della sua cessazione, della morte, come ricorda il protagonista stesso, allorché ripensa alle donne che gli erano state vicine, Margherita, monaca che sopraπatta dalle tentazioni si acquietò nella morte, e Teresa. La bellezza e l’eros schermano la vista sullo sfacelo della morte, ma non l’eliminano: vanno dunque tenuti alla giusta distanza, senza lasciarvisi irretire. Abile nel simulare i suoi pensieri se «col volto pareva talvolta dire il contrario del suo sentire», 3 accampa scuse insostenibili per dilazionare il suo matrimonio con Maria, che soπre della sua doppiezza e che è costretta allo stesso gioco di dissimulazione «Ella più lo desiderava e più mostravasi riservata». 4 Giovanni insomma non riesce a recuperare la totalità di un’etica che, fuori dalla trascendenza, strutturi organicamente la sua vita. Maria è il suo risvolto al femminile: facile preda del fascino maschile, pessimista su un futuro che a una donna traviata non poteva certo oπrire grandi speranze, in fuga continua da un luogo all’altro, si trova appunto «senz’aspettazione di cosa nuova, come chi naviga senza veder altro che mare». 5 L’incontro tra i due italiani esuli, se risolve il desiderio di comunione  









1

  Niccolò Tommaseo, Fede e bellezza, in Idem, Opere, i, a cura di Mario Puppo, Sansoni, Firenze 1968, p. 545. 3   Ivi, p. 604.   Ivi, p. 558. 4 5   Ivi, p. 564.   Ivi, p. 533. 2

cristina benussi 488 nel nome della patria e della fede, non basta tuttavia a fugare il senso di smarrimento rispetto a un percorso esistenziale avvertito sempre come nebuloso e incerto. Cattolici entrambi, avvertono il peso della colpa sia di un passato peccaminoso sia di un’unione non benedetta dal sacramento matrimoniale, cui in eπetti nessun impedimento reale si opponeva: al grande passo Giovanni è obbligato dall’amica Rosa, pronuba di buon senso che ridicolizza i «suo’ impicci del non poterla sposare, del voler fare l’eroe piuttosto che procacciarsi un pane a tutti e due». 1 Si risolve così parte di una vicenda la cui drammaticità fino a questo momento appare piuttosto gratuita, e che rischiava di fare del protagonista una facile preda dell’eros, che lo avrebbero portato, senza Maria, a vagare «non senza pericolo sui visi di queste leggiadre donne di Bordeaux». 2 L’antitesi tra ‘fede e bellezza’ solo alla fine, col matrimonio, si placa in un’endiadi, quando con l’aiuto della fede Giovanni riesce a vincere l’attrattiva della sensualità profana con la contemplazione della bellezza spirituale. L’amore non diviene tuttavia forza generante, come se a essere interdetta fosse la pulsione alla conservazione biologica della specie, attivata piuttosto sul piano della procreazione intellettuale. La continuità della vita viene a√data non a Maria, ma a Giovanni, dunque all’intellettuale che per lasciare qualcosa di non corruttibile dalla morte aveva abbandonato Parigi e le sue mode letterarie per andare in Bretagna, dove «cogliere qualche nuova ricordanza d’aπetto, di dolore e di poesia; ché a lui le tre cose eran uno». 3 L’arte infatti sublima ed eleva le pulsioni dell’eros, che deve essere represso nel dolore per piegarsi alla bellezza del vero, anche se la verità, di fronte alla quale ogni finzione è inutile, può essere raggiunta solo con la fede, non con l’arte che davanti al mistero della vita resta, nonostante l’enorme erudizione proπerta, inerte. Arturo Colautti (1851-1914) nato allorché il Risorgimento italiano era già avviato, e giovane quando l’unità d’Italia era ormai una realtà, scrive in un’epoca successiva, allorché cominciano ad emergere le prime crepe in una nazione che non è mai riuscita a raggiungere una vera unità di valori e di intenti. Tuttavia durante l’intero periodo dell’esilio in Italia mantenne rapporti con gl’italiani di Dalmazia e i nazionalisti, fino ad essere un convinto interventista di una guerra cui non fece a tempo a partecipare. I suoi lavori teatrali, Fedora, Doña Flor, Adriana Lecouvreur supportano trame d’intrigo, storie d’amore destinate alla morte, in cui le protagoniste, bellissime, sono a loro volta vittime del loro stesso fascino. La tipologia femminile anche nei romanzi conferma lo stesso cliché di femme fatale, adescatrice di maschi attratti da un eros che non prevede rinascita. Colautti scrisse diversi romanzi, tra cui Fidelia (1886) e Il figlio (1894). Recentemente è stato ripubblicato il romanzo postumo Primadonna. Nel Figlio vengono riproposti e rimodulati, seppur in toni meno alti e problematici, i temi su cui anche Tommaseo aveva indagato. Infatti il bel capitano Enea De Liberi «aveva contratto assai presto il gusto dell’Oceano. In mancanza di battaglie, s’inebbriava di tempeste. La guerra non la si fa solo col cannone, ma ben anche colla bussola. C’erano pure le Lisse della meteorologia» Andato nel Nuovo Mondo, che pure non ammira animato come è da frenesie imprenditoriali e obiettivi materialistici, «questa decrepita Europa [gli] appariva quale un asilo enorme di lattanti o un enorme nosocomio d’imbecilli. Quanto all’Italia, rifatta o piuttosto contraπatta, la vedeva immersa ancora nell’xi secolo in piena scolastica ... costituzionale». 4 Dunque è un navigante ardito, critico nei confronti della bassa politica italiana, figlio di uno scultore che era «tra gli ultimi rappresentanti della cosi detta grand’arte». 5 A lui dunque spiritualmente a√ne. Come Giovanni di Fede e bellezza, critico di un’arte asser 









1

3

4

2   Ivi, p. 591.   Ivi, p. 604.   Arturo Colautti, Il figlio, Sesto San Giovanni, Madella, 1914, p. 10.

5

  Ivi, p. 558.   Ivi, p. 11.

il romanzo dalmata moderno: alcune considerazioni

489 vita al denaro, dà sfogo al proprio disgusto per la nascente industria culturale: «L’Italia aveva più che mai il mal della pietra. Ogni comunello ambiva di possedere il suo bravo monumento, magari di terracotta. Le cave carraresi parevano minacciate di prossimo esaurimento. Sgraziatamente, la scultura patriottica, come la poesia idem, è il rovescio dell’arte». 1 Paolo Emilio De Liberi, il padre artista, però era ormai rovinato dall’alcool e dall’assenzio, vizi con cui, come scoprirà il figlio, seguendo una serie di improbabili indizi, cercava di dimenticare il proprio delitto, l’uccisione della bellissima moglie scoperta in flagrante tradimento: la madre che il protagonista ricordava a malapena. A parte la trama giocata su un canovaccio di seduzioni e tradimenti, per cui la dama oggetto d’amore si svela una prostituta d’alto bordo, a parte la caratterizzazione sociologica di un’Italietta interessata solo al mantenimento dei propri privilegi più biechi, parassita e cialtrona, a parte un’ambientazione mondana che ricorda da vicino la Roma dannunziana, ciò che colpisce è l’endiadi amore e morte che scorre sotterranea a tutto il testo, fin dalla descrizione della bellissima protagonista: «quella testa luminosa e spiritosa, quella testa d’oro e d’avorio, troppo piccola e troppo magra forse per un corpo così ricco [...] sotto la pelle rosea traspariva il teschietto beπardo». 2 Dunque, si tratta proprio di un eros che può portare alla morte, come la conoscenza, di per sé attività inquietante, che toglie e non dà certezze. In questo testo infatti manca qualsiasi ipotesi di poter piegare a una prospettiva positiva il discorso artistico, l’unico comunque capace di sfidare il conformismo paludoso del mondo. Emblematico è anche il discorso che Colautti intesse sulla donna, che non ha in sé il destino di madre e che dunque in qualche modo non è legata all’autorità maritale. In un lungo dialogo in cui diversi personaggi di rango discutono su torti e ragioni e sugli aspetti legali dell’adulterio, a proposito di un delitto d’onore appena commesso, l’avvocato Barzilai della «Tribuna» prospetta come soluzione alternativa il divorzio: «il divorzio è il disarmo ... A questa definizione degna di Vittoriano Sardou, l’assembramento si sciolse». 3 Dopo la citazione di uno dei suoi autori di riferimento, l’autore muove la trama in modo da collegare quel delitto all’altro, commesso tanti anni prima dallo scultore, che era stato assolto dalla legge, non dalla sua coscienza. La madre, la cui memoria addolciva l’animo di Enea, viene dal figlio condannata senza possibilità d’appello: «Sua madre aveva mentito, sua madre aveva tradito: giusto era che pagasse magari col sangue: giusto era che subisse l’ultima pena [...]. Ma, dunque, tutte, tutte erano così, tutte facevano così? ma, dunque, la frode era l’arme della debolezza, il genio dell’altro sesso, il midollo della femmina?». 4 A lui Colautti risparmia la pena dell’omicidio, tra l’altro di una donna che non è sua moglie, e le soπerenze del rimorso, perché, in un estremo recupero della coscienza, e in una sua repentina perdita, lascia sia il padre a uccidere per lui. E costui lo fa non con la pistola, ma con il martello da scultore, oggetto che, quasi possedesse un’anima, non gli permetteva di scolpire altre statue che quella della moglie uccisa. L’arte dunque è ciò che perde e salva, insieme, ma che certo non svela il mistero dell’esistere. Se passiamo ad Enzo Bettiza, nato a Spalato nel 1927, vediamo come alcune prospettive vengono aggiornate, nonostante evidenti permanenze. Bettiza scrive anche lui da esule, che però sente come condizione realisticamente definitiva, perché della sua terra natale è andata perduta proprio l’identità culturale, che non può più essere ripristinata. Questo è il dramma, il focus che gli permette di fare un discorso in cui la morte e la sconfitta non riguardano i singoli, ma un’intera cultura, quella dalmata. Studioso di problemi dell’Est europeo, ed osservatore acuto della guerra tra le repubbliche dell’ex  







1

2

3

4

  Ivi, p. 12.   Ivi, p. 85.

  Ivi, p. 23.   Ivi, p. 183.

cristina benussi 490 Jugoslavia, aveva già avuto modo di esprimersi su alcuni problemi di queste terre di confine, in particolare su Trieste, che indaga secondo categorie letterarie di ascendenza manniana. La città non solo viene finalmente liberata dal suo cliché di felice crogiolo di razze, ma viene fatta rientrare in un ciclo storico che non può non avviarla all’inesorabile decadenza, così come era successo alla sua famiglia, impiantata da secoli nelle terre istrodalmate, delle quali ha seguito in pieno il destino. I Bettiza divengono così emblema di una civiltà e di una cultura secolare condannate alla morte: avviati nel Settecento all’arte mercantile, e impegnati in rischiosi commerci tra coste veneziane e possedimenti ottomani, nell’Ottocento avevano imboccato il classico e trionfale percorso borghese descritto nel Manifesto, finendo per assestarsi in una posizione di potere, grazie alle opzioni aperte dalle idee rivoluzionarie francesi giunte da noi con le truppe napoleoniche. La Dalmazia, una volta incorporata nelle provincie illiriche, doveva infatti dotarsi di una rete stradale di comunicazione, alla quale provvide il trisavolo Girolamo, uomo di fiducia dei francesi, che aprì un’impresa di costruzioni ed impiantò un cementificio. Avventure sentimentali di gradevole amenità, nonché azioni guerresche di buon impatto emotivo, accendono il ritmo di una narrazione che trova i suoi momenti di riposo nella descrizione di una famiglia patriarcale, solidale con i problemi economici e aπettivi dei suoi impiegati e delle persone al suo servizio. Restano impressi personaggi caratteristici di quel mondo antico, come i ‘ridikuli’ della città di Spalato, usi a banchettare col podestà poco prima delle feste natalizie; anche alcuni traumi infantili di memoria sabiana, come l’uccisione del suo agnellino per il pranzo pasquale, contribuiscono a ricreare un’atmosfera epocale, in cui trovano ampio spazio descrizioni di matrimoni misti, e di funerali, conclusi sempre dalla risata contagiosa del patriarca. La vita del piccolo Enzo viene così scandita nelle sue tappe canoniche: il luogo della crescita, una cucina gigantesca che inevitabilmente richiama alla memoria quella del suo predecessore più noto, Carlino Altoviti; il tempo dell’iniziazione sentimentale, che deve a Consuelo, la sua insegnante a Zara; e poi l’avvio alla maturità, di cui s’incarica, come è ovvio, la storia. Ma prima c’è una rendicontazione quasi ossessiva dei propri vincoli di sangue, misti, come quelli di tutti i suoi parenti. Veniamo a sapere che il nonno era stato insieme patriota slavo e funzionario austriaco: così, quando Gavrilo Princip uccise l’arciduca Francesco Ferdinando, il giudice lealista che era in lui non poteva non considerarlo un assassino, ma il nazionalista slavo non poteva non ammirarlo come idealista, buttatosi allo sbaraglio per la causa dell’irredentismo serbo in Bosnia. L’impossibilità di addivenire a un soluzione unica è, infatti, tipica della cultura che stiamo analizzando. La mamma Maria è ricordata soprattutto per la sua rara bellezza: di origine turca, era stata trapiantata nel cristiano Montenegro, sapeva il veneziano, ma preferiva parlare coi figli in serbocroato. Perfettamente bilingue, tra genitori nonni zii cugini nutrici, amici di entrambe le nazionalità, il piccolo Enzo custodisce una memoria fatta dei miti serbi e montenegrini che la madre e il nonno Vušković raccontavano, raπorzando così la ‘serbità’ inculcata dalla balia morlacca. Era lei, quasi un’altra madre, a fargli conoscere le fiabe dell’epica balcanica, accadute nella fosca prateria del Kosovo, dove sul finire del Trecento gli eserciti cristiani guidati dal principe serbo ortodosso Lazar furono sterminati dall’armata ottomana, famosa per la sua crudeltà. Dopo la guerra, i Bettiza, tranne l’anarcoide ed internazionalista zio Marino, avevano optato per la cittadinanza italiana, piuttosto che per quella jugoslava, senza mai dimenticare tuttavia la straordinaria ricchezza e bellezza della loro origine così complessa. Per questo il narratore mostra di non sopportare la cancellazione, fatta dalla Serbia, delle vestigia culturali di tanti popoli e vorrebbe porsi vicino a Ivo Andrić, lo scrittore cristiano bosniaco che ha saputo comprendere così bene il fascino della koinè balcanica da

il romanzo dalmata moderno: alcune considerazioni

491 rimpiangere l’impero musulmano della Sublime Porta, allo stesso modo in cui l’ebreo galiziano Joseph Roth provava nostalgia per l’impero asburgico. Proprio come quella dei Buddenbrooks, anche la famiglia Bettiza, ormai alla quinta generazione, indeboliti i suoi membri nella prestanza fisica e nella capacità progettuale, entra nella fase discendente del ciclo. Comincia a smembrarsi tra le sue anime, slavo-comunista ed italo-fascista, politicamente in lotta tra loro, con le tristi, vicendevoli rappresaglie prima dei vincitori fascisti che non volevano sentire parlar slavo, poi degli slavi che non volevano tra loro gl’italiani. Bettiza ricorda che Zara fu inghiottita fra l’estate e l’autunno 1944 da bombardamenti, e ridotta a cenere: fu un assassinio, un «memoricidio», un «culturicidio». Poi l’esilio e il silenzio sulle vicende della sua famiglia, come se la storia si fosse fermata per sempre in quel momento.

PER UNA STORIA DELLA LETTERATURA DALMATA ITALIANA Giorgio Baroni

Q

uando abbiamo iniziato a pensare a questo convegno, non avevo un’idea precisa dell’argomento che avrei trattato nella mia relazione, ma vagamente pensavo a uno scrittore dalmata, magari uno di quelli che poi ho suggerito a qualcuno di voi che mi ha chiesto consiglio. Poi, man mano che arrivava la conferma del successo dell’iniziativa, misurabile innanzi tutto con le adesioni, bloccate a quota centoventi per evitare di scoppiare, ma con una continuazione di richieste tale che sarebbero tranquillamente raddoppiate (naturalmente non siamo qui in centoventi perché, avvicinandosi la data, è normale un certo calo), vedendo come relazioni e comunicazioni si posizionavano variamente su secoli e ambiti vari, lasciando intendere pure competenze e metodi diversi, mi si è venuta formando e poi consolidando l’idea di cogliere questa straordinaria occasione per promuovere una storia della letteratura dalmata italiana. E lo faccio ora, intanto che tiro le fila del convegno per il quale dico grazie a ciascuno di voi, per la vostra presenza e per l’impegno che avete profuso negli interventi, importanti anche nella brevità; tanto sappiamo tutti che è più facile riuscire a dire qualcosa con tante parole, che non dovendosi limitare. Se avete avuto modo prima e in questi giorni di studiare il programma ormai svolto, avrete notato che i temi degli interventi hanno trovato diversi punti focali: innanzi tutto Colautti, al quale oggi sono state dedicate due sessioni; si è celebrato così il suo centenario e se ne è misurata la statura: appare certamente un minore se confrontato con Foscolo, Manzoni, Leopardi ovvero con la triade dei grandi dell’Ottocento italiano, ma di rilievo se accostato alla nutrita schiera di novellieri del secondo Ottocento e del primo Novecento. Fra voi c’è anche chi ha provato a rilanciarlo editorialmente e spero con buoni esiti. Non poteva poi non emergere Niccolò Tommaseo, forse l’unico scrittore dalmata noto universalmente, questo sia per la sua oggettiva importanza, sia per la peculiarità della vita e della produzione, entrambe intensamente connesse con la sua dalmaticità, ovvero con tutta una serie di caratteristiche: l’essere di confine con qualcosa di misto già nel sangue e nella famiglia, l’amore per l’italiano, che lo porta a essere linguista e autore di un grande vocabolario, i legami allora insostituibili con la Regina dell’Adriatico, la rara apertura europea che lo porta a contatti, studi, pubblicazioni, e molte altre specificità ampiamente discusse ieri e oggi. Dopo questi due nomi sostanzialmente scontati, brillano quelli di Bettiza e di Paravia: personaggi assai diversi tra loro, entrambi ricchi di tipicità dalmata, entrambi, come i primi due, vissuti prevalentemente lontani dall’amata Dalmazia, cantata e rimpianta, mai dimenticata e presente al punto di condizionare la loro esistenza. Hanno occupato in due secoli diversi un posto importante nella cultura italiana, uno da giornalista e politico del Novecento, l’altro come studioso, critico, editore dell’Ottocento. Tutto sommato una sorpresa ha riservato in questo convegno Dante, con un’intera sezione di comunicazioni e un paio di relazioni, dedicate al dantismo diπuso in Dalmazia sia per l’indiscutibile grandezza di questo padre della letteratura italiana, sia per il bisogno che i dalmati hanno sentito di attingere direttamente alla sua fonte, per le stesse

per una storia della letteratura dalmata italiana

493 ragioni per cui tra i migliori figli della Dalmazia si annoverano non pochi grammatici e linguisti di livello, ai quali pure si sono rivolte le cure di questo convegno. Il resto degli interventi si è spalmato abbastanza largamente, spaziando dai primi secoli a qualche libro uscito da meno di un anno e dalle isole del Quarnero alle Bocche di Cattaro, toccando poeti, romanzieri, memorialisti, autori di teatro e librettisti, filosofi, poligrafi, giornalisti, grammatici, nativi o immigrati, maschi e femmine, rimasti in Dalmazia o emigrati, compresi gli esuli e i loro figli che in qualche modo hanno continuato a sentirsi scaturiti da quelle pietre aguzze e bianche. Si può perciò aπermare che in questi due giorni si è lavorato sia in profondità sia in ampiezza, dando una misura complessiva della letteratura dalmata italiana. Ciononostante si è trattato di un campionamento che non ha aπatto esaurito il campo di indagine, restando trascurati uomini e opere di tutti i secoli e irrisolti numerosi problemi critici. Potremmo a questo punto essere tutti contenti di aver fatto la nostra parte e pensare al bel volume di atti che resterà di questo nostro impegno. Ma perché accontentarsi se si può fare di più? Ed ecco la mia proposta. Poiché questo stesso convegno ha dimostrato lo spessore della letteratura dalmata italiana e dato che non ne esiste, almeno che io sappia, una storia, si potrebbe partire da qua per costruirne una, lavorando in molti, così che non divenga un’impresa interminabile, ma da concludersi in tempi ragionevolmente rapidi, fosse per me in un paio d’anni. Nel dire questo, mi aspetto che diversi di voi, dopo essere tornati a casa, mi scrivano per esprimermi il loro pensiero in merito e per dare la loro disponibilità a fare, a cercare altri che facciano, a coordinare. Sottolineo quest’ultimo aspetto, coordinare, in quanto non ritengo che debba essere io a dirigere il tutto, meglio sarebbe che fosse qualche collega esperto, ma più giovane, magari ben collegato con sbocchi editoriali adatti. In ogni caso un’opera complessa di questo genere necessita pure di coordinatori di settore, ovvero di ogni parte significativa dell’impresa, i quali contribuiscano alle decisioni strutturali e, nel contempo, costituiscano e dirigano un gruppo di ricerca. Cerco ora di esaminare lo status quaestionis. Come si diceva e avete sperimentato voi stessi, non esiste una storia in italiano della letteratura dalmata italiana; quello che più ad essa si avvicina sono alcune opere di carattere storico, come il secondo volume di Istria e Dalmazia. Uomini e tempi, di autori vari, diretto da Francesco Semi e Vanni Tacconi, edito da Del Bianco di Udine nel 1992; valide fonti di notizie sono alcuni repertori e dizionari biografici, come quello recentemente pubblicato dalla Fondazione Rustia Traine, dal quale sono state tratte le pagine che avete ricevuto insieme al primo comunicato di questa iniziativa; infine esiste tutto un mare magnum critico e bibliografico, prevalentemente in rivista, e qualcosa in internet. Per questa parte ci si muove sia in Italia sia all’estero, anche in periodici di area slava. Tuttavia ciascuno di voi, preparandosi per venir qui, ha avuto modo di avere un’idea dell’esistente. Di√cile a volte non è soltanto trovare studi critici, ma addirittura le opere letterarie, pure in considerazione del fatto che alcuni depositi culturali sono stati distrutti o dispersi con le guerre. Sfogliando alcuni repertori, capita non di rado di leggere notizie di qualche autore, di cui si tramandano i titoli, ma non si trova nemmeno una riga. Si tratta comunque d’una complicazione comune a tutti gli studi sulle letterature antiche. Un problema specifico è invece il tentativo di appropriazione operato da alcuni studiosi, soprattutto croati, che sistematicamente cercano di storpiare i nomi degli scrittori italiani, traducendoli fantasiosamente per farne degli scrittori slavi. Mi spiego meglio: non si tratta dell’uso linguistico di tradurre alcuni nomi propri o di usare antroponomi

giorgio baroni 494 slavi esistenti, similmente a quanto accade quando noi italiani usiamo Giorgio, Enrico ed Elisabetta per nominare dei reali inglesi, e come toponimi usiamo Città del Capo, Londra, Belgrado e Salonicco, senza alcuna mira a far passare per italiane queste persone e località. Si tratta invece di un maldestro tentativo di gabellare per slavi scrittori che non lo furono: la sostituzione per esempio del nome Francesco Patrizi con quello di Frane Petrich è solo l’inizio di tutta una operazione volta a retrodatare la nascita delle letterature slave annettendosi gran parte della letteratura dalmata italiana. Di questo argomento ha scritto senza peli sulla lingua e con competenze particolari derivantigli pure da un’ottima conoscenza della cultura croata Giacomo Scotti, che ha denunciato pure la slavizzazione di architetti, scultori, musicisti, filosofi prettamente italiani, ovvero che si firmavano con un nome italiano, scrivevano in italiano, eppure vengono presentati come slavi. A tali critici disinvolti va tuttavia riconosciuto il merito di aver dedicato a questa letteratura d’oltre Adriatico molti più studi di quanti si siano registrati negli ultimi cento anni in Italia, raccogliendo e pubblicando testi e notizie. Se questo è un problema, credo che sia pure uno stimolo, dato che mi sembra importante scientificamente ripristinare la verità storica; anche se l’Italia ha e ha sempre avuto scrittori e artisti da vendere e forse per questo si è permessa di trascurare tutta una regione periferica, non avendo bisogno di arricchirsi né di togliere a chi ha una storia letteraria iniziata assai di recente, è necessario rispettare la giustizia e la verità. Del resto i migliori studiosi delle letterature di queste terre hanno ben dimostrato che la contiguità con la letteratura e la cultura italiane è stata nutrimento per lo sviluppo di quelle slave, così che in prospettiva europea i due fenomeni si possono oggi ben studiare parallelamente, esaminandone i punti di contatto e le proficue relazioni. Rimangono in ogni caso fra le questioni aperte i problemi di appartenenza per i quali sarà pur opportuna qualche riflessione al pari di quello dei confini geografici della Dalmazia, indicati solo per praticità ovvero per intenderci in questo convegno e credo anche abbastanza bene, ma certamente da meglio specificare e giustificare, magari con riferimenti più letterari che politici. Il legame forte fra Venezia e gran parte della Dalmazia per diversi secoli ha spesso indotto a confondere la letteratura dalmata nel più vasto ambito di quella veneta e certamente ciò è stato favorito dal fatto che molti dalmati illustri, non solo letterati, si sono formati a Venezia o a Padova, come a volte alcuni personaggi provenienti dal Veneto si sono naturalizzati dalmati; però casi del genere non riguardarono soltanto i veneti ma anche altri italiani che, trapiantati in Dalmazia, sono divenuti fra i migliori rappresentanti (penso ai Filelfo) della nuova patria. Ragusa era del resto una piccola, ma importante e potente patria, quinta, anche se misconosciuta, repubblica marinara, l’ultima a morire, dopo Genova e dopo Venezia. I Ragusei ebbero per prudenza, ma anche per ragioni geografiche, più legami con l’Italia centrale e con il Papato che non con Venezia, anche dal punto di vista culturale e letterario; ma intensissimi, e sarebbe da capire se pari o superiori, furono quelli con gli altri centri della costa dalmata, pur politicamente per secoli separati e riuniti solo nell’Ottocento, quando l’antico splendore di Ragusa era ormai spento. Dei circa quattrocento autori dalmati italiani finora individuati, soprattutto per i primi secoli e fino al Settecento, Ragusa fu magna pars, con tutta una folla di personaggi ancora in parte da scoprire. Diversi studi hanno spiegato che il frazionamento politico dell’Italia medievale e rinascimentale, con tutte le sue corti, favorì la vita culturale e l’emergere in esse di poeti e altri artisti. Questo si conferma per la repubblica di San Biagio, ma più in piccolo vale per altre realtà dalmate, sempre, anche sotto Venezia, più autonome che soggette, ben sostenute da proficui contatti soprattutto con Venezia, ma anche con la Lombardia

per una storia della letteratura dalmata italiana

495 e con il resto d’Italia, capaci quindi di generare personalità come un Gian Francesco Biondi, primo romanziere italiano, o l’operettista Francesco de’ Suppè Demelli. Costoro, rispettivamente da Lesina e da Spalato, seppero aπermarsi in Inghilterra e in Austria e non solo, grazie anche alla proverbiale capacità di inserimento internazionale di chi, come i dalmati, è vissuto sempre fra mondo cristiano e islamico, fra antica tradizione latina e sopravvenienze slave, traendo sostentamento dal mare e dai contatti da questo resi possibili. Una storia della letteratura dovrà porsi questioni organizzative: la partizione cronologica potrà essere una guida, ma alcuni aspetti geografici e linguistici saranno pure da tenere in considerazione: per esempio la sopravvivenza assai lunga in queste terre del latino letterario è un elemento ancora da approfondire; se da un lato può considerarsi una delle possibili forme di espressione della letteratura italiana, quando sia forma esclusiva, può dare luogo a dubbi sull’appartenenza. Esistono poi casi particolarissimi, come quello di Marco Polo, tradizionalmente in Italia considerato veneziano, ma rivendicato come dalmata dai curzolani che presentano ai turisti una targa su quella che viene indicata come casa natia, al punto che la Croazia si è accreditata in Cina per festeggiare un Marko Polo (scritto con la kappa) scrittore croato! Appare probabile che la famiglia Polo (Polo è antroponimo dialettale corrispondente a Paolo/Paoli), diπusissima a Venezia, avesse una dimora anche a Curzola e potrebbe non essere rilevante sapere se la mamma di Marco partorì in Dalmazia o a Venezia; ma è anche possibile che un curzolano di quel tempo si definisse veneziano sia per appartenenza politica sia per semplificare, dato che non molti nel mondo avrebbe capito la sua origine se si fosse dichiarato curzolano. Sarebbe certamente interessante saperne di più dato che la storia non si può fare solo con le probabilità. Fra i generi che richiederanno qualche cura particolare si segnalano il teatro nelle sue varie forme, comunque rivolte a parlare direttamente a un pubblico particolare, non di rado plurilingue, e tutta la produzione letteraria collegata al sacro o all’ecclesiastico: un mondo particolare in cui personaggi locali si alternano ad altri nominati da Roma e provenienti da altre terre, per lo più italiane, portatori del precipuo interesse di allargare e difendere la comunità cristiana, a prescindere dalla lingua e dall’etnia, ma anche veicoli di cultura e di novità nella conoscenza. Un adeguato spazio, come in questo convegno, dovrà essere riservato ai critici e filologi, cultori e testimoni della cultura letteraria, alimento fondamentale per lo sviluppo di una letteratura creativa. Il fatto che nei secoli molti fra i maggiori letterati dalmati siano vissuti prevalentemente lontani dalla propria terra lascia presumere che non potrà mancare in questa auspicata storia un sezione dedicata all’ultima diaspora, che già ha dato narratori come Bettiza, linguisti e filologi come Duro, poeti come Cecconi, tutti autori che si inseriscono in una precisa tradizione e continuità, anche nei contenuti delle loro opere che a volte mi sembrano, tutte insieme, il canto del cigno di un popolo sradicato a forza e disperso, ormai quasi del tutto scomparso, benché per ora sopravviva in pochi esemplari rimasti nell’attuale Croazia e nel Montenegro, ed esule altrove con le proprie istituzioni anche nobili e gloriose qual è la Scuola Dalmata dei Santi Giorgio e Trifone di Venezia, la cui storica biblioteca spero riceva presto gli atti di questi due giorni e fra non molto un copia della prima Storia della letteratura dalmata italiana. Concludo ringraziando chi ha reso possibile con la propria opera e nonostante molte di√coltà la realizzazione di questo convegno, in primis i volontari dell’IRCI che a esso hanno dedicato tempo e fatiche, capeggiati dal Direttore Piero Del Bello, con la collaborazione della segretaria Alessandra.

c omp osto in ca ra ttere serr a gar am ond d al l a fa brizio serra editore , pis a · r om a. sta mpa to e rilegato ne l l a ti pogra fia di a gn a n o, a gn ano pis ano (pis a).

* Febbraio 2016 (cz2/fg13)

Tutte le riviste Online e le pubblicazioni delle nostre case editrici (riviste, collane, varia, ecc.) possono essere ricercate bibliograficamente e richieste (sottoscrizioni di abbonamenti, ordini di volumi, ecc.) presso il sito Internet:

www.libraweb.net Per ricevere, tramite E-mail, periodicamente, la nostra newsletter/alert con l’elenco delle novità e delle opere in preparazione, Vi invitiamo a sottoscriverla presso il nostro sito Internet o a trasmettere i Vostri dati (Nominativo e indirizzo E-mail) all’indirizzo:

[email protected] * Computerized search operations allow bibliographical retrieval of the Publishers’ works (Online journals, journals subscriptions, orders for individual issues, series, books, etc.) through the Internet website:

www.libraweb.net If you wish to receive, by E-mail, our newsletter/alert with periodic information on the list of new and forthcoming publications, you are kindly invited to subscribe it at our web-site or to send your details (Name and E-mail address) to the following address:

[email protected]

B I B L I O T E CA D ELLA «R IV I S T A D I L E TT E RA T U RA I T A LI A NA » col l an a dire t t a da g i org i o baroni

* 1. Angela Ida Villa, Sergio Corazzini. Opere. Poesie e prose, 1999. 2. Pierantonio Frare, Per istraforo di perspettiva. Studi sul Cannocchiale aristotelico e sulla poesia del Seicento, 2001. 3. Andrea Rondini, Cose da pazzi. Cesare Lombroso e la letteratura, 2001. 4. Antonia Mazza, Fortuna critica e successo di Pier Paolo Pasolini, 2002. 5. Maria Gabriella Riccobono, Dai suoni al simbolo. Memoria poetica, relazioni analogiche, fonosimbolismo in Giovanni Verga dalle opere ultra-romantiche a quelle veriste, 2002. 6. Letteratura e riviste, a cura di Giorgio Baroni, 2004. 7. Anna Bellio, Parole del secolo andato. Bigiaretti, Quasimodo e altro Novecento, 2004. 8. Pietro Frassica, Varianti e invarianti dell’evocazione. Saggi sulla narrativa contemporanea, 2004. 9. Bortolo Martinelli, «Forse s’avess’io l’ale». Leopardi e la condizione dell’uomo, 2005. 10. Giulia Dell’Aquila, Studi di onomastica letteraria. Angelico Aprosio, Niccolò Amenta, Giuseppe Parini, Giorgio Bassani, Elsa Morante, 2005. 11. Wanda De Nunzio Schilardi, «La Settimana» di Matilde Serao, 2006. 12. Enrica Mezzetta, Il teatro futurista. In teoria, 2006. 13. Federica Millefiorini, Tra avanguardia e Accademia. La pubblicistica futurista nei primi anni Trenta, 2006. 14. Ada Negri. «Parole e ritmo sgorgan per incanto», Atti del Convegno internazionale di studi, Lodi, 14-15 dicembre 2005, a cura di Giorgio Baroni, 2007. 15. Bortolo Martinelli, Dante. L’«altro viaggio», 2007. 16. Raffaele Cavalluzzi, Il sogno umanistico e la morte (Petrarca, Sannazaro, Tasso, Bruno, Marino), 2007. 17. Andrea Rondini, Lettori. Forme della ricezione ed esperienze di lettura nella narrativa italiana da Foscolo al nuovo millennio, 2008. 18. Alessandro Parronchi, Mario Tutino, Arte nata dall’arte. Carteggio 1956-1966, a cura di Paola Baioni, con una nota introduttiva e note al testo di Alessandro Parronchi, 2009. 19. Donato Pirovano, Dante e il vero amore. Tre letture dantesche, 2009. 20. Il tempo fa crescere tutto ciò che non distrugge. L’opera di Pier Antonio Quarantotti Gambini nei suoi aspetti letterari ed editoriali, Atti delle giornate di studio, Trieste, 15-16 aprile 2010, a cura di Daniela Picamus, 2011. 21. Giani Stuparich tra ritorno e ricordo, Atti del Convegno internazionale, Trieste, 20-21 ottobre 2011, a cura di Giorgio Baroni e Cristina Benussi, 2012. 22. L’esodo giuliano-dalmata nella letteratura, Atti del Convegno internazionale, Trieste, 28 febbraio-1 marzo 2013, a cura di Giorgio Baroni e Cristina Benussi, 2014. 23. Letteratura dalmata italiana, Atti del Convegno internazionale, Trieste, 27-28 febbraio 2015, a cura di Giorgio Baroni e Cristina Benussi, 2016.